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CORPORAZIONI: dialogavano tra loro le associazioni sindacali dei datori di lavoro e quelle
dei lavoratori. Potevano emanare le ORDINANZE CORPORATIVE (fonti del diritto oggettivo
sindacale, efficaci “erga omnes” e potevano essere emanate solo in base ad una delega
delle associazioni sindacali interessate).
MAGISTRATURA DEL LAVORO: magistrati che non si limitavano a decidere le controversie
sulla base delle norme di diritto esistenti, ma potevano anche decidere sulle pretese dei
lavoratori e quindi stabilire nuove condizioni di lavoro.
E’ chiaro che in un tale sistema le eventuali controversie riguardanti i lavoratori erano
decise o dalle corporazioni (tramite ordinanze) o dalla magistratura del lavoro (con
sentenze, fonti del diritto oggettivo ed efficaci “erga omnes”).
Erano vietati penalmente lo sciopero e la serrata, considerati delitti contro l’economica
pubblica (i lavoratori non ne avevano bisogno perché delle loro pretese decidevano le
corporazioni e la magistratura del lavoro).
Con la caduta del regime corporativo reagisce il costituente nel 1948; la nostra
Costituzione ribalta la situazione con l’art.39 sulla LIBERTA’ SINDACALE (al comma 1
enuncia il principio di libertà sindacale: “l’organizzazione sindacale è libera”).
La Costituzione non si limita ad affermare la libertà sindacale, ma ai commi 2-3-4 prevede
anche un meccanismo (che però non è mai stato attuato) diretto a garantire l’efficacia
“erga omnes” (a tutti i lavoratori) anche al nuovo contratto collettivo (quello “di diritto
comune”); obiettivo era coniugare pluralismo sindacale (quindi possibilità dell’esistenza di
più sindacati) fino ad arrivare ad un unico sindacato per categoria e, quindi, ad un unico
contratto collettivo efficace verso tutti i lavoratori della categoria----- questo secondo
obiettivo (di arrivare ad un unico contratto collettivo con efficacia “erga omnes”) per ora è
fallito; non sono mai state emanate leggi ordinarie che avrebbero dovuto consentire tale
meccanismo.
Ecco perché oggi il contratto collettivo nazionale di lavoro non è efficace “erga omnes”, ma
solo nei confronti dei lavoratori iscritti al sindacato che ha firmato il contratto collettivo e
per quelli per i quali nel proprio contratto di lavoro è stato fatto rinvio al contratto
collettivo.
Carta sociale europea 1961 (trattato del cons. d’Europa) (art. 5) tutela la
“libertà dei lavoratori e dei datori di lavoro di costituire organizzazioni
locali, nazionali o internazionali per la protezione dei loro interessi
economici e sociali ed aderire a queste organizzazioni”.
Norme comunitarie
o Del diritto primario (TRATTATI)
o Del diritto secondario (REGOLAMENTI, DIRETTIVE)
In origine l’Europa è nata con finalità mercantilistica e quindi si disinteressava della
protezione dei lavoratori; gli unici aspetti del diritto del lavoro di cui si occupava
erano quelli che avevano una ricaduta sul mercato comune/unico (es. libertà di
circolazione dei lavoratori).
Oggi, invece, si ha un’Europa “sociale” (ci sono anche obiettivi sociali come il
favorire il miglioramento nelle condizioni di vita dei lavoratori).
In certi casi, però, i diritti dei lavoratori possono entrare in conflitto con le libertà
economiche ( ad esempio la libera prestazione di servizi può entrare in conflitto con
lo sciopero; ci sono sentenze in cui l’Europa ha privilegiato le libertà economiche
rispetto al diritto di sciopero).
o CARTA DI NIZZA (riconosce espressamente la libertà di associazione
sindacale e la libertà di contrattazione collettiva)
o UE ha competenza di emanare DIRETTIVE IN MATERIA SINDACALE ;
soprattutto nelle materie di diritti informazione e consultazione dei lavorator.
Ha competenza anche in materia di rappresentanza e difesa sindacale degli
interessi collettivi di lavoratori e datori di lavoro. Non ha, invece, competenza
in materia di sciopero, di serrata e di diritto di associazione.
Norme nazionali/interne
o COSTITUZIONE: artt. 39-40
o LEGGI ORDINARIE: diritto sindacale è un “diritto senza norme”, ossia è un
diritto di creazione giurisprudenziale (pochissime erano le norme in
materia sindacale); in realtà negli ultimi anni si sono moltiplicate le leggi
anche in materia di diritto sindacale. Es. 146/90; 165/01; art.8 d.l. 138/11
(decreto Sacconi); ecc..
o USI E CONSUETUDINE
o EQUITA’
Tra le FONTI IMPROPRIE del diritto sindacale troviamo:
o GIURISPRUDENZA: giudici che interpretano le leggi (interpretazione costante, diritto
vivente); sentenze sono molto importanti.
o CONTRATTO COLLETTIVO: non è una fonte di diritto e nemmeno una norma di
legge; è solo un atto di autonomia privata, ma ha una portata generale ed astratta
(si applica ad un numero potenzialmente alto di rapporti).
2. Singoli lavoratori nei confronti dello Stato: oggi lo Stato non può
pregiudicare/svantaggiare i lavoratori a seconda della loro scelta di aderire o
meno al sindacato (in molti paesi non è così). La libertà di un lavoratore di
aderire al sindacato è definita “libertà sindacale POSITIVA”, mentre la libertà di
non aderire è detta “libertà sindacale NEGATIVA”.
Si tratta anche di libertà di aderire a un sindacato piuttosto che a un altro; inoltre
libertà di svolgere attività sindacale, di costituire sindacati, di aderire o meno a
un’azione collettiva.
L’art. 15 poi continua: “è nullo qualsiasi patto o atto diretto a DISCRIMINARE per
ragioni sindacali”. Serve l’intento del datore di lavoro affinchè l’atto
discriminatorio sia nullo o basta che sia oggettivamente discriminatorio (ossia
basta la rilevanza obiettiva della discriminazione, senza la necessità di provare
l’intenzione del ddl)? Oggi la giurisprudenza ci dice che è sufficiente che l’atto
sia oggettivamente discriminatorio, a prescindere dall’intenzione.
Questa norma riguarda i PATTI e gli ATTI, ma se il mio ddl mi fa firmare un
accordo dove io accetto di non appartenere al sindacato in cambio di un
determinato beneficio… questo ACCORDO sarebbe valido? No.
La norma non si riferisce, invece, ai meri COMPORTAMENTI del ddl, perché
chiaramente non si può parlare di nullità di un comportamento (ad es. mancata
promozione per ragioni sindacali, perché si aderisce ad un sindacato; qui il
comportamento non può essere nullo perché il comportamento non è un
atto/patto e quindi non può essere nullo; ci saranno altri rimedi, ad es. il
sindacato potrà agire con una speciale azione ex art.28 Statuto lavoratori).
Art. 17 Statuto lavoratori: “è fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni dei
datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti,
associazioni sindacali di lavoratori”.
Riguarda i “SINDACATI GIALLI” (sono i cosiddetti sindacati di comodo); a volte,
infatti, i datori di lavoro cercano di addomesticare i sindacati per poi contrattare
con un sindacato che di fatto sta dalla loro parte; questo articolo vieta il
sostegno ai sindacati gialli (il datore di lavoro non può finanziare associazioni
sindacali dei lavoratori).
Bisogna fare una precisazione: quello che è vietato è alterare i normali
meccanismi di lotta sindacale, ma è anche vero che non c’è una parità di
trattamento tra i sindacati (ci sono sindacati più forti e meno forti; per esempio
un datore potrebbe riconoscere delle aspettative non retribuite a certi sindacati
diffusi in tutte le sedi della propria azienda piuttosto che ad altri--- questo non è
vietato perché è semplicemente riconoscimento della forza di un sindacato).
Se il datore di lavoro viola tale articolo, contro di lui possono agire sempre i
sindacati (con azione ex art.28 SL).
Legittimato passivo è il solo datore di lavoro, non eventuali associazioni dei ddl a
meno che non abbiano agito in concorso con il datore di lavoro.
E il sindacato di comodo è sanzionato? No, però un contratto stipulato da esso
non è considerato come vero contratto collettivo (non ha i requisiti per essere
tale).
Art.8 Statuto lavoratori: “E' fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione,
come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini,
anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del
lavoratore, nonche' su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine
professionale del lavoratore”. Vieta anche indagini su opinioni sindacali (ad
esempio durante un colloquio di lavoro non si può chiedere al candidato se è
iscritto o meno al sindacato).
La tutela della libertà sindacale tra privati (nei confronti del datore di lavoro)
discende direttamente dall’art.39 della Costituzione o discende da queste norme
appena viste (artt. 14-15-16-17-18 SL; ART.4 l. 604/66)? Ci sono 2 tesi:
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Diversi modelli dell’organizzazione sindacale:
1. MODELLO CORPORATIVO (durante il periodo corporativo): Sindacato
RICONOSCIUTO (era una persona giuridica; aveva addirittura la rappresentanza
legale dei lavoratori della categoria nell’attività di contrattazione collettiva—per
legge rappresentava tutti i lavoratori della categoria nell’attività di contrattazione
collettiva); era però soggetto ad un penetrante controllo dello Stato (era privo di
libertà sindacale).
2. MODELLO COSTITUZIONALE (con Costituzione del 1948): art. 39, commi 2-3-4,
aveva immaginato un diverso tipo sindacato; aveva immaginato un sistema in cui il
pluralismo sindacale fosse garantito. I Sindacati avrebbero, però, dovuto registrarsi
presso degli uffici pubblici (solo così essi avrebbero potuto ottenere la personalità
giuridica). L’unico requisito per ottenere tale registrazione era quello di avere uno
Statuto interno a base democratica (ossia dove le cariche fossero elettive). Ottenuta
la registrazione avrebbero ottenuto la personalità giuridica. Una volta che
diventavano persone giuridiche, i Sindacati avrebbero potuto concorrere alla
stipulazione dell’unico contratto collettivo efficace “erga omnes”. Ciascun Sindacato
avrebbe dovuto contare/pesare in base al numero degli iscritti.
QUESTO MODELLO, PERO’, NON E’ MAI STATO ATTUATO.
Conseguenza di ciò è che OGGI i Sindacati NON HANNO LA PERSONALITA’
GIURIDICA e non possono stipulare il contratto collettivo con efficacia erga omnes.
3. MODELLO VIGENTE: Sindacato è semplicemente un’associazione NON
RICONOSCIUTA (non hanno personalità giuridica e non possono stipulare contratti
collettivi con efficaci erga omnes).
ASSOCIAZIONE NON RICONOSCIUTA significa dire che al Sindacato si applicano le
norme del codice civile che disciplinano le associazioni non riconosciute (artt. 36-
37-38 cc). L’art.36 ci dice che “l’ordinamento interno del sindacato è regolato in
base allo Statuto che il sindacato si è dato” (le regole sono quindi dettate dallo
Statuto); ci dice ancora che “il sindacato, come associazione non riconosciuta, può
stare in giudizio (quindi può subire e fare delle cause), ma sta in giudizio nella
persona del suo Presidente (sempre nominato in base allo statuto)”.
Soprattutto questi articoli ci dicono che il Sindacato non ha autonomia patrimoniale
perfetta (quindi che per le sue obbligazioni risponde il FONDO COMUNE e chi ha
agito in nome e per conto dei sindacati).
ISCRIZIONE AL SINDACATO: con l’associazione al Sindacato il lavoratore si assoggetta alle
regole del suo Statuto, ma può sempre recedere/sciogliersi dal Sindacato (art.37—è
garantito il RECESSO dal sindacato; il recesso dal sindacato è sempre libero. Può essere,
però, limitato se ad esempio nello statuto è previsto un termine).
C’è poi una regola importante secondo la quale se una persona è iscritta ad un sindacato e
quel sindacato stipula un contratto collettivo, questo contratto si applica a questa persona-
- ma se questa persona recede dal sindacato, il contratto collettivo continua ad applicarsi o
cessa di efficacia nei suoi confronti?? Continua ad applicarsi quel contratto collettivo fino
alla sua scadenza (mentre dalla scadenza in poi il vincolo viene meno).
Lo Statuto potrebbe anche prevedere il differimento dell’effetto del recesso di un
individuo, ma al solo fine del pagamento della quota associativa.
I sindacati “per mestiere” (es. piloti) sono più conflittuali rispetto a quelli costituiti per
“ramo di industria” (ad esempio uno sciopero dei piloti che paralizza l’intero trasporto
aereo e lo fa per rivendicazioni tipiche della sola categoria dei piloti), inoltre si occupano
degli interessi di una ristretta parte di lavoratori e lo fanno in potenziale conflitto con
l’interesse di tutti gli altri lavoratori.
Altra precisazione: gli Statuti spesso dettano delle regole per disciplinare l’AFFILIAZIONE
alle Confederazioni dei sindacati minori (per esempio nazionali o territoriali). Allora spesso
si può avere che le Confederazioni sono associazioni di secondo livello (perché sono il
frutto dell’associazione di altre associazioni), ma si può anche avere semplicemente un
sindacato (associazione di 1° grado) che ha degli organi periferici (ad esempio si può avere
un’articolazione territoriale del sindacato che è semplicemente un organo del sindacato
nazionale). Affronteremo anche questo problema più avanti nel corso.
Finora abbiamo trattato solo dell’art.39 della Costituzione; l’altra norma centrale del diritto
sindacale è l’art. 40 della Costituzione (sul DIRITTO DI SCIOPERO).
ART. 40 Costituzione: “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo
regolano”.
Lo sciopero è un DIRITTO (noi oggi lo diamo per scontato, ma in passato non era così).
Infatti nel nostro Stato non sempre è stato garantito lo sciopero come DIRITTO, anzi ci
sono stati 3 diversi approcci allo sciopero da parte del nostro ordinamento:
1. Inizialmente lo sciopero era considerato un DELITTO (quindi il lavoratore che
scioperava commetteva reato ed era il codice penale Sardo del 1840 a configurarlo
come tale). Sostanzialmente si riteneva che fosse uno strumento per alterare il
libero mercato (e che quindi dovesse essere represso).
2. Secondo il codice penale Zanardelli del 1889, lo sciopero era una LIBERTA’ ma non
ancora un diritto. Questo significa che lo Stato manteneva un atteggiamento di
NEUTRALITA’ verso lo sciopero (non era considerato un reato ma non era nemmeno
tutelato nel rapporto di lavoro); il lavoratore non aveva il diritto di sospendere la
propria prestazione di lavoro nei confronti del datore di lavoro. Se il lavoratore
sospende la prestazione di lavoro commette un INADEMPIMENTO e può quindi
essere passibile di sanzioni disciplinari.
3. Si arretra e si torna a considerare lo sciopero come un DELITTO (periodo
corporativo del 1926, poi codice penale Rocco del 1930). Lo sciopero e la serrata
erano REATI perché si riteneva che il conflitto dovesse essere composto nell’ambito
degli istituti dell’ordinamento corporativo (c’erano la Magistratura del lavoro e le
Corporazioni che dovevano decidere le controversie, perciò non c’era bisogno dello
sciopero e della serrata).
4. Con la Costituzione del 1948 si fa un passo avanti e lo sciopero è finalmente
considerato un DIRITTO (art. 40 Costituzione). Il lavoratore che sciopera non
commette né un reato né un inadempimento dei propri obblighi contrattuali. Ma il
lavoratore che sciopera ha diritto alla retribuzione o la perde? Il lavoratore che
sciopera perde la retribuzione, per il PRINCIPIO DI CORRISPETTIVITA’ (la
retribuzione è il corrispettivo della prestazione di lavoro; se il lavoratore sciopera
perde il corrispettivo della propria prestazione di lavoro--- non è però passibile di
sanzioni disciplinari).
L’art. 40 va letto anche con collegamento all’art.3, comma 2, della Costituzione (che
riguarda la parità sostanziale/l’uguaglianza sostanziale) perché si dice che lo sciopero è
uno di quegli strumenti che consentono a tutti (in particolare ai lavoratori) la
partecipazione alla vita economica e politica del paese e che consente, quindi, la
parificazione dei lavoratori.
Importante è anche il collegamento con l’art.15 SL (sul divieto di discriminazioni, in
particolare ai danni dei lavoratori che scioperano) e con l’art.28 SL (sulla condotta
antisindacale; il datore che impedisce uno sciopero commette una condotta antisindacale
ed il sindacato potrà reprimerla).
Con l’emanazione dell’art.40 si viene a creare una situazione di conflitto perché non erano
ancora state abrogate le norme del codice penale del 1930 che consideravano lo sciopero
un REATO. Quindi nel 1948 si è avuta una situazione di questo tipo:
Codice penale che considera lo sciopero un REATO
Costituzione che considera lo sciopero un DIRITTO
E’ dovuta intervenire la Corte Costituzionale che, con una serie di pronunce, ha sancito
l’incostituzionalità (per violazione dell’art.40) delle norme penali incriminatrici dello
sciopero (non però di tutti i tipi di sciopero—vedremo che ci sono delle distinzioni).
E la SERRATA (cioè la chiusura della fabbrica da parte del datore di lavoro)? E’ tutelata dalla
Costituzione? No, non esiste alcun articolo che metta sullo stesso piano sciopero e serrata.
Non esiste un DIRITTO di serrata del datore di lavoro, che possa essere considerato
speculare al diritto di sciopero dei lavoratori; esiste semmai una LIBERTA’ di serrata (ma
anche qui si dovranno fare delle precisazioni e delle distinzioni). Tutto questo perché sia lo
sciopero che la serrata sono sì strumenti di autotutela, ma solo lo sciopero serve per
tutelare gli interessi collettivi; altri, invece, ritengono che anche la serrata è espressione di
libertà sindacale (però si tratta sempre di LIBERTA’, resta fermo il fatto che NON ESISTE UN
DIRITTO DI SERRATA).
L’art 40 afferma che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo
regolano”; quali sono queste LEGGI CHE REGOLANO LO SCIOPERO?
Nell’intenzione del legislatore si sarebbero dovute emanare varie leggi per regolare lo
sciopero e per dettarne i limiti, ma i progetti legislativi sono falliti, salvo il settore dei
SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI nel quale è stata emanata la LEGGE 146/1990 (poi LEGGE
83/2000).
Per tutti gli altri settori ci si è chiesti: l’art.40 è solo una norma programmatica (per cui
finché non vengono emanate le leggi non si può esercitare il diritto di sciopero) o è una
norma immediatamente precettiva? E’ prevalsa l’idea che sia una norma immediatamente
precettiva, quindi il diritto di sciopero esiste ed è tutelato. Ma quali sono i LIMITI di tale
diritto?
E’ stata la Giurisprudenza che ha via via individuato i limiti all’esercizio del diritto di
sciopero; bisogna distinguere tra:
LIMITI INTERNI: oggi è una teoria superata, non ci sono più.
LIMITI ESTERNI: oggi sono gli unici limiti; sono limiti posti a tutela di altri beni
costituzionalmente garantiti ((per esempio il diritto all’integrità/alla vita delle
persone (lo sciopero non può mettere in pericolo la sicurezza e la vita dei
lavoratori); tutela della produttività aziendale)).
Inoltre NON TUTTO E’ SCIOPERO (è inteso come un’astensione concertata dal lavoro, per
la tutela di interessi professionali e collettivi), ma condotte diverse dall’astensione dal
lavoro non sono sciopero (e non sono tutelate come sciopero).
05/10
Oltre alle forme anomale di sciopero c’è anche lo SCIOPERO DELLO STRAORDINARIO:
quando i lavoratori rifiutano di svolgere le prestazioni di lavoro straordinarie. Sappiamo
che lo straordinario è obbligatorio quando è previsto come tale dai contratti collettivi; ciò
nonostante la Cassazione ci dice che, pur se i contratti collettivi prevedono prestazioni
straordinarie, ciò nonostante i lavoratori che come forma di protesta scelgono di astenersi
da queste, compiono una pratica legittima.
Quindi è LEGITTIMO lo sciopero dello straordinario, anche in quei casi in cui sarebbe
obbligatorio per contratto collettivo (purchè ovviamente si tratti di uno sciopero a tutela di
un interesse collettivo). Anzi c’è una sentenza del 2014 riguardante uno sciopero di questo
tipo proclamato nel 2007 dai sindacati (secondo il quale ciascun lavoratore poteva
scegliere la forma di astensione dal lavoro che preferiva); la Corte di Cassazione ha detto
che tale forma di sciopero non è legittima (perché si rende possibile a ciascun lavoratore di
rifiutare la prestazione nel proprio interesse individuale, in mancanza di un interesse
collettivo che sia effettivamente tutelato dall’astensione).
2. Quando i lavoratori esercitano le proprie pretese non nei confronti dei datori di lavoro,
ma nei confronti della pubblica autorità/del Governo. Un esempio è quando i lavoratori
scioperano contro una legge finanziaria, contro una legge di riforma delle pensioni,
contro una legge di riforma del mercato del lavoro; in questi casi i lavoratori tendono a
cercare di influenzare la pubblica autorità, ma per far valere la tutela di diritti che
riguardano i lavoratori stessi (non tutti i cittadini), cioè di quei diritti che sono tutelati
dal titolo III della Costituzione come DIRITTI ECONOMICI. La Corte Costituzionale
qualifica tale sciopero come ECONOMICO POLITICO, cosa c’è di diverso rispetto allo
sciopero contrattuale? Qui la pretesa non è nelle mani del datore di lavoro, ma nelle
mani della pubblica autorità (ma è pur sempre una pretesa che riguarda i diritti dei
lavoratori).
Secondo la Corte Costituzionale è sempre uno SCIOPERO-DIRITTO (quindi la condotta
non è illecita né sul piano penale né sul piano del rapporto di lavoro; la condotta non
costituisce inadempimento).
3. L’esempio classico è che un lavoratore sciopera per partecipare ad una marcia per la
pace contro la guerra (ad esempio in Iraq); è quindi uno sciopero di protesta, ma per
finalità sostanzialmente estranee alla tutela dei lavoratori.
E’ reato? E’ un diritto? La Corte Costituzionale ci dice che lo sciopero politico puro non
è reato, è lecito (dal punto di vista penale non può essere incriminato, cioè sussiste una
LIBERTA’ di sciopero politico); è uno SCIOPERO-LIBERTA’ (questo è ricavato dal
collegamento con l’art.3 Cost.—l’idea è che tale sciopero consente a tutti i cittadini di
partecipare alla vita democratica del paese).
Ma il datore di lavoro deve limitarsi a subire le conseguenze di tale sciopero? In un
primo momento la Corte Costituzionale ritiene che tale sciopero non sia un DIRITTO del
lavoratore, quindi l’astensione (sul piano del rapporto di lavoro), rappresenti un
inadempimento contrattuale (ossia, in astratto, il lavoratore potrebbe subire
conseguenze disciplinari su tale piano).
La Corte Costituzionale fa comunque due precisazioni, ossia ritiene che 2 condotte
particolari restino in ogni caso REATO (ossia restino incriminate):
è reato lo sciopero politico puro quando è SOVVERSIVO (cioè quando è diretto a
sovvertire l’ordine costituzionale)
è reato lo sciopero politico puro quando con esso si vuole cercare di influire
sull’esercizio dei poteri sovrani (ad esempio sull’esercizio del potere legislativo,
sulle riunioni del Parlamento--- quando si vuole impedire al Parlamento di
riunirsi).
Negli ultimi anni, però, la Cassazione sembra aver considerato come DIRITTO anche lo
sciopero politico puro (non più come una semplice “libertà”); il caso concreto riguarda
proprio l’applicazione di tale tipologia di sciopero (in occasione della guerra in Kosovo,
da parte dei lavoratori) nel quale il datore di lavoro non aveva considerato l’astensione
da lavoro come “sciopero” ma bensì come “assenza ingiustificata”—in questo caso la
Cassazione supera l’atteggiamento della Corte Costituzionale (spiegato nel punto
sopra) e, tramite il collegamento all’art.11 della Costituzione (che sostiene l’idea che
l’Italia promuove la pace e gli organismi sostanzialmente diretti a questo fine) ha
legittimato anche lo sciopero POLITICO.
Un’altra sentenza ha, invece, colpito l’art. 506 del codice penale (che riguarda la serrata
dei piccoli esercenti SENZA DIPENDENTI); qui la Corte Costituzionale ha
sostanzialmente considerato tale tipologia di serrata come sciopero, e ha quindi
considerato ILLEGITTIMO l’art. del codice penale (per contrarietà con l’art.40 della
Costituzione). L’incriminazione di tale tipo di serrata è illegittima in quanto quest’ultima
è stata parifica allo sciopero.
E la serrata dei piccoli esercenti CON DIPENDENTI? La Corte Costituzionale ha detto
che NON E’ SCIOPERO (quindi l’incriminazione è legittima).
Quindi il diritto di sciopero è stato qualificato in vari modi:
per alcuni è un DIRITTO POTESTATIVO (cioè un diritto di sospendere la prestazione
di lavoro); ma se fosse così ristretto il concetto dello sciopero dovrebbe essere
riferito solo agli scioperi “contrattuali”.
per altri è un DIRITTO ASSOLUTO DI LIBERTA’ (allora poi si propongono tutte le
distinzioni che abbiamo appena analizzato sopra).
SCIOPERO DEL RENDIMENTO: diffuso negli Anni Settanta tra i lavoratori pagati “a
cottimo” (in realtà “misto” che prevede una base di retribuzione e poi una quota di
cottimo). In questo caso i lavoratori abbassano il livello del proprio rendimento. La
Cassazione ci dice che:
o finché il rendimento non scende al di sotto di quello normalmente esigibile
da qualsiasi lavoratore in base al criterio di ordinaria diligenza, NON si è di
fronte ad un inadempimento (quindi non c’è alcun problema)
o se il rendimento scende al di sotto del minimo, si dovrebbe dire che è
inadempimento (e dovrebbe essere disciplinarmente rilevante), ma la
Cassazione tende semplicemente ad affermare che il datore di lavoro può
ridurre proporzionalmente la retribuzione del lavoratore che sciopera.
E’ una sentenza un po' ambigua (o c’è inadempimento o non c’è).
BLOCCO STRADALE: forma molto diffusa oggi (ad esempio qualche anno fa, ad un
certo punto, nei supermercati non si trovavano più certe merci perché c’era stata
una protesta di alcuni autotrasportatori, e avevano anche posto in essere dei blocchi
stradali in modo che anche gli altri autotrasportatori non potesse effettuare le loro
consegne).
La Cassazione penale ci dice che NON E’ SCIOPERO; sostanzialmente è un reato che
oggi è depenalizzato, ma rimane comunque un comportamento illegittimo.
Oggi tutte queste problematiche sono affrontate dalla legge sullo sciopero nel settore dei
servizi pubblici essenziali (l.146/1990) che regola non soltanto lo sciopero dei lavoratori
subordinati, ma anche le forme di lotta dei lavoratori autonomi (vedremo che in
quell’ambito il Tribunale ci dice che un blocco stradale attuato in modo tale da impedire il
rifornimento di merci essenziali è sicuramente illegittimo per contrasto con tale legge).
BOICOTTAGGIO: ad esempio se la Nike ha una catena/filiera di lavoro per cui
sfrutta lavoro minorile (come faceva negli Anni Ottanta) e sostanzialmente i
lavoratori pongono in essere un’azione di boicottaggio ai danni dell’azienda
(ossia cercano di indurre i clienti potenziali a non comprare un certo tipo di
prodotto).
C’è l’art.507 del codice penale che incrimina penalmente il boicottaggio (quindi è
REATO), ma la Corte Costituzionale afferma che tale norma non può arrivare ad
incriminare quelle attività di mera propaganda (se semplicemente un soggetto
cerca di convincere senza forza, senza violenza ma con la sola mera attività di
propaganda, altri soggetti a non comprare certa merce, non è sciopero ma non
siamo neanche nell’ambito di una condotta penalmente illecita).
Perciò è lecita l’attività di mera propaganda, non è lecita quella di boicottaggio.
LEGGE 146/1990 (disciplina lo sciopero nei SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI) —oggi è la più
importante legge regolatrice dello sciopero.
L’OBIETTIVO di tale legge è quello di bilanciare il diritto di sciopero dei lavoratori con altri
beni della persona che sono costituzionalmente garantiti e che potrebbero essere
danneggiati dall’esercizio dello sciopero (es. dei trasporti pubblici – qui il bene
costituzionalmente tutelato è la libertà di circolazione; anche lo sciopero è un diritto
costituzionalmente tutelato, ma se tutti i lavoratori del trasporto pubblico scioperassero
sarebbe completamente impedita la libera circolazione degli utenti).
Essa introduce dei LIMITI allo sciopero nel settore dei SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI (sono
quei servizi che sono funzionali a garantire l’esercizio di determinati beni
costituzionalmente garantiti -- come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà, alla sicurezza,
alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione, alla libertà di
comunicazione).
Questa legge individua un elenco TASSATIVO di beni della persona costituzionalmente
garantiti (quelli sopra citati; che devono essere posti in bilanciamento con il diritto di
sciopero); inoltre contiene anche un elenco ESEMPLIFICATIVO dei servizi diretti a garantire
l’esercizio di questi beni (es. servizio di trasporti su rotaia, esami finali, ecc..).
I servizi pubblici essenziali sono erogati tanto da aziende private quanto da enti pubblici
(quindi questa legge si applica allo sciopero dei servizi pubblici essenziali, a prescindere
che il datore di lavoro sia pubblico o privato).
Questa legge prevede che vengano individuati dei LIMITI all’esercizio del diritto di sciopero
in questo settore (in parte fissati dalla legge, in parte individuati tramite un meccanismo
diverso che vede il coinvolgimento sia dei sindacati sia della Commissione di garanzia).
Questi LIMITI sono:
1. Per l’esercizio dello sciopero in questo settore, le organizzazione che lo
proclamano devono fornire un PREAVVISO (deve essere dato prima dello
sciopero), in primo luogo al DATORE DI LAVORO (ossia all’azienda, pubblica o
privata, che eroga il servizio pubblico essenziale). Il datore di lavoro, a sua volta
tramite i servizi radiofonici e televisivi, deve far sì che la notizia dello sciopero
venga data agli utenti (almeno 5 gg prima della proclamazione).
Le organizzazioni che proclamano lo sciopero devono dare il preavviso anche
all’AUTORITA’ COMPETENTE PER LA PRECETTAZIONE che, a sua volta, informerà
la COMMISSIONE DI GARANZIA.
Non basta dare solo il preavviso, occorre dare anche altre informazioni (ossia
comunicazione delle ragioni, della durata, delle modalità dello sciopero).
11/10
Per contemperare il DIRITTO DI SCIOPERO (costituzionalmente tutelato) con gli altri diritti
alla persona (costituzionalmente tutelati) è stata emanata la legge n.146/1990 diretta ad
introdurre dei LIMITI all’esercizio del diritto di sciopero in questi settori (settore dei
trasporti, del servizio sanitario, dei servizi di pronto soccorso, degli scrutini scolastici, di
rimozione dei rifiuti, di amministrazione della giustizia); sostanzialmente la legge detta 2
elenchi:
da un lato elenca i BENI della persona che devono essere tutelati. E’ un elenco
TASSATIVO/chiuso. Sono, ad esempio, libertà, salute, istruzione, circolazione,
ecc..
dall’altro lato elenca una serie di SERVIZI che vengono garantiti e sono funzionali
a garantire i beni sopra citati. E’ un elenco “aperto”. Sono, ad esempio, il
trasporto su rotaia, trasporto tramite aereo, ecc.. Possono essere erogati da enti
pubblici ma anche da aziende private (che operano in convenzione ad esempio
con il servizio pubblico).
In questi settori ci sono:
LIMITI PROCEDURALI: per poter scioperare in questi settori le organizzazioni che
proclamano lo sciopero devono dare un PREAVVISO (almeno 10gg prima) al datore
di lavoro (ente/azienda privata che eroga il servizio) e all’autorità competente per la
precettazione che, a sua volta, informerà la Commissione di Garanzia.
Inoltre bisogna anche comunicare le MOTIVAZIONI, le MODALITA’ e la DURATA
dello sciopero (non è dunque ammesso uno SCIOPERO “AD OLTRANZA”, ossia
senza un termine finale di durata).
Chiaramente se un lavoratore aderisce ad uno sciopero, in questi settori, che è stato
proclamato senza PREAVVISO, a sua volta compie un illecito (la condotta del singolo
lavoratore sarà passibile di sanzione).
LIMITI SOSTANZIALI: in caso di sciopero in questi settori, che cosa deve essere
comunque garantito agli utenti? Devono essere garantite le PRESTAZIONI MINIME
INDISPENSABILI (cioè non si può paralizzare tutto; sono contenute negli accordi
sindacali).
Ad esempio: il pronto soccorso deve funzionare, le sessioni di laurea devono essere
garantite, la libera circolazione deve essere garantita tramite ad esempio il sistema
delle “fasce orarie”.
Ad esempio: se c’è uno sciopero dei treni, chi decide che deve essere garantita una
determinata fascia di percorrenza piuttosto che un’altra? Cioè le PRESTAZIONI
MINIME INDIPENSABILI, da garantire agli utenti in caso di sciopero, come vengono
definite?
Vengono definite, in prima battuta, dai contratti collettivi (ossia dall’accordo tra
sindacati dei lavoratori ed enti/aziende private che erogano il servizio). Questo
accordo, però, potrebbe non essere idoneo a garantire gli utenti (perché se
Trenitalia e i sindacati si mettono d’accordo a garantire una determinata fascia di
percorrenza perché gli conviene piuttosto che la fascia oraria tipica dei pendolari,
questo potrebbe non essere sufficiente).
Allora chi interviene necessariamente? La Commissione di garanzia, che deve
valutare l’idoneità o meno degli accordi a tutelare l’interesse degli utenti.
o Se la Commissione valuta IDONEO l’accordo, questo avrà effetto nei
confronti di TUTTI (lavoratori, aziende/enti, sindacati); la Corte Costituzionale
ci ha spiegato che questo effetto non è in contrasto con l’art.39 Cost. (il
quale, in linea di principio, prevedrebbe una diversa procedura per garantire
l’efficacia “erga omnes” dei contratti collettivi).
o Se la Commissione valuta INIDONEO l’accordo, in prima battuta cerca di far
raggiungere alle parti un accordo idoneo; se, malgrado questo tentativo e
malgrado l’eventuale referendum promosso dai lavoratori sulle clausole, non
si raggiunge un accordo IDONEO.. allora è la Commissione di garanzia stessa
che detta una regolamentazione provvisoria.
Su questa regolamentazione le parti sono chiamate a pronunciarsi entro
15gg, ma in ogni caso se nulla succede le regole, a questo punto, sono
dettate dalla Commissione di garanzia.
FINO A QUANDO RESTA IN VIGORE LA REGOLAMENTAZIONE
PROVVISORIA? Fino a quando le parti non avranno raggiunto un accordo
valutato, dalla Commissione, IDONEO.
Negli accordi/contratti sindacali sono contenuti anche degli INTERVALLI MINIMI tra uno
sciopero e l’altro (ossia tra uno sciopero e l’altro deve decorrere un periodo di tempo nel
quale non si sciopera). Qui parliamo di principio di RAREFAZIONE OGGETTIVA o
SOGGETTIVA.
RAREFAZIONE OGGETTIVA: vuol dire che l’intervallo deve essere rispettato anche tra
scioperi in settori diversi che, però, incidono sugli stessi utenti.
Ad esempio sciopero dei treni, sciopero degli autobus e sciopero degli aerei sono
sicuramente scioperi che incidono sullo stesso bacino di utenza.
RAREFAZIONE SOGGETTIVA: guarda al sindacato proclamante; quindi tra più
scioperi proclamati dallo stesso sindacato deve intercorrere un intervallo di tempo.
COSA VUOL DIRE CHE DEVONO ESSERE PREVISTE DELLE “PRESTAZIONI INDISPENSABILI”?
In sostanza devono essere garantite agli utenti determinate “prestazioni minime” che sono
necessarie a garantire i beni costituzionalmente tutelati (che abbiamo visto prima).
In questi settori, però, non si può limitare TROPPO lo sciopero; quindi sono previsti dei
TETTI. Vuol dire che le prestazioni minime garantite in caso di sciopero non possono essere
più del 50% delle prestazioni normalmente erogate; inoltre vuol dire che non può essere
imposta l’astensione a più di 1/3 del personale. Per cui lo sciopero sostanzialmente non
può essere precluso entro questi tetti.
La norma di chiusura del sistema è quella che prevede la PRECETTAZIONE (ossia l’ordine di
astenersi dallo sciopero, che può essere emanato quando dallo sciopero deriva un pericolo
grave ed eminente a beni della persona costituzionalmente tutelati; se c’è questo requisito
viene emanata l’ORDINANZA DI PRECETTAZIONE).
Esempio tipico: anno 2000 quando ci fu il Giubileo e a Roma arrivarono veramente un
numero enorme di persone. Sarebbe stato sufficiente garantire solo le “prestazioni minime
indispensabili” (ossia quelle normalmente garantite in caso di sciopero, per esempio, dei
treni o dei rifiuti)? No, il semplice rispetto/la semplice erogazione delle prestazioni
indispensabili non era sufficiente (poteva essere il grave ed eminente pericolo dei beni
della persona costituzionalmente tutelati); ecco che si giustifica l’ORDINANZA DI
PRECETTAZIONE (ossia l’ordine di NON SCIOPERARE) che viene emanata dall’AUTORITA’
COMPETENTE.
L’AUTORITA’ COMPETENTE è diversa a seconda della portata dello sciopero (ossia se lo
sciopero è “nazionale” o “locale”):
se lo sciopero è NAZIONALE, l’autorità competente è il Presidente del Consiglio dei
Ministri o il Presidente delegato (normalmente noi sentiamo parlare del Ministro dei
trasporti)
se lo sciopero è LOCALE, l’autorità competente è il Prefetto.
Per arrivare alla PRECETTAZIONE è previsto un PROCEDIMENTO:
deve esserci l’INIZIATIVA che, di regola, parte dalla Commissione di garanzia che
segnala (all’autorità competente) il pericolo. Può anche partire direttamente solo
dall’autorità competente, che però in quel caso deve avvisare la Commissione di
garanzia.
Prima di arrivare a “precettare” i lavoratori, bisogna cercare di invitare essi e i
sindacati a desistere dallo sciopero ed è anche necessario che si tenti la
conciliazione.
Se tutte le fasi precedenti FALLISCONO, allora si arriva alla PRECETTAZIONE. Essa
deve essere MOTIVATA ed è un provvedimento IMPUGNABILE (davanti al giudice
amministrativo).
CONTENUTO DELLA PRECETTAZIONE: l’ordine è quello di ASTENERI dallo sciopero; ma
magari potrebbe anche semplicemente essere solo quello di DIFFERIRE dallo sciopero, o
magari quello di RISPETTARE il periodo di intervallo tra uno sciopero e l’altro, o quello di
individuare quote di lavoratori aggiuntive per evitare che lo sciopero arrechi quel danno
grave ed eminente.
In sintesi possiamo dire che si discute molto su quale sia l’assetto migliore da dare ad una
legge in questo ambito: uno dei limiti che spesso si riscontra è che i lavoratori non sono
tenuti a dichiarare la loro partecipazione agli scioperi e questo evidentemente può essere
un punto di debolezza; d’altro canto si sostiene che questo è uno dei profili in cui si
esprime maggiormente il diritto di sciopero (quello di non dover appunto dichiarare
preventivamente se si aderirà ad uno sciopero o meno).
Altro punto su cui si discute molto è quello relativo ai SINDACATI MINORI, perché in molti
casi lo sciopero nel settore dei servizi pubblici essenziali può essere molto efficace anche
se proclamato da associazioni sindacali minori (lo stesso Presidente della Commissione di
garanzia si è espresso nel senso di ritenere auspicabile una legge di riforma che limiti il
ruolo dei sindacati minori; per esempio stabilendo una soglia di rappresentatività minima
che questi sindacati dovrebbero avere per proclamare lo sciopero). Dall’altra parte,
ovviamente, si è risposto che una legge di questo tipo sarebbe sicuramente limitativa del
diritto di sciopero (perciò di questo si sta ancora sicuramente discutendo).
Un argomento di cui, invece, non si discute molto è quello della SERRATA: qui abbiamo già
detto che non esiste un parallelismo di tutele, nella nostra Costituzione, che la tuteli (come
invece c’è l’art.40 che tutela il diritto di sciopero); in Italia non è previsto a carico dei datori
di lavoro il DIRITTO DI SERRATA.
Il datore di lavoro che, senza un motivo legittimo, sospende/chiude l’attività resta
responsabile del pagamento delle retribuzioni ai suoi dipendenti; oggi la giurisprudenza
ritiene che questo si giustifichi in base ai principi del codice civile sulla “mora del creditore”
(il datore di lavoro che, illegittimamente, rifiuta di fare quanto necessario affinché il
debitore possa adempiere, cade in mora; quindi resta responsabile del pagamento delle
retribuzioni ed eventualmente anche del risarcimento dei danni nei confronti del
lavoratore).
Semmai, sul piano penale, c’è una “libertà di serrata” ai fini contrattuali (art. 502 codice
penale. Vi fu una sentenza della Corte Costituzionale che era proprio partita da un caso di
serrata per affermare come il divieto penale di serrata fosse comunque il conflitto non con
l’art.40 ma con l’art.39 della Cost.); quindi è caduto il divieto penale di serrata contrattuale
e vi è una mera LIBERTA’ di serrata contrattuale (ma non è un diritto). Lo stesso vale per la
SERRATA dei piccoli imprenditori SENZA DIPENDENTI (si fa lo stesso discorso; viene
parificata allo sciopero).
La Corte Costituzionale, invece, continua a valutare diversamente la SERRATA dei piccoli
imprenditori CON DIPENDENTI, la quale non viene parificata allo sciopero.
SERRATA IMPROPRIA: può o no il datore di lavoro rifiutare quelle prestazioni che gli sono
offerte tra un intervallo e l’altro dai lavoratori scioperanti (sciopero “a singhiozzo”)? O che
gli sono offerte dai non scioperanti (in uno sciopero “a scacchiera”), e che per lui sono
inutili? Si, può rifiutarle. In questo caso si parla di serrata IMPROPRIA ed è perfettamente
legittimo il rifiuto, da parte del datore di lavoro, delle prestazioni NON UTILMENTE
utilizzabili.
Così come è legittima la scelta del datore di lavoro di chiudere l’azienda in caso di pericolo
agli impianti (danno alla produttività come limite esterno al diritto di sciopero).
Mentre, invece, se il datore di lavoro rifiuta le prestazioni UTILI commette sicuramente
condotta antisindacale (ex art.28 SL).
RSA
Perché nascono nel 1970? Nascono dopo il cosiddetto “autunno caldo” del 1968 (anni di
protesta operaia, protesta studentesca ed assoluta eversione di tensioni sociali anche
all’interno delle fabbriche); di queste tensioni si stavano facendo portavoce, non più solo i
sindacati confederali/tradizionali, ma anche delle forme di associazione spontanea dei
lavoratori.
Il legislatore del 1970 vuole incanalare questa protesta e sostanzialmente restituire un
ruolo importante, nelle fabbriche, ai sindacati storici/confederali (che erano comunque
ritenuti più affidabili perché in grado di mediare tra interessi più ampi); quindi l’ART.19 SL
nasce con l’obiettivo di garantire, in qualche modo, il controllo dei sindacati storici (CGIL,
CISL, UIL) su questi movimenti di protesta.
Quindi c’è uno scambio tra una POLITICA DI PRIVILEGIO dei sindacati storici e una
PROMESSA DI STABILITA’ all’interno dell’azienda; con un crescendo di poteri (nel senso
quanto più forte è un sindacato, tanti più sono i poteri che gli vengono riconosciuti).
Strumenti per attuare questa “politica di privilegio” sono da un lato la previsione di
ORGANISMI DI RAPPRESENTANZA SINDACALE (all’interno delle fabbriche, a favore dei
sindacati confederali); dall’altro la previsione anche di IMPORTANTI RUOLI CONCERTATIVI
del sindacato (per esempio nelle politiche di governo).
Originariamente (versione del 1970) erano previsti 2 requisiti per la costituzione di RSA:
1. l’iniziativa dei lavoratori (che lavorano nella fabbrica)
2. il collegamento con un sindacato che abbia certe caratteristiche
Inoltre, sempre nella versione originale, l’art.19 prevedeva una lettera “a” ed una lettera
“b”:
LETTERA “a”: “potevano essere costituite RSA nell’ambito dei sindacati aderenti alle
Confederazioni “maggiormente rappresentative” sul piano NAZIONALE” (ossia
nell’ambito dei sindacati aderenti a CGIL, CISL e UIL); era la cosiddetta
RAPPRESENTATIVITA’ PRESUNTA (cioè si presumeva che i sindacati storici fossero
quelli più in grado di garantire la rappresentanza dei lavoratori).
LETTERA “b”: introduceva un altro requisito per la costituzione di RSA, il requisito
della RAPPRESENTANZA TECNICA (cioè “potevano essere costituite RSA nell’ambito
dei sindacati FIRMATARI del contratto collettivo NAZIONALE o TERRITORIALE
applicato in azienda”).
12/10
STRUTTURE DI RAPPRESENTANZA DEI LAVORATORI NELL’AZIENDA (PER IL SETTORE
PRIVATO)
Bisogna distinguere tra RSA ed RSU. Le RSA hanno fonte legale (ossia trovano disciplina
nella legge, in particolare l’ART.19 SL); mentre la RSU è una struttura che non è prevista né
dalla legge né dallo Statuto dei lavoratori, è stata istituita solo in base agli accordi
interconfederali (ossia accordi tra sindacati).
RSA: sono sorte all’indomani del 1968 (epoca in cui c’erano molte lotte operaie e molto
dissenso) e l’idea del legislatore era quella di affidare ai sindacati storici il compito di
gestire tali proteste (quindi dare un ruolo di primo piano ai sindacati confederali, che era
quelli più in grado di incanalare questo dissenso).
E’ stato emanato l’art.19 SL e quindi è stata individuata un’area di privilegio a favore di
certi sindacati (infatti questo articolo non riguarda tutti i sindacati, ma solo quelli
“privilegiati”, a questi vengono riconosciuti dei poteri che gli altri sindacati non hanno).
Lettera “b”: sulla RAPPRESENTANZA TECNICA (si diceva che “possono essere
costituite RSA anche nell’ambito di quei sindacati che, pur non essendosi affiliati ad
una Confederazione, abbiano dimostrato la loro forza tramite la contrattazione in
azienda”); quindi si considerano i SINDACATI FIRMATARI DI CONTRATTO
COLLETTIVO, di che livello? Esterno all’azienda.
Quindi, fino al 1995 la contrattazione collettiva doveva essere NAZIONALE o
TERRITORIALE; poteva avere una sua RSA il sindacato che avesse firmato un
contratto collettivo NAZIONALE o TERRITORIALE (non poteva avere una sua RSA il
sindacato che, per esempio, avesse firmato solo un contratto collettivo AZIENDALE).
Questo significa che la rappresentatività era misurata a livello NAZIONALE e
TERRITORIALE, ma non a livello AZIENDALE.
COME VENIVANO COSTITUITE LE RSA? Erano concepite come un “guscio vuoto” (cioè non
era previsto un modello preciso), in ciascuna azienda poteva prevalere il modello che il
sindacato e i lavoratori sceglievano (potevano essere elettive ma non necessariamente).
I membri dovevano essere tutti lavoratori subordinati dell’azienda; potevano essere iscritti
o meno al sindacato esterno (quindi l’iscrizione al sindacato non era necessaria).
Non era previsto un numero minimo di membri e nemmeno un numero minimo di
lavoratori che dovessero prendere l’iniziativa (bastava avere anche l’iniziativa di un solo
lavoratore se il sindacato di riferimento era d’accordo con questo).
In realtà ci furono delle clausole dei contratti collettivi (come quelle del settore bancario)
che prevedevano, per esempio, un numero minimo di 8 lavoratori che prendessero
l’iniziativa, affinchè si potesse avere una RSA; sono valide o no?
Per alcuni erano nulle (per violazione della libertà sindacale); ma la tesi prevalente era
quella per cui rientra nell’autonomia del sindacato stesso scegliere di limitarsi o meno (e
perciò ammettere la costituzione di RSA solo di fronte alla richiesta di molti lavoratori);
quindi tendenzialmente queste clausole sono valide (perché espressione dell’autonomia
del sindacato).
Quante RSA ci possono essere in un’azienda? Non c’è un numero minimo o un numero
massimo; ce ne possono essere più di una in base al numero di sindacati hanno i requisiti
per poterle costituire.
La RSA (secondo l’opinione prevalente) non è organo del sindacato, ma è un soggetto
munito di una propria autonoma soggettività/individualità.
Tuttavia (appena stato emanato) l’art.19 ha dato luogo a vari dubbi di legittimità
costituzionale e si hanno sostanzialmente 4 sentenze importanti:
1. Sentenza n.54/1974
2. Sentenza n.334/1988
3. Sentenza n.30/1990 (tra questa e la seguente avviene la modifica referendaria)
4. Sentenza n.244/1996
Tutte queste sentenze hanno sempre salvato l’art.19.
1. Si dubitava che fossero violati l’art.3 Cost. (perché sarebbero discriminati i sindacati più
deboli, rispetto a quelli privilegiati; lesione del principio di uguaglianza) e l’art.39 Cost.
(perché l’art.19, consentendo solo ad alcuni sindacati e non a tutti la costituzione la
costituzione di RSA, sarebbe lesivo della libertà sindacale degli esclusi).
La Corte Costituzionale dice che non è violato l’art.39. Essa dice che esistono due livelli
di tutela della libertà sindacale in azienda:
LIVELLO BASE: tutti i sindacati godono, in azienda, di questa libertà (garantita
dall’artt.14-15-16-17 SL); ossia tutti i sindacati, nei luoghi di lavoro possono
costituire/partecipare ad attività sindacale.
SECONDO LIVELLO: consiste in alcune prerogative/tutele aggiuntive che sono
attribuite solo a certi sindacati, quelli maggiormente rappresentativi; non
intaccano la libertà sindacale degli altri sindacati.
Queste tutele aggiuntive incidono sui poteri dei datori di lavoro e li limitano (ad
esempio il fatto di dover concedere l’assemblea è sicuramente un limite al
potere dell’imprenditore).
Nemmeno l’art.3 è violato perché una selezione tra sindacati è necessaria, occorre solo che
questa sia RAGIONEVOLE e, secondo la Corte, i due criteri della lettera “a” e “b” sono
entrambi ragionevoli perché selezionano i sindacati più forti (quindi solo quelli in grado di
incanalare il consenso).
Inoltre l’accesso a tali prerogative aggiuntive non è CHIUSO/ESCLUSIVO, perché qualsiasi
sindacato (che diventa forte) può conquistarle.
Perciò la Corte Costituzionale ci dice che l’art.19 è compatibile con gli artt. 39 e 3 della
Cost.; inoltre ci dice che l’art.19 è una norma di natura “DEFINITORIA” e non di natura
“PERMISSIVA” (significa che si limita a definire quali sono i requisiti che il sindacato deve
avere per avere accesso a queste prerogative, ma questi requisiti possono essere
conquistati anche da qualsiasi altro sindacato; ossia non esclude che ciascun sindacato
possa conquistare questi requisiti).
2. Il SINQUADRI (un sindacato) pretendeva di avere accesso a questa zona promozionale
(e quindi avere i diritti del titolo III), pur non essendo intercategoriale (ossia era un
sindacato che non aveva stipulato il contratto collettivo e che non era aderente a
Confederazione maggiormente rappresentativa; quindi non aveva i requisiti né della
lettera “a” né della lettera “b”) per il solo motivo che era molto forte tra i quadri.
La Corte Costituzionale dice no, quindi respinge anche in questo caso la questione di
costituzionalità (si dubitava della violazione degli artt. 3,39 e 2 della Costituzione). La
Corte, sostanzialmente, dice che l’aver riservato la possibilità di avere rappresentanze
solo ai sindacati aderenti alla Confederazione (e non ai sindacati mono categoriali)
risponde proprio all’art.2 della Cost. (cioè ad un PRINCIPIO SOLIDARISTICO).
Questa posizione è stata recentemente messa in crisi dal recente CASO FIAT e FIOM.
La Fiat, ad un certo punto, ha rifiutato di continuare a contrattare con tutti i sindacati
forti/confederali; questo sostanzialmente perché Fiat voleva liberarsi da certi vincoli
stabiliti dai precedenti contratti collettivi metalmeccanici (che era considerati non più al
passo con i tempi) e quindi ha tentato di proporre ai sindacati una CONTRATTAZIONE
COLLETTIVA “A RIBASSO” (non più tutelante per i lavoratori).
La FIOM ha rifiutato di sottoscrivere tale tipologia di contrattazione (il problema era per
la Fiat quello di garantire la produttività degli impianti, imponendo turni, modifiche
organizzative, che chiaramente costituivano un peggioramento per i singoli lavoratori,
ma dovevano salvare l’azienda e sostanzialmente la produzione in Italia).
La FIOM ha rifiutato e quindi si è avuta la fuoriuscita della FIAT dal sistema
confindustriale (la Fiat si è uscita da Confindustria); in questo modo essa non è stata più
vincolata dal contratto collettivo metalmeccanico e ha sottoscritto uno specifico
contratto collettivo “Fiat” solo con i sindacati che ci stavano (FIM, UILM). Inoltre Fiat ha
denunciato tutti i contratti collettivi vigenti; da questo momento non avrebbe più
applicato nessun contratto collettivo (aziendale, sui turni, sugli orari, ecc..) tranne quello
che ha firmato con FIM e UILM e che, però, FIOM non ha firmato.
La FIOM, quindi, non era più firmataria del contratto collettivo applicato in azienda; la
FIOM era rappresentativa, ma non aveva più la possibilità di avere una propria RSA in
azienda perché non era firmataria del contratto collettivo firmato in azienda (i delegati
FIOM sono concretamente stati estromessi dalla Fiat).
Allora FIOM ha fatto ricorso al Tribunale di Modena ed ha lamentato l’incostituzionalità
dell’art.19 SL, nel momento in cui imponeva come requisito, per costituire RSA, la firma
del contratto collettivo applicato in azienda.
Si è detto che è cambiata la situazione di fatto: nel senso che, per gli ultimi 30 anni, la
contrattazione collettiva è stata UNITARIA (non separata) ed ACQUISITIVA (quindi
negoziare e firmare il contratto collettivo applicato in azienda significava per il
sindacato aver strappato dei vantaggi per i lavoratori, aver dimostrato la propria forza
ed essere perciò un sindacato rappresentativo). Ma nell’attuale contesto, invece, nel
quale il contratto collettivo è ABLATIVO (riduce i diritti), Fiom sostiene che la forza del
sindacato può anche stare nel rifiutare i peggioramenti previsti dal contratto (quindi
sindacato rappresentativo può anche essere quello che non firma il contratto, dopo
aver partecipato inutilmente alle trattative). Il caso concreto era proprio questo (Fiom
era stata convocata per le partecipazioni, aveva partecipato alle trattative ed aveva
rifiutato di accettare le modifiche peggiorative per i lavoratori).
Viene allora sollevata la questione davanti alla Corte Costituzionale e ci sono varie
sentenze che prendono strade diverse:
alcuni giudici di merito (senza arrivare alla Corte Costituzionale) danno una loro
interpretazione estensiva e dicono che l’art.19 può essere interpretato nel senso
che non sia necessario aver firmato il contratto collettivo, basta aver partecipato
alle trattative (ma quanto detto dall’art.19 era chiarissimo e quindi questa strada
non è percorribile).
La Corte Costituzionale, con la sentenza n.231/2013, dà ragione a FIOM. Questa
sentenza dichiara la parziale incostituzionalità dell’art.19 nella parte in cui non
prevede che RSA possano essere costituite anche da parte di quei sindacati che,
pur non essendo firmatari del contratto collettivo applicato in azienda, abbiano
però partecipato alle trattative.
OGGI, quindi, siamo arrivati ad una conclusione contraria rispetto all’idea di
partenza: per costituire RSA è sufficiente aver partecipato alle trattative per la
stipulazione di un contratto collettivo di QUALSIASI LIVELLO applicato in azienda e
sottoscritto dai sindacati (se un sindacato partecipa alle trattative, ma poi non
sottoscrivere quel contratto ha comunque la possibilità di avere una propria RSA in
quell’azienda).
La sentenza risolve il caso FIAT ma non detta una regola generale che poi sia facilmente
esportabile perché LASCIA APERTI DEI PROBLEMI:
Cosa significa “aver partecipato alle trattative”? Da quale momento in poi si
considera che il sindacato abbia partecipato alle trattative (quando è stato
convocato, quando si è seduto, quando è arrivato fino ad un certo momento
della negoziazione)? E soprattutto non c’è un DIRITTO DEL SINDACATO di
partecipare alle trattative (quindi si lascia il datore di lavoro pur sempre libero di
non accettare le trattative con un certo sindacato e, in questo modo, di non
permettere al sindacato di vantare i requisiti per la creazione di una RSA).
Riguarda l’ambiguità dell’art.19. Per come è scritto oggi l’art.19 è evidente che
occorre che almeno qualcuno quel contratto lo abbia firmato (quindi affinché
tutti quelli che hanno partecipato alle trattative possano avere RSA occorre che
almeno un sindacato abbia firmato quel contratto collettivo).
Se nessun sindacato sottoscrive quel contratto collettivo (perché effettivamente
quelle condizioni sono inaccettabili per tutti), non si ha alcun sindacato che
possa vantare la costituzione di RSA in azienda.
Nella sentenza vediamo che tra le righe si dice che “aver partecipato alle trattative denota
la RAPPRESENTATIVITA’ del sindacato” (quindi FIOM ha diritto a costituire RSA perché ha
partecipato alle trattative, perché in questo modo ha dimostrato di essere
rappresentativo). In realtà, questo concetto di MAGGIORE RAPRESENTATIVITA’ è stato
cancellato dal Referendum del 1995 (non compare più nel testo dell’art.19); comunque
molte altre norme del nostro ordinamento continuano ancora a far riferimento ai sindacati
“maggiormente rappresentativi” (per esempio in tema di trasferimenti d’azienda, di
contratti di solidarietà, di licenziamenti collettivi). Perciò la nozione di MAGGIORE
RAPPRESENTATIVITA’ sopravvive ma in altre norme.
Anzi a questa nozione si è affiancata la nozione di SINDACATO COMPARATIVAMENTE PIU’
RAPPRESENTATIVO (oggi vediamo, soprattutto nel d.lgs.81/2015, il riferimento non è più al
sindacato “maggiormente rappresentativo” ma il riferimento è a questa nuova nozione): la
prima volta che viene usata questa nozione è nel 1995 (in una legge in materia di
previdenza, in cui si individua quale è la retribuzione base, tra tante retribuzioni diverse
previste da tanti diversi contratti collettivi, per il calcolo dei contributi previdenziali).
Questa nozione, quindi, nasce al fine di selezionare (tra tanti contratti collettivi) un solo
contratto collettivo (nell’esempio originario si dice che “la retribuzione base è quella
prevista dai contratti collettivi stipulati dai sindacati COMPARATIVAMENTE PIU’
RAPPRESENTATIVI”). Questo vuol dire che, secondo il legislatore, bisogna COMPARARE tra
loro più contratti collettivi (stipulati da diverse COALIZIONI SINDACALI) e verificare quale
tra essi sia stato stipulato dalla COALIZIONE sindacale che, nel complesso, è PIU’
RAPPRESENTATIVA. IN BASE A QUALI INDICI? Gli stessi indici che abbiamo visto prima
(diffusione territoriale, numero di iscritti, intercategorialità, attività di autotutela, ecc..).
Perciò questa nozione viene, in origine, usata come riferita al contratto (quindi per
selezionare uno solo tra più contratti collettivi possibili).
La CRITICA è che, in realtà, la comparazione tra coalizioni può avvenire solo se queste sono
omogenee (mentre è difficile fare una comparazione tra coalizioni sindacali che magari
sono a livello diversi).
ULTIMA PRECISAZIONE: se leggiamo con attenzione vediamo che certe norme ci parlano
di “contratto stipulato DAI sindacati comparativamente più rappresentativi”, mentre altre
norme ci parlano di “contratto stipulato DA…”.
“DAI” vuol dire tutti i sindacati che sono “comparativamente più rappresentativi”; mentre
“DA” ammetto, in sostanza, una contrattazione separata.
FIM, FIOM e UILM sono senz’altro tutti sindacati comparativamente più rappresentativi.
Perciò se io dico “DAI” intendo che quel determinato contratto collettivo deve essere
necessariamente firmato da tutti e 3; se dico “DA” intendo che mi basta che quel
determinato contratto sia firmato da almeno uno di quei 3 sindacati (ma non mi serve per
forza la firma di tutti e 3).
18/10
Dal 1993, accanto alle RSA, sono state individuate anche le RSU (Rappresentanze Sindacali
Unitarie; per ora analizziamo le regole del settore privato).
La RSU non ha fonte legale (prima differenza rispetto alle RSA), la fonte di disciplina è
contrattuale (ha competenza contrattuale); infatti sono state previste, per la prima volta,
nell'accordo confederale del 20 Dicembre 1993 (che nasceva dal protocollo Giugni del
1993).
L’idea di base era che le rappresentanze dei lavoratori in azienda, per essere effettivamente
rappresentative, dovessero avere carattere ELETTIVO (essere elette dai lavoratori); inoltre
dovevano essere degli interlocutori AFFIDABILI (quindi l’elezione avveniva sempre sotto la
supervisione dei sindacati, in base a delle liste presentate dagli stessi; qui l'iniziativa
proviene dai sindacati)
Seconda differenza rispetto alle RSA è che le RSU hanno carattere ELETTIVO (ossia sono
elette da TUTTI i lavoratori dell’unità produttiva; iscritti e non iscritti al sindacato).
Terza differenza: le RSA sono plurime; le RSU sono unitarie (più sindacati presentano più
liste, ma poi l'organismo di rappresentanza è rappresentativo di tutti i sindacati e di tutti i
lavoratori).
Le RSU sono alternative alle RSA perchè sostanzialmente si chiede ai sindacati, che
avrebbero diritto a costituire una loro RSA, di scegliere se costituire una RSA o se
partecipare (presentando una lista) alle elezioni di una RSU. Vale, però, la CLAUSOLA DI
SALVAGUARDIA per la quale “i sindacati che potrebbero avere una RSA, ma che invece
hanno scelto di presentare una lista per le elezioni della RSU, rinunciano a costituire una
propria RSA” (i sindacati devono scegliere una tra le due alternative).
La RSU ha importantissime prerogative (nel senso che esercita gli stessi poteri/le stesse
prerogative della RSA: assemblea, referendum, affissione, permessi locali), ma soprattutto
le è attribuito espressamente il POTERE DI CONTRATTARE IN AZIENDA.
Ma le RSA non hanno questo POTERE DI CONTRATTAZIONE? Alle RSA questo potere non è
espressamente attribuito dallo Statuto (infatti si dice che la contrattazione aziendale viene
fatta concretamente dal sindacato esterno/territoriale).
Con la ROTTURA DELL'UNITA' SINDACALE il funzionamento della RSU è entrato in crisi (se
la FIOM, FIM e UILM la pensano in modo diverso è chiaro che si ha una paralisi all'interno
della RSU); perciò OGGI assistiamo al sostanziale RITORNO DELLA RSA (laddove non c'è
unità sindacale, anche in azienda difficilmente ci potrà essere un organismo unitario di
rappresentanza dei lavoratori, quindi una RSU).
Se la RSU c'è e stipula il contratto aziendale, verso quali lavoratori ha effetto questo
contratto?
Una tesi sostiene che questo contratto avrebbe efficacia verso tutti i lavoratori
(“erga omnes”), ma manca una norma di legge che lo dica espressamente e
soprattutto abbiamo, a monte, l'art.39 Cost per cui questa efficacia “erga omnes” è
difficile da giustificare (anche perché non tutti i lavoratori potrebbero aver
partecipato alle elezioni e non tutti potrebbero voler essere rappresentanti da quel
soggetto).
Un'altra tesi sostiene che questo contratto sarebbe efficace solo verso i lavoratori
che sono iscritti ai sindacati che hanno presentato le liste.
E’ un tema aperto; l'efficacia non è sicuramente “erga omnes”.
Ci può essere un’azienda in cui c’è sia la RSU che la RSA? Si, ci può essere questa
coesistenza quando ci sono dei sindacati che hanno diritto a costituire RSA che hanno
scelto di non partecipare all’elezione di una RSU (quindi ci potrà essere la RSA del
sindacato che ha aderito, ex art.19, ed insieme la RSU di tutti gli altri sindacati che hanno
scelto invece di partecipare all'elezione).
Non è esclusa la coesistenza di RSA ed RSU, malgrado la presenza della “clausola di
salvaguardia”.
ABBIAMO UN CANALE UNICO O CANALE DOPPIO DI RAPPRESENTANZA IN ITALIA?
CANALE DOPPIO: in azienda abbiamo 2 organismi di rappresentanza (uno che rappresenta
i lavoratori e ha funzione di tutela; ed uno associativo che rappresenta sostanzialmente gli
iscritti ed ha funzione di contrattazione).
In Italia non abbiamo un canale doppio; abbiamo un CANALE UNICO, anche se IBRIDO (da
un lato RSA ed RSU sono tendenzialmente alternative l'una all'altra, non sono nate per
coesistere anche se possono farlo; inoltre la RSU è di derivazione sindacale anche se si
cerca di dare maggior spazio ai lavoratori e lo strumento per fare ciò è l'elezione).
DIRITTI DELLE RSA IN AZIENDA (con i quali il datore di lavoro deve fare i conti; sono
contenuti nel TITOLO III SL -quelle prerogative privilegiate che sono previste in aggiunta
alla libertà sindacale che spetta a tutti i sindacati-); quindi solo i sindacati che possono
costituire RSA hanno:
• ART.20 SL: diritto di assemblea
• ART.21 SL: diritto di referendum
• ART.22 SL: tutela contro il trasferimento da una sede ad un'altra del DIRIGENTE di
RSA
• Art.23 SL: diritto ai permessi RETRIBUITI
• ART.24 SL: diritto ai permessi NON RETRIBUITI
• ART.25 SL: diritto di affissione
• ART.26 SL: diritto ai contributi sindacali
• ART.27 SL: diritto ai locali
• ART.31 SL: diritto alle aspettative
• ART.18 SL: tutela reintegratoria per il DIRIGENTE di RSA
Ci sono diritti che spettano esclusivamente ai DIRIGENTI di RSA (permessi, tutela contro il
trasferimento e tutela contro il licenziamento) e diritti che spettano alle RSA nel suo
insieme.
Tutti questi diritti, comunque, comportano una limitazione ai poteri del datore di lavoro
(sono prerogative che interferiscono con l’attività aziendale e la limitano); esempio: se la
RSA convoca l’assemblea il datore di lavoro, durante l'assemblea,non può pretendere la
prestazione e deve retribuire lo stesso).
E se in azienda non c’è ancora la RSA, si può autoconvocare l'assemblea per costituirla?
No, in quel caso è il sindacato esterno che coordina la situazione.
PREAVVISO: l'art.20 non lo dice in modo esplicito ma è chiaro che la RSA che convoca
l'assemblea deve dare un certo preavviso (spesso sono i contratti collettivi che lo
prevedono). A sua volta il datore di lavoro, che deve concedere i locali per l'assemblea,
deve comunicarlo con un certo preavviso/anticipo.
Questo nel rispetto dei principi di BUONA FEDE e CORRETTEZZA.
LOCALI: ci sono una serie di sentenze. In realtà si dice che il locale può essere INTERNO o
ESTERNO all'azienda e nelle immediate vicinanze.
Non deve essere un locale super attrezzato.
I contratti collettivi possono introdurre qualche modalità specifica ulteriore per l’esercizio
del diritto di assemblea (per esempio per contemperarlo con particolari esigenze
dell'azienda)? Si, l’art.20 espressamente prevede che “ulteriori modalità, per l'esercizio del
diritto di assemblea, possano essere introdotte dai contratti collettivi”.
Esempio: i contratti collettivi potrebbero stabilire che l'assemblea venga fatta A FINE
TURNO (questo per limitare l'incidenza sulla funzionalità dell'azienda).
ASSEMBLEA e SCIOPERO nei servizi pubblici essenziali: valgono sostanzialmente gli stessi
limiti che valgono per lo sciopero (l'assemblea in orario di lavoro, in questo caso, è
parificata allo sciopero).
ART.20 SL: “i lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro
opera, fuori dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore
annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono
essere stabilite dalla contrattazione collettiva.
Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono
indette, singolarmente o congiuntamente (quindi sia la singola RSA o tutte le RSA insieme),
dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con ordine del giorno su
materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle
convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del
sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.
Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai
contratti collettivi di lavoro, anche aziendali”.
ART. 8 d.l. 138/2011 (DECRETO SACCONI): il comma 3 che guarda al passato e riguarda
i contratti collettivi già sottoposti a referendum e ci dice che “i contratti collettivi
aziendali che siano precedenti la data di entrata in vigore di questo accordo e che siano
stati approvati tramite referendum da tutti i lavoratori, acquisiscono efficacia “erga
omnes” verso tutti i lavoratori dell'unità produttiva” (l'anno prima c'era stato l'accordo
FIAT che era stato sottoposto a referendum e, in questo modo, si era data efficacia
“erga omnes”).
3. DIRITTO DI AFFISSIONE (ART.25 SL): come comunicano i sindacati con i lavoratori sui
luoghi di lavoro? Nelle aziende c'è lo strumento della BACHECA AZIENDALE.
Sostanzialmente“le RSA (come le RSU) hanno diritto di comunicare con i lavoratori
affiggendo sui luoghi di lavoro, in appositi spazi a loro destinati dal datore di lavoro,
testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro”.
Ciascuna RSA ha diritto ad un proprio spazio (non c’è il possesso, ma ha la detenzione;
la RSA può, però, esercitare le azioni possessorie).
Se il datore di lavoro vede un comunicato che non gli piace, non può farsi giustizia da
sé e toglierlo (perchè commetterebbe condotta antisindacale); semmai potrebbe adire
il giudice per ottenere la RIMOZIONE.
Ci sono solo 2 casi in cui il lavoratore può intervenire direttamente:
1. se i comunicati non provengano dalle RSA
2. se i comunicati contengono un'offesa pesante nei confronti del datore di lavoro
e staccandoli esso non lede la propria reputazione (caso di “legittima difesa”).
4. LOCALI (ART.27): c'è la compressione dei poteri del datore di lavoro, il quale deve
mettere a disposizione locali per le assemblee delle RSA ma anche “salette”/locali per le
riunioni delle RSA.
Se l’azienda ha più di 200 dipendenti, il locale deve essere STABILE (ci deve essere
un'apposita saletta per le RSA in azienda); se invece l'azienda ha meno di 200
dipendenti il locale deve essere messo a disposizione solo quando necessario.
Diritto ad un unico locale per tutti.
Le RSA non possono far entrare chiunque (l’ingresso da parte di terzi è precluso/vietato
se non c’è il consenso del datore di lavoro).
Ovviamente il locale è aperto negli orari di apertura dell'azienda; deve essere nelle
vicinanze dell'azienda; non deve essere attrezzato in modo particolare.
E se il soggetto è DIRIGENTE di RSA? La prassi, degli anni passati, era quella di trasferire
molto rapidamente da un'unità produttiva ad un'altra quei DIRIGENTI di RSA che
fossero particolarmente attivi.
Ecco che lo Statuto ha introdotto un requisito aggiuntivo, occorre (affinché si possa
trasferire il dirigente) il NULLA OSTA SINDACALE (ossia il datore deve chiedere al
sindacato se concede il trasferimento in altra sede).
Il sindacato può scegliere di negare il nulla osta (questa decisione non può essere
messa in discussione dal datore di lavoro).
Se il dirigente fosse trasferito lo stesso (senza il benestare del sindacato), il
trasferimento sarebbe nullo e la condotta del datore di lavoro sarebbe ANTISINDACALE
PLURIOFFENSIVA (è offeso sia l’interesse del sindacato, sia l'interesse del singolo
lavoratore).
Contro il trasferimento di dirigente di RSA PRIVO DI NULLA OSTA chi può esercitare
l'azione in giudizio? Da un lato sicuramente il SINDACATO (ex art.28 SL); dall'altro lato
anche il LAVORATORE può impugnare il trasferimento; ci sarebbero, quindi, 2 azioni
parallele.
CHI E' DIRIGENTE DI RSA? E' la RSA stessa/il sindacato che, al suo interno, designa il
DIRIGENTE (quindi è lo stesso sindacato che, caso per caso, stabilisce chi è dirigente
della RSA).
Ma questa designazione deve essere PREVENTIVA o può avvenire anche EX POST (ossia
dopo che il lavoratore ha trasferito il membro di RSA, il sindacato può opporsi e
affermare che si tratta di un dirigente)? Con riferimento all'art.22 è necessario che la
designazione sia PREVENTIVA (quindi i nomi dei dirigenti di RSA dovranno essere
indicati ai fini di poter invocare in futuro tale tutela).
Diverso è, invece, per il sistema dei PERMESSI SINDACALI che sono riconosciuti ai
dirigenti di RSA (artt. 23-24-30 SL, come vedremo) perchè lì la designazione può essere
anche SUCCESSIVA (cioè si chiede il permesso e nel momento in cui lo si chiede per un
soggetto che è dirigente di RSA lo si designa come DIRIGENTE di RSA).
Questa norma/tutela non vale per le TRASFERTE (quindi si può sempre ordinare una
trasferta ad un dirigente di RSA senza limiti particolari).
19/10
2. TUTELA REINTEGRATORIA (contro il licenziamento) PER IL DIRIGENTE DI RSA (ART.18
SL): prevede una tutela particolare per i dirigenti di RSA, una tutela reintegratoria “in
corso di causa” (cioè prima ancora di arrivare alla sentenza del giudice
sull'impugnazione del licenziamento).
Cioè se vi è un’impugnazione di un licenziamento intimato ad un dirigente di RSA e
le ragioni del datore di lavoro non convincono, il giudice (su istanza congiunta del
lavoratore e del sindacato) può ordinare la reintegrazione provvisoria in corso di
causa (cioè prima ancora che si arrivi alla sentenza e a chiarire se il licenziamento è
legittimo o illegittimo, il giudice, se ritiene che gli elementi di prova della legittimità
del licenziamento forniti dal datore di lavoro non sono convincenti, può intanto
ordinare la reintegrazione; poi la reintegrazione sarà destinata ad essere revocata se
all'esito della causa il licenziamento è legittimo).
E’ una tutela che può essere azionata non solo se il licenziamento avviene per motivi
sindacali, ma per qualsiasi ragione avvenga un licenziamento nei confronti di un
dirigente di RSA; ma se il licenziamento avviene per motivi sindacali questa tutela
lascerà il posto alla tutela ex art.28 SL (azione più forte da parte del sindacato).
Oggi sappiamo che la riforma Fornero ha ridotto i casi di reintegrazione (ha introdotto i
4 famosi livelli di tutela per cui non sempre, se il licenziamento è illegittimo, il
lavoratore ha diritto alla reintegrazione), allora ci si è chiesti “invece questa tutela opera
sempre? Si, il dirigente di RSA licenziato dal datore di lavoro potrà sempre, su istanza
sua e del sindacato, ottenere la reintegrazione PROVVISORIA, a prescindere da quale
sia il vizio che si lamenta.
E’ una tutela azionata poche volte perchè più spesso si ricorre alla tutela ex ART.28 SL
(quando il licenziamento è, però, intimato per motivi sindacali).
ART.30 SL (sta fuori dal titolo IIII, quindi il campo di applicazione è più ampio, si applica
anche alle imprese piccole): ci dice che “i dipendenti di un’azienda (ad esempio il mio
caporeparto), che rivestono cariche sindacali esterne (è segretario provinciale del sindacato
della FIOM), hanno diritto di godere di permessi per la partecipazione all'attività del loro
sindacato (anche se è dipendente di un'azienda di piccole dimensioni)”. Qui non si parla
dell'attività di RSA ed RSU, ma si parla dell'attività sindacale di lavoratori che ricoprono
anche una carica sindacale esterna.
Non c'è un numero di permessi prestabilito (o sono i contratti collettivi o altrimenti sarà il
giudice che lo stabilisce secondo equità).
Sono permessi RETRIBUITI.
ASPETTATIVE NON RETRIBUITE PER I DIRIGENTI SINDACALI ESTERNI (ART.31 SL): spetta ai
dirigenti di sindacato che nella loro vita privata sono anche lavoratori subordinati.
Questi soggetti possono mettere in stand-by (per vari anni) la propria attività lavorativa
perchè l'incarico sindacale occupa la maggior parte del loro tempo (e quindi dedicarsi solo
all’attività sindacale).
L’azienda non può negare l'aspettativa, semplicemente “congela” il posto e, poi, nel
momento in cui l'aspettativa cessa dovrà riammettere il lavoratore.
Questo periodo di aspettativa non è retribuito dall'azienda (ma permette comunque di
maturare contributi previdenziali).
Nel periodo di aspettativa il dirigente non si presenta nel posto di lavoro.
4. ART.26 SL SUI CONTRIBUTI SINDACALI: oggi l’art.26 è composto solo dal comma 1
perchè con il Referendum del 1995 sono stati abrogati i commi 2 e 3.
Il COMMA 1 che ci parla di attività di COLLETTAGGIO e di PROSELITISMO (cioè ci
dice che ciascun lavoratore, sui luoghi di lavoro, senza pregiudizio per l'attività di
lavoro può cercare di convincere gli altri lavoratori ad iscriversi al sindacato e
magari raccogliere le quote di iscrizione degli altri lavoratori).
E’ chiaro che questa norma è messa nel posto sbagliato, dovrebbe far parte del TITOLO
II.
In origine, questo articolo prevedeva anche i COMMI 2 e 3 che riguardavano i
CONTRIBUTI SINDACALI/QUOTA ASSOCIATIVA.
Noi sappiamo che tutti i lavoratori che sono iscritti al sindacato (che hanno la tessera
del sindacato) devono pagare la QUOTA ASSOCIATIVA al sindacato.
Per il pagamento della QUOTA ASSOCIATIVA, in origine, era previsto (dai commi 2-3)
per legge l’obbligo per il datore di lavoro (su richiesta eventuale dei dipendenti) di
trattenere direttamente dalla busta paga la quota associativa.
Nel 1995 ci furono referendum contro i sindacati confederali, anche il referendum
sull'art.26 ebbe successo e, perciò, sono stati abrogati il comma 2 e il 3; ne deriva che
oggi non è più previsto, per legge, il diritto dei sindacati di ricevere direttamente
questa trattenuta.
E’ cambiato molto o no? No perché i contratti collettivi (stipulati dai datori e dai
sindacati), oggi, prevedono quello che precedentemente prevedeva l’art.26 (ossia
prevedono l’obbligo del datore di lavoro di effettuare la trattenuta in busta paga).
Ma queste clausole (previste nel contratto collettivo) appartengono alla parte
obbligatoria (regola solo i rapporti tra sindacati firmatari) o a quella normativa (regola i
rapporti tra sindacati e datori di lavoro) del contratto collettivo? La giurisprudenza ci
dice che appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA dei contratti collettivi.
La conseguenza è che, in questo modo, possono vantare questo diritto solo i sindacati
firmatari del contratto collettivo.
Perciò nulla è cambiato, rispetto al 1995, per i sindacati firmatari del contratto collettivo
(questi sindacati hanno sempre diritto a che il datore effettui la trattenuta).
Mentre tutto è cambiato per i sindacati NON FIRMATARI (perchè questi sindacati, oggi,
per effetto del contratto collettivo non avrebbe diritto alla trattenuta); se non che la
Corte di Cassazione ci dice che “il lavoratore subordinato che decide di devolvere una
parte della propria retribuzione al sindacato sta effettuando (rispetto al suo credito
retributivo) una CESSIONE DI CREDITO”. La conseguenza è che la CESSIONE DI
CREDITO non richiede il consenso del debitore ceduto (in questo caso è il datore di
lavoro) e, per questo motivo, è valida anche senza che il datore di lavoro abbia
stipulato il contratto collettivo con quei sindacati che sono beneficiari; a meno che non
sia troppo onerosa/gravosa per il datore di lavoro (se la cessione di credito comporta
delle spese aggiuntive/gravose per il datore di lavoro, allora non può essere fatta
unilateralmente).
Questa tesi è prevalsa rispetto alla tesi opposta che, invece, qualificava questa
operazione come DELEGAZIONE DI PAGAMENTO (delego il datore di lavoro, per conto
mio, a pagare i sindacati); ma la delegazione di pagamento, a differenza della cessione
di credito, richiederebbe il consenso del delegato.
Oggi, quindi, si parla di CESSIONE DI CREDITO (non serve il consenso e quindi i
lavoratori possono pretenderlo anche se i contratti collettivi non hanno previsto nulla).
ALTRA QUESTIONE: la CESSIONE DI CREDITO non potrebbe poi essere revocata (cioè
se io ti cedo il io credito poi non è che me lo posso riprendere) ma, nel nostro caso,
deve essere sempre ammesso per il lavoratore porre fine a questo meccanismo
(sciogliersi da questo obbligo di pagamento); ovviamente nel momento in cui cessa
l'iscrizione al sindacato la Cassazione ci dice che viene meno questo obbligo, non
perchè vi sia REVOCA della cessione di credito, ma semplicemente perchè è venuto
meno il rapporto tra lavoratore e sindacato.
CONTRATTO COLLETTIVO
E’ un ACCORDO tra un GRUPPO DI LAVORATORI ed un singolo datore di lavoro oppure tra
un GRUPPO DI LAVORATORI ed un gruppo di datori di lavoro, per determinare le
condizioni applicabili a ciascun rapporto di lavoro individuale (dal lato dei lavoratori il
soggetto è sempre sindacale).
La parte datoriale è il singolo datore di lavoro quando il contratto collettivo è AZIENDALE
(ma la controparte è sempre collettiva).
Disciplina l' INTERESSE COLLETTIVO (ossia l'interesse professionale di un gruppo di
lavoratori).
Si distingue dal CONTRATTO PLURISOGGETTIVO:
CONTRATTO COLLETTIVO: disciplina l’interesse PROFESSIONALE DI UN GRUPPO
gestito da un soggetto collettivo.
CONTRATTO PLURISOGGETTIVO: somma di pattuizioni individuali uniformi,
contenuti in un unico atto sottoscritto dai singoli lavoratori interessati. Non è
sottoscritto da una coalizione sindacale e, quindi, non può aver l'efficacia di un
contratto collettivo e non può derogare “in peius” le condizioni del contratto
collettivo.
Sistema che non è mai stato attuato per rifiuto dei sindacati perché:
erano appena usciti dal periodo corporativo/fascista e non volevano sapere di
sottomettersi ai controlli statali/pubblici
non volevano “contare” il numero degli iscritti (soprattutto nessuno dei sindacati
storici, CIGL-CISL-UIL, sapeva esattamente se era in svantaggio rispetto agli altri; e
quindi l'idea di essere comandato magari dal sindacato maggioritario ha
assolutamente paralizzato questo sistema)
In sostanza non è mai stata emanata una legge che desse attuazione all'art.39 seconda
parte. A questo punto l’art.39, commi 2-3-4, ha rappresentato un ostacolo alla possibilità
per il nostro contratto collettivo di assumere efficacia “erga omnes”.
Un tentativo di aggirare questo ostacolo è stato fatto con la LEGGE VIGORELLI DEL 1959
(che, in realtà, produce ancora oggi effetti). Nel 1959 il Parlamento ha emanato una legge
delega (legge Vigorelli) e ha delegato il Governo a emanare una serie di decreti legislativi
che individuassero i MINIMI DI TRATTAMENTO per i lavoratori di ciascuna categoria; ma,
nel contempo, il Parlamento ha previsto che questi decreti non avessero contenuto libero
ma dovessero recepire il contenuto dei contratti collettivi vigenti. In questo modo si
attribuiva in modo indiretto a quei contratti collettivi l’efficacia “erga omnes” (derivante
dallo strumento del decreto legislativo, il quale ha efficacia “erga omnes” perchè è una
legge).
Questi contratti collettivi con efficacia “erga omnes” sono ancora vigenti (noi, però, non ce
ne accorgiamo perché i MINIMI del 1959 sono ormai superati).
Nel 1960 il Parlamento (visto che l'anno prima era andata bene) ha nuovamente delegato il
Governo a recepire in decreti legislativi i contratti collettivi vigenti.
A questo punto è intervenuta la Corte Costituzionale perché è stata sollevata la questione
se queste 2 leggi (la legge Vigorelli del 1959 e la legge del 1960) fossero o no contrastanti
con l’art.39 Cost, seconda parte (che invece prevedeva che solo il contratto stipulato dai
sindacati registrati e con numero di iscritti pesato avesse efficacia “erga omnes”)?
La Corte Costituzionale ha salvato i contratti collettivi del 1959 (perché si era trattato di
uno strumento eccezionale, limitato nel tempo e quindi compatibile con la Costituzione)
ma ha ritenuto che il tentativo (con la legge del 1960) di stabilizzare questo regime (quindi
di rendere questo il regime ordinario per dare efficacia “erga omnes” al contratto
collettivo) fosse, invece, un tentativo costituzionalmente illegittimo. Oltretutto la Corte
Costituzionale aveva rilevato anche un ECCESSO DI DELEGA (perchè il Governo era stato
delegato a recepire solo i minimi di trattamento economici/normativi; mentre i decreti
legislativi avevano recepito anche la parte obbligatoria dei contratti collettivi senza avere
nessuna delega per questo).
QUESTI CONTRATTI DEL 1959 RIMANGONO IN VIGORE? Si, quei MINIMI possono essere
superati da trattamenti più favorevoli, e per capire se un contratto collettivo è più
favorevole oppure no, la comparazione si fa “per istituti” (non si va a vedere la singola
clausola del contratto collettivo ma se nel complesso tutte le disposizioni che, ad esempio,
regolano le FERIE siano o no più favorevoli rispetto a quelle del contratto successivo); in
questo modo si è ottenuto un po' di margine anche sulla COMPARAZIONE (magari un
successivo contratto ha una norma apparentemente un po' meno favorevole rispetto ad un
aspetto specifico, ma compensata da un'altra norma la questione può essere risolta).
Oggi il CONTRATTO COLLETTIVO (non è fonte di diritto ma atto espressione di autonomia
privata) non ha efficacia “erga omnes” ma ha efficacia soggettiva limitata.
A CHI SI APPLICA?
1. Si applica ai lavoratori e ai datori di lavoro ISCRITTI ai sindacati firmatari del contratto
collettivo stesso.
Se il soggetto è iscritto al sindacato gli si applica il contratto collettivo vigente ed
ovviamente anche i successivi contratti collettivi (che verranno stipulati finché è
iscritto).
Se il soggetto recede dal sindacato, gli effetti del contratto collettivo verranno meno
nei suoi confronti solo dal momento della scadenza del contratto collettivo.
E’ necessario (affinché operi questo meccanismo) che siano iscritti al sindacato sia il
lavoratore che il datore di lavoro? E' necessaria la DOPPIA ISCRIZIONE oppure no?
Bisogna distinguere tra contratti collettivi:
o ACQUISITIVI: contratti con cui si acquisiscono vantaggi/benefici per i
lavoratori.
E’ sufficiente la sola iscrizione del datore di lavoro (anche perché, in realtà,
difficilmente il datore di lavoro praticherà condizioni diverse per gli ISCRITTI e
per i NON ISCRITTI; altrimenti sarebbe come dire “iscrivetevi tutti al
sindacato”).
Ci sono state addirittura delle situazioni in cui il fatto che il datore di lavoro
che avesse applicato condizioni diverse ai NON ISCRITTI, è stato ritenuto una
forma di discriminazione; in realtà sembra un giudizio troppo eccessivo
perchè la ragione per il trattamento differenziato può essere una legittima
scelta del lavoratore di aderire al sindacato.
Inoltre i lavoratori NON ISCRITTI al sindacato, se è iscritto il loro datore di
lavoro, potrebbe sempre e comunque chiedere di ottenere quei benefici
affermando che “il contratto collettivo è un contratto a favore di terzi”.
Quindi non è necessaria la DOPPIA ISCRIZIONE.
• RINVIO ESPRESSO: ossia nella LETTERA DI ASSUNZIONE (in sede di stipulazione del
contratto). Esempio: io domani vado a colloquio, mi viene fatto sottoscrivere un
contratto di lavoro (ossia vengo assunta), non sono iscritta al sindacato e nemmeno
il mio datore di lavoro, ma mi viene fatto firmare un rinvio (per cui quel determinato
contratto collettivo si applica al mio rapporto).
• RINVIO TACITO: significa che, di fatto, il datore di lavoro nei rapporti con i
dipendenti applica le clausole del contratto collettivo (quindi implicitamente regola i
rapporti facendo rinvio al contratto collettivo). Occorre che il
datore di lavoro applichi gli istituti fondamentali, non proprio tutte le regole del
contratto collettivo. Esempio: vengo assunta e nella mia lettera di assunzione non
c'è scritto niente ma il mio datore di lavoro mi fa fare 5 settimane di ferie invece di 4
(che mi spetterebbero effettivamente), perchè, nei fatti, applica al mio rapporto di
lavoro le regole previste dal quel determinato contratto collettivo.
Altra distinzione:
rinvio FORMALE: rinvio è riferito al contratto collettivo VIGENTE e a tutti i successivi
rinnovi.
Non è ammesso lo svincolo unilaterale (da questo rinvio) a meno che non si spezzi
la linea contrattuale (vuol dire che se i successivi rinnovi non sono stipulati dagli
stessi sindacati che hanno stipulato questo contratto vigente ma da sindacati
diversi, allora quei successivi contratti non vincolano più il lavoratore).
rinvio MATERIALE: si fa riferimento ad uno specifico/singolo contratto VIGENTE (non
vale per i successivi rinnovi).
Se le parti non sono iscritte al sindacato e non c'è stato rinvio, si può immaginare una
situazione per cui un lavoratore, che viene assunto per mansioni operaie (di X livello) sia
retribuito ad esempio 300 euro al mese, quando invece il MINIMO retributivo previsto dal
contratto collettivo (per quelle mansioni) è 1.200 euro al mese oppure no? No. Ossia i
MINIMI RETRIBUTIVI (fissati dal contratto collettivo) si applicano anche ai NON ISCRITTI ed
anche in MANCANZA DI RINVIO? Se si, perchè?
La risposta si ricava dall'ART.36 COSTITUZIONE (“il lavoratore subordinato ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto e, in ogni caso,
sufficiente a garantire, a sé e alla propria famiglia, un'esistenza libera e dignitosa”). A tutti i
lavoratori deve essere garantita una retribuzione PROPORZIONATA e SUFFICIENTE, quindi
una RETRIBUZIONE MINIMA (corrispondente alle mansioni che svolgono).
COME E' DETERMINATA LA RETRIBUZIONE MINIMA IN ITALIA? ESISTE UNA NORMA DI
LEGGE CHE STABILISCE I MINIMI RETRIBUTIVI PER OGNI MANSIONE? No.
E allora come viene determinata la RETRIBUZIONE MINIMA (a cui tutti i lavoratori hanno
diritto per Costituzione)? Viene determinata dai GIUDICI utilizzando come parametro di
riferimento i MINIMI CONTRATTUALI (fissati dai contratti collettivi); ecco che,
indirettamente, i minimi RETRIBUTIVI (non quelli contributivi) fissati dai contratti collettivi si
applicano a TUTTI i lavoratori (ma non perchè il contratto ha efficacia “erga omnes” ma
solo perchè viene utilizzato il contratto collettivo, dai giudici, come parametro per
individuare la retribuzione minima sufficiente ex art.36 Cost).
25/10
Oggi il contratto collettivo ha un’EFFICACIA SOGGETTIVA LIMITATA.
Come abbiamo già visto, un PRIMO CRITERIO per verificare a chi si applica il contratto
collettivo è dato dall’ISCRIZIONE al sindacato (i lavoratori danno il mandato al sindacato
per farsi rappresentare; già analizzato); anche se c’è chi dice che non è corretto invocare le
CATEGORIE della rappresentanza, perché è piuttosto il sindacato che avrebbe un potere
originario. Resta comunque il fatto che con l’ISCRIZIONE AL SINDACATO è stabilita
l’efficacia soggettiva limitata verso gli ISCRITTI.
Un SECONDO CRITERIO è quello del RINVIO (può essere ESPRESSO o TACITO. La forma
più comune è quella del RINVIO ESPRESSO; già analizzato); modalità più frequente è il
rinvio ESPRESSO. E’ un altro criterio attraverso il quale si raggiunge l’efficacia soggettiva
limitata del contratto collettivo.
Ma se le parti non sono ISCRITTE al sindacato e non è stato fatto RINVIO, questo significa
che un lavoratore potrebbe ricevere una retribuzione inferiore ai MINIMI previsti dal
contratto collettivo? No, questo in forza dell’ART.36 Cost. che prevede “che tutti i lavoratori
hanno diritto ad una retribuzione PROPORZIONATA alla quantità e qualità del lavoro
svolto, e SUFFICIENTE a garantire a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Come abbiamo già detto in Italia manca una legge che individui i MINIMI RETRIBUTIVI per
ciascun tipo di mansione; se non che i giudici fanno riferimento ai contratti collettivi per
individuare la RETRIBUZIONE MINIMA cui TUTTI i lavoratori subordinati hanno diritto.
Quindi, pur non essendoci un’efficacia “erga omnes” della PARTE ECONOMICA del
contratto collettivo, l’effetto che si raggiunge è che i minimi retributivi si applicano
sostanzialmente a TUTTI i lavoratori.
Alcuni giudici arrivano ad applicare il contratto collettivo a TUTTI i lavoratori anche
facendo leva sull’ART.2099 CC che ci dice che “nel caso in cui non sia pattuito l’importo
della retribuzione, l’importo può essere stabilito dal giudice”; ecco allora che,
sostanzialmente, non solo laddove la retribuzione non è stabilita ma anche laddove la
retribuzione è stabilita ma è inferiore ai minimi, i giudici fanno comunque riferimento a tali
minimi. Ovviamente possono essere attuati degli ADATTAMENTI (ci sono settori in cui, a
volte, i giudici adattano i parametri previsti dal contratto collettivo alla specifica
situazione).
Alcune sentenze ci dicono che i MINIMI (da prendere come riferimento) possono
eventualmente essere anche quelli stabiliti dai contratti collettivi AZIENDALI.
Quando si parla di MINIMI RETRIBUTIVI (fissati dai contratti collettivi) cosa intendiamo?
Intendiamo la RETRIBUZIONE BASE (comprensiva della tredicesima; ma non comprensiva
della quattordicesima, degli scatti di anzianità, di indennità aggiuntive, di premi, ecc..
perché, in riferimento all’art.36 Cost, si deve considerare solo la “retribuzione minima
sufficiente” e, quindi, non tutte le voci della retribuzione).
Quale è il LIMITE di questo tipo di operazione? Per funzionare, serve che il singolo
lavoratore faccia causa al datore di lavoro rivendicando questi minimi, ossia presuppone
l’AZIONE IN GIUDIZIO del lavoratore (ad esempio se ho pattuito con un lavoratore di
dargli 100 e i MINIMI sono 500, se il lavoratore vuole 500 deve farmi causa).
Perciò, il limite di tale tutela è che presuppone l’azione in giudizio (poi, ovviamente, questi
MINIMI saranno applicati solo al lavoratore che ha fatto causa).
Se il datore di lavoro applica a TUTTI i dipendenti solo la PARTE ECONOMICA (sui MINIMI
RETRIBUTIVI) del contratto collettivo, possiamo da questo dedurre il rinvio TACITO
all’intero contratto? Assolutamente no, perché il datore di lavoro applica i minimi perché è
tenuto per legge (in particolare secondo l’art.36 Cost).
Aldilà di tali requisiti/criteri per dare efficacia soggettiva limitata a contratto collettivo,
COSA FA IL LEGISLATORE?
Il legislatore cerca di incentivare le parti ad applicare il contratto collettivo prevedendo,
tramite apposite leggi, BENEFICI-SGRAVI FISCALI/CONTRIBUTIVI a favore dei datori di
lavoro che VOLONTARIAMENTE applicano il contratto collettivo. Oppure tramite le
cosiddette CLAUSOLE SOCIALI (clausole che prevedono, per esempio, che per partecipare
ad un appalto pubblico, un’impresa debba applicare ai propri dipendenti il contratto
collettivo). Tipica clausola di questo tipo è l’ART.36 SL, che prevede che “le p.a., nei bandi
di gara per gli appalti pubblici, devono inserire le CLAUSOLE SOCIALI in cui obbligano i
partecipanti ad applicare il contratto collettivo ai propri dipendenti”.
Per chi viola tali disposizioni è prevista l’esclusione dai benefici; soprattutto se il datore di
lavoro, prima dichiara di applicare il contratto, e poi non rispetta la clausola, non solo
decade dai benefici ma potrebbe anche essere escluso dagli appalti pubblici per gli anni
successivi.
MA I SINGOLI LAVORATORI ENTRANO IN GIOCO IN TUTTO CIO’? Alcuni dicono che i
singoli lavoratori possono pretendere dal proprio datore di lavoro che rispetti quelle
clausole a cui si è vincolato partecipando al bando.
Altri dicono che i lavoratori sarebbero “terzi” ma potrebbero invocare l’art.1411 cc sul
“contratto a favore di terzo” (perciò loro sarebbero terzi ma potrebbero invocare la tutela
secondo l’art.1411 cc).
Altri ancora (tra cui il Vallebona) sostengono che il datore di lavoro (che ha partecipato al
bando), per FATTI CONCLUDENTI, si è impegnato al rispetto del contratto collettivo (quindi
il datore di lavoro, fruendo dei benefici, di fatto si sarebbe vincolato al contratto collettivo).
Esempio di ciò è la LEGGE FINANZIARIA 296/2006 che ci dice che “per poter avere i
benefici normativii/contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro, i datori
DEVONO applicare ai propri dipendenti il contratto collettivo”.
Quali sono questi BENEFICI NORMATIVI e CONTRIBUTIVI (che si possono ottenere solo se
si applica il contratto collettivo ai propri dipendenti)?
Agevolazioni (previste per legge) per assunzioni dei disoccupati di lungo periodo
Agevolazioni per assunzioni dei lavoratori in mobilità
Agevolazioni per assunzioni dei lavoratori con contratto di inserimento
Agevolazioni per assunzioni dei lavoratori in Cassa integrazione guadagni.
MA COSA VUOL DIRE APPLICARE IL CONTRATTO COLLETTIVO AI DIPENDENTI? CIOE’
BASTA APPLICARE SOLO LA PARTE ECONOMICA E NORMATIVA DEL CONTRATTO
COLLETTIVO, OPPURE OCCORRE APPLICARE ANCHE LA PARTE OBBLIGATORIA?
PARTE NORMATIVA: regola i rapporti di lavoro sottostanti (ad esempio i lavoratori hanno
diritto a 5 settimane di ferie, anziché 4).
PARTE OBBLIGATORIA: regola i rapporti tra parti stipulanti (quindi tra associazioni dei
lavoratori ed associazioni datoriali, o singolo datore nei contratti aziendali).
La giurisprudenza ci dice che, per usufruire dei benefici/sgravi, occorre che il datore di
lavoro applichi solo la parte NORMATIVA ed ECONOMICA del contratto collettivo (non
serve quella OBBLIGATORIA).
Se non c’è né iscrizione né rinvio, come si ottiene il consenso dei lavoratori dissenzienti?
PRIMO METODO (Vallebona): condizionare l’assunzione all’accettazione del rinvio
nella lettera di assunzione/della linea contrattuale (io ti assumo solo se tu accetti
che nella lettera di assunzione ci sia il rinvio).
SECONDO METODO (Vallebona): condizionare il mantenimento dell’occupazione, in
certi casi, all’accettazione della linea contrattuale da parte del lavoratore (quindi o il
lavoratore accetta il contratto collettivo ablativo o perde il lavoro)
ALTRA PRECISAZIONE (sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo): tutto quello che
abbiamo detto finora su questo tema è un po' messo in crisi dall’ART.8 del D.L.138/2011
(decreto Sacconi). Esso ha introdotto i cosiddetti CONTRATTI DI PROSSIMITA’ (ossia
particolari contratti collettivi decentrati, o territoriali o aziendali, che, in certe materie e a
certi fini, possono disciplinare la materia con efficacia nei confronti di TUTTI i lavoratori;
inoltre questi contratti possono derogare “in peius” sia al contratto collettivo nazionale che
alla legge).
26/10
Una soluzione normativa più sicura si è avuta nel 1973 quando è stato modificato
l'ART.2113 cc sulle RINUNCE E TRANSAZIONI (esempio è quello di un lavoratore che abbia
un credito arretrato per straordinari e rinuncia ai suoi diritti; questo articolo ci dice che "le
rinunce e le transazioni (poste in essere dal lavoratore) che hanno ad oggetto diritti,
derivanti da norme di legge inderogabili dal contratto collettivo, non sono valide, e il
lavoratore deve impugnarle stragiudizialmente entro 6 mesi o dalla fine del rapporto o
dalla rinuncia (se questa è successiva)”; notiamo che le norme del contratto collettivo
vengono espressamente definite come NORME INDEROGABILI.
Quindi OGGI è l'art.2113 che (implicitamente) riconosce che il contratto collettivo contiene
norme/clausole inderogabili dal contratto individuale.
Perciò il fondamento dell’inderogabilità “in peius” si ricava proprio dall’ ART.2113 cc.
Questo ragionamento ci torna utile in tema di SUPERMINIMI (che è molto utile per chi
viene assunto con un contratto collettivo e apparentemente ha un trattamento di gran
favore).
Esempio: i minimi retributivi del contratto collettivo prevedono che per mansioni di
segretaria io riceva 1.000 euro; in sede di assunzione io (che ho una forza contrattuale
notevole) riesco a strappare un trattamento di 1.100 euro, quindi un SUPERMINIMO di 100
euro rispetto al contratto collettivo.
Dopo 3 anni viene rinnovato il contratto collettivo e i MINIMI retributivi/contrattuali (di
quella categoria) passano da 1.000 a 1.100 euro, quale è la sorte della mia retribuzione?
Cioè io riceverò sempre 1.100 euro (perché il mio superminimo si riassorbe nell’aumento
contrattuale) o avrò diritto a 1.200 euro (perché il mio superminimo galleggia sull’aumento
contrattuale)? Bisogna distinguere tra:
EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO (fino a quando produce il suo effetto
il contratto collettivo)?
Il codice civile, nell'ambito del contratto collettivo corporativo, nell'ART.2074 prevedeva la
regola della ULTRA-ATTIVITA' del contratto collettivo (cioè il contratto collettivo
CORPORATIVO aveva un termine di scadenza; ma, se decorso quel termine, non era stato
stipulato il successivo contratto collettivo, quello precedente PROVVISORIAMENTE
continuava a produrre i suoi effetti fino a quando non veniva sostituito da quello
successivo). In pratica non ci poteva mai essere un vuoto di disciplina (infatti il contratto
collettivo era una FONTE DI DIRITTO, perciò non era possibile immaginare un vuoto
legislativo fra la scadenza del contratto e la stipulazione di quello successivo).
Questa regola, però, non è applicabile al moderno contratto collettivo di diritto comune
(perché è un contratto e non più una legge).
CONTRATTO COLLETTIVO A TERMINE: produce effetti fino al momento della sua scadenza.
Oggi NON E’ ULTRA ATTIVO (cioè non produce effetti anche dopo la scadenza, finché non
viene stipulato quello successivo), tranne quando le parti espressamente lo stabiliscono.
OGGI quasi tutti i contratti collettivi prevedono che, alla scadenza, il contratto continui a
produrre effetti. Questo perché prima della scadenza si aprono le trattative per il rinnovo
(ci dovranno essere “piattaforme” che vengono presentate dai sindacati e si cercherà di
chiudere il rinnovo); ma, tra la scadenza del precedente contratto e il momento in cui si
raggiunge l’accordo e si stipula il contratto ci potrebbe essere un periodo di VACANZA
CONTRATTUALE (ossi di mancanza di un contratto collettivo). Allora se il contratto
precedente espressamente prevede l’ULTRA ATTIVITA’, chiaramente fino alla stipula del
successivo contratto continueranno ad applicarsi le regole del vecchio contratto collettivo;
e la giurisprudenza ci dice che se il contratto collettivo è AZIENDALE non serve neanche
una clausola espressa di ultra attività, ma la volontà del datore di lavoro di continuare ad
applicare il contratto collettivo (anche dopo la scadenza) si può desumere dal suo
comportamento concludente (che, di fatto, abbia continuato a dare continuazione al
contratto collettivo precedente anche dopo la scadenza).
C’è il problema dei MINIMI RETRIBUTIVI (cioè se anche il contratto collettivo non
prevedesse espressamente una clausola di ultra attività, dovremmo immaginare che i
lavoratori siano privi di una tutela tra la scadenza del vecchio e la stipulazione del nuovo
contratto, per quanto riguarda il TRATTAMENTO ECONOMICO)? No, perché comunque
vale il solito ART.36 Cost. e quindi la tutela dei MINIMI CONTRATTUALI/RETRIBUTIVI è
comunque assicurata ai lavoratori.
E’ chiaro che se tra il vecchio e il nuovo contratto collettivo passano moltissimi mesi, ci
potrebbe essere un problema di PERDITA DEL POTERE DI ACQUISTO DEI SALARI; allora il
vecchio accordo/protocollo del 1993 aveva previsto l' INDENNITA' DI VACANZA
CONTRATTUALE (cioè aveva previsto che, scaduto il vecchio contratto e passati 3 mesi di
trattative senza essere arrivati alla stipula del nuovo contratto, i lavoratori avessero diritto a
ricevere IN BUSTA PAGA, fino alla stipula del nuovo contratto, un’indennità commisurata
all’aumento del costo della vita; quindi un’indennità pari al 30% del tasso di inflazione
programmato per il PRIMO PERIODO, e pari al 50% per il PERIODO SUCCESSIVO);
chiaramente erano anni in cui l’inflazione era molto alta.
OGGI (visto che la situazione non è più così) questa indennità è stata sostituita con
l'INDICE IPCA (che è commisurato al costo di certi beni).
CASO: azienda Alfa non iscritta al sindacato ma comunque aveva dato costante
applicazione al contratto collettivo (in particolare ad uno stipulato il 30.03.2015 con
scadenza al 31.12.2017). Ad un certo punto questa azienda (con una lettera) comunica ai
sindacati che non intende più applicare quel contratto collettivo ma quello di un settore
merceologico diverso.
I sindacati agiscono ex art.28 SL. L’azienda si difende richiamando, in primo luogo,
l’ART.2070 cc (dicendo che “ciascuna azienda è libera di applicare il contratto collettivo di
un settore merceologico diverso, salvo che rispetti i minimi retributivi e l’inquadramento
previdenziale del settore di appartenenza”). Il Tribunale di Roma dà ragione ai sindacati e
spiega che, pur essendo libero in origine il datore di lavoro di scegliere di applicare un
contratto o l’altro, nei fatti aveva espresso un rinvio TACITO proprio a quel contratto
collettivo (quindi era vincolato ad applicarlo, quantomeno fino alla scadenza).
Il Tribunale aggiunge anche che se il rinvio fosse stato al contratto collettivo e alle sue
successive modifiche oppure se fosse stato un rinvio ad un contratto collettivo senza
termine di durata, il datore di lavoro non si sarebbe potuto sciogliere unilateralmente,
perché non bisogna confondere 2 situazioni:
RECESSO del sindacato dal contratto collettivo senza termine di durata; in questo
caso è possibile recedere unilateralmente.
RECESSO del singolo datore di lavoro dal "patto di recepimento", o rinvio al
contratto collettivo (non è possibile recedere unilateralmente); una volta che il
contratto collettivo è stipulato, il PATTO DI RECEPIMENTO vincola il datore di lavoro
e il rinvio viene meno solo se si spezza la linea contrattuale.
E' possibile questo (ossia può il successivo contratto collettivo, dello stesso livello del
precedente, contenere disposizioni peggiorative rispetto a quelle del contratto
precedente)? Si, perchè il contratto collettivo non si incorpora nel contratto individuale ma
è semplicemente una fonte di regolazione che disciplina il rapporto e che può variare nel
tempo (quindi è possibile che un successivo contratto collettivo, di uguale livello, preveda
delle modifiche peggiorative rispetto al contratto precedente), con l'unico requisito che
siano fatti salvi i DIRITTI QUESITI (per definizione vedi sopra).
Allora tornando all'esempio: il lavoratore ha diritto al pagamento dello straordinario
pregresso con maggiorazione del 15% (perché si tratta di un DIRITTO QUESITO che il
lavoratore ha maturato nella vigenza del precedente contratto collettivo), ma per il futuro
la maggiorazione sarà del 10% (soluzione della Corte di Cassazione).
Caso particolare riguarda TFR (sappiamo che esso matura, in sostanza, durante tutta la vita
lavorativa del dipendente, e quindi ci sono degli accantonamenti che vanno via via a
sommarsi): anche qui la Cassazione dice che “i singoli accantonamenti, relativi al periodo di
vigenza del PRIMO contratto collettivo non possono essere toccati in senso peggiorativo
dal SUCCESSIVO contratto collettivo” (quindi se ci sono delle disposizioni di miglior favore,
quelle continuano ad applicarsi).
RAPPORTO TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI LIVELLO DIVERSO
Quando un rapporto di lavoro è soggetto a più contratti collettivi di diverso livello (ad es.
NAZIONALE e AZIENDALE; NAZIONALE ed INTERCONFEDERALE), quale prevale nel caso in
cui ci sia conflitto tra questi contratti collettivi di diverso livello?
Vari criteri (non c’è molta unanimità su questo tema):
1. CRITERIO DEL FAVOR: in caso di conflitto tra contratti di livello diverso deve
prevalere sempre quello PIU' FAVOREVOLE al lavoratore. Chi ha sostenuto questa
teoria l’ha fondata sull'art.2077 cc che, però, c'entra poco perchè riguarda il
rapporto tra contratto collettivo ed individuale, e non tra contratti collettivi di
diverso livello)
2. CRITERIO CRONOLOGICO: in caso di conflitto prevale il contratto collettivo
successivo/stipulato per ultimo. Criterio parecchio seguito dalla Cassazione.
3. CRITERIO GERARCHICO: in caso di conflitto prevale il contratto collettivo
NAZIONALE.
4. CRITERIO DELLA SPECIALITA': in caso di conflitto prevale il contratto collettivo
AZIENDALE (cioè più vicino alla situazione da regolare).
La giurisprudenza più recente della Cassazione fa riferimento ad un QUINTO CRITERIO
DELL'EFFETTIVA VOLONTA' DELLE PARTI SOCIALI: in caso di conflitto si dovrebbe verificare,
dall'insieme delle pattuizioni negoziali, quale è il rapporto tra contratti collettivi che gli
stessi sindacati hanno voluto definire/stabilire (quindi assumono rilevanza centrale le
clausole di rinvio contenute negli stessi accordi sindacali, in particolare negli accordi
interconfederali che, talvolta, espressamente individuano i rapporti tra contratto nazionale
e aziendale).
Il problema è che queste clausole di rinvio (da cui appunto si desume la volontà delle parti
sociali) non hanno efficacia REALE ma hanno solo efficacia OBBLIGATORIA ((cioè, se anche
l'accordo interconfederale ha stabilito certe regole per cui ad esempio l’accordo
AZIENDALE può disciplinare solo certe materie e non altre, questa clausola è pur sempre
espressione di autonomia privata e, quindi, il contratto aziendale che viola quanto stabilito
da un contratto NAZIONALE (che a sua volta rispetto quanto stabilito dall’accordo
interconfederale) NON E' NULLO perchè non c'è la violazione di una norma di legge ma
semplicemente di un altro contratto).
Alla fine la giurisprudenza sembra propendere per il CRITERIO CRONOLOGICO (e dice
anche che il contratto collettivo AZIENDALE può disvolere quanto previsto dal contratto
collettivo NAZIONALE senza che per questo sia ritenuto NULLO).
Nel settore pubblico, invece, il contratto collettivo DECENTRATO non può andare in
conflitto con il contratto collettivo NAZIONALE, a pena di NULLITA’ (qui espressamente la
legge stabilisce la regola opposta).
In realtà (con riferimento a tale tema) la giurisprudenza ci dice che bisogna distinguere 2
situazioni:
1. di CONFLITTO REALE: di fatto si segue il CRITERIO CRONOLOGICO.
2. di CONFLITTO SOLO APPARENTE: si segue/si individua la VOLONTA' EFFETTIVA
DELLE PARTI SOCIALI.
02/11
ART.1362, comma 2, cc: “Nell’interpretazione del contratto, per capire quale è stata
l’intenzione delle parti, si deve tener conto anche del loro COMPORTAMENTO SUCCESSIVO
(alla stipulazione del contratto)”.
Quale è il COMPORTAMENTO SUCCESSIVO delle parti che può assumere rilievo (nel caso
del contratto collettivo)?
La giurisprudenza tende a dire che anche la stipulazione di un successivo contratto
collettivo può essere considerata come SUCCESSIVO COMPORTAMENTO delle parti a cui
dare rilievo nell’interpretazione del contratto precedente.
Vallebona critica questa affermazione perché le parti firmatarie del contratto collettivo
(precedente e successivo) non coincidono con i destinatari (con i lavoratori), quindi è un
po' azzardato dire che nell’interpretazione del contratto collettivo vale la successiva
interpretazione; forse e soprattutto perché anche il successivo contratto collettivo è
espressione di autonomia privata (quindi potrebbe disvolere quello che ha voluto il
precedente contratto).
Per quanto riguarda la DEROGABILITA’ “IN MELIUS” del contratto collettivo alle disposizioni
di legge è SEMPRE POSSIBILE.
Però, negli Anni Settanta (periodo di grossa inflazione) il legislatore ha cercato di limitare
l’inflazione stabilendo dei TETTI MASSIMI al contenuto della contrattazione collettiva (cioè,
per esempio, ha detto che la contrattazione collettiva non può stabilire delle SCALE
MOBILI, cioè dei meccanismi di adeguamento dei salari all’inflazione, troppo
favorevoli/alte; oppure ha detto che di certi SCATTI STIPENDIALI/PUNTI DI CONTINGENZA
non si doveva tenere conto nel calcolo del TFR per evitare, sostanzialmente, la spinta
inflazionistica). Infatti i contratti collettivi agganciavano i salari al costo della vita e questo
generava una spinta inflazionistica.
La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità o meno di queste
leggi (che stabilivano dei TETTI MASSIMI alla contrattazione collettiva); essa ha salvato
queste norme (ne ha stabilito la legittimità) perché:
1. si trattava di norme di emergenza (per uscire dalla crisi inflazionistica); quindi ha
considerato che il momento di emergenza giustificasse questo intervento.
2. l’interesse generale prevale sull’interesse collettivo (qui l’interesse generale era
proprio quello di limitare l’inflazione; mentre quello collettivo era l’interesse dei
lavoratori ad ottenere un aumento dei salari)
3. ha riconosciuto che non esiste una riserva a favore dei sindacati/dei contratti
collettivi nella disciplina di certe materie (il legislatore può, quindi, sempre
intervenire in qualsiasi materia, eventualmente anche ponendo dei tetti).
CASO (relativo al rapporto tra legge e contratto collettivo): un lavoratore era stato assunto
con contratto a termine ed aveva proseguito nello svolgimento del proprio attività dopo la
scadenza del termine, per una durata di 15 giorni. Nel momento in cui il contratto a
termine era stato stipulato, la legge in vigore (su questo tema; siamo nel 2013; art.5
d.lgs.368/2001) prevedeva che “se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del
termine, inizialmente fissato o prorogato, il datore di lavoro è tenuto a dare una
maggiorazione retributiva per ogni giorno di prosecuzione del rapporto di lavoro; ma se il
rapporto continua oltre il 30esimo giorno (in caso di contratto inferiore a 6 mesi), o il
50esimo giorno, allora il contratto si intende a tempo INDETERMINATO; salvo condizioni
più favorevoli previste dai contratti collettivi” (quindi venivano richiamate le norme dei
contratti collettivi più favorevoli).
Il contratto collettivo, all’epoca, non si era ancora allineato alle nuove disposizioni di legge
(che avevano allungato questo periodo di tolleranza) e si limitava a dire che “se il rapporto
di lavoro continua oltre il 20esimo giorno (in caso di contratto inferiore a 6 mesi), o il
30esimo giorno (negli altri casi), allora si presume a tempo INDETERMINATO”. C’era, in
sostanza, un disallineamento tra legge e contratto collettivo (la legge, in seguito alle nuove
modifiche, aveva allungato il periodo-cuscinetto portandolo a 30 e 50gg; mentre il
contratto collettivo era ancora allineato alla precedente norma di legge e consentiva un
margine più ristretto).
Il lavoratore (in questione) aveva continuato a lavorare per più di 20 giorni, ma meno di 30
(dopo la scadenza del contratto); quindi a norma di legge non sarebbe scattata la
CONVERSIONE; ma a norma del contratto collettivo SI (nel senso che prevedeva la
disposizione più favorevole).
In questo caso il giudice ha ritenuto di dover applicare il CONTRATTO COLLETTIVO come
norma di miglior favore rispetto alla legge; quindi ha riconosciuto al lavoratore la
CONVERSIONE del rapporto di lavoro.
Questo esempio ci fa capire che non è sufficiente conoscere le disposizioni di legge, ma di
volta in volta dobbiamo anche chiederci se ad un determinato rapporto sia applicabile il
contratto collettivo e se sì, verificare quali sono le condizioni da questo previste (perché
potrebbero essere migliorative).
Ci sarebbe anche una SECONDA INTERPRETAZIONE che tiene conto della seconda parte
del comma 1 dell’art.8 perché esso fa riferimento a “specifiche intese stipulate dalle
predette rappresentanze”. Questa seconda interpretazione ci dice che servono (insieme) un
contratto “cornice” stipulato (a livello aziendale o territoriale) dai sindacati
comparativamente più rappresentativi (a livello nazionale o territoriale) o dalle loro
rappresentanze; ma serve anche una specifica intesa aziendale stipulata necessariamente
dalle RSU e RSA.
La giurisprudenza, per ora, accoglie la PRIMA INTERPRETAZIONE.
QUALI DEVONO ESSERE GLI SCOPI di questo contratto collettivo (per essere definito “di
prossimità”)?
deve essere diretto a risolvere una situazione di crisi
deve essere diretto ad incrementare l’occupazione
deve essere diretto a garantire una maggiore partecipazione dei lavoratori
deve essere diretto a consentire l’avvio di nuove attività (per esempio START UP)
deve essere diretto a consentire nuovi investimenti
deve essere diretto a garantire una maggiore qualità dei contratti
La CRITICA è che tali scopi sono talmente ampi da non garantire, in concreto, la selezione
dei contratti collettivi.
QUALI SONO LE MATERIE (che questi contratti devono avere per oggetto per essere
definiti “di prossimità”)? Sono indicate con un elenco TASSATIVO, ma (come per gli scopi) è
un elenco molto ampio. Sono materie inerenti all’organizzazione del lavoro ed alla
produzione con riferimento a:
disciplina dei controlli tramite impianti audiovisivi
mansioni ed inquadramenti
disciplina dell’orario di lavoro
contratti di lavoro ad orario ridotto (part time)
casi di ricorso alla somministrazione di lavoro
disciplina dei contratti a termine e delle altre forme flessibili di lavoro
modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro (questo comprende un
po' tutte le materie inerenti al lavoro; anche co.co.co, conseguenze del recesso dal
rapporto di lavoro ossia i licenziamenti, ecc..)
PRIMO LIMITE= non possono essere toccate le seguenti materie: licenziamento della
lavoratrice madre; licenziamento della lavoratrice in caso di matrimonio; licenziamenti
discriminatori; licenziamenti di soggetti che fruiscono di congedi (di maternità, paternità,
ecc..).
SECONDO LIMITE: necessario rispetto delle norme costituzionali, comunitarie ed
internazionali.
COMMI 2-3-4: violati perché prevedono che per dare efficacia “erga omnes” ai contratti
collettivi è necessaria la registrazione dei sindacati; prevede anche che si contino il numero
degli iscritti, e che TUTTI i sindacati registrati possano partecipare alla contrattazione
collettiva in proporzione agli ISCRITTI.
Allora questa norma consente a tutti di partecipare alla contrattazione “di prossimità” o
seleziona i sindacati che possono stipulare il contratto con efficacia verso tutti i lavoratori?
La norma fa una selezione; infatti ammette alla contrattazione “di prossimità” SOLO i
sindacati comparativamente più rappresentativi (e le loro RSA e RSU).
Molti, per questo motivo, sostengono che LA NORMA SIA INCOSTITUZIONALE.
La DIFESA di questa norma è che alcuni dicono che l’art.39, commi 2-3-4, non si riferirebbe
ai contratti AZIENDALI ma solo a quelli NAZIONALI (come si capirebbe dal riferimento,
contenuto nell’art.39, alla CATEGORIA).
La CONTROBIEZIONE è che quando si parla di CATEGORIA ci si riferisce ad un gruppo che
comprende anche il contratto AZIENDALE (tuttavia rimarrebbe fuori il problema dei
contratti TERRITORIALI che, sicuramente, sono ricompresi anch’essi nell’art.39).
VALLEBONA: difende l’ART.8 ma si rende conto dei problemi di incompatibilità con l’art. 39.
Sostiene che, affinché sia salvata la compatibilità (con l’art.39), l’art.8 deve essere
interpretato nel senso che “qualsiasi sindacato, che abbia una soglia ragionevole di iscritti
(del 5%), debba poter partecipare alla contrattazione IN PROSSIMITA’, non solo i sindacati
comparativamente più rappresentativi” (però è un’interpretazione che, in realtà, non trova
nessun appiglio nella legge).
CORTE COSTITUZIONALE: non si è, in realtà, ancora espressa sul punto. Nel 2012 è stata
pronunciata una sentenza che ha ritenuto LEGITTIMO l’art.8; ma con quella sentenza, in
realtà, si era posta solo una diversa questione (rispetto a quelle di cui abbiamo parlato
finora).
QUESTIONE: c’era la Regione Toscana che aveva lamentato che l’art.8 violasse la
distribuzione delle competenze tra Stato e Regione, e quindi aveva lamentato la violazione
dell’art.39 Cost, ma soltanto perché i contratti collettivi DI PROSSIMITA’ avrebbero invaso
gli ambiti di competenza regionale in materia di lavoro.
La Corte Costituzionale respinge la questione, ma SOLO perché tutte le materie elencate
nell’art.8 attengono all’ordinamento civile, quindi sono materie di competenza del
legislatore nazionale (non per altri motivi).
In concreto la Corte Costituzionale non si è ancora espressa sulle questioni principali che
abbiamo analizzato prima.
L’unica cosa che la Corte Costituzionale ha precisato è che l’elenco di materie dell’art.8 è
TASSATIVO.
ALTRA NORMA RILEVANTE: COMMA 3, ART.8. E’ una norma pensata per la FIAT (che
qualche mese prima aveva firmato un contratto AZIENDALE che era stato sottoposto a
referendum ed approvato da TUTTI i lavoratori).
E’ una norma che guarda solo al passato e ci dice che “i contratti collettivi AZIENDALI,
sottoscritti prima del 28.06.2011 (data in cui è stato emanato l’accordo interconfederale del
2011), che siano stati approvati con Referendum dalla maggioranza dei lavoratori, hanno
anch’essi efficacia “erga omnes”.
Questa norma NON E’ LEGITTIMA (anche secondo Vallebona) perché viola l’art.39
Costituzione (non può essere salvata perché prevede il criterio della maggioranza
referendaria che, sostanzialmente, non è in linea con i principi della Costituzione).
Vedremo che, però, l’ART.8 è una norma tuttora poco usata perché su di essa pende un
forte sospetto di incostituzionalità (nei prossimi anni potrebbe essere sollevate delle
questioni di incostituzionalità, per cui questi contratti potrebbero essere verosimilmente
travolti).
I sindacati, alla fine, hanno stipulato una CLAUSOLA (nell’accordo interconfederale del
2011) in cui, sostanzialmente, prendono le distanze dall’art.8; in particolare la CGIL dichiara
che non riconoscerà come propri questi contratti di PROSSIMITA’. Quindi, nella pratica,
succede che questi contratti (in deroga alle norme del contratto collettivo e alle
disposizioni di legge) tante volte vengono firmati ma, però, assolutamente non vengono
chiamati “CONTRATTI COLLETTIVI DI PROSSIMITA’” (spetta poi al giudice verificare qual è
effettivamente l’efficacia di questi contratti; se si tratta di CONTRATTI DI PROSSIMITA’
oppure no).
In risposta all’art.8 i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL) hanno aggiunto una
CLAUSOLA/POSTILLA (nel settembre 2011) all’accordo interconfederale (del 28.06.2011) in
cui hanno sostanzialmente depotenziato l’art.8, prevedendo che i sindacati decentrati non
stipuleranno CONTRATTI DI PROSSIMITA’. Il problema è che se poi i sindacati decentrati
decidono di stipulare tali contratti, questi hanno chiaramente efficacia (perché l’art.8 è una
norma di legge che non può che prevalere sulla postilla contrattuale aggiunta dagli stessi
sindacati).
Di fatto questa postilla è rimasta lettera morta perché la legge prevale. (VEDI SOTTO)
2/11 (POMERIGGIO)
CASO 1 (che ha a che fare con l’EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO –
contratto collettivo può essere a tempo DETERMINATO o INDETERMINATO; se il contratto
stabilisce una scadenza non è ultra-attivo dopo la scadenza, nel senso che non produce
effetti anche dopo la scadenza; salvo i casi in cui è espressamente prevista, dalla volontà
delle parti, una “clausola di ultrattività”):
un contratto collettivo NAZIONALE del 1976 che stabiliva dei limiti alla durata della
giornata lavorativa; esso scadeva nel 1980; non conteneva clausole di ultrattività, quindi di
per sé NON ERA ULTRATTIVO. Successivamente, negli anni, è intervenuto un contratto
AZIENDALE (attuativo di un diverso contratto collettivo nazionale) che prevedeva l’ORARIO
MULTIPERIODALE (ossia la possibilità di spalmare l’orario su un periodo più lungo, senza
che fossero considerati straordinario quelle ore aggiuntive rispetto all’orario settimanale).
I lavoratori, allora, hanno preteso di ottenere la maggiorazione per straordinario, facendo
valere il fatto che il contratto collettivo del 1976 scandiva in modo molto rigido l’orario e
non prevedeva la multiperiodalità; inoltre ritenevano che esso fosse ultra-attivo.
La risposta del giudice è stata quella di chiarire che, in mancanza di un’esplicita CLAUSOLA,
i contratti collettivi OGGI non sono ultra-attivi; quindi sicuramente la controversia non
doveva essere decisa sulla base del vecchio contratto del 1976 (scaduto e non ultra-attivo)
ma sulla base del contratto collettivo AZIENDALE secondo il quale NESSUN DIRITTO ALLA
RETRIBUZIONE AGGIUNTIVA PER STRAORDINARIO ERA PREVISTO (perché, in concreto,
non era stato fatto straordinario ma era stato semplicemente utilizzato l’orario
multiperiodale).
Dagli Anni Cinquanta in poi: si sente l’esigenza di regole specifiche per ogni
CATEGORIA, quindi diventa centrale il contratto collettivo NAZIONALE (quindi la
contrattazione si sviluppa su base NAZIONALE – contratto metalmeccanico,
contratto dei chimici, contratto tessile, ecc..).
L’accordo INTERCONFEDERALE resta uno strumento utile (ma solo per disciplinare
certi istituti comuni; per esempio le RSU) e non c’è spazio per la contrattazione
AZIENDALE (non è ancora sviluppata).
In questo accordo era prevista una CLAUSOLA DI USCITA e, proprio questa clausola,
è stata la ragione per cui la CGIL non ha firmato questo accordo. Essa prevedeva che
“successive intese avrebbe previsto delle procedure per consentire, in caso di crisi o
di necessità di favorire l’occupazione, il contratto AZIENDALE potesse derogare “in
peius” al NAZIONALE” (quindi il sistema interconfederale espressamente consentiva
al contratto AZIENDALE di introdurre deroghe peggiorative rispetto a quello
NAZIONALE); questo non è stato assolutamente accettato dalla CGIL (che, infatti,
non ha firmato tale accordo).
A cascata, la rottura sindacale si è avuta anche nel c.c.n.l. , ossia nella contrattazione
nazionale di categoria (infatti nel 2009 c’è stata anche una contrattazione nazionale
di categoria SEPARATA, in particolare nel settore metalmeccanico). Allora nel 2008
era stato stipulato il contratto nazionale metalmeccanico UNITARIO (che doveva
durare fino al 31.12.2011); nel 2009 la FIM e la UILM stipulano (con l’Associazione
Federmeccanica) il nuovo contratto nazionale metalmeccanico SEPARATO.
Quindi nel 2009 per i metalmeccanici abbiamo 2 contratti (quello “unitario” del 2008
che non era ancora scaduto e stipulato da FIM, FIOM e UILM; e quello “separato”
del 2009 stipulato solo dalla FIM e UILM ma non dalla FIOM secondo le nuove
regole). L’anno successivo (2010) solo nel contratto “separato” (non in quello del
2008) del 2009 viene aggiunta una CLAUSOLA DI USCITA (cioè lo stesso contratto
nazionale metalmeccanici dice “sì, il contratto collettivo AZIENDALE può introdurre
condizioni peggiorative, in situazioni di crisi o per favorire l’occupazione”).
Ora vediamo cosa è successo in concreto:
CASO FIAT: la FIOM non ha firmato il contratto metalmeccanico del 2009, mentre
quello del 2008 si e non era ancora scaduto. Ma, allora, un datore di lavoro (FIAT)
può imporre l’applicazione del contratto collettivo nazionale del 2009 anche agli
iscritti FIOM? No, il datore di lavoro non può imporre agli iscritti FIOM dissenzienti
l’applicazione del contratto collettivo nazionale non sottoscritto dalla FIOM stessa
(quindi, sostanzialmente, c’è una sorta di “paralisi” perché la FIAT non può
pretendere l’applicazione di questo contratto collettivo nazionale del 2009 agli
iscritti FIOM; e, in particolare la FIAT non può pretendere di avvantaggiarsi delle
clausole d’uscita).
FIAT, allora, si fa una contrattazione per conto suo (a Pomigliano e Mirafiori; noi
prendiamo in considerazione Mirafiori). Nella pratica si voleva rilanciare la FIAT e lo
strumento per fare ciò era l’impiego totale delle macchine, cambiando i turni di
lavoro (ci si era accorti che era necessario impiegare meglio le macchine e per farlo
occorreva cambiare tutti i turni di lavoro).
Inoltre c’era anche bisogno di combattere l’ASSENTEISMO e quindi eliminare la
copertura dei primi giorni di malattia per quei lavoratori che non erano per legge
coperti.
MORALE: FIAT si impegna a realizzare maggiori investimenti ma SOLO al prezzo che
i lavoratori accettino questa nuova contrattazione collettiva (che, però, è in deroga
rispetto al contratto collettivo NAZIONALE di lavoro).
FIOM non accetta questa nuova contrattazione; però l’accordo viene sottoposto a
Referendum tra i lavoratori (nel 2010). I lavoratori accettano.
OGGI, per effetto dell’art.8 comma 3 del decreto Sacconi, quell’accordo collettivo
FIAT (stipulato senza la FIOM, ma poi approvato dal Referendum di TUTTI i
lavoratori prima del Giugno 2011) è efficace “erga omnes” (almeno fino a quando
qualcuno non solleverà la questione davanti alla Corte Costituzionale).
Sta di fatto che FIAT viene messa all’angolo da queste controversie e allora decide di
uscire da Confindustria e di denunciare tutti i contratti collettivi precedentemente
applicati (FIAT esce da Confindustria, non vuole più che le si applichi né il contratto
collettivo nazionale del 2008 né quello del 2009 perché essa era tenuta ad applicarli
per il fatto di essere iscritta al sindacato); può farlo? SI. Abbiamo detto che “se il
vincolo all’applicazione del contratto collettivo nazionale deriva dall’iscrizione, il
datore di lavoro o il lavoratore per liberarsi dal vincolo si deve disiscrivere dal
sindacato, con effetto dalla scadenza del contratto collettivo”; quindi fuoriuscendo
da Confindustria, dal momento della scadenza di quei contratti collettivi nazionali
del 2008 e 2009, FIAT non è più vincolata. A quel punto FIAT sottoscrive un contratto
collettivo AZIENDALE con chi ci sta (quindi con FIM e UILM, ma non con FIOM);
questo è il contratto del 2010 ed è un contratto di 1° LIVELLO (non ha più come
riferimento il contratto collettivo nazionale).
Tutta questa vicenda incide, sin da subito, sulla possibilità di costituire o meno RSA
e RSU in azienda: perché dopo che FIAT è uscita da Confindustria e ha denunciato
tutti i contratti collettivi nazionali applicati, possono ancora essere costituite RSU e
RSA presso FIAT oppure no?
o RSU: la fonte è un accordo interconfederale sempre firmato da Confindustria,
CGIL, CISL e UIL. Se FIAT è uscita da Confindustria, può ancora costituire RSU?
NO (quindi FIAT, per effetto dell’uscita da Confindustria, non è più obbligata
a consentire la costituzione di RSU).
o RSA: sicuramente la FIAT è ancora obbligata a consentire la costituzione di
RSA (perché lo dice l’art.19 SL). Ma nell’ambito di quali sindacati?
Fino al 2013 bisognava che il sindacato avesse firmato il contratto collettivo
applicato in azienda, ma FIOM non lo aveva fatto (quindi capiamo perché
FIOM aveva perso la possibilità di costituire RSA).
Su questo caso, però, si è arrivati davanti alla Corte Costituzionale che, con la
sentenza 231/2013, ha stabilito che (dal 2013) è sufficiente che il sindacato
partecipi alle trattative (anche se poi non firma il contratto collettivo
applicato in azienda); e quindi FIOM ha potuto riavere le proprie RSA.
RIASSUMENDO: in concreto FIAT aveva bisogno di liberarsi dal contratto collettivo
metalmeccanico perché era un contratto vincolante che non le lasciava margine,
sostanzialmente sugli orari/sui turni di lavoro. Allora aveva pensato di utilizzare un
contratto AZIENDALE che potesse derogare al contratto NAZIONALE (e potesse quindi
prevalere sul contratto nazionale metalmeccanico che era troppo rigido).
Il PROBLEMA FONDAMENTALE è stato che questo contratto AZIENDALE, FIAT all’inizio lo
ha stipulato (quindi c’era il contratto nazionale metalmeccanico e questo contratto
aziendale, ma non è stato firmato dalla FIOM (perciò era un contratto SEPARATO). In più la
FIOM non aveva mai accettato le regole (che abbiamo visto appena sopra) previste
nell’accordo quadro 2009 che consentivano espressamente al contratto AZIENDALE di
derogare al NAZIONALE in caso di crisi.
Erano necessarie queste regole esplicite o il contratto AZIENDALE avrebbe comunque
potuto derogare il contratto NAZIONALE? Non erano strettamente necessarie queste
regole (perché abbiamo visto che nei rapporti tra contratto AZIENDALE e NAZIONALE, di
fatto, l’aziendale può derogare al nazionale senza per questo essere nullo), ma il problema
era che non essendo FIOM vincolata da questo contratto aziendale, comunque tale
contratto non poteva essere efficace verso gli iscritti FIOM. A quel punto FIAT ha deciso di
fuoriuscire da Confindustria per slacciarsi dal contratto collettivo NAZIONALE
metalmeccanico, ed ha preteso di applicare soltanto il contratto AZIENDALE di 1° LIVELLO;
ma si trattava, ancora una volta, di un contratto SEPARATO (quindi i problemi, di fatto,
sono rimasti).
Nel 2011 (in teoria si è avuta la nuova saldatura dell’unità sindacale): è stato
stipulato un nuovo ACCORDO INTERCONFEDERALE (che ha sostituito l’accordo
quadro del 2009). Esso è stato stipulato anche dalla CGIL (quindi viene superata la
frattura sindacale a livello interconfederale; è UNITARIO).
Questo accordo prevede ancora i 2 livelli (NAZIONALE ed AZIENDALE).
Questa volta la CGIL firma quello che non aveva voluto firmare nel 2009, cioè firma
la previsione delle CLAUSOLE D’USCITA (cioè la previsione che specifiche intese
avrebbero potuto prevedere che il contratto AZIENDALE derogasse “in peius” al
contratto NAZIONALE, in caso di crisi; art.7). Ma SOLO in caso di crisi e a fronte di
specifiche procedure (quindi un’apertura limitata alla derogabilità del contratto
collettivo NAZIONALE da parte di quello AZIENDALE).
In seguito viene emanato l’ART.8 del decreto Sacconi, che è molto più pesante
rispetto a quanto affermato nell’art.7 dell’accorso del 2011(infatti dice che “i
CONTRATTI DI PROSSIMTIA’, in quelle materie e a quelli scopi, possono SEMPRE
derogare al contratto nazionale e anche alla legge, con effetto verso tutti i
lavoratori”).
Ma, allora, valgono le limitate aperture alla deroga dell’art.7 dell’accordo del 2011, o
vale l’apertura alla deroga molto più pesante prevista dall’art.8 del decreto Sacconi?
I sindacati cercano di far prevalere gli stretti limiti previsti dall’ART.7, inserendo
nell’accordo interconfederale (del 2011) una POSTILLA (nel settembre 2011) dove
dicono che “CGIL, CISL, UIL e Confindustria si impegnano a far rispettare gli stretti
limiti dell’art.7, e non consentire quella ampia deroga prevista invece dall’art.8 del
decreto Sacconi”.
Ma il problema è che questa POSTILLA è pur sempre un semplice accordo
interconfederale e non può travolgere quella che è l’efficacia dell’art.8 (che è una
norma di legge). (VEDI SOPRA)
Quindi l’art.8, di fatto, prevale. Quindi questa postilla non è in grado di depotenziare
l’efficacia dell’art.8; l’unica questione ancora irrisolta è se l’art.8 sia legittimo oppure
no.
Nel 2014 (10 Gennaio): l’accordo del 2012-2013 è stato seguito dalla stipulazione di
un ultimo ACCORDO INTERCONFEDERALE (TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA
E SULLA RAPPRESENTATIVITA’; è un accordo UNITARIO).
In questo accordo Confindustria, CGIL, CISL e UIL hanno ridefinito sia le regole per
la contrattazione collettiva sia le regole per la rappresentanza sindacale in azienda.
Hanno, sostanzialmente, riscritto queste regole nel senso di una maggiore
valorizzazione del PRINCIPIO DI MAGGIORANZA (cioè chi ha la maggioranza
dovrebbe poter sottoscrivere il contratto collettivo con efficacia anche nei confronti
delle minoranze).
8/11
OBIETTIVO DEL T.U. 2014: è quello di garantire la misurazione della rappresentanza e della
rappresentatività dei sindacati (cioè pesare la forza dei sindacati in ciascun settore
contrattuale), al fine di individuare quali sono i sindacati che sono rappresentativi e che
devono essere effettivamente ammessi alle trattative per la stipulazione del contratto
collettivo (cioè con cui il datore di lavoro deve trattare).
Nel settore PRIVATO, in realtà, manca una regola legale che preveda un diritto dei sindacati
di essere ammessi alle trattative; ecco che questo T.U. introduce la REGOLA DEL 5% (per
cui i sindacati che hanno un seguito del 5%, tra i lavoratori, dovrebbero essere ammessi
quantomeno alle trattative da parte dei soggetti che sono vincolati da questo accordo
interconfederale).
Questo T.U. detta anche regole per la STIPULAZIONE dei contratti collettivi, cioè prevede
che possono essere stipulati i contratti collettivi in cui il sindacato rappresenti il 50%+1 dei
lavoratori.
Individua anche regole per la COSTITUZIONE DI RSU in azienda.
Chiaramente, poi, i c.c.n.l dovranno RECEPIRE tali regole perché effettivamente possano
avere efficacia concreta.
Era previsto che questi dati (raccolti dall’INPS) fossero trasmessi al CNEL (Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro), ma siccome se il CNEL si discute se abolirlo o no,
allora con un accordo del Luglio 2017 i sindacati, i datori di lavoro e l’INPS hanno fatto una
convenzione per cui sarà sempre l’INPS (e non il CNEL) a svolgere tale funzione (quindi i
dati raccolti vengono elaborati all’INPS che, entro la fine dell’anno raccoglie i dati, e poi nei
primi mesi dell’anno successivo dovrebbe emanare tali dati).
Al contempo vengono misurati anche i DATI ELETTORALI (ossia i dati relativi alle elezioni
delle RSU). Essi vengono raccolti e trasmessi, in ogni singola azienda, presso il Comitato
dei Garanti (che in sostanza è istituito presso l’ISPETTORATO DEL LAVORO).
Quindi presso l’Ispettorato del lavoro vengono raccolti i dati sul numero di voti che ciascun
sindacato ha ottenuto nelle elezioni delle RSU.
Anche questi dati vengono elaborati e servono per individuare la CONSISTENZA/il PESO
ELETTORALE del sindacato.
DATI ASSOCIATIVI + DATI ELETTORALI = PESO DEL SINDACATO
Allora (ripetiamo quanto già detto) il sindacato con il 5% di seguito tra i lavoratori
dell’azienda ha diritto ad essere ammesso alle trattative per la stipula del c.c.n.l. (quindi i
sindacati non possono più essere esclusi dalle trattative).
Inoltre, il T.U. dice che il raggiungimento del 50%+1 del seguito da parte dell’insieme dei
sindacati consente la FIRMA del contratto collettivo nazionale di lavoro (cioè il c.c.n.l. può
essere stipulato con vari sindacati che nel loro insieme, però, rappresentino almeno il
50%+1 dei lavoratori); questo dovrebbe contribuire far venir meno quel fenomeno della
“contrattazione separata” (per cui i contratti collettivi vengono firmati solo con i sindacati
che rappresentano solo una piccola parte dei lavoratori).
Inoltre, si dice che “le controparti (cioè i datori di lavoro) favoriranno la presentazione di
PIATTAFORME SINDACALI UNITARIE e, quantomeno, di piattaforme sindacali cui
partecipano i sindacati che hanno il 50%+1 tra i lavoratori” (cioè si apre la trattativa su
rivendicazioni, non presentate da chiunque, ma su rivendicazioni da chi ha il seguito di
almeno il 50%+1 dei lavoratori).
Queste regole dovrebbero potenziare la “contrattazione collettiva” e depotenziare la
“contrattazione separata”.
Il T.U. del 2014 detta anche regole sul rapporto tra contratto collettivo NAZIONALE ed
AZIENDALE (in sostanza riprende le stesse regole dell’accordo interconfederale del 2011): il
contratto NAZIONALE determina le materie di cui il contratto AZIENDALE può occuparsi.
Può stipulare il contratto a livello AZIENDALE o la RSU (a maggioranza) o l’insieme delle
RSA (che abbiano la maggioranza delle deroghe), ma in questo ultimo caso il contratto
collettivo AZIENDALE può essere sottoposto a REFERENDUM sostanzialmente
CONFERMATIVO, e i lavoratori potrebbero disvolere quello che le RSA hanno concordato.
Inoltre anche il T.U. del 2014 contiene una CLAUSOLA D’USCITA che prevede che, in certe
materie-secondo certe procedure e a certe condizioni (per esempio per far fronte a
situazioni di crisi), il contratto AZIENDALE possa introdurre deroghe peggiorative rispetto
al contratto NAZIONALE (questo vuol dire che, in questi casi, siamo certi che l’effettiva
volontà delle parti è proprio quella di consentire la deroga peggiorativa).
Il T.U. del 2014, nella sua seconda parte, detta anche le regole sulle RSU.
Principali novità (che non sono ancora state recepite da molti c.c.n.l., quindi è un processo
ancora in corso di svolgimento):
possono presentare liste per la costituzione di RSU in azienda o i sindacati aderenti
alle Confederazioni firmatarie dell’accordo (che sono CGIL, CISL, UIL); o i sindacati
firmatati di contratto collettivo nazionale di lavoro; o le associazioni di base con il
seguito del 5% in azienda ma a condizione che accettino integralmente il contenuto
del T.U. del 2014 (la vera novità è che i sindacati di base (non firmatari del c.c.n.l.),
per poter partecipare alle RSU, devono accettare tutte le regole sulla
rappresentanza che abbiamo appena visto; tra cui anche la REGOLA DELLA
MAGGIORANZA nella stipulazione del c.c.n.l.).
Quindi, fino al 2014 il sindacato di base poteva avere una sua componente nelle
RSU se aveva il 5% di seguito in azienda; OGGI occorre che il sindacato di base
anche accetti le regole previste dal T.U. del 2014.
Ma i sindacati di base solitamente sono MINORITARI (e quindi non possono
accettare la REGOLA SULLA MAGGIORANZA perché loro sono sempre in
minoranza); allora CUB (la Federazione di base) ha fatto ricorso al Tribunale e ha
richiesto che venisse accertata la NULLITA’ dell’intero accordo del 2014.
Il Tribunale di Roma nega al CUB la legittimazione a fare ricorso perché non può
pretendere di vedere accertata la nullità di un accordo stipulato tra soggetti di cui
non fa parte; il Tribunale ci dice che “il T.U. ha efficacia limitata alle Confederazione
che lo hanno stipulato; non ha effetto nei confronti dei sindacati rimasti terzi
(rispetto all’accordo)”. Quindi CUB non ha un interesse per vedere accertata la
nullità di tale T.U. e il suo ricorso è stato respinto.
Regola dell’INTEGRALE ELEZIONE DELLE RSU (quindi non più 2/3 ed 1/3 riservato)
Sono valide le elezioni delle RSU, anche se partecipano meno del 50% dei lavoratori.
Ultima parte del T.U. contiene le CLAUSOLE DI RAFFREDDAMENTO o DI TREGUA: il T.U. qui
fa rinvio ai c.c.n.l., cioè ci dice che “i contratti collettivi nazionali di lavoro definiranno le
CLASUOLE DI TREGUA e le PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO per garantire l’ESIGIBILITA’
degli accordi (ossia che il datore di lavoro possa far conto che l’accordo AZIENDALE o
NAZIONALE, che è stato stipulato, sia rispettato e non venga messo di nuovo in
discussione prima della scadenza”.
Molto discussa è l’EFFICACIA di queste clausole: nel T.U. si dice che sono VINCOLANTI per
TUTTI i sindacati, ma NON SONO VINCOLANTI per i lavoratori.
OBIETTIVO DI QUESTA NORMA: imporre l’obbligo di tregua anche a quei sindacati (per
esempio i CUB) che scelgono di non firmare il contratto AZIENDALE.
Ma serve sempre che queste clausole vengano recepite dal c.c.n.l. per poter avere effetto.
Perciò, quando si vogliono applicare tutte queste regole che abbiamo visto (previste dal
T.U. del 2014) l’importante è verificare che QUESTE REGOLE SIANO RECEPITE NEL
CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO (che dobbiamo prendere in
considerazione).
CONDOTTA ANTISINDACALE
ART.28 SL: è una norma che introduce uno speciale strumento processuale, cioè l’AZIONE
DI REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE (vuol dire che se un datore di lavoro
tiene un comportamento che lede/pregiudica gli interessi del sindacato, il sindacato può
fare ricorso, ex art.28, per ottenere la CESSAZIONE di quella condotta e la RIMOZIONE
degli effetti).
Esempio: datore di lavoro che si rifiuta di concedere l’assemblea retribuita; il sindacato
esterno può agire ex art.28 e chiedere che il datore venga condannato a consentire
l’assemblea e a rimuovere appunto gli effetti pregiudizievoli.
PERCHE’ NEL 1970 SI E’ INTRODOTTO L’ART.28?
Questa norma è stata introdotta perché ci si è accorti che gli strumenti ordinari non erano
sufficienti (in Italia, infatti, le azioni durano 20-25 anni, quindi era impensabile che l’azione
contro il diniego di un’assemblea durasse 10-20 anni). Questa nuova azione è molto
veloce, infatti è un’azione SOMMARIA e ha carattere INIBITORI (nel senso che
inibisce/proibisce al datore di lavoro di continuare a tenere quell’atteggiamento, a tutela
dell’interesse sindacale leso).
ART.28 SL: “qualora il datore di lavoro porta in essere comportamenti diretti ad impedire o
limitare l’esercizio della libertà sindacale, della attività sindacale o del diritto di sciopero, su
ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse,
il Tribunale (del luogo dove è stato posto in essere il comportamento) nei 2 giorni
successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga
sussistente la violazione, ORDINA al datore di lavoro (con decreto MOTIVATO
immediatamente esecutivo) la CESSAZIONE del comportamento e la RIMOZIONE degli
effetti”.
E’ una NORMA DI CHIUSURA (cioè è uno strumento che si aggiunge agli altri strumenti di
tutela ordinari, per evitare le lungaggini dei processi che avrebbero compromesso la tutela
celere/immediata).
E’ una tutela INIBITORIA (inibisce al datore di lavoro di continuare a tenere un certo
comportamento) e RIPRISTINATORIA (perché l’obiettivo è di ripristinare il diritto leso;
quindi rimettere il sindacato nell’esercizio dei propri diritti)
COSA VUOL DIRE “che vi abbia interesse”? Significa che, quantomeno, deve esserci un
collegamento tra interesse collettivo (rappresentato dal sindacato) e quella che è la
situazione che è stata lesa/danneggiata.
Non è necessario che ci siano iscritti al sindacato in azienda (perché questo possa
intervenire), ma deve esserci solo una “colleganza di interessi”.
Altra cosa che notiamo è che chiaramente c’è una sfasatura tra i sindacati che possono
agire ex art.28 e i sindacati che, per esempio, hanno diritto ad avere la propria RSA (cioè un
sindacato potrebbe avere diritto ad avere la propria RSA in azienda, perché per esempio
ha partecipato alle trattative per la stipula del contratto aziendale, SENZA avere diritto di
tutelare quelle situazioni ex art.28 perché non è organismo locale di sindacato nazionale).
Subito dopo che l’art.28 è stato emanato, sono subito sorti DUBBI DI LEGITTIMITA’
COSTITUZIONALE della norma.
Qualcuno si è chiesto se violasse o no gli artt.3-39 Cost (cioè se violasse il “principio di
uguaglianza” e il “principio di libertà sindacale”); cioè se fosse contraria alla Costituzione la
scelta di attribuire questo strumento processuale non a TUTTI i sindacati ma solo ad alcuni
sindacati selezionati (cioè organismi locali dei sindacati nazionali).
La Corte Costituzionale (SENTENZA 54/1974) ha escluso che l’art.28 sia incostituzionale
perché è uno strumento che si AGGIUNGE agli ordinari strumenti di tutela (quindi nulla
toglie ai sindacati ai quali non è permesso l’utilizzo) ed è legittima la selezione (cioè è
ragionevole la scelta di attribuire questa particolare prerogativa SOLO ai sindacati dotati di
effettiva forza/rappresentatività dei lavoratori).
Vero è che nel nostro ordinamento sono vietate, solo le condotte antisindacali TIPICHE, ma
anche quelle ATIPICHE.
Esempio di condotta antisindacale TIPICA: datore di lavoro che nega l’assemblea (perché
c’è una norma, l’art.20 SL, che espressamente riconosce questo diritto).
Quindi la condotta antisindacale è TIPICA quando la condotta è ESPRESSAMENTE prevista
da una norma di legge o da una norma del contratto collettivo.
Per esempio, anche la violazione della PARTE NORMATIVA (che regola i diritti dei
lavoratori) del contratto collettivo è considerata condotta antisindacale ATIPICA se è
sostanzialmente diretta a svilire il sindacato. Violazione della PARTE OBBLIGATORIA del
contratto collettivo è anch’essa condotta antisindacale.
RIFIUTO DELLA TRATTATIVA: in linea di principio non c’è un diritto del sindacato ad essere
ammesso alla trattativa, quindi è LEGITTIMA la condotta del datore che rifiuta di aprire le
trattative con un certo sindacato; A MENO CHE la legge non preveda espressamente un
“obbligo a trattare” (per esempio la legge 223/1991 sui licenziamenti collettivi
esplicitamente ci dice quali sono i sindacati destinatari delle comunicazioni di apertura
della procedura ed espressamente ci dice che devono essere avviate le consultazioni con
QUEI sindacati).
Quindi il rifiuto del datore di lavoro di aprire le trattative con un certo sindacato è
condotta antisindacale (TIPICA) SOLO SE LA LEGGE PREVEDE ESPRESSAMENTE UN
“OBBLIGO A TRATTARE” e il datore di lavoro non rispetta tale obbligo per mettere quel
sindacato in cattiva luce rispetto ai lavoratori.
La sentenza della Cassazione del 2013 ci dice, infatti, che “il rifiuto a trattare è ILLEGITTIMO
quando risulta un uso distorto da parte del datore (della propria libertà) che è lesivo della
libertà sindacale (ossia quando il datore non tratta con un sindacato per denigrarlo agli
occhi dei lavoratori)”.
E’ chiaro, però, che se in un settore è stato recepito il T.U. del 2014, in quel settore i
sindacati con il 5% di seguito hanno diritto ad essere sempre ammessi alle trattative
(quindi, in questo caso, è condotta antisindacale la mancata apertura delle trattative).
9/11
CONDOTTA ANTISINDACALE: qualsiasi comportamento diretto ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà sindacale, dell’attività sindacale e del diritto di sciopero.
CONDOTTA PLURIOFFENSIVA: condotta che lede sia l’interesse del sindacato che
l’interesse del singolo lavoratore.
Esempio: trasferimento di un dirigente di RSA intimato senza il nulla-osta sindacale.
Contro questo trasferimento hanno interesse ad agire tanto il SINDACATO (ex art.28),
quanto il SINGOLO LAVORATORE (con ricorso individuale).
PROBLEMA: poiché queste azioni possono essere decise da 2 giudici diversi, potremmo
avere il caso in cui nella causa (iniziata dal sindacato ex art.28) il giudice magari ritenga
“che la condotta non è antisindacale (o viceversa)”, mentre nella causa (intentata dal
singolo lavoratore) il giudice dia una soluzione opposta; quindi possibile contrasto tra
queste 2 decisioni.
Allora ci si è chiesti: in questo caso c’è un CONFLITTO DI GIUDICATI (cioè c’è un contrasto
inconciliabile tra queste pronunce) oppure no? La Cassazione ci dice che il contrasto può
essere solo “in pratica”, ma non c’è un conflitto giuridico (ossa le due pronunce possono
coesistere, non sono incompatibili) perché l’oggetto del giudizio è diverso (nel primo caso
si tutela l’interesse collettivo, nel secondo caso si tutela l’interesse individuale); quindi non
c’è conflitto di giudicati tra queste due sentenze.
Ma può succedere che, per esempio, il singolo lavoratore chiude la questione con una
TRANSAZIONE (quindi il singolo lavoratore “transa” con il datore di lavoro).
In questo caso la controversia tra datore di lavoro e sindacato può proseguire oppure la
transazione influenza anch’essa? La giurisprudenza ci dice che la controversia (ex art.28 SL;
tra datore di lavoro e sindacato) può proseguire perché l’interesse tutelato (in capo al
sindacato) resta (infatti non c’è “conflitto di giudicati”, quindi le 2 pronunce possono
andare avanti indipendentemente); l’unica cosa non più possibile (nella causa ex art.28, tra
datore di lavoro e sindacato) è quella di ottenere una pronuncia che ripristini la situazione
a vantaggio del lavoratore (perché quel lavoratore ha rinunciato ad essa).
Esempio: se si ha un licenziamento discriminatorio, certamente non si potrebbe arrivare ad
una REINTEGRAZIONE del lavoratore che ha “transato”, ma si può arrivare ad affermare
che quella condotta del datore è antisindacale.
Il giudice (sulla base delle “sommarie informazioni”), in 2 giorni (in realtà non sono proprio
2gg ma comunque il termine è molto breve), pronuncia un DECRETO MOTIVATO e
PROVVISORIAMENTE ESECUTIVO (vuol dire che la parte soccombente, in questo caso il
datore di lavoro, deve ottemperare a quanto il giudice ordina).
Con questo DECRETO il giudice, se ritiene provata la condotta antisindacale, ordina al
datore di lavoro la CESSAZIONE della condotta e la RIMOZIONE degli effetti (ossia il
RIPRISTINO DELLA SITUAZIONE PRECEDENTE). Qui termina la PRIMA FASE (ad istruttoria
sommaria).
Qual è il CONTENUTO del decreto (emanato dal giudice al termine della PRIMA FASE)? Il
giudice ordina al datore di lavoro la CESSAZIONE della condotta e la RIMOZIONE degli
effetti (ossia la rimessa in pristino della situazione precedente). Questo decreto ha efficacia
fino alla sentenza (che chiude la seconda fase); ovviamente se la parte soccombente non
presenta opposizione la SECONDA FASE non si apre e il tutto termina con il DECRETO. Se
poi il decreto non viene rispettato, allora il datore di lavoro verrà sanzionato.
Un’altra sanzione che i datori di lavoro temono molto è quella della REVOCA DEL CREDITO
D’IMPOSTA che incentiva le nuove assunzioni per incremento dell’organico (infatti i datori
di lavoro condannati per condotta antisindacale rischiano anche di perdere la possibilità di
accedere ad alcuni benefici che sono riservati a quei datori di lavoro che rispettano le varie
disposizioni).
E il sindacato (che invece agisce ex art.28) può ottenere un decreto di cessazione della
condotta e di rimozione degli effetti? SI.
Ma come RIMOZIONE DEGLI EFFETTI si deve intendere la REINTEGRAZIONE del lavoratore
oppure no? Varie tesi:
Alcuni dicono ASSOLUTAMENTE NO perché non sarebbe congruo che il sindacato
potesse ottenere una tutela maggiore rispetto a quella del singolo.
Altri dicono che, in realtà, l’interesse (del sindacato e del singolo lavoratore) è
diverso, e quindi si dovrebbe ammettere anche che il sindacato potesse ottenere
una PRONUNCIA DI REINTEGRAZIONE.
Il Tribunale di Roma ha “sposato” la PRIMA TESI (ossia ci dice che il sindacato non può
ottenere la reintegrazione, che sostanzialmente è un provvedimento che neppure il singolo
lavoratore può ottenere); l’unica sanzione che il sindacato può ottenere è quella di
ottenere la PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA.
TRASFERIMENTO D’AZIENDA: Anche per il trasferimento d’azienda, per le imprese con più
di 15 dipendenti, sono previste delle procedure sindacali (cioè almeno 25gg prima che sia
raggiunto un accordo vincolante, le parti devono dare COMUNICAZIONE dell’intenzione di
procedere al trasferimento d’azienda ai rispettivi sindacati).
Cosa succede se i datori di lavoro omettono di effettuare tali COMUNCIAZIONI? La
giurisprudenza dice che si è sicuramente di fronte ad un’ipotesi di condotta antisindacale,
ma non solo per questo si può considerare INVALIDA la procedura (quindi, anche in questo
caso, ci sarà la condanna, la pubblicazione, l’ordine di ripetere la procedura; ma non per
questo si può ritenere invalido il trasferimento d’azienda).
SCIOPERO: datore di lavoro che subisce lo sciopero dei suoi dipendenti e, a fronte dello
sciopero, chiede agli altri lavoratori (in forze presso la propria azienda) di svolgere anche le
mansioni degli scioperanti.
Nel caso specifico, però, c’era stata una dequalificazione temporanea di quei lavoratori
(perché a quei lavoratori, che normalmente svolgevano attività di vigilanza, era stato
chiesto di svolgere mansioni inferiori di manovra dei treni).
E’ intervenuto il sindacato (sempre ex art.28).
E’ legittimo il cosiddetto CRUMIRAGGIO (cioè la sostituzione dei lavoratori scioperanti con
altri lavoratori)? Se il crumiraggio è ESTERNO (ossia assunzione di altri lavoratori per
sostituire quelli in sciopero) è SEMPRE VIETATO.
Ma in questo caso il crumiraggio è INTERNO (ossia vengono adibiti lavoratori già
dipendenti dell’azienda a mansioni diverse); la Cassazione (se ricordiamo) ci dice che “è
legittima l’adibizione dei lavoratori non scioperanti a mansioni equivalenti; è illegittima
l’adibizione dei lavoratori non scioperanti a mansioni inferiori” (quindi non si potrebbero
rimpiazzare temporaneamente i lavoratori scioperanti con lavoratori di qualifiche superiori,
demansionando questi ultimi).
Infatti nel caso specifico la condotta del datore di lavoro è stata considerata antisindacale.
Ovviamente OGGI, con la modifica dell’art.2013 cc, tutto quello che è legittimo (ex 2103)
dovrebbe essere legittimo anche in questo ambito.
CONDOTTA ANTISINDACALE e TRATTATIVE: vari casi in cui c’era stata l’esclusione del
sindacato dalle trattative per il rinnovo del contratto collettivo.
CASO: non c’era nessun obbligo previsto dai contratti collettivi ad aprire le trattative con
TUTTI i sindacati e l’azienda, in effetti, aveva convocato solo determinati sindacati a
discapito di altri.
La Cassazione ci dice che, in casi come questi, la mancata apertura delle trattative a tutti i
sindacati NON E’ CONDOTTA ANTISINDACALE, SALVO CHE la mancata apertura delle
trattative con un certo sindacato non sia diretta a depotenziarlo.
CASO TIM: c’era stato un ACCORDO INTEGRATIVO (ossia un contratto AZIENDALE) in cui si
era concordato che il rinnovo del contratto aziendale sarebbe stato stipulato con tutti i
sindacati che avessero una certa rappresentatività in azienda (e tra l’altro facendo espresso
riferimento al T.U. del 2014).
Il giudice, in questo caso, ha ritenuto che l’obbligo di ammettere TUTTI i sindacati alle
trattative derivasse da una specifica disposizione del contratto collettivo, quindi la mancata
apertura delle trattative con quei sindacati che (per espressa previsione del contratto
collettivo) dovevano essere convocati è stata senza dubbio ritenuta CONDOTTA
ANTISINDACALE.
USI AZIENDALI
Occorre distinguere diversi tipi di USI:
NORMATIVI: sono FONTI DI DIRITTO oggettivo; si dice che sono degli usi che i
soggetti consociati seguono in quanto ritenuti OBBLIGATORI.
Si distinguono, loro volta, in:
o Usi “PRAETER LEGEM” (vuol dire che “manca la legge”): usi che si sono
sviluppati in mancanza di norme di diritto, e che i consociati rispettano in
quanto ritenuti obbligatori/vincolanti.
o Usi “SECUNDUM LEGEM” (vuol dire “secondo la legge”): usi che sono
espressamente richiamati dalle norme di diritto (quindi la norma di legge
richiama un uso).
Esempio: l’art.2118 cc che riguarda la DURATA DEL PREAVVISO (qui c’è una
norma che ci dice che “la durata del preavviso è determinata dai contratti
collettivi o, in mancanza, dagli USI o secondo equità”).
Quelli che non sono assolutamente rilevanti sono gli USI “CONTRA LEGEM” (nel
senso che se una norma disciplina una certa materia, è chiaro che l’uso non può
sovvertire quello che la norma prevede).
NEGOZIALI: sono richiamati dall’ART.1340 cc. Sono prassi/usi che sostanzialmente
vengono ad integrare il contratto di lavoro, a meno che espressamente non risulta
che le parti non li hanno voluti (e ci sono spesso le “raccolte di usi” tenute dalle
Camere di Commercio).
La differenza rispetto agli usi NORMATIVI è che NON SONO fonti di diritto e non c’è
la convinzione della loro obbligatorietà (sono prassi che vengono richiamate ma che
non sono ritenute obbligatorie).
Quindi l’USO NEGOZIALE integra la volontà delle parti stipulanti SOLO se le parti
l’hanno esplicitamente o implicitamente voluto.
AZIENDALI: sono per esempio dei PREMI AZIENDALI, che all’inizio non erano dovuti,
ma che per 5-10 anni un datore di lavoro ha riconosciuto a tutti i dipendenti. Allora,
per effetto della reiterata elargizione, sono sostanzialmente diventati OBBLIGATORI.
Quindi l’USO AZIENDALE è una prassi/una pratica che si forma in azienda, a fronte
di un reiterato comportamento del datore di lavoro nei confronti di tutti i
dipendenti.
E’ un comportamento che, in origine è volontario/spontaneo, ma poi, per effetto
della reiterazione (nei confronti di tutti) per lungo tempo, diventa OBBLIGATORIO.
La conseguenza di questa impostazione (per cui l’uso è entrato a far parte del
contratto individuale) è che un successivo contratto collettivo, anche
AZIENDALE, non potrebbe superare “in pejus”/eliminare l’uso (ossia le
condizioni di miglior favore che derivano dagli usi aziendali, non possono
essere derogate “in pejus” dalla contrattazione collettiva; posto che gli usi
negoziali si inseriscono nei singoli contratti individuali e, quindi, per essere
rimossi serve il consenso del singolo).
Quindi, secondo questa prima teoria, ci dice che gli USI AZIENDALI sono usi
negoziali che, sostanzialmente, entrano a far parte del trattamento cui il
singolo lavoratore ha diritto, e che NON possono essere rimessi in
discussione da un successivo contratto collettivo.
2. Sono usi con natura di CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE; quindi è una
sorta di “consenso tacito” tra le parti che può portare al riconoscimento di
questo premio.
Perciò l’USO AZIENDALE è fonte di un obbligo (del datore) unilaterale di
carattere collettivo (ha la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale);
quindi è sufficiente un successivo contratto collettivo AZIENDALE per
rimettere in discussione tale uso/tale premio (non serve il consenso del
singolo).
Sono fatti salvi i cosiddetti DIRITTI QUESITI (ossia quei diritti che ormai sono
entrati a far parte del patrimonio del lavoratore).
Tesi “sposata” recentemente dalla Cassazione.
Questa questione dei DIRITTI QUESITI diventa rilevante in quei casi (che sono
all’ordine del giorno) di TRASFERIMENTO DI RAMO D’AZIENDA, in cui un
gruppo di lavoratori (provenienti da un’altra azienda) viene acquisito magari
da un imprenditore e questi lavoratori magari hanno, come loro bagaglio, dei
PREMI AZIENDALI assolutamente più alti (o che gli altri addirittura non
hanno) rispetto agli altri lavoratori.
In caso di ACQUISIZIONE/FUSIONE/TRASFERIMENTO DI UN RAMO
D’AZIENDA, il cessionario deve continuare ad applicare/riconoscere i premi
aziendali che i lavoratori acquisiti godevano presso il cedente oppure no?
Parlando di “trasferimento di ramo d’azienda” dobbiamo fare riferimento
all’ART.2112 cc che, con riferimento al trattamento dei lavoratori, ci dice che
“il rapporto prosegue inalterato; c’è la responsabilità solidale di cedente e
cessionario per i debiti pregressi; ecc..”.
Ma soprattutto IL CESSIONARIO QUALI CONTRATTI COLLETTIVI DEVE
APPLICARE AI DIPENDENTI DEL RAMO ACQUISITO? Il cessionario ai
dipendenti del ramo acquisito applica i contratti collettivi applicati dal
cedente fino alla loro scadenza, A MENO CHE il cessionario non sostituisca
quei contratti collettivi con altri contratti collettivi (applicati nella sua azienda)
che siano DELLO STESSO LIVELLO.
Esempio (con riferimento al discorso sugli USI AZIENDALI che abbiamo fatto
prima): immaginiamo che ci sia una banca che viene acquisita da un’altra
banca (caso di INCORPORAZIONE), e il primo gruppo di lavoratori (della
banca che viene acquisita) si porta dietro un PREMIO AZIENDALE.
Il cessionario che cosa può fare rispetto a questi trattamenti? Abbiamo
appena che i PREMI AZIENDALI (o USI AZIENDALI) hanno natura di contratto
collettivo AZIENDALE; a questo punto il cessionario potrebbe sostituire
questi vecchi premi aziendali con un diverso contratto collettivo AZIENDALE
che magari possa prevedere anche la riduzione di questi premi.
Nel caso concreto il singolo dipendente acquisito aveva preteso di farsi
riconoscere il PREMIO DEL RENDIMENTO (previsto dal contratto aziendale
precedente) e DEL SUPERMINIMO (che era un uso aziendale) anche da parte
del nuovo cessionario.
La Corte di Cassazione ci dice che siamo di fronte ad un caso di
TRASFERIMENTO D’AZIENDA e dobbiamo trattare questa disciplina
sostanzialmente come se fosse una disciplina di “sostituzione tra contratti
collettivi”; quindi, ai sensi dell’art.2112 cc, quello che può succedere è che
continuerà ad applicarsi il contratto collettivo presso la cedente, SALVO che
quel premio sia sostituito da un contratto collettivo di PARI LIVELLO (quindi
se il datore di lavoro negozia con i sindacati in azienda un altro contratto
AZIENDALE, può anche ridurre tale premio).
Perciò, nel caso concreto il dipendente della banca acquisita continuerà a
vedersi applicato il PREMIO AZIENDALE, a meno che il cessionario non
decida di sostituire il contratto collettivo (che era applicato dal cedente) con
un altro contratto collettivo DI PARI LIVELLO.
15/11
CASO 1 (relativo agli USI AZIENDALI): lavoratore che era già stato dipendente di una Banca
di Credito Cooperativo e, a seguito di TRASFERIMENTO DI RAMO D’AZIENDA, il suo
rapporto era proseguito alle dipendenze della Banca popolare (in questo caso c’era stata la
FUSIONE e la seconda banca aveva assunto presso di sé tutto il personale della prima).
Questo lavoratore godeva, presso il cedente (prima banca), di un consistente PREMIO
AZIENDALE che, in realtà, non era mai stato contrattato con i lavoratori (NON C’ERA UN
CONTRATTO COLLETTIVO che lo prevedeva), ma aveva iniziato ad essere erogato
spontaneamente (dalla banca a tutti i dipendenti), ed aveva continuato, però, ad essere
erogato per svariati anni.
La seconda banca (cessionaria) non riconosce al lavoratore tale premio.
PRIMA QUESTIONE: in questo caso si può dire che l’erogazione di quel premio si sia ormai
configurata come USO AZIENDALE (è un premio originariamente erogato spontaneamente
alla generalità dei dipendenti, e che sostanzialmente si consolida nel tempo per effetto
della prassi ripetuta costante nel tempo; cioè non è necessaria la convinzione della
doverosità da parte del datore di lavoro, quindi non è fonte di diritto ma (affinché l’uso si
formi) è sufficiente la ripetuta e costante elargizione di questo premio alla generalità dei
dipendenti, in modo tale che il premio perde la propria caratteristica di spontaneità)? SI è
USO AZIENDALE perché è un comportamento, in origine spontaneo, che però proprio
perché reiterato nel tempo è diventato VINCOLANTE (verso tutti i lavoratori ai quali il
premio è stato riconosciuto).
CASO 2 (sempre sugli USI AZIENDALI): una ditta ha riconosciuto per anni ai propri
dipendenti un PREMIO AZIENDALE particolarmente elevato (che quindi è diventato un
USO AZIENDALE, obbligatorio/doveroso); nel 2017 tale ditta incontra un periodo di
profonda crisi. La ditta intende ridurre i costi per il futuro riducendo tale PREMIO/USO
AZIENDALE.
Lo può fare? SI, però serve un ACCORDO AZIENDALE (cioè occorre che tale uso sia
sostituito da un CONTRATTO AZIENDALE).
Se l’azienda non ha RSA/RSU (perché magari è piccola) la contrattazione AZIENDALE potrà
eventualmente essere fatta con il sindacato esterno; ma deve trattarsi sempre di un
CONTRATTO AZIENDALE.
PROBLEMA: il nostro cliente è una PICCOLA azienda dove non sono presenti RSA ed
RSU; quindi come si fa a far fruire degli SGRAVI FISCALI (relativi a questi salari di
produttività) tale azienda? Da uno studio dei Consulenti del lavoro sono scaturite
tali indicazioni:
o O l’azienda avvia il dialogo con il sindacato territoriale esterno (ad esempio
l’articolazione provinciale del sindacato comparativamente più
rappresentativo), e firma un contratto AZIENDALE con esso
o O l’azienda può avere altre 2 scelte, a seconda che l’azienda sia iscritta
all’associazione di categoria (Confindustria) oppure non sia iscritta:
Se l’azienda E’ ISCRITTA, anziché firmare un contratto AZIENDALE,
semplicemente applica la contrattazione TERRITORIALE che
l’associazione di categoria (Confindustria) ha già sottoscritto
Se l’azienda NON E’ ISCRITTA, può liberamente scegliere di applicare
un qualsiasi contratto collettivo TERRITORIALE sottoscritto, però, da
sindacato comparativamente più rappresentativo che preveda dei
criteri per l’elargizione di questi premi.
Chiaramente l’azienda darà comunicazione di tale scelta ai propri dipendenti.
Importante per usufruire della DETASSAZIONE è che tali contratti collettivi vengano
depositati presso l’ISPETTORATO DEL LAVORO; c’è una procedura che permette il
deposito telematico del contratto collettivo AZIENDALE (se è quello proprio
dell’azienda), oppure per verificare che è già stato depositato il contratto collettivo
TERRITORIALE (se l’azienda decide di aderire a quel contratto).
Ci sono dei TERMINI per la stipula di questi contratti collettivi AZIENDALI (per il 2017 il
termine scade il 15 Novembre; per il 2018 scadrà il 31.08.2017. Quindi la misura è
sicuramente non effettiva per il 2017 perché pochissimi consulenti avranno il tempo di
consigliarla, ma è sicuramente effettiva per il 2018). Successivamente tali contratti vanno
depositati presso l’ISPETTORATO DEL LAVORO; il deposito va fatto in via telematica.
TUTTE LE AZIENDE POSSONO GODERE DI QUESTE MISURE? NO, occorre che le aziende
siano in regola con il versamento dei contributi (quindi abbiamo i DURC) ed occorre che
applichino tutti i livelli della contrattazione collettiva (nazionale, territoriale, aziendale)- è la
solita CLAUSOLA SOCIALE (di essa ne abbiamo parlato in tema di efficacia soggettiva del
contratto collettivo, e abbiamo detto che è uno degli strumenti di incentivazione
all’applicazione del contratto collettivo); qui si vede chiaramente, il datore non sarebbe
iscritto all’associazione sindacale e non applicherebbe il contratto collettivo, ma è indotto
ad applicarlo per poter usufruire degli SGRAVI CONTRIBUTIVI.
L’azienda (o Consulente del lavoro tramite essa), ovviamente, per poter accedere a questi
SGRAVI CONTRIBUTIVI dovrà seguire una specifica procedura (con accesso al portale
dell’INPS, compilazione della domanda, ecc..); procedura di cui non ci occupiamo.
La misura degli sgravi a cui ciascun datore di lavoro ha diritto proviene da un calcolo molto
complicato (di cui a noi non interessa), e comunque dipende dal numero totale di datori di
lavoro che ne faranno richiesta (tranne per i datori di lavoro con reddito inferiore a 80.000
euro annui, per i quali, come abbiamo già visto, è stabilito un tetto massimo di 3.000 euro
per ognuno). E’ una QUOTA VARIABILE.
CASO 2: DIRIGENTE di RSA viene trasferito STABILMENTE dal magazzino della filiale di
Padova della ditta Alfa (che è in zona industriale) al magazzino della stessa filiale della ditta
Alfa che, però, è adiacente alla filiale.
SERVE IL NULLA-OSTA OPPURE NO? NO, perché non c’è trasferimento da un’unità
produttiva ad un’altra (infatti la nozione di “unità produttiva” è comunitaria e consiste in
un’articolazione che gode di autonomia organizzativa, produttiva; un semplice magazzino
non è unità produttiva).
CASO 4: il sindacato che agisce è la USB (Unione Sindacati di Base; sindacati autonomi).
L’USB, tramite la sua articolazione locale, chiama in giudizio ex art.28 la ditta Alfa perché
non le ha accreditato le quote associative, e per aver riconosciuto la qualità di delegato
della rappresentanza sindacale in Italia al lavoratore.
PRIMA DIFESA DEL DDL: bisogna verificare se la USB ha le caratteristiche per essere
“articolazione locale di sindacato NAZIONALE”. La USB non ha firmato nessun contratto
collettivo NAZIONALE di lavoro; è legittimata lo stesso (ad agire ex art.28) oppure no? SI,
perché abbiamo studiato che quando diciamo “articolazione locale di sindacato
NAZIONALE” il requisito della nazionalità viene desunto da una serie di indici (come la
diffusione territoriale, il numero di iscritti, la partecipazione alle trattative, la contrattazione
di sciopero a livello nazionale; la stipulazione del contratto collettivo NAZIONALE è un
indice ma non per forza necessario).
L’USB HA RAGIONE OPPURE NO? Il sindacato lamenta che il datore di lavoro non ha
trattenuto la quota associativa (per il sindacato) dalle retribuzioni dei lavoratori che ne
avevano fatto richiesta. Quali sono le norme coinvolte? La norma di riferimento, una volta
era l’art.26 SL (poi i commi 2-3 sono stati abrogati); OGGI di regola il diritto a che il datore
di lavoro effettui la trattenuta e poi il versamento è previsto dai CONTRATTI COLLETTIVI.
Ma un sindacato diverso da quello firmatario potrebbe, in forza del contratto collettivo,
rivendicare il diritto affinché il datore di lavoro effettuasse la trattenuta? No, perché tali
regole appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA del contratto e, quindi, sono vincolanti
solo tra i soggetti stipulanti; ciò nonostante il datore è comunque obbligato ad effettuare
la trattenuta perché la giurisprudenza ci ha detto che si tratta di una CESSIONE DI CREDITO
(il lavoratore cede il proprio credito al sindacato, e il debitore ceduto non è obbligato a
dare il proprio consenso).
L’UNICA DIFESA del datore di lavoro è che sia troppo oneroso. Su chi grava l’onere della
prova di dimostrare l’eccessiva onerosità? Sul datore di lavoro. Se il datore di lavoro non
riesce a provare l’eccessiva onerosità, allora questa sua condotta è sicuramente
ANTISINDACALE.
CASO 5: USB (sempre tramite la sua articolazione locale) promuove azione ex art.28 contro
il datore di lavoro (si tratta delle cooperative) che non ha consentito la costituzione di una
RSA del sindacato USB. A sostegno del ricorso, USB dimostra di avere un seguito del 30%
tra i lavoratori dell’azienda.
USB HA DIRITTO A COSTITUIRE RSA OPPURE NO? L’ART.19 SL OGGI ci dice che RSA
possono essere costituite in azienda su iniziativa dei lavoratori, in unità produttive con più
di 15 dipendenti, nell’ambito dei sindacati che hanno partecipato alle trattative per la
stipula del contratto collettivo applicato in azienda; non occorre che il sindacato abbia
firmato, occorre però che in azienda ci sia un contratto collettivo effettivamente applicato
(che qualcun altro lo abbia firmato) - non è chiarito cosa succede se nessuno (in azienda)
ha firmato questo contratto.
NO, non ha diritto a costituire RSA perché non è mai stata ammessa alle trattative; quella
del datore di lavoro NON E’ CONDOTTA ANTISINDACALE.
USB HA DIRITTO AD ESSERE AMMESSA ALLE TRATTATIVE OPPURE NO? NO, infatti non
esiste un DIRITTO del sindacato AD ESSERE AMMESSO ALLE TRATTATIVE; tuttavia occorre
che l’esclusione dalle trattative non si traduca in una condotta antisindacale ATIPICA
(diretta ad emarginare il sindacato dal dialogo).
C’è, invece, un DIRITTO DI AMMISSIONE ALLE TRATTATIVE quando, per esempio, la
contrattazione collettiva lo prevede (per esempio recependo il contenuto dell’accordo
interconfederale del 2014 riconoscesse il diritto di ammissione alle trattative al sindacato
che ha più del 50% del seguito in azienda).
16/11
RUOLO DEL RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA (RLS) (T.U. 81/2008)
Si tratta di una figura in primis introdotta dalla DIRETTIVA 391/1989 (in materia di
sicurezza) che richiede che nelle aziende sia individuato, tra i lavoratori, un rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza (RLS).
CHI E’?
La direttiva da questo punto di vista lascia molta libertà agli Stati membri.
Si tratta di una persona eletta o designata dai lavoratori, conformemente alle leggi o alle
prassi dei singoli Stati membri (quindi non c’è un modello attuativo che venga imposto
dalla direttiva); ma quello che è NECESSARIO è che sia un soggetto che tutti i lavoratori
possano concorrere a designare.
Il T.U. del 2008 ci dice che “l’RLS è una persona eletta o designata dai lavoratori, per
quanto concerne la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori”.
In sostanza è un tramite tra i lavoratori e il datore di lavoro in materia di SICUREZZA.
Non è indicato (nella direttiva) se tale soggetto debba essere eletto nell’ambito delle
rappresentanze sindacali dell’azienda oppure no; il nostro T.U. tendenzialmente sembra
propendere affinché l’RLS sia individuato nell’ambito delle rappresentanze sindacali.
Infatti l’ART.47 T.U. distingue tra aziende/unità produttive:
fino a 15 dipendenti (chiaramente non ci sono RSA/RSU e questo soggetto è eletto
direttamente dai lavoratori al loro interno)
con più di 15 dipendenti (il soggetto è eletto o designato “nell’ambito delle
rappresentanze sindacali in azienda”).
DEVE COINCIDERE CON UNO DEI MEMBRI DELLA RSA o RSU? La risposta affermativa
sembra quella in linea con quanto previsto dalla legge; ma non sarebbe molto in linea con
la direttiva proprio per il fatto che la designazione delle RSA e RSU è a favore dei sindacati,
mentre l’idea è che TUTTI i lavoratori possano concorrere alla nomina dell’RLS.
Sempre nell’ART.47 c’è un altro comma che rimette alla contrattazione collettiva
l’individuazione del numero e delle modalità di elezione o designazione dell’RLS.
Ci si è rivolti al Ministero del lavoro e sostanzialmente si è chiesto “se l’RLS dovesse
coincidere con la RSA/RSU”?
Il Ministero, in un primo momento ha detto di SI (l’RLS deve essere individuato nell’ambito
dei componenti delle RSA – intendiamo quelle dell’art.19 SL, ossia quelle nominate
nell’ambito dei sindacati che sono stati ammessi alla partecipazione delle trattative); poi si
è accorto che questa interpretazione “tagliava fuori” i NON SINDACALIZZATI e quindi ha
fornito un’interpretazione un po' più ampia ((cioè RSA non sono solo quelle dell’art.19 SL
(munite delle prerogative di cui al titolo III), ma qualsiasi rappresentanza sindacale dei
lavoratori)).
MORALE: l’RLS non necessariamente deve essere un membro di RSA o RSU (anche se in
realtà sono i contratti collettivi che spesso disciplinano la materia); resta in punto di
domanda il fatto “se il contratto collettivo mette solo nelle mani dei sindacati la nomina di
tali soggetti, è garantita la conformità alla direttiva?” Forse no, perché TUTTI i lavoratori
dovrebbero partecipare alla nomina di questo soggetto.
Se in un’azienda non viene nominato dai lavoratori l’RLS, allora le stesse funzioni sono
esercitate obbligatoriamente dal RAPPRESENTANTE PER LA SICUREZZA TERRITORIALE (è
un soggetto non più dipendente dell’azienda ma che è designato, nell’ambito delle
associazioni sindacali, per un certo territorio).
I datori devono comunicare all’INAIL, in via telematica, quando viene nominato l’RLS.
FORMAZIONE DELL’RLS
Deve essere un soggetto con delle competenze specifiche. Chiaramente qualsiasi
lavoratore può diventare RLS, ma deve frequentare un corso di formazione iniziale (in
materia di sicurezza) di 32 ore, ed almeno 8 ore all’anno (di aggiornamento in materia di
sicurezza).
Deve essere fatta in orario di lavoro e a spese del datore di lavoro.
COMPITI DELL’RLS
Compito principale è quello di segnalare le situazioni di pericolo (sollecita al datore di
lavoro i rischi per la sicurezza che sono presenti in azienda); anche se non ha potere di
intervento diretto, SALVO nei casi in cui sia assolutamente necessario/urgente (in cui
l’intervento diretto sia necessario per evitare una situazione di pericolo per i lavoratori).
Inoltre può prendere visione e consultare in azienda (ricevendone una copia) il DVR
(Documento di Valutazione dei Rischi; dove sono individuati tutti i rischi per la salute e la
sicurezza dei lavoratori). Su questa norma si sono avute molte interpretazioni.
Cosa vuol dire che “l’RLS ha DIRITTO di ricevere copia del DVR dell’azienda?” La questione
è stata molto discussa perché (ovviamente) i datori di lavoro non vogliono mettere nelle
mani dei dipendenti informazioni che magari potrebbero ritorcersi loro contro; infatti i
datori tendono a non dare i DVR, mentre gli RLS tendono a chiederli/pretenderli.
La norma realizza una sorta di compromesso perché dice che l’RLS ha diritto di ricevere
una copia del DVR ma non può portarla fuori dall’azienda, deve consultarla solo in azienda.
Cosa significa “RICEVERE UNA COPIA”? Gli ultimi orientamenti ci dicono che il datore di
lavoro può anche limitarsi a consegnare una COPIA INFORMATICA del DVR, che il datore di
lavoro consulta all’interno dell’azienda (quindi molte aziende si limitano a far vedere il
documento in “modalità protetta”, senza che il dipendente possa estrarne copia o altro).
Chiaramente l’RLS può accedere a TUTTI i luoghi di lavoro (non solo nel suo reparto ma
anche negli altri) per accertarsi delle situazioni di eventuale rischio.
Inoltre deve essere consultato dal datore di lavoro sia per quanto riguarda la redazione del
DVR (quindi quando un datore riceve il DVR deve formalizzare anche la partecipazione di
tale soggetto), sia sulla formazione degli altri lavoratori (quindi su una serie di
problematiche in azienda).
Partecipa anche alla RIUNIONE PERIODICA (effettuata in azienda, per fare il punto della
situazione).
Può anche suggerire misure di prevenzione (anche se è solo un potere di proporre, ma non
un potere di intervento diretto).
Infine può fare ricorso all’autorità giudiziaria per denunciare le situazioni di rischio che
rileva in azienda (anche se, chiaramente, non succede molto spesso perché difficilmente
l’RLS si espone così tanto).
TUTELE DELL’RLS
Sostanzialmente ha le stesse tutele di una RSA/RSU; cioè è soggetto alle stesse norme di
protezione previste per i rappresentanti sindacali di cui all’art.19 SL (quindi non può essere
trasferito da un’unità produttiva ad un’altra senza nulla-osta; tutele contro il licenziamento
previste dall’art.18 SL: se viene licenziato ha diritto ad ottenere, su istanza sua e del
sindacato, la REINTEGRAZIONE in corso di causa semplicemente in base alla circostanza
che ci siano elementi che fanno propendere per l’illegittimità del licenziamento – quindi
REINTEGRAZIONE IN CORSO DI CAUSA prima che sia decisa l’impugnazione del
licenziamento).
Anche se la tutela contro quel licenziamento non porterebbe alla RENTEGRAZIONE ma
solo al diritto ad un’INDENNITA’? SI, perché qui è un tipo di tutela diversa/speciale.
Ancora l’RLS deve poter godere del TEMPO, delle SPAZIO e dei MEZZI necessari per
l’esercizio della sua funzione.
Chiaramente non può subire pregiudizio per l’esercizio delle sue funzioni.
CASO 1: RLS trasferito da un’unità produttiva ad un’altra SENZA il nulla osta. Chiaramente
il sindacato ha promosso l’azione (ex art.28) ed è stata pronunciata la condanna del datore
di lavoro per CONDOTTA ANTISINDACALE.
CASO 2 (Tribunale di Firenze): l’RLS non era stato consultato su temi in cui ne aveva diritto.
Anche in questo caso il datore è stato condannato per CONDOTTA ANTISINDACALE.
CASO 3 (Tribunale di Modena): l’RLS non si era limitato a segnalare il pericolo ma era
intervenuto per rimuovere la situazione di pericolo (anche se il pericolo non era grave), ed
era stato sottoposto a sanzioni disciplinari.
Il giudice da un lato ha affermato il principio per cui “i poteri dell’RLS non sono di
intervento ma solo di segnalazione” (quindi l’RLS aveva ecceduto i suoi poteri); però
dall’altro lato (al contempo) ha ritenuto che la sanzione fosse troppo grave ed è stata
ridotta ad una multa (di sole 4 ore).
L’RLS E’RESPONSABILE NEI CONFRONTI DEI LAVORATORI? NO, l’unico compito che, però,
deve attuare è quello di SEGNALARE I PERICOLI (se non lo fa risponde in merito); chi ha il
potere disciplinare e di spesa non è l’RLS.
CASO PARTICOLARE: l’RLS, non solo era rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, ma
era anche capo cantiere. Allora è chiaro che se un soggetto assomma su di sé due ruoli e
per uno di questi ruoli ci può essere una responsabilità, allora è chiaro che per questo
ruolo risponde. Quindi il capo cantiere risponde (in caso di incidente), ma solo come
responsabile dei lavori (e non come responsabile dei lavoratori).
ALTRO CASO: RLS che muore per effetto di infortunio mortale; il datore di lavoro cerca di
difendersi dicendo che vista la sua particolare esperienza doveva essere corresponsabile
(quindi doveva esserci una condivisione di colpa), ma il Tribunale esclude questa
corresponsabilità.
Ci dice che cosa si intende per INFORMAZIONE (è la trasmissione dei dati) e cosa per
CONSULTAZIONE (è il confronto con questi soggetti); il tutto deve avvenire in TEMPO
UTILE (cioè in modo che, per tempo, i sindacati possano discutere, possano chiedere al
datore di lavoro di tornare sui suoi passi) e ai LIVELLI APPROPRIATI (nel senso che
sostanzialmente l’interlocutore deve essere in grado di interagire con soggetti che hanno
potere decisionale; ovviamente non può andare l’ultimo dei dipendenti ad interagire con il
sindacato).
Questi diritti (di INFORMAZIONE e CONSULTAZIONE) si devono garantire in tutti i casi in
cui nelle aziende si realizzano delle modifiche organizzative che si ripercuotono sui
lavoratori, sull’occupazione.
Abbiamo detto prima che tale disciplina si applica alle imprese con più di 50 dipendenti,
CHI SI CONTA? Secondo il D.LGS.25/2007 si contano i lavoratori a tempo indeterminato e
quelli a termine solo se la durata del rapporto è superiore a 9 mesi; la DIRETTIVA, invece,
imponeva il computo di TUTTI i lavoratori, senza limitazioni per i lavoratori a termine.
Allora (pur senza arrivare ad una condanna dell’Italia) c’è stata una modifica del
D.LGS.25/2007, per cui OGGI è espressamente chiarito che nei 50 lavoratori si tiene conto
sia dei lavoratori a tempo INDETERMINATO, sia di TUTTI i lavoratori a tempo
DETERMINATO (anche se questi ultimi vengono considerati tenendo comunque conto
dell’effettiva durata del loro rapporto).
ART.8 del decreto (sul rapporto tra le disposizioni di questo decreto e le altre norme
specifiche in materia): ci dice che “sono fatte salve tutte le altre disposizioni, previste da
norme di legge, in materia di informazione e consultazione” (tra cui quelle previste in tema
di trasferimento d’azienda e di licenziamenti collettivi).
Tra le disposizioni fatte salve (che quindi regolano la materia autonomamente) ci sono
anche quelle del Jobs Act; quindi nella gestione delle aziende bisogna tener conto anche
degli specifici obblighi di informazione (ai sindacati) che sono previsti, per esempio, in
tema di “SOMMINISTRAZIONE” (se un’azienda ricorre alla somministrazione, l’ART.36 del
d.lgs.81/2015 impone di darne comunicazione periodica, almeno ogni 12 mesi, alle RSA o
RSU; si tratta di una disposizione che è sanzionata con una SANZIONE AMMINISTRATIVA).
Ugualmente vale per il CONTRATTO A TERMINE (deve essere data informazione ai
sindacati sui posti vacanti a tempo determinato); stessa cosa vale per il CONTRATTO
INTERMITTENTE (l’azienda che ne fa ricorso deve assolutamente dare informazione).
La legge Fornero aveva introdotta una DELEGA (in materia di PARTECIPAZIONE) al Governo
perché intervenisse in materia di partecipazione, sostanzialmente riscrivendo il
d.lgs.25/2007 ed aumentando ancora il ruolo del sindacato sotto questo profilo; ma la
delega è scaduta e sostanzialmente le parti politiche non sono riuscite a trovarsi d’accordo
su questa materia (quindi si può dire che la materia della partecipazione/informazione e
consultazione è ancora tutto sommato ritenuta di scarsa importanza).
ALCUNI CASI
CASO 1 (sul rapporto tra contratti collettivi successivi dello stesso livello): contratto
collettivo 2009-2012 che prevede la maggiorazione per lo STRAORDINARIO al 15%
rispetto alla retribuzione base. Poi interviene un successivo contratto collettivo 2013-2016
che prevede la maggiorazione soltanto al 10%.
Un lavoratore, siccome ha effettuato lavoro straordinario nel 2015 e non è stato ancora
pagato, agisce in giudizio pretendendo la maggiorazione del 15%.
Un altro lavoratore, che ha effettuato lavoro straordinario nel 2011 ma non ancora pagato,
agisce in giudizio pretendendo la maggiorazione del 15%.
CHE MAGGIORAZIONE SPETTA A TALI SOGGETTI?
Al lavoratore che ha svolto straordinario nel 2015 spetta la MAGGIORAZIONE DEL 10%
perché si tratta di 2 contratti successivi dello STESSO LIVELLO e, secondo la disciplina, il
successivo prevale, anche se introduce condizioni peggiorative (infatti abbiamo visto che il
contratto COLLETTIVO non si incorpora nel contratto individuale).
Abbiamo anche visto, però, che sono sempre fatti salvi i cosiddetti DIRITTI QUESITI, quindi
al lavoratore che ha svolto straordinario nel 2011 spetta la MAGGIORAZIONE DEL 15%
perché si tratta di un DIRITTO QUESITO.
CASO 2: datore di lavoro opera nel settore della telefonia; non è affiliato a nessuna
associazione sindacale; non ha fatto rinvio al contratto collettivo nelle lettere di assunzione
dei lavoratori in oggetto; e decide di applicare ai propri dipendenti il contratto collettivo di
un settore merceologico diverso (in particolare del settore metalmeccanico). Alcuni
lavoratori si rivolgono al giudice e chiedono l’applicazione del contratto collettivo del
settore della telefonia (che è il settore merceologico di appartenenza dell’azienda).
DATORE DI LAVORO PUO’ FARLO? SI, il datore di lavoro può applicare il contratto collettivo
di un altro settore merceologico (anche se l’art.2070 cc affermerebbe il contrario, ma
abbiamo visto che vale solo per il contratto corporativo), ma FERMI i MINIMI RETRIBUTIVI
(che devono sempre essere stabiliti dal settore di appartenenza dell’azienda).
CASO 3 (sulle RSU): componente di una RSU che si dimette dal sindacato nelle cui liste è
stato eletto e si iscrive ad un altro sindacato. Subito il datore di lavoro non ne tiene più
conto e, per effetto della comunicazione del sindacato che ha partecipato alle liste (quindi
quello originario), lo esclude dal novero dei lavoratori aventi diritti (questo nel
presupposto che il contratto collettivo NAZIONALE abbia recepito la disciplina di cui al T.U.
del 2014).
HA DIRITTO il soggetto che è stato eletto in una lista sindacale (una RSU) A CONTINUARE
A SVOLGERE LA SUA ATTIVITA’ DI RSU? NO, perché c’è la regola del “CAMBIO DI
CASACCA”, cioè se il c.c.n.l. ha recepito il T.U. 2014, allora questo soggetto non avrà diritto
a continuare a svolgere attività di RSU e non sarà ANTISINDACALE la condotta del datore
di lavoro.
Se, invece, il c.c.n.l. non avesse recepito il T.U. del 2014 e prevedesse la regola opposta,
chiaramente la condotta del datore sarebbe ANTISINDACALE.
Quindi BISOGNA SEMPRE ACCERTARSI DELLE REGOLE DEL CONTRATTO COLLETTIVO.
OGGI questa LEGGE QUADRO è stata sostituita e la disciplina della contrattazione collettiva
nel settore pubblico si trova agli ARTT.40 e seguenti del T.U.P.I. (che sostanzialmente
hanno riconosciuto EFFICACIA DIRETTA alla contrattazione collettiva nella
regolamentazione del rapporto, ma hanno disegnato una disciplina del contratto collettivo
nel settore pubblico che è assolutamente speciale rispetto a quella della contrattazione
collettiva nel settore privato).
Chiaramente (tra settore pubblico e privato) è diversa anche la CORNICE LEGALE ed, in
particolare per il settore pubblico, noi dobbiamo fare riferimento agli ARTT.40 E SEGUENTI
T.U.P.I.
PARTICOLARITA’: le nuove regole del T.U.P.I. sono la formalizzazione, in pratica, di quelle
regole di quell’ACCORDO QUADRO SEPARATO PER IL PUBBLICO IMPIEGO del 2009. Quelle
stesse regole, però, nel settore privato (come sappiamo) sono state ampiamente superate
dalla successiva contrattazione interconfederale.
Quindi abbiamo questa ulteriore DIVARICAZIONE (tra pubblico e privato): nel sistema
PUBBLICO abbiamo una legificazione delle regole (di cui al T.U. del 2009); mentre nel
sistema PRIVATO quelle regole sono state sostanzialmente superate dai successivi accordi
interconfederali.
Poi ci sono materie che sono completamente ESCLUSE dalla contrattazione collettiva (cioè
sulle quali la contrattazione collettiva assolutamente non può interferire); tra queste
materie spiccano quelle che sono oggetto di PARTECIPAZIONE SINDACALE (quindi l’ART.40
T.U.P.I ci dice che “nelle materie di cui all’ART.9 è esclusa la contrattazione collettiva”); così
come nelle materie che sono riservate alla legge o alla disciplina unilaterale della p.a. (sono
quelle che riguardano l’organizzazione degli uffici, le prerogative dirigenziali, il
conferimento e la revoca degli incarichi e tutte le materie di cui alla legge delega del 1992).
17/11
CASO 1 (sul rapporto tra legge e contratto collettivo): contratto collettivo NAZIONALE di
lavoro per il settore del commercio prevede il LICENZIAMENTO DISCIPLINARE se, per 3
volte nell’anno solare, il lavoratore ha commesso un’infrazione disciplinare punibile con la
multa.
Il lavoratore arriva in ritardo di 1 ore per 3 volte nell’anno solare, effettivamente riceve le
tre MULTE, e viene licenziato in ottemperanza al contratto collettivo.
E’ GIUSTO? NO.
In questo caso c’è un contrasto tra contratto collettivo e norma di legge (che è l’ART.2119
cc che ci dice che “la GIUSTA CAUSA consiste in una causa che non consente la
prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto”).
Allora da un lato c’è l’art.2119 (legge) che dice che la GIUSTA CAUSA deve essere un
inadempimento GRAVISSIMO; dall’altro c’è una clausola del contratto collettivo che
sostanzialmente qualifica come “giusta causa” una condotta che non necessariamente è un
comportamento gravissimo (perché arrivare per 3 volte un’ora in ritardo NON E’ UN
INADEMPIMENTO GRAVISSIMO).
Qui il contratto collettivo è peggiorativo rispetto alla legge (mentre invece non può
esserlo, salvo casi eccezionali che qui non ci sono), e quindi prevalgono le disposizioni
della legge; perciò è ILLEGITTIMO un licenziamento (di questo tipo) intimato in
ottemperanza di quel contratto collettivo ma in violazione della norma di legge (di cui
all’art.2119 cc).
CASO 3 (sul diritto di affissione; art.25 SL): il datore di lavoro rifiuta di mettere a
disposizione di ciascuna RSA una specifica bacheca, ma mette a disposizione
semplicemente un’unica bacheca per tutte le RSA; inoltre il datore di lavoro vede un
comunicato e provvede personalmente a staccarlo perché in esso si criticava il datore per
la nuova organizzazione dei turni introdotta.
PRIMA QUESTIONE: secondo la disciplina ciascuna RSA ha diritto al proprio spazio; quindi
quella del datore di lavoro è CONDOTTA ANTISINDACALE.
SECONDA QUESTIONE: secondo la disciplina il datore può staccarle di persona un
comunicato solo se è molto offensivo nei suoi confronti e se c’è l’attualità del pericolo
(perché ancora nessuno ha letto quel contenuto).
In questo caso non c’è esercizio della legittima difesa del datore di lavoro, perché i
contenuti rientrano nella normale dialettica sindacale (non sono offensivi); perciò quella
del datore è CONDOTTA ANTISINDACALE.
CASO 4 (sui locali; art.27 SL): datore di lavoro che ha 300 dipendenti e si dichiara
disponibile a mettere a disposizione un locale per le RSA ma solo temporaneamente, su
richiesta della RSA, e di volta in volta.
TALE CONDOTTA E’ LEGITTIMA O NO?
NO, è CONDOTTA ANTISINDACALE perché il locale deve essere messo a disposizione in
modo STABILE/PERMANENTE (visto che il datore ha più di 200 dipendenti).
Il datore mette a disposizione un UNICO locale per tutte le RSA; E’ LEGITTIMO O NO? SI,
perché per quanto riguarda i locali aziendali è sufficiente che venga messo a disposizione
un locale unico per tutte le RSA.
Il datore di lavoro impedisce l’ingresso (in questo locale) ai rappresentanti dei sindacati
esterni; E’ LEGITTIMO O NO? SI, il datore lo può fare perché può non consentire l’ingresso
in azienda di soggetti esterni.
Nel pubblico impiego, anche in materia di contrattazione collettiva, si hanno avuti molti
interventi; uno spartiacque importante è sicuramente rappresentato dalla LEGGE
BRUNETTA (del 2009), nella quale l’intenzione è di ridurre lo spazio per la contrattazione
collettiva ed aumentare lo spazio, da un lato per la legge, ma anche per l’esercizio da parte
dei dirigenti dei loro poteri in modo unilaterale (Brunetta torna a responsabilizzare i
DIRIGENTI).
Infatti tale legge interviene sull’ART.5 e sull’ART.40 T.U., limitando i poteri dei contratti
collettivi di condizionare i poteri dei dirigenti (Brunetta vuole spezzare l’influenza reciproca
tra contrattazione collettiva e dirigenti).
Ci sono anche altre norme del T.U. che, in realtà, valorizzano il ruolo della
contrattazione collettiva nella disciplina del rapporto di pubblico impiego; ad
esempio l’ART.9 T.U.: dice che “i contratti collettivi disciplinano le modalità e gli
istituti della partecipazione”.
Per quanto riguarda le RISORSE FINANZIARIE, dobbiamo ricordare che quelle che
possono essere elargite dal contratto INTEGRATIVO (ossia quelle entità finanziarie
che ciascuna p.a. può destinare alla contrattazione collettiva) sono stabilite:
dai CONTRATTI COLLETTIVI NAZIONALI
nei bilanci annuali e triennali delle p.a.
Questo vuol dire che i contratti integrativi devono rispettare VINCOLI DI BILANCIO
(ossia non possono distribuire più soldi rispetto a quelle somme che sono stanziate
dai contratti collettivi nazionali e dai bilanci delle p.a.).
CASO 3: i sindacati di polizia proclamano lo sciopero tra gli agenti della polizia municipale.
La Commissione di garanzia dichiara l’illegittimità dello stato di agitazione per i TEMPI ed i
MODI della sua proclamazione ed attuazione. Ciò nonostante alcuni poliziotti si astengono
dal lavoro.
PRIMA QUESTIONE: I POLIZIOTTI POSSONO SCIOPERARE? Bisogna distinguere tra:
POLIZIA DI STATO: no
POLIZIA MUNICIPALE: si, ma solo nell’ambito della legge che regola lo sciopero nel
settore dei servizi pubblici essenziali; quindi affinché lo sciopero sia LEGITTIMO
bisogna dare il PREAVVISO di 10gg; bisogna comunicare MOTIVI, MODALITA’,
DURATA dello sciopero; bisogna garantire le PRESTAZIONI MINIME INDISPENSABILI
(stabilite dapprima da accordi collettivi che devono essere valutati idonei dalla
Commissione di garanzia; se valutati NON IDONEI la Commissione provvede essa
stessa IN VIA PROVVISORIA, finché non verrà raggiunto un accordo collettivo
valutato idoneo).
La Commissione di garanzia non può imporre l’astensione dallo sciopero a più del 50% dei
servizi normalmente erogati e a più di 1/3 del personale.
In questo caso non sono stati rispettati i TEMPI e i MODI per la proclamazione dello
sciopero e quindi lo sciopero è stato proclamato in modo ILLEGITTIMO. Ma c’è comunque
l’adesione ILLEGITTIMA da parte di alcuni dipendenti.
CONCLUSIONE: i lavoratori che hanno aderito a tale sciopero possono subire delle sanzioni
disciplinari.
Particolarità rispetto alle “normali sanzioni disciplinari” (in cui l’esercizio del potere
disciplinare da parte del datore è facoltativo e discrezionale, in quanto la Commissione di
garanzia non è a conoscenza del fatto illegittimo) è che, in questo caso, è OBBLIGATORIO
l’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro (tanto che se il datore non
sanziona, viene anch’esso sanzionato).
ALTRA PARTICOLARITA’ di questo caso: l’illegittimità del comportamento del lavoratore è
legata all’illegittimità dello sciopero, quindi la stessa Commissione di garanzia, in questo
caso, prescrive al datore di lavoro di applicare le sanzioni (perché la Commissione è a
conoscenza del fatto/dello sciopero illegittimo e quindi prescrive al datore di applicare le
sanzioni nei casi in cui rileva una violazione).
CASO 5: un sindacato proclama uno sciopero CONTRATTUALE per il rinnovo del contratto
del settore dei trasporti (dando il preavviso, comunicando modalità, durata, motivazione e
garantendo le prestazioni minime indispensabili) ma omette di attivare le PREVENTIVE
PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO previste dalla contrattazione collettiva.
Un altro sindacato, nello stesso giorno, proclama uno SCIOPERO ECONOMICO POLITICO
(sempre dando preavviso, comunicazione delle modalità, durata e motivazione, e
garantendo le prestazioni minime indispensabili) ma omette di attivare le PROCEDURE DI
RAFFREDDAMENTO PREVENTIVE previste dalla contrattazione collettiva.
Nel secondo caso si parla di SCIOPERO ECONOMICO POLITICO: si distingue dallo
SCIOPERO contrattuale perché si agisce per rivendicazioni, NON CONTRO IL DATORE DI
lavoro, ma contro lo Stato (in questo caso contro il Governo che ha emanato la legge
finanziaria); inoltre si sciopera per DIRITTI ECONOMICI che riguardano SOLO I LAVORATORI
in quanto tali (e non TUTTI I CITTADINI).
In questo caso NON HA SENSO ATTIVARE LE PROCEDURE DI RAFFREDAMENTO
PREVENTIVE (che servono per cercare di raggiungere un accordo con il datore) perché le
pretese qui sono vantate nei confronti dello Stato (il datore non viene preso in causa; LO
SCIOPERO NON E’ NELL’IMMEDIATA DISPONIBILITA’ DEL DATORE DI LAVORO). Perciò è
uno SCIOPERO LEGITTIMO.
Nel primo caso, invece, si tratta di SCIOPERO ILLEGITTIMO perché le pretese sono vantate
nei confronti del datore e quindi è necessario che vengano attivate le procedure di
raffreddamento preventive.
CASO 6: Giubileo di Roma nel 2000; i sindacati proclamano lo sciopero nei trasporti, pur
garantendo le prestazioni minime indispensabili. In questo caso potrebbe intervenire
(contro lo sciopero dei trasporti che potrebbe mettere in crisi la sicurezza e anche i beni
costituzionalmente garantiti di primaria importanza) l’istituto della PRECETTAZIONE. Nel
settore dei servizi pubblici essenziali l’autorità competente è il Presidente del Consiglio dei
Ministri o il Ministro dei trasporti (se lo sciopero è NAZIONALE), il Prefetto (se lo sciopero è
LOCALE). Inoltre il requisito necessario è che ci sia un PERICOLO GRAVE ED IMMINENTE
per i beni della persona costituzionalmente tutelati. DEVE ESSERE SEGUITO UN ITER
PROCEDIMENTALE MOLTO DETTAGLIATO (serve “a monte” la Commissione di garanzia che
segnali la situazione di grave pericolo all’autorità competente; in casi di urgenza potrebbe
anche precedere direttamente l’Autorità competente. Poi è necessario che si tenti la
conciliazione tra le parti; e solo in ultima istanza si emana l’ORDINANZA DI
PRECETTAZIONE).
CASO 7: sciopero e si era detto che ogni lavoratore avrebbe potuto aderirvi nel modo che
riteneva più adeguato/opportuno.
NON E’ UNO SCIOPERO LEGITTIMO perché non è svolto a tutela dell’interesse collettivo
(ma a tutela dell’interesse individuale).
Non tutte le p.a. sono rappresentate dall’ARAN perché devono essere salvaguardate le
autonomie delle Regioni a statuto speciale (infatti su queste l’ARAN non ha la
rappresentanza speciale/legale ma PUO’ affiancarle nella contrattazione se le regioni
stesse intendono avvalersene); quindi le Regioni a statuto speciale possono scegliere di
avere al proprio fianco l’ARAN ma non obbligatoriamente).
La conseguenza (del fatto che l’ARAN abbia la rappresentanza legale di tutte le p.a., tranne
il discorso appena fatto per le regioni a statuto speciale) è che il contratto collettivo
produce effetti verso tutte le p.a. (rappresentate dall’ARAN), senza più necessità di un atto
di recezione del contratto collettivo (come invece avveniva, per esempio, nel vigore della
legge quadro del 1983).
SENTENZA del 1993 ci dice che “con riferimento a tutte le regioni e a tutte le autonomie
locali, anche quelle ordinarie, l’ARAN può essere il soggetto stipulante il contratto
collettivo, MA a condizione che sia riconosciuto un ruolo di indirizzo alle autonomie locali”
(proprio per rispettare la libertà sindacale di queste).
Quindi chi contratta per le p.a. è l’ARAN, ma sostanzialmente le p.a. possono dare i loro
atti di indirizzo (tramite i COMITATI DI SETTORE); con riferimento alle Regioni, per quanto
riguarda TUTTE LE REGIONI la Corte Costituzionale ci ha detto che è NECESSARIO
salvaguardare questo ruolo del datore di lavoro (proprio per garantire la sua libertà
sindacale), con riferimento alle Regioni a statuto speciale, invece, queste non sono
necessariamente rappresentate dall’ARAN ma POSSONO SCEGLIERE di avvalersene nella
contrattazione nazionale.
Soggetto della CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA (dal lato del datore di lavoro) sono le
singole e diverse p.a. (quindi chi firma il contratto collettivo sono le diverse p.a.), che
possono scegliere (se vogliono) anch’esse di avvalersi dell’assistenza dell’ARAN nella
contrattazione.
Dal lato dei LAVORATORI, i soggetti sono le ASSOCIAZIONI SINDACALI (qui, però a
differenza del settore privato (salvo quanto previsto dal T.U. del 2014), la legge disciplina
esattamente chi sono i soggetti legittimati a partecipare alle trattative); hanno DIRITTO A
PARTECIPARE ALLE TRATTATIVE (per la stipula del contratto collettivo nazionale) le
ASSOCIAZIONI SINDACALI che raggiungono, nel comparto, la RAPPRESENTATIVITA’ DEL
5% (come media tra dato associativo, ossia il numero delle deleghe per il versamento della
quota al sindacato e che i sindacati ricevono nel comparto, e dato elettorale, ossia quello
per le elezioni delle RSU). Questo ci fa capire che, nel settore pubblico, i sindacati hanno
quindi tutto l’interesse a costituire RSU (perché altrimenti, per poter partecipare alle
trattative per il contratto collettivo, dovrebbero raddoppiare il dato associativo).
Questo per quanto riguarda l’AMMISSIONE ALLE TRATTATIVE.
Dopodiché il CONTRATTO COLLETTIVO (nel settore pubblico) può essere stipulato quando,
sull’ipotesi di accordo, si raggiunge il consenso dei sindacati che rappresentano almeno il
51% sostanzialmente dei lavoratori sempre del comparto (come media del dato associativo
e del dato elettorale), oppure il 60% (solo del dato elettorale).
Per quanto riguarda, invece, gli ACCORDI QUADRO (sono l’equivalente degli ACCORDI
INTERCONFEDERALI del settore privato): sono stipulati dalle Confederazioni che, però,
devono affiliare un’associazione sindacale rappresentativa (ossia che abbia il 5%) in almeno
2 comparti.
Gli ACCORDI QUADRO sono quelli che definiscono i COMPARTI, oppure contenuti che
sono trasversali a tutti i comparti (ad esempio la disciplina delle RSU).
DURATA DEL CONTRATTO COLLETTIVO NEL SETTORE PUBBLICO
Prima della riforma Brunetta non c’erano regole legali che individuassero quale fosse la
DURATA del contratto collettivo nazionale nel settore pubblico; sostanzialmente erano gli
stessi contratti collettivi che la stabilivano (in coerenza con il settore privato).
Nel 2009 (anche nel settore pubblico) c’è stato un ACCORDO QUADRO (identico a quello
del 2009 per il settore privato) che ha fissato in 3 ANNI la durata del contratto collettivo
(sia per la parte economica che normativa).
La legge Brunetta, allora, ha delegato il Governo a disciplinare la DURATA del contratto
collettivo (garantendo sempre la corrispondenza con il settore privato).
Una disciplina è stata concretamente emanata, ma non è molto chiara; infatti la legge ci
dice che “la durata del contratto collettivo viene stabilita in modo che sia garantita la
coincidenza tra la vigenza della parte economica e quella normativa”. Quindi la legge non
disciplina esattamente la DURATA del contratto collettivo; per legge è solo previsto che la
PARTE ECONOMICA (contiene semplicemente i minimi retributivi) debba avere la stessa
durata della PARTE NORMATIVA (riguarda i rapporti tra lavoratore e datori di lavoro; i
rapporti di lavoro individuali).
Mentre dal lato dei DATORI DI LAVORO l’efficacia soggettiva verso TUTTE LE P.A. è
garantita dalla circostanza che l’ARAN ha la rappresentanza legale di tutte le p.a. (tranne
per le Regioni a statuto speciale).
Nel SETTORE PUBBLICO, certamente, è garantita l’inderogabilità “in pejus” del contratto
collettivo (da parte del contratto individuale); ma questo non può essere ricondotta
all’art.2077 cc, non solo per quanto detto appena sopra, ma anche perché il 2077 non è tra
le norme del codice civile che il T.U.P.I. espressamente richiama.
L’inderogabilità, in questo caso, si desume sostanzialmente proprio da quelle tre norme
che abbiamo richiamato in tema di “efficacia soggettiva” (in materia di PARITA’ DI
TRATTAMENTO, VINCOLO DI RINVIO e OBBLIGO DI OSSERVANZA – vedi sopra).
E DEROGABILITA’ “IN MELIUS” OPPURE NO? Il contratto individuale può, nel settore
pubblico, garantire ad alcuni lavoratori trattamenti eventualmente più favorevoli rispetto a
quelli previsti dal contratto collettivo per altri lavoratori?
Sostanzialmente ci sono 2 TEORIE:
1. Non sono ammissibili trattamenti migliorativi da parte del contratto individuale; e
questa tesi si fonda sostanzialmente sull’ART.45 T.U. (che impone PARITA’ DI
TRATTAMENTO tra i lavoratori del settore pubblico e comunque trattamenti non
inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi).
2. C’è un limitato margine per cui la contrattazione individuale possa introdurre
trattamenti migliorativi rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi. Questa idea si
fonda su 2 osservazioni (anche se non molto convincenti):
L’ART.45 T.U. dice che “è garantita la parità di trattamento e COMUNQUE….”;
viene valorizzata l’espressione “COMUNQUE” per ammettere che una
qualche differenziazione di trattamento possa essere ammessa.
Il principio di parità di trattamento non vieta qualsiasi differenziazione ma
consente le differenziazioni che siano giustificate da delle ragioni oggettive;
quindi sarebbero ammesse deroghe migliorative, da parte del contratto
individuale, SE obiettivamente giustificate.
In realtà la Cassazione prevalente segue la PRIMA TESI (ossia considera vietati i trattamenti
individuale sia migliorativi che peggiorativi rispetto a quanto previsto dal contratto
collettivo); MA ammette dei trattamenti migliorativi e delle differenziazioni tra i diversi
lavoratori previsti dallo stesso contratto collettivo, SE obiettivamente giustificate per
diverse situazioni di fatto (ad esempio il fatto che certi lavoratori di un determinato
comparto/una determinata area del settore pubblico abbiano conseguito un certo titolo di
studio, consente, a parità di mansioni, magari una differenza migliorativa per valorizzare la
professionalità).
Ovviamente questi trattamenti migliorativi NON DEVONO ESSERE IN CONTRASTO con le
norme di legge.
24/11
Nel settore pubblico il CONTRATTO COLLETTIVO INTEGRATIVO deve rispettare i vincoli
stabiliti dal CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE, altrimenti è NULLO.
Nel SETTORE PUBBLICO questa questione è disciplinata in modo espresso dal T.U.P.I.; anzi
è stata disciplinata per 3 volte in 3 modi diversi:
1. PRIMA DELLA RIFORMA BRUNETTA: vi era stato un indirizzo di DELEGIFICAZIONE
molto spinta, quindi il ruolo della contrattazione collettiva era sicuramente centrale;
l’idea era quella che il contratto collettivo avesse competenza ad intervenire su tutte
le materie relative ai rapporti di lavoro e alle relazioni sindacali. In più, con
riferimento proprio al rapporto tra contratto collettivo e legge, era stata emanata
una disposizione secondo cui il contratto collettivo nazionale poteva derogare a
norme di legge specificamente emanate per il settore pubblico (quindi non a tutte
le norme di legge), durante la vigenza del contratto stesso, SALVO che la legge
disponga espressamente in senso contrario (quindi se il legislatore, nell’emanare
una legge speciale, voleva evitare che fosse derogabile dal contratto collettivo,
doveva ESPLICITAMENTE PREVEDERLO; se, invece, questa legge speciale taceva il
contratto collettivo successivo poteva liberamente derogare ad essa).
2. DOPO LA RIFORMA BRUNETTA: Brunetta non si fida della contrattazione collettiva e,
quindi, la tendenza è quella di dare nuovamente centralità alla LEGGE. Infatti, come
abbiamo già visto, le materie su cui la contrattazione collettiva può intervenire sono
ridotte; in certe materie (come, ad esempio, quella sull’esercizio del potere
disciplinare) il contratto collettivo può intervenire solo nei limiti di legge; ma
soprattutto si capovolge quel rapporto tra legge e rapporto collettivo che abbiamo
appena visto, perché si dice che le disposizioni di legge speciali per il settore
pubblico possono essere derogate dal contratto collettivo nazionale, e per la parte
derogata non sono più applicabili, SOLO SE LA LEGGE LO PREVEDE
ESPRESSAMENTE.
3. CON LA RIFORMA MADIA: annulla, in un certo senso, quanto stabilito dalla riforma
Brunetta e contiene, però, qualche altra modificazione.
L’articolo ci dice che “eventuali disposizioni di legge che introducano o abbiano
introdotto discipline dei rapporti di lavoro esclusivamente per i dipendenti delle
p.a., possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva e
nel rispetto dei principi del T.U., da successivi accordi o contratti collettivi, e per la
parte derogata non sono più applicabili”. Viene quindi eliminato l’inciso finale
“SOLO SE espressamente previsto dalla legge”.
NOVITA’:
Non serve l’espressa previsione, nella norma di legge, della derogabilità
Viene precisato che la norma si riferisce alle materie affidate alla
contrattazione collettiva (quindi l’ipotetica derogabilità riguarda solo le
materie affidate alla contrattazione collettiva- quindi gestione dei rapporti di
lavoro, ecc..)
Viene precisato il necessario rispetto delle norme del T.U. (che sono tutte
norme espressamente definite IMPERATIVE, e quindi non derogabili).
Quindi con queste modifiche introdotte dalla Legge Madia si introduce la generale
possibilità dei contratti collettivi di derogare alle norme di legge vigenti, MA la
portata della controriforma è in parte minore di quello che sembra perché i limiti
invalicabili restano quelli delle disposizioni imperative del T.U.P.I.; quindi le norme
imperative del T.U. restano inderogabili e dunque, sostanzialmente, il potere dei
contratti collettivi di deroga alla legge riguarda tutte le leggi del pubblico impiego,
MA DIVERSE DA QUELLE DEL T.U.P.I.
Inoltre si chiarisce in modo più esplicito che il potere di deroga si riferisce SOLO alle
materie che restano affidate alla contrattazione collettiva.
LIMITI/VINCOLI DI SPESA
E’ un aspetto che differenzia settore pubblico e settore privato, e limita fortemente la
contrattazione collettiva nel SETTORE PUBBLICO (anzi negli ultimi anni proprio questo
problema ha prodotto il BLOCCO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA nel settore
pubblico).
Nel SETTORE PRIVATO sono solo scelte di convenienza quelle che limitano le associazioni
datoriali nella stipula dei contratti collettivi (quindi i sindacati dei datori di lavoro sono
ovviamente liberi nell’individuazione degli aumenti salariali e nell’individuazione delle
risorse da garantire appunto alla contrattazione collettiva).
Nel SETTORE PUBBLICO, invece, prima della stipula definitiva il contratto collettivo deve
essere verificato compatibile con i vincoli di bilancio (addirittura prima di aprire i rinnovi
per la contrattazione collettiva, il Ministro del tesoro del bilancio deve quantificare l’onere
a carico dello Stato nella LEGGE DI BILANCIO/LEGGE FINANZIARIA; e la contrattazione
potrà poi svolgersi ferma la necessaria compatibilità dei contenuti della contrattazione
collettiva con le risorse stanziate, tanto è che i contratti collettivi sono accompagnati
proprio da prospetti che attestano la congruenza rispetto a vincoli di spesa che sono stati
programmati; anzi spesso nei contratti collettivi sono previste delle CLAUSOLE DI
SALVAGUARDIA che prevedono la possibilità di anche sospendere temporaneamente
l’esecuzione del contratto collettivo nel caso di esorbitanza rispetto ai limiti di spesa).
ALCUNI CASI (relativi ad aspetti del SETTORE PRIVATO che abbiamo già affrontato).
CASO 1: c’era stata un’azione dei lavoratori di un’azienda nella quale era stato sottoscritto
un CONTRATTO AZIENDALE INTEGRATIVO che disciplinava la materia delle pause degli
addetti ai videoterminali; e sostanzialmente in questo accordo si diceva che i lavoratori
avrebbero avuto diritto a delle pause di lavoro di durata diversa a seconda che fossero
impiegati a part time o a full time (in applicazione del “principio del PRO RATA TEMPORIS”-
quindi pausa più breve se orario di lavoro era più breve).
Ma la pausa INTERMEDIA durava 8 minuti o 10 minuti, in base all’orario di lavoro svolto
(quindi per il part time di 4 ore era prevista una pausa di 10 minuti; per il full time di 6 ore
e 40 minuti erano previste 2 pause di 8 minuti e 20 secondi); quando invece il T.U.P.I.
impone che gli addetti ai videoterminali svolgano periodi di pausa di 15 minuti continuativi
(durante questi minuti il lavoratore può sospendere la prestazione o può essere addetto a
mansioni diverse rispetto al videoterminale; il lavoratore può scegliere).
QUINDI: un accordo AZIENDALE che prevedeva pause di 8 minuti (magari per due volte e
articolate diversamente) e una norma di legge (T.U.P.I., di derivazione comunitaria) che
prevedeva la necessità di staccare dal videoterminale per almeno 15 minuti di seguito.
I lavoratori, allora, impugnano l’accordo AZIENDALE e denunciano il fatto se esso sia
conforme o no alle norme di legge, se sia peggiorativo rispetto alla legge?
In più il datore di lavoro sostiene che l’accordo aziendale non è peggiorativo perché
introduce una diversa distribuzione della pausa (che nel complesso rispetta i 15 minuti pur
essendo articolata), e dice “in ogni caso la disciplina aziendale è conforme a quanto
previsto dalle norme di legge anche tenuto conto dell’ART.8 del decreto Sacconi” (quindi
della possibilità di considerare quell’accordo aziendale come ACCORDO DI PROSSIMITA’).
QUALI SONO, PERO’, I LIMITI che devono essere rispettati anche dalla contrattazione di
prossimità?
Ci deve essere il necessario rispetto di limiti derivanti da NORME COSTITUZIONALI e da
NORME COMUNITARIE.
Infatti il giudice ha ritenuto che tale norma di legge (che era attuativa di una direttiva
comunitaria) non potesse essere derogata da parte della contrattazione aziendale (quindi
esclusione della derogabilità della norma interna, in quanto norma attuativa della
disciplina comunitaria).
Comunque si dice anche che si parla dell’art.8 (di cui i profili di legittimità costituzionale
sono discussi), ma in questo caso questo profilo non viene in gioco perché certamente la
norma di legge non può essere derogata in quanto attuativa di una direttiva comunitaria.
Quindi, in questo caso, I LAVORATORI HANNO AVUTO RAGIONE.
29/11
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL SETTORE PUBBLICO (continua)
Altre due norme importanti in tema sono l’ART.49 T.U. e l’ART.64 T.U. Si tratta di norme
esclusivamente dedicate al pubblico impiego, ma l’art.64 poi è stato “copiato” anche con
riferimento al settore privato (in particolare per quanto riguarda l’interpretazione dei
contratti collettivi e ai problemi relativi all’efficacia/validità/interpretazione del contratto
collettivo).
ART.49 T.U. (non ha un’omologa norma nel privato): riguarda la possibilità dei sindacati del
settore pubblico, insieme con l’ARAN, di stipulare i cosiddetti CONTRATTI COLLETTIVI DI
INTERPRETAZIONE AUTENTICA.
Il punto è che spesso, infatti, è oscura l’interpretazione del contratto collettivo (in questo
caso del settore pubblico); ci sono norme non chiare che generano contenzioso seriale
(cioè controversie identiche tra lavoratori e p.a. via via diverse).
Questo articolo agevola la sottoscrizione, per il solo settore pubblico, di
ACCORDI/CONTRATTI DI INTERPRETAZIONE AUTENTICA che hanno efficacia anche PER IL
PASSATO per TUTTE le parti coinvolte, purché siano effettivamente DI INTERPRETAZIONE e
non modificativi (è necessaria che la clausola sia fin dall’inizio oscura nel significato).
INTERPRETAZIONE AUTENTICA significa che sono le stesse parti stipulanti l’accordo che
con un SECONDO ACCORDO chiariscono il significato delle clausole controverse, MA
questo chiarimento vale, non solo per il futuro, ma anche per il passato (cioè esso chiarisce
con EFFICACIA RETROATTIVA quale era la corretta interpretazione appunto da dare al
contratto collettivo).
QUALE E’ IL REQUISITO affinché questi contratti possano essere stipulati?
La Cassazione ci dice che il REQUISITO è che tutte le parti firmatarie del precedente
contratto collettivo stipulino anche l’accordo interpretativo (ossia il secondo
accordo/contratto).
PROBLEMA DEI DIRITTI QUESITI (ossia di quei diritti “acquisiti”, che sono già entrati a far
parte del patrimonio dei lavoratori): la dottrina ci dice che DEVONO ESSERE FATTI SALVI,
MA non vengono compromessi quando l’accordo, non introduce modifiche per il passato,
ma è autenticamente interpretativo (ad esempio se una clausola dice che al lavoratore
spetta un aumento del 100 rapportato al fattore X, se la clausola ha un significato oscuro
potrebbe voler dire sia “spetta un aumento del 110” sia “spetta un aumento del 90”; quindi
deve trattarsi di un SIGNIFICATO OSCURO. A fronte di un’incertezza le parti possono
rincontrarsi per dire che FIN DALL’ORIGINE quella norma significava “spetta 90”). Quindi a
fronte di una clausola dal contenuto controverso, le parti possono rincontrarsi e chiarire il
significato di essa FIN DALL’INIZIO (i DIRITTI QUESITI, in questo caso, NON SONO
COMPROMESSI).
Infatti il secondo accordo non modifica il primo ma ne chiarisce il significato FIN
DALL’INIZIO.
Successivamente, nel 1995, ci sono stati i famosi REFERENDUM che hanno colpito l’art.19
SL; uno di questi referendum ha colpito l’ART.47 L.29/1993 (antenata del T.U.P.I.) e l’ha
abrogato.
L’ART.47 non disciplinava le RSA (come invece faceva l’art.19 SL) ma dettava le regole per
individuare le Confederazioni (ossia i sindacati confederali) maggiormente rappresentative
nel pubblico impiego. QUALI ERANO QUESTE REGOLE?
COMMA 1 demandava ad un accordo, tra le stesse Confederazioni e il Presidente del
Consiglio dei Ministri, l’individuazione delle Confederazioni maggiormente
rappresentative. E le Confederazioni che potevano stipulare tale accordo erano quelle che
rispondevano ai requisiti indicati in un certo art.8; cioè in pratica quelle che avevano gli
INDICI DI MAGGIORE RAPPRESENTATIVITA’ (come la diffusione territoriale, il numero degli
scritti, ecc..) già visti per il settore privato (COMMA 2).
Il REFERENDUM, però, ha abrogato tale articolo (secondo il parere del Consiglio di Stato
del 1995 sono stati “spazzati via” sia il comma 1 che il comma 2) e ha causato un VUOTO
LEGISLATIVO/VUOTO DI TUTELA (quindi non si sapeva più chi erano le Confederazioni
maggiormente rappresentative che potevano costituire RSA).
E’ intervenuto il Ministro TREU con una CIRCOLARE dove ha detto che “in attesa di un
nuovo intervento del legislatore, IN VIA PROVVISORIA, si doveva continuare a fare
riferimento ai vecchi indici in vigore nel settore privato” (per individuare le Confederazioni
maggiormente rappresentative).
Ovviamente la nuova disciplina è intervenuta ed OGGI essa è contenuta nell’ART.42 T.U.
Questo articolo ha abolito il privilegio per le Confederazioni e ha sancito che le RSA, nel
settore pubblico, possono essere costituite AD INIZIATIVA e NELL’AMBITO delle
ORGANIZZAZIONI sindacali ammesse alle trattative per la stipula del contratto collettivo
nazionale.
QUALI SONO? Quelle che hanno il 5% di rappresentatività nel comparto (come media tra
DATO ASSOCIATIVO e DATO ELETTORALE).
Nel pubblico impiego, quindi, vale la stessa regola del privato solo che è legificato il
requisito per essere ammessi alle trattative.
Altra differenza con il settore privato è che NEL SETTORE PUBBLICO l’iniziativa spetta ai
SINDACATI (mentre nel privato spetta ai LAVORATORI).
ART.37 SL: chiarisce che “le norme dello Statuto si applicano anche al pubblico impiego,
SALVO CHE ci sia una disciplina speciale che dispone in senso contrario/diverso”; quindi le
norme del Statuto dei lavoratori sono NORME SUPPLETTIVE (bisogna coordinare le norme
dello Statuto con quelle del T.U., in particolare con l’ART.42 T.U.).
DISCIPLINA DELLE RSA NEL SETTORE PUBBLICO (continua; sempre ART.42 T.U.)
Alle RSA spettano i PERMESSI di cui agli artt. 23-24-30 SL (quindi i permessi sindacali
RETRIBUITI, NON RETRIBUITI e permessi dei DIRIGENTI ESTERNI). Ma con una differenza
fondamentale rispetto al settore privato, infatti nel settore pubblico i permessi spettano,
non per intero a ciascuna RSA, ma in proporzione della rispettiva rappresentatività; e sono
OGGI disciplinati dall’ACCORDO QUADRO DEL 1998.
Anche nel settore pubblico si è avuto il sorpasso delle RSA da parte delle RSU. Nel senso
che lo stesso T.U.P.I prevede la possibilità (nel settore pubblico) di costituire, in alternativa
alle RSA, le RSU (qui, in realtà, sono anche chiamate ORUP- Organismi di Rappresentanza
Unitaria Personale).
DIFFERENZA FONDAMENTALE rispetto al settore privato: nel settore pubblico le RSU sono
disciplinate direttamente dalla LEGGE (mentre nel settore privato le RSU trovano disciplina
esclusivamente nella CONTRATTAZIONE COLLETTIVA).
Quindi il T.U.P.I. prevede rispettivamente agli ART.42-43 due forme alternative di
rappresentanze sindacali, le RSA e le RSU (ma incentiva espressamente le RSU perché,
sostanzialmente, nel momento in cui si configura la rappresentatività/forza del sindacato
come media tra DATO ASSOCIATIVO e DATO ELETTORALE e il DATO ELETTORALE è dato dal
numero dei voti che ciascun sindacato ottiene nell’elezione della RSU, è chiaro che tutti i
sindacati sono incentivati ad avere una propria RSU).
Membri delle RSU non devono essere necessariamente iscritti al sindacato; nel settore
pubblico devono aver partecipato alle elezioni almeno il 50%+1 degli elettori (nel settore
privato è irrilevante tale quorum).
Nel settore pubblico, però, non bastano RSA ed RSU; i sindacati sono stati particolarmente
forti ed hanno ottenuto l’idea per cui “se anche un sindacato costituisce la RSU (invece
della RSA), può comunque mantenere nell’unità amministrativa/organizzativa interessata
dei propri TERMINALI DI TIPO ASSOCIATIVO”, ossia dei propri rappresentanti sindacali (che
sono emanazione del sindacato, piuttosto che dei lavoratori) che hanno riconosciuti
anch’essi i permessi e le prerogative che spettano ai sindacati esterni (questo perchè, in
realtà, l’accordo del 1998 ha riconosciuto in capo ai sindacati una quota di permessi,
prerogative, ecc; ad esempio la convocazione dell’assemblea può essere fatta anche
dall’associazione sindacale).
IN CONCLUSIONE si può dire che nel settore pubblico è conservato il modello associativo
a favore delle RSU (tramite appunto questi TERMINALI ASSOCIATIVI).
CASO 1: lavoratrice dell’Ikea è stata licenziata in tronco perché era venuto meno il
rapporto di fiducia, in quanto la lavoratrice in più occasioni si era rifiutata di iniziare il turno
all’orario stabilito ed aveva iniziato 2 ore più tardi (questo perché le erano state modificate
le mansioni e quindi i turni ed essa, avendo un figlio piccolo ed un altro figlio disabile,
aveva avvisato che non riusciva ad iniziare all’orario stabilito).
Il licenziamento ha provocato lo sciopero degli altri dipendenti dell’Ikea a sostegno
appunto della lavoratrice.
E’ LEGITTIMO TALE SCIOPERO? E’ SCIOPERO DI SOLIDARIETA’.
La Corte Costituzionale (come abbiamo già visto) ha detto che E’ LEGITTIMO ma purché ci
sia una COMUNANZA DI INTERESSI tra i due gruppi (quello scioperante e quello, anche
singolo lavoratore, a sostegno del quale si sciopera); la sussistenza di tale comunanza va
valutata dal giudice.
In questo caso è chiaro che la comunanza di interessi (in quanto la situazione capitata alla
lavoratrice è qualcosa che potrebbe succedere anche a qualsiasi altro suo collega
dell’azienda) c’è e quindi lo SCIOPERO DI SOLIDARIETA’ E’ LEGITTIMO.
CASO 2: presso la ditta Electrolux c’era stato il cosiddetto SCIOPERO DELLE DONNE (in
occasione dell’8 Marzo) ed erano stati sanzionati i lavoratori che si erano astenuti dal
lavoro in concomitanza con questo sciopero. A fronte di tali sanzioni un altro gruppo di
lavoratori ha scioperato.
Per quanto riguarda il secondo sciopero si tratta sicuramente di uno SCIOPERO DI
SOLIDARIETA’; però il primo sciopero (“delle donne”) che tipo di sciopero è? Sembrerebbe
uno SCIOPERO POLITICO PURO e non uno SCIOPERO ECONOMICO POLITICO (nel caso in
cui si trattasse di “sciopero politico puro” non saremmo di fronte ad un DIRITTO ma ad una
MERA LIBERTA’; quindi il lavoratore perde il diritto alla retribuzione e in più si avrebbe un
INADEMPIMENTO e perciò sarebbe eventualmente assoggettato ad una sanzione
disciplinare, come effettivamente era successo in questo caso concreto).
CASO 3: datore di lavoro sottoscrive un contratto collettivo aziendale che stabilisce criteri
per la distribuzione dell’anticipazione sul TFR in caso di eccedenza nelle domande (infatti,
come sappiamo, se le domande sono troppe devono essere soddisfatte entro i limiti del
10% degli aventi titolo e il 4% del totale). Il datore di lavoro stabilisce con un contratto
collettivo (stipulato con i sindacati) che per primi avranno diritto all’anticipazione quei
lavoratori che hanno fatto richiesta per esigenze di tipo medico (di tutela della salute).
Arrivano tutte le richieste e un lavoratore (non iscritto al sindacato firmatario di quel
contratto collettivo) resta escluso e, in primis, lamenta che quel contratto collettivo non
può avere effetto dei suoi confronti (in base agli ordinari criteri sull’efficacia soggettiva del
contratto in base ai quali “il contratto collettivo si applica solo ai lavoratori iscritti al
sindacato o in caso di RINVIO”).
Ma qui siamo di fronte ad un contratto collettivo aziendale GESTIONALE (o DI
PROCEDIMENTALIZZAZIONE) perché va a vincolare un potere che, in mancanza di esso, il
datore potrebbe esercitare liberamente nei confronti di TUTTI i lavoratori.
QUINDI: questo contratto collettivo, essendo GESTIONALE, si applica a TUTTI i lavoratori e
perciò il ricorso del lavoratore è stato respinto (la condotta del datore è LEGITTIMA perché,
in assenza del contratto collettivo, egli avrebbe comunque posseduto tale potere di
attuazione di criteri di scelta dei lavoratori a cui attribuire l’anticipazione). Infatti la Corte
Costituzionale ci ha detto che l’art.39 Cost. (che contrasta l’efficacia “erga omnes” dei
contratti collettivi) vale solo per i contratti collettivi NORMATIVI e non per quelli
GESTIONALI.
30/11
ASSISTENZA SANITARIA INTEGRATIVA (prevista dai contratti collettivi nel SETTORE
PRIVATO)
Si discute di questo tema soprattutto a partire dagli ultimi anni con riferimento a
determinati FONDI DI ASSISTENZA SANITARIA (tra cui il più famoso è FONDO EST). Infatti,
recentemente, uno dei problemi che interessano di più le aziende è questo: le aziende che
non sono iscritte all’associazione sindacale (in questo caso associazione datoriale)
firmataria del contratto collettivo in cui è istituito tale fondo sanitario integrativo a favore
dei dipendenti (ad esempio devo fare una riabilitazione, non avrei copertura nel sistema
sanitario, ma questo ciclo di riabilitazione è coperto dal fondo) MA che applicano
comunque di fatto tale contratto collettivo ai propri dipendenti (per esempio per RINVIO
TACITO), SONO OBBLIGATE AD APPLICARE ANCHE LE CLAUSOLE RELATIVE ALL’OBBLIGO
DI GARANTIRE L’ASSICURAZIONE SANITARIA AI DIPENDENTI OPPURE NO? E, in
particolare, queste aziende sono obbligate a garantire tale assicurazione sanitaria PER
POTER FRUIRE DEI BENEFICI FISCALI/CONTRIBUTIVI (ecc..) che discendono
dall’applicazione dei contratti collettivi?
Come abbiamo già visto parlando di “efficacia soggettiva del contratto collettivo”, il
legislatore incentiva l’applicazione da parte dei datori di lavoro attraverso degli SGRAVI
FISCALI/CONTRIBUTIVI; infatti ci sono molte leggi (tra cui legge finanziaria 296/2006) che
condizionano il godimento di benefici fiscali/contributivi alla circostanza che il datore di
lavoro applichi il contratto collettivo ai propri dipendenti.
Ma allora PER POTER USUFRUIRE DI TALI BENEFICI E’ NECESSARIO APPLICARE SOLO LA
PARTE NORMATIVA o ANCHE QUELLA OBBLIGATORIA? La giurisprudenza ha chiarito che
basta applicare solo la PARTE NORMATIVA del contratto collettivo.
PROBLEMA: bisogna capire se queste clausole del contratto collettivo, che istituiscono dei
fondi sanitari, sono appartenenti alla parte obbligatoria oppure alla parte normativa
(perché se sono appartenenti alla parte obbligatoria NON E’ NECESSARIO che il datore di
lavoro le applichi per ottenere gli sgravi; se sono appartenenti alla parte normativa, invece,
il datore di lavoro le deve necessariamente applicare per godere degli sgravi).
In un primo momento la giurisprudenza ha chiarito che tali clausole del contratto collettivo
appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA.
Se non che, negli ultimi anni, è cambiato il testo delle clausole in questione ed è stato
stabilito (dai contratti collettivi del settore terziario che prevedono tali clausole che
istituiscono tali fondi sanitari) che il datore di lavoro deve garantire l’iscrizione dei
lavoratori al fondo e che, se il datore di lavoro non versa i contributi al fondo (in modo da
permette l’iscrizione), in sostituzione egli deve elargire direttamente al lavoratore una
somma in denaro equivalente in busta paga.
Una clausola così concepita appartiene ancora alla PARTE OBBLIGATORIA del contratto
collettivo, oppure appartiene alla PARTE NORMATIVA (perché introduce dei diritti
direttamente a vantaggio dei rapporti di lavoro)? Appartiene alla PARTE NORMATIVA.
Ecco che OGGI sicuramente è obbligatorio anche per i datori di lavoro, che non sono ad
associazioni sindacali stipulanti ma che applicano comunque il contratto collettivo ai propri
dipendenti (ad esempio tramite rinvio tacito), applicare anche queste clausole (che
istituiscono i fondi sanitari).
Ed, in particolare, l’applicazione di queste clausole è un requisito NECESSARIO affinché
quei datori di lavoro possano usufruire dei benefici contributivi e fiscali.
CASO: lavoratrice che proprio per la mancata iscrizione al fondo sanitario da parte del
datore di lavoro non aveva ottenuto il rimborso di 890 euro di ticket sanitario che
alternativamente sarebbero invece stati coperti dall’assicurazione.
Fa ricorso contro il datore di lavoro e sostiene che ha diritto ad ottenere il rimborso (da
parte dell’azienda) che è obbligata proprio per effetto del RINVIO al contratto collettivo
nella lettera di assunzione (infatti siamo proprio nel caso in cui il datore di lavoro non era
iscritto al sindacato firmatario, ma di fatto applicava per RINVIO il contratto collettivo che
prevedeva clausole che istituivano tale fondo sanitario).
Il datore si difende dicendo “no, io non sono iscritto al sindacato stipulante, ma applico il
contratto collettivo per RINVIO; quindi devo applicare solo la parte normativa, non devo
applicare la parte obbligatoria e quindi non sono responsabile della mancata iscrizione”.
Il Tribunale rileva quanto appena detto sopra, cioè che quel contratto collettivo in concreto
prevedeva a carico dell’azienda un contributo al fondo sanitario (FONDO EST) di 10
mensili+ una quota tantum, MA in alternativa prevedeva che il datore di lavoro versasse gli
stessi importi in busta paga al lavoratore in mancanza di iscrizione al fondo.
Il datore di lavoro non aveva né iscritto la lavoratrice (che ne aveva fatto esplicita richiesta)
né aveva versato l’importo corrispondente e quindi era INADEMPIENTE e ha dovuto
pagare alla lavoratrice la somma in oggetto.
Importante è che entro 7gg dalla stipula del contratto di solidarietà, il datore di
lavoro presenti (in via telematica) la DOMANDA DI INTERVENTO da parte dello
Stato. Se la domanda viene ACCETTATA, allora i lavoratori avranno diritto
all’INTEGRAZIONE SALARIALE (a fronte della riduzione di personale).
Se la domanda è tardiva (ossia viene presentata dopo i 7gg dalla stipula) come
SANZIONE c’è uno slittamento in avanti di 30gg dell’integrazione salariale (quindi il
datore di lavoro che non presenta la domanda nei 7gg, resterà scoperto, anche se
poi la domanda viene accolta, per i primi 30gg di questo trattamento).
Ancora dobbiamo tener conto che chiaramente il datore di lavoro che stipula tali
contratti perde, in qualche modo, quella libertà di gestione degli orari che aveva
precedentemente (nel senso che eventuali aumenti di orario, che possano poi
essere poi introdotti in azienda da esigenze temporanee o sopravvenute, devono
essere espressamente specificate nell’accordo/contratto).
NEL 1984 c’è il cosiddetto MANCATO ACCORDO DI SAN VALENTINO (il 14 febbraio
Governo e sindacati, dei lavoratori e dei ddl, cercano di raggiungere un accordo, ma
questa volta la CGIL non firma); anche in questo accordo l’idea era quella di
contenere le retribuzioni in cambio di vantaggi a favore dei lavoratori.
Malgrado il dissenso della CGIL il Governo emana il DECRETO LEGGE proprio con
riferimento al BLOCCO DELLE SCALE MOBILI ANOMALE (quindi comunque persegue
quegli obiettivi su cui non si era raggiunto il consenso); in questo modo viene per la
prima volta sovvertita la prassi di “non legiferare sulla materia senza il consenso dei
3 soggetti interconfederali”.
Chiaramente la questione viene portata davanti alla Corte Costituzionale ed essa
considera totalmente legittimo tale intervento (del Governo) e precisa, anzi, che nel
rapporto tra legge e contrattazione collettiva, la legge può fissare dei tetti/limiti alla
contrattazione collettiva (questo perché la tutela dell’interesse pubblico prevale su
quello collettivo e comunque perché si trattava di un intervento emergenziale).
DIFETTO DI QUESTI ACCORDI: il sacrificio immediato dei lavoratori era compensato da
misure legislative/di intervento non immediate ma di lungo periodo (e che avevano
ricadute solo eventuali sui lavoratori); questo ovviamente ha comportato la difficoltà di
stipulare nuovi accordi di questo tipo e, infatti, per molto tempo la concertazione si è
interrotta (anche per la crisi fiscale degli Stati e per la scarsità di risorse a disposizione da
spendere in questa negoziazione).
La ripresa della concertazione si ha negli Anni Novanta (di 2° tipo) con il PROTOCOLLO
GIUGNI DEL 1993 (si arriva ad esso perché l’idea era che l’Italia dovesse rispettare i
parametri richiesti per l’Euro, e quei parametri non erano assolutamente rispettati in
particolare a causa dell’elevata inflazione); infatti l’obiettivo era soprattutto di arrestare
l’inflazione.
TALE PROTOCOLLO ha:
Riformato la struttura della contrattazione collettiva (introducendo i 2 livelli,
NAZIONALE ed AZIENDALE; ma ruolo centrale del contratto collettivo NAZIONALE)
Introdotto la cosiddetta INDENNITA’ DI CONTINGENZA (e soprattutto il
meccanismo di recupero della perdita del valore di acquisto dei salari sulla base
dell’INFLAZIONE PROGRAMMATA, più bassa, e non di quella REALE)
Prefigurato l’introduzione delle rappresentanze sindacali in Italia.
Si capisce chiaramente che si tratta una forma di concertazione di secondo tipo (quindi la
negoziazione è sugli obiettivi, ma poi lo Stato interverrà con le sue LEGGI e i sindacati
interverranno con i propri ACCORDI INTERCONFEDERALI); tanto è vero che segue la stipula
dell’ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 20 Dicembre 1993 (che per esempio dà vita alle
RSU).
Tale protocollo è un successo (perché salva l’Italia dall’inflazione), ma nel contempo blocca
i salari; quindi le spinte successive (degli anni 1995-96-98) sono alla revisione di tale
protocollo e al decentramento della contrattazione collettiva (l’idea è che la contrattazione
collettiva debba essere sempre più portata a livello DECENTRATO).
Fino ad arrivare al famoso LIBRO BIANCO del 2001 (del giurista Marco Biagi) in cui viene
teorizzato il DIALODO SOCIALE (cioè lo STOP ALLA CONCERTAZIONE e l’avvio di prassi di
consultazione molto più blande e molto meno coinvolgenti per i sindacati).
Nel 2002 abbiamo la firma del cosiddetto PATTO PER L’ITALIA (tra CISL e UIL) dove
vengono disegnate quelle che saranno le future riforme (poi introdotte dalla Riforma
Biagi); MA questo NON VIENE FIRMATO DALLA CGIL (questo, però, non è un ostacolo
perché nel LIBRO BIANCO si teorizzava la contrattazione dei sindacati e poi la stipula di
questi accordi di concertazione A MAGGIORANZA, ma intesa come MAGGIORANZA DEI
SINDACATI a prescindere dal numero dei lavoratori rappresentati; perciò questo PATTO era
stato firmato da 2 sindacati su 3 e quindi era LEGITTIMO).
COSA PREVEDEVA? Prevedeva un intervento radicale di riforma del mercato del lavoro, nel
senso della FLEXICURITY (più flessibilità in cambio di maggiore sicurezza nel mercato del
lavoro). Cioè l’idea era che si dovessero attuare le riforme per moltiplicare anche i contratti
non standard ed in cambio di questa MAGGIORE FLESSIBILITA’ si dovessero, però, dare ai
lavoratori più facilmente espulsi dal mondo del lavoro maggiori tutele/maggiori
ammortizzatori sociali nel mercato del lavoro.
La realizzazione dei contenuti previsti in questo patto era prevista in DUE TAPPE:
FLESSIBILITA’ (raggiunta)
SICUREZZA (quindi maggiori tutele per i lavoratori; mai attuata perché mancavano
le risorse). Anche questo probabilmente è stato il motivo per cui la CGIL ha deciso di
non firmare tale patto.
PATTO SUL WELFARE DEL 2007 (su previdenza, lavoro, competitività): vengono concordate
(tra sindacati e Governo) quelle che saranno le successive modifiche legislative (in
particolare in materia di cuneo fiscale, di correttivi alla legge Biagi, ecc..).
ULTIME RIFORME (riforma Fornero, Jobs Act) sono state accompagnate da un DECLINO
DELLA CONCERTAZIONE e ad un ARRETRAMENTO DEL RUOLO DEL SINDACATO; con
conseguente indebolimento della contrattazione collettiva nazionale, e semmai con ripresa
della CONTRATTAZIONE COLLETTIVA DECENTRATA.
CHE COSA SUCCEDE SE IL CONTRATTO AZIENDALE DISCIPLINA MATERIE CHE NON GLI
SONO STATE DELEGATE?
Due casi:
1. CONFLITTO SOGGETTIVO/APPARENTE: contratto AZIENDALE regola materie che
non sono delegate dal contratto NAZIONALE (eccede i limiti), ma NON LO FA IN
CONTRASTO (non c’è un conflitto con il contratto nazionale).
In questo caso i 2 contratti possono convivere.
Esempio: contratto nazionale non delega la materia dei salari di produttività, ma
nemmeno il contratto nazionale la regola. Contratto aziendale la regola, ma non c’è
un vero conflitto; quindi si applica il contratto AZIENDALE.
2. Contratto AZIENDALE regola materie non delegate e lo fa IN CONTRASTO con
quanto stabilito dal contratto NAZIONALE (c’è un CONFLITTO REALE).
Cosa succede?
Cassazione dice che bisogna ricercare l’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLE PARTI SOCIALI
(che stabilisce la prevalenza del contratto NAZIONALE e l’inefficacia del contratto
AZIENDALE).
Il PROBLEMA è che le clausole del T.U. (CLAUSOLE DI RINVIO, che stabiliscono quale
contratto prevale e sono contenute negli accordi interconfederali) appartengono,
secondo la giurisprudenza, appartengono alla PARTE OBBLIGATORIA; quindi la loro
violazione non comporta affatto la nullità/l’inefficacia del contratto AZIENDALE che
eccede i limiti stabiliti dal contratto NAZIONALE. Non si può dare la nullità di un
contratto per la violazione di un altro contratto, serve la violazione di una norma di
legge (questo vale solo nel settore privato).
ALLORA COME SI RISOLVE IL CONFLITTO TRA CONTRATTO COLLETTIVO
NAZIONALE ed AZIENDALE?
CONFLITTO APPARENTE: in realtà è regolato dalle stesse clausole dell’accordo. Si
utilizza il criterio dell’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLE PARTI (secondo la
GIURISPRUDENZA).
CONFLITTO REALE: contratto aziendale eccede i limiti delle clausole d’uscita. In
questo caso sono proposti 4 criteri per risolvere il conflitto (perché sono criteri che
la dottrina e la giurisprudenza ricavano dai principi generali dell’ordinamento):
a. FAVOR: prevale il contratto più favorevole. Si dovrebbe ricavare dall’ART.2077
cc (solo che è riferito al rapporto tra contratto COLLETTIVO ed INDIVIDUALE;
in più vale per il contratto collettivo CORPORATIVO). Questo criterio non va
bene.
b. GERARCHICO: prevale il contratto collettivo NAZIONALE. NON VA BENE
c. SPECIALITA’: prevale il contratto collettivo AZIENDALE (perché è quello che
regola gli interessi più vicini al rapporto di lavoro). NON VA BENE
d. CRONOLOGICO: prevale il contratto collettivo stipulato per ultimo. CRITERIO
SEGUITO DALLA GIURISPRUDENZA/CASSAZIONE. Si può criticare perché ha
senso quando si comparano contratti che provengono dagli stessi soggetti,
mentre qui la comparazione è tra contratti che provengono da soggetti
diversi.
Attualmente qualcuno, ma solo in DOTTRINA, considera il CRITERIO
GERARCHICO (ragionando “al contrario” dell’art.8, ossia se non ricorrono i
presupposti/limiti stabiliti da tale articolo si dice che la regola generale dice che
il contratto NAZIONALE prevale).
OGGI (in GIURISPRUDENZA) c’è una consapevolezza della sempre maggiore
centralità anche del contratto aziendale proprio per far fronte a situazioni di crisi,
quindi molte sentenze (tramite criterio CRONOLOGICO o dell’EFFETTIVA
VOLONTA’ DELLE PARTI) arrivano a dire che il contratto AZIENDALE può
derogare al NAZIONALE anche oltre i limiti delle clausole d’uscita.
CASO: operaio pulitore a cui era stata ordinata una trasferta. Il contratto collettivo
NAZIONALE prevedeva un’INDENNITA’; ma tale clausola viene derogata in pejus da un
contratto collettivo AZIENDALE che, per salvaguardare il livello di partecipazione, esclude il
diritto del lavoratore a tale indennità.
La giurisprudenza non ha ritenuto che ci fosse un CONFLITTO REALE, quindi è andata a
vedere l’EFFETTIVA VOLONTA’ DELLE PARTI e perciò il contratto aziendale che ha derogato
in pejus il contratto NAZIONALE è valido.
Nel settore pubblico, invece, il contratto INTEGRATIVO che deroga in pejus al contratto
nazionale è sempre nullo.
RSA e RSU
RSA/RSU= lavoratori dipendenti dell’azienda che svolgono la funzione di rappresentanti di
essi. RSA rappresentano ciascuna un gruppo di lavoratori; RSU rappresentanza unitaria di
TUTTI i lavoratori dell’azienda.
DUE REQUISITI RIMASTI FERMI NEL TEMPO:
1. Possono costituire RSA solo nelle aziende in cui l’unità produttiva supera i 15
dipendenti
2. Ci deve essere l’INIZIATIVA DEI LAVORATORI (per le RSU, invece l’iniziativa viene
presa dai SINDACATI che indicono le elezioni e presentano le liste; in questo modo
ammettiamo che la RSU non sia una forma di RSA e per molti questo non è giusto).