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PROGRAMMA

Oggetto del diritto sindacale è l’AGGREGAZIONE e l’AZIONE di più soggetti, attorno ad un


interesse collettivo.
AGGREGAZIONE: premessa è che la libertà sindacale è tutelata come libertà di
“organizzazione” sindacale e non solo come libertà di “associazione sindacale”; la parola
“organizzazione” è più ampia, si ha un’organizzazione anche quando 2 o più soggetti si
coalizzano in modo spontaneo e non stabile (quindi senza dare vita ad una vera e propria
associazione, che si ha quando 2 o più soggetti si coalizzano in modo stabile) tra loro per
svolgere un’attività in comune (nel nostro caso l’attività sindacale, cioè un’attività diretta
alla tutela dell’interesse collettivo dei lavoratori).

AZIONE (2 sono le attività prevalenti del sindacato):


-di contrattazione (collettiva, ossia stipula di contratti con la controparte)
-di autotutela (sciopero)

CHE COS’E’ L’INTERESSE COLLETTIVO? L’interesse collettivo è la sintesi (non la somma)


degli interessi dei lavoratori (questo vuol dire che ciascun lavoratore deve rinunciare a
parte del proprio interesse egoistico per la tutela del gruppo); quindi i lavoratori quando
agiscono non lo fanno “uti singuli” ma “uti universi” (agiscono come gruppo). E’ un
interesse comune ad un gruppo (ad es. il diritto di sciopero, attuato da un solo lavoratore,
ma per una rivendicazione collettiva e non individuale). E’ un interesse indivisibile, che
richiede il sacrificio degli interessi dei singoli.

ATTEGGIAMENTO DELLO STATO NEI CONFRONTI DEL FENOMENO SINDACALE


E’ variato nel tempo; lo Stato ha via via assunto nei confronti del sindacato un
atteggiamento repressivo/autoritativo (vietando addirittura penalmente lo sciopero e la
serrata), ma anche liberale/indifferente (lo Stato ha tollerato il fenomeno sindacale senza
appoggiarlo, sostenerlo; ad esempio lo sciopero era considerato una libertà nei confronti
dello Stato ma non un diritto del lavoratore da esercitare nei confronti del datore di
lavoro). Nel periodo fascista sciopero e serrata erano reati.

Atteggiamento attuale è quello GARANTISTA (Stato tollera ma anche sostiene il fenomeno


sindacale; sempre più il sindacato è anche coinvolto in forme di gestione delle
problematiche che lo stesso Stato affronta. Ad esempio sono molte le situazioni in cui il
Governo collabora con il sindacato per cercare le migliori condizioni per i lavoratori).

PERIODO CORPORATIVO (regime fascista): fu un periodo in cui lo Stato aveva assunto un


atteggiamento autoritativo ed ostile nei confronti del sindacato.
Le norme del nostro vigente codice civile (del 1942) risalgono all’epoca fascista e
disciplinano il contratto collettivo corporativo in modo del tutto diverso rispetto a quello
attuale (detto “contratto collettivo di diritto comune”); bisogna individuare le differenze.
Nel periodo fascista in Italia non c’era libertà sindacale; il fenomeno collettivo era regolato
in modo autoritativo dallo Stato e venivano definite le CATEGORIE.
La CATEGORIA PROFESSIONALE comprendeva tutti quei soggetti che svolgevano la loro
attività nell’ambito di uno stesso settore merceologico (per es. settore metalmeccanico);
per ciascuna categoria ci poteva essere un unico sindacato riconosciuto (il Sindacato
Fascista), esso aveva la rappresentanza legale della categoria (ossia esso stipulava il
contratto collettivo con efficacia verso tutti i lavoratori dipendenti da quel determinato
settore merceologico).

Il CONTRATTO COLLETTIVO CORPORATIVO, quindi, si applicava “erga omnes” (ossia verso


tutti i lavoratori della stessa categoria) ed era inderogabile “in peius” (cioè inderogabile in
senso peggiorativo) da parte dei contratti individuali; inoltre esso aveva natura di legge/di
fonte del diritto oggettivo (art.1, disp.prel. cc; oggi ha natura di contratto).

Il SISTEMA CORPORATIVO (autoritativo) era organizzato in vari organi:


 associazioni sindacali (sindacato aveva personalità giuridica)
 corporazioni
 magistratura del lavoro

CORPORAZIONI: dialogavano tra loro le associazioni sindacali dei datori di lavoro e quelle
dei lavoratori. Potevano emanare le ORDINANZE CORPORATIVE (fonti del diritto oggettivo
sindacale, efficaci “erga omnes” e potevano essere emanate solo in base ad una delega
delle associazioni sindacali interessate).
MAGISTRATURA DEL LAVORO: magistrati che non si limitavano a decidere le controversie
sulla base delle norme di diritto esistenti, ma potevano anche decidere sulle pretese dei
lavoratori e quindi stabilire nuove condizioni di lavoro.
E’ chiaro che in un tale sistema le eventuali controversie riguardanti i lavoratori erano
decise o dalle corporazioni (tramite ordinanze) o dalla magistratura del lavoro (con
sentenze, fonti del diritto oggettivo ed efficaci “erga omnes”).
Erano vietati penalmente lo sciopero e la serrata, considerati delitti contro l’economica
pubblica (i lavoratori non ne avevano bisogno perché delle loro pretese decidevano le
corporazioni e la magistratura del lavoro).

Con la caduta del regime corporativo reagisce il costituente nel 1948; la nostra
Costituzione ribalta la situazione con l’art.39 sulla LIBERTA’ SINDACALE (al comma 1
enuncia il principio di libertà sindacale: “l’organizzazione sindacale è libera”).
La Costituzione non si limita ad affermare la libertà sindacale, ma ai commi 2-3-4 prevede
anche un meccanismo (che però non è mai stato attuato) diretto a garantire l’efficacia
“erga omnes” (a tutti i lavoratori) anche al nuovo contratto collettivo (quello “di diritto
comune”); obiettivo era coniugare pluralismo sindacale (quindi possibilità dell’esistenza di
più sindacati) fino ad arrivare ad un unico sindacato per categoria e, quindi, ad un unico
contratto collettivo efficace verso tutti i lavoratori della categoria----- questo secondo
obiettivo (di arrivare ad un unico contratto collettivo con efficacia “erga omnes”) per ora è
fallito; non sono mai state emanate leggi ordinarie che avrebbero dovuto consentire tale
meccanismo.
Ecco perché oggi il contratto collettivo nazionale di lavoro non è efficace “erga omnes”, ma
solo nei confronti dei lavoratori iscritti al sindacato che ha firmato il contratto collettivo e
per quelli per i quali nel proprio contratto di lavoro è stato fatto rinvio al contratto
collettivo.

La Costituzione si occupa anche dello SCIOPERO all’art.40 (DIRITTO DI SCIOPERO): “diritto


di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.
Sciopero viene riconosciuto come un vero e proprio diritto dei lavoratori; non è né un
reato, né una mera libertà (i lavoratori hanno diritto ad astenersi dal lavoro per la tutela
degli interessi collettivi).

FONTI DEL DIRITTO SINDACALE


 Norme internazionali
o CONVENZIONI dell’OIL (organizzazione internazionale del lavoro;
deputata alla tutela degli interessi dei lavoratori; opera tramite
convenzioni e raccomandazioni): devono essere ratificate dagli Stati
membri, con legge, per avere efficacia; quindi gli Stati aderiscono all’OIL,
l’OIL emana queste convenzioni ma poi queste devono essere ratificate
(molte volte da un certo numero di Stati membri) per avere efficacia.
Ci sono, però, 4 principi fondamentali che secondo l’OIL (dichiarazione del 1998)
vincolano gli Stati membri a prescindere dalla ratifica delle convenzioni; tra
questi principi (che tutti gli Stati devono rispettare) c’è anche quello per cui è
tutelata la libertà di associazione e di contrattazione collettiva (anche dagli Stati
che non hanno ratificato le convenzioni).
o RACCOMANDAZIONI dell’OIL: hanno valore molto blando, possono essere
disattese senza conseguenze giuridiche rilevanti.
o ALTRE FONTI :

 In ambito ONU il Patto internazionale sui diritti economici, sociali,


culturali, 1966

 In ambito europeo la Convenzione per la salvaguardia dei diritti


dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDU, 1950, (diritto di
associazione sindacale)

 Carta sociale europea 1961 (trattato del cons. d’Europa) (art. 5) tutela la
“libertà dei lavoratori e dei datori di lavoro di costituire organizzazioni
locali, nazionali o internazionali per la protezione dei loro interessi
economici e sociali ed aderire a queste organizzazioni”.

 Norme comunitarie
o Del diritto primario (TRATTATI)
o Del diritto secondario (REGOLAMENTI, DIRETTIVE)
In origine l’Europa è nata con finalità mercantilistica e quindi si disinteressava della
protezione dei lavoratori; gli unici aspetti del diritto del lavoro di cui si occupava
erano quelli che avevano una ricaduta sul mercato comune/unico (es. libertà di
circolazione dei lavoratori).
Oggi, invece, si ha un’Europa “sociale” (ci sono anche obiettivi sociali come il
favorire il miglioramento nelle condizioni di vita dei lavoratori).
In certi casi, però, i diritti dei lavoratori possono entrare in conflitto con le libertà
economiche ( ad esempio la libera prestazione di servizi può entrare in conflitto con
lo sciopero; ci sono sentenze in cui l’Europa ha privilegiato le libertà economiche
rispetto al diritto di sciopero).
o CARTA DI NIZZA (riconosce espressamente la libertà di associazione
sindacale e la libertà di contrattazione collettiva)
o UE ha competenza di emanare DIRETTIVE IN MATERIA SINDACALE ;
soprattutto nelle materie di diritti informazione e consultazione dei lavorator.
Ha competenza anche in materia di rappresentanza e difesa sindacale degli
interessi collettivi di lavoratori e datori di lavoro. Non ha, invece, competenza
in materia di sciopero, di serrata e di diritto di associazione.
 Norme nazionali/interne
o COSTITUZIONE: artt. 39-40
o LEGGI ORDINARIE: diritto sindacale è un “diritto senza norme”, ossia è un
diritto di creazione giurisprudenziale (pochissime erano le norme in
materia sindacale); in realtà negli ultimi anni si sono moltiplicate le leggi
anche in materia di diritto sindacale. Es. 146/90; 165/01; art.8 d.l. 138/11
(decreto Sacconi); ecc..
o USI E CONSUETUDINE
o EQUITA’
Tra le FONTI IMPROPRIE del diritto sindacale troviamo:
o GIURISPRUDENZA: giudici che interpretano le leggi (interpretazione costante, diritto
vivente); sentenze sono molto importanti.
o CONTRATTO COLLETTIVO: non è una fonte di diritto e nemmeno una norma di
legge; è solo un atto di autonomia privata, ma ha una portata generale ed astratta
(si applica ad un numero potenzialmente alto di rapporti).

ART.39 Costituzione sulla LIBERTA’ SINDACALE


A CHI SPETTA? Da un lato la libertà sindacale è la libertà del gruppo/del sindacato,
dall’altro è la libertà del singolo lavoratore... sicuramente spetta ai lavoratori subordinati e
ai lavoratori dipendenti pubblici (anche ai dipendenti degli enti pubblici economici); però
non spetta proprio a tutti i lavoratori subordinati, infatti ci sono delle limitazioni per alcune
categorie (come i militari e gli appartenenti alla polizia di Stato). I militari non godono
sostanzialmente di libertà sindacale perché la Corte Costituzionale ha affermato che la
libertà di associazione sindacale non è compatibile con lo svolgimento delle loro funzioni
(devono essere assolutamente neutrali nello svolgimento delle loro funzioni e quindi non
godono di tale libertà); possono però avere organi di rappresentanza del personale. Invece
gli appartenenti alla polizia di Stato godono di libertà sindacale ma con dei limiti, infatti i
sindacati di polizia devono essere autonomi; inoltre i poliziotti non possono scioperare.
La libertà sindacale spetta anche ai lavoratori parasubordinati e ai lavoratori autonomi (es.
sindacati degli avvocati), questi ultimi, però, non godono del diritto di sciopero.
E i datori di lavoro hanno libertà sindacale? Viene definito “sindacalismo di risposta” (ossia
i datori di lavoro si associano non per esigenza ma per reagire all’associazionismo dei
lavoratori); ci sono 2 tesi:
1. I datori di lavoro hanno semplicemente libertà di associazione (garantita
dall’art.18 Cost: “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza
autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale…”) e
non libertà sindacale.

2. Corte Costituzionale sembra riconoscere anche ai datori di lavoro libertà


sindacale (infatti la Corte Costituzionale quando ha riconosciuto ai ddl la libertà
di serrata a fini contrattuali, si è agganciata proprio all’art.39 Cost. Inoltre sempre
la Corte Costituzionale ha ritenuto lesivo della libertà sindacale delle regioni che
la rappresentanza negoziale delle stesse fosse affidata all’ARAN con la sentenza
359/1993).

NEI CONFRONTI DI CHI SI ESERCITA?


Libertà sindacale dei gruppi/sindacati e dei singoli nei confronti di:
 Stato
 Datore di lavoro (la libertà nei rapporti interprivati è tutelata dalla conv. OIL
98/1949).
1. Sindacato nei confronti dello Stato: vuol dire riconoscimento
DELL’AUTONOMIA DEI SINDACATI. I sindacati oggi sono associazioni non
riconosciute (senza personalità giuridica) ed hanno la libertà di darsi delle
regole per la loro vita interna (possono dettare gli statuti sindacali).
I sindacati possono dettare anche le regole della contrattazione collettiva
(possono stipulare sia la parte normativa che la parte obbligatoria dei contratti
collettivi). La parte NORMATIVA regola i rapporti di lavoro tra lavoratori e datori
di lavoro (es. nel settore metalmeccanico i lavoratori hanno diritto a 5 settimane
di ferie all’anno); parte OBBLIGATORIA comprende le clausole che regolano i
rapporti di lavoro tra sindacati dei datori ed associazioni (parti stipulanti). Tutto
questo avviene tramite strumenti di tipo privatistico: contratto collettivo, norme
dell’autonomia privata (infatti oggi il contratto collettivo non è fonte di diritto,
ma è un contratto di diritto comune). Questa libertà sindacale del sindacato nei
confronti dello Stato è riconosciuta anche dalla convenzione dell’OIL 87/48
(ratificata nel 1957).
Vuol dire anche LIBERTA’ DI CONTENUTI (ossia lo Stato non può comprimere nei
contenuti questa libertà sindacale; quindi il sindacato può contrattare su tutte le
materie riguardanti questo tema, ma non c’è una riserva perciò lo Stato può a
sua volta disciplinare queste materie).
Un problema che è sorto è quello riguardante i TETTI ALLA CONTRATTAZIONE:
cioè negli anni 80 (quando c’era la crisi economica ed un’inflazione altissima) lo
Stato, anziché lasciare libera la contrattazione collettiva in modo da garantire
sempre più maggiori tutele ai lavoratori, ha fissato dei limiti in particolare per
contrastare l’inflazione; il problema era che i contratti collettivi agganciavano le
retribuzioni al crescente costo della vita e c’era un’enorme spinta all’inflazione.
Sono state così emanate delle leggi (“leggi emergenza”) con le quali lo Stato ha
sostanzialmente stabilito dei limiti massimi alle retribuzioni; allora il problema
era “è legittima questa scelta dello Stato di introdurre dei tetti alla
contrattazione collettiva o viola la libertà dei sindacati”? In questo caso la Corte
Costituzionale ha considerato legittime tali leggi sui tetti, ma solo perché erano
legate ad una situazione di emergenza e solo perché alla base di esse c’era la
tutela dell’interesse pubblico, che in questo caso era superiore rispetto
all’interesse collettivo dei lavoratori (che ha comunque natura privatistica).

2. Singoli lavoratori nei confronti dello Stato: oggi lo Stato non può
pregiudicare/svantaggiare i lavoratori a seconda della loro scelta di aderire o
meno al sindacato (in molti paesi non è così). La libertà di un lavoratore di
aderire al sindacato è definita “libertà sindacale POSITIVA”, mentre la libertà di
non aderire è detta “libertà sindacale NEGATIVA”.
Si tratta anche di libertà di aderire a un sindacato piuttosto che a un altro; inoltre
libertà di svolgere attività sindacale, di costituire sindacati, di aderire o meno a
un’azione collettiva.

3. Sindacato nei confronti del datore di lavoro:

 E’ libertà di organizzazione sindacale – è tutelata la scelta di ogni tipo di


organizzazione (associativa elettiva, spontanea)

 Pluralismo: libertà del gruppo di organizzarsi, in ogni forma e ambito


(anche aziendale)

 Sindacati per ramo d’industria – ci si organizza in base all’attività svolta


dal datore di lavoro (es. che raccoglie lavoratori che hanno funzioni e
compiti diversi es. fiom, fim, uilm, sindacati dei metalmeccanici).
 Sindacati di “mestiere” – ci si organizza in base all’attività che si svolge
(es. sindacato piloti).
4. Singoli lavoratori nei confronti del datore di lavoro: significa che è vietata la
discriminazione per ragioni sindacali. Si tratta sia di libertà sindacale POSITIVA
(libertà del singolo di svolgere attività sindacale sia all’interno del rapporto di
lavoro, ad es. nei luoghi di lavoro, sia al di fuori, ad es. iscrizione al sindacato)
che di libertà sindacale NEGATIVA (di non svolgere alcuna attività sindacale/di
non aderire ad alcun sindacato)--- tutelate da art.15 Statuto dei lavoratori. Art.
15: “è nullo qualsiasi patto o atto che è diretto a subordinare l’occupazione dei
lavoratori alla condizione che aderiscano o non aderiscano ad un sindacato,
oppure qualsiasi licenziamento o progressione di carriera che sia determinata
dalla scelta di aderire o meno ad un sindacato”. Questo vuol dire che, in Italia,
sono vietate anche le clausole di “closed shop” (che impongono agli
imprenditori di assumere solo i lavoratori iscritti ad un determinato sindacato)
e di “union shop” (impongono la cessazione del rapporto di lavoro nel
momento in cui il lavoratore esce dal sindacato), ammesse invece nei paesi
anglosassoni (perché non è tutelata la libertà sindacale negativa).

L’art. 15 poi continua: “è nullo qualsiasi patto o atto diretto a DISCRIMINARE per
ragioni sindacali”. Serve l’intento del datore di lavoro affinchè l’atto
discriminatorio sia nullo o basta che sia oggettivamente discriminatorio (ossia
basta la rilevanza obiettiva della discriminazione, senza la necessità di provare
l’intenzione del ddl)? Oggi la giurisprudenza ci dice che è sufficiente che l’atto
sia oggettivamente discriminatorio, a prescindere dall’intenzione.
Questa norma riguarda i PATTI e gli ATTI, ma se il mio ddl mi fa firmare un
accordo dove io accetto di non appartenere al sindacato in cambio di un
determinato beneficio… questo ACCORDO sarebbe valido? No.
La norma non si riferisce, invece, ai meri COMPORTAMENTI del ddl, perché
chiaramente non si può parlare di nullità di un comportamento (ad es. mancata
promozione per ragioni sindacali, perché si aderisce ad un sindacato; qui il
comportamento non può essere nullo perché il comportamento non è un
atto/patto e quindi non può essere nullo; ci saranno altri rimedi, ad es. il
sindacato potrà agire con una speciale azione ex art.28 Statuto lavoratori).

Art. 14 Statuto lavoratori: “Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi,


e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei
luoghi di lavoro”. Il limite è che questo non deve interferire con la normale
attività dell’azienda.

Art. 16 Statuto lavoratori: “è vietata la concessione di trattamenti economici di


maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente dell’art. 15…”. Vieta i
cosiddetti “premi antisciopero”, ossia vieta ai datori di lavoro di elargire premi di
carattere discriminatorio ai dipendenti (es. ti premio se non aderisci ad uno
sciopero). Le conseguenze (se il ddl elargisce tali premi) sono che:
 questo patto è nullo
 è corrotta antisindacale (quindi il datore di lavoro, ex art.28 SL, può essere
condannato a cessare il comportamento)

 datore può essere condannato a versare quella stessa somma ad un


fondo pensione per la durata di massimo 1 anno (SANZIONE
ECONOMICA)

Art. 17 Statuto lavoratori: “è fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni dei
datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti,
associazioni sindacali di lavoratori”.
Riguarda i “SINDACATI GIALLI” (sono i cosiddetti sindacati di comodo); a volte,
infatti, i datori di lavoro cercano di addomesticare i sindacati per poi contrattare
con un sindacato che di fatto sta dalla loro parte; questo articolo vieta il
sostegno ai sindacati gialli (il datore di lavoro non può finanziare associazioni
sindacali dei lavoratori).
Bisogna fare una precisazione: quello che è vietato è alterare i normali
meccanismi di lotta sindacale, ma è anche vero che non c’è una parità di
trattamento tra i sindacati (ci sono sindacati più forti e meno forti; per esempio
un datore potrebbe riconoscere delle aspettative non retribuite a certi sindacati
diffusi in tutte le sedi della propria azienda piuttosto che ad altri--- questo non è
vietato perché è semplicemente riconoscimento della forza di un sindacato).
Se il datore di lavoro viola tale articolo, contro di lui possono agire sempre i
sindacati (con azione ex art.28 SL).
Legittimato passivo è il solo datore di lavoro, non eventuali associazioni dei ddl a
meno che non abbiano agito in concorso con il datore di lavoro.
E il sindacato di comodo è sanzionato? No, però un contratto stipulato da esso
non è considerato come vero contratto collettivo (non ha i requisiti per essere
tale).

Art.8 Statuto lavoratori: “E' fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione,
come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini,
anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del
lavoratore, nonche' su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine
professionale del lavoratore”. Vieta anche indagini su opinioni sindacali (ad
esempio durante un colloquio di lavoro non si può chiedere al candidato se è
iscritto o meno al sindacato).

La tutela della libertà sindacale tra privati (nei confronti del datore di lavoro)
discende direttamente dall’art.39 della Costituzione o discende da queste norme
appena viste (artt. 14-15-16-17-18 SL; ART.4 l. 604/66)? Ci sono 2 tesi:

1. l’art.39 proclama la libertà sindacale, questo è sufficiente per dire che


quella libertà vale anche nei confronti dei datori di lavoro; lo Statuto dei
lavoratori ha solo introdotto delle tutele aggiuntive (ad es. l’art.28), ha
solo reso effettiva tale libertà, ma in forza dell’art.39 il lavoratore già
poteva ottenere la tutela contro il ddl che lo discriminava per ragioni
sindacali.

2. Fino a quando fu emanato l’art.4 L.604/1966 (che vieta il licenziamento


per motivi discriminatori) non c’era una sanzione, il lavoratore che veniva
licenziato per ragioni sindacali aveva riconosciuta solo una tutela
previdenziale (tutela dal punto di vista della pensione) ma nessuna tutela
sindacale nei confronti del ddl. Secondo questa visione sono le norme
dello Statuto dei lavoratori che hanno introdotto la tutela della libertà
sindacale verso il datore di lavoro (tutela che quindi non discendeva dal
solo art.39 Costituzione).

04/10
Diversi modelli dell’organizzazione sindacale:
1. MODELLO CORPORATIVO (durante il periodo corporativo): Sindacato
RICONOSCIUTO (era una persona giuridica; aveva addirittura la rappresentanza
legale dei lavoratori della categoria nell’attività di contrattazione collettiva—per
legge rappresentava tutti i lavoratori della categoria nell’attività di contrattazione
collettiva); era però soggetto ad un penetrante controllo dello Stato (era privo di
libertà sindacale).
2. MODELLO COSTITUZIONALE (con Costituzione del 1948): art. 39, commi 2-3-4,
aveva immaginato un diverso tipo sindacato; aveva immaginato un sistema in cui il
pluralismo sindacale fosse garantito. I Sindacati avrebbero, però, dovuto registrarsi
presso degli uffici pubblici (solo così essi avrebbero potuto ottenere la personalità
giuridica). L’unico requisito per ottenere tale registrazione era quello di avere uno
Statuto interno a base democratica (ossia dove le cariche fossero elettive). Ottenuta
la registrazione avrebbero ottenuto la personalità giuridica. Una volta che
diventavano persone giuridiche, i Sindacati avrebbero potuto concorrere alla
stipulazione dell’unico contratto collettivo efficace “erga omnes”. Ciascun Sindacato
avrebbe dovuto contare/pesare in base al numero degli iscritti.
QUESTO MODELLO, PERO’, NON E’ MAI STATO ATTUATO.
Conseguenza di ciò è che OGGI i Sindacati NON HANNO LA PERSONALITA’
GIURIDICA e non possono stipulare il contratto collettivo con efficacia erga omnes.
3. MODELLO VIGENTE: Sindacato è semplicemente un’associazione NON
RICONOSCIUTA (non hanno personalità giuridica e non possono stipulare contratti
collettivi con efficaci erga omnes).
ASSOCIAZIONE NON RICONOSCIUTA significa dire che al Sindacato si applicano le
norme del codice civile che disciplinano le associazioni non riconosciute (artt. 36-
37-38 cc). L’art.36 ci dice che “l’ordinamento interno del sindacato è regolato in
base allo Statuto che il sindacato si è dato” (le regole sono quindi dettate dallo
Statuto); ci dice ancora che “il sindacato, come associazione non riconosciuta, può
stare in giudizio (quindi può subire e fare delle cause), ma sta in giudizio nella
persona del suo Presidente (sempre nominato in base allo statuto)”.
Soprattutto questi articoli ci dicono che il Sindacato non ha autonomia patrimoniale
perfetta (quindi che per le sue obbligazioni risponde il FONDO COMUNE e chi ha
agito in nome e per conto dei sindacati).
ISCRIZIONE AL SINDACATO: con l’associazione al Sindacato il lavoratore si assoggetta alle
regole del suo Statuto, ma può sempre recedere/sciogliersi dal Sindacato (art.37—è
garantito il RECESSO dal sindacato; il recesso dal sindacato è sempre libero. Può essere,
però, limitato se ad esempio nello statuto è previsto un termine).
C’è poi una regola importante secondo la quale se una persona è iscritta ad un sindacato e
quel sindacato stipula un contratto collettivo, questo contratto si applica a questa persona-
- ma se questa persona recede dal sindacato, il contratto collettivo continua ad applicarsi o
cessa di efficacia nei suoi confronti?? Continua ad applicarsi quel contratto collettivo fino
alla sua scadenza (mentre dalla scadenza in poi il vincolo viene meno).
Lo Statuto potrebbe anche prevedere il differimento dell’effetto del recesso di un
individuo, ma al solo fine del pagamento della quota associativa.

Oggi ciascun gruppo/sindacato si sceglie i propri destinatari (cioè il proprio campo/ambito


di applicazione) --- infatti ci sono alcuni sindacati che sono organizzati “per categoria” (ad
esempio sindacati dei metalmeccanici; oggi prevalenti), ed altri che sono organizzati “per
mestiere” (ad esempio il sindacato piloti di volo).
Inoltre (proprio a causa del pluralismo sindacale) in una categoria (per es. metalmeccanici)
ci possono essere più sindacati (e quindi il lavoratore può scegliere se iscriversi o no e a
quale sindacato iscriversi).
Questa è una differenza fondamentale rispetto al periodo corporativo: infatti nel codice
civile del 1942 troviamo una norma del tutto diversa, si tratta dell’ART.2070 (si riferisce al
sindacato ed al contratto collettivo fascista) che ci dice che il sindacato era organizzato
solo per CATEGORIA (in particolare afferma che “l’appartenenza alla categoria
professionale si determina in base in base al tipo di attività esercitata dall’impresa”). Quindi
nel 1942 un lavoratore non era libero se aderire o no al sindacato e non era libero
nemmeno di scegliere a quale sindacato aderire, così come il sindacato non era libero di
scegliere chi rappresentare (i sindacati erano organizzati per categoria e rappresentavano
gli interessi di tutti i lavoratori appartenenti alla categoria). Questo articolo (anche se non
espressamente abrogato), oggi, non vale più perché incompatibile con l’art.39 Costituzione
(sul principio della “libertà sindacale”) --- quindi oggi, a differenza del 1942, sceglie
l’interesse collettivo che intende tutelare.
Oggi i sindacati si organizzano PREVALENTEMENTE “per categoria”, ma ci possono essere
anche sindacati organizzati “per mestiere”.

Se io datore di lavoro ho un’impresa del settore metalmeccanico, sono obbligata ad


applicare ai miei dipendenti il contratto collettivo metalmeccanico oppure no??
Assolutamente no, il datore di lavoro potrebbe anche:
 O scegliere di non far riferimento ad alcun contratto collettivo (salvo che per i
minimi retributivi, che sono sempre determinati in base alla categoria di
appartenenza)
 Oppure potrebbe scegliere anche un contratto collettivo “innaturale” (ossia di un
altro settore merceologico)
Il ddl, quindi, non è vincolato dalla propria categoria merceologica ad applicare un certo
contratto collettivo (fermo però che, a determinati fini previdenziali e retributivi, i minimi
siano determinati in base alla categoria).

I sindacati “per mestiere” (es. piloti) sono più conflittuali rispetto a quelli costituiti per
“ramo di industria” (ad esempio uno sciopero dei piloti che paralizza l’intero trasporto
aereo e lo fa per rivendicazioni tipiche della sola categoria dei piloti), inoltre si occupano
degli interessi di una ristretta parte di lavoratori e lo fanno in potenziale conflitto con
l’interesse di tutti gli altri lavoratori.

COME E’ ORGANIZZATO IL NOSTRO SINDACATO?


 ORGANIZZAZIONE VERTICALE: sindacato di categoria (ad esempio sindacato
metalmeccanici – FIM, FIOM, UILM; sindacato nazionale chimici; sindacato nazionale
tessili).
 ORGANIZZAZIONE ORIZZONTALE: più sindacati che, a livello per esempio regionale,
associano tra di loro sindacati di categorie diverse (ad esempio, in Veneto, abbiamo
la Camera del lavoro dove confluiscono il Sindacato regionale veneto dei tessili,
quello veneto dei chimici, quello veneto dei metalmeccanici). Quindi, ad esempio,
abbiamo una linea orizzontale dove si associano i sindacati regionali (della stessa
regione) delle diverse categorie. Qui gli interessi che vengono tutelati sono radicati
nel territorio (ma trasversali alle diverse categorie).
 CONFEDERAZIONE SINDACALE: è un’associazione di secondo grado (ossia
un’associazione a sua volta costituita da più associazioni). In essa confluiscono sia
l’organizzazione verticale sia l’organizzazione orizzontale.

Ciascuna associazione sindacale ha un proprio Statuto, una propria soggettività ed un


proprio potere di contrattazione. Quindi, ad esempio, ci può essere una CONTRATTAZIONE
COLLETTIVA INTERCONFEDERALE (che è fatta dalle Confederazioni) ed una
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NAZIONALE (che è fatta dalle Federazioni, che pure poi
sono associate alle Confederazioni).
Quindi c’è la Confederazione che contratta (e stipula un contratto collettivo
interconfederale), ma abbiamo anche la Federazione che contratta (e stipula un contratto
collettivo nazionale); il punto è il contratto interconfederale può magari entrare in conflitto
con il contratto collettivo nazionale, perché entrambi sono espressione di autonomia
privata collettiva dell’associazione che li ha formati. Può la Confederazione firmare il
rapporto interconfederale? Si. Può la Federazione firmare il contratto collettivo nazionale?
Si. E in caso di conflitto tra questi 2 contratti, cosa succede? Lo vedremo più avanti nel
corso.
La Federazione nazionale può essere composta al suo interno solo da organi periferici (e
quindi è un’associazione di 1° grado, ma magari a Padova ha una sua articolazione locale);
oppure essa potrebbe scegliere, a sua volta, di affiliare associazioni di base locale (quindi
potrebbe essere a sua volta una associazione di associazioni).. dipende dallo Statuto.

Altra precisazione: gli Statuti spesso dettano delle regole per disciplinare l’AFFILIAZIONE
alle Confederazioni dei sindacati minori (per esempio nazionali o territoriali). Allora spesso
si può avere che le Confederazioni sono associazioni di secondo livello (perché sono il
frutto dell’associazione di altre associazioni), ma si può anche avere semplicemente un
sindacato (associazione di 1° grado) che ha degli organi periferici (ad esempio si può avere
un’articolazione territoriale del sindacato che è semplicemente un organo del sindacato
nazionale). Affronteremo anche questo problema più avanti nel corso.

Molto diverso è il MODELLO ORGANIZZATIVO DEL SINDACATO A LIVELLO AZIENDALE.


All’interno delle aziende ci sono organismi di rappresentanza dei lavoratori che prendono il
nome di RSA (Rappresentanze Sindacali Aziendali) e RSU (Rappresentanze Sindacali
Unitarie). Le RSU sono elettive (sono elette da tutti i lavoratori dell’azienda stessa).
Di solito in Europa si distinguono 2 modelli di rappresentanza dei lavoratori a livello
aziendale:
 CANALE UNICO: prevale in Italia (anche se un po' ibrido perché le RSU sono elettive
e, in realtà, sono espressione sia dei lavoratori dell’azienda sia del sindacato che
presenta le liste sulla base delle quali la RSU è eletta). Significa che, in azienda, ci
sono o le RSA o le RSU (quindi un organismo di rappresentanza che assomma in sé
tutti i compiti—sia le competenze contrattuali, sia le competenze di rappresentanza
e tutela dei lavoratori, spesso anche compiti in materia di sicurezza).
 CANALE DOPPIO: significa che nell’azienda dovrebbero esserci, non uno, ma due
organismi di rappresentanza (un organismo dovrebbe rappresentare i lavoratori
dell’azienda e dovrebbe essere elettivo; un secondo organismo dovrebbe
rappresentare il sindacato esterno e dovrebbe essere associativo). Diffuso ad
esempio in Germania.

E I DATORI DI LAVORO SONO ORGANIZZATI IN SINDACATI OPPURE NO?? Si, anche se


sono associazioni “di risposta”. Abbiamo la Confindustria, la Confcommercio, la
Confesercenti, ecc.. (diverse associazioni di lavoro, anch’esse strutturate come la
Confederazione, ossia un’associazione di associazioni).
La particolarità è che l’imprenditore può aderire solo alla cellula locale, senza che ciò
implichi automaticamente l’adesione all’organizzazione di categoria. Di questo in
particolare parleremo con riguardo al CASO FIAT (che riguarda l’uscita di Fiat da
Confindustria; Fiat che era sostanzialmente uno degli associati più importanti ha scelto di
recedere da Confindustria per sottrarsi all’applicazione del contratto collettivo
metalmeccanici che l’associazione aveva sottoscritto, e che invece Fiat riteneva che non
fosse in linea con le proprie esigenze organizzative). E’ stato un tipico fenomeno di
ASSOCIAZIONISMO SINDACALE (vedremo più approfonditamente tale questione).

DOMANDA: LA RSU POTREBBE ESSERE LEGITTIMATA “ATTIVA” IN UN’AZIONE DI


CONDOTTA ANTISINDACALE (ossia se un ddl si vedesse recapitare un ricorso per condotta
antisindacale, sottoscritto dalla RSU dell’azienda, sarebbe legittimo?)? No, la RSU non è
legittimata, perché non è organismo locale di un sindacato nazionale ma è semplice
struttura interna di un’azienda.
Caso, deciso dal Tribunale di Roma, del 2013 riguardante la FIOM (Federazione Italiana
Operai Metalmeccanici) che aveva agito per lamentare la violazione dell’accordo
interconfederale dei datori di lavoro chimici, che però era stato sottoscritto solo dalle
Confederazioni. In quel caso il giudice ha chiarito che un conto sono le federazioni
nazionali ed un conto sono le confederazioni sindacali, e che gli accordi sottoscritti dalle
Confederazioni (Cgil) non producono effetti automatici in capo alle Federazioni di
categoria (con la conseguenza che per esempio l’accordo non attribuiva posizioni dirette in
capo alla Fiom tutelabili, e che quindi questa non è legittimata a far valere la violazione di
quel accordo)--- lo vedremo meglio più avanti.

Finora abbiamo trattato solo dell’art.39 della Costituzione; l’altra norma centrale del diritto
sindacale è l’art. 40 della Costituzione (sul DIRITTO DI SCIOPERO).
ART. 40 Costituzione: “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo
regolano”.
Lo sciopero è un DIRITTO (noi oggi lo diamo per scontato, ma in passato non era così).
Infatti nel nostro Stato non sempre è stato garantito lo sciopero come DIRITTO, anzi ci
sono stati 3 diversi approcci allo sciopero da parte del nostro ordinamento:
1. Inizialmente lo sciopero era considerato un DELITTO (quindi il lavoratore che
scioperava commetteva reato ed era il codice penale Sardo del 1840 a configurarlo
come tale). Sostanzialmente si riteneva che fosse uno strumento per alterare il
libero mercato (e che quindi dovesse essere represso).
2. Secondo il codice penale Zanardelli del 1889, lo sciopero era una LIBERTA’ ma non
ancora un diritto. Questo significa che lo Stato manteneva un atteggiamento di
NEUTRALITA’ verso lo sciopero (non era considerato un reato ma non era nemmeno
tutelato nel rapporto di lavoro); il lavoratore non aveva il diritto di sospendere la
propria prestazione di lavoro nei confronti del datore di lavoro. Se il lavoratore
sospende la prestazione di lavoro commette un INADEMPIMENTO e può quindi
essere passibile di sanzioni disciplinari.
3. Si arretra e si torna a considerare lo sciopero come un DELITTO (periodo
corporativo del 1926, poi codice penale Rocco del 1930). Lo sciopero e la serrata
erano REATI perché si riteneva che il conflitto dovesse essere composto nell’ambito
degli istituti dell’ordinamento corporativo (c’erano la Magistratura del lavoro e le
Corporazioni che dovevano decidere le controversie, perciò non c’era bisogno dello
sciopero e della serrata).
4. Con la Costituzione del 1948 si fa un passo avanti e lo sciopero è finalmente
considerato un DIRITTO (art. 40 Costituzione). Il lavoratore che sciopera non
commette né un reato né un inadempimento dei propri obblighi contrattuali. Ma il
lavoratore che sciopera ha diritto alla retribuzione o la perde? Il lavoratore che
sciopera perde la retribuzione, per il PRINCIPIO DI CORRISPETTIVITA’ (la
retribuzione è il corrispettivo della prestazione di lavoro; se il lavoratore sciopera
perde il corrispettivo della propria prestazione di lavoro--- non è però passibile di
sanzioni disciplinari).
L’art. 40 va letto anche con collegamento all’art.3, comma 2, della Costituzione (che
riguarda la parità sostanziale/l’uguaglianza sostanziale) perché si dice che lo sciopero è
uno di quegli strumenti che consentono a tutti (in particolare ai lavoratori) la
partecipazione alla vita economica e politica del paese e che consente, quindi, la
parificazione dei lavoratori.
Importante è anche il collegamento con l’art.15 SL (sul divieto di discriminazioni, in
particolare ai danni dei lavoratori che scioperano) e con l’art.28 SL (sulla condotta
antisindacale; il datore che impedisce uno sciopero commette una condotta antisindacale
ed il sindacato potrà reprimerla).

Con l’emanazione dell’art.40 si viene a creare una situazione di conflitto perché non erano
ancora state abrogate le norme del codice penale del 1930 che consideravano lo sciopero
un REATO. Quindi nel 1948 si è avuta una situazione di questo tipo:
 Codice penale che considera lo sciopero un REATO
 Costituzione che considera lo sciopero un DIRITTO
E’ dovuta intervenire la Corte Costituzionale che, con una serie di pronunce, ha sancito
l’incostituzionalità (per violazione dell’art.40) delle norme penali incriminatrici dello
sciopero (non però di tutti i tipi di sciopero—vedremo che ci sono delle distinzioni).
E la SERRATA (cioè la chiusura della fabbrica da parte del datore di lavoro)? E’ tutelata dalla
Costituzione? No, non esiste alcun articolo che metta sullo stesso piano sciopero e serrata.
Non esiste un DIRITTO di serrata del datore di lavoro, che possa essere considerato
speculare al diritto di sciopero dei lavoratori; esiste semmai una LIBERTA’ di serrata (ma
anche qui si dovranno fare delle precisazioni e delle distinzioni). Tutto questo perché sia lo
sciopero che la serrata sono sì strumenti di autotutela, ma solo lo sciopero serve per
tutelare gli interessi collettivi; altri, invece, ritengono che anche la serrata è espressione di
libertà sindacale (però si tratta sempre di LIBERTA’, resta fermo il fatto che NON ESISTE UN
DIRITTO DI SERRATA).

L’art 40 afferma che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo
regolano”; quali sono queste LEGGI CHE REGOLANO LO SCIOPERO?
Nell’intenzione del legislatore si sarebbero dovute emanare varie leggi per regolare lo
sciopero e per dettarne i limiti, ma i progetti legislativi sono falliti, salvo il settore dei
SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI nel quale è stata emanata la LEGGE 146/1990 (poi LEGGE
83/2000).
Per tutti gli altri settori ci si è chiesti: l’art.40 è solo una norma programmatica (per cui
finché non vengono emanate le leggi non si può esercitare il diritto di sciopero) o è una
norma immediatamente precettiva? E’ prevalsa l’idea che sia una norma immediatamente
precettiva, quindi il diritto di sciopero esiste ed è tutelato. Ma quali sono i LIMITI di tale
diritto?
E’ stata la Giurisprudenza che ha via via individuato i limiti all’esercizio del diritto di
sciopero; bisogna distinguere tra:
 LIMITI INTERNI: oggi è una teoria superata, non ci sono più.
 LIMITI ESTERNI: oggi sono gli unici limiti; sono limiti posti a tutela di altri beni
costituzionalmente garantiti ((per esempio il diritto all’integrità/alla vita delle
persone (lo sciopero non può mettere in pericolo la sicurezza e la vita dei
lavoratori); tutela della produttività aziendale)).

Inoltre NON TUTTO E’ SCIOPERO (è inteso come un’astensione concertata dal lavoro, per
la tutela di interessi professionali e collettivi), ma condotte diverse dall’astensione dal
lavoro non sono sciopero (e non sono tutelate come sciopero).

Perdipiù lo sciopero, da un lato, è un diritto potestativo del lavoratore di sospendere la


prestazione di lavoro; da un altro lato si è detto che è un diritto di libertà (ossia è il diritto
del singolo di non subire una condanna penale a causa del suo comportamento); anzi si è
ipotizzata un’area in cui, ancora oggi, ci sono forme di sciopero che non sono DIRITTO ma
costituiscono mera LIBERTA’ nei confronti dello Stato (si parla del cosiddetto SCIOPERO
POLITICO PURO); vedremo inoltre che questi 2 confini/punti di vista non sono sempre
sovrapponibili (per esempio con riferimento allo SCIOPERO POLITICO, per lungo tempo, si
è parlato di sciopero come mera LIBERTA’).

CHI E’ TITOLARE DEL DIRITTO DI SCIOPERO?


Il diritto di sciopero è un diritto “a titolarità individuale” ma “ad esercizio collettivo”
(significa che il singolo lavoratore subordinato è titolare del diritto di sciopero, ma deve
esercitarlo per la tutela di un interesse collettivo).
Non è, però, necessario un atto formale di proclamazione, salvo che nel settore dei servizi
pubblici essenziali (è necessaria la proclamazione dello sciopero con preavviso).

DA CHI PUO’ ESSERE DECISO LO SCIOPERO? Solo da un’associazione sindacale, o da


qualsiasi gruppo spontaneo? Non è necessario che lo sciopero sia deciso da
un’associazione sindacale, è sufficiente anche una COALIZIONE occasionale di lavoratori,
purchè nell’interesse collettivo. E SE SCIOPERA UNA PERSONA SOLA? In astratto è
comunque sciopero (anche se è un caso limite).

TITOLARI DEL DIRITTO DI SCIOPERO sono:


 LAVORATORI SUBORDINATI (pubblici e privati)
 LAVORATORI PARASUBORDINATI
 SERRATA DEI PICCOLI IMPRENDITORI/ESERCENTI SENZA DIPENDENTI: è stata
equiparata ad uno sciopero (dalla Corte Costituzionale). Se invece HA
DIPENDENTI, la protesta non è considerata sciopero (questa sentenza sembra
oggi essere superata dalla legge 146/1990 che non considera la protesta dei
lavoratori autonomi come “sciopero”, ma semplicemente come “forme di
lotta”).
Non ne sono titolari gli STUDENTI, nemmeno i LIBERI PROFESSIONISTI e i LAVORATORI
AUTONOMI (attuano forme di protesta che, però, non sono inquadrate nello sciopero di
cui all’art.40. La legge 146/1990 detta delle regole su queste forme di protesta ma non le
qualifica come “sciopero”).

QUALI SONO I LIMITI ALLO SCIOPERO?


Inizialmente, siccome l’art.40 non li individuava, sono state la dottrina e la giurisprudenza a
cercare di individuarli. Esse si sono “inventate” una serie di LIMITI INTERNI (secondo i quali
lo sciopero per essere LEGITTIMO doveva essere TOTALE, DURATURO; erano considerati
ILLEGITTIMI sia gli scioperi IMPROVVISI sia quelli ARTICOLATI).
Lo sciopero IMPROVVISO è quello senza preavviso; lo sciopero ARTICOLATO comprende
tre tipologie: sciopero PARZIALE, sciopero A SINGHIOZZO e sciopero A SCACCHIERA.
1. Sciopero PARZIALE: quando alcuni dipendenti sciopero ed altri no. Anche questo è
diretto a creare un maggior danno all’azienda.
2. Sciopero A SINGHIOZZO: caratterizzato da brevi intervalli di lavoro e brevi intervalli
di sospensione. Lo scopo è di danneggiare il datore di lavoro in modo più
importante rispetto a quelle che sarebbero le normali conseguenze di uno sciopero.
3. SCIOPERO A SCACCHIERA: quando in un’azienda ci sono dei reparti che lavorano in
filiera e prima sciopera il reparto “a valle” poi quello “a monte”, con la conseguenza
che in entrambi si blocca la produzione.
In origine la giurisprudenza considerava queste tipologie di scioperi “articolati” ed
“improvvisi” ILLEGITTIMI, muovendo dalla teoria del MAGGIOR DANNO o DANNO
INGIUSTO (cioè la giurisprudenza considerava “sciopero” solo quello TOTALE, e riteneva
che quello articolato fosse illegittimo perché arrecava al datore di lavoro un danno alla
produzione maggiore rispetto al pregiudizio sofferto dai singoli lavoratori a causa dello
sciopero (cioè la perdita di quella parte di retribuzione che i lavoratori perdevano era di
gran lunga minore rispetto al maggior danno che il datore subiva per queste modalità di
sciopero).
Nel 1980 è intervenuta la Cassazione (con una sentenza che ha però rivoluzionato tale
atteggiamento) che ha spiegato che non ci si può inventare limiti all’esercizio del diritto di
sciopero che non stanno scritti da nessuna parte. Ossia essa dice che non ci sono limiti
INTERNI al diritto di sciopero, ma SOLO LIMITI ESTERNI (a tutela di altri beni
costituzionalmente garantiti); quindi è irrilevante che lo sciopero “articolato” arrechi un
maggior danno alla produzione, anzi ciò che diventa rilevante è l’eventuale DANNO ALLA
PRODUTTIVITA’ DELL’AZIENDA (cioè alla capacità dell’azienda di sopravvivere/di stare sul
mercato---- tutelata dall’art.41 Costituzione).
Perciò si considera illegittimo lo sciopero “articolato” solo quando arreca danno alla
produttività dell’azienda (per esempio uno sciopero che paralizza del tutto un’azienda
portandola al fallimento perché è poi incapace di sopravvivere), oppure viola i limiti
esterni; altrimenti è legittimo.
Bisogna però precisare che il datore di lavoro può, però, LEGITTIMAMENTE rifiutare
(nell’ambito di uno sciopero “articolato”) le cosiddette PRESTAZIONI INUTILIZZABILI (ad
esempio se i lavoratori offrono al loro datore 10 minuti di prestazione tra uno sciopero e
l’altro, ma questi 10 minuti sono per l’organizzazione inutilizzabili, chiaramente il datore
può rifiutare questa prestazione), nel senso che non deve retribuirle; non cade in mora se
non le retribuisce perché il suo rifiuto è legittimo. Se invece la prestazione è UTILIZZABILE
e il datore la rifiuta, egli cade in una serrata “impropria” (e in ogni caso il rifiuto è
illegittimo).
Ultima precisazione riguarda il fatto che il datore di lavoro, però, non è obbligato ad
apportare modifiche organizzative alla sua azienda per rendere UTILIZZABILE la
prestazione.

05/10
Oltre alle forme anomale di sciopero c’è anche lo SCIOPERO DELLO STRAORDINARIO:
quando i lavoratori rifiutano di svolgere le prestazioni di lavoro straordinarie. Sappiamo
che lo straordinario è obbligatorio quando è previsto come tale dai contratti collettivi; ciò
nonostante la Cassazione ci dice che, pur se i contratti collettivi prevedono prestazioni
straordinarie, ciò nonostante i lavoratori che come forma di protesta scelgono di astenersi
da queste, compiono una pratica legittima.
Quindi è LEGITTIMO lo sciopero dello straordinario, anche in quei casi in cui sarebbe
obbligatorio per contratto collettivo (purchè ovviamente si tratti di uno sciopero a tutela di
un interesse collettivo). Anzi c’è una sentenza del 2014 riguardante uno sciopero di questo
tipo proclamato nel 2007 dai sindacati (secondo il quale ciascun lavoratore poteva
scegliere la forma di astensione dal lavoro che preferiva); la Corte di Cassazione ha detto
che tale forma di sciopero non è legittima (perché si rende possibile a ciascun lavoratore di
rifiutare la prestazione nel proprio interesse individuale, in mancanza di un interesse
collettivo che sia effettivamente tutelato dall’astensione).

Altra distinzione dello sciopero è quella in base allo SCOPO/FINALITA’ (questa


classificazione corrisponde ad altrettante norme del codice penale del 1930. In particolare
il codice penale agli artt. 502-503-504-05-506 incriminava (ossia considerava REATO) tutte
queste forme di sciopero e/o serrata. Con l’emanazione dell’art.40 Cost. si è posto il
problema di verificare se queste norme incriminatrici erano o no in conflitto con la
proclamazione dello sciopero come “diritto”; queste norme del codice penale non sono
mai state abrogate, ma ci sono state una serie di sentenze della Corte Costituzionale che
hanno, per ciascuna di esse, verificato la compatibilità con l’art.40.):
1. SCIOPERO CONTRATTUALE
2. SCIOPERO ECONOMICO POLITICO
3. SCIOPERO POLITICO PURO (o di COAZIONE ALLA PUBBLICA AUTORITA’)
4. SCIOPERO DI SOLIDARIETA’

1. ART.502 cod.penale: riguarda la SERRATA o lo SCIOPERO PER FINI CONTRATTUALI.


Significa che il lavoratore sciopera per rivendicazioni di tipo contrattuale/economico
(per esempio per ottenere un aumento della retribuzione—in questo caso è il datore di
lavoro che ha la disponibilità di soddisfare tale pretesa del lavoratore).
Vuol dire che il lavoratore sciopera per ottenere il soddisfacimento di una pretesa che è
nella disponibilità della controparte contrattuale (nell’esempio sopra è il datore di
lavoro).
La Corte Costituzionale ha detto che si è di fronte ad una sciopero-diritto; il lavoratore
ha il diritto potestativo di sospendere la prestazione lavorativa per il soddisfacimento di
una pretesa la cui disponibilità sta nelle mani della controparte. La Corte Costituzionale,
quindi, con la sentenza n. 29/1960 ha dichiarato illegittimo tale articolo del codice
penale nella parte in cui incrimina lo sciopero e la serrata per fini contrattuali. In realtà,
il caso da cui si era partiti in questa sentenza non era di sciopero ma di serrata (la Corte
Costituzionale ha in primo luogo ritenuto che il reato di serrata ai fini contrattuali fosse
ormai incompatibile con l’art.39 della Costituzione, poi, con una sorta di
“incostituzionalità derivata”, ha sostanzialmente aggiunto che anche l’incriminazione
dello sciopero era illegittima). Questo è un caso di sciopero-diritto, ossia l’astensione è
legittima sia sul piano del rapporto con lo Stato sia sul piano del rapporto con la
controparte (si ha quindi sia la LIBERTA’ di sciopero, sia il DIRITTO di sciopero); il
lavoratore non potrà essere passibile di sanzioni disciplinari (se sciopera perde la
retribuzione ma solo perché questo è dovuto alla natura corrispettiva del contratto di
lavoro).

2. Quando i lavoratori esercitano le proprie pretese non nei confronti dei datori di lavoro,
ma nei confronti della pubblica autorità/del Governo. Un esempio è quando i lavoratori
scioperano contro una legge finanziaria, contro una legge di riforma delle pensioni,
contro una legge di riforma del mercato del lavoro; in questi casi i lavoratori tendono a
cercare di influenzare la pubblica autorità, ma per far valere la tutela di diritti che
riguardano i lavoratori stessi (non tutti i cittadini), cioè di quei diritti che sono tutelati
dal titolo III della Costituzione come DIRITTI ECONOMICI. La Corte Costituzionale
qualifica tale sciopero come ECONOMICO POLITICO, cosa c’è di diverso rispetto allo
sciopero contrattuale? Qui la pretesa non è nelle mani del datore di lavoro, ma nelle
mani della pubblica autorità (ma è pur sempre una pretesa che riguarda i diritti dei
lavoratori).
Secondo la Corte Costituzionale è sempre uno SCIOPERO-DIRITTO (quindi la condotta
non è illecita né sul piano penale né sul piano del rapporto di lavoro; la condotta non
costituisce inadempimento).

3. L’esempio classico è che un lavoratore sciopera per partecipare ad una marcia per la
pace contro la guerra (ad esempio in Iraq); è quindi uno sciopero di protesta, ma per
finalità sostanzialmente estranee alla tutela dei lavoratori.
E’ reato? E’ un diritto? La Corte Costituzionale ci dice che lo sciopero politico puro non
è reato, è lecito (dal punto di vista penale non può essere incriminato, cioè sussiste una
LIBERTA’ di sciopero politico); è uno SCIOPERO-LIBERTA’ (questo è ricavato dal
collegamento con l’art.3 Cost.—l’idea è che tale sciopero consente a tutti i cittadini di
partecipare alla vita democratica del paese).
Ma il datore di lavoro deve limitarsi a subire le conseguenze di tale sciopero? In un
primo momento la Corte Costituzionale ritiene che tale sciopero non sia un DIRITTO del
lavoratore, quindi l’astensione (sul piano del rapporto di lavoro), rappresenti un
inadempimento contrattuale (ossia, in astratto, il lavoratore potrebbe subire
conseguenze disciplinari su tale piano).
La Corte Costituzionale fa comunque due precisazioni, ossia ritiene che 2 condotte
particolari restino in ogni caso REATO (ossia restino incriminate):
 è reato lo sciopero politico puro quando è SOVVERSIVO (cioè quando è diretto a
sovvertire l’ordine costituzionale)
 è reato lo sciopero politico puro quando con esso si vuole cercare di influire
sull’esercizio dei poteri sovrani (ad esempio sull’esercizio del potere legislativo,
sulle riunioni del Parlamento--- quando si vuole impedire al Parlamento di
riunirsi).
Negli ultimi anni, però, la Cassazione sembra aver considerato come DIRITTO anche lo
sciopero politico puro (non più come una semplice “libertà”); il caso concreto riguarda
proprio l’applicazione di tale tipologia di sciopero (in occasione della guerra in Kosovo,
da parte dei lavoratori) nel quale il datore di lavoro non aveva considerato l’astensione
da lavoro come “sciopero” ma bensì come “assenza ingiustificata”—in questo caso la
Cassazione supera l’atteggiamento della Corte Costituzionale (spiegato nel punto
sopra) e, tramite il collegamento all’art.11 della Costituzione (che sostiene l’idea che
l’Italia promuove la pace e gli organismi sostanzialmente diretti a questo fine) ha
legittimato anche lo sciopero POLITICO.

4. Si ha quando un gruppo di lavoratori sciopera a sostegno di un altro gruppo di


lavoratori (quindi non per un interesse collettivo proprio, ma a sostegno di un interesse
collettivo altrui).
Il codice penale considerava REATO tale sciopero; la Corte Costituzionale considera
legittima l’incriminazione (quindi non considera illegittima la norma che incrimina tale
sciopero), ma ci dice che la condotta dei lavoratori, pur sé penalmente rilevante, non è
più penalmente rilevante quando sussiste un legame tra l’interesse del gruppo che
sciopera e l’interesse del gruppo a favore del quale si sciopera (ossia quando c’è una
comunanza di interessi, che va valutata dal giudice)--- sentenza molto criticata perché
mette nel mani del giudice questo potere di valutare la vicinanza dell’interesse
collettivo dei lavoratori all’interesse del gruppo a favore del quale si sciopera.

Un’altra sentenza ha, invece, colpito l’art. 506 del codice penale (che riguarda la serrata
dei piccoli esercenti SENZA DIPENDENTI); qui la Corte Costituzionale ha
sostanzialmente considerato tale tipologia di serrata come sciopero, e ha quindi
considerato ILLEGITTIMO l’art. del codice penale (per contrarietà con l’art.40 della
Costituzione). L’incriminazione di tale tipo di serrata è illegittima in quanto quest’ultima
è stata parifica allo sciopero.
E la serrata dei piccoli esercenti CON DIPENDENTI? La Corte Costituzionale ha detto
che NON E’ SCIOPERO (quindi l’incriminazione è legittima).
Quindi il diritto di sciopero è stato qualificato in vari modi:
 per alcuni è un DIRITTO POTESTATIVO (cioè un diritto di sospendere la prestazione
di lavoro); ma se fosse così ristretto il concetto dello sciopero dovrebbe essere
riferito solo agli scioperi “contrattuali”.
 per altri è un DIRITTO ASSOLUTO DI LIBERTA’ (allora poi si propongono tutte le
distinzioni che abbiamo appena analizzato sopra).

CHE COSA E’ SCIOPERO E CHE COSA NON LO E’??


 SCIOPERO DELLE MANSIONI: si ha quando i lavoratori si astengono solo da alcuni
compiti tra quelli contrattuali (il lavoratore si presenta al lavoro, pretende di essere
pagato, ma si rifiuta di svolgere alcune mansioni); esempio più chiaro è quello dei
vigilantes che, quando fanno il giro di controllo, dovrebbe apporre un bigliettino
per consentire la verifica che sono passati, tale sciopero è attuato quando il
vigilantes passa ma non segna il proprio passaggio (non mette il bigliettino; in
questo modo il suo datore di lavoro non ha modo di dimostrare al cliente che il
servizio è stato reso).
E’ SCIOPERO O NO? Alcune sentenze della Corte Costituzionale ritenevano che
fosse sciopero; ma OGGI l’orientamento più accreditato ritiene che tale forma NON
SIA SCIOPERO perché non è astensione dal lavoro (il lavoratore non può scegliere di
svolgere solo alcune mansioni ed altre no). Oggi è un semplice INDEMPIMENTO
(anche se in realtà difficilmente i datori di lavoro si spingono a sanzionare tale
condotta).

 SCIOPERO DEL RENDIMENTO: diffuso negli Anni Settanta tra i lavoratori pagati “a
cottimo” (in realtà “misto” che prevede una base di retribuzione e poi una quota di
cottimo). In questo caso i lavoratori abbassano il livello del proprio rendimento. La
Cassazione ci dice che:
o finché il rendimento non scende al di sotto di quello normalmente esigibile
da qualsiasi lavoratore in base al criterio di ordinaria diligenza, NON si è di
fronte ad un inadempimento (quindi non c’è alcun problema)
o se il rendimento scende al di sotto del minimo, si dovrebbe dire che è
inadempimento (e dovrebbe essere disciplinarmente rilevante), ma la
Cassazione tende semplicemente ad affermare che il datore di lavoro può
ridurre proporzionalmente la retribuzione del lavoratore che sciopera.
E’ una sentenza un po' ambigua (o c’è inadempimento o non c’è).

 NON COLLABORAZIONE: il lavoratore si astiene da tutte quelle condotte accessorie


che normalmente sono dovute secondo buona fede e correttezza (sappiamo che
nell’adempimento dell’obbligazione di lavoro ci si deve comportare secondo buona
fede e correttezza, quindi il lavoratore può essere tenuto ad adempimenti aggiuntivi
che derivano da tali canoni).
La giurisprudenza dice che se c’è violazione dei canoni di buona fede e correttezza,
allora la mancata collaborazione diventa inadempimento.
 SCIOPERO PIGNOLO: si attua applicando alla lettera i regolamenti; la Giurisprudenza
dice che è ILLEGITTIMO se è abuso di potere discrezionale.

 BLOCCO STRADALE: forma molto diffusa oggi (ad esempio qualche anno fa, ad un
certo punto, nei supermercati non si trovavano più certe merci perché c’era stata
una protesta di alcuni autotrasportatori, e avevano anche posto in essere dei blocchi
stradali in modo che anche gli altri autotrasportatori non potesse effettuare le loro
consegne).
La Cassazione penale ci dice che NON E’ SCIOPERO; sostanzialmente è un reato che
oggi è depenalizzato, ma rimane comunque un comportamento illegittimo.
Oggi tutte queste problematiche sono affrontate dalla legge sullo sciopero nel settore dei
servizi pubblici essenziali (l.146/1990) che regola non soltanto lo sciopero dei lavoratori
subordinati, ma anche le forme di lotta dei lavoratori autonomi (vedremo che in
quell’ambito il Tribunale ci dice che un blocco stradale attuato in modo tale da impedire il
rifornimento di merci essenziali è sicuramente illegittimo per contrasto con tale legge).
 BOICOTTAGGIO: ad esempio se la Nike ha una catena/filiera di lavoro per cui
sfrutta lavoro minorile (come faceva negli Anni Ottanta) e sostanzialmente i
lavoratori pongono in essere un’azione di boicottaggio ai danni dell’azienda
(ossia cercano di indurre i clienti potenziali a non comprare un certo tipo di
prodotto).
C’è l’art.507 del codice penale che incrimina penalmente il boicottaggio (quindi è
REATO), ma la Corte Costituzionale afferma che tale norma non può arrivare ad
incriminare quelle attività di mera propaganda (se semplicemente un soggetto
cerca di convincere senza forza, senza violenza ma con la sola mera attività di
propaganda, altri soggetti a non comprare certa merce, non è sciopero ma non
siamo neanche nell’ambito di una condotta penalmente illecita).
Perciò è lecita l’attività di mera propaganda, non è lecita quella di boicottaggio.

 OCCUPAZIONE DI AZIENDA: i lavoratori invadono fisicamente l’azienda, con il


solo scopo di impedire il lavoro. Ovviamente è REATO, ma la Corte di Cassazione
tende ad escludere che si tratti di “occupazione di azienda” in quei casi in cui i
lavoratori si limitano a restare in azienda senza però impedire il lavoro altrui
(perché questo è un reato che richiede il DOLO SPECIFICO, ossia l’intenzione di
impedire il lavoro altrui). Questo ultimo caso è chiamato SCIOPERO BIANCO
(ossia i lavoratori si limitano a restare in azienda, ma senza impedire il lavoro
altrui), nel quale potrebbe ricorrere un reato meno grave ma solo in presenza di
DOLO SPECIFICO.

 PICCHETTAGGIO: si ha quando alcuni lavoratori si mettono davanti ai cancelli


dell’azienda per impedire l’ingresso a tutti gli altri lavoratori. Si distingue in
VIOLENTO e NON VIOLENTO. E’ lecito se è mera persuasione, ossia se si cerca
solamente di “convincere” gli altri lavoratori a non entrare; se invece è VIOLENTO
allora è REATO ed è considerato illecito penale (ad esempio una volta è stato
attuato con l’utilizzo di un doberman).

DATORE DI LAVORO COME PUO’ REAGIRE AD UNO SCIOPERO?


 può ricorrere a cambio turno dei lavoratori scioperanti
 CRUMIRAGGIO (i crumiri sono i lavoratori che lavorano quando tutti gli altri
scioperano). Può l’impresa ricorrere ai lavoratori crumiri? Si distingue tra:
o ESTERNO: ossia ASSUNZIONI di altri lavoratori per sostituire quelli in
sciopero. Oggi è espressamente vietato assumere lavoratori (per esempio
a termine o somministrati) per sostituire lavoratori in sciopero. E’
ILLEGITTIMO.
o INTERNO: ossia adibire alle mansioni dei lavoratori scioperanti altri
lavoratori dell’azienda; questo è possibile solo se si tratta di mansioni
riconducibili allo stesso livello di quelle normalmente svolte da quel
lavoratore. Se non c’è un illegittimo demansionamento dei lavoratori,
allora è LEGITTIMO.
Secondo l’art.2103 cc, è consentito al datore di lavoro di assegnare
ECCEZIONALMENTE ai lavoratori mansioni anche inferiori, ma la
giurisprudenza tende invece a ritenere illegittima la condotta del datore
che, per sostituire i lavoratori scioperanti, utilizza altri lavoratori
dell’azienda demansionandoli (ritenendo che siccome il
demansionamento è illegittimo, allora è illegittimo anche la sostituzione
in sciopero).
Forse questa giurisprudenza andrebbe rivista alla luce del nuovo art.2103,
che ha ampliato la possibilità del datore di lavoro di adibire i lavoratori
anche a mansioni di un livello inferiore con conservazione della
retribuzione (ma non ci sono sentenze).
 SONDAGGI PREVENTIVI: è possibile per il datore di lavoro verificare
preventivamente chi aderirà allo sciopero e chi no? I lavoratori non sono
obbligati a dichiarare in anticipo la propria intenzione di aderire o non aderire ad
uno sciopero; perciò, non essendo tenuti a farlo, questo strumento è
sostanzialmente depotenziato (nel senso che il datore non ha diritto di
conoscere da parte del lavoratore le sue intenzioni).
Però la giurisprudenza, in un caso in cui il datore aveva semplicemente chiesto
chi aveva intenzione di scioperare e chi no, ha ritenuto che non fosse condotta
antisindacale (a meno che non ci sia un concreto intento discriminatorio—poi
vedremo che non è necessario che ci sia la prova di tale intenzionalità del
datore).
 PREMI ANTI-SCIOPERO: sono assolutamente vietati. Sono premi che hanno lo
scopo di indurre il lavoratore a non aderire ad uno sciopero.

SCIOPERO e MENSILITA’ AGGIUNTIVE: la tredicesima e la quattordicesima sono decurtate


corrispondentemente alle decurtazioni dovute allo sciopero.
SCIOPERO e FERIE: il lavoratore che sciopera non matura le ferie nei giorni di sciopero.
SCIOPERO e MALATTIA: Che cosa succede se il lavoratore è assente perché malato, e nel
frattempo si innesta una situazione di sciopero? La giurisprudenza afferma che quella che
prevale è la prima causa di assenza (non muta il titolo dell’assenza; c’è un CRITERIO DI
PRIORITA’).
SCIOPERO E GIORNATE DI RIPOSO: se c’è un periodo di sciopero che copre non solo
giornate lavorative ma anche giornate di riposo, anche qui vale il CRITERIO DI PRIORITA’ e
quindi anche le giornate di riposo vengono considerate sciopero (e il lavoratore non avrà
diritto alla retribuzione anche per quelle giornate).

QUALI SONO LE FONTI DI TUTELA A LIVELLO INTERNAZIONALE E A LIVELLO


COMUNITARIO DELLO SCIOPERO (è tutelato dall’art.40 della Costituzione ma non solo)?
A LIVELLO INTERNAZIONALE: ci sono 2 Convenzioni dell’OIL (già trattate) che tutelano la
libertà di associazione sindacale.
Una questione che si è posta è: queste Convenzioni tutelano anche lo sciopero oppure no?
Per lungo tempo si è ritenuto di si (nel senso che si riteneva che implicitamente tutelassero
anche il diritto di sciopero), ma dal 2012-2015 il gruppo dei datori di lavoro (che una delle
tre componenti all’interno dell’OIL) ha messo in discussione questa posizione con
dichiarazioni sostanzialmente dirette a far emergere il fatto che queste convenzioni
tutelano la libertà di associazione, ma non tutelano il diritto di sciopero. Questo ha causato
una “paralisi” nel funzionamento dei meccanismi di controllo dell’OIL in materia di libertà
sindacale.

A LIVELLO COMUNITARIO: l’UE non ha competenze specifiche a disciplinare lo sciopero e


la serrata (art. 153 TFUE).
Tuttavia si è posta, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, una questione: le norme
comunitarie sulla libera prestazione di servizi e sulla libertà di stabilimento possono venire
in conflitto con il diritto di sciopero dei lavoratori? E le libertà economiche, garantite
dall’UE, possono costituire dei limiti allo sciopero? Le due sentenze prese in considerazione
in questo caso sono la VIKING e la LAVAL; esse sono relative a casi ormai molto frequenti,
cioè a DISTACCHI TRANSNAZIONALI DI LAVORATORI. Proviamo a spiegare meglio: ad
esempio un’azienda che ha, per esempio, sede in Romania, vince un appalto ed intende
venire in Italia (per l’esecuzione di quel appalto) distaccando i propri dipendenti; quali
sono le condizioni di lavoro applicabili a questi dipendenti? Quelle dei lavoratori italiani o
quelle applicabili nel paese d’origine? Più avanti approfondiremo questo tema; ma per ora
ci occupiamo di queste 2 sentenze (VIKING e LAVAL) nelle quali si afferma che per
pretendere l’applicazione a questi lavoratori di condizioni di lavoro del tutto identiche a
quelle dei lavoratori del paese di destinazione, i sindacati (svedesi) hanno scioperato; in
questo modo in uno dei 2 casi hanno addirittura portato al fallimento la ditta che aveva
distaccato i lavoratori (localizzata in un altro Stato dell’UE). Quindi qui abbiamo un conflitto
tra LIBERTA’ ECONOMICHE (che sono riconosciute in capo all’impresa distaccante) e
DIRITTO DI SCIOPERO (che è riconosciuto in capo ai lavoratori).
La Corte di Giustizia ha sostanzialmente fatto un BILANCIAMENTO tra diritto di sciopero e
libertà economiche, ossia ha ammesso che lo sciopero possa incontrare dei limiti (che sono
ulteriori rispetto quelli esterni che ciascuno Stato riconosce e che derivano da questo
bilanciamento con libertà economiche fondamentali); perciò lo sciopero è legittimo ma
fino al punto in cui non lede in maniera sproporzionata una libertà economica
fondamentale (portare al fallimento una ditta è stato considerato, in questo caso,
eccessivo).
La CRITICA che viene fatta a tali sentenze che vogliono individuare dei limiti allo sciopero
(in base all’art.153) è questa: l’UE non ha competenze per poter disciplinare lo sciopero,
quindi la Corte di Giustizia non dovrebbe poter individuare i limiti all’esercizio del diritto di
sciopero che le legislazioni degli Stati membri non hanno individuato. La risposta a questa
critica è che un conto è la regolazione positiva dello sciopero (e lì l’UE non ha
competenze), ma cosa diversa è la regolazione in negativo (ossia l’individuazione di limiti; il
Giudice europeo potrebbe essere sempre libero di individuare un bilanciamento tra diritto
di sciopero e libertà economiche fondamentali, pur sé la stessa Carta di Nizza riconosce il
diritto di sciopero così come è riconosciuto dagli Stati membri). Questo tema sarà
approfondito nel corso di diritto del lavoro nell’UE.

LEGGE 146/1990 (disciplina lo sciopero nei SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI) —oggi è la più
importante legge regolatrice dello sciopero.
L’OBIETTIVO di tale legge è quello di bilanciare il diritto di sciopero dei lavoratori con altri
beni della persona che sono costituzionalmente garantiti e che potrebbero essere
danneggiati dall’esercizio dello sciopero (es. dei trasporti pubblici – qui il bene
costituzionalmente tutelato è la libertà di circolazione; anche lo sciopero è un diritto
costituzionalmente tutelato, ma se tutti i lavoratori del trasporto pubblico scioperassero
sarebbe completamente impedita la libera circolazione degli utenti).
Essa introduce dei LIMITI allo sciopero nel settore dei SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI (sono
quei servizi che sono funzionali a garantire l’esercizio di determinati beni
costituzionalmente garantiti -- come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà, alla sicurezza,
alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione, alla libertà di
comunicazione).
Questa legge individua un elenco TASSATIVO di beni della persona costituzionalmente
garantiti (quelli sopra citati; che devono essere posti in bilanciamento con il diritto di
sciopero); inoltre contiene anche un elenco ESEMPLIFICATIVO dei servizi diretti a garantire
l’esercizio di questi beni (es. servizio di trasporti su rotaia, esami finali, ecc..).
I servizi pubblici essenziali sono erogati tanto da aziende private quanto da enti pubblici
(quindi questa legge si applica allo sciopero dei servizi pubblici essenziali, a prescindere
che il datore di lavoro sia pubblico o privato).

Questa legge prevede che vengano individuati dei LIMITI all’esercizio del diritto di sciopero
in questo settore (in parte fissati dalla legge, in parte individuati tramite un meccanismo
diverso che vede il coinvolgimento sia dei sindacati sia della Commissione di garanzia).
Questi LIMITI sono:
1. Per l’esercizio dello sciopero in questo settore, le organizzazione che lo
proclamano devono fornire un PREAVVISO (deve essere dato prima dello
sciopero), in primo luogo al DATORE DI LAVORO (ossia all’azienda, pubblica o
privata, che eroga il servizio pubblico essenziale). Il datore di lavoro, a sua volta
tramite i servizi radiofonici e televisivi, deve far sì che la notizia dello sciopero
venga data agli utenti (almeno 5 gg prima della proclamazione).
Le organizzazioni che proclamano lo sciopero devono dare il preavviso anche
all’AUTORITA’ COMPETENTE PER LA PRECETTAZIONE che, a sua volta, informerà
la COMMISSIONE DI GARANZIA.
Non basta dare solo il preavviso, occorre dare anche altre informazioni (ossia
comunicazione delle ragioni, della durata, delle modalità dello sciopero).

11/10
Per contemperare il DIRITTO DI SCIOPERO (costituzionalmente tutelato) con gli altri diritti
alla persona (costituzionalmente tutelati) è stata emanata la legge n.146/1990 diretta ad
introdurre dei LIMITI all’esercizio del diritto di sciopero in questi settori (settore dei
trasporti, del servizio sanitario, dei servizi di pronto soccorso, degli scrutini scolastici, di
rimozione dei rifiuti, di amministrazione della giustizia); sostanzialmente la legge detta 2
elenchi:
 da un lato elenca i BENI della persona che devono essere tutelati. E’ un elenco
TASSATIVO/chiuso. Sono, ad esempio, libertà, salute, istruzione, circolazione,
ecc..
 dall’altro lato elenca una serie di SERVIZI che vengono garantiti e sono funzionali
a garantire i beni sopra citati. E’ un elenco “aperto”. Sono, ad esempio, il
trasporto su rotaia, trasporto tramite aereo, ecc.. Possono essere erogati da enti
pubblici ma anche da aziende private (che operano in convenzione ad esempio
con il servizio pubblico).
In questi settori ci sono:
 LIMITI PROCEDURALI: per poter scioperare in questi settori le organizzazioni che
proclamano lo sciopero devono dare un PREAVVISO (almeno 10gg prima) al datore
di lavoro (ente/azienda privata che eroga il servizio) e all’autorità competente per la
precettazione che, a sua volta, informerà la Commissione di Garanzia.
Inoltre bisogna anche comunicare le MOTIVAZIONI, le MODALITA’ e la DURATA
dello sciopero (non è dunque ammesso uno SCIOPERO “AD OLTRANZA”, ossia
senza un termine finale di durata).
Chiaramente se un lavoratore aderisce ad uno sciopero, in questi settori, che è stato
proclamato senza PREAVVISO, a sua volta compie un illecito (la condotta del singolo
lavoratore sarà passibile di sanzione).

E’ SEMPRE DOVUTO IL PREAVVISO? No, ci sono dei casi “eccezionali” in cui è


legittimo lo sciopero anche senza preavviso; sono 2 casi:
a. lo sciopero che è proclamato A DIFESA DELL’ORDINE COSTITUZIONALE
b. sciopero che è proclamato per reazione CONTRO EVENTI LESIVI
DELL’INCLOLUMITA’ DEI LAVORATORI (per esempio contro la violazione di
determinate condizioni di sicurezza in azienda).
Per tutti gli altri casi di sciopero in questi settori il PREAVVISO è dovuto.
Però, i contratti collettivi prevedono delle PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO
PREVENTIVE allo sciopero (un filtro a monte), ossia prima di scioperare deve essere
verificata la possibilità di raggiungere un accordo senza sciopero cercando di
incontrarsi; i contratti collettivi, in questi settori, DEVONO prevedere queste
procedure (che devono essere esperite prima di proclamare lo sciopero; sono
contenute negli accordi sindacali).
Queste procedure vincolano i sindacati che hanno firmato i contratti collettivi in cui
esse sono previste. In casi di mancato esperimento di queste procedure i sindacati, a
loro volta, subiranno delle sanzioni.
La COMMISSIONE DI GARANZIA valuta l’idoneità di queste procedure e se le ritiene
inidonee può anche prevedere, provvisoriamente, a stabilire essa stessa delle
procedure di raffreddamento alternative.

In alternativa a queste procedure conciliative (previste dal contratto collettivo), i


sindacati possono cercare di trovare un accordo in sede amministrativa (davanti al
Prefetto, al Comune, ecc..).

 LIMITI SOSTANZIALI: in caso di sciopero in questi settori, che cosa deve essere
comunque garantito agli utenti? Devono essere garantite le PRESTAZIONI MINIME
INDISPENSABILI (cioè non si può paralizzare tutto; sono contenute negli accordi
sindacali).
Ad esempio: il pronto soccorso deve funzionare, le sessioni di laurea devono essere
garantite, la libera circolazione deve essere garantita tramite ad esempio il sistema
delle “fasce orarie”.
Ad esempio: se c’è uno sciopero dei treni, chi decide che deve essere garantita una
determinata fascia di percorrenza piuttosto che un’altra? Cioè le PRESTAZIONI
MINIME INDIPENSABILI, da garantire agli utenti in caso di sciopero, come vengono
definite?
Vengono definite, in prima battuta, dai contratti collettivi (ossia dall’accordo tra
sindacati dei lavoratori ed enti/aziende private che erogano il servizio). Questo
accordo, però, potrebbe non essere idoneo a garantire gli utenti (perché se
Trenitalia e i sindacati si mettono d’accordo a garantire una determinata fascia di
percorrenza perché gli conviene piuttosto che la fascia oraria tipica dei pendolari,
questo potrebbe non essere sufficiente).
Allora chi interviene necessariamente? La Commissione di garanzia, che deve
valutare l’idoneità o meno degli accordi a tutelare l’interesse degli utenti.
o Se la Commissione valuta IDONEO l’accordo, questo avrà effetto nei
confronti di TUTTI (lavoratori, aziende/enti, sindacati); la Corte Costituzionale
ci ha spiegato che questo effetto non è in contrasto con l’art.39 Cost. (il
quale, in linea di principio, prevedrebbe una diversa procedura per garantire
l’efficacia “erga omnes” dei contratti collettivi).
o Se la Commissione valuta INIDONEO l’accordo, in prima battuta cerca di far
raggiungere alle parti un accordo idoneo; se, malgrado questo tentativo e
malgrado l’eventuale referendum promosso dai lavoratori sulle clausole, non
si raggiunge un accordo IDONEO.. allora è la Commissione di garanzia stessa
che detta una regolamentazione provvisoria.
Su questa regolamentazione le parti sono chiamate a pronunciarsi entro
15gg, ma in ogni caso se nulla succede le regole, a questo punto, sono
dettate dalla Commissione di garanzia.
FINO A QUANDO RESTA IN VIGORE LA REGOLAMENTAZIONE
PROVVISORIA? Fino a quando le parti non avranno raggiunto un accordo
valutato, dalla Commissione, IDONEO.

Negli accordi/contratti sindacali sono contenuti anche degli INTERVALLI MINIMI tra uno
sciopero e l’altro (ossia tra uno sciopero e l’altro deve decorrere un periodo di tempo nel
quale non si sciopera). Qui parliamo di principio di RAREFAZIONE OGGETTIVA o
SOGGETTIVA.
 RAREFAZIONE OGGETTIVA: vuol dire che l’intervallo deve essere rispettato anche tra
scioperi in settori diversi che, però, incidono sugli stessi utenti.
Ad esempio sciopero dei treni, sciopero degli autobus e sciopero degli aerei sono
sicuramente scioperi che incidono sullo stesso bacino di utenza.
 RAREFAZIONE SOGGETTIVA: guarda al sindacato proclamante; quindi tra più
scioperi proclamati dallo stesso sindacato deve intercorrere un intervallo di tempo.

COSA VUOL DIRE CHE DEVONO ESSERE PREVISTE DELLE “PRESTAZIONI INDISPENSABILI”?
In sostanza devono essere garantite agli utenti determinate “prestazioni minime” che sono
necessarie a garantire i beni costituzionalmente tutelati (che abbiamo visto prima).
In questi settori, però, non si può limitare TROPPO lo sciopero; quindi sono previsti dei
TETTI. Vuol dire che le prestazioni minime garantite in caso di sciopero non possono essere
più del 50% delle prestazioni normalmente erogate; inoltre vuol dire che non può essere
imposta l’astensione a più di 1/3 del personale. Per cui lo sciopero sostanzialmente non
può essere precluso entro questi tetti.

COMMISSIONE DI GARANZIA: è un organismo INDIPENDENTE, che è nominato dai


Presidenti delle Camere (tramite d.p.r.) tra personalità di spicco (professori universitari di
diritto del lavoro e di diritto costituzionale).
Oltre ad avere il compito di valutare idonei o meno gli accordi (che abbiamo visto sopra),
ha numerosi altri compiti:
 ordinare il DIFFERIMENTO dello sciopero (o perché è illegittimo, o perché no sono
state rispettate alcune procedure di raffreddamento, o perché non rispetta il
principio della rarefazione soggettiva/oggettiva)
 delibera le sanzioni (tranne quelle previste in materia di precettazione e, con
riferimento a particolari sanzioni disciplinari prescrive al datore di lavoro di irrorarle)

Ma questa legge (n.146/1990) a chi si applica? Solo ai lavoratori subordinati o anche a


quelli autonomi? In origine non si applicava ai lavoratori autonomi (valeva per essi solo la
PRECETTAZIONE).
Successivamente si è avuto uno SCIOPERO DEGLI AVVOCATI e c’è una sentenza della Corte
Costituzionale che ha ritenuto che fosse incostituzionale (per violazione dell’art.24 della
Costituzione, che tutela il “diritto di difesa”) la mancata previsione di limiti anche
all’astensione collettiva, per fini di protesta, dei lavoratori autonomi o liberi professionisti
(in questo caso degli avvocati).
In questo caso la prima questione da analizzare è questa: possiamo qualificare “sciopero”
la protesta degli avvocati? La Corte Costituzionale spiega che la protesta degli avvocati
NON E’ SCIOPERO, non rientra nella tutela dell’art.40; ma va comunque tutelata perché è
sostanzialmente una forma di protesta in cui estringono delle istanze associative della
categoria.
Quindi va tutelata ma va anche limitata quando interessa questi settori (dei servizi pubblici
essenziali).
La Corte allora ci dice che è necessario che lo “sciopero degli avvocati” (anche se non
propriamente tale), che incide sull’amministrazione della giustizia, venga proclamato con
un preavviso, abbia una certa durata determinata e che, soprattutto, garantisca le
prestazioni minime indispensabili. Queste sollecitazioni della Corte sono state raccolte
dalla LEGGE 83/2000 che modifica la legge 146/1990 e prevede che dei limiti devono
essere rispettati anche per le forme di astensione collettiva di categoria di lavoratori
autonomi, liberi professionisti e piccoli imprenditori.
I LIMITI sono sostanzialmente quelli che abbiamo visto:
 PREAVVISO di 10gg
 obbligo di comunicazione delle MODALITA’, MOTIVAZIONI, DURATA
 garantire in ogni caso le PRESTAZIONI MNIME INDISPENSABILI.
Ma le “prestazioni indispensabili” come vengono determinate in questo caso? Sicuramente
non c’è un contratto collettivo degli avvocati, allora vengono determinate da una fonte
diversi, dai CODICI DI AUTOREGOLAMENTAZIONE DELLA CATEGORIA (devono essere
valutati idonei dalla Commissione di garanzia. Se risultano essere inidonei, la Commissione
provvede ad una “regolamentazione provvisoria” fino a quando non verrà emanato un
codice idoneo).
Anche in questo caso si applica l’istituto della PRECETTAZIONE e sono anche previste delle
SANZIONI nel caso in cui gli scioperi siano illegittimi.
In sostanza l’AVVOCATO PUO’ SCIOPERARE? In concreto l’avvocato NON sciopera (non
esercita il diritto di sciopero), ma esercita una forma di protesta che è tutelata e limitata
(nel senso che deve rispettare i limiti citati sopra).

La norma di chiusura del sistema è quella che prevede la PRECETTAZIONE (ossia l’ordine di
astenersi dallo sciopero, che può essere emanato quando dallo sciopero deriva un pericolo
grave ed eminente a beni della persona costituzionalmente tutelati; se c’è questo requisito
viene emanata l’ORDINANZA DI PRECETTAZIONE).
Esempio tipico: anno 2000 quando ci fu il Giubileo e a Roma arrivarono veramente un
numero enorme di persone. Sarebbe stato sufficiente garantire solo le “prestazioni minime
indispensabili” (ossia quelle normalmente garantite in caso di sciopero, per esempio, dei
treni o dei rifiuti)? No, il semplice rispetto/la semplice erogazione delle prestazioni
indispensabili non era sufficiente (poteva essere il grave ed eminente pericolo dei beni
della persona costituzionalmente tutelati); ecco che si giustifica l’ORDINANZA DI
PRECETTAZIONE (ossia l’ordine di NON SCIOPERARE) che viene emanata dall’AUTORITA’
COMPETENTE.
L’AUTORITA’ COMPETENTE è diversa a seconda della portata dello sciopero (ossia se lo
sciopero è “nazionale” o “locale”):
 se lo sciopero è NAZIONALE, l’autorità competente è il Presidente del Consiglio dei
Ministri o il Presidente delegato (normalmente noi sentiamo parlare del Ministro dei
trasporti)
 se lo sciopero è LOCALE, l’autorità competente è il Prefetto.
Per arrivare alla PRECETTAZIONE è previsto un PROCEDIMENTO:
 deve esserci l’INIZIATIVA che, di regola, parte dalla Commissione di garanzia che
segnala (all’autorità competente) il pericolo. Può anche partire direttamente solo
dall’autorità competente, che però in quel caso deve avvisare la Commissione di
garanzia.
 Prima di arrivare a “precettare” i lavoratori, bisogna cercare di invitare essi e i
sindacati a desistere dallo sciopero ed è anche necessario che si tenti la
conciliazione.
 Se tutte le fasi precedenti FALLISCONO, allora si arriva alla PRECETTAZIONE. Essa
deve essere MOTIVATA ed è un provvedimento IMPUGNABILE (davanti al giudice
amministrativo).
CONTENUTO DELLA PRECETTAZIONE: l’ordine è quello di ASTENERI dallo sciopero; ma
magari potrebbe anche semplicemente essere solo quello di DIFFERIRE dallo sciopero, o
magari quello di RISPETTARE il periodo di intervallo tra uno sciopero e l’altro, o quello di
individuare quote di lavoratori aggiuntive per evitare che lo sciopero arrechi quel danno
grave ed eminente.

SANZIONI: i possibili destinatari delle sanzioni sono i SINDACATI, ma anche i LAVORATORI,


i DATORI DI LAVORO, le ASSOCIAZIONI SINDACALI o DEI LAVORATORI AUTONOMI.
La legge 146/1990 prevede delle sanzioni che si aggiungono alle normali conseguenze
sanzionatorie che derivano dal diritto comune. Ad esempio: sciopero nel pronto soccorso
ed illegittimamente non viene garantito alcun servizio, il paziente arriva al pronto soccorso
e muore. Qui evidentemente ci sono delle responsabilità che prescindono dalla l.146/1990
(responsabilità per omicidio colposo, per lesioni, ecc..) a carico del datore del lavoro (per
non aver garantito il servizio) ed eventualmente anche a carico dei singoli lavoratori (che
rispondono, a loro volta, della carente attività). Chiaramente il datore di lavoro risponde
anche per i propri dipendenti (secondo le norme del codice civile).
Ci sono poi delle conseguenze sanzionatorie previste espressamente dalla l.146/1990:
 A CARICO DEI LAVORATORI (subiscono sanzioni disciplinari); si distingue tra 2 casi:
o Il lavoratore partecipa ad uno sciopero ILLEGITTIMO (per esempio perché
non è stato dato il “preavviso”).
La Commissione di garanzia conosce l’illegittimità dello sciopero e quindi
può prescrivere al datore di lavoro di applicare le sanzioni.
o Lo sciopero è perfettamente legittimo, ma è la condotta del singolo
lavoratore che è ILLEGITTIMA (ad esempio lo sciopero è proclamato nel
rispetto del preavviso, di tutte le altre comunicazioni e delle prestazioni
minimi indispensabili, ma quel lavoratore che dovrebbe garantite il servizio
essenziale sciopera).
La Commissione di garanzia non sa nulla (non può sapere che il lavoratore ha
scioperato illegittimamente), quindi non è lei che prescrive al datore di lavoro
di applicare le sanzioni; è semplicemente il datore di lavoro che sanziona il
dipendente.
Quindi cambia il RUOLO della Commissione di garanzia. Si tratta di sanzioni
DISCIPLINARI ma con le quali non si può MAI arrivare al licenziamento; così come le
sanzioni disciplinari “non possono incidere/modificare stabilmente sul contenuto del
rapporto”.
Per il resto, valgono tutte le regole previste dall’art.2106 del codice civile e dall’art. 7
SL (quindi la proporzionalità, il necessario contraddittorio, ecc..).
C’è un’ulteriore differenza: in questo caso l’esercizio da parte del datore di lavoro
del POTERE DISCIPLINARE è OBBLIGATORIO (ddl è obbligato a sanzionare); tanto è
che il datore di lavoro che non sanzione, viene a sua volta sanzionato.

Sappiamo anche che le sanzioni disciplinari possono consistere anche in una


MULTA, in una TRATTTENUTA DALLA RETRIBUZIONE. Chiaramente questa somma
non va in tasca al datore di lavoro, ma va devoluta all’INPS.

 A CARICO DEI SINDACATI: abbiamo 2 tipi di sanzioni:


o SANZIONI CIVILI:
 c’è l’ESCLUSIONE DALLE TRATTATIVE CONTRATTUALI (per il rinnovo
dei contratti) per un certo periodo
 la PERDITA DEI PERMESSI DEI SINDACALISTI
 la PERDITA DEI CONTRIBUTI ASSOCIATIVI
Sono deliberate dalla Commissione di garanzia, ma applicate dal datore di
lavoro.
Il difetto di questa disciplina è che non riusciva a colpire i sindacati “piccoli” (che
non godevano di permessi, che non erano ammessi alle trattative, che non
avevano molti contributi). Allora si è aggiunta una seconda sanzione
amministrativa pecuniaria, sostitutiva rispetto alle precedenti a carico dei
sindacati definiti “piccoli”.
o SANZIONE AMMINISTRATIVA PECUNIARIA: prevista solo per i sindacati
PICCOLI; va da una somma minima ad una somma massima.
Comportamenti sanzionabili potrebbero essere: non aver dato il preavviso di
sciopero; non aver esperito le procedure di raffreddamento, non aver garantito le
prestazioni minime indispensabili; ecc..

 A CARICO DEI DATORI DI LAVORO: i comportamenti sanzionabili sono per esempio


quello di non aver esperito le procedure di raffreddamento, non aver dato
comunicazione a tutti gli utenti, non aver sanzionato.
Ad essi si applicano SANZIONI AMMINISTRATIVE PECUNIARIE, deliberate dalla
Commissione di garanzia e che vengono applicate poi con ordinanza della
DIREZIONE DEL LAVORO.

 A CARICO DELLE ASSOCIAZIONI SINDACALI DI CATEGORIA E DI LAVORO


AUTONOMO: c’è un parallelismo con le sanzioni applicate ai datori di lavoro. In caso
di comportamenti sanzionabili si vedranno applicate le medesime SANZIONI
AMMINISTRATIVE PECUNIARIE.
Se tutti questi soggetti evitano di ottemperare quanto previsto dall’ordinanza
sanzionatoria, incorrono in una SANZIONE AMMINISTRATIVA PECUNIARIA (si cerca di
renderla efficace in quanto è una sanzione che cresce di giorno in giorno, è una sanzione
crescente).
Addirittura i responsabili delle aziende e degli enti che erogano il servizio possono
incorrere nella SOSPENSIONE per un anno (nel caso di violazione di quanto prescritto
dall’ordinanza di precettazione).

In sintesi possiamo dire che si discute molto su quale sia l’assetto migliore da dare ad una
legge in questo ambito: uno dei limiti che spesso si riscontra è che i lavoratori non sono
tenuti a dichiarare la loro partecipazione agli scioperi e questo evidentemente può essere
un punto di debolezza; d’altro canto si sostiene che questo è uno dei profili in cui si
esprime maggiormente il diritto di sciopero (quello di non dover appunto dichiarare
preventivamente se si aderirà ad uno sciopero o meno).

Altro punto su cui si discute molto è quello relativo ai SINDACATI MINORI, perché in molti
casi lo sciopero nel settore dei servizi pubblici essenziali può essere molto efficace anche
se proclamato da associazioni sindacali minori (lo stesso Presidente della Commissione di
garanzia si è espresso nel senso di ritenere auspicabile una legge di riforma che limiti il
ruolo dei sindacati minori; per esempio stabilendo una soglia di rappresentatività minima
che questi sindacati dovrebbero avere per proclamare lo sciopero). Dall’altra parte,
ovviamente, si è risposto che una legge di questo tipo sarebbe sicuramente limitativa del
diritto di sciopero (perciò di questo si sta ancora sicuramente discutendo).

Un argomento di cui, invece, non si discute molto è quello della SERRATA: qui abbiamo già
detto che non esiste un parallelismo di tutele, nella nostra Costituzione, che la tuteli (come
invece c’è l’art.40 che tutela il diritto di sciopero); in Italia non è previsto a carico dei datori
di lavoro il DIRITTO DI SERRATA.
Il datore di lavoro che, senza un motivo legittimo, sospende/chiude l’attività resta
responsabile del pagamento delle retribuzioni ai suoi dipendenti; oggi la giurisprudenza
ritiene che questo si giustifichi in base ai principi del codice civile sulla “mora del creditore”
(il datore di lavoro che, illegittimamente, rifiuta di fare quanto necessario affinché il
debitore possa adempiere, cade in mora; quindi resta responsabile del pagamento delle
retribuzioni ed eventualmente anche del risarcimento dei danni nei confronti del
lavoratore).
Semmai, sul piano penale, c’è una “libertà di serrata” ai fini contrattuali (art. 502 codice
penale. Vi fu una sentenza della Corte Costituzionale che era proprio partita da un caso di
serrata per affermare come il divieto penale di serrata fosse comunque il conflitto non con
l’art.40 ma con l’art.39 della Cost.); quindi è caduto il divieto penale di serrata contrattuale
e vi è una mera LIBERTA’ di serrata contrattuale (ma non è un diritto). Lo stesso vale per la
SERRATA dei piccoli imprenditori SENZA DIPENDENTI (si fa lo stesso discorso; viene
parificata allo sciopero).
La Corte Costituzionale, invece, continua a valutare diversamente la SERRATA dei piccoli
imprenditori CON DIPENDENTI, la quale non viene parificata allo sciopero.

La Corte Costituzionale, invece, non ha MAI ancora dichiarato NULLA/ILLEGITTIMA


l’incriminazione penale della SERRATA PER FINI DIVERSI DA QUELLI CONTRATTUALI (quindi
attualmente vige ancora il divieto penale in questo caso).

SERRATA IMPROPRIA: può o no il datore di lavoro rifiutare quelle prestazioni che gli sono
offerte tra un intervallo e l’altro dai lavoratori scioperanti (sciopero “a singhiozzo”)? O che
gli sono offerte dai non scioperanti (in uno sciopero “a scacchiera”), e che per lui sono
inutili? Si, può rifiutarle. In questo caso si parla di serrata IMPROPRIA ed è perfettamente
legittimo il rifiuto, da parte del datore di lavoro, delle prestazioni NON UTILMENTE
utilizzabili.
Così come è legittima la scelta del datore di lavoro di chiudere l’azienda in caso di pericolo
agli impianti (danno alla produttività come limite esterno al diritto di sciopero).
Mentre, invece, se il datore di lavoro rifiuta le prestazioni UTILI commette sicuramente
condotta antisindacale (ex art.28 SL).

Ultimissima precisazione sullo sciopero riguarda le CLAUSOLE DI TREGUA SINDACALE. Può


o no il sindacato disporre dello sciopero dei dipendenti dei lavoratori? Può escludere che,
in certi contesti, i lavoratori possano scioperare oppure no? Si deve distinguere tra:
 DOVERE IMPLICITO DI PACE SINDACALE: una volta che il contratto collettivo abbia
disciplinato certe materie, c’è un dovere implicito di pace sindacale (cioè i lavoratori
devono astenersi dallo scioperare per rimettere in discussione quanto appena
concordato nel contratto collettivo a quel livello oppure no? E’ una questione molto
discussa; ma l’opinione prevalente dubita che si possa parlare di “dovere implicito di
pace sindacale. Il contratto collettivo regola il conflitto in quel momento e si può
sempre scioperare per ottenere migliori condizioni.
 CLAUSOLE ESPLICITE DI TREGUA SINDACALE (che possono eventualmente essere
inserite nei contratti collettivi). Espressamente prevedono che NON si possa
scioperare per mettere in discussione determinate materie.
Prima questione: queste clausole appartengono alla parte obbligatoria o alla parte
normativa del contratto collettivo?
PARTE NORMATIVA= clausole che disciplinano i rapporti di lavoro degli iscritti.
PARTE OBBLIGATORIA= clausole che vincolano solo le parti stipulanti (quindi
associazioni sindacali ed associazioni datoriali).
Si parla di “quaestio voluntatis”, bisogna leggere la clausola (dipende
dall’interpretazione della clausola); di regola hanno valore normativa, ma
potrebbero anche avere semplicemente valore obbligatorio.
La DIFFERENZA sta nelle SANZIONI:
o Se la clausola ha contenuto NORMATIVO, i singoli lavoratori che scioperano
(e quindi violano la clausola) commettono un inadempimento e potrebbero
essere passibili anche di sanzioni disciplinari.
o Se la clausola ha contenuto OBBLIGATORIO, allora vincola solo i sindacati e le
uniche sanzioni disciplinari possono essere in capo ai sindacati stessi (ad
esempio risarcimento del danno nei confronti della controparte verso cui la
clausola è violata).
E’ chiaro che se le parti vogliono rimettere in discussione il contenuto di un
contratto collettivo, possono scioperare.

TEMA DELLE RAPPRESENTANZE SINDACALI IN AZIENDA


Finora abbiamo parlato solo di SINDACATO ESTERNO (abbiamo cercato di chiarire come è
organizzato, come opera, ecc..) ed abbiamo solo accennato al fatto che IN AZIENDA
esistono delle strutture di rappresentanza dei lavoratori che vanno sotto il nome di RSA e
RSU.
COME NASCONO LE RSA E RSU? Le RSA (Rappresentanze Sindacali Aziendali) trovano la
loro disciplina nella legge (art.19 SL; sono stata disciplinate per la prima volta nel 1970
nello Statuto dei lavoratori); mentre le RSU (Rappresentanza Sindacali Unitarie) no, esse
sono di fonte contrattuale (sono state disciplinate per la prima volta dall’ACCORDO
GIUNGI del 1993 ed OGGI sono disciplinate dal cosiddetto T.U. sulla rappresentanza del
Gennaio 2014).

RSA
Perché nascono nel 1970? Nascono dopo il cosiddetto “autunno caldo” del 1968 (anni di
protesta operaia, protesta studentesca ed assoluta eversione di tensioni sociali anche
all’interno delle fabbriche); di queste tensioni si stavano facendo portavoce, non più solo i
sindacati confederali/tradizionali, ma anche delle forme di associazione spontanea dei
lavoratori.
Il legislatore del 1970 vuole incanalare questa protesta e sostanzialmente restituire un
ruolo importante, nelle fabbriche, ai sindacati storici/confederali (che erano comunque
ritenuti più affidabili perché in grado di mediare tra interessi più ampi); quindi l’ART.19 SL
nasce con l’obiettivo di garantire, in qualche modo, il controllo dei sindacati storici (CGIL,
CISL, UIL) su questi movimenti di protesta.

Quindi c’è uno scambio tra una POLITICA DI PRIVILEGIO dei sindacati storici e una
PROMESSA DI STABILITA’ all’interno dell’azienda; con un crescendo di poteri (nel senso
quanto più forte è un sindacato, tanti più sono i poteri che gli vengono riconosciuti).
Strumenti per attuare questa “politica di privilegio” sono da un lato la previsione di
ORGANISMI DI RAPPRESENTANZA SINDACALE (all’interno delle fabbriche, a favore dei
sindacati confederali); dall’altro la previsione anche di IMPORTANTI RUOLI CONCERTATIVI
del sindacato (per esempio nelle politiche di governo).

Ora ci concentriamo sulle RAPPRESENTANZE SINDACALI IN AZIENDA. Diciamo che l’ART.19


SL è nato all’indomani del 1968 per rafforzare i sindacati confederali e riconosce
determinate prerogative privilegiate alle RSA che fanno capo ai sindacati storici.
Queste prerogative privilegiate (di una RSA in azienda) sono, ad esempio: la possibilità di
indire l’assemblea; di promuovere i referendum; i suoi dirigenti hanno diritto a permessi
sindacali, ad affiggere comunicazioni, ad avere un locale a disposizione; ecc..
La RSA è prevista solo in aziende di medio-grandi dimensioni (titolo III dell’art.19), ossia
che hanno più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva (se l’azienda è agricola “più di
5 dipendenti”).

L’art.19 ha subito 3 modifiche importanti:


 Nasce nel 1970 con un determinato testo
 Viene modificato nel 1995 (in seguito a referendum abrogativo)
 Viene nuovamente inciso nel 2013 da una sentenza della Corte Costituzionale (per
effetto del CASO FIAT-FIOM) che ha dichiarato la “parziale incostituzionalità” di tale
articolo.

Originariamente (versione del 1970) erano previsti 2 requisiti per la costituzione di RSA:
1. l’iniziativa dei lavoratori (che lavorano nella fabbrica)
2. il collegamento con un sindacato che abbia certe caratteristiche
Inoltre, sempre nella versione originale, l’art.19 prevedeva una lettera “a” ed una lettera
“b”:
 LETTERA “a”: “potevano essere costituite RSA nell’ambito dei sindacati aderenti alle
Confederazioni “maggiormente rappresentative” sul piano NAZIONALE” (ossia
nell’ambito dei sindacati aderenti a CGIL, CISL e UIL); era la cosiddetta
RAPPRESENTATIVITA’ PRESUNTA (cioè si presumeva che i sindacati storici fossero
quelli più in grado di garantire la rappresentanza dei lavoratori).
 LETTERA “b”: introduceva un altro requisito per la costituzione di RSA, il requisito
della RAPPRESENTANZA TECNICA (cioè “potevano essere costituite RSA nell’ambito
dei sindacati FIRMATARI del contratto collettivo NAZIONALE o TERRITORIALE
applicato in azienda”).

12/10
STRUTTURE DI RAPPRESENTANZA DEI LAVORATORI NELL’AZIENDA (PER IL SETTORE
PRIVATO)
Bisogna distinguere tra RSA ed RSU. Le RSA hanno fonte legale (ossia trovano disciplina
nella legge, in particolare l’ART.19 SL); mentre la RSU è una struttura che non è prevista né
dalla legge né dallo Statuto dei lavoratori, è stata istituita solo in base agli accordi
interconfederali (ossia accordi tra sindacati).

RSA: sono sorte all’indomani del 1968 (epoca in cui c’erano molte lotte operaie e molto
dissenso) e l’idea del legislatore era quella di affidare ai sindacati storici il compito di
gestire tali proteste (quindi dare un ruolo di primo piano ai sindacati confederali, che era
quelli più in grado di incanalare questo dissenso).
E’ stato emanato l’art.19 SL e quindi è stata individuata un’area di privilegio a favore di
certi sindacati (infatti questo articolo non riguarda tutti i sindacati, ma solo quelli
“privilegiati”, a questi vengono riconosciuti dei poteri che gli altri sindacati non hanno).

TUTTE LE AZIENDE SONO OBBLIGATE AD APPLICARE L’ART.19 (e quindi a riconoscere le


RSA)?
No, non in tutte le aziende si ha la costituzione delle RSA, ma solo in quelle di determinate
dimensioni (occorre che l’unità produttiva abbia più di 15 dipendenti). In particolare se
l’azienda è COMMERCIALE, 15 dipendenti; se è AGRICOLA, 5 dipendenti.
Si contano i lavoratori a termine, quelli a part time (in proporzione all’orario); non si
contano i lavoratori “trasparenti” (ossia quelli somministrati che non sono concretamente
alle dipendenze dell’azienda; gli apprendisti che si contano solo ai fini di sicurezza; e quelli
che non sono subordinati, quindi parasubordinati, autonomi e liberi professionisti).
Per UNITA’ PRODUTTIVA si intende un ufficio/un reparto/una filiale autonoma, quindi con
un’autonomia rispetto al resto dell’azienda (autonomia produttiva ma anche organizzativa,
cioè deve essere sostanzialmente una “piccola azienda” in grado di portare a termine
almeno un segmento della produzione, e in più deve essere organizzata autonomamente).
Es. magazzino dove lavorano 3 dipendenti – NON è unità produttiva.
CRITERI DI COMPUTO: quando diciamo che l’azienda deve avere 15 dipendenti, quando si
intende? Una settimana, un mese prima? Oggi il d.lgs. 81/2015 stabilisce la regola per cui,
sostanzialmente, si tiene conto dell’occupazione normale dei 2 anni precedenti. Se questo
computo supera i 15 dipendenti si applica l’art.19 SL (altrimenti assolutamente no).
ART. 19 ha avuto 3 versioni:
1. Originariamente prevedeva le lettere “a” e “b”.
LETTERA “a”: prevedeva che potessero essere costituire RSA “ad iniziativa dei
lavoratori, nell’ambito solo di alcuni sindacati”; si tratta o dei SINDACATI
CONFEDERALI o dei SINDACATI FIRMATARI del contratto collettivo applicato
nell’unità produttiva, purché di livello NAZIONALE o TERRITORIALE). In
particolare utilizzava l’espressione “da parte dei sindacati aderenti alle
Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” (quindi
bastava che un sindacato aderisse a Cgil, Cisl, Uil e poteva avere una sua
rappresentanza in azienda).
Questo articolo, lettera “a”, dà per scontata la definizione di “sindacato
maggiormente rappresentativo”, ma non definisce il concetto di MAGGIORE
RAPPRESENTATIVITA’ (dobbiamo allora fare un passo indietro, ed analizzare il
concetto di RAPPRESENTANZA e quello di RAPPRESENTATIVITA’).
RAPPRESENTANZA= è un vero e proprio rapporto giuridico (per cui un soggetto
agisce “in nome e per conto” del soggetto rappresentato; questo vale secondo le
norme civilistiche).
Durante il periodo corporativo abbiamo detto che i sindacati avevano la
RAPPRESENTANZA LEGALE di tutti i lavoratori della categoria; inoltre abbiamo
anche detto che con la caduta del Fascismo e la mancata attuazione dell’art.19, è
venuta meno questa rappresentanza dei lavoratori della categoria; OGGI il
sindacato rappresenta gli ISCRITTI.
COSA SUCCEDE CON L’ISCRIZIONE AL SINDACATO? Di solito si dice che “con
l’iscrizione al sindacato, il soggetto accetta di essere rappresentato da quel
sindacato” (ossia gli conferisce la rappresentanza volontaria, cioè il potere di
agire “in nome e per conto” del soggetto iscritto); oggi questa è la TEORIA
DOMINANTE.
In realtà c’è un’altra teoria per la quale il potere dei sindacati non deriva dalla
rappresentanza che gli conferiscono i singoli, ma è un potere originario
(espressione di autonomia collettiva). Questo significa che il potere del sindacato
di “contrattare” con la controparte non è un potere che il singolo lavoratore gli
può conferire (perché il singolo non ce l’ha) ma è un potere originario (che gli
viene attribuito dall’ordinamento).
Le sentenze accolgono la PRIMA TEORIA (cioè il contratto collettivo è efficace
nei confronti di chi si è iscritto al sindacato e con l’iscrizione ha attribuito al
sindacato il potere di agire “in nome e per conto” del sindacato stesso).
Ma il sindacato (quando contratta/tutela i lavoratori/partecipa alle varie azioni)
tutela SOLO GLI ISCRITTI o tutela ANCHE I NON ISCRITTI? Tutela anche i NON
ISCRITTI; si dice che il sindacato ha la RAPPRESENTATIVITA’ anche nei confronti
dei soggetti non iscritti.
RAPPRESENTATIVITA’= è l’idoneità del sindacato di tutelare/rappresentare una
cerchia di interessi più ampia rispetto agli interessi dei soli iscritti (questi soggetti
vengono tutelati come gruppo, a prescindere dall’iscrizione ad un sindacato).
Questo concetto ha poi fatto ingresso nel mondo giuridico con una serie di
norme che fanno riferimento al “SINDACATO MAGGIORMENTE
RAPPRESENTATIVO”.
La legge non definisce il SINDACATO MAGGIORMENTE RAPPRESENTATIVO, è
stata la giurisprudenza ad individuare una serie di criteri/parametri che attestano
che un sindacato ha tale forza.
Questi criteri sono:
o il numero degli iscritti (più ne, più il sindacato pesa)
o la diffusione territoriale (più è diffuso territorialmente, più il sindacato
pesa)
o l’intercategorialità (cioè il fatto che il sindacato non tutela solo una
categoria di lavoratori, ma più categorie di categorie; in questo modo
aggrega il consenso a livello più alto)
o la firma/sottoscrizione del contratto collettivo (svolgimento di attività
contrattuale)
o l’attività nella proclamazione di sciopero, o meglio nell’azione di
autotutela efficace e continua
L’accento è sul carattere INTERCONFEDERALE del sindacato (quindi qualsiasi
sindacato che aderisse a CGIL, CISL, UIL poteva avere una sua rappresentanza in
azienda).

Lettera “b”: sulla RAPPRESENTANZA TECNICA (si diceva che “possono essere
costituite RSA anche nell’ambito di quei sindacati che, pur non essendosi affiliati ad
una Confederazione, abbiano dimostrato la loro forza tramite la contrattazione in
azienda”); quindi si considerano i SINDACATI FIRMATARI DI CONTRATTO
COLLETTIVO, di che livello? Esterno all’azienda.
Quindi, fino al 1995 la contrattazione collettiva doveva essere NAZIONALE o
TERRITORIALE; poteva avere una sua RSA il sindacato che avesse firmato un
contratto collettivo NAZIONALE o TERRITORIALE (non poteva avere una sua RSA il
sindacato che, per esempio, avesse firmato solo un contratto collettivo AZIENDALE).
Questo significa che la rappresentatività era misurata a livello NAZIONALE e
TERRITORIALE, ma non a livello AZIENDALE.

COME VENIVANO COSTITUITE LE RSA? Erano concepite come un “guscio vuoto” (cioè non
era previsto un modello preciso), in ciascuna azienda poteva prevalere il modello che il
sindacato e i lavoratori sceglievano (potevano essere elettive ma non necessariamente).
I membri dovevano essere tutti lavoratori subordinati dell’azienda; potevano essere iscritti
o meno al sindacato esterno (quindi l’iscrizione al sindacato non era necessaria).
Non era previsto un numero minimo di membri e nemmeno un numero minimo di
lavoratori che dovessero prendere l’iniziativa (bastava avere anche l’iniziativa di un solo
lavoratore se il sindacato di riferimento era d’accordo con questo).
In realtà ci furono delle clausole dei contratti collettivi (come quelle del settore bancario)
che prevedevano, per esempio, un numero minimo di 8 lavoratori che prendessero
l’iniziativa, affinchè si potesse avere una RSA; sono valide o no?
Per alcuni erano nulle (per violazione della libertà sindacale); ma la tesi prevalente era
quella per cui rientra nell’autonomia del sindacato stesso scegliere di limitarsi o meno (e
perciò ammettere la costituzione di RSA solo di fronte alla richiesta di molti lavoratori);
quindi tendenzialmente queste clausole sono valide (perché espressione dell’autonomia
del sindacato).
Quante RSA ci possono essere in un’azienda? Non c’è un numero minimo o un numero
massimo; ce ne possono essere più di una in base al numero di sindacati hanno i requisiti
per poterle costituire.
La RSA (secondo l’opinione prevalente) non è organo del sindacato, ma è un soggetto
munito di una propria autonoma soggettività/individualità.

Tuttavia (appena stato emanato) l’art.19 ha dato luogo a vari dubbi di legittimità
costituzionale e si hanno sostanzialmente 4 sentenze importanti:
1. Sentenza n.54/1974
2. Sentenza n.334/1988
3. Sentenza n.30/1990 (tra questa e la seguente avviene la modifica referendaria)
4. Sentenza n.244/1996
Tutte queste sentenze hanno sempre salvato l’art.19.

1. Si dubitava che fossero violati l’art.3 Cost. (perché sarebbero discriminati i sindacati più
deboli, rispetto a quelli privilegiati; lesione del principio di uguaglianza) e l’art.39 Cost.
(perché l’art.19, consentendo solo ad alcuni sindacati e non a tutti la costituzione la
costituzione di RSA, sarebbe lesivo della libertà sindacale degli esclusi).
La Corte Costituzionale dice che non è violato l’art.39. Essa dice che esistono due livelli
di tutela della libertà sindacale in azienda:
 LIVELLO BASE: tutti i sindacati godono, in azienda, di questa libertà (garantita
dall’artt.14-15-16-17 SL); ossia tutti i sindacati, nei luoghi di lavoro possono
costituire/partecipare ad attività sindacale.
 SECONDO LIVELLO: consiste in alcune prerogative/tutele aggiuntive che sono
attribuite solo a certi sindacati, quelli maggiormente rappresentativi; non
intaccano la libertà sindacale degli altri sindacati.
Queste tutele aggiuntive incidono sui poteri dei datori di lavoro e li limitano (ad
esempio il fatto di dover concedere l’assemblea è sicuramente un limite al
potere dell’imprenditore).
Nemmeno l’art.3 è violato perché una selezione tra sindacati è necessaria, occorre solo che
questa sia RAGIONEVOLE e, secondo la Corte, i due criteri della lettera “a” e “b” sono
entrambi ragionevoli perché selezionano i sindacati più forti (quindi solo quelli in grado di
incanalare il consenso).
Inoltre l’accesso a tali prerogative aggiuntive non è CHIUSO/ESCLUSIVO, perché qualsiasi
sindacato (che diventa forte) può conquistarle.
Perciò la Corte Costituzionale ci dice che l’art.19 è compatibile con gli artt. 39 e 3 della
Cost.; inoltre ci dice che l’art.19 è una norma di natura “DEFINITORIA” e non di natura
“PERMISSIVA” (significa che si limita a definire quali sono i requisiti che il sindacato deve
avere per avere accesso a queste prerogative, ma questi requisiti possono essere
conquistati anche da qualsiasi altro sindacato; ossia non esclude che ciascun sindacato
possa conquistare questi requisiti).
2. Il SINQUADRI (un sindacato) pretendeva di avere accesso a questa zona promozionale
(e quindi avere i diritti del titolo III), pur non essendo intercategoriale (ossia era un
sindacato che non aveva stipulato il contratto collettivo e che non era aderente a
Confederazione maggiormente rappresentativa; quindi non aveva i requisiti né della
lettera “a” né della lettera “b”) per il solo motivo che era molto forte tra i quadri.
La Corte Costituzionale dice no, quindi respinge anche in questo caso la questione di
costituzionalità (si dubitava della violazione degli artt. 3,39 e 2 della Costituzione). La
Corte, sostanzialmente, dice che l’aver riservato la possibilità di avere rappresentanze
solo ai sindacati aderenti alla Confederazione (e non ai sindacati mono categoriali)
risponde proprio all’art.2 della Cost. (cioè ad un PRINCIPIO SOLIDARISTICO).

3. Qui c’era un caso un po' particolare: può un ddl riconoscere pattiziamente ad un


sindacato (che non avrebbe né i requisiti della lettera “a” e della lettera “b”) l’accesso a
queste prerogative/questi privilegi?
La Corte considera l’art.19 non più una norma semplicemente di natura “DEFINITORIA”,
ma una norma che non può essere derogata; quindi ci dice che i sindacati che non
hanno i requisiti, non possono vederseli riconosciuti pattiziamente dal datore di lavoro;
la norma non è perciò incostituzionale.
Nel frattempo, però, la Corte avverte il legislatore e gli dice che l’art.19 non è più
rispondente alle vere esigenze di rappresentatività; quindi lo invita affiché intervenga a
modificare l’art.19 perché questa norma non rispecchia più la vera forza dei sindacati in
azienda (i sindacati selezionati non sono quelli rappresentatici dei lavoratori).

Il legislatore tace e quindi si arriva al Referendum del 1995 (referendum abrogativo ad


iniziativa popolare). Esso ha portato all’integrale abrogazione della lettera “a” e alla
modifica della lettera “b” dell’art.19.
E’ stato eliminato il privilegio per i sindacati aderenti a Confederazione maggiormente
rappresentativa; dal 1995 non basta essere aderenti ad una Confederazione per avere
una propria RSA.
E’ stata anche modificata la lettera “b”, in sostanza è stato eliminato l’inciso “nazionale
e provinciale” e sostituito con “di qualsiasi livello”. Quindi dal 1995 la lettera “b” recita
così: “possono essere costituite RSA, ad iniziativa dei lavoratori, nell’ambito dei
sindacati firmatari di contratto collettivo applicati in azienda DI QUALSIASI LIVELLO”;
perciò basta solo che il sindacato sia forte anche solo a livello aziendale per avere la
RSA.
L’obiettivo del referendum era quello di cercare di dare effettività alla rappresentanza
(cioè di cercare di portare dentro all’azienda, con le RSA, quei sindacati che fossero
rappresentativi anche solo a livello AZIENDALE); ma occorreva la firma del contratto
collettivo—cosa significa? Significa che corre aver lottato per la firma (ossia aver
partecipato alle trattative e poi essere riusciti a firmarlo) o basta aver firmato un
contratto collettivo negoziato da un altro sindacato? La Corte afferma che occorre
anche aver partecipato alle trattative.
4. Questa sentenza ci dice che “per aver diritto alle RSA, non basta aver sottoscritto il
contratto collettivo già negoziato da altri, ma occorre aver partecipato effettivamente
alle trattative”.
QUALE CONTRATTO COLLETTIVO SI DEVE FIRMARE? Il contratto collettivo a “contenuto
normativo” (ossia che regola i sottostanti rapporti tra lavoratori e datori di lavoro) e che
riguarda i principali istituti di tutela del lavoratore.
Basta un contratto collettivo gestionale? Ne parleremo più avanti.

Critica a questa versione: in fondo in questo modo si attribuisce al datore di lavoro il


potere di scegliere quali sindacati privilegiare in azienda; ossia è stato dato al datore di
lavoro un POTERE DI ACCREDITAMENTO.
Inoltre altra critica è quella di dire che questa norma introduce una sorta di “inversione
logica” (originariamente “prima si fissavano i requisiti per la maggiore rappresentatività,
e poi il sindacato rappresentativo poteva svolgere attività sindacale; adesso “prima il
sindacato deve aver svolto attività sindacale, e dopo gli si riconoscono i requisiti che
sarebbero indispensabili”).
Sta di fatto che la Corte costituzionale non accoglie queste critiche e salva nuovamente
l’art.19 perché dice che, in realtà, non c’è un potere di accreditamento del datore di
lavoro, i requisiti (la forza del sindacato) sono OGGETTIVI (ossia l’aver partecipato alle
trattative e l’aver sottoscritto il contratto collettivo); non è il datore di lavoro che sceglie
ma è il sindacato forte che costringe il datore di lavoro a negoziare e a firmare.

Questa posizione è stata recentemente messa in crisi dal recente CASO FIAT e FIOM.
La Fiat, ad un certo punto, ha rifiutato di continuare a contrattare con tutti i sindacati
forti/confederali; questo sostanzialmente perché Fiat voleva liberarsi da certi vincoli
stabiliti dai precedenti contratti collettivi metalmeccanici (che era considerati non più al
passo con i tempi) e quindi ha tentato di proporre ai sindacati una CONTRATTAZIONE
COLLETTIVA “A RIBASSO” (non più tutelante per i lavoratori).
La FIOM ha rifiutato di sottoscrivere tale tipologia di contrattazione (il problema era per
la Fiat quello di garantire la produttività degli impianti, imponendo turni, modifiche
organizzative, che chiaramente costituivano un peggioramento per i singoli lavoratori,
ma dovevano salvare l’azienda e sostanzialmente la produzione in Italia).
La FIOM ha rifiutato e quindi si è avuta la fuoriuscita della FIAT dal sistema
confindustriale (la Fiat si è uscita da Confindustria); in questo modo essa non è stata più
vincolata dal contratto collettivo metalmeccanico e ha sottoscritto uno specifico
contratto collettivo “Fiat” solo con i sindacati che ci stavano (FIM, UILM). Inoltre Fiat ha
denunciato tutti i contratti collettivi vigenti; da questo momento non avrebbe più
applicato nessun contratto collettivo (aziendale, sui turni, sugli orari, ecc..) tranne quello
che ha firmato con FIM e UILM e che, però, FIOM non ha firmato.
La FIOM, quindi, non era più firmataria del contratto collettivo applicato in azienda; la
FIOM era rappresentativa, ma non aveva più la possibilità di avere una propria RSA in
azienda perché non era firmataria del contratto collettivo firmato in azienda (i delegati
FIOM sono concretamente stati estromessi dalla Fiat).
Allora FIOM ha fatto ricorso al Tribunale di Modena ed ha lamentato l’incostituzionalità
dell’art.19 SL, nel momento in cui imponeva come requisito, per costituire RSA, la firma
del contratto collettivo applicato in azienda.
Si è detto che è cambiata la situazione di fatto: nel senso che, per gli ultimi 30 anni, la
contrattazione collettiva è stata UNITARIA (non separata) ed ACQUISITIVA (quindi
negoziare e firmare il contratto collettivo applicato in azienda significava per il
sindacato aver strappato dei vantaggi per i lavoratori, aver dimostrato la propria forza
ed essere perciò un sindacato rappresentativo). Ma nell’attuale contesto, invece, nel
quale il contratto collettivo è ABLATIVO (riduce i diritti), Fiom sostiene che la forza del
sindacato può anche stare nel rifiutare i peggioramenti previsti dal contratto (quindi
sindacato rappresentativo può anche essere quello che non firma il contratto, dopo
aver partecipato inutilmente alle trattative). Il caso concreto era proprio questo (Fiom
era stata convocata per le partecipazioni, aveva partecipato alle trattative ed aveva
rifiutato di accettare le modifiche peggiorative per i lavoratori).
Viene allora sollevata la questione davanti alla Corte Costituzionale e ci sono varie
sentenze che prendono strade diverse:
 alcuni giudici di merito (senza arrivare alla Corte Costituzionale) danno una loro
interpretazione estensiva e dicono che l’art.19 può essere interpretato nel senso
che non sia necessario aver firmato il contratto collettivo, basta aver partecipato
alle trattative (ma quanto detto dall’art.19 era chiarissimo e quindi questa strada
non è percorribile).
 La Corte Costituzionale, con la sentenza n.231/2013, dà ragione a FIOM. Questa
sentenza dichiara la parziale incostituzionalità dell’art.19 nella parte in cui non
prevede che RSA possano essere costituite anche da parte di quei sindacati che,
pur non essendo firmatari del contratto collettivo applicato in azienda, abbiano
però partecipato alle trattative.
OGGI, quindi, siamo arrivati ad una conclusione contraria rispetto all’idea di
partenza: per costituire RSA è sufficiente aver partecipato alle trattative per la
stipulazione di un contratto collettivo di QUALSIASI LIVELLO applicato in azienda e
sottoscritto dai sindacati (se un sindacato partecipa alle trattative, ma poi non
sottoscrivere quel contratto ha comunque la possibilità di avere una propria RSA in
quell’azienda).

La sentenza risolve il caso FIAT ma non detta una regola generale che poi sia facilmente
esportabile perché LASCIA APERTI DEI PROBLEMI:
 Cosa significa “aver partecipato alle trattative”? Da quale momento in poi si
considera che il sindacato abbia partecipato alle trattative (quando è stato
convocato, quando si è seduto, quando è arrivato fino ad un certo momento
della negoziazione)? E soprattutto non c’è un DIRITTO DEL SINDACATO di
partecipare alle trattative (quindi si lascia il datore di lavoro pur sempre libero di
non accettare le trattative con un certo sindacato e, in questo modo, di non
permettere al sindacato di vantare i requisiti per la creazione di una RSA).
 Riguarda l’ambiguità dell’art.19. Per come è scritto oggi l’art.19 è evidente che
occorre che almeno qualcuno quel contratto lo abbia firmato (quindi affinché
tutti quelli che hanno partecipato alle trattative possano avere RSA occorre che
almeno un sindacato abbia firmato quel contratto collettivo).
Se nessun sindacato sottoscrive quel contratto collettivo (perché effettivamente
quelle condizioni sono inaccettabili per tutti), non si ha alcun sindacato che
possa vantare la costituzione di RSA in azienda.
Nella sentenza vediamo che tra le righe si dice che “aver partecipato alle trattative denota
la RAPPRESENTATIVITA’ del sindacato” (quindi FIOM ha diritto a costituire RSA perché ha
partecipato alle trattative, perché in questo modo ha dimostrato di essere
rappresentativo). In realtà, questo concetto di MAGGIORE RAPRESENTATIVITA’ è stato
cancellato dal Referendum del 1995 (non compare più nel testo dell’art.19); comunque
molte altre norme del nostro ordinamento continuano ancora a far riferimento ai sindacati
“maggiormente rappresentativi” (per esempio in tema di trasferimenti d’azienda, di
contratti di solidarietà, di licenziamenti collettivi). Perciò la nozione di MAGGIORE
RAPPRESENTATIVITA’ sopravvive ma in altre norme.
Anzi a questa nozione si è affiancata la nozione di SINDACATO COMPARATIVAMENTE PIU’
RAPPRESENTATIVO (oggi vediamo, soprattutto nel d.lgs.81/2015, il riferimento non è più al
sindacato “maggiormente rappresentativo” ma il riferimento è a questa nuova nozione): la
prima volta che viene usata questa nozione è nel 1995 (in una legge in materia di
previdenza, in cui si individua quale è la retribuzione base, tra tante retribuzioni diverse
previste da tanti diversi contratti collettivi, per il calcolo dei contributi previdenziali).
Questa nozione, quindi, nasce al fine di selezionare (tra tanti contratti collettivi) un solo
contratto collettivo (nell’esempio originario si dice che “la retribuzione base è quella
prevista dai contratti collettivi stipulati dai sindacati COMPARATIVAMENTE PIU’
RAPPRESENTATIVI”). Questo vuol dire che, secondo il legislatore, bisogna COMPARARE tra
loro più contratti collettivi (stipulati da diverse COALIZIONI SINDACALI) e verificare quale
tra essi sia stato stipulato dalla COALIZIONE sindacale che, nel complesso, è PIU’
RAPPRESENTATIVA. IN BASE A QUALI INDICI? Gli stessi indici che abbiamo visto prima
(diffusione territoriale, numero di iscritti, intercategorialità, attività di autotutela, ecc..).
Perciò questa nozione viene, in origine, usata come riferita al contratto (quindi per
selezionare uno solo tra più contratti collettivi possibili).
La CRITICA è che, in realtà, la comparazione tra coalizioni può avvenire solo se queste sono
omogenee (mentre è difficile fare una comparazione tra coalizioni sindacali che magari
sono a livello diversi).

C’è anche un’altra variante di questa nozione di SINDACATO COMPARATIVAMENTE PIU’


RAPPRESENTATIVO, cioè ci sono altre norme in cui non si guarda alla selezione di un
contratto tra più contratti, ma semplicemente si fa riferimento a sindacati
COMPARATIVAMENTE PIU’ RAPPRESENTATIVI come strumento per individuare dei
sindacati affidabili/forti/rappresentativi
Per esempio quando si dice che ad un organo collegiale possono partecipare i sindacati
“comparativamente più rappresentativi”; qui non c’è quella funzione di selezione (e quindi
in questo senso la variante è solo terminologica, ma non differisce rispetto alla nozione di
sindacato “maggiormente rappresentativo” per quanto riguarda il significato).

ULTIMA PRECISAZIONE: se leggiamo con attenzione vediamo che certe norme ci parlano
di “contratto stipulato DAI sindacati comparativamente più rappresentativi”, mentre altre
norme ci parlano di “contratto stipulato DA…”.
“DAI” vuol dire tutti i sindacati che sono “comparativamente più rappresentativi”; mentre
“DA” ammetto, in sostanza, una contrattazione separata.
FIM, FIOM e UILM sono senz’altro tutti sindacati comparativamente più rappresentativi.
Perciò se io dico “DAI” intendo che quel determinato contratto collettivo deve essere
necessariamente firmato da tutti e 3; se dico “DA” intendo che mi basta che quel
determinato contratto sia firmato da almeno uno di quei 3 sindacati (ma non mi serve per
forza la firma di tutti e 3).

18/10
Dal 1993, accanto alle RSA, sono state individuate anche le RSU (Rappresentanze Sindacali
Unitarie; per ora analizziamo le regole del settore privato).
La RSU non ha fonte legale (prima differenza rispetto alle RSA), la fonte di disciplina è
contrattuale (ha competenza contrattuale); infatti sono state previste, per la prima volta,
nell'accordo confederale del 20 Dicembre 1993 (che nasceva dal protocollo Giugni del
1993).
L’idea di base era che le rappresentanze dei lavoratori in azienda, per essere effettivamente
rappresentative, dovessero avere carattere ELETTIVO (essere elette dai lavoratori); inoltre
dovevano essere degli interlocutori AFFIDABILI (quindi l’elezione avveniva sempre sotto la
supervisione dei sindacati, in base a delle liste presentate dagli stessi; qui l'iniziativa
proviene dai sindacati)
Seconda differenza rispetto alle RSA è che le RSU hanno carattere ELETTIVO (ossia sono
elette da TUTTI i lavoratori dell’unità produttiva; iscritti e non iscritti al sindacato).
Terza differenza: le RSA sono plurime; le RSU sono unitarie (più sindacati presentano più
liste, ma poi l'organismo di rappresentanza è rappresentativo di tutti i sindacati e di tutti i
lavoratori).
Le RSU sono alternative alle RSA perchè sostanzialmente si chiede ai sindacati, che
avrebbero diritto a costituire una loro RSA, di scegliere se costituire una RSA o se
partecipare (presentando una lista) alle elezioni di una RSU. Vale, però, la CLAUSOLA DI
SALVAGUARDIA per la quale “i sindacati che potrebbero avere una RSA, ma che invece
hanno scelto di presentare una lista per le elezioni della RSU, rinunciano a costituire una
propria RSA” (i sindacati devono scegliere una tra le due alternative).
La RSU ha importantissime prerogative (nel senso che esercita gli stessi poteri/le stesse
prerogative della RSA: assemblea, referendum, affissione, permessi locali), ma soprattutto
le è attribuito espressamente il POTERE DI CONTRATTARE IN AZIENDA.
Ma le RSA non hanno questo POTERE DI CONTRATTAZIONE? Alle RSA questo potere non è
espressamente attribuito dallo Statuto (infatti si dice che la contrattazione aziendale viene
fatta concretamente dal sindacato esterno/territoriale).

COME VENGONO COSTITUITE LE RSU?


 VECCHIA DISCIPLINA (accordo del 1993): prevedeva che solo 2/3 delle RSU
fossero eletti dai lavoratori, mentre 1/3 era eletto dai sindacati. Non la
analizziamo in profondità perché non vale più.
 NUOVA DISCIPLINA (T.U. sulla rappresentanza del 2014): prevede che possono
prendere iniziativa per dare avvio alle elezioni delle RSU, e poi possono
presentare liste (è una platea di sindacati più ampia rispetto alle RSA):
 o i sindacati confederali (aderenti a CGIL, CISL, UIL e Confindustria)
 o i sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale di lavoro
 o i sindacati di base/autonomi (COBAS) purché abbiano un seguito del
5% in azienda (anche se nessuno ha mai firmato con loro nessun
contratto collettivo o non hanno partecipato alle trattative), e purché
accettino integralmente il contenuto del T.U. del 2014 (tra cui delle
regole di decisione “a maggioranza” che, in sostanza, hanno effetto
concreto di mettere da parte tali sindacati, che non avranno mai la
maggioranza e quindi non avranno mai voce in capitolo).
Questa è la reale NOVITA' perché secondo l'art.19 un sindacato di base
non avrebbe mai potuto partecipare all'elezione di una RSU.
Queste regole sono state abbastanza emblematiche nel CASO FIAT-FIOM: la FIAT era uscita
da Confindustria ed aveva disdettato tutti i contratti collettivi di lavoro applicati in azienda;
per effetto di tali scelte FIOM (che non aveva sottoscritto nessun contratto collettivo
applicato in azienda) si era trovata in una situazione in cui non poteva più costituire
proprie RSA (finché non è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale che gli ha
riconosciuto questo diritto in quanto PARTECIPE alle trattative).
Poteva FIOM allora partecipare alle RSU? In astratto si purché raccogliesse in azienda il
seguito del 5% dei lavoratori (e questa era la strada che aveva cercato di seguire la FIOM);
ma abbiamo detto che la RSU ha fonte contrattuale ed è nata dall'accordo confederale
(firmato unitamente da CIGL, CISL, UIL e CONFINDUSTRIA) e quindi le aziende che non
aderiscono più a Confindustria non sono più tenute ad acconsentire alla creazione
neppure di RSU; perciò, dal momento in cui è uscita da Confindustria, la FIAT non ha più
dovuto consentire neppure la costituzione di RSU.
FIOM non aveva quindi diritto a partecipare all'elezione della RSU.
CHE NATURA HA LA RSU? Oggi, dopo le modifiche del 2014, è integralmente ELETTIVA
(ossia integralmente eletta da TUTTI i lavoratori). Non è, però, un organo del sindacato
(non c'è un rapporto forte con il sindacato) ma ha una sua soggettività autonoma.
Risponde, in qualche modo, a tutti i lavoratori dell’azienda che l'hanno eletta. E' un
organismo COLLEGIALE (quindi, in teoria, le decisioni vengono prese “a maggioranza”).
Quello di cui si è discusso molto è “quale fosse il RAPPORTO TRA RSU E SINDACATO
ESTERNO”. Oggi vale la regola del “CAMBIO DI CASACCA”, nel senso che si dice che il
rapporto con il sindacato esterno deve essere abbastanza FORTE ((cioè un membro di una
RSU che è eletto in una lista (per esempio con la FIOM) , e che poi fuoriesce dal sindacato,
decade)); quindi OGGI c'è la DECADENZA del membro di RSU che è dimensionato dal
sindacato (questo evidentemente serve a rafforzare il fatto che quella RSU risponda al
sindacato di appartenenza).

Con la ROTTURA DELL'UNITA' SINDACALE il funzionamento della RSU è entrato in crisi (se
la FIOM, FIM e UILM la pensano in modo diverso è chiaro che si ha una paralisi all'interno
della RSU); perciò OGGI assistiamo al sostanziale RITORNO DELLA RSA (laddove non c'è
unità sindacale, anche in azienda difficilmente ci potrà essere un organismo unitario di
rappresentanza dei lavoratori, quindi una RSU).

Se la RSU c'è e stipula il contratto aziendale, verso quali lavoratori ha effetto questo
contratto?
 Una tesi sostiene che questo contratto avrebbe efficacia verso tutti i lavoratori
(“erga omnes”), ma manca una norma di legge che lo dica espressamente e
soprattutto abbiamo, a monte, l'art.39 Cost per cui questa efficacia “erga omnes” è
difficile da giustificare (anche perché non tutti i lavoratori potrebbero aver
partecipato alle elezioni e non tutti potrebbero voler essere rappresentanti da quel
soggetto).
 Un'altra tesi sostiene che questo contratto sarebbe efficace solo verso i lavoratori
che sono iscritti ai sindacati che hanno presentato le liste.
E’ un tema aperto; l'efficacia non è sicuramente “erga omnes”.

Ci può essere un’azienda in cui c’è sia la RSU che la RSA? Si, ci può essere questa
coesistenza quando ci sono dei sindacati che hanno diritto a costituire RSA che hanno
scelto di non partecipare all’elezione di una RSU (quindi ci potrà essere la RSA del
sindacato che ha aderito, ex art.19, ed insieme la RSU di tutti gli altri sindacati che hanno
scelto invece di partecipare all'elezione).
Non è esclusa la coesistenza di RSA ed RSU, malgrado la presenza della “clausola di
salvaguardia”.
ABBIAMO UN CANALE UNICO O CANALE DOPPIO DI RAPPRESENTANZA IN ITALIA?
CANALE DOPPIO: in azienda abbiamo 2 organismi di rappresentanza (uno che rappresenta
i lavoratori e ha funzione di tutela; ed uno associativo che rappresenta sostanzialmente gli
iscritti ed ha funzione di contrattazione).
In Italia non abbiamo un canale doppio; abbiamo un CANALE UNICO, anche se IBRIDO (da
un lato RSA ed RSU sono tendenzialmente alternative l'una all'altra, non sono nate per
coesistere anche se possono farlo; inoltre la RSU è di derivazione sindacale anche se si
cerca di dare maggior spazio ai lavoratori e lo strumento per fare ciò è l'elezione).

DIRITTI DELLE RSA IN AZIENDA (con i quali il datore di lavoro deve fare i conti; sono
contenuti nel TITOLO III SL -quelle prerogative privilegiate che sono previste in aggiunta
alla libertà sindacale che spetta a tutti i sindacati-); quindi solo i sindacati che possono
costituire RSA hanno:
• ART.20 SL: diritto di assemblea
• ART.21 SL: diritto di referendum
• ART.22 SL: tutela contro il trasferimento da una sede ad un'altra del DIRIGENTE di
RSA
• Art.23 SL: diritto ai permessi RETRIBUITI
• ART.24 SL: diritto ai permessi NON RETRIBUITI
• ART.25 SL: diritto di affissione
• ART.26 SL: diritto ai contributi sindacali
• ART.27 SL: diritto ai locali
• ART.31 SL: diritto alle aspettative
• ART.18 SL: tutela reintegratoria per il DIRIGENTE di RSA

Ci sono diritti che spettano esclusivamente ai DIRIGENTI di RSA (permessi, tutela contro il
trasferimento e tutela contro il licenziamento) e diritti che spettano alle RSA nel suo
insieme.
Tutti questi diritti, comunque, comportano una limitazione ai poteri del datore di lavoro
(sono prerogative che interferiscono con l’attività aziendale e la limitano); esempio: se la
RSA convoca l’assemblea il datore di lavoro, durante l'assemblea,non può pretendere la
prestazione e deve retribuire lo stesso).

DIRITTI DELLE RSA NEL LORO INSIEME


1. DIRITTO DI ASSEMBLEA (ART.20 SL): può essere esercitato (da ciascun lavoratore) per
10 ore all’anno (salvo condizioni di miglior favore previste dai contratti collettivi), in
orario di lavoro, retribuite.
L'assemblea può anche essere convocata FUORI DALL'ORARIO DI LAVORO
(chiaramente senza limiti).
E’ un diritto a “titolarità individuale” ma ad “esercizio collettivo”.
L'assemblea si può tenere o “per la generalità del personale” o “per gruppi”.

CHI LA CONVOCA? La RSA (è il suo compito principale).

COSA SIGNIFICA CHE CIASCUN LAVORATORE HA DIRITTO A 10 ORE ANNUE DI


ASSEMBLEA retribuita IN ORARIO DI LAVORO? Due tesi:
1. bisogna contare le ore di effettiva partecipazione dei singoli lavoratori (quindi se
io ho diritto a 10 ore, il mio monte ore non è esaurito finché non ho deciso di
partecipare per 10 volte, anche non consecutive, all'assemblea). Il monte ore
totale si consuma quando tutti i lavoratore hanno esaurito il proprio.
2. la Cassazione dice che si contano le ore “convocate” (quindi le 10 ore si
consumano con le 10 convocazioni, a prescindere che il singolo lavoratore
partecipi o no all'assemblea di volta in volta). Soluzione che è prevalsa.
C'è un PROBLEMA: se abbiamo fatto le RSA in azienda e non sono coordinate tra
loro e l'assemblea era stata convocata per tutti i lavoratori, quale criterio si applica
che ci sono 10 convocazioni e poi basta? E' una cosa un po' assurda ma la prassi ha
stabilito così. Allora è successo che la notte di Capodanno, anziché andare in giro,
alcuni sindacalisti sono lì appostati sul fax in modo che subito dopo mezzanotte
arrivi la convocazione per tutto l'anno delle 10 ore di assemblea (perchè il criterio
che prevale è quello di PREVENZIONE TEMPORALE, quindi “chi prima
prenota/convoca l'assemblea effettivamente la può ottenere”).
Perciò il diritto di assemblea va riferito a tutti i lavoratori e nella suddivisione del
monte ore tra le più RSA vale il CRITERIO DI PREVENZIONE TEMPORALE.
Ovviamente tutti questi problemi scompaiono se c’è la RSU in azienda: in
questo caso da un lato gli accordi hanno previsto una sorta suddivisone interna
(per cui 7 ore sono convocate dalle RSU e 3 ore sono convocate dai sindacati
esterni). Dall’altro lato,fino a poco tempo, fa si diceva che l'intera RSU può
convocare l’assemblea ma con una decisione “a maggioranza”).
Oggi, invece, in Cassazione è prevalsa un'idea diversa, cioè che “ciascun componente
della RSU possa indire l'assemblea” (quindi si ripropongono gli stessi problemi di
coordinamento tra le diverse componenti della RSA che abbiamo analizzato sopra).

Resta sempre fermo il limite delle 10 ORE ANNUE (ovviamente possono


diventare anche più di 10 perchè i contratti collettivi potrebbero prevedere
condizioni di miglior favore).
ASSEMBLEA FUORI ORARIO DI LAVORO: non serve che venga convocata dalla RSA. I
lavoratori chiaramente possono scegliere di riunirsi in assemblea senza essere retribuiti
e dopo che hanno finito di lavorare.
Semplicemente il datore di lavoro dovrà mettere a disposizione i locali.
Non ci sono limiti prestabiliti di orario ma deve comunque essere rispettato il
criterio della RAGIONEVOLEZZA (perchè ci sono comunque dei costi che il
datore di lavoro deve sopportare).

E se in azienda non c’è ancora la RSA, si può autoconvocare l'assemblea per costituirla?
No, in quel caso è il sindacato esterno che coordina la situazione.

CHE CONTENUTO HA L’ASSEMBLEA? L’art. 20 ci dice che l’assemblea deve vertere su


materie di interesse sindacale e del lavoro (deve esserci un interesse collettivo sotteso
ad essa). Esempio: il sindacato che durante i Mondiali di calcio aveva convocato
l'assemblea per vedere la partita ---NON E' ASSEMBLEA perchè manca l'interesse
collettivo.
Si può fare un’assemblea contro la guerra/per la pace? La giurisprudenza tende ad
escludere tale tipo di assemblea (con finalità di tipo politico) dall’art.20 SL.

IL DATORE DI LAVORO PUO’ CONTROLLARE CHE I DIPENDENTI PARTECIPINO O NO


ALL'ASSEMBLEA? In linea di principio si (nel senso che il datore di lavoro paga i
dipendenti affinché che vadano all'assemblea), anche se chiaramente occorre che poi
questo controllo non sia usato come strumento di discriminazione ai danni dei
lavoratori (per esempio dando una retribuzione diversa a chi non partecipa, ecc..).
C'è una sorta di INCONGRUENZA: la Cassazione da un lato continua ad ammettere
questo controllo sui singoli; dall'altro ha “sposato” la tesi secondo cui le ore di
assemblea dovrebbero essere consumate soltanto tenendo conto della convocazione.

QUALI SONO I LAVORATORI CHE HANNO DIRITTO A PARTECIPARE ALL’ASSEMBLEA?


I lavoratori subordinati:
 Iscritti e non iscritti al sindacato
 Sospesi (ferie)
 Cassintegrati
 Scioperanti (ma l'assemblea tenuta durante lo sciopero è considerata sciopero;
perciò non viene retribuita e non rientra nel limite delle 10 ore annue)
 Apprendisti, lavoratori a termine, a part time, somministrati (hanno un DOPPIO
DIRITTO di assemblea: sia nei confronti dell'utilizzatore, sia per le questioni che
riguardano il loro rapporto con l'agenzia)
 Licenziati (ad esempio se ha ottenuto la reintegrazione ma non è ancora stato
riammesso in azienda)
 Dirigenti d’azienda (hanno dei loro sindacati “ad hoc” e, quindi, partecipano solo
alle assemblee indette dai loro sindacati)
E il DATORE DI LAVORO PUO' PARTECIPARE ALL'ASSEMBLEA? No SOLO NEL CASO IN CUI
E’ INVITATO (dai lavoratori). Egli potrebbe, a sua volta, eventualmente convocare nella sua
azienda tutti i propri dipendenti (ma non si tratta di diritto di assemblea); comunque
queste eventuali riunioni (organizzate dal datore di lavoro) devono evitare di depotenziare
il ruolo del sindacato.

E i DIRIGENTI ESTERNI DEL SINDACATO possono partecipare all'assemblea (ad esempio un


sindacalista della FIM può partecipare ad un'assemblea della FIAT)? Si, è solo necessario
che venga preavvisato il datore di lavoro.

PREAVVISO: l'art.20 non lo dice in modo esplicito ma è chiaro che la RSA che convoca
l'assemblea deve dare un certo preavviso (spesso sono i contratti collettivi che lo
prevedono). A sua volta il datore di lavoro, che deve concedere i locali per l'assemblea,
deve comunicarlo con un certo preavviso/anticipo.
Questo nel rispetto dei principi di BUONA FEDE e CORRETTEZZA.

LOCALI: ci sono una serie di sentenze. In realtà si dice che il locale può essere INTERNO o
ESTERNO all'azienda e nelle immediate vicinanze.
Non deve essere un locale super attrezzato.

I contratti collettivi possono introdurre qualche modalità specifica ulteriore per l’esercizio
del diritto di assemblea (per esempio per contemperarlo con particolari esigenze
dell'azienda)? Si, l’art.20 espressamente prevede che “ulteriori modalità, per l'esercizio del
diritto di assemblea, possano essere introdotte dai contratti collettivi”.
Esempio: i contratti collettivi potrebbero stabilire che l'assemblea venga fatta A FINE
TURNO (questo per limitare l'incidenza sulla funzionalità dell'azienda).

ASSEMBLEA e SCIOPERO nei servizi pubblici essenziali: valgono sostanzialmente gli stessi
limiti che valgono per lo sciopero (l'assemblea in orario di lavoro, in questo caso, è
parificata allo sciopero).

ART.20 SL: “i lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro
opera, fuori dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore
annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono
essere stabilite dalla contrattazione collettiva.
Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono
indette, singolarmente o congiuntamente (quindi sia la singola RSA o tutte le RSA insieme),
dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con ordine del giorno su
materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle
convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del
sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.
Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai
contratti collettivi di lavoro, anche aziendali”.

2. DIRITTO DI REFERENDUM (ART.21 SL): le RSA hanno diritto a convocare il referendum.


A differenza dell'assemblea, la convocazione deve essere UNITARIA (deve essere
fatta CONGIUNTAMENTE da tutte le RSA); ma solo FUORI ORARIO DI LAVORO; e su
materie di interesse sindacale.
Tutti i lavoratori possono parteciparvi (iscritti e non). Ulteriori modalità possono essere
previste dai contratti collettivi.
Si dice che il referendum è uno “strumento a doppio taglio” nel senso che piace e non
piace ai sindacati perché il sindacato non sa mai cosa effettivamente voteranno i
lavoratori; spesso viene proprio usato per approvare i contratti collettivi (la prassi è
quella di sottoporre ai lavoratori prima la piattaforma contrattuale che si va a discutere,
e poi far ratificare dai lavoratori l'accordo una volta sottoscritto – questo era successo,
qualche anno fa, con riguardo alla FIAT per cui c'era un accordo peggiorativo che FIOM
non aveva sottoscritto, ma i sindacati promossero un referendum tra i lavoratori e da
questo emerse che la maggioranza dei lavoratori accettava quelle condizioni; quindi
l'accordo è passato).

QUALE RILIEVO HA IL REFERENDUM? L’idea di base è che il rilievo è solo INTERNO


(cioè non c’è una regola per cui la piattaforma debba essere approvata dai lavoratori
con referendum e che attribuisca a questo referendum un’efficacia vincolante per il
sindacato che lo ha promosso), a meno che non si previsto nello stesso contratto
collettivo che quel contratto non avrà effetto nei confronti degli iscritti SE non supererà
il referendum da tutti i lavoratori.

ART. 8 d.l. 138/2011 (DECRETO SACCONI): il comma 3 che guarda al passato e riguarda
i contratti collettivi già sottoposti a referendum e ci dice che “i contratti collettivi
aziendali che siano precedenti la data di entrata in vigore di questo accordo e che siano
stati approvati tramite referendum da tutti i lavoratori, acquisiscono efficacia “erga
omnes” verso tutti i lavoratori dell'unità produttiva” (l'anno prima c'era stato l'accordo
FIAT che era stato sottoposto a referendum e, in questo modo, si era data efficacia
“erga omnes”).

3. DIRITTO DI AFFISSIONE (ART.25 SL): come comunicano i sindacati con i lavoratori sui
luoghi di lavoro? Nelle aziende c'è lo strumento della BACHECA AZIENDALE.
Sostanzialmente“le RSA (come le RSU) hanno diritto di comunicare con i lavoratori
affiggendo sui luoghi di lavoro, in appositi spazi a loro destinati dal datore di lavoro,
testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro”.
Ciascuna RSA ha diritto ad un proprio spazio (non c’è il possesso, ma ha la detenzione;
la RSA può, però, esercitare le azioni possessorie).
Se il datore di lavoro vede un comunicato che non gli piace, non può farsi giustizia da
sé e toglierlo (perchè commetterebbe condotta antisindacale); semmai potrebbe adire
il giudice per ottenere la RIMOZIONE.
Ci sono solo 2 casi in cui il lavoratore può intervenire direttamente:
1. se i comunicati non provengano dalle RSA
2. se i comunicati contengono un'offesa pesante nei confronti del datore di lavoro
e staccandoli esso non lede la propria reputazione (caso di “legittima difesa”).

I sindacati devono per forza comunicare tramite la BACHECA o hanno diritto a


comunicare anche in altri modi, per esempio VIA MAIL, con i dipendenti?
Di questo un po' si discute perchè, per anni, è stato concesso di comunicare VIA MAIL e
poi i datori di lavoro magari preclude al sindacato di fare ciò. In linea di massima la
giurisprudenza, per ora, ci dice che “non commette condotta antisindacale il datore di
lavoro che si rifiuta di consentire la diffusione tramite mail di un messaggio (che magari
sia denigratorio) e nemmeno il datore di lavoro che non consente al sindacato di
comunicare via mail (chiaramente con la MAIL AZIENDALE) con i propri dipendenti se ci
sono spazi appositi per la comunicazione (bacheche, ecc..)”; resta ovvio che il sindacato
può poi eventualmente contrattare i sindacati con strumenti che non sono aziendali.

4. LOCALI (ART.27): c'è la compressione dei poteri del datore di lavoro, il quale deve
mettere a disposizione locali per le assemblee delle RSA ma anche “salette”/locali per le
riunioni delle RSA.
Se l’azienda ha più di 200 dipendenti, il locale deve essere STABILE (ci deve essere
un'apposita saletta per le RSA in azienda); se invece l'azienda ha meno di 200
dipendenti il locale deve essere messo a disposizione solo quando necessario.
Diritto ad un unico locale per tutti.
Le RSA non possono far entrare chiunque (l’ingresso da parte di terzi è precluso/vietato
se non c’è il consenso del datore di lavoro).
Ovviamente il locale è aperto negli orari di apertura dell'azienda; deve essere nelle
vicinanze dell'azienda; non deve essere attrezzato in modo particolare.

DIRITTI SPECIFICI DEI DIRIGENTI DI RSA


1. TUTELA CONTRO IL TRASFERIMENTO (ART.22 SL): TRASFERIMENTO del lavoratore è un
mutamento della sede di lavoro tendenzialmente stabile/duraturo (mentre la
TRASFERTA è temporanea).
Un datore di lavoro può trasferire un suo normale dipendente da un’unità
produttiva ad un’altra? Si, a fronte di ragioni tecniche-organizzativo-produttive,
oggettive/ragioni d'impresa (ART.2103 cc).

E se il soggetto è DIRIGENTE di RSA? La prassi, degli anni passati, era quella di trasferire
molto rapidamente da un'unità produttiva ad un'altra quei DIRIGENTI di RSA che
fossero particolarmente attivi.
Ecco che lo Statuto ha introdotto un requisito aggiuntivo, occorre (affinché si possa
trasferire il dirigente) il NULLA OSTA SINDACALE (ossia il datore deve chiedere al
sindacato se concede il trasferimento in altra sede).
Il sindacato può scegliere di negare il nulla osta (questa decisione non può essere
messa in discussione dal datore di lavoro).
Se il dirigente fosse trasferito lo stesso (senza il benestare del sindacato), il
trasferimento sarebbe nullo e la condotta del datore di lavoro sarebbe ANTISINDACALE
PLURIOFFENSIVA (è offeso sia l’interesse del sindacato, sia l'interesse del singolo
lavoratore).
Contro il trasferimento di dirigente di RSA PRIVO DI NULLA OSTA chi può esercitare
l'azione in giudizio? Da un lato sicuramente il SINDACATO (ex art.28 SL); dall'altro lato
anche il LAVORATORE può impugnare il trasferimento; ci sarebbero, quindi, 2 azioni
parallele.

CHI E' DIRIGENTE DI RSA? E' la RSA stessa/il sindacato che, al suo interno, designa il
DIRIGENTE (quindi è lo stesso sindacato che, caso per caso, stabilisce chi è dirigente
della RSA).
Ma questa designazione deve essere PREVENTIVA o può avvenire anche EX POST (ossia
dopo che il lavoratore ha trasferito il membro di RSA, il sindacato può opporsi e
affermare che si tratta di un dirigente)? Con riferimento all'art.22 è necessario che la
designazione sia PREVENTIVA (quindi i nomi dei dirigenti di RSA dovranno essere
indicati ai fini di poter invocare in futuro tale tutela).
Diverso è, invece, per il sistema dei PERMESSI SINDACALI che sono riconosciuti ai
dirigenti di RSA (artt. 23-24-30 SL, come vedremo) perchè lì la designazione può essere
anche SUCCESSIVA (cioè si chiede il permesso e nel momento in cui lo si chiede per un
soggetto che è dirigente di RSA lo si designa come DIRIGENTE di RSA).

Questa norma/tutela non vale per le TRASFERTE (quindi si può sempre ordinare una
trasferta ad un dirigente di RSA senza limiti particolari).

La norma non riguarda quei TRASFERIMENTI che sono INTERNI AD UN'UNITA'


PRODUTTIVA; si era discusso se la nozione di UNITA' PRODUTTIVA fosse diversa oppure
se fosse identica a quella usata da altre norme dello Statuto (es. artt.18-35, cioè in
funzione dell'individuazione di una parte d'impresa autonoma) ma la giurisprudenza ha
chiarito che la NOZIONE E' UNICA (quindi trasferimento da un'unità produttiva ad
un'altra significa trasferimento da un'articolazione autonoma dell'impresa,con
autonomia organizzativa e produttiva, ad un'altra).

19/10
2. TUTELA REINTEGRATORIA (contro il licenziamento) PER IL DIRIGENTE DI RSA (ART.18
SL): prevede una tutela particolare per i dirigenti di RSA, una tutela reintegratoria “in
corso di causa” (cioè prima ancora di arrivare alla sentenza del giudice
sull'impugnazione del licenziamento).
Cioè se vi è un’impugnazione di un licenziamento intimato ad un dirigente di RSA e
le ragioni del datore di lavoro non convincono, il giudice (su istanza congiunta del
lavoratore e del sindacato) può ordinare la reintegrazione provvisoria in corso di
causa (cioè prima ancora che si arrivi alla sentenza e a chiarire se il licenziamento è
legittimo o illegittimo, il giudice, se ritiene che gli elementi di prova della legittimità
del licenziamento forniti dal datore di lavoro non sono convincenti, può intanto
ordinare la reintegrazione; poi la reintegrazione sarà destinata ad essere revocata se
all'esito della causa il licenziamento è legittimo).
E’ una tutela che può essere azionata non solo se il licenziamento avviene per motivi
sindacali, ma per qualsiasi ragione avvenga un licenziamento nei confronti di un
dirigente di RSA; ma se il licenziamento avviene per motivi sindacali questa tutela
lascerà il posto alla tutela ex art.28 SL (azione più forte da parte del sindacato).
Oggi sappiamo che la riforma Fornero ha ridotto i casi di reintegrazione (ha introdotto i
4 famosi livelli di tutela per cui non sempre, se il licenziamento è illegittimo, il
lavoratore ha diritto alla reintegrazione), allora ci si è chiesti “invece questa tutela opera
sempre? Si, il dirigente di RSA licenziato dal datore di lavoro potrà sempre, su istanza
sua e del sindacato, ottenere la reintegrazione PROVVISORIA, a prescindere da quale
sia il vizio che si lamenta.
E’ una tutela azionata poche volte perchè più spesso si ricorre alla tutela ex ART.28 SL
(quando il licenziamento è, però, intimato per motivi sindacali).

3. PERMESSI SINDACALI RETRIBUITI AI DIRIGENTI DI RSA (ART.23 SL): spettano


ai dirigenti di RSA, a prescindere dal numero di RSA (quindi spettano integralmente
a ciascun dirigente di RSA); ma c'è un TETTO ai permessi legato al numero dei
dipendenti in azienda (per aziende fino a 200 dipendenti spettano 8 ore al mese per
ciascun dirigente avente diritto; per le aziende con più di 200 dipendenti spetta 1
ora all’anno per ciascun dirigente avente diritto).
In realtà, i contratti collettivi superano queste previsioni perchè fissano, di solito, un
MONTE ORE e prevedono poi dei criteri per l’attribuzione dei permessi (quindi di
fatto si guarda alle norme più favorevoli previste dal contratto collettivo).
Questi permessi sono RETRIBUITI.
Il datore di lavoro “ex ante” non può controllare quale è la finalità per cui viene
chiesto il permesso (quindi, in ogni caso, lo deve concedere); ma “ex post” può
sempre controllare che il permesso sia stato utilizzato per ragioni di tipo sindacale.
Non è il singolo lavoratore che chiede il permesso, ma la richiesta passa attraverso il
sindacato (di regola 24 ore prima del momento in cui viene utilizzato).
Con riferimento allo sciopero nei servizi pubblici essenziali, abbiamo visto che una
delle SANZIONI contro il sindacato che, per esempio proclama uno sciopero
illegittimo, è proprio la sospensione dei permessi sindacali per il periodo
corrispondente.
PERMESSI SINDACALI NON RETRIBUITI (quelli dell’art.24 SL): i dirigenti di RSA possono
assentarsi da lavoro ma SENZA ESSERE PAGATI. Le finalità sono diverse, nel senso che i
dirigenti possono richiedere tali permessi per partecipare a convegni (di interesse
sindacale), a congressi sindacali, a trattative sindacali.
Semplicemente 3 giorni di anticipo (rispetto al momento di utilizzo del permesso) della
richiesta (richiesta sempre tramite sindacato).
Sono previsti 8 giorni all'anno di permesso per ciascun dirigente.
Anche qui il datore di lavoro può svolgere solo controllo successivo (“ex post”) ma non
quello preventivo (“ex ante”).

ART.30 SL (sta fuori dal titolo IIII, quindi il campo di applicazione è più ampio, si applica
anche alle imprese piccole): ci dice che “i dipendenti di un’azienda (ad esempio il mio
caporeparto), che rivestono cariche sindacali esterne (è segretario provinciale del sindacato
della FIOM), hanno diritto di godere di permessi per la partecipazione all'attività del loro
sindacato (anche se è dipendente di un'azienda di piccole dimensioni)”. Qui non si parla
dell'attività di RSA ed RSU, ma si parla dell'attività sindacale di lavoratori che ricoprono
anche una carica sindacale esterna.
Non c'è un numero di permessi prestabilito (o sono i contratti collettivi o altrimenti sarà il
giudice che lo stabilisce secondo equità).
Sono permessi RETRIBUITI.

ASPETTATIVE NON RETRIBUITE PER I DIRIGENTI SINDACALI ESTERNI (ART.31 SL): spetta ai
dirigenti di sindacato che nella loro vita privata sono anche lavoratori subordinati.
Questi soggetti possono mettere in stand-by (per vari anni) la propria attività lavorativa
perchè l'incarico sindacale occupa la maggior parte del loro tempo (e quindi dedicarsi solo
all’attività sindacale).
L’azienda non può negare l'aspettativa, semplicemente “congela” il posto e, poi, nel
momento in cui l'aspettativa cessa dovrà riammettere il lavoratore.
Questo periodo di aspettativa non è retribuito dall'azienda (ma permette comunque di
maturare contributi previdenziali).
Nel periodo di aspettativa il dirigente non si presenta nel posto di lavoro.

4. ART.26 SL SUI CONTRIBUTI SINDACALI: oggi l’art.26 è composto solo dal comma 1
perchè con il Referendum del 1995 sono stati abrogati i commi 2 e 3.
Il COMMA 1 che ci parla di attività di COLLETTAGGIO e di PROSELITISMO (cioè ci
dice che ciascun lavoratore, sui luoghi di lavoro, senza pregiudizio per l'attività di
lavoro può cercare di convincere gli altri lavoratori ad iscriversi al sindacato e
magari raccogliere le quote di iscrizione degli altri lavoratori).
E’ chiaro che questa norma è messa nel posto sbagliato, dovrebbe far parte del TITOLO
II.
In origine, questo articolo prevedeva anche i COMMI 2 e 3 che riguardavano i
CONTRIBUTI SINDACALI/QUOTA ASSOCIATIVA.
Noi sappiamo che tutti i lavoratori che sono iscritti al sindacato (che hanno la tessera
del sindacato) devono pagare la QUOTA ASSOCIATIVA al sindacato.
Per il pagamento della QUOTA ASSOCIATIVA, in origine, era previsto (dai commi 2-3)
per legge l’obbligo per il datore di lavoro (su richiesta eventuale dei dipendenti) di
trattenere direttamente dalla busta paga la quota associativa.
Nel 1995 ci furono referendum contro i sindacati confederali, anche il referendum
sull'art.26 ebbe successo e, perciò, sono stati abrogati il comma 2 e il 3; ne deriva che
oggi non è più previsto, per legge, il diritto dei sindacati di ricevere direttamente
questa trattenuta.
E’ cambiato molto o no? No perché i contratti collettivi (stipulati dai datori e dai
sindacati), oggi, prevedono quello che precedentemente prevedeva l’art.26 (ossia
prevedono l’obbligo del datore di lavoro di effettuare la trattenuta in busta paga).
Ma queste clausole (previste nel contratto collettivo) appartengono alla parte
obbligatoria (regola solo i rapporti tra sindacati firmatari) o a quella normativa (regola i
rapporti tra sindacati e datori di lavoro) del contratto collettivo? La giurisprudenza ci
dice che appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA dei contratti collettivi.
La conseguenza è che, in questo modo, possono vantare questo diritto solo i sindacati
firmatari del contratto collettivo.
Perciò nulla è cambiato, rispetto al 1995, per i sindacati firmatari del contratto collettivo
(questi sindacati hanno sempre diritto a che il datore effettui la trattenuta).
Mentre tutto è cambiato per i sindacati NON FIRMATARI (perchè questi sindacati, oggi,
per effetto del contratto collettivo non avrebbe diritto alla trattenuta); se non che la
Corte di Cassazione ci dice che “il lavoratore subordinato che decide di devolvere una
parte della propria retribuzione al sindacato sta effettuando (rispetto al suo credito
retributivo) una CESSIONE DI CREDITO”. La conseguenza è che la CESSIONE DI
CREDITO non richiede il consenso del debitore ceduto (in questo caso è il datore di
lavoro) e, per questo motivo, è valida anche senza che il datore di lavoro abbia
stipulato il contratto collettivo con quei sindacati che sono beneficiari; a meno che non
sia troppo onerosa/gravosa per il datore di lavoro (se la cessione di credito comporta
delle spese aggiuntive/gravose per il datore di lavoro, allora non può essere fatta
unilateralmente).
Questa tesi è prevalsa rispetto alla tesi opposta che, invece, qualificava questa
operazione come DELEGAZIONE DI PAGAMENTO (delego il datore di lavoro, per conto
mio, a pagare i sindacati); ma la delegazione di pagamento, a differenza della cessione
di credito, richiederebbe il consenso del delegato.
Oggi, quindi, si parla di CESSIONE DI CREDITO (non serve il consenso e quindi i
lavoratori possono pretenderlo anche se i contratti collettivi non hanno previsto nulla).
ALTRA QUESTIONE: la CESSIONE DI CREDITO non potrebbe poi essere revocata (cioè
se io ti cedo il io credito poi non è che me lo posso riprendere) ma, nel nostro caso,
deve essere sempre ammesso per il lavoratore porre fine a questo meccanismo
(sciogliersi da questo obbligo di pagamento); ovviamente nel momento in cui cessa
l'iscrizione al sindacato la Cassazione ci dice che viene meno questo obbligo, non
perchè vi sia REVOCA della cessione di credito, ma semplicemente perchè è venuto
meno il rapporto tra lavoratore e sindacato.

CONTRATTO COLLETTIVO
E’ un ACCORDO tra un GRUPPO DI LAVORATORI ed un singolo datore di lavoro oppure tra
un GRUPPO DI LAVORATORI ed un gruppo di datori di lavoro, per determinare le
condizioni applicabili a ciascun rapporto di lavoro individuale (dal lato dei lavoratori il
soggetto è sempre sindacale).
La parte datoriale è il singolo datore di lavoro quando il contratto collettivo è AZIENDALE
(ma la controparte è sempre collettiva).
Disciplina l' INTERESSE COLLETTIVO (ossia l'interesse professionale di un gruppo di
lavoratori).
Si distingue dal CONTRATTO PLURISOGGETTIVO:
 CONTRATTO COLLETTIVO: disciplina l’interesse PROFESSIONALE DI UN GRUPPO
gestito da un soggetto collettivo.
 CONTRATTO PLURISOGGETTIVO: somma di pattuizioni individuali uniformi,
contenuti in un unico atto sottoscritto dai singoli lavoratori interessati. Non è
sottoscritto da una coalizione sindacale e, quindi, non può aver l'efficacia di un
contratto collettivo e non può derogare “in peius” le condizioni del contratto
collettivo.

COME NASCE IL CONTRATTO COLLETTIVO? Nasce per fissare sostanzialmente i MINIMI di


trattamento (anche per evitare la concorrenza salariale); per sua natura deve quindi essere
INDEROGABILE “in peius” (dall'accordo tra singoli datori di lavoro o lavoratori).
Inoltre il contratto collettivo non stabilisce degli standard di trattamento (non deve
rendere tutti uguali), ma solo dei MINIMI di trattamento inderogabili “in peius” e
derogabili “in meius” (quindi se il singolo riesce ad ottenere delle condizioni migliori ben
venga).
Si compone di una PARTE OBBLIGATORIA e di una PARTE NORMATIVA.
E' stato detto che il contratto collettivo ha “il corpo del contratto e l'anima della legge”
perchè ha natura contrattuale (oggi non è fonte di diritto) ma regola una serie di rapporti
generale ed astratta; è un atto di autonomia privata ma detta regole generali ed astratte.

Non è un CONTRATTO NORMATIVO (ossia con il quale si predispongono le condizioni dei


futuri rapporti tra le parti) perché:
 il contratto collettivo regola anche rapporti in atto (e non solo quelli futuri)
 c’è sempre una sfasatura soggettiva tra chi firma il contratto collettivo (i sindacati) e
i soggetti a cui si applica (i lavoratori)
Non è un CONTRATTO PER ADESIONE (si ha quando, ad esempio, la Banca che predispone
clausole che poi tutti i clienti dovranno accettare; è chiaro che finché il cliente non accetta
quello resta uno schema di rapporti futuri) perché il contratto collettivo, fin dal momento
in cui viene firmato dai sindacati, è vincolante per gli iscritti.

Il contratto collettivo ha assunto varie caratteristiche nel tempo:


 CONTRATTO COLLETTIVO CORPORATIVO/FASCISTA: il contratto collettivo era fonte
di diritto. Era stipulato dal sindacato fascista/corporativo (che aveva la
rappresentanza legale con effetto verso tutti i lavoratori).
Era efficace “erga omnes” ed inderogabile “in peius”.
Ma non era garantita la libertà sindacale.
 CONTRATTO COLLETTIVO ex ART.39 Cost.: l'art.39 ha immaginato un contratto
collettivo capace di coniugare efficacia “erga omnes” e tutela del pluralismo
sindacale (cioè della possibile coesistenza, in ciascuna categoria, di più sindacati
tutti ugualmente dotati della capacità di stipulare il contratto collettivo). La seconda
parte dell'art.39 non è mai stata attuata.
 OGGI il contratto collettivo è un contratto di diritto comune che non può avere
efficacia “erga omnes” ma soltanto efficacia soggettiva limitata.

ART.39 COSTITUZIONE: in questo ambito non ci interessa il COMMA 1 (“l'organizzazione


sindacale è libera”).
Ci interessano i COMMI 2-3-4 che prevedevano che i sindacati dovessero dotarsi di uno
Statuto interno a base democratica; ogni sindacato (che avesse tale Statuto) poteva
ottenere la REGISTRAZIONE da parte di uffici pubblici (questo passaggio non è mai stato
attuato; non sono mai stati creati questi uffici e non è mai stata emanata una legge che
istituisse tale registrazione). Il sindacato registrato avrebbe conseguito la personalità
giuridica ed avrebbe potuto concorrere alla stipulazione del contratto collettivo insieme
con gli altri sindacati registrati nella categoria.
Si sarebbe dovuta formare una rappresentanza unitaria per le trattative; in essa ciascun
sindacato avrebbe pesato in base al numero degli iscritti.
In questo modo si sarebbe ottenuto un contratto collettivo con efficacia “erga omnes”
(verso tutti gli appartenenti alla categoria).
ART.39, COMMI 2-3-4 (MAI ATTUATI): “ai sindacati non può essere imposto altro obbligo
se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
E' condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento
interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria
per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Sistema che non è mai stato attuato per rifiuto dei sindacati perché:
 erano appena usciti dal periodo corporativo/fascista e non volevano sapere di
sottomettersi ai controlli statali/pubblici
 non volevano “contare” il numero degli iscritti (soprattutto nessuno dei sindacati
storici, CIGL-CISL-UIL, sapeva esattamente se era in svantaggio rispetto agli altri; e
quindi l'idea di essere comandato magari dal sindacato maggioritario ha
assolutamente paralizzato questo sistema)
In sostanza non è mai stata emanata una legge che desse attuazione all'art.39 seconda
parte. A questo punto l’art.39, commi 2-3-4, ha rappresentato un ostacolo alla possibilità
per il nostro contratto collettivo di assumere efficacia “erga omnes”.

Un tentativo di aggirare questo ostacolo è stato fatto con la LEGGE VIGORELLI DEL 1959
(che, in realtà, produce ancora oggi effetti). Nel 1959 il Parlamento ha emanato una legge
delega (legge Vigorelli) e ha delegato il Governo a emanare una serie di decreti legislativi
che individuassero i MINIMI DI TRATTAMENTO per i lavoratori di ciascuna categoria; ma,
nel contempo, il Parlamento ha previsto che questi decreti non avessero contenuto libero
ma dovessero recepire il contenuto dei contratti collettivi vigenti. In questo modo si
attribuiva in modo indiretto a quei contratti collettivi l’efficacia “erga omnes” (derivante
dallo strumento del decreto legislativo, il quale ha efficacia “erga omnes” perchè è una
legge).
Questi contratti collettivi con efficacia “erga omnes” sono ancora vigenti (noi, però, non ce
ne accorgiamo perché i MINIMI del 1959 sono ormai superati).

Nel 1960 il Parlamento (visto che l'anno prima era andata bene) ha nuovamente delegato il
Governo a recepire in decreti legislativi i contratti collettivi vigenti.
A questo punto è intervenuta la Corte Costituzionale perché è stata sollevata la questione
se queste 2 leggi (la legge Vigorelli del 1959 e la legge del 1960) fossero o no contrastanti
con l’art.39 Cost, seconda parte (che invece prevedeva che solo il contratto stipulato dai
sindacati registrati e con numero di iscritti pesato avesse efficacia “erga omnes”)?
La Corte Costituzionale ha salvato i contratti collettivi del 1959 (perché si era trattato di
uno strumento eccezionale, limitato nel tempo e quindi compatibile con la Costituzione)
ma ha ritenuto che il tentativo (con la legge del 1960) di stabilizzare questo regime (quindi
di rendere questo il regime ordinario per dare efficacia “erga omnes” al contratto
collettivo) fosse, invece, un tentativo costituzionalmente illegittimo. Oltretutto la Corte
Costituzionale aveva rilevato anche un ECCESSO DI DELEGA (perchè il Governo era stato
delegato a recepire solo i minimi di trattamento economici/normativi; mentre i decreti
legislativi avevano recepito anche la parte obbligatoria dei contratti collettivi senza avere
nessuna delega per questo).
QUESTI CONTRATTI DEL 1959 RIMANGONO IN VIGORE? Si, quei MINIMI possono essere
superati da trattamenti più favorevoli, e per capire se un contratto collettivo è più
favorevole oppure no, la comparazione si fa “per istituti” (non si va a vedere la singola
clausola del contratto collettivo ma se nel complesso tutte le disposizioni che, ad esempio,
regolano le FERIE siano o no più favorevoli rispetto a quelle del contratto successivo); in
questo modo si è ottenuto un po' di margine anche sulla COMPARAZIONE (magari un
successivo contratto ha una norma apparentemente un po' meno favorevole rispetto ad un
aspetto specifico, ma compensata da un'altra norma la questione può essere risolta).
Oggi il CONTRATTO COLLETTIVO (non è fonte di diritto ma atto espressione di autonomia
privata) non ha efficacia “erga omnes” ma ha efficacia soggettiva limitata.
A CHI SI APPLICA?
1. Si applica ai lavoratori e ai datori di lavoro ISCRITTI ai sindacati firmatari del contratto
collettivo stesso.
Se il soggetto è iscritto al sindacato gli si applica il contratto collettivo vigente ed
ovviamente anche i successivi contratti collettivi (che verranno stipulati finché è
iscritto).
Se il soggetto recede dal sindacato, gli effetti del contratto collettivo verranno meno
nei suoi confronti solo dal momento della scadenza del contratto collettivo.
E’ necessario (affinché operi questo meccanismo) che siano iscritti al sindacato sia il
lavoratore che il datore di lavoro? E' necessaria la DOPPIA ISCRIZIONE oppure no?
Bisogna distinguere tra contratti collettivi:
o ACQUISITIVI: contratti con cui si acquisiscono vantaggi/benefici per i
lavoratori.
E’ sufficiente la sola iscrizione del datore di lavoro (anche perché, in realtà,
difficilmente il datore di lavoro praticherà condizioni diverse per gli ISCRITTI e
per i NON ISCRITTI; altrimenti sarebbe come dire “iscrivetevi tutti al
sindacato”).
Ci sono state addirittura delle situazioni in cui il fatto che il datore di lavoro
che avesse applicato condizioni diverse ai NON ISCRITTI, è stato ritenuto una
forma di discriminazione; in realtà sembra un giudizio troppo eccessivo
perchè la ragione per il trattamento differenziato può essere una legittima
scelta del lavoratore di aderire al sindacato.
Inoltre i lavoratori NON ISCRITTI al sindacato, se è iscritto il loro datore di
lavoro, potrebbe sempre e comunque chiedere di ottenere quei benefici
affermando che “il contratto collettivo è un contratto a favore di terzi”.
Quindi non è necessaria la DOPPIA ISCRIZIONE.

o ABLATIVI: contratti con cui si distribuiscono sacrifici.


E’ rilevante l’iscrizione del lavoratore.

2. Si applica ai lavoratori NON ISCRITTI quando al contratto collettivo è stato fatto:

• RINVIO ESPRESSO: ossia nella LETTERA DI ASSUNZIONE (in sede di stipulazione del
contratto). Esempio: io domani vado a colloquio, mi viene fatto sottoscrivere un
contratto di lavoro (ossia vengo assunta), non sono iscritta al sindacato e nemmeno
il mio datore di lavoro, ma mi viene fatto firmare un rinvio (per cui quel determinato
contratto collettivo si applica al mio rapporto).

• RINVIO TACITO: significa che, di fatto, il datore di lavoro nei rapporti con i
dipendenti applica le clausole del contratto collettivo (quindi implicitamente regola i
rapporti facendo rinvio al contratto collettivo). Occorre che il
datore di lavoro applichi gli istituti fondamentali, non proprio tutte le regole del
contratto collettivo. Esempio: vengo assunta e nella mia lettera di assunzione non
c'è scritto niente ma il mio datore di lavoro mi fa fare 5 settimane di ferie invece di 4
(che mi spetterebbero effettivamente), perchè, nei fatti, applica al mio rapporto di
lavoro le regole previste dal quel determinato contratto collettivo.

Altra distinzione:
 rinvio FORMALE: rinvio è riferito al contratto collettivo VIGENTE e a tutti i successivi
rinnovi.
Non è ammesso lo svincolo unilaterale (da questo rinvio) a meno che non si spezzi
la linea contrattuale (vuol dire che se i successivi rinnovi non sono stipulati dagli
stessi sindacati che hanno stipulato questo contratto vigente ma da sindacati
diversi, allora quei successivi contratti non vincolano più il lavoratore).
 rinvio MATERIALE: si fa riferimento ad uno specifico/singolo contratto VIGENTE (non
vale per i successivi rinnovi).

Se le parti non sono iscritte al sindacato e non c'è stato rinvio, si può immaginare una
situazione per cui un lavoratore, che viene assunto per mansioni operaie (di X livello) sia
retribuito ad esempio 300 euro al mese, quando invece il MINIMO retributivo previsto dal
contratto collettivo (per quelle mansioni) è 1.200 euro al mese oppure no? No. Ossia i
MINIMI RETRIBUTIVI (fissati dal contratto collettivo) si applicano anche ai NON ISCRITTI ed
anche in MANCANZA DI RINVIO? Se si, perchè?
La risposta si ricava dall'ART.36 COSTITUZIONE (“il lavoratore subordinato ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto e, in ogni caso,
sufficiente a garantire, a sé e alla propria famiglia, un'esistenza libera e dignitosa”). A tutti i
lavoratori deve essere garantita una retribuzione PROPORZIONATA e SUFFICIENTE, quindi
una RETRIBUZIONE MINIMA (corrispondente alle mansioni che svolgono).
COME E' DETERMINATA LA RETRIBUZIONE MINIMA IN ITALIA? ESISTE UNA NORMA DI
LEGGE CHE STABILISCE I MINIMI RETRIBUTIVI PER OGNI MANSIONE? No.
E allora come viene determinata la RETRIBUZIONE MINIMA (a cui tutti i lavoratori hanno
diritto per Costituzione)? Viene determinata dai GIUDICI utilizzando come parametro di
riferimento i MINIMI CONTRATTUALI (fissati dai contratti collettivi); ecco che,
indirettamente, i minimi RETRIBUTIVI (non quelli contributivi) fissati dai contratti collettivi si
applicano a TUTTI i lavoratori (ma non perchè il contratto ha efficacia “erga omnes” ma
solo perchè viene utilizzato il contratto collettivo, dai giudici, come parametro per
individuare la retribuzione minima sufficiente ex art.36 Cost).

25/10
Oggi il contratto collettivo ha un’EFFICACIA SOGGETTIVA LIMITATA.
Come abbiamo già visto, un PRIMO CRITERIO per verificare a chi si applica il contratto
collettivo è dato dall’ISCRIZIONE al sindacato (i lavoratori danno il mandato al sindacato
per farsi rappresentare; già analizzato); anche se c’è chi dice che non è corretto invocare le
CATEGORIE della rappresentanza, perché è piuttosto il sindacato che avrebbe un potere
originario. Resta comunque il fatto che con l’ISCRIZIONE AL SINDACATO è stabilita
l’efficacia soggettiva limitata verso gli ISCRITTI.
Un SECONDO CRITERIO è quello del RINVIO (può essere ESPRESSO o TACITO. La forma
più comune è quella del RINVIO ESPRESSO; già analizzato); modalità più frequente è il
rinvio ESPRESSO. E’ un altro criterio attraverso il quale si raggiunge l’efficacia soggettiva
limitata del contratto collettivo.

Ma se le parti non sono ISCRITTE al sindacato e non è stato fatto RINVIO, questo significa
che un lavoratore potrebbe ricevere una retribuzione inferiore ai MINIMI previsti dal
contratto collettivo? No, questo in forza dell’ART.36 Cost. che prevede “che tutti i lavoratori
hanno diritto ad una retribuzione PROPORZIONATA alla quantità e qualità del lavoro
svolto, e SUFFICIENTE a garantire a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Come abbiamo già detto in Italia manca una legge che individui i MINIMI RETRIBUTIVI per
ciascun tipo di mansione; se non che i giudici fanno riferimento ai contratti collettivi per
individuare la RETRIBUZIONE MINIMA cui TUTTI i lavoratori subordinati hanno diritto.
Quindi, pur non essendoci un’efficacia “erga omnes” della PARTE ECONOMICA del
contratto collettivo, l’effetto che si raggiunge è che i minimi retributivi si applicano
sostanzialmente a TUTTI i lavoratori.
Alcuni giudici arrivano ad applicare il contratto collettivo a TUTTI i lavoratori anche
facendo leva sull’ART.2099 CC che ci dice che “nel caso in cui non sia pattuito l’importo
della retribuzione, l’importo può essere stabilito dal giudice”; ecco allora che,
sostanzialmente, non solo laddove la retribuzione non è stabilita ma anche laddove la
retribuzione è stabilita ma è inferiore ai minimi, i giudici fanno comunque riferimento a tali
minimi. Ovviamente possono essere attuati degli ADATTAMENTI (ci sono settori in cui, a
volte, i giudici adattano i parametri previsti dal contratto collettivo alla specifica
situazione).
Alcune sentenze ci dicono che i MINIMI (da prendere come riferimento) possono
eventualmente essere anche quelli stabiliti dai contratti collettivi AZIENDALI.

Quando si parla di MINIMI RETRIBUTIVI (fissati dai contratti collettivi) cosa intendiamo?
Intendiamo la RETRIBUZIONE BASE (comprensiva della tredicesima; ma non comprensiva
della quattordicesima, degli scatti di anzianità, di indennità aggiuntive, di premi, ecc..
perché, in riferimento all’art.36 Cost, si deve considerare solo la “retribuzione minima
sufficiente” e, quindi, non tutte le voci della retribuzione).

Quale è il LIMITE di questo tipo di operazione? Per funzionare, serve che il singolo
lavoratore faccia causa al datore di lavoro rivendicando questi minimi, ossia presuppone
l’AZIONE IN GIUDIZIO del lavoratore (ad esempio se ho pattuito con un lavoratore di
dargli 100 e i MINIMI sono 500, se il lavoratore vuole 500 deve farmi causa).
Perciò, il limite di tale tutela è che presuppone l’azione in giudizio (poi, ovviamente, questi
MINIMI saranno applicati solo al lavoratore che ha fatto causa).

Se il datore di lavoro applica a TUTTI i dipendenti solo la PARTE ECONOMICA (sui MINIMI
RETRIBUTIVI) del contratto collettivo, possiamo da questo dedurre il rinvio TACITO
all’intero contratto? Assolutamente no, perché il datore di lavoro applica i minimi perché è
tenuto per legge (in particolare secondo l’art.36 Cost).

I MINIMI RETRIBUTIVI sono, quindi, un TERZO REQUISITO attraverso il quale si raggiunge


l’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo.

QUARTO REQUISITO con il quale si dà efficacia soggettiva limitata al contratto collettivo è


la MANCATA CONTESTAZIONE IN GIUDIZIO DEL CONTRATTO COLLETTIVO. Dobbiamo
premettere che nel processo del lavoro vale il principio di NON CONTESTAZIONE (vuol
dire che la parte che è convenuta in giudizio, nel primo atto difensivo, ha l’onere di
contestare in modo specifico quanto detto dalla controparte; se non lo fa significa che
quelle previsioni sostanzialmente si danno per condivise).
ESEMPIO: datore di lavoro e lavoratore non sono iscritti al sindacato, non c’è rinvio e non
stiamo parlando dei minimi. Il lavoratore fa causa al datore di lavoro e, nella causa,
sostiene che al rapporto si applica il contratto collettivo (quindi, ad esempio, deve avere
diritto a 6 settimane di ferie come previsto dal contratto collettivo).
Cosa succede se il datore di lavoro, nel costituirsi in giudizio, non contesta l’applicabilità
del contratto collettivo a quel rapporto (cioè il datore non nega che a quel rapporto si
applichi il contratto collettivo)? Il contratto collettivo viene INTERAMENTE applicato.

Aldilà di tali requisiti/criteri per dare efficacia soggettiva limitata a contratto collettivo,
COSA FA IL LEGISLATORE?
Il legislatore cerca di incentivare le parti ad applicare il contratto collettivo prevedendo,
tramite apposite leggi, BENEFICI-SGRAVI FISCALI/CONTRIBUTIVI a favore dei datori di
lavoro che VOLONTARIAMENTE applicano il contratto collettivo. Oppure tramite le
cosiddette CLAUSOLE SOCIALI (clausole che prevedono, per esempio, che per partecipare
ad un appalto pubblico, un’impresa debba applicare ai propri dipendenti il contratto
collettivo). Tipica clausola di questo tipo è l’ART.36 SL, che prevede che “le p.a., nei bandi
di gara per gli appalti pubblici, devono inserire le CLAUSOLE SOCIALI in cui obbligano i
partecipanti ad applicare il contratto collettivo ai propri dipendenti”.
Per chi viola tali disposizioni è prevista l’esclusione dai benefici; soprattutto se il datore di
lavoro, prima dichiara di applicare il contratto, e poi non rispetta la clausola, non solo
decade dai benefici ma potrebbe anche essere escluso dagli appalti pubblici per gli anni
successivi.
MA I SINGOLI LAVORATORI ENTRANO IN GIOCO IN TUTTO CIO’? Alcuni dicono che i
singoli lavoratori possono pretendere dal proprio datore di lavoro che rispetti quelle
clausole a cui si è vincolato partecipando al bando.
Altri dicono che i lavoratori sarebbero “terzi” ma potrebbero invocare l’art.1411 cc sul
“contratto a favore di terzo” (perciò loro sarebbero terzi ma potrebbero invocare la tutela
secondo l’art.1411 cc).
Altri ancora (tra cui il Vallebona) sostengono che il datore di lavoro (che ha partecipato al
bando), per FATTI CONCLUDENTI, si è impegnato al rispetto del contratto collettivo (quindi
il datore di lavoro, fruendo dei benefici, di fatto si sarebbe vincolato al contratto collettivo).
Esempio di ciò è la LEGGE FINANZIARIA 296/2006 che ci dice che “per poter avere i
benefici normativii/contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro, i datori
DEVONO applicare ai propri dipendenti il contratto collettivo”.
Quali sono questi BENEFICI NORMATIVI e CONTRIBUTIVI (che si possono ottenere solo se
si applica il contratto collettivo ai propri dipendenti)?
 Agevolazioni (previste per legge) per assunzioni dei disoccupati di lungo periodo
 Agevolazioni per assunzioni dei lavoratori in mobilità
 Agevolazioni per assunzioni dei lavoratori con contratto di inserimento
 Agevolazioni per assunzioni dei lavoratori in Cassa integrazione guadagni.
MA COSA VUOL DIRE APPLICARE IL CONTRATTO COLLETTIVO AI DIPENDENTI? CIOE’
BASTA APPLICARE SOLO LA PARTE ECONOMICA E NORMATIVA DEL CONTRATTO
COLLETTIVO, OPPURE OCCORRE APPLICARE ANCHE LA PARTE OBBLIGATORIA?
PARTE NORMATIVA: regola i rapporti di lavoro sottostanti (ad esempio i lavoratori hanno
diritto a 5 settimane di ferie, anziché 4).
PARTE OBBLIGATORIA: regola i rapporti tra parti stipulanti (quindi tra associazioni dei
lavoratori ed associazioni datoriali, o singolo datore nei contratti aziendali).
La giurisprudenza ci dice che, per usufruire dei benefici/sgravi, occorre che il datore di
lavoro applichi solo la parte NORMATIVA ed ECONOMICA del contratto collettivo (non
serve quella OBBLIGATORIA).

QUALE E’ IL CONTRATTO COLLETTIVO CHE IL DATORE DI LAVORO EVENTUALMENTE DEVE


APPLICARE SE NON E’ ISCRITTO? ANCHE QUELLO DI UN SETTORE MERCEOLOGICO
DIVERSO (da quello proprio)?
Si, ma con dei limiti.
Il punto di partenza è l’ART.2070 cc che ci dice che “ai fini dell’applicazione del contratto
collettivo conta la CATEGORIA MERCEOLOGICA dell’azienda (cioè l’attività svolta
dall’azienda)”; ossia ai lavoratori dipendenti di un’azienda che, per esempio, appartiene al
settore metalmeccanico deve essere applicato il contratto collettivo metalmeccanico.
La giurisprudenza, però, ci dice che questa è una norma riferita solo al contratto collettivo
CORPORATIVO (ma è inapplicabile all’attuale contratto collettivo di diritto comune).
OGGI, sostanzialmente il datore di lavoro può scegliere anche di applicare un contratto
collettivo di una CATEGORIA DIVERSA rispetto a quella merceologica di appartenenza.
Il lavoratore non potrebbe rivendicare l’applicazione delle norme del contratto della
categoria merceologica di appartenenza (nell’esempio era quello metalmeccanico), salvo
che per i MINIMI RETRIBUTIVI e per le norme sull’inquadramento previdenziale
dell’azienda (cioè i MINIMI RETRIBUTIVI e i CONTRIBUTI vengono pagati dall’azienda in
base al settore merceologico di appartenenza).

PROBLEMI PER QUANTO RIGUARDA L’EFFICACIA SOGGETTIVA DI UN CONTRATTO


COLLETTIVO ABLATIVO (ossia che distribuisce sacrifici ai lavoratori, che è peggiorativo).
A CHI SI APPLICA? E’ chiaro che un datore di lavoro vorrà sempre applicare un contratto
collettivo peggiorativo rispetto al precedente; perciò il problema è vincolare i lavoratori.

Come si vincolano i lavoratori? Vari criteri:


 ISCRIZIONE AL SINDACATO DEL LAVORATORE. Se il lavoratore è ISCRITTO gli si
applica il contratto collettivo ablativo (qui conta l’iscrizione del lavoratore, non
quella del datore); chiaramente se il lavoratore si disiscrive/fuoriesce dal sindacato,
cessa nei suoi confronti l’applicazione del contratto collettivo MA solo dal momento
della scadenza dello stesso.
 RINVIO al contratto collettivo (le regole sono le stesse che abbiamo visto per il
contratto acquisitivo). Può essere MATERIALE o FORMALE. Lo svincolo unilaterale
non è ammesso, a meno che non si spezzi la linea contrattuale (cioè si rompe l’unità
di azione dei sindacati).
Se la linea contrattuale si spezza o il sindacato dissenziente riesce (a sua volta) a
stipulare un altro contratto collettivo oppure quei lavoratori non potranno neanche
rivendicare la parte eventualmente favorevole del contratto.
Spieghiamo meglio: un contratto collettivo comprende molte clausole (alcune sono
più favorevoli ed altre meno); se c’è il rifiuto del contratto collettivo, non si può mai
dopo pretendere l’applicazione delle poche clausole favorevoli del contratto stesso.
Anche se, c’è stata qualche sentenza (ma NON CONDIVISIBILE) che (sempre nel
CASO DIAT-FIOM) riguardava delle situazioni in cui i lavoratori avevano preteso di
non vedersi applicato il contratto separato (previsto dalla FIM e dalla UILM) e di
ottenere degli aumenti retributivi; questo non era possibile (qualche giudice, invece,
ha detto di sì perché sarebbe discriminatorio non riconoscere anche questo ai
lavoratori).

Se non c’è né iscrizione né rinvio, come si ottiene il consenso dei lavoratori dissenzienti?
 PRIMO METODO (Vallebona): condizionare l’assunzione all’accettazione del rinvio
nella lettera di assunzione/della linea contrattuale (io ti assumo solo se tu accetti
che nella lettera di assunzione ci sia il rinvio).
 SECONDO METODO (Vallebona): condizionare il mantenimento dell’occupazione, in
certi casi, all’accettazione della linea contrattuale da parte del lavoratore (quindi o il
lavoratore accetta il contratto collettivo ablativo o perde il lavoro)

In passato la giurisprudenza aveva ritenuto che il contratto aziendale, anche se ablativo


(ossia peggiorativo), fosse comunque efficace verso TUTTI i lavoratori perché:
 O regola materie che sono INDIVISIBILI (che necessariamente devono essere
regolate per tutti i lavoratori; ad esempio la materia dell’orario); ma questa prima
teoria non è accettabile.
 O è sottoscritto dalle RSU (che sono elette da TUTTI i lavoratori).
Anche questa tesi è stata smentita dalla giurisprudenza perché non c’è nessuna
legge che ci dica che con il voto alla RSU i lavoratori danno un mandato; inoltre non
tutti i lavoratori sono obbligati a partecipare all’elezione della RSU.
E’ preferibile ritenere che il contratto collettivo stipulato dalle RSU vincoli solo i
lavoratori ISCRITTI ai sindacati che hanno presentato le liste per l’elezione della RSU
(quindi, se in azienda si ha un contratto collettivo stipulato dalle RSU, quel
contratto, anche se aziendale, non si applica ai lavoratori che sono iscritti ad un
altro sindacato, non rappresentato nelle RSU, e che hanno condiviso il dissenso di
quel sindacato).
Esempio: contratto separato stipulato (in FIAT) solo dalla FIAT con Fim e Uilm. Ci
sono dei lavoratori iscritti a FIOM che manifestano il loro dissenso rispetto a quel
contratto. Quel contratto non si applica ai lavoratori iscritti alla FIOM.

In realtà, se leggiamo l’ACCORDO INTERCONFEDERALE (T.U. del 2014 sulla


rappresentanza sindacale) troviamo delle affermazioni diverse perché questo
accordo (stipulato da Confindustria, CIGL, CISL, UIL) ci dice proprio quale è l’efficacia
soggettiva del contratto collettivo stipulato dalle RSU e del contratto collettivo
stipulato dalle RSA (cioè l’accordo, per la prima volta, esplicitamente riconosce che il
contratto aziendale può essere stipulato dalle RSU, ma anche dalle RSA).
Allora il T.U. del 2014 ci dice che il contratto aziendale stipulato da RSU, se stipulato
a maggioranza dei componenti delle RSU, si applica a TUTTI i lavoratori.
Sempre il T.U. del 2014 ci dice che, invece, se il contratto collettivo aziendale è
stipulato dalla RSA, per essere applicabile a TUTTI i lavoratori deve essere stipulato
da tante RSA che (nel loro insieme) raccolgano la maggioranza delle deleghe date
dai lavoratori per il pagamento della quota associativa nell’anno precedente (infatti i
lavoratori possono chiedere al datore di trattenere alla busta paga i contributi
sindacali); però è sempre possibile un REFERENDUM che sia promosso o dal 10%
dei lavoratori o da un sindacato, per spazzare via il contratto.
Questo contratto stipulato dalle RSU (a maggioranza) o dalle RSA (a maggioranza
delle deleghe) si applica davvero a TUTTI i lavoratori (come troviamo scritto nel T.U.
del 2014) oppure a monte c’è un’efficacia soggettiva comunque limitata? Non è una
vera e propria efficacia “erga omnes” perché, comunque, l’efficacia soggettiva
risente della fonte negoziale (accordo interconfederale) che non può vincolare se
non gli aderenti.

 è stipulato dai SINDACATI COMPARATIVAMENTE PIU’ RAPPRESENTATIVI.


Anche questa tesi non va bene; sarebbe violato l’art.39 Cost.
 O è stipulato in ASSEMBLEA. Nemmeno questa tesi va bene (non c’è nessuna norma
che ci dica questo).

ALLORA QUALI SONO I CONTRATTI COLLETTIVI ABLATIVI CHE SI APPLICANO A TUTTI I


DIPENDENTI? Si, ci sono 3 tecniche per arrivare a dare efficacia verso tutti ad un contratto
collettivo ablativo:
1. LEGGE: secondo Vallebona la legge può, in una certa materia, dettare delle regole
identiche/analoghe a quelle previste dai contratti collettivi (una specie di
RECEZIONE MATERIALE del contenuto dei contratti). In questo caso questa tecnica è
legittima perché non si ha un rinvio totale ai contratti collettivi e alle successive
modifiche, ma solo la legge che può disciplinare quelle materie (visto che non è una
riserva a favore dei sindacati) in modo identico a come le disciplinano i contratti
collettivi.
2. ATTO AMMINISTRATIVO: certi casi in cui l’atto amministrativo, che di per sè ha
efficacia generale, si intreccia con il contratto collettivo ((per esempio in materia di
ammissione alla Cassa integrazione oppure in materia di controlli a distanza; per
esempio in riferimento a quest’ultima materia si richiama l’ART.4 SL che dice che
“quegli strumenti di controllo (come le telecamere sui luoghi di lavoro) che sono
diretti a tutela del patrimonio aziendale e produttivo, ma dai quali indirettamente
può derivare il rischio del controllo dei lavoratori, possono essere installati previo
accordo con le RSA o (in mancanza) previa autorizzazione dell’Ispettorato del
lavoro”. Qui, evidentemente, è l’atto di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro che
consente l’installazione, e quei vincoli/limiti qui derivano dall’applicazione dell’ATTO
AMMINISTRATIVO (che qui riproduce la sua efficacia nei confronti di TUTTI i
lavoratori).
3. POTERE LIBERO DEL DATORE DI LAVORO: serve (per essere applicabile a TUTTU i
lavoratori) che il contratto collettivo non faccia altro che condizionare un potere (del
datore) che, in mancanza di un contratto collettivo, il datore di lavoro potrebbe
comunque esercitare verso TUTTI i dipendenti (quindi l’effetto “erga omnes” non
deriva dal contratto collettivo, ma deriva dal fatto che comunque il datore di lavoro
avrebbe quel potere verso tutti).
Esempio: ANTICIPAZIONI DEL TFR: sappiamo che dopo determinati anni alle
dipendenze di uno stesso datore di lavoro, il lavoratore può chiedere l’anticipazione
di una quota di TFR; se il datore di lavoro ha troppe domande tutte insieme, può
scegliere a chi dare l’anticipazione e a chi no (perché le domande devono essere
accolte entro il 10% degli aventi titolo e il 4% del totale dei dipendenti).
Allora, se un contratto collettivo aziendale stabilisce delle regole di priorità (tra
dipendenti) a chi si applica? Solo ad una parte dei dipendenti e agli iscritti, o a
TUTTI? Esso si applica comunque a TUTTI i lavoratori perché, se non ci fosse il
contratto collettivo, il datore di lavoro potrebbe scegliere a chi dare l’anticipazione
(chiaramente nel rispetto dei principi generali di buon andamento, non
discriminazione, ecc..); quindi, tornando all’esempio, il contratto collettivo aziendale
che prevede delle regole di priorità nella distribuzione delle anticipazioni del TFR, si
applica comunque a TUTTI i lavoratori, non perché sia efficace “erga omnes”, ma
perché semplicemente limita il potere del datore di lavoro (che, se non ci fosse il
contratto collettivo, potrebbe essere esercitato verso tutti i dipendenti).

La Corte Costituzionale ha fatto questo stesso ragionamento anche con riferimento


dei CRITERI DI SCELTA nel caso dei LICENZIAMENTI COLLETTIVI; tuttavia Vallebona
ritiene che, in questo ambito, questo ragionamento non sia corretto.
Ricordiamo la disciplina dei CRITERI DI SCELTA in caso di LICENZIAMENTI
COLLETTIVI: in caso di licenziamento COLLETTIVO i lavoratori possono essere
licenziati, ma nell’ambito di determinati CRITERI DI SCELTA (art.5 T.U. ci dice che
sono stabiliti dai contratti collettivi); ma, in mancanza di contratto collettivo,
valgono i TRE CRITERI LEGALI (in base ai quali vengono scelti i lavoratori da
licenziare):
1. Anzianità di servizio
2. Carichi di famiglia
3. Esigenze tecnico-organizzative e produttive
Allora se c’è il contratto collettivo (che determina i criteri di scelta), si applica solo
agli ISCRITTI o a TUTTI i dipendenti? Chiaramente questo contratto collettivo si
applica a tutti i dipendenti perché (secondo quanto detto dalla Corte
Costituzionale):
 è un contratto collettivo GESTIONALE. Infatti l’art.39 della Costituzione e i
suoi limiti valgono solo per i contratti collettivi NORMATIVI e questo non è
un contratto NORMATIVO; è piuttosto un contratto collettivo GESTIONALE
che ha efficacia verso tutti perché serve a gestire la crisi e sostanzialmente
procedimentalizza un potere LIBERO del datore di lavoro che, in mancanza
del contratto, potrebbe essere esercitato verso tutti (in sostanza il datore
potrebbe scegliere chi licenziare, invece viene vincolato da contratto
collettivo).
La CRITICA (di Vallebona, ed è vera) è che se non ci fosse il contratto
collettivo il potere del datore di lavoro comunque non sarebbe libero perchè
sarebbe vincolato dai 3 criteri legali (qui siamo di fronte ad un potere, in ogni
caso, vincolato e perciò non si può applicare quel ragionamento).
ESEMPIO: ci sono 20 persone da licenziare e il contratto collettivo dice che si
devono licenziare quelli prossimi alla pensione; se non ci fosse il contratto
collettivo non sarebbero licenziati i prossimi alla pensione ma sarebbero
licenziati altri lavoratori in base ai 3 criteri legali.

CONTRO OBIEZIONE ALLA CRITICA DI VALLEBONA: la Corte Costituzionale


dice che i contratti collettivi non DEROGANO ai criteri legali, ma INIBISCONO
che vengano in gioco i criteri legali (per questa via, effettivamente, non
varrebbe la tesi di Vallebona).
 la sua efficacia si fonda sul RINVIO LEGALE (secondo la giurisprudenza è la
stessa legge 223/1991 sui LICENZIAMENTI COLLETTIVI espressamente fa
rinvio a questi contratti collettivi).

Ancora la giurisprudenza dice che il contratto collettivo NON SEMPRE HA FUNZIONE


NORMATIVA (ossia di disciplinare i rapporti di lavoro), a volte il contratto collettivo assolve
a funzioni diverse; appunto se assolve a funzioni diverse (per esempio è delegato dalla
legge ad intervenire in certe materie), non varrebbe l’ostacolo dell’ART.39 (cioè il problema
dell’efficacia soggettiva limitata dell’art.39 varrebbe solo rispetto alla funzione
NORMATIVA del contratto collettivo; mentre il contratto collettivo assolve anche a funzioni
diverse, ad esempio esso contribuisce a completare la disciplina di legge quando la legge
rinvia al contratto- questa funzione potrebbe benissimo essere assolta senza problemi di
efficacia soggettiva). Quindi il contratto collettivo quando assolve a funzioni DIVERSE
(rispetto a quella normativa) potrebbe avere efficacia “erga omnes” (senza violare l’art.39).
Quando la legge rinvia al contratto collettivo si devono distinguere 2 situazioni:
 RINVIO PROPRIO: si ha quando il contratto collettivo è, per esempio, autorizzato a
derogare alla legge, a sostituire la norma di legge. Spesso il rinvio, in questi casi, è al
contratto stipulato dai soli “sindacati comparativamente più rappresentativi”; questo
significa che, in questi casi, gli unici contratti collettivi che possono derogare alla
legge sono quelli stipulati dai “sindacati comparativamente più rappresentativi”
(mentre un contratto collettivo stipulato da un altro sindacato non potrebbe
derogare alla legge).
In questi casi viene concesso di derogare alla legge solo ai “sindacati
comparativamente più rappresentativi” perché si tratta di assolvere ad un “quid
pluris” (cioè un qualcosa in più) rispetto alla normale funzione del contratto
collettivo.
 RINVIO IMPROPRIO: quando la legge rinvia ai contratti collettivi non perché
deroghino/sostituiscano certe norme di legge, ma semplicemente perché
REGOLINO una materia.
ESEMPIO: d.lgs.66/2003 (sull’orario di lavoro) dice che i contratti collettivi possono
individuare quali lavoratori che non sono obbligati a svolgere lavoro notturno. In
questo caso si tratta di contratti stipulati solo dai “sindacati comparativamente più
rappresentativi”, oppure da TUTTI i sindacati? Da TUTTI i sindacati (perché il
contratto non sta assolvendo ad una funzione delegata, ma stabilisce
semplicemente una norma di miglior favore e perciò qualsiasi sindacato può
assolvere a questa funzione).
Se la norma di legge rinviasse ai soli “sindacati comparativamente più
rappresentativi” dovrebbe essere, invece, interpretata come POSSIBILE solo nel
senso di essere riferita a tutti i sindacati (altrimenti bisognerebbe dire che è
incostituzionale la limitazione di questa facoltà ai soli “sindacati comparativamente
più rappresentativi”).

ALTRA PRECISAZIONE (sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo): tutto quello che
abbiamo detto finora su questo tema è un po' messo in crisi dall’ART.8 del D.L.138/2011
(decreto Sacconi). Esso ha introdotto i cosiddetti CONTRATTI DI PROSSIMITA’ (ossia
particolari contratti collettivi decentrati, o territoriali o aziendali, che, in certe materie e a
certi fini, possono disciplinare la materia con efficacia nei confronti di TUTTI i lavoratori;
inoltre questi contratti possono derogare “in peius” sia al contratto collettivo nazionale che
alla legge).

IL CONTRATTO COLLETTIVO/IL SINDACATO (oltre a REGOLARE rapporti di lavoro) PUO’


ANCHE DISPORRE DEI DIRITTI DEI LAVORATORI? No, nel senso che il mandato che si dà al
sindacato, con l’iscrizione, è un mandato a REGOLARE, non è un mandato a DISPORRE dei
diritti dei lavoratori.
Ecco perché, sostanzialmente, un contratto collettivo che, invece, pretende di disporre dei
diritti dei singoli non vincola i lavoratori (neanche gli ISCRITTI), salvo che non ci sia un
mandato specifico apposito o una ratifica successiva. Questo spiega perché nell’ambito di
licenziamenti collettivi, quando vengono sottoscritti degli accordi (che prevedono, per
esempio, il demansionamento dei lavoratori) sostanzialmente si chiede la citazione da
parte dei lavoratori iscritti a questi accordi, con la loro successiva ratifica.

26/10

EFFICACIA OGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO: QUALE E' IL RAPPORTO TRA


CONTRATTO COLLETTIVO E IL CONTRATTO INDIVIDUALE?
Il rapporto tra contratto COLLETTIVO e contratto INDIVIDUALE è sempre quello di
inderogabilità "in peius" e di derogabilità "in melius" del contratto collettivo da parte del
contratto individuale.
L'inderogabilità “in peius” è una caratteristica "coessenziale" del contratto collettivo (nel
senso che il contratto collettivo nasce proprio con la funzione di impedire la concorrenza
sotto salariale tra i lavoratori).

Ma da quali norme viene attribuita al contratto collettivo questa sua caratteristica di


INDEROGABILITA’ “in peius”?
Nel PERIODO CORPORATIVO: il contratto collettivo era espressamente definito
INDEROGABILE dall’ ART.2077 cc.
Per il CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE (quello attuale): ci sono state varie
tesi (che hanno tentato di spiegare perchè i singoli lavoratori e datori di lavoro non
possono derogare "in peius" al contratto collettivo laddove si applica, ossia dentro al
campo di applicazione soggettivo del contratto):
1. l'inderogabilità “in peius” del contratto collettivo da parte del contratto individuale
discenderebbe dall' ART.1726 cc (regole sul mandato collettivo).
Questo articolo ci dice che "quando il mandato (nel nostro caso a negoziare) è
conferito, da più persone e con un unico atto, per un interesse comune/collettivo,
non può essere revocato se non con il consenso di tutti i mandanti"; secondo
questa teoria il contratto COLLETTIVO non sarebbe derogabile “in peius” dal
contratto INDIVIDUALE come conseguenza dell’applicazione di tale regola (cioè
questa regola dell'irrevocabilità non varrebbe solo per il conferimento del mandato,
ma anche per la DEROGA del contratto collettivo).
Questa teoria non basta (non è sufficiente a giustificare l'inderogabilità REALE del
contratto collettivo, cioè l’effetto per cui le clausole del contratto INDIVIDUALE, che
sono peggiorative, vengono sostituite di diritto dalle clausole del contratto
collettivo).
2. l'inderogabilità “in peius” sta nell'ADESIONE AL SINDACATO, perchè con essa il
singolo lavoratore dismette i propri poteri di contrattazione e li conferisce al
sindacato.
Anche questa tesi non va bene perchè non spiega l'inderogabilità REALE del
contratto collettivo (cioè l’effetto della sostituzione automatica delle clausole del
contratto COLLETTIVO a quelle peggiorative del contratto INDIVIDUALE).
3. TEORIE ETERONOME: l’inderogabilità “in peius” del contratto collettivo si fonda sull’
ART.39 Costituzione (la prevalenza del contratto COLLETTIVO su quello
INDIVIDUALE starebbe su quella specie di gerarchia che questo articolo
implicitamente stabilisce tra l’autonomia COLLETTIVA ed autonomia INDIVIDUALE).
4. TEORIA DEI PERSIANI: l’iderogabilità “in peius” sta nel POTERE DI CONTRATTAZIONE
(che è un potere ORIGINARIO del sindacato).
La prevalenza del contratto COLLETTIVO su quello INDIVIDUALE deriverebbe dal
fatto che l’ordinamento attribuisce al sindacato proprio questo POTERE DI
CONTRATTAZIONE.
TUTTE QUESTE TEORIE NON SONO ACCOLTE.
La GIURISPRUDENZA, per spiegare perchè il contratto COLLETTIVO è inderogabile "in
peius" da parte del contratto INDIVIDUALE richiama proprio l'ART.2077 cc.
Questo articolo dice che: "i contratti di lavoro individuali devono uniformarsi alle
disposizioni dei contratti collettivi. Se non lo fanno le clausole peggiorative dei contratti
individuali sono sostituite di diritto da quelle migliorative dei contratti collettivi, fatte salve
solo le clausole dei contratti individuali che contengono speciali condizioni più favorevoli
ai lavoratori”.
ESEMPIO: contratto COLLETTIVO che prevede 5 settimane di ferie e contratto INDIVIDUALE
in cui da un lato si richiama il contratto collettivo mentre dall’altro prevede solo 4
settimane di ferie. Allora le clausole del contratto COLLETTIVO (che prevedono 5 settimane
di ferie) si sostituiscono di diritto alle clausole del contratto INDIVIDUALE (che prevedono
solo 4 settimane di ferie).
QUALE E’ IL PROBLEMA? Il problema è che l'art.2077 cc era riferito al contratto collettivo
corporativo e quindi la dottrina dice che questa norma non è riferibile al contratto
collettivo di diritto comune perchè incompatibile con la sua natura.
Ciò nonostante la giurisprudenza, ancora oggi, continua ad affermare che la prevalenza del
contratto COLLETTIVO sul contratto INDIVIDUALE si fonda sull’art.2077 cc.

Una soluzione normativa più sicura si è avuta nel 1973 quando è stato modificato
l'ART.2113 cc sulle RINUNCE E TRANSAZIONI (esempio è quello di un lavoratore che abbia
un credito arretrato per straordinari e rinuncia ai suoi diritti; questo articolo ci dice che "le
rinunce e le transazioni (poste in essere dal lavoratore) che hanno ad oggetto diritti,
derivanti da norme di legge inderogabili dal contratto collettivo, non sono valide, e il
lavoratore deve impugnarle stragiudizialmente entro 6 mesi o dalla fine del rapporto o
dalla rinuncia (se questa è successiva)”; notiamo che le norme del contratto collettivo
vengono espressamente definite come NORME INDEROGABILI.
Quindi OGGI è l'art.2113 che (implicitamente) riconosce che il contratto collettivo contiene
norme/clausole inderogabili dal contratto individuale.
Perciò il fondamento dell’inderogabilità “in peius” si ricava proprio dall’ ART.2113 cc.

IL CONTRATTO COLLETTIVO E’ DEROGABILE “IN MELIUS” (cioè il CONTRATTO INDIVIDUALE


può sempre stabilire condizioni migliorative rispetto al CONTRATTO COLLETTIVO)? Si,
questo si ricava dalla circostanza che il contratto COLLETTIVO non ha la funzione di
stabilire uno standard di trattamento (uguale per tutti), ma ha la funzione di stabilire solo
un MINIMO di trattamento (al di sopra di tale minimo, se un lavoratore riesce a strappare
condizioni di miglior favore ben per lui, non c’è alcun problema).
Nel periodo corporativo non era esattamente così, perchè l'art.2077 cc ci diceva che
prevalevano sul contratto COLLETTIVO le clausole del contratto INDIVIDUALE che
contenessero speciali condizioni più favorevoli (quindi si diceva che erano fatte salve solo
quelle condizioni migliorative che erano fondate sulle qualità personali del soggetto).

Questo ragionamento ci torna utile in tema di SUPERMINIMI (che è molto utile per chi
viene assunto con un contratto collettivo e apparentemente ha un trattamento di gran
favore).
Esempio: i minimi retributivi del contratto collettivo prevedono che per mansioni di
segretaria io riceva 1.000 euro; in sede di assunzione io (che ho una forza contrattuale
notevole) riesco a strappare un trattamento di 1.100 euro, quindi un SUPERMINIMO di 100
euro rispetto al contratto collettivo.
Dopo 3 anni viene rinnovato il contratto collettivo e i MINIMI retributivi/contrattuali (di
quella categoria) passano da 1.000 a 1.100 euro, quale è la sorte della mia retribuzione?
Cioè io riceverò sempre 1.100 euro (perché il mio superminimo si riassorbe nell’aumento
contrattuale) o avrò diritto a 1.200 euro (perché il mio superminimo galleggia sull’aumento
contrattuale)? Bisogna distinguere tra:

 SUPERMINIMI ASSORBIBILI nei successivi aumenti contrattuali: di regola è quello


GENERICO (ossia quel superminimo riconosciuto senza alcun riferimento a capacità
specifiche del soggetto, a meno che non sia espressamente pattuita la NON
RIASSORBIBILITA’).
 SUPERMINIMI NON RIASSORBIBILI nei successivi aumenti contrattuali: di regola è
quello "AD PERSONAM" (cioè quel superminimo che le parti hanno espressamente
legato/giustificato a specifici capacità/meriti del lavoratore).
Sempre meglio concordare la NON RIASSORBIBILITA’ nel momento in cui si riceve il
superminimo.
Lo stesso succede nel caso di PROMOZIONE AUTOMATICA (il lavoratore addetto per più di
6 mesi alla mansione, ha appunto diritto alla promozione automatica); a questo punto, di
regola, il trattamento individuale viene RIASSORBITO nel trattamento/contratto collettivo
per mansione superiore.
MA COME SI FA A CAPIRE SE IL CONTRATTO INDIVIDUALE E' MIGLIORATIVO O
PEGGIORATIVO RISPETTO AL CONTRATTO COLLETTIVO (cioè il CONFRONTO tra questi 2
contratti come va fatto)? Ci sono diversi metodi:

 metodo del CONGLOBAMENTO: la comparazione (per capire quale dei 2 contratti è


meglio) va fatta tra il contratto collettivo nella sua globalità e il contratto individuale
nella sua globalità (quindi bisogna verificare se nel loro insieme tutte le clausole
danno luogo ad un trattamento migliorativo o peggiorativo). Non è questa la teoria
che viene seguita.
 metodo del CUMULO: sostanzialmente bisognerebbe fare il confronto tra le singole
clausole e scegliere, caso per caso, le migliori (quindi sarebbe sempre applicabile
quella clausola che, rapportata a quella corrispondente dell’altra tipologia di
contratto, è la migliore).
La giurisprudenza dice che la comparazione va fatta "PER ISTITUTI" (quindi se io considero
la RETRIBUZIONE non devo guardare le singole voci, scatti/tredicesima/indennità, ma devo
fare un confronto tra la retribuzione complessivamente prevista dal contratto COLLETTIVO
e quella prevista dal contratto INDIVIDUALE).
Anche se ci sono certi contratti COLLETTIVI che prevedono clausole di INSCINDIBILITA’ e
che prevedono che non sia possibile il CUMULO con nessun’altra fonte; in questo caso sarà
quindi possibile la sola applicazione del contratto COLLETTIVO e non sarà possibile nessun
confronto tra istituti.

EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO (fino a quando produce il suo effetto
il contratto collettivo)?
Il codice civile, nell'ambito del contratto collettivo corporativo, nell'ART.2074 prevedeva la
regola della ULTRA-ATTIVITA' del contratto collettivo (cioè il contratto collettivo
CORPORATIVO aveva un termine di scadenza; ma, se decorso quel termine, non era stato
stipulato il successivo contratto collettivo, quello precedente PROVVISORIAMENTE
continuava a produrre i suoi effetti fino a quando non veniva sostituito da quello
successivo). In pratica non ci poteva mai essere un vuoto di disciplina (infatti il contratto
collettivo era una FONTE DI DIRITTO, perciò non era possibile immaginare un vuoto
legislativo fra la scadenza del contratto e la stipulazione di quello successivo).
Questa regola, però, non è applicabile al moderno contratto collettivo di diritto comune
(perché è un contratto e non più una legge).

FINO A QUANDO SI CONTINUA AD ESSERE VINCOLATI DAL CONTRATTO COLLETTIVO (di


diritto comune)? Bisogna fare una distinzione tra ACCORDO INTERCONFEDERALE e
CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE.
CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE: ha un TERMINE, oggi (di regola) è di 3 anni. Ma
esistono anche contratti collettivi A TEMPO INDETERMINATO (per es. l'accordo
interconfederale sulle rappresentanze sindacali in Italia; non ha un termine preciso, vale
fino a quando sarà rispettato).

CONTRATTO COLLETTIVO A TERMINE: produce effetti fino al momento della sua scadenza.
Oggi NON E’ ULTRA ATTIVO (cioè non produce effetti anche dopo la scadenza, finché non
viene stipulato quello successivo), tranne quando le parti espressamente lo stabiliscono.
OGGI quasi tutti i contratti collettivi prevedono che, alla scadenza, il contratto continui a
produrre effetti. Questo perché prima della scadenza si aprono le trattative per il rinnovo
(ci dovranno essere “piattaforme” che vengono presentate dai sindacati e si cercherà di
chiudere il rinnovo); ma, tra la scadenza del precedente contratto e il momento in cui si
raggiunge l’accordo e si stipula il contratto ci potrebbe essere un periodo di VACANZA
CONTRATTUALE (ossi di mancanza di un contratto collettivo). Allora se il contratto
precedente espressamente prevede l’ULTRA ATTIVITA’, chiaramente fino alla stipula del
successivo contratto continueranno ad applicarsi le regole del vecchio contratto collettivo;
e la giurisprudenza ci dice che se il contratto collettivo è AZIENDALE non serve neanche
una clausola espressa di ultra attività, ma la volontà del datore di lavoro di continuare ad
applicare il contratto collettivo (anche dopo la scadenza) si può desumere dal suo
comportamento concludente (che, di fatto, abbia continuato a dare continuazione al
contratto collettivo precedente anche dopo la scadenza).

C’è il problema dei MINIMI RETRIBUTIVI (cioè se anche il contratto collettivo non
prevedesse espressamente una clausola di ultra attività, dovremmo immaginare che i
lavoratori siano privi di una tutela tra la scadenza del vecchio e la stipulazione del nuovo
contratto, per quanto riguarda il TRATTAMENTO ECONOMICO)? No, perché comunque
vale il solito ART.36 Cost. e quindi la tutela dei MINIMI CONTRATTUALI/RETRIBUTIVI è
comunque assicurata ai lavoratori.

E’ chiaro che se tra il vecchio e il nuovo contratto collettivo passano moltissimi mesi, ci
potrebbe essere un problema di PERDITA DEL POTERE DI ACQUISTO DEI SALARI; allora il
vecchio accordo/protocollo del 1993 aveva previsto l' INDENNITA' DI VACANZA
CONTRATTUALE (cioè aveva previsto che, scaduto il vecchio contratto e passati 3 mesi di
trattative senza essere arrivati alla stipula del nuovo contratto, i lavoratori avessero diritto a
ricevere IN BUSTA PAGA, fino alla stipula del nuovo contratto, un’indennità commisurata
all’aumento del costo della vita; quindi un’indennità pari al 30% del tasso di inflazione
programmato per il PRIMO PERIODO, e pari al 50% per il PERIODO SUCCESSIVO);
chiaramente erano anni in cui l’inflazione era molto alta.
OGGI (visto che la situazione non è più così) questa indennità è stata sostituita con
l'INDICE IPCA (che è commisurato al costo di certi beni).

CONTRATTO COLLETTIVO NON HA TERMINE/A TEMPO INDETERMINATO: ad esempio


accordo sulle rappresentanze sindacali unitarie.
E' possibile, per ciascuna parte stipulante (sindacato firmatario), recedere
UNILATERALMENTE o è necessario l'accordo di tutti i firmatari per porre fine al contratto
collettivo? La giurisprudenza ammette la DISDETTA UNILATERALE (insomma afferma che
non è possibile che il sindacato assuma su di sé un vincolo perpetuo e quindi è sempre
possibile liberarsi unilateralmente, anche se la controparte non è d’accordo).
Questa idea si fonda sull' ART.1373, comma 2, cc (dice che "se è attribuita ad una delle
parti la facoltà di sciogliersi dal contratto, questa facoltà può essere esercitata solo fino al
momento in cui non è iniziata l’esecuzione; però (2°COMMA) se il contratto è a tempo
INDETERMINATO, questa facoltà (di disdetta unilaterale) può essere esercitata anche dopo
che c’è stato l’inizio dell’esecuzione ma semplicemente non produrrà effetto per le
prestazioni già eseguite").
Tutto sta nell’interpretazione che viene data all’inciso “TALE FACOLTA’”:
 secondo la giurisprudenza essa è sempre riconosciuta perché non sono
ammessi vincoli perpetui (cioè se il contratto è a tempo indeterminato la
parte che si è assunta il vincolo deve sempre potersi liberare
unilateralmente).
 Vallebona, invece, ci dice che questo inciso “tale facoltà” deve essere
interpretato in raccordo al 1° comma, quindi tale facoltà si considera solo
“quando è attribuita” (perciò se non è espressamente prevista la possibilità di
svincolo unilaterale, il sindacato firmatario non potrebbe sciogliersi dal
contratto collettivo a tempo indeterminato).
In ogni caso, praticamente TUTTI gli accordi interconfederali stipulati a TEMPO
INDETERMINATO contengono una clausola in cui è espressamente prevista la FACOLTA’ DI
DISDETTA UNILATERALE (per esempio con un preavviso di 3 mesi); quindi è un problema
che concretamente non è più di tanto rilevante.

IL CONTRATTO COLLETTIVO PUO’ CONTENERE CLAUSOLE RETROATTIVE? PUO’


PREVEDERE ANCHE PER IL PASSATO? Sicuramente si, se le clausole retroattive sono PIU’
FAVOREVOLI ai lavoratori si ammette che possano essere inserite nel contratto collettivo.
Se, invece, le clausole retroattive sono PEGGIORATIVE per i lavoratori, ugualmente si dice
che può essere inserita nel contratto collettivo MA devono essere fatti salvi i cosiddetti
DIRITTI QUESITI (nel senso di “acquisiti”, quindi quei diritti che sono già entrati a far parte
del patrimonio del lavoratore).

CASO: azienda Alfa non iscritta al sindacato ma comunque aveva dato costante
applicazione al contratto collettivo (in particolare ad uno stipulato il 30.03.2015 con
scadenza al 31.12.2017). Ad un certo punto questa azienda (con una lettera) comunica ai
sindacati che non intende più applicare quel contratto collettivo ma quello di un settore
merceologico diverso.
I sindacati agiscono ex art.28 SL. L’azienda si difende richiamando, in primo luogo,
l’ART.2070 cc (dicendo che “ciascuna azienda è libera di applicare il contratto collettivo di
un settore merceologico diverso, salvo che rispetti i minimi retributivi e l’inquadramento
previdenziale del settore di appartenenza”). Il Tribunale di Roma dà ragione ai sindacati e
spiega che, pur essendo libero in origine il datore di lavoro di scegliere di applicare un
contratto o l’altro, nei fatti aveva espresso un rinvio TACITO proprio a quel contratto
collettivo (quindi era vincolato ad applicarlo, quantomeno fino alla scadenza).
Il Tribunale aggiunge anche che se il rinvio fosse stato al contratto collettivo e alle sue
successive modifiche oppure se fosse stato un rinvio ad un contratto collettivo senza
termine di durata, il datore di lavoro non si sarebbe potuto sciogliere unilateralmente,
perché non bisogna confondere 2 situazioni:

 RECESSO del sindacato dal contratto collettivo senza termine di durata; in questo
caso è possibile recedere unilateralmente.
 RECESSO del singolo datore di lavoro dal "patto di recepimento", o rinvio al
contratto collettivo (non è possibile recedere unilateralmente); una volta che il
contratto collettivo è stipulato, il PATTO DI RECEPIMENTO vincola il datore di lavoro
e il rinvio viene meno solo se si spezza la linea contrattuale.

QUALE E' IL RAPPORTO TRA 2 CONTRATTI COLLETTIVI DI UGUALE LIVELLO MA


SUCCESSIVI?
Esempio: il contratto collettivo nazionale metalmeccanico vigente, ad esempio, che per il
lavoro straordinario sia prevista una maggiorazione del 15%; il lavoratore svolge lavoro
straordinario che, per ora, non gli viene pagato. Successivamente il contratto collettivo
metalmeccanico nazionale vene sostituito dal suo rinnovo (che vale dal 2017 al 2020);
questo nuovo contratto (sempre dello stesso livello del precedente) prevede che per il
lavoro straordinario la maggiorazione sia del 10%.

E' possibile questo (ossia può il successivo contratto collettivo, dello stesso livello del
precedente, contenere disposizioni peggiorative rispetto a quelle del contratto
precedente)? Si, perchè il contratto collettivo non si incorpora nel contratto individuale ma
è semplicemente una fonte di regolazione che disciplina il rapporto e che può variare nel
tempo (quindi è possibile che un successivo contratto collettivo, di uguale livello, preveda
delle modifiche peggiorative rispetto al contratto precedente), con l'unico requisito che
siano fatti salvi i DIRITTI QUESITI (per definizione vedi sopra).
Allora tornando all'esempio: il lavoratore ha diritto al pagamento dello straordinario
pregresso con maggiorazione del 15% (perché si tratta di un DIRITTO QUESITO che il
lavoratore ha maturato nella vigenza del precedente contratto collettivo), ma per il futuro
la maggiorazione sarà del 10% (soluzione della Corte di Cassazione).

Caso particolare riguarda TFR (sappiamo che esso matura, in sostanza, durante tutta la vita
lavorativa del dipendente, e quindi ci sono degli accantonamenti che vanno via via a
sommarsi): anche qui la Cassazione dice che “i singoli accantonamenti, relativi al periodo di
vigenza del PRIMO contratto collettivo non possono essere toccati in senso peggiorativo
dal SUCCESSIVO contratto collettivo” (quindi se ci sono delle disposizioni di miglior favore,
quelle continuano ad applicarsi).
RAPPORTO TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI LIVELLO DIVERSO
Quando un rapporto di lavoro è soggetto a più contratti collettivi di diverso livello (ad es.
NAZIONALE e AZIENDALE; NAZIONALE ed INTERCONFEDERALE), quale prevale nel caso in
cui ci sia conflitto tra questi contratti collettivi di diverso livello?
Vari criteri (non c’è molta unanimità su questo tema):
1. CRITERIO DEL FAVOR: in caso di conflitto tra contratti di livello diverso deve
prevalere sempre quello PIU' FAVOREVOLE al lavoratore. Chi ha sostenuto questa
teoria l’ha fondata sull'art.2077 cc che, però, c'entra poco perchè riguarda il
rapporto tra contratto collettivo ed individuale, e non tra contratti collettivi di
diverso livello)
2. CRITERIO CRONOLOGICO: in caso di conflitto prevale il contratto collettivo
successivo/stipulato per ultimo. Criterio parecchio seguito dalla Cassazione.
3. CRITERIO GERARCHICO: in caso di conflitto prevale il contratto collettivo
NAZIONALE.
4. CRITERIO DELLA SPECIALITA': in caso di conflitto prevale il contratto collettivo
AZIENDALE (cioè più vicino alla situazione da regolare).
La giurisprudenza più recente della Cassazione fa riferimento ad un QUINTO CRITERIO
DELL'EFFETTIVA VOLONTA' DELLE PARTI SOCIALI: in caso di conflitto si dovrebbe verificare,
dall'insieme delle pattuizioni negoziali, quale è il rapporto tra contratti collettivi che gli
stessi sindacati hanno voluto definire/stabilire (quindi assumono rilevanza centrale le
clausole di rinvio contenute negli stessi accordi sindacali, in particolare negli accordi
interconfederali che, talvolta, espressamente individuano i rapporti tra contratto nazionale
e aziendale).

Il problema è che queste clausole di rinvio (da cui appunto si desume la volontà delle parti
sociali) non hanno efficacia REALE ma hanno solo efficacia OBBLIGATORIA ((cioè, se anche
l'accordo interconfederale ha stabilito certe regole per cui ad esempio l’accordo
AZIENDALE può disciplinare solo certe materie e non altre, questa clausola è pur sempre
espressione di autonomia privata e, quindi, il contratto aziendale che viola quanto stabilito
da un contratto NAZIONALE (che a sua volta rispetto quanto stabilito dall’accordo
interconfederale) NON E' NULLO perchè non c'è la violazione di una norma di legge ma
semplicemente di un altro contratto).
Alla fine la giurisprudenza sembra propendere per il CRITERIO CRONOLOGICO (e dice
anche che il contratto collettivo AZIENDALE può disvolere quanto previsto dal contratto
collettivo NAZIONALE senza che per questo sia ritenuto NULLO).
Nel settore pubblico, invece, il contratto collettivo DECENTRATO non può andare in
conflitto con il contratto collettivo NAZIONALE, a pena di NULLITA’ (qui espressamente la
legge stabilisce la regola opposta).

In realtà (con riferimento a tale tema) la giurisprudenza ci dice che bisogna distinguere 2
situazioni:
1. di CONFLITTO REALE: di fatto si segue il CRITERIO CRONOLOGICO.
2. di CONFLITTO SOLO APPARENTE: si segue/si individua la VOLONTA' EFFETTIVA
DELLE PARTI SOCIALI.

Su queste regole/questi criteri è intervenuto il legislatore con l'ART.8 del D.LGS.138/2011


(decreto Sacconi). Questo articolo, intervenendo con forza su queste regole, ci dice che “i
CONTRATTI DI PROSSIMITA’, stipulati a certi scopi ed in certe materie, che sono contratti
decentrati o territoriali o aziendali, possono derogare “in peius”, con efficacia verso TUTTI i
lavoratori, alle previsioni del contratto collettivo NAZIONALE di lavoro e anche alle
previsioni della LEGGE” (sembra stabilire una sorta di gerarchia dal basso verso l’alto dei
contratti collettivi).
Ma molti dubitano che questo articolo non sia conforme alla Costituzione (in particolare
all’art.39).

INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO COLLETTIVO


Spesso i contratti collettivi non sono CHIARI perché i sindacati e le associazioni dei datori
di lavoro discutono molto ma non trovano un accordo vero/sostanziale; allora si chiudono
le trattative ma spesso si dice “in sindacalese”, cioè con clausole che sono ambigue e che
assumono magari un significato diverso in base all’interpretazione che ne dà ciascuna delle
parti.
Per questo motivo, molto spesso, davanti ai giudici nascono problemi di
INTERPRETAZIONE dei contratti collettivi.

02/11

QUALI SONO LE REGOLE CHE BISOGNA SEGUIRE NELL’INTERPRETAZIONE DEI CONTRATTI


COLLETTIVI? Valgono le regole per l’interpretazione delle leggi? O valgono le regole che il
codice civile detta per l’interpretazione dei contratti?
Valgono le regole per l’interpretazione dei contratti (e non quelle per l’interpretazione
delle leggi).
COME VA INTERPRETATA LA LEGGE?
ART.12 PRE-LEGGI al codice civile: ci dice che la legge va interpretata secondo il criterio
oggettivo/LETTERALE, cioè secondo il senso fatto chiaro/palese dalle parole, dal testo
normativo e tenendo conto dell’intenzione del legislatore.
Poi aggiunge che nell’interpretazione delle leggi si può ricorrere all’ANALOGIA (nel caso
che si possa far riferimento a norme che contengono disposizioni simili, dove identica è la
“ratio legis”).
In mancanza si può ancora far riferimento ai PRINCIPI GENERALI DELL’ORDINAMENTO.
MA NON SONO QUESTE LE REGOLE CHE SI APPLICANO ALL’INTERPRETAZIONE DEL
CONTRATTO COLLETTIVO perché esso è espressione di autonomia privata, non è fonte di
diritto ma è un vero e proprio contratto.

QUALI SONO LE NORME CHE SI APPLICANO all’interpretazione del contratto collettivo?


Sono gli ARTT. 1362 e seguenti del codice civile, che contengono i criteri che servono per
interpretare il contratto collettivo. Essi si suddividono in 2 gruppi:
 ARTT. dal 1362 al 1365: interpretazione SOGGETTIVA del contratto. Sono articoli
diretti a far emergere, nell’interpretazione, quella che è stata la reale volontà delle
parti contraenti.
 ARTT. 1366 e seguenti: interpretazione OGGETTIVA del contratto (si riccorre ad essi
nel caso in cui residui il dubbio).
ART.1362: “nell’interpretare il contratto si deve ricercare quale è stata la COMUNE
INTENZIONE delle parti, e non limitarsi al senso fatto proprio dalle parole.
Nell’interpretazione del contratto, per capire quale è stata l’intenzione delle parti, si deve
tener conto anche del loro COMPORTAMENTO SUCCESSIVO (alla stipulazione del
contratto)”.
ART.1363: “le clausole vanno interpretate le une per mezzo delle altre” (in modo da capire
quale è il senso che emerge nel loro complesso).
ART.1367: PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE (se c’è un’interpretazione che renderebbe il
contratto nullo ed un’interpretazione che consente di tenerlo valido, va privilegiata
l’interpretazione che consente la conservazione del contratto).
ART.1368: “se ci sono più sensi, deve essere scelto quello più conveniente per l’oggetto/la
natura del contratto”.
DA RICORDARE: nell’interpretazione del contratto collettivo si applicano i criteri di
ERMENEUTICA/INTERPRETAZIONE CONTRATTUALE, con prevalenza/preferenza del criterio
LETTERALE e SISTEMATICO. (si utilizza il criterio LETTERALE perché, siccome i destinatari
sono i lavoratori e sono soggetti diversi dai sindacati stipulanti, nel caso del contratto
collettivo si privilegia proprio il significato letterale delle parole, piuttosto che l’intenzione
dei sindacati, che non coincidono con i lavoratori destinatari).

ART.1362, comma 2, cc: “Nell’interpretazione del contratto, per capire quale è stata
l’intenzione delle parti, si deve tener conto anche del loro COMPORTAMENTO SUCCESSIVO
(alla stipulazione del contratto)”.
Quale è il COMPORTAMENTO SUCCESSIVO delle parti che può assumere rilievo (nel caso
del contratto collettivo)?
La giurisprudenza tende a dire che anche la stipulazione di un successivo contratto
collettivo può essere considerata come SUCCESSIVO COMPORTAMENTO delle parti a cui
dare rilievo nell’interpretazione del contratto precedente.
Vallebona critica questa affermazione perché le parti firmatarie del contratto collettivo
(precedente e successivo) non coincidono con i destinatari (con i lavoratori), quindi è un
po' azzardato dire che nell’interpretazione del contratto collettivo vale la successiva
interpretazione; forse e soprattutto perché anche il successivo contratto collettivo è
espressione di autonomia privata (quindi potrebbe disvolere quello che ha voluto il
precedente contratto).

L’interpretazione del contratto collettivo può essere


 ESTENSIVA (delle clausole)
 RESTRITTIVA (delle clausole).
Si può applicare anche il CRITERIO DELLA ANALOGIA? No, in linea di principio è un criterio
dettato per l’interpretazione della legge; non si può applicare, in una diversa situazione,
per ANALOGIA quanto disposto da un diverso contratto collettivo che non regola quella
determinata materia. (quindi ciascun contratto collettivo regola determinati casi, non si
applica l’analogia come criterio di interpretazione) – questo vale per la cosiddetta
ANALOGIA ESTERNA (in assenza di regole nel contratto collettivo non si può, per analogia,
prendere in esame quanto previsto da un diverso contratto collettivo).
Diverso è il caso dell’ANALOGIA INTERNA allo stesso contratto collettivo: ci sono dei casi in
cui, magari, il contratto collettivo applicabile regola certe situazioni e non ne regola altre
del tutto simili.
Esempio: indennità di maneggio denaro (quindi una voce aggiuntiva della retribuzione)
che il contratto collettivo riconosceva a certi lavoratori (per esempio ai cassieri e
commessi) ma non riconosceva ai guardarobieri (che svolgevano compiti simili). Qui la
giurisprudenza ha ritenuto applicabile la cosiddetta ANALOGIA INTERNA (cioè ha applicato
una clausola dello STESSO contratto collettivo ad altri casi non espressamente regolati dal
contratto).
Quindi NO analogia ESTERNA (quindi non si applica un contratto collettivo diverso a casi
regolati da un altro contratto); SI analogia INTERNA (cioè si può applicare una clausola
dello stesso contratto ad un caso non espressamente previsto, ma con uguale ratio).

Altra regola è quella riguardante la RICORRIBILITA’ PER CASSAZIONE: dal 2006 si è


introdotta la possibilità di ricorrere per Cassazione (cioè si può denunciare che una
sentenza d’Appello è errata), contro una sentenza, anche per la violazione di norme del
contratto collettivo NAZIONALE e non solo per la violazione di norme di legge.
Mentre prima non era possibile (ricorrere in Cassazione per la violazione di norme del
contratto collettivo nazionale), a meno che il giudice non avesse o violato quelle norme
sull’interpretazione dei contratti (che abbiamo appena visto) o per l’erronea motivazione
della sentenza.
Questo non vuol dire che il contratto collettivo è una legge (semplicemente il legislatore
ha previsto questa possibilità in più).

ALTRA SITUAZIONE RILEVANTE: si va in causa tra lavoratore e datore di lavoro (quindi


causa di lavoro) e la decisione della causa dipende dall’interpretazione di una clausola del
contratto collettivo nazionale. Questo diventa rilevante perché magari ci sono 150 cause
che dipendono tutte dall’interpretazione di quella clausola del contratto collettivo (ad
esempio una clausola che dice “i lavoratori hanno diritto a questa indennità in queste
situazioni..”, ed è controverso quando abbiano diritto a tale indennità); perciò ci sono
situazioni in cui una serie di controversie dipende dall’interpretazione di una stessa
clausola del contratto collettivo. Allora cosa può fare il giudice (davanti al quale una di
queste controversie identiche viene decisa?
Può (anziché decidere tutta la lite) emanare una SENTENZA PARZIALE solo sulla questione
che concerne l’INTERPRETAZIONE, l’EFFICACIA, la VALIDITA’ del contratto collettivo
nazionale di lavoro (per esempio dicendo “la clausola è nulla”, oppure “la clausola va
interpretata in questo senso..”).
A questo punto la parte soccombente può RICORRERE contro quella sentenza PARZIALE
direttamente in Cassazione (“per saltum”, si salta il grado d’Appello).
Il processo, quindi, rimane sospeso fino a quando la Cassazione decide (ovviamente la
Cassazione può confermare quanto detto dal giudice di primo grado, o può riformare la
decisione).
In ogni caso, poi, il processo viene ripreso/RIASSUNTO davanti allo stesso giudice iniziale
(che aveva pronunciato la decisione/sentenza PARZIALE), che emana la SENTENZA
DEFINITIVA (ovviamente il giudice decide la controversia in base a quanto stabilito dalla
Cassazione).
Il senso di tutta questa procedura è quello di cercare garantire che le clausole del contratto
collettivo rilevanti, non in uno, ma in 150 casi possano avere una veloce e corretta
interpretazione da parte dell’organo supremo.
Cosa succede delle CAUSE SIMILI (che magari pendono davanti ad altri Tribunali)?
Gli altri giudici (che sono in attesa della decisione della Cassazione) possono sospendere il
processo oppure, a loro volta, possono semplicemente pronunciare una decisione
PARZIALE sulla stessa questione (ed attendere). Ovviamente ciascuna controversia viene
poi decisa in modo autonomo dal giudice competente (poi nei gradi successivi ci si baserà
sulla decisione della Cassazione che, però, è solo un PRECEDENTE – ha efficacia DIRETTA
solo nel processo in cui è stata pronunciata, non in quelli successivi).

FORMA DEL CONTRATTO COLLETTIVO


La Cassazione, a Sezioni Unite, ci ha detto che il contratto collettivo è un contratto a
FORMA LIBERA (quindi sarebbe valido anche se non fosse stipulato per iscritto; questo
chiaramente, ormai, vale solo per i contratti collettivi AZIENDALI).
In realtà, Vallebona critica questa idea e ci dice che ci sono alcune norme del nostro
ordinamento da cui si capisce che, invece, il contratto collettivo richiede la FORMA
SCRITTA; sostanzialmente sono quelle norme che prevedono che una copia dei contratti
collettivi sia reperibile presso il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro).
Inoltre l’ART.425 c.p.c prevede che il giudice possa chiedere ai sindacati di produrre il testo
del contratto collettivo (anche aziendale); Vallebona, quindi, dice che se c’è una norma del
genere vuol dire che la forma è SCRITTA.
Questo (ossia la FORMA SCRITTA) vale a maggior ragione per i contratti collettivi del
settore PUBBLICO, perché per questi è addirittura prevista la loro pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale; inoltre anche i contratti decentrati del settore pubblico devono essere reperibili
presso il CNEL.
RAPPORTO TRA LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO
La regola è quella per cui il contratto collettivo può sempre stabilire delle condizioni
migliorative rispetto alla legge (si dice che la contrattazione collettiva ha “libero corso” al
di sopra delle garanzie di legge); mentre non può derogare in senso peggiorativo alle
disposizioni di legge, SALVO che la legge stessa non lo autorizzi. Quando abbiamo parlato
dei RINVII della legge alla contrattazione collettiva abbiamo distinto tra rinvii PROPRI e
rinvii IMPROPRI; i rinvii PROPRI sono casi in cui il contratto collettivo è espressamente
autorizzato dalla legge anche a derogare (in peius) alla norma stessa (spesso essi sono
SOLO ai sindacati comparativamente più rappresentativi). E’ legittima questa selezione dei
sindacati? Se il rinvio è PROPRIO è legittima la selezione dei sindacati abilitati perché non
si tratta solo di regolare certe materie, ma di derogare (in peius) quanto previsto dalla
legge; mentre se il rinvio è IMPROPRIO (quello in cui la legge si limita rinviare ai contratti
collettivi, ma non perché deroghino alla legge, ma semplicemente perché regolino una
certa materia), la selezione dei sindacati non è legittima (qualsiasi contratto collettivo può
introdurre condizioni migliorative, non solo quelli stipulati dai sindacati comparativamente
più rappresentativi).
Allora se un rinvio IMPROPRIO è fatto SOLO a sindacati comparativamente più
rappresentativi, o bisogna interpretarlo nel senso che, invece, siano TUTTI i sindacati
legittimati a disciplinare quella materia; o altrimenti dovrebbe essere illegittima la
previsione ed incostituzionale la norma per violazione dell’art.39 Cost (perché limita la
libertà sindacale degli altri sindacati non nominati).

Per quanto riguarda la DEROGABILITA’ “IN MELIUS” del contratto collettivo alle disposizioni
di legge è SEMPRE POSSIBILE.
Però, negli Anni Settanta (periodo di grossa inflazione) il legislatore ha cercato di limitare
l’inflazione stabilendo dei TETTI MASSIMI al contenuto della contrattazione collettiva (cioè,
per esempio, ha detto che la contrattazione collettiva non può stabilire delle SCALE
MOBILI, cioè dei meccanismi di adeguamento dei salari all’inflazione, troppo
favorevoli/alte; oppure ha detto che di certi SCATTI STIPENDIALI/PUNTI DI CONTINGENZA
non si doveva tenere conto nel calcolo del TFR per evitare, sostanzialmente, la spinta
inflazionistica). Infatti i contratti collettivi agganciavano i salari al costo della vita e questo
generava una spinta inflazionistica.
La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità o meno di queste
leggi (che stabilivano dei TETTI MASSIMI alla contrattazione collettiva); essa ha salvato
queste norme (ne ha stabilito la legittimità) perché:
1. si trattava di norme di emergenza (per uscire dalla crisi inflazionistica); quindi ha
considerato che il momento di emergenza giustificasse questo intervento.
2. l’interesse generale prevale sull’interesse collettivo (qui l’interesse generale era
proprio quello di limitare l’inflazione; mentre quello collettivo era l’interesse dei
lavoratori ad ottenere un aumento dei salari)
3. ha riconosciuto che non esiste una riserva a favore dei sindacati/dei contratti
collettivi nella disciplina di certe materie (il legislatore può, quindi, sempre
intervenire in qualsiasi materia, eventualmente anche ponendo dei tetti).
CASO (relativo al rapporto tra legge e contratto collettivo): un lavoratore era stato assunto
con contratto a termine ed aveva proseguito nello svolgimento del proprio attività dopo la
scadenza del termine, per una durata di 15 giorni. Nel momento in cui il contratto a
termine era stato stipulato, la legge in vigore (su questo tema; siamo nel 2013; art.5
d.lgs.368/2001) prevedeva che “se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del
termine, inizialmente fissato o prorogato, il datore di lavoro è tenuto a dare una
maggiorazione retributiva per ogni giorno di prosecuzione del rapporto di lavoro; ma se il
rapporto continua oltre il 30esimo giorno (in caso di contratto inferiore a 6 mesi), o il
50esimo giorno, allora il contratto si intende a tempo INDETERMINATO; salvo condizioni
più favorevoli previste dai contratti collettivi” (quindi venivano richiamate le norme dei
contratti collettivi più favorevoli).
Il contratto collettivo, all’epoca, non si era ancora allineato alle nuove disposizioni di legge
(che avevano allungato questo periodo di tolleranza) e si limitava a dire che “se il rapporto
di lavoro continua oltre il 20esimo giorno (in caso di contratto inferiore a 6 mesi), o il
30esimo giorno (negli altri casi), allora si presume a tempo INDETERMINATO”. C’era, in
sostanza, un disallineamento tra legge e contratto collettivo (la legge, in seguito alle nuove
modifiche, aveva allungato il periodo-cuscinetto portandolo a 30 e 50gg; mentre il
contratto collettivo era ancora allineato alla precedente norma di legge e consentiva un
margine più ristretto).
Il lavoratore (in questione) aveva continuato a lavorare per più di 20 giorni, ma meno di 30
(dopo la scadenza del contratto); quindi a norma di legge non sarebbe scattata la
CONVERSIONE; ma a norma del contratto collettivo SI (nel senso che prevedeva la
disposizione più favorevole).
In questo caso il giudice ha ritenuto di dover applicare il CONTRATTO COLLETTIVO come
norma di miglior favore rispetto alla legge; quindi ha riconosciuto al lavoratore la
CONVERSIONE del rapporto di lavoro.
Questo esempio ci fa capire che non è sufficiente conoscere le disposizioni di legge, ma di
volta in volta dobbiamo anche chiederci se ad un determinato rapporto sia applicabile il
contratto collettivo e se sì, verificare quali sono le condizioni da questo previste (perché
potrebbero essere migliorative).

CONTRATTAZIONE COLLETTIVA DI PROSSIMITA’


Tutto quello che abbiamo detto finora viene, in qualche modo, scardinato dal legislatore
con l’emanazione dell’ART.8 del D.L. 138/2011 convertito in legge 148/2011 (Decreto
Sacconi) che prende il nome di “CONTRATTAZIONE COLLETTIVA DI PROSSIMITA’”.
Con questo articolo i contratti collettivi AZIENDALE e TERRITORIALI sono stati abilitati, in
certe materie e a certi scopi, a derogare alle norme di legge (anche “in peius”) e alle norme
del contratto collettivo NAZIONALE con efficacia verso TUTTI i lavoratori (è il sogno di
qualsiasi azienda potere stipulare tali contratti).
ART.8: “i contratti collettivi sottoscritti a livello AZIENDALE o TERRITORIALE, da associazioni
dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale/territoriale o dalle
loro rappresentanze sindacali (operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli
accordi interconfederali), possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di
TUTTI i lavoratori interessati (a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio
maggioritario relativo alle predette rappresentanze, finalizzate all’incremento
dell’occupazione ecc…in certe materie)”.

CHI SONO I SOGGETTI LEGITTIMATI a stipulare i contratti collettivi di PROSSIMITA’? La


norma fa riferimento ai contratti collettivi stipulati a livello aziendale/territoriale da
ASSOCIAZIONI SINDACALI COMPARATIVAMENTE PIU’ RAPPRESENTATIVE a livello
nazionale o territoriale, oppure alle RISPETTIVE RAPPRESENTANZE SINDACALI (di detti
sindacati).
Questa è la PRIMA INTERPRETAZIONE i questi contratti (tiene conto della prima parte del
comma 1 dell’art.8).
Ma l’art.8 ci dice “secondo un CRITERIO MAGGIORITARIO previsto dalla legge o dai
rapporti interconfederali” (questo vuol dire che, per esempio, se è stipulato dalle RSU
l’accordo deve essere stipulato alla maggioranza dei componenti delle RSU; oppure se è
stipulato dalle RSA, l’accordo deve essere stipulato dalla RSA che, nel loro insieme,
detengono la maggioranza delle deleghe sindacali).

Ci sarebbe anche una SECONDA INTERPRETAZIONE che tiene conto della seconda parte
del comma 1 dell’art.8 perché esso fa riferimento a “specifiche intese stipulate dalle
predette rappresentanze”. Questa seconda interpretazione ci dice che servono (insieme) un
contratto “cornice” stipulato (a livello aziendale o territoriale) dai sindacati
comparativamente più rappresentativi (a livello nazionale o territoriale) o dalle loro
rappresentanze; ma serve anche una specifica intesa aziendale stipulata necessariamente
dalle RSU e RSA.
La giurisprudenza, per ora, accoglie la PRIMA INTERPRETAZIONE.

QUALI DEVONO ESSERE GLI SCOPI di questo contratto collettivo (per essere definito “di
prossimità”)?
 deve essere diretto a risolvere una situazione di crisi
 deve essere diretto ad incrementare l’occupazione
 deve essere diretto a garantire una maggiore partecipazione dei lavoratori
 deve essere diretto a consentire l’avvio di nuove attività (per esempio START UP)
 deve essere diretto a consentire nuovi investimenti
 deve essere diretto a garantire una maggiore qualità dei contratti
La CRITICA è che tali scopi sono talmente ampi da non garantire, in concreto, la selezione
dei contratti collettivi.

QUALI SONO LE MATERIE (che questi contratti devono avere per oggetto per essere
definiti “di prossimità”)? Sono indicate con un elenco TASSATIVO, ma (come per gli scopi) è
un elenco molto ampio. Sono materie inerenti all’organizzazione del lavoro ed alla
produzione con riferimento a:
 disciplina dei controlli tramite impianti audiovisivi
 mansioni ed inquadramenti
 disciplina dell’orario di lavoro
 contratti di lavoro ad orario ridotto (part time)
 casi di ricorso alla somministrazione di lavoro
 disciplina dei contratti a termine e delle altre forme flessibili di lavoro
 modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro (questo comprende un
po' tutte le materie inerenti al lavoro; anche co.co.co, conseguenze del recesso dal
rapporto di lavoro ossia i licenziamenti, ecc..)
PRIMO LIMITE= non possono essere toccate le seguenti materie: licenziamento della
lavoratrice madre; licenziamento della lavoratrice in caso di matrimonio; licenziamenti
discriminatori; licenziamenti di soggetti che fruiscono di congedi (di maternità, paternità,
ecc..).
SECONDO LIMITE: necessario rispetto delle norme costituzionali, comunitarie ed
internazionali.

In sostanza, per incrementare la competitività, possono essere stipulati (in determinate


materie, che sono molto ampie) CONTRATTI DI PROSSIMITA’ che possono derogare, non
solo le norme del contratto collettivo nazionale, ma anche la legge, con efficacia ERGA
OMNES (verso tutti i lavoratori).
Allora, ad esempio, ci sono stati dei contratti collettivi che, per un certo periodo, hanno
escluso le disposizioni di legge in materia di associazioni in partecipazione (Calzedonia ha
stipulato un contratto collettivo in cui ha detto per 2 anni, in via transitoria, non si
applicano le norme della Fornero che impedirebbero di stipulare contratti di associazioni in
partecipazione; e così via..).

Di conseguenza è subito sorto il sospetto di incostituzionalità di tale norma per violazione


dell’art.39 Cost (sia i commi 2 ss. per l’efficacia erga omnes; sia il comma 1 per quanto
riguarda i rapporti tra contratti collettivi di diverso livello).
COMMA 1 (“l’organizzazione sindacale è libera”): attribuisce agli stessi sindacati il potere di
determinare i rapporti tra contratti collettivi (la loro organizzazione, le loro articolazioni); è
violato perché il legislatore, sostanzialmente, si inserisce di peso nei rapporti di forza tra
contratti collettivi e stabilisce quale contratto collettivo debba prevalere sull’altro. Quindi
tutto il discorso che abbiamo fatto sulla necessità di individuare l’effettiva volontà delle
parti sociali (per capire quale contratto collettivo debba prevalere) è in questo caso
spazzata via.

COMMI 2-3-4: violati perché prevedono che per dare efficacia “erga omnes” ai contratti
collettivi è necessaria la registrazione dei sindacati; prevede anche che si contino il numero
degli iscritti, e che TUTTI i sindacati registrati possano partecipare alla contrattazione
collettiva in proporzione agli ISCRITTI.
Allora questa norma consente a tutti di partecipare alla contrattazione “di prossimità” o
seleziona i sindacati che possono stipulare il contratto con efficacia verso tutti i lavoratori?
La norma fa una selezione; infatti ammette alla contrattazione “di prossimità” SOLO i
sindacati comparativamente più rappresentativi (e le loro RSA e RSU).
Molti, per questo motivo, sostengono che LA NORMA SIA INCOSTITUZIONALE.

La DIFESA di questa norma è che alcuni dicono che l’art.39, commi 2-3-4, non si riferirebbe
ai contratti AZIENDALI ma solo a quelli NAZIONALI (come si capirebbe dal riferimento,
contenuto nell’art.39, alla CATEGORIA).
La CONTROBIEZIONE è che quando si parla di CATEGORIA ci si riferisce ad un gruppo che
comprende anche il contratto AZIENDALE (tuttavia rimarrebbe fuori il problema dei
contratti TERRITORIALI che, sicuramente, sono ricompresi anch’essi nell’art.39).

VALLEBONA: difende l’ART.8 ma si rende conto dei problemi di incompatibilità con l’art. 39.
Sostiene che, affinché sia salvata la compatibilità (con l’art.39), l’art.8 deve essere
interpretato nel senso che “qualsiasi sindacato, che abbia una soglia ragionevole di iscritti
(del 5%), debba poter partecipare alla contrattazione IN PROSSIMITA’, non solo i sindacati
comparativamente più rappresentativi” (però è un’interpretazione che, in realtà, non trova
nessun appiglio nella legge).

CORTE COSTITUZIONALE: non si è, in realtà, ancora espressa sul punto. Nel 2012 è stata
pronunciata una sentenza che ha ritenuto LEGITTIMO l’art.8; ma con quella sentenza, in
realtà, si era posta solo una diversa questione (rispetto a quelle di cui abbiamo parlato
finora).
QUESTIONE: c’era la Regione Toscana che aveva lamentato che l’art.8 violasse la
distribuzione delle competenze tra Stato e Regione, e quindi aveva lamentato la violazione
dell’art.39 Cost, ma soltanto perché i contratti collettivi DI PROSSIMITA’ avrebbero invaso
gli ambiti di competenza regionale in materia di lavoro.
La Corte Costituzionale respinge la questione, ma SOLO perché tutte le materie elencate
nell’art.8 attengono all’ordinamento civile, quindi sono materie di competenza del
legislatore nazionale (non per altri motivi).
In concreto la Corte Costituzionale non si è ancora espressa sulle questioni principali che
abbiamo analizzato prima.
L’unica cosa che la Corte Costituzionale ha precisato è che l’elenco di materie dell’art.8 è
TASSATIVO.

ALTRA NORMA RILEVANTE: COMMA 3, ART.8. E’ una norma pensata per la FIAT (che
qualche mese prima aveva firmato un contratto AZIENDALE che era stato sottoposto a
referendum ed approvato da TUTTI i lavoratori).
E’ una norma che guarda solo al passato e ci dice che “i contratti collettivi AZIENDALI,
sottoscritti prima del 28.06.2011 (data in cui è stato emanato l’accordo interconfederale del
2011), che siano stati approvati con Referendum dalla maggioranza dei lavoratori, hanno
anch’essi efficacia “erga omnes”.
Questa norma NON E’ LEGITTIMA (anche secondo Vallebona) perché viola l’art.39
Costituzione (non può essere salvata perché prevede il criterio della maggioranza
referendaria che, sostanzialmente, non è in linea con i principi della Costituzione).
Vedremo che, però, l’ART.8 è una norma tuttora poco usata perché su di essa pende un
forte sospetto di incostituzionalità (nei prossimi anni potrebbe essere sollevate delle
questioni di incostituzionalità, per cui questi contratti potrebbero essere verosimilmente
travolti).

I sindacati, alla fine, hanno stipulato una CLAUSOLA (nell’accordo interconfederale del
2011) in cui, sostanzialmente, prendono le distanze dall’art.8; in particolare la CGIL dichiara
che non riconoscerà come propri questi contratti di PROSSIMITA’. Quindi, nella pratica,
succede che questi contratti (in deroga alle norme del contratto collettivo e alle
disposizioni di legge) tante volte vengono firmati ma, però, assolutamente non vengono
chiamati “CONTRATTI COLLETTIVI DI PROSSIMITA’” (spetta poi al giudice verificare qual è
effettivamente l’efficacia di questi contratti; se si tratta di CONTRATTI DI PROSSIMITA’
oppure no).

In risposta all’art.8 i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL) hanno aggiunto una
CLAUSOLA/POSTILLA (nel settembre 2011) all’accordo interconfederale (del 28.06.2011) in
cui hanno sostanzialmente depotenziato l’art.8, prevedendo che i sindacati decentrati non
stipuleranno CONTRATTI DI PROSSIMITA’. Il problema è che se poi i sindacati decentrati
decidono di stipulare tali contratti, questi hanno chiaramente efficacia (perché l’art.8 è una
norma di legge che non può che prevalere sulla postilla contrattuale aggiunta dagli stessi
sindacati).
Di fatto questa postilla è rimasta lettera morta perché la legge prevale. (VEDI SOTTO)

2/11 (POMERIGGIO)

CASO 1 (che ha a che fare con l’EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO –
contratto collettivo può essere a tempo DETERMINATO o INDETERMINATO; se il contratto
stabilisce una scadenza non è ultra-attivo dopo la scadenza, nel senso che non produce
effetti anche dopo la scadenza; salvo i casi in cui è espressamente prevista, dalla volontà
delle parti, una “clausola di ultrattività”):
un contratto collettivo NAZIONALE del 1976 che stabiliva dei limiti alla durata della
giornata lavorativa; esso scadeva nel 1980; non conteneva clausole di ultrattività, quindi di
per sé NON ERA ULTRATTIVO. Successivamente, negli anni, è intervenuto un contratto
AZIENDALE (attuativo di un diverso contratto collettivo nazionale) che prevedeva l’ORARIO
MULTIPERIODALE (ossia la possibilità di spalmare l’orario su un periodo più lungo, senza
che fossero considerati straordinario quelle ore aggiuntive rispetto all’orario settimanale).
I lavoratori, allora, hanno preteso di ottenere la maggiorazione per straordinario, facendo
valere il fatto che il contratto collettivo del 1976 scandiva in modo molto rigido l’orario e
non prevedeva la multiperiodalità; inoltre ritenevano che esso fosse ultra-attivo.
La risposta del giudice è stata quella di chiarire che, in mancanza di un’esplicita CLAUSOLA,
i contratti collettivi OGGI non sono ultra-attivi; quindi sicuramente la controversia non
doveva essere decisa sulla base del vecchio contratto del 1976 (scaduto e non ultra-attivo)
ma sulla base del contratto collettivo AZIENDALE secondo il quale NESSUN DIRITTO ALLA
RETRIBUZIONE AGGIUNTIVA PER STRAORDINARIO ERA PREVISTO (perché, in concreto,
non era stato fatto straordinario ma era stato semplicemente utilizzato l’orario
multiperiodale).

CASO 2 (sempre relativo all’EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO): un


contratto collettivo del 2008 che prevedeva un premio produzione; questo contratto aveva
durata triennale ma, al contempo, si prevedeva che (scaduto il triennio) venisse prorogato
fino alla disdetta unilaterale da parte di ciascuna delle parti firmatarie (in sostanza il
contratto è A TERMINE, ma diventa a tempo INDETERMINATO con possibilità di disdetta
unilaterale da parte di ciascuno dei contraenti, una volta decorso il triennio).
Il datore di lavoro aveva riconosciuto il premio aziendale per un certo numero di anni,
aveva continuato a rinnovare il contratto fino al trienni; poi l’anno successivo aveva ancora
applicato quel contratto; finché nel 2012, con il preavviso di 3 mesi, aveva dato la disdetta.
Possono i lavoratori continuare a pretendere il PREMIO AZIENDALE per gli anni successivi?
No, il Tribunale di Napoli, in questo caso, ci dice che è assolutamente possibile prevedere
che, dopo il termine triennale del contratto collettivo, questo sostanzialmente continui ad
operare ma come contratto collettivo a tempo INDETERMINATO (quindi salvo disdetta di
ciascuna delle parti contraenti); nel caso concreto questo era stata espressamente prevista
dalle parti.
Quindi, essendoci stata la disdetta da parte del datore di lavoro, i lavoratori non hanno
potuto rivendicare il PREMIO AZIENDALE.

STRUTTURA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA


Per quanto riguarda il rapporto tra contratto collettivo NAZIONALE e contratto collettivo
AZIENDALE occorre verificare quale è l’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLE PARTI (ossia occorre
vedere, nell’intero sistema contrattuale, quali sono le regole che i sindacati stessi hanno
deciso di darsi).
Inoltre (come abbiamo già visto) che in caso di conflitto tra contratto collettivo
NAZIONALE ed AZIENDALE, erano stati previsti 4 criteri (vedi lezione 26/10) ma la
giurisprudenza ha detto che per stabilire quale dei due contratti prevale occorre verificare
quale è l’effettiva volontà delle parti sociali (come emerge dal sistema).

QUALE E’ IL RAPPORTO TRA CONTRATTO NAZIONALE ED AZIENDALE CHE LE PARTI


HANNO DECISO NEGLI ANNI?
 Anni Cinquanta: il sistema era centrato sul livello INTERCONFEDERALE; quindi il
contratto collettivo, che disciplinava tutto, era quello INTERCOFEDERALE (poco
spazio al contratto collettivo NAZIONALE, zero spazio era dato alla contrattazione
AZIENDALE che, concretamente, non era prevista). Non c’era problema di
sovrapposizione perché TUTTO ERA DECISO A LIVELLO INTERCONFEDERALE.

 Dagli Anni Cinquanta in poi: si sente l’esigenza di regole specifiche per ogni
CATEGORIA, quindi diventa centrale il contratto collettivo NAZIONALE (quindi la
contrattazione si sviluppa su base NAZIONALE – contratto metalmeccanico,
contratto dei chimici, contratto tessile, ecc..).
L’accordo INTERCONFEDERALE resta uno strumento utile (ma solo per disciplinare
certi istituti comuni; per esempio le RSU) e non c’è spazio per la contrattazione
AZIENDALE (non è ancora sviluppata).

 Nel 1962: nasce la cosiddetta CONTRATTAZIONE ARTICOLATA; il contratto collettivo


NAZIONALE decide di demandare al contratto collettivo AZIENDALE la disciplina di
certe materie (in particolare dei turni di lavoro, degli orari di lavoro; dei premi di
produttività).
Però questa apertura (a livello AZIENDALE) viene bilanciata dalla previsione che
debba essere sempre e solo il sindacato esterno (provinciale) a firmare il contratto
AZIENDALE (quindi non si consente alle commissioni interne di firmare il contratto).
Inoltre sono stabilite delle CLAUSOLE DI TREGUA (per cui nella vigenza del contratto
collettivo è vietato mettere in discussione i vari istituti già negoziati ai vari livelli); in
modo che i datori di lavoro sappiano sempre quale è il prezzo (per loro) della
contrattazione.

 Nell’autunno caldo del 1969 (periodo di rivolte studentesche ed operaie): la


CONTRATTAZIONE ARTICOLATA salta (quindi salta il rapporto tra livelli).
Viene rinnovato il contratto dei metalmeccanici nel 1969, ma le parti (i sindacati dei
metalmeccanici e le associazioni datoriali) non riescono a trovare un’intesa tra di
loro sulle competenze a delegare a livello AZIENDALE (quindi il contratto collettivo
dei metalmeccanici viene stipulato senza una “clausola sulla competenza” per la
distribuzione delle competenze a livello aziendale).
Questo porta ad affermare che a livello AZIENDALE è ammessa una contrattazione
continua (ossia a livello AZIENDALE si può ricontrattare su TUTTE le materie, anche
su quelle non espressamente delegate dal contratto collettive nazionale; in
potenziale conflitto con il contratto collettivo nazionale). Si afferma la cosiddetta
CONTRATTAZIONE DISARTICOLATA.

 Anni Settanta (crisi economica; sciopero petrolifero): il sindacato assume un ruolo


diverso e viene coinvolto nella gestione della crisi.
Il contratto AZIENDALE, spesso, non è più un contratto incrementale/acquisitivo ma
è un contratto ablativo/gestionale (quindi vengo stipulati contratti aziendali anche
peggiorativi).
Inoltre, a livello centrale, il sindacato firma gli ACCORDI DI CONCERTAZIONE
TRIANGOLARI (in cui partecipa anche il Governo); sono sempre destinati alla
gestione della crisi.

 1993: viene stipulato l’ACCORDO INTERCONFEDERALE GIUGNI.


Esso era intervenuto in un momento d’inflazione fuori controllo, quindi bisognava
cercare di riportare l’inflazione sotto controllo. Per fare ciò è stato eliminato
l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione, e viene ridisegnata la struttura
contrattuale.
Il contratto collettivo è su 2 livelli (NAZIONALE ed AZIENDALE), ma secondo un
modello gerarchico, nel senso è il contratto collettivo NAZIONALE che delega al
contratto collettivo AZIENDALE la disciplina di determinate materie (quindi
contratto nazionale definisce gli ambiti, i tempi e i modi della stipulazione del
contratto aziendale); inoltre il contratto AZIENDALE è competente per materie ed
istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli regolati a livello nazionale.
In particolare è regolato dal contratto collettivo AZIENDALE il salario di produttività
(quindi quella quota del salario che è destinata a premiare la maggiore produttività
dei lavoratori).
In questo periodo viene anche stabilita la DURATA DEI CONTRATTI COLLETTIVI (che
si allunga e diventa 4 anni per la parte normativa e 2 anni per la parte
retributiva/economica); ma il problema è che il rinnovo della parte retributiva viene
agganciato all’INFLAZIONE PROGRAMMATA (che, però, è sempre più bassa rispetto
all’inflazione reale), quindi si assiste ad una perdita del potere di acquisto dei salari
(crescono i prezzi, ma i salari/le retribuzioni, in questi anni, crescono poco).

 Nel 2009: viene stipulato l’ACCORDO QUADRO SEPARATO. Il problema di questo


nuovo accordo è che è un accordo SEPARATO (ossia firmato dalla CISL e dalla UIL
ma non dalla CGIL); è un accordo sulle regole ma non tutti e tre i sindacati sono
d’accordo sulle regole. Un accordo di questo tipo non può chiaramente funzionare,
infatti vedremo che molti sono stati i problemi.
Prevede 2 livelli (NAZIONALE ed AZIENDALE); è il contratto Nazionale che dice su
quali materie quello AZIENDALE può avere corso.
COSA DICE QUESTO ACCORDO?
Prevede anch’esso 2 livelli (AZIENDALE e NAZIONALE); inoltre prevede anch’esso un
sistema gerarchico-funzionale, cioè è il contratto NAZIONALE che dice su quali
materie il contratto AZIENDALE può avere corso.
Però prevede anche che il contratto AZIENDALE venga sottoscritto, non solo nelle
materie delegate dal contratto nazionale, ma anche nelle materie delegate
direttamente dalla legge (quindi è una sorta di DECENTRAMENTO
DISORGANIZZATO, nel senso che non è più solo il contratto nazionale che regola le
materie demandate al contratto nazionale ma anche la legge può delegarlo in certe
materie, che magari sono contemporaneamente disciplinate anche dal contratto
nazionale).
Il problema principale (cioè quello della perdita del potere di acquisto dei salari)
viene risolto stabilendo un nuovo sistema di adeguamento legato ad un indice IPCA
che tiene maggiormente conto del costo della vita (quindi il sistema precedente, di
adeguamento alle retribuzioni solo all’inflazione “programmata”, viene sostituito da
un altro sistema che tiene conto dell’inflazione “reale/effettiva” e che prevede
l’adeguamento dei salari a questo indice IPCA).

In questo accordo era prevista una CLAUSOLA DI USCITA e, proprio questa clausola,
è stata la ragione per cui la CGIL non ha firmato questo accordo. Essa prevedeva che
“successive intese avrebbe previsto delle procedure per consentire, in caso di crisi o
di necessità di favorire l’occupazione, il contratto AZIENDALE potesse derogare “in
peius” al NAZIONALE” (quindi il sistema interconfederale espressamente consentiva
al contratto AZIENDALE di introdurre deroghe peggiorative rispetto a quello
NAZIONALE); questo non è stato assolutamente accettato dalla CGIL (che, infatti,
non ha firmato tale accordo).

A cascata, la rottura sindacale si è avuta anche nel c.c.n.l. , ossia nella contrattazione
nazionale di categoria (infatti nel 2009 c’è stata anche una contrattazione nazionale
di categoria SEPARATA, in particolare nel settore metalmeccanico). Allora nel 2008
era stato stipulato il contratto nazionale metalmeccanico UNITARIO (che doveva
durare fino al 31.12.2011); nel 2009 la FIM e la UILM stipulano (con l’Associazione
Federmeccanica) il nuovo contratto nazionale metalmeccanico SEPARATO.
Quindi nel 2009 per i metalmeccanici abbiamo 2 contratti (quello “unitario” del 2008
che non era ancora scaduto e stipulato da FIM, FIOM e UILM; e quello “separato”
del 2009 stipulato solo dalla FIM e UILM ma non dalla FIOM secondo le nuove
regole). L’anno successivo (2010) solo nel contratto “separato” (non in quello del
2008) del 2009 viene aggiunta una CLAUSOLA DI USCITA (cioè lo stesso contratto
nazionale metalmeccanici dice “sì, il contratto collettivo AZIENDALE può introdurre
condizioni peggiorative, in situazioni di crisi o per favorire l’occupazione”).
Ora vediamo cosa è successo in concreto:
CASO FIAT: la FIOM non ha firmato il contratto metalmeccanico del 2009, mentre
quello del 2008 si e non era ancora scaduto. Ma, allora, un datore di lavoro (FIAT)
può imporre l’applicazione del contratto collettivo nazionale del 2009 anche agli
iscritti FIOM? No, il datore di lavoro non può imporre agli iscritti FIOM dissenzienti
l’applicazione del contratto collettivo nazionale non sottoscritto dalla FIOM stessa
(quindi, sostanzialmente, c’è una sorta di “paralisi” perché la FIAT non può
pretendere l’applicazione di questo contratto collettivo nazionale del 2009 agli
iscritti FIOM; e, in particolare la FIAT non può pretendere di avvantaggiarsi delle
clausole d’uscita).
FIAT, allora, si fa una contrattazione per conto suo (a Pomigliano e Mirafiori; noi
prendiamo in considerazione Mirafiori). Nella pratica si voleva rilanciare la FIAT e lo
strumento per fare ciò era l’impiego totale delle macchine, cambiando i turni di
lavoro (ci si era accorti che era necessario impiegare meglio le macchine e per farlo
occorreva cambiare tutti i turni di lavoro).
Inoltre c’era anche bisogno di combattere l’ASSENTEISMO e quindi eliminare la
copertura dei primi giorni di malattia per quei lavoratori che non erano per legge
coperti.
MORALE: FIAT si impegna a realizzare maggiori investimenti ma SOLO al prezzo che
i lavoratori accettino questa nuova contrattazione collettiva (che, però, è in deroga
rispetto al contratto collettivo NAZIONALE di lavoro).
FIOM non accetta questa nuova contrattazione; però l’accordo viene sottoposto a
Referendum tra i lavoratori (nel 2010). I lavoratori accettano.
OGGI, per effetto dell’art.8 comma 3 del decreto Sacconi, quell’accordo collettivo
FIAT (stipulato senza la FIOM, ma poi approvato dal Referendum di TUTTI i
lavoratori prima del Giugno 2011) è efficace “erga omnes” (almeno fino a quando
qualcuno non solleverà la questione davanti alla Corte Costituzionale).
Sta di fatto che FIAT viene messa all’angolo da queste controversie e allora decide di
uscire da Confindustria e di denunciare tutti i contratti collettivi precedentemente
applicati (FIAT esce da Confindustria, non vuole più che le si applichi né il contratto
collettivo nazionale del 2008 né quello del 2009 perché essa era tenuta ad applicarli
per il fatto di essere iscritta al sindacato); può farlo? SI. Abbiamo detto che “se il
vincolo all’applicazione del contratto collettivo nazionale deriva dall’iscrizione, il
datore di lavoro o il lavoratore per liberarsi dal vincolo si deve disiscrivere dal
sindacato, con effetto dalla scadenza del contratto collettivo”; quindi fuoriuscendo
da Confindustria, dal momento della scadenza di quei contratti collettivi nazionali
del 2008 e 2009, FIAT non è più vincolata. A quel punto FIAT sottoscrive un contratto
collettivo AZIENDALE con chi ci sta (quindi con FIM e UILM, ma non con FIOM);
questo è il contratto del 2010 ed è un contratto di 1° LIVELLO (non ha più come
riferimento il contratto collettivo nazionale).

Tutta questa vicenda incide, sin da subito, sulla possibilità di costituire o meno RSA
e RSU in azienda: perché dopo che FIAT è uscita da Confindustria e ha denunciato
tutti i contratti collettivi nazionali applicati, possono ancora essere costituite RSU e
RSA presso FIAT oppure no?
o RSU: la fonte è un accordo interconfederale sempre firmato da Confindustria,
CGIL, CISL e UIL. Se FIAT è uscita da Confindustria, può ancora costituire RSU?
NO (quindi FIAT, per effetto dell’uscita da Confindustria, non è più obbligata
a consentire la costituzione di RSU).
o RSA: sicuramente la FIAT è ancora obbligata a consentire la costituzione di
RSA (perché lo dice l’art.19 SL). Ma nell’ambito di quali sindacati?
Fino al 2013 bisognava che il sindacato avesse firmato il contratto collettivo
applicato in azienda, ma FIOM non lo aveva fatto (quindi capiamo perché
FIOM aveva perso la possibilità di costituire RSA).
Su questo caso, però, si è arrivati davanti alla Corte Costituzionale che, con la
sentenza 231/2013, ha stabilito che (dal 2013) è sufficiente che il sindacato
partecipi alle trattative (anche se poi non firma il contratto collettivo
applicato in azienda); e quindi FIOM ha potuto riavere le proprie RSA.
RIASSUMENDO: in concreto FIAT aveva bisogno di liberarsi dal contratto collettivo
metalmeccanico perché era un contratto vincolante che non le lasciava margine,
sostanzialmente sugli orari/sui turni di lavoro. Allora aveva pensato di utilizzare un
contratto AZIENDALE che potesse derogare al contratto NAZIONALE (e potesse quindi
prevalere sul contratto nazionale metalmeccanico che era troppo rigido).
Il PROBLEMA FONDAMENTALE è stato che questo contratto AZIENDALE, FIAT all’inizio lo
ha stipulato (quindi c’era il contratto nazionale metalmeccanico e questo contratto
aziendale, ma non è stato firmato dalla FIOM (perciò era un contratto SEPARATO). In più la
FIOM non aveva mai accettato le regole (che abbiamo visto appena sopra) previste
nell’accordo quadro 2009 che consentivano espressamente al contratto AZIENDALE di
derogare al NAZIONALE in caso di crisi.
Erano necessarie queste regole esplicite o il contratto AZIENDALE avrebbe comunque
potuto derogare il contratto NAZIONALE? Non erano strettamente necessarie queste
regole (perché abbiamo visto che nei rapporti tra contratto AZIENDALE e NAZIONALE, di
fatto, l’aziendale può derogare al nazionale senza per questo essere nullo), ma il problema
era che non essendo FIOM vincolata da questo contratto aziendale, comunque tale
contratto non poteva essere efficace verso gli iscritti FIOM. A quel punto FIAT ha deciso di
fuoriuscire da Confindustria per slacciarsi dal contratto collettivo NAZIONALE
metalmeccanico, ed ha preteso di applicare soltanto il contratto AZIENDALE di 1° LIVELLO;
ma si trattava, ancora una volta, di un contratto SEPARATO (quindi i problemi, di fatto,
sono rimasti).

 Nel 2011 (in teoria si è avuta la nuova saldatura dell’unità sindacale): è stato
stipulato un nuovo ACCORDO INTERCONFEDERALE (che ha sostituito l’accordo
quadro del 2009). Esso è stato stipulato anche dalla CGIL (quindi viene superata la
frattura sindacale a livello interconfederale; è UNITARIO).
Questo accordo prevede ancora i 2 livelli (NAZIONALE ed AZIENDALE).
Questa volta la CGIL firma quello che non aveva voluto firmare nel 2009, cioè firma
la previsione delle CLAUSOLE D’USCITA (cioè la previsione che specifiche intese
avrebbero potuto prevedere che il contratto AZIENDALE derogasse “in peius” al
contratto NAZIONALE, in caso di crisi; art.7). Ma SOLO in caso di crisi e a fronte di
specifiche procedure (quindi un’apertura limitata alla derogabilità del contratto
collettivo NAZIONALE da parte di quello AZIENDALE).

In seguito viene emanato l’ART.8 del decreto Sacconi, che è molto più pesante
rispetto a quanto affermato nell’art.7 dell’accorso del 2011(infatti dice che “i
CONTRATTI DI PROSSIMTIA’, in quelle materie e a quelli scopi, possono SEMPRE
derogare al contratto nazionale e anche alla legge, con effetto verso tutti i
lavoratori”).
Ma, allora, valgono le limitate aperture alla deroga dell’art.7 dell’accordo del 2011, o
vale l’apertura alla deroga molto più pesante prevista dall’art.8 del decreto Sacconi?
I sindacati cercano di far prevalere gli stretti limiti previsti dall’ART.7, inserendo
nell’accordo interconfederale (del 2011) una POSTILLA (nel settembre 2011) dove
dicono che “CGIL, CISL, UIL e Confindustria si impegnano a far rispettare gli stretti
limiti dell’art.7, e non consentire quella ampia deroga prevista invece dall’art.8 del
decreto Sacconi”.
Ma il problema è che questa POSTILLA è pur sempre un semplice accordo
interconfederale e non può travolgere quella che è l’efficacia dell’art.8 (che è una
norma di legge). (VEDI SOPRA)
Quindi l’art.8, di fatto, prevale. Quindi questa postilla non è in grado di depotenziare
l’efficacia dell’art.8; l’unica questione ancora irrisolta è se l’art.8 sia legittimo oppure
no.

 Novembre 2012: oltre all’accordo del 2011, i sindacati stipulano l’ACCORDO


INTERCONFEDERALE SULLA PRODUTTIVITA’ (è un accordo UNITARIO, stipulato da
CIGL-CISL e UIL).
Esso prevede che delle quote degli aumenti di retribuzione, che derivano dai rinnovi
del contratto collettivo nazionale, anziché essere distribuite a TUTTI i lavoratori,
possano (invece) formare oggetto di contrattazione a livello
AZIENDALE/TERRITORIALE e venire legati alla produttività dei lavoratori. Spiegando
meglio fino a questo momento i rinnovi dei contratti collettivi nazionali avevano
portato aumenti per TUTTI; questo accordo, invece, prevede che una quota degli
aumenti di retribuzione (previsti dal contratto collettivo nazionale), anziché essere
distribuita a TUTTI i lavoratori, può formare oggetto di contrattazione a livello
AZIENDALE/TERRITORIALE, in modo tale da comportare un aumento retributivo
SOLO per i lavoratori più produttivi.
Questo processo, secondo l’accordo, si deve accompagnare ad un intervento del
legislatore che detassi i SALARI DI PRODUTTIVITA’ (quindi comporti minori
tasse/contributi sulla quota della retribuzione erogata dal contratto
AZIENDALE/TERRITORIALE per premiare gli aumenti di produttività dei dipendenti).
Il legislatore interviene prima nel 2013 e poi, anno per anno con successive
proroghe di tale disciplina (tramite successive leggi di stabilità/leggi di bilancio), è la
cosiddetta DETASSAZIONE DEL SALARIO DI PRODUTTIVITA’ (l’idea è che le aziende
possono erogare una quota del salario, non in base ai normali parametri, ma in base
a delle misurazioni della produttività dei lavoratori; ma queste quote del salario
costano di meno all’azienda); l’obiettivo, ovviamente, è aumentare la produttività
nelle aziende.
In concreto il decreto del legislatore (emanato nel 2013, ma poi analogo anche per
gli anni successivi) prevede che una quota della RETRIBUZIONE DI PRODUTTIVITA’
venga tassata solo al 10% (quindi una forte riduzione del costo del lavoro);
ovviamente questo vale SOLO per le retribuzioni più basse (cioè possono godere di
questa detassazione, originariamente, solo i lavoratori che non hanno più di 40.000
euro di reddito all’anno. Poi queste cifre, negli anni, sono state un po' aumentate).
Inoltre, per ogni lavoratore, c’è un importo massimo detassabile (2.500 euro, ma
ogni anno cambia).
COME VIENE EROGATA QUESTA QUOTA DI RETRIBUZIONE (non viene erogata dal
contratto collettivo NAZIONALE, ma da quello AZIENDALE/TERRITORIALE)? Sono
fissati degli INDICATORI DI PRODUTTIVITA’ (che le aziende possono stabilire per
distribuire il “salario di produttività”); ad esempio:
o meno scarti di produzione (nel senso che i lavoratori devono stare più attenti
a non rovinare i pezzi)
o minor tempo di risposta ai reclami dei clienti
o disponibilità alle modifiche degli orari (FLESSIBILITA’ nella gestione degli
orari)
o aumento della sicurezza in azienda grazie al contributo di tutti i lavoratori
o riciclo della carta usata negli uffici
Questi parametri devono essere NECESSARIAMENTE previsti dal contratto collettivo
AZIENDALE/TERRITORIALE.
Possono accedere a tale processo anche le aziende prive di RSA e RSU? SI, perché
questo sistema può essere previsto anche dalla contrattazione TERRITORIALE e non
solo dalla contrattazione AZIENDALE.

 Nel 2014 (10 Gennaio): l’accordo del 2012-2013 è stato seguito dalla stipulazione di
un ultimo ACCORDO INTERCONFEDERALE (TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA
E SULLA RAPPRESENTATIVITA’; è un accordo UNITARIO).
In questo accordo Confindustria, CGIL, CISL e UIL hanno ridefinito sia le regole per
la contrattazione collettiva sia le regole per la rappresentanza sindacale in azienda.
Hanno, sostanzialmente, riscritto queste regole nel senso di una maggiore
valorizzazione del PRINCIPIO DI MAGGIORANZA (cioè chi ha la maggioranza
dovrebbe poter sottoscrivere il contratto collettivo con efficacia anche nei confronti
delle minoranze).

E’ comunque sempre un accordo INTERCONFEDERALE, quindi:


 da un lato vincola solo gli ISCRITTI (ai sindacati firmatari dello stesso)
 dall’altro lato, per poter avere efficacia in tutti i settori, le sue regole devono
essere recepite dai contratti collettivi NAZIONALI di lavoro (ossia le regole da
esso previste devono poi essere confrontate con quanto previsto dal singolo
contratto collettivo nazionale di categoria).

Con riferimento alla CONTRATTAZIONE COLLETTIVA il T.U. SULLA


RAPPRESENTANZA prevede:
 i 2 livelli contrattuali (NAZIONALE ed AZIENDALE)
 a livello AZIENDALE prevede che la contrattazione possa essere esercitata o
dalla RSU (a maggioranza) o dalle RSA (destinatarie della maggioranza delle
deleghe). Nel secondo caso l’accordo può essere soggetto a referendum (nel
senso che se una determinata quantità di lavoratori o un’associazione
sindacale lo chiedono, l’accordo può essere sottoposto a referendum e,
eventualmente, essere posto nel nulla)
 a livello di rapporto tra contratto collettivo NAZIONALE ed AZIENDALE, il T.U.
del 2014 torna alla previsione delle CLAUSOLE D’USCITA (quindi stabilizza
quel sistema per cui sono ammesse deroghe del contratto NAZIONALE da
parte del contratto AZIENDALE secondo procedure espressamente
determinate).
PROBLEMA: il T.U. del 2014 è stato rifiutato dai SINDACATI DI BASE.
I cosiddetti CUB hanno rifiutato l’intesa del 2014, ed hanno promosso un ricorso per
sentirne dichiarare addirittura la NULLITA’ (perché, secondo loro, questo accordo era
lesivo della loro libertà sindacale nella misura in cui imponeva agli stessi
l’accettazione della regola della MAGGIORANZA, che gli avrebbe chiaramente
sempre tagliati fuori).
Nella pratica, questo accordo è stato comunque ritenuto SEMPRE VALIDO.

Le regole di questo T.U. vengono molto spesso richiamate dai c.c.n.l.

8/11
OBIETTIVO DEL T.U. 2014: è quello di garantire la misurazione della rappresentanza e della
rappresentatività dei sindacati (cioè pesare la forza dei sindacati in ciascun settore
contrattuale), al fine di individuare quali sono i sindacati che sono rappresentativi e che
devono essere effettivamente ammessi alle trattative per la stipulazione del contratto
collettivo (cioè con cui il datore di lavoro deve trattare).
Nel settore PRIVATO, in realtà, manca una regola legale che preveda un diritto dei sindacati
di essere ammessi alle trattative; ecco che questo T.U. introduce la REGOLA DEL 5% (per
cui i sindacati che hanno un seguito del 5%, tra i lavoratori, dovrebbero essere ammessi
quantomeno alle trattative da parte dei soggetti che sono vincolati da questo accordo
interconfederale).
Questo T.U. detta anche regole per la STIPULAZIONE dei contratti collettivi, cioè prevede
che possono essere stipulati i contratti collettivi in cui il sindacato rappresenti il 50%+1 dei
lavoratori.
Individua anche regole per la COSTITUZIONE DI RSU in azienda.
Chiaramente, poi, i c.c.n.l dovranno RECEPIRE tali regole perché effettivamente possano
avere efficacia concreta.

PRIMA QUESTIONE: come si misura il peso/la forza/la RAPPRESENTATIVITA’ di un


sindacato? Il T.U. stabilisce che rilevano 2 dati:
 DATO ASSOCIATIVO: bisogna vedere quanti lavoratori sono associati a quel
sindacato
 DATO ELETTORALE: numero dei voti che il sindacato ha ottenuto nell’elezione delle
RSU.
Come si misurano questi dati?
Per quanto riguarda il DATO ASSOCIATIVO l’accordo prevede che si devono contare le
deleghe (per il versamento della quota associativa ai sindacati) che sono state date al
sindacato dai singoli lavoratori.
Come si contano le deleghe?
Sostanzialmente è stata fatta una convenzione con l’INPS per la rilevazione delle “deleghe
associative”. In pratica tutti i datori di lavoro (con il modello di comunicazione all’INPS)
comunicano all’INPS anche il numero di deleghe che hanno ricevuto dai lavoratori (per il
pagamento della quota associativa ai sindacati).
Le organizzazioni sindacali firmatarie del T.U. (d’accordo con le associazioni datoriali)
individuano i vari settori/contratti collettivi attribuendo un codice a ciascun c.c.n.l.; inoltre
attribuiscono un codice identificativo anche a ciascun sindacato che vuole far rilevare il
proprio peso nel proprio settore di appartenenza (ad esempio la FIOM è interessata a far
rilevare il proprio peso nel settore metalmeccanico ma non in quello tessile, perché è il
sindacato metalmeccanico).
A questo punto, ciascun datore di lavoro deve indicare quale è il contratto collettivo che
applica in azienda e, tramite il modulo UNIEMENS (modello tramite cui si comunica
all’INPS), deve anche comunicare all’INPS il numero delle deleghe raccolte (dai lavoratori) a
favore di ciascun sindacato.
L’INPS, per ciascun contratto collettivo, rileva quale è la CONSISTENZA ASSOCIATIVA di
ciascun sindacato interessato alla rilevazione rispetto a quel contratto collettivo.
In questo modo si misura il DATO ASSOCIATIVO (a livello nazionale, cioè i dati vengono
elaborati dall’INPS).

Era previsto che questi dati (raccolti dall’INPS) fossero trasmessi al CNEL (Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro), ma siccome se il CNEL si discute se abolirlo o no,
allora con un accordo del Luglio 2017 i sindacati, i datori di lavoro e l’INPS hanno fatto una
convenzione per cui sarà sempre l’INPS (e non il CNEL) a svolgere tale funzione (quindi i
dati raccolti vengono elaborati all’INPS che, entro la fine dell’anno raccoglie i dati, e poi nei
primi mesi dell’anno successivo dovrebbe emanare tali dati).

Al contempo vengono misurati anche i DATI ELETTORALI (ossia i dati relativi alle elezioni
delle RSU). Essi vengono raccolti e trasmessi, in ogni singola azienda, presso il Comitato
dei Garanti (che in sostanza è istituito presso l’ISPETTORATO DEL LAVORO).
Quindi presso l’Ispettorato del lavoro vengono raccolti i dati sul numero di voti che ciascun
sindacato ha ottenuto nelle elezioni delle RSU.
Anche questi dati vengono elaborati e servono per individuare la CONSISTENZA/il PESO
ELETTORALE del sindacato.
DATI ASSOCIATIVI + DATI ELETTORALI = PESO DEL SINDACATO

Allora (ripetiamo quanto già detto) il sindacato con il 5% di seguito tra i lavoratori
dell’azienda ha diritto ad essere ammesso alle trattative per la stipula del c.c.n.l. (quindi i
sindacati non possono più essere esclusi dalle trattative).
Inoltre, il T.U. dice che il raggiungimento del 50%+1 del seguito da parte dell’insieme dei
sindacati consente la FIRMA del contratto collettivo nazionale di lavoro (cioè il c.c.n.l. può
essere stipulato con vari sindacati che nel loro insieme, però, rappresentino almeno il
50%+1 dei lavoratori); questo dovrebbe contribuire far venir meno quel fenomeno della
“contrattazione separata” (per cui i contratti collettivi vengono firmati solo con i sindacati
che rappresentano solo una piccola parte dei lavoratori).
Inoltre, si dice che “le controparti (cioè i datori di lavoro) favoriranno la presentazione di
PIATTAFORME SINDACALI UNITARIE e, quantomeno, di piattaforme sindacali cui
partecipano i sindacati che hanno il 50%+1 tra i lavoratori” (cioè si apre la trattativa su
rivendicazioni, non presentate da chiunque, ma su rivendicazioni da chi ha il seguito di
almeno il 50%+1 dei lavoratori).
Queste regole dovrebbero potenziare la “contrattazione collettiva” e depotenziare la
“contrattazione separata”.

Il T.U. del 2014 detta anche regole sul rapporto tra contratto collettivo NAZIONALE ed
AZIENDALE (in sostanza riprende le stesse regole dell’accordo interconfederale del 2011): il
contratto NAZIONALE determina le materie di cui il contratto AZIENDALE può occuparsi.
Può stipulare il contratto a livello AZIENDALE o la RSU (a maggioranza) o l’insieme delle
RSA (che abbiano la maggioranza delle deroghe), ma in questo ultimo caso il contratto
collettivo AZIENDALE può essere sottoposto a REFERENDUM sostanzialmente
CONFERMATIVO, e i lavoratori potrebbero disvolere quello che le RSA hanno concordato.
Inoltre anche il T.U. del 2014 contiene una CLAUSOLA D’USCITA che prevede che, in certe
materie-secondo certe procedure e a certe condizioni (per esempio per far fronte a
situazioni di crisi), il contratto AZIENDALE possa introdurre deroghe peggiorative rispetto
al contratto NAZIONALE (questo vuol dire che, in questi casi, siamo certi che l’effettiva
volontà delle parti è proprio quella di consentire la deroga peggiorativa).

QUALE E’ IL RAPPORTO TRA QUESTO T.U. E I CONTRATTI COLLETTIVI NAZIONALI?


In sostanza, l’accordo interconfederale (T.U.) VINCOLA LE PARTI STIPULANTI (che sono le
Confederazioni); mentre i sindacati NAZIONALI hanno piena autonomia contrattuale (quini
possono, a loro volta, stipulare dei loro contratti collettivi nazionali che potrebbero
recepire o meno il contenuto dell’accordo interconfederale). Se un contratto collettivo
NAZIONALE non recepisce il contenuto dell’accoro interconfederale, non per questo le
clausole del contratto nazionale sono NULLE.
Ma, in conclusione, le regole dell’accordo interconfederale, per essere effettive in tutti i
diversi settori, devono essere recepite nei singoli c.c.n.l.

Il T.U. del 2014, nella sua seconda parte, detta anche le regole sulle RSU.
Principali novità (che non sono ancora state recepite da molti c.c.n.l., quindi è un processo
ancora in corso di svolgimento):
 possono presentare liste per la costituzione di RSU in azienda o i sindacati aderenti
alle Confederazioni firmatarie dell’accordo (che sono CGIL, CISL, UIL); o i sindacati
firmatati di contratto collettivo nazionale di lavoro; o le associazioni di base con il
seguito del 5% in azienda ma a condizione che accettino integralmente il contenuto
del T.U. del 2014 (la vera novità è che i sindacati di base (non firmatari del c.c.n.l.),
per poter partecipare alle RSU, devono accettare tutte le regole sulla
rappresentanza che abbiamo appena visto; tra cui anche la REGOLA DELLA
MAGGIORANZA nella stipulazione del c.c.n.l.).
Quindi, fino al 2014 il sindacato di base poteva avere una sua componente nelle
RSU se aveva il 5% di seguito in azienda; OGGI occorre che il sindacato di base
anche accetti le regole previste dal T.U. del 2014.
Ma i sindacati di base solitamente sono MINORITARI (e quindi non possono
accettare la REGOLA SULLA MAGGIORANZA perché loro sono sempre in
minoranza); allora CUB (la Federazione di base) ha fatto ricorso al Tribunale e ha
richiesto che venisse accertata la NULLITA’ dell’intero accordo del 2014.

Il Tribunale di Roma nega al CUB la legittimazione a fare ricorso perché non può
pretendere di vedere accertata la nullità di un accordo stipulato tra soggetti di cui
non fa parte; il Tribunale ci dice che “il T.U. ha efficacia limitata alle Confederazione
che lo hanno stipulato; non ha effetto nei confronti dei sindacati rimasti terzi
(rispetto all’accordo)”. Quindi CUB non ha un interesse per vedere accertata la
nullità di tale T.U. e il suo ricorso è stato respinto.

 Regola del “CAMBIO DI CASACCA”, cioè se un componente eletto in una lista


cambia lista, sostanzialmente decade (quindi questo T.U. rafforza il legame tra il
sindacalista eletto nella RSU e il sindacato che ha presentato la lista)

 Regola dell’INTEGRALE ELEZIONE DELLE RSU (quindi non più 2/3 ed 1/3 riservato)

 Viene formalizzata la regola per cui la RSU decide A MAGGIORANZA.

 Riproposta la CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA (per la quale i sindacati che


partecipano all’elezione di RSU, rinunciano ad avere proprie RSA; in modo che il
sindacato che ha un membro eletto nelle RSU non può assolutamente avere RSA).

 Vengono regolate le procedure di RICORSO (quindi se in azienda ci sono delle


controversie che riguardano l’elezione delle RSU, le varie parti dovranno fare ricorso
alla COMMISSIONE ELETTORALE. Essa è nominata dai sindacati e, contro le decisioni
della stessa, viene fatto ricorso presso il Comitato dei Garanti).

 Sono valide le elezioni delle RSU, anche se partecipano meno del 50% dei lavoratori.

Ultima parte del T.U. contiene le CLAUSOLE DI RAFFREDDAMENTO o DI TREGUA: il T.U. qui
fa rinvio ai c.c.n.l., cioè ci dice che “i contratti collettivi nazionali di lavoro definiranno le
CLASUOLE DI TREGUA e le PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO per garantire l’ESIGIBILITA’
degli accordi (ossia che il datore di lavoro possa far conto che l’accordo AZIENDALE o
NAZIONALE, che è stato stipulato, sia rispettato e non venga messo di nuovo in
discussione prima della scadenza”.
Molto discussa è l’EFFICACIA di queste clausole: nel T.U. si dice che sono VINCOLANTI per
TUTTI i sindacati, ma NON SONO VINCOLANTI per i lavoratori.
OBIETTIVO DI QUESTA NORMA: imporre l’obbligo di tregua anche a quei sindacati (per
esempio i CUB) che scelgono di non firmare il contratto AZIENDALE.
Ma serve sempre che queste clausole vengano recepite dal c.c.n.l. per poter avere effetto.

Perciò, quando si vogliono applicare tutte queste regole che abbiamo visto (previste dal
T.U. del 2014) l’importante è verificare che QUESTE REGOLE SIANO RECEPITE NEL
CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO (che dobbiamo prendere in
considerazione).

CONDOTTA ANTISINDACALE
ART.28 SL: è una norma che introduce uno speciale strumento processuale, cioè l’AZIONE
DI REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE (vuol dire che se un datore di lavoro
tiene un comportamento che lede/pregiudica gli interessi del sindacato, il sindacato può
fare ricorso, ex art.28, per ottenere la CESSAZIONE di quella condotta e la RIMOZIONE
degli effetti).
Esempio: datore di lavoro che si rifiuta di concedere l’assemblea retribuita; il sindacato
esterno può agire ex art.28 e chiedere che il datore venga condannato a consentire
l’assemblea e a rimuovere appunto gli effetti pregiudizievoli.
PERCHE’ NEL 1970 SI E’ INTRODOTTO L’ART.28?
Questa norma è stata introdotta perché ci si è accorti che gli strumenti ordinari non erano
sufficienti (in Italia, infatti, le azioni durano 20-25 anni, quindi era impensabile che l’azione
contro il diniego di un’assemblea durasse 10-20 anni). Questa nuova azione è molto
veloce, infatti è un’azione SOMMARIA e ha carattere INIBITORI (nel senso che
inibisce/proibisce al datore di lavoro di continuare a tenere quell’atteggiamento, a tutela
dell’interesse sindacale leso).

ART.28 SL: “qualora il datore di lavoro porta in essere comportamenti diretti ad impedire o
limitare l’esercizio della libertà sindacale, della attività sindacale o del diritto di sciopero, su
ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse,
il Tribunale (del luogo dove è stato posto in essere il comportamento) nei 2 giorni
successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga
sussistente la violazione, ORDINA al datore di lavoro (con decreto MOTIVATO
immediatamente esecutivo) la CESSAZIONE del comportamento e la RIMOZIONE degli
effetti”.
E’ una NORMA DI CHIUSURA (cioè è uno strumento che si aggiunge agli altri strumenti di
tutela ordinari, per evitare le lungaggini dei processi che avrebbero compromesso la tutela
celere/immediata).
E’ una tutela INIBITORIA (inibisce al datore di lavoro di continuare a tenere un certo
comportamento) e RIPRISTINATORIA (perché l’obiettivo è di ripristinare il diritto leso;
quindi rimettere il sindacato nell’esercizio dei propri diritti)

CONTRO CHI IL SINDACATO PROMUOVE QUESTA AZIONE?


Contro il DATORE DI LAVORO (che quindi è il LEGITTIMATO PASSIVO), a prescindere dal
numero dei dipendenti; questa azione non viene promossa contro le associazioni datoriali,
A MENO CHE non abbiano agito in concorso con il datore di lavoro.

CHI SONO I SOGGETTI TITOLARI DELL’AZIONE (LEGITTIMATI ATTIVI)?


Solo il SINDACATO è titolare di questa azione di condotta antisindacale.
TUTTI I SINDACATI? NO, c’è l’esigenza di selezionare i sindacati (per evitare che il datore
sia soggetto a più azioni, anche da parte di soggetti che non hanno niente da perdere).
La norma specifica che deve essere l’organismo locale di un sindacato nazionale che vi
abbia interesse.
La RSA e la RSU può agire ex art.28? NO. Sono legittimate, invece, ad esempio le
ARTICOLAZIONI PROVINCIALI di un sindacato nazionale.
PUO’ agire ex art.28 LA CONFEDERAZIONE SINDACALE (ad esempio la CISL)
DIRETTAMENTE? NO.
Tempo fa c’era (ora non si sa se c’è ancora) il cosiddetto SINDACATO LEGHISTA (nemmeno
esso può agire ex art.28 perché NON E’ NAZIONALE).

COSA SIGNIFICA SINDACATO NAZIONALE? La giurisprudenza ci dice che, in questo caso,


NON E’ NECESSARIO che il sindacato abbia stipulato un contratto collettivo NAZIONALE di
lavoro, purché da altri indici si desuma il livello NAZIONALE.
Quali sono questi indici rilevanti?
 Numero degli iscritti
 Diffusione territoriale
 Sindacato sia intercategoriale
 Sindacato sia attivo nella proclamazione di scioperi e di azioni si autotutela

COSA VUOL DIRE “che vi abbia interesse”? Significa che, quantomeno, deve esserci un
collegamento tra interesse collettivo (rappresentato dal sindacato) e quella che è la
situazione che è stata lesa/danneggiata.
Non è necessario che ci siano iscritti al sindacato in azienda (perché questo possa
intervenire), ma deve esserci solo una “colleganza di interessi”.

Altra cosa che notiamo è che chiaramente c’è una sfasatura tra i sindacati che possono
agire ex art.28 e i sindacati che, per esempio, hanno diritto ad avere la propria RSA (cioè un
sindacato potrebbe avere diritto ad avere la propria RSA in azienda, perché per esempio
ha partecipato alle trattative per la stipula del contratto aziendale, SENZA avere diritto di
tutelare quelle situazioni ex art.28 perché non è organismo locale di sindacato nazionale).
Subito dopo che l’art.28 è stato emanato, sono subito sorti DUBBI DI LEGITTIMITA’
COSTITUZIONALE della norma.
Qualcuno si è chiesto se violasse o no gli artt.3-39 Cost (cioè se violasse il “principio di
uguaglianza” e il “principio di libertà sindacale”); cioè se fosse contraria alla Costituzione la
scelta di attribuire questo strumento processuale non a TUTTI i sindacati ma solo ad alcuni
sindacati selezionati (cioè organismi locali dei sindacati nazionali).
La Corte Costituzionale (SENTENZA 54/1974) ha escluso che l’art.28 sia incostituzionale
perché è uno strumento che si AGGIUNGE agli ordinari strumenti di tutela (quindi nulla
toglie ai sindacati ai quali non è permesso l’utilizzo) ed è legittima la selezione (cioè è
ragionevole la scelta di attribuire questa particolare prerogativa SOLO ai sindacati dotati di
effettiva forza/rappresentatività dei lavoratori).

PROBLEMA: l’art.28 è norma SOLO PROCESSUALE o è anche una norma SOSTANZIALE?


 Coloro che sostengono che è SOLO norma PROCESSUALE dicono che “la condotta è
vietata già in base ad altre norme (per esempio l’ART.39 Cost), e l’art.28 quindi si
limita ad introdurre uno strumento processuale di tutela”; cioè l’art.28 è norma
SOLO PROCESSUALE e infatti ci dice solo che, anziché agire in giudizio con
un’azione che dura 10 anni, possiamo agire in giudizio con una speciale azione di 2
giorni; ma non è l’art.28 che vieta i comportamenti antisindacali (perché lo fa già
l’art.39 Cost). TESI PREFERIBILE

 Altri sostengono che “è lo stesso art.28 a rendere illegittimi certi comportamenti


che, altrimenti, sarebbero consentiti”. Quindi l’art.28 è una norma NON SOLO
PROCESSUALE (che individua un procedimento più veloce), ma anche una norma
SOSTANZIALE (che vieta determinati comportamenti che, altrimenti, non sarebbero
antisindacali).

Vero è che nel nostro ordinamento sono vietate, solo le condotte antisindacali TIPICHE, ma
anche quelle ATIPICHE.
Esempio di condotta antisindacale TIPICA: datore di lavoro che nega l’assemblea (perché
c’è una norma, l’art.20 SL, che espressamente riconosce questo diritto).
Quindi la condotta antisindacale è TIPICA quando la condotta è ESPRESSAMENTE prevista
da una norma di legge o da una norma del contratto collettivo.

Invece, la condotta antisindacale è ATIPICA quando la condotta NON E’ espressamente


individuata da una norma di legge o da una norma del contratto collettivo, però è una
condotta comunque lesiva della “libertà sindacale” (contemplata dall’art.39 Cost) perché
realizzano un’opposizione AL conflitto (vedi sotto).
Esempio: il datore di lavoro, in vista di un’assemblea sindacale del giorno dopo, assegna
invece carichi di lavoro al dirigente di RSA in modo da impedirgli di fatto di essere in grado
di partecipare all’assemblea.
Altro esempio: datore di lavoro non ammette alle trattative un sindacato che, pure non ha
diritto di partecipare alle trattative, ma lo fa per mettere in difficoltà e denigrare agli occhi
dei lavoratori quel sindacato.
Giugni dice che bisogna distingue tra:
 OPPOSIZIONE (del datore) NEL CONFLITTO
 OPPOSIZIONE (del datore) AL CONFLITTO
Sostanzialmente questo significa che bisogna “giocare ad armi pari”; non ci si può opporre
al conflitto con il sindacato, bisogna accettare il conflitto e “giocare alla pari”.

Per esempio, anche la violazione della PARTE NORMATIVA (che regola i diritti dei
lavoratori) del contratto collettivo è considerata condotta antisindacale ATIPICA se è
sostanzialmente diretta a svilire il sindacato. Violazione della PARTE OBBLIGATORIA del
contratto collettivo è anch’essa condotta antisindacale.

TRASFERIMENTO D’AZIENDA: la mancata apertura del tavolo sindacale (obbligatoria per le


aziende con più di 15 dipendenti) è condotta antisindacale TIPICA.

RIFIUTO DELLA TRATTATIVA: in linea di principio non c’è un diritto del sindacato ad essere
ammesso alla trattativa, quindi è LEGITTIMA la condotta del datore che rifiuta di aprire le
trattative con un certo sindacato; A MENO CHE la legge non preveda espressamente un
“obbligo a trattare” (per esempio la legge 223/1991 sui licenziamenti collettivi
esplicitamente ci dice quali sono i sindacati destinatari delle comunicazioni di apertura
della procedura ed espressamente ci dice che devono essere avviate le consultazioni con
QUEI sindacati).
Quindi il rifiuto del datore di lavoro di aprire le trattative con un certo sindacato è
condotta antisindacale (TIPICA) SOLO SE LA LEGGE PREVEDE ESPRESSAMENTE UN
“OBBLIGO A TRATTARE” e il datore di lavoro non rispetta tale obbligo per mettere quel
sindacato in cattiva luce rispetto ai lavoratori.
La sentenza della Cassazione del 2013 ci dice, infatti, che “il rifiuto a trattare è ILLEGITTIMO
quando risulta un uso distorto da parte del datore (della propria libertà) che è lesivo della
libertà sindacale (ossia quando il datore non tratta con un sindacato per denigrarlo agli
occhi dei lavoratori)”.
E’ chiaro, però, che se in un settore è stato recepito il T.U. del 2014, in quel settore i
sindacati con il 5% di seguito hanno diritto ad essere sempre ammessi alle trattative
(quindi, in questo caso, è condotta antisindacale la mancata apertura delle trattative).

AFFINCHE’ LA CONDOTTA SIA ANTISINDACALE, E’ NECESSARIO L’ELEMENTO SOGGETTIVO


(ossia è necessaria l’INTENZIONE del datore di lavoro di danneggiare)?
Esempio: datore di lavoro che non consente l’assemblea perché non sapeva che i lavoratori
avessero diritto ad essa (quindi l’ha fatto in buonafede, non con l’intenzione di
danneggiare), è condotta antisindacale o no? SI.
La Cassazione ci dice che affinché la condotta sia ritenuta antisindacale NON E’
NECESSARIA l’intenzione del datore di lavoro di ledere il sindacato, è sufficiente che il
comportamento sia oggettivamente lesivo.
In realtà ci sono stati 3 tesi/orientamenti diversi:
1. Siccome l’art.28 parla di “comportamento DIRETTO A ledere il sindacato”, allora
sarebbe SEMPRE NECESSARIA l’intenzione del datore di danneggiare il sindacato.
Quindi ELEMENTO SOGGETTIVO SEMPRE NECESSARIO.
2. ELEMENTO SOGGETTIVO MAI NECESSARIO (quindi non è mai necessaria
l’intenzione del datore di ledere il sindacato). TESI SOSTENUTA DALLA CASSAZIONE
(vedi sopra).
3. Vallebona ci dice che l’ELEMENTO SOGGETTIVO non è necessario se la condotta
antisindacale è TIPICA (perché lì c’è già la norma di legge che ci dice che quel
comportamento è vietato); mentre è necessario se la condotta antisindacale è
ATIPICA (qui è proprio l’intento del datore di discriminare il sindacato che fa sì che
quella condotta sia antisindacale). Ma questo non è quello che sostiene la
Cassazione.

ALTRA DISTINZIONE (fatta dalla giurisprudenza) è quella tra condotte antisindacali


MONOFFENSIVE (ossia che offende l’interesse di UN SOLO soggetto; in particolare
pregiudica/lede l’interesse solo del SINDACATO) e condotte antisindacali PLURIOFFENSIVE
(ossia che offende l’interesse di PIU’ soggetti; lede oltre al SINDACATO anche il singolo
LAVORATORE).
Esempio di condotta antisindacale PLURIOFFENSIVA: trasferimento da un’unità produttiva
ad un’altra di un dirigente di RSA senza il previo nulla-osta (ossia senza aver prima
richiesto l’autorizzazione del sindacato). Qui l’interesse leso è quello del sindacato ma
ovviamente è leso anche l’interesse del singolo lavoratore (in questo caso il dirigente).

9/11
CONDOTTA ANTISINDACALE: qualsiasi comportamento diretto ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà sindacale, dell’attività sindacale e del diritto di sciopero.

CONDOTTA PLURIOFFENSIVA: condotta che lede sia l’interesse del sindacato che
l’interesse del singolo lavoratore.
Esempio: trasferimento di un dirigente di RSA intimato senza il nulla-osta sindacale.
Contro questo trasferimento hanno interesse ad agire tanto il SINDACATO (ex art.28),
quanto il SINGOLO LAVORATORE (con ricorso individuale).
PROBLEMA: poiché queste azioni possono essere decise da 2 giudici diversi, potremmo
avere il caso in cui nella causa (iniziata dal sindacato ex art.28) il giudice magari ritenga
“che la condotta non è antisindacale (o viceversa)”, mentre nella causa (intentata dal
singolo lavoratore) il giudice dia una soluzione opposta; quindi possibile contrasto tra
queste 2 decisioni.
Allora ci si è chiesti: in questo caso c’è un CONFLITTO DI GIUDICATI (cioè c’è un contrasto
inconciliabile tra queste pronunce) oppure no? La Cassazione ci dice che il contrasto può
essere solo “in pratica”, ma non c’è un conflitto giuridico (ossa le due pronunce possono
coesistere, non sono incompatibili) perché l’oggetto del giudizio è diverso (nel primo caso
si tutela l’interesse collettivo, nel secondo caso si tutela l’interesse individuale); quindi non
c’è conflitto di giudicati tra queste due sentenze.
Ma può succedere che, per esempio, il singolo lavoratore chiude la questione con una
TRANSAZIONE (quindi il singolo lavoratore “transa” con il datore di lavoro).
In questo caso la controversia tra datore di lavoro e sindacato può proseguire oppure la
transazione influenza anch’essa? La giurisprudenza ci dice che la controversia (ex art.28 SL;
tra datore di lavoro e sindacato) può proseguire perché l’interesse tutelato (in capo al
sindacato) resta (infatti non c’è “conflitto di giudicati”, quindi le 2 pronunce possono
andare avanti indipendentemente); l’unica cosa non più possibile (nella causa ex art.28, tra
datore di lavoro e sindacato) è quella di ottenere una pronuncia che ripristini la situazione
a vantaggio del lavoratore (perché quel lavoratore ha rinunciato ad essa).
Esempio: se si ha un licenziamento discriminatorio, certamente non si potrebbe arrivare ad
una REINTEGRAZIONE del lavoratore che ha “transato”, ma si può arrivare ad affermare
che quella condotta del datore è antisindacale.

La condotta per essere definita antisindacale deve possedere anche il carattere


dell’ATTUALITA’ (cioè non deve essere una condotta che ormai ha esaurito nel tempo i suoi
effetti, ma deve essere una condotta ancora in grado di generare i suoi effetti lesivi nei
confronti dei lavoratori). Questo significa che il sindacato non può reagire a distanza di 1-
2-3 anni da una condotta che si assume come antisindacale, quindi da un lato serve
l’immediatezza dell’azione sindacale; dall’altro lato, però, resta ATTUALE una condotta
quando c’è il pericolo della sua “reiterazione”.
Esempio: datore di lavoro che non concede l’assemblea del 20/10/2017; il sindacato ex
art.28 promuove il giudizio. Il datore di lavoro, per difendersi, potrebbe dire che ormai
l’assemblea del 20/10 non si è tenuta e quindi quella condotta è priva del requisito di
ATTUALITA’, o c’è qualche rischio? Il rischio è che quella condotta possa essere
nuovamente “reiterata”.
Quindi il requisito di ATTUALITA’ della condotta sussiste quando o siano attuali gli effetti di
quella condotta, o comunque quando ci sia evidentemente il pericolo di “reiterazione” di
quella condotta.

COME SI SVOLGE IN PROCEDIMENTO? COSA SUCCEDE DURANTE LA CAUSA?


Il sindacato agisce contro il datore di lavoro ex art.28; l’azione è SOMMARIA (vuol dire che
il giudizio si svolge sulla base di “sommarie” informazioni, ossia non ci sono testimoni ma il
giudice può eventualmente sentire degli “informatori”), INIBITORIA ma con GARANZIA DEL
CONTRADDITTORIO (ossia il datore di lavoro deve potersi difendere in giudizio); quindi il
ricorso ex art.28 viene notificato al datore di lavoro che, a sua volta, può costituirsi in
giudizio e pronunciare le proprie difese.

Il giudice (sulla base delle “sommarie informazioni”), in 2 giorni (in realtà non sono proprio
2gg ma comunque il termine è molto breve), pronuncia un DECRETO MOTIVATO e
PROVVISORIAMENTE ESECUTIVO (vuol dire che la parte soccombente, in questo caso il
datore di lavoro, deve ottemperare a quanto il giudice ordina).
Con questo DECRETO il giudice, se ritiene provata la condotta antisindacale, ordina al
datore di lavoro la CESSAZIONE della condotta e la RIMOZIONE degli effetti (ossia il
RIPRISTINO DELLA SITUAZIONE PRECEDENTE). Qui termina la PRIMA FASE (ad istruttoria
sommaria).

La parte soccombente può fare OPPOSIZIONE contro questo decreto, ma l’opposizione è


fatta entro un termine molto breve (15gg dal momento in cui è stata mandata
comunicazione di questo decreto alle parti).
L’opposizione va fatta davanti allo stesso Tribunale del lavoro che ha giudicato nella prima
fase (il Tribunale è lo stesso, ma il giudice/persona fisica deve essere diverso).
Si apre così la SECONDA FASE (non è ad istruttoria “sommaria” ma ad istruttoria PIENA;
quindi si valutano tutte le prove che si possono avere). Questa fase si concluderà con una
SENTENZA.
Contro questa sentenza si potrà fare appello e poi si andrà in Cassazione.

Se nella PRIMA FASE il datore ha perso ed è stato condannato a cessare la condotta e a


rimuovere gli effetti, deve ottemperare all’ordine del giudice oppure no? SI, ed è molto
incentivato a farlo perché il datore di lavoro che NON OTTEMPERA all’ordine del giudice
(al decreto emanato dal giudice) rischia di subire una CONDANNA PENALE (si applica
l’art.650 del codice penale, che considera “reato” la mancata osservanza di un ordine dato
dall’autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica).
Spesso i giudizi di condotta antisindacale si concludono anche con degli ordini di
pubblicare questo decreto sui principali quotidiani della città (questa sanzione è temuta da
molte aziende in quanto lede alla loro immagine e reputazione).

Qual è il CONTENUTO del decreto (emanato dal giudice al termine della PRIMA FASE)? Il
giudice ordina al datore di lavoro la CESSAZIONE della condotta e la RIMOZIONE degli
effetti (ossia la rimessa in pristino della situazione precedente). Questo decreto ha efficacia
fino alla sentenza (che chiude la seconda fase); ovviamente se la parte soccombente non
presenta opposizione la SECONDA FASE non si apre e il tutto termina con il DECRETO. Se
poi il decreto non viene rispettato, allora il datore di lavoro verrà sanzionato.

Un’altra sanzione che i datori di lavoro temono molto è quella della REVOCA DEL CREDITO
D’IMPOSTA che incentiva le nuove assunzioni per incremento dell’organico (infatti i datori
di lavoro condannati per condotta antisindacale rischiano anche di perdere la possibilità di
accedere ad alcuni benefici che sono riservati a quei datori di lavoro che rispettano le varie
disposizioni).

QUESTIONE SUI LICENZIAMENTI COLLETTIVI


Sappiamo che quando si apre una procedura di LICENZIAMENTO COLLETTIVO, per le
aziende con più di 15 dipendenti devono essere date delle COMUNICAZIONI al sindacato;
con queste comunicazioni ai sindacati vengono date tutta una serie di informazioni sul
progetto di licenziamento, ma anche sulle posizioni dei lavoratori coinvolti, sul numero dei
lavoratori convolti, sull’intero organico dell’azienda, sulle retribuzioni incentivanti, ecc..
Non tutti i datori di lavoro, però, rispettano la LEGGE 223/1991 (nel senso che può
succedere che il datore di lavoro ometta di dare comunicazione al sindacato della apertura
di una procedura di licenziamento collettivo). In questo caso, allora, da un lato c’è da un
lato l’azione del singolo lavoratore licenziato (all’esito di un licenziamento non preceduto
dalle comunicazioni sindacali); dall’altro lato ci può essere (e normalmente c’è) l’azione ex
art.28 del sindacato (per condotta antisindacale).

Quali sono le CONSEGUENZE SANZIONATORIE per il datore di lavoro che omette le


procedure? Fino alla Legge Fornero le conseguenze sanzionatorie erano sempre quelle
dell’art.18 SL. La Legge Fornero ha modulato il regime sanzionatorio anche con riferimento
ai licenziamenti collettivi.
Il Jobs Act (d.lgs.23/2015 sul contratto “a tutele crescenti”) ha nuovamente ritoccato queste
tutele per i lavoratori assunti dopo il 07.03.2015.
Le conseguenze sanzionatorie previste dalla riforma Fornero erano:
 Tutela REINTEGRATORIA se manca la forma scritta
 Tutela REINTEGRATORIA ATTENUATA se violati i criteri di scelta
 Tutela INDENNITARIA FORTE per violazione delle procedure.
Il Jobs Act, invece, prevede un’ulteriore riduzione delle tutele; ci dice:
 Tutela REALE PIENA se manca la forma scritta (quindi nessun licenziamento
collettivo avverrà mai senza forma scritta)
 Tutela INDENNITARIA per violazione delle procedure e anche per violazione dei
criteri di scelta (con l’indennità più bassa, dalle 4 alle 24 mensilità, che è prevista
oggi).
Il lavoratore che impugna il licenziamento (intimato senza le comunicazioni ai sindacati)
può ottenere mai la REINTEGRAZIONE OGGI? NO, non la può mai ottenere (il singolo
lavoratore nella singola causa intentata contro il datore di lavoro non può ottenere mai la
REINTEGRAZIONE, al massimo potrà ottenere la TUTELA INDENNITARIA).

E il sindacato (che invece agisce ex art.28) può ottenere un decreto di cessazione della
condotta e di rimozione degli effetti? SI.
Ma come RIMOZIONE DEGLI EFFETTI si deve intendere la REINTEGRAZIONE del lavoratore
oppure no? Varie tesi:
 Alcuni dicono ASSOLUTAMENTE NO perché non sarebbe congruo che il sindacato
potesse ottenere una tutela maggiore rispetto a quella del singolo.
 Altri dicono che, in realtà, l’interesse (del sindacato e del singolo lavoratore) è
diverso, e quindi si dovrebbe ammettere anche che il sindacato potesse ottenere
una PRONUNCIA DI REINTEGRAZIONE.
Il Tribunale di Roma ha “sposato” la PRIMA TESI (ossia ci dice che il sindacato non può
ottenere la reintegrazione, che sostanzialmente è un provvedimento che neppure il singolo
lavoratore può ottenere); l’unica sanzione che il sindacato può ottenere è quella di
ottenere la PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA.
TRASFERIMENTO D’AZIENDA: Anche per il trasferimento d’azienda, per le imprese con più
di 15 dipendenti, sono previste delle procedure sindacali (cioè almeno 25gg prima che sia
raggiunto un accordo vincolante, le parti devono dare COMUNICAZIONE dell’intenzione di
procedere al trasferimento d’azienda ai rispettivi sindacati).
Cosa succede se i datori di lavoro omettono di effettuare tali COMUNCIAZIONI? La
giurisprudenza dice che si è sicuramente di fronte ad un’ipotesi di condotta antisindacale,
ma non solo per questo si può considerare INVALIDA la procedura (quindi, anche in questo
caso, ci sarà la condanna, la pubblicazione, l’ordine di ripetere la procedura; ma non per
questo si può ritenere invalido il trasferimento d’azienda).

DIRITTO DI ASSEMBLEA: si tratta di datore di lavoro che nega l’assemblea o datore di


lavoro che mette a disposizione dei locali esterni al luogo di lavoro.
CASO: datore di lavoro che aveva messo a disposizione dei locali ESTERNI (al luogo di
lavoro) ma facilmente accessibili, ed ovviamente tale scelta era dovuta ad esigenze
organizzative. Sindacato promuove ricorso per condotta antisindacale. Il ricorso VIENE
RIGETTATO perché (come abbiamo già visto), è vero che il datore deve mettere a
disposizione luoghi per l’assemblea, ma questi possono essere anche ESTERNI al luogo di
lavoro.
CASO 1: datore di lavoro che aveva messo a disposizione locali ESTERNI ma il sindacato
lamentava che fossero troppo distanti e che il datore non avesse comunicato con
sufficiente preavviso la data dell’assemblea.
Il giudice, in questo caso, ha ritenuto antisindacale la condotta ma solo per la parte del
MANCATO PREAVVISO (in questo caso non c’è una norma specifica che prevede che il
datore deve dare il PREAVVISO, ma è stata comunque considerata condotta antisindacale
ATIPICA).

SCIOPERO: datore di lavoro che subisce lo sciopero dei suoi dipendenti e, a fronte dello
sciopero, chiede agli altri lavoratori (in forze presso la propria azienda) di svolgere anche le
mansioni degli scioperanti.
Nel caso specifico, però, c’era stata una dequalificazione temporanea di quei lavoratori
(perché a quei lavoratori, che normalmente svolgevano attività di vigilanza, era stato
chiesto di svolgere mansioni inferiori di manovra dei treni).
E’ intervenuto il sindacato (sempre ex art.28).
E’ legittimo il cosiddetto CRUMIRAGGIO (cioè la sostituzione dei lavoratori scioperanti con
altri lavoratori)? Se il crumiraggio è ESTERNO (ossia assunzione di altri lavoratori per
sostituire quelli in sciopero) è SEMPRE VIETATO.
Ma in questo caso il crumiraggio è INTERNO (ossia vengono adibiti lavoratori già
dipendenti dell’azienda a mansioni diverse); la Cassazione (se ricordiamo) ci dice che “è
legittima l’adibizione dei lavoratori non scioperanti a mansioni equivalenti; è illegittima
l’adibizione dei lavoratori non scioperanti a mansioni inferiori” (quindi non si potrebbero
rimpiazzare temporaneamente i lavoratori scioperanti con lavoratori di qualifiche superiori,
demansionando questi ultimi).
Infatti nel caso specifico la condotta del datore di lavoro è stata considerata antisindacale.
Ovviamente OGGI, con la modifica dell’art.2013 cc, tutto quello che è legittimo (ex 2103)
dovrebbe essere legittimo anche in questo ambito.

CONDOTTA ANTISINDACALE e TRATTATIVE: vari casi in cui c’era stata l’esclusione del
sindacato dalle trattative per il rinnovo del contratto collettivo.
CASO: non c’era nessun obbligo previsto dai contratti collettivi ad aprire le trattative con
TUTTI i sindacati e l’azienda, in effetti, aveva convocato solo determinati sindacati a
discapito di altri.
La Cassazione ci dice che, in casi come questi, la mancata apertura delle trattative a tutti i
sindacati NON E’ CONDOTTA ANTISINDACALE, SALVO CHE la mancata apertura delle
trattative con un certo sindacato non sia diretta a depotenziarlo.

CASO TIM: c’era stato un ACCORDO INTEGRATIVO (ossia un contratto AZIENDALE) in cui si
era concordato che il rinnovo del contratto aziendale sarebbe stato stipulato con tutti i
sindacati che avessero una certa rappresentatività in azienda (e tra l’altro facendo espresso
riferimento al T.U. del 2014).
Il giudice, in questo caso, ha ritenuto che l’obbligo di ammettere TUTTI i sindacati alle
trattative derivasse da una specifica disposizione del contratto collettivo, quindi la mancata
apertura delle trattative con quei sindacati che (per espressa previsione del contratto
collettivo) dovevano essere convocati è stata senza dubbio ritenuta CONDOTTA
ANTISINDACALE.

USI AZIENDALI
Occorre distinguere diversi tipi di USI:
 NORMATIVI: sono FONTI DI DIRITTO oggettivo; si dice che sono degli usi che i
soggetti consociati seguono in quanto ritenuti OBBLIGATORI.
Si distinguono, loro volta, in:
o Usi “PRAETER LEGEM” (vuol dire che “manca la legge”): usi che si sono
sviluppati in mancanza di norme di diritto, e che i consociati rispettano in
quanto ritenuti obbligatori/vincolanti.
o Usi “SECUNDUM LEGEM” (vuol dire “secondo la legge”): usi che sono
espressamente richiamati dalle norme di diritto (quindi la norma di legge
richiama un uso).
Esempio: l’art.2118 cc che riguarda la DURATA DEL PREAVVISO (qui c’è una
norma che ci dice che “la durata del preavviso è determinata dai contratti
collettivi o, in mancanza, dagli USI o secondo equità”).
Quelli che non sono assolutamente rilevanti sono gli USI “CONTRA LEGEM” (nel
senso che se una norma disciplina una certa materia, è chiaro che l’uso non può
sovvertire quello che la norma prevede).
 NEGOZIALI: sono richiamati dall’ART.1340 cc. Sono prassi/usi che sostanzialmente
vengono ad integrare il contratto di lavoro, a meno che espressamente non risulta
che le parti non li hanno voluti (e ci sono spesso le “raccolte di usi” tenute dalle
Camere di Commercio).
La differenza rispetto agli usi NORMATIVI è che NON SONO fonti di diritto e non c’è
la convinzione della loro obbligatorietà (sono prassi che vengono richiamate ma che
non sono ritenute obbligatorie).
Quindi l’USO NEGOZIALE integra la volontà delle parti stipulanti SOLO se le parti
l’hanno esplicitamente o implicitamente voluto.

 AZIENDALI: sono per esempio dei PREMI AZIENDALI, che all’inizio non erano dovuti,
ma che per 5-10 anni un datore di lavoro ha riconosciuto a tutti i dipendenti. Allora,
per effetto della reiterata elargizione, sono sostanzialmente diventati OBBLIGATORI.
Quindi l’USO AZIENDALE è una prassi/una pratica che si forma in azienda, a fronte
di un reiterato comportamento del datore di lavoro nei confronti di tutti i
dipendenti.
E’ un comportamento che, in origine è volontario/spontaneo, ma poi, per effetto
della reiterazione (nei confronti di tutti) per lungo tempo, diventa OBBLIGATORIO.

CHE NATURA HANNO GLI USI AZIENDALI?


Si sono fronteggiate 2 tesi:
1. Sono usi NEGOZIALI (quindi rientrano nella categoria degli usi ex art.1340 cc),
perciò integrerebbero il contenuto del contratto salvo che le parti non voluto
previsto diversamente.
Tesi seguita da Vallebona e anche seguita dalla Cassazione in una sentenza
del 2012.
Dire che sono usi NEGOZIALI vuol dire che non è necessario che ci sia la
convinzione che siano dovuti/obbligatori e che, sostanzialmente, si
incorporano nel contratto individuale.

La conseguenza di questa impostazione (per cui l’uso è entrato a far parte del
contratto individuale) è che un successivo contratto collettivo, anche
AZIENDALE, non potrebbe superare “in pejus”/eliminare l’uso (ossia le
condizioni di miglior favore che derivano dagli usi aziendali, non possono
essere derogate “in pejus” dalla contrattazione collettiva; posto che gli usi
negoziali si inseriscono nei singoli contratti individuali e, quindi, per essere
rimossi serve il consenso del singolo).

Quindi, secondo questa prima teoria, ci dice che gli USI AZIENDALI sono usi
negoziali che, sostanzialmente, entrano a far parte del trattamento cui il
singolo lavoratore ha diritto, e che NON possono essere rimessi in
discussione da un successivo contratto collettivo.
2. Sono usi con natura di CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE; quindi è una
sorta di “consenso tacito” tra le parti che può portare al riconoscimento di
questo premio.
Perciò l’USO AZIENDALE è fonte di un obbligo (del datore) unilaterale di
carattere collettivo (ha la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale);
quindi è sufficiente un successivo contratto collettivo AZIENDALE per
rimettere in discussione tale uso/tale premio (non serve il consenso del
singolo).
Sono fatti salvi i cosiddetti DIRITTI QUESITI (ossia quei diritti che ormai sono
entrati a far parte del patrimonio del lavoratore).
Tesi “sposata” recentemente dalla Cassazione.

Questa questione dei DIRITTI QUESITI diventa rilevante in quei casi (che sono
all’ordine del giorno) di TRASFERIMENTO DI RAMO D’AZIENDA, in cui un
gruppo di lavoratori (provenienti da un’altra azienda) viene acquisito magari
da un imprenditore e questi lavoratori magari hanno, come loro bagaglio, dei
PREMI AZIENDALI assolutamente più alti (o che gli altri addirittura non
hanno) rispetto agli altri lavoratori.
In caso di ACQUISIZIONE/FUSIONE/TRASFERIMENTO DI UN RAMO
D’AZIENDA, il cessionario deve continuare ad applicare/riconoscere i premi
aziendali che i lavoratori acquisiti godevano presso il cedente oppure no?
Parlando di “trasferimento di ramo d’azienda” dobbiamo fare riferimento
all’ART.2112 cc che, con riferimento al trattamento dei lavoratori, ci dice che
“il rapporto prosegue inalterato; c’è la responsabilità solidale di cedente e
cessionario per i debiti pregressi; ecc..”.
Ma soprattutto IL CESSIONARIO QUALI CONTRATTI COLLETTIVI DEVE
APPLICARE AI DIPENDENTI DEL RAMO ACQUISITO? Il cessionario ai
dipendenti del ramo acquisito applica i contratti collettivi applicati dal
cedente fino alla loro scadenza, A MENO CHE il cessionario non sostituisca
quei contratti collettivi con altri contratti collettivi (applicati nella sua azienda)
che siano DELLO STESSO LIVELLO.

Esempio (con riferimento al discorso sugli USI AZIENDALI che abbiamo fatto
prima): immaginiamo che ci sia una banca che viene acquisita da un’altra
banca (caso di INCORPORAZIONE), e il primo gruppo di lavoratori (della
banca che viene acquisita) si porta dietro un PREMIO AZIENDALE.
Il cessionario che cosa può fare rispetto a questi trattamenti? Abbiamo
appena che i PREMI AZIENDALI (o USI AZIENDALI) hanno natura di contratto
collettivo AZIENDALE; a questo punto il cessionario potrebbe sostituire
questi vecchi premi aziendali con un diverso contratto collettivo AZIENDALE
che magari possa prevedere anche la riduzione di questi premi.
Nel caso concreto il singolo dipendente acquisito aveva preteso di farsi
riconoscere il PREMIO DEL RENDIMENTO (previsto dal contratto aziendale
precedente) e DEL SUPERMINIMO (che era un uso aziendale) anche da parte
del nuovo cessionario.
La Corte di Cassazione ci dice che siamo di fronte ad un caso di
TRASFERIMENTO D’AZIENDA e dobbiamo trattare questa disciplina
sostanzialmente come se fosse una disciplina di “sostituzione tra contratti
collettivi”; quindi, ai sensi dell’art.2112 cc, quello che può succedere è che
continuerà ad applicarsi il contratto collettivo presso la cedente, SALVO che
quel premio sia sostituito da un contratto collettivo di PARI LIVELLO (quindi
se il datore di lavoro negozia con i sindacati in azienda un altro contratto
AZIENDALE, può anche ridurre tale premio).
Perciò, nel caso concreto il dipendente della banca acquisita continuerà a
vedersi applicato il PREMIO AZIENDALE, a meno che il cessionario non
decida di sostituire il contratto collettivo (che era applicato dal cedente) con
un altro contratto collettivo DI PARI LIVELLO.

15/11
CASO 1 (relativo agli USI AZIENDALI): lavoratore che era già stato dipendente di una Banca
di Credito Cooperativo e, a seguito di TRASFERIMENTO DI RAMO D’AZIENDA, il suo
rapporto era proseguito alle dipendenze della Banca popolare (in questo caso c’era stata la
FUSIONE e la seconda banca aveva assunto presso di sé tutto il personale della prima).
Questo lavoratore godeva, presso il cedente (prima banca), di un consistente PREMIO
AZIENDALE che, in realtà, non era mai stato contrattato con i lavoratori (NON C’ERA UN
CONTRATTO COLLETTIVO che lo prevedeva), ma aveva iniziato ad essere erogato
spontaneamente (dalla banca a tutti i dipendenti), ed aveva continuato, però, ad essere
erogato per svariati anni.
La seconda banca (cessionaria) non riconosce al lavoratore tale premio.

PRIMA QUESTIONE: in questo caso si può dire che l’erogazione di quel premio si sia ormai
configurata come USO AZIENDALE (è un premio originariamente erogato spontaneamente
alla generalità dei dipendenti, e che sostanzialmente si consolida nel tempo per effetto
della prassi ripetuta costante nel tempo; cioè non è necessaria la convinzione della
doverosità da parte del datore di lavoro, quindi non è fonte di diritto ma (affinché l’uso si
formi) è sufficiente la ripetuta e costante elargizione di questo premio alla generalità dei
dipendenti, in modo tale che il premio perde la propria caratteristica di spontaneità)? SI è
USO AZIENDALE perché è un comportamento, in origine spontaneo, che però proprio
perché reiterato nel tempo è diventato VINCOLANTE (verso tutti i lavoratori ai quali il
premio è stato riconosciuto).

SECONDA QUESTIONE: la banca incorporante non riconosce il PREMIO perché sostituisce


questo trattamento con dei DIVERSI PREMI AZIENDALI (chiaramente meno favorevoli per i
lavoratori), che sono riconosciuti per effetto di una contrattazione collettiva AZIENDALE
applicata dalla banca cessionaria (seconda banca).
Può la banca incorporante non riconoscere più al lavoratore il precedente PREMIO
AZIENDALE oppure no? SI, perché comunque tale premio viene sostituito da un altro
premio previsto dal contratto AZIENDALE applicato dalla banca incorporante (norma di
riferimento è l’ART.2112 cc che ci dice che “nel caso di TRASFERIMENTO D’AZIENDA il
cessionario continua ad applicare il contratto collettivo applicato dal cedente fino alla
scadenza, A MENO CHE questo non sia sostituito da un contratto collettivo DI PARI
LIVELLO e vigente presso il cessionario”); in questo caso non abbiamo un contratto
collettivo “vigente presso il cedente” ma la giurisprudenza ci ha detto che “l’USO
AZIENDALE è equiparabile al contratto collettivo AZIENDALE (segue la stessa sorte)”. Qui ci
troviamo di fronte ad un caso in cui l’USO AZIENDALE viene sostanzialmente sostituito da
un contratto collettivo AZIENDALE in uso presso la banca incorporante (la cosa
fondamentale è che NON HA RILIEVO IL FATTO CHE TALE CONTRATTO SIA
PEGGIORATIVO).
Chiaramente sono sempre fatti salvi i DIRITTI QUESITI; cioè se quel lavoratore (di cui il
trasferimento è avvenuto nel 2017) ha già lavorato per tutto il 2016 e ha già maturato il
premio aziendale per il 2016 (anche se la cifra non gli è ancora stata corrisposta), si tratta
di un DIRITTO QUESITO e, quindi, il lavoratore ha diritto a riceverlo (successivamente se
tale premio viene eliminato non lo riceverà più).

CASO 2 (sempre sugli USI AZIENDALI): una ditta ha riconosciuto per anni ai propri
dipendenti un PREMIO AZIENDALE particolarmente elevato (che quindi è diventato un
USO AZIENDALE, obbligatorio/doveroso); nel 2017 tale ditta incontra un periodo di
profonda crisi. La ditta intende ridurre i costi per il futuro riducendo tale PREMIO/USO
AZIENDALE.
Lo può fare? SI, però serve un ACCORDO AZIENDALE (cioè occorre che tale uso sia
sostituito da un CONTRATTO AZIENDALE).
Se l’azienda non ha RSA/RSU (perché magari è piccola) la contrattazione AZIENDALE potrà
eventualmente essere fatta con il sindacato esterno; ma deve trattarsi sempre di un
CONTRATTO AZIENDALE.

PREMI DI PRODUTTIVITA’ E SGRAVI


Ne abbiamo parlato trattando dell’ACCORDO INTERCONFEDERALE del 2012 (prevedeva
proprio la possibilità che una quota del salario, anziché essere erogata a TUTTI i lavoratori,
venisse erogata a livello AZIENDALE agganciandola a miglioramenti di performance dei
lavoratori).
Abbiamo anche detto che le successive leggi hanno recepito queste
indicazioni/sollecitazioni e che hanno introdotto degli interventi per consentire che le
quote di salario, che vengono elargite sulla base di contratti collettivi AZIENDALI o
TERRITORIALI per premiare la PRODUTTIVITA’ dei dipendenti, sono incentivate (grazie a
misure di DEFISCALIZZAZIONE e di DECONTRIBUZIONE).
COME E’ POSSIBILE PER LE IMPRESE OTTENERE DEGLI SGRAVI CONTRIBUTIVI E DELLE
RIDUZIONI (in positivo) SULLE QUOTE DI SALARIO EROGATE PER PREMIARE LA
PRODUTTIVITA’ DEI DIPENDENTI oppure PER AGEVOLARE LA POSSIBILITA’ DEI
DIPENDENTI DI CONCILIARE LA VITA PROFESSIONALE CON LA VITA PERSONALE (in
particolare si fa riferimento alle madri lavoratrici)?
Abbiamo già detto che la LEGGE FINANZIARIA (n.208/2015) prevede la TASSAZIONE SOLO
AL 10% su queste quote di SALARIO DI PRODUTTIVITA’, entro dei limiti (cioè purché siano
erogate a favore di lavoratori che, nell’anno precedente, abbiano avuto un reddito NON
SUPERIORE AI 50.000 euro annui, OGGI è stato portato a 80.000 euro, ed entro dei TETTI
MASSIMI- erano 2.000 euro, ORA 3.000 euro per ciascun lavoratore). Quindi per tali
lavoratori (che hanno un reddito basso) questi 3.000 euro (al massimo), invece che essere
tassati con l’aliquota IRPEF ordinaria (che dipende dal reddito di ciascun dipendente),
possono essere TASSATI SOLO AL 10% (è un risparmio chiaramente molto notevole; le
aziende possono pagare dipiù i dipendenti spendendo meno).
Quali sono i requisiti affinché l’azienda possa elargire questi PREMI ai dipendenti, fruendo
di questa DETASSAZIONE? E’ il CONSULENTE DEL LAVORO che deve indicarli all’azienda.
 PRIMO REQUISITO: serve il FILTRO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA; quindi
questi PREMI non devono essere riconosciuti dal singolo datore di lavoro ma
devono essere concordati tramite CONTRATTO COLLETTIVO (stipulato con le RSA e
le RSU).
E’ il contratto collettivo che deve stabilire l’erogazione di tali somme.
Chiaramente si parla di contratti collettivi SOLO AZIENDALI o TERRITORIALI, stipulati
da organizzazioni sindacali COMPARATIVAMENTE PIU’ RAPPRESENTATIVE (la norma
ci dice “firmato DA e non DAI”, quindi non occorre che tale accordo/contratto sia
firmato da TUTTI i sindacati comparativamente più rappresentativi, basta che sia
firmato anche solo da UNO di questi).

PROBLEMA: il nostro cliente è una PICCOLA azienda dove non sono presenti RSA ed
RSU; quindi come si fa a far fruire degli SGRAVI FISCALI (relativi a questi salari di
produttività) tale azienda? Da uno studio dei Consulenti del lavoro sono scaturite
tali indicazioni:
o O l’azienda avvia il dialogo con il sindacato territoriale esterno (ad esempio
l’articolazione provinciale del sindacato comparativamente più
rappresentativo), e firma un contratto AZIENDALE con esso
o O l’azienda può avere altre 2 scelte, a seconda che l’azienda sia iscritta
all’associazione di categoria (Confindustria) oppure non sia iscritta:
 Se l’azienda E’ ISCRITTA, anziché firmare un contratto AZIENDALE,
semplicemente applica la contrattazione TERRITORIALE che
l’associazione di categoria (Confindustria) ha già sottoscritto
 Se l’azienda NON E’ ISCRITTA, può liberamente scegliere di applicare
un qualsiasi contratto collettivo TERRITORIALE sottoscritto, però, da
sindacato comparativamente più rappresentativo che preveda dei
criteri per l’elargizione di questi premi.
Chiaramente l’azienda darà comunicazione di tale scelta ai propri dipendenti.
Importante per usufruire della DETASSAZIONE è che tali contratti collettivi vengano
depositati presso l’ISPETTORATO DEL LAVORO; c’è una procedura che permette il
deposito telematico del contratto collettivo AZIENDALE (se è quello proprio
dell’azienda), oppure per verificare che è già stato depositato il contratto collettivo
TERRITORIALE (se l’azienda decide di aderire a quel contratto).

CONTENUTO NECESSARIO DI TALI ACCORDI (aziendali o territoriali),affinché il


datore di lavoro possa usufruire della DETASSAZIONE.
I CONTRATTI COLLETTIVI devono prevedere dei criteri per la misurazione degli
incrementi di produttività/di qualità/di performance dei lavoratori (l’idea è “ti do il
premio “detassato”, se produci di più/se lavori meglio”).
Alcuni esempi:
o I contratti collettivi potrebbero agganciare i premi alla riduzione degli scarti;
alla riduzione dei resi; alla riduzione dei reclami dei clienti; a una migliore
organizzazione degli orari di lavoro; ad una maggiore flessibilità dei
dipendenti.

COME VIENE EROGATO questo SALARIO DI PRODUTTIVITA’)?


 O viene erogato come COMPENSO/PREMIO (come abbiamo visto finora): su questo
compenso, abbiamo già detto, che il lavoratore non paga l’IRPEF secondo l’aliquota
ordinaria ma verrà versata solo l’aliquota del 10%.
 O può essere erogato come BENEFITS/SERVIZI AZIENDALI (è una novità introdotta
dalle ultime leggi finanziarie).
Come servizi (anche in natura) di cui il dipendente può usufruire.
Il grande VANTAGGIO è che, entro certi TETTI, tali servizi sono TOTALMENTE ESENTI
DA TASSAZIONE (quindi anche questo è un forte risparmio per i datori di lavoro).
Esempio: ticket lunch, servizi di asilo per i dipendenti, borse di studio per i figli dei
dipendenti ecc..
Finora abbiamo parlato della modalità di DEFISCALIZZAZIONE (ossia di SGRAVI FISCALI).

Altra forma di sgravio è la cosiddetta DECONTRIBUZIONE: ossia si versano meno contributi


all’INPS per determinate elargizioni ai dipendenti.
Gli SGRAVI CONTRIBUTIVI sui salari dei dipendenti sono stati introdotti dalla LEGGE
DELEGA 183/2014, ma il vero fulcro è anche qui la LEGGE 208/2015 (FINANZIARIA DEL
2016) e il D.LGS.80/2015 (che riguarda la conciliazione vita-lavoro); infatti queste misure
sono tutte dirette a favorire la conciliazione vita-lavoro dei dipendenti (quindi asilo nido,
part time, ecc..).
I fondi sono abbastanza ampi (infatti per il 2018 abbiamo 54.000 euro).
E’ stato pubblicato nell’Ottobre 2017 il decreto che ha reso operativa questa misura, cioè
che consente finalmente alle imprese di godere di questa DECONTRIBUZIONE.
IN CHE MODO SI PUO’ GODERE DELLA DECONTRIBUZIONE?
Occorre che le imprese abbiano sottoscritto dei CONTRATTI COLLETTIVI AZIENDALI, con
sindacati comparativamente più rappresentativi, sia pure riproduttivi di contratti
TERRITORIALI (già stipulati); inoltre occorre che tale contratto collettivo AZIENDALE
(stipulato dall’azienda) venga depositato, entro 30gg, presso l’ISPETTORATO DEL LAVORO.
Qui, rispetto a prima nella DEFISCALIZZAZIONE, non è più sufficiente aderire ad un
contratto collettivo esterno/territoriali, occorre effettivamente la stipula di un CONTRATTO
COLLETTIVO AZIENDALE.
Anche se, in assenza di RSA e RSU (come abbiamo visto) l’azienda piccola eventualmente
potrà stipulare e firmare questo contratto collettivo AZIENDALE con l’articolazione locale
del sindacato esterno.

QUALE E’ IL CONTENUTO DI QUESTO ACCORDO/CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE?


Occorre che introduca norme di miglior favore (rispetto a quelle già previste dalla legge o
dai contratti collettivi NAZIONALI; previste dal decreto dell’Ottobre 2017) per i lavoratori,
che consentano meglio di conciliare vita e lavoro (“occorre che questi contratti innovino “in
melius” le condizioni stabilite dalla legge e dal c.c.n.l in materia di conciliazione vita-
lavoro”).
Anzi la norma è molto specifica perché chiede che questi contratti collettivi aziendali
debbano introdurre 2 norme migliorative non generiche, ma che debbano riguardare
questi 3 campi di applicazione:
 AREA GENITORIALITA’: le misure potrebbero consistere, ad esempio, in un aumento
del congedo di paternità; aumento del congedo parentale e della maternità.
 AREA DELLA FLESSIBILITA’ ORGANIZZATIVA: il contratto collettivo che incentiva il
part time e consente ai lavoratori che lo chiedono di ottenerlo (sappiamo che,
invece, di regola i lavoratori non hanno diritto al part time).
 AREA WELFARE
Per essere ancora più precisi una misura deve essere per forza all’interno o della prima o
della seconda area.
L’altra misura può essere indifferentemente nella prima, nella seconda o nella terza area.
Se l’azienda introduce queste 2 misure, allora su queste somme riceverà lo SGRAVIO
CONTRIBUTIVO.
Il contratto collettivo AZIENDALE che introduce tali misure deve avere come platea di
destinatari almeno il 70% dei dipendenti dell’azienda.

Ci sono dei TERMINI per la stipula di questi contratti collettivi AZIENDALI (per il 2017 il
termine scade il 15 Novembre; per il 2018 scadrà il 31.08.2017. Quindi la misura è
sicuramente non effettiva per il 2017 perché pochissimi consulenti avranno il tempo di
consigliarla, ma è sicuramente effettiva per il 2018). Successivamente tali contratti vanno
depositati presso l’ISPETTORATO DEL LAVORO; il deposito va fatto in via telematica.

TUTTE LE AZIENDE POSSONO GODERE DI QUESTE MISURE? NO, occorre che le aziende
siano in regola con il versamento dei contributi (quindi abbiamo i DURC) ed occorre che
applichino tutti i livelli della contrattazione collettiva (nazionale, territoriale, aziendale)- è la
solita CLAUSOLA SOCIALE (di essa ne abbiamo parlato in tema di efficacia soggettiva del
contratto collettivo, e abbiamo detto che è uno degli strumenti di incentivazione
all’applicazione del contratto collettivo); qui si vede chiaramente, il datore non sarebbe
iscritto all’associazione sindacale e non applicherebbe il contratto collettivo, ma è indotto
ad applicarlo per poter usufruire degli SGRAVI CONTRIBUTIVI.

L’azienda (o Consulente del lavoro tramite essa), ovviamente, per poter accedere a questi
SGRAVI CONTRIBUTIVI dovrà seguire una specifica procedura (con accesso al portale
dell’INPS, compilazione della domanda, ecc..); procedura di cui non ci occupiamo.

La misura degli sgravi a cui ciascun datore di lavoro ha diritto proviene da un calcolo molto
complicato (di cui a noi non interessa), e comunque dipende dal numero totale di datori di
lavoro che ne faranno richiesta (tranne per i datori di lavoro con reddito inferiore a 80.000
euro annui, per i quali, come abbiamo già visto, è stabilito un tetto massimo di 3.000 euro
per ognuno). E’ una QUOTA VARIABILE.

I LIMITI di tali misure/sgravi contributivi sono:


 Sono procedure che arrivano sempre all’ultimo momento/in ritardo, con termini
molto stretti per aderire
 Limitatezza delle risorse (quindi se le domande sono poche, più alta è la quota che
ogni singolo datore di lavoro riceve; se le domande sono molte, il beneficio
chiaramente si spalma su tutte e diventa molto ridotto).

ALCUNI CASI (tutti sul RICORSO EX ART.28)


CASO 1: un lavoratore che riveste la qualifica di DIRIGENTE della CISL di Padova dipende
dall’azienda Alfa; in seguito ad una riorganizzazione del suo ufficio viene trasferito dalla
sede di Padova alla sede di Vicenza, e l’azienda NON CHIEDE IL NULLA-OSTA sindacale.
L’articolazione locale del sindacato nazionale (quindi la CISL di Padova) promuove ricorso
ex art.28 lamentando la CONDOTTA ANTISINDACALE.
PRIMA QUESTIONE: è legittimata la Cisl Padova (ossia l’articolazione locale) oppure no? SI,
è legittimato perché il soggetto che può fare ricorso ex art.28 è proprio l’organismo locale
del sindacato NAZIONALE.
SECONDA QUESTIONE: questa condotta è ANTISINDACALE oppure no? In questo caso il
soggetto è un DIRIGENTE DELLA CISL (ossia del sindacato esterno all’azienda; quindi non è
il dirigente di RSA perché questa è la struttura di rappresentanza interna all’azienda). I
DIRIGENTI ESTERNI hanno diritto, semmai, ad ottenere dall’azienda dei PERMESSI per lo
svolgimento dell’attività sindacale MA non sono le RSA (sono soggetti diversi). Perciò
questa condotta NON E’ ANTISINDACALE perché il dirigente esterno non è tutelato contro
il trasferimento (del resto è logico perché questo soggetto svolge la sua attività sindacale
FUORI dall’azienda, e quindi non è necessario che sia mantenuto sempre all’interno dello
stesso contesto lavorativo per svolgere la propria attività sindacale).
La tutela contro il trasferimento (da un’unità produttiva ad un’altra) spetta SOLO al
DIRIGENTE DI RSA.

CASO 2: DIRIGENTE di RSA viene trasferito STABILMENTE dal magazzino della filiale di
Padova della ditta Alfa (che è in zona industriale) al magazzino della stessa filiale della ditta
Alfa che, però, è adiacente alla filiale.
SERVE IL NULLA-OSTA OPPURE NO? NO, perché non c’è trasferimento da un’unità
produttiva ad un’altra (infatti la nozione di “unità produttiva” è comunitaria e consiste in
un’articolazione che gode di autonomia organizzativa, produttiva; un semplice magazzino
non è unità produttiva).

CASO 3 (riguarda il RECESSO di un datore di lavoro da un contratto collettivo AZIENDALE):


un’azienda prevede, per effetto di un contratto collettivo AZIENDALE, un PREMIO
AZIENDALE. Questo contratto collettivo è a TEMPO INDETERMINATO e l’azienda recede
unilateralmente da questo contratto.
Alcuni lavoratori reagiscono da questo RECESSO e lamentano la lesione dei diritti acquisiti
sulla base del contratto collettivo; mentre le organizzazioni sindacali agiscono ex art.28 SL.
E’ AMMESSO LO SVINCOLO DELLA PARTE FIRMATARIA da un contratto collettivo A TEMPO
INDETERMINATO? In questo caso il datore di lavoro è sia il soggetto firmatario sia il
soggetto al quale il contratto collettivo si applica.
Allora se facciamo riferimento all’efficacia soggettiva abbiamo detto che “se il soggetto è
vincolato, non per iscrizione al sindacato, ma per effetto di RINVIO, non può sciogliersi
unilateralmente SALVO CHE la linea contrattuale si spezzi”.
Diverso è il caso in cui discutiamo sull’efficacia nel tempo del contratto collettivo e, in
particolare, se i soggetti (che hanno firmato quel contratto) possono sciogliersi oppure no
unilateralmente da quel contratto. Abbiamo detto che se il contratto è a TEMPO
DETERMINATO è efficace fino alla scadenza ed è ultra-attivo (solo se previsto
espressamente dal contratto stesso); se il contratto è a TEMPO INDETERMINATO ciascuno
dei sindacati o delle parti firmatarie può sciogliersi dal contratto semplicemente
unilateralmente (dando il preavviso se richiesto – art.1373, commi 1-2- cc; questo
Vallebona non lo condivide ma la giurisprudenza ritiene questo).
In questo caso abbiamo un contratto collettivo a TEMPO INDETERMINATO e, quindi, il
datore di lavoro (che è soggetto firmatario dello stesso) può sciogliersi unilateralmente dal
contratto collettivo stesso, NON C’E’ CONDOTTA ANTISINDACALE TIPICA.
MA bisogna comunque verificare che non si tratti di CONDOTTA ANTISINDACALE ATIPICA
(ossia se c’è un comportamento diretto a delegittimare il sindacato come interlocutore,
quindi una condotta che non è tipica ma potrebbe comunque avere un connotato di
antisindacalità se diretta a ledere la libertà del sindacato -concetto di “opposizione NEL
conflitto” piuttosto che “opposizione AL conflitto”).
Quindi occorre che la scelta del datore di lavoro (di recedere unilateralmente) non sia
dovuta a circostanze che denotano la lesione della libertà sindacale; altrimenti si ha
CONDOTTA ANTISINDACALE ATIPICA.

CASO 4: il sindacato che agisce è la USB (Unione Sindacati di Base; sindacati autonomi).
L’USB, tramite la sua articolazione locale, chiama in giudizio ex art.28 la ditta Alfa perché
non le ha accreditato le quote associative, e per aver riconosciuto la qualità di delegato
della rappresentanza sindacale in Italia al lavoratore.
PRIMA DIFESA DEL DDL: bisogna verificare se la USB ha le caratteristiche per essere
“articolazione locale di sindacato NAZIONALE”. La USB non ha firmato nessun contratto
collettivo NAZIONALE di lavoro; è legittimata lo stesso (ad agire ex art.28) oppure no? SI,
perché abbiamo studiato che quando diciamo “articolazione locale di sindacato
NAZIONALE” il requisito della nazionalità viene desunto da una serie di indici (come la
diffusione territoriale, il numero di iscritti, la partecipazione alle trattative, la contrattazione
di sciopero a livello nazionale; la stipulazione del contratto collettivo NAZIONALE è un
indice ma non per forza necessario).
L’USB HA RAGIONE OPPURE NO? Il sindacato lamenta che il datore di lavoro non ha
trattenuto la quota associativa (per il sindacato) dalle retribuzioni dei lavoratori che ne
avevano fatto richiesta. Quali sono le norme coinvolte? La norma di riferimento, una volta
era l’art.26 SL (poi i commi 2-3 sono stati abrogati); OGGI di regola il diritto a che il datore
di lavoro effettui la trattenuta e poi il versamento è previsto dai CONTRATTI COLLETTIVI.
Ma un sindacato diverso da quello firmatario potrebbe, in forza del contratto collettivo,
rivendicare il diritto affinché il datore di lavoro effettuasse la trattenuta? No, perché tali
regole appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA del contratto e, quindi, sono vincolanti
solo tra i soggetti stipulanti; ciò nonostante il datore è comunque obbligato ad effettuare
la trattenuta perché la giurisprudenza ci ha detto che si tratta di una CESSIONE DI CREDITO
(il lavoratore cede il proprio credito al sindacato, e il debitore ceduto non è obbligato a
dare il proprio consenso).
L’UNICA DIFESA del datore di lavoro è che sia troppo oneroso. Su chi grava l’onere della
prova di dimostrare l’eccessiva onerosità? Sul datore di lavoro. Se il datore di lavoro non
riesce a provare l’eccessiva onerosità, allora questa sua condotta è sicuramente
ANTISINDACALE.

CASO 5: USB (sempre tramite la sua articolazione locale) promuove azione ex art.28 contro
il datore di lavoro (si tratta delle cooperative) che non ha consentito la costituzione di una
RSA del sindacato USB. A sostegno del ricorso, USB dimostra di avere un seguito del 30%
tra i lavoratori dell’azienda.
USB HA DIRITTO A COSTITUIRE RSA OPPURE NO? L’ART.19 SL OGGI ci dice che RSA
possono essere costituite in azienda su iniziativa dei lavoratori, in unità produttive con più
di 15 dipendenti, nell’ambito dei sindacati che hanno partecipato alle trattative per la
stipula del contratto collettivo applicato in azienda; non occorre che il sindacato abbia
firmato, occorre però che in azienda ci sia un contratto collettivo effettivamente applicato
(che qualcun altro lo abbia firmato) - non è chiarito cosa succede se nessuno (in azienda)
ha firmato questo contratto.
NO, non ha diritto a costituire RSA perché non è mai stata ammessa alle trattative; quella
del datore di lavoro NON E’ CONDOTTA ANTISINDACALE.

USB HA DIRITTO AD ESSERE AMMESSA ALLE TRATTATIVE OPPURE NO? NO, infatti non
esiste un DIRITTO del sindacato AD ESSERE AMMESSO ALLE TRATTATIVE; tuttavia occorre
che l’esclusione dalle trattative non si traduca in una condotta antisindacale ATIPICA
(diretta ad emarginare il sindacato dal dialogo).
C’è, invece, un DIRITTO DI AMMISSIONE ALLE TRATTATIVE quando, per esempio, la
contrattazione collettiva lo prevede (per esempio recependo il contenuto dell’accordo
interconfederale del 2014 riconoscesse il diritto di ammissione alle trattative al sindacato
che ha più del 50% del seguito in azienda).

16/11
RUOLO DEL RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA (RLS) (T.U. 81/2008)
Si tratta di una figura in primis introdotta dalla DIRETTIVA 391/1989 (in materia di
sicurezza) che richiede che nelle aziende sia individuato, tra i lavoratori, un rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza (RLS).
CHI E’?
La direttiva da questo punto di vista lascia molta libertà agli Stati membri.
Si tratta di una persona eletta o designata dai lavoratori, conformemente alle leggi o alle
prassi dei singoli Stati membri (quindi non c’è un modello attuativo che venga imposto
dalla direttiva); ma quello che è NECESSARIO è che sia un soggetto che tutti i lavoratori
possano concorrere a designare.
Il T.U. del 2008 ci dice che “l’RLS è una persona eletta o designata dai lavoratori, per
quanto concerne la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori”.
In sostanza è un tramite tra i lavoratori e il datore di lavoro in materia di SICUREZZA.

Non è indicato (nella direttiva) se tale soggetto debba essere eletto nell’ambito delle
rappresentanze sindacali dell’azienda oppure no; il nostro T.U. tendenzialmente sembra
propendere affinché l’RLS sia individuato nell’ambito delle rappresentanze sindacali.
Infatti l’ART.47 T.U. distingue tra aziende/unità produttive:
 fino a 15 dipendenti (chiaramente non ci sono RSA/RSU e questo soggetto è eletto
direttamente dai lavoratori al loro interno)
 con più di 15 dipendenti (il soggetto è eletto o designato “nell’ambito delle
rappresentanze sindacali in azienda”).
DEVE COINCIDERE CON UNO DEI MEMBRI DELLA RSA o RSU? La risposta affermativa
sembra quella in linea con quanto previsto dalla legge; ma non sarebbe molto in linea con
la direttiva proprio per il fatto che la designazione delle RSA e RSU è a favore dei sindacati,
mentre l’idea è che TUTTI i lavoratori possano concorrere alla nomina dell’RLS.
Sempre nell’ART.47 c’è un altro comma che rimette alla contrattazione collettiva
l’individuazione del numero e delle modalità di elezione o designazione dell’RLS.
Ci si è rivolti al Ministero del lavoro e sostanzialmente si è chiesto “se l’RLS dovesse
coincidere con la RSA/RSU”?
Il Ministero, in un primo momento ha detto di SI (l’RLS deve essere individuato nell’ambito
dei componenti delle RSA – intendiamo quelle dell’art.19 SL, ossia quelle nominate
nell’ambito dei sindacati che sono stati ammessi alla partecipazione delle trattative); poi si
è accorto che questa interpretazione “tagliava fuori” i NON SINDACALIZZATI e quindi ha
fornito un’interpretazione un po' più ampia ((cioè RSA non sono solo quelle dell’art.19 SL
(munite delle prerogative di cui al titolo III), ma qualsiasi rappresentanza sindacale dei
lavoratori)).
MORALE: l’RLS non necessariamente deve essere un membro di RSA o RSU (anche se in
realtà sono i contratti collettivi che spesso disciplinano la materia); resta in punto di
domanda il fatto “se il contratto collettivo mette solo nelle mani dei sindacati la nomina di
tali soggetti, è garantita la conformità alla direttiva?” Forse no, perché TUTTI i lavoratori
dovrebbero partecipare alla nomina di questo soggetto.

Se in un’azienda non viene nominato dai lavoratori l’RLS, allora le stesse funzioni sono
esercitate obbligatoriamente dal RAPPRESENTANTE PER LA SICUREZZA TERRITORIALE (è
un soggetto non più dipendente dell’azienda ma che è designato, nell’ambito delle
associazioni sindacali, per un certo territorio).

I datori devono comunicare all’INAIL, in via telematica, quando viene nominato l’RLS.

FORMAZIONE DELL’RLS
Deve essere un soggetto con delle competenze specifiche. Chiaramente qualsiasi
lavoratore può diventare RLS, ma deve frequentare un corso di formazione iniziale (in
materia di sicurezza) di 32 ore, ed almeno 8 ore all’anno (di aggiornamento in materia di
sicurezza).
Deve essere fatta in orario di lavoro e a spese del datore di lavoro.

COMPITI DELL’RLS
Compito principale è quello di segnalare le situazioni di pericolo (sollecita al datore di
lavoro i rischi per la sicurezza che sono presenti in azienda); anche se non ha potere di
intervento diretto, SALVO nei casi in cui sia assolutamente necessario/urgente (in cui
l’intervento diretto sia necessario per evitare una situazione di pericolo per i lavoratori).
Inoltre può prendere visione e consultare in azienda (ricevendone una copia) il DVR
(Documento di Valutazione dei Rischi; dove sono individuati tutti i rischi per la salute e la
sicurezza dei lavoratori). Su questa norma si sono avute molte interpretazioni.
Cosa vuol dire che “l’RLS ha DIRITTO di ricevere copia del DVR dell’azienda?” La questione
è stata molto discussa perché (ovviamente) i datori di lavoro non vogliono mettere nelle
mani dei dipendenti informazioni che magari potrebbero ritorcersi loro contro; infatti i
datori tendono a non dare i DVR, mentre gli RLS tendono a chiederli/pretenderli.
La norma realizza una sorta di compromesso perché dice che l’RLS ha diritto di ricevere
una copia del DVR ma non può portarla fuori dall’azienda, deve consultarla solo in azienda.
Cosa significa “RICEVERE UNA COPIA”? Gli ultimi orientamenti ci dicono che il datore di
lavoro può anche limitarsi a consegnare una COPIA INFORMATICA del DVR, che il datore di
lavoro consulta all’interno dell’azienda (quindi molte aziende si limitano a far vedere il
documento in “modalità protetta”, senza che il dipendente possa estrarne copia o altro).
Chiaramente l’RLS può accedere a TUTTI i luoghi di lavoro (non solo nel suo reparto ma
anche negli altri) per accertarsi delle situazioni di eventuale rischio.
Inoltre deve essere consultato dal datore di lavoro sia per quanto riguarda la redazione del
DVR (quindi quando un datore riceve il DVR deve formalizzare anche la partecipazione di
tale soggetto), sia sulla formazione degli altri lavoratori (quindi su una serie di
problematiche in azienda).
Partecipa anche alla RIUNIONE PERIODICA (effettuata in azienda, per fare il punto della
situazione).
Può anche suggerire misure di prevenzione (anche se è solo un potere di proporre, ma non
un potere di intervento diretto).
Infine può fare ricorso all’autorità giudiziaria per denunciare le situazioni di rischio che
rileva in azienda (anche se, chiaramente, non succede molto spesso perché difficilmente
l’RLS si espone così tanto).

TUTELE DELL’RLS
Sostanzialmente ha le stesse tutele di una RSA/RSU; cioè è soggetto alle stesse norme di
protezione previste per i rappresentanti sindacali di cui all’art.19 SL (quindi non può essere
trasferito da un’unità produttiva ad un’altra senza nulla-osta; tutele contro il licenziamento
previste dall’art.18 SL: se viene licenziato ha diritto ad ottenere, su istanza sua e del
sindacato, la REINTEGRAZIONE in corso di causa semplicemente in base alla circostanza
che ci siano elementi che fanno propendere per l’illegittimità del licenziamento – quindi
REINTEGRAZIONE IN CORSO DI CAUSA prima che sia decisa l’impugnazione del
licenziamento).
Anche se la tutela contro quel licenziamento non porterebbe alla RENTEGRAZIONE ma
solo al diritto ad un’INDENNITA’? SI, perché qui è un tipo di tutela diversa/speciale.

Ancora l’RLS deve poter godere del TEMPO, delle SPAZIO e dei MEZZI necessari per
l’esercizio della sua funzione.
Chiaramente non può subire pregiudizio per l’esercizio delle sue funzioni.

CASO 1: RLS trasferito da un’unità produttiva ad un’altra SENZA il nulla osta. Chiaramente
il sindacato ha promosso l’azione (ex art.28) ed è stata pronunciata la condanna del datore
di lavoro per CONDOTTA ANTISINDACALE.
CASO 2 (Tribunale di Firenze): l’RLS non era stato consultato su temi in cui ne aveva diritto.
Anche in questo caso il datore è stato condannato per CONDOTTA ANTISINDACALE.
CASO 3 (Tribunale di Modena): l’RLS non si era limitato a segnalare il pericolo ma era
intervenuto per rimuovere la situazione di pericolo (anche se il pericolo non era grave), ed
era stato sottoposto a sanzioni disciplinari.
Il giudice da un lato ha affermato il principio per cui “i poteri dell’RLS non sono di
intervento ma solo di segnalazione” (quindi l’RLS aveva ecceduto i suoi poteri); però
dall’altro lato (al contempo) ha ritenuto che la sanzione fosse troppo grave ed è stata
ridotta ad una multa (di sole 4 ore).
L’RLS E’RESPONSABILE NEI CONFRONTI DEI LAVORATORI? NO, l’unico compito che, però,
deve attuare è quello di SEGNALARE I PERICOLI (se non lo fa risponde in merito); chi ha il
potere disciplinare e di spesa non è l’RLS.
CASO PARTICOLARE: l’RLS, non solo era rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, ma
era anche capo cantiere. Allora è chiaro che se un soggetto assomma su di sé due ruoli e
per uno di questi ruoli ci può essere una responsabilità, allora è chiaro che per questo
ruolo risponde. Quindi il capo cantiere risponde (in caso di incidente), ma solo come
responsabile dei lavori (e non come responsabile dei lavoratori).

ALTRO CASO: RLS che muore per effetto di infortunio mortale; il datore di lavoro cerca di
difendersi dicendo che vista la sua particolare esperienza doveva essere corresponsabile
(quindi doveva esserci una condivisione di colpa), ma il Tribunale esclude questa
corresponsabilità.

DIRITTI DI INFORMAZIONE E CONSULTAZIONE DEI SINDACATI


Consiste nel diritto dei sindacati a ricevere informazioni e ad essere consultati nell’ambito
soprattutto delle riorganizzazioni d’impresa.
Bisogna distinguere tra 2 situazioni:
 INFORMAZIONE e CONSULTAZIONE
 PARTECIPAZIONE (dei sindacati alla gestione delle imprese)
ART.46 Costituzione (come l’art.39 seconda parte NON E’ MAI STATO ATTUATO) prevede la
“PARTECIPAZIONE dei lavoratori alla gestione delle imprese, ma solo secondo i
modi/secondo le modalità che verranno determinate dalle successive leggi”, ma queste
leggi non sono mai state emanate; quindi non è mai stato realizzato in Italia un sistema
che preveda la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (cioè, così come
nei Consigli di amministrazione siedono gli amministratori, l’idea che anche rappresentanti
dei lavoratori siano coinvolti nelle scelte gestionali dell’impresa).
Anche se, specialmente negli ultimi anni, ci sono molte proposte di legge in questo senso
(ed anzi sono previste delle agevolazioni per le imprese qualora prevedano la
partecipazione dei sindacati alla vita delle imprese).
Questo per quanto riguarda la PARTECIPAZIONE.
Per quanto riguarda INFORMAZIONE e CONSULTAZIONE, invece, i sindacati in Italia,
invece, hanno svariati diritti di essere INFORMATI e CONSULTATI per le scelte delle aziende
(anche se dopo, come abbiamo visto, la scelta spetta al datore di lavoro).
Tipici esempi sono quelli relativi ai licenziamenti collettivi (legge 223/91) e al trasferimento
d’impresa (art.47 legge 428/90; se l’azienda ha più di 15 dipendenti, 25gg prima del
trasferimento deve essere data notizia ai sindacati).
L’idea di base è di procedimentalizzare l’esercizio dei poteri del datore di lavoro, che può
essere appunto attuato solo dopo che si sono date ai sindacati le informazioni adeguate
(l’idea è che in questo modo i sindacati possano far “tornare sui suoi passi il datore” su
certe scelte).
Dal livello europeo proviene la spinta maggiore per introdurre procedure di informazione
e consultazione, sia con l’ART.27 della CARTA DI NIZZA, sia con una specifica direttiva
(N.14/2002).
ART.27 CARTA DI NIZZA: costituzionalizza il diritto dei sindacati a ricevere informazioni e
ad essere consultati, ma sempre secondo le condizioni previste dalle legislazioni e dalle
prassi nazionali (quindi ai lavoratori e ai loro rappresentanti devono essere garantite
l’INFORMAZIONE e la CONSULTAZIONE, ma secondo le forme e le leggi/prassi previste
dagli Stati nazionali).
Ha efficacia diretta orizzontale e verticale tale norma oppure no? NO, la Corte di giustizia
ha chiarito che questo principio (cioè del diritto dei lavoratori e dei loro rappresentanti
all’informazione e consultazione) NON HA EFFICACIA DIRETTA ORIZZONTALE E VERTICALE
(questo vuol dire che non si può arrivare alla disapplicazione di una norma interna
contraria a questo principio se invocata in un rapporto tra privati).

DIRETTIVA COMUNITARIA 14/2002: si applica o alle imprese MEDIO-GRANDI (con più di 50


dipendenti); oppure gli Stati possono prevedere di attuare questa direttiva anche con
riferimento alle imprese che hanno più di 20 lavoratori nell’unità produttiva.
Detta disposizioni minime di tutela, ma poi saranno gli Stati membri che possono
introdurre disposizioni di miglior favore.

Il decreto di attuazione di questa direttiva, in Italia, è il D.LGS.25/2007: sostanzialmente


attua la direttiva in Italia (ossia obbliga le imprese con più di 50 dipendenti a dare ai
sindacati le informazioni necessarie, qualora soprattutto si verifichino determinate
situazioni che tra poco vediamo), ma al contempo mette nelle mani dei sindacati la
disciplina di dettaglio (perché all’ART.1 ci dice che “le modalità di INFORMAZIONE e
CONSULTAZIONE sono stabilite dal contratto collettivo in modo da garantire l’efficacia
della direttiva”); perciò la direttiva è un rinvio al contratto collettivo ma si dubita della
conformità di questa disposizione nel momento in cui effettivamente viene rimessa alla
contrattazione collettiva una cosa di cui dovrebbe occuparsi la legge.

Ci dice che cosa si intende per INFORMAZIONE (è la trasmissione dei dati) e cosa per
CONSULTAZIONE (è il confronto con questi soggetti); il tutto deve avvenire in TEMPO
UTILE (cioè in modo che, per tempo, i sindacati possano discutere, possano chiedere al
datore di lavoro di tornare sui suoi passi) e ai LIVELLI APPROPRIATI (nel senso che
sostanzialmente l’interlocutore deve essere in grado di interagire con soggetti che hanno
potere decisionale; ovviamente non può andare l’ultimo dei dipendenti ad interagire con il
sindacato).
Questi diritti (di INFORMAZIONE e CONSULTAZIONE) si devono garantire in tutti i casi in
cui nelle aziende si realizzano delle modifiche organizzative che si ripercuotono sui
lavoratori, sull’occupazione.

I sindacati (o gli altri soggetti che ricevono le informazioni) hanno un OBBLIGO DI


SEGRETEZZA (rispetto alle informazioni riservate) e, in certi casi, i datori di lavoro possono
anche riservarsi di non rivelare certe notizie strategiche (che devono restare tali).
Inoltre tali soggetti (che ricevono le informazioni) sono tutelati con una tutela equiparabile
a quella prevista per i rappresentanti dei lavoratori aziendali/nazionali.

Abbiamo detto prima che tale disciplina si applica alle imprese con più di 50 dipendenti,
CHI SI CONTA? Secondo il D.LGS.25/2007 si contano i lavoratori a tempo indeterminato e
quelli a termine solo se la durata del rapporto è superiore a 9 mesi; la DIRETTIVA, invece,
imponeva il computo di TUTTI i lavoratori, senza limitazioni per i lavoratori a termine.
Allora (pur senza arrivare ad una condanna dell’Italia) c’è stata una modifica del
D.LGS.25/2007, per cui OGGI è espressamente chiarito che nei 50 lavoratori si tiene conto
sia dei lavoratori a tempo INDETERMINATO, sia di TUTTI i lavoratori a tempo
DETERMINATO (anche se questi ultimi vengono considerati tenendo comunque conto
dell’effettiva durata del loro rapporto).

ART.8 del decreto (sul rapporto tra le disposizioni di questo decreto e le altre norme
specifiche in materia): ci dice che “sono fatte salve tutte le altre disposizioni, previste da
norme di legge, in materia di informazione e consultazione” (tra cui quelle previste in tema
di trasferimento d’azienda e di licenziamenti collettivi).
Tra le disposizioni fatte salve (che quindi regolano la materia autonomamente) ci sono
anche quelle del Jobs Act; quindi nella gestione delle aziende bisogna tener conto anche
degli specifici obblighi di informazione (ai sindacati) che sono previsti, per esempio, in
tema di “SOMMINISTRAZIONE” (se un’azienda ricorre alla somministrazione, l’ART.36 del
d.lgs.81/2015 impone di darne comunicazione periodica, almeno ogni 12 mesi, alle RSA o
RSU; si tratta di una disposizione che è sanzionata con una SANZIONE AMMINISTRATIVA).
Ugualmente vale per il CONTRATTO A TERMINE (deve essere data informazione ai
sindacati sui posti vacanti a tempo determinato); stessa cosa vale per il CONTRATTO
INTERMITTENTE (l’azienda che ne fa ricorso deve assolutamente dare informazione).

La legge Fornero aveva introdotta una DELEGA (in materia di PARTECIPAZIONE) al Governo
perché intervenisse in materia di partecipazione, sostanzialmente riscrivendo il
d.lgs.25/2007 ed aumentando ancora il ruolo del sindacato sotto questo profilo; ma la
delega è scaduta e sostanzialmente le parti politiche non sono riuscite a trovarsi d’accordo
su questa materia (quindi si può dire che la materia della partecipazione/informazione e
consultazione è ancora tutto sommato ritenuta di scarsa importanza).

ALCUNI CASI
CASO 1 (sul rapporto tra contratti collettivi successivi dello stesso livello): contratto
collettivo 2009-2012 che prevede la maggiorazione per lo STRAORDINARIO al 15%
rispetto alla retribuzione base. Poi interviene un successivo contratto collettivo 2013-2016
che prevede la maggiorazione soltanto al 10%.
Un lavoratore, siccome ha effettuato lavoro straordinario nel 2015 e non è stato ancora
pagato, agisce in giudizio pretendendo la maggiorazione del 15%.
Un altro lavoratore, che ha effettuato lavoro straordinario nel 2011 ma non ancora pagato,
agisce in giudizio pretendendo la maggiorazione del 15%.
CHE MAGGIORAZIONE SPETTA A TALI SOGGETTI?
Al lavoratore che ha svolto straordinario nel 2015 spetta la MAGGIORAZIONE DEL 10%
perché si tratta di 2 contratti successivi dello STESSO LIVELLO e, secondo la disciplina, il
successivo prevale, anche se introduce condizioni peggiorative (infatti abbiamo visto che il
contratto COLLETTIVO non si incorpora nel contratto individuale).
Abbiamo anche visto, però, che sono sempre fatti salvi i cosiddetti DIRITTI QUESITI, quindi
al lavoratore che ha svolto straordinario nel 2011 spetta la MAGGIORAZIONE DEL 15%
perché si tratta di un DIRITTO QUESITO.

CASO 2: datore di lavoro opera nel settore della telefonia; non è affiliato a nessuna
associazione sindacale; non ha fatto rinvio al contratto collettivo nelle lettere di assunzione
dei lavoratori in oggetto; e decide di applicare ai propri dipendenti il contratto collettivo di
un settore merceologico diverso (in particolare del settore metalmeccanico). Alcuni
lavoratori si rivolgono al giudice e chiedono l’applicazione del contratto collettivo del
settore della telefonia (che è il settore merceologico di appartenenza dell’azienda).
DATORE DI LAVORO PUO’ FARLO? SI, il datore di lavoro può applicare il contratto collettivo
di un altro settore merceologico (anche se l’art.2070 cc affermerebbe il contrario, ma
abbiamo visto che vale solo per il contratto corporativo), ma FERMI i MINIMI RETRIBUTIVI
(che devono sempre essere stabiliti dal settore di appartenenza dell’azienda).

E SE IL CONTRATTO INDIVIDUALE (lettera d’assunzione) contiene il RINVIO, per esempio, al


contratto collettivo metalmeccanici, il DATORE DI LAVORO PUO’ UNILATERALMENTE
DECIDERE DI APPLICARE IL CONTRATTO COLLETTIVO DI UN ALTRO SETTORE OPPURE NO?
NO, perché questo il vincolo che deriva dal RINVIO è addirittura più forte di quello che
deriva dall’appartenenza sindacale (tale vincolo viene meno solo se si spezza la linea
sindacale).
Mentre se il RINVIO (al contratto collettivo) DERIVASSE DALL’ISCRIZIONE? Il vincolo che
deriva dal RINVIO cessa solo quando viene meno l’iscrizione ma comunque sempre dal
momento in cui quel contratto collettivo scade.

CASO 3 (sulle RSU): componente di una RSU che si dimette dal sindacato nelle cui liste è
stato eletto e si iscrive ad un altro sindacato. Subito il datore di lavoro non ne tiene più
conto e, per effetto della comunicazione del sindacato che ha partecipato alle liste (quindi
quello originario), lo esclude dal novero dei lavoratori aventi diritti (questo nel
presupposto che il contratto collettivo NAZIONALE abbia recepito la disciplina di cui al T.U.
del 2014).
HA DIRITTO il soggetto che è stato eletto in una lista sindacale (una RSU) A CONTINUARE
A SVOLGERE LA SUA ATTIVITA’ DI RSU? NO, perché c’è la regola del “CAMBIO DI
CASACCA”, cioè se il c.c.n.l. ha recepito il T.U. 2014, allora questo soggetto non avrà diritto
a continuare a svolgere attività di RSU e non sarà ANTISINDACALE la condotta del datore
di lavoro.
Se, invece, il c.c.n.l. non avesse recepito il T.U. del 2014 e prevedesse la regola opposta,
chiaramente la condotta del datore sarebbe ANTISINDACALE.
Quindi BISOGNA SEMPRE ACCERTARSI DELLE REGOLE DEL CONTRATTO COLLETTIVO.

CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL PUBBLICO IMPIEGO


Le regole della contrattazione collettiva nel settore pubblico sono profondamente diverse
rispetto a quelle del settore privato.
PRINCIPIO FONDAMENTALE è l’ART.97 della Costituzione (“i pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge, ma in modo che siano garantiti il BUON ANDAMENTO e
l’IMPARZIALITA’ della p.a.”); vedremo come questa regola condiziona non solo l’accesso al
pubblico impiego, ma condiziona anche le regole in tema di contrattazione collettiva.

La disciplina della contrattazione collettiva nel PUBBLICO IMPIEGO è profondamente


cambiata nel tempo:
 In origine non era prevista la possibilità per il contratto collettivo di disciplinare il
rapporto di pubblico impiego; cioè l’idea di base era quella che il rapporto di
pubblico impiego si costituisse autoritativamente (addirittura si aveva la nomina
tramite DECRETO DI NOMINA), e l’autonomia privata non poteva concorrere a
disciplinare il rapporto di lavoro.
Questo perché si riteneva che l’interesse pubblico sostanzialmente fosse tutelato
soltanto da una regolamentazione UNILATERALE ed AUTORITATIVA.

 Successivamente c’è stata la cosiddetta CONTRATTUALIZZAZIONE (o


PRIVATIZZAZIONE) DEL PUBBLICO IMPIEGO, cioè l’acquisizione del principio per cui
il rapporto lavoro pubblico si costituisce appunto tramite CONTRATTO.
Chiaramente ci sono determinati lavoratori che sono stati ESCLUSI dalla
contrattualizzazione (tra cui i docenti universitari, per i quali continua a valere la
vecchia disciplina pubblicistica).

A livello di CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL SETTORE PUBBLICO un primo spartiacque


è stato rappresentato dalla LEGGE QUADRO DEL 1983 con la quale si era in qualche modo
formalizzato il ruolo del CONTRATTO COLLETTIVO, ma con dei LIMITI assolutamente
rilevanti:
 Il contratto collettivo, per produrre i suoi effetti (sul rapporto di lavoro), doveva
essere recepito da un d.p.r. (decreto del Presidente della Repubblica)
 Ruolo molto importante nelle mani delle Confederazioni sindacali (nel senso che si
aveva la contrattazione “per comparti”; ma da un lato i comparti stessi erano
individuati da parte delle Confederazioni sindacali, dall’altro lato le Confederazioni
insieme alle associazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative erano
i soggetti legittimati alla stipulazione dei contratti collettivi di comparto. Inoltre
Confederazioni ed associazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative
stipulavano anche gli ACCORDI INTERCOMPARTIMENTALI, ossia quegli ACCORDI
INTERCONFEDERALI molto rilevanti)
 Non si seguiva il PRINCIPIO DI MAGGIORANZA (nella delegazione sindacale)
 Le organizzazioni sindacali DISSENZIENTI (anche se maggiormente rappresentative)
potevano soltanto limitarsi a presentare le proprie osservazioni
 Il contratto collettivo, ma anche il d.p.r., erano soggetti al controllo della Corte dei
Conti e del Consiglio dei Ministri per verificare che la disciplina fosse compatibile
con le risorse finanziarie a disposizione.

OGGI questa LEGGE QUADRO è stata sostituita e la disciplina della contrattazione collettiva
nel settore pubblico si trova agli ARTT.40 e seguenti del T.U.P.I. (che sostanzialmente
hanno riconosciuto EFFICACIA DIRETTA alla contrattazione collettiva nella
regolamentazione del rapporto, ma hanno disegnato una disciplina del contratto collettivo
nel settore pubblico che è assolutamente speciale rispetto a quella della contrattazione
collettiva nel settore privato).

Dall’ART.97 della Costituzione (che impone la garanzia del BUON ANDAMENTO e


dell’IMPARZIALITA’ della p.a.) deriva:
 La regola di necessità di una regolamentazione uniforme dei rapporti di lavoro in
ciascun settore (REGOLA DELLA PARITA’ DI TRATTAMENTO); che chiaramente
abbiamo visto essere NON NECESSARIA nel settore privato.
 La regola che riguarda i VINCOLI DI SPESA (infatti il contratto collettivo nel settore
pubblico è soggetto a pregnanti limiti di spesa; il controllo della Corte dei conti è
ancora centrale).

FONDAMENTALE DIFFERENZA TRA SETTORE PUBBLICO E PRIVATO (riguarda i soggetti che


sono protagonisti della contrattazione collettiva):
 nel SETTORE PRIVATO, aldilà dei tentativi che il T.U. del 2014 fa di formalizzare delle
regole sulla ammissione alle trattive e sulla regola della stipula del contratto
collettivo, NON ESISTONO delle disposizioni normative che individuino quali sono i
soggetti legittimati a trattare e poi a firmare il contratto collettivo (ossia le relazioni
tra sindacati dei lavoratori ed associazioni dei datori sono libere, si svolgono
secondo la regola dei RAPPORTI DI FORZA).
 Mentre nel SETTORE PUBBLICO sono individuate, dalle norme della legge e poi
specificate anche dalla contrattazione collettiva, proprio delle regole sul sistema
contrattuale; comprese le regole che riguardano il diritto alla AMMISSIONE ALLE
TRATTATIVE e quelle che riguardano i requisiti per la STIPULAZIONE del contratto
collettivo.
DIVARICAZIONE o OMOLOGAZIONE tra sistema pubblico e sistema privato? L’obiettivo di
OMOLOGAZIONE delle regole (tra settore pubblico e privato) era quello che era alle basi
della riforma (CONTRATTUALIZZAZIONE/PRIVATIZZAZIONE), ma da un lato non è stato
perseguito (viste le specificità del settore pubblico); dall’altro lato le leggi più recenti (tra
cui la legge Brunetta), in qualche modo, sono andate nella direzione opposta (cioè nel
senso di un’ulteriore DIVARICAZIONE del sistema tra pubblico e privato). Infatti la LEGGE
BRUNETTA non si fida dei sindacati e, quindi, sostanzialmente attua una ri-
legificazione/formalizzazione di molte regole del settore pubblico.
L’unica norma (un pò in controtendenza) è l’ART.8 del D.LGS.138/2011 che attua una ri-
legificazione anche delle regole del settore privato (con gli effetti che abbiamo già visto).

Chiaramente (tra settore pubblico e privato) è diversa anche la CORNICE LEGALE ed, in
particolare per il settore pubblico, noi dobbiamo fare riferimento agli ARTT.40 E SEGUENTI
T.U.P.I.
PARTICOLARITA’: le nuove regole del T.U.P.I. sono la formalizzazione, in pratica, di quelle
regole di quell’ACCORDO QUADRO SEPARATO PER IL PUBBLICO IMPIEGO del 2009. Quelle
stesse regole, però, nel settore privato (come sappiamo) sono state ampiamente superate
dalla successiva contrattazione interconfederale.
Quindi abbiamo questa ulteriore DIVARICAZIONE (tra pubblico e privato): nel sistema
PUBBLICO abbiamo una legificazione delle regole (di cui al T.U. del 2009); mentre nel
sistema PRIVATO quelle regole sono state sostanzialmente superate dai successivi accordi
interconfederali.

Nel SETTORE PUBBLICO la legge regola, in modo organico:


 SOGGETTI della contrattazione collettiva
 PROCEDURE della contrattazione collettiva
 OGGETTO della contrattazione collettiva

ART.40 T.U.P.I.: “la contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni


sindacali, e si svolge con le modalità previste dal presente decreto”.

Ci sono, però, determinate materie in cui espressamente si dice che la contrattazione


collettiva si svolge entro i pregnanti limiti di legge (ossia materie nelle quali la
contrattazione collettiva incontra di pregnanti limiti di legge); esse sono le materie delle:
 Sanzioni disciplinari
 Valutazione della performance dei lavoratori (per la corresponsione del trattamento
economico accessorio)
 Mobilità
La contrattazione disciplina tali materie, MA esclusivamente nei LIMITI DI LEGGE.

Poi ci sono materie che sono completamente ESCLUSE dalla contrattazione collettiva (cioè
sulle quali la contrattazione collettiva assolutamente non può interferire); tra queste
materie spiccano quelle che sono oggetto di PARTECIPAZIONE SINDACALE (quindi l’ART.40
T.U.P.I ci dice che “nelle materie di cui all’ART.9 è esclusa la contrattazione collettiva”); così
come nelle materie che sono riservate alla legge o alla disciplina unilaterale della p.a. (sono
quelle che riguardano l’organizzazione degli uffici, le prerogative dirigenziali, il
conferimento e la revoca degli incarichi e tutte le materie di cui alla legge delega del 1992).

17/11
CASO 1 (sul rapporto tra legge e contratto collettivo): contratto collettivo NAZIONALE di
lavoro per il settore del commercio prevede il LICENZIAMENTO DISCIPLINARE se, per 3
volte nell’anno solare, il lavoratore ha commesso un’infrazione disciplinare punibile con la
multa.
Il lavoratore arriva in ritardo di 1 ore per 3 volte nell’anno solare, effettivamente riceve le
tre MULTE, e viene licenziato in ottemperanza al contratto collettivo.
E’ GIUSTO? NO.
In questo caso c’è un contrasto tra contratto collettivo e norma di legge (che è l’ART.2119
cc che ci dice che “la GIUSTA CAUSA consiste in una causa che non consente la
prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto”).
Allora da un lato c’è l’art.2119 (legge) che dice che la GIUSTA CAUSA deve essere un
inadempimento GRAVISSIMO; dall’altro c’è una clausola del contratto collettivo che
sostanzialmente qualifica come “giusta causa” una condotta che non necessariamente è un
comportamento gravissimo (perché arrivare per 3 volte un’ora in ritardo NON E’ UN
INADEMPIMENTO GRAVISSIMO).
Qui il contratto collettivo è peggiorativo rispetto alla legge (mentre invece non può
esserlo, salvo casi eccezionali che qui non ci sono), e quindi prevalgono le disposizioni
della legge; perciò è ILLEGITTIMO un licenziamento (di questo tipo) intimato in
ottemperanza di quel contratto collettivo ma in violazione della norma di legge (di cui
all’art.2119 cc).

CASO 2 (sull’assemblea dei lavoratori, art.20 SL): un datore di lavoro, a fronte di


un’assemblea, impedisce l’accesso in azienda ad un dirigente del sindacato esterno (della
CISL), non dipendente dell’azienda.
E’ LEGITTIMA TALE CONDOTTA DEL DATORE?
Secondo la disciplina i DIRIGENTI DEL SINDACATO ESTERNO hanno diritto ad accedere in
azienda, ma deve essere stato dato PREAVVISO al datore di lavoro.
Quindi, nel caso concreto, la condotta del datore E’ LEGITTIMA se non è stato preavvisato;
E’ ANTISINDACALE se il datore è stato preavvisato.

CASO 3 (sul diritto di affissione; art.25 SL): il datore di lavoro rifiuta di mettere a
disposizione di ciascuna RSA una specifica bacheca, ma mette a disposizione
semplicemente un’unica bacheca per tutte le RSA; inoltre il datore di lavoro vede un
comunicato e provvede personalmente a staccarlo perché in esso si criticava il datore per
la nuova organizzazione dei turni introdotta.
PRIMA QUESTIONE: secondo la disciplina ciascuna RSA ha diritto al proprio spazio; quindi
quella del datore di lavoro è CONDOTTA ANTISINDACALE.
SECONDA QUESTIONE: secondo la disciplina il datore può staccarle di persona un
comunicato solo se è molto offensivo nei suoi confronti e se c’è l’attualità del pericolo
(perché ancora nessuno ha letto quel contenuto).
In questo caso non c’è esercizio della legittima difesa del datore di lavoro, perché i
contenuti rientrano nella normale dialettica sindacale (non sono offensivi); perciò quella
del datore è CONDOTTA ANTISINDACALE.

CASO 4 (sui locali; art.27 SL): datore di lavoro che ha 300 dipendenti e si dichiara
disponibile a mettere a disposizione un locale per le RSA ma solo temporaneamente, su
richiesta della RSA, e di volta in volta.
TALE CONDOTTA E’ LEGITTIMA O NO?
NO, è CONDOTTA ANTISINDACALE perché il locale deve essere messo a disposizione in
modo STABILE/PERMANENTE (visto che il datore ha più di 200 dipendenti).
Il datore mette a disposizione un UNICO locale per tutte le RSA; E’ LEGITTIMO O NO? SI,
perché per quanto riguarda i locali aziendali è sufficiente che venga messo a disposizione
un locale unico per tutte le RSA.
Il datore di lavoro impedisce l’ingresso (in questo locale) ai rappresentanti dei sindacati
esterni; E’ LEGITTIMO O NO? SI, il datore lo può fare perché può non consentire l’ingresso
in azienda di soggetti esterni.

CONTRATTO COLLETTIVO DEL SETTORE PUBBLICO (continua)


Le fasi della PRIVATIZZAZIONE/CONTRATTUALIZZAZIONE sono 2:
1. PRIMA PRIVATIZZAZIONE: lo spartiacque era stato inserito tra organizzazione degli
uffici ed organizzazione del lavoro; nel senso che l’organizzazione degli uffici della
p.a. era considerata a panaggio della legge e degli atti pubblicistici; mentre la
disciplina dei rapporti di lavoro era inserita nell’ambito privatistico (quindi tramite
atti negoziali). I contratti di lavoro potevano, quindi, essere disciplinati dalla
contrattazione collettiva (oltre che dal dirigente, sostanzialmente, con poteri
privatistici).

2. SECONDA PRIVATIZZAZIONE: ha ulteriormente ampliato l’area a favore/a panaggio


del diritto privato; ha inserito un ulteriore spartiacque all’interno dell’organizzazione
degli uffici, distinguendo tra la cosiddetta MICRO ORGANIZZAZIONE e la cosiddetta
MACRO ORGANIZZAZIONE.
Quindi restavano di competenza della legge e degli atti amministrativi di tipo
pubblicistico le materie di MACRO ORGANIZZAZIONE (per esempio le linee
fondamentali di organizzazione degli uffici, i modi di conferimento degli incarichi
degli uffici di maggiore rilevanza, le dotazioni organiche complessive); mentre era a
panaggio della MICRO ORGANIZZAZIONE tutto il resto (cioè la dirigenza esercitava
l’attività organizzativa minore e la gestione dei rapporti di lavoro avvalendosi dei
poteri del privato datore di lavoro).
Quindi le p.a. non operano più attraverso atti di diritto amministrativo ma tramite
atti privatistici di gestione del rapporto (questo vuol dire che tali atti non devono
essere necessariamente/espressamente motivati).

In questo contesto, il CONTRATTO COLLETTIVO assume (almeno in un primo


momento) un ruolo centrale nella disciplina dei rapporti di lavoro; si discuteva se il
contratto collettivo del settore pubblico fosse, come nel privato, espressione di
autonomia privata o se invece fosse funzionalizzato alla realizzazione dell’interesse
pubblico. La TESI PREVALENTE è la prima (che sia un atto espressione di autonomia
privata).

COME SI ARRIVA ALLA STIPULAZIONE DEL CONTRATTO COLLETTIVO?


In linea di principio la scelta di stipulare il contratto collettivo resta affidata ai RAPPORTI DI
FORZA tra le parti (sono le parti che liberamente scelgono l’equilibrio, il punto in cui
raggiungere l’accordo).
Le PARTI sono la p.a. e le associazioni/organizzazioni sindacali del settore pubblico.
Se non si stipula il contratto collettivo, in ogni caso la p.a. può comunque procedere
esercitando semplicemente i poteri del privato datore di lavoro.
Con un'unica ECCEZIONE: ART.45 T.U. ci dice che “in caso di mancato accordo (sul rinnovo
del contratto già vigente), le p.a. NON possono elargire ai dipendenti pubblici dei
premi/delle retribuzioni superiori a quelle già previste nel contratto collettivo (quello già
vigente)” (questo per ragioni di PARITA’ e TRASPARENZA).
Salvo quanto previsto IN VIA TRANSITORIA dall’ART.47 T.U. (cioè SOLO IN VIA
TRANSITORIA è possibile per le p.a. arrivare a queste attribuzioni superiori).

Nel pubblico impiego, anche in materia di contrattazione collettiva, si hanno avuti molti
interventi; uno spartiacque importante è sicuramente rappresentato dalla LEGGE
BRUNETTA (del 2009), nella quale l’intenzione è di ridurre lo spazio per la contrattazione
collettiva ed aumentare lo spazio, da un lato per la legge, ma anche per l’esercizio da parte
dei dirigenti dei loro poteri in modo unilaterale (Brunetta torna a responsabilizzare i
DIRIGENTI).
Infatti tale legge interviene sull’ART.5 e sull’ART.40 T.U., limitando i poteri dei contratti
collettivi di condizionare i poteri dei dirigenti (Brunetta vuole spezzare l’influenza reciproca
tra contrattazione collettiva e dirigenti).

Questo orientamento è abbastanza evidente proprio nell’individuazione delle materie che


sono, da un lato di COMPETENZA ESCLUSIVA della contrattazione collettiva, dall’altro delle
materie che sono disciplinate dalla contrattazione collettiva SOLO NEI LIMITI DI LEGGE, in
terzo luogo nell’individuazione delle MATERIE ESCLUSE dalla contrattazione collettiva.
Vediamole in ordine:

 MATERIE RISERVATE ESCLUSIVAMENTE ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA:


norma di riferimento è l’ART.40 T.U. che ha avuto 3 versioni diverse:
 PRIMA VERSIONE (dopo privatizzazione): dice che la contrattazione collettiva
si svolge su TUTTE le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni
sindacali. Quindi FIDUCIA nei confronti della contrattazione collettiva a
regolare il rapporto di lavoro (come accade nel settore privato).
 SECONDA VERSIONE (dopo legge Brunetta; ci sono state varie interpretazioni
di tale versione perché le modifiche introdotte non erano molto chiare): idea
principale è quella di ridurre il ruolo della contrattazione collettiva nella
disciplina dei rapporti di lavoro nel pubblico impiego.
Tale versione diceva che “la contrattazione collettiva determina i diritti e gli
obblighi direttamente pertinenti i rapporti di lavoro, nonché le materie
relative alle relazioni sindacali”.
PRIMA QUESTIONE: che cosa significa “DETERMINA i diritti e gli obblighi che
sono pertinenti ai rapporti di lavoro”? Secondo alcuni significa “QUANTIFICA”
(quindi il ruolo del contratto collettivo sarebbe solo quello di QUANTIFICARE
quei diritti che, però, sarebbero direttamente regolati o dalla legge o
unilateralmente dal datore di lavoro).
Secondo altri significa “REGOLA” (quindi il contratto collettivo REGOLA diritti
ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro).
 TERZA VERSIONE (con la riforma Madia): dice che “la contrattazione collettiva
disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali, e si svolge con le
modalità previste dal presente decreto”(vedremo che tali modalità sono
indicate in modo molto specifico).
C’è forse una RI-ESPANSIONE del ruolo della contrattazione collettiva.
DUBBIO: la legge di delega non ha espressamente delegato il Governo ad introdurre
questa TERZA VERSIONE.
Per ora il Consiglio di Stato (nel parere reso nel 2017) ha, invece, superato tale
dubbio e ha sostanzialmente ritenuto che il Governo fosse legittimato ad introdurre
tale modifica.

Ci sono anche altre norme del T.U. che, in realtà, valorizzano il ruolo della
contrattazione collettiva nella disciplina del rapporto di pubblico impiego; ad
esempio l’ART.9 T.U.: dice che “i contratti collettivi disciplinano le modalità e gli
istituti della partecipazione”.

 MATERIE IN CUI IL CONTRATTO COLLETTIVO E’ AMMESSO MA SOLO NEI STRETTI


LIMITI PREVISTI DALLE NORME DI LEGGE (sempre ART.40 T.U.): sono, per esempio,
le materie:
 delle sanzioni disciplinari
 della mobilità
 della valutazione delle prestazioni dei lavoratori (ai fini della corresponsione
del trattamento economico accessorio).
In queste materie viene ristretta la possibilità di intervento della contrattazione
collettiva.
Il PROBLEMA è che i vecchi contratti collettivi, però, non si sono ancora del tutto
adeguati (quindi, per esempio, in materia disciplinare continuano magari ancora a
disciplinare la materia eccedendo i limiti di legge).

 MATERIE ESCLUSE/SOTTRATTE ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA (sempre


ART.40 T.U.): naturalmente non sono tutte materie di MACRO ORGANIZZAZIONE
(sono individuate dal legislatore secondo sua discrezionalità).
Esse sono, per esempio, quelle relative:
 alle responsabilità giuridiche dei lavoratori (nell’espletamento delle
procedure ammnistrative)
 alla macro organizzazione degli uffici
 alla partecipazione sindacale
 alle prerogative dirigenziali
 al conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali (è una materia di micro
organizzazione).
In più sono escluse tutte le materie che la legge delega del 1992 espressamente
escludeva, cioè:
 la disciplina degli organi, uffici e modalità di conferimento di questi
 i ruoli e le dotazioni organiche
 ecc..
Chiaramente il CONTRATTO COLLETTIVO NON PUO’ INTERVENIRE in tutte queste
materie.
Le relative clausole del contratto collettivo che pretendessero di intervenire in tali
materie sarebbero NULLE ed il loro contenuto sarebbe sostituito di diritto dalle
norme imperative di legge (si fa riferimento agli ARTT. 1339 e 1418 cc).
ART.1339 cc: “le clausole che sono imposte dalla legge sono sostanzialmente
inserite di diritto nel contenuto del contratto, e sostituiscono automaticamente le
clausole difformi negoziate dalle parti”.
ART.1418 cc: ”la nullità della singola clausola non comporta la nullità dell’intero
contratto, quando quella clausola nulla è sostituita di diritto da una norma
imperativa di legge”.

STRUTTURA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL PUBBLICO IMPIEGO


Ci sono diversi livelli contrattuali:
 ACCORDI QUADRO (sono l’equivalente degli ACCORDI INTERCONFEDERALI nel
settore privato): in realtà non sono considerati un 3° livello di contrattazione ma
sono anch’essi, sostanzialmente, CONTRATTI NAZIONALI.
CONTENUTO:
 o individuano/determinano i COMPARTI per la contrattazione nazionale
(l’equivalente delle CATEGORIE nel privato)
 o disciplinano istituti trasversali a tutti i comparti (per esempio la disciplina
delle RSU).
 CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE (“contrattazione di comparto”): il settore
pubblico, ai fini della contrattazione collettiva, è diviso appunto in COMPARTI (cioè
in macro settori- comparto scuola, comparto ministeri, comparto autonomie
regionali, ecc..) che, a loro volta, individuano l’ambito SOGGETTIVO di applicazione
del contratto collettivo nazionale (ad esempio il contratto stipulato dai sindacati
della scuola, si applica al “comparto scuola”).
QUANTI COMPARTI CI SONO IN ITALIA?
Originariamente erano 8, poi sono diventati 11-12; successivamente la Legge
Brunetta ha ritenuto che ci fossero troppi contratti collettivi diversi rispetto alle
specificità da garantire e ha detto che gli accordi quadro futuri avrebbero dovuto
ridurre il numero a 4 (Brunetta ha imposto un CONTENUTO agli accordi quadro
futuri).
Per molti anni (dal 2009 in poi) non è successo niente e i contratti collettivi hanno
continuato ad essere stipulati per 11-12 comparti.
Poi nel 2016 c’è stata finalmente la stipula dell’ACCORDO QUADRO e i comparti
sono stati portati a 4 (quindi dalla prossima tornata contrattuale avremo solo 4
contratti collettivi diversi nel settore pubblico: SANITA’, ISTRUZIONE e RICERCA,
FUNZIONI CENTRALI, FUNZIONI LOCALI).
Se non che, come ben sappiamo, da molti anni c’è il BLOCCO DELLA
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA (infatti è da molti anni che i contratti collettivi non
vengono rinnovati); solo adesso sembra che le negoziazioni si siano rimesse in
moto.

I DIRIGENTI hanno delle aree contrattuali distinte. Quindi, oltre al contratto


collettivo nazionale per gli altri lavoratori, abbiamo il CONTRATTO COLLETTIVO DI
AREA (per i dirigenti); e sostanzialmente ci sono 4 AREE per la dirigenza
(particolarità ci sono, soprattutto, per la DIRIGENZA SANITARIA per la quale c’è
un’area apposita e separata).

E’ RILEVANTE QUESTO TEMA DELLA RILEVAZIONE DEI COMPARTI? SU COSA INCIDE


IL NUMERO DEI COMPARTI?
Nel settore pubblico c’è un SISTEMA DI MISURAZIONE DELLA RAPPRESENTATIVITA’
DEI SINDACATI NEL COMPARTO e, quindi, individuare/determinare i comparti vuol
dire anche incidere sul peso che i sindacati hanno in quel comparto.

CONTENUTO: disciplina, in generale (e chiaramente sempre e solo nelle materie


dove ha competenza esclusiva o limitata) il trattamento normativo ed economico
dei dipendenti e l’intera disciplina del rapporto di lavoro.

 CONTRATTO COLLETTIVO INTEGRATIVO (come l’AZIENDALE/DECENTRATO nel


settore privato).
Chiaramente esso incontra i LIMITI che sono fissati dal CONTRATTO COLLETTIVO
NAZIONALE; infatti l’ART.40, COMMA 3, T.U. dice che “la contrattazione collettiva
disciplina la struttura contrattuale, i rapporti tra diversi contratti collettivi, e la durata
anche dei contratti collettivi (in conformità al settore privato)”.
MA quello che ci interessa di più adesso è l’ART.40, COMMA 3-bis, T.U.: ci dice che
“il contratto collettivo INTEGRATIVO è rigidamente predeterminato, sia nei soggetti
sia nelle procedure sia nei contenuti, dal contratto collettivo NAZIONALE di lavoro
(c.c.n.l.)”.
Quindi il CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE, per legge, DISCIPLINA IL
CONTRATTO COLLETTIVO INTEGRATIVO (REGOLA DI FONDO).
In realtà, dobbiamo aggiungere che (a differenza del settore privato) nel settore
pubblico la contrattazione INTEGRATIVA ha carattere OBBLIGATORIO (le p.a. devono
OBBLIGATORIAMENTE svolgere la contrattazione collettiva integrativa).
Inoltre alcuni dicono che la contrattazione integrativa è funzionalizzata ad un certo
contenuto (sempre ART.40, COMMA 3-bis), cioè essa ha l’obiettivo di
garantire/premiare la maggiore produttività dei dipendenti pubblici (quindi i
contratti integrativi devono destinare una quota prevalente dei soldi che
distribuiscono a premiare le performance, e non più distribuirli “a pioggia” a tutti i
dipendenti).

Per quanto riguarda le RISORSE FINANZIARIE, dobbiamo ricordare che quelle che
possono essere elargite dal contratto INTEGRATIVO (ossia quelle entità finanziarie
che ciascuna p.a. può destinare alla contrattazione collettiva) sono stabilite:
 dai CONTRATTI COLLETTIVI NAZIONALI
 nei bilanci annuali e triennali delle p.a.
Questo vuol dire che i contratti integrativi devono rispettare VINCOLI DI BILANCIO
(ossia non possono distribuire più soldi rispetto a quelle somme che sono stanziate
dai contratti collettivi nazionali e dai bilanci delle p.a.).

La riforma Madia, per scoraggiare l’ASSENTEISMO dei dipendenti pubblici (ad


esempio frequenti sono le “assenze strategiche” in concomitanza ad un ponte/ad
una festività/ecc..), ha introdotto l’ART.40-bis T.U. che dice che “i contratti collettivi
NAZIONALI devono prevedere delle clausole che vietano di aumentare le risorse
economiche (a disposizione per la contrattazione INTEGRATIVA) in quelle p.a. dove
(in media) c’è un elevato tasso di ASSENTEISMO proprio in concomitanza con
periodi di ferie, ponti, festività, ecc..”.

COSA SUCCEDE SE NON SI ARRIVA ALLA STIPULA DEL CONTRATTO COLLETTIVO


INTEGRATIVO?
L’ART.40, COMMA 3-ter, T.U. ci dice che “se non si arriva alla stipula del contratto
collettivo INTEGRATIVO, la p.a. può (IN VIA PROVVISORIA) provvedere
unilateralmente nelle materie oggetto di contrattazione” (ma SOLO IN VIA
PROVVISORIA, perché appunto questo vale solo fino a quando non si arriverà alla
stipula del contratto integrativo).
23/11
CASO (sullo sciopero): un sindacato proclama uno sciopero contro la partecipazione
italiana alla missione in Kosovo. I lavoratori aderiscono.
E’ uno sciopero POLITICO. L’orientamento dominante (fino a poco tempo fa e di cui ancora
si discute) è che non sia uno sciopero-diritto ma solo uno sciopero-LIBERTA’.
DAL PUNTO DI VISTA DEL TRATTAMENTO ECONOMICO CAMBIA QUALCOSA nel
qualificarlo come sciopero-diritto o sciopero-libertà? NO, comunque (vista la natura
corrispettiva del rapporto di lavoro) i lavoratori si astengono dalla prestazione e quindi non
hanno diritto alla retribuzione.
La differenza è che se si tratta di LIBERTA’ il lavoratore che si astiene commette un
INADEMPIMENTO (quindi, in astratto, potrebbe vedersi applicate delle sanzioni
disciplinari).
Nonostante ciò c’è una recente sentenza della Cassazione che, invece, con riferimento a
questo caso ha superato l’idea di sciopero-libertà ed ha affermato che si tratta di un vero e
proprio DIRITTO dei lavoratori. Quindi è una questione ancora molto discussa.

CASO 2: azienda che si occupa di attività di vigilanza e di rilascio di biglietti nell’accesso a


manifestazioni teatrali. Un sindacato comunica la data di inizio di una manifestazione di
protesta contro la condotta del datore di lavoro (quindi proclama uno sciopero) e spiega
che i lavoratori si limiteranno a svolgere la vigilanza sull’accesso ma senza rilasciare i
biglietti; in questo modo non si perde la retribuzione (perché i lavoratori non si astengono
dall’intera prestazione ma si astengono SOLO da certe mansioni) però si arreca un danno
all’azienda (perché non viene garantito il rilascio dei biglietti).
E’ SCIOPERO? E’ LEGITTIMO OPPURE NO?
NO, non si tratta di SCIOPERO (perché il lavoratore si astiene solo da alcune mansioni;
mentre nello sciopero ci si astiene da TUTTE le mansioni). Lo SCIOPERO DELLE MANSIONI
non è una forma di sciopero tutelata dall’art.40 Cost.
Quindi i lavoratori stanno compiendo un INADEMPIMENTO e potrebbero essere
disciplinarmente sanzionabili.

CASO 3: i sindacati di polizia proclamano lo sciopero tra gli agenti della polizia municipale.
La Commissione di garanzia dichiara l’illegittimità dello stato di agitazione per i TEMPI ed i
MODI della sua proclamazione ed attuazione. Ciò nonostante alcuni poliziotti si astengono
dal lavoro.
PRIMA QUESTIONE: I POLIZIOTTI POSSONO SCIOPERARE? Bisogna distinguere tra:
 POLIZIA DI STATO: no
 POLIZIA MUNICIPALE: si, ma solo nell’ambito della legge che regola lo sciopero nel
settore dei servizi pubblici essenziali; quindi affinché lo sciopero sia LEGITTIMO
bisogna dare il PREAVVISO di 10gg; bisogna comunicare MOTIVI, MODALITA’,
DURATA dello sciopero; bisogna garantire le PRESTAZIONI MINIME INDISPENSABILI
(stabilite dapprima da accordi collettivi che devono essere valutati idonei dalla
Commissione di garanzia; se valutati NON IDONEI la Commissione provvede essa
stessa IN VIA PROVVISORIA, finché non verrà raggiunto un accordo collettivo
valutato idoneo).
La Commissione di garanzia non può imporre l’astensione dallo sciopero a più del 50% dei
servizi normalmente erogati e a più di 1/3 del personale.
In questo caso non sono stati rispettati i TEMPI e i MODI per la proclamazione dello
sciopero e quindi lo sciopero è stato proclamato in modo ILLEGITTIMO. Ma c’è comunque
l’adesione ILLEGITTIMA da parte di alcuni dipendenti.

CONCLUSIONE: i lavoratori che hanno aderito a tale sciopero possono subire delle sanzioni
disciplinari.
Particolarità rispetto alle “normali sanzioni disciplinari” (in cui l’esercizio del potere
disciplinare da parte del datore è facoltativo e discrezionale, in quanto la Commissione di
garanzia non è a conoscenza del fatto illegittimo) è che, in questo caso, è OBBLIGATORIO
l’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro (tanto che se il datore non
sanziona, viene anch’esso sanzionato).
ALTRA PARTICOLARITA’ di questo caso: l’illegittimità del comportamento del lavoratore è
legata all’illegittimità dello sciopero, quindi la stessa Commissione di garanzia, in questo
caso, prescrive al datore di lavoro di applicare le sanzioni (perché la Commissione è a
conoscenza del fatto/dello sciopero illegittimo e quindi prescrive al datore di applicare le
sanzioni nei casi in cui rileva una violazione).

CASO 4: datore di lavoro impiega in un ipermercato lavoratori, che avrebbero


normalmente la qualifica di capo-reparto/capo-settore, nelle normali operazioni di vendita
e cassa in sostituzione di lavoratori in sciopero.
Si tratta di CRUMIRAGGIO INTERNO (esso è LEGITTIMO ma solo se non avviene un
demansionamento della qualifica di tali lavoratori; bisogna sempre rispettare l’art.2103 cc).
Probabilmente in questo caso non ci sono abbastanza elementi per poter capire se siamo
in un livello di qualifica inferiore oppure no.

CASO 5: un sindacato proclama uno sciopero CONTRATTUALE per il rinnovo del contratto
del settore dei trasporti (dando il preavviso, comunicando modalità, durata, motivazione e
garantendo le prestazioni minime indispensabili) ma omette di attivare le PREVENTIVE
PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO previste dalla contrattazione collettiva.
Un altro sindacato, nello stesso giorno, proclama uno SCIOPERO ECONOMICO POLITICO
(sempre dando preavviso, comunicazione delle modalità, durata e motivazione, e
garantendo le prestazioni minime indispensabili) ma omette di attivare le PROCEDURE DI
RAFFREDDAMENTO PREVENTIVE previste dalla contrattazione collettiva.
Nel secondo caso si parla di SCIOPERO ECONOMICO POLITICO: si distingue dallo
SCIOPERO contrattuale perché si agisce per rivendicazioni, NON CONTRO IL DATORE DI
lavoro, ma contro lo Stato (in questo caso contro il Governo che ha emanato la legge
finanziaria); inoltre si sciopera per DIRITTI ECONOMICI che riguardano SOLO I LAVORATORI
in quanto tali (e non TUTTI I CITTADINI).
In questo caso NON HA SENSO ATTIVARE LE PROCEDURE DI RAFFREDAMENTO
PREVENTIVE (che servono per cercare di raggiungere un accordo con il datore) perché le
pretese qui sono vantate nei confronti dello Stato (il datore non viene preso in causa; LO
SCIOPERO NON E’ NELL’IMMEDIATA DISPONIBILITA’ DEL DATORE DI LAVORO). Perciò è
uno SCIOPERO LEGITTIMO.
Nel primo caso, invece, si tratta di SCIOPERO ILLEGITTIMO perché le pretese sono vantate
nei confronti del datore e quindi è necessario che vengano attivate le procedure di
raffreddamento preventive.

CASO 6: Giubileo di Roma nel 2000; i sindacati proclamano lo sciopero nei trasporti, pur
garantendo le prestazioni minime indispensabili. In questo caso potrebbe intervenire
(contro lo sciopero dei trasporti che potrebbe mettere in crisi la sicurezza e anche i beni
costituzionalmente garantiti di primaria importanza) l’istituto della PRECETTAZIONE. Nel
settore dei servizi pubblici essenziali l’autorità competente è il Presidente del Consiglio dei
Ministri o il Ministro dei trasporti (se lo sciopero è NAZIONALE), il Prefetto (se lo sciopero è
LOCALE). Inoltre il requisito necessario è che ci sia un PERICOLO GRAVE ED IMMINENTE
per i beni della persona costituzionalmente tutelati. DEVE ESSERE SEGUITO UN ITER
PROCEDIMENTALE MOLTO DETTAGLIATO (serve “a monte” la Commissione di garanzia che
segnali la situazione di grave pericolo all’autorità competente; in casi di urgenza potrebbe
anche precedere direttamente l’Autorità competente. Poi è necessario che si tenti la
conciliazione tra le parti; e solo in ultima istanza si emana l’ORDINANZA DI
PRECETTAZIONE).

CASO 7: sciopero e si era detto che ogni lavoratore avrebbe potuto aderirvi nel modo che
riteneva più adeguato/opportuno.
NON E’ UNO SCIOPERO LEGITTIMO perché non è svolto a tutela dell’interesse collettivo
(ma a tutela dell’interesse individuale).

CASO 8: novembre 2017 la FIOM genovese, a difesa di un accordo sindacale, ha occupato


l’azienda. Si tratta di OCCUPAZIONE D’AZIENDA.
E’ SCIOPERO OPPURE NO? E’ LEGITTIMO OPPURE NO?
NON E’ SCIOPERO (è una forma di protesta diversa dallo sciopero); anzi (di per sé) è
considerata un reato, MA affinché si abbia REATO c’è bisogno del DOLO SPECIFICO (dei
lavoratori ad impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa in atto).
Mentre questo non ricorre quando l’occupazione non intacca/compromette l’attività
lavorativa, oppure quando l’attività lavorativa è già sospesa (ossia i giudici arrivano a non
riconoscere il reato di occupazione d’azienda a seguito di tali condotte, che pur non sono
considerate sciopero legittimo).

CASO 9: alcuni operatori turistici interrompono le forniture di pacchetti di viaggio/di


soggiorno ad un agente di viaggio che opera uno sconto del 10% sulle proprie
commissioni e, in questo modo, suscita un ampio conflitto con tutti gli altri suoi
concorrenti (sono gli altri agenti a cercare di convincere gli operatori a non fornire più
pacchetti di viaggio ad un certo agente).
E’ una FORMA DI BOICOTTAGGIO che è ritenuta ILLECITA (non siamo nell’ambito dello
sciopero ex art.40 Cost.).

CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL SETTORE PUBBLICO (continua)


SOGGETTI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA.
Ci sono contrapposti:
 SINDACATI DEI LAVORATORI
 AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE: sono sostanzialmente rappresentate dall’ARAN (è
un organismo tecnico composto da un Presidente, nominato direttamente dal
Presidente della Repubblica, e da un Collegio di 4 membri che affiancano il
presidente nella contrattazione; è un organismo indipendente; nella contrattazione
non opera da solo MA contratta/opera in base agli indirizzi che riceve dai COMITATI
DI SETTORE).
I COMITATI DI SETTORE sono espressioni associative delle p.a. rappresentate e dettano
gli indirizzi cui l’ARAN si deve attenere nella contrattazione.
Sono diversi a seconda del comparto di contrattazione (nel comparto cui fanno capo le
amministrazioni dello Stato è lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri che opera
come COMITATO DI SETTORE; cioè gli indirizzi in pratica vengono direttamente dal
Governo); mentre negli altri casi (ossia per le amministrazioni NON STATALI) gli indirizzi
dei comitati di settore sono comunque sottoposti al Governo (nel senso che comunque
il Governo deve interloquire anche con riferimento alla contrattazione delle altre p.a.).

Non tutte le p.a. sono rappresentate dall’ARAN perché devono essere salvaguardate le
autonomie delle Regioni a statuto speciale (infatti su queste l’ARAN non ha la
rappresentanza speciale/legale ma PUO’ affiancarle nella contrattazione se le regioni
stesse intendono avvalersene); quindi le Regioni a statuto speciale possono scegliere di
avere al proprio fianco l’ARAN ma non obbligatoriamente).

La conseguenza (del fatto che l’ARAN abbia la rappresentanza legale di tutte le p.a., tranne
il discorso appena fatto per le regioni a statuto speciale) è che il contratto collettivo
produce effetti verso tutte le p.a. (rappresentate dall’ARAN), senza più necessità di un atto
di recezione del contratto collettivo (come invece avveniva, per esempio, nel vigore della
legge quadro del 1983).

SENTENZA del 1993 ci dice che “con riferimento a tutte le regioni e a tutte le autonomie
locali, anche quelle ordinarie, l’ARAN può essere il soggetto stipulante il contratto
collettivo, MA a condizione che sia riconosciuto un ruolo di indirizzo alle autonomie locali”
(proprio per rispettare la libertà sindacale di queste).
Quindi chi contratta per le p.a. è l’ARAN, ma sostanzialmente le p.a. possono dare i loro
atti di indirizzo (tramite i COMITATI DI SETTORE); con riferimento alle Regioni, per quanto
riguarda TUTTE LE REGIONI la Corte Costituzionale ci ha detto che è NECESSARIO
salvaguardare questo ruolo del datore di lavoro (proprio per garantire la sua libertà
sindacale), con riferimento alle Regioni a statuto speciale, invece, queste non sono
necessariamente rappresentate dall’ARAN ma POSSONO SCEGLIERE di avvalersene nella
contrattazione nazionale.

Soggetto della CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA (dal lato del datore di lavoro) sono le
singole e diverse p.a. (quindi chi firma il contratto collettivo sono le diverse p.a.), che
possono scegliere (se vogliono) anch’esse di avvalersi dell’assistenza dell’ARAN nella
contrattazione.
Dal lato dei LAVORATORI, i soggetti sono le ASSOCIAZIONI SINDACALI (qui, però a
differenza del settore privato (salvo quanto previsto dal T.U. del 2014), la legge disciplina
esattamente chi sono i soggetti legittimati a partecipare alle trattative); hanno DIRITTO A
PARTECIPARE ALLE TRATTATIVE (per la stipula del contratto collettivo nazionale) le
ASSOCIAZIONI SINDACALI che raggiungono, nel comparto, la RAPPRESENTATIVITA’ DEL
5% (come media tra dato associativo, ossia il numero delle deleghe per il versamento della
quota al sindacato e che i sindacati ricevono nel comparto, e dato elettorale, ossia quello
per le elezioni delle RSU). Questo ci fa capire che, nel settore pubblico, i sindacati hanno
quindi tutto l’interesse a costituire RSU (perché altrimenti, per poter partecipare alle
trattative per il contratto collettivo, dovrebbero raddoppiare il dato associativo).
Questo per quanto riguarda l’AMMISSIONE ALLE TRATTATIVE.

Dopodiché il CONTRATTO COLLETTIVO (nel settore pubblico) può essere stipulato quando,
sull’ipotesi di accordo, si raggiunge il consenso dei sindacati che rappresentano almeno il
51% sostanzialmente dei lavoratori sempre del comparto (come media del dato associativo
e del dato elettorale), oppure il 60% (solo del dato elettorale).

Invece per quanto riguarda il CONTRATTO COLLETTIVO INTEGRATIVO (cioè quello


decentrato) chi stipula il contratto è la RSU (con l’eventuale assistenza del sindacato
territoriale esterno). Quindi poi saranno i singoli contratti collettivi a stabilire quali soggetti
sono tenuti alla stipulazione a livello decentrato.

Anche le CONFEDERAZIONI SINDACALI hanno diritto a partecipare alle trattative per la


stipulazione del contratto nazionale quando affiliano almeno un’associazione sindacale che
sia rappresentativa (ossia che abbia il 5%) in quel comparto.

Per quanto riguarda, invece, gli ACCORDI QUADRO (sono l’equivalente degli ACCORDI
INTERCONFEDERALI del settore privato): sono stipulati dalle Confederazioni che, però,
devono affiliare un’associazione sindacale rappresentativa (ossia che abbia il 5%) in almeno
2 comparti.
Gli ACCORDI QUADRO sono quelli che definiscono i COMPARTI, oppure contenuti che
sono trasversali a tutti i comparti (ad esempio la disciplina delle RSU).
DURATA DEL CONTRATTO COLLETTIVO NEL SETTORE PUBBLICO
Prima della riforma Brunetta non c’erano regole legali che individuassero quale fosse la
DURATA del contratto collettivo nazionale nel settore pubblico; sostanzialmente erano gli
stessi contratti collettivi che la stabilivano (in coerenza con il settore privato).
Nel 2009 (anche nel settore pubblico) c’è stato un ACCORDO QUADRO (identico a quello
del 2009 per il settore privato) che ha fissato in 3 ANNI la durata del contratto collettivo
(sia per la parte economica che normativa).
La legge Brunetta, allora, ha delegato il Governo a disciplinare la DURATA del contratto
collettivo (garantendo sempre la corrispondenza con il settore privato).
Una disciplina è stata concretamente emanata, ma non è molto chiara; infatti la legge ci
dice che “la durata del contratto collettivo viene stabilita in modo che sia garantita la
coincidenza tra la vigenza della parte economica e quella normativa”. Quindi la legge non
disciplina esattamente la DURATA del contratto collettivo; per legge è solo previsto che la
PARTE ECONOMICA (contiene semplicemente i minimi retributivi) debba avere la stessa
durata della PARTE NORMATIVA (riguarda i rapporti tra lavoratore e datori di lavoro; i
rapporti di lavoro individuali).

EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO NEL SETTORE PUBBLICO


Nel SETTORE PRIVATO abbiamo visto che l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi non è
“erga omnes” (perché non è mai stata attuata la seconda parte dell’art.39 Cost; quindi oggi
il contratto collettivo si applica solo agli ISCRITTI al sindacato che ha stipulato tale
contratto, oppure in caso di RINVIO).
Nel SETTORE PUBBLICO sostanzialmente è garantita l’applicazione del contratto collettivo
a tutte le p.a. stipulanti e a tutti i lavoratori occupati nel settore pubblico.
2 tesi (che hanno cercato di prendere posizione sulla funzione/natura del contratto
collettivo nel settore pubblico):
1. Nel settore pubblico la contrattazione collettiva è funzionalizzata alla tutela
dell’interesse pubblico (art.97 Cost.); quindi il contratto collettivo (nel settore
pubblico) non sarebbe espressione di autonomia privata collettiva e non sarebbe ad
esso applicabile l’art.39 Cost. NON E’ PREVALSA.
2. Il contratto collettivo (come nel privato) è espressione di autonomia privata
collettiva, ed è soggetto all’ART.39 Cost.
PROBLEMA: è violato oppure no l’ART.39 Cost.? Ci sono sostanzialmente due SENTENZE
della Corte Costituzionale che si sono fronteggiate:
SENTENZA 199/2003: sembra abbracciare la prima tesi (contratto collettivo del settore
pubblico ha efficacia “erga omnes”; è funzionalizzato all’interesse pubblico; inderogabile
sia “in melius” che “in pejus” da parte della contrattazione individuale; non è espressione di
autonomia privata).
SENTENZA 309/1997 (quella che interessa a noi): che ha abbracciato la seconda tesi (il
contratto collettivo è espressione di autonomia privata; è soggetto all’art.39, MA l’art.39
non è violato semplicemente perché l’efficacia del contratto collettivo verso TUTTE le p.a. e
TUTTI i lavoratori è l’effetto indiretto di alcune norme, e non è un’efficacia che realizzi,
violandolo, il medesimo obiettivo previsto dall’art.39).
Queste norme sono:
 ART.45, COMMA 2, T.U.: “le p.a. assicurano ai loro dipendenti parità di trattamento
contrattuale e comunque un trattamento non inferiore a quello previsto dai
contratti collettivi” (quindi l’efficacia per TUTTI i lavoratori del contratto collettivo
deriva, in primis, dall’OBBLIGO DI PARITA’ DI TRATTAMENTO che le p.a. hanno nei
confronti dei dipendenti).
 ART.2, COMMA 3, T.U.: stabilisce il NECESSARIO RINVIO, da parte di tutti i contratti
individuali, al contratto collettivo.
 ART.40, COMMA 4, T.U.: è il cosiddetto OBBLIGO DI OSSERVANZA; ci dice che “le
p.a. adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali dal momento
della loro definitiva sottoscrizione, nei confronti di TUTTI i loro dipendenti” (le p.a.
devono garantire l’osservanza dei contratti collettivi nei confronti di TUTTI i
dipendenti).
Da queste 3 norma deriva l’efficacia soggettiva verso TUTTI I LAVORATORI dei contratti
collettivi del settore pubblico.

Mentre dal lato dei DATORI DI LAVORO l’efficacia soggettiva verso TUTTE LE P.A. è
garantita dalla circostanza che l’ARAN ha la rappresentanza legale di tutte le p.a. (tranne
per le Regioni a statuto speciale).

E SE IL LAVORATORE (per assurdo) RIFIUTASSE DI SOTTOSCRIVERE IL RINVIO AL


CONTRATTO COLLETTIVO (che in tutti i contratti individuali di assunzione del pubblico
impiego deve essere inserito)? Sostanzialmente, in fase di assunzione, tale lavoratore non
sarebbe assunto (questa sarebbe vista come una mancanza di consenso, da parte del
lavoratore, all’assunzione).
SE, invece, QUESTO RIFIUTO AVVENISSE IN UNA FASE SUCCESSIVA ALL’ASSUNZIONE (ad
esempio mancata sottoscrizione di un contratto collettivo peggiorativo)? Anche in questo
caso è considerata questo comportamento del lavoratore è considerato una
manifestazione implicita contraria alla volontà di prosecuzione del rapporto.

EFFICACIA OGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO (cioè RAPPORTI TRA CONTRATTO


COLLETTIVO e CONTRATTO INDIVIDUALE) NEL SETTORE PUBBLICO
Nel SETTORE PRIVATO sempre inderogabilità “in pejus” e “sempre” derogabilità “in melius”
del contratto collettivo; questa regola viene dedotta dalla giurisprudenza dall’art.2077 cc
ma, come abbiamo già visto, questa norma vale solo per il contratto collettivo
CORPORATIVO; in realtà per il contratto di diritto comune (quello attuale) si deve far
riferimento all’ART.2113 cc.

Nel SETTORE PUBBLICO, certamente, è garantita l’inderogabilità “in pejus” del contratto
collettivo (da parte del contratto individuale); ma questo non può essere ricondotta
all’art.2077 cc, non solo per quanto detto appena sopra, ma anche perché il 2077 non è tra
le norme del codice civile che il T.U.P.I. espressamente richiama.
L’inderogabilità, in questo caso, si desume sostanzialmente proprio da quelle tre norme
che abbiamo richiamato in tema di “efficacia soggettiva” (in materia di PARITA’ DI
TRATTAMENTO, VINCOLO DI RINVIO e OBBLIGO DI OSSERVANZA – vedi sopra).
E DEROGABILITA’ “IN MELIUS” OPPURE NO? Il contratto individuale può, nel settore
pubblico, garantire ad alcuni lavoratori trattamenti eventualmente più favorevoli rispetto a
quelli previsti dal contratto collettivo per altri lavoratori?
Sostanzialmente ci sono 2 TEORIE:
1. Non sono ammissibili trattamenti migliorativi da parte del contratto individuale; e
questa tesi si fonda sostanzialmente sull’ART.45 T.U. (che impone PARITA’ DI
TRATTAMENTO tra i lavoratori del settore pubblico e comunque trattamenti non
inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi).
2. C’è un limitato margine per cui la contrattazione individuale possa introdurre
trattamenti migliorativi rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi. Questa idea si
fonda su 2 osservazioni (anche se non molto convincenti):
 L’ART.45 T.U. dice che “è garantita la parità di trattamento e COMUNQUE….”;
viene valorizzata l’espressione “COMUNQUE” per ammettere che una
qualche differenziazione di trattamento possa essere ammessa.
 Il principio di parità di trattamento non vieta qualsiasi differenziazione ma
consente le differenziazioni che siano giustificate da delle ragioni oggettive;
quindi sarebbero ammesse deroghe migliorative, da parte del contratto
individuale, SE obiettivamente giustificate.
In realtà la Cassazione prevalente segue la PRIMA TESI (ossia considera vietati i trattamenti
individuale sia migliorativi che peggiorativi rispetto a quanto previsto dal contratto
collettivo); MA ammette dei trattamenti migliorativi e delle differenziazioni tra i diversi
lavoratori previsti dallo stesso contratto collettivo, SE obiettivamente giustificate per
diverse situazioni di fatto (ad esempio il fatto che certi lavoratori di un determinato
comparto/una determinata area del settore pubblico abbiano conseguito un certo titolo di
studio, consente, a parità di mansioni, magari una differenza migliorativa per valorizzare la
professionalità).
Ovviamente questi trattamenti migliorativi NON DEVONO ESSERE IN CONTRASTO con le
norme di legge.

24/11
Nel settore pubblico il CONTRATTO COLLETTIVO INTEGRATIVO deve rispettare i vincoli
stabiliti dal CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE, altrimenti è NULLO.

RAPPORTO TRA CONTRATTO COLLETTIVO E LEGGE NEL SETTORE PUBBLICO


Nel SETTORE PRIVATO, come abbiamo già detto, il CONTRATTO COLLETTIVO può sempre
introdurre disposizioni migliorative rispetto alla legge; talvolta è la stessa legge che rinvia
alla contrattazione collettiva proprio con la funzione di allentare i limiti che altrimenti
deriverebbero dalla legge (ossia prevede che il contratto collettivo possa introdurre anche
disposizioni peggiorative). Si distingue il RINVIO PROPRIO e il RINVIO IMPROPRIO.
Abbiamo anche parlato del problema dei TETTI ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
(introdotti nel periodo di emergenza); inoltre abbiamo fatto riferimento all’ART.8 del
decreto Sacconi (norma molto criticata perché, entro certi limiti/certe mansioni e per
determinate materie, ha introdotto la possibilità per la contrattazione collettiva DI
PROSSIMITA’ di derogare “in pejus” anche la legge).

Nel SETTORE PUBBLICO questa questione è disciplinata in modo espresso dal T.U.P.I.; anzi
è stata disciplinata per 3 volte in 3 modi diversi:
1. PRIMA DELLA RIFORMA BRUNETTA: vi era stato un indirizzo di DELEGIFICAZIONE
molto spinta, quindi il ruolo della contrattazione collettiva era sicuramente centrale;
l’idea era quella che il contratto collettivo avesse competenza ad intervenire su tutte
le materie relative ai rapporti di lavoro e alle relazioni sindacali. In più, con
riferimento proprio al rapporto tra contratto collettivo e legge, era stata emanata
una disposizione secondo cui il contratto collettivo nazionale poteva derogare a
norme di legge specificamente emanate per il settore pubblico (quindi non a tutte
le norme di legge), durante la vigenza del contratto stesso, SALVO che la legge
disponga espressamente in senso contrario (quindi se il legislatore, nell’emanare
una legge speciale, voleva evitare che fosse derogabile dal contratto collettivo,
doveva ESPLICITAMENTE PREVEDERLO; se, invece, questa legge speciale taceva il
contratto collettivo successivo poteva liberamente derogare ad essa).
2. DOPO LA RIFORMA BRUNETTA: Brunetta non si fida della contrattazione collettiva e,
quindi, la tendenza è quella di dare nuovamente centralità alla LEGGE. Infatti, come
abbiamo già visto, le materie su cui la contrattazione collettiva può intervenire sono
ridotte; in certe materie (come, ad esempio, quella sull’esercizio del potere
disciplinare) il contratto collettivo può intervenire solo nei limiti di legge; ma
soprattutto si capovolge quel rapporto tra legge e rapporto collettivo che abbiamo
appena visto, perché si dice che le disposizioni di legge speciali per il settore
pubblico possono essere derogate dal contratto collettivo nazionale, e per la parte
derogata non sono più applicabili, SOLO SE LA LEGGE LO PREVEDE
ESPRESSAMENTE.
3. CON LA RIFORMA MADIA: annulla, in un certo senso, quanto stabilito dalla riforma
Brunetta e contiene, però, qualche altra modificazione.
L’articolo ci dice che “eventuali disposizioni di legge che introducano o abbiano
introdotto discipline dei rapporti di lavoro esclusivamente per i dipendenti delle
p.a., possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva e
nel rispetto dei principi del T.U., da successivi accordi o contratti collettivi, e per la
parte derogata non sono più applicabili”. Viene quindi eliminato l’inciso finale
“SOLO SE espressamente previsto dalla legge”.
NOVITA’:
 Non serve l’espressa previsione, nella norma di legge, della derogabilità
 Viene precisato che la norma si riferisce alle materie affidate alla
contrattazione collettiva (quindi l’ipotetica derogabilità riguarda solo le
materie affidate alla contrattazione collettiva- quindi gestione dei rapporti di
lavoro, ecc..)
 Viene precisato il necessario rispetto delle norme del T.U. (che sono tutte
norme espressamente definite IMPERATIVE, e quindi non derogabili).
Quindi con queste modifiche introdotte dalla Legge Madia si introduce la generale
possibilità dei contratti collettivi di derogare alle norme di legge vigenti, MA la
portata della controriforma è in parte minore di quello che sembra perché i limiti
invalicabili restano quelli delle disposizioni imperative del T.U.P.I.; quindi le norme
imperative del T.U. restano inderogabili e dunque, sostanzialmente, il potere dei
contratti collettivi di deroga alla legge riguarda tutte le leggi del pubblico impiego,
MA DIVERSE DA QUELLE DEL T.U.P.I.
Inoltre si chiarisce in modo più esplicito che il potere di deroga si riferisce SOLO alle
materie che restano affidate alla contrattazione collettiva.

LIMITI/VINCOLI DI SPESA
E’ un aspetto che differenzia settore pubblico e settore privato, e limita fortemente la
contrattazione collettiva nel SETTORE PUBBLICO (anzi negli ultimi anni proprio questo
problema ha prodotto il BLOCCO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA nel settore
pubblico).
Nel SETTORE PRIVATO sono solo scelte di convenienza quelle che limitano le associazioni
datoriali nella stipula dei contratti collettivi (quindi i sindacati dei datori di lavoro sono
ovviamente liberi nell’individuazione degli aumenti salariali e nell’individuazione delle
risorse da garantire appunto alla contrattazione collettiva).

Nel SETTORE PUBBLICO, invece, prima della stipula definitiva il contratto collettivo deve
essere verificato compatibile con i vincoli di bilancio (addirittura prima di aprire i rinnovi
per la contrattazione collettiva, il Ministro del tesoro del bilancio deve quantificare l’onere
a carico dello Stato nella LEGGE DI BILANCIO/LEGGE FINANZIARIA; e la contrattazione
potrà poi svolgersi ferma la necessaria compatibilità dei contenuti della contrattazione
collettiva con le risorse stanziate, tanto è che i contratti collettivi sono accompagnati
proprio da prospetti che attestano la congruenza rispetto a vincoli di spesa che sono stati
programmati; anzi spesso nei contratti collettivi sono previste delle CLAUSOLE DI
SALVAGUARDIA che prevedono la possibilità di anche sospendere temporaneamente
l’esecuzione del contratto collettivo nel caso di esorbitanza rispetto ai limiti di spesa).

Nella contrattazione collettiva del settore pubblico ci sono 3 FASI:


1. FASE PRELIMINARE: riguarda la quantificazione degli oneri di spesa (nel senso che
devono essere determinate le risorse complessive che possono essere spese nella
contrattazione collettiva).
Per le amministrazioni STATALI c’è la norma di legge finanziaria (come già visto
sopra); per le amministrazioni NON STATALI gli oneri di spesa devono essere previsti
nei bilanci annuali e triennali delle singole amministrazioni (la contrattazione
collettiva deve rispettare quanto previsto in essi; non può eccedere quanto previsto
dai bilanci).
2. FASE DI TRATTATIVA: le p.a. danno, tramite i COMITATI DI SETTORE, gli indirizzi
all’ARAN per la contrattazione collettiva. Sostanzialmente i COMITATI DI SETTORE
dicono all’ARAN quali sono i punti su cui aprire la trattativa.
3. FASE SUCCESSIVA: c’è l’individuazione della controparte sindacale ammessa alla
trattativa. Per la contrattazione collettiva nazionale sono ammessi alla trattativa i
sindacati che hanno il 5% del comparto (come media di dato associativo e dato
elettorale); inoltre le i sindacati che affiliano almeno un’associazione sindacale
rappresentativa del 51% del comparto (come media del dato associativo e del dato
elettorale), oppure il 60% (solo del dato elettorale).
A livello INTERCONFEDERALE, invece, i sindacati che affiliano un’associazione
sindacale rappresentativa (ossia che abbia almeno il 5%) in due comparti.
Per quanto riguarda la CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA sono ammesse alla
trattativa solo le RSU (che possono eventualmente avere l’assistenza
dell’associazione sindacale territoriale/esterna).
A questo punto (dopo le trattative) l’ARAN firma con i sindacati solo un’IPOTESI DI
ACCORDO, ma affinché sia possibile sottoscrivere tale ipotesi occorre che ci sia il consenso
dei sindacati che rappresentino la maggioranza (ossia il 51% come media tra dato
associativo e dato elettorale, oppure il 60% del dato elettorale); quindi a differenza del
settore privato abbiamo la formalizzazione del principio di maggioranza.
Questa, però, è solo un’ipotesi di accordo perché prima della firma definitiva l’ARAN deve
trasmettere questa ipotesi proprio a quei COMITATI DI SETTORE che le avevano detto su
quali punti trattare, per la VERIFICA DEI CONTENUTI.
Quindi si apre la FASE DEI CONTROLLI (successiva alla contrattazione) in cui, rispetto
all’ipotesi di accordo, si deve acquisire il PARERE FAVOREVOLE dei COMITATI DI SETTORE; si
deve sottoporre l’ipotesi al controllo dei costi da parte della Corte dei Conti; solo dopo
aver superato quest’ultimo controllo ci può essere la FIRMA DEFINITIVA del contratto
collettivo.
Se i COMITATI DI SETTORE esprimono un PARERE NEGATIVO, l’ARAN dovrà riaprire la
trattativa (si torna indietro).
Per quanto riguarda il controllo che deve effettuare la CORTE DEI CONTI, deve essere
parecchio breve (in 15gg) e, sostanzialmente se la Corte dei Conti rimane zitta per 15gg
allora si ritiene che ci sia il SILENZIO-ASSENSO e si ritiene che non ci siano problematiche
rilevate. Se, invece, la Corte dei Conti rileva un’eccedenza rispetto ai limiti di spesa, allora
non può essere apposta la firma definitiva sul contratto collettivo e occorre riaprire le
trattative per ridefinire i costi (per esempio con eventuale riduzione di quelli che erano
stati gli aumenti contrattuali ipotizzati).
A quel punto si firma di nuovo l’IPOTESI DI ACCORDO, che viene nuovamente inviata alla
Corte dei Conti (e in questo caso si chiude l’accordo).
Può darsi che il rilievo della Corte dei Conti riguardi solo alcune clausole, allora in questo
caso (senza riaprire di nuovo le trattative e poi arrivare di nuovo alla Corte dei Conti) si
potrà arrivare alla chiusura/alla firma definitiva dell’accordo SENZA quelle clausole che non
sono state verificate compatibili da parte della Corte dei Conti. Quindi si tratta di un
procedimento molto complesso e molto più dettagliato rispetto a quello previsto nel
settore privato.
Si avrà quindi la sottoscrizione/firma definitiva del contratto; poi ricordiamo che nel settore
pubblico il contratto collettivo viene anche pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.

Simile è l’iter previsto per la CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA (ossia quella


decentrata/aziendale nel settore privato), anche se qui i soggetti negoziali sono le singole
p.a., con l’eventuale assistenza dell’ARAN (quindi non c’è tutto quel passaggio interno dei
COMITATI DI SETTORE); inoltre sono i contratti collettivi nazionali che definiscono nel
dettaglio le procedure per la contrattazione integrativa (quindi sarà chiaramente
necessario verificare le fasi procedurali previste dal contratto collettivo nazionale. Perciò
saranno le procedure previste dal contratto collettivo nazionale per ciascun comparto che
dovranno essere seguite nella contrattazione integrativa).
Per l’individuazione delle controparti contrattuali (come abbiamo già visto) non c’è il limite
del 5% perché tali soggetti sono le RSU (con eventuale assistenza del sindacato esterno).
Non c’è neppure la previsione che per la stipula definitiva del contratto integrativo debba
essere verificata la maggioranza (del 51% o del 60%, come abbiamo visto per il contratto
collettivo).
Inoltre la compatibilità di spesa deve essere accettata rispetto agli oneri previsti nel
bilancio di ciascuna singola p.a.; ed il controllo contabile è affidato al REVISORE DEI CONTI
(appunto nell’ambito di ciascuna amministrazione).
Quindi PROCEDURA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA INTEGRATIVA:
 Presupposto è chiaramente la conclusione del contratto collettivo NAZIONALE
 Procedura nel dettaglio è regolata dal contratto collettivo nazionale (quindi è a
quella che dobbiamo fare riferimento)
 Dalla parte pubblica, le parti negoziali sono le singole amministrazioni (con la
singola eventuale assistenza dell’ARAN)
 Dal lato dei lavoratori, la competenza è delle RSU
 I vincoli di spesa sono derivati dai vincoli di bilancio delle singole p.a.
 I nuclei di valutazione o il REVISORE DEI CONTI) operano il controllo sull’ipotesi di
accordo
 Superato questo controllo il contratto integrativo può avere efficacia, MA senza che
sia previsto quel requisito di rappresentatività cumulativa per la stipula definitiva.

COSA E’ SUCCESSO NEGLI ULTIMI ANNI NEL SETTORE PUBBLICO?


Negli ultimi anni, proprio a causa della carenza di risorse, ha determinato la scelta di
congelare temporaneamente i rinnovi contrattuali nel settore pubblico (si è detto che gli
stipendi nel settore pubblico sono già abbastanza alti rispetto al settore privato che è in
crisi; chiaramente i lavoratori del settore pubblico sono molto più garantiti perché sono
molto meno interessati, rispetto ai lavoratori del privato, da fenomeni di
riduzione/trasformazione/crisi aziendali ecc..).
Quindi con il D.L.78/2010 (poi convertito in L.122/2010) si è disposto:
 da un lato il CONGELAMENTO DEL TRATTAMENTO ECONOMICO COMPLESSIVO dei
dipendenti (prima fino al 2013 e poi anche per tutto il 2014) - COMMA 1.
 dall’altro lato con il COMMA 17 (che si dica che contenga in sé anche il comma 1) si
sono PARALIZZATE/BLOCCATE (senza possibilità di recupero) LE PROCEDURE
NEZGOZIALI PER IL RINNOVO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA (nel 2010-
2012 e poi prorogate).
L’unica voce che veniva elargita era l’INDENNITA’ DI VACANZA (per consentire
l’adeguamento al costo della vita).
Questo provvedimento del 2010 è poi stato seguito da una serie di rinnovi, per cui
sostanzialmente il BLOCCO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA (nel settore pubblico) si
è protratto fino a tutto il 2014.
Successivamente è stata sollevata di fronte alla Corte Costituzionale questa questione: “il
blocco della contrattazione collettiva (o meglio il regime di sospensione della
contrattazione collettiva) viola o no gli ARTT.36 e 39 della Costituzione?” La Corte ritiene
NON VIOLATO L’ART.36 COST. (fa un’analisi molto dettagliate delle norme relative a queste
leggi e ritiene che nel loro complesso non siano messi in discussione i principi di
“sufficienza” e di “adeguatezza” della retribuzione, malgrado ci sia comunque stato il
blocco; cioè le retribuzioni nel settore pubblico restano adeguate al costo della vita,
benché si siano bloccate/fermate per effetto di questi provvedimenti successivi).
Più complesso è il discorso con riferimento all’ART.39 COST. ed anticipiamo già che la
sentenza Corte Costituzionale ritiene (non per il passato) ma a partire da quel momento
della sentenza in poi, contrario all’art.39 (cioè al “principio di LIBERTA’ SINDACALE”) il
blocco/la sospensione della contrattazione collettiva.
Questa è una sentenza che riprende quegli stessi ragionamenti che abbiamo visto a
proposito della vicenda dei “tetti alla contrattazione collettiva” (negli Anni Ottanta, nel
periodo di emergenza); infatti essa ci dice che “l’interesse pubblico generale può
legittimare dei limiti alla contrattazione collettiva per ragioni di emergenza (nel senso che
deve essere garantito un bilanciamento tra esigenze/interesse pubblico al contenimento
della spesa e tutela della libertà sindacale), tuttavia questa limitazione deve trovare le sue
radici proprio in una situazione sostanzialmente transitoria/eccezionale/limitata nel tempo;
mentre il protrarsi del BLOCCO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA per un tempo così
lungo come quello in oggetto, sostanzialmente travalica questo limite”. Ecco perché la
Corte Costituzionale salva il blocco della contrattazione per il periodo transitorio/per il
passato, ma considera ILLEGITTIMO il protrarsi (che era stato stabilito fino al 2015) del
blocco della contrattazione PER IL FUTURO (perché lesivo della libertà sindacale, della
libertà della contrattazione collettiva); inoltre la Corte dice che non importa che le leggi
abbiano già ammesso i rinnovi futuri per la parte, non economica, ma per la parte
normativa dei contratti collettivi perché la libertà sindacale (e quindi l’art.39) sarebbe
comunque compromessa se non viene consentita la contrattazione collettiva su tutti i
contenuti appunto per il futuro.
Quello che rileva è il CARATTERE SISTEMATICO della sospensione, che sconfina in una
lesione eccessiva della libertà sindacale (che non è più sostanzialmente giustificata da
quelle esigenze di tutela dell’interesse pubblico che avevamo detto).
IN CONCLUSIONE la Corte Costituzionale stabilisce lo STOP AL BLOCCO DELLA
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL SETTORE PUBBLICO.
In concreto, però, non si è ancora avuto il rinnovo dei contratti collettivi; infatti la Corte
Costituzionale non poteva essa stessa indurre le parti a contrattare, la Corte Costituzionale
si è limitata a dire che il BLOCCO E’ ILLEGITTIMO ed è il legislatore che dovrà dare nuovo
impulso alla contrattazione.
Se non che dal 2015 non si è ancora mosso nulla in questo senso; ecco che il Tribunale di
Roma ha sostanzialmente ritenuto di poter ORDINARE alla parte pubblica di dare avvio alla
contrattazione collettiva (il caso portato davanti al Tribunale era quello di un ricorso
promosso da parte di un’associazione sindacale proprio contro il rifiuto della
controparte/della p.a. di dare corso alle trattative, malgrado il contratto fosse scaduto e il
blocco fosse rimosso per effetto della sentenza della Corte). Il Tribunale ha detto che la
sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle norme che avevano
sospeso la contrattazione collettiva nel settore pubblico; il diritto alla contrattazione
collettiva è un diritto fondamentale, e quindi è suscettibile di essere tutelato
CONDANNANDO la p.a. ad avviare la contrattazione (ecco che appunto questo Tribunale
esplicitamente condanna la p.a. in questo senso).
In questi mesi finalmente “si sono seduti” i sindacati e le pubbliche amministrazioni nel
tavolo delle trattative e finalmente è partito l’iter per il rinnovo contrattuale (che
probabilmente si concluderà nei prossimi mesi con la famosa “RIDEFINIZIONE DEI 4
COMPARTI”).

ALCUNI CASI (relativi ad aspetti del SETTORE PRIVATO che abbiamo già affrontato).
CASO 1: c’era stata un’azione dei lavoratori di un’azienda nella quale era stato sottoscritto
un CONTRATTO AZIENDALE INTEGRATIVO che disciplinava la materia delle pause degli
addetti ai videoterminali; e sostanzialmente in questo accordo si diceva che i lavoratori
avrebbero avuto diritto a delle pause di lavoro di durata diversa a seconda che fossero
impiegati a part time o a full time (in applicazione del “principio del PRO RATA TEMPORIS”-
quindi pausa più breve se orario di lavoro era più breve).
Ma la pausa INTERMEDIA durava 8 minuti o 10 minuti, in base all’orario di lavoro svolto
(quindi per il part time di 4 ore era prevista una pausa di 10 minuti; per il full time di 6 ore
e 40 minuti erano previste 2 pause di 8 minuti e 20 secondi); quando invece il T.U.P.I.
impone che gli addetti ai videoterminali svolgano periodi di pausa di 15 minuti continuativi
(durante questi minuti il lavoratore può sospendere la prestazione o può essere addetto a
mansioni diverse rispetto al videoterminale; il lavoratore può scegliere).
QUINDI: un accordo AZIENDALE che prevedeva pause di 8 minuti (magari per due volte e
articolate diversamente) e una norma di legge (T.U.P.I., di derivazione comunitaria) che
prevedeva la necessità di staccare dal videoterminale per almeno 15 minuti di seguito.
I lavoratori, allora, impugnano l’accordo AZIENDALE e denunciano il fatto se esso sia
conforme o no alle norme di legge, se sia peggiorativo rispetto alla legge?
In più il datore di lavoro sostiene che l’accordo aziendale non è peggiorativo perché
introduce una diversa distribuzione della pausa (che nel complesso rispetta i 15 minuti pur
essendo articolata), e dice “in ogni caso la disciplina aziendale è conforme a quanto
previsto dalle norme di legge anche tenuto conto dell’ART.8 del decreto Sacconi” (quindi
della possibilità di considerare quell’accordo aziendale come ACCORDO DI PROSSIMITA’).

PRIMA QUESTIONE: l’accordo aziendale è peggiorativo rispetto alle norme di legge? Il


Tribunale lo ha ritenuto peggiorativo (infatti la “ratio” del T.U.P.I. di garantire i 15 minuti
continui è proprio quella del riposo visivo di tale consistenza, e non è equivalente una
frammentazione di tale periodo in più pause; cioè quello che è necessario è lo stacco
CONTINUATIVO di 15 minuti).
L’accordo peggiorativo rispetto alla legge (come sappiamo) è NULLO e le clausole
peggiorative sono sostituite di diritto da quelle più favorevoli previste dalla norma di
legge.
Però l’azienda si difende invocando l’ART.8 del decreto Sacconi (d.l.138/2011); questo rileva
perché l’ACCORDO DI PROSSIMITA’ può derogare “in pejus” alle norme di legge (quindi se
si arrivasse a dire che questo è un ACCORDO DI PROSSIMITA’, dovremmo dire che è
VALIDO).
COSA BISOGNA VERIFICARE PER CAPIRE SE QUESTO E’ UN ACCORDO DI PROSSIMITA’?
QUALI SONO I REQUISITI?
REQUISITI SOGGETTIVI: l’accordo di prossimità deve essere sottoscritto, a livello
AZIENDALE o TERRITORIALE, con i sindacati comparativamente più rappresentativi (a livello
NAZIONALE o TERRITORIALE) oppure con le rispettive RSA/RSU, secondo un criterio
MAGGIORITARIO.
In questo caso il giudice ci dice che dal punto di vista soggettivo i requisiti erano rispettati
(e quindi tale accordo poteva essere considerato un ACCORDO DI PROSSIMITA’).
ALTRO REQUISITO: il contratto di prossimità è un contratto stipulato solo su certe materie
(e la norma contiene un elenco di materie che è TASSATIVO); tra queste materie rientra
anche la disciplina dell’ORARIO DI LAVORO. Quindi anche dal punto di vista dei
CONTENUTI tale accordo può essere considerato un ACCORDO DI PROSSIMITA’.
ALTRO REQUISITO: il contratto di prossimità è un CONTRATTO DI SCOPO (è un contratto
che, ad esempio, mira a garantire l’uscita dalla crisi; a garantire il coinvolgimento/la
partecipazione dei lavoratori; a garantire l’incremento della produttività; ecc….). Su questo
punto la sentenza non si sofferma, lo dà per scontato.
Possiamo quindi dire che siamo di fronte ad un ACCORDO/CONTRATTO DI PROSSIMITA’.

QUALI SONO, PERO’, I LIMITI che devono essere rispettati anche dalla contrattazione di
prossimità?
Ci deve essere il necessario rispetto di limiti derivanti da NORME COSTITUZIONALI e da
NORME COMUNITARIE.
Infatti il giudice ha ritenuto che tale norma di legge (che era attuativa di una direttiva
comunitaria) non potesse essere derogata da parte della contrattazione aziendale (quindi
esclusione della derogabilità della norma interna, in quanto norma attuativa della
disciplina comunitaria).
Comunque si dice anche che si parla dell’art.8 (di cui i profili di legittimità costituzionale
sono discussi), ma in questo caso questo profilo non viene in gioco perché certamente la
norma di legge non può essere derogata in quanto attuativa di una direttiva comunitaria.
Quindi, in questo caso, I LAVORATORI HANNO AVUTO RAGIONE.

29/11
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL SETTORE PUBBLICO (continua)
Altre due norme importanti in tema sono l’ART.49 T.U. e l’ART.64 T.U. Si tratta di norme
esclusivamente dedicate al pubblico impiego, ma l’art.64 poi è stato “copiato” anche con
riferimento al settore privato (in particolare per quanto riguarda l’interpretazione dei
contratti collettivi e ai problemi relativi all’efficacia/validità/interpretazione del contratto
collettivo).

ART.49 T.U. (non ha un’omologa norma nel privato): riguarda la possibilità dei sindacati del
settore pubblico, insieme con l’ARAN, di stipulare i cosiddetti CONTRATTI COLLETTIVI DI
INTERPRETAZIONE AUTENTICA.
Il punto è che spesso, infatti, è oscura l’interpretazione del contratto collettivo (in questo
caso del settore pubblico); ci sono norme non chiare che generano contenzioso seriale
(cioè controversie identiche tra lavoratori e p.a. via via diverse).
Questo articolo agevola la sottoscrizione, per il solo settore pubblico, di
ACCORDI/CONTRATTI DI INTERPRETAZIONE AUTENTICA che hanno efficacia anche PER IL
PASSATO per TUTTE le parti coinvolte, purché siano effettivamente DI INTERPRETAZIONE e
non modificativi (è necessaria che la clausola sia fin dall’inizio oscura nel significato).
INTERPRETAZIONE AUTENTICA significa che sono le stesse parti stipulanti l’accordo che
con un SECONDO ACCORDO chiariscono il significato delle clausole controverse, MA
questo chiarimento vale, non solo per il futuro, ma anche per il passato (cioè esso chiarisce
con EFFICACIA RETROATTIVA quale era la corretta interpretazione appunto da dare al
contratto collettivo).
QUALE E’ IL REQUISITO affinché questi contratti possano essere stipulati?
La Cassazione ci dice che il REQUISITO è che tutte le parti firmatarie del precedente
contratto collettivo stipulino anche l’accordo interpretativo (ossia il secondo
accordo/contratto).

La ratio di questa norma (e quindi dell’introduzione di tali contratti di interpretazione


autentica) è quella di:
 di dare certezza al significato del contratto
 di ridurre le controversie.

PROBLEMA DEI DIRITTI QUESITI (ossia di quei diritti “acquisiti”, che sono già entrati a far
parte del patrimonio dei lavoratori): la dottrina ci dice che DEVONO ESSERE FATTI SALVI,
MA non vengono compromessi quando l’accordo, non introduce modifiche per il passato,
ma è autenticamente interpretativo (ad esempio se una clausola dice che al lavoratore
spetta un aumento del 100 rapportato al fattore X, se la clausola ha un significato oscuro
potrebbe voler dire sia “spetta un aumento del 110” sia “spetta un aumento del 90”; quindi
deve trattarsi di un SIGNIFICATO OSCURO. A fronte di un’incertezza le parti possono
rincontrarsi per dire che FIN DALL’ORIGINE quella norma significava “spetta 90”). Quindi a
fronte di una clausola dal contenuto controverso, le parti possono rincontrarsi e chiarire il
significato di essa FIN DALL’INIZIO (i DIRITTI QUESITI, in questo caso, NON SONO
COMPROMESSI).
Infatti il secondo accordo non modifica il primo ma ne chiarisce il significato FIN
DALL’INIZIO.

ART.64 T.U.: riguarda una situazione in cui una questione relativa


all’efficacia/validità/interpretazione del contratto collettivo emerge/sorge durante una
causa/un processo (per esempio intentato da un lavoratore contro una p.a.). Questa norma
è stata poi replicata nel SETTORE PRIVATO dall’ART.420-bis c.p.c.
L’ART.64 ci dice che “quando, durante una causa di lavoro, sorge una questione relativa a
quale sia il significato di una clausola del contratto collettivo (in questo caso del settore
pubblico), il giudice può sospendere il procedimento (normalmente per 90gg) e (facendo
riferimento all’art.49 T.U.) chiedere alle parti di incontrarsi per raggiungere un
ACCORDO/CONTRATTO DI INTERPRETAZIONE AUTENTICA sul significato di quella
clausola”.
Se le parti raggiungono l’accordo, allora il giudice deciderà la controversia tenendo conto
del significato dato alla clausola dalle parti.
Altrimenti se le parti NON raggiungono l’accordo, il giudice deciderà (se ritiene che la
questione sia rilevante) solo con una SENTENZA PARZIALE sull’interpretazione/validità o
efficacia della clausola controversa.
Contro la SENTENZA PARZIALE è permesso, da ciascuna delle parti, il RICORSO PER
CASSAZIONE (quindi “per saltum”, senza passare per il secondo grado d’Appello).
Chiaramente (ottenuta la decisione della Cassazione) il processo continua davanti al
giudice di primo grado (che aveva emanato la SENTENZA PARZIALE) che emanerà la
SENTENZA DEFINITIVA tenendo conto di quanto deciso dalla Corte di Cassazione.
VERSO CHI E’ EFFICACE QUESTA INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO COLLETTIVO (data in
questo modo)? Sicuramente verso le parti del processo; mentre se davanti ad altri giudici
pendono delle questioni identiche (relative all’interpretazione della stessa clausola) spetta
a quei giudici decidere se eventualmente sospendere il procedimento (in attesa della
pronuncia di Cassazione) oppure no (concretamente non sono obbligati ad adeguarsi alla
decisione della Cassazione perché questa ha efficacia diretta solo nell’ambito del processo
in cui è stata realizzata; di fatto ciascuna controversia viene gestita e risolta in modo
autonomo).
Mentre, di fatto, sia l’ARAN sia le organizzazioni dei sindacati firmatarie possono
intervenire nel procedimento sostanzialmente per impugnare la sentenza.
Questo procedimento è molto diffuso nella pratica al giorno d’oggi.
Altra norma, per il settore pubblico, è l’ART.63 T.U. (che trova la sua omologa nel SETTORE
PRIVATO all’art.360 c.p.c): ci dice che OGGI si può denunciare in Cassazione direttamente
anche la violazione o la falsa interpretazione delle norme del contratto collettivo e non
solo delle norme di legge. Questo non significa che il contratto collettivo è parificato alla
legge (è semplicemente qualcosa in più che il legislatore permette).
RAPPRESENTANZE SINDACALI NEL SETTORE PUBBLICO
Il settore pubblico è forse più sindacalizzato del settore privato (nel senso che le tutele
sono maggiori).
Originariamente anche nel settore pubblico (come nel settore privato) erano le
Confederazioni sindacali che avevano un ruolo di primo piano nella costituzione delle RSA.
COSA SONO LE RSA?
Le RSA sono strutture di rappresentanza interna all’azienda; sono emanazione del
sindacato, ma concretamente la RSA è un lavoratore dipendente dell’azienda designato
nell’ambito di un sindacato (solitamente è un gruppo ma può essere anche un singolo).
Poi, ovviamente, come nel settore privato anche nel settore pubblico accanto alle RSA ci
sono le RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie).

ORIGINARIAMENTE (nel settore pubblico) le RSA potevano essere costituite:


 o nell’ambito dei sindacati aderenti alle Confederazioni maggiormente
rappresentative a livello nazionale
 o nell’ambito dei sindacati ammessi alla contrattazione collettiva di comparto
(quindi con il 5% della rappresentatività nel settore pubblico).

Successivamente, nel 1995, ci sono stati i famosi REFERENDUM che hanno colpito l’art.19
SL; uno di questi referendum ha colpito l’ART.47 L.29/1993 (antenata del T.U.P.I.) e l’ha
abrogato.
L’ART.47 non disciplinava le RSA (come invece faceva l’art.19 SL) ma dettava le regole per
individuare le Confederazioni (ossia i sindacati confederali) maggiormente rappresentative
nel pubblico impiego. QUALI ERANO QUESTE REGOLE?
COMMA 1 demandava ad un accordo, tra le stesse Confederazioni e il Presidente del
Consiglio dei Ministri, l’individuazione delle Confederazioni maggiormente
rappresentative. E le Confederazioni che potevano stipulare tale accordo erano quelle che
rispondevano ai requisiti indicati in un certo art.8; cioè in pratica quelle che avevano gli
INDICI DI MAGGIORE RAPPRESENTATIVITA’ (come la diffusione territoriale, il numero degli
scritti, ecc..) già visti per il settore privato (COMMA 2).
Il REFERENDUM, però, ha abrogato tale articolo (secondo il parere del Consiglio di Stato
del 1995 sono stati “spazzati via” sia il comma 1 che il comma 2) e ha causato un VUOTO
LEGISLATIVO/VUOTO DI TUTELA (quindi non si sapeva più chi erano le Confederazioni
maggiormente rappresentative che potevano costituire RSA).

E’ intervenuto il Ministro TREU con una CIRCOLARE dove ha detto che “in attesa di un
nuovo intervento del legislatore, IN VIA PROVVISORIA, si doveva continuare a fare
riferimento ai vecchi indici in vigore nel settore privato” (per individuare le Confederazioni
maggiormente rappresentative).
Ovviamente la nuova disciplina è intervenuta ed OGGI essa è contenuta nell’ART.42 T.U.
Questo articolo ha abolito il privilegio per le Confederazioni e ha sancito che le RSA, nel
settore pubblico, possono essere costituite AD INIZIATIVA e NELL’AMBITO delle
ORGANIZZAZIONI sindacali ammesse alle trattative per la stipula del contratto collettivo
nazionale.
QUALI SONO? Quelle che hanno il 5% di rappresentatività nel comparto (come media tra
DATO ASSOCIATIVO e DATO ELETTORALE).
Nel pubblico impiego, quindi, vale la stessa regola del privato solo che è legificato il
requisito per essere ammessi alle trattative.

Altra differenza con il settore privato è che NEL SETTORE PUBBLICO l’iniziativa spetta ai
SINDACATI (mentre nel privato spetta ai LAVORATORI).

PROBLEMA: malgrado queste novità, anche le CONFEDERAZIONI sindacali (in quanto


ammesse alle trattative, per esempio, per la stipulazione dei contratti collettivi quadro)
possono costituire RSA? NO, la giurisprudenza ci dice che “possono essere costituite RSA
solo nell’ambito delle ORGANIZZAZIONI sindacali di comparto; e che le CONFEDERAZIONI
sindacali non possono prendere l’iniziativa per costituire le RSA”.
Questo criterio (del 5%) è stato CRITICATO perché è piuttosto ampio e sostanzialmente
consente la costituzione di RSA a moltissimi sindacati (la soglia è piuttosto bassa); forse è
sempre per questo motivo che c’è una proliferazione di RSA nel settore pubblico.
E’ vero che la norma è PROVVISORIA (nel senso che l’ART.42 T.U. dice “la disciplina è
dettata PROVVISORIAMENTE in attesa della riforma delle rappresentanze sindacali”), ma
sono decenni che questa riforma non si è ancora verificata e, quindi, concretamente vale
tale disciplina.

IN QUALI P.A. POSSONO ESSERE COSTITUITE LE RSA?


Come nel settore privato, occorre che l’unità organizzativa abbia più di 15 dipendenti, A
MENO CHE la contrattazione collettiva non detti regole diverse (migliorative o
peggiorative).
ART.51 T.U. (norma che, in realtà, un po' ci svia da questa regola ma che in concreto non
prevale): dice che “lo Statuto dei lavoratori trova applicazione nel settore pubblico a
prescindere dal numero dei dipendenti”.
Ma, chiaramente, l’ART.42 T.U. (che espressamente prevede il limite dei 15 dipendenti)
prevale su tale articolo perché è norma speciale.

ART.37 SL: chiarisce che “le norme dello Statuto si applicano anche al pubblico impiego,
SALVO CHE ci sia una disciplina speciale che dispone in senso contrario/diverso”; quindi le
norme del Statuto dei lavoratori sono NORME SUPPLETTIVE (bisogna coordinare le norme
dello Statuto con quelle del T.U., in particolare con l’ART.42 T.U.).

DISCIPLINA DELLE RSA NEL SETTORE PUBBLICO (continua; sempre ART.42 T.U.)
Alle RSA spettano i PERMESSI di cui agli artt. 23-24-30 SL (quindi i permessi sindacali
RETRIBUITI, NON RETRIBUITI e permessi dei DIRIGENTI ESTERNI). Ma con una differenza
fondamentale rispetto al settore privato, infatti nel settore pubblico i permessi spettano,
non per intero a ciascuna RSA, ma in proporzione della rispettiva rappresentatività; e sono
OGGI disciplinati dall’ACCORDO QUADRO DEL 1998.

LE RSA HANNO POTERE DI CONTRATTAZIONE (ossia possono stipulare contratti collettivi)?


Non c’è (come nel settore privato in origine) nessuna norma che attribuisce alle RSA poteri
di contrattazione, ma DI FATTO hanno sempre contrattato.
Nel settore privato, IN ORIGINE, le RSA non avevano espressamente potere di
contrattazione ma di fatto avevano comunque sempre esercitato tale potere (mentre le
RSU, fin dall’accordo del 1993 che le ha istituite, hanno sempre avuto riconosciuti poteri di
contrattazione); ma OGGI l’accordo interconfederale (del 2014) espressamente riconosce
POTERE DI CONTRATTAZIONE sia alle RSU (a maggioranza dei componenti) sia alle RSA (a
maggioranza delle deleghe associative, e salvo referendum).

Anche nel settore pubblico si è avuto il sorpasso delle RSA da parte delle RSU. Nel senso
che lo stesso T.U.P.I prevede la possibilità (nel settore pubblico) di costituire, in alternativa
alle RSA, le RSU (qui, in realtà, sono anche chiamate ORUP- Organismi di Rappresentanza
Unitaria Personale).
DIFFERENZA FONDAMENTALE rispetto al settore privato: nel settore pubblico le RSU sono
disciplinate direttamente dalla LEGGE (mentre nel settore privato le RSU trovano disciplina
esclusivamente nella CONTRATTAZIONE COLLETTIVA).
Quindi il T.U.P.I. prevede rispettivamente agli ART.42-43 due forme alternative di
rappresentanze sindacali, le RSA e le RSU (ma incentiva espressamente le RSU perché,
sostanzialmente, nel momento in cui si configura la rappresentatività/forza del sindacato
come media tra DATO ASSOCIATIVO e DATO ELETTORALE e il DATO ELETTORALE è dato dal
numero dei voti che ciascun sindacato ottiene nell’elezione della RSU, è chiaro che tutti i
sindacati sono incentivati ad avere una propria RSU).

CARATTERISTICHE DELLE RSU


Le RSU sono aperte alla partecipazione anche di sindacati che non avrebbero i requisiti per
avere una propria RSA, purché accettino il contenuto degli accordi istitutivi della RSU ed
abbiano un certo seguito (un certo numero di firme dei lavoratori) sulla propria lista
elettorale.
Devono essere interamente ELETTIVE (ossia elette da tutti i lavoratori dell’unità
organizzativa/produttiva) e le elezioni devono avvenire sulla base di LISTE (presentate, non
solo dai sindacati che avrebbero diritto ad avere una propria RSA, ma anche dai cosiddetti
SINDACATI DI BASE che, pur non avendo i requisiti per una propria RSA, comunque sono
popolari tra i lavoratori- come ricordiamo nel settore privato devono avere il 5% del
seguito e accettare interamente il contenuto, in particolare, del T.U. 2014).
Lo stesso vale per il settore pubblico, le RSU possono essere costituite:
 o dai sindacati più rappresentativi (che avrebbero i requisiti per avere una RSA)
ammessi alle trattative (perché possiedono il 5% del seguito tra i lavoratori)
 o dai sindacati DI BASE (che sono associazioni sindacali con un proprio Statuto) che
abbiano un certo seguito e che accettino interamente il contenuto degli accordi
istitutivi delle RSU.
E’ demandata all’ACCORDO QUADRO DEL 1998 la fissazione del numero di firme che tali
sindacati (DI BASE) devono raccogliere per poter presentare le liste; anzi si prevede che
l’accordo del 1998 possa richiedere un certo numero di firme (a sostegno della lista) a
TUTTI i sindacati (non solo quelli di base, ma anche ai sindacati che avrebbero diritto ad
una loro RSA).
Tale accordo ha stabilito che tali sindacati debbano avere un seguito almeno del 2% o
dell’1% tra i dipendenti, a seconda delle dimensioni dell’unità organizzativa.
La CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA è contenuta anche nell’accordo del 1998 e stabilisce che i
sindacati che partecipano alle elezioni delle RSU rinunciano alla costituzione di proprie
RSA.
Questo significa che, anche nel settore pubblico, è sostanzialmente necessario che si
individuino delle regole per il passaggio dei diritti dalle RSA alle RSU; quindi i diritti di cui
godevano le RSA sono, invece, riconosciuti a favore delle RSU, distinguendo tra DIRITTI DEI
DIRIGENTI DI RSA (tutela in caso di trasferimento, tutela in caso di licenziamento, permessi
sindacali retribuiti/non retribuiti) e DIRITTI DELL’INTERA RSA (assemblea, affissione, locali,
ecc..).
L’accordo del 1998 ci dice che, per il settore pubblico, i DIRITTI DEI DIRIGENTI DELLA RSA
spettano a TUTTI i componenti della RSU e non al solo DIRIGENTE (diverso rispetto al
privato).
Invece vengono demandate ai diversi contratti collettivi le regole per il passaggio delle
prerogative/dei diritti che spettano alla RSA nel suo insieme (assemblea, affissione, locali,
ecc..), in capo ai componenti delle RSU.
Inoltre le RSU esercitano anche le prerogative/i diritti di PARTECIPAZIONE, INFORMAZIONE
e CONSULTAZIONE sindacale.
Perdipiù le RSU hanno espressamente riconosciuto il POTERE DI CONTRATTAZIONE nella
contrattazione integrativa/decentrata (eventualmente affiancate dal sindacato esterno).
ALTRE REGOLE SULLE RSU (ART.42 T.U.)
 INTEGRALE ELEZIONE DELLE RSU (devono essere integralmente elette)
 DURATA: le RSU durano in carica 3 anni e NON SONO PROROGABILI.

Membri delle RSU non devono essere necessariamente iscritti al sindacato; nel settore
pubblico devono aver partecipato alle elezioni almeno il 50%+1 degli elettori (nel settore
privato è irrilevante tale quorum).

Nel settore pubblico, però, non bastano RSA ed RSU; i sindacati sono stati particolarmente
forti ed hanno ottenuto l’idea per cui “se anche un sindacato costituisce la RSU (invece
della RSA), può comunque mantenere nell’unità amministrativa/organizzativa interessata
dei propri TERMINALI DI TIPO ASSOCIATIVO”, ossia dei propri rappresentanti sindacali (che
sono emanazione del sindacato, piuttosto che dei lavoratori) che hanno riconosciuti
anch’essi i permessi e le prerogative che spettano ai sindacati esterni (questo perchè, in
realtà, l’accordo del 1998 ha riconosciuto in capo ai sindacati una quota di permessi,
prerogative, ecc; ad esempio la convocazione dell’assemblea può essere fatta anche
dall’associazione sindacale).
IN CONCLUSIONE si può dire che nel settore pubblico è conservato il modello associativo
a favore delle RSU (tramite appunto questi TERMINALI ASSOCIATIVI).

CONDOTTA ANTISINDACALE NEL PUBBLICO IMPIEGO (ART.28 SL)


Il giudice del lavoro può condannare anche la p.a. EX ART.28 (cioè anche il datore di lavoro
pubblico può essere passibile per condotta antisindacale)? SI, nel senso che lo Statuto dei
lavoratori si applica anche al pubblico impiego, SALVO CHE siano presenti disposizioni
speciali in materia. Non esiste nessuna disposizione speciale in materia, e quindi
certamente anche la p.a. è passibile di condanna per condotta antisindacale.
PROBLEMA: la p.a. (in base ad una vecchia legge) non può essere condannata da un
giudice ad un “facere” (fare qualcosa), salvo però che questa previsione non sia contenuta
in un’apposita legge.
Secondo alcuni l’ART.28 SL è la norma speciale che supera tale divieto e che effettivamente
consente la condanna della p.a. anche ad un “facere” (cioè a rimuovere la CONDOTTA
ANTISINDACALE).
ALLORA CI SI CHIEDEVA QUALE FOSSE IL GIUDICE DAVANTI IL QUALE ANDARE, QUELLO
ORDINARIO O IL TAR (giudice amministrativo)? C’era stata tutta una serie di discussioni ma
il concetto base era questo: se la condotta era PLURIOFFENSIVA (il decreto del giudice
sicuramente poteva incidere anche sul LAVORATORE/sul rapporto di pubblico impiego), la
giurisprudenza stabiliva che si andava dal TAR.
OGGI, essendoci stata la PRIVATIZZAZIONE/CONTRATTUALIZZAZIONE del pubblico
impiego, tutti questi problemi sono stati superati e si va sempre dal GIUDICE ORDINARIO
(anche per i rapporti non privatizzati/contrattualizzati).

CASO 1: lavoratrice dell’Ikea è stata licenziata in tronco perché era venuto meno il
rapporto di fiducia, in quanto la lavoratrice in più occasioni si era rifiutata di iniziare il turno
all’orario stabilito ed aveva iniziato 2 ore più tardi (questo perché le erano state modificate
le mansioni e quindi i turni ed essa, avendo un figlio piccolo ed un altro figlio disabile,
aveva avvisato che non riusciva ad iniziare all’orario stabilito).
Il licenziamento ha provocato lo sciopero degli altri dipendenti dell’Ikea a sostegno
appunto della lavoratrice.
E’ LEGITTIMO TALE SCIOPERO? E’ SCIOPERO DI SOLIDARIETA’.
La Corte Costituzionale (come abbiamo già visto) ha detto che E’ LEGITTIMO ma purché ci
sia una COMUNANZA DI INTERESSI tra i due gruppi (quello scioperante e quello, anche
singolo lavoratore, a sostegno del quale si sciopera); la sussistenza di tale comunanza va
valutata dal giudice.
In questo caso è chiaro che la comunanza di interessi (in quanto la situazione capitata alla
lavoratrice è qualcosa che potrebbe succedere anche a qualsiasi altro suo collega
dell’azienda) c’è e quindi lo SCIOPERO DI SOLIDARIETA’ E’ LEGITTIMO.

CASO 2: presso la ditta Electrolux c’era stato il cosiddetto SCIOPERO DELLE DONNE (in
occasione dell’8 Marzo) ed erano stati sanzionati i lavoratori che si erano astenuti dal
lavoro in concomitanza con questo sciopero. A fronte di tali sanzioni un altro gruppo di
lavoratori ha scioperato.
Per quanto riguarda il secondo sciopero si tratta sicuramente di uno SCIOPERO DI
SOLIDARIETA’; però il primo sciopero (“delle donne”) che tipo di sciopero è? Sembrerebbe
uno SCIOPERO POLITICO PURO e non uno SCIOPERO ECONOMICO POLITICO (nel caso in
cui si trattasse di “sciopero politico puro” non saremmo di fronte ad un DIRITTO ma ad una
MERA LIBERTA’; quindi il lavoratore perde il diritto alla retribuzione e in più si avrebbe un
INADEMPIMENTO e perciò sarebbe eventualmente assoggettato ad una sanzione
disciplinare, come effettivamente era successo in questo caso concreto).

CASO 3: datore di lavoro sottoscrive un contratto collettivo aziendale che stabilisce criteri
per la distribuzione dell’anticipazione sul TFR in caso di eccedenza nelle domande (infatti,
come sappiamo, se le domande sono troppe devono essere soddisfatte entro i limiti del
10% degli aventi titolo e il 4% del totale). Il datore di lavoro stabilisce con un contratto
collettivo (stipulato con i sindacati) che per primi avranno diritto all’anticipazione quei
lavoratori che hanno fatto richiesta per esigenze di tipo medico (di tutela della salute).
Arrivano tutte le richieste e un lavoratore (non iscritto al sindacato firmatario di quel
contratto collettivo) resta escluso e, in primis, lamenta che quel contratto collettivo non
può avere effetto dei suoi confronti (in base agli ordinari criteri sull’efficacia soggettiva del
contratto in base ai quali “il contratto collettivo si applica solo ai lavoratori iscritti al
sindacato o in caso di RINVIO”).
Ma qui siamo di fronte ad un contratto collettivo aziendale GESTIONALE (o DI
PROCEDIMENTALIZZAZIONE) perché va a vincolare un potere che, in mancanza di esso, il
datore potrebbe esercitare liberamente nei confronti di TUTTI i lavoratori.
QUINDI: questo contratto collettivo, essendo GESTIONALE, si applica a TUTTI i lavoratori e
perciò il ricorso del lavoratore è stato respinto (la condotta del datore è LEGITTIMA perché,
in assenza del contratto collettivo, egli avrebbe comunque posseduto tale potere di
attuazione di criteri di scelta dei lavoratori a cui attribuire l’anticipazione). Infatti la Corte
Costituzionale ci ha detto che l’art.39 Cost. (che contrasta l’efficacia “erga omnes” dei
contratti collettivi) vale solo per i contratti collettivi NORMATIVI e non per quelli
GESTIONALI.

30/11
ASSISTENZA SANITARIA INTEGRATIVA (prevista dai contratti collettivi nel SETTORE
PRIVATO)
Si discute di questo tema soprattutto a partire dagli ultimi anni con riferimento a
determinati FONDI DI ASSISTENZA SANITARIA (tra cui il più famoso è FONDO EST). Infatti,
recentemente, uno dei problemi che interessano di più le aziende è questo: le aziende che
non sono iscritte all’associazione sindacale (in questo caso associazione datoriale)
firmataria del contratto collettivo in cui è istituito tale fondo sanitario integrativo a favore
dei dipendenti (ad esempio devo fare una riabilitazione, non avrei copertura nel sistema
sanitario, ma questo ciclo di riabilitazione è coperto dal fondo) MA che applicano
comunque di fatto tale contratto collettivo ai propri dipendenti (per esempio per RINVIO
TACITO), SONO OBBLIGATE AD APPLICARE ANCHE LE CLAUSOLE RELATIVE ALL’OBBLIGO
DI GARANTIRE L’ASSICURAZIONE SANITARIA AI DIPENDENTI OPPURE NO? E, in
particolare, queste aziende sono obbligate a garantire tale assicurazione sanitaria PER
POTER FRUIRE DEI BENEFICI FISCALI/CONTRIBUTIVI (ecc..) che discendono
dall’applicazione dei contratti collettivi?
Come abbiamo già visto parlando di “efficacia soggettiva del contratto collettivo”, il
legislatore incentiva l’applicazione da parte dei datori di lavoro attraverso degli SGRAVI
FISCALI/CONTRIBUTIVI; infatti ci sono molte leggi (tra cui legge finanziaria 296/2006) che
condizionano il godimento di benefici fiscali/contributivi alla circostanza che il datore di
lavoro applichi il contratto collettivo ai propri dipendenti.
Ma allora PER POTER USUFRUIRE DI TALI BENEFICI E’ NECESSARIO APPLICARE SOLO LA
PARTE NORMATIVA o ANCHE QUELLA OBBLIGATORIA? La giurisprudenza ha chiarito che
basta applicare solo la PARTE NORMATIVA del contratto collettivo.
PROBLEMA: bisogna capire se queste clausole del contratto collettivo, che istituiscono dei
fondi sanitari, sono appartenenti alla parte obbligatoria oppure alla parte normativa
(perché se sono appartenenti alla parte obbligatoria NON E’ NECESSARIO che il datore di
lavoro le applichi per ottenere gli sgravi; se sono appartenenti alla parte normativa, invece,
il datore di lavoro le deve necessariamente applicare per godere degli sgravi).
In un primo momento la giurisprudenza ha chiarito che tali clausole del contratto collettivo
appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA.
Se non che, negli ultimi anni, è cambiato il testo delle clausole in questione ed è stato
stabilito (dai contratti collettivi del settore terziario che prevedono tali clausole che
istituiscono tali fondi sanitari) che il datore di lavoro deve garantire l’iscrizione dei
lavoratori al fondo e che, se il datore di lavoro non versa i contributi al fondo (in modo da
permette l’iscrizione), in sostituzione egli deve elargire direttamente al lavoratore una
somma in denaro equivalente in busta paga.
Una clausola così concepita appartiene ancora alla PARTE OBBLIGATORIA del contratto
collettivo, oppure appartiene alla PARTE NORMATIVA (perché introduce dei diritti
direttamente a vantaggio dei rapporti di lavoro)? Appartiene alla PARTE NORMATIVA.
Ecco che OGGI sicuramente è obbligatorio anche per i datori di lavoro, che non sono ad
associazioni sindacali stipulanti ma che applicano comunque il contratto collettivo ai propri
dipendenti (ad esempio tramite rinvio tacito), applicare anche queste clausole (che
istituiscono i fondi sanitari).
Ed, in particolare, l’applicazione di queste clausole è un requisito NECESSARIO affinché
quei datori di lavoro possano usufruire dei benefici contributivi e fiscali.

CASO: lavoratrice che proprio per la mancata iscrizione al fondo sanitario da parte del
datore di lavoro non aveva ottenuto il rimborso di 890 euro di ticket sanitario che
alternativamente sarebbero invece stati coperti dall’assicurazione.
Fa ricorso contro il datore di lavoro e sostiene che ha diritto ad ottenere il rimborso (da
parte dell’azienda) che è obbligata proprio per effetto del RINVIO al contratto collettivo
nella lettera di assunzione (infatti siamo proprio nel caso in cui il datore di lavoro non era
iscritto al sindacato firmatario, ma di fatto applicava per RINVIO il contratto collettivo che
prevedeva clausole che istituivano tale fondo sanitario).
Il datore si difende dicendo “no, io non sono iscritto al sindacato stipulante, ma applico il
contratto collettivo per RINVIO; quindi devo applicare solo la parte normativa, non devo
applicare la parte obbligatoria e quindi non sono responsabile della mancata iscrizione”.
Il Tribunale rileva quanto appena detto sopra, cioè che quel contratto collettivo in concreto
prevedeva a carico dell’azienda un contributo al fondo sanitario (FONDO EST) di 10
mensili+ una quota tantum, MA in alternativa prevedeva che il datore di lavoro versasse gli
stessi importi in busta paga al lavoratore in mancanza di iscrizione al fondo.
Il datore di lavoro non aveva né iscritto la lavoratrice (che ne aveva fatto esplicita richiesta)
né aveva versato l’importo corrispondente e quindi era INADEMPIENTE e ha dovuto
pagare alla lavoratrice la somma in oggetto.

CONTRATTI COLLETTIVI DI SOLIDARIETA’


Sono dei particolari contratti collettivi AZIENDALI di tipo GESTIONALE; possono essere:
 DIFENSIVI: situazioni di crisi in cui sarebbe necessario attuare una riduzione del
personale; anziché ridurre il personale (e ricorrere al licenziamento) l’azienda stipula
con i SINDACATI COMPARATIVAMENTE PIU’ RAPPRESENTATIVI (o con le rispettive
RSA/RSU) tali contratti con cui si concorda la riduzione dell’orario per i lavoratori
che restano in forza in azienda ed una copertura della mancata retribuzione
corrispondente alle ore perdute da parte dello STATO.
PRESUPPOSTO FONDAMENTALE, quindi, è che ci sia disponibile il finanziamento da
parte dello Stato (che deve ricoprire le quote di retribuzione cui i lavoratori a cui i
lavoratori rinunciano per effetto della riduzione dell’orario); infatti questi contratti
devono essere finanziati dallo Stato (proprio qualche settimana fa è stato emanato il
DECRETO ANNUALE per il finanziamento di tali contratti).
VANTAGGI PER I LAVORATORI: chiaramente non perdono il posto di lavoro ed
ottengono l’integrazione salariale.
VANTAGGI PER I DATORE DI LAVORO: ha diritto ad un alleggerimento delle spese
per il personale (del costo del lavoro) e anche ad una riduzione del 35% dei
contributi previdenziali ed assistenziali.
ALTRI PRESUPPOSTI:
o è necessario che ci sia una riduzione dell’ORARIO DI LAVORO, al massimo,
del 60% (come media di tutti i lavoratori) e del 70% (su base individuale, per
ciascun lavoratore).
o DURATA del contratto di solidarietà difensivo è di 36 mesi (ma bisogna anche
tenere conto degli interventi di cassa integrazione guadagni, nel
quinquennio precedente)
o Occorre che i lavoratori abbiano maturato almeno 90gg di anzianità di
servizio nel periodo precedente
CHI FIRMA TALI CONTRATTI?
o O i sindacati comparativamente più rappresentativi
o o le loro RSA/RSU.

Importante è che entro 7gg dalla stipula del contratto di solidarietà, il datore di
lavoro presenti (in via telematica) la DOMANDA DI INTERVENTO da parte dello
Stato. Se la domanda viene ACCETTATA, allora i lavoratori avranno diritto
all’INTEGRAZIONE SALARIALE (a fronte della riduzione di personale).
Se la domanda è tardiva (ossia viene presentata dopo i 7gg dalla stipula) come
SANZIONE c’è uno slittamento in avanti di 30gg dell’integrazione salariale (quindi il
datore di lavoro che non presenta la domanda nei 7gg, resterà scoperto, anche se
poi la domanda viene accolta, per i primi 30gg di questo trattamento).

Ancora dobbiamo tener conto che chiaramente il datore di lavoro che stipula tali
contratti perde, in qualche modo, quella libertà di gestione degli orari che aveva
precedentemente (nel senso che eventuali aumenti di orario, che possano poi
essere poi introdotti in azienda da esigenze temporanee o sopravvenute, devono
essere espressamente specificate nell’accordo/contratto).

TRATTAMENTO DI INTEGRAZIONE SALARIALE


C’è la copertura dell’80%, ed entro comunque i MASSIMALI (che oggi sono presi di
peso dalla disciplina della CIG ORDINARIA).
OGGI (a differenza che nel passato) lo stesso datore di lavoro, che ricorre ai contratti
di solidarietà, deve pagare un CONTRIBUTO ADDIZIONALE (così come è previsto per
i ddl che fanno ricorso alle forme di CIG ORDINARIA).

QUESTA DISCPLINA COPRE SOLO LE IMPRESE O ANCHE ALTRI SOGGETTI (ad


esempio gli STUDI PROFESSIONALI)? Per quanto la norma faccia riferimento al
concetto di “IMPRESA/IMPRENDITORE”, è comunque stata interpretata in senso
ampio e, quindi, si è ritenuto che anche i datori di lavoro che non siano imprenditori
(e in particolare anche gli STUDI PROFESSIONALI) possono fare ricorso a tale
strumento del CONTRATTO DI SOLIDARIETA’ (proprio per evitare licenziamenti per
esubero del personale).

ULTIMA PRECISAZIONE: questi contratti di solidarietà sono efficaci verso TUTTI i


lavoratori (hanno efficacia “erga omnes”; per il fatto che si tratta di contratti
GESTIONALI).

CASO: azienda EDILCASA che aveva stipulato un contratto collettivo di solidarietà


DIFENSIVO per la riduzione dell’orario di lavoro nei confronti di tutti i dipendenti.
Aveva fatto ricorso a questo contratto collettivo di solidarietà prima nel 2013-2014 e
poi di nuovo nel 2015; ma nell’ultimo caso aveva fatto domanda TARDIVAMENTE
(quindi oltre i 7gg previsti).
Successivamente la domanda è stata accolta e l’integrazione salariale è stata
concessa MA con il differimento di 30gg.
Contro questo aggravio dei costi il datore aveva fatto ricorso in Tribunale, ma
chiaramente ha avuto torto perché aveva presentato la domanda in ritardo.

 ESPANSIVI: riduzione dell’orario di lavoro dei lavoratori in forza è effettuata per


procedere a nuove assunzioni di personale (per aumentare l’organico).
In questo caso non c’è ovviamente un problema di fondi/finanziamento, ma c’è un
problema di CONSENSO SINDACALE.
ESEMPIO: ditta ISOLA VERDE che ha scelto di stipulare un contratto di solidarietà
ESPANSIVO. Il problema è che erano presenti in azienda una serie di contratti di
“associazione in partecipazione” (precedenti alle riforme Fornero e Jobs Act, con le
quali questo contratto di “associazione in partecipazione” è stato ELMINATO). Due
sono state le scelte poste alle aziende (presso le quali vigevano questi contratti di
“associazione in partecipazione”):
o Alcuni contratti collettivi hanno fatto ricorso all’ART.8 del decreto Sacconi ed
avevano previsto la CONTRATTAZIONE IN DEROGA (ossia in deroga alla
legge che non consentiva più la stipulazione e il mantenere in vita dei
contratti di “associazione in partecipazione, per 1 anno si consentisse invece
ancora il mantenimento in vita di tali contratti)
o Nel caso concreto, la scelta di questa azienda (ISOLA VERDE) è stata invece
quella di ridurre l’orario di lavoro del personale in forza e di procedere a
nuove assunzioni degli ex associati in partecipazione (quindi ha scelto di
stipulare un CONTRATTO COLLETTIVO DI SOLIDARIETA’ ESPANSIVO con il
consenso del sindacato).
Serve sempre il CONSENSO DEL SINDACATO.
E’ efficace nei confronti di TUTTI i lavoratori (trattandosi sempre di un contratto
GESTIONALE).
Ulteriore REQUISITO è quello del NECESSARIO deposito di tali contratti presso la
Direzione Territoriale del lavoro.

LA PARTECIPAZIONE DEI SINDACATI ALLE FUNZIONE PUBBLICHE (o funzione di


CONCERTAZIONE)
Il sindacato, oltre a svolgere attività di CONTRATTAZIONE, svolge anche attività di
CONCERTAZIONE (ossia il sindacato collabora con il Governo alla definizione delle linee di
intervento economico-politico, alla politica economica e sociale del paese).
Abbiamo due MODELLI di sindacato:
1. SINDACATO ECONOMICO (modello CONTRATTUALE): soprattutto nei paesi
dell’America del Nord; secondo questo modelli il sindacato CONTRATTA (è
rivendicativo).
2. SINDACATO CONCERTATIVO (Italia, Gran Bretagna e in altri paesi): il sindacato, oltre
che contrattare, agisce come INTERLOCUTORE POLITICO del Governo (partecipa alla
contrattazione, ma partecipa anche alla CONCERTAZIONE).
In Italia, negli anni, si sono avute varie fasi dell’attività di CONCERTAZIONE (in cui il
sindacato è stato più o meno coinvolto nella politica economica e sociale, dal Parlamento e
dal Governo).
Di conseguenza anche il Governo ha un ruolo, non solo di legislatore, ma anche di
NEGOZIATORE (in Italia più volte i Governi e i Parlamenti, non si sono limitati all’attività di
legislazione, ma hanno più volte preso parte insieme ai sindacati alla NEGOZIAZIONE,
proprio come terza parte negoziale).

Politica di CONCERTAZIONE si è sviluppata soprattutto dagli Anni Settanta (momento di


crisi), periodo nel quale era necessario l’intervento per distribuire sacrifici tra i lavoratori, e
il sindacato è stato chiamato a pre-concordare le linee di intervento con il Governo per
evitare gli scioperi e il conflitto (quindi il sindacato concorda tali linee di intervento con il
governo e poi quando verranno attuate evita di scioperare e di intervenire per aprire il
conflitto).
Si sono avuti, allora, soprattutto i cosiddetti ACCORDI TRIANGOLARI (che hanno visto
contrapposti SINDACATI, DATORI DI LAVORO e hanno visto la partecipazione del
GOVERNO come “attore negoziale”, in una logica di SCAMBIO POLITICO: lo Stato
interveniva con risorse economiche e benefici a favore dei sindacati e chiedeva in cambio
sacrifici da parte dei lavoratori).

Abbiamo avuto DUE METODI DI CONCERTAZIONE in Italia:


1. METODO DELLO SCAMBIO POLITICO (inaugurato negli anni 70 e proseguito negli
anni 80 con il Protocollo Scotti e poi con il mancato ACCORDO DI SAN VALENTINO).
Sindacato, datori di lavoro e Governo negoziano tutto.
2. Metodo basato sulla negoziazione degli OBIETTIVI (Governo e sindacato si mettono
d’accordo sugli obiettivi), ma poi ciascuna delle parti negoziali resta libera di
definire i propri interventi per dare attuazione a tali obiettivi tramite le proprie
competenze (lo Stato tramite le leggi e i sindacati stipulando gli accordi
interconfederali).
Espressione di questo modello è il PROTOCOLLO GIUGNI DEL 1993 che poi è stato
seguito da un vero e proprio ACCORDO INTERCONFEDERALE del 1993 (tra
associazioni sindacali ed associazioni datoriali; non interviene il Governo).

Questo fenomeno della CONCERTAZIONE ha avuto in Italia un andamento altalenante


perché negli Anni 2000 è stato sostituito dal cosiddetto DIALOGO SOCIALE.
Prima di questo momento era fondamentale il fenomeno delle LEGGI
NEGOZIATE/CONTRATTATE (ossia l’idea che un momento fondamentale della
concertazione fosse la possibilità dei sindacati di intervenire, essere consultati e di far
valere il loro peso nelle materie di interesse dei lavoratori), il cui testo è frutto o addirittura
di un’intesa dei sindacati trasmessa al Governo, o è comunque pre-concordato tra Governo
e sindacati.
All’inizio degli anni 2000 questo fenomeno si interrompe bruscamente e viene sostituito
dall’idea (che è contenuta nel cosiddetto LIBRO BIAGI/LIBRO BIANCO SUL MERCATO DEL
LAVORO) della necessità di non consentire ai sindacati di mettere il loro veto sulle politiche
lavoristiche (l’idea è che i sindacati devono essere informati, consultati dal Governo ma poi
l’emanazione dei provvedimenti non può certo arenarsi per il mancato consenso dei
sindacati).

PRINCIPALI ACCORDI DI CONCERTAZIONE (del primo tipo, di SCAMBIO POLITICO):


 ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 1977 (in materia di adeguamento dei salari
all’inflazione): il Governo resta ancora estraneo; formalmente è stipulato solo dai
sindacati (sindacati dei lavoratori e sindacati dei datori di lavoro), il Governo si
impegna informalmente ad intervenire ma, in realtà, non è formalmente parte
stipulante dell’accordo stesso.
 ACCORDO/PROTOCOLLO SCOTTI DEL 1983: è un ACCORDO TRIANGOLARE dove
formalmente le parti sono i SINDACATI (dei lavoratori e dei datori di lavoro) e il
Governo (che firma concretamente l’accordo e si impegna a successivi interventi di
tipo politico, in particolare in materia di assegni familiari e di oneri previdenziali).
L’obiettivo era sempre quello di contenere l’inflazione, quindi i sindacati accettano
dei TETTI agli incrementi automatici salariali, in cambio di queste misure appunto
promesse dal Governo.
PRIMO PROBLEMA: questi accordi sono stati portati davanti alla Corte Costituzionale
perché ci si è chiesti se fosse compatibile con la nostra forma di governo (che vede nel
Parlamento e nel Governo i depositari degli interventi normativi) che il perseguimento
degli interessi pubblici fosse contrattato con i sindacati? La Corte Costituzionale ha
salvato tali accordi perché ha stabilito che, in caso di mancato accordo con i sindacati,
lo Stato è comunque libero di legiferare e di perseguire l’interesse pubblico.
Anche se questa sentenza è stata in parte CRITICATA: si chiedeva alla Corte se questi
accordi triangolari (Governo, sindacati dei lavoratori e sindacati dei ddl) fossero o no
veri e propri contratti collettivi, espressione di autonomia collettiva (quindi tutelati
dall’art.39 Cost.)? La Corte dice di NO, ritiene che questi accordi non sono espressione
di autonomia collettiva (e non sono quindi tutelati dall’art.39) perché in questo caso il
sindacato non è separato dal Governo ma è cooperante con esso.

 NEL 1984 c’è il cosiddetto MANCATO ACCORDO DI SAN VALENTINO (il 14 febbraio
Governo e sindacati, dei lavoratori e dei ddl, cercano di raggiungere un accordo, ma
questa volta la CGIL non firma); anche in questo accordo l’idea era quella di
contenere le retribuzioni in cambio di vantaggi a favore dei lavoratori.
Malgrado il dissenso della CGIL il Governo emana il DECRETO LEGGE proprio con
riferimento al BLOCCO DELLE SCALE MOBILI ANOMALE (quindi comunque persegue
quegli obiettivi su cui non si era raggiunto il consenso); in questo modo viene per la
prima volta sovvertita la prassi di “non legiferare sulla materia senza il consenso dei
3 soggetti interconfederali”.
Chiaramente la questione viene portata davanti alla Corte Costituzionale ed essa
considera totalmente legittimo tale intervento (del Governo) e precisa, anzi, che nel
rapporto tra legge e contrattazione collettiva, la legge può fissare dei tetti/limiti alla
contrattazione collettiva (questo perché la tutela dell’interesse pubblico prevale su
quello collettivo e comunque perché si trattava di un intervento emergenziale).
DIFETTO DI QUESTI ACCORDI: il sacrificio immediato dei lavoratori era compensato da
misure legislative/di intervento non immediate ma di lungo periodo (e che avevano
ricadute solo eventuali sui lavoratori); questo ovviamente ha comportato la difficoltà di
stipulare nuovi accordi di questo tipo e, infatti, per molto tempo la concertazione si è
interrotta (anche per la crisi fiscale degli Stati e per la scarsità di risorse a disposizione da
spendere in questa negoziazione).

La ripresa della concertazione si ha negli Anni Novanta (di 2° tipo) con il PROTOCOLLO
GIUGNI DEL 1993 (si arriva ad esso perché l’idea era che l’Italia dovesse rispettare i
parametri richiesti per l’Euro, e quei parametri non erano assolutamente rispettati in
particolare a causa dell’elevata inflazione); infatti l’obiettivo era soprattutto di arrestare
l’inflazione.
TALE PROTOCOLLO ha:
 Riformato la struttura della contrattazione collettiva (introducendo i 2 livelli,
NAZIONALE ed AZIENDALE; ma ruolo centrale del contratto collettivo NAZIONALE)
 Introdotto la cosiddetta INDENNITA’ DI CONTINGENZA (e soprattutto il
meccanismo di recupero della perdita del valore di acquisto dei salari sulla base
dell’INFLAZIONE PROGRAMMATA, più bassa, e non di quella REALE)
 Prefigurato l’introduzione delle rappresentanze sindacali in Italia.
Si capisce chiaramente che si tratta una forma di concertazione di secondo tipo (quindi la
negoziazione è sugli obiettivi, ma poi lo Stato interverrà con le sue LEGGI e i sindacati
interverranno con i propri ACCORDI INTERCONFEDERALI); tanto è vero che segue la stipula
dell’ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 20 Dicembre 1993 (che per esempio dà vita alle
RSU).
Tale protocollo è un successo (perché salva l’Italia dall’inflazione), ma nel contempo blocca
i salari; quindi le spinte successive (degli anni 1995-96-98) sono alla revisione di tale
protocollo e al decentramento della contrattazione collettiva (l’idea è che la contrattazione
collettiva debba essere sempre più portata a livello DECENTRATO).

Da quegli anni (1995-96-98) in poi c’è un’alternanza di governi di SINISTRA (che


riprendono la concertazione) e di DESTRA; e in sostanza la CONCERTAZIONE è strumento
che viene ripreso in occasione dei governi di sinistra e viene arrestato in occasione dei
governi di destra.

Fino ad arrivare al famoso LIBRO BIANCO del 2001 (del giurista Marco Biagi) in cui viene
teorizzato il DIALODO SOCIALE (cioè lo STOP ALLA CONCERTAZIONE e l’avvio di prassi di
consultazione molto più blande e molto meno coinvolgenti per i sindacati).
Nel 2002 abbiamo la firma del cosiddetto PATTO PER L’ITALIA (tra CISL e UIL) dove
vengono disegnate quelle che saranno le future riforme (poi introdotte dalla Riforma
Biagi); MA questo NON VIENE FIRMATO DALLA CGIL (questo, però, non è un ostacolo
perché nel LIBRO BIANCO si teorizzava la contrattazione dei sindacati e poi la stipula di
questi accordi di concertazione A MAGGIORANZA, ma intesa come MAGGIORANZA DEI
SINDACATI a prescindere dal numero dei lavoratori rappresentati; perciò questo PATTO era
stato firmato da 2 sindacati su 3 e quindi era LEGITTIMO).
COSA PREVEDEVA? Prevedeva un intervento radicale di riforma del mercato del lavoro, nel
senso della FLEXICURITY (più flessibilità in cambio di maggiore sicurezza nel mercato del
lavoro). Cioè l’idea era che si dovessero attuare le riforme per moltiplicare anche i contratti
non standard ed in cambio di questa MAGGIORE FLESSIBILITA’ si dovessero, però, dare ai
lavoratori più facilmente espulsi dal mondo del lavoro maggiori tutele/maggiori
ammortizzatori sociali nel mercato del lavoro.
La realizzazione dei contenuti previsti in questo patto era prevista in DUE TAPPE:
 FLESSIBILITA’ (raggiunta)
 SICUREZZA (quindi maggiori tutele per i lavoratori; mai attuata perché mancavano
le risorse). Anche questo probabilmente è stato il motivo per cui la CGIL ha deciso di
non firmare tale patto.

PATTO SUL WELFARE DEL 2007 (su previdenza, lavoro, competitività): vengono concordate
(tra sindacati e Governo) quelle che saranno le successive modifiche legislative (in
particolare in materia di cuneo fiscale, di correttivi alla legge Biagi, ecc..).
ULTIME RIFORME (riforma Fornero, Jobs Act) sono state accompagnate da un DECLINO
DELLA CONCERTAZIONE e ad un ARRETRAMENTO DEL RUOLO DEL SINDACATO; con
conseguente indebolimento della contrattazione collettiva nazionale, e semmai con ripresa
della CONTRATTAZIONE COLLETTIVA DECENTRATA.

RICORDA!!!!!: ACCORDO INTERCONFEDERALE (tra sindacati dei lavoratori e sindacati dei


datori di lavoro); PROTOCOLLO (tra sindacati, dei lavoratori e dei ddl, e Governo).
ALCUNI CASI:
CASO 1: nell’ambito di un LICENZIAMENTO COLLETTIVO (quindi LEGGE 223/1991), nel
corso delle procedure sindacali, si raggiunge l’accordo con il sindacato e questo accordo
individua come criterio di scelta quello della PROSSIMITA’ ALLA PENSIONE.
Per effetto di questo unico criterio di scelta, tra gli altri, viene licenziato il nostro cliente
(che è un lavoratore di 63 anni, che non è iscritto a nessuna delle organizzazioni sindacali
che hanno firmato l’accordo sui criteri di scelta).
Il lavoratore impugna l’accordo e lamenta che sia discriminatorio in base all’ETA’; in
secondo luogo sostiene di non essere iscritto (non c’è nemmeno RINVIO) ad alcun
sindacato e quindi quel contratto collettivo non gli si può applicare.
PRIMA QUESTIONE: si tratta di un contratto collettivo GESTIONALE (che intende limitare
un potere libero del ddl che, in assenza del contratto, potrebbe essere comunque
esercitato nei confronti di TUTTI i lavoratori) che sappiamo avere efficacia “erga omnes” e
quindi si applica anche al lavoratore in questione.
Se ricordiamo Vallebona critica questa tesi perché dice che, in questo specifico caso (di
legge 223/91), afferma che il datore di lavoro, in mancanza di contratto collettivo, non
sarebbe libero perché sarebbe vincolato al necessario rispetto dei TRE CRITERI LEGALI
(carichi di famiglia, anzianità di servizio, esigenze tecnico-produttive organizzative).
SECONDO QUESTIONE: questo criterio è DISCRIMINATORIO IN BASE ALL’ETA’? NO, perché
il criterio di PROSSIMITA’ ALLA PENSIONE non coincide affatto necessariamente con l’età
anagrafica dei soggetti (perché sono implicate anche altre variabili); la Cassazione ci dice
che non è un criterio discriminatorio.

CASO 2: un lavoratore dipendente di un’associazione (Agriverde Onlus) chiede l’assunzione


con inquadramento al 9° livello del contratto collettivo di settore, in forza di un contratto
collettivo AZIENDALE stipulato dal datore di lavoro con i sindacati (nel quale il ddl si era
espressamente impegnato in tale senso per determinati lavoratori).
Il lavoratore dice che aveva i requisiti anche se era in distacco e in malattia; quindi la tesi è
che il contratto collettivo AZIENDALE debba applicarsi anche nei suoi confronti e, quindi,
che anche lui possa avere diritto all’assunzione al 9° livello.
La tesi del datore è, invece, che il contratto collettivo AZIENDALE era stato sottoscritto solo
dalla FP-CGIL (quindi solo dall’articolazione territoriale del sindacato esterno) per i
rispettivi lavoratori, e che quindi non potesse essere invocato dai lavoratori non iscritti
(non essendo stato fatto esplicito RINVIO) – il lavoratore in questione non era iscritto a
questo sindacato.
Abbiamo visto che si è molto discusso sull’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO
COLLETTIVO AZIENDALE e che ci sono stati tanti tentativi per giustificare la sua efficacia
“erga omnes”, tra cui:
 L’INDIVISIBILITA’ DELL’INTERESSE (cc aziendale si applicherebbe a tutti perché
regola rapporti in cui sono in gioco interessi dell’intera azienda indivisibili)
 SE STIPULATO DALLA RSU (perché eletta da tutti i lavoratori); ma manca una norma
che dice ciò.
 SE CONCORDATO DAI LAVORATORI IN ASSEMBLEA
 SE STIPULATO DAI SINDACATI MAGGIORMENTE RAPPRESENTATIVI
Tutte queste TESI non vanno bene.
La giurisprudenza tende a dire che il contratto AZIENDALE si applica ai lavoratori
dell’azienda, ma deve essere garantito il DISSENSO DEL LAVORATORE CHE E’ ISCRITTO, a
sua volta, AD UN SINDACATO DISSENZIENTE (quindi non può essere applicato ad un
lavoratore iscritto al sindacato dissenziente). (IMPO!!!!!!)
In questo caso il giudice ha escluso che si trattasse di un lavoratore iscritto ad un sindacato
dissenziente (infatti il lavoratore stesso voleva vederselo applicato) e, quindi, è stata
riconosciuta l’efficacia del contratto collettivo AZIENDALE verso di lui.
06/12
RIPASSO
RAPPORTI TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO (pagg.87 e seguenti)
T.U. 2014 (accordo interconfederale): la disciplina del rapporto di lavoro (a cui si applica il
contratto collettivo o per ISCRIZIONE o per RINVIO) è regolata dal contratto collettivo
NAZIONALE (ruolo centrale).
In sostanza il contratto collettivo AZIENDALE può disciplinare SOLO quelle materie che gli
sono delegate dal contratto collettivo NAZIONALE.
Quindi se bisogna individuare qual è l’effettiva volontà dei sindacati bisogna dire che è
stato stabilito un CRITERIO GERARCHICO (aziendale prevale sull’aziendale).
Non ci sono materie, invece, che siano riservate alla contrattazione AZIENDALE, serve
sempre il filtro del contratto collettivo NAZIONALE.

Questo CRITERIO GERARCHICO (nel T.U. 2014) è, in realtà, attenuato dall’espressa


previsione delle cosiddette CLAUSOLE DI USCITA che ammettono esplicitamente che, con
certe procedure, in certe materie il contratto AZIENDALE possa derogare “in pejus” il
contratto NAZIONALE (per fronteggiare situazioni di crisi, o per favorire lo sviluppo
dell’impresa). Esse sono recepite nei cc nazionali. (ART.7 T.U.)
La previsione di tali clausole si intreccia con l’ART.8 del decreto Sacconi che prevede che il
c. AZIENDALE possa derogare al c. NAZIONALE e alla LEGGE, non entro i limiti stretti
previsti dalle clausole d’uscita, ma in modo molto più ampio (tramite i CONTRATTI DI
PROSSIMITA’).
Si ha un conflitto tra ART.7 T.U. ed ART.8 del decreto Sacconi; i sindacati hanno cercato di
depotenziare l’art.8 inserendo (a settembre) una POSTILLA nell’accordo interconfederale
del 2011 che impegnava i sindacati, a qualsiasi livello, a non sottoscrivere contratti di
prossimità (ex art.8).
Ma tale postilla non può depotenziare l’art.8 perché esso è una NORMA DI LEGGE e quindi
prevale. Si discute se l’art.8 violi l’ART.39, COMMA 1, COST. (libertà sindacale) proprio
perché il legislatore invade la libertà dei sindacati (questione non ancora risolta).

CHE COSA SUCCEDE SE IL CONTRATTO AZIENDALE DISCIPLINA MATERIE CHE NON GLI
SONO STATE DELEGATE?
Due casi:
1. CONFLITTO SOGGETTIVO/APPARENTE: contratto AZIENDALE regola materie che
non sono delegate dal contratto NAZIONALE (eccede i limiti), ma NON LO FA IN
CONTRASTO (non c’è un conflitto con il contratto nazionale).
In questo caso i 2 contratti possono convivere.
Esempio: contratto nazionale non delega la materia dei salari di produttività, ma
nemmeno il contratto nazionale la regola. Contratto aziendale la regola, ma non c’è
un vero conflitto; quindi si applica il contratto AZIENDALE.
2. Contratto AZIENDALE regola materie non delegate e lo fa IN CONTRASTO con
quanto stabilito dal contratto NAZIONALE (c’è un CONFLITTO REALE).
Cosa succede?
Cassazione dice che bisogna ricercare l’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLE PARTI SOCIALI
(che stabilisce la prevalenza del contratto NAZIONALE e l’inefficacia del contratto
AZIENDALE).
Il PROBLEMA è che le clausole del T.U. (CLAUSOLE DI RINVIO, che stabiliscono quale
contratto prevale e sono contenute negli accordi interconfederali) appartengono,
secondo la giurisprudenza, appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA; quindi la loro
violazione non comporta affatto la nullità/l’inefficacia del contratto AZIENDALE che
eccede i limiti stabiliti dal contratto NAZIONALE. Non si può dare la nullità di un
contratto per la violazione di un altro contratto, serve la violazione di una norma di
legge (questo vale solo nel settore privato).
ALLORA COME SI RISOLVE IL CONFLITTO TRA CONTRATTO COLLETTIVO
NAZIONALE ed AZIENDALE?
CONFLITTO APPARENTE: in realtà è regolato dalle stesse clausole dell’accordo. Si
utilizza il criterio dell’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLE PARTI (secondo la
GIURISPRUDENZA).
CONFLITTO REALE: contratto aziendale eccede i limiti delle clausole d’uscita. In
questo caso sono proposti 4 criteri per risolvere il conflitto (perché sono criteri che
la dottrina e la giurisprudenza ricavano dai principi generali dell’ordinamento):
a. FAVOR: prevale il contratto più favorevole. Si dovrebbe ricavare dall’ART.2077
cc (solo che è riferito al rapporto tra contratto COLLETTIVO ed INDIVIDUALE;
in più vale per il contratto collettivo CORPORATIVO). Questo criterio non va
bene.
b. GERARCHICO: prevale il contratto collettivo NAZIONALE. NON VA BENE
c. SPECIALITA’: prevale il contratto collettivo AZIENDALE (perché è quello che
regola gli interessi più vicini al rapporto di lavoro). NON VA BENE
d. CRONOLOGICO: prevale il contratto collettivo stipulato per ultimo. CRITERIO
SEGUITO DALLA GIURISPRUDENZA/CASSAZIONE. Si può criticare perché ha
senso quando si comparano contratti che provengono dagli stessi soggetti,
mentre qui la comparazione è tra contratti che provengono da soggetti
diversi.
Attualmente qualcuno, ma solo in DOTTRINA, considera il CRITERIO
GERARCHICO (ragionando “al contrario” dell’art.8, ossia se non ricorrono i
presupposti/limiti stabiliti da tale articolo si dice che la regola generale dice che
il contratto NAZIONALE prevale).
OGGI (in GIURISPRUDENZA) c’è una consapevolezza della sempre maggiore
centralità anche del contratto aziendale proprio per far fronte a situazioni di crisi,
quindi molte sentenze (tramite criterio CRONOLOGICO o dell’EFFETTIVA
VOLONTA’ DELLE PARTI) arrivano a dire che il contratto AZIENDALE può
derogare al NAZIONALE anche oltre i limiti delle clausole d’uscita.
CASO: operaio pulitore a cui era stata ordinata una trasferta. Il contratto collettivo
NAZIONALE prevedeva un’INDENNITA’; ma tale clausola viene derogata in pejus da un
contratto collettivo AZIENDALE che, per salvaguardare il livello di partecipazione, esclude il
diritto del lavoratore a tale indennità.
La giurisprudenza non ha ritenuto che ci fosse un CONFLITTO REALE, quindi è andata a
vedere l’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLE PARTI e perciò il contratto aziendale che ha derogato
in pejus il contratto NAZIONALE è valido.

Nel settore pubblico, invece, il contratto INTEGRATIVO che deroga in pejus al contratto
nazionale è sempre nullo.

RSA e RSU
RSA/RSU= lavoratori dipendenti dell’azienda che svolgono la funzione di rappresentanti di
essi. RSA rappresentano ciascuna un gruppo di lavoratori; RSU rappresentanza unitaria di
TUTTI i lavoratori dell’azienda.
DUE REQUISITI RIMASTI FERMI NEL TEMPO:
1. Possono costituire RSA solo nelle aziende in cui l’unità produttiva supera i 15
dipendenti
2. Ci deve essere l’INIZIATIVA DEI LAVORATORI (per le RSU, invece l’iniziativa viene
presa dai SINDACATI che indicono le elezioni e presentano le liste; in questo modo
ammettiamo che la RSU non sia una forma di RSA e per molti questo non è giusto).

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