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Il Diritto del Lavoro è quel complesso di regole giuridiche destinate a regolare il mondo del lavoro; esso si
ripartisce tradizionalmente fra un Diritto del Lavoro in senso stretto (il diritto del rapporto individuale di
lavoro subordinato) e il Diritto Sindacale (il diritto dei rapporti collettivi, che regola i sindacati, il contratto
collettivo, lo sciopero, le rappresentanze dei lavoratori in azienda).
In epoca più recente c’è stato un ulteriore ampliamento dell’ambito della materia, all’interno della quale ha
acquisito una maggiore importanza la normativa del mercato del lavoro, ossia quello spazio ove si
incontrano (in un mercato ben funzionante), domanda e offerta di lavoro.
Tale allargamento dipende dalla maggiore attenzione riservata ai meccanismi di funzionamento del
mercato del lavoro, soprattutto per una più efficace protezione dei cittadini disoccupati, e di coloro che
neppure tentano di inserirsi nel mercato del lavoro.
Il Diritto del Lavoro che studiamo è quello Industriale, che si è sviluppato per regolare e attenuare i
problemi sociali provocati dalla Rivoluzione Industriale del XVIII secolo.
L’ambito soggettivo del diritto del lavoro, pur rimanendo concentrato sul lavoro subordinato tende ad
allargarsi attraendo alcune categorie di lavoratori non subordinati.
È uno di quei rami del diritto che più direttamente risente dell’influenza della situazione economica
generale.
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Volendo esaminare i modelli di diritto del lavoro che si sono susseguiti nel tempo, Il I° Modello delle
relazioni di lavoro, che sopravvisse fino ai primi anni 90 dell’800, si ispirò ai principi del Liberismo Puro.
In questo periodo in cui l’Italia era stata toccata dalla Rivoluzione Industriale, la relazione lavorativa si
svolgeva senza intermediari, tra il proprietario della fabbrica, detentore del capitale (il “padrone”, come Io
chiamava la legge), e il lavoratore.
Dal punto di vista sociale ed economico, tale relazione era squilibrata a vantaggio di chi offriva il posto di
lavoro, mentre chi Io cercava, essendo facilmente rimpiazzabile, doveva necessariamente sottostare alte
condizioni imposte dal primo.
Dal punto di vista giuridico, il codice poco attento a un fenomeno nuovo quale il lavoro, non conteneva
nulla di specifico al riguardo, se non il divieto di stipulare vincoli lavorativi a tempo indeterminato, per
evitare la riproposizione di rapporti servili a vita.
Il vero perno della disciplina lavoristica fu, allora, costituito dal Contratto, che in questo primo modello
venne improntato al liberismo più puro: si presupponeva, cioè, che ognuna delle due parti del rapporto di
lavoro potesse in tutta libertà regolare come meglio credeva tale relazione.
In nome della libertà contrattuale pura, ci si “accordava” per lavorare anche 18 ore al giorno in condizioni
disumane, in cambio di un salario da fame, poi, il rapporto di lavoro era risolvibile in ogni momento senza
necessità di alcuna giustificazione.
Il lavoratore era si formalmente “libero” di sottoscrivere o meno un tale contratto, ma la sua libertà finiva lì,
cioè nell’accettare di non lavorare (perché il datore avrebbe di sicuro trovato altre persone disposte ad
accettare le sue condizioni).
L’unico modo, per i lavoratori, di non sottostare a ricatti del genere, era quello di non presentarsi davanti al
datore di lavoro come singoli, ma come coalizione.
Senonchè tale modello respingeva anche un tentativo del genere, poiché, applicando fedelmente il divieto
di costituire entità intermedie tra l’individuo e lo Stato, esso proibiva l formazione di “intese tra gli operai”:
e stavolta non era più Il diritto privato ad intervenire, ma il diritto penale, trattandosi di un vero e proprio
reato, punito con pesanti sanzioni anche detentive (art. 386 c.p. sardo).
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-MODELLO LIBERALE “SOCIALE”
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, la modellistica liberale pura cominciò a reggere sempre meno, perché
ormai le allucinanti condizioni di vita dei lavoratori dell’industria erano sorto gli occhi di tutti.
Si arrivò così ad un nuovo modello di gestione delle relazioni di lavoro, nel quale i principi restavano quelli
del diritto privato di stampo liberale, corretti però da leggi “sociali”; allo scopo dì mitigare le conseguenze
più aberranti che potevano derivare dall’applicazione del primo modello.
Tale legislazione riguardò soprattutto la durata della giornata lavorativa e i riposi, la tutela del lavoro dei
fanciulli e delle donne, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.
Tuttavia, buona parte della legislazione sociale non si applicava a tutti i lavoratori, ma soltanto ad alcune
categorie ben determinate, che in quel caso erano per lo più i lavoratori della media e grande impresa
industriale, cioè non quelli più numerosi (perché la stragrande maggioranza della forza lavoro operava
allora in agricoltura) ma quelli la cui situazione appariva più bisognosa di tutele; oppure quella che
sembrava in quegli anni creare più timori, perché stava iniziando a coalizzarsi e a ribellarsi
A fine Ottocento, infatti, vennero meno i precedenti divieti di coalizione, e i lavoratori poterono
liberamente dar vita a varie forme di associazionismo.
Il codice penale entrato in vigore nel 1889 (codice Zanardelli) liberalizzò la costituzione di tali associazioni,
consentendo loro di stipulare coi datori di lavoro dei contratti “collettivi” che regolassero in maniera più
equa le condizioni lavorative, i primo luogo l’ammontare dei salari; era considerata libera, poi (anche se
soggetta all’ordinaria sanzione civilistica del risarcimento dei danni) l’astensione coIlettiva dal lavoro, cioè lo
sciopero, purché condotto in maniera pacifica.
Ogni norma sociale, infine, era caratterizzata dal requisito dell’inderogabilità: una disposizione destinata a
limitare il potere contrattuale della parte “forte” del rapporto non poteva poi essere annullata in tutto o in
parte, in senso peggiorativo per il lavoratore, da una pattuizione individuale (ovviamente, squilibrata) tra
questi e l’imprenditore.
In questo fondamentale momento genetico del diritto del lavoro, un ruolo importante fu giocato, da un
lato, da una magistratura “non togata”, i collegi dei probiviri, che, istituiti nel 1893 per risolvere le
controversie di lavoro nell’industria, finirono col creare molte regole innovative, che si sarebbero poi
imposte in futuro come vere e proprie norme di legge; dall’altro lato, dalla prima dottrina che cominciò ad
occuparsi della nuova materia: in particolare, Lodovico Barassi fu autore nel 1901 di una monumentale
opera nella quale sistemava civilisticamente il diritto del rapporto di lavoro, imperniandolo sulla categoria
del lavoro subordinato.
Nei primi due decenni dei Novecento, anche in Italia — accanto al prevalente lavoro in agricoltura - si
affermò un’industria più matura, segnata dalle strategie dell’organizzazione scientifica del lavoro, Il
taylorismo.
In questo contesto, il diritto del lavoro era ormai diventato un settore importante e autonomo .
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-MODELLO CORPORATIVO
Nel 1922 l’Italia divenne fascista, e il nuovo governo mostrò presto i tratti autoritari che i lavoratori già
conoscevano, poiché lo “squadrismo” fascista si era già da anni distinto nella repressione
dell’associazionismo sindacale.
Il fascismo impose una modellistica diversa da quella liberale precedente, incentrandola sul
“corporativismo”: questo era un sistema nel quale l’unico interesse meritevole di essere preso in
considerazione era, invece, quello superiore dello Stato, della “produzione nazionale”, che doveva
scavalcare ogni residua contrapposizione di classe.
L’enunciazione più solenne di questi principi si ebbe con la Carta del lavoro del 1927. Le corporazioni,
destinate ad aggregare materialmente datori di lavoro e lavoratori di uno stesso settore produttivo, in
realtà videro la luce tardivamente e mai ne furono definiti con precisione i compiti, sicché può dirsi che il
corporativismo restò per molti versi solo sulla carta.
Il rapporto individuale conservò praticamente inalterati i suoi tatti privatistici, vedendo anche rafforzati i
poteri datoriali nella gestione del rapporto di lavoro, già presenti nel vecchio modello (in primo luogo,
l’assoluta libertà di licenziamento).
Il legislatore dell’epoca intervenne molte volte in materia di tutela del lavoro, sia migliorando e
sistematizzando discipline preesistenti, sia con interventi di politica sociale.
Particolarmente importante fu la legge che nel 1924 disciplinò il rapporto dl lavoro degli impiegati delle
aziende private (anche stavolta una minoranza della popolazione lavoratrice, ma rappresentante di quei
ceti medi verso cui il regime voleva avere un occhio particolare, espettandosene un tornaconto).
Del tutto particolare si rivelò, invece, il modello fascista del diritto del lavoro collettivo, nel quale si esercitò
a pieno la vocazione autoritaria del regime.
Infatti, la libertà di organizzazione sindacale venne abolita.
Ogni categoria produttiva esprimeva un unico sindacato, nominato dai vertici fascisti, ed esso
rappresentava obbligatoriamente tutti i lavoratori della categoria, a prescindere dalla loro effettiva
adesione all’organizzazione.
Tale sindacato, ente di diritto pubblico, stipulava contratti collettivi che in realtà erano delle vere e proprie
leggi, essendo applicati automaticamente a tutti i Soggetti interessati.
Si impose, quindi, un modello dalle forti valenze pubblicistiche, nel quale anche il diritto penale riprendeva
la parola (il “codice Rocco” del 1930 sanzionava pesantemente Io sciopero), rigidamente sottomesso al
volere di un governo, e del suo capo, mai così forte come allora. Nel 1942, in piena seconda guerra
mondiale, entrò in vigore il nuovo codice civile, che ricomprendeva le (molte) norme che regolavano
l’impresa e le (poche) norme che regolavano il lavoro nello stesso libro, intitolato “Del lavoro”.
Ma, essendo la parte lavoristica quasi tutta incentrata sulla regolazione del rapporto individuale, il codice si
rivelava sostanzialmente molto più aderente all’ideologia liberale che non a quella corporativa, tant’è che
costituisce ancora oggi, a parte qualche ritocco, l’ossatura della materia.
Sull’altro versante dei rapporti collettivi di lavoro, la rovinosa caduta del regime fascista produsse
l’immediata abrogazione dell’ordinamento corporativo e il ripristino della libertà sindacale.
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La fine della seconda guerra mondiale (1945) portò alla progressiva formazione di uno Stato nuovo.
L’Italia nel 1948 si diede una Costituzione degna di un paese democratico e sociale. Da quel momento, e
per quasi 20 anni, il diritto del lavoro si sviluppò, però, secondo 2 distinti modelli, uno ideale e uno reale,
spesso in conflitto tra loro.
Il modello ideale era quello, delineato dalla Costituzione, di una struttura politica e sociale “fondata sul
lavoro” (art. 1), in cui il lavoro costituiva addirittura un “diritto” riconosciuto, promosso e tutelato (art. 4), in
cui c’era libertà di espressione e manifestazione delle proprie opinioni (art. 21), in cui si era preso atto che
l’eguaglianza formale in realtà non esisteva e che era quindi compito dello Stato rimuovere le
diseguaglianze di fatto e promuovere tutte le condizioni perché si realizzasse una vera eguaglianza
sostanziale (artt. 3 c. 2).
Un modello nel quale veniva approntata tutta una serie di diritti a favore del lavoratore in qualche modo
dipendente da altri: retribuzione adeguata, tutela del lavoro femminile e minorile, assistenza e previdenza
sociale, organizzazione sindacale e “diritto” (non più mera libertà) di sciopero (artt. 35-40).
Il diritto del lavoro, quindi, veniva riconosciuto dalla Costituzione come fondamentale strumento
antagonista di riscatto sociale e di promozione dell’eguaglianza sostanziale delle classi fino ad allora
escluse. Ma questo modello ideale non attecchì quasi per niente nell’Italia degli anni Cinquanta, che preferì
orientarsi verso un modello molto diverso; il modello fu ancora quello saldamente privatistico.
I rapporti di lavoro crebbero, pertanto, in un contesto nel quale il datore di lavoro conservava intatte tutte
le sue prerogative di carattere direttivo, tra cui principalmente li potere di licenziare liberamente il
dipendente; a questi, peraltro, veniva negata ogni libertà di espressione all’interno del luogo di lavoro,
mentre l’aggregazione sindacale e le manifestazioni di autotutela venivano troppo spesso osteggiate e
punite.
A questo risultato contribuì massicciamente il clima di guerra fredda di quegli anni, col mondo diviso
nettamente tra il blocco capitalistico occidentale e quello comunista sovietico.
Il sindacato stesso, appena riconquistata la libertà, perse subito la propria unitarietà, scindendosi in vari
tronconi, a seconda delle differenti scelte politiche.
Negli anni Sessanta, il paese aveva superato la fase della ricostruzione e si era trasformato nel paese del
“boom” e del “miracola economico».
In questa vera e propria mutazione, un ruolo fu giocato anche dalla disapplicazione dei diritti dei lavoratori
lungo tutto il decennio precedente.
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-MODELLO GARANTISTA
I tempi cambiarono profondamente verso la metà degli anni Sessanta, quando nel mondo intero si misero
in discussione i rapporti di forza esistenti all’interno della società, della famiglia, della scuola e del mondo
del lavoro.
Grazie anche ad una situazione politica nazionale favorevole, dopo l’ingresso al governo di un partito
tradizionalmente filo-operaio come quello socialista e alla spinta di larghe masse di lavoratori, che fecero
sentire in piazza la propria voce (nel cosiddetto “autunno caldo” del 1969), si poterono attuare le riforme
che imposero un modello garantista dei rapporti di lavoro.
Preceduto dall’importante legge che nel 1966 richiese finalmente la sussistenza di un valido motivo per
poter licenziare il dipendente, nel 1970 giunse lo “statuto dei lavoratori”, un provvedimento organico che
incarnava una sorta di Costituzione del mondo del lavoro.
Lo statuto provvedeva a limitare e disciplinare i poteri del datore di lavoro e nel contempo fungeva da
sostegno all’azione dei sindacati “maggiormente rappresentativi”, cioè delle grandi confederazioni, che,
superati i dissapori passati, vivevano una (effimera) stagione di unitarietà.
Un altro importante provvedimento di quegli anni fu la legge sul nuovo processo del lavoro (1973), ora, più
informale e veloce; condizione indispensabile per garantire effettività ai diritti dei lavoratori. In realtà,
buona parte della nuova normativa di tutela trovava applicazione ai soli lavoratori delle imprese dl medie e
grandi dimensioni, continuando a lasciare privi di tutela, o scarsamente tutelati, i dipendenti delle piccole
imprese.
In ogni caso, si affermò in quegli anni una “cultura delle garanzie”, che sarebbe da allora rimasta impressa
nelle menti di lavoratori e sindacati.
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-MODELLO EMERGENZIALE
Il complessivo ridimensionamento della struttura autoritaria del rapporto di lavoro operato dal modello
garantista subì un brusco rallentamento dopo il 1973, quando si fecero sentire in Italia gli effetti di una
potente crisi economica.
Essa giustificò la marcia indietro rispetto a molte delle conquiste appena ottenute, allo scopo di arginare la
crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, e la sempre più difficile sostenibilità da parte delle imprese
dei costi salariali e normativi fino ad allora garantiti.
Questo “diritto del lavoro dell’emergenza”, fu incentrato sulla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, che
cominciarono sempre più a divergere dal “prototipo” del rapporto a tempo pieno e indeterminato.
Le caratteristiche principali del modello emergenziale furono una grande attenzione agli “ammortizzatori
sociali”, in primo luogo la cassa integrazione, e, per la prima volta, un abbassamento del principio assoluto
di inderogabilità della norma lavoristica di tutela.
Dal canto suo, il sindacato, appena uscito trionfatore dalle lotte degli anni Sessanta, dovette abbandonare
strategie troppo rivendicative e vide, anche per questo, ridimensionare repentinamente Il suo ruolo,
vivendo una profonda crisi di adesioni.
Il nuovo modello di sviluppo delle relazioni di lavoro si calò, in quegli anni Settanta, in un contesto generale
non a caso definito degli “anni di piombo”, segnati dal terrorismo, che proprio nei dirigenti delle fabbriche,
e poi anche nei sindacalisti, individuò bersagli da colpire.
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-MODELLO CONCERTATIVO
Nel 1983 si sperimentò un nuovo modello di gestione delle relazioni di lavoro, anzi dell’intera politica del
lavoro italiana.
Esso era fondato sulla prassi della concertazione, cioè su incontri periodici trilaterali tra governo, sindacati
e rappresentanti delle imprese, al fine di delineare concordemente gli assetti delle strategie da assumere in
materia di lavoro.
Gli accordi conclusi a questi “tavoli” vincolavano ognuna delle tre parti a comportamenti corrispondenti agli
impegni presi.
Il modello, essendo fondato sulla collaborazione fra i rappresentanti di imprenditori e i lavoratori,
accantonando i propri interessi di parte, fu definito “neo-corporativo”.
I sindacati maggioritari videro riconoscersi una sorta di ruolo “istituzionale”, ma continuarono a perdere
scritti, sia in favore del sindacalismo autonomo, monocategoriale e perciò più combattivo, sia sotto le
critiche di lavoratori delusi, che lo accusavano di essersi burocratizzato e imborghesito.
Il modello concertativo delle relazioni di lavoro resse a lungo, anche oltre la fine del secolo scorso, tra alti e
bassi, adattandosi di volta in volta alle esigenze di tempi in rapida trasformazione.
Dagli anni Ottanta, infatti, iniziarono importanti fenomeni che ancora oggi fanno sentire i propri effetti.
Fu in quegli anni, ad esempio, che scoppiò la rivoluzione tecnologica, cioè l’irrompere dell’elettronica e
dell’informatica nei processi produttivi; iniziò la globalizzazione, cioè l’allargamento dei mercati —
compreso, quindi, quello del lavoro — alla concorrenza mondiale, anche di paesi, una volta definiti “in via di
sviluppo”, aggressivi e meno garantisti sul piano delle tutele normative del lavoro; si impose la progressiva
europeizzazione delle singole politiche nazionali.
Alla fine del XX secolo, il modello concertativo, che pure non riscuoteva le simpatie del centrodestra
destinato a governare a lungo il paese all’inizio del decennio successivo, si arricchì quindi di nuovi profili,
per far fronte alle esigenze appena segnalate.
La dose di flessibilità immessa nel mercato del lavoro fu ancora più cospicua, ed essa diventò poco alla volta
una sorta di sinonimo di precarietà; contemporaneamente, ad agevolare questo obiettivo, si fecero strada
sempre più prepotentemente ideologie neoliberiste, spesso molto radicali, esaltanti i valori della libertà
d’impresa e la necessità di un forte ridimensionamento delle garanzie del lavoratore dipendente.
Improvvisamente, tra li 1999 e il 2002, il diritto del lavoro italiano fu funestato dall’assassinio da parte delle
ricostituite Brigate rosse di Massimo D’Antona e di Marco Biagi colpiti perché entrambi, come
rappresentanti del governo (rispettivamente di centrosinistra e di centrodestra), erano stati le “menti” della
concertazione.
A cavallo dei due secoli, il dir itto dei lavoro si macchiava di sangue.
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Il terzo millennio si presenta ancora più globalizzato, sotto la pressione di una forte concorrenza
internazionale e l’influsso delle tecnologie informatiche.
Per quanto riguarda i Modelli del Diritto del Lavoro, a prevalere è quello della Flessibilità, declinato nei suoi
molteplici aspetti:
- l’impiego flessibile del lavoro, con la creazione di un’ampia tipologia contrattuale, la triangolazione lecita
dei rapporti di lavoro (somministrazione di lavoro) e l’outsourcing;
- la riduzione di tutele e dei contenuti del contratto individuale;
- la flessibilità delle tecniche di disciplina, con nuove relazioni tra le fonti del rapporto di lavoro (legge,
autonomia collettiva e autonomia individuale) e arricchimento delle fonti stesse, anche a seguito della
riforma del titolo V della Costituzione (sussidiarietà verticale ma anche orizzontale).
In particolare, la Legge Costituzionale 3/2001 ha potenziato, tra le fonti legislative, quelle regionali,
attribuendo a queste ultime la normativa di attuazione in materia di tutela e sicurezza sul lavoro.
Pur complicandosi ancor di più il quadro regolamentare, si tratta senz’altro di un’opportunità vantaggiosa,
in quanto avvicina le regole sociali sul governo del mercato del lavoro alle esigenze di realtà economico-
territoriali differenziate.
-La rivalorizzazione dei poteri datoriali;
-La flessibilità in uscita, specie con la L. 92/2012;
-La riduzione del welfare state e il suo ripensamento, ancora troppo debole perché la funzione del welfare
non è tramontata, ma c’è necessità di equilibrare interventi pubblici e partecipazione dei privati,
fronteggiando la crisi finanziaria, e soprattutto assicurare equità, tenendo conto dei mutamenti dei lavori e
della nascita di nuovi bisogni.
L’orientamento legislativo dell’ultimo dodicennio, improntato alla flessibilità, sembra mosso dall’idea che,
riducendo le tutele del modello standard del lavoro (durata indeterminata, orario pieno e ininterrotto), si
immagina di rimuovere una protezione eccessiva per gli occupati (insiders) che costituisce una barriera per
chi è in cerca di lavoro (outsiders).
Si ritiene che flessibilità del lavoro, intesa come minore tutela per il licenziamento, uso esteso dei contratti
flessibili, ampia disponibilità e negoziabilità dei diritti dei lavoratori, crei posti di lavoro.
Ma economisti e sociologi sottolineano come la correlazione non si riscontri empiricamente; anzi i dati
OCSE evidenziano la esistenza di paesi con legislazione del lavoro rigida e alti tassi di occupazione e
popolazione attiva, a fronte di paesi con leggi che tutelano assai poco gli occupati e presentano più bassi
tassi di occupazione.
Insomma le strategie giuslavoristiche che assumono come modello politico- sociale il mercato, senza
nessun occhio di riguardo al welfare, che improntano le proprie tesi al sostegno di libertà ed eguaglianza
formale, mentre l’eguaglianza sostanziale esce di scena, che sostengono l’autonomia delle parti e l’assenza
di qualsiasi velleità dirigistica del potere pubblico, sono irrazionali. Prima ancora che per il contrasto con il
modello costituzionale, esse sono spiazzate dai fatti, dall’economia che racconta altro, che ha svelato da
tempo che quella del mercato libero da qualsiasi interferenza sia soltanto un’icona, una falsa
rappresentazione della realtà, senza tener conto poi dei forti conflitti sociali.
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DIRITTO SINDACALE
Sezione 1: La Costituzione
La Costituzione repubblicana, in vigore dal primo Gennaio 1948, costituisce le fondamenta del nostro
ordinamento giuridico.; infatti essa è portatrice dei principi generali cui l'ordinamento deve costantemente
ispirarsi.
I Principi Fondamentali posti dalla Costituzione in tema di lavoro sono i seguenti:
- Art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale”.
Per “formazioni sociali” devono intendersi tutti i contesti tipici della nostra società quali, anche, il mondo
del lavoro.
Oltre a sancire diritti, l’art. 2 richiede l'adempimento "dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale".
Al “dovere di solidarietà” può essere ricondotto il dovere dell'imprenditore di occuparsi, della condizione
dei propri dipendenti, nonché quello di finanziare, attraverso il pagamento dei contributi obbligatori, i
trattamenti previdenziali destinati ai lavoratori.
- Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Tale articolo al I° comma sancisce la cosiddetta EGUAGLIANZA FORMALE (uguaglianza di tutti davanti alla
legge) che si traduce nel Principio di parità di trattamento. Quest’ultimo presuppone un divieto di disparità
di trattamento di situazioni eguali e un pari divieto di parità di trattamento di situazioni disuguali.
Un tale principio, calato nel mondo del lavoro, si traduce in un obbligo di non discriminazione del
lavoratore a causa della sua diversità di sesso, condizione sociale, convinzioni religiose o altro e altresì
presuppone un diverso trattamento, in tal caso più favorevole, nei confronti dei soggetti in posizione di
diversità — e di sostanziale svantaggio— rispetto ad altri, quali le donne e i disabili.
Al II° comma sancisce la cosiddetta EGUAGLIANZA SOSTANZIALE (le leggi, oltre ad essere uguali per tutti,
devono però prevedere leggi speciali a favore delle categorie più deboli) stabilendo l’obbligo in capo allo
Stato di rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino “diverso” di rendere effettiva, col lavoro, la sua
partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato.
- Art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere dì svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Al I° comma sancisce il riconoscimento del diritto al lavoro e conferisce al legislatore ordinario il compito di
garantire le condizioni per rendere effettivo l'esercizio di tale diritto. Tuttavia, il riconoscimento del diritto e
l'impegno a far sì che esso sia effettivo non significa che lo Stato si sia assunto l’onere di assicurare ad
ognuno un posto di lavoro; ciò è dovuto alla natura Programmatica e non Precettiva della disposizione.
Al II° comma finalizza il lavoro non solo al sostentamento del lavoratore e della sua famiglia, ma anche al
progresso materiale e spirituale della società.
- Art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le
organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di
emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano
all'estero”.
Tale disposizione pone la TUTELA DEL LAVORO
1. La concertazione.
In un ordinamento di diritto positivo la fonte primaria del diritto è pur sempre la legge, ma ciò non significa
che la sua formazione avvenga esclusivamente nelle aule parlamentari.
Nella predisposizione dei testi di legge aventi una certa incidenza in ambito sociale, infatti, si è affermata la
prassi della concertazione, ossia della previa consultazione delle parti sociali (cioè i sindacati) al fine di
ottenere un consenso non necessario ma significativo relativamente a decisioni aventi ripercussioni sociali.
Non di rado il governo ha fatto ricorso alla concertazione e in particolar modo nei casi in cui i provvedimenti
legislativi da adottare erano di tipo congiunturale e perciò richiedevano sostanziali limitazioni, più o meno
intense, a quelle che erano ritenute conquiste sindacali irrinunciabili ma ormai incompatibili con gli obiettivi
di ripresa economica, quale, ad esempio, il meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni al
rincaro del costo della vita (cosiddetta scala mobile).
La concertazione ha, tuttavia, pregi e difetti; essa, infatti, se da un lato registra il più ampio consenso delle
parti sociali, che in tal modo concorrono responsabilmente alle scelte di governo - ovvero della parte
datoriale - assicurandone la stabilità e l'accettazione da parte dei lavoratori rappresentati, dall'altro, se
spinta oltre, rischia di spostare il potere legislativo dalla sede naturale a quella delle relazioni sindacali in
quanto l'eccessivo peso dato alla parte sindacale si trasforma in un'ingerenza della stessa nelle scelte di
governo e ad una sostanziale abdicazione dei poteri propri di quest'ultimo a favore della prima.
La concertazione, che dal canto suo si è talvolta conclusa col dissenso di alcune componenti della parte
sindacale, in nessun caso prevede la conclusione di un accordo ne il governo, ove accordo ci sia, è vincolato.
all'esito dello stesso.
La concertazione è una prassi e non una regola, salvo che per quella parte del diritto del lavoro riguardante
il pubblico impiego, per il quale è invece una regola ben definita nell'ambito delle relazioni sindacali.
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2. La legge statale.
Non esiste alcuna differenza tra la procedura di formazione delle leggi "lavoristiche" e quella valevole in via
generale.
Esiste peraltro una forte tendenza all'impiego di strumenti alternativi alla legge, quali:
a) decreti legge: a causa delle risicate maggioranze parlamentari che imperavano nella Prima repubblica, e
della conseguente difficoltà dei governi di allora di far passare leggi in materia economico-sociale, si
instaurò la prassi di normare attraverso decreti legge che, non essendo poi convertiti dal Parlamento,
venivano continuamente reiterati.
Tale prassi fu bocciata dalla Corte Costituzionale che sancì, in via di principio, il divieto di reiterazione dei
decreti legge;
b) decreti legislativi: a seguito dello stop ai decreti legge, la prassi si è evoluta nella direzione di un
rinnovato utilizzo dei decreti legislativi, facendosi approvare dal Parlamento — da parte dei governi — leggi
delega molto ampie, spesso ai limiti del contrasto con l'art. 76 Cost., in quanto carenti di principi e criteri
direttivi sufficientemente specifici.
Tutte i principali provvedimenti in materia di lavoro degli ultimi dieci anni sono state elaborate con questa
tecnica (da ultimo, il d.lgs. n.66 del 2003, di riforma della disciplina dell'orario di lavoro, e il d.lgs. n. 276 del
2003, di riforma del mercato del lavoro).
Il grave rischio è che il baricentro del potere legislativo ne risulti squilibrato, e in particolare che il governo
si appropri, indebitamente, di prerogative spettanti al Parlamento.
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Prima della riforma del Titolo V della Costituzione, ad opera della legge n. 3 del 2001, non vi era dubbio
circa la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di lavoro.
Con la Riforma sono stati previsti 3 diversi ambiti di Competenza Legislativa:
a) Esclusiva dello Stato, es. la Politica Estera (Art.117 co.2 Cost.);
b) Concorrente tra Stato e Regioni, con competenza Statuale in ordine alla delineazione dei Principi
Fondamentali, e normativa di attuazione lasciata alle Regioni (Art. 117 co.3 Cost.);
c) Residuale delle Regioni, in tutte le materie non ricomprese nelle categorie sub a) e b) (Art.117 co.4
Cost.).
Dunque, dopo la Riforma, si era ritenuto che la competenza legislativa in materia di lavoro potesse
rientrare in quella residuale delle regioni; ciò in quanto l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, così
come riformato dalla legge n. 3 del 2001, ad esse attribuisce la competenza in materia di tutela e sicurezza
del lavoro.
Un tale orientamento è stato smentito dalla Corte costituzionale che ha fatto leva, a tal proposito, sulla
previsione di cui allo stesso art. 117, secondo comma, lettere l) e m), laddove si individua la competenza
esclusiva dello Stato in materia, rispettivamente, di ordinamento civile, del quale certamente fa parte il
diritto del lavoro, e di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, nei quali ultimi rientrano oltre al Diritto alla Salute e all’Istruzione, anche i Diritti nei confronti di
soggetti pubblici o privati che si legano alla condizione di lavoratore.
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4. Il regolamento.
Il peso dei regolamenti governativi in materia di diritto del lavoro è sempre stato assai scarso.
Esso è cresciuto soltanto in epoca recente, in funzione di esecuzione e specificazione della normativa
legale: è accaduto, infatti, che le leggi abbiano spesso fatto rinvio a regolamenti, la cui adozione è prevista,
da parte o del governo nella sua collegialità (d.P.R.), o del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.P.C.M.), o
di singoli ministri (d.m.).
Un recente esempio è rinvenibile, ancora una volta, nel d.lgs. n. 276 del 2003.
La crescente produzione regolamentare degli ultimi anni ha accentuato, pertanto, il già rilevato (e
denunciato) spostamento del baricentro normativo dal Parlamento al governo. Non sempre, fra l'altro, i
margini lasciati al regolamento riguardano aspetti di mero dettaglio.
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5. Le Autorità indipendenti.
Trattasi di organismi istituiti nella legislazione recente, onde assolvere varie funzioni di regolazione e
controllo di interessi pubblici di particolare rilevanza; si pensi alle Authority per le telecomunicazioni, o
quella per la privacy.
Quest'ultima, in particolare, ha una notevole importanza nel campo del diritto del lavoro, in quanto i
provvedimenti dell'Autorità garante concernono spesso problemi legati alla tutela della privacy dei
lavoratori subordinati.
Peraltro, tra le Autorità indipendenti merita una segnalazione particolare la "Commissione di garanzia per
l'attuazione della legge 12 giugno 1990 n. 146", istituita dalla legge omonima, con l'attribuzione di
un'importante serie di compiti afferenti alla disciplina ed alla gestione degli scioperi nei servizi pubblici
essenziali.
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6. Il Contratto Collettivo
Nel diritto italiano, il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è il contratto stipulato a livello nazionale
con cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro (o un singolo
datore) predeterminano congiuntamente la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (cosiddetta parte
normativa) e alcuni aspetti dei loro rapporti reciproci (cosiddetta parte obbligatoria).
Nel settore del pubblico impiego è stipulato tra le rappresentanze sindacali dei lavoratori e l'Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), che rappresenta per legge
l'Amministrazione Pubblica nella contrattazione collettiva. La banca dati ufficiale è tenuta dal Consiglio
Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL), che gestisce tra l'altro un archivio elettronico di tutti i CCNL
(correnti e passati) liberamente scaricabili.
La Contrattazione Collettiva, pur non potendosi considerare fonte normativa, ha, non di meno,
un’essenziale funzione normativa in senso materiale e, pertanto, verrà trattata separatamente.
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La competenza del Diritto Sociale Comunitario riguarda prevalentemente l'aspetto sociale e quella parte
del diritto del lavoro con esso più attinente: l'occupazione, la formazione, il mercato del lavoro, la tutela
della sicurezza, ccc.,
mentre gli aspetti più direttamente inerenti al rapporto di lavoro, quali le retribuzioni, l'esercizio del diritto
di sciopero, ecc., restano di competenza esclusiva degli stati membri.
La Comunità Europea, istituita col Trattato di Roma del 1957, nasce come organizzazione internazionale
inizialmente denominata Mercato comune europeo (MEC), poi Comunità economica europea (CEE) ed
infine Comunità Europea (CE), a sua volta facente parte dell’Unione Europea (UE), con la finalità di favorire
il rilancio dell'economia, dei paesi membri, gravemente compromessa dagli eventi bellici del XX secolo.
Il Trattato di Roma conteneva, tra le altre, due clausole fondamentali per il rilancio dell'economia dei paesi
europei innanzitutto sul piano commerciale:
a) la libera circolazione dei lavoratori;
b) la parità di trattamento retributivo tra uomini e donne sul lavoro.
L'originaria finalità della Comunità Europea sarebbe poi approdata al più ambizioso obiettivo di realizzare
una confederazione di stati sempre più allargata ma con un'ottica di progressiva aggregazione ed
avvicinamento degli ordinamenti interni degli stati mèmbri, prospettiva dalla quale non resta escluso il
mondo del diritto del lavoro.
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Per la realizzazione di tali fini la Comunità e gli stati membri devono mettere in atto misure che tengano
conto degli obiettivi programmati e che, tuttavia, non perdano di vista l'obiettivo primario della
competitività economica.
Nel disciplinare la competenza comunitaria, dunque, il trattato pone in tutto rilievo i diritti del lavoratore —
presentandosi in tal senso come norma programmatica - ma non mette in secondo piano l'aspetto
economico, cosiddetto mercantilistico, che caratterizza le origini del diritto comunitario.
La normativa comunitaria in materia di lavoro è altresì coerente col criterio della sussidiarietà, dallo stesso
trattato previsto, secondo il quale la Comunità interviene soltanto quando la sua azione possa essere più
incisiva ed efficace di quella dei singoli stati.
Dal canto loro le iniziative comunitarie, che si realizzano principalmente in forma di direttiva, tanto sono più
efficaci quanto più per la relativa adozione sia previsto il criterio della maggioranza in luogo di quello
dell'unanimità (che può avere effetti paralizzanti a causa del voto contrario di un unico stato membro).
4. Le norme comunitarie
La prima fonte comunitaria è Fatto costitutivo della stessa Comunità Europea, ossia il Trattato di Roma del
1957.
Una volta ratificato il trattato, gli stati membri sono immediatamente soggetti alle norme ivi previste e sono
altresì soggetti ai regolamenti comunitari che hanno efficacia immediata rispetto al diritto interno, in
quanto entrano immediatamente a far parte dell'ordinamento interno degli stati membri e prevalgono sulle
leggi ordinarie degli stessi.
Ciò non avviene per le direttive comunitarie, comunque vincolanti, cui, non di meno si riconosce in taluni
casi un'efficacia immediata, che richiedono uno specifico provvedimento di attuazione, anche
amministrativo, che inserisca la norma comunitaria nel diritto interno.
La direttiva è l’atto più frequentemente adottato dal Consiglio europeo, a maggioranza qualificata o anche
all'unanimità, su proposta dalla Commissione e previa consultazione del Parlamento.
Tale atto normativo non è immediatamente efficace ma e vincolante per gli stati membri, cui assegna i fini
da conseguire con i provvedimenti attuativi di essa ed il termine entro il quale tali provvedimento devono
essere adottati.
Prima dell'adozione del provvedimento attuativo della direttiva ad essa è comunque riconosciuta una
immediata efficacia verticale, nel senso che il soggetto destinatario della norma comunitaria può agire
contro lo stato inadempiente pretendendo l’applicazione della direttiva e con diritto anche al risarcimento
del relativo danno, purché la direttiva sia chiara e precisa nelle sue finalità, ossia purché essa abbia i
requisiti della normainternazionale di tipo self-executing.
Con l'Accordo di Maastricht sulla politica sociale è stata altresì istituzionalizzata la partecipazione sindacale
al processo di formazione delle direttive, a tal fine stabilendo che il Consiglio, prima di adottare direttive
inerenti a materie di diritto sociale comunitario, deve consultare le associazioni sindacali al livello europeo
con le quali può stipulare accordi collettivi che, tuttavia, non sono vincolanti.
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•La giurisprudenza: il ruolo attivo dei giudici (Corte costituzionale e corti superiori e di merito, Cassazione,
Tribunale del lavoro).
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-EVOLUZIONE DEL DIRITTO SINDACALE
Il Diritto Sindacale è quella parte del Diritto del Lavoro che disciplina le Relazioni Sindacali, la
Contrattazione Collettiva e lo Sciopero.
È un diritto moderno che nasce con la rivoluzione industriale (XVIII sec.): le peculiari caratteristiche del
lavoro in fabbrica spingono i lavoratori ad organizzarsi in gruppi professionali al fine di autotutelarsi contro
lo strapotere del datore.
Le prime organizzazioni sindacali si costituirono nella clandestinità, in quanto la libertà di associazione
sindacale fu inizialmente vietata, in quanto considerata in contrasto con la libertà economica.
In Italia, infatti, il codice penale sardo del 1859, che dopo l’unificazione (1861), era stato esteso a tutto il
Regno, vietava «ogni concerto tra operai».
Gli strumenti di autotutela dei gruppi professionali organizzati sono fin dall’ origine:
- Il contratto collettivo: la prima forma di contratto collettivo è il concordato di tariffa, in quanto il fine
primario per il quale i lavoratori si organizzavano era quello di determinare le tariffe salariali.
- Lo sciopero (= astensione collettiva dal lavoro), il quale veniva utilizzato per costringere il datore di lavoro
ad accettare la rideterminazione tariffaria.
Anche lo sciopero era previsto come reato dal codice penale sardo (nonostante lo Statuto Albertino del
1848 riconoscesse il diritto di adunarsi pacificamente e senz’ armi).
Soltanto in Toscana continuava a vigere il più liberale codice leopoldino del 1853, il quale sanzionava lo
sciopero solo se violento.
Le cose cambiarono con il Codice (penale) Zanardelli del 1889, il quale mostrava un approccio più tollerante
nei confronti del fenomeno sindacale: quest’ultimo infatti, non viene più vietato a priori e viene ricondotto
al diritto privato.
In questo frangente:
- Il contratto collettivo (di tariffa) viene inquadrato nell’ ambito del diritto privato, con la conseguenza che
la sua violazione dev’ essere ritenuta produttiva di effetti meramente obbligatori e non reali(ossia, può
portare solo al risarcimento del danno e non alla sostituzione della clausola individuale difforme da quella
collettiva).
- Lo sciopero integrava comunque un inadempimento contrattuale col conseguente obbligo di risarcimento
dei danni alla controparte.
Inoltre, continuava ad essere vietato se condotto “con violenza o minaccia”, requisiti che la giurisprudenza
interpretò spessa in maniera tanto ampia da vanificare del tutto il liberalismo del codice. Con l’ avvento del
fascismo (1922), il quale propugnava la prevalenza dell’ “interesse superiore della produzione nazionale”, vi
fu la soppressione della libertà sindacale.
I sindacati, infatti, vennero assorbiti nella sfera pubblicistica e quindi resi serventi rispetto agli obiettivi
definiti dal decisore politico: in particolare, essi divengono soggetti di diritto pubblico (in quanto fatti
rientrare nelle corporazioni, ossia organi pubblici con potere normativo), sottoposti ad un penetrante
controllo, a cominciare dalla nomina degli organi direttivi per la quale è prevista l’approvazione
governativa.
Per ogni categoria (ossia per coloro che svolgono la stessa attività economico-professionale) può essere
riconosciuto un unico sindacato, il quale assume la rappresentanza legale della categoria.
In questo frangente:
- Il contratto collettivo diviene una fonte del diritto e quindi può produrre un’ efficacia soggettiva ultra
partes (per tutti gli appartenenti alla categoria) e un’ efficacia oggettiva reale (le clausole difformi dei
contratti individuali sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo). Carnelutti osservò che tale
figura “aveva il corpo del contratto e l’ anima della legge”.
- Lo sciopero (e la serrata) venne penalmente vietato.
Il codice penale Rocco del 1930 distingueva tra lo sciopero dei dipendenti privati e quello dei dipendenti
pubblici; con riferimento al primo, puniva con una sanzione pecuniaria lo sciopero per fini contrattuali
(definito come l’ abbandono collettivo del lavoro o il turbamento della sua continuità o regolarità da parte
di 3 o più lavoratori) e pene anche detentive erano previste per i capi e gli organizzatori dello sciopero.
L’ ordinamento corporativo fu soppresso con d. lgs. 369/1944 e si ripristinò il vecchio regime della libertà
sindacale di fatto.
La svolta si ebbe con la promulgazione della Costituzione repubblicana del 1948, la quale, innanzitutto
guarda al sindacato come strumento di attuazione dell’ art. 3, co.2, Cost., il quale impegna la Repubblica a
rimuovere gli ostacoli che impediscono l’ effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’ organizzazione
politica, economica e sociale del Paese.
In particolare, con specifico riferimento all’attività sindacale, assumono rilevanza l’art. 39 Cost. (Libertà
Sindacale) e l’art. 40 Cost. (Sciopero).
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-LE RELAZIONI SINDACALI
Per Relazioni Sindacali si intende l’insieme dei rapporti giuridici che intercorrono tra il datore di lavoro e i
lavoratori subordinati – intesi come collettività – all’interno dei luoghi di lavoro, allorquando queste
relazioni vengano a realizzarsi tramite un soggetto intermedio, ovvero il Sindacato, rappresentante delle
istanze e degli interessi dei dipendenti.
1. Organizzazioni Sindacali
Il Sindacato è quell’associazione finalizzata a tutelare i lavoratori ad esso aderenti, dei quali assume la
rappresentatività in sede contrattuale.
Il sindacato si forma nell’ ambito di un’affinità di interessi che si identifica con la categoria professionale.
Tale affinità di interessi è un fatto ontologico (in rerum natura) tuttavia, senza una norma che la riconosca,
è priva di rilevanza giuridica: mentre nel sistema corporativo è richiesto che il riconoscimento avvenisse con
legge (norma eteronoma), oggi la determinazione della categoria professionale avviene con l’ atto
costitutivo e lo statuto dell’ associazione sindacale (ovvero con atto di autonomia).
I sindacati in concreto si distinguono a seconda:
a) Dei criteri di aggregazione seguiti dai lavoratori (per individuare le categorie al fine della formazione di
un’ organizzazione sindacale), i quali principalmente sono: 1. mestiere; 2. struttura aziendale di
appartenenza; 3. attività professionale svolta dai lavoratori; 4. settore economico in cui opera l’
imprenditore.
b) Dell’ampiezza della tutela: alcuni sindacati focalizzano la tutela dei soli iscritti mentre altri ambiscono a
porsi quali rappresentanti di tutti i lavoratori, anche non iscritti;
c) Della relazione che il sindacato instaura col potere politico.
Il modello sindacale più diffuso in Italia è quello confederale, caratterizzato dalla confluenza delle strutture
rappresentative di categoria (quelle cioè che rappresentano i lavoratori di singoli settori produttivi: chimici,
tessili, metalmeccanici; ecc.) in strutture intercategoriali, le quali , comprendendo più categorie al loro
interno, sono almeno in teoria idonee a risolvere gli eventuali conflitti tra categorie e ad assicurare un
coordinamento degli interessi dei vari gruppi professionali.
Le strutture intercategoriali più importanti sono:
- GCIL (Confederazione generale italiana del lavoro) la quale raccoglie al suo interno federazioni di
categoria che ne condividono l’ispirazione politica: Fiom (federazione italiana operai metalmeccanici), Filt
(federazione italiana lavoratori dei trasporti), Flc (federazione italiana lavoratori della conoscenza: cioè
della scuola e dell’ università), ecc.
- CISL (Confederazione italiana sindacati lavoratori), la quale raccoglie: Fim (federazione italiana
metalmeccanici), Fai (federazione agricola industriale), Filca (federazione italiana lavoratori costruzioni),
ecc.
Questi sindacati periferici sono in un doppio rapporto di gerarchia: da un lato, rispetto alle federazioni
nazionali; dall’ altro, rispetto alle strutture orizzontali periferiche.
Evidente è quindi il carattere piramidale dell’organizzazione sindacale, il quale comporta che l’iscrizione dei
lavoratori ad un sindacato di categoria, comporta automaticamente l’ iscrizione alla confederazione.
Problema: di quale interesse è portatore l’organizzazione sindacale?
Sicuramente di un interesse collettivo intrinsecamente diverso rispetto ai singoli interessi individuali.
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A differenza delle confederazioni dei lavoratori (che raggruppano le federazioni di tutti i settori economici),
le associazioni sindacali degli imprenditori si suddividono per settori produttivi: le federazioni di imprese del
settore industriale confluiscono nella Confindustria; quelle del settore agricolo nella Confagricoltura; quelle
del settore del commercio nella Confcommercio.
Anche le associazioni di imprenditori si dividono in organizzazioni orizzontali (le unioni industriali, a livello
nazionale e le federazioni a livello provinciale) e verticali (subcategorie divise su base nazionale e
decentrata) ma, a differenza di quanto visto per i lavoratori, tra i diversi livelli associativi sussiste
un’autonomia interna, nel senso che l’ iscrizione per esempio alla Confindustria, non comporta
automaticamente l’iscrizione all’unione industriale e viceversa.
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2. L’Azione Sindacale
Il Sindacato esercita la sua azione in rappresentanza del lavoratore e a tutela del rapporto di lavoro dello
stesso.
L'azione sindacale, ovvero la partecipazione del sindacato alla formazione delle norme in materia di
rapporto di lavoro si svolge secondo i modelli delle relazioni sindacali e, principalmente, attraverso la
concertazione e la contrattazione.
-La concertazione presuppone una partecipazione del sindacato alle scelte del governo o, comunque, della
parte datoriale, ed è finalizzata a raggiungere il più ampio consenso ma non obbliga l'altra parte ad
assecondare le eventuali istanze sindacali.
-La contrattazione si svolge invece sulle materie ad essa demandate, con l'obiettivo di raggiungere un
accordo, ed ha nello sciopero l'unico mezzo di pressione.
Importante è poi la partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti alla gestione delle imprese, la
quale può realizzarsi tramite una gamma di istituti, accomunati dal fatto di comportare un coinvolgimento
dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti in alcuni processi decisionali delle imprese (Diritto di
Informazione e Diritto di Consultazione).
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-Le norme costituzionali in materia sindacale
-Libertà sindacale
(Art. 39 co. 1 Cost.)
Carattere multi-direzionale di esso.
Con specifico riferimento all’attività sindacale, l’art. 39 Cost. al comma 1 sancisce la libertà di
organizzazione sindacale (“L’ organizzazione sindacale è libera”):
- il termine “organizzazione” è più ampio di “associazione”, la cui libertà è tutelata dall’art. 18 Cost.
- il termine “sindacale” impone di considerare come organizzazione tutelata ai sensi dell’art. 39, co. 1, Cost.
solo quella rappresentativa di interessi relativi a rapporti professionali di lavoro e che utilizza strumenti di
autotutela (come sciopero e contratto collettivo) per il perseguimento delle proprie finalità.
In tal modo è possibile qualificare come sindacali anche le associazioni rappresentative degli interessi dei
datori di lavoro.
- il termine “libera” indica che quella di associazione sindacale è una libertà, la quale è:
- Innanzitutto, sia libertà positiva (= di organizzarsi in sindacato senza subire per ciò stesso conseguenze
negative ovvero discriminatorie in ambito lavorativo) sia libertà negativa (= di non aderire ad un
organizzazione sindacale ovvero, se iscritto, di dimettersi).
- Inoltre, è libertà dallo Stato, in quanto a quest’ ultimo è precluso invadere la sfera di libertà dei gruppi
organizzati; ( si è superato) il corporativismo del previgente regime fascista secondo il quale era il governo a
decidere con quale sindacato intrattenere relazioni).
Ne deriva quindi, per l’ organizzazione sindacale, la libertà nell’ individuazione delle proprie finalità e delle
strategie di azione.
Secondo la Corte Costituzionale (sentenze n. 697/1988 e 124/1991) limitazioni legali all’autonomia
sindacale sono giustificabili solo in presenza di situazioni eccezionali e a salvaguardia di superiori interessi
generali e, comunque, hanno carattere di transitorietà nel senso che, una volta cessata l’ emergenza che lo
legittimava, l’ intervento limitativo del legislatore si pone in contrasto con gli artt. 39 e 36 Cost.
Nella tutela delle libertà sindacali una pietra miliare è stata posta dalla legge 20 maggio 1970, n. 300
(Statuto dei diritti dei lavoratori), il cui art. 14 ha rafforzato il principio costituzionale della libertà di
associazione e di attività sindacale già previsto dall’art. 39 I° co. Cost., stabilendone l'esercizio anche nei
luoghi di lavoro (così ripristinando le commissioni sindacali interne abolite in epoca fascista).
Il successivo art. 15 pone il divieto di atti discriminatori sanzionando con la nullità ogni atto che condizioni
l'assunzione di un lavoratore o ne determini il mutamento di mansioni o la modifica della posizione di
lavoro od anche il licenziamento in relazione alla sua affiliazione o meno ad un sindacato oppure alla sua
partecipazione ad attività sindacali (sono quindi vietate in Italia le clausole di closed shop, che subordinano
l’occupazione di un lavoratore alla sua affiliazione sindacale).
A tal fine l’art. 28 dello stesso Statuto introduce un procedimento giudiziario speciale per la repressione
della condotta antisindacale, fermo l'onere della prova a carico dell'attore, col quale viene annullato ogni
atto o patto discriminatorio.
Gli atti discriminatori sanzionabili ai sensi dell'art. 15 non sono soltanto gli atti diretti a colpire un soggetto,
in relazione alla sua posizione sindacale, o intesi a precludere l'esercizio delle libertà sindacali bensì anche
quelli che conferiscono privilegi a favore di quelli che non aderiscono ad associazioni sindacali o alle relative
iniziative (Trattamenti Economici Collettivi discriminatori).
A tale norma è collegata la previsione dell'art. 17 che vieta la costituzione di sindacati di comodo, ossia di
sindacati sostenuti o addirittura finanziati dalla parte datoriale e ad essa più vicini al fine di concludere con
essi trattative sostanzialmente unilaterali in tal modo aggirando l'obbligo del confronto con i sindacati
realmente rappresentativi.
La libertà di organizzazione sindacale trova però significative limitazioni per alcune categorie di lavoratori:
a) agli appartenenti alle forze armate è fatto divieto di esercitare il diritto di sciopero nonché di costituire o
aderire ad associazioni professionali a carattere sindacale;
b) il personale dei corpi di polizia non militari (e quello del Corpo forestale dello Stato) può aderire a
sindacati che siano formati, diretti e rappresentati esclusivamente da appartenenti alla Polizia di Stato.
L'art. 39 della Costituzione poi prevede la formazione di norme regolatrici della formazione e del
funzionamento delle associazioni sindacali che, sostanzialmente, istituzionalizzano il sindacato
legittimandolo alla contrattazione, ossia alla formazione di quelle norme, valide erga omnes, aventi la forma
del contratto ma l'anima della legge (siccome previste da fonte primaria).
La seconda parte dell'art. 39 prevede, in particolare, che il sindacato debba registrarsi e che debba dotarsi
di un atto costitutivo, di natura statutaria, che ne regolamenti il funzionamento interno. Unica condizione
per la registrazione è che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica; i
sindacati registrati, rappresentati unitariamente in proporzione ai propri iscritti possono stipulare contratti
collettivi con efficacia generale.
L’ art. 39, co. 2-4 tuttavia non ha mai trovato attuazione sia per ragioni di carattere politico (ossia, per la
diffidenza di tutti i sindacati verso qualsiasi forma di intervento dello Stato, che è visto come limitativo della
libertà di organizzazione) sia per ragioni di carattere tecnico (consistenti nella difficoltà sia nello stabilire in
concreto quando uno statuto si possa definire “a base democratica” sia nell’ accertamento del numero
degli iscritti, che si conosce solo approssimativamente).
-Dal punto di vista dei contratti collettivi: il sindacato non è legittimato a stipulare contratti collettivi validi
erga omnes, ossia verso tutti gli appartenenti alla categoria di riferimento e col carattere di unicità tipico
degli atti normativi; dall’ altro, l’anomia (ossia l’ assenza di regole ad hoc che disciplinino il potere di
stipulare il contratto collettivo) ancora ad oggi regola la materia, con la conseguenza che oggi la regolazione
della contrattazione sindacale è costituita da un quadro composto di elementi di varia natura e di diverso
peso (complesso che oggi, a seguito del caso Fiat, vacilla fortemente):
1. Ricorso norme e categorie di diritto privato: lo schema giuridico di fondo del contratto collettivo è
ancora costituito dal diritto privato; si discorre, in particolare di contratto collettivo cd di diritto comune
(contratto atipico pienamente ammissibile ai sensi dell’ art. 1322 c.c.).
Il sindacato, ai fini della effettività della sua rappresentatività, ha sempre avuto tutto l'interesse ad essere il
più vicino possibile al lavoratore nel suo ambiente di lavoro.
E’ per questo che il sindacato ha sperimentato la costituzione di forme di rappresentanza sui posti di lavoro
e, quindi, la formazione di organismi abilitati anche alla stipula di contratti aziendali.
→ Nel sistema corporativo l’ organizzazione sindacale a livello aziendale era di fatto scomparsa.
→ Dopo la caduta del fascismo, nel 1943 furono reintrodotte le commissioni interne, configurandole come
organi di rappresentanza unitaria ed elettiva di tutti i lavoratori, impiegati e operai e attribuendo alle stesse
anche poteri contrattuali anche a livello aziendale, poteri che però vennero eliminati già con l’ accordo
interconfederale del 1947 e col successivo del 1953, i quali attribuirono alla commissioni interne una
funzione generale di collaborazione con l’ azienda e compiti specifici, quali, in particolare quelli: a)
deliberativi in materia di assistenza in azienda; b) di consultazione nei confronti dell’ imprenditore nell’
emanazione del regolamento di azienda; c) di risoluzione delle controversie individuali di lavoro.
→ Con gli accordi interconfederali del 1993, poi, è stata regolamentata l’istituzione delle rappresentanze
sindacali unitarie (RSU), alle quali possono essere estese le prerogative dello statuto dei lavoratori in
quanto i criteri di formazione non sono in contrasto con quelli previsti dall’ art. 19 st. lav.
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-Profilo individuale/collettivo
-Profili collettivi
-Art. 14
• Il limite della salvaguardia del normale svolgimento dell’attività aziendale (v. anche art. 26, primo comma,
St. lav.).
• Contenuti individuali e collettivi del diritto: impossibilità del datore di ingerirsi nella vita interna dei
sindacati.
• Libertà sindacale nei luoghi di lavoro e pluralismo sindacale con l’unico limite dell’art. 18 Cost. (liceità;
non segretezza).
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È “sindacale” l’organizzazione che adopera strumenti tipici dell’azione sindacale: si tratta di strumenti di
autotutela diretta dei lavoratori, come sciopero e contrattazione collettiva, assemblee, raccolta di firme,
aggregazioni di consenso, strumenti di pressione etc. (criterio oggettivo, degli strumenti).
È “sindacale” l’organizzazione che opera attraverso soggetti che hanno ricevuto una investitura diretta
operata dai lavoratori in quanto tali (profilo soggettivo).
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-Effetti
• Sul piano del diritto pubblico: immunità dell’organizzazione sindacale rispetto allo
Stato e ai pubblici poteri.
• Sul piano dei rapporti privati: soprattutto nei confronti del datore di lavoro.
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Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione
politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età, o basata sull’orientamento sessuale o
sulle convinzioni personali.
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Art. 15
Statuto lavoratori
-SINDACATI DI COMODO
Art. 17
Sindacati di comodo
b) Nell’ ambito di associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, firmatarie di contratti
collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’ unità produttiva.
Per questi sindacati, invece, era prevista la rappresentatività diretta.
Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di
coordinamento.
In questa sua originaria formulazione, l’ art. 19 st. lav. ha dato luogo a dubbi di costituzionalità con
riferimento agli artt.:
1) 3, co. 1, Cost. in quanto le RSA si possono costituire solo nell’ ambito dei sindacati maggiormente
rappresentativi con esclusione degli altri.
La Corte costituzionale ha affermato la legittimità della selezione dei sindacati rappresentativi, a cui
attribuire diritti e prerogative ulteriori rispetto quelli attribuiti a tutte le organizzazioni sindacali, in quanto
tale selezione ha luogo in virtù di elementi giustificativi rispondenti a criteri di ragionevolezza (“il legislatore
ha operato in maniera razionale e consapevole, al fine di evitare che singoli individui o gruppi isolati di
lavoratori, costituiti in sindacati non aventi i requisiti per attuare una effettiva rappresentanza sindacale,
possano pretendere di espletare tale funzione, così compromettendo l’ operosità aziendale”).
Inoltre, la Corte ha provveduto all’ individuazione di un complesso di indici che consentono all’ interprete di
verificare nei singoli casi concreti la sussistenza del requisito della “maggiore rappresentatività”, quali:
a) una equilibrata consistenza associativa su tutto l’ arco delle categorie tutelate dalla Confederazione;
b) una notevole consistenza di iscritti;
c) una equilibrata distribuzione su scala nazionale;
d) una effettiva autotutela degli interessi;
e) una continuità e sistematicità dell’azione di autotutela.
2)39, co. 4, Cost. La Corte Costituzionale ha escluso anche qua il conflitto in quanto, sebbene è vero che il
sistema della maggiore rappresentatività è diverso da quello proporzionale e maggioritario dell’ art. 39, co.
4, è altrettanto vero che la norma costituzionale fa riferimento solo alla contrattazione collettiva erga
omnes e non necessariamente alle altre attività sindacali.
L’ originario art. 19 st. lav. è stato sottoposto a referendum l’ 11 giugno 1995, il quale ha comportato la
soppressione per intero della lett. a (e quindi l’ eliminazione della maggiore rappresentatività derivata),
mentre la lett. b è rimasta in vigore ma totalmente modificata nel senso che è scomparso il rifermento ai
sindacati che abbiano firmato contratti collettivi nazionali o provinciali che si applicano all’ unità produttiva
(oggi dice solo “b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati
nell'unità produttiva”):
ne deriva, che le rappresentanze sindacali aziendali oggi si possono costituire anche nell’ ambito di
sindacati che abbiano stipulato contratti collettivi aziendali (= si è cioè ampiamente estesa l’ area sindacale
per la costituzione di RSA, limitando la presenza e il ruolo delle organizzazioni sindacali).
L’ iniziativa per la costituzione delle RSA spetta ai lavoratori e per l’ elezione è necessaria la loro
maggioranza. La giurisprudenza è orientata a considerare iniziativa anche quella con cui i lavoratori
conferiscono delega al sindacato.
In ogni caso, per la formazione della rappresentanza aziendale è necessario il consenso del sindacato
prescelto.
La Corte Costituzionale ha subito chiarito che l’ essere il sindacato “firmatario” va identificato con la
capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro, direttamente o attraverso la sua associazione, come
controparte contrattuale: in altre parole, non basta la mera adesione formale del sindacato ad un contratto
negoziato da altri sindacati, ma occorre la sua partecipazione attiva al processo di formazione del contratto.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 nella parte in cui non prevede
che la Rappresentanza Sindacale Aziendale sia costituita anche da associazioni sindacali che, pur non
firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’azienda, abbiano partecipato alla trattativa.
Resta però ancora indefinito il livello di partecipazione richiesto per superare la soglia di accesso all’ art. 19,
essendo stato individuato genericamente dalla Corte nei termini di “partecipazione attiva”.
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-Dal sostegno nelle pubbliche istituzioni alla promozione nei luoghi di lavoro.
-La formula del sindacato maggiormente rappresentativo (smr).
• Smr: una rappresentatività irradiata e presunta. Il favore per le confederazioni storiche (CGIL-
CISL-UIL).
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In conclusione: criteri calibrati su quelle che erano le caratteristiche del sindacato confederale
tradizionalmente maggioritario nel nostro Paese: CGIL-CISL-UIL.
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IL SMR E LA CONTRATTAZIONE
-Il filtro selettivo del smr nella legislazione dell’emergenza e della flessibilità.
-La contrattazione con funzione gestionale distributiva di sacrifici (contrattazione collettiva in perdita).
-Il smr controllore delle doti di flessibilità da inserire nell’ordinamento.
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• Anni ’80: crisi della rappresentatività sindacale e nascita di nuovi soggetti sindacali autonomi e di
mestiere.
• Proposte di legge sulla rappresentanza sindacale per modificare l’art. 19 St. lav.:
- eliminando il riferimento al SMR, che attribuiva al sindacato tradizionale (la triplice confederale) una sorta
di vero e proprio monopolio nei luoghi di lavoro e quindi nel panorama sindacale generale;
- introducendo al posto della RSA una rappresentanza elettiva, soggetta democraticamente a verifica del
consenso da parte della base, mediante appunto il meccanismo periodico del voto, che avrebbe dovuto
servire anche per misurare quant. la rappr.
• La caducazione completa della lett. a): espunzione della formula del smr dall’art. 19
• La caduta di alcuni segmenti lessicali della lett. b): abrogazione delle parole “nazionali e provinciali”
• Muta così il filtro selettivo utilizzato ai fini del raccordo tra RSA e sindacato esterno: diventa quello della
sottoscrizione di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva
• Si esprime un orientamento del tutto opposto a quello del vecchio art. 19, che privilegiava il sindacato
confederale o quantomeno quello proiettato sul piano nazionale e provinciale
• la rappresentatività si misura sulla base dei rapporti di forza; chi è in grado di imporsi alla controparte, in
un sistema conflittuale e non regolato come il nostro, vuol dire che è massimamente credibile, cioè più di
ogni altro in grado di rappresentare i lavoratori nel loro complesso.
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La libertà sindacale (art. 39, comma 1, Cost.) , per essere effettiva, ha bisogno di ulteriori previsioni
normative relative al riconoscimento di “diritti sindacali” nei luoghi di lavoro.
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- Art. 20 – assemblea
- Art. 21 – referendum
- Art. 25 – affissione
- Art. 26 - raccolta di contributi sindacali e proselitismo
- Art. 27 - riunione in idonei locali aziendali
I diritti sindacali di cui al titolo III “si aggiungono” alla libertà sindacale di cui al titolo II e all’art. 39, comma
1, Cost.
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-Art. 14
-Titolo III
• I diritti sindacali in azienda
Si tratta di diritti con funzione strumentale, deputati a consentire ai soggetti abilitati alla
costituzione di RSA (e RSU) di godere di alcuni benefici utili per assicurare l’effettivo esercizio
dell’attività sindacale in azienda.
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-Art. 20 assemblea
I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell’orario di
lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la
normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva.
Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi – sono indette,
singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con ordine
del giorno su materie di interesse sindacale o del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle
convocazioni, comunicate al datore di lavoro.
Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni
del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale. Ulteriori modalità per l'esercizio del
diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali.
Il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento, fuori dell'orario di lavoro, di
referendum, sia generali che per categoria, su materie inerenti all'attività sindacale, indetti da tutte le
rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori
appartenenti alla unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata. Ulteriori modalità per lo
svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro anche aziendali.
Al di fuori della legge 300/70, ci sono due ipotesi in cui vengono in risalto siffatte prerogative del sindacato:
- Licenziamenti collettivi (legge 223/91)
- Trasferimento d’azienda o di ramo di azienda (art. 2112 c.c.)
• Informazione: è il livello più basso, consiste nella mera trasmissione di dati al sindacato da parte del
datore di lavoro, finalizzata alla semplice conoscenza delle questioni attinenti all’attività dell’impresa.
Il complesso dei diritti sindacali (l'esercizio della libertà e della attività sindacale e del diritto di sciopero) è
tutelato dall'art. 28 dello Statuto, il quale prevede uno speciale procedimento per la repressione di quel
comportamento illegittimo qualificato come "condotta antisindacale".
La nozione di condotta antisindacale non è di natura tipologica bensì teleologica; non vi è, infatti, una
descrizione specifica della condotta che possa qualificarsi antisindacale mentre si intende tale qualsiasi
azione posta in essere dal datore di lavoro per ostacolare o impedire l'esercizio di diritti sindacali nonché
ogni azione discriminatoria o anche persecutoria intesa a colpire un lavoratore in relazione alla sua
posizione sindacale.
La condotta antisindacale è, dunque, un comportamento illegittimo specifico per cui la sua repressione
avviene attraverso un procedimento specifico davanti al giudice del lavoro.
In particolare, qualora ritenga che si sia verificato un comportamento antisindacale, l'organismo locale
dell'associazione sindacale “nazionale” (es. Camere del Lavoro della CGIL) che vi abbia interesse, può
ricorrere al giudice del lavoro del luogo ove il comportamento è stato posto in essere.
Nei 2 giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la
violazione, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato immediatamente esecutivo, la cessazione del
comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti da esso provocati.
Il decreto ha, come si vede, un contenuto tipico rivolto all'effettivo ripristino dello status quo ante, anche se
non sempre questa finalità ha modo di dispiegarsi effettivamente, tutte le volte in cui gli effetti della
condotta si siano ormai esauriti (in tali casi il decreto ha, nella sostanza, un contenuto di "accertamento", a
valere come dissuasione da future analoghe violazioni).
L'inosservanza del decreto integra gli estremi penali di cui all'art. 650 del c.p. quale inosservanza dei
provvedimenti dell'autorità (arresto fino a 3 mesi ed ammenda fino a € 206).
È inoltre prevista la Pubblicazione della relativa Sentenza Penale di Condanna.
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Il bene protetto dall’art. 28 è l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto
di sciopero.
Si tratta di interessi propri dell’organizzazione sindacale, cioè di interessi collettivi dei quali il sindacato è
titolare e gestore autonomo, e con il quale esso non agisce in rappresentanza dei lavoratori colpiti dai
suddetti comportamenti, tant’è che può esperire il ricorso anche in caso di inerzia o contraria volontà di
questi (Corte Cost. 334/88).
“Comportamento” antisindacale: sono ricompresi sia atti giuridici (un licenziamento); sia meri
comportamenti materiali (minacce); sia comportamenti omissivi posti in essere dal datore di lavoro.
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-«plurioffensività»
La condotta antisindacale può avere carattere plurioffensivo, cioè può ledere contestualmente diritti
individuali e diritti collettivi.
L’eventuale natura plurioffensiva del comportamento datoriale, che abbia dato luogo anche ad una lesione
dell’interesse individuale del lavoratore, comporta l’insorgere di due azioni – quella collettiva e quella
individuale – distinte, autonome e senza interferenze.
-Legittimato attivo
Gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiamo interesse.
- NO: singoli lavoratori, rsa/rsu, altre associazioni sindacali.
Può agire l’articolazione più periferica che l’associazione sindacale nazionale abbia nella propria struttura,
come tale più vicina alle concrete situazioni di lavoro che devono essere tutelate. L’associazione sindacale
deve avere comunque una dimensione nazionale.
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La legge n. 300/1970 rappresenta l’esempio più importante di questo tipo di legislazione: essa vuole
“sostenere” il sindacato nei luoghi di lavoro.
-Necessità logica per lo Stato di interloquire con sindacati effettivamente rappresentativi degli interessi dei
lavoratori.
-Delimitazione selettiva dei soggetti collettivi, dunque, come effetto della ratio della stessa politica
promozionale.
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La figura del sindacato maggiormente rappresentativo (S.M.R.) ha costituito, per lungo tempo, l’esclusivo
destinatario del sostegno legislativo.
La legge voleva sostenere il sindacato maggiormente rappresentativo nei luoghi di lavoro.
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-Dubbi e incertezze
Si tratta di criteri che non misurano l’effettività, ma che presuppongono una
legittimazione “storica”? Il concetto di S.M.R. regge a lungo, poi entra in crisi sul finire degli anni ’80, inizio
anni ’90.
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L’Accordo del 28 giugno 2011 fissa alcuni criteri più precisi sulla “rappresentatività”
sindacale, ai fini della contrattazione collettiva nazionale.
Per ottenere la legittimazione a negoziare, è necessario che il risultato ottenuto da queste due operazioni
superi il 5% del totale dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Questa nozione pattizia di rappresentatività è finalizzata alla contrattazione collettiva nazionale. Esiste poi
una nozione distinta, enucleabile dall’art. 19 legge n. 300/70, finalizzata all’accesso ai diritti sindacali di cui
al Titolo III della legge 300/70. L’art. 19 è la norma in cui si esprime in maniera più significativa il favore
dell’ordinamento per il s.m.r.
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L’ordinamento vuole dare sostegno all’attivismo sindacale ma a condizione che esso sia “guidato” da
organizzazioni sindacali strutturate anche all’esterno delle aziende, capaci pertanto di collocare le
rivendicazioni in un ambito più ampio e generale. Si guardava con favore alle maggiori Confederazioni.
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Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità
produttiva, nell'ambito:
a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;
b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti
collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.
Nell'ambito di azienda con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di
coordinamento.
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Art. 19 Testo vigente
Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità
produttiva, nell'ambito:
a) (...) (1);
b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di
lavoro applicati nell'unità produttiva (2).
Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di
coordinamento.
L’art. 19 nel testo originario esprimeva un netto favore nei confronti del S.M.R.
A partire dagli anni 90, tuttavia, entra in crisi il S.M.R., inadeguato ad esprimere gli interessi dei lavoratori:
si fanno spazio le esigenze di sindacati, non aderenti a grandi centrali confederali, ma forti e
rappresentativi, che reclamano i diritti di cui al Titolo III della legge 300.
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Eliminazione della lett. a): si sposta il criterio identificativo della rappresentatività sindacale
sul versante della sottoscrizione di contratti o accordi, di qualsiasi livello, applicati nell’unità produttiva (lett.
b).
La possibilità di costituire RSA e di fruire dei relativi diritti, pertanto, non è più una conseguenza della forza
sindacale a livello confederale, ma della presenza nello specifico settore o azienda dei sindacati.
Il diritto a costituire RSA pertanto deve essere riconosciuto a sindacati “forti” in azienda, a prescindere se
siano o meno aderenti alle grandi centrali sindacali.
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Il Testo unico sulla rappresentanza sindacale del 10 gennaio 2014 offre una
prima declinazione del criterio selettivo introdotto dalla Corte cost. con la sentenza
n. 231/13.
Ai fini della fruizione di diritti sindacali in azienda, devono essere considerati “partecipanti alla
negoziazione”, i sindacati:
-RSA/RSU
Il Protocollo 23 luglio e l’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993 istituiscono e disciplinano una
nuova composizione della rappresentanza sindacale in azienda, denominata RSU, in alternativa alla RSA
secondo l’art. 19.
Attenzione: si tratta di riforme introdotte con Accordi sindacali (non con legge) e quindi vincolano solo le
parti firmatarie dell’Accordo Interconfederale.
Nelle aziende, pertanto, possono coesistere, in ogni unità produttiva, una RSU promossa e
partecipata da tutte le oo.ss. che si riconoscono nel modello degli Accordi di luglio-dicembre 1993 e tante
RSA in rappresentanza delle associazioni sindacali che non hanno inteso aderire a tali Accordi e che hanno
preferito affidarsi al “modello legale” della RSA.
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L’ accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 tra Confindustria e organizzazioni sindacali ha previsto l’
introduzione delle RSU nelle unità produttive con più di 15 dipendenti.
Tuttavia, la possibilità di costituire RSA permane in capo ad associazioni sindacali che non abbiano preso
parte alla RSU, purché siano dotate del requisito di rappresentatività previsto dall’art. 19 St.lav.
In tale caso, in un'unità produttiva potrebbe aversi la contemporanea presenza di una o più RSA e della
RSU.
In virtù dell’Accordo del 1993:
- La caratteristica essenziale delle RSU è che i componenti della struttura rappresentativa siano eletti da
tutti i lavoratori, sulla base di liste presentate dalle associazioni sindacali formalmente strutturate (non
occasionali). Il sistema elettorale è di tipo proporzionale (come quello previsto dall’ art. 39 Cost.) ma solo
per i 2/3 dei seggi, in quanto questi seggi vengono distribuiti in rapporto al numero di voti; il 1/3 residuo
viene riservato a rappresentanti dei sindacati firmatari del ccnl (Contratto collettivo nazionale di lavoro)
applicato all’ unità produttiva.
- Le RSU subentrano alle RSA nella titolarità dei diritti, dei permessi e delle libertà sindacali previste dal
titolo III dello Statuto nonché nella titolarità dei poteri e nell’ esercizio delle funzioni attribuite dalla legge;
ne deriva che le RSA mantengono un residuo spazio funzionale (in particolare, l’accordo fa salvi: a) il diritto
di indire l’ assemblea dei lavoratori durante l’ orario di lavoro; b) il diritto ai permessi non retribuiti; c) il
diritto di affissione.
- Alle RSU è riconosciuto il potere di stipulare il contratto collettivo aziendale di lavoro nelle materie, con le
procedure, modalità e nei limiti stabiliti dal ccnl applicato nell’ unità produttiva.
La disciplina delle RSU è stata parzialmente modificata dal Protocollo del 31 maggio 2013, il quale ha:
- confermato il principio secondo cui le organizzazioni sindacali, partecipando alla procedura di elezione
delle RSU rinunciano formalmente ed espressamente a costituire RSA;
- ha previsto che le RSU saranno elette con voto proporzionale (= sembrerebbe estendere il sistema
proporzionale anche al 1/3 riservato ai sindacati firmatari del ccnl; ma tale soluzione non è da tutti
condivisa);
- introdotto la regola per cui il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente della
RSU ne determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di
originaria appartenenza del sostituto.
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NB: il diritto di formazione delle RSA e gli altri diritti sindacali sono riconosciuti solo ai dipendenti di unità
produttiva che abbiano almeno 16 dipendenti (art. 35 st. lav.).
La presenza sindacale in azienda è sostenuta da una serie di diritti, definiti nel titolo III dello Statuto dei
lavoratori, con funzione strumentale, in quanto deputati a consentire ai soggetti abilitati alla costituzione di
RSA (e ora RSU) di godere di alcuni specifici benefici utili per consentire l’ effettivo esercizio dell’ attività
sindacale in azienda:
- L’art. 20 st. lav., riconosce ai lavoratori il diritto di svolgere assemblee durante l’ orario di lavoro per un
massimo di 10 ore annue retribuite (“I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui
prestano la loro opera, fuori dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore
annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite
dalla contrattazione collettiva”, co. 1).
L’ iniziativa però è riservata alla struttura sindacale in azienda in quanto l’ art. prevede che “le riunioni - che
possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono indette, singolarmente o
congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con ordine del giorno su
materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate
al datore di lavoro” (co 2) . Infine, “alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro,
dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale” (co. 3).
- Ai sensi dell’art. 21 st. lav., poi, “il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento,
fuori dell'orario di lavoro, di referendum, sia generali che per categoria, su materie inerenti all'attività
sindacale (= piano più ristretto rispetto al diritto di assemblea) indetti da tutte le rappresentanze sindacali
aziendali tra i lavoratori, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori appartenenti alla unità produttiva e
alla categoria particolarmente interessata.
- Ai sensi dell’ art. 22 st. lav., “il trasferimento dall'unità produttiva (= trasferimento in senso tecnico, inteso
cioè come spostamento e inserimento stabile del dirigente in un’ articolazione organizzativa dell’impresa
diversa da quella originaria di appartenenza) dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui al
precedente articolo 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto solo previo
nulla osta (permesso) delle associazioni sindacali di appartenenza”: si tratta di una garanzia che riguarda il
dirigente della RSA, ossia colui che, designato da parte del sindacato ad iniziativa dei lavoratori, svolga
concretamente ed effettivamente attività sindacale nell’ unità produttiva di appartenenza.
La giurisprudenza ha precisato che: a) la norma deve interpretarsi nel senso che riguarda tutti quei
lavoratori che, a prescindere dalla qualificazione formalistica della loro posizione nell’organizzazione
sindacale, svolgono un’attività tale da poterli considerare responsabili della conduzione della RSA; b) i
motivi sottostanti il rifiuto del nulla osta da parte dell’ organizzazione sindacale sono incensurabili nel
merito.
- Ai sensi dell’ art. 23 st. lav., “i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui all'articolo 19 hanno
diritto, per l'espletamento del loro mandato, a permessi retribuiti.
(“Salvo clausole più favorevoli dei contratti collettivi di lavoro hanno diritto ai permessi di cui al primo
comma almeno: a) un dirigente per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che
occupano fino a 200 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;
b) un dirigente ogni 300 o frazione di 300 dipendenti per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle
unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;
c) un dirigente ogni 500 o frazione di 500 dipendenti della categoria per cui è organizzata la rappresentanza
sindacale aziendale nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al numero minimo di cui alla
precedente lettera b)/I permessi retribuiti di cui al presente articolo non potranno essere inferiori a otto
ore mensili nelle aziende di cui alle lettere b) e c) del comma precedente; nelle aziende di cui alla lettera a) i
permessi retribuiti non potranno essere inferiori ad un'ora all'anno per ciascun dipendente./Il lavoratore
che intende esercitare il diritto di cui al primo comma deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro
di regola 24 ore prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali.”).
- Ai sensi dell’ art. 24 st. lav. “i dirigenti sindacali aziendali di cui all'articolo 23 hanno diritto a permessi non
retribuiti per la partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale, in misura
non inferiore a otto giorni all'anno./I lavoratori che intendano esercitare il diritto di cui al comma
precedente devono darne comunicazione scritta al datore di lavoro di regola tre giorni prima, tramite le
rappresentanze sindacali aziendali.”
- Ai sensi dell’art. 25 st. lav. “le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi
spazi, che il datore di lavoro ha l'obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all'interno
dell'unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del
lavoro”: secondo la giurisprudenza tale norma non attribuisce il diritto di affissione in un determinato luogo
ma solo in luoghi idonei.
- Ai sensi dell’ art. 26 st. lav., “i lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di
proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del
normale svolgimento dell'attività aziendale (es: diffondendo stampati nell’ ambiente di lavoro)”: si tutela,
cioè, la libera manifestazione del pensiero sindacale.
Tale diritto ovviamente dev’essere esercitato nel rispetto dei consueti canoni di legittimità, sostanzialmente
riconducibili a : I. continenza (linguaggio appropriato); II. pertinenza (esistenza di un pubblico interesse alla
conoscenza e alla divulgazione del fatto e dell’ opinione); III. veridicità (corrispondenza tra i fatti riferiti e
accaduti).
- Ai sensi dell’ art. 27 st. lav., infine, “il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti
pone (= ha l’ obbligo di porre) permanentemente a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali,
per l'esercizio delle loro funzioni, un idoneo locale comune all'interno dell'unità produttiva o nelle
immediate vicinanze di essa.
Nelle unità produttive con un numero inferiore di dipendenti le rappresentanze sindacali aziendali hanno
diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro riunioni”.
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Per i diritti sindacali nel sistema del lavoro pubblico occorre fare riferimento all’ accordo quadro del 7
agosto 1998 il quale, oggetto di successive modifiche (da ultimo, il contratto quadro del 17 ottobre 2013)
adegua la disciplina statutaria alle specificità del settore. In particolare, sulla base di tale accordo:
- Il diritto di assemblea è ridefinito in questo modo: i dipendenti pubblici hanno il diritto di partecipare,
durante le ore di lavoro, ad assemblee sindacali in idonei locali concordati con l’ amministrazione per un
massimo di 10 ore annue pro capite senza decurtazione della retribuzione. Le assemblee possono essere
indette, singolarmente o congiuntamente, con specifico ordine del giorno su materie di interesse sindacale
e del lavoro. La convocazione, la sede, l’ orario e l’ ordine del giorno devono essere comunicate all’ ufficio
gestione del personale con preavviso scritto di almeno 3 giorni.
- Per il diritto di affissione si prevede l’ utilizzazione, ove disponibili, anche di sistemi di informatica (cd
bacheca informatica).
- Per quanto riguarda la disciplina dei distacchi, permessi e aspettative sindacali, si prevede che:
1) i dipendenti pubblici che siano componenti degli organismi direttivi statutari delle proprie confederazioni
ed organizzazioni sindacali rappresentative hanno diritto al distacco sindacale con mantenimento della
retribuzione per tutto il periodo di durata del mandato sindacale nei limiti numerici ivi previsti;
2) i permessi sindacali (retribuiti) possono essere fruiti da: componenti delle RSU, dirigenti sindacali delle
RSA, dai dirigenti sindacali aventi titolo a partecipare alla contrattazione collettiva integrativa, dirigenti
sindacali che siano componenti degli organismi direttivi delle proprie confederazioni ed organizzazioni
sindacali di categoria rappresentative;
3) i dirigenti sindacali che ricoprono cariche in seno agli organismi direttivi statutari delle proprie
confederazioni e organizzazioni sindacali rappresentative possono fruire di aspettative sindacali non
retribuite per tutta la durata del loro mandato e, in ogni caso, hanno diritto a permessi
sindacali non retribuiti per la partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura
sindacale, in misura non inferiore a 8 giorni l’ anno;
4) il dipendente o dirigente che riprende servizio al termine del distacco o dell’ aspettativa sindacale può, a
domanda, essere trasferito, con precedenza rispetto agli altri richiedenti, in altra sede della propria
amministrazione quando dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver avuto il domicilio nell’ ultimo
anno nella sede richiesta ovvero in altra amministrazione.
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1) il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ ambito dell’ impresa (art. 27), in virtù
del quale ai lavoratori e ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’ informazione
e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizione previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni
e prassi nazionali.
In particolare abbiamo
- Diritto di Informazione: secondo il quale il datore di lavoro ha l'obbligo di informare il sindacato sulle
iniziative riguardanti determinate materie;
- Diritto di Consultazione: secondo la quale il datore di lavoro ha l'obbligo di sentire il sindacato prima di
adottare determinate iniziative.
I diritti di informazione sono considerati come elementi funzionali al raggiungimento degli obiettivi primari
della politica sociale europea: per questo motivo, la maggior parte delle direttive adottate dal Consiglio
riguarda tale diritto.
Le più importanti direttive in tal senso sono:
- Direttiva 2002/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (11 marzo 2002) la quale evidenzia la
carenza dei quadri giuridici esistenti a livello comunitario e nazionale circa il coinvolgimento dei lavoratori
nelle decisioni che li riguardano e, conseguentemente, la necessità di intensificare il dialogo sociale e le
relazioni di fiducia nell’ ambito dell’ impresa.
In particolare, la direttiva dispone che all’ informazione sulla probabile evoluzione dell’ attività d’ impresa
nella data situazione economica dev’essere affiancata anche la consultazione sulla possibile evoluzione dell’
occupazione e, più in generale, su tutte le decisioni suscettibili di comportare cambiamenti di rilievo in
materia di organizzazione del lavoro e di contratti di lavoro.
Tale direttiva è stata attuata in Italia dal d. lgs. 25/2007, il quale ha affidato alla contrattazione collettiva il
compito di definire le modalità di informazione e consultazione in modo da garantire il contemperamento
degli interessi dell’ impresa con quelli dei lavoratori.
- Direttiva 2009/38/CE, la quale prevede l’ istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura
per l’ informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese o nei gruppi di imprese di dimensioni
comunitarie (dove per “impresa di dimensioni comunitarie” è da intendersi quella che impiega almeno
1000 lavoratori negli Stati membri e almeno 150 lavoratori per Stato membro in almeno 2 Stati membri). In
tali ipotesi , cioè, si prevede l’ istituzione di un comitato aziendale europeo (CAE) e comunque la definizione
di altre procedure adeguate per l’ informazione e la consultazione transnazionale dei lavoratori.
In Italia, tale direttiva ha ricevuto attuazione prima col d.lgs. 74/2002, recentemente sostituito dal d.lgs.
113/2012 il quale prevede che i componenti italiani del CAE sono designati per 1/3 dalle organizzazioni
sindacali che abbiano stipulato il ccnl applicato nell’ impresa o gruppo di imprese interessate e per 2/3 dalle
RSU dell’ impresa ovvero del gruppo di imprese.
- Infine, la Direttiva 2001/86/CE del Consiglio, la quale completa la disciplina dello statuto della Società
europea (prevista dal Regolamento CE n. 2157/2001 del Consiglio) per quanto riguarda il coinvolgimento
dei lavoratori. La direttiva fornisce una specifica definizione di “consultazione: apertura di un dialogo e d’
uno scambio di opinioni tra l’ organo di rappresentanza dei lavoratori e l’ organo competente della SE” e di
“partecipazione: influenza dell’ organo di rappresentanza dei lavoratori nelle attività di una società
mediante o il diritto di eleggere o designare alcuni membri dell’ organo di vigilanza o di amministrazione
della società o il diritto di raccomandare la designazione di alcuni o tutti i membri dell’ organo di vigilanza o
di amministrazione della società ovvero di opporvisi”.
Tale direttiva è stata attuata dal d. lgs.188/2005 che prevede l’ istituzione di un organo di rappresentanza
che sarà interlocutore degli organi competenti della SE.
2) il diritto di negoziazione e di azione collettiva (art. 28) ai sensi del quale, i lavoratori e i datori di lavoro e
le rispettive organizzazioni, hanno il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli
appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa di loro interessi,
compreso lo sciopero.
In realtà anche l’ art. 46 della nostra Cost. riconosce il diritto di lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende.
Tale norma, tuttavia, non è stata attuata formalmente.
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La funzione tradizionale del sindacato in azienda rimane quella contrattuale, cioè di stipulare contratti la cui
efficacia è limitata alla singola azienda (la contrattazione nazionale stabilisce ambiti, modalità e limiti della
contrattazione aziendale).
Al riguardo bisogna sottolineare due aspetti:
- La specificità delle forme di rappresentanza sindacale.
Sotto questo punto di vista occorre segnalare che l’ accordo interconfederale del 18 giugno 2011 sancisce
che gli accordi sottoscritti dalla RSU (a maggioranza dei suoi membri) sono considerati efficaci per tutto il
personale e vincolano tutte le associazioni sindacali firmatarie di questo accordo interconfederale che
operano all’ interno dell’ azienda.
Inoltre, per il caso di assenza di RSU, l’ accordo riconosce medesima efficacia al contratto approvato dalla
RSA costituita nell’ ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino
destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’
azienda nell’ anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione.
Sotto questo punto di vista, è opportuno evidenziare che il contratto aziendale non ha più soltanto una
funzione normativa e di redistribuzione della produttività dell’ azienda, ma anche di carattere gestionale
(contratti collettivi gestionali) o di condizione per l’ accesso alle risorse pubbliche: infatti, la Corte
Costituzionale ha ritenuto che la legge stessa si preoccupa di sostituire alla determinazione unilaterale dei
criteri di scelta (originariamente spettante all’ imprenditore nell’ esercizio del suo potere organizzativo) una
determinazione concordata con i sindacati maggiormente rappresentativi.
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-RSA/RSU: differenze
• RSU:
- struttura a base unitaria ed elettiva
- alle elezioni possono partecipare tutti i lavoratori (iscritti e non)
- costituzione: 2/3 elezioni a suffragio universale
- 1/3: riserva del terzo: mediante designazione da parte delle oo.ss. stipulanti il ccnl (contratto
collettivo nazionale di lavoro) applicato, in proporzione ai voti ottenuti.
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La nozione di s.m.r. è stata affiancata e progressivamente superata da una diversa formula, quella di
sindacato comparativamente più rappresentativo.
Concetto di rappresentatività comparata, che nasce con lo scopo di risolvere conflitti intersindacali in
ipotesi di pluralità di contratti collettivi per la stessa categoria (si sceglie allora il sindacato che in
comparazione agli altri e non in assoluto è quello più rappresentativo).
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-Lo sciopero
• Art. 40 Cost.
“Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”
- fondamento costituzionale del diritto di sciopero –
1. Definizione
Lo sciopero è la principale arma nelle mani dei lavoratori e delle loro organizzazioni rappresentative per
sostenere le proprie rivendicazioni.
Quando gli interessi non coincidono, la parte dei lavoratori ha a disposizione questo strumento per
«convincere» la controparte della giustezza delle proprie posizioni, astenendosi dal lavoro e perciò
procurando ad essa un danno.
SI tratta, non tanto di uno strumento dl “aggressione”, quanto di un mezzo di “autotutela” che i lavoratori
esercitano collettivamente contro potenziali vessazioni da parte del soggetto forte del rapporto. Nel nostro
ordinamento, non esiste alcuna definizione giuridica di sciopero; la fonte principale, l’art. 40 Cost., recita
infatti: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano” (fondamento costituzionale
del diritto di sciopero), senza spiegare cosa si intende per esso.
Tradizionalmente per sciopero si intende l'astensione collettiva dal lavoro e l'aspetto collettivo deve
intendersi soddisfatto pur in presenza di due soli scioperanti.
Il concetto di “Astensione dal lavoro” comprende anche quei comportamenti positivi che risultano essere
strettamente collegati con l'effettiva possibilità di esercizio del diritto (attività di propaganda e proselitismo,
cortei interni, pubbliche manifestazioni, picchettaggio), e a condizione che essi non travalichino in altri
illeciti, come è spesso accaduto, ad esempio, in relazione a episodi di "blocchi stradali".
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Prima di giungere all’affermazione del diritto di sciopero contenuto nell’art. 40 Cost., , lo Sciopero è stato
qualificato in 3 modi (P. Calamandrei):
- Sciopero – Reato: lo sciopero era considerato un illecito punito sia penalmente che civilmente ed erano
punibili sia gli scioperanti sia gli stessi sindacati. Tale concezione si è avuta al tempo dell’Unità d’Italia col
Codice Sardo, e si è poi riproposta all’epoca del Fascismo col Codice Rocco. Durante il regime fascista lo
sciopero assunse nuovamente rilievo penale; infatti l’art. 502 prevedeva il reato di “sciopero (e di serrata)
per fini contrattuali”, cioè effettuato al fine di ottenere migliori condizioni di lavoro, e l’art. 503 prevedeva
la pena detentiva per lo sciopero politico, cioè per fini non contrattuali.
- Sciopero – Libertà: lo Sciopero costituiva un comportamento consentito sul piano generale e dunque
veniva tollerato dall’Ordinamento Penale; tuttavia esso costituiva un illecito civile in quanto era considerato
come inadempimento in seno al rapporto di lavoro(lasciato quindi alle sole sanzioni disciplinari del datore
di lavoro). Tale concezione fu introdotta dal Codice Zanardelli del 1889.
- Sciopero – Diritto: lo sciopero nella Costituzione del 1948 assunse dignità di un “diritto” (art. 40 Cost.). Lo
Sciopero costituiva un diritto nel rapporto di lavoro, quindi non costituiva illecito ne penale e ne civile.
In particolare, con la Costituzione emerse in primo piano la prospettiva dello Stato Sociale, nel quale lo
sciopero è un’arma posta nelle mani della parte debole del rapporto, per favorirne la parità sostanziale di
cui all’art. 3 co. 2; di conseguenza, non c’è alcuno spazio per forme di responsabilità civile, rimanendo la
perdita della retribuzione l’unica conseguenza negativa per i lavoratori che esercitano un proprio diritto.
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“… È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
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-Nozione di sciopero
Secondo la giurisprudenza della Cassazione, il significato da attribuire allo sciopero è quello che la
parola ed il concetto ad esso sotteso hanno nel comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale.
Con la parola sciopero, pertanto, suole intendersi “nulla più che un’astensione collettiva dal lavoro,
disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”.
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-Titolarità
Chi è il soggetto titolare del diritto di sciopero?
Il diritto di sciopero è un diritto individuale (titolare individuale) ad esercizio collettivo (esercizio
collettivo).
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4. Titolarità e limiti personali
Le teorie del primo periodo, immediatamente successivo alla Costituzione, erano incentrate sulla titolarità
collettiva del diritto di sciopero, e furono volte ad enfatizzare il ruolo del sindacato; dunque, titolare del
diritto era l'associazione sindacale sul presupposto che, essendo il sindacato preposto alla tutela degli
interessi di lavoratori, ad esso spetterebbe il diritto di azionare lo sciopero nell'esercizio delle sue funzioni.
Si ancorava l’esercizio dello sciopero alla proclamazione da parte sindacale, colpendo essenzialmente lo
sciopero spontaneo, cioè quello che gruppi di lavoratori attuavano indipendentemente dalla, o magari
contro la, volontà e linea strategica dei sindacati cui aderivano, o comunque più rappresentativi.
Dalla metà degli anni Cinquanta, si fecero strada le teorie del diritto individuale ad esercizio collettivo, che
incontrarono negli anni successivi un favore quasi incontrastato.
In tali ricostruzioni, il momento della proclamazione dallo sciopero non avrebbe costituito requisito di
legittimità dell’esercizio del diritto dl sciopero, ma avrebbe assunto il semplice valore di un invito a
scioperare.
Le teorie della titolarità individuale andarono bene anche negli anni Sessanta.
Una forte ripresa delle teorie della titolarità collettiva del diritto di sciopero si ebbe verso la fine degli anni
Ottanta. Cominciò a primeggiare la tesi della titolarità collettiva ad esercizio individuale, nei senso che la
decisione sindacale coesisteva con la libertà del lavoratore di aderire o meno allo sciopero.
Dopo di allora, il dibattito si divise tra chi continuò a sostenere la titolarità collettiva in capo a un sindacato
e chi invece rielaborò la tesi della titolarità individuale ad esercizio collettivo.
Questa ricostruzione si impose come maggioritaria: del diritto di sciopero era titolare il singolo lavoratore,
mentre il suo esercizio doveva necessariamente essere collettivo, rispecchiando un interesse altrettanto
collettivo dei soggetti interessati.
Ciò comportò alcune conseguenze: innanzitutto, non era indispensabile alcuna proclamazione dello
sciopero, che poteva essere anche spontaneo o “a sorpresa”; poi, non contava li numero dei lavoratori
coinvolti, che poteva anche essere esiguo, purché sì muovesse per tutelare un interesse collettivo; infine, gli
atti coi quali un sindacato avesse eventualmente disposto del diritto di sciopero erano validi solo per il
sindacato firmatario e non per i singoli lavoratori.
L’esempio più importante è quello delle clausole dette «di tregua» o «di pace sindacale» contenute in
alcuni contratti collettivi, in virtù delle quali ci si impegna a non scioperare prima della scadenza del
contratto o ad esperire tentativi di conciliazione.
Dal canto suo, l’accordo interconfederale 28 giugno 2011 consente ai contratti aziendali di includere
clausole di questo tipo, volte anche a promuovere procedure di “raffreddamento” del conflitto; tali clausole
vincolano solo i sindacati firmatari e non i singoli lavoratori.
Dunque, in generale il Diritto di Sciopero spetta a tutti i soggetti qualificabili come lavoratori subordinati;
tuttavia ci sono particolari categorie di lavoratori subordinati, che vedono limitato l’esercizio di tale diritto.
In particolare, i dipendenti che non possono scioperare sono sostanzialmente i militari, ai quali la
L. 382/1978 attribuisce il solo diritto sindacale di rappresentanza, e gli appartenenti alla polizia giudiziaria,
ai quali la L. 121/191 vieta espressamente l’esercizio dello sciopero.
Salve, quindi, queste due categorie, ogni lavoratore dipendente gode del diritto costituzionale di astenersi
dal lavoro.
Di recente la nozione di sciopero, si è andata allargando fino a ricomprendere soggetti sicuramente non
qualificabili come subordinati; in particolare, la L. 83/2000 ha riconosciuto tale diritto anche ai lavoratori
autonomi.
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-I modi attuativi dello sciopero
5. Modalità
Lo sciopero può essere attuato in vari modi.
A) La forma classica è quella della semplice astensione dal lavoro continuativa, concertata e completa a
tutela di un interesse professionale collettivo, da cui deriva pari danno per il lavoratore, che perde la
retribuzione, e per l’imprenditore che perde la produzione.
B) Forme di sciopero (Anomale) tali da arrecare un maggior danno all'imprenditore e un minor sacrificio
per il lavoratore, quali:
- sciopero a singhiozzo: cioè quello caratterizzato da interruzioni brevi (10 minuti per ogni ora);
- sciopero a scacchiera: caratterizzato da un’astensione dal lavoro effettuata in tempi diversi, da diversi
gruppi di lavoratori, le cui attività siano interdipendenti nell’organizzazione del lavoro;
- sciopero a sorpresa: cioè senza preavviso.
Negli anni '50 e '60 del secolo scorso, la giurisprudenza era unanime nel ritenere illegittime queste forme di
sciopero, sulla base della teoria del "danno ingiusto" — che presupponeva l'esistenza di "limiti intrinseci"
del diritto di sciopero, e che invocava, a sostegno, i principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del
contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.).
In pratica, si riteneva che questi scioperi fossero illegittimi perché fonte di un danno ulteriore e più grave
(per disorganizzazione dell'azienda, spreco di energie e di materie prime, corresponsione di retribuzioni per
prestazioni non rese o scarsamente utilizzabili, etc.) di quello necessariamente inerente ai mancati utili
dovuti alla momentanea sospensione dell'attività lavorativa dei suoi dipendenti, ed a sua volta compensato
o limitato dal mancato pagamento della retribuzione agli scioperanti.
Sul punto è intervenuta la Corte di cassazione che ha sostanzialmente affermato la liceità di qualsiasi forma
di sciopero ma, al tempo stesso, ha introdotto il criterio nuovo della differenziazione tra interruzione della
produzione ed interruzione della produttività, stabilendo che sono del tutto leciti anche gli scioperi
“anomali”, purchè non vadano a danneggiare la capacità produttiva dell’azienda, e cioè la possibilità per
l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica.
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C) sono state riconosciute anche forme di sciopero per fini non economici, quindi non dirette contro il
datore di lavoro per il soddisfacimento di richieste che questi fosse in grado di appagare.
Inizialmente solo questi ultimi furono dichiarati legittimi; ma poi la Corte Costituzionale con sent. 290/1974
e poi con sent. 165/1983 affermò la piena legittimità dello Sciopero Politico, a meno che esso non fosse
diretto a sovvertire l’Ordinamento Costituzionale oppure a impedire o ostacolare il regolare funzionamento
delle istituzioni democratiche.
- Sciopero di Solidarietà: inizialmente previsto come reato dall’art. 505 c.p., ricorre quando alcuni
lavoratori si pongono in sciopero allo scopo di sostenere rivendicazioni, sostanzialmente affini, di colleghi di
altre aziende.
Anche qui la Corte Costituzionale con sent 123/1962 ha affermato la legittimità di questa forma di lotta
sindacale, ma a condizione che sussista una comunione di interessi tra i 2 gruppi di lavoratori.
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D) Altre forme di autotutela sono quelle nelle quali l’agitazione collettiva si svolge non allontanandosi
dall’impresa; cioè sono quelle che non comportano un’astenzione effettiva dal lavoro, per cui al danno
recato all’imprenditore non corrisponde neanche il “sacrificio” della perdita della retribuzione.
- Sciopero delle mansioni: i lavoratori si rifiutano di eseguire mansioni ulteriori rispetto a quelle di propria
competenza
- Sciopero del cottimo o del rendimento: i lavoratori rallentano i ritmi produttivi richiesti
- Sciopero pignolo: viene effettuato continuando il lavoro ma rallentando notevolmente l’attività, in
conseguenza dell’applicazione rigidissima di disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali
- Sciopero alla rovescia: si ha quando i dipendenti svolgono lavori non richiesti; si pensi ai casi, non
infrequenti, di datori di lavoro che, per vari motivi, non proseguono l’attività, mentre i lavoratori
continuano a presidiare il loro posto, svolgendo le normali mansioni
1. - Sciopero bianco: caso in cui i dipendenti si astengono dal lavoro ma non lasciano l’impresa,
sostanzialmente allo scopo di scongiurare il crumiraggio (L'atteggiamento di chi si rifiuta di fare uno
sciopero o accetta di sostituire gli scioperanti nel loro lavoro) e di compattare, anche solo psicologicamente,
gli scioperanti.
- Occupazione d’azienda: forma più estrema dello sciopero bianco, presuppone la permanenza dei
lavoratori anche oltre Il loro ordinario orario lavorativo.
La fattispecie rischia però di ricadere sotto la precisione dell’art. 508 co. 1, che punisce l’occupazione di una
“altrui” azienda “col solo scopo d’impedire o turbare li normale svolgimento del lavoro”.
La Corte costituzionale nel 1975 (sent. 220/1975), ribadì la legittimità dello sciopero bianco, consistente nel
restare in azienda durante l’orario di lavoro, e sancì la liceità della permanenza oltre tale orario, laddove ci
fosse una debita giustificazione ad esempio un’assemblea regolarmente convocata.
E) Dal concetto di sciopero esulano certamente altri comportamenti di protesta dei lavoratori,
- Il Picchettaggio è la tradizionale forma di resistenza al crumiraggio; consiste, infatti, in un blocco dei
lavoratori, che, davanti alla fabbrica, dissuadono i colleghi che eventualmente volessero entrare al lavoro.
Nel caso in cui Il comportamento non si fermi ad un convincimento dialettico, sia pur forte (ad esempio, la
barriera umana, che impedisce di fatto l’ingresso in azienda), ma si spinga oltre, allora entra in gioco, nella
valutazione della liceità, il bilanciamento tra la libertà negativa di non aderire ad uno sciopero e quella
positiva di organizzazione; la Sanzione penale subentra comunque laddove il picchettaggio degeneri in
azioni violente.
Il “picchetto” di lavoratori può agire anche in senso inverso, impedendo l’uscita dall’impresa dei suoi
prodotti: questo blocco delle merci risulterà anch’esso lecito, a patto di non trascendere in comportamenti
violenti o minacciosi; ma va comunque presa in considerazione la responsabilità civile eventualmente
derivante da un tale comportamento.
- Il Boicottaggio, effettuato dai lavoratori, consiste nella propaganda volta ad indurre terzi a non fornire
all’impresa materie o strumenti ovvero a non acquistarne i prodotti.
L’ipotesi viene punita dalI’art. 507 c.p.
- Il danneggiamento dei locali dell’azienda o dei tuoi strumenti o macchinari integra invece l’ipotesi del
Sabotaggio una delle forme più esasperate di lotta sindacale.
Il reato è contemplato dall’art. 508 co. 2 c.p., ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Corte con la stessa
sentenza già vista in tema di occupazione d’azienda.
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Durata
• “ad oltranza”: è fatto e proseguito fino al successo o al fallimento finale;
• “a tempo”: programmato e condotto per un certo tempo predefinito;
• “simbolico” (o dimostrativo): programmato ed eseguito per un tempo brevissimo, attuato in segno di
protesta o di solidarietà rispetto a fatti ritenuti particolarmente gravi.
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Estensione
• sciopero generale: si astiene l’intero mondo del lavoro subordinato;
• categoriale: sciopero degli appartenenti ad una categoria industriale (es. metalmeccanici) o professionale
(es. gli operai)
• aziendale: sciopero d’azienda, di stabilimento, di reparto, che può essere totale o parziale.
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Articolazione
I limiti
“… deve essere salvaguardata l’impresa come organizzazione istituzionale e non gestionale, cioè la
produttività e non la produzione aziendale”.
“produttività aziendale”, intesa come “capacità dell’azienda di continuare a svolgere la propria iniziativa
economica.
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-Gli scopi
• Fini contrattuali, non contrattuali e sciopero politico.
• Il problema della “disponibilità della pretesa da parte del datore di lavoro”.
Lo sciopero a fine politico non è reato ma è mera libertà (Corte cost. n. 290/74), lecito
penalmente, ma non civilmente). Tuttavia, Cass. n. 16515/2004: liceità, anche civilistica, dello sciopero fatto
per protestare nell’occasione dell’invio di un contingente militare italiano in Kosovo (finalità politica).
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L'astensione dal lavoro per sciopero non da luogo ad inadempimento contrattuale da parte del lavoratore, il
quale, tuttavia, con la mancata prestazione perde il diritto alla retribuzione commisurata alla durata del
periodo di astensione.
Il problema si pone nei casi in cui allo sciopero sia contrapposta la serrata, con la messa in libertà di quelli
che non hanno scioperato o che sono di servizio nelle pause di uno sciopero a singhiozzo o nei momenti di
non effettuazione di uno sciopero a scacchiera.
In tale ipotesi il lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione, in quanto egli è disponibile ad effettuare
la prestazione lavorativa che gli e impedita dall'azione dell' imprenditore.
Tuttavia, il rifiuto del datore di lavoro è legittimo se la prestazione risulti in concreto inutilizzabile, cioè
comporti per lui un aggravio di spese.
In buona sostanza, il lavoratore che legittimamente, esercita il proprio diritto di sciopero senza danneggiare
la produttività aziendale e che si presenta regolarmente al lavoro nei periodi in cui non si astiene dal lavoro,
ha la concreta possibilità di vedersi rifiutata la messa a disposizione, e quindi negata la retribuzione.
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La dimensione europea
A livello europeo, solo di recente c’è stato un importante riconoscimento del diritto di sciopero: ora l’art. 28
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea attribuisce ai lavoratori (ma anche ai datori di
lavoro) il diritto di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi,
compreso lo sciopero.
Ma a livello europeo lo sciopero non ha mai rivestito quel ruolo che ha nel nostro ordinamento nazionale.
La Corte ha riconosciuto l’importanza dell’azione collettiva di autotutela come valore fondante
dell’ordinamento europeo, ma l’ha messa sullo stesso piano della libertà d’impresa, ritenendo necessario
operare un bilanciamento tra opposti diritti, ritenuti dello stesso rango.
Su queste basi la Corte ha concluso che l’azione collettiva possa essere ritenuta prevalente solo, qualora
essa incarni interessi generali di tutela dei lavoratori e sia proporzionata rispetto al fine perseguito, che
dev’essere compatibile con le fonti del diritto comunitario.
Le decisioni della Corte sono indice di un complessivo atteggiamento di scetticismo, se non di aperto
sfavore, dell’ordinamento europeo nei confronti dell’azione collettiva.
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6. Lo Sciopero dalla parte del datore di lavoro: la Serrata e il Crumiraggio
Strumento tipico nelle mani del datore è la serrata, ovvero un’azione collettiva posta in essere dal datore
di lavoro, consistente in chiusura o interruzione temporanea dell’attività aziendale, totale o parziale,
nonché rifiuto di accettare e retribuire le prestazioni di lavoro, attuata da una sola o da più imprese.
Nel nostro sistema di relazioni industriali si è affermato un modello di serrata “sospensiva”, utilizzata
sostanzialmente come strumento difensivo, ovvero di risposta ad un’azione dei lavoratori.
Per lunghissimo tempo la legge ha trattato paritariamente le fattispecie dello sciopero e della serrata,
finchè non è intervenuta la Costituzione, che ha finalmente diversificato le due fattispecie, riconoscendo lo
sciopero come diritto, mentre la serrata non costituisce un diritto, ma si tratta di una mera libertà.
Una nota pronuncia della Corre costituzionale del 1960 (Corte Cost. 29/1960) affermò il valore della serrata
alla stregua di una semplice libertà, la cui fonte costituzionale sarebbe l’art. 39 co. 1, inteso come libertà di
organizzazione, ma anche di azione sindacale, e si incaricò di ribadire la differenza di rango costituzionale
rispetto allo sciopero, tutelato specificamente dall’art. 40; di conseguenza, la Corte dichiarò illegittima la
norma penale che puniva la serrata per fini contrattuali (art. 502 c.p.).
Ma ad analoga conclusione di inapplicabilità di sanzioni penali si è sostanzialmente giunti anche a proposito
degli altri tipi di serrata: quelli per fini politici, di coazione alla pubblica autorità, di solidarietà o di protesta.
In ogni caso, però, la serrata costituisce un illecito civile, configurando una violazione del contratto di
lavoro.
Qualora la serrata si ponga come azione di ritorsione rispetto ad uno sciopero, secondo la maggioranza
della giurisprudenza si viene ad integrare l’ipotesi della condotta antisindacale, di cui all’art. 28 st. lav., che
sanziona, appunto, i comportamenti del datore di lavoro “diretti ad impedire o limitare l’esercizio del diritto
di sciopero”.
Un altro strumento nelle mani del datore di lavoro volto ad attenuare le conseguenze di uno sciopero è il
crumiraggio, comportamento anch’esso ai limiti della condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 st. lav.
In particolare possiamo avere:
a) crumiraggio diretto: è quello realizzato dal lavoratore (crumiro) che non intende aderire allo sciopero e
che, quindi, vuole recarsi normalmente al lavoro.
Tale comportamento, di per sé perfettamente lecito alla luce della libertà sindacale “negativa”, potrà
semmai essere oggetto di conflitto da parte dei lavoratori scioperanti sul piano dei rapporti dialettici tra
diverse opinioni
b) crumiraggio indiretto: è quello realizzato dal datore di lavoro con la sostituzione dei dipendenti in
sciopero, attuata spostando temporaneamente propri dipendenti da un reparto a quello in sciopero oppure
addirittura reclutando lavoratori esterni, servendosi magari di contratti di somministrazione.
In relazione a quest’ultimo caso, detto di crumiraggio esterno, esistono espliciti divieti legislativi di ricorrere
a determinati istituti (somministrazione, lavoro a termine, lavoro intermittente) per sostituire lavoratori In
sciopero; e ciò rende obsoleta la giurisprudenza che in passato autorizzò queste prassi.
Nel caso di crumiraggio interno, c’è chi sostiene che una volta rispettati i precetti dell’art. 13 st. lav.
riguardo al divieto di adibizione a mansioni inferiori, il datore ben potrebbe rispondere allo sciopero con
provvedimenti di tipo sostitutivo.
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-Sciopero nei servizi pubblici essenziali
Lo sciopero attuato nell'ambito dei Servizi - e, in particolare, di Servizi pubblici essenziali - ha la
caratteristica di arrecare danno all'utenza di tali servizi, più che all'amministrazione o all'impresa esercente,
limitando così diritti non meno importanti del diritto di sciopero.
La libertà di sciopero nell'ambito dei servici pubblici essenziali ha favorito la costituzione di sindacati di
mestiere la cui astensione dal lavoro era sufficiente a paralizzare attività molto più ampie di quelle
direttamente svolte dai lavoratori da essi rappresentati (controllori di volo, casellanti delle ferrovie, primari
ospedalieri).
Un primo tentativo sono stati i codici di autoregolamentazione adottati dai sindacati e da essi stessi
disattesi, i quali ponevano norme comportamentali destinate a fungere da modello nei casi di agitazioni nei
settori pubblici.
La prassi autoregolativa fu sostenuta dallo stesso legislatore, che, con la legge quadro sul pubblico Impiego
(l. 93/1983), stabilì che un sindacato, per essere ammesso alle trattative negoziali, dovesse adottare codici
di autoregolamentazione dello sciopero con un contenuto minimo obbligatorio.
L’autoregolamentazione sindacale denunciava, però, evidenti limiti: le sue norme vincolavano soltanto i
lavoratori iscritti all’associazione sindacale che la adottava, mentre le eventuali violazioni erano soggette a
semplici sanzioni endo-associative, con l’esclusione di ogni responsabilità per inadempimento nei confronti
del datore di lavoro.
Pertanto quale unica alternativa non restò che il ricorso alla Legge.
Il 12 giugno del 1990 fu approvata la Legge n. 146, la quale aveva come obiettivo quello di mantenere un
sostanziale equilibrio tra diritto di sciopero ed altri diritti e di non realizzare una regolamentazione tale da
determinare una sostanziale negazione del diritto di sciopero.
A tal fine essa elenca — in via non esaustiva — i servizi ritenuti essenziali e quindi stabilisce le modalità con
le quali i servizi essenziali devono essere garantiti.
L'individuazione dei servizi essenziali è effettuata con riferimento ai diritti, meritevoli di tutela, cui i
medesimi servici sono rivolti, quali il diritto alla vita, alla salute, all'ambiente, all'istruzione, alla
retribuzione, alla libera circolazione, ecc., pertanto tali servizi sono, per esempio, la sanità, l'igiene, la
protezione civile, la scuola, ecc.
Poi, il Parlamento è nuovamente intervenuto con la l. 11 aprile 2000 n. 83, colmando le lacune e superando
dubbi interpretativi; in particolare tale legge ha esteso l’ambito applicativo della l. 146/1990 anche ai
lavoratori autonomi (vedi paragr. 10).
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-Emanazione della legge 146/90
Tipico esempio di legge “concertata” con le organizzazioni sindacali, al fine di acquisire preventivamente il
consenso degli stessi attori del conflitto collettivo.
Tecnica di regolazione peculiare: interazione tra autonomia e eteronomia.
DISCIPLINA
• “Prestazioni indispensabili” da garantire nel corso dello sciopero
La legge n. 146 stabilisce una procedura relativa allo sciopero, stabilendo un previo tentativo di soluzione
bonaria del conflitto, fallito il quale lo sciopero può essere proclamato col preavviso di almeno 10 giorni,
salvo non si tratti di azioni a difesa dell'ordine costituzionale o di azioni di protesta per gravi eventi lesivi
dell'incolumità e della salute dei lavoratori, ossia in presenza di circostanze nelle quali l'efficacia della
protesta è direttamente collegata alla sua immediatezza.
Lo scopo di tale obbligo di preavviso è quello di consentire all’amministrazione o all’impresa erogatrice del
servizio di predisporre le misure indispensabili, di favorire lo svolgimento di eventuali tentativi di
composizione del conflitto e di consentire all’utenza di usufruire di servizi alternativi.
Nel medesimo lasso temporale, inoltre, i soggetti proclamanti l’astensione devono comunicarne per iscritto
la durata, le modalità di attuazione nonché le motivazioni, sia alle amministrazioni o imprese che erogano il
servizio, sia all’autorità competente per la precettazione.
È compito di quest’ultima curarne quindi l’immediata trasmissione alla Commissione di garanzia.
Le stesse amministrazioni o imprese eroganti il servizio interessato dallo sciopero intervengono nella
pubblicizzazione dello stesso: incombe, infatti, su di esse l’obbligo di dare comunicazione agli utenti “nelle
forme adeguate, almeno 5 giorni prima dell’inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei
servizi nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi”.
Anche i media, in particolare il servizio pubblico radiotelevisivo, nonchè i quotidiani e le emittenti
radiotelevisive che si avvalgano di finanziamenti o, comunque, di agevolazioni tariffarie, creditizie o fiscali
previste da leggi dello Stato sono tenuti a “dare tempestiva diffusione a tali comunicazioni, fornendo
informazioni complete sull’inizio, la durata, le misure alternative, e le modalità dello sciopero nel corso di
tutti i telegiornali e giornali radio”.
La sola diffusione della notizia dell’agitazione provoca disagi per gli utenti del servizio interessato e
determina quindi una forte pressione nel confronti della controparte datoriale, inducendola ad accogliere le
rivendicazioni avanzate.
Di qui la scelta del legislatore di vietare espressamente il cd. “effetto annuncio”, prevedendo che la revoca
spontanea dello sciopero proclamato, dopo che è stata data informazione all’utenza, costituisca forma
sleale di azione sindacale, che legittima peraltro l’intervento sanzionatorio della Commissione di garanzia.
Unica eccezione si ha qualora sia intervenuto un accordo tra le parti o vi sia stata una richiesta di revoca da
parte della Commissione di garanzia o dell’autorità competente per la precettazione.
È stato inoltre introdotto il cd. Obbligo di rarefazione, che si traduce nella previsione, da parte dei contratti
o accordi collettivi e dei codici di autoregolamentazione, di:
- Periodi di franchigia: ossia lassi temporali in cui è di fatto proibita l’astensione, ad esempio in coincidenza
con le festività o le tornate elettorali
- Intervalli minimi tra un’agitazione e l’altra: occorre ulteriormente distinguere tra intervalli minimi
“soggettivi” e “oggettivi”.
I primi sono relativi al divieto dì proclamare scioperi successivi da parte dello stesso soggetto sindacale, se
non nel rispetto di un determinato arco temporale tra l’uno e l’altro; i secondi sono relativi al divieto di
proclamare, da parte di sindacati diversi, astensioni simultanee o eccessivamente ravvicinate nel tempo
nello stesso settore.
La legge n. 146 del 1990 è stata modificata e integrata dalla legge n. 83 del 2000.Si inasprisce
l’apparato sanzionatorio.
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Sono servizi pubblici essenziali “quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona,
costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà, ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione,
all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione” (art. 2, comma 1, l.
146/90).
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-Il contemperamento
Fondamentale è la tecnica del contemperamento tra i diritti: della persona e dello sciopero così, di volta in
volta, si avrà un aggiornamento interpretativo capace di “pesare” ogni diritto costituzionale.
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Le prestazioni indispensabili
Al fine di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati di cui all’art. 1, comma 1, e per assicurarne la concreta effettività, i lavoratori,
coloro che hanno proclamato lo sciopero e le amministrazioni ed imprese che erogano il servizio pubblico
devono comunque garantire la fornitura di prestazioni minime durante l’astensione.
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-“Provvisoria regolamentazione”
Cosa succede se le parti non trovano l’accordo sulle prestazioni indispensabili o lo trovano ma esso non è
ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia?
Scatta l’intervento della Commissione di garanzia che, in prima battuta, formula una «proposta di
disciplina» alle parti e, in caso di mancata adesione delle stesse parti, adotta essa stessa una
“regolamentazione provvisoria” con apposita delibera.
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La legge però mostra di preferire sempre l’accordo tra le parti quale fonte di individuazione delle
prestazioni indispensabili: pertanto, qualora l’accordo venga raggiunto successivamente e sia valutato
idoneo dalla Commissione, esso sostituisce la delibera di provvisoria regolamentazione.
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- può deliberare sanzioni collettivosindacali, cioè a carico dei sindacati, e sanzioni a carico dei singoli
lavoratori.
- può emanare un lodo (decisione collegiale assunta dagli arbitri di una controversia) su questioni
interpretative.
-L’APPARATO SANZIONATORIO
La l. 83/2000 ha attribuito alla Commissione di Garanzia il potere di irrogare sanzioni nel caso in cui abbia
rilevato l'inosservanza delle regole riguardanti la proclamazione degli scioperi, l'effettuazione degli stessi e
l'organizzazione della garanzia dei servizi pubblici essenziali.
Il potere sanzionatorio dell’autorità è tuttavia sottoposto a vincoli procedurali.
L’apertura del Procedimento può avvenire, oltre che ad iniziativa della stessa Commissione, anche su
richiesta delle parti interessate, delle associazioni rappresentative degli utenti, delle autorità nazionali o
locali che vi abbiano interesse.
L’avvio della procedura viene notificato alle parti, che hanno 30 giorni per presentare osservazioni e per
chiedere di essere sentite.
Decorso tale termine e comunque non oltre 60 giorni dall’apertura del procedimento, la Commissione
formula la propria valutazione e, se valuta negativamente il comportamento, tenuto conto anche delle
cause di insorgenza del conflitto, delibera le sanzioni, indicando il termine entro il quale la disposizione
deve essere eseguita, con l’avvertenza che dell’avvenuta esecuzione deve essere data comunicazione alla
stessa Commissione nei 30 giorni successivi.
Le delibere della Commissione, sono impugnabili dinanzi al giudice del lavoro.
È importante notare il ruolo che la legge del 2000 ha accordato alle associazioni rappresentative degli
utenti, che, oltre alla appena menzionata legittimazione ad avviare il procedimento di irrogazione di
sanzioni disciplinari, devono essere sentite dalla Commissione di garanzia prima della valutazione di
idoneità delle prestazioni minime e sono legittimare ad agire in giudizio contro i sindacati che revocano uno
sciopero dopo averlo proclamato o che disattendano l’invito della Commissione a differirlo, nonché nei
confronti degli erogatori dei servizi che non forniscano adeguate informazioni agli utenti.
Lo stesso vale per le associazioni e gli organismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti a
piccoli imprenditori, in solido con i singoli lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che
aderendo alla protesta si siano astenuti dalle prestazioni.
c) Sanzioni individuali: sono adottate nei confronti dei lavoratori che si astengono dal lavoro benché inseriti
nei turni di lavoro attraverso i quali deve essere garantita la continuità del servizio pubblico ritenuto
essenziale.
La sanzione è di natura disciplinare (multa, sospensione dal servizio) e viene comminata all'esito del relativo
procedimento e in nessun caso può comportare il licenziamento.
Tuttavia tali sanzioni non possono essere considerate disciplinari in senso tecnico; infatti una sanzione
riveste natura disciplinare sul presupposto che essa sia irrogata dal datore di lavoro per reagire ad un
comportamento lesivo del proprio interesse come creditore della prestazione lavorativa.
La l. 146/1990, invece, configura tali sanzioni come strumenti per reprimere la violazione di norme a tutela
di interessi di carattere generale.
La loro qualificazione come disciplinare va riferita, più che alla natura della sanzione, al procedimento che il
datore deve rispettare nella sua applicazione, che è in ogni caso quello di cui all’art. 7 st. lav.
L'apparato sanzionatorio è completato dalla cosiddetta Precettazione (Doppia rete di protezione per i diritti
degli utenti: Commissione di garanzia e Autorità precettante).
Per quanto riguarda l’autorità precettante, la precettazione è attuata col provvedimento amministrativo
adottato dal Presidente del consiglio dei ministri o dal ministro, per le questioni di livello nazionale o
interregionale, oppure dal Prefetto (o il corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale), per le
questioni di rilevanza territoriale; col Provvedimento di Precettazione, l’autorità amministrativa, in
presenza di un fondato pericolo di pregiudizio grave ed immanente ai diritti della persona
costituzionalmente tutelati, può disporre (mediante un’ordinanza apposita) il rinvio dell’astensione
collettiva ad altra data, ridurne la durata oppure prescrivere l’osservanza da parte dei soggetti che la
proclamano, dei singoli che vi aderiscono e delle amministrazioni o imprese che erogano il servizio, di
misure idonee ad assicurare livelli di funzionamento del servizio pubblico compatibili con la salvaguardia dei
diritti della persona costituzionalmente tutelati.
L’adozione del provvedimento non è immediata.
Innanzitutto, l’autorità competente deve invitare le parti a desistere dai comportamenti che determinano la
situazione di pericolo.
Viene quindi esperito un tentativo di conciliazione, e se questo ha esito negativo possono essere adottate
con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente
tutelati.
Contro l’ordinanza di precettazione è ammesso ricorso al Tar, ma l’impugnazione non sospende
l’esecutività del provvedimento.
L’inosservanza delle disposizioni dell’ordinanza da parte dei destinatari comporta l’applicazione di sanzioni
pecuniarie.
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Il diritto di astenersi dal lavoro è riconosciuto a tutti, anche ai lavoratori autonomi, professionisti e piccoli
imprenditori. Si pensi alla rilevanza sociale che hanno i cc.dd. scioperi degli avvocati, dei benzinai, degli
autotrasportatori, dei farmacisti, etc.
Il diritto di sciopero dei lavoratori autonomi è implicitamente riconosciuto dalla legge n. 83 del 2000 che ha
esteso a tale categoria di lavoratori le norme delle legge n. 146 del 1990.
In particolare, data la mancanza di sindacati e di contratti collettivi, la Commissione di garanzia promuove
l'adozione, da parte delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, di
codici di autoregolamentazione, sottoposti poi al giudizio di idoneità della stessa Commissione, e sostituiti,
in caso di inattività delle parti o di non idoneità dei codici medesimi, da regolamentazioni provvisorie
sempre adottate dalla Commissione.
I codici di autoregolamentazione debbono contenere un termine di preavviso non inferiore a 10 giorni,
l'indicazione della durata e delle motivazioni dell'astensione, ed assicurare in ogni caso un livello di
prestazioni compatibile con il soddisfacimento del contenuto essenziale dei diritti della persona messi in
pericolo dall'astensione.
In caso di violazione, le associazioni e gli organismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti e
piccoli imprenditori sono soggetti a sanzione amministrativa.
Tali soggetti, infine, sono sottoposti, al pari dei lavoratori subordinati, alla disciplina in tema di
precettazione.
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-Codici di autoregolamentazione
Anche questi soggetti sono tenuti alle regole della l. 146. La “fonte” deputata ad individuare le “prestazioni
indispensabili”, però, è costituita non da accordi o contratti collettivi, ma da codici di
autoregolamentazione, da adottare da parte delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle
categorie interessate.
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-Contratto collettivo
È il prodotto della autonomia contrattuale collettiva e può essere definito, in linea generale, come “il
contratto con cui i soggetti collettivi - organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro - predeterminano la
disciplina dei rapporti individuali di lavoro (c.d. parte normativa) e regolano taluni aspetti dei loro rapporti
reciproci (c.d. parte obbligatoria)”.
1. Definizione e Funzioni
Il contratto collettivo è un contratto stipulato tra soggetti collettivi, ossia tra soggetti rappresentativi di
categorie contrapposte; il contratto collettivo di lavoro è il contratto stipulato tra sindacati, rappresentanti
dei lavoratori di quella determinata categoria o azienda, e sindacati o altri organismi (come l'ARAN,
l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle amministrazioni pubbliche) rappresentanti degli
imprenditori o, comunque, della parte datoriale.
Nel sistema delle relazioni industriali (cioè delle relazioni tra i soggetti collettivi rappresentativi degli
interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro), il metodo principalmente utilizzato per la creazione di sistemi
normativi validi è stato sempre quello della contrattazione collettiva.
Il contratto collettivo di lavoro può essere stipulato a livello nazionale od anche a livello di azienda, ove ciò
sia previsto.
Il Contratto Collettivo è un Contratto Nominato dall’Ordinamento Giuridico, ma privo di una Tipicità
Giuridica a livello di Disciplina.
La Funzione generale del Contratto Collettivo è quella di tutelare gli interessi dei lavoratori rappresentati;
tale funzione si articola in alcune Funzioni più specifiche (Funzione Normativa e Funzione Obbligatoria).
- Funzione Normativa: tale funzione fa riferimento al fatto che il contratto collettivo ha l'obiettivo di dettare
le "norme" che dovranno valere per una serie indeterminata di contratti individuali di lavoro subordinato.
In questo modo, il contratto collettivo si inserisce dall'esterno, come fonte eteronoma (al pari della legge),
nel contenuto dei singoli contratti di lavoro rientranti nell'ambito di efficacia del contratto collettivo.
Così, quando il contratto collettivo determina il regime dell'orario di lavoro, l'ammontare dei riposi, la
misura della retribuzione spettante ad un lavoratore adibito a determinate mansioni ecc., il contenuto delle
previsioni collettive in questione, vale per le parti individuali.
- Funzione Obbligatoria: ad essa assolvono quelle previsioni del Contratto Collettivo (Clausole
Obbligatorie) che istituiscono diritti e obblighi valevoli per e tra gli stessi soggetti collettivi. Le Clausole
Obbligatorie sorgono sia dal lato degli Imprenditori, sia da quello dei Lavoratori. Come esempio di Obblighi
"imprenditoriali", vale menzionare le varie tipologie di obblighi di informazione, in virtù dei quali i sindacati
degli imprenditori, o le stesse imprese, si impegnano ad informare i sindacati dei lavoratori circa una serie
di questioni concernenti le condizioni del mercato, le strategie d'impresa, le eventuali ristrutturazioni in
programma, etc. Come es. di Obblighi dei Lavoratori sono evocabili le clausole di "pace sindacale", grazie
alle quali un sindacato si impegna a non proclamare scioperi in un determinato periodo.
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2. Livelli Contrattuali
In base al livello organizzativo, distinguiamo tra:
- accordo interconfederale, il quale ha ad oggetto una regolazione unica per più comparti o categorie o
settori produttivi e pone le regole generali delle relazioni sindacali;
- contratto di categoria o comparto, il cd. contratto collettivo nazionale di lavoro (ccnl), il quale mira alla
regolamentazione dei rapporti di lavoro in un determinato settore produttivo;
- contratto geograficamente delimitato (a livello regionale, provinciale o territoriale) che riguarda imprese
appartenenti al medesimo settore produttivo ma operanti in una determinata realtà geografica che va
tenuta in considerazione;
- contratto aziendale, ossia applicato alla sola azienda presso cui è stato stipulato;
- contratto di unità produttiva, ossia applicato ad una articolazione interna di una più grande azienda.
Il ccnl è definito contratto di primo livello mentre gli altri sono definiti contratti decentrati o di secondo
livello.
NB: le PA sono accorpate in settori omogenei definiti comparti; per ogni comparto è previsto un livello
nazionale di contrattazione .
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Problema: quali sono i rapporti tra i vari livelli contrattuali?
I rapporti tra i diversi livelli contrattuali (di gerarchia o di coordinamento) sono storicamente mutevoli e
dipendono dalle scelte autonome delle parti contraenti. Vediamone brevemente le principali tappe:
→ Negli anni della ricostruzione post bellica, prende piede il sistema sindacale di fatto (che trova il suo asse
portante sul piano dell’ effettività) la tendenza era quella dell’ accentramento del sistema contrattuale nelle
mani delle 3 grandi confederazioni , contraddistinte all’ epoca da un’ unita di
azione, agevolata dalla grande fase di sviluppo socio-economico che il nostro Paese stava attraversando
→ Nei primi anni sessanta, si introdusse un’ articolazione controllata e governata dei rapporti tra i due
livelli, caratterizzata dal meccanismo della delega (la contrattazione aziendale può intervenire solo sulle
materie ad essa affidate dal contratto nazionale)
→ Già verso la fine degli anni 60 tale criterio entra in crisi in correlazione con le dinamiche del cd “autunno
caldo” e con una disarticolazione del sistema, occupando spesso la contrattazione di secondo livello uno
spazio autonomo e non vincolato alle prescrizioni del contratto nazionale
→ Con la crisi petrolifera degli anni 70 si tornò ad assegnare centralità al sistema e a valorizzare gli accordi
interconfederali
→ Nella prima metà degli anni 80, si mutò nuovamente rotta con l’ introduzione delle pratiche concertative
o neocorporative, caratterizzate dalla presenza dello Stato quale parte negoziale, allo scopo di contenere l’
inflazione.
→ La stagione neocorporativa fu però presto abbandonata ma una prima vera disciplina del sistema
contrattuale e del sistema della concertazione si è avuta solo col Protocollo del 23 luglio 1993, il quale
riaffermava il ruolo centrale del livello nazionale e la competenza delegata del livello decentrato.
→ Già a partire dagli inizi dello scorso decennio si registrano divergenze tra le grandi confederazioni, le
quali hanno condotto alla stipula di cd “accordi separati”, separati in quanto firmati solo da CISL e UIL: si
registra quindi (e permane ancora oggi) la rottura dell’ unità di azione.
→ L’ intero sistema negoziale è stato però ridefinito con l’ accordo interconfederale del 22 gennaio 2009
(anch’ esso non sottoscritto dalla CGIL), il quale ha:
- da un lato, ribadito la subordinazione della contrattazione a livello decentrato alle materie delegate da
quello nazionale di categoria o dalla legge e il principio di irripetibilità (ne bis in idem), in virtù del quale è
fatto divieto di intervenire su materie già negoziate ad altro livello contrattuale, il quale però è stato ora
esteso a tutte le materie (non soltanto a quelle retributive);
- dall’ altro, introdotto la possibilità di stipulare intese derogatorie per il governo delle situazioni di crisi e
per lo sviluppo economico e occupazionale: per tali ipotesi, cioè, si prevede che i ccnl di categoria possano
consentire che in sede territoriale siano raggiunte intese per modificare, in tutto o in parte, anche in via
sperimentale o temporanea, singoli istituti economici o normativi disciplinati dal ccnl di categoria sulla base
di parametri oggettivi individuati nel contratto nazionale medesimo (es: andamento del mercato del lavoro,
tasso di produttività, ecc.); l’ efficacia di tali intese è subordinata alla preventiva approvazione delle parti
che hanno stipulato il contratto collettivo nazionale di lavoro alla categoria interessata.
b) All’ introduzione, strettamente legata al caso FIAT, da parte dell’ art. 8 d.l. 138/2011 (convertito nella l.
148/2011), della cd contrattazione di prossimità, in virtù della quale, i contratti collettivi di lavoro
sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale o territoriale possono realizzare specifiche intese (finalizzate alla
maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’emersione del lavoro irregolare, agli
incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimento e
all’ avvio di nuove attività) che hanno efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati (efficacia ultra
partes), a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario (non meglio precisato)
relativo alle predette rappresentante sindacali.
La norma solleva quindi molti dubbi di legittimità costituzionale; in particolare, si sono avanzati dubbi in
relazione agli artt.:
- 3 Cost. in quanto l’ art. 8 consente un’ aprioristica diversificazione delle regole dei rapporti di lavoro da
azienda ad azienda e da territorio a territorio, così violando il principio di eguaglianza;
- 39 Cost., sia in quanto si viola il principio di libertà sindacale (co. 1) sia per la difformità della disciplina di
attribuzione dell’ efficacia ultra partes al contratto di prossimità rispetto a quella contemplata dai commi 2-
4 della norma;
- 117, co. 2, lett. m Cost., ai sensi del quale i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti […] sociali”
devono essere garantiti sul tutto il territorio nazionale.
È bene sottolineare comunque che, in attesa di una pronuncia della Corte Costituzionale, le parti sociali
abbiano “congelato” l’ art. 8 con una “postilla” inserita nell’ accordo interconfederale del 2011 la quale
ribadisce che “le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’ autonoma
determinazione delle parti” (in pratica, le parti sociali si sono impegnate a non derogare sotto questi punti
di vista all’ accordo interconfederale).
→ Per superare questa fase di crisi dell’ unità di azione sindacale, sono stati due accordi, firmati anche dalla
CGIL, che, per la prima volta regolano (essi stessi) il potere di stipulare il contratto collettivo:
a) L’ accordo interconfederale del 28 giugno 2011, concernente la stipulazione del contratto collettivo
aziendale, il quale prevede che:
- legittimati alla stipulazione sono le “rappresentanze sindacali unitarie (RSU) elette secondo le regole
interconfederali vigenti” o le “rappresentanze sindacali aziendali (RSA) costituite ex art. 19 st. lav.”;
- l’ efficacia riguarda “tutto il personale in forza e tutte le associazioni sindacali firmatarie del presente
accordo interconfederale operanti all’ interno dell’ azienda” se: (I) in caso di stipulazione da parte delle
RSU, il contratto aziendale è approvato dalla maggioranza dei componenti della stessa RSU; (II) in caso di
stipulazione da parte di RSA, queste siano costituite nell’ ambito delle associazioni sindacali che
(singolarmente o con altre) risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi
sindacali conferite dai lavoratori dell’ azienda.
b) Il protocollo del 31 maggio 2013, concernente la stipulazione del contratto collettivo nazionale, il quale
prevede che:
- alla contrattazione sono ammesse le Federazioni delle organizzazioni sindacali firmatarie del protocollo
che abbiano, nell’ ambito di applicazione del ccnl, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a
tal fine la media tra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale
(percentuale dei voti ottenuti sui voti espressi) in occasione delle elezioni delle RSU;
- i ccnl sottoscritti formalmente dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50%+1 della
rappresentanza, come sopra determinata, vincoleranno entrambe le parti e “troveranno applicazione all’
insieme dei lavoratori e delle lavoratrici”.
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segue
• 1. I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze
sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi
interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare
specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere
sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate
alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei
lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione
delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività.
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• 2. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti
l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:
L’art. 39, commi 2-3-4, Cost. cerca di coniugare il riconoscimento del pluralismo
sindacale proprio del nuovo regime democratico con il mantenimento del contratto di categoria efficace
erga omnes (vuol dire efficace per tutti i lavoratori appartenenti alla categoria a
cui si riferisce il contratto collettivo) caratteristico del sistema corporativo.
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L’art. 39, commi 2-3-4, Cost., non hanno trovato attuazione con legge ordinaria, per
motivi politico-sindacali. Esso, comunque, ha un’efficacia impeditiva: impedisce cioè qualsiasi
soluzione alternativa a quella ivi prevista per conferire al contratto collettivo efficacia generale (erga
omnes).
Attenzione: non significa certo che l’art. 39, commi 2-3-4, sia da ritenersi abrogato!!
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• Efficacia oggettiva (Inderogabilità): è il tema dei rapporti tra contratto collettivo e contratto
Individuale.
Le problematiche relative al contratto collettivo, come accennato, ruotano tutte intorno alla sua efficacia
(soggettiva ed oggettiva).
Ci si domanda, in mancanza di una specifica disciplina, cioè:
A) Quali datori di lavoro e quali lavoratori risultano vincolati dal contratto collettivo (qual’ è l’ EFFICACIA
SOGGETTIVA: relativa o generale/ultra partes)?
1° possibilità) Ovviamente se qualifichiamo tale contratto a un contratto di diritto privato (ex art. 1321 c.c.)
dobbiamo giungere alla conclusione che il contratto collettivo vincolerebbe soltanto coloro i quali abbiano
conferito al soggetto collettivo (il sindacato) il potere di stipulare il negozio per conto proprio tramite l’
iscrizione al sindacato e non quindi tutti gli appartenenti alla categoria.
Tale impostazione tuttavia risulta palesemente insoddisfacente in quanto: a) il datore di lavoro sarebbe
indotto ad assumere principalmente lavoratori non iscritti ai sindacati; b) contrasta con l’ esigenza di
universalità delle tutele, c) contrasta con il dovere di corretta concorrenza e ciò sia tra lavoratori, per
evitare che una gara al ribasso infici le tutele minimali, sia tra datori di lavoro, per escludere le tutele
minimali dai fattori di competizione tra le imprese.
2° possibilità) Sarebbe più corretto quindi propendere per l’ efficacia ultra partes la quale sacrifica la libertà
negativa (di non aderire ad alcun sindacato) e gli interessi dei sindacati non aderenti al contratto collettivo.
In questo secondo senso si è mossa la giurisprudenza, la quale ha prodotto un’ estensione ultra partes delle
clausole retributive dei contratti collettivi: il contratto collettivo, quindi, non assume rilievo per la
produzione di un vincolo giuridico, ma come mero “parametro”, con la conseguenza che, qualora il giudice
se ne voglia discostare, dovrà adeguatamente motivare la propria decisione.
NB: Diverso è il problema dell’ efficacia soggettiva del contratto collettivo con funzioni diverse da quella
tradizionale, es:
1. contratto collettivo gestionale, il quale regolamenta l’esercizio dei poteri imprenditoriali nell'ambito di
alcune procedure previste per legge, come ad esempio per scelta dei lavoratori in una procedura di
licenziamento collettivo;
2. contratto collettivo che determina le prestazioni indispensabili in caso di sciopero nei servizi essenziali;
3. contratto collettivo che attua l’ ipotesi prevista dall’ art. 153, co 3, TFUE, ossia che lo Stato affidi alle parti
sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive).
Si è cercato di riconoscere a tali figure efficacia soggettiva ultra partes in vario modo
Con riferimento ai contratti 1 e 2 vi sono due orientamenti:
a) L’ orientamento più ricorrente fa perno sul potere del contratto collettivo, al quale in questi casi,
andrebbe riconosciuta la stessa efficacia della norma delegante (legge o TFUE), sfuggendo lo stesso dall’
ambito applicativo dell’ art. 39, co. 2-4 Cost.
b) Un altro orientamento (sempre della Corte Costituzionale) sostiene che in queste due ipotesi il contratto
collettivo regola direttamente solo il potere datoriale e riguarda solo indirettamente i lavoratori, di modo
che ci si troverebbe fuori dall’ ambito di applicazione dell’ art. 39, co. 2-4 Cost.
- Sull’ efficacia del contratto collettivo 3 (contratto collettivo di attuazione di una direttiva dell’ UE) si è
finora espressa solo la dottrina, la quale ha cercato di sottrarlo all’art. 39, co. 2-4 Cost. puntando sulla
supremazia dell’ orientamento europeo su quello nazionale.
B) È possibile (ed eventualmente in che misura?) che i contratti individuali deroghino a quanto disposto dal
contratto collettivo (qual’ è l’ EFFICACIA OGGETTIVA: reale o obbligatoria)?
1° possibilità) Anche in questo caso, se aderiamo all’ impostazione privatistica, dovremmo concludere che il
singolo, come può dare avvio all’ aggregazione che ha portato al contratto collettivo, così possa rivedere,
con un nuovo accordo individuale, quanto dal medesimo contratto determinato.
Anche in questo caso l’ impostazione risulta insoddisfacente con riguardo alle esigenze di tutela del lavoro
subordinato.
2° possibilità) Occorrerebbe invece introdurre il divieto per il contratto individuale di prevedere regole
difformi da quelle del contratto collettivo con l’ automatica sostituzione delle seconde alle prime nell’
ipotesi di inosservanza (efficacia reale o normativa del contratto collettivo).
Per venire incontro a quest’ altra esigenza, la giurisprudenza ha recuperato l’ art. 2077 c.c. che
espressamente prevede detta efficacia per il contratto collettivo di diritto corporativo (“I contratti
individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono
uniformarsi alle disposizioni di questo./Le clausole difformi dei contratti individuali preesistenti o successivi
al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano
speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”).
In tal modo, la giurisprudenza ha aperto le porte del nostro ordinamento all’ inderogabilità in peius del
contratto collettivo di carattere reale (affermando, all’ inverso, la derogabilità in melius, ossia la possibilità
di pattuizioni individuali più favorevoli per il prestatore di lavoro, addirittura senza necessità delle “speciali
condizioni” richieste dalla norma).
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La dottrina oggi preferisce rinvenire il carattere inderogabile della natura reale del contratto collettivo in
una nuova e diversa norma: l’ art. 2113 c.c., il quale a seguito della l. 533/1973, (“ Le rinunzie e le
transazioni (1966), che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409
cod.proc.civ., non sono valide”) definisce direttamente come inderogabili (non più le norme corporative
ma) i contratti o accordi collettivi. In sostanza, il legislatore attribuisce al contratto collettivo la forza di
caducare/invalidare ogni manifestazione abdicativa, o modificativa in peius, espressa a livello di autonomia
contrattuale individuale.
Se sono invalide le rinunzie e le transazioni concluse dal singolo lavoratore aventi ad oggetto diritti sanciti
dal contratto collettivo, lo saranno anche pattuizioni individuali difformi dal contratto collettivo concluse
all’atto dell’assunzione.
La norma del contratto collettivo è praticamente assimilata alla norma di legge.
In ogni caso, l’ efficacia reale del contratto collettivo può considerarsi ormai diritto vivente.
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L’inderogabilità del contratto collettivo opera solo a vantaggio e non a danno del lavoratore (c.d. funzione
di tutela minimale del contratto collettivo). Pertanto, sono sempre legittime le previsioni migliorative del
contratto individuale.
Come si fa a stabilire che un trattamento collettivo sia più o meno favorevole al lavoratore rispetto al
trattamento individuale?
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Non bisogna raffrontare singole clausole/micro-disposizioni, ma occorre guardare all’insieme delle clausole
che costituiscono un istituto.
Ogni singolo “istituto” (ad es. retribuzione, orario e pause) trova integrale applicazione o nel contratto
collettivo o nel contratto individuale, non potendosi scegliere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.
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C) Può il contratto collettivo produrre effetti anche dopo la sua scadenza ovvero può avere efficacia
retroattiva?
Se applicassimo il diritto privato dovremmo escludere tale possibilità e quindi ritenere che, a partire dalla
scadenza, si determini un vuoto nella disciplina dei rapporti individuali di lavoro.
La giurisprudenza invero avalla questa soluzione in quanto non ritiene applicabile al contratto collettivo l’
art. 2074, co. 1, c.c. (anch’ esso riferito al contratto di diritto corporativo) il quale prevede che “il contratto
collettivo, anche quando è denunziato, continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, fino a che sia
intervenuto un nuovo regolamento collettivo”.
Nei fatti, però, il problema viene risolto alla base, in quanto sono gli stessi contratti collettivi normalmente a
contemplare al proprio interno espresse clausole di ultrattività, secondo le quali il contratto produce effetti
sino a quello successivo che lo sostituisce.
Per quanto riguarda l’ efficacia retroattiva del contratto, la giurisprudenza la ammette (= il contratto
collettivo può produrre effetti pure per il periodo antecedente alla propria stipulazione e non soltanto in
relazione a trattamenti migliorativi), col limite però dei diritti quesiti, ossia dei diritti maturati in relazione a
prestazioni già svolte e oramai parte del patrimonio del lavoratore.
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Sicuramente il contratto collettivo regola una pluralità aperta di rapporti di lavoro e, come tale, presenta
tendenzialmente le caratteristiche della generalità e dell’ astrattezza proprie della fonte di diritto.
Tuttavia, ciò che risulta ancora carente è la base giuridica dell’ eteronomia (dovrebbe essere la legge e non
la prassi).
In definitiva, quindi, si può dire che nell’ attuale quadro normativo, il contratto collettivo presenta, più che
le caratteristiche, la vocazione di fonte del diritto.
Ricorso alle categorie del diritto privato (o diritto comune): da qui l’espressione di
contratto collettivo di diritto comune, cioè interpretato alla luce delle regole dei contratti in generale,
contenute nel codice civile (artt. 1322 ss.).
Come può un contratto collettivo, stipulato cioè da soggetti collettivi (organizzazioni sindacali e associazioni
datoriali), produrre effetti nella sfera giuridica dei singoli lavoratori?
Cioè sul piano dei rapporti individuali di lavoro?
Non è il contratto collettivo ex se (da se stesso) a produrre efficacia oltre la schiera degli iscritti alle
associazioni stipulanti. È l’art. 36 Cost., mediato dall’art. 2099 c.c. (e quindi dall’intervento del Giudice), a
produrre tale effetto, limitatamente alla parte retributiva del contratto collettivo.
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-Interventi legislativi sull’ambito di efficacia del contratto collettivo
• Legge 741/1959: c.d. legge Vigorelli, sulla recezione in decreti dei contratti collettivi;
• Art. 36 della legge n. 300/70: in ipotesi di appalto pubblico, c’è l’obbligo per l’appaltatore di applicare,
nei confronti dei lavoratori dipendenti, condizioni di trattamento economico non inferiori a quelle risultanti
dai contratti collettivi di lavoro della categoria.
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Il singolo lavoratore ed il singolo datore di lavoro possono pattuire una disciplina del rapporto individuale
meno favorevole al primo rispetto a quella predeterminata dal contratto collettivo?
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-Art. 2077 c.c. - Efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale
I contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo
devono uniformarsi alle disposizioni di questo. Le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o
successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che
contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro.
La giurisprudenza considera ancora vigente l’art. 2077 c.c. e riferibile ai contratti collettivi di diritto comune.
L’art. 2077 è la “fonte” dell’efficacia normativa inderogabile del contratto collettivo.
Siffatta prevalenza (la inderogabilità), secondo la dottrina, risponde alla funzione economico-sociale del
contratto collettivo e non è incompatibile con la natura privatistica del sindacato e del contratto collettivo.
(in senso contrario, invece, si può sostenere che proprio il diritto comune - segnatamente la disciplina del
mandato con rappresentanza - non prevede che il mandante, nel nostro caso, i lavoratori o i datori, debba
restare fedele a vita alla disciplina dell’affare posta in essere dal mandatario e non possa modificare la
disciplina fissata a livello di contratto collettivo.
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Anche in questo ambito però il legislatore ha preferito non attribuire espressamente efficacia soggettiva
ultra partes al contratto collettivo, sempre per paura di scontrarsi col muro costituito dall’art. 39, co. 2-4,
Cost. Tuttavia, in questo caso, ha cercato di raggiungere tale risultato per via indiretta: innanzitutto,
conferendo (per legge) il potere negoziale in capo all’Aran, in tal modo vincolando tutte le PA; in secondo
luogo, imponendo gli specifici obblighi sub b) alle stesse PA.
Per quanto riguarda poi l’ efficacia oggettiva, ferma restando l’ inderogabilità in peius del contratto
collettivo da parte del contratto individuale, dal principio della parità di trattamento si può dedurre che
eventuali trattamenti più favorevoli per il lavoratore dovranno trovare origine in ragione di carattere
sostanziale e, in quanto tali, essere provvisti di motivazione.
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Diversità rispetto al settore privato, fissate dalla legge (d.lgs. n. 165/01 s.m.).