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Diritto Sindacale Ballestrero 2018 riassunto preciso

Diritto del lavoro (Università di Bologna)

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PARTE 1: IL DIRITTO SINDACALE DELLE ORIGINI

ALLE ORIGINI DEL DIRITTO SINDACALE

Le origini dell’organizzazione sindacale

Il diritto sindacale è una disciplina giuridica recente; la sua storia è parte non secondaria
della storia del movimento operaio. Infatti la ricostruzione delle origini del diritto sindacale
può aprirsi proprio facendo riferimento al fatto che la fabbrica e la grande industria sono
stati il motore della storia del movimento operaio.

Una storia che è iniziata in Italia con la rivoluzione industriale.

In Italia l’industrailizzazione è stata tardiva: solo nel 1880 si sviluppò:

- l’industria manifatturiera —> a seguito dell’adozione tariffe doganali protezionistiche

- L’industria meccanica —> grazie alle misure di sostegno diretto del settore
ferromeccanico

All’epoca la grande fabbrica:

- era presente già su tutto il territorio nazionale, a che se quantitamente era concentrata
al Nord

- Aveva già prodotto la divisione del lavoro su base territoriale, con la specializzazione
del varie zone nella produzione di un solo prodotto

- Utilizzava le più moderne tecnologie

- All’efficenza tecnica non faceva riscontro un ambiente di lavoro che tenesse in alcun
modo conto delle esigenze umane ed igieniche dei lavoratori

Accanto alla grande fabbrica meccanizzata esistevano tuttavia anche vecchi opifici e
piccole fabbriche:

- condizioni di lavoro disumane -> suscitavano sentimenti di preoccupata indignazione


nella borghesia illuminata del tempo

- Locali bassi e stretti

- Qua si ammassava la povera gente

La giornata lavorativa:

- per gli uomini era mediamente di 12 ore

- Nelle filande, dove lavoravano donne e bambini era di 15/6 ore —> le donne erano
preferite come lavoratrici in quanto potevano pagarle ancora meno, perchè
scioperavano di meno ed erano più tranquille

I salari:

- quelli normali già basissimi

- Erosi da numerose trattenute

- Erosi da forme di cointeressenza per rendere gli operi partecipi della cattiva
produzione, delle soste forzate e e non retribuite, degli indennizzi per lavori difettosi e
arnesi rotti

L’esigenza di varare una “legislazione sciale” era messa in evidenza da tutti gli intellettuali
del tempo, ma la legislazione protettiva tardava ad intervenire, a causa dell’opposizione
tenace degli industriali.

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La prima fase della legislazione sociale in Italia si esaurì tutta nella lunga vicenda
parlamentare che portò all’approvazione della L. 3657/1886 sul lavoro dei fanciulli, che fu
incompleta e poverissima nei contenuti.

Alle donne toccò aspettare altri 16 anni per vedere una prima legge che desse loro un
minimo di tutela.

La nascita delle organizzazioni sindacali dei lavoratori: le Camere del Lavoro

L’abolizione delle corporazioni, soppresse con lo Statuto Albertino (1848) e nel regno
d’Italia cin la L. 1797/ 1864, chiudeva definitivamente l’epoca della rigida
regolamentazione del lavoro per arti e mestieri. Per quando il divieto di ogni forma di
associazione temporanea o pertenete tra i lavoratori (di cui alla legge che aboliva le
corporazioni) non incidesse direttamente sulla libertà di associarsi per scopi sindacali
(riconosciuta come corollario del diritto di riunione sancito dall’art.32 dello Statuto
Albertino), la liberalizzazione nell’esercizio delle professioni e de mestieri costituì un
ostacolo all’organizzazione autonoma e all’azione collettiva degli operai, che conobbe un
effettivo sviluppo solo nell’ultimo decennio del secolo.

Dopo la soppressione delle corporazioni, le Società Operaie di Mutuo Soccorso (SMS),


che iniziarono a svilupparsi nella seconda metà del 1800,
costituirono la PRIMA FORMA ASSOCIATIVA in cui fosse presente
anche la CLASSE OPERAIA.

- ottennero il riconoscimento giuridico con la L.3818/1886

- Il riconoscimento avvenne quando erano già in crisi, investite dalla lotta condotta dal
Partito Operaio Italiano (1885), le cui sezioni erano costituite da:
-associazioni
-leghe di resistenza di semplici lavoratori

Molte di queste leghe e società aderirono al Partito dei Lavoratori Italiani (1892), che poi
assunse il nome di: Partito Socialista Italiano nel 1895.

L’associazionismo operaio aveva già assunto dagli anni 70’ una connotazione sindacale,
per quanto ancora rudimentale.

Nasce nel 1872: l’Associazione tra gli operai tipografi italiani che:

- è iL PRIMO ESEMPIO IN ITALIA DI ORGANISMO NAZIONALE DI MESTIERE

- Aveva come protagonista una categoria di lavoratori con un’alta qualificazione


professionale

Nacquero negli stessi anni altre associazioni di mestiere e altre leghe di resistenza che si
proponevano l’obbiettivo di:

- Di riunificare gli operai in uno stesso settore

- Di introdurre un livello minimo di retribuzione


Ma verso la fine del secolo, le ragioni
- Di ridurre l’orario
della solidarietà di classe determinarono
- Promuovere la solidarietà di classe -———>
il prevalere di un altro modello di
organizzazione: quello per RAMO DI
INDUSTRIA
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La prima fase di questo processo di trasformazione può essere individuato nella


istituzione delle:

Camere del Lavoro:

- (CdL) (in analogia e opposizione alle Camere di Commercio)

- Cominciano a sorgere dal 1891

- Costituirono una istituzione operai originale

- Alle Cdl vi erano che sezioni miste di SMS, di cooperative e associazioni varie.

- Alle Cdl aderivano le leghe ( o associazioni) di lavoratori “ salariati” organizzate per


mestiere che costituivano le: sezioni uniche della CDL

Le organizzazione per mestiere delle sezioni era indispensabile per il collocamento


dei lavoratori , che costituì il compito fondamentale assolto dalla CdL con anche la
mediazione nelle lotte operaie

Nel 1893= venne istituita la Federazione Nazionale delle Camere del Lavoro,
con il compito di:

- coordinare le iniziative

- diffondere l’organizzazione, specie nel settore agricolo

Ruolo: obiettivamente moderato, scoraggiando gli scioperi, tuttavia nel:

- 1896 cominciarono a subire una forte repressione

- 1898 vennero quais tutte sciolte

Dopo pochi mesi di distanza iniziarono a ricostituirsi, il movimento camerale era già
profondamente cambiato.

Nel 1900:

- è stato attribuito dal Congresso di Milano il carattere di sindacale alle CdL,

- Vietando l’iscrizione a chi non fosse lavoratore “ salariato “

- Le sezioni vennero invitate ad aderire alle rispettive: federazioni di mestiere

La Camera del lavoro, diremmo oggi,


assumeva la forma di una struttura sindacale
locale orizzontale, cioè pluiricategoriale

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Dalle Federazioni di mestiere alla costruzione della Confederazione


Generale del Lavoro

Federazione: riunione in un unico organismo nazionale delle associazioni o leghe locali

La loro necessità nasce dall’esigenza di:

- coordinare l’azione di gruppi locali

- Sostenere gli scioperi locali e nazionali

- Stabilire condizioni contrattuali uniformi

Caratterizzata questo nuovo tipo di organizzazione da:

La sua estensione a tutto un settore del mondo della produzione, comprensivo di diverse attività
e mestieri operai

Compiti esclusivi erano:

- contrattazione sindacale

- Elaborazione della piattaforma rivendicativa generale +della direzione delle agitazuinu e degli
scioperi

Sviluppo: lento

Le prime furono:

Federazione dei lavoratori del libro

Federazione degli operai edili (1899)

Dall’inizio del 900’: le federazioni si iniziano ad organizzare per ramo d’industria:

- prima fra tutte la federazione degli operai metallurgici (FIOM)

1906= MOMENTO DI SVOLTA NELLA STORIA DELL’ORGANIZZAZIONE SINDACALE:

la costituzione della: Confederazione generale Del Lavoro (CGdL)

Essa era:

- una nuova struttura organizzativa confederale

- Costituita da tutte le organizzazioni aderenti alle federazioni nazionali di mestiere e alle locali
Camere del Lavoro

- A lei attribuita dal proprio statuto la direzione generale del movimento proletario

- In netta supremazia sulle organizzazioni di categoria e sulle strutture orizzontali locali (Cdl)

- Vi era un forte accentramento, presente anche nelle federazioni, cosicché le strutture


decentrate risultano del tutto prive di autonomia

Negli anni successivi, questo accentramento venne accentuato: venne riservato alla
Confederazione il potere di proclamare gli scioperi.

Venne quindi disciplinata in modo più preciso la presenza di due livelli di organizzazione:

- Verticale —> cioè di categoria

- Orizzontale—> cioè pluricategoriale


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L’assenza di un’organizzazione sindacale degli operai all’interno dei luoghi dei lavoro ( alla
quale gli industriali si opponevano) era frutto di una scelta politica della CGdL),
preoccupata che l’unità di categoria potesse frantumassi in mille rivendicazioni
aziendalistiche.

La CGdL scelse piuttosto dei sviluppare: le Commissioni Interne (CI)

Esse:

- nate come organismi occasionali

- Formate da operai delegati dai loro compagni di lavoro a trattare con il datore di lavoro, in
occasione di agitazioni e di vertenze aziendali.

- Si svilupparono negli ultimi anni del 1800

- Erano un’emanazione diretta del sindacato, elette dai soli iscritti

- Non avevano potere contrattuale

- Funzioni di vigilanza sull’applicazione dei contratti

- Composizione delle controversie aziendali

Sono= uno strumento dell’istanza sindacale per controllare i propri aderenti e per esercitare
pressioni e coazioni sui non organizzati

La nascita di nuove confederazioni

Questo panorama sindacale inizia a complicarsi nel secondo decennio del 1900. Infatti:

- da una parte = la CGdL subì una scissione nel 1912 ad opera dei sindacalisti
rivoluzionari ( guidati da De Ambris), i quali costituirono un nuovo sindacato: USI,
caratterizzato dalla massima autonomia alle federazioni nazionali di categoria e alle
strutture orizzontali. Nel
1914, l’USI, con lo scontro tra neutralisti e interventisti ( periodo 1 g.m. ) fu anche essa
scissa in 2. E la minoranza interventista nel 1918 diede luogo alla costituzione della UIL

- Dall’altre parte = nel 1918 nacque la Confederazione dei lavoratori italiani (CIL)
Essa era una confederazione sindacale cattolica. Rifiutava la lotta di classe e auspicava
la collaborazione tra capitale e lavoro. Obiettivo:
—> maggior sviluppo della legislazione sociale
—> estensione della contrattazione collettiva
Organizzazione interna:
—> presente livello verticale ( che faceva capo alle Federazioni Nazionali ).
—> presente anche un livello orizzontale ( le unioni del lavoro, che nei fatti svolgevano
compiti di direzione dell’azione sindacale a livello locale )

Le associazioni degli imprenditori nacquero come organizzazioni a carattere difensivo e


temporaneo. La prima vera organizzazione fu: Lega Industriale di Torino (1906)

Obiettivo —> tutelare interessi industriali e dell’industria e di ricercare nel rispetto della
libertà di lavoro “ buone intese” con gli operai. Quindi anche la contrattazione con le
leghe operai è tra gli obbiettivi, a patto tuttavia che il sindacato rimanesse fuori dalla
fabbrica.

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Questo modello della lega torinese si Estes rapidamente, tant’è che emerse agli industriali
la necessità di un’organizzazione centralizzata nazionale:

“ La Confederazione Italiana dell’industria” (CIDI)


—>Torino, 1910

—> Raggruppava sia:

- le associazioni o leghe locali degli industriali

- Singoli industriali del Nord

Il quadro giuridico. Dal divieto di coalizione alla tolleranza legale dello


sciopero

Le vicende appena espostesi si svolsero in un quadro giuridico che conobbe anche esso
una notevole evoluzione.

L’associazione sindacale, anche se non formalmente vietata aveva degli ostacoli:

- la legge 1797/1864

- Disposizioni contenute negli art. 385-388 del Codie penale sardo italiano del 1859, che
sancivano il divieto di coalizione, cioè di ogni accordo tra industriali o operai, diretto a
far pressione sulla controparte perchè accettasse condizioni meno favorevoli: “principi
di esecuzione” della coalizione, che costituivano elemento essenziale del reato, erano:
la serrata e lo sciopero

La realizzazione della “depenalizzazione” dello sciopero e della serata richiese tempi


lunghi:

Nel 1887 il Ministro di Grazia e Giustizia Zanardelli presento alle Camere il suo progetto di
codice penale, che conteneva 3 articoli sui delitti contro la libertà del lavoro:

—> essi non menzionavano ne lo sciopero ne la serrata ne la coalizione

—> essi prendevano nuovi delitti: comportamenti violenti e o minaccioso anche


consistenti nella non pacifica, ma al contrario violenta o minacciosa cessazione della
attività da parte dell’imprenditore ( serrata) o nella sospensione del lavoro da parte degli
operai (sciopero)

Anche dopo la depenalizzazione, lo sciopero restava tuttavia una mancata esecuzione


della prestazione lavorativa e dunque un inadempimento contrattuale.

Nonostante lo stento della Magistratura ad adeguarsi a queste nuove norme, l’apertura


dell’ordinamento verso l’associazionismo sindacale e al tolleranza legale delle azioni di
lotta segnarono la nascita di un quadro giuridico che consegnava alla libera
determinazione delle forze contrapposte lo sviluppo dei propri reciproci rapporti.

La legge istitutiva dei collegi dei probiviri

Nel 1878 fu istituita dal Ministro Crispi una Commissione permanente di inchieste sugli
scioperi, che accolse, tra le proposte avanzate per risolvere i conflitti di lavoro, quella di
istituire un “collegio dei probiviri”—> scopo conciliare e decidere sulle controversie sorte
tra industriali e operai, contribuendo così a conservare la pace sociale.

Ai lavori della commissione fece seguito nel 1883 un progetto di legge sull’istituzione dei
Collegi dei Probiviri, il cui fine esplicito era la “ pacificazione sociale”.

Il progetto non arrivò neppure in Parlamento

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Nel 1891 il Governo presto un proprio progetto, molto più favorevole agli industriali, che
divenne legge: L.25/1893:

—> una legge tardiva, difettosa e debole

—> rappresentava un correttivo all’assoluta insindacabile libertà contrattuale

—> prevedeva che i Collegi dei probiviri non dovessero essere obbligatoriamente
costituti, la loro costituzione era lasciata alla volontà delle parti interessate

—> gli industriali frequentemente non collaboravano

—> sulla questione della competenza dei Collegi: l’ufficio di conciliazione aveva una
competenza più ampia di quella della giuria

—> la legge escludeva le controversie economiche collettive, ammettendo le


controversie su: “salari e orari da convenirsi” solo nel caso avessero carattere individuale

Cioè concordati collettivi, oggi diremmo contratti collettivi

I colleghi si estesero progressivamente a settori come l’impiego privato, ma già nel 1923
cominciarono i primi attacchi a questa istituzione: che si conclusero nel 1928 con la
demolizione da parte del legislatore fascista dell’intero edificio proibivirale.

La giurisprudenza dei probiviri: il primo diritto sindacale di fonte extralegislativa

Oggetto delle controversie sottoposte ai collegi dei probiviri furono essenzialmente i:

- salari

- I danni derivanti dal licenziamento

- Lo scioglimento del contratto di lavoro e di tirocinio

Dati i limiti imposti dal legislatore alla competenza dei Collegi dei probiviri, le grandi
questioni collettivo restarono al di fuori della loro giurisdizione ( come scioperi ).

I giudizi si concludevano spesso a favore degli industriali, ciò nonostante ebbero


l’indubbio merito du creare un nuovo diritto del lavoro industriale.

Gli orientamenti della giurisprudenza dei probiviri si trovarono di fronte:

- a una nuova pratica: “ il concordato di tariffa” o “ contratto collettivo” di cui si


trovarono a dover decidere la: - natura -efficacia.
Si trattava di contratti stipulati “ tra gruppi di operai e industriali su determinate norme”,
perchè entrassero obbligatoriamente a far parte dei contratti di lavoro stipulati e da
stipulassi tra di loro, cioè perchè funzionassero “come fonte del loro regolamento”.
Dalle prime esperienze di concordati aziendali si era proressivamente passati alle più
mature esperienze di contratti collettivi applicabili in una certa zona, o addirittura
nell’intero territorio nazionale, il cui obiettivo era “arrivare all’uniformità dei trattamenti
salariali e normativi a livello nazionale”.
I collegi, partendo dalla considerazione della funzione economico-sociale del
concordato, diretto a regolare la concorrenza tra industriali e operai, affermarono
l’efficacia ULTRA PARTES del contratto collettivo.
I collegi affermarono l’inderogabilità del contratto collettivo ad opera delle pattuizioni
individuali

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- Non meno innovative le decisioni che i colleghi assunsero in materia di sciopero. I


collegi ribevano che la partecipazioni dell’operaio ad uno sciopero sospendesse il
rapporto di lavoro e non potesse “ mai costituire contro di lui scusa di risoluzione”.
Pertanto: l’operaio licenziato alla ripresa dei lavori ha diritto ad una indennità pari ad 8
giorni di salario.

Il contratto collettivo nella elaborazione dottrinale


Le statuizioni dei Collegi in ordine all’efficacia ultra partes e l’inderogabilità del contratto
collettivo risultavano fragili: sulla sola base del diritto ( civile) allora vigente non sembrava
possibile né:

- estendere l’efficacia del c.c. ultra partes—> cioè oltre i limiti della rappresentanza
negoziale delle parti che lo avevano stipulato

- Impere la derogabili del contratto collettivo in sede di pattuizione individuali

I primi commentatori che studiavano il contratto collettivo ancora vedevano in esso un


contratto:

- o di lavoro cumulativo

- O di lavoro complesso ( ed era questo già un progresso )

Nel 1904: Giuseppe Messina individua un presupposto concettuale fondamentale per il


contratto collettivo: “ l’accordo interno del gruppo” —> esso determina la “ riduzione
della pluralità dei membri di una parte contraente ad un unico paciscente “, cioè un unica
parte e consente di produrre all’interno del gruppo l’obbligo reciproco di rispettare le
tariffe concordate.

Il c.c. era concepito come un contratto unico, in grado di produrre un effetto obbligatorio
per il datore di lavoro che si era vincolato, con un’unica promessa, verso un gruppo di
lavoratori, rappresentati dall’associazione stipulante.

Messina cosi tracciava una distinzione tra:

- c.c. —> a cui assegnava la funzione normativa di disciplinare i futuri contratti individuali
di lavoro

- Contratto individuale di lavoro

L’effetto obbligatorio del contratto collettivo non poteva essere eliminato mediante il
consenso del singolo lavoratore.

Il c.c. era vincolante per entrambe le parti, ma tale vincolatività e ( efficacia obbligatoria )
non comportava anche l’efficacia reale del c.c. ( o effetto normativo —> vale a dire la n
nullità delle clausole difformi del contratto individuale)

Occorreva tuttavia una legge.

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La questione dell’intervento della legge

L’atteggiamento verso il sindacalismo operaio era mutato e se ne può trovare conferma


anche nell’istituzione del Consiglio superiore del lavoro grazie alla L. 246/1902.

In seno al quale le federazioni dei lavoratori vennero chiamate a designare sette operai.

Delle proposte formulate nell’ambito del Comitato permanente rappresentavano una


vena sottilmente illiberale, che prefiguravo uno stretto controllo poliziesco sulle
associazioni sindacali registrate, alle quali sole era dato il potere di stipulare concordati di
tariffe.

La redazione finale, redatta da Messina, respingeva quelle proposte e prospettava


politiche del diritto coerenti alle strategie di uno Stato liberale, nel quale la legge non
doveva disinteressarsi delle parti contraenti, ma riservare invece particolari benefici ai
concordati stipulati dalle associazioni che volontariamente si fossero sottopose alla
procedura di registrazione.

L’effetto principale die concordata sarebbe stat la inderogabilità assoluta:

“Le parti stesse e gli altri interessati potranno ignorare le stipulazioni difformi come se non
fossero mai state concluse e potranno esigere quanto i concordati esigevano —> i datori
di lavoro e i lavoratori sarebbero stati obbligati a rispettare i concordati anche nei conflitti
di lavoro conclusi con persone non vincolari dalla tariffe ( cioè estranee alle associazioni
stipulanti ).

La proposta non ebbe buona accoglienza: il dissenso più radicale riguardava il carattere
facoltativo della registrazione delle associazioni sindacali, osteggiata da quanti già
penavano ad un intervento della legge più forte.

Insomma, l’intervento della legge era considerato ineluttabile. La vena sottilmente


illiberale dei giolittiani andava assumendo connotati sempre più marcamento non liberali.

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LA LEGISLAZIONE SINDACALE DEL REGIME FASCISTA

Dalla fine della guerra all’avvento del fascismo

Qui daremo sinteticamente conto della legislazione sindacale che regolò i rapporti
collettavi dal 1926 fino al 1944 segnando il passaggio dal sistema caratterizzato
dall’astensione legislativa ad un sistema

regolato minutamente dalla legge.

Per poter comprendere ragioni di questo passaggio epocale è necessario fa riferimento


ad arcui passaggi storici, che segnarono l’avvento del fascismo, e con esso anche la
modificazione profonda dell’ordinamento giuridico che prende il nome di diritto
corporativo:

- l’iniziativa sindacale negli anni della guerra fu molto ridotta, ma la pressione operaia
durante la guerra aumentò e si temeva che potesse esplodere all’indomani della
guerra, sulla spinta delle rivendicazione di tuti coloro che avevano copiato il proprio
dovere verso la patria e temevano di non ottenere nulla in cambio dei tanti sacrifici fatti.
—> i primi a farsi sentire furono: i contadini poveri e i braccianti
—> insieme alle lotte degli operai dell’industria del 1919

- L’esperienza più significativa di una spinta rivoluzionaria fu quella dei Consigli di


Fabbrica, che fu breve ma cin effetti dirompenti

La prima sperimentazione dei consigli avvenne con le elezioni della Commissione


interna della FIAT: i commissari di reparto eletti da tutti i lavoratori costituirono il:

Consiglio di Fabbrica —> il movimento dei consigli nel 1920 usci sconfitto al termine di
una lotta sindacale promossa dalla FIAT, capofila della controffensiva industriale.

- Vi furono delLe aggressioni delle squadre fasciste, che assaltano e incensavano le


camere del lavoro e le sedi sindacali, che però restavano impunite e diventavano per
questo che sempre più spavalde

- Le organizzazioni sindacali in questo periodo vennero distrutte dalle leggi repressive e


ancora prima dal padronato: “il fascismo si interi come elemento di stabilizzazione, per
immobilizzare in modo permanente una c lèsse operaia già battuta”

- Mentre con le azioni violente le “ squadracce” attaccavano Camere del Lavoro e


sindacalisti, i fascisti diedero vita, tra il 1921 e il 1922, a proprie organizzazioni
sindacali:
Il CONGRESSO DI BOLOGNA (1922)
-> è l’atto ufficiale di nascita del sindacalismo fasciata.
-> in questa occasione venne fondata: L’Unione Federale italiana delle Corporazioni

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- poi divenne la Confederazione delle Corporazioni fasciste

- Ad essa dovevano fare capo: 1- la corporazione del lavoro industriale 2- agricolo 3- del
commercio 4- delle classi medie e intellettuali 5- della gente del mare.

- A capo della Confederazione fu posto: Edmondo Rossini

- Dopo la marcia su Roma, l’appartenenza a sindacati non aderenti alla Confederazione di


Rossoni venne considerata incompatibile con la qualità “ fascista”

- Essa lavorava alla costruzione di rapporti di collaborazione col padronato, per avere in
cambio il riconoscimento che lo scarso peso numerico non le avrebbe consentito di
ottenere

- La confederazione di Rossoni + la Confederazione generale dell’industria (org. rapp.


industriali) stipularono il PATTO DI PALAZZO CHIGI —> nel quale la seconda si impegna
nella collaborazione coi sindacati fascisti “ perchè l’azione sindacale si svolga secondi le

- 1924: il Governo emanò un decreto: r.d.l. 64/1924 con il quale i sindacati erano posti
sotto il controllo del Prefetto —> poteva:
1) revocare o annullare gli atti delle organizzazioni sindacali,
2) scioglierne i consigli di amministrazione
3) liquidarne il patrimonio
se avesse avuto il fondato sospetto di abusi alla pubblica fiducia o di illecite erogazioni
di fondi per scopi diversi dall’assistenza economica e morale dei lavoratori

- La crisi politica, seguita dal delitto Matteotti, ebbe riflessi sul sindacalismo fascista, che
attraversò un periodo di difficoltà, nel quale si manifestò la tendenza a rendere la
Confederazione autonoma dal PNF. —> ma il colpo di stato del 1925, modificando la
situazione politica, spezzo via anche dubbi e incertezze.

- Il PATTO DI PALAZZO VIDONI (1925)


—> stipulato tra: 1- Confindustria e 2- Confederazione delle Corporazioni fasciste
—> segnò la svolta decisiva: le due Confederazioni si riconoscono reciprocamente
come rappresentanti esclusive delle due parti

- La disciplina giuridica dei rapporti sindacali prese corpo nella L. 563/1926

- La CGdL che aveva cercato di resistere al regime di polizia si sciolse nel 1927

La legge sindacale fascista


La L. 563/1926 è una legge complessa, nella quale possiamo distinguere 4 diversi


capitoli:

associazione e organizzazione sindacale


Contratto collettivo

Sciopero e serrata
Magistratura del Lavoro ( non rilevante, dura quanto il fascismo )

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Capitolo 1):

L’art. 1: “ possono essere liberamente riconosciute le associazioni sindacali a tutela dei


lavoratori e dei datori di lavoro intellettuali e manuali quando dimostrino l’esistenza di certe
condizioni” -> tra le quali vi erano scopi di educazione morale e sicura fede nazionale, cioè
condizioni dei sindacati fascisti.

Per ogni categoria doveva essere riconosciuta legalmente una solo ass. sindacale.

“Categoria” —> il complesso di coloro che svolgevano una stessa attività economico-
professionale, e che erano perciò considerati portatori di interessi comuni, tutelabili mediante
la costituzione di una associazione che li rappresentasse.

L’art. 5: le ass. legalmente riconosciute acquistano personalità giuridica di diritto pubblico


( cioè una posizione di supremazia: le ass. riconosciute erano considerate organi dello stato)
e grazie al riconoscimento, assumevano la rappresentanza legale di tutti i lavoratori o datori di
lavoro iscritti e non iscritti appartenenti alla categoria per cui le ass. medesime erano state
costituite. —> appartenenza predeterminata

Le ass. riconosciute erano assoggettate ad un controllo del Ministro per le Corporazioni

Inoltre le ass. sindacali potevano anche imporre il pagamenti di contributi anche ai non iscritti,
in base al principio che anche costoro si giovavano dell’attività delle associazioni sindacali
riconosciute.

L’art.6: esclude dal riconoscimento le ass. miste di datori di lavoro e lavoratori, miste di
lavoratori intellettuali e manuali.

Art 3: prevedeva organi centrali di collegamento tra rapp. Dei lavoratori e dei datori di lavoro:
le Corporazioni:

- Erano 22, una per ogni settore di produzione, istituite nel 1934

- Avevano poteri: consultivi, conciliativi, normativi

- Emesse su richiesta delle ass. collegate, ed emanate dal capo del Governo erano le:
ordinanze corporative —> fonte del diritto —> esercizio di questo potere normativo è
scarso.

L’organizzazione delle ass. riconosciute venne modificata nel 1934, realizzando una
centralizzazione della sua struttura., organizzata su due livelli:

- Verticale —> la Federazione, organizzazione nazione ale di categoria —> potere di


stipulare il contratto collettivo nazionale di categoria

- Orizzontale —> la Confederazione, organizzazione nazionale delle Federazioni

Venne ricovato il riconoscimento giuridico delle associazioni di livello inferiore, sostituite dalle
union provinciali —> uffici provinciali delle Confederazioni.

Veniva cosi eliminato il livello associativo più vicino al mondo del lavoro. Il controllo politico
diveniva in tal modo più semplice e diretto.

La dirigenza era formata da burocrati fedeli al regime, infatti la nomina del presidente e dei
consigli direttivi era soggetta ad approvazione governativa. Le qualità morali ( avere la tessere
del PNF ) che erano richieste per i dirigenti delle organizzazioni erano richiesta anche per i
dipendenti delle organizzazioni -> dovevano essere fascisti “doc”

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Capitolo 2):
La funzione affidata dalla legge alle ass. riconosciute consisteva nel: stipulare contratti collettivi
corporativi.

Art.10: i contratti collettivi corporativi ( c.c.c.) stipulati dalle ass. di datori di lavoro, lavoratori,
artisti e di professionisti legamenti riconosciute avevano effetto rispetto a tutti i datori di lavoro,
lavoratori, artisti e professionisti della categoria a cui il contratto si riferiva, e che esse
rappresentavano legalmente.

Il c.c.c. :

- appartiene di per sé al diritto pubblico, perchè pubblici sono i soggetti che lo pongono in
essere e anche le funzioni che esso persegue

- Il carattere pubblicistico non risolveva comunque la questione della sua natura giuridica,
alquanto controversa

- È dotato dalla legge di efficacia normativa non solo per le parti stipulanti, ma anche per i terzi
non soci delle associazioni stipulanti —> l’individuazione della funzione normativa del c.c.c.
produsse il risultato di svuotare del suo contenuto tipico il meccanismo contrattuale,
riducendolo ad un mero sistema di formulazione bilaterale di norme giuridiche.

I sindacati assumevano la titolarità di un vero e proprio potere di regolamentazione dei rapporti di


lavoro, in quanto espressione del decentramento normativo dello Stato.

La disciplina del c.c.c. era contenuta essenzialmente nel regolamento di attuazione


( n°1130/1926) della legge del 1926, che apportava anche qualche modificata all’art. 10 della L.
stessa.

Possiamo ora leggere tale disciplina nel codice civile —> artt. 2067 a 2078 —> in essi furono
riscritte le disposizioni contenute nella legge del 1926 e nel regolamento di attuazione. La gran
parte di questi artt. oggi è abrogata a seguito:

- della soppressione dell’ordinamento corporativo

- della entrata in vigore della Costituzione.

Della disciplina del c.c.c è necessario ricordare solo quelle parti che presentano interesse anche
per lo studioso di diritto sindacale attuale:

PARTI STIPULANTI

- il regolamento stabiliva che: “possono stipulare c.c.c. di lavoro le ass. sindacali legalmente
riconosciute, se essi non vengono stipulati da quest’ultime saranno nulli”

- entrata in vigore del nuovo regime non comportava tuttavia la nullità dei c.c. precedentemente
stipulati.

EFFICIACIA SOGGETTIVA

La legge conferiva efficacia erga omnes, cioè la capacità di produrre effetti nei confronti di tutti i
datori di lavoro e i lavoratori appartenenti alla categoria per la quale il contratto era stato
stipulato.

L’AMBITO DI APPLICAZIONE

Secondo quarto previsto dal regolamento, poi riscritto nell’art. 2069 c.c. (abrogato) il contratto
collettivo c. doveva contenere l’indicazione della:

- categoria

- Impresa

- territorio di efficacia

Se: il contratto collettivo non definiva il proprio ambito di applicazione (categoria contrattuale),
allora si applicava a tutti coloro che erano legalmente rappresentati dalle associazioni stipulanti,
secondo quanto risultava dagli elenchi formati al fine dell’applicazione dei contributi sindacali

(categoria sindacale —> cioè l’ambito della rappresentanza legale) (continua di là) 13

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Art.2070 funzione: risolvere un problema —> quale c.c.c. applicare quando non vi fosse perfetta
corrispondenza tra l’inquadramento sindacale del datore di lavoro e l’attività effettivamente svolta.
A norma dell’art. 2070 c.c., ai fini dell’applicazione del c.c.c. l’appartenenza alla categoria
professionale si determinava:

- non in base all’inquadramento sindacale —>cioè all’assoggettamento al potere di


rappresentanza legale dell’associazione riconosciuta per la categoria alla quale il datore di
lavoro apparteneva in ragione della sua attività.

- Ma in base alla attività esercitata dall’imprenditore. Se poi l’imprenditore esercita distinte attività
aventi carattere autonomo, si dovevano applicare ai rispettivi rapporti di lavoro i contratti
collettivi corrispondenti alle singole attività.

IL CONTENUTO

Art. 2071 (abrogato)—> prevedeva un contenuto obbligatorio del c.c.c :

Il contenuto era diviso in 2 parti:

- una parte contrattuale (oggi diciamo “obbligatoria”) —> erano contenuti diritti e doveri
reciproci delle parti stipulanti

- una parte normativa ( oggi =) —> erano stabilite i diritti e doveri reciproci delle parti del
contratto individuale di lavoro destinatarie del contratto collettivo

Questa è l’unica parte che costituisce il contenuto obbligatorio del c.c.c. limitatamente alle
clausole essenziali -> esse si distinguono tra: stabilite a garanzia del datore di lavoro e a garanzia
dei lavoratori.

Eventuali lacune:

- se parziali—> annullamento

- se totali —> nullità

EFFICACIA NEL TEMPO

La materia regolata dagli artt. 2073 e 2074 (abrogati).

Art 2073: l’efficacia del c.c.c. poteva venir meno, ove 3 mesi almeno prima della scadenza, una
delle associazioni stipulanti notificasse all’altra la “denunzia” del c.c.c., finalizzata ad aprire le
trattative per la stipulazione di un nuovo contratto collettivo.

Art.2074: la scadenza tuttavia non produceva la cessazione degli effetti del contratto, in quanto
questo art. prevedeva che il contratto scaduto fosse ultrattivo, che continuasse cioè a produrre
effetti fino a che non intervenisse un “ nuovo c.c.c.”

INDEROGABILITA’

L’art.2077 c.c. —> riformulava un art. del regolamento di attuazione della legge del 1926.

—> è intitolato la “ inderogabilità del contratto collettivo

L’art 54 del reg.d. sancì l’inderogabilità del c.c. (efficacia normativa o reale: nullità e sostituzione
automatica delle clausole difformi dei contratti individuali di lavoro)

L’art. 10 specificava come chi non rispettasse il c.c.c fosse responsabile civilmente.

A norma dell’art. 2077:

il c.c.c costituiva la disciplina giuridica comune di tutti i rapporti individuali di lavoro fra datori
di lavoro e lavoratori della categoria alla quale si applicava il c.c.c. —> ilc.c.c. limitava
l’autonomia contrattuale individuale

La legge assicurava l’efficacia vincolante del c.c.c. in due modi:


- obbligando i singoli ad uniformare il contratto individuale al contratto collettivo
- disponendo che in caso di clausole difformi queste fossero sostituite di diritto dalle clausole
del contratto collettivo —> le clausole difformi se precedenti al c.c.c cessano di avere
efficacia, se successive sono nulle
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Il c.c. spiegava pertanto la propria efficacia normativa ( detta anche reale) sia nei confronti dei
contratti individuali preesistenti, sia di quelli successivi alla sua entra in vigore, determinando la
modificazione del contenuto dei contratti individuali presenti e futuri.

C) L’eccezione alla regola era rappresentata dalla presenza di speciali condizioni dei contratti
individuali più favorevoli ai lavoratori, che restavano salve ( in quanto, trovando fonte nel contratto
individuale potevano essere modificate solo consensualmente dalle parti del contratto individuale)

A fronte della funzione livellatrice dei c.c.c., lo spazio riservato all’autonomia individuale si
restringeva alla stipulazione di clausole poste in essere in relazione a speciali attitudini del
lavoratore, che il datore di lavoro intendesse premiare con un trattamento di maggior favore

L’inderogabilità del c.c.c consentì alla dottrina del tempo di costruire la teoria del contratto collettivo
come fonte eteronoma di disciplina del contenuto di contratti individuali di lavoro

(es. pagina 33)

Capitolo 3):
Proibizione sciopero e serrata.

Provvedimento penalmente sanzionato era la più dura conseguenza della privazione della libertà
sindacale imposta ai lavoratori. Questo capitolo fu riscritto a breve distanza di tempo, in modo
oppio analitico nel Codice penale di Rocco del 1930.

Capitolo 4):
Art.13: era di competenza della Magistratura del lavoro la decisione di “ tutte le controversie relative
alla disciplina dei rapporti collegi i di lavoro, che concentrano sia l’applicazione de c.c.c sia la
richiesta di nuove condizioni di lavoro”

Legittimati ad agire erano solo le ass. sindacali riconosciute, e prima era necessario un tentativo di
risoluzione amichevole della controversia. Le decisioni emesse in confronto delle ass. avevano
efficacia erga omnes.

La necessità di questo organo può essere visto come la contropartita aa fronte della abolizione del
diritto di sciopero. Ma fin dall’inizio era chiaro che si trattasse di una contropartita fittizia

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DALLA SOPPRESSIONE DELL’ORDINAMENTO CORPORATIVO


ALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA COSTITUZIONE

Il patto di Roma

Premessa: L’ordinamento corporativo fu soppresso nel 1944 con il d.l.lgt. n°369/1944, e


vi fu una transizione verso un nuovo ordinamento che trova fonte nella Costituzione del 1
gennaio del 1948.

Due eventi importanti si verificarono durante il primo governo Badoglio:

- emanazione del r.d.l. n°721/1943 con cui vennero smantellate le istituzioni tipicamente
corporative—> le organizzazioni sindacale di diritto pubblico venivano invece poste
sotto gestione commissariale, affidata ad uomini dell’antifascismo.

- Buozzi (giustiziato dai nazisti nel 1944) e Mazzini stipularono il 2 settembre del 1943 il:
primo contratto collettivo post fascista —> esso era l’accordo istitutivo delle
Commissioni interne di fabbrica, che rinascevano dopo quasi 20 anni. Ma questo
accordo nasceva ad efficacia sospesa e differita, a causa degli avvenimenti politici
successivi, che rimandavano la ripartenza dell’attività sindacale.

L’8 settembre dopo la firma dell’armistizio con i tedeschi questi occupano l’italo fino a
Napoli e il re fuggi verso Brindisi dove fondo la nuova sede del governo Badoglio.

A Roma si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale ( formato da parati antifascisti ), e


intanto nel Nord, occupato dai nazisti e governato dalla Repubblica di Salò, si apriva la
stagione dei grandi scioperi dell’inverno del 1943/4 che culmina con la settimana di
scioperi del marzo del 1944.

L’8 settembre del 1943 il governo fascista riportato al potere dai tedeschi aveva
dichiarato decaduti i commissari antifascisti —> comincio allora la fase delle riunioni
clandestine dei sindacalisti antifascisti —> socialisti / comunisti / democristiani
tra i quali vi erano divergenze profonde.

Le trattative tra gli esponenti sindacali legati ai maggiori 3 partiti antifascisti:

- democrazia cristiana

- Partito comunista

- Partito socialista

per la costituzione di una confederazione sindacale unitaria si conclusero con la:


dichiarazione dell’unità sindacale, detta PATTO DI ROMA (3 giugno del 1944).

Secondo il patto di Roma, l’unità risposava su 4 principi:

- Democrazia interna —> elezione dal basso di tutti i


responsabili

- Rispetto delle diverse opinioni

- Partecipazione proporzionale delle minoranze

- Indipendenza dei partiti politici

Ma nella realtà la forma organizzativa continuava a sancire


la derivazione politica dei dirigenti

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La confederazione prese il nome di:


CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA DEL LAVORO (CGIL):

- Con l’unità sindacale, il sindacato si proponeva per la prima volta nel ruolo di
componente della società nazionale, come forza autonoma rispetto ai partiti politici

- La CGIl unitaria si divide “una struttura di massa, capace di accogliere e dirigere una
base diversificata e in rapidissima crescita”

- Le adesioni al sindacato nel 1945 —> 1 milione, nel 1946 —> 6 milioni

- Nei suoi primi 2 anni di vita firmo importanti accordi agendo in una prospettiva
essenzialmente politica di unità e solidarietà nazionale, su cui convergevano sia la
concezione marxiana sia il solidarismo sociale cristiano.

- Ogni modificazione del rapporto di forza sulla scena politica era dunque destinata a
riflettersi immediatamente in seno al sindacato. E la dipendenza dalle scelte dei partiti
divenne più che mai evidente nel 1947—> nel giugno di questo anno a Firenze, si tenne
il primo congresso della CGIL in un clima di grande tensione, in quanto vi erano duri
contrasti con la corrente cristiana e le correnti comuniste (maggioritaria) e socialiste.

Essi vertevano sul problema dell’intervento della Confederazione sui problemi politici. Un
compromesso fu rappresentato dall’art. 9 dello statuto , limitando l’interventi politico del
sindacato ad ipotesi eccezionali. Questo compromesso inizialmente salvò l’unità.

Ma, in seguito a corrente cristiana comincio a dissociassi pubblicamente dagli scioperi


proclamati dalla Confederazione, e sotto anche la pressione del Vaticano, la corrente
cristiana firmò un “patto di alleanza”:

—> per l’indipendenza del sindacato con le correnti repubblicane e la corrente socialista
autonoma

—> il patto rappresentava una rottura dell’unità sindacale; l’occasione formale si presentò
a poca distanza di tempo: il 14 luglio del 1948, Palmiro Togliatti, segretario del partito
comunista, subì un attentato, dal quale usci gravemente ferito —> al diffondersi della
notizia, nel clima teso dia sul periodo, decine di camere del Lavoro proclamarono
spontaneamente lo sciopero. Fermare questo sciopero era essenziale anche per evitare la
rottura con la corrente cristiana: per farlo la CGIL decise di proclamare essa stessa lo
sciopero, per poi poterlo sospendere il giorno successivo. Questa decisione però non
impedì la rottura.

L’unità sindacale ebbe, quindi, però vita breve: nel 1948 la CGIL suoi una scissione
interna, con l’uscita dei socialisti autonomisti e dei democristiani, che costituirono altre
confederazioni. Da allora di unità sindacale non si è più parlato.

Precisamente, la corrente cristiana abbandono la confederazione il 16 luglio del 1948, e


meno di un anno dopo anche le correnti repubblicane e social democratiche si dichiarano
sciolte, uscendo dalla CGIL.

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L’unità sindacale si era costituita in un momento della vita politica del paese che si era
ormai concluso; la larga maggioranza che la sinistra comunista e socialista deteneva nella
CGIL non corrispondeva più agli equilibri politici e parlamentari, dove la aggiroanza era
saldamente nelle mani del centro-destra.

Dalla scissione nacquero nel 1950:

- CISL —> di ispirazione cattolica, che si proponeva in contrasto con la CGIL come
sindacato apolitico, non classista, e rivendicativo

- UIL —> sindacato laico di ispirazione socialdemocratica

- CISNAL —> confederazione di ispirazione corporativa, che raccoglieva l’eredità del


sindacato fascista

Si apriva una fase di intenso conflitto tra sindaci, il cui risultato fu l’indebolimento
dell’intero movimento sindacale, di cui furono ovviamente i lavoratori a pagarne il prezzo
più alto.

La soppressione dell’ordinamento corporativo

Il d.l.lgt. n° 369 /1944:

- sopprime l’ordinamento corporativo

- la sua emanazione venne preceduta dall’ordinanza numero 28 con cui glia lleati
imposero lo scioglimento delle organizzazioni sindacali fasciste.

L’art.43 di detto decreto:

Sancisce che per i rapporti collettivi e individuali restano in vigore, salvo le successive
modifiche, le norme connette nei contratti collettivi, negli accordi economici e nelle
sentenze della Magistratura del Lavoro.

Può sembrare sorprendente che un decreto che elimina tute le istituzioni corporative
mantenga invece in vita le norme da queste prodotte. Ma ci sono delle ragioni storiche ch
giustificano questa azione: scelta motivata da ragioni di urgenza, in quanto in quel
momento più di mezza Italia era in guerra.

La prima contrattazione collettiva vide luce solo alla fine del 1945. Ai tempi infatti la
disciplina dei rapporti di lavoro era contenuta quasi esclusivamente nei contratti
corporativi, quindi eliminando quest’ultimi i lavoratori si sarebbero tratti privi di una
disciplina minima uniforme delle condizioni di lavoro

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L’art 43 prevedeva che la conservazione in vita, detta ultrattività ,dei contratti collettivi
corporativi trovasse un termine finale nella sopravvivenza di successive modifiche.
Mettendo un termine all’ultrattività delle norme corporative il legislatore mostrava di
ritenere che in tempi ragionevolmente brevi sarebbe stato messo in vigore un nuovo
ordinamento sindacale, sostitutivo del precedente.

Ma la situazione fu ben diversa. Il quadro giuridico di quel momento poteva consentire ad


associazioni provate non riconosciute di stipulare contratti collettivi ma non consentiva
che gli accordi stipulati da soggetti privati, avessero quell’efficacia erga omnes proprio
dei c.c.c.

Stando cosi le cose, il termine posto dal legislatore all’ultrattività dei c.c.c. , ricorre do
all’espressione “ salvo successive modifiche” poneva dei problemi interpretativi di non
facile soluzione.

Problemi di interpretazione dell’art. 43, d.l.lgt. n°369/1944

2 questioni interpretative:

- Prima questione:
Se e in che misura, un nuovo contratto collettivo, privo di efficacia erga omnes,
potesse essere considerato una successiva modifica del c.c.c.
La giurisprudenza dell’epoca rispondeva affermando che: nel caso in cui il datore di
lavoro fosse stato vincolato ad applicare il nuovo contratto collettivo, allora si sarebbe
verificata la “successiva modifica” di cui parla l’art 43. —> e di conseguenza, la
sostituzione del vecchio c.c.c. con il nuovo. Ove inca kl dato di lavoro non fosse stato
vincolato all’applicazione del nuovo c.c. di diritto comune, i rapporti di lavoro sarebbero
stati ancora regolati dal vecchio c.c.c..
La giurisprudenza costituiva l’obbligo del datore di lavoro di applicare il nuovo c..c
facendola discende dalla applicazione delle regole in materia di associazioni di diritto
privato.

• Nel momento in cui si è iscritto ad una ass. imprenditoriale, il datore di lavoro ha


contratto un vincolo associativo, che implica alcuni obblighi di condotta, tra i quali
appunto l’obbligo di applicare nella propria impresa il c.c. stipulato dall’associazione a
cui egli ha aderito.

• Se.ì, viceversa, il datore di lavoro non è iscritto all’ass. Stipulante, il nuovo contratto
collettivo non entra neppur in discussione, egli continuerà ad essere obbliato ad
applicare il c.c.c.

- Seconda questione:
Se il n.c.c. potesse derogare in peggio per i lavoratori al c.c.c.

• L’orientamento iniziale della giurisprudenza fu nel senso della non dergoabilità in


peggio: derogabili che si riteneva impedita dal principio dell’inderogabilità del c.c.c.
sancito dall’art.2077 codice civile.

• Successivamente, la giurisprudenza pervenne a duna opposta conclusione affermando


l’inapplicabilità ai rapporti tra contratti collettivi aventi diversa efficacia dell’art. 2007

• Col ripristino dell’attività sindacale: vi fu la libertà di introdurre nei nuovi contratti


deroghe in meglio o in peggio si c.c.c.

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Dal dibattito in assemblea costituente alla formazione dell’art.39 Cost.

Nelle discussioni in assemblea costituente, eletta il 2 giugno del 1946, i temi dominanti
riguardarono la natura giuridica del sindacato e la regolamentazione dello sciopero.

L’idea di utilizzare La sinistra sosteneva al contrario la necessità che il


l’intelaiatura sindacato fosse libero, indipendentemente dallo Stato,
pubblicistica del basta sulla volontaria iscrizione dei lavoratori.

sindacato corporativo VS

era radicata nel Ma anche la sinistra vedeva nel c.c. erga omnes
gruppo dirigente un’insostituibile garanzia e non metteva in discussione
democristiano.
che ciò dovesse implicare il riconoscimento giuridico del
sindacato.

PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 1 DELL’ ART.39 COST:


In seno alla prima sottocommissione, ci si limitò, proporre nel testo costituzionale una
generica proclamazione della libertà sindacale, senza fare alcun riferimento al contratto
collettivo.

In fine, con un ordine del giorno, concordato tra le maggiori forze politiche, venne
proposto il testo definitivo del primo comma dell’art.39 approvato dall’assemblea:

“L’organizzazione sindacale è libera”

Le formule che oggi leggiamo nel 2 e 3 comma dell’art. 39:

- da un lato possono essere spiegati come presupposti logici delle previsioni contenute
nel 4 comma —> primo profilo

- Dall’altro possono essere spiegate come conseguenze logiche del principio di libertà
sindacale affermato nel 1 comma —> secondo profilo

Consideriamo il secondo profilo

PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 2 DELL’ART. 39 COST:


L’immunità dei sindaco dall’ingerenza dello Stato che stava alla base della formulazione
del comma 1 venne ribadita nelle formulazioni adottate in ordine alla registrazione dei
sindacati.

Si preferì lasciare alla legge di attuazione il compito di specificare gli accertamenti


necessari e le modalità della registrazione.

Anzitutto si adotto una formulazione in negativo; il relatore Ghidini dichiarò:

“abbiamo voluto costituire un sindacato che fosse l’opposto del sindacato quale era nel
regime passato. Per questo si è detto che l’unico vincolo verso lo Stato è la
registrazione”:

“Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro
registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”.

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PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 3 DELL’ART.39 COST:


Fu proposto però di aggiungere un comma nel quale la registrazione fosse condizionata:

- alla democrazia interna del sindacato

- Fondata sulla libera scelta

- Elezione diretta e segreta di tutti i dirigenti

per sottolineare ancora una volta come la Costituzione Repubblicana sancisse principi
opposti a quelli contenuti nella legge sindacale fascista.

La porporata venne accolta, ma il 3 comma risultò, per volontà di un folto gruppo di


costituenti, sfrondato dal riferimento ai modi di elezione dei dirigenti sindacali:

“E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un
ordinamento interno a base democratica”.

Consideriamo il primo profilo

PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 4 DELL’ART.39 COST:


In esso i costituenti affrontavano finalmente la controversa questione della efficacia
generalmente obbligatoria del c.c.

Anzitutto, come affermo Di Vittorio, i sindacati per poter stipulare c.c. dovevano avere il
“ riconoscimento della personalità giuridica “ e pero aggiunse “nello stabilire le condizioni
di questo riconoscimento si devono nello stesso tempo garantire:

- indipendenza

- Autonomia

- Libertà del sindacato

senza di che esso perderebbe il suo carattere peculiare.

Ma non era semplice conciliare l’indipendenza e la libertà dei sindacati con il potere di
stipulare c.c. generalmente obbligatori, che vincolano non solo i datori di lavoro e i
lavoratori non iscritti ai sindaci stipulanti, ma anche i sindaci che non hanno partecipato
alla stipulazione; anche perché quello dell’efficacia erga omnes era il problema sul quale
si registrava la maggior distanza trave posizioni delle forze politiche.

Gia nel dibattito in sottocommissione si delineo il compromesso da cui nacque il comma


4; furono i democristiani a proporre che invece di sindacato maggioritario e di sindacati
minoritari si parlasse di rappresentanza unitaria di tutti sindacati in proporzione dei loro
iscritti., e la proposta venne accettata. Così:

- i comunisti —> rinunciarono al principio maggioritario

- I cattolici —> rinunciarono al principio del sindaco unico di diritto pubblico.

Il principio proporzionale rappresentava un radicale cambiamento.

“I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati


unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di
lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle
quali il contratto si riferisce”

Ragioni storiche della mancata attuazione dei commi: 2,3, e 4 dell’art. 39 Cost

La Costituzione è entrata in vigore il 1 gennaio del 1948, ma i commi 2, 3 e 4 dell’art. 39


Cost ancora oggi restano privi di attuazione.

Il costituente aveva costruito un modello addosso alla CGIL unitaria, eppure nel 1947
quando il testo dell’art.39 elaborato in sottocommissione approdò in Assemblea, la
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situazione sul fronte sindacale era già caratterizzata da quelle tensioni e da quei contrasti
che, nel luglio del 1948 avrebbero portato alla rottura del patto di unità. E infatti, pochi
mesi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’abito su misura divenne inservibile: anzi
si tradusse in ulteriore motivo di scontro.

Ragioni della mancata attuazione: —> essenzialmente politiche


1)

- Atteggiamento CISL: affermava ora la natura privatistica del sindacato e la sua totale
autonomia dallo stato —> contraria all’attuazione dell’art.39 cost

- Atteggiamento UIL: sfavorevole ad ogni sistema di controllo sulla consistenza numerica


del sindacato, prevista invece dal comma 4

- Atteggiamento CGIL: l’attuazione del meccanismo previsto dal comma 4 avrebbe


garantito una prevalenza nell’ambito della rappresentanza unitaria: ciò che le avrebbe
assicurato la possibilità di resistere con successo alla emarginazione che subiva nelle
fabbriche, dove la “guerra fredda” tra sindacati apertasi subito dopo la scissione
trovava terreno favorevole all’atteggiamento degli industriali, che sostenevano
apertamente la CISL, e discriminavano i militanti della CGIL.

2)

La mancata emanazione della legge che avrebbe dovuto stabilire le procedure.

Ma perchè non fu mai emanata?

Alcune vicende storiche:

Nel roso della prima legislatura (1948-1953), solo il disegno di legge del Ministro del
Lavoro Rubinacci venne presentato al Parlamento, ma non fu mai discusso. Era un
progetto di un’organica legge sindacale di stampo neo corporativo, la cui applicazione si
profilo subito impraticabile, per l’opposizione delle sinistre, della CGIL e della CISL.

Il fronte sindacale:

- era diviso sull’attuazione dell’art. 39 Cost. In riguardo della :


la formazione della rappresentanza unitaria ed il conseguente accertamento del “peso”
per numero di iscritti dei sindacati.

- era d’accordo almeno nell’afferire la necessità di dare efficacia erga omnes ai c.c. Ma il
problema era quello di stabilire quali contrario e stipulati da chi: e qui i contrasti
riemergevano.

Negli anni successivi, il disimpiego del governo porterà forze politiche e i sindacati a
cercare soluzioni di ripiego, nel tentativo di sciogliere, almeno in via transitoria, il nodo
dell’effigia erga omnes dei c.c.

- La CGIL —> proponeva che, in attesa di un organica legge sindacale, fossero


estesi erga omnes i c.c. stipulati fino a quel momento dai sindacati aderenti alle 3
confederazioni

- La CISL —> proponeva invece la estensione erga omnes dei c.c. con decreto
presidenziale, emanato a seguito di una complessa procedura da svolgere nell’ambito
di una commissione sindacale paritetica cui era affidata l’individuazione dei c.c. da
estendere

Le due proposte possono essere considerate le premesse di quello che sarà, nel 1959,
l’esito della vicenda: cioè la L.741/1959, detta: legge Vigorelli, che previde l’estensione
erga omnes ( con decreto legislativo) dei c.c. di diritto comune.

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PARTE II: LA MANCATA ATTUAZIONE DEL


MODELLO COSTITUZIONALE. ASCESA E CRISI
DEL SISTEMA SINDACALE DI FATTO
L’ASTENSIONE DELLA LEGGE E LA COSTRUZIONE DEL NUOVO
DIRITTO SINDACALE

Sezione I : teorie e prassi sindacali

La “carenza legislativa”

Solo negli ultimi tempi la crisi del sistema di relazioni industriali e la convinzione diffusa
della necessità di un intervento legislativo hanno riportato l’attenzione sull’art. 39 Cost.

In questo capitolo cercheremo di ricostituire una lunga stagione del diritto sindacale,
caratterizzata dal mancato intervento della legge.

Questa stagione copre l’arco di 20 anni: benché la legge prevista dall’art. 39 non fu mai
stata emanata, possiamo dire che la stagione si sia chiusa, almeno in parte con un
intervento legislativo: la L. 300/1970 detta: Statuto dei Lavoratori

Ha determinato cambiamenti cosi profondi sull’assetto delle relazioni


industriali da rimettere in discussione molte delle basi teoriche su cui è stato
costituito il diritto sindacale nei primi 20 anni della sua storia post costituzionale.

Teorie e prassi sindacali

All’inizio degli anni 50’, le relazioni industriali erano segnate dalla situazione determinatasi
a seguito della scissione nel 1948.

Il periodo tra il 1948 e il 1954 fu per la CGIL un periodo di dure lotte, da cui la CGIL uscì
indebolita ma non battuta. La strategia politico-sindacale della CGIL prese forma nel:
“Piano del Lavoro”, promosso al congresso di Genova del 1949 dal segretario generale Di
Vittorio, che pero era considerato dal Governo inattuabile e strumentale.

Il problema del rapporto tra i sindaci e lo Stato era al centro della politica sindacale della
CGIL. Proprio la questione dell’intervento della legge e specialmente della mancata
attuazione dell’art.39 della costituzione costituiva uno dei punti di maggior contrasto tra
CISL e CGIL.

La visione della CISL=

Aveva alla base una concezione del sindacato come una organizzazione che si determina
autonomamente in via associativa.

Una visione rigidamente associata del sindacato comporta la qualificazione del vincolo
sindacale come rappresentanza dei soci: la concezione della CISL era dunque in netto
contrasto con quella della CGIL, basata invece sulla rappresentanza sindacale come
rappresentanza della classe.

Nella concezione associativa del sindacato, l’interesse collettivo è l’interesse proprio della
associazione sindacale; il potere della associazione è staccato da quello dei soci, ma
capace di disporre nella loro sfera giuridica.

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Premessa la co sezione strettamente privatistica del sindaco come associazione che


rappresa i propri soci, la teoria della azione sindacale della CISL degli anni 50’ si basava
su 3 pilastri:

1. IL METODO CONTRATTUALE:

Era visto come strumento prioritario della azione del sindacato, e come fine della
sua attività era ragione della sua esistenza

2. I COLLEGAMENTI TRA I VARI LIVELLI CONTRATTUALI:

La proposta di un sistema contrattuale a più livelli, fra loro coordinati costituisce i


secondo pilastro., la cui maggiore originalità stava nella scelta della azienda come
unità elementare del sistema contrattuale, sorretto a livello teorico dalla concezione
associativa del sindacato rappresentante dell’interesse collettivo dei propri iscritti,
e soprattutto dall’idea che il contatto collettivo nazionale non fosse idoneo a
garantire ai lavoratori un sufficiente aumento del salario, differenziato in ragione al
diverso incremento della produttività delle imprese.

3. IL RAPPORTO TRA CONTRATTAZIONE E LEGISLAZIONE:

Pilastro costituito da una visione rigorosamente privatistica dell’autonomia


sindacale, fondata sull’idea:

- della incompatibilità tra libertà sindacale e regolamentazione per legge dei


sindacati.

- Sull’idea che la funzione della legge dovesse essere necessariamente residuale


rispetto a quella propria della contrattazione collettiva

Fin qui la torria. La prativa era altra cosa.

Tensioni e conflitti si registravano anche. Allivellò nazionale tra le Confederazioni. Il caso


più celebre di accordo nazionale separato dell’epoca è quello dell’accordo sul
conglobamento del 1954, al quale fece seguito una nuova fase di scontro acuito dalla
sconfitta FIOM-CGIL nelle elezioni per il rinnovo della Commissione interna alla FIAT.

Per quanto compromissoria, questa posizione ebbe tuttavia il merito di aprire, nella CGIL;
una fase di riflessione autocritica che avviò ad un processo di faticosa ricerca dell’unità di
azione sindacale.

La riflessione si apri anche nella CISL dopo la svolta del 1958 quando fu denunciato
l’operato della FIM-CISL dovuto a delle interferenze della FIAT nelle elezioni della
Commissione Interna. La FIM perse quasi tutti i voti, ma da quella sconfitta nacque un
sindacato nuovo, una avanguardia combattiva impegnata in molti anni in prima linea nella
battaglia contro l’unità sindacale.

Le prime fasi del disgelo istituzionale

La mancanza di una legge sindacale non implicava affatto la rinuncia all’esercizio da parte
dell’esecutivo, del controllo del movimento sindacale.

Nei primi anni 50 si verificarono infatti alcuni interventi del potere esecutivo: alla
repressione dell’attività sindacale, dei comizi, dei cortei, degli scioperi talora
corrispondeva, sul piano giudiziario, l’orientamento fortemente restrittivo in materia di
sciopero dei giudici, che condannavano non solo gli scioperi politici ma ogni forma
“anomala” di lotta.

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Un’inversione di tendenza si verificò tuttavia già nel corso degli stessi anni 50’ con una
serie di interventi legislativi nel segno del disgelo istituzionale di cui almeno 2 devono
essere ricordati: —> furono l’occasione per un primo disegno tra CISL e
CGIL, che doveva portare alla fine degli anni 60’ alla
prima esperienza di unità di azione sindacale.

1. L.1589/1956 —> legge fortemente voluta dalla CISL e dalla sinistra democristiana

—> non contestata dalla CGIL

—> istitutiva del Ministero delle Partecipazioni Statali, al quale erano


affidati compiti di coordinamento delle partecipazioni nelle società il
cui pacchetto di maggioranza era detenuto dallo Stato e che
facevano capo all’IRI.

—> l’Art.3 c.3: prevedeva che entro un anno dalla entrata in vigore, le
imprese a prevalente partecipazione statale sarebbero dovute
uscire da Confindustria, associandosi in una separata
organizzazione sindacale delle imprese a capitale pubblico.

La reazione di Confindustria fu molto negativa. Contro la legge divampo una vera


battaglia nelle riviste giuridiche specializzate: si sosteneva la illegittimità costituzionale
rispetto al comma 1 dell’art.39 Cost., in quanto la legge era interpretata come un’illecita
ingerenza del legislatore:

- da un lato—> nell’autonomia organizzativa della Confindustria

- Dall’altro —> nella libertà di scelta da parte delle imprese pubbliche


dell’organizzazione alla quale aderire.

La parola passo alla corte costituzionale che respinse l’eccezione di incostituzionalità.,


osservando che l’obbligo di distaccarsi da Confindustria era rivoto a società nei cui organi
lo Stato, in quanto socio di maggioranza, poteva fare prevalere la propria volontà.

In sostanza, ad avviso della Corte, con lo sganciamento imposto alle imprese pubbliche
lo Stato aveva auto determinato la propria scelta associativa: ciò che è legittimo e
rispettoso dei principi di auto-organizzazione e di autonomia sindacale.

2. L.741/1959 —> “Legge Vigorelli”

—> è il più importante momento di disgelo istituzionale

—> sull’estensione erga omnes dei contenuti dei contratti collettivi

—> la legge riprendeva proposte avanzate, nella legislatura precedente,


sia da DI Vittorio (segretario della CGIL) sia da Pastore (segretarioCISL)

—> l’opposizioni all’attuazione del progetto costituzionale o la rinuncia


all’iniziativa legislativa non avevano fatto cessare la richiesta di una
legge diretta a sancire il principio dell’efficacia erga omnes dei
contratti collettivi, il cui obiettivo era assicurare a tutti i lavoratori un
trattamento economico e normativo

—> L’estensione erga omnes dei contratti collettivi si inseriva in


quell’insieme di leggi che, a partire dagli anni cinquanta, crearono un
corpus normativo che finalmente garantiva un minimo di tutela a i
lavoratori in situazioni di grave sotto-protezione.

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Dalla svolta degli anni 60’ “all’autunno caldo”: le grandi trasformazioni del sistema
di relazioni industriali

Gli intensi anni 60 sono stati, nel nostro Paese un periodo di grandi trasformazioni
economiche, politiche e sociali, sostenute anche d forti tensioni ideali. Ci limiteremo qui a
richiamare solo i fatti salienti ai quali sono collegate le evoluzioni delle teorie e delle prassi
sindacali, che hanno spinto il diritto sindacale italiano verso la svolta dell’intervento della
legge.

IL CONTESTO ECONOMICO-POLITICO
- quadro politico: sulla fine degli anni 50 era nato il primo Governo che, allargando la
coalizione al partito socialdemocratico, poneva le premesse per l’esperienza dei
Governi di centro-sinistra del decennio successivo. L’alleanza tra democristiani e
socialisti resterà la coalizione di Governo dominante dell’intero declino e dei 2 decenni
successivi.

- quadro economico: gli anni 60 furono caratterizzati dalla grave crisi congiunturale
degli anni 1964-1965, che fece seguito all’eccezionale sviluppo industriale tra il 1959 e
il 1963. Fu una fase recessiva breve, ma con perduranti effetti sul calo degli
investimenti, e delle esportazioni, e produsse l’esportazione dei capitali all’estero.
La recessione nell’industria determinò un calo nella occupazione, che si prolungo fino
al 1966, tornando normale solo nel 1969.
Data la brevità della recessione, la riorganizzazione ricomincio molto presto: la crescita
della produttività dell’industria fu elevata, e su questo influì sicuramente un nuovo
modello organizzativo proveniente dagli USA, bastato sulla intensità e sulla
parcellizziate del lavoro —> la nuova organizzazione del lavoro trasformava
profondamente la condizione operaia: divisione e ricomposizione scientifica del lavoro
accentuava la gerarchia nell’impresa, deprimevano il ruolo degli operai, vi era un

- processo di dequalificazione di autonomia e responsabilità.

L’EVOLUZIONE DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI


Le vicende politiche, l’andamento dell’economia sono il conteso nel quale si svolse quel
vistoso mutamento nel sistema di relazioni industriali che fa degli anni 60 un decennio
cruciale nella stori del movimento sindacale italiano.

Il rinnovo del c.c. dei metalmeccanici nel 1959, guidato dalle 3 Confederazioni era stata la
prima esperienza di unità di azione.

La scadenza del contratto dei metalmeccanici era nel 1962.

Dopo lotte molto dure le 3 confederazioni conclusero un accordo con: INTERSIND e


ASAP sulla:

“contrattazione articolata”, che riconosceva formalmente la contrattazione di settore e


aziendale e con ciò il passaggio dalla contrattazione collettiva nazionale esclusiva ad
un sistema contrattuale coordinato su più livelli di contrattazione.

Questo accordo è contratto la prima conseguenza tangibile della separazione da


Confindustria delle Partecipazioni statali.

La resistenza di Confindustria durò ancora per mesi e fu piegata solo dopo uno sciopero
generale di tutta l’industria: l’accordo che finemente venne stipulato era analogo a quello
dell’industria pubblica; anche in questo accordo:

- si riconosceva la contrattazione aziendale

- gli aumenti salariali erano consistenti

- migliorava a che il trattamento normativo

Il contratto venne accolto com una grande vittoria dei metalmeccanici e di tutto il
movimento sindacale: la prima dopo tanti anni di difficoltà e sconfitte.

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• La CISL —> sempre stata positiva verso un sistema contrattuale articolato su più livelli
e favorevole al superamento della contrattazione nazionale esclusiva.

• La CGIL —> all’inizio invece era negativa -> dopo (anni 1955/56) si modifico man mano
prendeva coscienza della nuova condizione operaia, la CGIL riconosceva la centralità
rivendicativa della fabbrica e anche essa alla fine sposò la strategia della artiolazione
contrattuale.

La contrattazione articolata prevista nei contratti dell’industria metalmeccanica pubblico e


privata del 1962 e del 1963 fu in complesso coerente con una strategia di
programmazione del decentramento contrattuale ancora molto prudente, che non dava
spazio all’istituzione di strutture sindacali titolari di potere contrattuale a livello d’azienda. 

In sostanza, il contratto nazionale manetta la propria centralità, ma costituiva un sistema
di rinvii dal contratto nazionale fino a quello aziendale.

In più i sindacati si vincolavano, mediante un’apposita clausola di tregua sindacale, a


non promuovere rivendicazioni/scioperi diretti a modificare i contratti stipulati ai vari livelli
durante la loro vigenza.

La diffusone della contrattazione articolata in altre categorie dell’industria fu difficoltosa,


tanto che già nella successiva stagione contrattuale la Confindustria proprie ulteriori
limitazioni alla contrattazione aziendale.

I c.c. stipulati tra il 1965 e il 1966, in un quadro reso difficile dalle vicende della politica e
dell’economia, non portarono innovazioni significative, facendo segnare una battuta di
arresto al processo di decentramento contrattuale, e lasciarono irrisolto il nodo della
contrattazione aziendale.

DAL MAGGIO FRANCESE ALL’AUTUNNO CALDO


Nel 1968, sull’onda del maggio francese e del movimento studentesco cresciuto anche in
Italia, esplosero i primi grandi conflitti nelle fabbriche.

Anche il 1969 “si era aperto sotto l’insegna della forte pressione, ancora non controllata
dai sindacati che si caratterizzata con l’emergere di scioperi selvaggi, attuato da gruppi di
lavoratori con obiettivi egualitari e di lotta contro la tradizionale organizzazione del lavoro.
La contrattazione articolata del 1962 insomma era travolta e per sempre.

In queste lotte e negli accordi aziendali che ne scaturivano, si disgregavano le forme di


rappresentanza tradizionali ( es. Commissioni interne ) e nacque una nuova forma di
rappresentanza dei lavoratori: i delegati di linea, di reparto, di gruppo omogeneo, eletti
su scheda bianca (cioè al di fuori di Goni appartenenza sindacale). —> alla base del
movimento dei delegati :

- stava l’idea del rapporto diretto tra il gruppo omogeneo per condizioni di lavoro e chi lo
rappresenta nei rapporti con il padrone

- Stava anche la contestazione del sindacato e della sua organizzazione e dei suoi
metodi nella gestione delle vertenze.

L’atteggiamento delle 3 confederazioni fu all’inizio di grande cautela/ diffidenza.

Dopo si modificò a causa di esigenze:

- recuperare l’adesione della base -> di operai comuni

- Costruire nelle fabbriche una organizzazione sindacale duratura (che sarà dal 1970 il
Consiglio di Fabbrica/ Consiglio dei delegati).

Il rinnovo dei quadri sindacali di azienda, che permise l’elezione a delegati di giovani
sindacalisti idealmente vicini al movimento, e la loro intensa attività conflittuale e
contrattuale, consentì un primo recupero del controllo sindacale sulla base, che costituì

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l’avvio di una fase di “rifondazione” delle 3 confederazioni: dalla costituzione di un nuovo


rapporto con la propria base , alla maturazione del processo già cominciato già
cominciata nel corso degli anni 60, di autonomizzazione dei sindacati dai partiti i quali
erano stati in passato legati.

L’autunno caldo del 1969 ebbe per protagonisti i metalmeccanici guidati dalle
federazioni FIOM,FIM, UILM, e vide scioperi e manifestazioni di massa, in un clima di
grande tensione.

Il contratto con i metalmeccanici si chiuse, grazie alla mediazione svolta del Ministro del
Lavoro sia per le mores pubbliche sia per quelle private nel 1969. Trattative caratterizzate
da una intensa partecipazione dei lavoratori. —> con questo contatto si chiude l’autunno
caldo e sia prova un capitolo nuove delle relazioni industriali: la richiesta degli industriali
di proporre i limiti alla contrattazione aziendale venne respinta (come nel modello di
contrattazione del 1962) e non più avanzata.

Sezione II: Teorie e ideologie del diritto sindacale. Dall’astensione


della legge allo Statuto dei Lavoratori.

La privatizzazione del diritto sindacale

Le vicende riassunte nel capitolo precedente costituiscono il contesto in cui è stato


costruito il diritto sindacale post-costituzionale.

Nella ricostruzione di quest’opera di creazione dottrinale di diritto sindacale distinguiamo


2 fasi, caratteristiche:

- (anni 50/60)

- entrambe segnate dal mancato intervento della legge, conseguente ai pochi tentativi
fatti per dare attuazione all’art.39 Cost.

Negli anni successivi all’entrata in vigore della Cost. il vuoto legislativo dovuto alla
mancata attuazione dell’art.39 Cost. Portò i giuristi a dedicare scarsa attenzione a questa
parte del diritto del lavoro. Atteggiamento che però durò poco. L’astensione della legge
comporta sostituire al meccanismo dell’art.39 un altro meccanismo, che trovasse al di
fuori della legge di attuazione dell’art.39 la propria base —> a ciò si occuparono i giuristi
a cui si deve quella operazione di politica del diritto che può essere riassunta con
l’espressione: PRIVATIZZAZIONE DEL DIRITO SINDACALE, il cui esito è stato la
costituzione del diritto sindacale extra-legislativo.

Prima fase
Nella prima fase della sua elaborazione teorica, la privatizzazione del diritto sindacale ha
come nucleo centrale la costruzione della nozione di autonomia collettiva, il cui autore è
Francesco Santoro Passarelli che la elaborò in una serie di saggi scritti dal 1949.

L’autonomia privata è la potestà di regolare liberamente i propri interessi, che


l’ordinamento riconosce, che l’ordinamento riconosce ai singoli individui; questa
autonomia, secondo Passarelli, è riconosciuta anche al alcuni gruppi sociali per la tutela
di interessi collettivi

L’autonomia privata collettiva è appunto l’autonomia di cui dispone un gruppo sociale per
la realizzazione di un interesse collettivo.

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“La definizione di autonomia collettiva gettò le radici sistematiche della nostra materia”
affermò Giugni —> autore di una teoria che partendo dalla critica di quella di Passarelli,
costituirà la nuova base costruttiva del diruto sindacale extra-legislativo negli anni 60’.

La teoria dell’autonomia collettiva, sul piano giuridico, attribuiva rilievo agli interessi dei
gruppi considerati in quanto tali superbì e quindi destinati a prevalere sugli interessi dei
singoli che appartengono al gruppo. Il fulcro della teoria è infatti il concetto di:

interesse collettivo —> sintesi e non domma delle volontà individuali.

—> riferibile ai singoli soltanto uti universi, ricche è indivisibile non


diversamente dall’interesse individuale

—> esso pur essendo diverso dall’interesse individuale, è un interesse


privato, orche non è proprio di tutta la collettività organizzata, ma
di una collettività di interessi costituita su base volontaria, di
conseguenza il principio giuridico nel quale trova tutela è un
principio di diritto privato.

Il gruppo professionale era ancora per Passarelli la categoria professionale destinataria


del c.c. che lo stesso autore definì di diritto comune, per distinguerlo dal c.c. regolato dal
non attuato quarto comma dell’art. 39 .

L’Interesse del gruppo professione è tutela attraverso l’organizzazione della categoria


professionale, che avviene con la formazione dei sindacati.

L’idea della categoria professionale ontologica, spontanea formazione sociale che


preesiste al sindacato, era una idea corporativa, non estranea ai costituenti, ma l’art. 39
non ne imponeva la riproposizione.

Fu Carlo Esposito che spazzò via in un saggio i residui “corporativi” che ancora potevano
trovarsi nella costruzione dell’autonomia collettiva e dell’interesse collettivo indivisibile di
Santoro Passatelli —> se egli aveva trovato nel codice civile il fondamento della sua
teoria dell’autonomia collettiva privata, Esposito trovava invece nell’art. 39, c.1 Cost il
fondamento della privatizzazione del diritto sindacale.

Cosi affermata la natura del sindacato come associazione di diritto privato, che persegue
interessi economici e si propone scopi privati, la dottrina dell’epoca poteva rileggere
l’intero art.39 declassando l’obbligo della registrazione a mero onere, ed afferrando la
legittima esistenza dei sindacati di diritto comune anche dopo un’eventuale ma non
auspicabile attuazione dell’art. 39 cost.

I sindaci di diritto comune sono associazioni di fatto, giacche la personalità giuridica


consegue solo alla registrazione regolata, per l’art. 39, dalla legge: legge che tuttavia non
c’era allora. (e non c’e neanche oggi)

Non tutti, all’epoca, erano d’accordo con la lettura privatistica dell’art. 39. proposta da
Esposito, in quanto:

- da un lato era an cara presente la dottrina neo-corporativa

- Dall’altro i giuristi vicini alla CGIL concentravano ancora il loro interesse sull’attuazione
dell’art.39 cost. e della contrattazione collettiva erga omnes ivi prevista; attuazione che
avrebbe richiesto l’intervento della legge sindacale previsto appunto dall’art.39.

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Le opinioni dissenzienti non ebbero però fortuna e l’autonomia collettava privata era
destinata a costituire la base teorica del diritto sindacale post-costituzionale.

All’invio degli anni 60’ era passata l’idea che il nostro sistema di relazioni industriali
poteva vivere e svilupparsi al di fuori di una legge di cui non aveva bisogno.

La teoria dell’ordinamento intersindacale

Sul finire degli anni 50’, la dottrina del diritto sindacale conobbe un’importante
rinnovamento, considerato giustamente come la svolta dottrinale del secondo decennio
post-bellico.

Seconda fase
Fase di decisiva trasformazione del diritto sindacale.

Facciamo riferimento alla riflessione fatta da: Gino Giugni, autore nel 1960 di una
monografia che diede avvio al rinnovamento metodologico degli studi di diritto sindacale.

Per Giugni—> pretendere di continuare ad inquadrare la realtà dei rapporti sindacali nelle
strettoie di quelle poche disposizioni del codice civile, che costituiscono il piccolo
apparato normativo che sorregge la torria dell’autonomia collettiva, era una operazione
non più accettabile.

Il problema più urgente della rifondazione teorica del diritto sindacale italiano era quello di
conferire ai fatti di accedere al diritto -> trasformare i fatti in norme

Giugni ha elaborato: “la teoria dell’ordinamento giuridico intersindacale”

- É la base teorica del diritto sindacale a partire dall’inizio degli anni 60’.

- Ha molto successo—> grazie alla: convinzione che l’autonomo sviluppo del sistema di relazioni
industriali fosse la premessa della trasformazione in senso democratico della società italiana.

- Basata su 3 punti:

• L’ordinamento intersindacale è un sistema normativo dinamico (un negotiating machinery): vale


a dire un complesso di norme che delineano una struttura privata paritaria, cioè fondata sul
riconoscimento reciproco tra le associazioni che ne fanno parte —> il riconoscimento reciproco
è per Giugni la Grundnorm, la norma fondamentale dell’ordinamento intersindacale.

Il negotiating machinery è costituito dalle norme che riservano competenze alle associazioni
che si sono reciprocamente riconosciute, che dettano le regole del gioco nel conflitto, c he
predispongono procedure intersindacali di composizione del conflitto.

• Il sistema normativo dinamico vive di una vita giudica propria, è cioè dotato di una giuridicità
originaria, che non richiede ne riconoscimenti, ne legittimazioni da parte dello Stato.

• Il sistema normativo dinamico entra in contatto con il sistema normativo statuale, per la via
dell’interpretazione giudiziale dei contratti collettivi

Il nucleo “politico” su cui si basa questa teoria: è il ruolo marginale dello Stato + autosufficienza e
autosufficienza della legalità sindacale
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Il rafforzamento della negotiating machinery: era lo strumento che sorreggeva la costruzione giuridica.

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La realtà dell’epoca di Giugni era ancora dominata da una c.c. nazionale di categoria di
vecchio stampo, accompagnata nei luoghi di lavoro da una rappresentanza dei lavoratori
ancora affidata alle sole Commissioni Interne.

L’idea è che Giugni abbai fornito un modello descrittivo, capace di descrivere il sistema di
relazioni industriali.

La dottrina successiva, che alla teoria di Giugni ha continuato a fare riferimento, ha


recepito la sostanza politica della teoria, utilizzassi solo in parte la forma giuridica di cui
era rivestita—> infatti l’espressione “ordinamento intersindacale” è spesso stata sostituita
in dottrina da: “autonomia/ordinamento sindacale”.

Dall’astensione della legge alla legislazione promozionale

O la democrazia entra nelle fabbriche, o non ci sarà più democrazia -> questa era l’idea
che aveva portato quelle forze politiche che tanto erano contrarie all’attuazione della
legge prevista dall’art.39 Cost. a progettare un intervento legislativo che portasse
appunto la democrazia nelle fabbriche.

L’idea di uno statuto, cioè di una carta dei “diritti dei lavoratori” non era nuova, in quanto:

- Era già stata proposta da Di Vittorio nel 1952, in un congresso della CGIL

- E se ne era riparlato con Aldo Moro nel 1953

A cambiare la prospettiva furono le vincere sindacali del 1968/9 che rendevano non più
rinviabile un intervento di legge.

Questa azione di carattere legislativo si sostanza nello:

“Statuto dei Lavoratori”:

- Fu presentato dal governo nel 1969

- Segui una linea originale che lo rendeva molto diverso dalla Carta dei diritti a cui si era
penato in passato

- Scopo:

• Da un alto si proponeva di realizzare quei principi di difesa della libertà e dignità del
lavoro che erano stabiliti dalla stessa carta costituzionale

• Dall’altro aveva preso l’idea di una legislazione di “sostegno” dell’azione sindacale a


livello di fabbrica.

- Altro Obiettivo:

• Innovare i metodi di gestione del personale introducendo in essi elementi di rispetto


della legalità e della democrazia

• Rafforzare la presenza sindacale nei luoghi di lavoro

- Legge approvata dal Parlamento nel 1970—> L. 300/1970 (detta: statuto dei lavoratori)

Dalle vicende del 1968/9 è nato un sistema sindacale diverso, più forte e più complesso
dominato dalle 3 grandi Confederazioni, protagoniste della scena politica oltre che di
quella sindacale.

EFFETTO St.L.= l’intervento della legge ha portato i giudici a decidere su questioni di


diritto sindacale che fino ad allora non erano mai entrate nelle aule giudiziarie: questa è
stat una mutazione epocale -> ha chiamato i giuristi ad appassionarsi ai problemi
interpretativi trascurati nel decennio precedente.

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É importante precisare che lo steso Giugni, che rivendicava il merito di essersi opposto
all’attuazione dell’art.39 della Cost., contribuendo cosi alla costituzione del sistema di
relazioni industriali su base meramente volontaristica, già nel 1967 invocava l’intervento
legislativo.

INNOVAZIONE DELLO ST.L. = aver costruito, mediante l’ampio riconoscimento dei diritti
sindacali, le condizioni indispensabili perchè i lavoratori possano esercitare effettivamente
i propri diritti.

Titolo III dello St.l. -> incentiva l’azione sindacale nei luoghi di lavoro mediante il
riconoscimento delle rappresentanze sindacali costituite nell’ambito dei sindacati aderenti
alle Confederazioni maggiormente rappresentative.

Proprio la parte “promozionale” dello statuto era quella che all’epoca doveva suscitare le
maggiori reazioni:

- il settore moderato e conservatore della dottrina giuridica: aveva accolto male la legge,
sommergendola di critiche tecniche, che pero non riuscivano a celare l’ostilità di tipo
politico per un intervento legislativo cosi evidentemente a favore delle 3 maggiori
confederazioni.

- La sinistra: criticava a legge come intervento diretto a imbrigliare il movimento


spontaneo di base e a “responsabilizzare” l’organizzazione sindacale ufficiale

- Estrema sinistra: considerava l’intervento legislativo come repressivo dell’autonomia


operaia.

La storia di mezzo secolo di applicazione dello St.l. smentirà molte di qieste illusioni e
preoccupazioni e critiche.

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EVOLUZIONE DEL SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI


Dalle prime esperienze di concentrazione sociale al protocollo del 1993

Nel corso die primi decenni che ci separano dall’entrata in vigore dello Statuto dei
Lavoratori, le relazioni industriali hanno conosciuto in Italia molti mutamenti passando
attraverso varie fasi e alterne vicende. I più forti scossoni al sistema di relazioni industriali
so sono registrati però nell’ultimo decennio.

Tra la seconda metà degli anni 70’ e l’inizio degli anni 80’:

In una situazione di crisi economica e del mercato del lavoro, presero avvio le prime
esperienze di negoziazione triangolare di provvedimenti di politica economica e sociale
tra:

- il Governo

- Confindustria

- Le 3 maggiori Confederazioni

Il primo esempio fu il:

Protocollo del 1983 —> “Accordo Scotti” —> Obiettivo era quello di: controllare la
dinamica salariale e il tasso di inflazione.

I risultati raggiunti con questo accordo portarono il Governo a riaprire la trattativa con le
parti sociali l’anno successivo, per il congelamento degli aumenti salariali automatici
(indennità di contingenza) legati al sistema della scala mobile.

Esso consentiva il parziale recupero del potere di acquisto dei salari, mediante
un ,meccanismo di aumento automatico della retribuzione: l’indennità di contingenza,
corrisposta all’epoca trimestralmente , era calcolata sulla base dell’indice dell’aumento
dei prezzi rilevato dall’ISTAT.

L’opposizione della CGIL portò alla stipulazione di un accordo separato:

L’Accordo di San Valentino del 1984 —> al quale il Governo divide efficacia recependolo
nel d.l 70/1984.

Lo scontro politico e la lacerazione sindacale che ne derivarono, a partire dalla rottura del
Patto federativo stipulato nel 1972 tra CGIL, CISL, e UIL, portarono a una situazione di
instabilità delle relazioni industriali , con effetti negativi sulla tenuta delle strutture
sindacali nei luoghi di lavoro e ricadute sulla contrattazione aziendale, che perse di
importanza anche quantitativamente.

In tutto il decennio del 1980:

L’unità di azione sindacale conobbe una fase di crisi a causa della crescente divergenza
di strategie fra CGIL, UIL, e CISL.

Inizio anni 90’:

La situazione cambia perchè le divergenze si ricomposero: si ebbe una ripresa della


concertazione (accordo) sociale.

Il peggioramento della congiuntura economica e la necessità di soddisfare i criteri di


convergenza per la unificazione monetaria crearono condizioni per il rientro formale dei

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pubblici poteri nelle relazioni industriali, che si realizzò con la stipulazione nel 1992
dell’accordo triangolare che abolì la scala mobile e nel 1993 del:

Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione


—> definito anche Carta Costituzionale del sistema delle relazioni industriali

—> poneva per la prima volta le basi di un sistema contrattuale regatò nella struttura e nel
funzionamento.

—> ma per produrre tutti i risultati che pro metteva il sistema contrattuale delineato nel
Protocollo avrebbe dovuto trovare il fine necessario sostegno nella legge che il
Governo si era impegnato a promuovere, per sciogliere i due nodi lasciati irrisolti
dalla mancata attuazione dell’art.39 Cost.:

- Efficacia erga omnes dei c.c.

- Un disciplina della rappresentanza sindacale -> che garantisse l’accesso alla


contrattazione con efficacia generale ai soli sindacati dotati di un’effettiva
rappresentatività.

Questo inadempimento degli impegni assunti dal Governo è l’origine delle più gravi
inefficienze del sistema contrattuale

A queste inefficienze si tentò di porre rimedio con il Patto sociale per lo sviluppo e
l’occupazione del 1998: “Patto di Natale”. Ma, ancora una volta tuttavia sarebbe stato
necessario un intervento legislativo che mettesse ordine nel sistema delle relazioni
industriali: ma per un intervento riformatore di questo calibro mancavano evidentemente
le condizioni politiche.

Crisi della concertazione sociale e contrattazione separata


La stipulazione del Patto di Natale chiuse la stagione dei grandi accordi di concertazione
sociale.

Ma dopo il quinquennio 1996-2001, governato dal centro sinistra, il Governo era tornato
nelle mani del centro-destra, che aveva manifestato le proprie intenzioni nel:

“Libro Bianco sul Mercato del Lavoro in Italia” (2001).

—> Il “dialogo sociale” era presentato come metodo alternativo rispetto al modello di
concertazione sociale degli anni 90’, ritenuto troppo vincolante per il potere esecutivo, del
quale limitava la capacità decisionale, subordinandola al raggiungimento del consenso
delle parti sociali.

—> Questo “dialogo sociale” con il quale si proponeva di sostituire la concertazione:

- da un lato: enfatizzava il negoziato diretto tra le parti sociali rispetto a quello tripartito,
ma implicava una netta separazione tra la contrattazione collettiva e la legge,
riconoscendo a quest’ultima un ruolo sostituivo della contrattazione collettiva.

- Dall’altro: il dialogo sociale sostituiva alla regola nell’unanimità, seguita sempre in


passato, la regola della maggioranza; aprendo do cosi la strada alla conclusione di
accordi tra Governo e parti sociali “separati”-> cioè accordi conclusi solo con alcune
organizzazioni sindacali

—> Con “dialogo sociale” si intende: un significato equivalente a quello di concertazione


sociale, entrambe indicano una molteplicità di forme specializzate al coinvolgimento delle
parti sociali nella definizione degli obiettivi e delle politiche sociali. Quindi concertazione

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non è una mera consultazione, ma contrattazione tra Governo e parti sociali, alla ricerca
di un consenso che garantisca l’effettività delle politiche in materia sociale.

—> Del metodo del “dialogo sociale” prefigurato dal libro bianco si trova ampia traccia
nella: Legge Biagi (l.d.30/2003) —> riforma del mercato del lavoro che ridimensionava il
ruolo che la legislazione precedente affidava alla contrattazione collettiva e valorizzava gli
enti bilaterali (organismi paritetici che associano sindacati dei lavoratori e associazioni
imprenditoriali).

L’abbandono da parte del Governo nel periodo 2001-2006 del modello di concertazione
sciale degli anni novanta produsse effetti negativi per la tenuta delle relazioni industriali.

Dopo le elezioni del 2006, e il ritorno al Governo del centro sinistra, il modello della
concertazione sociale degli anni 90’ venne ripreso con il Protocollo sul welfare del 2007,
ma le differenze rispetto agli anni 90’ erano molte, non è perciò un caso che la CGIL
abbai deciso di sottoscriver il patto con difficoltà.

Nel 2008:

- la grande crisi economica a cui l’Italia andava in contro

- La fine anticipata della legislatura

- Il ritorno al Governo del centro-destra


segnarono l’inizio di una nuova stagione caratterizzata dalla profonda spaccatura tra le
Confederazioni sindacali maggiormente rappresentative e dal moltiplicarsi di accordi e di
contatti separati, cosi detti perchè non firmati dalla CGIL.

Il sistema di relazioni industriali costruito con il protocollo del 1993 era entrato
definitivamente in crisi.

Al riforma del sistema contrattuale, vale a dire quell’insieme di regole alle quali affidare la
nuova architettura delle relazioni industriali, venne disegnata in un insieme di accordi non
sottoscritti dalla CGIL.

- L’accordo quadro del 2009


- Gli accordi interconfederali di attuazione

In questi accordi il Governo era stato presente nella trattativa, ma non aveva assunto
impegni.

Erano accordi tra Confederazioni sindacali e Confederazioni dei datori di lavoro ma la


mancata attuazione da parte della CGIL apriva, oltre a quelli politici anche delicati
problemi giuridici.

Le questioni sul tappeto erano molte:

- Ruolo della contrattazione collettiva nazionale

- La maggior autonomia della contrattazione aziendale

- L’apertura di un più ampio spazio per negoziare deroghe, nei contratti collettivi
aziendali, al contratto nazionale di categoria su singoli istituti economici e normativi

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Il caso FIAT
Nel 2010 esplose il: CASO FIAT

Esplose in una situazione caratterizzata da:

- Aggravarsi della crisi economica

- Forti tensioni tra le Confederazioni sindacali

- In un contesto di incertezza delle regole determinata dagli Accordi separati del 2009

Cos’è il caso fiat?


Lo si può definire come un ciclone che per almeno 2 anni ha scosso le relazioni sindacali
italiane. Nell’occhio di questo ciclone era la categoria dei metalmeccanici, leader del
settore industriale, con il suo epicentro rappresentato dal settore auto, egemonizzato
allora dalla FIAT.

Gli accordi separati del 2009 avevano creato le premesse, aprendo formalmente la crisi
del sistema di regole dettate dal Protocollo del 1993; ma il passo decisivo per portare la
crisi alle sue estreme conseguenze era stato segnato dall’iniziativa della FIAT di premere
l’acceleratore della autonomia della contrattazione aziendale, sganciandola dai vincoli del
c.c.n. di categoria e dagli stessi vincoli derivanti dall’appartenenza a Confindustria.

All’epoca vigeva il c.c.n. dei metalmeccanici, sottoscritto anche dalla FIOM, la cui
scadenza era prevista al 31 dicembre 2011

IL PRIMO ATTO DI QUESTA VICENDA

É stato la stipulazione dell’accordo di Pomigliano del giugno 2010:

- con il quale si introducevano una serie di deroghe al c.c.n vigente: queste deroghe
previste dall’accodo non erano legittimate dall’intesa del 15 ottobre del 2009, tra
Federmeccanica, FIM-CISL ed UILM, la quale non si limitava ad aggiornare la parte
economica biennale del c.n. per l’industria metalmeccanica privata vigente, ma entrava
anche nella disciplina della parte normativa quadriennale, che sarebbe scaduta il 31
dicembre del 2001. Un accordo raggiunto il 29 settembre 2010 tra Federmeccanica,
FIM ed UILM, era successivamente intervento a “sanare” la lacuna: a sanare, perchè
tale assenza avrebbe dovuto essere riempita prima, non dopo l’accordo di Pomigliano
del giugno del 2010.

- L’accordo di Pomigliano era formalmente un accordo aziendale relativo allo stabilimento


di Pomigliano, sottoscritto dalla FIAT, che ancora aderiva alla Confindustria, e da FIM,
UILM e FISMIC; la FIOM invece non aveva sottoscritto l’accordo.

- Contenuti dell’accordo: i pois controversi riguardano il modello organizzativo,


caratterizzato da un afprte intensificazione del lavoro, con misure in materia di turni,
pause..

- A garanzia del rispetto dell’accordo era previsto:

• Obbligo di tregua sindacale da parte dei sindacati firmatari

• Responsabilità disciplinare dei lavoratori per violazione delle clausole dell’accordo.

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- La Fiat aveva condizionato alla stipulazione di questo accordo e la sua accettazione da


parte della maggioranza dei lavoratori dello stabilimento un imponente investimento
per spostare nello stabilimento di Pomigliano la produzione della Panda. Il referendum
ottenne una maggioranza di consensi oltre il 60% ma non l’atteso plebiscito.

- Dopo: l’accordo di Pomigliano, la FIAT imboccava la strada dello sganciamento dal


sistema confindustriale.

Un primo cambio di marcia era avvenuto quando la FIAT, il 16 dicembre del 2010 aveva dato vita ad
una scissione parziale, separando:

la produzione di auto (FIAT G. Automobiles S.p.A) dalla produzione di macchine agricole e industriali.

Per il settore automobilistico era stato stipulato “il contratto collettivo Mirafonti”:
- Del 23 dicembre 2010

- Ancora una volta senza la FIOM

- Definito come contratto collettivo di primo livello -> cioè di livello nazionale di
categoria, non di livello aziendale, del tutto autonomo rispetto al contratto collettivo
nazionale dei metalmeccanici ancora in vigore

La FIAT aveva affermato di cessare di aderire a Confindustria liberandosi cosi dagli


obblighi che il vincolo associativo le avrebbe imposto: avvenne il 1 gennaio del 2012

Il 29 dicembre del 2010 veniva stipulato un nuovo contratto:

- che costituiva il completamento dell’Accordo di Polignano, ma corporea altresì quanto


maturato fino all’accordo di Mirafiori.

- Il contratto fu definito dalle parti contratto collettivo specifico di primo livello

- Contratto che è diventato di tutte le società e gli stabilimenti del gruppo FIAT

Il 17 febbraio 2011 veniva stipulato, infine, il contratto FIP:

un contratto aziendale per i dipendenti della new company Fabbrica Italia Pomigliano,
stabilimento di Pomigliano, provenienti da FIAT Group Automobile S.p.A, e da altre
società del gruppo FIAT

Questo caso ha innescato un contenzioso giudiziario massiccio e dagli esiti oscillanti, di


cui daremo conto oltre. Ma sopratutto ha reso evidente a tutti, parti sociali comprese, che
il sistema di relazioni industriali era entrato in una crisi profonda, della quale era difficile
immaginare lo sbocco.

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La ricomposizione del sistema: l’accordo interconfederale 28 giugno 2011

La consapevolezza della gravità della crisi indusse le maggiori Confederazioni a riaprire il


dialogo con Confindustria, portandole a concludere un nuovo:

“Accordo Interconfederale” (AI), le cui caratteristiche sono:

• Accordo questa volta unitario

• Creato perchè urgeva affrontare importanti questioni di principio:

- necessità per Confindustria di porre un argine alle tentazioni di fuga dalla


organizzazione degli imprenditori sollecitata proprio dal CASO FIAT

- e al convergente interesse delle Confederazioni a porre un argine alla fuga dalla


contrattazione nazionale, ricreando un sistema contrattuale basato su di un
minimo di regole condivise.

• Data: 28 giugno 2011


• Riscriveva le parti più controverse degli accordi separati del 2009, ricomponendo il
quadro dell’ordinamento sindacale e restaurando un normale circuito di regole
interconfederali

• É un patto unitario tra le più grandi Confederazioni

• Alla luce di questo Accordo si può dire che: gli accordi del caso FIAT, che certamente
avevano portato allo scoperto la crisi del sistema di relazioni industriali basata sul
Protocollo del 1993 non sono stati il motore di un nuovo ordinamento basta sulla
marginalizzazione del contratto nazionale e sulla visione sindacale MA sono stati una
contrattazione al di fuori del sistema, che all’epoca era anomala (oggi non lo sarebbe).

• Introduceva nuove regole, che superavano la logica “separatista” degli accordi del
2009; l’accordo pero non disciplinava tutte le materie regolate dagli accordi del 2009
implicitamente confermandone alcune.

• In questo accordo le parti:

- Ribadivano il ruolo centrale del c.c.n. di lavoro

- Nello stesso tempo affermavano di condividere l’obiettivo di favorire lo sviluppo


della contrattazione collettiva di secondo livello -> cioè territoriale/aziendale.
Questo però nell’ambito di materie delegate dal c.c.n. di lavoro di categoria o dalla
legge.

Così facendo le parti sostanzialmente ribadivano scelte già compiute nel 1993, ma con
una differenza: l’AI apriva un ampio spazio alla contrattazione aziendale, consentendo che
in quella sede si introdussero specifiche intese modificative, cioè deroghe al contratto
nazionale, purché giustificate da finalità ampie ma non generiche.

L’apertura di questo spazio era condizionato ad una serie di Regole tra le quali
assumevano grande rilievo:

- quelle relative alla rappresentatività sindacale -> soglie minime di rappresentatività per
l’accesso al tavolo delle trattative al c.c.n. di categoria

- alla verifica del consenso della maggioranza dei lavoratori collegate all’efficacia del
contratto

Queste Regole sono state meglio definite nel:

- Protocollo di intesa del 31 maggio del 2013

- Nell’AI del 10 gennaio 2014 detto “Testo unico sulla rappresentanza”

- Nell’AI “Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva”


del 9 marzo 2018.

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L’intervento del legislatore: art.8 L.148/2011

A distanza di meno di 2 mesi dall’’AI del 2011 il Governo allora in carica infilava a
sorpresa nel d.l. 138/2011 convertito nella L.148/2011 una disposizione che ben poco
aveva a che fare con quella manovra, ma molto invece con le vicende, allora in corso, del
caso FIAT.

Esso è:

- il primo intervento diretto della legge sulla efficacia erga omnes del c.c.
- un intervento che sovverte le regole del sistema contrattuale ridefinite dalle parti scoiali
nell’AI di 2 mesi prima.

Mantenuto in vigore per tutta la XVI legislatura, l’art.8, è sopravvissuto anche nella
legislatura successiva —> nessuna iniziativa è stata infatti assunta per l’abrogazione
dell’art.8, che resta perciò in vigore ameno in attesa che nella neonata legislatura XVIII
qualcuno si faccia carico dei problemi che la presenza nell’ordinamento che questa
controversa disposizione solleva.

Dividiamo i contenuti dell’art.8 in due capitoli:

1. Dedicato alla contrattazione collettiva definita di prossimità (aziendale o territoriale); in


questo capitolo il legislatore detta regole che vanno in una direzione divergente, se
non opposta, a quella tracciata dalle parti sociali nell’AI 28 giugno 2011 ( ciò che
spiega le reazioni negative delle Confederazioni firmatarie, inclusa Confindustria)

2. Questo ha provocato maggior sconcerto: il legislatore ha attribuito alla contrattazione


aziendale o territoriale la competenza a derogare, con effetti erga omnes, anche alle
leggi in materia di lavoro in una pluralità di materie, con l’unico limite del rispetto:
- della Costituzione - normative comunitarie - convenzioni internazionali sul lavoro

La dergoabilità alla legge ad opera del c.c. non è una novità, la legislazione degli ultimi
decenni è infatti ricca di esempi, ma si tratta sempre di casi specifici e predeterminati dal
legislatore; ciò che rappresenta una novità è invece: l’attribuzione alla contrattazione
collettiva locale o aziendale di una competenza quasi generale derogare alla legge-> tale
ampiezza e genericità dell’art.8 rende difficoltoso individuare dei limiti entro i quali il
contratto di “prossimità” possa legittimamente derogare alla legge.

Ripresa della contrattazione interconfederale

L’intervento del legislatore non ha fermato la contrattazione interconfederale, che ha


proseguito sulla strada difficile della definizione di autonome regole per la discioglia del
sistema di relazioni industriali.

Citiamo alcuni accordi:

1. Il primo accordo stipulato è intitolato:

“Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”:

- Accordo del 21 novembre 2012

- Documento programmatico

- Con esso le parti prefiguravano una disciplina convenzionale che raccogliesse in


sostanza la disciplina lanciata dal legislatore con l’art.8.

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- Sottoscritto da una parte significativa delle organizzazioni dei datori di lavoro e delle
Confederazioni sindacali, ma non dalla CGIL, in forte dissenso sulle parti del
documento relative:

• Rappresentatività sindacale

• Al ruolo del contratto nazionale

• Alla contrattazione nazionale derogatoria

- Deprime il ruolo del c.c.n. ( a differenza dell’accordo del 2011), a vantaggio del maggior
spazio e autonomia lasciata alla contrattazione aziendale, anche derogatoria.

- La divisione delle confederazioni in questo accordo non ebbe un grade impatto, ne


enormi conseguenze, forse perchè siamo verso la fine della legislatura ; tanto che negli
accordi successivi firmati anche dalla CGIL le parti sono tornate a riprendere il filo
dell’accordo del 2011 accantonando le linee programmatiche dell’Accordo separato del
2012

2. AI 31 maggio 2013 detto “Protocollo”:

- stipulato dopo le elezioni politiche da CISL, CGIL, UIL e Confindustria

- accordo interconfederale

- Obiettivo: mettere a punto una serie di regole del sistema contrattuale strettamente
collegate a quelle già definite con L’AI del 2011.

- Accordo dedicato essenzialmente alla contrattazione nazionale

- Detta importanti regole in materia di:

- Rappresentatività sindacale —> determinazione della soglia minima per l’accesso alle
trattative contrattuali

- Efficacia del c.c.n. di categoria, del quali le parti ribadiamo il ruolo centrale nel sistema
contrattuale, affidandogli il compito di garantire trattamenti comuni per tuti i lavoratori
del settore.

3. “Testo Unico della rappresentanza” (T.U.)

- 10 gennaio 2014

- Accordo interconfederale

- Con esso si da attuazione a quanto previsto dal Protocollo del 2013 in materia di
misurazione della rappresentatività sindacale.

- Di dettano nuove regole:

• Per la costituzione nei luoghi di lavoro delle rappresentanze sindacali unitarie dei
lavoratori su base elettiva (RSU) (regole che sostituiscono quelle del protocollo del
1993, rimanete fino ad allora in vigore)

• In materia di contrattazione aziendale

• Si prevede una procedura di conciliazione e arbitrato a livello interconfederale per la


soluzione delle controversie relative all’eventuale inadempimento da parte delle
organizzazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie, degli obblighi derivanti dai
contratti collettivi.

4. “Patto di Fabbrica”

- accordo interconfederale

- 9 marzo 2018

- Sollecitato dalla necessità di affrontare il preoccupante fenomeno della proliferazione


della contrattazione collettiva ( 868 c.n. di categoria) che consente di parlare di un vero
dumping contrattuale
- documento programmatico molto ampio che affronta a livello generico molti problemi
del lavoro:

• da un alto l’obiettivo di arrivare a garantire l’efficacia generalizzata dei contratti


collettivi;

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• e dall’altro l’auspicio per la definizione di un quadro normativo ( cioè una legge) che
recepisca le intese raggiunte interconfederali

• Intento di sviluppare la partecipazione organizzativa dei lavoratorio vale. Adire un


loro maggior coinvolgimento nella gestione dell’impresa.

Leggi pagina 95/96 per fare il punto della situazione.

+ appunti

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PARTE III: L’ORGANIZZAZIONE SINDACALE

LA LIBERTA’ SINDACALE

Introduzione

Nell’ordinamento giuridico dell’Italia repubblicana, la materia del diritto sindacale trova la


propria base giuridica in 2 disposizioni della Costituzione:

- L’art. 39 COST, dedicato all’organizzazione sindacale e al contratto collettivo


generalmente obbligatorio

- L’art 40 COST, dedicato al diritto di sciopero

Alle disposizioni costituzionali si sono aggiunte nel tempo altre disposizioni di varia
provenienza.

Fino ad epoca recente è stato invece pressoché assente il diritto dell’UE. Solo a partire
dal 1 dicembre 2009, con l’entrata in vigore del TUE, che all’art.6 richiama la CARTA UE,
attribuendole lo stesso valore giuridico dei Trattati, i diritti di azione sindacale,
negoziazione collettiva e sciopero (previsti dall’art 28 CARTA UE) sono entrati a pieno
titolo a far parte nel diritto dell’UE.

Le nozioni di base in tema di libertà e autonomia sindacale, che sono l’oggetti di questo
capitolo, restano ancorate alla tradizionale concezione “privatistica”, conseguenza, ma
anche frutto duraturo, della mancata attuazione legislativa dei commi 2, 3, e 4 dell’art.39
Cost.

Liberta’ dell’organizzazione sindacale


Quando si fa riferimento alla libertà sindacale si deve subito citare il comma 1 dell’art 39
Cost:

“L’organizzazione sindacale è libera” —> esso contiene una norma immediatamente


precettiva, che opera nei rapporti
intersoggettivi tra privati, e per l’attuazione
della quale non si rende necessario l’intervento
della legge

La libertà sancita dall’art.39, c.1, è libertà di “organizzazione”, non di


associazione, sindacale. L’uso dei termini non è casuale: in sede costituente alla libertà di
organizzazione sindacale non si volle affiancare la libertà di associazione, al fine di evitare
che l’art.39 prefigurasse e imponesse un determinato modello di associazione
organizzata. Quindi l’uso del termine “organizzazione” implica una nozione più ampia
dell’aggregazione sindacale nella forma associativa.

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Quando può dirsi che un’organizzazione abbia natura sindacale?

L’art.39 non definisce alcuna definizione del predicato “sindacale”, rinviando perciò a
dati di esperienza.

L’unico testo normativo in cui troviamo una definizione di “organizzazione sindacale” è


l’art.10 della Convenzione OIL n°87/1984, ratificata e resa esecutiva con la L.367/1958:
“ogni organizzazione di lavoratori o datori di lavoro che abbia lo scopo di promuovere e di
difendere gli interessi dei lavoratori o dei datori di lavoro” -> definizione tautologica

• Dal punto di vista del FINE, può essere dunque definita come “sindacale”: ogni attività
diretta all’avutotela degli interessi connessi allo svolgimento di un’attività di lavoro, non
necessariamente del solo lavoro subordinato.

• Dal punto di vista della STRUTTURALE, la qualifica di “sindacale” presuppone anche:


una organizzazione di soggetti, ed è perciò necessario che una organizzazione vi sia,
anche se nella forma minima di struttura di coordinamento degli interessi individuali o
come altrimenti si dice di coalizione.

Il predicato “sindacale” lo abbiamo riferito alla attività non alla libertà non a caso. Infatti
secondo una opinione largamente diffusa, oggetto della garanzia costituzionale è proprio
l’attività finalizzata all’organizzazione sindacale.

La libertà sindacale, infatti, come tutte le libertà, non è solo “libertà da” interferenze dei
pubblici poteri e anche dei soggetti privati ( in particolare nel caso, dei datori di lavoro),
ma è anche e sopratutto “libertà di” agire.

La libertà sindacale inoltre:

- Da un punto di vista individuale: essa è un diritto a titolarità individuale, perché ogni


individuo a diritto di coalizzarsi con altri per tutelare i propri interessi, e di partecipare
all’attività della organizzazione alla quale aderisce. Cosi la libertà sindacale è
configurata dal:

• Art.11 del CEDU

• Art.12 CARTA UE

- Da un punto di vista collettivo: essa è un diritto a titolarità collettiva. Quindi verso le


organizzazioni, la libertà sindacale fa riferimento alla libertà del sindacato di
organizzarsi, libero di decidere l’organizzazione interna es. obiettivi, priorità, di scegliere
gli strumenti per l’attività, di aderire a organizzazioni sindacali internazionali, quale
categoria rappresentare ecc…

Non è qualcosa che preesiste al sindacato, durante il periodo corporativo le categorie


erano predeterminate.

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Libertà sindacale negativa


Una questione sulla quale tutti i sindacati si sono interrogati è se la libertà sindacale nella
sua dimensione individuale, oltre ad avere il contenuto positivo che si è appena detto,
abbia anche un contenuto negativo: con ciò intendendosi la libertà del lavoratore di non
aderire ad alcuna organizzazione sindacale.

Nulla dice in proposito:

- nè l’art. 39 Cost.

- nè la Convenzione OIL n°87/1948

- nè la Convenzione n°98/1949, entrambe ratificate e rese esecutive dall’Italia con la


legge 367/1958

- nè la Carta sociale europea del 1961, che all’art.5 fa riferimento solo alla libertà positiva
di costituire organizzazioni sindacali o di aderirvi —> firmata a Torino e ratificata in Italia
con legge n°929/1965

La libertà sindacale negativa è stata volutamente ignorata per non precludere la


possibilità di adesione alla Convenzione n°87 da parte degli Stati nei quali erano
ammesse e praticate le clausole di:

- Closed shop—> che impongono a tuti I dipendenti di un’impresa l’affiliazione al


sindacato

- Union security—> che condizionano l’assunzione o la permanenza al lavoro


all’affiliazione al sindacato

Queste clausole sono state per lungo tempo ammesse in Gran Bretagna e nel 1981 sono
state per dichiarate illegittime dalla Corte Europea dei deisti dell’uomo, per violazione
dell’art.11 del CEDU, che garantisce il diritto di fondare sindacati e di aderirvi liberamente,
senza altre restrizioni che quelle previste dalla legge come necessarie per salvaguardare
l’ordine pubblico, la sicurezza e i diritti fondamentali delle persone.

Per trovare una definitiva risposta alla questione della libertà sindacale negativa occorre
fare riferimento allo Statuto dei lavoratori, che all’ Art.15 St.lav. prevede:

- la nullità di ogni atto o patto (individuale o collettivo) diretto a subordinare


l’occupazione di un lavoratore alla conduzione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale ovvero cessi di farne parte, nonché la nullità di ogni altro atto
che discrimini il lavoratore a causa della sua affiliazione sindacale.

- Sancisce dunque la nullità di qualsiasi clausola di union security, a garanzia del diritto
di Goni lavoratore di scegliere liberamente e di dissentire.

Il fine sindacale. Divieto dei sindacati di comodo.

Abbiamo detto che può essere definita come “sindacale” “ogni attività diretta
all’autotutela degli interessi connessi allo svolgimento di un’attività di lavoro”.

Definizione che risulta molto generica e ampia.

Un contributo ad una sua migliore precisazione viene dall’Art.17 St.lav che:

vieta ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere con
mesi finanziari associazioni sindacali di lavoratori.

Il divieto rende evidente che può definirsi come “sindacale” solo un’organizzazione
autenticamente tale, cioè “atteggiata antagonisticamente nei confronti della controparte”.

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Atteggiamento antagonistico non significa che il sindaco, per essere genuino non debba
essere disponibile a contrattare ed eventualmente ad accettare le proposte della
controparte.

Il divieto dei sindacati di comodo ( o sindacarti gialli ) implica perciò il divieto di sindacati
misti di lavoratori e datori di lavoro.

Il divieto di sindacati non pone limiti alla libertà sindacale garantita dall’art.39 c.1 Cost e
non rappresenta perciò un’illecita interferenza del legislatore nell’ordinamento sindacale.

Al contrario, l’art. 17 St. lav. da attuazione all’art.39, poiché contribuisce a dare un


contenuto al principio della libertà dell’organizzazione sindacale, impedendo che
l’esercizio di tale libertà sia ostacolato dalla presenza di soggetti spuri.

Peraltro, l’art 17 St. lav. non è una norma nuova per il nostro diritto sindacale —> il divieto
di costituire sindacati di comodo ha infatti :

- un precedente diretto nella Convenzione OIL n°98/1949, che vieta ogni ingerenza delle
associazioni dell’una parte nelle associazioni dell’altra parte.

- Un precedente a sua volta della convenzione nella legislazione nordamericana degli


anni 30: il Wagner Act che menziona tra le pratiche sleali l’ingerenza del datore di
lavoro nell’organizzazione sindacale dei lavoratori.

Il divieto di cui all’art.17 colpisce anche dei comportamenti che non sono tipizzati a
propri, per esempio: assunzioni discriminatorie, privilegi ingiustificati..

Sanzioni: per quanto riguarda questo tema in relazione ai sindacali di comodo la


violazione del divieto costituisce senza dubbio una condotta antisindacale: poiché
favorire illecitamente un sindacato significa, come ha rilevato anche la Corte Cost.,
“impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale”

É da pero specificare che la libertà di associazione, di cui all’art.18 Cost. tutela anche il
sindacato di comodo i cui fini non sono vietati dalla legge penale. L’associazione di
comodo potrà dunque continuare ad esistere, senza esser eliminata, ma non potrà agire
come sindacato, non essendo genuinamente tale; e il datore di lavoro condannato dovrà
cessare il comportamento antisindacale consistente nel sostegno esplicito o occulto a
questa associazione, e rimuovere gli effetti pregiudizievoli che ne siano derivati agli altri
sindacati e ai singoli lavoratori.

L’estensione della libertà sindacale. La libertà sindacale


degli imprenditori.
Quello degli imprenditori è stato in origine un sindacalismo di risposta, pur perdendo
tuttavia i tratti originali, le organizzazioni dei datori di lavoro hanno mantenuto caratteri
propri, che ne fanno una organizzazione profondamente diversa da quella dei sindacati
die lavoratori.

Malgrado le rilevanti differenze l’esperienza giuridica italiana aveva conosciuto in passato


una “piatta simmetria” e un’assoluta parità di trattamento tra le 2 organizzazioni —> ci si
è allora domandati se la stessa simmetria potesse essere riproposta anche nella
interpretazione della Costituzione, al fine di estendere agli imprenditori la garanzia
costituzionale della libertà sindacale.

2 diverse opinioni in dottrina:


1. Secondo questa opinione: l’art.39 c.1. non distingue tra le parti sociali contrapposte, e
mette dunque lavoratori e datori di lavoro sullo stesso piano quanto a garanzia della
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libertà sindacale (ma non dell’azione sindacale -> al diritto di sciopero non
corrisponde un diritto di serrata).
La simmetria sarebbe stat certo piu evidente se avrebbero tratto attuazione i commi
2,3,4 dell’art.39 Cost., poiché la registrazione delle associazioni di ambedue le parti
avrebbe co portato la parificazione del loro regime giuridico.
Nel diritto vigente l’estensione della garanzia della libertà sindacale agli imprenditori, e
di conseguenza della qualificazione come “sindacali” delle loro organizzazioni, può
trovare fondamento in:

• Convenzioni Internazionali -> che affermano eguale libertà e protezione


dall’interferenza dei pubblici poteri per le organizzazioni dei lavoratori e dei datori
di lavoro

• S. 1/1960 Corte Cost. e S. 29/1960 Corte Cost. —> che hanno ricondotto
all’art.39 c.1. la libertà di organizzazione e azione sindacale dei datori di lavoro

• Art.28 La Carta UE —> prevede per i lavoratori, per i datori di lavoro e per le loro
organizzazioni eguali diritti di negoziazione collettiva e di ricorso ad azioni collettive
per la difesa dei propri interessi in caso di conflitto.

2. Un’opinione contraria (meno diffusa e ormai superata): sostiene la non estensione


all’art.39.c1. Cost. ai datori di lavoro, affermava invece il carattere unilaterale della
garanzia costituzionale della libertà sindacale, facendo essenzialmente leva sulla
indubbia diversità, storica e fattuale, tra sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro.
La c ostruzione della libertà sindacale bilatera ha dalla sua dati normativi, non
contestabili, detti sopra.

Ovviamente dire che l’art.39.c1. estende anche ai datori di lavoro la libertà sindacale non
significa che le due categorie abbiano gli stessi diritti: lo Statuto dei Lavoratori nel
prevedere norme di sostegno dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro non prende
neanche in considerazione la libertà sindacale degli imprenditori., confermando che il
privilegio riservito ai sindacati dei lavoratori trova il proprio fondamento nel principio di
eguaglianza in senso sostanziale di cui all’art. 3 c.2. Cost.

Del tutto peculiare è la rappresentanza sindacale die darti di lavoro pubblici, istituita con
d.lgs. 29/1993 che prende il nome di ARAN (agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni): dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e
rappresa legalmente le pubbliche amministrazioni nella contrattazione collettiva di livello
nazionale.

La libertà sindacale dei lavoratori autonomi


Secondo l’interpretazione prevalente, che trova conforto nella giurisprudenza della Corte
Cost. In materia di sciopero, ai lavoratori autonomi definibili, in ragione della dipendenza
economica dal committente e dalle modalità di esecuzione della prestazione come
parasubordinati deve essere riconosciuta la libertà di organizzazione sindacale di cui
all’art.39, in sintonia con l’espansione del diritto del lavoro oltre la sfera del lavoro
subordinato.

La libertà sindacale dei pubblici dipendenti


Quanto ai pubblici dipendenti, se in un passato alquanto remoto era stata messa in
dubbio l’estensione ad essi della grazia di cui all’art.39, tale estensione non può più
essere messa in dubbio. Peraltro, con la privatizzazione dei pubblico impiego è stata
sancita la tutela della libertà sindacale die lavoratori pubblici nei modi previsti dallo St.Lav.

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I limiti alla libertà sindacale: militari e polizia di Stato


I soli limiti alla libertà sindacale nel nostro rodimento riguardano i militari e gli appartenenti
alla polizia di stato. Tali limiti sono ammesse dalle Convezioni internazionali richiamate
sopra.

1. Per quanto riguarda : militari di carriera —> l’art.1475 d.lgs. 66/2010 esclude che
possano aderire o costituire associazioni sindacali e che possano esercitare il
diritto allo sciopero. —> giustificazione di questo si ha in base alle funzioni e compitìni
che i militari di carriera sono chiamati a svolgere, che a loro volta avrebbero giustificato
una organizzazione gerarchica e una displica incompatibile con l’attività sindacale.

Ma: con la s.120/2018 (“storica”)-> la Corte Cost. Ha dichiarato l’illegittimità


costituzionale dell’art.1475 in quanto prevede che:

“I militari non possono costituire/aderire a associazioni professionali sindacali o aderire ad


altre associazioni sindacali”

invece di prevedere

“I militari possono costituire associazioni professionali sindacali alle condizioni e con i


limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali”
La Corte ha rivisto detto articolo sulla base di:

- art.11 CEDU ( libertà di associazione )

- art.14 CEDU (divietò di discriminazione)

- Art.5 Carta Sociale Europea

In quanto essi legittimano le restrizioni alla libertà sindacale dei militari ma non il divieto
di associarsi sindacalmente.

Resta invece fermo per i militari di aderire ad altre associazioni sindacali.

2. Per quanto riguarda la: Polizia di Stato, la sua smilitarizzazione ha portato ad opera
della L.121/1981 un affievolimento dei pesanti limiti alla libertà sindacale che gravavano
sugli appartenenti alla Polizia quando era ancora militare.

La liberalizzazione è stata tuttavia molto cauta: ai poliziotti è permesso costituire


associazioni sindacali o aderire a sindacati, ma questi ultimi devono essere formati, diretti
e rappresentanti esclusivamente da appartenenti alla polizia o in quiescenza; e questi
sindacati non possono aderire ad altre organizzazioni che rappresentano altri lavoratori.

Giustificazione di questa associazione sindacale separata:

Necessità di evitare che gli addetti alla tutela dell’ordine pubblico subiscano
condizionamenti politico-sindacali.

Vietato il ricorso allo sciopero.

La struttura organizzativa dei sindacati dei lavoratori


Anche in Italia il sindacato era nato come: organizzazione di mestiere, ma già all’inizio del
900’ molti sindacati si presentavano come organizzati per categoria—> cioè per ramo di
industria.

La struttura delle organizzazioni sindacali era già allora molto complessa.

Durante il periodo corporativo: la libertà sindacale venne soppressa e con essa il


pluralismo sindacale, la struttura organizzativa imposta dalla legge era articolata su due
soli livelli:

- Uno orizzontale -> intercategoriale : la Confederazione

- Uno verticale -> di categoria : la Federazione Nazionale (per ogni categoria era
riconosciuta una sola Federazione n. Di datori di lavoro e una sola per i lavoratori).

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Con il ritorno della libertà sindacale nel dopoguerra: è rinato anche il pluralismo sindacale,
che determina la presenza di più organizzazioni sindacali alle quali aderiscono, per libera
scelta e in ragione delle loro personali opinioni, i lavoratori occupati in un medesimo
settore produttivo.

La CGIL, l’UIL e la CISL (confederazioni) sono le 3 maggiori organizzazioni attualmente


presenti, e ad esse aderiscono per scelta volontaria molti milioni di lavoratori di tutte le
categorie dei settori dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, del settore pubico
centrale e locale.

La loro struttura organizzativa è complessa, distinguiamo:

• La linea di organizzazione orizzontale (intercategoriale) = si articola su 3 livelli:

- Struttura territoriale (provinciale): che per la:

1. CGIL sono le Camere del Lavoro

2. CISL sono le Unioni provinciali


3. UIL sono le Camere sindacali
- Struttura regionale (nella quale confluiscono le strutture territoriali)

- Struttura nazionale (nella quale confluiscono sia le strutture regionali sia le strutture
nazionali di categoria: Federazioni)

• La line di organizzazione verticale ( di categoria ) = si articola su 4 livelli:

- Struttura a livello del luogo di lavoro

- Struttura territoriale di categoria

- Struttura regionale di categoria

- Struttura nazionale di categoria (Federazione)

La organizzazione sindacale a struttura confederale non esaurisce il panorama dei modelli


organizzativi: il pluralismo sindacale si manifesta anzitutto nella presenza di una pluralità
di sigle sindacali, fino al limite della frammentazione presente in alcuni settori della
pubblica amministrazione dove si affolla un numero molto alto di sindacati, spesso
formato da un numero irrisorio di iscritti.

Il pluralismo si manifesta anche nella scelta di una struttura organizzativa legata alla
definizione dell’interesse collettivo tutelato, e dunque di un’area di rappresentanza
ristretta ad :

- Una attività professionale (es. piloti)

- Un settore specifico di attività (es. scuola, credito)

- Un preciso segmento di un’attività produttiva

Questi sindacati sono detti autonomi per distinguerli dai sindacati confederati. E questi
sindacati autonomi sono andati peraltro progressivamente a riunirsi in organizzazioni di
tipo confederale ( CISAL / CONFSAL / CISAS ) anche se conservano una connotazione
prevalentemente settoriale, che distingue queste nuove Confederazioni dalle altre 3
Confederazioni.

Inoltre, occorre ricordare che sono presenti organizzazioni sindacali caratterizzate d una
fluidità organizzativa che rende problematica la loro qualificazione come associazioni.

Inoltre, occorre ricordare che nel’UE opera la CES:

—> Confederazioni europea dei sindacati

—> costituita a Bruxelles nel 1973

—> a cui aderiscono la CISL / CGIL / UIL

Inoltre, CISL / CGIL / UIL aderiscono anche alla CIS -> Confederazione sindacale
internazionale, nota anche come : ITUC )

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Le organizzazioni dei datori di lavoro


A differenza dei sindacati dei lavoratori, i sindacati dei datori di lavoro non presentano
rilevanti divisioni su basi ideologiche.

Ad oggi il mondo delle organizzazioni datoriali si presenta disarticolato, a causa della


nascita di nuove associazioni, nate sia a seguito dell’uscita di grandi imprenditori da
associazioni storiche, sia autonomamente.

Nelle organizzazioni datoriali storiche: le strutture orizzontali ( territoriali e nazionali) hanno


ampie funzioni e un ruolo più importante di quelle verticali di categoria.

Le principali organizzazioni storiche sono:

- Nel settore del commercio —> CONFCOMMERCIO

- Nel settore agricolo —> CONFAGRICOLTURA

- Nel settore bancario —> ABI

- Nel settore assicurativo —> ANIA

- Le imprese cooperative —> ACI

- Le imprese dei servizi pubblici locali —> CONFSERVIZI

- Nel settore industriale —> CONFINDUSTRIA

É la maggiore organizzazione degli imprenditori industriali e non solo: sono associate ad


essa anche imprese private o privatizzate del terziario.

La struttura organizzativa di base è:

quella orizzontale territoriale (Associazione industriali provinciale) alla quale aderiscono


le imprese della provincia.

Le Associazioni provinciali si raggruppano a loro volta nelle Federazioni regionali

La struttura orizzontale di vertice è la Confederazione, nella quale confluiscono oltre le


strutture orizzontali provinciali e regionali anche le strutture nazionali

Merita segnalare che, in contrapposizione con quanto anticipato, nell’ultimo periodo si sta
sta sviluppando una tendenza alla ricomposizione della frammentazione organizzativa

A livello europeo gli imprenditori sono organizzati nella Business Europe e nella UAPME
(per le imprese di piccola e media dimensione) e nella CEEP (per i datori di lavoro
pubblici)

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RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITA’ SINDACALE


Il sindacato come associazione non riconosciuta
La libertà sancita dall’art.39.c.1 è di “organizzazione” e non di “associazione” sindacale:
l’uso del termine organizzazione sta ad indicare che la aggregazione sindacale di cui la
Costituzione tutela la libertà non debba necessariamente assumere la forma associativa.
Detto questo, però, il sindacato ha, per tradizione storica comune a tuti i paesi industriali,
la forma associativa, ma questo non è:

- nè sempre vero

- nè necessario

Non essendo mai stata emanata la legge di attuazione dei commi 2/3/4 nel nostro
ordinamento i sindaci non possono chiedere la “registrazione” e conseguire per questa
via la personalità giuridica prevista dalla Costituzione.

La mancanza di una disciplina legale speciale ha indotto gli interpreti a cercare nel diritto
comune (privato) le regole applicabili a questi soggetti:
cioè artt. 36/37/38 codice civile in base alle quali:
• quando sono organizzati in forma associativa i sindacati hanno allora soggettività
giuridica delle associazioni non riconosciute.

• in base a questi artt. l’ordinamento interno e la amministrazione dell’associazione


sono regolate dagli accordi degli associati

• l’associazione può stare in giudizio nella persona di coloro ai quali, è conferita la


presidenza

• l’associazione ha un fondo comune costituito:

- con i contributi degli associati

- con beni acquistati con tali contributi

• il fondo comune permane (non può essere diviso tra gli associati) fino allo scioglimento
della associazione

• Il fondo comune risponde delle obbligazioni della associazione, salva la responsabilità


personale e solidale delle persone che hanno agito in nome e per conto delle
associazione

L’associazione non riconosciuta: ha quindi una propria personalità giuridica autonoma


e distinta d quella degli associati in quanto ad essa sono imputabili rapporti giuridici.

Ciò che differenza l’associazione non riconosciuta da quella riconosciuta è

la diversa estensione della responsabilità per i debiti dell’associazione, in quanto:

- l’ass. riconosciuta -> gode di autonomia patrimoniale perfetta

- l’ass. non riconosciuta -> coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione
dell’associazione possono essere chiamati a rispondere personalmente e
illimitatamente.

La disciplina codicistica si preoccupa dell’affidabilità patrimoniale del gruppo, ma questa


è una delle ultime preoccupazioni degli interlocutori abituali del sindacato. La diversità del
sindacato rispetto le altre associazioni è tale rendere non praticabile la via del
riconoscimento giudicio ordinario; peraltro il riconoscimento delle associazioni (art. 12
codice civile) prevede un giudizio di merito sulle finalità e i mezzi utilizzati, che non appare
compatibile con la libertà sindacale, che impedisce l’intervento e il controllo del potere
politico sulla organizzazione interna al sindacato.

Distinguendo la libertà dell’organizzazione sindacale dalla libertà di associazione, la prima


è assoluta e non tollera i limiti che la Costituzione impone alla seconda.

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La pochezza della disciplina legale delle associazioni non riconosciute non esclude che
ad esse possano essere applicate in via analogica alcune disposizioni contenute negli
artt. 14-35 codice civile, in quanto riferibili al fenomeno associativo e non strettamente
connesse al riconoscimento giuridico dell’associazione. Questi articoli contengono regole
di democrazia interna dell’associazione, non derogabili dalla volontà degli associati.

Esempi:

Art. 24.c.2 —> l’associato può sempre recedere dalla associazione se non ha assunto
l’obbligo di farne parte per un tempo determinato

Art. 24 c.3 —> l’esclusione dell’associato non può essere deliberata dall’associazione che
per gravi motivi

L’estensione analogica delle disposizioni che abbiamo sopra citato implica che l’atto
costitutivo, lo statuto non sono le fonti esclusive dell’ordinamento intento
dell’associazione sindacale, che risulta invece regolato anche dalla legge. (p.117 ?)

Associazione sindacale e “categoria”


Per quanto nel linguaggio corrente si usi chiamare “sindaco di categoria” :

Il sindacato che definisce la propria area di rappresentanza per ramo di industria o settore
di attività, una delle maggiori implicazioni della qualificazione del sindacato come
associazione non riconosciuta è l’abbandono dell’idea che l’organizzazione sindacale
debba essere conforme a presunte categorie di datori di lavoro o di lavoratori esistenti in
natura e la cui naturale identità possa essere fissata d aleggi o dalle autorità.

Quindi: a differenza del periodo corporativo -> dove le categorie dei datori di lavoro o dei
lavoratori era predefinite e quindi preesistevano alle associazione rappresentative,

Nel diritto sindacale fondato sul principio della libertà sindacale -> il sindaco preesiste alla
categoria.

La “categoria” -> è:

- sindacale -> è il gruppo professionale che l’associazione rappresenta e del quale


persegue l’interesse collettivo

- contrattuale -> è il campo di applicazione del contratto collettivo (non c’entra è per distinguere i termini)

Alla luce del principio di libertà sindacale è dunque legittimo che sia considerato
categoria da una associazione sindacale quello che non è considerato categoria da
un’altra.

La rappresentanza negoziale del sindacato-associazione


Ora qualifichiamo il rapporto giuridico che intercorre tra l’associazione e i destinatari della
sua attività negoziale:

La dottrina ha qualificato questo rapporto facendo ricorso alla categoria privatistica della
“rappresentanza volontaria”-> cioè quel meccanismo giuridico mediante il quale la
volontà negoziale viene formata ed espressa da un
soggetto diverso da quello a cui sono
immediatamente imputabili gli eff. g. dell’atto compiut

Secondo questa ricostruzione: la legittimazione del potere dell’associazione di


rappresentare gli associati è fondata su di un atto volontario negoziale, cioè la
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adesione al sindacato -> essa è costitutiva del potere dell’associazione di


rappresentare nella negoziazione l’interesse collettivo
degli associati e di imputare loro gli effetti dei negozi posti
in essere.

Il fulcro di questa teoria della rappresentanza volontaria è la nozione di:

interesse collettivo —> sintesi e non somma di interessi individuali e come tale
indivisibile e diverso dall’interesse individuale degli associati.

—> è un interesse privato, in quanto non proprio di tutta la


collettività organizzata, ma di una collettività costituita su atto
volontario

Il cuore del problema della rappresentanza sindacale sta nel trovare una ragione giuridica
della subordinazione dell’autonomia individuale dei singoli iscritti all’autonomia del
sindacato (autonomia collettiva), spiegando perchè gli scritti sono vincolati dagli atti
compiuti dal sindacato (il contratto collettivo in primo luogo).

- la dottrina più risalente ha ravvisato il fondamento del potere negoziale del sindacato
nel: mandato di rappresentanza sindacale che ogni associato conferisce al sindaco al
momento della iscrizione. Spiegazione di tipo individualistico, nella misura in cui viene
ancora ricondotta alla volontà individuale la legittimazione del sindacato ad agire per
conto degli iscritti
- La dottrina meno remota ha ravvisato invece detto fondamento: nel contratto
associativo, cioè il contratto di adesione vincola l’aderente nei termini e nei modi
previsti dallo statuto del sindacato —> teoria nota come rappresentanza associativa
valorizza l’autonomia statuale dell’associazione rispetto alla volontà individuale degli
iscritti, spiegando cosi la prevalenza dell’interesse collettivo sull’interesse individuale

Dalla fine degli anni 60 del secolo scorso si sono fatte però strada nella elaborazione
della dottrina ricostruzioni del potere negoziale del sindacato che alla
rappresentanza volontaria non hanno più fatto riferimento:

—> il potere viene considerato come proprio del sindacato, cioè autonomo e non
fondato sul mandato degli iscritti.

—> l’interesse collettivo è definito come interesse proprio del sindacato, che esprime una
mediazione tra interessi diversi, che non sono solo e necessariamente gli interessi dei
suoi iscritti.

—> la rappresentanza sindacale non è più concepita come strettamente associativa, am


come rappresentanza tendenzialmente generale, estesa cioè anche al di fuori della
cerchia degli iscritti.

Il progressivo superamento della visione individualistica del sindaco è stato sicuramente il


risultato anche di vicende sindaci della fine degli anni 60:

1. Sono emerse in quegli anni forme non associative di rappresentanza generale di


lavoratori (consigli di fabbrica) per la comprensioni delle quali le categorie civilistiche
dell’associazione e del mandato con rappresentanza parevano ormai inadeguate.

2. La concezione puramente associativa del sindacato era stata abbandonata

3. Successo della teoria dell’ordinamento intersindacale ha reso reso evidente


l’inadeguatezza degli schemi civilistici alla comprensione della complessità della
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organizzazione sindacale, della sua dimensione collettiva, della sua autonomia,


dell’estensione di fatto del potere negoziale dei sindaci verso i non iscritti.

4. L’intervento della legge fu la spinta decisiva: già lo Statuto dei Lavoratori e la


legislazione del lavoro successiva hanno indotto un settore consistente nella dottrina
a concentrare l’attenzione sulla: rappresentatività sindacale -> concetto che a a
partire dalla metà degli anni 70 tende a sostituire, negli studi di diritto sindacale, quello
di rappresentanza sindacale.

Questo importante passaggio teorico che coglie il carattere strutturale collettivo ( non
individualistico ) del sindacato, ha aperto la strada alla ricerca di nuove basi giuridiche del
potere negoziale dei sindacati: potere che nella prassi appare più vicino agli schemi della
rappresentanza politica che a quello della rappresentanza volontaria associativa di diritto
privato.

La rappresentatività sindacale
RAPPRESENTATIVITÀ —> non coincide con rappresentanza

—> è un criterio di qualificazione o di selezione del soggetto


legittimato a fare qualcosa perchè sa, o si presume che
sappia, farlo meglio degli altri. Nel nostro caso sa o si presume
che sappia sviluppare una azione di tutela caratterizzata da un
apprezzabile tasso di effettività a favore della totalità degli
interessi anche di quelli riferibili a coloro che non sono
rappresentati secondo le regole di diritto civile.

—> seleziona un soggetto collettivo e lo legittima all’esercizio di


un’attività

—> è un concetto pregiudico o sociologico: si dice


rappresentativo il sindacato capace di dare effettiva tutela agli
interessi collettivi che assume di rappresentare

—> è un concetto giuridico: nel momento in cui la legge dello


Stato affida alla rappresentatività la funzione di qualificare e
selezionare i soggetti collettivi; e la selezione opera in un
contesto di concorrenza tra sindaci diversi per ispirazione e
capacità di aggregare il consenso

Il concetto giuridico di rappresentatività e quello di maggiore rappresentatività non erano


sconosciuti al nostro diritto sindacale post-costituzionale. La legge faceva talora
rifermentò alla maggiore rappresentatività per selezionare i sindacati a fini di
partecipazione a organi amministrativi e internazionali, ma la dottrina non collegava la
selezione dei sindacati rappresentativi con l’attività di negoziazione collettiva, e dunque
non collegava la rappresentatività alla rappresentanza sindacale.

Il collegamento non emergeva neppure nelle prime ricostruzioni del concetto di maggiore
rappresentatività proposte dagli interpreti a ridosso dell’entrata in vigore dello Statuto dei
lavoratori, dove la maggiore rappresentatività era utilizzata dall’art.19 per qualificare e
selezionare i sindaci nel cui ambito potevano essere costituite le rappresentanze sindacali
aziendali (RSA).

Il collegamento tra maggiore rappresentatività e rappresentanza negoziale è emerso


invece nel colmo della stagione detta: della legislazione dell’emergenza, che non si
limitava più, come avveniva nello Statuto dei Lavoratori a dare sostegno legale ai
sindacati maggiormente rappresentativi (s.m.r), la legge chiamava ora i s.m.r. a gestire
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la crisi economica, devolvendo loro la funzione normativa di derogare, mediante il


contratto collettivo, a talune disposizioni di legge, riducendo per questa via i livelli di
tutela dei lavoratori.

L’obiettivo era di dare ai contratti collettivi stipulati dai s.m.r efficacia erga omnes:
un’efficacia generale che non poteva certo trovare fondamento nella costituzione della
rappresentanza negoziale del sindacato come rappresentanza volontaria

Entrata in crisi la tradizionale ricostruzione della rappresentanza sindacale in chiave di


rappresentanza civilistica, il diritto sindacale appariva ora caratterizzato dalla
compenetrazione tra l’ordinamento dello Stato e l’ordinamento sindacale —> invadenza
dello Stato nell’autonomia privata piuttosto che simmetria tra due ordinamenti autonomi e
paritetici.

In questa compenetrazione, o meglio invasione, dell’autonomia privata da parte della


legge dello Stato, la rappresentanza sindacale era sostituita dalla maggiore
rappresentatività.

La legislazione del periodo identificava i s.m.r. nelle 3 Confederazioni maggiori,


presumendone la rappresentatività, ma non imponendo verifiche della consistenza del
consenso di cui effettivamente godevano.

L’obiettivo della sostituzione della rappresentanza sindacale negoziale di natura


privatistica con la rappresentatività era essenzialmente l’attribuzione di officia erga omnes
hai contratti collettivi, ai quali la legge devolveva la funzione di introdurre deroghe che in
peggio (pejus) alla legge, ma che erano stipulati dai s.m.r. al di fuori delle procedure
previste dall’inattuato art.39.c.4.

L’obiettivo dell’efficacia generale (erga omnes) per quanto di primaria importanza, non
poteva pero essere centrato —> la ragione fondamentale è che la formula del s.m.r. era
destinata a conoscere un lento declino, a fronte della crescente frammentazione e
complessità che avrebbe dovuto esprimere. La maggiore rappresentatività è stata
ancora un criterio di selezione e qualificazione dei soggetti collettivi, largamente
utilizzato dalla legge; ciò che invece a partire dagli anni 90 tende progressivamente a
scomparire è la presunzione di maggiore rappresentatività, che aveva fatto delle 3
maggiori Confederazioni i s.m.r. per antonomasia.

Il sindacato maggiormente rappresentativo: criteri di


valutazione della rappresentatività
Al fine di selezionare i sindacati in ragione della loro maggiore rappresentatività il
legislatore ha utilizzato formulazioni diverse, variabili nel tempo.

La formulazione che avuto maggior successo è quella che ha fatto la sua comparsa
ufficiale nell’art. 19 St. Lav., dove il legislatore prevedeva che le rappresentanze sindacali
aziendali (titolari dei diritti sindacali di cui al titolo III della stessa legge) fossero costituite
nell’ambito delle associazioni aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative
sul piano nazionale.

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Le confederazioni maggiormente rappresentative


La scelta del legislatore dello Statuto si basava sulla storica rappresentatività delle
maggiori confederazioni sindacali: era una era una presunzione di rappresentatività
fondata:

- da un lato dall’esperienza

- dall’altro era anche una scelta politica -> quella di privilegiare le organizzazioni
sindacali di più ampie dimensioni, capaci di compensare i diverso egoismi di settore.

L’art.19 St.l è stato modificato, e la modificata ha fatto venire meno proprio la scelta a
favore delle Confederazioni maggiormente rappresentative; nella legislazione sia coeva
sia posteriore allo Statuto, tuttavia questa scelta è ancora largamente presente, anche se
attualmente il legislatore ha dimostrato una preferenza per altri criteri selettivi, che alle
Confederazioni non fanno più riferimento. Ciò rende necessario interrogarsi sul significato
dell’espressione “Confederazioni maggiormente rappresentative”.

L’ interpretazione di questa espressione ha sub tuo una trasformazione che trova


riscontro nei diversi orientamenti della giurisprudenza, sia di legittimità sia di merito, che
vanno di pari passo con il progressivo declino della presunzione di rappresentatività delle
Confederazioni.

1. La corte costituzionale con la s. 54/1974 aveva precisato come il cirteiro della


maggiore rappresentatività non si riferisce a duna comparazione tra le varie
Confederazioni nazionali, che avrebbe comportato la necessità di pesarne il numero
degli iscritti, bensì ad una effettività, cioè ad una differenza effettivamente esistente, e
sempre verificabile, della capacità rappresentativa di alcune organizzazioni rispetto ad
altre.

2. Sulla scorta dell’indicazione della s. 54/1974, la cassazione in primo tempo aveva


fissato il criterio per individuare le organizzazioni maggiormente rappresentative nella:
equilibrata consistenza su tutto l’arco della categorie e la diffusione
dell’organizzazione su tutto il territorio nazionale.

3. La stessa Cassazione ha provveduto a un temperamento del criterio appena citato,


con la s. 1320/1986: la effettiva diffusione su parte soltanto del territorio nazionale
può essere ritenuta sufficiente, cosi la presenza della organizzazione in certe categorie
ma non in altre.

4. Viene inoltre valorizzato come indice di rappresentatività, il criterio della


partecipazione alle trattative e alla stipulazione dei c.c.n.

Insomma, le maglie si sono allargante, consentendo di qualificare come Confederazioni


maggiormente rappresentative anche organizzazioni sindacali che pur avendo una certa
consistenza organizzativa, non appartengono al gruppo ristretto delle Confederazioni che
aggregano grandi masse di lavoratori di tutte le categorie.

Restano fuori i sindacati monocategoriali: il carattere intercategoriale della


Confederazione non appare infatti superabile.

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Un contributo notevole al progressivo allentamento del rigore interpretativo lo fornì lo


stesso legislatore con la L. 902/1977 -> il cui oggetto era la ripartizione del patrimonio
residuo delle disciolte organizzazioni sindacali fasciste tra le organizzazioni sindacali
presenti al momento dell’entrata in vigore della legge. La legge attribuiva il 93% del
patrimonio alle organizzazioni sindacali indicate in una specifica tabella, mentre il restante
7% era attribuito alle Confederazioni e associazioni nazionali che risputassero
“maggiormente rappresentative” tenuto conto:

- Della consistenza numerica

- Dell’ampiezza delle strutture organizzative

- Della diffusione delle strutture organizzative

- Della loro partecipazione alla contrattazione collettiva

- Della loro presenza nel conflitto

La legge aveva cosi dettato dei criteri per definire la “maggiore rappresentatività” ->
restava solo di capire se quei criteri servivano solo per distribuire il patrimonio o se
avevano una portata generale che doveva guidare l’interpretazione di altre leggi. Le
opinioni in merito erano divergenti.

La Cassazione ha finito per ritenere non decisiva, ai fini della valutazione della maggiore
rappresentatività di un sindacato l’inclusione nella tabella, dovendosi in ogni caso
verificare se i requisiti della maggiore rappresentatività si fossero mantenuti nel tempo e
fossero presenti nel momento in cui il giudice effettua la valutazione. ( s.1320/1986 )

I sindacati comparativamente più rappresentativi


A partire dalla L. 549/1995, il legislatore utilizza un nuovo criterio di selezione, che da
allora tende progressivamente a sostituire, nella legislazione, quello della maggiore
rappresentatività: il criterio è quello dei:

“sindacati comparativamente più rappresentativi”


-> in generale sul piano nazionale

-> la formula fa riferimento alla contrattazione collettiva nazionale di categoria

-> detto anche: criterio della maggiore rappresentatività comparativa

-> funziona di selezionare, in presenza di più contratti collettivi, il contratto al quale la


legge intendeva collegare determinati effetti (es. la retribuzione base per il calcolo dei
contributi previdenziali)

-> parametro utilizzato, allo stato, di più dal legislatore

Da qui il criterio è passato ad altre leggi, nelle quali ai contratti stipulati dai sindacati
comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale è affidata la funzione di
integrare o modificare la regolamentazione posta dalla legge. Quindi la funzione del
criterio di maggiore rappresentatività comparativa continua ad essere essenzialmente
quella di individuare il contratto collettivo autorizzato dalla legge ad introdurre integrazioni
o deroghe alla disciplina legale, o a sostituirsi ad essa.

Di ciò si trova conferma nell’:

art.51 d.lgs. 81/2015 (“nuova disciplina organica dei contratti di lavoro”),

—> dove il legislatore ha specificato che i contratti collettivi ai quali fa rinvio sono i
“contratti collettivi nazionali, territoriali, o aziendali stipulati da associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali
stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o dalla rappresentanza sindacale
unitaria”

—> ha assunto una funzione definitoria di carattere generale

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Quali parametri possono essere utilizzati ai fini di una valutazione che deve essere appunto
“comparativa”?
- si tratta di una valutazione che guarda al livello nazionale della categoria ( e non a
quello pluricategoriale) -> di conseguenza alcuni parametri utilizzati per valutare la
rappresentatività delle Confederazioni non risultano più idonei.

- I parametri individuati rispetto al criterio delle confederazioni maggiormente


rappresentative si riferivano a valutazioni di tipo non comparativo, e non sono idonei a
pesare la rappresentatività, cioè a dirci quale sindacato abbia maggiore capacità di un
altro di sviluppare quell’azione di tutela
(per maggiore rappresentatività si intendeva effettiva rappresentatività -> cioè la
capacità di sviluppare una azione di tutela caratterizzata da un apprezzabile tasso di
effettivà a favore della totalità degli interessi dei lavoratori)

Però il legislatore non fornisce nuovi criteri di valutazione, nonostante appunto quelli della
maggiore rappresentatività siano inutilizzabili, in quanto la valutazione comparativa, che
impone appunto di “pesare” la rappresentatività, non può basarsi su presunzioni e fattori
notori, ma deve fare ricorso più che altro ai numeri; ma la domanda è su quali numeri
debba basarsi il giudizio…? —> questo cirteiro non è in grado di dare risposte appaganti
a questa domanda, in quanto lo potrebbe fare solo una disciplina legale che fornisse
strumenti anche minimaliste consentirebbero di valutare tale rappresentatività.

Il problema è che il legislatore non ha indicato criteri, manca infatti una disciplina
legislativa della rappresentatività sindacale nel settore privato. Una disciplina esiste ma
nel settore pubblico fin dal 1997. ( parte V )

Discipline contrattuali della rappresentatività sindacale


Se la legge continua a tacere, le parti sociali ( Confindustria, CGIL, CISL, UIL) hanno
tentato di riempire il vuoto normativo con proprie discipline contrattuali:

si tratta di quell’insieme di Accordi Interconfederali, culminati con:

- il T.U. sulla rappresentanza del 2014

- le linee programmatiche enunciate nel “Patto di Fabbrica” del 9 marzo 2018

In materia di rappresentatività sindacale le parti hanno adottato un modello che in parte


ricalca quello in vigore nel settore pubblico, adeguandolo alle caratteristiche del privato.

Per quanto riguarda la stipulazione del contratto collettivo nazionale di categoria (CCNL)
le parti hanno fissato una soglia minima di rappresentatività sindacale nel settore o
comparto non inferiore al 5% —> il raggiungimento della soglia era necessario per
sedere al tavolo della contrattazione collettiva
nazionale
—> si tratta di una regola convenzionale di accreditamento reciproco

—> significa, in sostanza, che es. Confindustria si impegna a non negoziare i contratti
nazionali con sindacati che non raggiungono questa soglia di rappresentatività

—> il sistema è “aperto” verso i sindaci terzi che, pur non avendo sottoscritto il T.U.
avranno diritto a partecipare alle trattative per il rinnovo del contratto nazionale ove
raggiungano la soglia di rappresentatività del 5%

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Per quanto riguarda invece la regola che attiene al modo di calcolare o pesare la
rappresentatività, le parti, ispirandosi al modello in vigore nel settore pubblico, hanno
concluso che:

La rappresentatività sindacale, cioè il livello di consenso di cui il sindacato gode


nell’ambito della categoria cui si applica il contratto collettivo, è calcolata mediante la
ponderazione (media semplice) tra:
i dati associativi (numero di iscritti) e dati elettorali (numero di voti raccolti nella elezione
delle rappresentanze sindacali unitarie)

Già con l’Accordo del 28 giugno 2011 e specialmente con i due accordi successivi, il
Protocollo del 2013 e nel T.U. della rappresentanza del 2014, le parti sociali hanno dunque
concordato regole che consentono di “pesare” la rappresentatività dei sindacati,
fissando, come sopra scritto, una soglia minima di rappresentatività sotto la quale i
sindaco non sono ammessi al tavolo della contrattazione nazionale.

Mentre con il Patto della fabbrica del 2018 viene stabilita l’estensione del criterio della
maggiore rappresentatività comparativa alle organizzazioni dei datori di lavoro ai fini di
accesso alla contrattazione collettiva nazionale di categoria e di efficacia del contratto
collettivo nazionale di categoria e di efficacia del contratto collettivo. Il percorso per la
misurazione e la certificazione della rappresentatività sono ancora da definire.

É bene sottolineare, che questo è avvenuto sul piano della contrattazione tra le parti
sociali, in quanto il legislatore non ne ha ancora tenuto conto.

Resta, vigente l’art.8 della L.148/2011 che fa generico riferimento ad “associazioni dei
lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”; la
genericità del criterio segna un decisivo passo indietro rispetto a quando previsto
dall’Accordo interconfederale del 28 giungo 2011 e appare oggi difficile da combinare
con le regole autonomamente definite dalle parti sociali negli accordi successivi.

L’art. 8 non si occupa della stipulazione dei contratti nazionali, perchè l’obiettivo del
legislatore è quello di garantire efficacia generale ad accordi aziendali che derogano
(anche in pejus) ai contratti collettivi nazionali (ma anche alla legge)

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L’ORGANIZZAZIONE SINDACALE NEI LUOGHI DI LAVORO


Sezione I: Le rappresentanze sindacali dei lavoratori

La rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro

A) LE COMMISSIONI INTERNE

Analizziamo 4 accordi che hanno loro come oggetto:

1. Le Commissioni interne di fabbrica (CI) furono istituite con:


l’accordo Buozzi-Mazzini del 2 settembre del 1943 —> che non potè però essere
applicato dopo l’8 settembre dello stesso anno a causa degli eventi bellici.

2. Conclusa la guerra, la prima disciplina organica delle CI si ebbe con:


l’Accordo interconfederale del 7 agosto 1947 :

- stipulato tra: CGIL (ancora unitaria) e CONFINDUSTRIA

- accordo di natura di contratto collettivo di diritto comune, quindi privo di efficacia


generale e campo di applicazione limitato solo al settore industriale

L’accordo prevede che, per quanto riguarda le CI:


- in tutte le imprese con almeno 25 dipendenti fosse eletta una CI a:

• scrutinio segreto

• suffragio universale

- l’elezione avveniva su liste sindacali contrapposte con voto di preferenza

- La ripartizione dei seggi avveniva con metodo proporzionale

- Quindi, la CI era un organo elettivo perciò rappresentativo di tutti i lavoratori

- La Ci restava in carica per 2 anni

- L’attività della CI deve essere ispirata alla collaborazione con il datore di lavoro

- La Ci avesse funzioni:

• Propositive

• Consultive

• Conciliative

• Competenza a svolgere la procedura consultiva preliminare sulle riduzione del


personale

• Di controllo preventivo sulla motivazione dei licenziamenti individuali —> all’epoca


la materia dei licenziamenti era ancora regolata dai soli artt. 2118 e 21119 c.c. .
Alla vigilia della stipulazione dell’accordo interconfederale del 1947 sulle CI era
scaduto il blocco dei licenziamenti; l’accordo introdusse la prima disciplina
convenzionale dei licenziamenti individuali e collettivi per riduzione del personale

- Il punto debole e anche opero punto chiave della disciplina era rappresentato
dall’espressa esclusione delle CI dalla competenza contrattuale a livello di azienda,
riservata alle organizzazioni sindacali territoriali —> CGIL e CONFINDUSTRIA si
erano dunque accordate per escludere implicitamente la natura sindacale in senso
stretto di questo organismo rappresentativo
—> un organismo rappresentativo direttamente velettò dai lavoratori nei luoghi di
lavoro, non significava ancora la creazione di uno spazio giuridico e politico per la
presenza del sindaco in fabbrica, ma certo restituiva ai lavoratori almeno di uno
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strumento indispensabile di aggregazione.


—> all’epoca la CGIL unitaria non era certo preparata ad affrontare il decentramento
contrattuale: ancora per molto tempo, fino agli inizi degli anni 60, la contrattazione
collettiva rimase pressoché integralmente centralizzata a livello nazionale

3. Il successivo accordo interconfederale sulle CI venne stipulato nel 1953, caratterizzato


da:

- differenza rispetto a quello del 1947 stava nel fatto che in questo successivo
pesavano le conseguenze negative della scissione della CGIL unitaria e della
concorrenza conflittuale tra le Confederazioni

- Anche il clima politico era assai diverso, e nelle fabbriche la discriminazione dei
lavoratori iscritti e militanti della CGIL era molto pesante

- accordo che depotenziava il ruolo delle CI

- Gia dal 1950, e quindi di conseguenza anche testo accordo ne era privo, era stata
soppressa la competenza delle CI in materia di licenziamenti individuali e collettivi

- Confermava la esclusione delle CI dalla contrattazione aziendale, per il resto le


funzioni erano le medesime

4. L’ultimo accordo interconfederale sulle CI venne stipulato nel 1966, caratterizzato da:

- contenuti uguali a quello del 1953

- l’esclusione della competenza contrattuale era però rafforzata dalla previsione, nei
contratti collettivi stipulati nella stagione 62-63, della riserva della competenza in
materia di contrattazione aziendale a favore dei sindacati provinciali

Quindi: mai regolate dalla legge le CI hanno vissuto fino all’entrata in vigore dello ST. LAV.
e anche oltre, ma fin da subito era apparso evidente che i profondi mutamenti intervenuti
negli anni precedenti all’emanazione dello Statuto avrebbero determinato la rapida
obsolescenza di organismi rappresentativi non più in grado di gestire la conflittualità
aziendale di quei tempi.

B) LE SEZIONI SINDACALI AZIENDALI (SAS)

Non riempirono il vuoto di rappresentanza sindacale dei lavoratori nelle aziende neppure
le sanzioni sindacali aziendali (SAS) nate per iniziativa della CISL, e poi adottate anche
dalla CGIL.

Le SAS —> nucleo elementare del sistema organizzativo e anello di congiunzione tra
movimento sindacale e vita aziendale

—> la realtà restava però al di sotto delle parole: il potere contrattuale in azienda
era infatti ancora affidato al sindacato provinciale di categoria

—> concepite come alternativa alle CI e in posizione di supremazia rispetto ad


esse, non riuscirono mai a raggiungere questo obiettivo = l’istituzione delle
SAS difiniva in fatti per rafforzare il potere contrattuale del sindaco di
categoria estenso all’azienda

La CSIL —> aveva fin dalle sue origini teorizzato il superamento della contrattazione
collettiva nazionale esclusiva e la necessità di un sistema contrattuale
articolato su più livelli; la teoria dell’articolazione contrattuale necessitava
essere completata dalla presenza del sindacato in azienda.

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La CGIL —> il suo atteggiamento inizialmente negativo comincio a modificarsi dagli anni
1955-1956: passando cosi da un atteggiamento di totale preclusione verso
la formazione di una struttura del sindacato in azienda, alla proposta di
creare sezioni sindacali di fabbrica, alle quali affidare tutti i compiti del
sindacato di azienda.

—> faceva pero eccezione il potere contrattuale che, anche per la CGIL, doveva
rimanere prerogativa esclusiva del sindacato territoriale di categoria = con
ciò la CGIL ribadiva la sua avversione verso i sindacati di azienda.

Ne CISL, ne CGIL fecero mai un vero tentativo per avviare l’effettivo intervento delle SAS
nella contrattazione aziendale, e neppure avanzarono mai richiede alla controparte
sartoriale di conoscere formalmente le SAS

C) DELEGATI E CONSIGLI DI FABBRICA

Come abbiamo visto a pagina 27, in quella fase detta: “dal maggio francese all’autunno
caldo”, ci furono varie lotte e accordi da cui scaturì una nuova forma di rappresentanza
dei lavoratori:

- i delegati -> di linea, di reparto, di gruppo omogeneo


- Consigli di Fabbrica (CdF), anche detti: Consigli unitari dei delegati (CUD)

Una prima realizzazione erano stati i delegati di cottimo -> funzioni tecniche di controllo
sull’organizzazione del lavoro e di ausilio alla attività delle CI

Tra il 1968/69 —> i delegati vennero proposti come rappresentanti dei lavoratori in
sostituzione della CI

Tra il 1970/72 —> i delegati di reparto e di gruppo omogeneo si costruirono in CdF, che si
diffusero prima nel settore industriale e dopo anche in altri settori con il
Patto Federativo del 1972

- Stipulato da CGIL,UIL e CISL

- In esso le Confederazioni individuarono nel CdF l’istanza sindacale unitaria di base con poteri di
contrattazione nei luoghi di lavoro.

- In base ad esso alla formazione del CdF dovevano concorrere sia:

• I lavoratori non iscritti alle 3 confederazioni che per loro libera scelta intendano parteciparvi

• I lavoratori iscritti alle 3 confederazioni che per loro libera scelta intendano parteciparvi

- in ogni caso doveva essere però assicurata la rappresentanza della Federazione delle
Confederazioni —> quindi il sistema elettorale prevedeva che nel Consiglio una parte dei seggi
fosse necessariamente riservata a lavoratori iscritti scelti dalla Confederazioni come propri
rappresentanti

- Fa del Consiglio un organo bifronte: in parte espressione diretta dei lavoratori, e in parte
espressione diretta del sindacato

- Comunque non rappresentò una disciplina generale del sistema elettorale e delle competenze del
CdF -> e anche questo può essere messo nel conto del declino deo CdF degli anni 80, che vide

Dal punto di vista giuridico, la vicenda dei CdF si è intrecciata per molti anni con quella
delle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) previste dall’art 19 St.Lav.

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Le rappresentanze sindacali aziendali (RSA).


Gli artt. 14 e 19 St.Lav: due livelli di garanzia dei diritti sindacali

Art. 14.
Diritto di associazione e di attività sindacale.

“Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività


sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro.”

Insieme agli artt. 15,16,17 questa disposizione costituisce innanzitutto una più articolata e
approfondita rilettura, sul piano aziendale, del principio stesso di libertà
dell’organizzazione sindacale, sancito dall’art.39 c.1. Cost.

L’art.14 ha dunque la funzione di: garantire, in termini generali, la titolarità individuale dei
diritti di libertà e attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro. La garanzia si estende
alla costituzione di rappresentanze di sindacati ovvero alla creazione di sindacati aziendali
nuovi, con l’unico limite rappresentato dal divieto di cui all’art.17 St.Lav riguardante i
sindacati di comodo.

L’art.14 tutela inoltre: sempre in termini generali, tutte le forme di organizzazione e di


aggregazione sindacale che concretamente possono manifestarsi nei luoghi di lavoro:
organizzazione in forma associativa, all’interno dello schema delicato dall’art.19 St.Lav. ,
ma anche al di fuori di tale schema.

Il suo ruolo è stato messo in evidenza dalla sentenza della corte costituzionale: s.54/1974.
Nella quale la corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale
dell’art.19 St.Lav.
Ad avviso della Corte, l’art.14 garantisce a tutti i lavoratori, in conformità al precetto di cui
all’art.39 Cost., il diritto di organizzarsi liberamente e di svolgere attorta sindacale
all’interno dei luoghi di lavoro.

L’art.14 svolge il ruolo di pilastro di sostegno della disposizione nella quale sono
regolate: le RSA —> rappresentanze sindacali aziendali —> Art 19 St.Lav.

Rappresentanze delle quali la legge non definisce la struttura, selezionando però le


associazioni sindacali nell’ambito delle quali le RSA possono essere costituite ad iniziativa
dei lavoratori, secondo criteri di rappresentatività.

Originaria formulazione articolo 19 St.Lav. : (la b è l’alternativa ad a)

Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei


lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito:

a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative


sul piano nazionale;

b) delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o


provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.
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Cosi facendo il legislatore dello Statuto si opponeva obiettivi di carattere: promozionale,


cioè di promozione di rappresentanze sindacali dei lavoratori qualificate dalla
rappresentatività dei sindacati che ne costituivano il riferimento all’esterno dei luoghi di
lavoro.
Il trattamento privilegiato riservato dal legislatore alle confederazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale, poneva interrogativi in ordine all’eventuale violazione
dei principi di eguaglianza e libertà sindacale (artt. 3 e 39 cost.).

La Corte Costituzionale chiamata rispondere ai molti interrogativi sollevati si era


pronunciata per la prima volta sulla legittimità costituzionale dell’art.19 nel 1974 con:

La Sentenza 54/1974:
- con essa la corte afferma la piena legittimità dei criteri selettivi dell’art.19 let. a) e b)

- La corte aveva respinto le eccezioni sollevate con motivazioni che all’epoca fecero
discutere:

• con il criterio di cui alla lett. a) = la corte specifica che il legislatore ha indicato un
criterio valutativo, la cui esistenza può essere verificata in ogni momento. Il criterio
non si riferisce infatti ad una comparazione fra le varie Confederazioni nazionali,
bensì ad una effettività che può essere sempre conseguita da Confederazione
nazionale. Secondo la Corte la legge aveva preso atto di una differenza
effettivamente esistente, e sempre verificabile, e aveva differenziato il trattamento in
ragione di tale effettiva differenza.

• con il criterio di cui alla lettera b) = questo era basato, ad avviso della corte sul
riferimento oggettivo e preciso ad un fatto specifico 8 la firma del c.c.n. o
provinciale) la cui realizzazione è aperta ad ogni singola associazione sindacale

- La Corte quindi aveva concluso, indicando questi criteri che il legislatore non ha violato
i principi di eguaglianza (art.3 Cost.) e di libertà sindacale (art.39 cost.), perché non ha
operato alcuna discriminazione fra le associazioni sindacali: infatti, i requisiti di
rappresentatività di cui al primo e al secondo criterio sono sempre direttamente
conseguibili da ogni associazione sindacale

- La Corte, con questa sentenza, aveva avallato (sostenuto) il privilegio che il legislatore
aveva assicurato ai sindacati presenti a livello extra-aziendale, e il contestuale disfavore
verso i sindacati presenti a livello extra-aziendale

Ma questa prima acquisizione non esaurita le possibili eccezioni di legittimità


costituzionale, che la Corte ha affrontato in altre due sentenze:

La Sentenza 334/1988:

- riporta l’attenzione sul criterio di cui alla lett. a), nel quale la legge riferiva la
rappresentatività non alla consistenza del sindacato nell’ambito della categoria (come
prevede invece l’art.39 c.4 cost.), ma nell’ambito confederale, cioè nell’ambito
dell’insieme delle categorie.
—> L’occasione era rappresentata dal rifiuto opposto da un’impresa alla costituzione di
una RSA nell’ambito del “sindacato nazionale dei quadri” (sindaco monocategoriale e
non firmatario del contratto collettivo nazionale o provinciale applicato nell’unità
produttiva)

- La Corte aveva affermato che la scelta del legislatore a favore delle Confederazioni
corrispondeva ad una precisa opzione a favore di un processo di aggregazione degli
interessi dei vari gruppi professionali, anche al fine di ricomporre le spinte
particolaristiche e di raccordare la tutela dei lavoratori occupati con quella dei non
occupato, coerentemente, peraltro, sulla spinta dell’intera Carta Costituzionale.
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—> la valorizzazione della solidarietà, che è propria del modello confederale


dell’organizzazione sindacale privilegiato dall’art.19 St.lav., non esclude, ad avviso della
corte, che nella realtà possano verificarsi delle differenziazioni tra gli interessi delle
varie categorie di lavoratori, e che da tali realtà scaturiranno diversi modelli di
organizzazione sindacale: ma allora occorre questi sindacati di categoria (ovvero
rappresentativi di una particolare figura professionale, come nel caso dei quadri) siano
in grado di esprimere un livello di rappresentatività che si traduca in quell’effettivo
potere contrattuale, cui fa riferimento il criterio di cui alla lett. b).
- Con questa sentenza, che contiene una strenua difesa del sindacalismo confederale, la
Corte Costituzionale aveva evitato di prende in considerazione la ormai evidente crisi di
rappresentatività delle 3 maggiori confederazioni

La Sentenza 30/1990:
- salva ancora una volta la legittimità costituzionale dell’art.19

- Ma la corte questa volta finiva per rimettere in discussione la razionalità e la


ragionevolezza su cui aveva fondato il giudizio nel 1974

- All’origine di questo internet stavano due sentenze della Corte di Cassazione, che
avevano dichiarato nulli, per violazione dell’art.17 St.Lav., gli accordi con i quali alcuni
sindacati, privi dei requisiti di cui alla lettera a) e b) dell’art.19, avevano ottenuto dalle
imprese il riconoscimento delle prerogative proprie delle RSA (nel caso specifico:
permessi sindacali retribuiti)
—> la Corte Costituzionale escludeva che un accordo di tale genere implicasse
necessariamente la natura di comodo del sindacato, MA affermava, tuttavia, che tale
accordo costituisce una deroga ai criteri inderogabili dell’art.19 St.Lav.

La deroga, affermava la Corte, potrebbe consentire all’imprenditore di confluire sulla


libera dialettica sindacale in azienda favorendo le organizzazioni sindacali a lui più
gradite

- il punto è: la Corte si diceva “consapevole” del fatto che, a causa delle trasformazioni
verificatesi e le diversificazioni degli interessi è andata progressivamente attenuandosi
l’idoneità del modello disegnato nell’art.19 a rispecchiare l’effettiva rappresentatività
dei sindacati

- Non è questione, aggiungeva la corte, di interpreta in senso evolutivo l’art.19,


ammettendo che i criteri selettivi legali possano essere derogati con accordi, MA:
occorre scrivere nuove regole, che consentano di verifiche l’effettiva rappresentatività
dei sindacati di cui alle lettere a) e b) non più sulla base di presunzioni ma sulla base del
reale consenso dei lavoratori, e di allargare il sostegno legislativo ad altri sindaci che
abbiano conquistato un effettivo consenso tra i lavoratori; quindi una richiesta di criteri
di rappresentatività effettiva, democraticamente verificabile.

Cosi la corte alludeva alla costituzione di RSA su base elettiva, sollecitando il


Parlamento ad intraprendere al più presto una riforma in tal senso dell’art. 19.
Progetti di legge sono stati presentanti negli anni 90’, ma non andarono a buon fine
(suggerimento che pero non è stato fin ora mai accolto dal legislatore, infatti l’art.
venne modificato in un altro modo)
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La riforma delle RSA mediante referendum. Il nuovo art.19

Nel 1994 erano stati promossi alcuni referendum abrogativi sull’art.19 e sull’art.26 St.Lav.

Di quelli proposti sull’art.19, la Corte Costituzionale ne ammise 2:

1. Mirava a cancellare , insieme al privilegio accordato dalla legge alle confederazioni


maggiormente rappresentative, anche ogni altro criterio di selezione
—> abrogazione let. a) e b)
2. Mirava a cancellare il privilegio accordato alle Confederazioni —> abrogazione let. a)
Ma, proponeva di affidare la selezione dei sindacati, nel cui ambito è legittima la
costituzione delle RSA, a criteri diversi da quello della rappresentatività “presunta”
non solo delle Confederazioni maggiormente rappresentative ma anche dei sindacati
firmatari di contratti collettivi nazionali o provinciali —> parziale abrogazione let. b)

Solo il secondo di questi referendum ha avuto esito positivo.


Nel settembre del 1995 è entrato in vigore il nuovo art.19 St.lav., nel testo modificato
dal referendum del giugno del 1995.

Con la modifica del referendum il nuovo testo dell’art.19 era:

“Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei


lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito:

a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul


piano nazionale;

b) delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o


provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.”

Il privilegio delle Confederazioni, è stato eliminato; la selezione no:


la stipulazione del contratto collettivo continua a svolgere la funzione di criterio di
selezione, ma il livello contrattuale non è più qualificato; dunque la sottoscrizione di un
contratto collettivo anche aziendale abilita il sindacato ad essere ambito di riferimento per
la costituzione di una RSA.

Nel 1996 era stata avanzata una questione di legittimità costituzionale sul nuovo testo
dell’art.19 —> ma la Corte con la sentenza:

Sentenza 244/1996:
- ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale sul nuovo testo, solvata
da alcuni giudici che sostenevano la incompatibilità con gli artt. 39 e 3 Cost.

- Secondo i giudici che hanno avanzato tale questione, il nuovo testo, consentendo la
costituzione di RSA nell’ambito di qualsiasi associazione sindacale anche meramente
aziendale, purché firmataria di un contratto collettivo applicato all’unità produttiva,
avrebbe permesso in sostanza al datore di lavoro di interferire nella costituzione delle
RSA “accreditando”, mediante la stipulazione del contratto collettivo, i sindaci a lui più
graditi —> ciò in sostanza avrebbe integrato la violazione dell’art.17 St.Lav.

- La Corte in questa sentenza, ribadisce, richiamando quella del 1990, che


l’accreditamento si verifica nel caso il datore di lavoro conceda, mediante accordo,
agevolazioni ad una associazione sindacale priva dei requisiti per averne diritto —> ha
escluso invece che di accreditamento possa parlarsi quando si tratta di stipulazione di
contratti collettivi. —> in tal caso, affermò la Corte, “la rappresentatività del sindacato
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non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è


una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazione sindaci che abbaino
stipulato contratti collettivi, nazionali, locali o aziendali che siano, applicati nell’unità
produttiva”
- La corte, in questa sentenza, aveva ritenuto di dover precisare che:

• Per essere firmatarie le associazioni sindacali devono aver preso attivamente parte
alla trattativa contrattuale
• il contratto collettivo di cui si tratta non può essere un contratto qualsiasi, ma deve
essere un vero contratto collettivo —> cioè un contratto che regoli in modo organico i
rapporti di lavoro

- Insomma, la Corte Costituzionale aveva concluso che la volontà popolare ha cancellato


il criterio di rappresentanza presunta, e ha salvato il cirteiro di rappresentatività effettiva,
desumibile dalla stipulazione del c.c., estendendolo anche al contratto aziendale.

E inoltre, anche con una ordinanza la Corte Costituzionale:

Ordinanza 345/1996:
- in essa la Corte Cost. ribadisce la legittimità costituzionale del nuovo art.19 St.Lav.

- Con essa la Corte afferma che un sindacato “disposto a sottoscrivere un cattivo


contratto per i suoi rappresentati pur di ritagliarsi una porzione di potere in azienda,
non lede alcun diritto inviolabile dei suoi iscritti, ma semplicemente non tutela come
dovrebbe i loro interessi, configurandosi:

• o come sindacato sfuggito al controllo degli associati, cioè non più rispettoso del
precetto costituzionale di democrazia interna

• come sindacato di comodo vietato dall’art.17 St.Lav.

Le precisazioni della Corte Costituzionale erano servite a risolvere alcuni problemi alcuni
problemi interpretativi posti dal nuovo testo, ma non tutti e nemmeno i più importanti

Un problema, sul quale si sono registrati in giurisprudenza alcuni diversi orientamenti, a tiene alla
definizione della natura del contratto collettivo cui fa riferimento l’art.19. Secondo:

- un primo orientamento, più fedele alla s. 1996, il c.c. di cui all’art.19 deve avere carattere normativo —>
cioè deve regolare un rilevante numero di istituti relativi ai contratti individuali di lavoro

- un secondo orientamento, il c.c. di cui all’art.19 può avere anche un carattere meramente gestionale —>
(contratti di gestione di crisi aziendali, contratti riguardanti la mobilità dei lavoratori..) in quanto esprime
la capacità negoziale dell’organizzazione sindacale.

Alla base del 2 orientamento favorevole ad una interpretazione estensiva dell’art.19, sta la considerazione
che, essendo la firma apposta sul contratto collettivo un requisito legale di accesso del sindacato
all’esercizio delle prerogative di cui al Titolo III St. Lav., una interpretazione ristrettiva può portare al
risultato, non compatibile con gli artt. 3 e 39 cost, di attribuire in sostanza al datore di lavoro il potere di
decidere in ordine ai diritti della propria controparte sindacale

Il 1 orientamento costituisce una obiezione che questa apertura delle maglie dell’art.19 finisca per favorire
una frammentazione sindacale alla quale la Corte costituzionale aveva cercato di dare un freno.

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L’art.19 e il diritto dei lavoratori alla rappresentanza sindacale


(a margine del Caso FIAT)

La mancata sottoscrizione del contratto collettivo applicato all’unità produttiva può infatti
impedire l’acceso alla costituzione di RSA e all’esercizio dei diritti sindacali a sindacati
che, pur godendo di largo consenso fra i lavoratori e di una cospicua rappresentanza
associativa (numero di iscritti), e pur avendo partecipato alle trattivi, non siano d’accordo
su una determinata soluzione contrattuale, e di conseguenza non sottoscrivono il
contratto.

Il problema si è posto all’attenzione generale a seguito della vicenda della contrattazione


“separata” del gruppo FIAT.

É accaduto che la FIOM-CGIL, non firmataria del contratto, era stata privata dei benefici
di cui al Titolo III St.Lav. —> esito che è apparso a molti paradossale, tenuto conto che la
FIOM era largamente rappresentativa nella categoria e che, poteva vantare un elevata
rappresentatività nelle aziende del gruppo FIAT, nelle quali era stata da sempre presente.

La sua rappresentatività era confermata, tra l’altro, dall’alto numero di “no” nei
referendum indetti per sottoporre all’approvazione dei lavoratori interessati i nuovi
contratti.

Tale esito paradossale riapriva la questione della conformità dell’art.19 all’art. 39 c.1.
Cost. —> questione che si poneva, ove la disposizione statutaria fosse interpretata nel
senso che i lavoratori che aderiscono ad un sindacato non firmatario del c.c. applicato
nell’azienda sono privati del diritto alla propria rappresentanza sindacale.

Chiamati a decidere una serie di ricorsi della FIOM i giudici avevano espresso
orientamenti diversi:

Il requisito della «firma» nell’art. 19 St. Lav. impone che il sindacato debba apporre la
propria sottoscrizione al contratto collettivo → altrimenti preclusa costituzione RSA e
fruizione diritti tit. IIII —>Trib. Torino, 13 aprile 2012

L’espressione «firma» può essere intesa anche come «partecipazione alla trattativa» —
>Trib. Bologna, decreto, 27 marzo 2012

Non è possibile accogliere la seconda lettura, perché la norma richiede la firma. Viene
quindi sollevata questione di costituzionalità art. 19 St. Lav. → asserito contrasto con
artt. 2, 3 e 39, comma 1, Cost. —>Trib. Modena, ordinanza, 4 giugno 2012.

Viene chiesto alla Corte non l’annullamento dell’intero art.19 che “avrebbe creato un
vuoto normativo colmatile solo con il legislatore”, ma una “pronuncia additiva di
accoglimento” che estendesse l’applicabilità dell’art.19 a le associazioni sindacali non
firmatarie del c.c. applicato all’unità produttiva

La Corte Costituzionale è stata così investita della questione, sulla quale ha deciso con la:

Sentenza 23 luglio n°231 —> con la quale si chiude la vicenda dei diritti sindacali della
FIOM nelle aziende del gruppo FIAT

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Sentenza 231/2013 C.Cost: una nuova formulazione dell’art.19

Con la S. 231/2013 la Corte Cost. ha dichiarato:

la illegittimità costituzionale dell’art.19 St.Lav. :

“nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale possa essere costituita
anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non essendo firmatarie dei contratti
collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione
relativa gli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”

Caratteristiche:

- É un sentenza additiva di accoglimento

- Pur lasciando formalmente immutata la lettera della disposizione, nella sostanza la


riscrive modificandone il significato e la portata pratica

Ricordiamo che:

Nella sentenza 244/1996 e nell’ordinanza 345/1996 la sottoscrizione del c.c. era basata,
ad avviso della Corte Cost, sulla rappresentatività effettiva del sindacato, ovvero sulla
capacità di imporsi come controparte contrattuale

La vicenda della esclusione della FIOM, sindacato la cui forza, per numero di iscritti e per
successo elettorale (nelle elezioni di RSU), era un dato di fatto indiscutibile, ha messo la
Corte Costituzionale difronte la necessità di riscrivere l’art.19 St.Lav.

A fronte del caso infatti: la corte è stata costretta a prendere atto che in mancanza di
sottoscrizione del contratto, e dunque in presenza di dissenso, si spezza il nesso che
nell’art.19 tiene insieme la rappresentanza sindacale dei lavoratori in azienda e la
rappresentatività del sindaco misurata nel suo consenso alla stipulazione del contratto.

Viene in discussione la razionalità del criterio selettivo previsto dall’art.19, perchè il


dissenso del sindacato maggiormente o significativamente rappresentativo sul contratto,
che lo porta a non sottoscriverlo, finisce per essere punito dall’art.19 St.Lav.

Non resta che ammettere che la selezione a favore dei soli sindacati firmatari premia i
sindaci “consonati”, cioè d’accordo con il datore di lavoro, in spregio dei principi costituz.
di eguaglianza e libertà sindacale.

QUINDI: il sindaco effettivamente rappresentativo deve essere incluso, anche se dissenziente

La Corte, tenutasi sul criminale die propri precedenti, ha rispolverato il:


criterio selettivo della partecipazione alle trattative:
- Mettendo cosi nel contemplo da parte il criterio della sottoscrizione, dato che ormai,
firmatario, vuol dire anche non firmatario.

- Esso diventa il nuovo criterio selettivo


- Attribuendo ad essa:

• Da un lato la funzione di indice di una rappresentativa “effettiva”, che il sindacato ha


acquistato nei fatti e nel consenso dell’unità produttiva

• Dall’altro la funzione costitutiva di requisito di accesso alle prerogative dell’ Titolo III
St.Lav.

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Regole sulla partecipazione alle trattative contrattuali sono state recentemente dalle
Confederazioni nel T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014. 

Resta comunque il problema più generale della legittimità dell’esclusione di un sindacato
più o meno rappresentativo dalle trattative, che coinvolge la questione della presenza e
della estensione, nel nostro ordinamento dell’obbligo del datore di lavoro a trattare
(vedi Parte III, Cap IV)

La struttura delle RSA

Art.19 St. Lav: “prevede che le RSA possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori
in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di
contratti collettivi applicati nell'unità produttiva.”

E lo statuto aggiunge: in ogni unità produttiva che occupa almeno 15 dipendenti, infatti:

Art.35 St.Lav: “le disposizioni del titolo III, ad eccezione del primo comma dell'articolo
27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o
reparto autonomo che occupa più di 15 dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano
alle imprese agricole che occupano più di 5 dipendenti.

Natura giuridica e struttura delle RSA sono regolate dalla prima parte dell’art.19 c.1.
rimasto immutato nella formulazione originaria

“Iniziativa dei lavoratori”


L’art.19 affida espressamente la costituzione di RSA all’iniziativa dei lavoratori.
La legge ancora una volta non precisa in che cosa debba consistere tale iniziativa:

la giurisprudenza è ferma nell’escludere ogni potere del datore di lavoro di porre limiti o
condizioni all’iniziativa dei lavoratori.

Inoltre, la giurisprudenza ritiene sufficiente una qualsiasi forma di collegamento tra i


lavoratori interessati alla costituzione di RSA e il sindaco nel cui ambito la RSA è
costituita.

Durante il dibattito parlamentare: il titolo III dello Statuto passò da una originaria
impostazione marcatamente associativa (R.S.A costruite ad iniziativa delle associazioni
sindacali) ad una impostazione associativa corretta (R.S.A. costituite ad iniziativa degli
scritti) e infine, quella definitiva, aperta ed elastica (R.S.A. dei lavoratori nell’ambito delle
associazioni sindacali maggiormente rappresentative).

L’iniziativa può essere presa sia da lavoratori:

- iscritti al sindacato nel cui ambito è costituita la rappresentanza

- non iscritti

L’iniziativa può anche essere di 1 solo lavoratore —> S. 1582/2008 cassazione

Tuttavia, è vero che l’iniziativa spetta ai lavoratori ma non è meno verro che le RSA
possono formarsi solo se il sindacato ne ammette la costituzione nel proprio ambito—>
occorre infatti una, anche se informale una recezione delle RSA da parte del sindacato di
riferimento, che potrebbe anche sconfessare l’iniziativa dei lavoratori, cosa che è
avvenuta.

Una parte della giurisprudenza di merito si è espressa nel senso che la revoca da parte
del sindacato determina il venir meno del riconoscimento delle RSA.

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Struttura

La legge nulla dice quanto alla struttura delle RSA e le opinioni degli interpreti divergono.

La Corte di Cassazione (S.1582/2008) ha affermato che l’art.19 individua una categoria di


organismi rappresentativi nella quale possono confluire una molteplicità di strutture
associative dei lavoratori ; in ogni caso, ha sottolineato che:

La RSA non è un organo del sindaco, ma una struttura dotata di una propria
autonoma soggettività giuridica.

La struttura della RSA è quindi aperta —> detta apertura ha consentito, per un lungo
periodo, che diritti e poteri che la legge riserva alle RSA fossero esercitati dai CdF, che in
verità del Patto Federativo (1972), CGIL, CISL, e UIL avevano riconosciuto come propria
struttura di base.

I contratti collettivi prevedevano per lo più la presa d’atto da parte delle aziende della
volontà dei sindacati firmatari di considerare i CdF come una RSA, con conseguente
attribuzione ai CdF:

- Dei poteri di rappresentanza dei lavoratori

- Dei poteri di contrattazione

- Di riconoscimento ai membri del CdF dei diritti e dei poteri che il Titolo III dello statuto
riserva ai “dirigentesi” delle RSA

Dal punto di vista giuridico il CdF poteva essere legittimamente considerato come una
RSA unitaria.

I CdF non erano tuttavia rappresentanze generali di tutto il personale dell’azienda, ma


solo strutture di base di CGIL, CISL, e UIL.

La identificazione delle CdF in RSA non risolleva dunque tutti i problemi, che infatti
emersero prepotentemente nel cimenti in cui la rottura dell’unità fra le 3 Confederazioni
portò alla rottura del Patto Federativo e alla conseguente crisi dei CdF, con il ritorno a
RSA serate.

La riforma delle rappresentanze sindacali per via contrattuale

La disciplina legale delle RSA convince con la disciplina contrattuale di una forma diversa
di rappresentanza sindacale: le RSU —> rappresentanze sindacali unitarie
Le RSU:

- si sono diffuse nei luoghi di lavoro, specie nel settore industriale (terziario ancora RSA)

- la sua invenzione risale agli anni 90 del 1900.

- furono le maggiori confederazioni sindacali a prendere l’iniziativa di dettare nuove


regole in materia di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, ci troviamo a
poca distanza di tempo dall’intervento della Corte Cost. Con la s.30/1990,
raccogliendo parte delle indicazioni date dalla Corte, che aveva denunciato con forza
l’inadeguatezza del cirteiro di rappresentatività presunta su cui si basa l’art.19 let.a) e la
necessità di sostituirlo con un criterio di rappresentatività effettiva.

La riforma delle RSA è stata cosi realizzata per via contrattuale:

disegnata dal Protocollo del luglio del 1993 + ’AI del dicembre del 1993.

La disciplina è rimasta invariata per molti anni —> solo 20 anni dopo le parti sociali hanno
infatti messo mano ad una riforma che modifica la struttura della rappresentanza
sindacale die lavoratori dei luoghi di lavoro, con il:

Protocollo 31 maggio 2013 + T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014

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La disciplina interconfederale delle RSU

All’inizio degli anni 90, quando i parametri di Maastricht avevano reso ineludibile la
necessità di risanare il bilancio dello Stato, i sindacati costituivano per il Governo e per gli
imprenditori “una risorsa chiave per la realizzazione di politiche consensuali di
moderazione salariale”.

Una serie di accordi interconfederali precedette l’avvio di quella politica dei redditi che
sarà successivamente realizzata attraverso la negoziazione tra Governo e parti sociali di 2
Protocolli:

1° -> Protocollo del luglio del 1992 e 2° -> Protocollo del luglio del 1993

1° —> aveva posto le premesse per il successivo Protocollo del 1993, dettando le linee
guida per la riforma del sistema contrattuale, che aveva trovato poi nel P. 1993
la sua definizione —> questa parte del P. 1993, (perfezionato con l’AI 1993) nella
quale era prevista la nuova struttura sindacale aziendale RSU, trovava infatti la sua
indispensabile base nelle nuove regole che governano la contrattazione collettiva.

La trattazione che segue si riferisce alla disciplina prevista dai nuovi accordi, segnalando
alcune differenze rispetto alla disciplina del 1993.

1993
L’AI 1993: prendeva una struttura delle RSU a composizione mista:

- in parte elettiva -> i 2/3 dei componenti della RSU erano eletti a suffragio universale dai
lavoratori della unità produttiva con più di 15 dipendenti, iscritti e non iscritti, ai
sindacati in possesso dei requisiti previsti per presentare le liste.

- In parte associativa -> 1/3 dei componenti della RSU era invece eletto o disegnato dalle
associazione sindaci firmatarie del c. c. n. applicato all’unità produttiva.

2013
Il protocollo del 2013, come attuato dal T.U. sulla rappresentanza, ha soppresso:

la riserva del 1/3, sancendo cosi la composizione totalmente elettiva della RSU.

La principale implicazione è sicuramente il venir meno del vincolo della RSU con le
organizzazioni sindacali di livello nazionale firmatarie del contratto collettivo di categoria,
alle quali era rivestita la designazione di 1/3 dei componenti.

Il rapporto con le organizzazioni sindacali che operano all’estero del luogo di lavoro
tuttavia sussiste, non facendo del tutto venire a meno la dimensione associativa, perchè
l’elezione dei rappresentanti, cioè dei componenti della RSU, avviene: sulla base di liste
presentate dalle:

- organizzazioni sindacali a ciò autorizzate

- organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del c.c.n. di categoria applicato


nell’unità produttiva

- associazioni sindacali formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo


a condizione che:

1. Che accettino formalmente i contenuti dell’AI 28 giugno 2011 + P. 2013 + T.U 2014

2. Che la lista sia corredata da un numero di firme dei lavoratori dipendenti dall’unità
produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipend.

L’iniziativa per costituire RSU


Nelle unità produttive con più di 15 dipendenti le RSU possono essere costituite ad
iniziativa di:

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- organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie del:


AI 2011 + P. 2013 + T.U. 2014

- dalla stessa RSU 3 mesi prima della scadenza del mandato

Componenti RSU
Durano in carica 3 anni, alla scadenza dei quali decadono automaticamente

Costituzione della RSU e clausola di salvaguardia


In ogni singola unità produttiva con più di 15 dipendenti dovrà essere adottata una
sola forma di rappresentanza —> la scelta delle parti a favore della RSU è quindi netta.
Ricordo e specifico che le altri sono: CISL,UIL,CGIL e
Confindustria che sono le parti contraenti del P. 2013
e T.U. 2014, accordi che hanno oggett queste regole.

Secondo quanto previsto dal T.U. nella cosiddetta: clausola di salvaguardia:

- le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie del A.I.


2011, P. 2013 e del T.U. o

- Le organizzazioni che comunque aderiscono alla disciplina in essi contenta


partecipando alla procedura di elezione della RSU:

1. Rinunciano formalmente ed espressamente a costituire RSA ai sensi dell’art.19

2. Si impegnano a non costituire RSA nelle realtà in cui siano state o vengano
costituite RSU
Questa regola concordata dovrebbe evitare che, in futuro, possano ripetersi vicende
come quelle verificatesi alla FIAT.

Tuttavia, il passaggio dalle RSA alle RSU è prefigurato nel T.U. in modo molto prudente:

- nel caso di unità produttive con più > di 15 dipendenti —> ove non siamo mai state
costituite forme di rappresentanza sindacale, le parti prevedono che:
“qualora non si proceda alla costituzione di RSU ma si opti per RSA, l’eventuale
passaggio alle RSU (da RSU -> RSA) potrà avvenire se deciso dalle organizzazioni
sindacali che rappresentino a livello nazionale, la maggioranza del 50% +1

- nel caso di unità produttive con più > 15 dipendenti —> in cui fossero già presenti le
RSA, il passaggio dalle RSA alle -> RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente
dalle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del P. 2013.

Struttura e prerogative della RSU

COLLEGGIALITA’, PRINCIPIO DI MAGGIORNAZA, E VINCOLO ASSOCIATIVO

Le RSU sono viste come un canale unico di rappresentanza dei lavoratori, poiché nello
stesso organismo confluiscono sia:

- le funzioni di rappresentanza dei lavoratori che lo eleggono

- Le funzioni squisitamente sindacali -> la contrattazione aziendale in primis

Quindi:

- le RSU NON sono struttura di base unitaria delle 3 Confederazioni ( ≠ CdF)

- Le RSU NON è una somma di diverse RSA

LA RSU: assume la veste di un organismo rappresentativo della generalità dei lavoratori


dell’unità produttiva.

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Vero è tuttavia che nella RSU a composizione mista le due componenti:

- elettiva - associativa si ricomponevano in un unico collegio, all’intento del quale valeva


per l’assunzione delle decisioni la regola della maggioranza.

Il metodo universalistico della votazione, già in passato quando la composizione era


mista, e maggiore ragione oggi, che la RSU è totalmente elettiva, non fa comunque venir
meno la dimensione associativa —> cioè il collegamento tra i singoli componenti e la
organizzazione sindacale nelle cui liste sono stati candidati

La coesistenza del vincolo associativo e del mandato elettorale è fonte di problemi


interpretativi di non facile soluzione:

• In passato ci si era chiesti: se decadesse dalla funzione di componente della RSU


l’eletto nella lista di una organizzazione sindacale che aderisse successivamente ad un
sindacato diverso da quello originario —> “cambio di casacca”.

La risposta della giurisprudenza è una risposta negativa perchè:

1. La RSU non è una rappresentanza sindacale di investitura puramente associativa


come la RSA

2. L’accordo del 1993, allora vigente, prevedeva la decadenza solo in caso di dimissioni.

Questo orientamento può considerarsi superato, perchè il vincolo associativo tra l’eletto e
la lista sindacale in cui è stato candidato risulta rafforzato dalla clausola contenuta nel

P. 2013, secondo cui:

“Il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un complente la RSU ne


determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista
di originaria appartenenza del sostituto” —> in dottrina si è sottolineata la forte impronta
associativo di questa regola alla quale possono attribuirsi le funzioni di “compensare” la
soppressione del terzo riservato nella composizione della RSU

• Un’altro problema è la questione pratica del rilievo da attribuire al vincolo associativo dei
componenti con la propria organizzazione di appartenenza.

La questione si era posta all’attenzione dei giudici perché alcuni sindacati che avevano
partecipato all’elezione della RSU (della quale risultavano componenti alcuni eletti nelle
loro liste), chiedevano di esercitare autonomamente, come autonoma componente della
RSU, uno dei poteri che il Titolo III St.Lav. attribuisce alle RSA, in particolare il potere di
d’indice l’assemblea.

Il problema era stato affrontato più volte dalla giurisprudenza che aveva fornito soluzioni
contrastanti:

la Cassazione, con la s. 3072/2005, aveva talora affermato al natura di organo


collegiale della RSU, negando che la singola componente della RSU potesse
esercitare autonomamente il potere di indire l’assemblea che l’art.20 St.Lav.
attribuisce alle RSA congiuntamente o disgiuntamente.

Altre volte la stessa cassazione aveva affermato invece il contrario, essendo il potere
di indire assemblee attribuito all’art. 20 St.Lav. alla singola RSA che può
autonomamente esercitarlo, questo diritto non poteva essere negato alla singola
componente della RSU.

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L’orientamento 2) suscitava tuttavia qualche perplessità perchè:

- il potere di indire assemblee è attibuito dalla legge alle singole RSA, per la ragione che
la legge prevede non un organismo di rappresentanza unitario (RSU), ma un pluralità di
organismi rappresentativi le RSA

- L’attribuzione del potere solo alla RSU unitariamente intesa ha, nella logica dell’AI del
1993 il non trascurabile fine di evitare forme di concorrenza tra componenti eletti nelle
diverse liste

Di queste perplessità —> non hanno tenuto conto le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, che hanno sposato la tesi 2), quindi dell’attribuzione del potere di convocare
l’assemblea anche alla singola componente della RSU.

La Corte argomenta distinguendo tra:

- Assemblea non deliberante -> può essere convocata anche dalle singole componenti

- Assemblea deliberante -> non può essere convocata dalle singole componenti, ma
dalla RSU nella sua collegialità, e dunque secondo la decisione della maggioranza dei
suoi componenti

B) PREROGATIVE DELLA RSU

Il T.U. sulla rappresentanza prende che i componenti della RSU subentrino ai dirigenti
delle RSA nella:

- Titolarità di diritti - Permessi -Libertà sindacali -Tutele già loro spettanti —> per effetto
delle disposizioni di cui al Titolo III St. Lav.

Tali diritti attribuiti dallo Stato ai dirigenti delle RSA restano prerogativa della persona del
sindacalista e non della RSU nel suo complesso.

Secondo quanto previsto dall’AI del 1993, spettava alla RSU la competenza a stipulare
il contratto collettivo aziendale, nei limiti e nelle modalità previste dal c.c.n. ma, negli
anni la disciplina si è leggermente modificata:

- AI 1993 —> la competenza contrattuale era attribuita alla RSA congiuntamente con le
strutture territoriali delle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo.

- AI 2009 —> conferma la competenza concorrente delle organizzazioni sindacali


territoriali con le RSU

- AI 2011 —> prevede che i c.c.a. avessero efficacia per tutto il personale in forza
nell’azienda “se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze
sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali vigenti —> così decidendo
l’accordo attribuiva implicitamente alle RSU la competenza negoziale esclusiva.
La regola è ad oggi ribadita dal T.U. sulla rappresentanza

La coesistenza tra RSU e RSA

Pur avendo espresso una netta preferenza nella costituzione di RSU, le parti non possono
escludere che nella unità produttiva con più di 15 d. possano essere costituite RSA.

Del resto, la via contrattuale alla disciplina delle rappresentanze sindacali dei lavoratori
nei luoghi di lavoro, non è autosufficiente.

1. Occorre considerare che la disciplina interconfederale e al c.c.n. di categoria che ha


dato attuazione agli AI non hanno officia generale —> vi sono settori nei quali i c.c.
non prevedono la costituzione di RSU, optando quindi per le RSA

2. Vi è il problema delle org. sind. che non partecipano alla elezione delle RSU:
nell’ambito di queste org., se vi sono i requisiti dell’art.19, i lavoratori potranno
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costituire le proprie RSA, che si troveranno perciò a convivere con la RSU


eventualmente costituita nella medesima unità produttiva

3. Vi è il problema delle imprese in cui il datore di lavoro non applichi alcun c.c. e
manchino quindi di conseguenza i presupposti necessari per la costituzione di RSA
—> caso non di coesistenza tra RSU e RSA, ma di mancanza di rappresentanza
sindacale dei lavoratori nei luoghi di lavoro

La coesistenza di 2 diversi modelli di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, RSU


e RSA, uno elettivo e uno no, è una delle cause della difficoltà di attuazione finora
incontrate nel T.U.: basta pensare che per misurare la rappresentatività dei sindaci è
fondamentale il dato dei voti raccolti nelle elezioni di RSU—> a questi problemi potrebbe
dare soluzione una legge, che ancora non c’è.

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS)

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è una figura che è istituita attualmente

dagli artt. 47/50 T.U. della salute e sicurezza 2008, nei luoghi di lavoro.

Questa disciplina sostituisce quella precedente: d.lgs 626/1994.

Art.9 St.La. —> “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare
l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle
malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e
l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro
integrità fisica.”

—> Non fornisce indicazioni in ordine alla struttura, alla composizione di tali
rappresentanze di cui all’art.9 —> per la prevalente dottrina queste
rappresentanze potevano identificarsi con le RSA o da organismi di
rappresentanza costituito ad hoc da personale interno all’azienda.

Art.47 T.U. :

—> prevede l’istituzione di questa figura su 3 livelli:

- Livello dell’unità produttiva —> RLS AZIENDALE

- Livello territoriale o di comparto —> RAPPRESENTANTE PER LA SICUREZZA DEL

TERRITORIO

- Livello dei siti produttivi —> RAPPRESENTANTE PER LA SICUREZZA DEI SITI

PRODUTTIVI

Per quanto ancora il modello di riferimento sia l’art.9 statuto la disciplina del 2008
accentua la istituzionalizzazione del RLS

—> dispone l’elezione dei RLS in un unica giornata su tutto il territorio nazionale

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Sezione II: I diritti sindacali

La tutela della libertà sindacale nei luoghi di lavoro

Il Titolo II dello St.Lav, rubricato: “della libertà sindacale”, contiene una serie di
disposizioni il cui obiettivo è quello di:

rafforzare l’effettività del principio di libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro
vietando all’imprenditore di ostacolare, anche indirettamente, l’esercizio di tale libertà.

Art.14 —> riafferma nei confronti del datore di lavoro la libertà dell’organizzazione
sindacale sancita dall’art.39 c.1

Art.15/16 —> prevedono il divieto di atti/patti e trattamenti collettivi discriminatori per


ragioni sindacali

ART 15 —> DIVIETO DI ATTI E PATTI DISCRIMINATORI

“È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:


subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei
provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale
ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata
sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.”

Let. a) —> Tale divietò colpisce le cosiddette clausole di union security., la cui contrarietà al principio
di libertà sindacale è sancita anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Per quanto tali clausole siano estranee alla nostra tradizione sindacale, questa lettera ne
prevede la nullità accordando in tal modo protezione alla libertà sindacale negativa del
singolo lavoratore

Let.b) —> trova un propio precedente diretto nella convenzione OIL n°98/1949, di cui tuttavia non
costituisce una semplice traduzione in quanto l’art.15 menziona espressamente il diritto
alla partecipazione ad uno sciopero, che la Convenzione non include nell’ambito delle
libertà che devono essere protette.

Comma 2—> estendeva in origine il divieto e la nullità agli atti/patti diretti a fini di discriminazione
politica e religiosa. Dopo sono stati aggiunti altri fattori di discriminazione:

- L’art.13 L.903/1977—> sesso/lingua/razza

- D.lgs. 216/2003 —> handicap/età/orientamento sessuale/ convinzioni personali

Cosa si intende con discriminazione?


Una differenza di trattamento, che produca un effetto pregiudizievole e che sia direttamente o
indirettamente basato su un fattore, la cui considerazione è vietata.

Diretto —> secondo l’interpretazione prevalente in dottrina diretto non significa “intenzionalmente
diretto”, MA che l’atto/patto devono risultare “oggettivamente” idonei a produrre la
lesione del diritto tutelato.

—> la distinzione tra atto oggettivamente e atto intenzionalmente discriminatorio ha rilievo


sostanziale: poiché se la discriminazione fosse rilevante solo in presenza di una

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dimostrabile volontà di arrecare pregiudizio, esorbiterebbe dal divieto di discriminazione
disparità di trattamento pure effettivamente pregiudizievoli.
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—> la distinzione ha anche rilievo processuale: la prova dell’intento discriminatorio è una


prova diabolica, la prova del carattere oggettivamente antisindacale di un atto/patto può
basarsi su circostanze di fatto e su valutazioni comparative, certamente meno ardue.

—> la giurisprudenza secondo la quale elemento determinante perchè possa configurarsi una
discriminazione è l’intento soggettivo o psicologico del soggetto che pone in essere l’atto
è risalente.

Questo orientamento confermato dalla giurisprudenza successiva (Cass. 7188/2001):

- da un lato è stato rimesso in discussione dalla giurisprudenza di merito che ha


applicato in materia di d.lgs. 216/2003

- dall’altro la s. Cass. 6575/2016 ha segnato un revirement della S.C. che pare avere
finalmente spostato la concezione oggettiva della discriminazione.

L’elenco dei fattori di discriminazione previsti dall’art.15 ha carattere aperto e non tassativo.

La questione è emersa in una serie di casi giurisprudenziali nei quali la ricorrente: FIOM-CGIL ha
contestato la discriminazione sindacale ai suoi danni da parte di aziende del Gruppo FIAT, sulla base
di “convinzioni personali” (art.15 c.2.).

Nella specie la FIOM lamentava l’esclusione di 19 lavoratori iscritti al sindacato ricorrente dalle
assunzioni.

I giudici hanno riconosciuto che l’affiliazione sindacale rientra tra le convinzioni personali e che
pertanto le tutele processuali sono utilizzabili anche in casi di discriminazione collettiva per ragioni
sindacali.

Questa vicenda si è conclusa con la sentenza Cass. 5581/2014 che ha dichiarato inammissibile il
ricorso contro la condanna della FIAT per discriminazione sindacale.

Rilievo di questa decisione non è solo processuale, ma anche teorico.

L’applicazione in giudizio dell’art.15 è stata molto scusa, essendo la materia stata assorbita nella
ampia fattispecie della condotta antisindacale —> art.28 St.Lav.

Molti degli interrogativi che la dottrina si è posta non hanno quindi trovato risposta nella esperienza.
Uno di questi è: se la nullità prevista dall’art.15 colpisca anche comportamenti materiali o omissivi

ART 16—> DIVIETO DI TRATTAMENTI COLLETTIVI DISCRIMINATORI

“È vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a


mente dell'articolo 15. —> e dunque per ragioni sindacali, ma anche per le altre ragioni previste dall’art.15

Il pretore, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione di cui al comma
precedente o delle associazioni sindacali alle quali questi hanno dato mandato, accertati i fatti, condanna
il datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all'importo
dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.”

Questo divieto tiene conto che: la discriminazione di carattere sindacale può avvenire, da parte del
datore di lavoro, non solo provando il prestatore di lavoro di particolari benefici, o arrecandogli
comunque danno, bensì molto più sottilmente attribuendogli particolari benefici ai lavoratori che
tengano un determinato comportamento e condizionandoli, così nell’esercizio della libertà sindacale.

Collettivi —> che si trova solo nella rubrica dell’art.16, si intende: quando fil trattamento economico
sia diretto ad avvantaggiare non il singolo lavoratore ma alcuni lavoratori individuati o un
gruppo individuabile (trattamenti discriminatori individuali trovano disciplina nell’art.15).

Trattamento eco. discriminatorio—> cioè qualsiasi beneficio, continuativo o occasionale, che non
consista necessariamente in una somma di denaro, ma che 77 sia
comunque valutabile economicamente

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L’art.16 non impone un trattamento uniforme di tutti i lavoratori.

Esempi di trattamenti economici collettivi discriminatori per ragioni sindacali sono:

- premio antisciopero

- mancata applicazione di un aumento salariale previsto dal contratto collettivo applicato


nell’unità collettiva ai lavoratori iscritti ad un sindacato non firmatario del contratto.

L’art.16 non prevede la nullità del trattamento collettivo discriminatorio:

- secondo parte della dottrina -> la nullità per violazione di norma imperativa di legge non
potrebbe essere tuttavia esclusa, e l’azione di nullità dovrebbe essere esperibile da lavoratore
offeso

- Altra parte della dottrina -> afferma che l’azione di nullità con effetti ex tunc di rimosso del
trattamento discriminatorio, potrebbe in sostanza risolversi in una azione di alcuni lavoratori
contro altri ( i beneficiari) e in considerazione di ciò il legislatore non ne avrebbe previsto la
esperibilità.

L’art.16 -> non prevede alcuna sanzione di tipo riparatorio ma solo una sanzione
amministrativa a carico del datore di lavoro.

Attività di proselitismo e contributi sindacali

ART.26 —> CONTRIBUTI SINDCALI

I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro
organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento
dell'attività aziendale.

Benché inserito nel Titolo III dello St.Lav., dedicato alle rappresentanze sindacali,

l’art.26 St.Lav, contiene una disposizione che per destinatari i lavoratori uti singuli, garantendo a
loro di svolgere attività tipicamente sindaci come quelle di:

proselitismo e collettaggio —> cioè di raccolta di contributi a favore dei sindacati

—> sono attività che i singoli lavoratori svolgono a favore


delle loro organizzazioni sindacali di appartenenza

L’Art.26—> è considerato una disposizione di sostegno: non delle RSA/RSU, ma di qualunque


sindacato, che può essere beneficiario dell’attività svolta dai lavoratori a suo favore, senza che per
svolgerla debbano o possano in alcun modo intervenire le RSA o RSU, e neppure il sindacato
beneficiario.

La dottrina prevalente limita il diritto allo svolgimento di tali attività nell’ambito sindacale,
escludendo che questo diritto si estenda oltre tali confini.

L’attività di proselitismo e di collettaggio sindacale tutelata da questo art. incontra il limite:

“del normale svolgimento dell’attività sindacale”


—> sancito solo per queste attività e non per altre, come quelle esercitabili dalle RSA e neppure
quelle attività che possono ricondursi alla libera manifestazione del pensiero dei lavoratori.

—> esso è diretto NON a garantire il normale svolgimento della attività lavorativa da parte della

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Il testo originario dell’art.26 prendeva ai commi 2 e 3, poi cancellati dal referendum del 1995, il
diritto delle associazioni sindacali di percepire, e il speculare obbligo per il datore di lavoro di
versare i:

Contributi sindacali —> volontariamente versati dai lavoratori tramite trattenute sul salario

—> la trattenuta e il versamento al sindaco beneficiario erano effettuate dal


lavoratore sulla base di una delega rilasciata dal lavoratore, e secondo le
modalità previste dai contratti collettivi di lavoro, che dovevano garantire
la segretezza del versamento.

—> In mancanza di contratto collettivo, il lavoratore poteva indicare


l’associazione alla quale il datore di lavoro doveva versa la quota
associativa trattenuta.

—> libera scelta del lavoratore, eredo la delega un atto volontario

Nelle intenzioni dei proponenti il Referendum abrogativo del 1995, sopprimendo la base legale del
diritto dei sindacati di percepire i contributi trattenuti sulle retribuzioni dei lavoratori, doveva:

1. eliminare del tutto il sistema della delega per il pagamento dei contributi sindacali o,

2. come minimo, restituire interamente la materia all’autonomia contrattuale.

Il risultato prodotto dall’esito positivo del referendum è stato il 2:

del resto la Corte cost. con s. 13/1995 = aveva chiarito che l’intento del referendum abrogativo
doveva essere inteso solo come volontà di eliminare la base legale dell’obbligo del datore di lavoro,
lasciando all’autonomia privata la scelta in ordine al siete, a di riscossione dei contributi sindacali.

La portata pratica del referendum si è rilevata modesta:

I contratti collettivi continuando a prendere il pagamento di contributi sindacali su delega, con


regole simili a quelle contenute nei 2 commi dell’art.26 abrogati.

—> non è dubbio allora che il dato di lavoro che applica il contratto collettivo sia obbligato, oggi dal
contratto, ieri dalla legge, ad effettuare le trattenute e a versare i contributi

—> per ciò che attiene ai sindacati, è ugualmente indubbio che quelli che hanno firmato il contratto
collettivo siano beneficiari dei contributi pagati dai lavoratori con il sistema della delega

Quanto ai sindaci non firmatari del contratto collettivo —> questi potranno beneficare della delega
ad hoc rilasciata dal singolo lavoratore.

Nel T.U. 2014 le Confederazioni firmatarie hanno peraltro stabilito che le imprese provvederanno ad
accettare le deleghe dei lavoratori a favore delle organizzazioni sindacali che aderiscono al T.U. o ne
recepiscano integralmente i contenuti, anche s non firmatarie del contratto collettivo.

Resta però da vedere se il datore di lavoro, che non è più obbligato dalla legge, possa
legittimamente rifiutarsi di operare la trattenuta sulla retribuzione del lavoratore senza che ciò
incorra in una condotta antisindacale.

Sulla questione si era registrato in passato un orientamento non univoco della giurisprudenza:

- Da un lato—> si era orientati nel senso di ricondurre il sistema del pagamento dei contributi
sindaci su delega del lavoratore all’istituto civilistico della: delegazione di pagamento:
• il datore di lavoro -> debitore, delegato del lavoratore

• lavoratore -> debitore, delegante del sindacato

• sindacato -> creditore, delegatario

Tanto premesso, essendo venuto a meno l’obbligo legale, e in assenza dell’obbligo contrattuale
previsto dal c.c., si riteneva che il datore di lavoro potesse legittimamente rifiutarsi di effettuare la
trattenuta sulla busta paga, ciò in quanto ai fini di delegazione di pagamento, si necessita il
consenso del delegato. 79
A sostegno di questo orientamento (il prevalente): Cass. 1968/2004 e Cass. 10616/2004.

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- Dall’altro —> altre sentenze affermavano il contrario, qualificando la fattispecie in termini di:
cessione del credito:
il lavoratore trasferisce il credito al sindacato senza che il trasferimento del credito richieda il
consenso del datore di lavoro (debitore di retribuzione ceduto).

A sostegno di questo orientamento: Cass. 3917/2004

Conclusione= per dirimere il contrasto, sulla questione sono intervenute le S.U. della corte di
Cassazione con la: S. 28269/2005 —> esse hanno accolto la tesi della cessione parziale del credito
retributivo (2), escludendo che in tal modo si crei un illegittimo aggravio della posizione del datore
di lavoro debitore.

Alla sentenza delle S.U. hanno fatto seguito altre sentenze orientate nello stesso modo e così
l’orientamento si è consolidato.

Il Titolo III

Il Titolo III dello St.Lav. rubricato: attività sindacale, contiene le norme cosiddette:
promozionali e di sostegno dell’attività sindacale sei luoghi di lavoro

“Cioè un insieme di disposizioni che vanno oltre la tutela della libertà sindacale perchè
non definiscono solo uno spazio di autodeterminazione del soggetto titolare della libertà,
e un divietò per tutti gli altri soggetti di interferivi, MA danno vita, in testa al soggetto
tutelato, pretese configurabili come diritti soggettivi verso l’imprenditore, sul quale grano
gli obblighi corrispondenti"

Soggetti tutelati questa volta non sono i singoli lavoratori e non le associazioni sindacali in
generale, MA le RSA, costituite ad iniziativa dei lavoratori ai sensi dell’art.19 st.Lav.

Promozione e sostegno sono utilizzati dal legislatore in modo selettivo

Ora analizziamo l’insieme delle disposizioni che promuovono e sostengono l’attività


delle RSA o delle RSU, tra le quali distinguiamo:

• le disposizioni che attribuiscono diritti e poteri alle RSA—> art. 20 / 21/ 25 / 27

• le disposizioni che prevedono diritti dei dirigenti delle RSA —> art. 23 e 24

• le disposizioni che prevedono speciali tutele per i dirigenti delle RSA —> art.18 e 22

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• disposizioni che attribuiscono diritti e poteri (prerogative) alle RSA-> art.20/21/25/27

L’ASSEMBLEA -> ART.20 ST.LAV.

I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell'orario di
lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la
normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva.

Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono indette,
singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con
ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle
convocazioni, comunicate al datore di lavoro.

Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato
che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.

Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi
di lavoro, anche aziendali.

L’assemblea

—> ha la funzione di consentire ai lavoratori di partecipare all’elaborazione delle politiche


contrattuali e delle decisioni sindaci

—> è la sede nella quale si forma democraticamente il consenso

—> la sua partecipazione costituisce l’esercizio della libertà garantita dall’art.39 c.1

Partecipazione alla assemblea

—> non è limitata ai soli lavoratori iscritti al soggetto sindacale che la ha convocata, ma è
aperta a tutti i lavoratori della unità produttiva.

Comma 1
—> attribuisce ai lavoratori il diritto di riunirsi in assemblea nella unità produttiva in cui
prestano al loro opera:

- fuori dall’orario di lavoro

- dentro l’orario di lavoro—> nei limiti minimi di 10 ore annue retribuite o nei più.

- favorevoli limiti previsti dalla c.c.

Tali limiti devono essere intesi come limite massimo di ore retribuite, non come limite
massimo di ore utilizzabili per lo svolgimento di assemblee durante l’orario di lavoro

Comma 2

—> riserva alle RSA il potere di convocare le assemblee, congiuntamente o


disgiuntamente (singolarmente)

—> per quanto attiene alla convocazione, quando è presente una RSU, questa subentra
nelle prerogative delle RSA (ricordo s. 13978/2017)

L’AI del 1993 e il T.U. del 2014:


Prevedono che 3 delle 10 ore di assemblea retribuite siano attribuite alle organizzazioni
aderenti ai sindaci firmatari del c.c.n. applicato all’unità produttiva. Il diritto di convocare
assemblee retribuite nell’ambito nell’ambito del monte ore previsto dall’AI non spetta ai
sindaci che non hanno stipulato il c.c. applicato nella unità produttiva, essendo irrilevante,
la eventuale rappresentatività del sindacato non firmatario nella interpretazione della
clausola contrattuale.

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Problema: a chi devono essere imputata le 10 ore annue retribuite? —> 3 orientamenti:
1. Secondo alcuni l’interpretazione del monte ore è individuale -> dunque costituisce un
limite di partecipazione individuale alle assemblee ma non un limite per la
convocazione delle assemblee da parte delle RSA/U

2. Secondo altri il computo deve esser fatto con riferimento alla collettività per la quale la
assemblea è indetta -> il monte ore costituisce un limite per la convocazione

3. Tesi intermedia, ogni RSA o la RSU può convocare assemblee per un limite di 10 ore,
e il lavoratore sceglie di partecipare in ragione delle 10 ore retribuite che gli spettano
per partecipare alle assemblee convocate durante l’orario di lavoro

La Cassazione ha distinto tra: ( “le 3 sentenze gemelle”)

- assemblea retribuita durante l’orario di lavoro -> monte ore attribuito alla generalità dei
lavoratori e quindi alle RSA cumulativamente

- assemblea non retribuita fuori dall’orario di lavoro -> il diritto a partecipare è un diritto
individuale dei lavoratori

Di conseguenza, la facoltà di indire una assemblea retribuita non sarebbe più esercitabile
da una RSA, dalla RSU o da un sindaco firmatario del c.c. quando le ore di assemblea
retribuita siano state quindi “consumate”/prenotate —> la corte quindi aderisce al 2
orientamento interpretativo

Modalità di esercizio del diritto di assemblea:


- la convocazione deve essere comunicata dal datore di lavoro ma non è richiesto dalla
legge un preavviso minimo; essa è necessaria perchè il datore di lavoro metta a
disposizione i locali idonei al suo svolgimento

- il datore di lavoro è obbligato a consentire lo svolgimento della assemblea

- il datore di lavoro deve essere messo in condizione di predisporre le misure


organizzative necessarie per far fronte alla sospensione della attività lavorativa

- stante la riserva a favore delle RSA del potere di convocazione ci si è chiesti se sia
ammissibile lo svolgimento di assemblee spontanee autoconvocate dai lavoratori: la
risposta è positiva in quanto basata sull’art.14 St.Lav. che attribuisce a tutti i lavoratori
il diritto alla attività sindacale nei luoghi di lavoro, tra i quali fa parte anche il diritto di
riunione —> le assemblee spontanee dovranno svolgersi però al di fuori dell’orario di
lavoro: ciò in quanto l’esercizio del diritto di riunione durante l’orario di lavoro è
sottoposta dalla legge al filtro costruito dalla convocazione da parte delle RSA.

- Le assemblee possono riguardare la generalità dei lavoratori dell’unità produttiva

- Le assemblee devono avere come oggetto: materie di interesse sindacale o del lavoro
- L’ordine del giorno deve essere comunicato al datore di lavoro, il quale potrà rifiutarsi di
concedere i locali, se l’ordine del giorno non abbia a che fare con la materia legittima.

Comma 3 —>
Prevede che alle assemblee possano partecipare anche i “dirigenti esterni del sindacato
che ha costituito la RSA”, previo preavviso al datore di lavoro -> lapsus del legislatore, la
RSA è costituita ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito di un sindacato, e non direttamente
dal sindacato.

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Benché la legge taccia sul punto: si ritiene illegittima la pretesa del datore di lavoro di
partecipare alla assemblea

Comma 4 —>
Prevede chi può stabilire ulteriori modalità di esercizio del diritto di assemblea: i contratti
collettivi -> quindi: No RSA/ RSU / datore di lavoro

I contratti collettivi possono prevedere:

- preavviso per la convocazione

- comandata -> presenza in servizio di un numero minimo di lavoratori, purché


giustificate dall’esigenza di tutelare diritti costituzionalmente garantiti

- lo svolgimento dell’assemblea in certe fasce orarie

REFERENDUM -> ART.21 ST.LAV.


Il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento, fuori dell'orario di lavoro, di
referendum, sia generali che per categoria, su materie inerenti all'attività sindacale, indetti da tutte le
rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori
appartenenti alla unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata.

Ulteriori modalità per lo svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di
lavoro anche aziendali.

Referendum sindacale
• costituisce, come l’assemblea, uno strumento di partecipazione dei lavoratori alle
decisioni e alle politiche contrattuali dei sindacati

• strumento molto delicato

• sottoposto a molti limiti dal legislatore

• può avere:

- carattere generale -> riguarda tutti i lavoratori della azienda o della unità produttiva
interessata

- carattere particolare -> riguarda una specifica categoria di lavoratori

• deve essere indetto da tutte le RSA congiuntamente


• deve volgersi fuori dall’orario di lavoro

• Il datore di lavoro è tenuto a consentire lo svolgimento del referendum e prestare la


propria collaborazione rendendo accessibili i locali per il suo svolgimento
• Limitare/ostacolare il referendum, ai sensi dell’art.28 St.Lav., costituisce una condotta
antisindacale

• Hanno diritto di parteciparvi tutti i lavoratori appartenenti all’unità produttiva e alla


categoria particolarmente interessata -> comma 1
• Può avere a d’oggetto: solo materie di interesse sindacale (≠ assemblea)

Il ricorso alla consultazione referendaria non avviene spesso, è più usato il referendum
come strumento di verifica del consenso dei lavoratori:

- Sottoponendo a loro giudizio le piattaforme contrattuali e le ipotesi di accordo


collettivo

- Sottoponendo all’approvazione dei lavoratori accordi già conclusi

Ne derivano 2 questioni:

1. si pone altro al questione di sapere se questo referendum si colloca fuori


dall’art.21 e possono essere cioè indetti da soggetti diversi dalle RSA e dalla RSU

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—> è stata giudicata una condotta antisindacale l’indizione del referendum da parte
del datore di lavoro al fine di condurre la trattativa per il rinnovo del contratto
integrativo aziendale direttamente con i lavoratori, violando così le prerogative delle
RSA.

2. Riguarda l’esito del referendum: nel caso in cui il giudizio espresso dalla
maggioranza dei lavoratori sia negativo, quale effetto produrrà tale visto sulla validità
dell’accordo? Ad avviso della Cassazione: nessuno —> perchè gli esiti del referendum
hanno rilevanza solo nei rapporti interni tra rappresentanza sindacale e lavoratori.
Questo orientamento potrebbe modificarsi: tenuto conto della importanza che la
consultazione referendaria dei lavoratori ha assunto nelle nuove discipline
interconfederali: il T.U. 2014 sottopone infatti l’efficacia del c.c.aziendale stipulato
stipulato dalle RSA maggioritarie alla condizione che il contratto ottenga il voto
favorevole della maggioranza dei lavoratori e che alla consultazione abbia partecipato
almeno il 50%+1 degli aventi diritto al voto

AFFISSIONI DELLE RSA -> ART.25 ST.LAV.


Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, che il datore di
lavoro ha l'obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all'interno dell'unità produttiva,
pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro.

Art.25 -> conferisce:

- alle RSA il diritto di affiggere: pubblicazioni / tesi /comunicati inerenti a materie di


interesse sindacale e di lavoro.

- al datore di lavoro l’obbligo:

• di predisporre gli spazi per l’affissione in luoghi accessibili a tutti i lavoratori

• astenersi da ogni ingerenza sui contenuti del materiale affisso.

Affissione -> strumento classico di comunicazione tra i lavoratori e le loro


rappresentanze sindacali

Oggetto affissione -> delimitato alle materie di interesse sindacale e di lavoro; la


cassazione ha specificato la difficoltà nel comprendere alle volte se il materiale appeso
sia legittimo o meno, così specificando che: non può essere riconosciuto al datore di
lavoro alcun potere di valutazione autonoma del contenuto del materiale fissato, e in ogni
caso è escluso che possa manomettere le affissioni sulla base di proprie valutazioni

Più incerto è l’orientamento giurisprudenziale sulla legittimità di un date di lavoro he


decide di togliere dalla affissione contenuti sindacali diffamatori, qualche giudice ha
ammesso questo comportamento come legittimo alla condizione che: “il contenuto
diffamatorio sia immediatamente percepibile dalla generalità dei soggetti”-> questione si
intreccia con il diritto alla critica

Prima che fosse sancito dalla legge tale diritto era riconosciuto dalla contrattazione
collettiva—> ma era condivisa l’idea che, in assenza di norme che garantissero
espressamente si sindacati il diritto di affissione in azienda, tale diritto non potesse essere
riconosciuto sulla sola base dell’art.39 c.1 Cost.

Problema: relativo alla titolare del diritto di affissione —> l’art.25, attribuendolo alle RSA al
plurale, esclude che lo possa esercitare anche il singolo lavoratore, o un comitato
spontaneo di lavoratori.

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Non è escluso il diritto pero dei singoli lavoratori di fare volantinaggio nei luoghi di lavoro,
riconducibile alla attivò di proselitismo sindacale.

Problema conseguente: il diritto di affissione compete a ciascuna RSa singolarmente o,


l’uso del plurale sta ad indicare la titolarità di questi diritto solo in campo delle RSA
congiuntamente?

Orientamento prevalente attribuisce tale diritto a ciascuna RSA. —> Cass. 1199/200

LOCALI DELLE RSA -> ART.27 ST.LAV.


Il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti pone permanentemente a
disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali, per l'esercizio delle loro funzioni, un idoneo
locale comune all'interno dell'unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.

Nelle unità produttive con un numero inferiore di dipendenti le rappresentanze sindacali aziendali
hanno diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro riunioni.

Come il diritto di affissione, anche il diritto di usufruire di locali dove riunirsi era previsto
dalla contrattazione collettiva. A questo articolo la dottrina attribuisce molta importanza,
considerando il diritto di usufruire di locali nell’unità produttiva uno strumento essenziale
per l’esercizio di una funzione di rappresentanza sindacale dei lavoratori.

Titolari di detto diritto sono solo:

- Le RSA -> congiuntamente (comune)


- La RSU -> nel suo complesso, ove sia subentrata alle RSA

Esse sono: responsabili della gestione dei locali, essendo escluso il potere di vigilanza o
di regolamentazione dell’uso da parte del datore di lavoro

L’art.27 riserva l’uso dei locali: all’esercizio delle funzioni di rappresentanza sindacale—> è
dubbio quindi se sia possibile a dirigenti esterni di accedere a detti locali senza il
permesso del datore i lavoro

Disponibilità permanente -> per la giurisprudenza questi locali non devono essere destinai
solo ed esclusivamente alle RSA

• Le disposizioni che prevedono diritti dei dirigenti delle RSA —> art. 23 e 24
Il titolo III dello statuto non regola solo i poteri propri delle RSA, cioè i poteri che le sono attribuiti
per lo svolgimento della sua funzione rappresentativa, ma che i diritti propri dei rappresentanti
sindacali.

PERMESSI RETRIBUITI -> ART.23 ST.LAV.


I dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui all'articolo 19 hanno diritto, per l'espletamento
del loro mandato, a permessi retribuiti.

Salvo clausole più favorevoli dei contratti collettivi di lavoro hanno diritto ai permessi di cui al primo
comma almeno:
a) un dirigente per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che occupano
fino a 200 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;

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b) un dirigente ogni 300 o frazione di 300 dipendenti per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale
nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti della categoria per cui la stessa è
organizzata;
c) un dirigente ogni 500 o frazione di 500 dipendenti della categoria per cui è organizzata la
rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al
numero minimo di cui alla precedente lettera b).

I permessi retribuiti di cui al presente articolo non potranno essere inferiori a otto ore mensili nelle
aziende di cui alle lettere b) e c) del comma precedente; nelle aziende di cui alla lettera a) i permessi
retribuiti non potranno essere inferiori ad un'ora all'anno per ciascun dipendente.

Il lavoratore che intende esercitare il diritto di cui al primo comma deve darne comunicazione scritta al
datore di lavoro di regola 24 ore prima, tramite le rappresentanze sin