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Diritto Sindacale Ballestrero 2018 riassunto preciso

Diritto del lavoro (Università di Bologna)

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PARTE 1: IL DIRITTO SINDACALE DELLE ORIGINI

ALLE ORIGINI DEL DIRITTO SINDACALE

Le origini dell’organizzazione sindacale

Il diritto sindacale è una disciplina giuridica recente; la sua storia è parte non secondaria
della storia del movimento operaio. Infatti la ricostruzione delle origini del diritto sindacale
può aprirsi proprio facendo riferimento al fatto che la fabbrica e la grande industria sono
stati il motore della storia del movimento operaio.

Una storia che è iniziata in Italia con la rivoluzione industriale.

In Italia l’industrailizzazione è stata tardiva: solo nel 1880 si sviluppò:

- l’industria manifatturiera —> a seguito dell’adozione tariffe doganali protezionistiche

- L’industria meccanica —> grazie alle misure di sostegno diretto del settore
ferromeccanico

All’epoca la grande fabbrica:

- era presente già su tutto il territorio nazionale, a che se quantitamente era concentrata
al Nord

- Aveva già prodotto la divisione del lavoro su base territoriale, con la specializzazione
del varie zone nella produzione di un solo prodotto

- Utilizzava le più moderne tecnologie

- All’efficenza tecnica non faceva riscontro un ambiente di lavoro che tenesse in alcun
modo conto delle esigenze umane ed igieniche dei lavoratori

Accanto alla grande fabbrica meccanizzata esistevano tuttavia anche vecchi opifici e
piccole fabbriche:

- condizioni di lavoro disumane -> suscitavano sentimenti di preoccupata indignazione


nella borghesia illuminata del tempo

- Locali bassi e stretti

- Qua si ammassava la povera gente

La giornata lavorativa:

- per gli uomini era mediamente di 12 ore

- Nelle filande, dove lavoravano donne e bambini era di 15/6 ore —> le donne erano
preferite come lavoratrici in quanto potevano pagarle ancora meno, perchè
scioperavano di meno ed erano più tranquille

I salari:

- quelli normali già basissimi

- Erosi da numerose trattenute

- Erosi da forme di cointeressenza per rendere gli operi partecipi della cattiva
produzione, delle soste forzate e e non retribuite, degli indennizzi per lavori difettosi e
arnesi rotti

L’esigenza di varare una “legislazione sciale” era messa in evidenza da tutti gli intellettuali
del tempo, ma la legislazione protettiva tardava ad intervenire, a causa dell’opposizione
tenace degli industriali.

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La prima fase della legislazione sociale in Italia si esaurì tutta nella lunga vicenda
parlamentare che portò all’approvazione della L. 3657/1886 sul lavoro dei fanciulli, che fu
incompleta e poverissima nei contenuti.

Alle donne toccò aspettare altri 16 anni per vedere una prima legge che desse loro un
minimo di tutela.

La nascita delle organizzazioni sindacali dei lavoratori: le Camere del Lavoro

L’abolizione delle corporazioni, soppresse con lo Statuto Albertino (1848) e nel regno
d’Italia cin la L. 1797/ 1864, chiudeva definitivamente l’epoca della rigida
regolamentazione del lavoro per arti e mestieri. Per quando il divieto di ogni forma di
associazione temporanea o pertenete tra i lavoratori (di cui alla legge che aboliva le
corporazioni) non incidesse direttamente sulla libertà di associarsi per scopi sindacali
(riconosciuta come corollario del diritto di riunione sancito dall’art.32 dello Statuto
Albertino), la liberalizzazione nell’esercizio delle professioni e de mestieri costituì un
ostacolo all’organizzazione autonoma e all’azione collettiva degli operai, che conobbe un
effettivo sviluppo solo nell’ultimo decennio del secolo.

Dopo la soppressione delle corporazioni, le Società Operaie di Mutuo Soccorso (SMS),


che iniziarono a svilupparsi nella seconda metà del 1800,
costituirono la PRIMA FORMA ASSOCIATIVA in cui fosse presente
anche la CLASSE OPERAIA.

- ottennero il riconoscimento giuridico con la L.3818/1886

- Il riconoscimento avvenne quando erano già in crisi, investite dalla lotta condotta dal
Partito Operaio Italiano (1885), le cui sezioni erano costituite da:
-associazioni
-leghe di resistenza di semplici lavoratori

Molte di queste leghe e società aderirono al Partito dei Lavoratori Italiani (1892), che poi
assunse il nome di: Partito Socialista Italiano nel 1895.

L’associazionismo operaio aveva già assunto dagli anni 70’ una connotazione sindacale,
per quanto ancora rudimentale.

Nasce nel 1872: l’Associazione tra gli operai tipografi italiani che:

- è iL PRIMO ESEMPIO IN ITALIA DI ORGANISMO NAZIONALE DI MESTIERE

- Aveva come protagonista una categoria di lavoratori con un’alta qualificazione


professionale

Nacquero negli stessi anni altre associazioni di mestiere e altre leghe di resistenza che si
proponevano l’obbiettivo di:

- Di riunificare gli operai in uno stesso settore

- Di introdurre un livello minimo di retribuzione


Ma verso la fine del secolo, le ragioni
- Di ridurre l’orario
della solidarietà di classe determinarono
- Promuovere la solidarietà di classe -———>
il prevalere di un altro modello di
organizzazione: quello per RAMO DI
INDUSTRIA
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La prima fase di questo processo di trasformazione può essere individuato nella


istituzione delle:

Camere del Lavoro:

- (CdL) (in analogia e opposizione alle Camere di Commercio)

- Cominciano a sorgere dal 1891

- Costituirono una istituzione operai originale

- Alle Cdl vi erano che sezioni miste di SMS, di cooperative e associazioni varie.

- Alle Cdl aderivano le leghe ( o associazioni) di lavoratori “ salariati” organizzate per


mestiere che costituivano le: sezioni uniche della CDL

Le organizzazione per mestiere delle sezioni era indispensabile per il collocamento


dei lavoratori , che costituì il compito fondamentale assolto dalla CdL con anche la
mediazione nelle lotte operaie

Nel 1893= venne istituita la Federazione Nazionale delle Camere del Lavoro,
con il compito di:

- coordinare le iniziative

- diffondere l’organizzazione, specie nel settore agricolo

Ruolo: obiettivamente moderato, scoraggiando gli scioperi, tuttavia nel:

- 1896 cominciarono a subire una forte repressione

- 1898 vennero quais tutte sciolte

Dopo pochi mesi di distanza iniziarono a ricostituirsi, il movimento camerale era già
profondamente cambiato.

Nel 1900:

- è stato attribuito dal Congresso di Milano il carattere di sindacale alle CdL,

- Vietando l’iscrizione a chi non fosse lavoratore “ salariato “

- Le sezioni vennero invitate ad aderire alle rispettive: federazioni di mestiere

La Camera del lavoro, diremmo oggi,


assumeva la forma di una struttura sindacale
locale orizzontale, cioè pluiricategoriale

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Dalle Federazioni di mestiere alla costruzione della Confederazione


Generale del Lavoro

Federazione: riunione in un unico organismo nazionale delle associazioni o leghe locali

La loro necessità nasce dall’esigenza di:

- coordinare l’azione di gruppi locali

- Sostenere gli scioperi locali e nazionali

- Stabilire condizioni contrattuali uniformi

Caratterizzata questo nuovo tipo di organizzazione da:

La sua estensione a tutto un settore del mondo della produzione, comprensivo di diverse attività
e mestieri operai

Compiti esclusivi erano:

- contrattazione sindacale

- Elaborazione della piattaforma rivendicativa generale +della direzione delle agitazuinu e degli
scioperi

Sviluppo: lento

Le prime furono:

Federazione dei lavoratori del libro

Federazione degli operai edili (1899)

Dall’inizio del 900’: le federazioni si iniziano ad organizzare per ramo d’industria:

- prima fra tutte la federazione degli operai metallurgici (FIOM)

1906= MOMENTO DI SVOLTA NELLA STORIA DELL’ORGANIZZAZIONE SINDACALE:

la costituzione della: Confederazione generale Del Lavoro (CGdL)

Essa era:

- una nuova struttura organizzativa confederale

- Costituita da tutte le organizzazioni aderenti alle federazioni nazionali di mestiere e alle locali
Camere del Lavoro

- A lei attribuita dal proprio statuto la direzione generale del movimento proletario

- In netta supremazia sulle organizzazioni di categoria e sulle strutture orizzontali locali (Cdl)

- Vi era un forte accentramento, presente anche nelle federazioni, cosicché le strutture


decentrate risultano del tutto prive di autonomia

Negli anni successivi, questo accentramento venne accentuato: venne riservato alla
Confederazione il potere di proclamare gli scioperi.

Venne quindi disciplinata in modo più preciso la presenza di due livelli di organizzazione:

- Verticale —> cioè di categoria

- Orizzontale—> cioè pluricategoriale


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L’assenza di un’organizzazione sindacale degli operai all’interno dei luoghi dei lavoro ( alla
quale gli industriali si opponevano) era frutto di una scelta politica della CGdL),
preoccupata che l’unità di categoria potesse frantumassi in mille rivendicazioni
aziendalistiche.

La CGdL scelse piuttosto dei sviluppare: le Commissioni Interne (CI)

Esse:

- nate come organismi occasionali

- Formate da operai delegati dai loro compagni di lavoro a trattare con il datore di lavoro, in
occasione di agitazioni e di vertenze aziendali.

- Si svilupparono negli ultimi anni del 1800

- Erano un’emanazione diretta del sindacato, elette dai soli iscritti

- Non avevano potere contrattuale

- Funzioni di vigilanza sull’applicazione dei contratti

- Composizione delle controversie aziendali

Sono= uno strumento dell’istanza sindacale per controllare i propri aderenti e per esercitare
pressioni e coazioni sui non organizzati

La nascita di nuove confederazioni

Questo panorama sindacale inizia a complicarsi nel secondo decennio del 1900. Infatti:

- da una parte = la CGdL subì una scissione nel 1912 ad opera dei sindacalisti
rivoluzionari ( guidati da De Ambris), i quali costituirono un nuovo sindacato: USI,
caratterizzato dalla massima autonomia alle federazioni nazionali di categoria e alle
strutture orizzontali. Nel
1914, l’USI, con lo scontro tra neutralisti e interventisti ( periodo 1 g.m. ) fu anche essa
scissa in 2. E la minoranza interventista nel 1918 diede luogo alla costituzione della UIL

- Dall’altre parte = nel 1918 nacque la Confederazione dei lavoratori italiani (CIL)
Essa era una confederazione sindacale cattolica. Rifiutava la lotta di classe e auspicava
la collaborazione tra capitale e lavoro. Obiettivo:
—> maggior sviluppo della legislazione sociale
—> estensione della contrattazione collettiva
Organizzazione interna:
—> presente livello verticale ( che faceva capo alle Federazioni Nazionali ).
—> presente anche un livello orizzontale ( le unioni del lavoro, che nei fatti svolgevano
compiti di direzione dell’azione sindacale a livello locale )

Le associazioni degli imprenditori nacquero come organizzazioni a carattere difensivo e


temporaneo. La prima vera organizzazione fu: Lega Industriale di Torino (1906)

Obiettivo —> tutelare interessi industriali e dell’industria e di ricercare nel rispetto della
libertà di lavoro “ buone intese” con gli operai. Quindi anche la contrattazione con le
leghe operai è tra gli obbiettivi, a patto tuttavia che il sindacato rimanesse fuori dalla
fabbrica.

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Questo modello della lega torinese si Estes rapidamente, tant’è che emerse agli industriali
la necessità di un’organizzazione centralizzata nazionale:

“ La Confederazione Italiana dell’industria” (CIDI)


—>Torino, 1910

—> Raggruppava sia:

- le associazioni o leghe locali degli industriali

- Singoli industriali del Nord

Il quadro giuridico. Dal divieto di coalizione alla tolleranza legale dello


sciopero

Le vicende appena espostesi si svolsero in un quadro giuridico che conobbe anche esso
una notevole evoluzione.

L’associazione sindacale, anche se non formalmente vietata aveva degli ostacoli:

- la legge 1797/1864

- Disposizioni contenute negli art. 385-388 del Codie penale sardo italiano del 1859, che
sancivano il divieto di coalizione, cioè di ogni accordo tra industriali o operai, diretto a
far pressione sulla controparte perchè accettasse condizioni meno favorevoli: “principi
di esecuzione” della coalizione, che costituivano elemento essenziale del reato, erano:
la serrata e lo sciopero

La realizzazione della “depenalizzazione” dello sciopero e della serata richiese tempi


lunghi:

Nel 1887 il Ministro di Grazia e Giustizia Zanardelli presento alle Camere il suo progetto di
codice penale, che conteneva 3 articoli sui delitti contro la libertà del lavoro:

—> essi non menzionavano ne lo sciopero ne la serrata ne la coalizione

—> essi prendevano nuovi delitti: comportamenti violenti e o minaccioso anche


consistenti nella non pacifica, ma al contrario violenta o minacciosa cessazione della
attività da parte dell’imprenditore ( serrata) o nella sospensione del lavoro da parte degli
operai (sciopero)

Anche dopo la depenalizzazione, lo sciopero restava tuttavia una mancata esecuzione


della prestazione lavorativa e dunque un inadempimento contrattuale.

Nonostante lo stento della Magistratura ad adeguarsi a queste nuove norme, l’apertura


dell’ordinamento verso l’associazionismo sindacale e al tolleranza legale delle azioni di
lotta segnarono la nascita di un quadro giuridico che consegnava alla libera
determinazione delle forze contrapposte lo sviluppo dei propri reciproci rapporti.

La legge istitutiva dei collegi dei probiviri

Nel 1878 fu istituita dal Ministro Crispi una Commissione permanente di inchieste sugli
scioperi, che accolse, tra le proposte avanzate per risolvere i conflitti di lavoro, quella di
istituire un “collegio dei probiviri”—> scopo conciliare e decidere sulle controversie sorte
tra industriali e operai, contribuendo così a conservare la pace sociale.

Ai lavori della commissione fece seguito nel 1883 un progetto di legge sull’istituzione dei
Collegi dei Probiviri, il cui fine esplicito era la “ pacificazione sociale”.

Il progetto non arrivò neppure in Parlamento

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Nel 1891 il Governo presto un proprio progetto, molto più favorevole agli industriali, che
divenne legge: L.25/1893:

—> una legge tardiva, difettosa e debole

—> rappresentava un correttivo all’assoluta insindacabile libertà contrattuale

—> prevedeva che i Collegi dei probiviri non dovessero essere obbligatoriamente
costituti, la loro costituzione era lasciata alla volontà delle parti interessate

—> gli industriali frequentemente non collaboravano

—> sulla questione della competenza dei Collegi: l’ufficio di conciliazione aveva una
competenza più ampia di quella della giuria

—> la legge escludeva le controversie economiche collettive, ammettendo le


controversie su: “salari e orari da convenirsi” solo nel caso avessero carattere individuale

Cioè concordati collettivi, oggi diremmo contratti collettivi

I colleghi si estesero progressivamente a settori come l’impiego privato, ma già nel 1923
cominciarono i primi attacchi a questa istituzione: che si conclusero nel 1928 con la
demolizione da parte del legislatore fascista dell’intero edificio proibivirale.

La giurisprudenza dei probiviri: il primo diritto sindacale di fonte extralegislativa

Oggetto delle controversie sottoposte ai collegi dei probiviri furono essenzialmente i:

- salari

- I danni derivanti dal licenziamento

- Lo scioglimento del contratto di lavoro e di tirocinio

Dati i limiti imposti dal legislatore alla competenza dei Collegi dei probiviri, le grandi
questioni collettivo restarono al di fuori della loro giurisdizione ( come scioperi ).

I giudizi si concludevano spesso a favore degli industriali, ciò nonostante ebbero


l’indubbio merito du creare un nuovo diritto del lavoro industriale.

Gli orientamenti della giurisprudenza dei probiviri si trovarono di fronte:

- a una nuova pratica: “ il concordato di tariffa” o “ contratto collettivo” di cui si


trovarono a dover decidere la: - natura -efficacia.
Si trattava di contratti stipulati “ tra gruppi di operai e industriali su determinate norme”,
perchè entrassero obbligatoriamente a far parte dei contratti di lavoro stipulati e da
stipulassi tra di loro, cioè perchè funzionassero “come fonte del loro regolamento”.
Dalle prime esperienze di concordati aziendali si era proressivamente passati alle più
mature esperienze di contratti collettivi applicabili in una certa zona, o addirittura
nell’intero territorio nazionale, il cui obiettivo era “arrivare all’uniformità dei trattamenti
salariali e normativi a livello nazionale”.
I collegi, partendo dalla considerazione della funzione economico-sociale del
concordato, diretto a regolare la concorrenza tra industriali e operai, affermarono
l’efficacia ULTRA PARTES del contratto collettivo.
I collegi affermarono l’inderogabilità del contratto collettivo ad opera delle pattuizioni
individuali

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- Non meno innovative le decisioni che i colleghi assunsero in materia di sciopero. I


collegi ribevano che la partecipazioni dell’operaio ad uno sciopero sospendesse il
rapporto di lavoro e non potesse “ mai costituire contro di lui scusa di risoluzione”.
Pertanto: l’operaio licenziato alla ripresa dei lavori ha diritto ad una indennità pari ad 8
giorni di salario.

Il contratto collettivo nella elaborazione dottrinale


Le statuizioni dei Collegi in ordine all’efficacia ultra partes e l’inderogabilità del contratto
collettivo risultavano fragili: sulla sola base del diritto ( civile) allora vigente non sembrava
possibile né:

- estendere l’efficacia del c.c. ultra partes—> cioè oltre i limiti della rappresentanza
negoziale delle parti che lo avevano stipulato

- Impere la derogabili del contratto collettivo in sede di pattuizione individuali

I primi commentatori che studiavano il contratto collettivo ancora vedevano in esso un


contratto:

- o di lavoro cumulativo

- O di lavoro complesso ( ed era questo già un progresso )

Nel 1904: Giuseppe Messina individua un presupposto concettuale fondamentale per il


contratto collettivo: “ l’accordo interno del gruppo” —> esso determina la “ riduzione
della pluralità dei membri di una parte contraente ad un unico paciscente “, cioè un unica
parte e consente di produrre all’interno del gruppo l’obbligo reciproco di rispettare le
tariffe concordate.

Il c.c. era concepito come un contratto unico, in grado di produrre un effetto obbligatorio
per il datore di lavoro che si era vincolato, con un’unica promessa, verso un gruppo di
lavoratori, rappresentati dall’associazione stipulante.

Messina cosi tracciava una distinzione tra:

- c.c. —> a cui assegnava la funzione normativa di disciplinare i futuri contratti individuali
di lavoro

- Contratto individuale di lavoro

L’effetto obbligatorio del contratto collettivo non poteva essere eliminato mediante il
consenso del singolo lavoratore.

Il c.c. era vincolante per entrambe le parti, ma tale vincolatività e ( efficacia obbligatoria )
non comportava anche l’efficacia reale del c.c. ( o effetto normativo —> vale a dire la n
nullità delle clausole difformi del contratto individuale)

Occorreva tuttavia una legge.

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La questione dell’intervento della legge

L’atteggiamento verso il sindacalismo operaio era mutato e se ne può trovare conferma


anche nell’istituzione del Consiglio superiore del lavoro grazie alla L. 246/1902.

In seno al quale le federazioni dei lavoratori vennero chiamate a designare sette operai.

Delle proposte formulate nell’ambito del Comitato permanente rappresentavano una


vena sottilmente illiberale, che prefiguravo uno stretto controllo poliziesco sulle
associazioni sindacali registrate, alle quali sole era dato il potere di stipulare concordati di
tariffe.

La redazione finale, redatta da Messina, respingeva quelle proposte e prospettava


politiche del diritto coerenti alle strategie di uno Stato liberale, nel quale la legge non
doveva disinteressarsi delle parti contraenti, ma riservare invece particolari benefici ai
concordati stipulati dalle associazioni che volontariamente si fossero sottopose alla
procedura di registrazione.

L’effetto principale die concordata sarebbe stat la inderogabilità assoluta:

“Le parti stesse e gli altri interessati potranno ignorare le stipulazioni difformi come se non
fossero mai state concluse e potranno esigere quanto i concordati esigevano —> i datori
di lavoro e i lavoratori sarebbero stati obbligati a rispettare i concordati anche nei conflitti
di lavoro conclusi con persone non vincolari dalla tariffe ( cioè estranee alle associazioni
stipulanti ).

La proposta non ebbe buona accoglienza: il dissenso più radicale riguardava il carattere
facoltativo della registrazione delle associazioni sindacali, osteggiata da quanti già
penavano ad un intervento della legge più forte.

Insomma, l’intervento della legge era considerato ineluttabile. La vena sottilmente


illiberale dei giolittiani andava assumendo connotati sempre più marcamento non liberali.

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LA LEGISLAZIONE SINDACALE DEL REGIME FASCISTA

Dalla fine della guerra all’avvento del fascismo

Qui daremo sinteticamente conto della legislazione sindacale che regolò i rapporti
collettavi dal 1926 fino al 1944 segnando il passaggio dal sistema caratterizzato
dall’astensione legislativa ad un sistema

regolato minutamente dalla legge.

Per poter comprendere ragioni di questo passaggio epocale è necessario fa riferimento


ad arcui passaggi storici, che segnarono l’avvento del fascismo, e con esso anche la
modificazione profonda dell’ordinamento giuridico che prende il nome di diritto
corporativo:

- l’iniziativa sindacale negli anni della guerra fu molto ridotta, ma la pressione operaia
durante la guerra aumentò e si temeva che potesse esplodere all’indomani della
guerra, sulla spinta delle rivendicazione di tuti coloro che avevano copiato il proprio
dovere verso la patria e temevano di non ottenere nulla in cambio dei tanti sacrifici fatti.
—> i primi a farsi sentire furono: i contadini poveri e i braccianti
—> insieme alle lotte degli operai dell’industria del 1919

- L’esperienza più significativa di una spinta rivoluzionaria fu quella dei Consigli di


Fabbrica, che fu breve ma cin effetti dirompenti

La prima sperimentazione dei consigli avvenne con le elezioni della Commissione


interna della FIAT: i commissari di reparto eletti da tutti i lavoratori costituirono il:

Consiglio di Fabbrica —> il movimento dei consigli nel 1920 usci sconfitto al termine di
una lotta sindacale promossa dalla FIAT, capofila della controffensiva industriale.

- Vi furono delLe aggressioni delle squadre fasciste, che assaltano e incensavano le


camere del lavoro e le sedi sindacali, che però restavano impunite e diventavano per
questo che sempre più spavalde

- Le organizzazioni sindacali in questo periodo vennero distrutte dalle leggi repressive e


ancora prima dal padronato: “il fascismo si interi come elemento di stabilizzazione, per
immobilizzare in modo permanente una c lèsse operaia già battuta”

- Mentre con le azioni violente le “ squadracce” attaccavano Camere del Lavoro e


sindacalisti, i fascisti diedero vita, tra il 1921 e il 1922, a proprie organizzazioni
sindacali:
Il CONGRESSO DI BOLOGNA (1922)
-> è l’atto ufficiale di nascita del sindacalismo fasciata.
-> in questa occasione venne fondata: L’Unione Federale italiana delle Corporazioni

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- poi divenne la Confederazione delle Corporazioni fasciste

- Ad essa dovevano fare capo: 1- la corporazione del lavoro industriale 2- agricolo 3- del
commercio 4- delle classi medie e intellettuali 5- della gente del mare.

- A capo della Confederazione fu posto: Edmondo Rossini

- Dopo la marcia su Roma, l’appartenenza a sindacati non aderenti alla Confederazione di


Rossoni venne considerata incompatibile con la qualità “ fascista”

- Essa lavorava alla costruzione di rapporti di collaborazione col padronato, per avere in
cambio il riconoscimento che lo scarso peso numerico non le avrebbe consentito di
ottenere

- La confederazione di Rossoni + la Confederazione generale dell’industria (org. rapp.


industriali) stipularono il PATTO DI PALAZZO CHIGI —> nel quale la seconda si impegna
nella collaborazione coi sindacati fascisti “ perchè l’azione sindacale si svolga secondi le

- 1924: il Governo emanò un decreto: r.d.l. 64/1924 con il quale i sindacati erano posti
sotto il controllo del Prefetto —> poteva:
1) revocare o annullare gli atti delle organizzazioni sindacali,
2) scioglierne i consigli di amministrazione
3) liquidarne il patrimonio
se avesse avuto il fondato sospetto di abusi alla pubblica fiducia o di illecite erogazioni
di fondi per scopi diversi dall’assistenza economica e morale dei lavoratori

- La crisi politica, seguita dal delitto Matteotti, ebbe riflessi sul sindacalismo fascista, che
attraversò un periodo di difficoltà, nel quale si manifestò la tendenza a rendere la
Confederazione autonoma dal PNF. —> ma il colpo di stato del 1925, modificando la
situazione politica, spezzo via anche dubbi e incertezze.

- Il PATTO DI PALAZZO VIDONI (1925)


—> stipulato tra: 1- Confindustria e 2- Confederazione delle Corporazioni fasciste
—> segnò la svolta decisiva: le due Confederazioni si riconoscono reciprocamente
come rappresentanti esclusive delle due parti

- La disciplina giuridica dei rapporti sindacali prese corpo nella L. 563/1926

- La CGdL che aveva cercato di resistere al regime di polizia si sciolse nel 1927

La legge sindacale fascista


La L. 563/1926 è una legge complessa, nella quale possiamo distinguere 4 diversi


capitoli:

associazione e organizzazione sindacale


Contratto collettivo

Sciopero e serrata
Magistratura del Lavoro ( non rilevante, dura quanto il fascismo )

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Capitolo 1):

L’art. 1: “ possono essere liberamente riconosciute le associazioni sindacali a tutela dei


lavoratori e dei datori di lavoro intellettuali e manuali quando dimostrino l’esistenza di certe
condizioni” -> tra le quali vi erano scopi di educazione morale e sicura fede nazionale, cioè
condizioni dei sindacati fascisti.

Per ogni categoria doveva essere riconosciuta legalmente una solo ass. sindacale.

“Categoria” —> il complesso di coloro che svolgevano una stessa attività economico-
professionale, e che erano perciò considerati portatori di interessi comuni, tutelabili mediante
la costituzione di una associazione che li rappresentasse.

L’art. 5: le ass. legalmente riconosciute acquistano personalità giuridica di diritto pubblico


( cioè una posizione di supremazia: le ass. riconosciute erano considerate organi dello stato)
e grazie al riconoscimento, assumevano la rappresentanza legale di tutti i lavoratori o datori di
lavoro iscritti e non iscritti appartenenti alla categoria per cui le ass. medesime erano state
costituite. —> appartenenza predeterminata

Le ass. riconosciute erano assoggettate ad un controllo del Ministro per le Corporazioni

Inoltre le ass. sindacali potevano anche imporre il pagamenti di contributi anche ai non iscritti,
in base al principio che anche costoro si giovavano dell’attività delle associazioni sindacali
riconosciute.

L’art.6: esclude dal riconoscimento le ass. miste di datori di lavoro e lavoratori, miste di
lavoratori intellettuali e manuali.

Art 3: prevedeva organi centrali di collegamento tra rapp. Dei lavoratori e dei datori di lavoro:
le Corporazioni:

- Erano 22, una per ogni settore di produzione, istituite nel 1934

- Avevano poteri: consultivi, conciliativi, normativi

- Emesse su richiesta delle ass. collegate, ed emanate dal capo del Governo erano le:
ordinanze corporative —> fonte del diritto —> esercizio di questo potere normativo è
scarso.

L’organizzazione delle ass. riconosciute venne modificata nel 1934, realizzando una
centralizzazione della sua struttura., organizzata su due livelli:

- Verticale —> la Federazione, organizzazione nazione ale di categoria —> potere di


stipulare il contratto collettivo nazionale di categoria

- Orizzontale —> la Confederazione, organizzazione nazionale delle Federazioni

Venne ricovato il riconoscimento giuridico delle associazioni di livello inferiore, sostituite dalle
union provinciali —> uffici provinciali delle Confederazioni.

Veniva cosi eliminato il livello associativo più vicino al mondo del lavoro. Il controllo politico
diveniva in tal modo più semplice e diretto.

La dirigenza era formata da burocrati fedeli al regime, infatti la nomina del presidente e dei
consigli direttivi era soggetta ad approvazione governativa. Le qualità morali ( avere la tessere
del PNF ) che erano richieste per i dirigenti delle organizzazioni erano richiesta anche per i
dipendenti delle organizzazioni -> dovevano essere fascisti “doc”

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Capitolo 2):
La funzione affidata dalla legge alle ass. riconosciute consisteva nel: stipulare contratti collettivi
corporativi.

Art.10: i contratti collettivi corporativi ( c.c.c.) stipulati dalle ass. di datori di lavoro, lavoratori,
artisti e di professionisti legamenti riconosciute avevano effetto rispetto a tutti i datori di lavoro,
lavoratori, artisti e professionisti della categoria a cui il contratto si riferiva, e che esse
rappresentavano legalmente.

Il c.c.c. :

- appartiene di per sé al diritto pubblico, perchè pubblici sono i soggetti che lo pongono in
essere e anche le funzioni che esso persegue

- Il carattere pubblicistico non risolveva comunque la questione della sua natura giuridica,
alquanto controversa

- È dotato dalla legge di efficacia normativa non solo per le parti stipulanti, ma anche per i terzi
non soci delle associazioni stipulanti —> l’individuazione della funzione normativa del c.c.c.
produsse il risultato di svuotare del suo contenuto tipico il meccanismo contrattuale,
riducendolo ad un mero sistema di formulazione bilaterale di norme giuridiche.

I sindacati assumevano la titolarità di un vero e proprio potere di regolamentazione dei rapporti di


lavoro, in quanto espressione del decentramento normativo dello Stato.

La disciplina del c.c.c. era contenuta essenzialmente nel regolamento di attuazione


( n°1130/1926) della legge del 1926, che apportava anche qualche modificata all’art. 10 della L.
stessa.

Possiamo ora leggere tale disciplina nel codice civile —> artt. 2067 a 2078 —> in essi furono
riscritte le disposizioni contenute nella legge del 1926 e nel regolamento di attuazione. La gran
parte di questi artt. oggi è abrogata a seguito:

- della soppressione dell’ordinamento corporativo

- della entrata in vigore della Costituzione.

Della disciplina del c.c.c è necessario ricordare solo quelle parti che presentano interesse anche
per lo studioso di diritto sindacale attuale:

PARTI STIPULANTI

- il regolamento stabiliva che: “possono stipulare c.c.c. di lavoro le ass. sindacali legalmente
riconosciute, se essi non vengono stipulati da quest’ultime saranno nulli”

- entrata in vigore del nuovo regime non comportava tuttavia la nullità dei c.c. precedentemente
stipulati.

EFFICIACIA SOGGETTIVA

La legge conferiva efficacia erga omnes, cioè la capacità di produrre effetti nei confronti di tutti i
datori di lavoro e i lavoratori appartenenti alla categoria per la quale il contratto era stato
stipulato.

L’AMBITO DI APPLICAZIONE

Secondo quarto previsto dal regolamento, poi riscritto nell’art. 2069 c.c. (abrogato) il contratto
collettivo c. doveva contenere l’indicazione della:

- categoria

- Impresa

- territorio di efficacia

Se: il contratto collettivo non definiva il proprio ambito di applicazione (categoria contrattuale),
allora si applicava a tutti coloro che erano legalmente rappresentati dalle associazioni stipulanti,
secondo quanto risultava dagli elenchi formati al fine dell’applicazione dei contributi sindacali

(categoria sindacale —> cioè l’ambito della rappresentanza legale) (continua di là) 13

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Art.2070 funzione: risolvere un problema —> quale c.c.c. applicare quando non vi fosse perfetta
corrispondenza tra l’inquadramento sindacale del datore di lavoro e l’attività effettivamente svolta.
A norma dell’art. 2070 c.c., ai fini dell’applicazione del c.c.c. l’appartenenza alla categoria
professionale si determinava:

- non in base all’inquadramento sindacale —>cioè all’assoggettamento al potere di


rappresentanza legale dell’associazione riconosciuta per la categoria alla quale il datore di
lavoro apparteneva in ragione della sua attività.

- Ma in base alla attività esercitata dall’imprenditore. Se poi l’imprenditore esercita distinte attività
aventi carattere autonomo, si dovevano applicare ai rispettivi rapporti di lavoro i contratti
collettivi corrispondenti alle singole attività.

IL CONTENUTO

Art. 2071 (abrogato)—> prevedeva un contenuto obbligatorio del c.c.c :

Il contenuto era diviso in 2 parti:

- una parte contrattuale (oggi diciamo “obbligatoria”) —> erano contenuti diritti e doveri
reciproci delle parti stipulanti

- una parte normativa ( oggi =) —> erano stabilite i diritti e doveri reciproci delle parti del
contratto individuale di lavoro destinatarie del contratto collettivo

Questa è l’unica parte che costituisce il contenuto obbligatorio del c.c.c. limitatamente alle
clausole essenziali -> esse si distinguono tra: stabilite a garanzia del datore di lavoro e a garanzia
dei lavoratori.

Eventuali lacune:

- se parziali—> annullamento

- se totali —> nullità

EFFICACIA NEL TEMPO

La materia regolata dagli artt. 2073 e 2074 (abrogati).

Art 2073: l’efficacia del c.c.c. poteva venir meno, ove 3 mesi almeno prima della scadenza, una
delle associazioni stipulanti notificasse all’altra la “denunzia” del c.c.c., finalizzata ad aprire le
trattative per la stipulazione di un nuovo contratto collettivo.

Art.2074: la scadenza tuttavia non produceva la cessazione degli effetti del contratto, in quanto
questo art. prevedeva che il contratto scaduto fosse ultrattivo, che continuasse cioè a produrre
effetti fino a che non intervenisse un “ nuovo c.c.c.”

INDEROGABILITA’

L’art.2077 c.c. —> riformulava un art. del regolamento di attuazione della legge del 1926.

—> è intitolato la “ inderogabilità del contratto collettivo

L’art 54 del reg.d. sancì l’inderogabilità del c.c. (efficacia normativa o reale: nullità e sostituzione
automatica delle clausole difformi dei contratti individuali di lavoro)

L’art. 10 specificava come chi non rispettasse il c.c.c fosse responsabile civilmente.

A norma dell’art. 2077:

il c.c.c costituiva la disciplina giuridica comune di tutti i rapporti individuali di lavoro fra datori
di lavoro e lavoratori della categoria alla quale si applicava il c.c.c. —> ilc.c.c. limitava
l’autonomia contrattuale individuale

La legge assicurava l’efficacia vincolante del c.c.c. in due modi:


- obbligando i singoli ad uniformare il contratto individuale al contratto collettivo
- disponendo che in caso di clausole difformi queste fossero sostituite di diritto dalle clausole
del contratto collettivo —> le clausole difformi se precedenti al c.c.c cessano di avere
efficacia, se successive sono nulle
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Il c.c. spiegava pertanto la propria efficacia normativa ( detta anche reale) sia nei confronti dei
contratti individuali preesistenti, sia di quelli successivi alla sua entra in vigore, determinando la
modificazione del contenuto dei contratti individuali presenti e futuri.

C) L’eccezione alla regola era rappresentata dalla presenza di speciali condizioni dei contratti
individuali più favorevoli ai lavoratori, che restavano salve ( in quanto, trovando fonte nel contratto
individuale potevano essere modificate solo consensualmente dalle parti del contratto individuale)

A fronte della funzione livellatrice dei c.c.c., lo spazio riservato all’autonomia individuale si
restringeva alla stipulazione di clausole poste in essere in relazione a speciali attitudini del
lavoratore, che il datore di lavoro intendesse premiare con un trattamento di maggior favore

L’inderogabilità del c.c.c consentì alla dottrina del tempo di costruire la teoria del contratto collettivo
come fonte eteronoma di disciplina del contenuto di contratti individuali di lavoro

(es. pagina 33)

Capitolo 3):
Proibizione sciopero e serrata.

Provvedimento penalmente sanzionato era la più dura conseguenza della privazione della libertà
sindacale imposta ai lavoratori. Questo capitolo fu riscritto a breve distanza di tempo, in modo
oppio analitico nel Codice penale di Rocco del 1930.

Capitolo 4):
Art.13: era di competenza della Magistratura del lavoro la decisione di “ tutte le controversie relative
alla disciplina dei rapporti collegi i di lavoro, che concentrano sia l’applicazione de c.c.c sia la
richiesta di nuove condizioni di lavoro”

Legittimati ad agire erano solo le ass. sindacali riconosciute, e prima era necessario un tentativo di
risoluzione amichevole della controversia. Le decisioni emesse in confronto delle ass. avevano
efficacia erga omnes.

La necessità di questo organo può essere visto come la contropartita aa fronte della abolizione del
diritto di sciopero. Ma fin dall’inizio era chiaro che si trattasse di una contropartita fittizia

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DALLA SOPPRESSIONE DELL’ORDINAMENTO CORPORATIVO


ALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA COSTITUZIONE

Il patto di Roma

Premessa: L’ordinamento corporativo fu soppresso nel 1944 con il d.l.lgt. n°369/1944, e


vi fu una transizione verso un nuovo ordinamento che trova fonte nella Costituzione del 1
gennaio del 1948.

Due eventi importanti si verificarono durante il primo governo Badoglio:

- emanazione del r.d.l. n°721/1943 con cui vennero smantellate le istituzioni tipicamente
corporative—> le organizzazioni sindacale di diritto pubblico venivano invece poste
sotto gestione commissariale, affidata ad uomini dell’antifascismo.

- Buozzi (giustiziato dai nazisti nel 1944) e Mazzini stipularono il 2 settembre del 1943 il:
primo contratto collettivo post fascista —> esso era l’accordo istitutivo delle
Commissioni interne di fabbrica, che rinascevano dopo quasi 20 anni. Ma questo
accordo nasceva ad efficacia sospesa e differita, a causa degli avvenimenti politici
successivi, che rimandavano la ripartenza dell’attività sindacale.

L’8 settembre dopo la firma dell’armistizio con i tedeschi questi occupano l’italo fino a
Napoli e il re fuggi verso Brindisi dove fondo la nuova sede del governo Badoglio.

A Roma si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale ( formato da parati antifascisti ), e


intanto nel Nord, occupato dai nazisti e governato dalla Repubblica di Salò, si apriva la
stagione dei grandi scioperi dell’inverno del 1943/4 che culmina con la settimana di
scioperi del marzo del 1944.

L’8 settembre del 1943 il governo fascista riportato al potere dai tedeschi aveva
dichiarato decaduti i commissari antifascisti —> comincio allora la fase delle riunioni
clandestine dei sindacalisti antifascisti —> socialisti / comunisti / democristiani
tra i quali vi erano divergenze profonde.

Le trattative tra gli esponenti sindacali legati ai maggiori 3 partiti antifascisti:

- democrazia cristiana

- Partito comunista

- Partito socialista

per la costituzione di una confederazione sindacale unitaria si conclusero con la:


dichiarazione dell’unità sindacale, detta PATTO DI ROMA (3 giugno del 1944).

Secondo il patto di Roma, l’unità risposava su 4 principi:

- Democrazia interna —> elezione dal basso di tutti i


responsabili

- Rispetto delle diverse opinioni

- Partecipazione proporzionale delle minoranze

- Indipendenza dei partiti politici

Ma nella realtà la forma organizzativa continuava a sancire


la derivazione politica dei dirigenti

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La confederazione prese il nome di:


CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA DEL LAVORO (CGIL):

- Con l’unità sindacale, il sindacato si proponeva per la prima volta nel ruolo di
componente della società nazionale, come forza autonoma rispetto ai partiti politici

- La CGIl unitaria si divide “una struttura di massa, capace di accogliere e dirigere una
base diversificata e in rapidissima crescita”

- Le adesioni al sindacato nel 1945 —> 1 milione, nel 1946 —> 6 milioni

- Nei suoi primi 2 anni di vita firmo importanti accordi agendo in una prospettiva
essenzialmente politica di unità e solidarietà nazionale, su cui convergevano sia la
concezione marxiana sia il solidarismo sociale cristiano.

- Ogni modificazione del rapporto di forza sulla scena politica era dunque destinata a
riflettersi immediatamente in seno al sindacato. E la dipendenza dalle scelte dei partiti
divenne più che mai evidente nel 1947—> nel giugno di questo anno a Firenze, si tenne
il primo congresso della CGIL in un clima di grande tensione, in quanto vi erano duri
contrasti con la corrente cristiana e le correnti comuniste (maggioritaria) e socialiste.

Essi vertevano sul problema dell’intervento della Confederazione sui problemi politici. Un
compromesso fu rappresentato dall’art. 9 dello statuto , limitando l’interventi politico del
sindacato ad ipotesi eccezionali. Questo compromesso inizialmente salvò l’unità.

Ma, in seguito a corrente cristiana comincio a dissociassi pubblicamente dagli scioperi


proclamati dalla Confederazione, e sotto anche la pressione del Vaticano, la corrente
cristiana firmò un “patto di alleanza”:

—> per l’indipendenza del sindacato con le correnti repubblicane e la corrente socialista
autonoma

—> il patto rappresentava una rottura dell’unità sindacale; l’occasione formale si presentò
a poca distanza di tempo: il 14 luglio del 1948, Palmiro Togliatti, segretario del partito
comunista, subì un attentato, dal quale usci gravemente ferito —> al diffondersi della
notizia, nel clima teso dia sul periodo, decine di camere del Lavoro proclamarono
spontaneamente lo sciopero. Fermare questo sciopero era essenziale anche per evitare la
rottura con la corrente cristiana: per farlo la CGIL decise di proclamare essa stessa lo
sciopero, per poi poterlo sospendere il giorno successivo. Questa decisione però non
impedì la rottura.

L’unità sindacale ebbe, quindi, però vita breve: nel 1948 la CGIL suoi una scissione
interna, con l’uscita dei socialisti autonomisti e dei democristiani, che costituirono altre
confederazioni. Da allora di unità sindacale non si è più parlato.

Precisamente, la corrente cristiana abbandono la confederazione il 16 luglio del 1948, e


meno di un anno dopo anche le correnti repubblicane e social democratiche si dichiarano
sciolte, uscendo dalla CGIL.

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L’unità sindacale si era costituita in un momento della vita politica del paese che si era
ormai concluso; la larga maggioranza che la sinistra comunista e socialista deteneva nella
CGIL non corrispondeva più agli equilibri politici e parlamentari, dove la aggiroanza era
saldamente nelle mani del centro-destra.

Dalla scissione nacquero nel 1950:

- CISL —> di ispirazione cattolica, che si proponeva in contrasto con la CGIL come
sindacato apolitico, non classista, e rivendicativo

- UIL —> sindacato laico di ispirazione socialdemocratica

- CISNAL —> confederazione di ispirazione corporativa, che raccoglieva l’eredità del


sindacato fascista

Si apriva una fase di intenso conflitto tra sindaci, il cui risultato fu l’indebolimento
dell’intero movimento sindacale, di cui furono ovviamente i lavoratori a pagarne il prezzo
più alto.

La soppressione dell’ordinamento corporativo

Il d.l.lgt. n° 369 /1944:

- sopprime l’ordinamento corporativo

- la sua emanazione venne preceduta dall’ordinanza numero 28 con cui glia lleati
imposero lo scioglimento delle organizzazioni sindacali fasciste.

L’art.43 di detto decreto:

Sancisce che per i rapporti collettivi e individuali restano in vigore, salvo le successive
modifiche, le norme connette nei contratti collettivi, negli accordi economici e nelle
sentenze della Magistratura del Lavoro.

Può sembrare sorprendente che un decreto che elimina tute le istituzioni corporative
mantenga invece in vita le norme da queste prodotte. Ma ci sono delle ragioni storiche ch
giustificano questa azione: scelta motivata da ragioni di urgenza, in quanto in quel
momento più di mezza Italia era in guerra.

La prima contrattazione collettiva vide luce solo alla fine del 1945. Ai tempi infatti la
disciplina dei rapporti di lavoro era contenuta quasi esclusivamente nei contratti
corporativi, quindi eliminando quest’ultimi i lavoratori si sarebbero tratti privi di una
disciplina minima uniforme delle condizioni di lavoro

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L’art 43 prevedeva che la conservazione in vita, detta ultrattività ,dei contratti collettivi
corporativi trovasse un termine finale nella sopravvivenza di successive modifiche.
Mettendo un termine all’ultrattività delle norme corporative il legislatore mostrava di
ritenere che in tempi ragionevolmente brevi sarebbe stato messo in vigore un nuovo
ordinamento sindacale, sostitutivo del precedente.

Ma la situazione fu ben diversa. Il quadro giuridico di quel momento poteva consentire ad


associazioni provate non riconosciute di stipulare contratti collettivi ma non consentiva
che gli accordi stipulati da soggetti privati, avessero quell’efficacia erga omnes proprio
dei c.c.c.

Stando cosi le cose, il termine posto dal legislatore all’ultrattività dei c.c.c. , ricorre do
all’espressione “ salvo successive modifiche” poneva dei problemi interpretativi di non
facile soluzione.

Problemi di interpretazione dell’art. 43, d.l.lgt. n°369/1944

2 questioni interpretative:

- Prima questione:
Se e in che misura, un nuovo contratto collettivo, privo di efficacia erga omnes,
potesse essere considerato una successiva modifica del c.c.c.
La giurisprudenza dell’epoca rispondeva affermando che: nel caso in cui il datore di
lavoro fosse stato vincolato ad applicare il nuovo contratto collettivo, allora si sarebbe
verificata la “successiva modifica” di cui parla l’art 43. —> e di conseguenza, la
sostituzione del vecchio c.c.c. con il nuovo. Ove inca kl dato di lavoro non fosse stato
vincolato all’applicazione del nuovo c.c. di diritto comune, i rapporti di lavoro sarebbero
stati ancora regolati dal vecchio c.c.c..
La giurisprudenza costituiva l’obbligo del datore di lavoro di applicare il nuovo c..c
facendola discende dalla applicazione delle regole in materia di associazioni di diritto
privato.

• Nel momento in cui si è iscritto ad una ass. imprenditoriale, il datore di lavoro ha


contratto un vincolo associativo, che implica alcuni obblighi di condotta, tra i quali
appunto l’obbligo di applicare nella propria impresa il c.c. stipulato dall’associazione a
cui egli ha aderito.

• Se.ì, viceversa, il datore di lavoro non è iscritto all’ass. Stipulante, il nuovo contratto
collettivo non entra neppur in discussione, egli continuerà ad essere obbliato ad
applicare il c.c.c.

- Seconda questione:
Se il n.c.c. potesse derogare in peggio per i lavoratori al c.c.c.

• L’orientamento iniziale della giurisprudenza fu nel senso della non dergoabilità in


peggio: derogabili che si riteneva impedita dal principio dell’inderogabilità del c.c.c.
sancito dall’art.2077 codice civile.

• Successivamente, la giurisprudenza pervenne a duna opposta conclusione affermando


l’inapplicabilità ai rapporti tra contratti collettivi aventi diversa efficacia dell’art. 2007

• Col ripristino dell’attività sindacale: vi fu la libertà di introdurre nei nuovi contratti


deroghe in meglio o in peggio si c.c.c.

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Dal dibattito in assemblea costituente alla formazione dell’art.39 Cost.

Nelle discussioni in assemblea costituente, eletta il 2 giugno del 1946, i temi dominanti
riguardarono la natura giuridica del sindacato e la regolamentazione dello sciopero.

L’idea di utilizzare La sinistra sosteneva al contrario la necessità che il


l’intelaiatura sindacato fosse libero, indipendentemente dallo Stato,
pubblicistica del basta sulla volontaria iscrizione dei lavoratori.

sindacato corporativo VS

era radicata nel Ma anche la sinistra vedeva nel c.c. erga omnes
gruppo dirigente un’insostituibile garanzia e non metteva in discussione
democristiano.
che ciò dovesse implicare il riconoscimento giuridico del
sindacato.

PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 1 DELL’ ART.39 COST:


In seno alla prima sottocommissione, ci si limitò, proporre nel testo costituzionale una
generica proclamazione della libertà sindacale, senza fare alcun riferimento al contratto
collettivo.

In fine, con un ordine del giorno, concordato tra le maggiori forze politiche, venne
proposto il testo definitivo del primo comma dell’art.39 approvato dall’assemblea:

“L’organizzazione sindacale è libera”

Le formule che oggi leggiamo nel 2 e 3 comma dell’art. 39:

- da un lato possono essere spiegati come presupposti logici delle previsioni contenute
nel 4 comma —> primo profilo

- Dall’altro possono essere spiegate come conseguenze logiche del principio di libertà
sindacale affermato nel 1 comma —> secondo profilo

Consideriamo il secondo profilo

PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 2 DELL’ART. 39 COST:


L’immunità dei sindaco dall’ingerenza dello Stato che stava alla base della formulazione
del comma 1 venne ribadita nelle formulazioni adottate in ordine alla registrazione dei
sindacati.

Si preferì lasciare alla legge di attuazione il compito di specificare gli accertamenti


necessari e le modalità della registrazione.

Anzitutto si adotto una formulazione in negativo; il relatore Ghidini dichiarò:

“abbiamo voluto costituire un sindacato che fosse l’opposto del sindacato quale era nel
regime passato. Per questo si è detto che l’unico vincolo verso lo Stato è la
registrazione”:

“Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro
registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”.

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PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 3 DELL’ART.39 COST:


Fu proposto però di aggiungere un comma nel quale la registrazione fosse condizionata:

- alla democrazia interna del sindacato

- Fondata sulla libera scelta

- Elezione diretta e segreta di tutti i dirigenti

per sottolineare ancora una volta come la Costituzione Repubblicana sancisse principi
opposti a quelli contenuti nella legge sindacale fascista.

La porporata venne accolta, ma il 3 comma risultò, per volontà di un folto gruppo di


costituenti, sfrondato dal riferimento ai modi di elezione dei dirigenti sindacali:

“E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un
ordinamento interno a base democratica”.

Consideriamo il primo profilo

PER QUANTO RIGUARDA IL COMMA 4 DELL’ART.39 COST:


In esso i costituenti affrontavano finalmente la controversa questione della efficacia
generalmente obbligatoria del c.c.

Anzitutto, come affermo Di Vittorio, i sindacati per poter stipulare c.c. dovevano avere il
“ riconoscimento della personalità giuridica “ e pero aggiunse “nello stabilire le condizioni
di questo riconoscimento si devono nello stesso tempo garantire:

- indipendenza

- Autonomia

- Libertà del sindacato

senza di che esso perderebbe il suo carattere peculiare.

Ma non era semplice conciliare l’indipendenza e la libertà dei sindacati con il potere di
stipulare c.c. generalmente obbligatori, che vincolano non solo i datori di lavoro e i
lavoratori non iscritti ai sindaci stipulanti, ma anche i sindaci che non hanno partecipato
alla stipulazione; anche perché quello dell’efficacia erga omnes era il problema sul quale
si registrava la maggior distanza trave posizioni delle forze politiche.

Gia nel dibattito in sottocommissione si delineo il compromesso da cui nacque il comma


4; furono i democristiani a proporre che invece di sindacato maggioritario e di sindacati
minoritari si parlasse di rappresentanza unitaria di tutti sindacati in proporzione dei loro
iscritti., e la proposta venne accettata. Così:

- i comunisti —> rinunciarono al principio maggioritario

- I cattolici —> rinunciarono al principio del sindaco unico di diritto pubblico.

Il principio proporzionale rappresentava un radicale cambiamento.

“I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati


unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di
lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle
quali il contratto si riferisce”

Ragioni storiche della mancata attuazione dei commi: 2,3, e 4 dell’art. 39 Cost

La Costituzione è entrata in vigore il 1 gennaio del 1948, ma i commi 2, 3 e 4 dell’art. 39


Cost ancora oggi restano privi di attuazione.

Il costituente aveva costruito un modello addosso alla CGIL unitaria, eppure nel 1947
quando il testo dell’art.39 elaborato in sottocommissione approdò in Assemblea, la
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situazione sul fronte sindacale era già caratterizzata da quelle tensioni e da quei contrasti
che, nel luglio del 1948 avrebbero portato alla rottura del patto di unità. E infatti, pochi
mesi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’abito su misura divenne inservibile: anzi
si tradusse in ulteriore motivo di scontro.

Ragioni della mancata attuazione: —> essenzialmente politiche


1)

- Atteggiamento CISL: affermava ora la natura privatistica del sindacato e la sua totale
autonomia dallo stato —> contraria all’attuazione dell’art.39 cost

- Atteggiamento UIL: sfavorevole ad ogni sistema di controllo sulla consistenza numerica


del sindacato, prevista invece dal comma 4

- Atteggiamento CGIL: l’attuazione del meccanismo previsto dal comma 4 avrebbe


garantito una prevalenza nell’ambito della rappresentanza unitaria: ciò che le avrebbe
assicurato la possibilità di resistere con successo alla emarginazione che subiva nelle
fabbriche, dove la “guerra fredda” tra sindacati apertasi subito dopo la scissione
trovava terreno favorevole all’atteggiamento degli industriali, che sostenevano
apertamente la CISL, e discriminavano i militanti della CGIL.

2)

La mancata emanazione della legge che avrebbe dovuto stabilire le procedure.

Ma perchè non fu mai emanata?

Alcune vicende storiche:

Nel roso della prima legislatura (1948-1953), solo il disegno di legge del Ministro del
Lavoro Rubinacci venne presentato al Parlamento, ma non fu mai discusso. Era un
progetto di un’organica legge sindacale di stampo neo corporativo, la cui applicazione si
profilo subito impraticabile, per l’opposizione delle sinistre, della CGIL e della CISL.

Il fronte sindacale:

- era diviso sull’attuazione dell’art. 39 Cost. In riguardo della :


la formazione della rappresentanza unitaria ed il conseguente accertamento del “peso”
per numero di iscritti dei sindacati.

- era d’accordo almeno nell’afferire la necessità di dare efficacia erga omnes ai c.c. Ma il
problema era quello di stabilire quali contrario e stipulati da chi: e qui i contrasti
riemergevano.

Negli anni successivi, il disimpiego del governo porterà forze politiche e i sindacati a
cercare soluzioni di ripiego, nel tentativo di sciogliere, almeno in via transitoria, il nodo
dell’effigia erga omnes dei c.c.

- La CGIL —> proponeva che, in attesa di un organica legge sindacale, fossero


estesi erga omnes i c.c. stipulati fino a quel momento dai sindacati aderenti alle 3
confederazioni

- La CISL —> proponeva invece la estensione erga omnes dei c.c. con decreto
presidenziale, emanato a seguito di una complessa procedura da svolgere nell’ambito
di una commissione sindacale paritetica cui era affidata l’individuazione dei c.c. da
estendere

Le due proposte possono essere considerate le premesse di quello che sarà, nel 1959,
l’esito della vicenda: cioè la L.741/1959, detta: legge Vigorelli, che previde l’estensione
erga omnes ( con decreto legislativo) dei c.c. di diritto comune.

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PARTE II: LA MANCATA ATTUAZIONE DEL


MODELLO COSTITUZIONALE. ASCESA E CRISI
DEL SISTEMA SINDACALE DI FATTO
L’ASTENSIONE DELLA LEGGE E LA COSTRUZIONE DEL NUOVO
DIRITTO SINDACALE

Sezione I : teorie e prassi sindacali

La “carenza legislativa”

Solo negli ultimi tempi la crisi del sistema di relazioni industriali e la convinzione diffusa
della necessità di un intervento legislativo hanno riportato l’attenzione sull’art. 39 Cost.

In questo capitolo cercheremo di ricostituire una lunga stagione del diritto sindacale,
caratterizzata dal mancato intervento della legge.

Questa stagione copre l’arco di 20 anni: benché la legge prevista dall’art. 39 non fu mai
stata emanata, possiamo dire che la stagione si sia chiusa, almeno in parte con un
intervento legislativo: la L. 300/1970 detta: Statuto dei Lavoratori

Ha determinato cambiamenti cosi profondi sull’assetto delle relazioni


industriali da rimettere in discussione molte delle basi teoriche su cui è stato
costituito il diritto sindacale nei primi 20 anni della sua storia post costituzionale.

Teorie e prassi sindacali

All’inizio degli anni 50’, le relazioni industriali erano segnate dalla situazione determinatasi
a seguito della scissione nel 1948.

Il periodo tra il 1948 e il 1954 fu per la CGIL un periodo di dure lotte, da cui la CGIL uscì
indebolita ma non battuta. La strategia politico-sindacale della CGIL prese forma nel:
“Piano del Lavoro”, promosso al congresso di Genova del 1949 dal segretario generale Di
Vittorio, che pero era considerato dal Governo inattuabile e strumentale.

Il problema del rapporto tra i sindaci e lo Stato era al centro della politica sindacale della
CGIL. Proprio la questione dell’intervento della legge e specialmente della mancata
attuazione dell’art.39 della costituzione costituiva uno dei punti di maggior contrasto tra
CISL e CGIL.

La visione della CISL=

Aveva alla base una concezione del sindacato come una organizzazione che si determina
autonomamente in via associativa.

Una visione rigidamente associata del sindacato comporta la qualificazione del vincolo
sindacale come rappresentanza dei soci: la concezione della CISL era dunque in netto
contrasto con quella della CGIL, basata invece sulla rappresentanza sindacale come
rappresentanza della classe.

Nella concezione associativa del sindacato, l’interesse collettivo è l’interesse proprio della
associazione sindacale; il potere della associazione è staccato da quello dei soci, ma
capace di disporre nella loro sfera giuridica.

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Premessa la co sezione strettamente privatistica del sindaco come associazione che


rappresa i propri soci, la teoria della azione sindacale della CISL degli anni 50’ si basava
su 3 pilastri:

1. IL METODO CONTRATTUALE:

Era visto come strumento prioritario della azione del sindacato, e come fine della
sua attività era ragione della sua esistenza

2. I COLLEGAMENTI TRA I VARI LIVELLI CONTRATTUALI:

La proposta di un sistema contrattuale a più livelli, fra loro coordinati costituisce i


secondo pilastro., la cui maggiore originalità stava nella scelta della azienda come
unità elementare del sistema contrattuale, sorretto a livello teorico dalla concezione
associativa del sindacato rappresentante dell’interesse collettivo dei propri iscritti,
e soprattutto dall’idea che il contatto collettivo nazionale non fosse idoneo a
garantire ai lavoratori un sufficiente aumento del salario, differenziato in ragione al
diverso incremento della produttività delle imprese.

3. IL RAPPORTO TRA CONTRATTAZIONE E LEGISLAZIONE:

Pilastro costituito da una visione rigorosamente privatistica dell’autonomia


sindacale, fondata sull’idea:

- della incompatibilità tra libertà sindacale e regolamentazione per legge dei


sindacati.

- Sull’idea che la funzione della legge dovesse essere necessariamente residuale


rispetto a quella propria della contrattazione collettiva

Fin qui la torria. La prativa era altra cosa.

Tensioni e conflitti si registravano anche. Allivellò nazionale tra le Confederazioni. Il caso


più celebre di accordo nazionale separato dell’epoca è quello dell’accordo sul
conglobamento del 1954, al quale fece seguito una nuova fase di scontro acuito dalla
sconfitta FIOM-CGIL nelle elezioni per il rinnovo della Commissione interna alla FIAT.

Per quanto compromissoria, questa posizione ebbe tuttavia il merito di aprire, nella CGIL;
una fase di riflessione autocritica che avviò ad un processo di faticosa ricerca dell’unità di
azione sindacale.

La riflessione si apri anche nella CISL dopo la svolta del 1958 quando fu denunciato
l’operato della FIM-CISL dovuto a delle interferenze della FIAT nelle elezioni della
Commissione Interna. La FIM perse quasi tutti i voti, ma da quella sconfitta nacque un
sindacato nuovo, una avanguardia combattiva impegnata in molti anni in prima linea nella
battaglia contro l’unità sindacale.

Le prime fasi del disgelo istituzionale

La mancanza di una legge sindacale non implicava affatto la rinuncia all’esercizio da parte
dell’esecutivo, del controllo del movimento sindacale.

Nei primi anni 50 si verificarono infatti alcuni interventi del potere esecutivo: alla
repressione dell’attività sindacale, dei comizi, dei cortei, degli scioperi talora
corrispondeva, sul piano giudiziario, l’orientamento fortemente restrittivo in materia di
sciopero dei giudici, che condannavano non solo gli scioperi politici ma ogni forma
“anomala” di lotta.

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Un’inversione di tendenza si verificò tuttavia già nel corso degli stessi anni 50’ con una
serie di interventi legislativi nel segno del disgelo istituzionale di cui almeno 2 devono
essere ricordati: —> furono l’occasione per un primo disegno tra CISL e
CGIL, che doveva portare alla fine degli anni 60’ alla
prima esperienza di unità di azione sindacale.

1. L.1589/1956 —> legge fortemente voluta dalla CISL e dalla sinistra democristiana

—> non contestata dalla CGIL

—> istitutiva del Ministero delle Partecipazioni Statali, al quale erano


affidati compiti di coordinamento delle partecipazioni nelle società il
cui pacchetto di maggioranza era detenuto dallo Stato e che
facevano capo all’IRI.

—> l’Art.3 c.3: prevedeva che entro un anno dalla entrata in vigore, le
imprese a prevalente partecipazione statale sarebbero dovute
uscire da Confindustria, associandosi in una separata
organizzazione sindacale delle imprese a capitale pubblico.

La reazione di Confindustria fu molto negativa. Contro la legge divampo una vera


battaglia nelle riviste giuridiche specializzate: si sosteneva la illegittimità costituzionale
rispetto al comma 1 dell’art.39 Cost., in quanto la legge era interpretata come un’illecita
ingerenza del legislatore:

- da un lato—> nell’autonomia organizzativa della Confindustria

- Dall’altro —> nella libertà di scelta da parte delle imprese pubbliche


dell’organizzazione alla quale aderire.

La parola passo alla corte costituzionale che respinse l’eccezione di incostituzionalità.,


osservando che l’obbligo di distaccarsi da Confindustria era rivoto a società nei cui organi
lo Stato, in quanto socio di maggioranza, poteva fare prevalere la propria volontà.

In sostanza, ad avviso della Corte, con lo sganciamento imposto alle imprese pubbliche
lo Stato aveva auto determinato la propria scelta associativa: ciò che è legittimo e
rispettoso dei principi di auto-organizzazione e di autonomia sindacale.

2. L.741/1959 —> “Legge Vigorelli”

—> è il più importante momento di disgelo istituzionale

—> sull’estensione erga omnes dei contenuti dei contratti collettivi

—> la legge riprendeva proposte avanzate, nella legislatura precedente,


sia da DI Vittorio (segretario della CGIL) sia da Pastore (segretarioCISL)

—> l’opposizioni all’attuazione del progetto costituzionale o la rinuncia


all’iniziativa legislativa non avevano fatto cessare la richiesta di una
legge diretta a sancire il principio dell’efficacia erga omnes dei
contratti collettivi, il cui obiettivo era assicurare a tutti i lavoratori un
trattamento economico e normativo

—> L’estensione erga omnes dei contratti collettivi si inseriva in


quell’insieme di leggi che, a partire dagli anni cinquanta, crearono un
corpus normativo che finalmente garantiva un minimo di tutela a i
lavoratori in situazioni di grave sotto-protezione.

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Dalla svolta degli anni 60’ “all’autunno caldo”: le grandi trasformazioni del sistema
di relazioni industriali

Gli intensi anni 60 sono stati, nel nostro Paese un periodo di grandi trasformazioni
economiche, politiche e sociali, sostenute anche d forti tensioni ideali. Ci limiteremo qui a
richiamare solo i fatti salienti ai quali sono collegate le evoluzioni delle teorie e delle prassi
sindacali, che hanno spinto il diritto sindacale italiano verso la svolta dell’intervento della
legge.

IL CONTESTO ECONOMICO-POLITICO
- quadro politico: sulla fine degli anni 50 era nato il primo Governo che, allargando la
coalizione al partito socialdemocratico, poneva le premesse per l’esperienza dei
Governi di centro-sinistra del decennio successivo. L’alleanza tra democristiani e
socialisti resterà la coalizione di Governo dominante dell’intero declino e dei 2 decenni
successivi.

- quadro economico: gli anni 60 furono caratterizzati dalla grave crisi congiunturale
degli anni 1964-1965, che fece seguito all’eccezionale sviluppo industriale tra il 1959 e
il 1963. Fu una fase recessiva breve, ma con perduranti effetti sul calo degli
investimenti, e delle esportazioni, e produsse l’esportazione dei capitali all’estero.
La recessione nell’industria determinò un calo nella occupazione, che si prolungo fino
al 1966, tornando normale solo nel 1969.
Data la brevità della recessione, la riorganizzazione ricomincio molto presto: la crescita
della produttività dell’industria fu elevata, e su questo influì sicuramente un nuovo
modello organizzativo proveniente dagli USA, bastato sulla intensità e sulla
parcellizziate del lavoro —> la nuova organizzazione del lavoro trasformava
profondamente la condizione operaia: divisione e ricomposizione scientifica del lavoro
accentuava la gerarchia nell’impresa, deprimevano il ruolo degli operai, vi era un

- processo di dequalificazione di autonomia e responsabilità.

L’EVOLUZIONE DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI


Le vicende politiche, l’andamento dell’economia sono il conteso nel quale si svolse quel
vistoso mutamento nel sistema di relazioni industriali che fa degli anni 60 un decennio
cruciale nella stori del movimento sindacale italiano.

Il rinnovo del c.c. dei metalmeccanici nel 1959, guidato dalle 3 Confederazioni era stata la
prima esperienza di unità di azione.

La scadenza del contratto dei metalmeccanici era nel 1962.

Dopo lotte molto dure le 3 confederazioni conclusero un accordo con: INTERSIND e


ASAP sulla:

“contrattazione articolata”, che riconosceva formalmente la contrattazione di settore e


aziendale e con ciò il passaggio dalla contrattazione collettiva nazionale esclusiva ad
un sistema contrattuale coordinato su più livelli di contrattazione.

Questo accordo è contratto la prima conseguenza tangibile della separazione da


Confindustria delle Partecipazioni statali.

La resistenza di Confindustria durò ancora per mesi e fu piegata solo dopo uno sciopero
generale di tutta l’industria: l’accordo che finemente venne stipulato era analogo a quello
dell’industria pubblica; anche in questo accordo:

- si riconosceva la contrattazione aziendale

- gli aumenti salariali erano consistenti

- migliorava a che il trattamento normativo

Il contratto venne accolto com una grande vittoria dei metalmeccanici e di tutto il
movimento sindacale: la prima dopo tanti anni di difficoltà e sconfitte.

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• La CISL —> sempre stata positiva verso un sistema contrattuale articolato su più livelli
e favorevole al superamento della contrattazione nazionale esclusiva.

• La CGIL —> all’inizio invece era negativa -> dopo (anni 1955/56) si modifico man mano
prendeva coscienza della nuova condizione operaia, la CGIL riconosceva la centralità
rivendicativa della fabbrica e anche essa alla fine sposò la strategia della artiolazione
contrattuale.

La contrattazione articolata prevista nei contratti dell’industria metalmeccanica pubblico e


privata del 1962 e del 1963 fu in complesso coerente con una strategia di
programmazione del decentramento contrattuale ancora molto prudente, che non dava
spazio all’istituzione di strutture sindacali titolari di potere contrattuale a livello d’azienda. 

In sostanza, il contratto nazionale manetta la propria centralità, ma costituiva un sistema
di rinvii dal contratto nazionale fino a quello aziendale.

In più i sindacati si vincolavano, mediante un’apposita clausola di tregua sindacale, a


non promuovere rivendicazioni/scioperi diretti a modificare i contratti stipulati ai vari livelli
durante la loro vigenza.

La diffusone della contrattazione articolata in altre categorie dell’industria fu difficoltosa,


tanto che già nella successiva stagione contrattuale la Confindustria proprie ulteriori
limitazioni alla contrattazione aziendale.

I c.c. stipulati tra il 1965 e il 1966, in un quadro reso difficile dalle vicende della politica e
dell’economia, non portarono innovazioni significative, facendo segnare una battuta di
arresto al processo di decentramento contrattuale, e lasciarono irrisolto il nodo della
contrattazione aziendale.

DAL MAGGIO FRANCESE ALL’AUTUNNO CALDO


Nel 1968, sull’onda del maggio francese e del movimento studentesco cresciuto anche in
Italia, esplosero i primi grandi conflitti nelle fabbriche.

Anche il 1969 “si era aperto sotto l’insegna della forte pressione, ancora non controllata
dai sindacati che si caratterizzata con l’emergere di scioperi selvaggi, attuato da gruppi di
lavoratori con obiettivi egualitari e di lotta contro la tradizionale organizzazione del lavoro.
La contrattazione articolata del 1962 insomma era travolta e per sempre.

In queste lotte e negli accordi aziendali che ne scaturivano, si disgregavano le forme di


rappresentanza tradizionali ( es. Commissioni interne ) e nacque una nuova forma di
rappresentanza dei lavoratori: i delegati di linea, di reparto, di gruppo omogeneo, eletti
su scheda bianca (cioè al di fuori di Goni appartenenza sindacale). —> alla base del
movimento dei delegati :

- stava l’idea del rapporto diretto tra il gruppo omogeneo per condizioni di lavoro e chi lo
rappresenta nei rapporti con il padrone

- Stava anche la contestazione del sindacato e della sua organizzazione e dei suoi
metodi nella gestione delle vertenze.

L’atteggiamento delle 3 confederazioni fu all’inizio di grande cautela/ diffidenza.

Dopo si modificò a causa di esigenze:

- recuperare l’adesione della base -> di operai comuni

- Costruire nelle fabbriche una organizzazione sindacale duratura (che sarà dal 1970 il
Consiglio di Fabbrica/ Consiglio dei delegati).

Il rinnovo dei quadri sindacali di azienda, che permise l’elezione a delegati di giovani
sindacalisti idealmente vicini al movimento, e la loro intensa attività conflittuale e
contrattuale, consentì un primo recupero del controllo sindacale sulla base, che costituì

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l’avvio di una fase di “rifondazione” delle 3 confederazioni: dalla costituzione di un nuovo


rapporto con la propria base , alla maturazione del processo già cominciato già
cominciata nel corso degli anni 60, di autonomizzazione dei sindacati dai partiti i quali
erano stati in passato legati.

L’autunno caldo del 1969 ebbe per protagonisti i metalmeccanici guidati dalle
federazioni FIOM,FIM, UILM, e vide scioperi e manifestazioni di massa, in un clima di
grande tensione.

Il contratto con i metalmeccanici si chiuse, grazie alla mediazione svolta del Ministro del
Lavoro sia per le mores pubbliche sia per quelle private nel 1969. Trattative caratterizzate
da una intensa partecipazione dei lavoratori. —> con questo contatto si chiude l’autunno
caldo e sia prova un capitolo nuove delle relazioni industriali: la richiesta degli industriali
di proporre i limiti alla contrattazione aziendale venne respinta (come nel modello di
contrattazione del 1962) e non più avanzata.

Sezione II: Teorie e ideologie del diritto sindacale. Dall’astensione


della legge allo Statuto dei Lavoratori.

La privatizzazione del diritto sindacale

Le vicende riassunte nel capitolo precedente costituiscono il contesto in cui è stato


costruito il diritto sindacale post-costituzionale.

Nella ricostruzione di quest’opera di creazione dottrinale di diritto sindacale distinguiamo


2 fasi, caratteristiche:

- (anni 50/60)

- entrambe segnate dal mancato intervento della legge, conseguente ai pochi tentativi
fatti per dare attuazione all’art.39 Cost.

Negli anni successivi all’entrata in vigore della Cost. il vuoto legislativo dovuto alla
mancata attuazione dell’art.39 Cost. Portò i giuristi a dedicare scarsa attenzione a questa
parte del diritto del lavoro. Atteggiamento che però durò poco. L’astensione della legge
comporta sostituire al meccanismo dell’art.39 un altro meccanismo, che trovasse al di
fuori della legge di attuazione dell’art.39 la propria base —> a ciò si occuparono i giuristi
a cui si deve quella operazione di politica del diritto che può essere riassunta con
l’espressione: PRIVATIZZAZIONE DEL DIRITO SINDACALE, il cui esito è stato la
costituzione del diritto sindacale extra-legislativo.

Prima fase
Nella prima fase della sua elaborazione teorica, la privatizzazione del diritto sindacale ha
come nucleo centrale la costruzione della nozione di autonomia collettiva, il cui autore è
Francesco Santoro Passarelli che la elaborò in una serie di saggi scritti dal 1949.

L’autonomia privata è la potestà di regolare liberamente i propri interessi, che


l’ordinamento riconosce, che l’ordinamento riconosce ai singoli individui; questa
autonomia, secondo Passarelli, è riconosciuta anche al alcuni gruppi sociali per la tutela
di interessi collettivi

L’autonomia privata collettiva è appunto l’autonomia di cui dispone un gruppo sociale per
la realizzazione di un interesse collettivo.

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“La definizione di autonomia collettiva gettò le radici sistematiche della nostra materia”
affermò Giugni —> autore di una teoria che partendo dalla critica di quella di Passarelli,
costituirà la nuova base costruttiva del diruto sindacale extra-legislativo negli anni 60’.

La teoria dell’autonomia collettiva, sul piano giuridico, attribuiva rilievo agli interessi dei
gruppi considerati in quanto tali superbì e quindi destinati a prevalere sugli interessi dei
singoli che appartengono al gruppo. Il fulcro della teoria è infatti il concetto di:

interesse collettivo —> sintesi e non domma delle volontà individuali.

—> riferibile ai singoli soltanto uti universi, ricche è indivisibile non


diversamente dall’interesse individuale

—> esso pur essendo diverso dall’interesse individuale, è un interesse


privato, orche non è proprio di tutta la collettività organizzata, ma
di una collettività di interessi costituita su base volontaria, di
conseguenza il principio giuridico nel quale trova tutela è un
principio di diritto privato.

Il gruppo professionale era ancora per Passarelli la categoria professionale destinataria


del c.c. che lo stesso autore definì di diritto comune, per distinguerlo dal c.c. regolato dal
non attuato quarto comma dell’art. 39 .

L’Interesse del gruppo professione è tutela attraverso l’organizzazione della categoria


professionale, che avviene con la formazione dei sindacati.

L’idea della categoria professionale ontologica, spontanea formazione sociale che


preesiste al sindacato, era una idea corporativa, non estranea ai costituenti, ma l’art. 39
non ne imponeva la riproposizione.

Fu Carlo Esposito che spazzò via in un saggio i residui “corporativi” che ancora potevano
trovarsi nella costruzione dell’autonomia collettiva e dell’interesse collettivo indivisibile di
Santoro Passatelli —> se egli aveva trovato nel codice civile il fondamento della sua
teoria dell’autonomia collettiva privata, Esposito trovava invece nell’art. 39, c.1 Cost il
fondamento della privatizzazione del diritto sindacale.

Cosi affermata la natura del sindacato come associazione di diritto privato, che persegue
interessi economici e si propone scopi privati, la dottrina dell’epoca poteva rileggere
l’intero art.39 declassando l’obbligo della registrazione a mero onere, ed afferrando la
legittima esistenza dei sindacati di diritto comune anche dopo un’eventuale ma non
auspicabile attuazione dell’art. 39 cost.

I sindaci di diritto comune sono associazioni di fatto, giacche la personalità giuridica


consegue solo alla registrazione regolata, per l’art. 39, dalla legge: legge che tuttavia non
c’era allora. (e non c’e neanche oggi)

Non tutti, all’epoca, erano d’accordo con la lettura privatistica dell’art. 39. proposta da
Esposito, in quanto:

- da un lato era an cara presente la dottrina neo-corporativa

- Dall’altro i giuristi vicini alla CGIL concentravano ancora il loro interesse sull’attuazione
dell’art.39 cost. e della contrattazione collettiva erga omnes ivi prevista; attuazione che
avrebbe richiesto l’intervento della legge sindacale previsto appunto dall’art.39.

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Le opinioni dissenzienti non ebbero però fortuna e l’autonomia collettava privata era
destinata a costituire la base teorica del diritto sindacale post-costituzionale.

All’invio degli anni 60’ era passata l’idea che il nostro sistema di relazioni industriali
poteva vivere e svilupparsi al di fuori di una legge di cui non aveva bisogno.

La teoria dell’ordinamento intersindacale

Sul finire degli anni 50’, la dottrina del diritto sindacale conobbe un’importante
rinnovamento, considerato giustamente come la svolta dottrinale del secondo decennio
post-bellico.

Seconda fase
Fase di decisiva trasformazione del diritto sindacale.

Facciamo riferimento alla riflessione fatta da: Gino Giugni, autore nel 1960 di una
monografia che diede avvio al rinnovamento metodologico degli studi di diritto sindacale.

Per Giugni—> pretendere di continuare ad inquadrare la realtà dei rapporti sindacali nelle
strettoie di quelle poche disposizioni del codice civile, che costituiscono il piccolo
apparato normativo che sorregge la torria dell’autonomia collettiva, era una operazione
non più accettabile.

Il problema più urgente della rifondazione teorica del diritto sindacale italiano era quello di
conferire ai fatti di accedere al diritto -> trasformare i fatti in norme

Giugni ha elaborato: “la teoria dell’ordinamento giuridico intersindacale”

- É la base teorica del diritto sindacale a partire dall’inizio degli anni 60’.

- Ha molto successo—> grazie alla: convinzione che l’autonomo sviluppo del sistema di relazioni
industriali fosse la premessa della trasformazione in senso democratico della società italiana.

- Basata su 3 punti:

• L’ordinamento intersindacale è un sistema normativo dinamico (un negotiating machinery): vale


a dire un complesso di norme che delineano una struttura privata paritaria, cioè fondata sul
riconoscimento reciproco tra le associazioni che ne fanno parte —> il riconoscimento reciproco
è per Giugni la Grundnorm, la norma fondamentale dell’ordinamento intersindacale.

Il negotiating machinery è costituito dalle norme che riservano competenze alle associazioni
che si sono reciprocamente riconosciute, che dettano le regole del gioco nel conflitto, c he
predispongono procedure intersindacali di composizione del conflitto.

• Il sistema normativo dinamico vive di una vita giudica propria, è cioè dotato di una giuridicità
originaria, che non richiede ne riconoscimenti, ne legittimazioni da parte dello Stato.

• Il sistema normativo dinamico entra in contatto con il sistema normativo statuale, per la via
dell’interpretazione giudiziale dei contratti collettivi

Il nucleo “politico” su cui si basa questa teoria: è il ruolo marginale dello Stato + autosufficienza e
autosufficienza della legalità sindacale
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Il rafforzamento della negotiating machinery: era lo strumento che sorreggeva la costruzione giuridica.

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La realtà dell’epoca di Giugni era ancora dominata da una c.c. nazionale di categoria di
vecchio stampo, accompagnata nei luoghi di lavoro da una rappresentanza dei lavoratori
ancora affidata alle sole Commissioni Interne.

L’idea è che Giugni abbai fornito un modello descrittivo, capace di descrivere il sistema di
relazioni industriali.

La dottrina successiva, che alla teoria di Giugni ha continuato a fare riferimento, ha


recepito la sostanza politica della teoria, utilizzassi solo in parte la forma giuridica di cui
era rivestita—> infatti l’espressione “ordinamento intersindacale” è spesso stata sostituita
in dottrina da: “autonomia/ordinamento sindacale”.

Dall’astensione della legge alla legislazione promozionale

O la democrazia entra nelle fabbriche, o non ci sarà più democrazia -> questa era l’idea
che aveva portato quelle forze politiche che tanto erano contrarie all’attuazione della
legge prevista dall’art.39 Cost. a progettare un intervento legislativo che portasse
appunto la democrazia nelle fabbriche.

L’idea di uno statuto, cioè di una carta dei “diritti dei lavoratori” non era nuova, in quanto:

- Era già stata proposta da Di Vittorio nel 1952, in un congresso della CGIL

- E se ne era riparlato con Aldo Moro nel 1953

A cambiare la prospettiva furono le vincere sindacali del 1968/9 che rendevano non più
rinviabile un intervento di legge.

Questa azione di carattere legislativo si sostanza nello:

“Statuto dei Lavoratori”:

- Fu presentato dal governo nel 1969

- Segui una linea originale che lo rendeva molto diverso dalla Carta dei diritti a cui si era
penato in passato

- Scopo:

• Da un alto si proponeva di realizzare quei principi di difesa della libertà e dignità del
lavoro che erano stabiliti dalla stessa carta costituzionale

• Dall’altro aveva preso l’idea di una legislazione di “sostegno” dell’azione sindacale a


livello di fabbrica.

- Altro Obiettivo:

• Innovare i metodi di gestione del personale introducendo in essi elementi di rispetto


della legalità e della democrazia

• Rafforzare la presenza sindacale nei luoghi di lavoro

- Legge approvata dal Parlamento nel 1970—> L. 300/1970 (detta: statuto dei lavoratori)

Dalle vicende del 1968/9 è nato un sistema sindacale diverso, più forte e più complesso
dominato dalle 3 grandi Confederazioni, protagoniste della scena politica oltre che di
quella sindacale.

EFFETTO St.L.= l’intervento della legge ha portato i giudici a decidere su questioni di


diritto sindacale che fino ad allora non erano mai entrate nelle aule giudiziarie: questa è
stat una mutazione epocale -> ha chiamato i giuristi ad appassionarsi ai problemi
interpretativi trascurati nel decennio precedente.

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É importante precisare che lo steso Giugni, che rivendicava il merito di essersi opposto
all’attuazione dell’art.39 della Cost., contribuendo cosi alla costituzione del sistema di
relazioni industriali su base meramente volontaristica, già nel 1967 invocava l’intervento
legislativo.

INNOVAZIONE DELLO ST.L. = aver costruito, mediante l’ampio riconoscimento dei diritti
sindacali, le condizioni indispensabili perchè i lavoratori possano esercitare effettivamente
i propri diritti.

Titolo III dello St.l. -> incentiva l’azione sindacale nei luoghi di lavoro mediante il
riconoscimento delle rappresentanze sindacali costituite nell’ambito dei sindacati aderenti
alle Confederazioni maggiormente rappresentative.

Proprio la parte “promozionale” dello statuto era quella che all’epoca doveva suscitare le
maggiori reazioni:

- il settore moderato e conservatore della dottrina giuridica: aveva accolto male la legge,
sommergendola di critiche tecniche, che pero non riuscivano a celare l’ostilità di tipo
politico per un intervento legislativo cosi evidentemente a favore delle 3 maggiori
confederazioni.

- La sinistra: criticava a legge come intervento diretto a imbrigliare il movimento


spontaneo di base e a “responsabilizzare” l’organizzazione sindacale ufficiale

- Estrema sinistra: considerava l’intervento legislativo come repressivo dell’autonomia


operaia.

La storia di mezzo secolo di applicazione dello St.l. smentirà molte di qieste illusioni e
preoccupazioni e critiche.

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EVOLUZIONE DEL SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI


Dalle prime esperienze di concentrazione sociale al protocollo del 1993

Nel corso die primi decenni che ci separano dall’entrata in vigore dello Statuto dei
Lavoratori, le relazioni industriali hanno conosciuto in Italia molti mutamenti passando
attraverso varie fasi e alterne vicende. I più forti scossoni al sistema di relazioni industriali
so sono registrati però nell’ultimo decennio.

Tra la seconda metà degli anni 70’ e l’inizio degli anni 80’:

In una situazione di crisi economica e del mercato del lavoro, presero avvio le prime
esperienze di negoziazione triangolare di provvedimenti di politica economica e sociale
tra:

- il Governo

- Confindustria

- Le 3 maggiori Confederazioni

Il primo esempio fu il:

Protocollo del 1983 —> “Accordo Scotti” —> Obiettivo era quello di: controllare la
dinamica salariale e il tasso di inflazione.

I risultati raggiunti con questo accordo portarono il Governo a riaprire la trattativa con le
parti sociali l’anno successivo, per il congelamento degli aumenti salariali automatici
(indennità di contingenza) legati al sistema della scala mobile.

Esso consentiva il parziale recupero del potere di acquisto dei salari, mediante
un ,meccanismo di aumento automatico della retribuzione: l’indennità di contingenza,
corrisposta all’epoca trimestralmente , era calcolata sulla base dell’indice dell’aumento
dei prezzi rilevato dall’ISTAT.

L’opposizione della CGIL portò alla stipulazione di un accordo separato:

L’Accordo di San Valentino del 1984 —> al quale il Governo divide efficacia recependolo
nel d.l 70/1984.

Lo scontro politico e la lacerazione sindacale che ne derivarono, a partire dalla rottura del
Patto federativo stipulato nel 1972 tra CGIL, CISL, e UIL, portarono a una situazione di
instabilità delle relazioni industriali , con effetti negativi sulla tenuta delle strutture
sindacali nei luoghi di lavoro e ricadute sulla contrattazione aziendale, che perse di
importanza anche quantitativamente.

In tutto il decennio del 1980:

L’unità di azione sindacale conobbe una fase di crisi a causa della crescente divergenza
di strategie fra CGIL, UIL, e CISL.

Inizio anni 90’:

La situazione cambia perchè le divergenze si ricomposero: si ebbe una ripresa della


concertazione (accordo) sociale.

Il peggioramento della congiuntura economica e la necessità di soddisfare i criteri di


convergenza per la unificazione monetaria crearono condizioni per il rientro formale dei

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pubblici poteri nelle relazioni industriali, che si realizzò con la stipulazione nel 1992
dell’accordo triangolare che abolì la scala mobile e nel 1993 del:

Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione


—> definito anche Carta Costituzionale del sistema delle relazioni industriali

—> poneva per la prima volta le basi di un sistema contrattuale regatò nella struttura e nel
funzionamento.

—> ma per produrre tutti i risultati che pro metteva il sistema contrattuale delineato nel
Protocollo avrebbe dovuto trovare il fine necessario sostegno nella legge che il
Governo si era impegnato a promuovere, per sciogliere i due nodi lasciati irrisolti
dalla mancata attuazione dell’art.39 Cost.:

- Efficacia erga omnes dei c.c.

- Un disciplina della rappresentanza sindacale -> che garantisse l’accesso alla


contrattazione con efficacia generale ai soli sindacati dotati di un’effettiva
rappresentatività.

Questo inadempimento degli impegni assunti dal Governo è l’origine delle più gravi
inefficienze del sistema contrattuale

A queste inefficienze si tentò di porre rimedio con il Patto sociale per lo sviluppo e
l’occupazione del 1998: “Patto di Natale”. Ma, ancora una volta tuttavia sarebbe stato
necessario un intervento legislativo che mettesse ordine nel sistema delle relazioni
industriali: ma per un intervento riformatore di questo calibro mancavano evidentemente
le condizioni politiche.

Crisi della concertazione sociale e contrattazione separata


La stipulazione del Patto di Natale chiuse la stagione dei grandi accordi di concertazione
sociale.

Ma dopo il quinquennio 1996-2001, governato dal centro sinistra, il Governo era tornato
nelle mani del centro-destra, che aveva manifestato le proprie intenzioni nel:

“Libro Bianco sul Mercato del Lavoro in Italia” (2001).

—> Il “dialogo sociale” era presentato come metodo alternativo rispetto al modello di
concertazione sociale degli anni 90’, ritenuto troppo vincolante per il potere esecutivo, del
quale limitava la capacità decisionale, subordinandola al raggiungimento del consenso
delle parti sociali.

—> Questo “dialogo sociale” con il quale si proponeva di sostituire la concertazione:

- da un lato: enfatizzava il negoziato diretto tra le parti sociali rispetto a quello tripartito,
ma implicava una netta separazione tra la contrattazione collettiva e la legge,
riconoscendo a quest’ultima un ruolo sostituivo della contrattazione collettiva.

- Dall’altro: il dialogo sociale sostituiva alla regola nell’unanimità, seguita sempre in


passato, la regola della maggioranza; aprendo do cosi la strada alla conclusione di
accordi tra Governo e parti sociali “separati”-> cioè accordi conclusi solo con alcune
organizzazioni sindacali

—> Con “dialogo sociale” si intende: un significato equivalente a quello di concertazione


sociale, entrambe indicano una molteplicità di forme specializzate al coinvolgimento delle
parti sociali nella definizione degli obiettivi e delle politiche sociali. Quindi concertazione

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non è una mera consultazione, ma contrattazione tra Governo e parti sociali, alla ricerca
di un consenso che garantisca l’effettività delle politiche in materia sociale.

—> Del metodo del “dialogo sociale” prefigurato dal libro bianco si trova ampia traccia
nella: Legge Biagi (l.d.30/2003) —> riforma del mercato del lavoro che ridimensionava il
ruolo che la legislazione precedente affidava alla contrattazione collettiva e valorizzava gli
enti bilaterali (organismi paritetici che associano sindacati dei lavoratori e associazioni
imprenditoriali).

L’abbandono da parte del Governo nel periodo 2001-2006 del modello di concertazione
sciale degli anni novanta produsse effetti negativi per la tenuta delle relazioni industriali.

Dopo le elezioni del 2006, e il ritorno al Governo del centro sinistra, il modello della
concertazione sociale degli anni 90’ venne ripreso con il Protocollo sul welfare del 2007,
ma le differenze rispetto agli anni 90’ erano molte, non è perciò un caso che la CGIL
abbai deciso di sottoscriver il patto con difficoltà.

Nel 2008:

- la grande crisi economica a cui l’Italia andava in contro

- La fine anticipata della legislatura

- Il ritorno al Governo del centro-destra


segnarono l’inizio di una nuova stagione caratterizzata dalla profonda spaccatura tra le
Confederazioni sindacali maggiormente rappresentative e dal moltiplicarsi di accordi e di
contatti separati, cosi detti perchè non firmati dalla CGIL.

Il sistema di relazioni industriali costruito con il protocollo del 1993 era entrato
definitivamente in crisi.

Al riforma del sistema contrattuale, vale a dire quell’insieme di regole alle quali affidare la
nuova architettura delle relazioni industriali, venne disegnata in un insieme di accordi non
sottoscritti dalla CGIL.

- L’accordo quadro del 2009


- Gli accordi interconfederali di attuazione

In questi accordi il Governo era stato presente nella trattativa, ma non aveva assunto
impegni.

Erano accordi tra Confederazioni sindacali e Confederazioni dei datori di lavoro ma la


mancata attuazione da parte della CGIL apriva, oltre a quelli politici anche delicati
problemi giuridici.

Le questioni sul tappeto erano molte:

- Ruolo della contrattazione collettiva nazionale

- La maggior autonomia della contrattazione aziendale

- L’apertura di un più ampio spazio per negoziare deroghe, nei contratti collettivi
aziendali, al contratto nazionale di categoria su singoli istituti economici e normativi

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Il caso FIAT
Nel 2010 esplose il: CASO FIAT

Esplose in una situazione caratterizzata da:

- Aggravarsi della crisi economica

- Forti tensioni tra le Confederazioni sindacali

- In un contesto di incertezza delle regole determinata dagli Accordi separati del 2009

Cos’è il caso fiat?


Lo si può definire come un ciclone che per almeno 2 anni ha scosso le relazioni sindacali
italiane. Nell’occhio di questo ciclone era la categoria dei metalmeccanici, leader del
settore industriale, con il suo epicentro rappresentato dal settore auto, egemonizzato
allora dalla FIAT.

Gli accordi separati del 2009 avevano creato le premesse, aprendo formalmente la crisi
del sistema di regole dettate dal Protocollo del 1993; ma il passo decisivo per portare la
crisi alle sue estreme conseguenze era stato segnato dall’iniziativa della FIAT di premere
l’acceleratore della autonomia della contrattazione aziendale, sganciandola dai vincoli del
c.c.n. di categoria e dagli stessi vincoli derivanti dall’appartenenza a Confindustria.

All’epoca vigeva il c.c.n. dei metalmeccanici, sottoscritto anche dalla FIOM, la cui
scadenza era prevista al 31 dicembre 2011

IL PRIMO ATTO DI QUESTA VICENDA

É stato la stipulazione dell’accordo di Pomigliano del giugno 2010:

- con il quale si introducevano una serie di deroghe al c.c.n vigente: queste deroghe
previste dall’accodo non erano legittimate dall’intesa del 15 ottobre del 2009, tra
Federmeccanica, FIM-CISL ed UILM, la quale non si limitava ad aggiornare la parte
economica biennale del c.n. per l’industria metalmeccanica privata vigente, ma entrava
anche nella disciplina della parte normativa quadriennale, che sarebbe scaduta il 31
dicembre del 2001. Un accordo raggiunto il 29 settembre 2010 tra Federmeccanica,
FIM ed UILM, era successivamente intervento a “sanare” la lacuna: a sanare, perchè
tale assenza avrebbe dovuto essere riempita prima, non dopo l’accordo di Pomigliano
del giugno del 2010.

- L’accordo di Pomigliano era formalmente un accordo aziendale relativo allo stabilimento


di Pomigliano, sottoscritto dalla FIAT, che ancora aderiva alla Confindustria, e da FIM,
UILM e FISMIC; la FIOM invece non aveva sottoscritto l’accordo.

- Contenuti dell’accordo: i pois controversi riguardano il modello organizzativo,


caratterizzato da un afprte intensificazione del lavoro, con misure in materia di turni,
pause..

- A garanzia del rispetto dell’accordo era previsto:

• Obbligo di tregua sindacale da parte dei sindacati firmatari

• Responsabilità disciplinare dei lavoratori per violazione delle clausole dell’accordo.

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- La Fiat aveva condizionato alla stipulazione di questo accordo e la sua accettazione da


parte della maggioranza dei lavoratori dello stabilimento un imponente investimento
per spostare nello stabilimento di Pomigliano la produzione della Panda. Il referendum
ottenne una maggioranza di consensi oltre il 60% ma non l’atteso plebiscito.

- Dopo: l’accordo di Pomigliano, la FIAT imboccava la strada dello sganciamento dal


sistema confindustriale.

Un primo cambio di marcia era avvenuto quando la FIAT, il 16 dicembre del 2010 aveva dato vita ad
una scissione parziale, separando:

la produzione di auto (FIAT G. Automobiles S.p.A) dalla produzione di macchine agricole e industriali.

Per il settore automobilistico era stato stipulato “il contratto collettivo Mirafonti”:
- Del 23 dicembre 2010

- Ancora una volta senza la FIOM

- Definito come contratto collettivo di primo livello -> cioè di livello nazionale di
categoria, non di livello aziendale, del tutto autonomo rispetto al contratto collettivo
nazionale dei metalmeccanici ancora in vigore

La FIAT aveva affermato di cessare di aderire a Confindustria liberandosi cosi dagli


obblighi che il vincolo associativo le avrebbe imposto: avvenne il 1 gennaio del 2012

Il 29 dicembre del 2010 veniva stipulato un nuovo contratto:

- che costituiva il completamento dell’Accordo di Polignano, ma corporea altresì quanto


maturato fino all’accordo di Mirafiori.

- Il contratto fu definito dalle parti contratto collettivo specifico di primo livello

- Contratto che è diventato di tutte le società e gli stabilimenti del gruppo FIAT

Il 17 febbraio 2011 veniva stipulato, infine, il contratto FIP:

un contratto aziendale per i dipendenti della new company Fabbrica Italia Pomigliano,
stabilimento di Pomigliano, provenienti da FIAT Group Automobile S.p.A, e da altre
società del gruppo FIAT

Questo caso ha innescato un contenzioso giudiziario massiccio e dagli esiti oscillanti, di


cui daremo conto oltre. Ma sopratutto ha reso evidente a tutti, parti sociali comprese, che
il sistema di relazioni industriali era entrato in una crisi profonda, della quale era difficile
immaginare lo sbocco.

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La ricomposizione del sistema: l’accordo interconfederale 28 giugno 2011

La consapevolezza della gravità della crisi indusse le maggiori Confederazioni a riaprire il


dialogo con Confindustria, portandole a concludere un nuovo:

“Accordo Interconfederale” (AI), le cui caratteristiche sono:

• Accordo questa volta unitario

• Creato perchè urgeva affrontare importanti questioni di principio:

- necessità per Confindustria di porre un argine alle tentazioni di fuga dalla


organizzazione degli imprenditori sollecitata proprio dal CASO FIAT

- e al convergente interesse delle Confederazioni a porre un argine alla fuga dalla


contrattazione nazionale, ricreando un sistema contrattuale basato su di un
minimo di regole condivise.

• Data: 28 giugno 2011


• Riscriveva le parti più controverse degli accordi separati del 2009, ricomponendo il
quadro dell’ordinamento sindacale e restaurando un normale circuito di regole
interconfederali

• É un patto unitario tra le più grandi Confederazioni

• Alla luce di questo Accordo si può dire che: gli accordi del caso FIAT, che certamente
avevano portato allo scoperto la crisi del sistema di relazioni industriali basata sul
Protocollo del 1993 non sono stati il motore di un nuovo ordinamento basta sulla
marginalizzazione del contratto nazionale e sulla visione sindacale MA sono stati una
contrattazione al di fuori del sistema, che all’epoca era anomala (oggi non lo sarebbe).

• Introduceva nuove regole, che superavano la logica “separatista” degli accordi del
2009; l’accordo pero non disciplinava tutte le materie regolate dagli accordi del 2009
implicitamente confermandone alcune.

• In questo accordo le parti:

- Ribadivano il ruolo centrale del c.c.n. di lavoro

- Nello stesso tempo affermavano di condividere l’obiettivo di favorire lo sviluppo


della contrattazione collettiva di secondo livello -> cioè territoriale/aziendale.
Questo però nell’ambito di materie delegate dal c.c.n. di lavoro di categoria o dalla
legge.

Così facendo le parti sostanzialmente ribadivano scelte già compiute nel 1993, ma con
una differenza: l’AI apriva un ampio spazio alla contrattazione aziendale, consentendo che
in quella sede si introdussero specifiche intese modificative, cioè deroghe al contratto
nazionale, purché giustificate da finalità ampie ma non generiche.

L’apertura di questo spazio era condizionato ad una serie di Regole tra le quali
assumevano grande rilievo:

- quelle relative alla rappresentatività sindacale -> soglie minime di rappresentatività per
l’accesso al tavolo delle trattative al c.c.n. di categoria

- alla verifica del consenso della maggioranza dei lavoratori collegate all’efficacia del
contratto

Queste Regole sono state meglio definite nel:

- Protocollo di intesa del 31 maggio del 2013

- Nell’AI del 10 gennaio 2014 detto “Testo unico sulla rappresentanza”

- Nell’AI “Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva”


del 9 marzo 2018.

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L’intervento del legislatore: art.8 L.148/2011

A distanza di meno di 2 mesi dall’’AI del 2011 il Governo allora in carica infilava a
sorpresa nel d.l. 138/2011 convertito nella L.148/2011 una disposizione che ben poco
aveva a che fare con quella manovra, ma molto invece con le vicende, allora in corso, del
caso FIAT.

Esso è:

- il primo intervento diretto della legge sulla efficacia erga omnes del c.c.
- un intervento che sovverte le regole del sistema contrattuale ridefinite dalle parti scoiali
nell’AI di 2 mesi prima.

Mantenuto in vigore per tutta la XVI legislatura, l’art.8, è sopravvissuto anche nella
legislatura successiva —> nessuna iniziativa è stata infatti assunta per l’abrogazione
dell’art.8, che resta perciò in vigore ameno in attesa che nella neonata legislatura XVIII
qualcuno si faccia carico dei problemi che la presenza nell’ordinamento che questa
controversa disposizione solleva.

Dividiamo i contenuti dell’art.8 in due capitoli:

1. Dedicato alla contrattazione collettiva definita di prossimità (aziendale o territoriale); in


questo capitolo il legislatore detta regole che vanno in una direzione divergente, se
non opposta, a quella tracciata dalle parti sociali nell’AI 28 giugno 2011 ( ciò che
spiega le reazioni negative delle Confederazioni firmatarie, inclusa Confindustria)

2. Questo ha provocato maggior sconcerto: il legislatore ha attribuito alla contrattazione


aziendale o territoriale la competenza a derogare, con effetti erga omnes, anche alle
leggi in materia di lavoro in una pluralità di materie, con l’unico limite del rispetto:
- della Costituzione - normative comunitarie - convenzioni internazionali sul lavoro

La dergoabilità alla legge ad opera del c.c. non è una novità, la legislazione degli ultimi
decenni è infatti ricca di esempi, ma si tratta sempre di casi specifici e predeterminati dal
legislatore; ciò che rappresenta una novità è invece: l’attribuzione alla contrattazione
collettiva locale o aziendale di una competenza quasi generale derogare alla legge-> tale
ampiezza e genericità dell’art.8 rende difficoltoso individuare dei limiti entro i quali il
contratto di “prossimità” possa legittimamente derogare alla legge.

Ripresa della contrattazione interconfederale

L’intervento del legislatore non ha fermato la contrattazione interconfederale, che ha


proseguito sulla strada difficile della definizione di autonome regole per la discioglia del
sistema di relazioni industriali.

Citiamo alcuni accordi:

1. Il primo accordo stipulato è intitolato:

“Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”:

- Accordo del 21 novembre 2012

- Documento programmatico

- Con esso le parti prefiguravano una disciplina convenzionale che raccogliesse in


sostanza la disciplina lanciata dal legislatore con l’art.8.

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- Sottoscritto da una parte significativa delle organizzazioni dei datori di lavoro e delle
Confederazioni sindacali, ma non dalla CGIL, in forte dissenso sulle parti del
documento relative:

• Rappresentatività sindacale

• Al ruolo del contratto nazionale

• Alla contrattazione nazionale derogatoria

- Deprime il ruolo del c.c.n. ( a differenza dell’accordo del 2011), a vantaggio del maggior
spazio e autonomia lasciata alla contrattazione aziendale, anche derogatoria.

- La divisione delle confederazioni in questo accordo non ebbe un grade impatto, ne


enormi conseguenze, forse perchè siamo verso la fine della legislatura ; tanto che negli
accordi successivi firmati anche dalla CGIL le parti sono tornate a riprendere il filo
dell’accordo del 2011 accantonando le linee programmatiche dell’Accordo separato del
2012

2. AI 31 maggio 2013 detto “Protocollo”:

- stipulato dopo le elezioni politiche da CISL, CGIL, UIL e Confindustria

- accordo interconfederale

- Obiettivo: mettere a punto una serie di regole del sistema contrattuale strettamente
collegate a quelle già definite con L’AI del 2011.

- Accordo dedicato essenzialmente alla contrattazione nazionale

- Detta importanti regole in materia di:

- Rappresentatività sindacale —> determinazione della soglia minima per l’accesso alle
trattative contrattuali

- Efficacia del c.c.n. di categoria, del quali le parti ribadiamo il ruolo centrale nel sistema
contrattuale, affidandogli il compito di garantire trattamenti comuni per tuti i lavoratori
del settore.

3. “Testo Unico della rappresentanza” (T.U.)

- 10 gennaio 2014

- Accordo interconfederale

- Con esso si da attuazione a quanto previsto dal Protocollo del 2013 in materia di
misurazione della rappresentatività sindacale.

- Di dettano nuove regole:

• Per la costituzione nei luoghi di lavoro delle rappresentanze sindacali unitarie dei
lavoratori su base elettiva (RSU) (regole che sostituiscono quelle del protocollo del
1993, rimanete fino ad allora in vigore)

• In materia di contrattazione aziendale

• Si prevede una procedura di conciliazione e arbitrato a livello interconfederale per la


soluzione delle controversie relative all’eventuale inadempimento da parte delle
organizzazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie, degli obblighi derivanti dai
contratti collettivi.

4. “Patto di Fabbrica”

- accordo interconfederale

- 9 marzo 2018

- Sollecitato dalla necessità di affrontare il preoccupante fenomeno della proliferazione


della contrattazione collettiva ( 868 c.n. di categoria) che consente di parlare di un vero
dumping contrattuale
- documento programmatico molto ampio che affronta a livello generico molti problemi
del lavoro:

• da un alto l’obiettivo di arrivare a garantire l’efficacia generalizzata dei contratti


collettivi;

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• e dall’altro l’auspicio per la definizione di un quadro normativo ( cioè una legge) che
recepisca le intese raggiunte interconfederali

• Intento di sviluppare la partecipazione organizzativa dei lavoratorio vale. Adire un


loro maggior coinvolgimento nella gestione dell’impresa.

Leggi pagina 95/96 per fare il punto della situazione.

+ appunti

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PARTE III: L’ORGANIZZAZIONE SINDACALE

LA LIBERTA’ SINDACALE

Introduzione

Nell’ordinamento giuridico dell’Italia repubblicana, la materia del diritto sindacale trova la


propria base giuridica in 2 disposizioni della Costituzione:

- L’art. 39 COST, dedicato all’organizzazione sindacale e al contratto collettivo


generalmente obbligatorio

- L’art 40 COST, dedicato al diritto di sciopero

Alle disposizioni costituzionali si sono aggiunte nel tempo altre disposizioni di varia
provenienza.

Fino ad epoca recente è stato invece pressoché assente il diritto dell’UE. Solo a partire
dal 1 dicembre 2009, con l’entrata in vigore del TUE, che all’art.6 richiama la CARTA UE,
attribuendole lo stesso valore giuridico dei Trattati, i diritti di azione sindacale,
negoziazione collettiva e sciopero (previsti dall’art 28 CARTA UE) sono entrati a pieno
titolo a far parte nel diritto dell’UE.

Le nozioni di base in tema di libertà e autonomia sindacale, che sono l’oggetti di questo
capitolo, restano ancorate alla tradizionale concezione “privatistica”, conseguenza, ma
anche frutto duraturo, della mancata attuazione legislativa dei commi 2, 3, e 4 dell’art.39
Cost.

Liberta’ dell’organizzazione sindacale


Quando si fa riferimento alla libertà sindacale si deve subito citare il comma 1 dell’art 39
Cost:

“L’organizzazione sindacale è libera” —> esso contiene una norma immediatamente


precettiva, che opera nei rapporti
intersoggettivi tra privati, e per l’attuazione
della quale non si rende necessario l’intervento
della legge

La libertà sancita dall’art.39, c.1, è libertà di “organizzazione”, non di


associazione, sindacale. L’uso dei termini non è casuale: in sede costituente alla libertà di
organizzazione sindacale non si volle affiancare la libertà di associazione, al fine di evitare
che l’art.39 prefigurasse e imponesse un determinato modello di associazione
organizzata. Quindi l’uso del termine “organizzazione” implica una nozione più ampia
dell’aggregazione sindacale nella forma associativa.

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Quando può dirsi che un’organizzazione abbia natura sindacale?

L’art.39 non definisce alcuna definizione del predicato “sindacale”, rinviando perciò a
dati di esperienza.

L’unico testo normativo in cui troviamo una definizione di “organizzazione sindacale” è


l’art.10 della Convenzione OIL n°87/1984, ratificata e resa esecutiva con la L.367/1958:
“ogni organizzazione di lavoratori o datori di lavoro che abbia lo scopo di promuovere e di
difendere gli interessi dei lavoratori o dei datori di lavoro” -> definizione tautologica

• Dal punto di vista del FINE, può essere dunque definita come “sindacale”: ogni attività
diretta all’avutotela degli interessi connessi allo svolgimento di un’attività di lavoro, non
necessariamente del solo lavoro subordinato.

• Dal punto di vista della STRUTTURALE, la qualifica di “sindacale” presuppone anche:


una organizzazione di soggetti, ed è perciò necessario che una organizzazione vi sia,
anche se nella forma minima di struttura di coordinamento degli interessi individuali o
come altrimenti si dice di coalizione.

Il predicato “sindacale” lo abbiamo riferito alla attività non alla libertà non a caso. Infatti
secondo una opinione largamente diffusa, oggetto della garanzia costituzionale è proprio
l’attività finalizzata all’organizzazione sindacale.

La libertà sindacale, infatti, come tutte le libertà, non è solo “libertà da” interferenze dei
pubblici poteri e anche dei soggetti privati ( in particolare nel caso, dei datori di lavoro),
ma è anche e sopratutto “libertà di” agire.

La libertà sindacale inoltre:

- Da un punto di vista individuale: essa è un diritto a titolarità individuale, perché ogni


individuo a diritto di coalizzarsi con altri per tutelare i propri interessi, e di partecipare
all’attività della organizzazione alla quale aderisce. Cosi la libertà sindacale è
configurata dal:

• Art.11 del CEDU

• Art.12 CARTA UE

- Da un punto di vista collettivo: essa è un diritto a titolarità collettiva. Quindi verso le


organizzazioni, la libertà sindacale fa riferimento alla libertà del sindacato di
organizzarsi, libero di decidere l’organizzazione interna es. obiettivi, priorità, di scegliere
gli strumenti per l’attività, di aderire a organizzazioni sindacali internazionali, quale
categoria rappresentare ecc…

Non è qualcosa che preesiste al sindacato, durante il periodo corporativo le categorie


erano predeterminate.

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Libertà sindacale negativa


Una questione sulla quale tutti i sindacati si sono interrogati è se la libertà sindacale nella
sua dimensione individuale, oltre ad avere il contenuto positivo che si è appena detto,
abbia anche un contenuto negativo: con ciò intendendosi la libertà del lavoratore di non
aderire ad alcuna organizzazione sindacale.

Nulla dice in proposito:

- nè l’art. 39 Cost.

- nè la Convenzione OIL n°87/1948

- nè la Convenzione n°98/1949, entrambe ratificate e rese esecutive dall’Italia con la


legge 367/1958

- nè la Carta sociale europea del 1961, che all’art.5 fa riferimento solo alla libertà positiva
di costituire organizzazioni sindacali o di aderirvi —> firmata a Torino e ratificata in Italia
con legge n°929/1965

La libertà sindacale negativa è stata volutamente ignorata per non precludere la


possibilità di adesione alla Convenzione n°87 da parte degli Stati nei quali erano
ammesse e praticate le clausole di:

- Closed shop—> che impongono a tuti I dipendenti di un’impresa l’affiliazione al


sindacato

- Union security—> che condizionano l’assunzione o la permanenza al lavoro


all’affiliazione al sindacato

Queste clausole sono state per lungo tempo ammesse in Gran Bretagna e nel 1981 sono
state per dichiarate illegittime dalla Corte Europea dei deisti dell’uomo, per violazione
dell’art.11 del CEDU, che garantisce il diritto di fondare sindacati e di aderirvi liberamente,
senza altre restrizioni che quelle previste dalla legge come necessarie per salvaguardare
l’ordine pubblico, la sicurezza e i diritti fondamentali delle persone.

Per trovare una definitiva risposta alla questione della libertà sindacale negativa occorre
fare riferimento allo Statuto dei lavoratori, che all’ Art.15 St.lav. prevede:

- la nullità di ogni atto o patto (individuale o collettivo) diretto a subordinare


l’occupazione di un lavoratore alla conduzione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale ovvero cessi di farne parte, nonché la nullità di ogni altro atto
che discrimini il lavoratore a causa della sua affiliazione sindacale.

- Sancisce dunque la nullità di qualsiasi clausola di union security, a garanzia del diritto
di Goni lavoratore di scegliere liberamente e di dissentire.

Il fine sindacale. Divieto dei sindacati di comodo.

Abbiamo detto che può essere definita come “sindacale” “ogni attività diretta
all’autotutela degli interessi connessi allo svolgimento di un’attività di lavoro”.

Definizione che risulta molto generica e ampia.

Un contributo ad una sua migliore precisazione viene dall’Art.17 St.lav che:

vieta ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere con
mesi finanziari associazioni sindacali di lavoratori.

Il divieto rende evidente che può definirsi come “sindacale” solo un’organizzazione
autenticamente tale, cioè “atteggiata antagonisticamente nei confronti della controparte”.

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Atteggiamento antagonistico non significa che il sindaco, per essere genuino non debba
essere disponibile a contrattare ed eventualmente ad accettare le proposte della
controparte.

Il divieto dei sindacati di comodo ( o sindacarti gialli ) implica perciò il divieto di sindacati
misti di lavoratori e datori di lavoro.

Il divieto di sindacati non pone limiti alla libertà sindacale garantita dall’art.39 c.1 Cost e
non rappresenta perciò un’illecita interferenza del legislatore nell’ordinamento sindacale.

Al contrario, l’art. 17 St. lav. da attuazione all’art.39, poiché contribuisce a dare un


contenuto al principio della libertà dell’organizzazione sindacale, impedendo che
l’esercizio di tale libertà sia ostacolato dalla presenza di soggetti spuri.

Peraltro, l’art 17 St. lav. non è una norma nuova per il nostro diritto sindacale —> il divieto
di costituire sindacati di comodo ha infatti :

- un precedente diretto nella Convenzione OIL n°98/1949, che vieta ogni ingerenza delle
associazioni dell’una parte nelle associazioni dell’altra parte.

- Un precedente a sua volta della convenzione nella legislazione nordamericana degli


anni 30: il Wagner Act che menziona tra le pratiche sleali l’ingerenza del datore di
lavoro nell’organizzazione sindacale dei lavoratori.

Il divieto di cui all’art.17 colpisce anche dei comportamenti che non sono tipizzati a
propri, per esempio: assunzioni discriminatorie, privilegi ingiustificati..

Sanzioni: per quanto riguarda questo tema in relazione ai sindacali di comodo la


violazione del divieto costituisce senza dubbio una condotta antisindacale: poiché
favorire illecitamente un sindacato significa, come ha rilevato anche la Corte Cost.,
“impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale”

É da pero specificare che la libertà di associazione, di cui all’art.18 Cost. tutela anche il
sindacato di comodo i cui fini non sono vietati dalla legge penale. L’associazione di
comodo potrà dunque continuare ad esistere, senza esser eliminata, ma non potrà agire
come sindacato, non essendo genuinamente tale; e il datore di lavoro condannato dovrà
cessare il comportamento antisindacale consistente nel sostegno esplicito o occulto a
questa associazione, e rimuovere gli effetti pregiudizievoli che ne siano derivati agli altri
sindacati e ai singoli lavoratori.

L’estensione della libertà sindacale. La libertà sindacale


degli imprenditori.
Quello degli imprenditori è stato in origine un sindacalismo di risposta, pur perdendo
tuttavia i tratti originali, le organizzazioni dei datori di lavoro hanno mantenuto caratteri
propri, che ne fanno una organizzazione profondamente diversa da quella dei sindacati
die lavoratori.

Malgrado le rilevanti differenze l’esperienza giuridica italiana aveva conosciuto in passato


una “piatta simmetria” e un’assoluta parità di trattamento tra le 2 organizzazioni —> ci si
è allora domandati se la stessa simmetria potesse essere riproposta anche nella
interpretazione della Costituzione, al fine di estendere agli imprenditori la garanzia
costituzionale della libertà sindacale.

2 diverse opinioni in dottrina:


1. Secondo questa opinione: l’art.39 c.1. non distingue tra le parti sociali contrapposte, e
mette dunque lavoratori e datori di lavoro sullo stesso piano quanto a garanzia della
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libertà sindacale (ma non dell’azione sindacale -> al diritto di sciopero non
corrisponde un diritto di serrata).
La simmetria sarebbe stat certo piu evidente se avrebbero tratto attuazione i commi
2,3,4 dell’art.39 Cost., poiché la registrazione delle associazioni di ambedue le parti
avrebbe co portato la parificazione del loro regime giuridico.
Nel diritto vigente l’estensione della garanzia della libertà sindacale agli imprenditori, e
di conseguenza della qualificazione come “sindacali” delle loro organizzazioni, può
trovare fondamento in:

• Convenzioni Internazionali -> che affermano eguale libertà e protezione


dall’interferenza dei pubblici poteri per le organizzazioni dei lavoratori e dei datori
di lavoro

• S. 1/1960 Corte Cost. e S. 29/1960 Corte Cost. —> che hanno ricondotto
all’art.39 c.1. la libertà di organizzazione e azione sindacale dei datori di lavoro

• Art.28 La Carta UE —> prevede per i lavoratori, per i datori di lavoro e per le loro
organizzazioni eguali diritti di negoziazione collettiva e di ricorso ad azioni collettive
per la difesa dei propri interessi in caso di conflitto.

2. Un’opinione contraria (meno diffusa e ormai superata): sostiene la non estensione


all’art.39.c1. Cost. ai datori di lavoro, affermava invece il carattere unilaterale della
garanzia costituzionale della libertà sindacale, facendo essenzialmente leva sulla
indubbia diversità, storica e fattuale, tra sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro.
La c ostruzione della libertà sindacale bilatera ha dalla sua dati normativi, non
contestabili, detti sopra.

Ovviamente dire che l’art.39.c1. estende anche ai datori di lavoro la libertà sindacale non
significa che le due categorie abbiano gli stessi diritti: lo Statuto dei Lavoratori nel
prevedere norme di sostegno dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro non prende
neanche in considerazione la libertà sindacale degli imprenditori., confermando che il
privilegio riservito ai sindacati dei lavoratori trova il proprio fondamento nel principio di
eguaglianza in senso sostanziale di cui all’art. 3 c.2. Cost.

Del tutto peculiare è la rappresentanza sindacale die darti di lavoro pubblici, istituita con
d.lgs. 29/1993 che prende il nome di ARAN (agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni): dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e
rappresa legalmente le pubbliche amministrazioni nella contrattazione collettiva di livello
nazionale.

La libertà sindacale dei lavoratori autonomi


Secondo l’interpretazione prevalente, che trova conforto nella giurisprudenza della Corte
Cost. In materia di sciopero, ai lavoratori autonomi definibili, in ragione della dipendenza
economica dal committente e dalle modalità di esecuzione della prestazione come
parasubordinati deve essere riconosciuta la libertà di organizzazione sindacale di cui
all’art.39, in sintonia con l’espansione del diritto del lavoro oltre la sfera del lavoro
subordinato.

La libertà sindacale dei pubblici dipendenti


Quanto ai pubblici dipendenti, se in un passato alquanto remoto era stata messa in
dubbio l’estensione ad essi della grazia di cui all’art.39, tale estensione non può più
essere messa in dubbio. Peraltro, con la privatizzazione dei pubblico impiego è stata
sancita la tutela della libertà sindacale die lavoratori pubblici nei modi previsti dallo St.Lav.

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I limiti alla libertà sindacale: militari e polizia di Stato


I soli limiti alla libertà sindacale nel nostro rodimento riguardano i militari e gli appartenenti
alla polizia di stato. Tali limiti sono ammesse dalle Convezioni internazionali richiamate
sopra.

1. Per quanto riguarda : militari di carriera —> l’art.1475 d.lgs. 66/2010 esclude che
possano aderire o costituire associazioni sindacali e che possano esercitare il
diritto allo sciopero. —> giustificazione di questo si ha in base alle funzioni e compitìni
che i militari di carriera sono chiamati a svolgere, che a loro volta avrebbero giustificato
una organizzazione gerarchica e una displica incompatibile con l’attività sindacale.

Ma: con la s.120/2018 (“storica”)-> la Corte Cost. Ha dichiarato l’illegittimità


costituzionale dell’art.1475 in quanto prevede che:

“I militari non possono costituire/aderire a associazioni professionali sindacali o aderire ad


altre associazioni sindacali”

invece di prevedere

“I militari possono costituire associazioni professionali sindacali alle condizioni e con i


limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali”
La Corte ha rivisto detto articolo sulla base di:

- art.11 CEDU ( libertà di associazione )

- art.14 CEDU (divietò di discriminazione)

- Art.5 Carta Sociale Europea

In quanto essi legittimano le restrizioni alla libertà sindacale dei militari ma non il divieto
di associarsi sindacalmente.

Resta invece fermo per i militari di aderire ad altre associazioni sindacali.

2. Per quanto riguarda la: Polizia di Stato, la sua smilitarizzazione ha portato ad opera
della L.121/1981 un affievolimento dei pesanti limiti alla libertà sindacale che gravavano
sugli appartenenti alla Polizia quando era ancora militare.

La liberalizzazione è stata tuttavia molto cauta: ai poliziotti è permesso costituire


associazioni sindacali o aderire a sindacati, ma questi ultimi devono essere formati, diretti
e rappresentanti esclusivamente da appartenenti alla polizia o in quiescenza; e questi
sindacati non possono aderire ad altre organizzazioni che rappresentano altri lavoratori.

Giustificazione di questa associazione sindacale separata:

Necessità di evitare che gli addetti alla tutela dell’ordine pubblico subiscano
condizionamenti politico-sindacali.

Vietato il ricorso allo sciopero.

La struttura organizzativa dei sindacati dei lavoratori


Anche in Italia il sindacato era nato come: organizzazione di mestiere, ma già all’inizio del
900’ molti sindacati si presentavano come organizzati per categoria—> cioè per ramo di
industria.

La struttura delle organizzazioni sindacali era già allora molto complessa.

Durante il periodo corporativo: la libertà sindacale venne soppressa e con essa il


pluralismo sindacale, la struttura organizzativa imposta dalla legge era articolata su due
soli livelli:

- Uno orizzontale -> intercategoriale : la Confederazione

- Uno verticale -> di categoria : la Federazione Nazionale (per ogni categoria era
riconosciuta una sola Federazione n. Di datori di lavoro e una sola per i lavoratori).

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Con il ritorno della libertà sindacale nel dopoguerra: è rinato anche il pluralismo sindacale,
che determina la presenza di più organizzazioni sindacali alle quali aderiscono, per libera
scelta e in ragione delle loro personali opinioni, i lavoratori occupati in un medesimo
settore produttivo.

La CGIL, l’UIL e la CISL (confederazioni) sono le 3 maggiori organizzazioni attualmente


presenti, e ad esse aderiscono per scelta volontaria molti milioni di lavoratori di tutte le
categorie dei settori dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, del settore pubico
centrale e locale.

La loro struttura organizzativa è complessa, distinguiamo:

• La linea di organizzazione orizzontale (intercategoriale) = si articola su 3 livelli:

- Struttura territoriale (provinciale): che per la:

1. CGIL sono le Camere del Lavoro

2. CISL sono le Unioni provinciali


3. UIL sono le Camere sindacali
- Struttura regionale (nella quale confluiscono le strutture territoriali)

- Struttura nazionale (nella quale confluiscono sia le strutture regionali sia le strutture
nazionali di categoria: Federazioni)

• La line di organizzazione verticale ( di categoria ) = si articola su 4 livelli:

- Struttura a livello del luogo di lavoro

- Struttura territoriale di categoria

- Struttura regionale di categoria

- Struttura nazionale di categoria (Federazione)

La organizzazione sindacale a struttura confederale non esaurisce il panorama dei modelli


organizzativi: il pluralismo sindacale si manifesta anzitutto nella presenza di una pluralità
di sigle sindacali, fino al limite della frammentazione presente in alcuni settori della
pubblica amministrazione dove si affolla un numero molto alto di sindacati, spesso
formato da un numero irrisorio di iscritti.

Il pluralismo si manifesta anche nella scelta di una struttura organizzativa legata alla
definizione dell’interesse collettivo tutelato, e dunque di un’area di rappresentanza
ristretta ad :

- Una attività professionale (es. piloti)

- Un settore specifico di attività (es. scuola, credito)

- Un preciso segmento di un’attività produttiva

Questi sindacati sono detti autonomi per distinguerli dai sindacati confederati. E questi
sindacati autonomi sono andati peraltro progressivamente a riunirsi in organizzazioni di
tipo confederale ( CISAL / CONFSAL / CISAS ) anche se conservano una connotazione
prevalentemente settoriale, che distingue queste nuove Confederazioni dalle altre 3
Confederazioni.

Inoltre, occorre ricordare che sono presenti organizzazioni sindacali caratterizzate d una
fluidità organizzativa che rende problematica la loro qualificazione come associazioni.

Inoltre, occorre ricordare che nel’UE opera la CES:

—> Confederazioni europea dei sindacati

—> costituita a Bruxelles nel 1973

—> a cui aderiscono la CISL / CGIL / UIL

Inoltre, CISL / CGIL / UIL aderiscono anche alla CIS -> Confederazione sindacale
internazionale, nota anche come : ITUC )

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Le organizzazioni dei datori di lavoro


A differenza dei sindacati dei lavoratori, i sindacati dei datori di lavoro non presentano
rilevanti divisioni su basi ideologiche.

Ad oggi il mondo delle organizzazioni datoriali si presenta disarticolato, a causa della


nascita di nuove associazioni, nate sia a seguito dell’uscita di grandi imprenditori da
associazioni storiche, sia autonomamente.

Nelle organizzazioni datoriali storiche: le strutture orizzontali ( territoriali e nazionali) hanno


ampie funzioni e un ruolo più importante di quelle verticali di categoria.

Le principali organizzazioni storiche sono:

- Nel settore del commercio —> CONFCOMMERCIO

- Nel settore agricolo —> CONFAGRICOLTURA

- Nel settore bancario —> ABI

- Nel settore assicurativo —> ANIA

- Le imprese cooperative —> ACI

- Le imprese dei servizi pubblici locali —> CONFSERVIZI

- Nel settore industriale —> CONFINDUSTRIA

É la maggiore organizzazione degli imprenditori industriali e non solo: sono associate ad


essa anche imprese private o privatizzate del terziario.

La struttura organizzativa di base è:

quella orizzontale territoriale (Associazione industriali provinciale) alla quale aderiscono


le imprese della provincia.

Le Associazioni provinciali si raggruppano a loro volta nelle Federazioni regionali

La struttura orizzontale di vertice è la Confederazione, nella quale confluiscono oltre le


strutture orizzontali provinciali e regionali anche le strutture nazionali

Merita segnalare che, in contrapposizione con quanto anticipato, nell’ultimo periodo si sta
sta sviluppando una tendenza alla ricomposizione della frammentazione organizzativa

A livello europeo gli imprenditori sono organizzati nella Business Europe e nella UAPME
(per le imprese di piccola e media dimensione) e nella CEEP (per i datori di lavoro
pubblici)

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RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITA’ SINDACALE


Il sindacato come associazione non riconosciuta
La libertà sancita dall’art.39.c.1 è di “organizzazione” e non di “associazione” sindacale:
l’uso del termine organizzazione sta ad indicare che la aggregazione sindacale di cui la
Costituzione tutela la libertà non debba necessariamente assumere la forma associativa.
Detto questo, però, il sindacato ha, per tradizione storica comune a tuti i paesi industriali,
la forma associativa, ma questo non è:

- nè sempre vero

- nè necessario

Non essendo mai stata emanata la legge di attuazione dei commi 2/3/4 nel nostro
ordinamento i sindaci non possono chiedere la “registrazione” e conseguire per questa
via la personalità giuridica prevista dalla Costituzione.

La mancanza di una disciplina legale speciale ha indotto gli interpreti a cercare nel diritto
comune (privato) le regole applicabili a questi soggetti:
cioè artt. 36/37/38 codice civile in base alle quali:
• quando sono organizzati in forma associativa i sindacati hanno allora soggettività
giuridica delle associazioni non riconosciute.

• in base a questi artt. l’ordinamento interno e la amministrazione dell’associazione


sono regolate dagli accordi degli associati

• l’associazione può stare in giudizio nella persona di coloro ai quali, è conferita la


presidenza

• l’associazione ha un fondo comune costituito:

- con i contributi degli associati

- con beni acquistati con tali contributi

• il fondo comune permane (non può essere diviso tra gli associati) fino allo scioglimento
della associazione

• Il fondo comune risponde delle obbligazioni della associazione, salva la responsabilità


personale e solidale delle persone che hanno agito in nome e per conto delle
associazione

L’associazione non riconosciuta: ha quindi una propria personalità giuridica autonoma


e distinta d quella degli associati in quanto ad essa sono imputabili rapporti giuridici.

Ciò che differenza l’associazione non riconosciuta da quella riconosciuta è

la diversa estensione della responsabilità per i debiti dell’associazione, in quanto:

- l’ass. riconosciuta -> gode di autonomia patrimoniale perfetta

- l’ass. non riconosciuta -> coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione
dell’associazione possono essere chiamati a rispondere personalmente e
illimitatamente.

La disciplina codicistica si preoccupa dell’affidabilità patrimoniale del gruppo, ma questa


è una delle ultime preoccupazioni degli interlocutori abituali del sindacato. La diversità del
sindacato rispetto le altre associazioni è tale rendere non praticabile la via del
riconoscimento giudicio ordinario; peraltro il riconoscimento delle associazioni (art. 12
codice civile) prevede un giudizio di merito sulle finalità e i mezzi utilizzati, che non appare
compatibile con la libertà sindacale, che impedisce l’intervento e il controllo del potere
politico sulla organizzazione interna al sindacato.

Distinguendo la libertà dell’organizzazione sindacale dalla libertà di associazione, la prima


è assoluta e non tollera i limiti che la Costituzione impone alla seconda.

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La pochezza della disciplina legale delle associazioni non riconosciute non esclude che
ad esse possano essere applicate in via analogica alcune disposizioni contenute negli
artt. 14-35 codice civile, in quanto riferibili al fenomeno associativo e non strettamente
connesse al riconoscimento giuridico dell’associazione. Questi articoli contengono regole
di democrazia interna dell’associazione, non derogabili dalla volontà degli associati.

Esempi:

Art. 24.c.2 —> l’associato può sempre recedere dalla associazione se non ha assunto
l’obbligo di farne parte per un tempo determinato

Art. 24 c.3 —> l’esclusione dell’associato non può essere deliberata dall’associazione che
per gravi motivi

L’estensione analogica delle disposizioni che abbiamo sopra citato implica che l’atto
costitutivo, lo statuto non sono le fonti esclusive dell’ordinamento intento
dell’associazione sindacale, che risulta invece regolato anche dalla legge. (p.117 ?)

Associazione sindacale e “categoria”


Per quanto nel linguaggio corrente si usi chiamare “sindaco di categoria” :

Il sindacato che definisce la propria area di rappresentanza per ramo di industria o settore
di attività, una delle maggiori implicazioni della qualificazione del sindacato come
associazione non riconosciuta è l’abbandono dell’idea che l’organizzazione sindacale
debba essere conforme a presunte categorie di datori di lavoro o di lavoratori esistenti in
natura e la cui naturale identità possa essere fissata d aleggi o dalle autorità.

Quindi: a differenza del periodo corporativo -> dove le categorie dei datori di lavoro o dei
lavoratori era predefinite e quindi preesistevano alle associazione rappresentative,

Nel diritto sindacale fondato sul principio della libertà sindacale -> il sindaco preesiste alla
categoria.

La “categoria” -> è:

- sindacale -> è il gruppo professionale che l’associazione rappresenta e del quale


persegue l’interesse collettivo

- contrattuale -> è il campo di applicazione del contratto collettivo (non c’entra è per distinguere i termini)

Alla luce del principio di libertà sindacale è dunque legittimo che sia considerato
categoria da una associazione sindacale quello che non è considerato categoria da
un’altra.

La rappresentanza negoziale del sindacato-associazione


Ora qualifichiamo il rapporto giuridico che intercorre tra l’associazione e i destinatari della
sua attività negoziale:

La dottrina ha qualificato questo rapporto facendo ricorso alla categoria privatistica della
“rappresentanza volontaria”-> cioè quel meccanismo giuridico mediante il quale la
volontà negoziale viene formata ed espressa da un
soggetto diverso da quello a cui sono
immediatamente imputabili gli eff. g. dell’atto compiut

Secondo questa ricostruzione: la legittimazione del potere dell’associazione di


rappresentare gli associati è fondata su di un atto volontario negoziale, cioè la
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adesione al sindacato -> essa è costitutiva del potere dell’associazione di


rappresentare nella negoziazione l’interesse collettivo
degli associati e di imputare loro gli effetti dei negozi posti
in essere.

Il fulcro di questa teoria della rappresentanza volontaria è la nozione di:

interesse collettivo —> sintesi e non somma di interessi individuali e come tale
indivisibile e diverso dall’interesse individuale degli associati.

—> è un interesse privato, in quanto non proprio di tutta la


collettività organizzata, ma di una collettività costituita su atto
volontario

Il cuore del problema della rappresentanza sindacale sta nel trovare una ragione giuridica
della subordinazione dell’autonomia individuale dei singoli iscritti all’autonomia del
sindacato (autonomia collettiva), spiegando perchè gli scritti sono vincolati dagli atti
compiuti dal sindacato (il contratto collettivo in primo luogo).

- la dottrina più risalente ha ravvisato il fondamento del potere negoziale del sindacato
nel: mandato di rappresentanza sindacale che ogni associato conferisce al sindaco al
momento della iscrizione. Spiegazione di tipo individualistico, nella misura in cui viene
ancora ricondotta alla volontà individuale la legittimazione del sindacato ad agire per
conto degli iscritti
- La dottrina meno remota ha ravvisato invece detto fondamento: nel contratto
associativo, cioè il contratto di adesione vincola l’aderente nei termini e nei modi
previsti dallo statuto del sindacato —> teoria nota come rappresentanza associativa
valorizza l’autonomia statuale dell’associazione rispetto alla volontà individuale degli
iscritti, spiegando cosi la prevalenza dell’interesse collettivo sull’interesse individuale

Dalla fine degli anni 60 del secolo scorso si sono fatte però strada nella elaborazione
della dottrina ricostruzioni del potere negoziale del sindacato che alla
rappresentanza volontaria non hanno più fatto riferimento:

—> il potere viene considerato come proprio del sindacato, cioè autonomo e non
fondato sul mandato degli iscritti.

—> l’interesse collettivo è definito come interesse proprio del sindacato, che esprime una
mediazione tra interessi diversi, che non sono solo e necessariamente gli interessi dei
suoi iscritti.

—> la rappresentanza sindacale non è più concepita come strettamente associativa, am


come rappresentanza tendenzialmente generale, estesa cioè anche al di fuori della
cerchia degli iscritti.

Il progressivo superamento della visione individualistica del sindaco è stato sicuramente il


risultato anche di vicende sindaci della fine degli anni 60:

1. Sono emerse in quegli anni forme non associative di rappresentanza generale di


lavoratori (consigli di fabbrica) per la comprensioni delle quali le categorie civilistiche
dell’associazione e del mandato con rappresentanza parevano ormai inadeguate.

2. La concezione puramente associativa del sindacato era stata abbandonata

3. Successo della teoria dell’ordinamento intersindacale ha reso reso evidente


l’inadeguatezza degli schemi civilistici alla comprensione della complessità della
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organizzazione sindacale, della sua dimensione collettiva, della sua autonomia,


dell’estensione di fatto del potere negoziale dei sindaci verso i non iscritti.

4. L’intervento della legge fu la spinta decisiva: già lo Statuto dei Lavoratori e la


legislazione del lavoro successiva hanno indotto un settore consistente nella dottrina
a concentrare l’attenzione sulla: rappresentatività sindacale -> concetto che a a
partire dalla metà degli anni 70 tende a sostituire, negli studi di diritto sindacale, quello
di rappresentanza sindacale.

Questo importante passaggio teorico che coglie il carattere strutturale collettivo ( non
individualistico ) del sindacato, ha aperto la strada alla ricerca di nuove basi giuridiche del
potere negoziale dei sindacati: potere che nella prassi appare più vicino agli schemi della
rappresentanza politica che a quello della rappresentanza volontaria associativa di diritto
privato.

La rappresentatività sindacale
RAPPRESENTATIVITÀ —> non coincide con rappresentanza

—> è un criterio di qualificazione o di selezione del soggetto


legittimato a fare qualcosa perchè sa, o si presume che
sappia, farlo meglio degli altri. Nel nostro caso sa o si presume
che sappia sviluppare una azione di tutela caratterizzata da un
apprezzabile tasso di effettività a favore della totalità degli
interessi anche di quelli riferibili a coloro che non sono
rappresentati secondo le regole di diritto civile.

—> seleziona un soggetto collettivo e lo legittima all’esercizio di


un’attività

—> è un concetto pregiudico o sociologico: si dice


rappresentativo il sindacato capace di dare effettiva tutela agli
interessi collettivi che assume di rappresentare

—> è un concetto giuridico: nel momento in cui la legge dello


Stato affida alla rappresentatività la funzione di qualificare e
selezionare i soggetti collettivi; e la selezione opera in un
contesto di concorrenza tra sindaci diversi per ispirazione e
capacità di aggregare il consenso

Il concetto giuridico di rappresentatività e quello di maggiore rappresentatività non erano


sconosciuti al nostro diritto sindacale post-costituzionale. La legge faceva talora
rifermentò alla maggiore rappresentatività per selezionare i sindacati a fini di
partecipazione a organi amministrativi e internazionali, ma la dottrina non collegava la
selezione dei sindacati rappresentativi con l’attività di negoziazione collettiva, e dunque
non collegava la rappresentatività alla rappresentanza sindacale.

Il collegamento non emergeva neppure nelle prime ricostruzioni del concetto di maggiore
rappresentatività proposte dagli interpreti a ridosso dell’entrata in vigore dello Statuto dei
lavoratori, dove la maggiore rappresentatività era utilizzata dall’art.19 per qualificare e
selezionare i sindaci nel cui ambito potevano essere costituite le rappresentanze sindacali
aziendali (RSA).

Il collegamento tra maggiore rappresentatività e rappresentanza negoziale è emerso


invece nel colmo della stagione detta: della legislazione dell’emergenza, che non si
limitava più, come avveniva nello Statuto dei Lavoratori a dare sostegno legale ai
sindacati maggiormente rappresentativi (s.m.r), la legge chiamava ora i s.m.r. a gestire
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la crisi economica, devolvendo loro la funzione normativa di derogare, mediante il


contratto collettivo, a talune disposizioni di legge, riducendo per questa via i livelli di
tutela dei lavoratori.

L’obiettivo era di dare ai contratti collettivi stipulati dai s.m.r efficacia erga omnes:
un’efficacia generale che non poteva certo trovare fondamento nella costituzione della
rappresentanza negoziale del sindacato come rappresentanza volontaria

Entrata in crisi la tradizionale ricostruzione della rappresentanza sindacale in chiave di


rappresentanza civilistica, il diritto sindacale appariva ora caratterizzato dalla
compenetrazione tra l’ordinamento dello Stato e l’ordinamento sindacale —> invadenza
dello Stato nell’autonomia privata piuttosto che simmetria tra due ordinamenti autonomi e
paritetici.

In questa compenetrazione, o meglio invasione, dell’autonomia privata da parte della


legge dello Stato, la rappresentanza sindacale era sostituita dalla maggiore
rappresentatività.

La legislazione del periodo identificava i s.m.r. nelle 3 Confederazioni maggiori,


presumendone la rappresentatività, ma non imponendo verifiche della consistenza del
consenso di cui effettivamente godevano.

L’obiettivo della sostituzione della rappresentanza sindacale negoziale di natura


privatistica con la rappresentatività era essenzialmente l’attribuzione di officia erga omnes
hai contratti collettivi, ai quali la legge devolveva la funzione di introdurre deroghe che in
peggio (pejus) alla legge, ma che erano stipulati dai s.m.r. al di fuori delle procedure
previste dall’inattuato art.39.c.4.

L’obiettivo dell’efficacia generale (erga omnes) per quanto di primaria importanza, non
poteva pero essere centrato —> la ragione fondamentale è che la formula del s.m.r. era
destinata a conoscere un lento declino, a fronte della crescente frammentazione e
complessità che avrebbe dovuto esprimere. La maggiore rappresentatività è stata
ancora un criterio di selezione e qualificazione dei soggetti collettivi, largamente
utilizzato dalla legge; ciò che invece a partire dagli anni 90 tende progressivamente a
scomparire è la presunzione di maggiore rappresentatività, che aveva fatto delle 3
maggiori Confederazioni i s.m.r. per antonomasia.

Il sindacato maggiormente rappresentativo: criteri di


valutazione della rappresentatività
Al fine di selezionare i sindacati in ragione della loro maggiore rappresentatività il
legislatore ha utilizzato formulazioni diverse, variabili nel tempo.

La formulazione che avuto maggior successo è quella che ha fatto la sua comparsa
ufficiale nell’art. 19 St. Lav., dove il legislatore prevedeva che le rappresentanze sindacali
aziendali (titolari dei diritti sindacali di cui al titolo III della stessa legge) fossero costituite
nell’ambito delle associazioni aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative
sul piano nazionale.

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Le confederazioni maggiormente rappresentative


La scelta del legislatore dello Statuto si basava sulla storica rappresentatività delle
maggiori confederazioni sindacali: era una era una presunzione di rappresentatività
fondata:

- da un lato dall’esperienza

- dall’altro era anche una scelta politica -> quella di privilegiare le organizzazioni
sindacali di più ampie dimensioni, capaci di compensare i diverso egoismi di settore.

L’art.19 St.l è stato modificato, e la modificata ha fatto venire meno proprio la scelta a
favore delle Confederazioni maggiormente rappresentative; nella legislazione sia coeva
sia posteriore allo Statuto, tuttavia questa scelta è ancora largamente presente, anche se
attualmente il legislatore ha dimostrato una preferenza per altri criteri selettivi, che alle
Confederazioni non fanno più riferimento. Ciò rende necessario interrogarsi sul significato
dell’espressione “Confederazioni maggiormente rappresentative”.

L’ interpretazione di questa espressione ha sub tuo una trasformazione che trova


riscontro nei diversi orientamenti della giurisprudenza, sia di legittimità sia di merito, che
vanno di pari passo con il progressivo declino della presunzione di rappresentatività delle
Confederazioni.

1. La corte costituzionale con la s. 54/1974 aveva precisato come il cirteiro della


maggiore rappresentatività non si riferisce a duna comparazione tra le varie
Confederazioni nazionali, che avrebbe comportato la necessità di pesarne il numero
degli iscritti, bensì ad una effettività, cioè ad una differenza effettivamente esistente, e
sempre verificabile, della capacità rappresentativa di alcune organizzazioni rispetto ad
altre.

2. Sulla scorta dell’indicazione della s. 54/1974, la cassazione in primo tempo aveva


fissato il criterio per individuare le organizzazioni maggiormente rappresentative nella:
equilibrata consistenza su tutto l’arco della categorie e la diffusione
dell’organizzazione su tutto il territorio nazionale.

3. La stessa Cassazione ha provveduto a un temperamento del criterio appena citato,


con la s. 1320/1986: la effettiva diffusione su parte soltanto del territorio nazionale
può essere ritenuta sufficiente, cosi la presenza della organizzazione in certe categorie
ma non in altre.

4. Viene inoltre valorizzato come indice di rappresentatività, il criterio della


partecipazione alle trattative e alla stipulazione dei c.c.n.

Insomma, le maglie si sono allargante, consentendo di qualificare come Confederazioni


maggiormente rappresentative anche organizzazioni sindacali che pur avendo una certa
consistenza organizzativa, non appartengono al gruppo ristretto delle Confederazioni che
aggregano grandi masse di lavoratori di tutte le categorie.

Restano fuori i sindacati monocategoriali: il carattere intercategoriale della


Confederazione non appare infatti superabile.

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Un contributo notevole al progressivo allentamento del rigore interpretativo lo fornì lo


stesso legislatore con la L. 902/1977 -> il cui oggetto era la ripartizione del patrimonio
residuo delle disciolte organizzazioni sindacali fasciste tra le organizzazioni sindacali
presenti al momento dell’entrata in vigore della legge. La legge attribuiva il 93% del
patrimonio alle organizzazioni sindacali indicate in una specifica tabella, mentre il restante
7% era attribuito alle Confederazioni e associazioni nazionali che risputassero
“maggiormente rappresentative” tenuto conto:

- Della consistenza numerica

- Dell’ampiezza delle strutture organizzative

- Della diffusione delle strutture organizzative

- Della loro partecipazione alla contrattazione collettiva

- Della loro presenza nel conflitto

La legge aveva cosi dettato dei criteri per definire la “maggiore rappresentatività” ->
restava solo di capire se quei criteri servivano solo per distribuire il patrimonio o se
avevano una portata generale che doveva guidare l’interpretazione di altre leggi. Le
opinioni in merito erano divergenti.

La Cassazione ha finito per ritenere non decisiva, ai fini della valutazione della maggiore
rappresentatività di un sindacato l’inclusione nella tabella, dovendosi in ogni caso
verificare se i requisiti della maggiore rappresentatività si fossero mantenuti nel tempo e
fossero presenti nel momento in cui il giudice effettua la valutazione. ( s.1320/1986 )

I sindacati comparativamente più rappresentativi


A partire dalla L. 549/1995, il legislatore utilizza un nuovo criterio di selezione, che da
allora tende progressivamente a sostituire, nella legislazione, quello della maggiore
rappresentatività: il criterio è quello dei:

“sindacati comparativamente più rappresentativi”


-> in generale sul piano nazionale

-> la formula fa riferimento alla contrattazione collettiva nazionale di categoria

-> detto anche: criterio della maggiore rappresentatività comparativa

-> funziona di selezionare, in presenza di più contratti collettivi, il contratto al quale la


legge intendeva collegare determinati effetti (es. la retribuzione base per il calcolo dei
contributi previdenziali)

-> parametro utilizzato, allo stato, di più dal legislatore

Da qui il criterio è passato ad altre leggi, nelle quali ai contratti stipulati dai sindacati
comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale è affidata la funzione di
integrare o modificare la regolamentazione posta dalla legge. Quindi la funzione del
criterio di maggiore rappresentatività comparativa continua ad essere essenzialmente
quella di individuare il contratto collettivo autorizzato dalla legge ad introdurre integrazioni
o deroghe alla disciplina legale, o a sostituirsi ad essa.

Di ciò si trova conferma nell’:

art.51 d.lgs. 81/2015 (“nuova disciplina organica dei contratti di lavoro”),

—> dove il legislatore ha specificato che i contratti collettivi ai quali fa rinvio sono i
“contratti collettivi nazionali, territoriali, o aziendali stipulati da associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali
stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o dalla rappresentanza sindacale
unitaria”

—> ha assunto una funzione definitoria di carattere generale

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Quali parametri possono essere utilizzati ai fini di una valutazione che deve essere appunto
“comparativa”?
- si tratta di una valutazione che guarda al livello nazionale della categoria ( e non a
quello pluricategoriale) -> di conseguenza alcuni parametri utilizzati per valutare la
rappresentatività delle Confederazioni non risultano più idonei.

- I parametri individuati rispetto al criterio delle confederazioni maggiormente


rappresentative si riferivano a valutazioni di tipo non comparativo, e non sono idonei a
pesare la rappresentatività, cioè a dirci quale sindacato abbia maggiore capacità di un
altro di sviluppare quell’azione di tutela
(per maggiore rappresentatività si intendeva effettiva rappresentatività -> cioè la
capacità di sviluppare una azione di tutela caratterizzata da un apprezzabile tasso di
effettivà a favore della totalità degli interessi dei lavoratori)

Però il legislatore non fornisce nuovi criteri di valutazione, nonostante appunto quelli della
maggiore rappresentatività siano inutilizzabili, in quanto la valutazione comparativa, che
impone appunto di “pesare” la rappresentatività, non può basarsi su presunzioni e fattori
notori, ma deve fare ricorso più che altro ai numeri; ma la domanda è su quali numeri
debba basarsi il giudizio…? —> questo cirteiro non è in grado di dare risposte appaganti
a questa domanda, in quanto lo potrebbe fare solo una disciplina legale che fornisse
strumenti anche minimaliste consentirebbero di valutare tale rappresentatività.

Il problema è che il legislatore non ha indicato criteri, manca infatti una disciplina
legislativa della rappresentatività sindacale nel settore privato. Una disciplina esiste ma
nel settore pubblico fin dal 1997. ( parte V )

Discipline contrattuali della rappresentatività sindacale


Se la legge continua a tacere, le parti sociali ( Confindustria, CGIL, CISL, UIL) hanno
tentato di riempire il vuoto normativo con proprie discipline contrattuali:

si tratta di quell’insieme di Accordi Interconfederali, culminati con:

- il T.U. sulla rappresentanza del 2014

- le linee programmatiche enunciate nel “Patto di Fabbrica” del 9 marzo 2018

In materia di rappresentatività sindacale le parti hanno adottato un modello che in parte


ricalca quello in vigore nel settore pubblico, adeguandolo alle caratteristiche del privato.

Per quanto riguarda la stipulazione del contratto collettivo nazionale di categoria (CCNL)
le parti hanno fissato una soglia minima di rappresentatività sindacale nel settore o
comparto non inferiore al 5% —> il raggiungimento della soglia era necessario per
sedere al tavolo della contrattazione collettiva
nazionale
—> si tratta di una regola convenzionale di accreditamento reciproco

—> significa, in sostanza, che es. Confindustria si impegna a non negoziare i contratti
nazionali con sindacati che non raggiungono questa soglia di rappresentatività

—> il sistema è “aperto” verso i sindaci terzi che, pur non avendo sottoscritto il T.U.
avranno diritto a partecipare alle trattative per il rinnovo del contratto nazionale ove
raggiungano la soglia di rappresentatività del 5%

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Per quanto riguarda invece la regola che attiene al modo di calcolare o pesare la
rappresentatività, le parti, ispirandosi al modello in vigore nel settore pubblico, hanno
concluso che:

La rappresentatività sindacale, cioè il livello di consenso di cui il sindacato gode


nell’ambito della categoria cui si applica il contratto collettivo, è calcolata mediante la
ponderazione (media semplice) tra:
i dati associativi (numero di iscritti) e dati elettorali (numero di voti raccolti nella elezione
delle rappresentanze sindacali unitarie)

Già con l’Accordo del 28 giugno 2011 e specialmente con i due accordi successivi, il
Protocollo del 2013 e nel T.U. della rappresentanza del 2014, le parti sociali hanno dunque
concordato regole che consentono di “pesare” la rappresentatività dei sindacati,
fissando, come sopra scritto, una soglia minima di rappresentatività sotto la quale i
sindaco non sono ammessi al tavolo della contrattazione nazionale.

Mentre con il Patto della fabbrica del 2018 viene stabilita l’estensione del criterio della
maggiore rappresentatività comparativa alle organizzazioni dei datori di lavoro ai fini di
accesso alla contrattazione collettiva nazionale di categoria e di efficacia del contratto
collettivo nazionale di categoria e di efficacia del contratto collettivo. Il percorso per la
misurazione e la certificazione della rappresentatività sono ancora da definire.

É bene sottolineare, che questo è avvenuto sul piano della contrattazione tra le parti
sociali, in quanto il legislatore non ne ha ancora tenuto conto.

Resta, vigente l’art.8 della L.148/2011 che fa generico riferimento ad “associazioni dei
lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”; la
genericità del criterio segna un decisivo passo indietro rispetto a quando previsto
dall’Accordo interconfederale del 28 giungo 2011 e appare oggi difficile da combinare
con le regole autonomamente definite dalle parti sociali negli accordi successivi.

L’art. 8 non si occupa della stipulazione dei contratti nazionali, perchè l’obiettivo del
legislatore è quello di garantire efficacia generale ad accordi aziendali che derogano
(anche in pejus) ai contratti collettivi nazionali (ma anche alla legge)

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L’ORGANIZZAZIONE SINDACALE NEI LUOGHI DI LAVORO


Sezione I: Le rappresentanze sindacali dei lavoratori

La rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro

A) LE COMMISSIONI INTERNE

Analizziamo 4 accordi che hanno loro come oggetto:

1. Le Commissioni interne di fabbrica (CI) furono istituite con:


l’accordo Buozzi-Mazzini del 2 settembre del 1943 —> che non potè però essere
applicato dopo l’8 settembre dello stesso anno a causa degli eventi bellici.

2. Conclusa la guerra, la prima disciplina organica delle CI si ebbe con:


l’Accordo interconfederale del 7 agosto 1947 :

- stipulato tra: CGIL (ancora unitaria) e CONFINDUSTRIA

- accordo di natura di contratto collettivo di diritto comune, quindi privo di efficacia


generale e campo di applicazione limitato solo al settore industriale

L’accordo prevede che, per quanto riguarda le CI:


- in tutte le imprese con almeno 25 dipendenti fosse eletta una CI a:

• scrutinio segreto

• suffragio universale

- l’elezione avveniva su liste sindacali contrapposte con voto di preferenza

- La ripartizione dei seggi avveniva con metodo proporzionale

- Quindi, la CI era un organo elettivo perciò rappresentativo di tutti i lavoratori

- La Ci restava in carica per 2 anni

- L’attività della CI deve essere ispirata alla collaborazione con il datore di lavoro

- La Ci avesse funzioni:

• Propositive

• Consultive

• Conciliative

• Competenza a svolgere la procedura consultiva preliminare sulle riduzione del


personale

• Di controllo preventivo sulla motivazione dei licenziamenti individuali —> all’epoca


la materia dei licenziamenti era ancora regolata dai soli artt. 2118 e 21119 c.c. .
Alla vigilia della stipulazione dell’accordo interconfederale del 1947 sulle CI era
scaduto il blocco dei licenziamenti; l’accordo introdusse la prima disciplina
convenzionale dei licenziamenti individuali e collettivi per riduzione del personale

- Il punto debole e anche opero punto chiave della disciplina era rappresentato
dall’espressa esclusione delle CI dalla competenza contrattuale a livello di azienda,
riservata alle organizzazioni sindacali territoriali —> CGIL e CONFINDUSTRIA si
erano dunque accordate per escludere implicitamente la natura sindacale in senso
stretto di questo organismo rappresentativo
—> un organismo rappresentativo direttamente velettò dai lavoratori nei luoghi di
lavoro, non significava ancora la creazione di uno spazio giuridico e politico per la
presenza del sindaco in fabbrica, ma certo restituiva ai lavoratori almeno di uno
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strumento indispensabile di aggregazione.


—> all’epoca la CGIL unitaria non era certo preparata ad affrontare il decentramento
contrattuale: ancora per molto tempo, fino agli inizi degli anni 60, la contrattazione
collettiva rimase pressoché integralmente centralizzata a livello nazionale

3. Il successivo accordo interconfederale sulle CI venne stipulato nel 1953, caratterizzato


da:

- differenza rispetto a quello del 1947 stava nel fatto che in questo successivo
pesavano le conseguenze negative della scissione della CGIL unitaria e della
concorrenza conflittuale tra le Confederazioni

- Anche il clima politico era assai diverso, e nelle fabbriche la discriminazione dei
lavoratori iscritti e militanti della CGIL era molto pesante

- accordo che depotenziava il ruolo delle CI

- Gia dal 1950, e quindi di conseguenza anche testo accordo ne era privo, era stata
soppressa la competenza delle CI in materia di licenziamenti individuali e collettivi

- Confermava la esclusione delle CI dalla contrattazione aziendale, per il resto le


funzioni erano le medesime

4. L’ultimo accordo interconfederale sulle CI venne stipulato nel 1966, caratterizzato da:

- contenuti uguali a quello del 1953

- l’esclusione della competenza contrattuale era però rafforzata dalla previsione, nei
contratti collettivi stipulati nella stagione 62-63, della riserva della competenza in
materia di contrattazione aziendale a favore dei sindacati provinciali

Quindi: mai regolate dalla legge le CI hanno vissuto fino all’entrata in vigore dello ST. LAV.
e anche oltre, ma fin da subito era apparso evidente che i profondi mutamenti intervenuti
negli anni precedenti all’emanazione dello Statuto avrebbero determinato la rapida
obsolescenza di organismi rappresentativi non più in grado di gestire la conflittualità
aziendale di quei tempi.

B) LE SEZIONI SINDACALI AZIENDALI (SAS)

Non riempirono il vuoto di rappresentanza sindacale dei lavoratori nelle aziende neppure
le sanzioni sindacali aziendali (SAS) nate per iniziativa della CISL, e poi adottate anche
dalla CGIL.

Le SAS —> nucleo elementare del sistema organizzativo e anello di congiunzione tra
movimento sindacale e vita aziendale

—> la realtà restava però al di sotto delle parole: il potere contrattuale in azienda
era infatti ancora affidato al sindacato provinciale di categoria

—> concepite come alternativa alle CI e in posizione di supremazia rispetto ad


esse, non riuscirono mai a raggiungere questo obiettivo = l’istituzione delle
SAS difiniva in fatti per rafforzare il potere contrattuale del sindaco di
categoria estenso all’azienda

La CSIL —> aveva fin dalle sue origini teorizzato il superamento della contrattazione
collettiva nazionale esclusiva e la necessità di un sistema contrattuale
articolato su più livelli; la teoria dell’articolazione contrattuale necessitava
essere completata dalla presenza del sindacato in azienda.

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La CGIL —> il suo atteggiamento inizialmente negativo comincio a modificarsi dagli anni
1955-1956: passando cosi da un atteggiamento di totale preclusione verso
la formazione di una struttura del sindacato in azienda, alla proposta di
creare sezioni sindacali di fabbrica, alle quali affidare tutti i compiti del
sindacato di azienda.

—> faceva pero eccezione il potere contrattuale che, anche per la CGIL, doveva
rimanere prerogativa esclusiva del sindacato territoriale di categoria = con
ciò la CGIL ribadiva la sua avversione verso i sindacati di azienda.

Ne CISL, ne CGIL fecero mai un vero tentativo per avviare l’effettivo intervento delle SAS
nella contrattazione aziendale, e neppure avanzarono mai richiede alla controparte
sartoriale di conoscere formalmente le SAS

C) DELEGATI E CONSIGLI DI FABBRICA

Come abbiamo visto a pagina 27, in quella fase detta: “dal maggio francese all’autunno
caldo”, ci furono varie lotte e accordi da cui scaturì una nuova forma di rappresentanza
dei lavoratori:

- i delegati -> di linea, di reparto, di gruppo omogeneo


- Consigli di Fabbrica (CdF), anche detti: Consigli unitari dei delegati (CUD)

Una prima realizzazione erano stati i delegati di cottimo -> funzioni tecniche di controllo
sull’organizzazione del lavoro e di ausilio alla attività delle CI

Tra il 1968/69 —> i delegati vennero proposti come rappresentanti dei lavoratori in
sostituzione della CI

Tra il 1970/72 —> i delegati di reparto e di gruppo omogeneo si costruirono in CdF, che si
diffusero prima nel settore industriale e dopo anche in altri settori con il
Patto Federativo del 1972

- Stipulato da CGIL,UIL e CISL

- In esso le Confederazioni individuarono nel CdF l’istanza sindacale unitaria di base con poteri di
contrattazione nei luoghi di lavoro.

- In base ad esso alla formazione del CdF dovevano concorrere sia:

• I lavoratori non iscritti alle 3 confederazioni che per loro libera scelta intendano parteciparvi

• I lavoratori iscritti alle 3 confederazioni che per loro libera scelta intendano parteciparvi

- in ogni caso doveva essere però assicurata la rappresentanza della Federazione delle
Confederazioni —> quindi il sistema elettorale prevedeva che nel Consiglio una parte dei seggi
fosse necessariamente riservata a lavoratori iscritti scelti dalla Confederazioni come propri
rappresentanti

- Fa del Consiglio un organo bifronte: in parte espressione diretta dei lavoratori, e in parte
espressione diretta del sindacato

- Comunque non rappresentò una disciplina generale del sistema elettorale e delle competenze del
CdF -> e anche questo può essere messo nel conto del declino deo CdF degli anni 80, che vide

Dal punto di vista giuridico, la vicenda dei CdF si è intrecciata per molti anni con quella
delle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) previste dall’art 19 St.Lav.

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Le rappresentanze sindacali aziendali (RSA).


Gli artt. 14 e 19 St.Lav: due livelli di garanzia dei diritti sindacali

Art. 14.
Diritto di associazione e di attività sindacale.

“Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività


sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro.”

Insieme agli artt. 15,16,17 questa disposizione costituisce innanzitutto una più articolata e
approfondita rilettura, sul piano aziendale, del principio stesso di libertà
dell’organizzazione sindacale, sancito dall’art.39 c.1. Cost.

L’art.14 ha dunque la funzione di: garantire, in termini generali, la titolarità individuale dei
diritti di libertà e attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro. La garanzia si estende
alla costituzione di rappresentanze di sindacati ovvero alla creazione di sindacati aziendali
nuovi, con l’unico limite rappresentato dal divieto di cui all’art.17 St.Lav riguardante i
sindacati di comodo.

L’art.14 tutela inoltre: sempre in termini generali, tutte le forme di organizzazione e di


aggregazione sindacale che concretamente possono manifestarsi nei luoghi di lavoro:
organizzazione in forma associativa, all’interno dello schema delicato dall’art.19 St.Lav. ,
ma anche al di fuori di tale schema.

Il suo ruolo è stato messo in evidenza dalla sentenza della corte costituzionale: s.54/1974.
Nella quale la corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale
dell’art.19 St.Lav.
Ad avviso della Corte, l’art.14 garantisce a tutti i lavoratori, in conformità al precetto di cui
all’art.39 Cost., il diritto di organizzarsi liberamente e di svolgere attorta sindacale
all’interno dei luoghi di lavoro.

L’art.14 svolge il ruolo di pilastro di sostegno della disposizione nella quale sono
regolate: le RSA —> rappresentanze sindacali aziendali —> Art 19 St.Lav.

Rappresentanze delle quali la legge non definisce la struttura, selezionando però le


associazioni sindacali nell’ambito delle quali le RSA possono essere costituite ad iniziativa
dei lavoratori, secondo criteri di rappresentatività.

Originaria formulazione articolo 19 St.Lav. : (la b è l’alternativa ad a)

Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei


lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito:

a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative


sul piano nazionale;

b) delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o


provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.
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Cosi facendo il legislatore dello Statuto si opponeva obiettivi di carattere: promozionale,


cioè di promozione di rappresentanze sindacali dei lavoratori qualificate dalla
rappresentatività dei sindacati che ne costituivano il riferimento all’esterno dei luoghi di
lavoro.
Il trattamento privilegiato riservato dal legislatore alle confederazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale, poneva interrogativi in ordine all’eventuale violazione
dei principi di eguaglianza e libertà sindacale (artt. 3 e 39 cost.).

La Corte Costituzionale chiamata rispondere ai molti interrogativi sollevati si era


pronunciata per la prima volta sulla legittimità costituzionale dell’art.19 nel 1974 con:

La Sentenza 54/1974:
- con essa la corte afferma la piena legittimità dei criteri selettivi dell’art.19 let. a) e b)

- La corte aveva respinto le eccezioni sollevate con motivazioni che all’epoca fecero
discutere:

• con il criterio di cui alla lett. a) = la corte specifica che il legislatore ha indicato un
criterio valutativo, la cui esistenza può essere verificata in ogni momento. Il criterio
non si riferisce infatti ad una comparazione fra le varie Confederazioni nazionali,
bensì ad una effettività che può essere sempre conseguita da Confederazione
nazionale. Secondo la Corte la legge aveva preso atto di una differenza
effettivamente esistente, e sempre verificabile, e aveva differenziato il trattamento in
ragione di tale effettiva differenza.

• con il criterio di cui alla lettera b) = questo era basato, ad avviso della corte sul
riferimento oggettivo e preciso ad un fatto specifico 8 la firma del c.c.n. o
provinciale) la cui realizzazione è aperta ad ogni singola associazione sindacale

- La Corte quindi aveva concluso, indicando questi criteri che il legislatore non ha violato
i principi di eguaglianza (art.3 Cost.) e di libertà sindacale (art.39 cost.), perché non ha
operato alcuna discriminazione fra le associazioni sindacali: infatti, i requisiti di
rappresentatività di cui al primo e al secondo criterio sono sempre direttamente
conseguibili da ogni associazione sindacale

- La Corte, con questa sentenza, aveva avallato (sostenuto) il privilegio che il legislatore
aveva assicurato ai sindacati presenti a livello extra-aziendale, e il contestuale disfavore
verso i sindacati presenti a livello extra-aziendale

Ma questa prima acquisizione non esaurita le possibili eccezioni di legittimità


costituzionale, che la Corte ha affrontato in altre due sentenze:

La Sentenza 334/1988:

- riporta l’attenzione sul criterio di cui alla lett. a), nel quale la legge riferiva la
rappresentatività non alla consistenza del sindacato nell’ambito della categoria (come
prevede invece l’art.39 c.4 cost.), ma nell’ambito confederale, cioè nell’ambito
dell’insieme delle categorie.
—> L’occasione era rappresentata dal rifiuto opposto da un’impresa alla costituzione di
una RSA nell’ambito del “sindacato nazionale dei quadri” (sindaco monocategoriale e
non firmatario del contratto collettivo nazionale o provinciale applicato nell’unità
produttiva)

- La Corte aveva affermato che la scelta del legislatore a favore delle Confederazioni
corrispondeva ad una precisa opzione a favore di un processo di aggregazione degli
interessi dei vari gruppi professionali, anche al fine di ricomporre le spinte
particolaristiche e di raccordare la tutela dei lavoratori occupati con quella dei non
occupato, coerentemente, peraltro, sulla spinta dell’intera Carta Costituzionale.
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—> la valorizzazione della solidarietà, che è propria del modello confederale


dell’organizzazione sindacale privilegiato dall’art.19 St.lav., non esclude, ad avviso della
corte, che nella realtà possano verificarsi delle differenziazioni tra gli interessi delle
varie categorie di lavoratori, e che da tali realtà scaturiranno diversi modelli di
organizzazione sindacale: ma allora occorre questi sindacati di categoria (ovvero
rappresentativi di una particolare figura professionale, come nel caso dei quadri) siano
in grado di esprimere un livello di rappresentatività che si traduca in quell’effettivo
potere contrattuale, cui fa riferimento il criterio di cui alla lett. b).
- Con questa sentenza, che contiene una strenua difesa del sindacalismo confederale, la
Corte Costituzionale aveva evitato di prende in considerazione la ormai evidente crisi di
rappresentatività delle 3 maggiori confederazioni

La Sentenza 30/1990:
- salva ancora una volta la legittimità costituzionale dell’art.19

- Ma la corte questa volta finiva per rimettere in discussione la razionalità e la


ragionevolezza su cui aveva fondato il giudizio nel 1974

- All’origine di questo internet stavano due sentenze della Corte di Cassazione, che
avevano dichiarato nulli, per violazione dell’art.17 St.Lav., gli accordi con i quali alcuni
sindacati, privi dei requisiti di cui alla lettera a) e b) dell’art.19, avevano ottenuto dalle
imprese il riconoscimento delle prerogative proprie delle RSA (nel caso specifico:
permessi sindacali retribuiti)
—> la Corte Costituzionale escludeva che un accordo di tale genere implicasse
necessariamente la natura di comodo del sindacato, MA affermava, tuttavia, che tale
accordo costituisce una deroga ai criteri inderogabili dell’art.19 St.Lav.

La deroga, affermava la Corte, potrebbe consentire all’imprenditore di confluire sulla


libera dialettica sindacale in azienda favorendo le organizzazioni sindacali a lui più
gradite

- il punto è: la Corte si diceva “consapevole” del fatto che, a causa delle trasformazioni
verificatesi e le diversificazioni degli interessi è andata progressivamente attenuandosi
l’idoneità del modello disegnato nell’art.19 a rispecchiare l’effettiva rappresentatività
dei sindacati

- Non è questione, aggiungeva la corte, di interpreta in senso evolutivo l’art.19,


ammettendo che i criteri selettivi legali possano essere derogati con accordi, MA:
occorre scrivere nuove regole, che consentano di verifiche l’effettiva rappresentatività
dei sindacati di cui alle lettere a) e b) non più sulla base di presunzioni ma sulla base del
reale consenso dei lavoratori, e di allargare il sostegno legislativo ad altri sindaci che
abbiano conquistato un effettivo consenso tra i lavoratori; quindi una richiesta di criteri
di rappresentatività effettiva, democraticamente verificabile.

Cosi la corte alludeva alla costituzione di RSA su base elettiva, sollecitando il


Parlamento ad intraprendere al più presto una riforma in tal senso dell’art. 19.
Progetti di legge sono stati presentanti negli anni 90’, ma non andarono a buon fine
(suggerimento che pero non è stato fin ora mai accolto dal legislatore, infatti l’art.
venne modificato in un altro modo)
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La riforma delle RSA mediante referendum. Il nuovo art.19

Nel 1994 erano stati promossi alcuni referendum abrogativi sull’art.19 e sull’art.26 St.Lav.

Di quelli proposti sull’art.19, la Corte Costituzionale ne ammise 2:

1. Mirava a cancellare , insieme al privilegio accordato dalla legge alle confederazioni


maggiormente rappresentative, anche ogni altro criterio di selezione
—> abrogazione let. a) e b)
2. Mirava a cancellare il privilegio accordato alle Confederazioni —> abrogazione let. a)
Ma, proponeva di affidare la selezione dei sindacati, nel cui ambito è legittima la
costituzione delle RSA, a criteri diversi da quello della rappresentatività “presunta”
non solo delle Confederazioni maggiormente rappresentative ma anche dei sindacati
firmatari di contratti collettivi nazionali o provinciali —> parziale abrogazione let. b)

Solo il secondo di questi referendum ha avuto esito positivo.


Nel settembre del 1995 è entrato in vigore il nuovo art.19 St.lav., nel testo modificato
dal referendum del giugno del 1995.

Con la modifica del referendum il nuovo testo dell’art.19 era:

“Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei


lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito:

a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul


piano nazionale;

b) delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o


provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.”

Il privilegio delle Confederazioni, è stato eliminato; la selezione no:


la stipulazione del contratto collettivo continua a svolgere la funzione di criterio di
selezione, ma il livello contrattuale non è più qualificato; dunque la sottoscrizione di un
contratto collettivo anche aziendale abilita il sindacato ad essere ambito di riferimento per
la costituzione di una RSA.

Nel 1996 era stata avanzata una questione di legittimità costituzionale sul nuovo testo
dell’art.19 —> ma la Corte con la sentenza:

Sentenza 244/1996:
- ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale sul nuovo testo, solvata
da alcuni giudici che sostenevano la incompatibilità con gli artt. 39 e 3 Cost.

- Secondo i giudici che hanno avanzato tale questione, il nuovo testo, consentendo la
costituzione di RSA nell’ambito di qualsiasi associazione sindacale anche meramente
aziendale, purché firmataria di un contratto collettivo applicato all’unità produttiva,
avrebbe permesso in sostanza al datore di lavoro di interferire nella costituzione delle
RSA “accreditando”, mediante la stipulazione del contratto collettivo, i sindaci a lui più
graditi —> ciò in sostanza avrebbe integrato la violazione dell’art.17 St.Lav.

- La Corte in questa sentenza, ribadisce, richiamando quella del 1990, che


l’accreditamento si verifica nel caso il datore di lavoro conceda, mediante accordo,
agevolazioni ad una associazione sindacale priva dei requisiti per averne diritto —> ha
escluso invece che di accreditamento possa parlarsi quando si tratta di stipulazione di
contratti collettivi. —> in tal caso, affermò la Corte, “la rappresentatività del sindacato
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non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è


una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazione sindaci che abbaino
stipulato contratti collettivi, nazionali, locali o aziendali che siano, applicati nell’unità
produttiva”
- La corte, in questa sentenza, aveva ritenuto di dover precisare che:

• Per essere firmatarie le associazioni sindacali devono aver preso attivamente parte
alla trattativa contrattuale
• il contratto collettivo di cui si tratta non può essere un contratto qualsiasi, ma deve
essere un vero contratto collettivo —> cioè un contratto che regoli in modo organico i
rapporti di lavoro

- Insomma, la Corte Costituzionale aveva concluso che la volontà popolare ha cancellato


il criterio di rappresentanza presunta, e ha salvato il cirteiro di rappresentatività effettiva,
desumibile dalla stipulazione del c.c., estendendolo anche al contratto aziendale.

E inoltre, anche con una ordinanza la Corte Costituzionale:

Ordinanza 345/1996:
- in essa la Corte Cost. ribadisce la legittimità costituzionale del nuovo art.19 St.Lav.

- Con essa la Corte afferma che un sindacato “disposto a sottoscrivere un cattivo


contratto per i suoi rappresentati pur di ritagliarsi una porzione di potere in azienda,
non lede alcun diritto inviolabile dei suoi iscritti, ma semplicemente non tutela come
dovrebbe i loro interessi, configurandosi:

• o come sindacato sfuggito al controllo degli associati, cioè non più rispettoso del
precetto costituzionale di democrazia interna

• come sindacato di comodo vietato dall’art.17 St.Lav.

Le precisazioni della Corte Costituzionale erano servite a risolvere alcuni problemi alcuni
problemi interpretativi posti dal nuovo testo, ma non tutti e nemmeno i più importanti

Un problema, sul quale si sono registrati in giurisprudenza alcuni diversi orientamenti, a tiene alla
definizione della natura del contratto collettivo cui fa riferimento l’art.19. Secondo:

- un primo orientamento, più fedele alla s. 1996, il c.c. di cui all’art.19 deve avere carattere normativo —>
cioè deve regolare un rilevante numero di istituti relativi ai contratti individuali di lavoro

- un secondo orientamento, il c.c. di cui all’art.19 può avere anche un carattere meramente gestionale —>
(contratti di gestione di crisi aziendali, contratti riguardanti la mobilità dei lavoratori..) in quanto esprime
la capacità negoziale dell’organizzazione sindacale.

Alla base del 2 orientamento favorevole ad una interpretazione estensiva dell’art.19, sta la considerazione
che, essendo la firma apposta sul contratto collettivo un requisito legale di accesso del sindacato
all’esercizio delle prerogative di cui al Titolo III St. Lav., una interpretazione ristrettiva può portare al
risultato, non compatibile con gli artt. 3 e 39 cost, di attribuire in sostanza al datore di lavoro il potere di
decidere in ordine ai diritti della propria controparte sindacale

Il 1 orientamento costituisce una obiezione che questa apertura delle maglie dell’art.19 finisca per favorire
una frammentazione sindacale alla quale la Corte costituzionale aveva cercato di dare un freno.

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L’art.19 e il diritto dei lavoratori alla rappresentanza sindacale


(a margine del Caso FIAT)

La mancata sottoscrizione del contratto collettivo applicato all’unità produttiva può infatti
impedire l’acceso alla costituzione di RSA e all’esercizio dei diritti sindacali a sindacati
che, pur godendo di largo consenso fra i lavoratori e di una cospicua rappresentanza
associativa (numero di iscritti), e pur avendo partecipato alle trattivi, non siano d’accordo
su una determinata soluzione contrattuale, e di conseguenza non sottoscrivono il
contratto.

Il problema si è posto all’attenzione generale a seguito della vicenda della contrattazione


“separata” del gruppo FIAT.

É accaduto che la FIOM-CGIL, non firmataria del contratto, era stata privata dei benefici
di cui al Titolo III St.Lav. —> esito che è apparso a molti paradossale, tenuto conto che la
FIOM era largamente rappresentativa nella categoria e che, poteva vantare un elevata
rappresentatività nelle aziende del gruppo FIAT, nelle quali era stata da sempre presente.

La sua rappresentatività era confermata, tra l’altro, dall’alto numero di “no” nei
referendum indetti per sottoporre all’approvazione dei lavoratori interessati i nuovi
contratti.

Tale esito paradossale riapriva la questione della conformità dell’art.19 all’art. 39 c.1.
Cost. —> questione che si poneva, ove la disposizione statutaria fosse interpretata nel
senso che i lavoratori che aderiscono ad un sindacato non firmatario del c.c. applicato
nell’azienda sono privati del diritto alla propria rappresentanza sindacale.

Chiamati a decidere una serie di ricorsi della FIOM i giudici avevano espresso
orientamenti diversi:

Il requisito della «firma» nell’art. 19 St. Lav. impone che il sindacato debba apporre la
propria sottoscrizione al contratto collettivo → altrimenti preclusa costituzione RSA e
fruizione diritti tit. IIII —>Trib. Torino, 13 aprile 2012

L’espressione «firma» può essere intesa anche come «partecipazione alla trattativa» —
>Trib. Bologna, decreto, 27 marzo 2012

Non è possibile accogliere la seconda lettura, perché la norma richiede la firma. Viene
quindi sollevata questione di costituzionalità art. 19 St. Lav. → asserito contrasto con
artt. 2, 3 e 39, comma 1, Cost. —>Trib. Modena, ordinanza, 4 giugno 2012.

Viene chiesto alla Corte non l’annullamento dell’intero art.19 che “avrebbe creato un
vuoto normativo colmatile solo con il legislatore”, ma una “pronuncia additiva di
accoglimento” che estendesse l’applicabilità dell’art.19 a le associazioni sindacali non
firmatarie del c.c. applicato all’unità produttiva

La Corte Costituzionale è stata così investita della questione, sulla quale ha deciso con la:

Sentenza 23 luglio n°231 —> con la quale si chiude la vicenda dei diritti sindacali della
FIOM nelle aziende del gruppo FIAT

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Sentenza 231/2013 C.Cost: una nuova formulazione dell’art.19

Con la S. 231/2013 la Corte Cost. ha dichiarato:

la illegittimità costituzionale dell’art.19 St.Lav. :

“nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale possa essere costituita
anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non essendo firmatarie dei contratti
collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione
relativa gli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”

Caratteristiche:

- É un sentenza additiva di accoglimento

- Pur lasciando formalmente immutata la lettera della disposizione, nella sostanza la


riscrive modificandone il significato e la portata pratica

Ricordiamo che:

Nella sentenza 244/1996 e nell’ordinanza 345/1996 la sottoscrizione del c.c. era basata,
ad avviso della Corte Cost, sulla rappresentatività effettiva del sindacato, ovvero sulla
capacità di imporsi come controparte contrattuale

La vicenda della esclusione della FIOM, sindacato la cui forza, per numero di iscritti e per
successo elettorale (nelle elezioni di RSU), era un dato di fatto indiscutibile, ha messo la
Corte Costituzionale difronte la necessità di riscrivere l’art.19 St.Lav.

A fronte del caso infatti: la corte è stata costretta a prendere atto che in mancanza di
sottoscrizione del contratto, e dunque in presenza di dissenso, si spezza il nesso che
nell’art.19 tiene insieme la rappresentanza sindacale dei lavoratori in azienda e la
rappresentatività del sindaco misurata nel suo consenso alla stipulazione del contratto.

Viene in discussione la razionalità del criterio selettivo previsto dall’art.19, perchè il


dissenso del sindacato maggiormente o significativamente rappresentativo sul contratto,
che lo porta a non sottoscriverlo, finisce per essere punito dall’art.19 St.Lav.

Non resta che ammettere che la selezione a favore dei soli sindacati firmatari premia i
sindaci “consonati”, cioè d’accordo con il datore di lavoro, in spregio dei principi costituz.
di eguaglianza e libertà sindacale.

QUINDI: il sindaco effettivamente rappresentativo deve essere incluso, anche se dissenziente

La Corte, tenutasi sul criminale die propri precedenti, ha rispolverato il:


criterio selettivo della partecipazione alle trattative:
- Mettendo cosi nel contemplo da parte il criterio della sottoscrizione, dato che ormai,
firmatario, vuol dire anche non firmatario.

- Esso diventa il nuovo criterio selettivo


- Attribuendo ad essa:

• Da un lato la funzione di indice di una rappresentativa “effettiva”, che il sindacato ha


acquistato nei fatti e nel consenso dell’unità produttiva

• Dall’altro la funzione costitutiva di requisito di accesso alle prerogative dell’ Titolo III
St.Lav.

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Regole sulla partecipazione alle trattative contrattuali sono state recentemente dalle
Confederazioni nel T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014. 

Resta comunque il problema più generale della legittimità dell’esclusione di un sindacato
più o meno rappresentativo dalle trattative, che coinvolge la questione della presenza e
della estensione, nel nostro ordinamento dell’obbligo del datore di lavoro a trattare
(vedi Parte III, Cap IV)

La struttura delle RSA

Art.19 St. Lav: “prevede che le RSA possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori
in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di
contratti collettivi applicati nell'unità produttiva.”

E lo statuto aggiunge: in ogni unità produttiva che occupa almeno 15 dipendenti, infatti:

Art.35 St.Lav: “le disposizioni del titolo III, ad eccezione del primo comma dell'articolo
27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o
reparto autonomo che occupa più di 15 dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano
alle imprese agricole che occupano più di 5 dipendenti.

Natura giuridica e struttura delle RSA sono regolate dalla prima parte dell’art.19 c.1.
rimasto immutato nella formulazione originaria

“Iniziativa dei lavoratori”


L’art.19 affida espressamente la costituzione di RSA all’iniziativa dei lavoratori.
La legge ancora una volta non precisa in che cosa debba consistere tale iniziativa:

la giurisprudenza è ferma nell’escludere ogni potere del datore di lavoro di porre limiti o
condizioni all’iniziativa dei lavoratori.

Inoltre, la giurisprudenza ritiene sufficiente una qualsiasi forma di collegamento tra i


lavoratori interessati alla costituzione di RSA e il sindaco nel cui ambito la RSA è
costituita.

Durante il dibattito parlamentare: il titolo III dello Statuto passò da una originaria
impostazione marcatamente associativa (R.S.A costruite ad iniziativa delle associazioni
sindacali) ad una impostazione associativa corretta (R.S.A. costituite ad iniziativa degli
scritti) e infine, quella definitiva, aperta ed elastica (R.S.A. dei lavoratori nell’ambito delle
associazioni sindacali maggiormente rappresentative).

L’iniziativa può essere presa sia da lavoratori:

- iscritti al sindacato nel cui ambito è costituita la rappresentanza

- non iscritti

L’iniziativa può anche essere di 1 solo lavoratore —> S. 1582/2008 cassazione

Tuttavia, è vero che l’iniziativa spetta ai lavoratori ma non è meno verro che le RSA
possono formarsi solo se il sindacato ne ammette la costituzione nel proprio ambito—>
occorre infatti una, anche se informale una recezione delle RSA da parte del sindacato di
riferimento, che potrebbe anche sconfessare l’iniziativa dei lavoratori, cosa che è
avvenuta.

Una parte della giurisprudenza di merito si è espressa nel senso che la revoca da parte
del sindacato determina il venir meno del riconoscimento delle RSA.

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Struttura

La legge nulla dice quanto alla struttura delle RSA e le opinioni degli interpreti divergono.

La Corte di Cassazione (S.1582/2008) ha affermato che l’art.19 individua una categoria di


organismi rappresentativi nella quale possono confluire una molteplicità di strutture
associative dei lavoratori ; in ogni caso, ha sottolineato che:

La RSA non è un organo del sindaco, ma una struttura dotata di una propria
autonoma soggettività giuridica.

La struttura della RSA è quindi aperta —> detta apertura ha consentito, per un lungo
periodo, che diritti e poteri che la legge riserva alle RSA fossero esercitati dai CdF, che in
verità del Patto Federativo (1972), CGIL, CISL, e UIL avevano riconosciuto come propria
struttura di base.

I contratti collettivi prevedevano per lo più la presa d’atto da parte delle aziende della
volontà dei sindacati firmatari di considerare i CdF come una RSA, con conseguente
attribuzione ai CdF:

- Dei poteri di rappresentanza dei lavoratori

- Dei poteri di contrattazione

- Di riconoscimento ai membri del CdF dei diritti e dei poteri che il Titolo III dello statuto
riserva ai “dirigentesi” delle RSA

Dal punto di vista giuridico il CdF poteva essere legittimamente considerato come una
RSA unitaria.

I CdF non erano tuttavia rappresentanze generali di tutto il personale dell’azienda, ma


solo strutture di base di CGIL, CISL, e UIL.

La identificazione delle CdF in RSA non risolleva dunque tutti i problemi, che infatti
emersero prepotentemente nel cimenti in cui la rottura dell’unità fra le 3 Confederazioni
portò alla rottura del Patto Federativo e alla conseguente crisi dei CdF, con il ritorno a
RSA serate.

La riforma delle rappresentanze sindacali per via contrattuale

La disciplina legale delle RSA convince con la disciplina contrattuale di una forma diversa
di rappresentanza sindacale: le RSU —> rappresentanze sindacali unitarie
Le RSU:

- si sono diffuse nei luoghi di lavoro, specie nel settore industriale (terziario ancora RSA)

- la sua invenzione risale agli anni 90 del 1900.

- furono le maggiori confederazioni sindacali a prendere l’iniziativa di dettare nuove


regole in materia di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, ci troviamo a
poca distanza di tempo dall’intervento della Corte Cost. Con la s.30/1990,
raccogliendo parte delle indicazioni date dalla Corte, che aveva denunciato con forza
l’inadeguatezza del cirteiro di rappresentatività presunta su cui si basa l’art.19 let.a) e la
necessità di sostituirlo con un criterio di rappresentatività effettiva.

La riforma delle RSA è stata cosi realizzata per via contrattuale:

disegnata dal Protocollo del luglio del 1993 + ’AI del dicembre del 1993.

La disciplina è rimasta invariata per molti anni —> solo 20 anni dopo le parti sociali hanno
infatti messo mano ad una riforma che modifica la struttura della rappresentanza
sindacale die lavoratori dei luoghi di lavoro, con il:

Protocollo 31 maggio 2013 + T.U. sulla rappresentanza 10 gennaio 2014

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La disciplina interconfederale delle RSU

All’inizio degli anni 90, quando i parametri di Maastricht avevano reso ineludibile la
necessità di risanare il bilancio dello Stato, i sindacati costituivano per il Governo e per gli
imprenditori “una risorsa chiave per la realizzazione di politiche consensuali di
moderazione salariale”.

Una serie di accordi interconfederali precedette l’avvio di quella politica dei redditi che
sarà successivamente realizzata attraverso la negoziazione tra Governo e parti sociali di 2
Protocolli:

1° -> Protocollo del luglio del 1992 e 2° -> Protocollo del luglio del 1993

1° —> aveva posto le premesse per il successivo Protocollo del 1993, dettando le linee
guida per la riforma del sistema contrattuale, che aveva trovato poi nel P. 1993
la sua definizione —> questa parte del P. 1993, (perfezionato con l’AI 1993) nella
quale era prevista la nuova struttura sindacale aziendale RSU, trovava infatti la sua
indispensabile base nelle nuove regole che governano la contrattazione collettiva.

La trattazione che segue si riferisce alla disciplina prevista dai nuovi accordi, segnalando
alcune differenze rispetto alla disciplina del 1993.

1993
L’AI 1993: prendeva una struttura delle RSU a composizione mista:

- in parte elettiva -> i 2/3 dei componenti della RSU erano eletti a suffragio universale dai
lavoratori della unità produttiva con più di 15 dipendenti, iscritti e non iscritti, ai
sindacati in possesso dei requisiti previsti per presentare le liste.

- In parte associativa -> 1/3 dei componenti della RSU era invece eletto o disegnato dalle
associazione sindaci firmatarie del c. c. n. applicato all’unità produttiva.

2013
Il protocollo del 2013, come attuato dal T.U. sulla rappresentanza, ha soppresso:

la riserva del 1/3, sancendo cosi la composizione totalmente elettiva della RSU.

La principale implicazione è sicuramente il venir meno del vincolo della RSU con le
organizzazioni sindacali di livello nazionale firmatarie del contratto collettivo di categoria,
alle quali era rivestita la designazione di 1/3 dei componenti.

Il rapporto con le organizzazioni sindacali che operano all’estero del luogo di lavoro
tuttavia sussiste, non facendo del tutto venire a meno la dimensione associativa, perchè
l’elezione dei rappresentanti, cioè dei componenti della RSU, avviene: sulla base di liste
presentate dalle:

- organizzazioni sindacali a ciò autorizzate

- organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del c.c.n. di categoria applicato


nell’unità produttiva

- associazioni sindacali formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo


a condizione che:

1. Che accettino formalmente i contenuti dell’AI 28 giugno 2011 + P. 2013 + T.U 2014

2. Che la lista sia corredata da un numero di firme dei lavoratori dipendenti dall’unità
produttiva pari al 5% degli aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipend.

L’iniziativa per costituire RSU


Nelle unità produttive con più di 15 dipendenti le RSU possono essere costituite ad
iniziativa di:

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- organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie del:


AI 2011 + P. 2013 + T.U. 2014

- dalla stessa RSU 3 mesi prima della scadenza del mandato

Componenti RSU
Durano in carica 3 anni, alla scadenza dei quali decadono automaticamente

Costituzione della RSU e clausola di salvaguardia


In ogni singola unità produttiva con più di 15 dipendenti dovrà essere adottata una
sola forma di rappresentanza —> la scelta delle parti a favore della RSU è quindi netta.
Ricordo e specifico che le altri sono: CISL,UIL,CGIL e
Confindustria che sono le parti contraenti del P. 2013
e T.U. 2014, accordi che hanno oggett queste regole.

Secondo quanto previsto dal T.U. nella cosiddetta: clausola di salvaguardia:

- le organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle Confederazioni firmatarie del A.I.


2011, P. 2013 e del T.U. o

- Le organizzazioni che comunque aderiscono alla disciplina in essi contenta


partecipando alla procedura di elezione della RSU:

1. Rinunciano formalmente ed espressamente a costituire RSA ai sensi dell’art.19

2. Si impegnano a non costituire RSA nelle realtà in cui siano state o vengano
costituite RSU
Questa regola concordata dovrebbe evitare che, in futuro, possano ripetersi vicende
come quelle verificatesi alla FIAT.

Tuttavia, il passaggio dalle RSA alle RSU è prefigurato nel T.U. in modo molto prudente:

- nel caso di unità produttive con più > di 15 dipendenti —> ove non siamo mai state
costituite forme di rappresentanza sindacale, le parti prevedono che:
“qualora non si proceda alla costituzione di RSU ma si opti per RSA, l’eventuale
passaggio alle RSU (da RSU -> RSA) potrà avvenire se deciso dalle organizzazioni
sindacali che rappresentino a livello nazionale, la maggioranza del 50% +1

- nel caso di unità produttive con più > 15 dipendenti —> in cui fossero già presenti le
RSA, il passaggio dalle RSA alle -> RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente
dalle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del P. 2013.

Struttura e prerogative della RSU

COLLEGGIALITA’, PRINCIPIO DI MAGGIORNAZA, E VINCOLO ASSOCIATIVO

Le RSU sono viste come un canale unico di rappresentanza dei lavoratori, poiché nello
stesso organismo confluiscono sia:

- le funzioni di rappresentanza dei lavoratori che lo eleggono

- Le funzioni squisitamente sindacali -> la contrattazione aziendale in primis

Quindi:

- le RSU NON sono struttura di base unitaria delle 3 Confederazioni ( ≠ CdF)

- Le RSU NON è una somma di diverse RSA

LA RSU: assume la veste di un organismo rappresentativo della generalità dei lavoratori


dell’unità produttiva.

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Vero è tuttavia che nella RSU a composizione mista le due componenti:

- elettiva - associativa si ricomponevano in un unico collegio, all’intento del quale valeva


per l’assunzione delle decisioni la regola della maggioranza.

Il metodo universalistico della votazione, già in passato quando la composizione era


mista, e maggiore ragione oggi, che la RSU è totalmente elettiva, non fa comunque venir
meno la dimensione associativa —> cioè il collegamento tra i singoli componenti e la
organizzazione sindacale nelle cui liste sono stati candidati

La coesistenza del vincolo associativo e del mandato elettorale è fonte di problemi


interpretativi di non facile soluzione:

• In passato ci si era chiesti: se decadesse dalla funzione di componente della RSU


l’eletto nella lista di una organizzazione sindacale che aderisse successivamente ad un
sindacato diverso da quello originario —> “cambio di casacca”.

La risposta della giurisprudenza è una risposta negativa perchè:

1. La RSU non è una rappresentanza sindacale di investitura puramente associativa


come la RSA

2. L’accordo del 1993, allora vigente, prevedeva la decadenza solo in caso di dimissioni.

Questo orientamento può considerarsi superato, perchè il vincolo associativo tra l’eletto e
la lista sindacale in cui è stato candidato risulta rafforzato dalla clausola contenuta nel

P. 2013, secondo cui:

“Il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un complente la RSU ne


determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista
di originaria appartenenza del sostituto” —> in dottrina si è sottolineata la forte impronta
associativo di questa regola alla quale possono attribuirsi le funzioni di “compensare” la
soppressione del terzo riservato nella composizione della RSU

• Un’altro problema è la questione pratica del rilievo da attribuire al vincolo associativo dei
componenti con la propria organizzazione di appartenenza.

La questione si era posta all’attenzione dei giudici perché alcuni sindacati che avevano
partecipato all’elezione della RSU (della quale risultavano componenti alcuni eletti nelle
loro liste), chiedevano di esercitare autonomamente, come autonoma componente della
RSU, uno dei poteri che il Titolo III St.Lav. attribuisce alle RSA, in particolare il potere di
d’indice l’assemblea.

Il problema era stato affrontato più volte dalla giurisprudenza che aveva fornito soluzioni
contrastanti:

la Cassazione, con la s. 3072/2005, aveva talora affermato al natura di organo


collegiale della RSU, negando che la singola componente della RSU potesse
esercitare autonomamente il potere di indire l’assemblea che l’art.20 St.Lav.
attribuisce alle RSA congiuntamente o disgiuntamente.

Altre volte la stessa cassazione aveva affermato invece il contrario, essendo il potere
di indire assemblee attribuito all’art. 20 St.Lav. alla singola RSA che può
autonomamente esercitarlo, questo diritto non poteva essere negato alla singola
componente della RSU.

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L’orientamento 2) suscitava tuttavia qualche perplessità perchè:

- il potere di indire assemblee è attibuito dalla legge alle singole RSA, per la ragione che
la legge prevede non un organismo di rappresentanza unitario (RSU), ma un pluralità di
organismi rappresentativi le RSA

- L’attribuzione del potere solo alla RSU unitariamente intesa ha, nella logica dell’AI del
1993 il non trascurabile fine di evitare forme di concorrenza tra componenti eletti nelle
diverse liste

Di queste perplessità —> non hanno tenuto conto le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, che hanno sposato la tesi 2), quindi dell’attribuzione del potere di convocare
l’assemblea anche alla singola componente della RSU.

La Corte argomenta distinguendo tra:

- Assemblea non deliberante -> può essere convocata anche dalle singole componenti

- Assemblea deliberante -> non può essere convocata dalle singole componenti, ma
dalla RSU nella sua collegialità, e dunque secondo la decisione della maggioranza dei
suoi componenti

B) PREROGATIVE DELLA RSU

Il T.U. sulla rappresentanza prende che i componenti della RSU subentrino ai dirigenti
delle RSA nella:

- Titolarità di diritti - Permessi -Libertà sindacali -Tutele già loro spettanti —> per effetto
delle disposizioni di cui al Titolo III St. Lav.

Tali diritti attribuiti dallo Stato ai dirigenti delle RSA restano prerogativa della persona del
sindacalista e non della RSU nel suo complesso.

Secondo quanto previsto dall’AI del 1993, spettava alla RSU la competenza a stipulare
il contratto collettivo aziendale, nei limiti e nelle modalità previste dal c.c.n. ma, negli
anni la disciplina si è leggermente modificata:

- AI 1993 —> la competenza contrattuale era attribuita alla RSA congiuntamente con le
strutture territoriali delle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo.

- AI 2009 —> conferma la competenza concorrente delle organizzazioni sindacali


territoriali con le RSU

- AI 2011 —> prevede che i c.c.a. avessero efficacia per tutto il personale in forza
nell’azienda “se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze
sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali vigenti —> così decidendo
l’accordo attribuiva implicitamente alle RSU la competenza negoziale esclusiva.
La regola è ad oggi ribadita dal T.U. sulla rappresentanza

La coesistenza tra RSU e RSA

Pur avendo espresso una netta preferenza nella costituzione di RSU, le parti non possono
escludere che nella unità produttiva con più di 15 d. possano essere costituite RSA.

Del resto, la via contrattuale alla disciplina delle rappresentanze sindacali dei lavoratori
nei luoghi di lavoro, non è autosufficiente.

1. Occorre considerare che la disciplina interconfederale e al c.c.n. di categoria che ha


dato attuazione agli AI non hanno officia generale —> vi sono settori nei quali i c.c.
non prevedono la costituzione di RSU, optando quindi per le RSA

2. Vi è il problema delle org. sind. che non partecipano alla elezione delle RSU:
nell’ambito di queste org., se vi sono i requisiti dell’art.19, i lavoratori potranno
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costituire le proprie RSA, che si troveranno perciò a convivere con la RSU


eventualmente costituita nella medesima unità produttiva

3. Vi è il problema delle imprese in cui il datore di lavoro non applichi alcun c.c. e
manchino quindi di conseguenza i presupposti necessari per la costituzione di RSA
—> caso non di coesistenza tra RSU e RSA, ma di mancanza di rappresentanza
sindacale dei lavoratori nei luoghi di lavoro

La coesistenza di 2 diversi modelli di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, RSU


e RSA, uno elettivo e uno no, è una delle cause della difficoltà di attuazione finora
incontrate nel T.U.: basta pensare che per misurare la rappresentatività dei sindaci è
fondamentale il dato dei voti raccolti nelle elezioni di RSU—> a questi problemi potrebbe
dare soluzione una legge, che ancora non c’è.

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS)

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è una figura che è istituita attualmente

dagli artt. 47/50 T.U. della salute e sicurezza 2008, nei luoghi di lavoro.

Questa disciplina sostituisce quella precedente: d.lgs 626/1994.

Art.9 St.La. —> “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare
l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle
malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e
l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro
integrità fisica.”

—> Non fornisce indicazioni in ordine alla struttura, alla composizione di tali
rappresentanze di cui all’art.9 —> per la prevalente dottrina queste
rappresentanze potevano identificarsi con le RSA o da organismi di
rappresentanza costituito ad hoc da personale interno all’azienda.

Art.47 T.U. :

—> prevede l’istituzione di questa figura su 3 livelli:

- Livello dell’unità produttiva —> RLS AZIENDALE

- Livello territoriale o di comparto —> RAPPRESENTANTE PER LA SICUREZZA DEL

TERRITORIO

- Livello dei siti produttivi —> RAPPRESENTANTE PER LA SICUREZZA DEI SITI

PRODUTTIVI

Per quanto ancora il modello di riferimento sia l’art.9 statuto la disciplina del 2008
accentua la istituzionalizzazione del RLS

—> dispone l’elezione dei RLS in un unica giornata su tutto il territorio nazionale

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Sezione II: I diritti sindacali

La tutela della libertà sindacale nei luoghi di lavoro

Il Titolo II dello St.Lav, rubricato: “della libertà sindacale”, contiene una serie di
disposizioni il cui obiettivo è quello di:

rafforzare l’effettività del principio di libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro
vietando all’imprenditore di ostacolare, anche indirettamente, l’esercizio di tale libertà.

Art.14 —> riafferma nei confronti del datore di lavoro la libertà dell’organizzazione
sindacale sancita dall’art.39 c.1

Art.15/16 —> prevedono il divieto di atti/patti e trattamenti collettivi discriminatori per


ragioni sindacali

ART 15 —> DIVIETO DI ATTI E PATTI DISCRIMINATORI

“È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:


subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei
provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale
ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata
sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.”

Let. a) —> Tale divietò colpisce le cosiddette clausole di union security., la cui contrarietà al principio
di libertà sindacale è sancita anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Per quanto tali clausole siano estranee alla nostra tradizione sindacale, questa lettera ne
prevede la nullità accordando in tal modo protezione alla libertà sindacale negativa del
singolo lavoratore

Let.b) —> trova un propio precedente diretto nella convenzione OIL n°98/1949, di cui tuttavia non
costituisce una semplice traduzione in quanto l’art.15 menziona espressamente il diritto
alla partecipazione ad uno sciopero, che la Convenzione non include nell’ambito delle
libertà che devono essere protette.

Comma 2—> estendeva in origine il divieto e la nullità agli atti/patti diretti a fini di discriminazione
politica e religiosa. Dopo sono stati aggiunti altri fattori di discriminazione:

- L’art.13 L.903/1977—> sesso/lingua/razza

- D.lgs. 216/2003 —> handicap/età/orientamento sessuale/ convinzioni personali

Cosa si intende con discriminazione?


Una differenza di trattamento, che produca un effetto pregiudizievole e che sia direttamente o
indirettamente basato su un fattore, la cui considerazione è vietata.

Diretto —> secondo l’interpretazione prevalente in dottrina diretto non significa “intenzionalmente
diretto”, MA che l’atto/patto devono risultare “oggettivamente” idonei a produrre la
lesione del diritto tutelato.

—> la distinzione tra atto oggettivamente e atto intenzionalmente discriminatorio ha rilievo


sostanziale: poiché se la discriminazione fosse rilevante solo in presenza di una

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dimostrabile volontà di arrecare pregiudizio, esorbiterebbe dal divieto di discriminazione
disparità di trattamento pure effettivamente pregiudizievoli.
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—> la distinzione ha anche rilievo processuale: la prova dell’intento discriminatorio è una


prova diabolica, la prova del carattere oggettivamente antisindacale di un atto/patto può
basarsi su circostanze di fatto e su valutazioni comparative, certamente meno ardue.

—> la giurisprudenza secondo la quale elemento determinante perchè possa configurarsi una
discriminazione è l’intento soggettivo o psicologico del soggetto che pone in essere l’atto
è risalente.

Questo orientamento confermato dalla giurisprudenza successiva (Cass. 7188/2001):

- da un lato è stato rimesso in discussione dalla giurisprudenza di merito che ha


applicato in materia di d.lgs. 216/2003

- dall’altro la s. Cass. 6575/2016 ha segnato un revirement della S.C. che pare avere
finalmente spostato la concezione oggettiva della discriminazione.

L’elenco dei fattori di discriminazione previsti dall’art.15 ha carattere aperto e non tassativo.

La questione è emersa in una serie di casi giurisprudenziali nei quali la ricorrente: FIOM-CGIL ha
contestato la discriminazione sindacale ai suoi danni da parte di aziende del Gruppo FIAT, sulla base
di “convinzioni personali” (art.15 c.2.).

Nella specie la FIOM lamentava l’esclusione di 19 lavoratori iscritti al sindacato ricorrente dalle
assunzioni.

I giudici hanno riconosciuto che l’affiliazione sindacale rientra tra le convinzioni personali e che
pertanto le tutele processuali sono utilizzabili anche in casi di discriminazione collettiva per ragioni
sindacali.

Questa vicenda si è conclusa con la sentenza Cass. 5581/2014 che ha dichiarato inammissibile il
ricorso contro la condanna della FIAT per discriminazione sindacale.

Rilievo di questa decisione non è solo processuale, ma anche teorico.

L’applicazione in giudizio dell’art.15 è stata molto scusa, essendo la materia stata assorbita nella
ampia fattispecie della condotta antisindacale —> art.28 St.Lav.

Molti degli interrogativi che la dottrina si è posta non hanno quindi trovato risposta nella esperienza.
Uno di questi è: se la nullità prevista dall’art.15 colpisca anche comportamenti materiali o omissivi

ART 16—> DIVIETO DI TRATTAMENTI COLLETTIVI DISCRIMINATORI

“È vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a


mente dell'articolo 15. —> e dunque per ragioni sindacali, ma anche per le altre ragioni previste dall’art.15

Il pretore, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione di cui al comma
precedente o delle associazioni sindacali alle quali questi hanno dato mandato, accertati i fatti, condanna
il datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all'importo
dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.”

Questo divieto tiene conto che: la discriminazione di carattere sindacale può avvenire, da parte del
datore di lavoro, non solo provando il prestatore di lavoro di particolari benefici, o arrecandogli
comunque danno, bensì molto più sottilmente attribuendogli particolari benefici ai lavoratori che
tengano un determinato comportamento e condizionandoli, così nell’esercizio della libertà sindacale.

Collettivi —> che si trova solo nella rubrica dell’art.16, si intende: quando fil trattamento economico
sia diretto ad avvantaggiare non il singolo lavoratore ma alcuni lavoratori individuati o un
gruppo individuabile (trattamenti discriminatori individuali trovano disciplina nell’art.15).

Trattamento eco. discriminatorio—> cioè qualsiasi beneficio, continuativo o occasionale, che non
consista necessariamente in una somma di denaro, ma che 77 sia
comunque valutabile economicamente

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L’art.16 non impone un trattamento uniforme di tutti i lavoratori.

Esempi di trattamenti economici collettivi discriminatori per ragioni sindacali sono:

- premio antisciopero

- mancata applicazione di un aumento salariale previsto dal contratto collettivo applicato


nell’unità collettiva ai lavoratori iscritti ad un sindacato non firmatario del contratto.

L’art.16 non prevede la nullità del trattamento collettivo discriminatorio:

- secondo parte della dottrina -> la nullità per violazione di norma imperativa di legge non
potrebbe essere tuttavia esclusa, e l’azione di nullità dovrebbe essere esperibile da lavoratore
offeso

- Altra parte della dottrina -> afferma che l’azione di nullità con effetti ex tunc di rimosso del
trattamento discriminatorio, potrebbe in sostanza risolversi in una azione di alcuni lavoratori
contro altri ( i beneficiari) e in considerazione di ciò il legislatore non ne avrebbe previsto la
esperibilità.

L’art.16 -> non prevede alcuna sanzione di tipo riparatorio ma solo una sanzione
amministrativa a carico del datore di lavoro.

Attività di proselitismo e contributi sindacali

ART.26 —> CONTRIBUTI SINDCALI

I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro
organizzazioni sindacali all'interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento
dell'attività aziendale.

Benché inserito nel Titolo III dello St.Lav., dedicato alle rappresentanze sindacali,

l’art.26 St.Lav, contiene una disposizione che per destinatari i lavoratori uti singuli, garantendo a
loro di svolgere attività tipicamente sindaci come quelle di:

proselitismo e collettaggio —> cioè di raccolta di contributi a favore dei sindacati

—> sono attività che i singoli lavoratori svolgono a favore


delle loro organizzazioni sindacali di appartenenza

L’Art.26—> è considerato una disposizione di sostegno: non delle RSA/RSU, ma di qualunque


sindacato, che può essere beneficiario dell’attività svolta dai lavoratori a suo favore, senza che per
svolgerla debbano o possano in alcun modo intervenire le RSA o RSU, e neppure il sindacato
beneficiario.

La dottrina prevalente limita il diritto allo svolgimento di tali attività nell’ambito sindacale,
escludendo che questo diritto si estenda oltre tali confini.

L’attività di proselitismo e di collettaggio sindacale tutelata da questo art. incontra il limite:

“del normale svolgimento dell’attività sindacale”


—> sancito solo per queste attività e non per altre, come quelle esercitabili dalle RSA e neppure
quelle attività che possono ricondursi alla libera manifestazione del pensiero dei lavoratori.

—> esso è diretto NON a garantire il normale svolgimento della attività lavorativa da parte della

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Il testo originario dell’art.26 prendeva ai commi 2 e 3, poi cancellati dal referendum del 1995, il
diritto delle associazioni sindacali di percepire, e il speculare obbligo per il datore di lavoro di
versare i:

Contributi sindacali —> volontariamente versati dai lavoratori tramite trattenute sul salario

—> la trattenuta e il versamento al sindaco beneficiario erano effettuate dal


lavoratore sulla base di una delega rilasciata dal lavoratore, e secondo le
modalità previste dai contratti collettivi di lavoro, che dovevano garantire
la segretezza del versamento.

—> In mancanza di contratto collettivo, il lavoratore poteva indicare


l’associazione alla quale il datore di lavoro doveva versa la quota
associativa trattenuta.

—> libera scelta del lavoratore, eredo la delega un atto volontario

Nelle intenzioni dei proponenti il Referendum abrogativo del 1995, sopprimendo la base legale del
diritto dei sindacati di percepire i contributi trattenuti sulle retribuzioni dei lavoratori, doveva:

1. eliminare del tutto il sistema della delega per il pagamento dei contributi sindacali o,

2. come minimo, restituire interamente la materia all’autonomia contrattuale.

Il risultato prodotto dall’esito positivo del referendum è stato il 2:

del resto la Corte cost. con s. 13/1995 = aveva chiarito che l’intento del referendum abrogativo
doveva essere inteso solo come volontà di eliminare la base legale dell’obbligo del datore di lavoro,
lasciando all’autonomia privata la scelta in ordine al siete, a di riscossione dei contributi sindacali.

La portata pratica del referendum si è rilevata modesta:

I contratti collettivi continuando a prendere il pagamento di contributi sindacali su delega, con


regole simili a quelle contenute nei 2 commi dell’art.26 abrogati.

—> non è dubbio allora che il dato di lavoro che applica il contratto collettivo sia obbligato, oggi dal
contratto, ieri dalla legge, ad effettuare le trattenute e a versare i contributi

—> per ciò che attiene ai sindacati, è ugualmente indubbio che quelli che hanno firmato il contratto
collettivo siano beneficiari dei contributi pagati dai lavoratori con il sistema della delega

Quanto ai sindaci non firmatari del contratto collettivo —> questi potranno beneficare della delega
ad hoc rilasciata dal singolo lavoratore.

Nel T.U. 2014 le Confederazioni firmatarie hanno peraltro stabilito che le imprese provvederanno ad
accettare le deleghe dei lavoratori a favore delle organizzazioni sindacali che aderiscono al T.U. o ne
recepiscano integralmente i contenuti, anche s non firmatarie del contratto collettivo.

Resta però da vedere se il datore di lavoro, che non è più obbligato dalla legge, possa
legittimamente rifiutarsi di operare la trattenuta sulla retribuzione del lavoratore senza che ciò
incorra in una condotta antisindacale.

Sulla questione si era registrato in passato un orientamento non univoco della giurisprudenza:

- Da un lato—> si era orientati nel senso di ricondurre il sistema del pagamento dei contributi
sindaci su delega del lavoratore all’istituto civilistico della: delegazione di pagamento:
• il datore di lavoro -> debitore, delegato del lavoratore

• lavoratore -> debitore, delegante del sindacato

• sindacato -> creditore, delegatario

Tanto premesso, essendo venuto a meno l’obbligo legale, e in assenza dell’obbligo contrattuale
previsto dal c.c., si riteneva che il datore di lavoro potesse legittimamente rifiutarsi di effettuare la
trattenuta sulla busta paga, ciò in quanto ai fini di delegazione di pagamento, si necessita il
consenso del delegato. 79
A sostegno di questo orientamento (il prevalente): Cass. 1968/2004 e Cass. 10616/2004.

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- Dall’altro —> altre sentenze affermavano il contrario, qualificando la fattispecie in termini di:
cessione del credito:
il lavoratore trasferisce il credito al sindacato senza che il trasferimento del credito richieda il
consenso del datore di lavoro (debitore di retribuzione ceduto).

A sostegno di questo orientamento: Cass. 3917/2004

Conclusione= per dirimere il contrasto, sulla questione sono intervenute le S.U. della corte di
Cassazione con la: S. 28269/2005 —> esse hanno accolto la tesi della cessione parziale del credito
retributivo (2), escludendo che in tal modo si crei un illegittimo aggravio della posizione del datore
di lavoro debitore.

Alla sentenza delle S.U. hanno fatto seguito altre sentenze orientate nello stesso modo e così
l’orientamento si è consolidato.

Il Titolo III

Il Titolo III dello St.Lav. rubricato: attività sindacale, contiene le norme cosiddette:
promozionali e di sostegno dell’attività sindacale sei luoghi di lavoro

“Cioè un insieme di disposizioni che vanno oltre la tutela della libertà sindacale perchè
non definiscono solo uno spazio di autodeterminazione del soggetto titolare della libertà,
e un divietò per tutti gli altri soggetti di interferivi, MA danno vita, in testa al soggetto
tutelato, pretese configurabili come diritti soggettivi verso l’imprenditore, sul quale grano
gli obblighi corrispondenti"

Soggetti tutelati questa volta non sono i singoli lavoratori e non le associazioni sindacali in
generale, MA le RSA, costituite ad iniziativa dei lavoratori ai sensi dell’art.19 st.Lav.

Promozione e sostegno sono utilizzati dal legislatore in modo selettivo

Ora analizziamo l’insieme delle disposizioni che promuovono e sostengono l’attività


delle RSA o delle RSU, tra le quali distinguiamo:

• le disposizioni che attribuiscono diritti e poteri alle RSA—> art. 20 / 21/ 25 / 27

• le disposizioni che prevedono diritti dei dirigenti delle RSA —> art. 23 e 24

• le disposizioni che prevedono speciali tutele per i dirigenti delle RSA —> art.18 e 22

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• disposizioni che attribuiscono diritti e poteri (prerogative) alle RSA-> art.20/21/25/27

L’ASSEMBLEA -> ART.20 ST.LAV.

I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell'orario di
lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la
normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva.

Le riunioni - che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi - sono indette,
singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con
ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle
convocazioni, comunicate al datore di lavoro.

Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato
che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale.

Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi
di lavoro, anche aziendali.

L’assemblea

—> ha la funzione di consentire ai lavoratori di partecipare all’elaborazione delle politiche


contrattuali e delle decisioni sindaci

—> è la sede nella quale si forma democraticamente il consenso

—> la sua partecipazione costituisce l’esercizio della libertà garantita dall’art.39 c.1

Partecipazione alla assemblea

—> non è limitata ai soli lavoratori iscritti al soggetto sindacale che la ha convocata, ma è
aperta a tutti i lavoratori della unità produttiva.

Comma 1
—> attribuisce ai lavoratori il diritto di riunirsi in assemblea nella unità produttiva in cui
prestano al loro opera:

- fuori dall’orario di lavoro

- dentro l’orario di lavoro—> nei limiti minimi di 10 ore annue retribuite o nei più.

- favorevoli limiti previsti dalla c.c.

Tali limiti devono essere intesi come limite massimo di ore retribuite, non come limite
massimo di ore utilizzabili per lo svolgimento di assemblee durante l’orario di lavoro

Comma 2

—> riserva alle RSA il potere di convocare le assemblee, congiuntamente o


disgiuntamente (singolarmente)

—> per quanto attiene alla convocazione, quando è presente una RSU, questa subentra
nelle prerogative delle RSA (ricordo s. 13978/2017)

L’AI del 1993 e il T.U. del 2014:


Prevedono che 3 delle 10 ore di assemblea retribuite siano attribuite alle organizzazioni
aderenti ai sindaci firmatari del c.c.n. applicato all’unità produttiva. Il diritto di convocare
assemblee retribuite nell’ambito nell’ambito del monte ore previsto dall’AI non spetta ai
sindaci che non hanno stipulato il c.c. applicato nella unità produttiva, essendo irrilevante,
la eventuale rappresentatività del sindacato non firmatario nella interpretazione della
clausola contrattuale.

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Problema: a chi devono essere imputata le 10 ore annue retribuite? —> 3 orientamenti:
1. Secondo alcuni l’interpretazione del monte ore è individuale -> dunque costituisce un
limite di partecipazione individuale alle assemblee ma non un limite per la
convocazione delle assemblee da parte delle RSA/U

2. Secondo altri il computo deve esser fatto con riferimento alla collettività per la quale la
assemblea è indetta -> il monte ore costituisce un limite per la convocazione

3. Tesi intermedia, ogni RSA o la RSU può convocare assemblee per un limite di 10 ore,
e il lavoratore sceglie di partecipare in ragione delle 10 ore retribuite che gli spettano
per partecipare alle assemblee convocate durante l’orario di lavoro

La Cassazione ha distinto tra: ( “le 3 sentenze gemelle”)

- assemblea retribuita durante l’orario di lavoro -> monte ore attribuito alla generalità dei
lavoratori e quindi alle RSA cumulativamente

- assemblea non retribuita fuori dall’orario di lavoro -> il diritto a partecipare è un diritto
individuale dei lavoratori

Di conseguenza, la facoltà di indire una assemblea retribuita non sarebbe più esercitabile
da una RSA, dalla RSU o da un sindaco firmatario del c.c. quando le ore di assemblea
retribuita siano state quindi “consumate”/prenotate —> la corte quindi aderisce al 2
orientamento interpretativo

Modalità di esercizio del diritto di assemblea:


- la convocazione deve essere comunicata dal datore di lavoro ma non è richiesto dalla
legge un preavviso minimo; essa è necessaria perchè il datore di lavoro metta a
disposizione i locali idonei al suo svolgimento

- il datore di lavoro è obbligato a consentire lo svolgimento della assemblea

- il datore di lavoro deve essere messo in condizione di predisporre le misure


organizzative necessarie per far fronte alla sospensione della attività lavorativa

- stante la riserva a favore delle RSA del potere di convocazione ci si è chiesti se sia
ammissibile lo svolgimento di assemblee spontanee autoconvocate dai lavoratori: la
risposta è positiva in quanto basata sull’art.14 St.Lav. che attribuisce a tutti i lavoratori
il diritto alla attività sindacale nei luoghi di lavoro, tra i quali fa parte anche il diritto di
riunione —> le assemblee spontanee dovranno svolgersi però al di fuori dell’orario di
lavoro: ciò in quanto l’esercizio del diritto di riunione durante l’orario di lavoro è
sottoposta dalla legge al filtro costruito dalla convocazione da parte delle RSA.

- Le assemblee possono riguardare la generalità dei lavoratori dell’unità produttiva

- Le assemblee devono avere come oggetto: materie di interesse sindacale o del lavoro
- L’ordine del giorno deve essere comunicato al datore di lavoro, il quale potrà rifiutarsi di
concedere i locali, se l’ordine del giorno non abbia a che fare con la materia legittima.

Comma 3 —>
Prevede che alle assemblee possano partecipare anche i “dirigenti esterni del sindacato
che ha costituito la RSA”, previo preavviso al datore di lavoro -> lapsus del legislatore, la
RSA è costituita ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito di un sindacato, e non direttamente
dal sindacato.

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Benché la legge taccia sul punto: si ritiene illegittima la pretesa del datore di lavoro di
partecipare alla assemblea

Comma 4 —>
Prevede chi può stabilire ulteriori modalità di esercizio del diritto di assemblea: i contratti
collettivi -> quindi: No RSA/ RSU / datore di lavoro

I contratti collettivi possono prevedere:

- preavviso per la convocazione

- comandata -> presenza in servizio di un numero minimo di lavoratori, purché


giustificate dall’esigenza di tutelare diritti costituzionalmente garantiti

- lo svolgimento dell’assemblea in certe fasce orarie

REFERENDUM -> ART.21 ST.LAV.


Il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento, fuori dell'orario di lavoro, di
referendum, sia generali che per categoria, su materie inerenti all'attività sindacale, indetti da tutte le
rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori
appartenenti alla unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata.

Ulteriori modalità per lo svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di
lavoro anche aziendali.

Referendum sindacale
• costituisce, come l’assemblea, uno strumento di partecipazione dei lavoratori alle
decisioni e alle politiche contrattuali dei sindacati

• strumento molto delicato

• sottoposto a molti limiti dal legislatore

• può avere:

- carattere generale -> riguarda tutti i lavoratori della azienda o della unità produttiva
interessata

- carattere particolare -> riguarda una specifica categoria di lavoratori

• deve essere indetto da tutte le RSA congiuntamente


• deve volgersi fuori dall’orario di lavoro

• Il datore di lavoro è tenuto a consentire lo svolgimento del referendum e prestare la


propria collaborazione rendendo accessibili i locali per il suo svolgimento
• Limitare/ostacolare il referendum, ai sensi dell’art.28 St.Lav., costituisce una condotta
antisindacale

• Hanno diritto di parteciparvi tutti i lavoratori appartenenti all’unità produttiva e alla


categoria particolarmente interessata -> comma 1
• Può avere a d’oggetto: solo materie di interesse sindacale (≠ assemblea)

Il ricorso alla consultazione referendaria non avviene spesso, è più usato il referendum
come strumento di verifica del consenso dei lavoratori:

- Sottoponendo a loro giudizio le piattaforme contrattuali e le ipotesi di accordo


collettivo

- Sottoponendo all’approvazione dei lavoratori accordi già conclusi

Ne derivano 2 questioni:

1. si pone altro al questione di sapere se questo referendum si colloca fuori


dall’art.21 e possono essere cioè indetti da soggetti diversi dalle RSA e dalla RSU

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—> è stata giudicata una condotta antisindacale l’indizione del referendum da parte
del datore di lavoro al fine di condurre la trattativa per il rinnovo del contratto
integrativo aziendale direttamente con i lavoratori, violando così le prerogative delle
RSA.

2. Riguarda l’esito del referendum: nel caso in cui il giudizio espresso dalla
maggioranza dei lavoratori sia negativo, quale effetto produrrà tale visto sulla validità
dell’accordo? Ad avviso della Cassazione: nessuno —> perchè gli esiti del referendum
hanno rilevanza solo nei rapporti interni tra rappresentanza sindacale e lavoratori.
Questo orientamento potrebbe modificarsi: tenuto conto della importanza che la
consultazione referendaria dei lavoratori ha assunto nelle nuove discipline
interconfederali: il T.U. 2014 sottopone infatti l’efficacia del c.c.aziendale stipulato
stipulato dalle RSA maggioritarie alla condizione che il contratto ottenga il voto
favorevole della maggioranza dei lavoratori e che alla consultazione abbia partecipato
almeno il 50%+1 degli aventi diritto al voto

AFFISSIONI DELLE RSA -> ART.25 ST.LAV.


Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, che il datore di
lavoro ha l'obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all'interno dell'unità produttiva,
pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro.

Art.25 -> conferisce:

- alle RSA il diritto di affiggere: pubblicazioni / tesi /comunicati inerenti a materie di


interesse sindacale e di lavoro.

- al datore di lavoro l’obbligo:

• di predisporre gli spazi per l’affissione in luoghi accessibili a tutti i lavoratori

• astenersi da ogni ingerenza sui contenuti del materiale affisso.

Affissione -> strumento classico di comunicazione tra i lavoratori e le loro


rappresentanze sindacali

Oggetto affissione -> delimitato alle materie di interesse sindacale e di lavoro; la


cassazione ha specificato la difficoltà nel comprendere alle volte se il materiale appeso
sia legittimo o meno, così specificando che: non può essere riconosciuto al datore di
lavoro alcun potere di valutazione autonoma del contenuto del materiale fissato, e in ogni
caso è escluso che possa manomettere le affissioni sulla base di proprie valutazioni

Più incerto è l’orientamento giurisprudenziale sulla legittimità di un date di lavoro he


decide di togliere dalla affissione contenuti sindacali diffamatori, qualche giudice ha
ammesso questo comportamento come legittimo alla condizione che: “il contenuto
diffamatorio sia immediatamente percepibile dalla generalità dei soggetti”-> questione si
intreccia con il diritto alla critica

Prima che fosse sancito dalla legge tale diritto era riconosciuto dalla contrattazione
collettiva—> ma era condivisa l’idea che, in assenza di norme che garantissero
espressamente si sindacati il diritto di affissione in azienda, tale diritto non potesse essere
riconosciuto sulla sola base dell’art.39 c.1 Cost.

Problema: relativo alla titolare del diritto di affissione —> l’art.25, attribuendolo alle RSA al
plurale, esclude che lo possa esercitare anche il singolo lavoratore, o un comitato
spontaneo di lavoratori.

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Non è escluso il diritto pero dei singoli lavoratori di fare volantinaggio nei luoghi di lavoro,
riconducibile alla attivò di proselitismo sindacale.

Problema conseguente: il diritto di affissione compete a ciascuna RSa singolarmente o,


l’uso del plurale sta ad indicare la titolarità di questi diritto solo in campo delle RSA
congiuntamente?

Orientamento prevalente attribuisce tale diritto a ciascuna RSA. —> Cass. 1199/200

LOCALI DELLE RSA -> ART.27 ST.LAV.


Il datore di lavoro nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti pone permanentemente a
disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali, per l'esercizio delle loro funzioni, un idoneo
locale comune all'interno dell'unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.

Nelle unità produttive con un numero inferiore di dipendenti le rappresentanze sindacali aziendali
hanno diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro riunioni.

Come il diritto di affissione, anche il diritto di usufruire di locali dove riunirsi era previsto
dalla contrattazione collettiva. A questo articolo la dottrina attribuisce molta importanza,
considerando il diritto di usufruire di locali nell’unità produttiva uno strumento essenziale
per l’esercizio di una funzione di rappresentanza sindacale dei lavoratori.

Titolari di detto diritto sono solo:

- Le RSA -> congiuntamente (comune)


- La RSU -> nel suo complesso, ove sia subentrata alle RSA

Esse sono: responsabili della gestione dei locali, essendo escluso il potere di vigilanza o
di regolamentazione dell’uso da parte del datore di lavoro

L’art.27 riserva l’uso dei locali: all’esercizio delle funzioni di rappresentanza sindacale—> è
dubbio quindi se sia possibile a dirigenti esterni di accedere a detti locali senza il
permesso del datore i lavoro

Disponibilità permanente -> per la giurisprudenza questi locali non devono essere destinai
solo ed esclusivamente alle RSA

• Le disposizioni che prevedono diritti dei dirigenti delle RSA —> art. 23 e 24
Il titolo III dello statuto non regola solo i poteri propri delle RSA, cioè i poteri che le sono attribuiti
per lo svolgimento della sua funzione rappresentativa, ma che i diritti propri dei rappresentanti
sindacali.

PERMESSI RETRIBUITI -> ART.23 ST.LAV.


I dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui all'articolo 19 hanno diritto, per l'espletamento
del loro mandato, a permessi retribuiti.

Salvo clausole più favorevoli dei contratti collettivi di lavoro hanno diritto ai permessi di cui al primo
comma almeno:
a) un dirigente per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive che occupano
fino a 200 dipendenti della categoria per cui la stessa è organizzata;

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b) un dirigente ogni 300 o frazione di 300 dipendenti per ciascuna rappresentanza sindacale aziendale
nelle unità produttive che occupano fino a 3.000 dipendenti della categoria per cui la stessa è
organizzata;
c) un dirigente ogni 500 o frazione di 500 dipendenti della categoria per cui è organizzata la
rappresentanza sindacale aziendale nelle unità produttive di maggiori dimensioni, in aggiunta al
numero minimo di cui alla precedente lettera b).

I permessi retribuiti di cui al presente articolo non potranno essere inferiori a otto ore mensili nelle
aziende di cui alle lettere b) e c) del comma precedente; nelle aziende di cui alla lettera a) i permessi
retribuiti non potranno essere inferiori ad un'ora all'anno per ciascun dipendente.

Il lavoratore che intende esercitare il diritto di cui al primo comma deve darne comunicazione scritta al
datore di lavoro di regola 24 ore prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali.

I dirigenti delle RSA hanno diritto di usufruire di permessi retributivi per l’ “espletamento
del loro mandato”, cioè per consentire loro di svolgere liberamente, e al riparo da eventuali
ritorsioni del datore di lavoro, l’attività sindacale nei luoghi di lavoro.

Il permesso:
- costituisce: un’ipotesi di sospensione legale dell’esecuzione del rapporto di lavoro per
svolgere attività connesse alla propria funzione di rappresentane sindacale.

- È retribuito—> il dirigente ha diritto al trattamento retributivo ordinario, escluse le


indennità connesse all’effettiva prestazione di lavoro (es. maggiorazione per lavoro
notturno)

- Il titolare di tale permesso non è tenuto a diliscare il motivo per cui richiede tale
permesso

- Il datore di lavoro non ha diritto di accertare preventivamente la natura della attività che
il richiedente intende svolgere

- Il lavoratore che intende esercitare tale diritto deve solo darne comunicazione scritta al
datore di lavoro 24 ore prima tramite le RSA (ult. comma)

- L’uso del permesso per ragioni diverse da quelle previste dall’art.23 può essere
contestato ex post dal datore di lavoro

- “Il diritto ai permessi sindacali è pieno e incondizionato, ed esclude ogni potere


discrezionale di autorizzazione o concessione da parte del datore di lavoro”
-> cass. 454/2003

Tale diritto trova un limite: nella presenza del cosiddetto monte ore -> cioè nella quantità
massima di ore di permesso di cui il rappresentare sindacale può usufruire.
Il comma 2 —> stabilisce un limite minimo: derogabile in melius dalla contrattazione
collettiva

I dirigenti:
- Tale diritto spetta: ai soli dirigenti e il suo numero è limitato e variabile in relazione alla
dimensione della unità produttiva —> comma 2
- l’art.19 non prende che le RSA debbano essere costruite da un numero determinato di
componenti

- cosa si intenda con “dirigente” non è esplicitato, di conseguenza l’individuazione di tali


soggetti ricade sulla autonomia della singola RSA

Secondo quanto stabilito dal T.U. 2014, e dall’AI 1993:


I componenti della RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nel diritto ai permessi sindacali,
ed i permessi saranno utilizzabili d aiuti i suoi componenti, di volta in volta indicati come
beneficiari, senza la necessità di individuare tra di essi preventivamente i dirigenti.

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PERMESSI NON RETRIBUITI -> ART.24 ST.LAV.


I dirigenti sindacali aziendali di cui all'articolo 23 hanno diritto a permessi non retribuiti per la
partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale, in misura non
inferiore a otto giorni all’anno.

I lavoratori che intendano esercitare il diritto di cui al comma precedente devono darne comunicazione
scritta al datore di lavoro di regola tre giorni prima, tramite le rappresentanze sindacali aziendali.

In considerazione di questo articolo, la dottrina esemplifica affermando: i permessi non


retribuiti possono essere utilizzati per attività sindacali all’esterno del luogo di lavoro non
limitate solo a: trattative, convegni e congressi.

I permessi sono usufruibili in misura non inferiore a 8 giorni l’anno, senza rinviare alla
contrattazione collettiva la possibilità di condizioni di miglior favore, possibilità che, nel
silenzio della legge, non si considera preclusa.

Per la natura del diritto e per le condizioni di esercizio vale ciò che è scritto per i permessi
retribuiti.

Differenza rispetto i retribuiti è che qui:

1. Si parla di richiesta ( ≠ da comunicazione)

2. La richiesta deve essere fatta per iscritto tramite la RSA o la RSU, e deve avvenire con
un preavviso di regola di 3 giorni.

PERMESSI PER I DIRIGENTI SINDACALI ESTERNI -> ART.30 ST.LAV.


I componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all'articolo 19 hanno
diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni
degli organi suddetti.

La modificazione dell’art.19 ha fatto perdere alla disciplina di questi permessi il carattere


promozionale e selettivo che aveva in origine a favore dei sindacati già privilegiati (CGIL,
UIL, CISL).

La definizione dei limiti e delle modalità di esercizio del diritto ai permessi è rinviata
nell’art. 30 alla contrattazione collettiva—>essa in genere prevede:

- un monte ore annuale

- non indica il numero di beneficiari

- subordina l’esercizio del diritto ad una richiesta scritta al datore di lavoro

In mancanza di una disciplina contrattuale sarà il giudice a prevedere.

La natura e la funzione dei permessi dell’art.30 sono le medesime dei permessi di cui
all’art.23 e 24 St.Lav. —> il diritto al permesso è sempre un diritto: soggettivo pieno e
incondizionato

L’art.30, essendo al di fuori del Titolo III dello statuto, è estraneo al campo di applicazione
delle disposizioni in detto Titolo contenute: i limiti previsto nell’art.35 non trovano perciò
applicazione.

ASPETTATIVE SINDACALI —> ART.31 ST.LAV.


Alla aspettativa sindacale hanno diritto i dirigenti di qualunque sindacato, non solo di
quelli di cui all’art.19 e non si applicano i limiti dell’art.35.

L’aspettativa determina una sospensione del rapporto di lavoro e deve essere richiesta
dall’interessato. Esso è un diritto del lavoratore, e quindi un atto dovuto dal datore di
lavoro. L’unico controllo che il datore di lavoro può fare è sul carattere prov/naz incarico.

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• le disposizioni che prevedono speciali tutele/garanzie per i dirigenti delle RSA nei
casi di licenziamento e trasferimento —> art.18 e 22
La speciale tutela ad essi riservata si giustifica perché lo svolgimento della attività sindacale
può esporre ad ritorsioni del datore di lavoro, anche per questo detta tutela dura che oltre la
scadenza del mandato.

TRASFERIMENTO DEI DIRIGENTI DELLE RSA -> ART.22 ST.LAV.


Il trasferimento dall'unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui al
precedente articolo 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto solo
previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.

Le disposizioni di cui al comma precedente ed ai commi quarto, quinto, sesto e settimo dell'articolo
18 si applicano sino alla fine del terzo mese successivo a quello in cui è stata eletta la commissione
interna per i candidati nelle elezioni della commissione stessa e sino alla fine dell'anno successivo a
quello in cui è cessato l'incarico per tutti gli altri.

Comma 1—> prevede che i dirigenti delle RSA non possano essere trasferiti da una unità
produttiva ad un’altra senza nulla-osta delle associazioni sindacali di appartenenza.

Per tale tutela:

non è previsto un numero di beneficiari preciso dato dalla legge —> la giurisprudenza
(Cass. 10438/1990) preoccupata da una possibile proliferazione di tutele, colma la lacuna
della legge fornendo una interpretazione restrittiva dell’art.22, e riconoscendo perciò
come beneficiari solo i:

• titolari del diritto di usufruire dei permessi sindacali, di cui all’art.23

• coloro ce svolgono nella RSA un effettivo ruolo dirigenziale

A questa interpretazione restrittiva si contrappone una estensiva della dottrina , che


attribuisce la qualificazione di dirigente delle RSA—> a tutti quei lavoratori ai quali le
organizzazioni sindacali riconoscono una funzione di direzione dell’attività sindacale
nell'unità produttiva. Essa:

- da un lato -> consente di salvaguardare l’autonomia del sindacato nella individuazione


di tali soggetti

- Dall’altro -> non fa proprie le preoccupazioni dei giudici in ordine alla definizione del
numero di soggetti tutelati

In ogni caso, tale preoccupazione del rischio della proliferazione dei soggetti tutelati
appare oggi poco rilevante, in quanto ad oggi è molto affievolito tale rischio dalla
sostituzione delle RSA con le RSU -> che hanno un numero definito di membri ai quali
(tutti e senza distinzione di ruolo) il T.U. 2014 estende i diritti e le tutele che lo Statuto
riserva ai “dirigenti” delle RSA.

L’interesse tutelato da questa disposizione è definibile come collettivo e non individuale ->
(nel senso di interesse esclusivamente proprio del dirigente della RSA o componente
della RSU): il nulla-osta senza il quale il trasferimento è illecito è infatti una prerogativa del
sindacato.

Trasferimento:
- è il punto più controverso della intestazione dell’art.22

- è definito dal legislatore come spostamento del lavoratore da una unità produttiva ad
un’altra.

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- ci si è chiesti se con unità produttiva, in riferimento al trasferimento di un dirigente,


dovesse intendersi un ambito poi ristretto rispetto al caso di trasferimento di un
lavoratore che non è sindacalista, e la risposta della Cassazione è: nel senso che la
nozione di unità produttiva è unica e non avrai a seconda del ruolo svolto dal lavoratore
—> Cass. 5934/1998 (es. pagina 194)

—> di conseguenza non costituisce trasferimento la trasferta disposta dal datore di


lavoro, in quanto temporaneo -> poi nel singolo caso spetta al giudice decidere se
una trasferta ( per esempio molto lunga) costituisca un atto discriminatorio ai sensi
dell’art.15 o una condotta antisindacale ai sensi dell’art.28 St.Lav.

IL LICENZIAMENTO DEI DIRIGENTI DELLE RSA -> ART.18 ST.LAV.


Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e
del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di
merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti
dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. —> comma 11

L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice
medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e
sesto comma del codice di procedura civile. —> comma 12

L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa. —> comma 13

Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera
alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui all'undicesimo comma, non impugnata
o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al
pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della
retribuzione dovuta al lavoratore. (5). —> comma 14

Ai lavoratori di cui all’art.22 St.Lav., quindi: dirigenti delle RSA e componenti delle RSU,
l’art.18 garantisce una speciale tutela processuale in caso di licenziamento .

Nella esperienza pratica questa tutela ha avuto scarso riscontro, in quanto si predilige
l’art.28 riguardante la repressione della condotta antisindacale -> più rapido, = efficienza.

La reintegrazione del sindacalista lavoratore al propio posto di lavoro avviene, se il


giudice accoglie l’ordinanza, con:

una ordinanza di reintegrazione

—> essa anticipa a tipica la sentenza con cui il giudice deciderà il merito della causa

—> può essere emanata quando il giudice medesimo ritenga irrilevanti o insufficienti gli
lenti di prova fortini dal lavoratore

L’art.18 prende anche una sanzione aggiuntiva -> scopo indurre il datore di lavoro di
procedere prontamente alla reintegrazione del lavoratore/sindacalista

Il datore di lavoro che non ottempera all’ordine di reintegrazione del dirigente di RSA
illegittimamente licenziato (indipendentemente dal fatto che sia stia presentata istanza di
reintegrazione anticipata) è tenuto per ogni giorno di ritardo, al pagando al Fondo
Pensioni dei lavoratori indipendenti (INPS) di una somma pari all’importo della
retribuzione dovuta al lavoratore.

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Le opinioni della dottrina si sono divise su una questione:

Se l’interesse tutelato da detto articolo sia:

- l’interesse del sindacato al normale svolgimento della attività sindacale, o sia

- l’interesse individuale del rappresentante sindacale licenziato ad essere reintegrato nel


posto di lavoro —> questa è la opinione prevalente —> perchè:

• l’istanza di reintegrazione anticipata non è presentata solo dal sindacato ma è


congiunta e richiede dunque il consenso del lavoratore interessato,

• la sanzione aggiuntiva è applicabile in ogni caso di omessa reintegrazione del


rappresentante sindacale

Il campo di applicazione del Titolo III dello Statuto dei Lav.

Il campo di applicazione del Titolo III è l’unità produttiva. A differenza del Titolo IV e II
che sono di applicazione generale.

L’art.35 definisce il campo di applicazione nei seguenti termini: per le imprese industriali e
commercial le disposizioni del Titolo III si applicano:

“a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio, o reparto autonomo che occupano più di 15
dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano anche alle imprese agricole che occupano
più di 5 dipendenti” —> soglia minima di occupati che deve raggiungere ogni unità prod.

L’art.35 comma 1, a differenza degli articoli precedenti, non parla di unità produttiva ma
ne fa una esemplificazione dell’ambito di applicazione con le parole appunto: sede,
stabilimento… Avvalendosi di questa esemplificazione è stata elaborata la definizione di
unità produttiva che ad oggi è usata nella giurisprudenza.

Con la S. 55/1974 la Corte Cost. delinea criteri per la definizione di unità produttiva come:

unità che si caratterizza all’intento dell’organizzazione dell’impresa per la sua autonomia


sia dal punto di vista:

- Economico-strutturale

- Risultato produttivo di beni e servizi

Sulla base di questi criteri la giurisprudenza ha poi affermato che per unità produttiva
debba intendersi:

Quella autonoma a struttura organizzativa, che costituisce una rilevante


componente dell’impresa, capace di realizzare, con i connotati dell’indipendenza
tecnica e amministrativa, una frazione della attività aziendale.

Le RSA non possono essere costituite in unità produttive con un numero di occupati
inferiore a 15 per l’industria e 5 per la agricoltura; e nelle unità produttive dove non
possono essere costituite RSA non potranno essere esercitati quei diritti e quelle
prerogative che la legge riconduce alle RSA/RSU: assemblea, referendum, i permessi
retributivi, l’affissione, l’uso di locali per le riunioni.

La previsione di soglie minime di lavoratori ha suscito dubbi di legittimità, che però sono
stati respinti dalla Corte Costituzionale con la s. 189/1975, secondo cui la scelta politica
del legislatore è ragionevole -> in unità produttive minime non si riuscirebbe neanche a
distinguere tra rappresenti e rappresentanti.

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Il potere contrattuale delle rappresentanze sindacali

Dedichiamo questo paragrafo ad alcune considerazioni finali sulle funzioni che le


rappresentanze sindacali dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono chiamate a svolgere: si
tratta di funzioni non previste dal Titolo III, ma che hanno trovato riconoscimento in:

- Altre leggi

- Accordi interconfederali

- Nella contrattazione collettiva di categoria

Tra le funzioni delle RSA previste dal Titolo III non rientra il: potere di stipulare contratti
collettivi a livello aziendale, che lo St.Lav. attribuisce alle RSA solo nei 2 particolari casi
regolati dagli artt:

- 4 -> impianti audiovisivi di controllo

- 6 St.Lav. -> visite personali di controllo

MA nei fatti = le RSA hanno svolto il ruolo di agenti contrattuali a livello aziendale, in
modo tanto rilevante da fare progressivamente decrescere l’intervento, in tale
contrattazione, dei sindacati provinciali.

(costituisce una eccezione rilevante la contrattazione del gruppo FIAT, nella quale a
stipulare i contratti sono stati chiamati i sindacati provinciali di categoria e le federazioni
nazionali).

Il problema della attribuzione del potere contrattuale alla struttura di rappresentanza


sindacale che opera nella unità produttiva ha trovato una soluzione nel:

Protocollo del 1993:


—> nel quale la RSU è stata direttamente investita del potere di contrattare a livello
aziendale.
—> in detto protocollo la competenza attribuita alle RSU non era però esclusiva, ma
CONGIUNTA a quella delle organizzazioni territoriali delle associazioni sindacali firmatarie
del contratto collettivo nazionale

La necessità di assicurare un raccordo: tra contratto collettivo nazionale e contratto


aziendale, indispensabile a garantire la governabilità del sistema contrattuale, serviva
anche a spiegare perchè le Confederazioni non avessero ritenuto opportuno lasciare la
RSU sola al tavolo negoziale.

L’Accordo quadro del gennaio 2009: non aveva aveva modificato le competenze
contrattuali delle rappresentanze sindacali

AI del 28 giugno 2011: ha attribuito competenza esclusiva alle RSU

T.U. sulla rappresentanza del 2014: ha ribadito la competenza esclusiva che sancisce l’AI.

(resta congiunta invece la competenza contrattuale delle RSA)

Il potere contrattuale delle RSA e delle RSU trova ampia conferma nella legislazione
recente in materia di diritto del lavoro, che devolve ai contratti collettivi anche aziendali
importanti funzioni di regolamentazione delle condizioni di lavoro: così l’art.51 d.lgs.
81/2015, richiamato da disposizioni legislative successive, che espressamente
menziona i contratti collettivi aziendali stipulati dalle RSA o dalle RSU

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Diritti di informazione e consultazione sindacale: diritto dell’UE


e diritto inter no.

Tra le prerogative delle RSA e della RSU devono essere ricordati i:

diritti sindacali di informazione, consultazione, controllo sulle scelte organizzative e sulle


politiche delle imprese, che a partire dalla seconda metà degli anni 70’, hanno trovato
fonte sia:

- nella legge

- nella contrattazione collettiva

Il legislatore investito le RSA di competenza:

- nelle situazioni di crisi e ristrutturazione delle aziende

- In materia di orario di lavoro

- In materia di lavori flessibili —>Il diritto delle RSU di ricevere periodiche informazioni
sull’andamento della occupazione di lavoratori: a termine, part-time, somministrati,
intermittenti

- Accentuata autonomia del RLS rispetto alla RSU

Il diritto di informazione, consultazione e controllo sindacale sopra citati si inseriscono nel


quadro delle forme di partecipazione dei lavoratori nell’impresa, che ha assunto
grande rilevanza a livello europeo.

Art.27 CARTA UE:

Ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati,


l'informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previsti dal diritto
dell'Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali.
—> da attuazione a questo articolo la Direttiva 2002/14 che istituisce un quadro generale
relativo alla informazione e alla consultazione dei lavoratori nella UE

Nel diritto dell’UE, l’informazione e la consultazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti
sono regolate su 2 livelli diversi:

LIVELLO DELLE IMPRESE TRANSNAZIONALI

La Direttiva CE 94/45 sui Compattai Aziendali Europei (CAE), applicabili nelle imprese e
nei gruppi di imprese di dimensione comunitaria, la prima emanata in materia di
informazione e consultazione dei lavoratori, è stata sostituita dalla direttiva di modifica
2009/38, il cui scopo è: “migliorare il diritto alla informazione e alla consultazione dei
lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensione comunitaria”.

Nelle imprese di dimensione comunitaria con almeno: 1000 dipendenti negli Stati membri
dell’Unione e con stabilimenti, ciascuno con almeno 150 dipendenti, situati in almeno 2
stati membri, la direttiva 2009/38 prende:

- la costituzione di un CAE, o in alternativa,

- una procedura di informazione e consultazione dei lavoratori di ciascuna impresa di


dimensione comunitaria

Il CAE -> è uno speciale organismo di rappresentanza dei lavoratori; la sua costituzione
deve avvenire mediante accordo tra le parti (direzione aziendale e DSN).

La direttiva -> rinvia agli accordi tra le parti la definizione delle modalità di esercizio dei
diritti di informazione e consultazione

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Stante la ampia autonomia delle parti sociali, la Direttiva si limita a prendere alcune regole
generali:

in materia di protezione dei rappresentanti dei lavoratori, che devono essere analoghe a
quelle previste per i rappresentanti dei lavoratori dalla legislazione e/o dalle prassi vigenti
nello Stato in cui sono impiegati, nonché il diritto alla retribuzione per i periodi di assenza
necessari allo svolgimento delle loro funzioni e il diritto dei rappresentanti alla formazione.

Sempre la direttiva 2009/38—> contiene anche le definizioni di:

• Informazione —> consiste nella trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai
rappresentanti dei lavoratori per consentire questi ultimi di prendere conoscenza della
questione trattata e di esaminarla. Essa deve avvenire con tempi, modalità, e contenuti
che consentano ai rappresentanti dei lavoratori di procedere ad una valutazione
approfondita e di prepara la consultazione

• Consultazione —> di cui la informazione costituisce il prodromo, consiste nello


scambio di opinioni tra le parti e deve consentire ai rappresentanti dei lavoratori di
esprimere un parere non vincolante in merito alle misure alle quali si riferisce la
consultazione.


Ambedue: hanno ad oggetto le sole questioni transnazionali che incidono notevolmente
negli interessi dei lavoratori, e la competenza dei CAE è pertanto limitata a tali questioni.

La direttiva non prevede invece l’attribuzione del potere negoziale ai CAE; non prende
perciò posizione sui ruoli che di fatto i CAE hanno assunto, producendo testi di natura in
senso lato contrattuale, noti come: trasnational texts

Per quanto riguarda il nostro diritto interno:


La direttiva precedente 94/45 era stat trasposta/recepita in 2 tappe:

- con l’AI 1996

- d.lgs. 74/2002 -> che si uniforma all’AI, riproducendo nel testo del decreto anche la
scelta di garantire alle associazioni firmatarie del contratto nazionale una posizione di
preminenza-> preminenza che nella disciplina delle RSU che aveva all’epoca fonte
contrattuale nell’Ai del 1993, e in questo caso invece veniva ad avere fonte anche
legale.

Le lacune della disciplina erano molte, e non furono completamente colmate neanche
dalla D. Del 2009, che resta carente per quanto riguarda la responsabilità del datore di
lavoro per violazione degli obblighi di informazione e consultazione dei lavoratori.

La direttiva 2009/38 è stata recepita con il d.lgs. 113/2012 che ha abrogato e sostituto
quello del 2002.

Per quanto riguarda i componenti del CAE: questi sono ancora designati:

- per 1/3 -> dalle organizzazioni sindacali stipulanti il c.c.nazionale applicato alla impresa

- per 2/3 -> dalle RSU

Il panorama del diritto dell’UE si completa:


- con al D. 2001/86-> relativa al coinvolgimento dei lavoratori nella Società europea (SE),
recepita nel diritto italiano con d.lgs. 188/2005

- con la D. 2003/72 -> relativa al coinvolgimento dei lavoratori nella Società cooperativa
europea (SCE), recepita con il d.lgs. 48/2007

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Ambedue = per quanto prevedano come forma di coinvolgimento dei lavoratori anche
l’informazione e la consultazione hanno come obiettivo quello della partecipazione dei
lavoratori alle attività della SE e della SCE

La legge 92/2012: “Legge Fornero” -> delega il Governo ad emanare norme in materia di
partecipazione e controllo sulla gestione delle aziende dei lavoratori, mediante loro
rappresentanti. La delega però non è stata attuata e, le parti sociali (Accordo sulla
produttività del 2012) avevano espresso la loro contrarietà all’intervento legislativo, in
materie che ritengano che debbano restare regolate nell’ambito di un sistema di relazioni
industriali autoregolato.

Passi in vanti in questa direzione non se ne erano fatti, ma sulla partecipazione dei
lavoratori torno ora l’AI 2018: “Patto della Fabbrica”—> lett. e):

“le parti affermano la opportunità di valorizzare forme di partecipazione nei processi di


definizione degli indirizzi strategici delle imprese”.

Questa volta si può dure che si tratta di un passo avanti nella direzione del
coinvolgimento dei lavoratori nella organizzazione della impresa.

B) LIVELLO DELLE IMPRESE NAZIONALI

La Direttiva 2002/14, che:

- istituisce un quadro generale relativo alla informazione e alla consultazione dei


lavoratori,

- Rende obbligatoria l’infrazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese con più di
50 addetti e negli stabilimenti con più di 20 addetti situati nel territorio di uno stato
membro —> più elevate dalle discipline legali presenti in Italia in materia di
licenziamenti collettivi e trasferimento di azienda, ma comunque più basse rispetto
quelle previste da alcuni contratti collettivi.

Direttiva generica e timida, pone molte eccezioni alla sua disciplina.

É stata recepita con il d.lgs. 25/2007, che rimane allo stesso livello di genericità della
direttiva, limitandosi in sostanza:

A rinviare alla contrattazione collettiva la definizione di sedi, tempi, modalità e contenuti


dei diritti di informazione e consultazione.

Ogni valutazione sull’impatto di questa normativa sul sistema delle relazioni industriali è
rinviato alla verifica della sua implementazione contrattuale, nella quel dovrebbe trovare
spazio la valorizzazione del livello aziendale e del ruolo delle rappresentanze sindacali nei
luoghi di lavoro.

L’impegno delle parti sociali per la valorizzazione, lo sviluppo e la diffusione della


contrattazione aziendale è stato peraltro espressamente sancito dall’AI unitario del 2011 e
ribadito, anche nei più recenti accordi unitari.

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LA REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE


La nozione di condotta antisindacale

La condotta antisindacale e il suo processo di repressione sono regolati dal:

Art.28 St.Lav. —> disposizione complessa

—> rappresenta, nelle relazioni industriali a livello di azienda, en efficace


strumento destinato a rendere effettivo il principio di libertà sindacale

—> ha svolto in passato e ancora oggi continua a svolgere un ruolo


fondamentale, occupando una posizione centrale nel diritto sindacale.

—> mantiene in astratto ancora oggi la sua forza, ma le complesse


vicende che hanno interessato il sistema delle relazioni industriali (vedi
part.II cap.II), insieme alla frammentazione del lavoro (con il
moltiplicarsi dei lavori non standard) hanno fatto perdere a questo
articolo la capacità di incidere con lo stesso impatto del passato

L’autore della condotta antisindacale

Secondo questo stabilisce l’Art.28 comma 1, si è in presenza di una condotta sindacale


ogniqualvolta che: 

“il dato di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”

Diversamente da quanto previsto dall’art.15 St.Lav. (che sancisce la nullità di ogni atto o
patto discriminatorio per ragioni sindaci da chiunque posti in essere), il:

- soggetto attivo della condotta antisindacale, e


- legittimato passivo della azione in giudizio,

è solo:
il datore di lavoro —> imprenditore o non, pubblico o privato che sia.

Ciò non significa che debba trattarsi di un comportamento posto in essere personalmente
dal datore di lavoro: i comportamenti antisindacali dei dirigenti o comunque di coloro che
nella azienda sono delegati ad esercitare il potere in tutto o in parte del datore di lavoro
sono ricondotti dalla legge a quest’ultimo —> il datore di lavoro sarà dunque chiamato a
rispondere anche delle condotte antisindacali poste in essere dai propri dipendenti

La dottrina prevalente e la Cassazione hanno respinto tentativi di interpretare detta norma


estensivamente, ritenendo insuperabile la formulazione letterale dell’art.28. che
circoscrive la tutela nel solo ambito del conflitto che vede contrapposti nei luoghi di
lavoro:

- prestatoti di lavoro

- datori di lavoro (si è escuso che il ricorso, ai sensi dell’art.28 possa essere proposto nei
confronti delle associazioni dei datori di lavoro; o ancora da un sindacato escusò dalla
contrattazione collettiva nei confronti di altri sindacati)

La Cassazione con la s.12584/2002:

specifica come l’espressione datore di lavoro non può essere dilatata sino a comprendere
la società cooperativa nei suoi rapporti con i soci. Da ciò si deduce l’orientamento sopra
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citato della giurisprudenza e della dottrina in base al quale è esclusa l’applicabilità


dell’art.28 nell’ambito del rapporto associativo, limitandola al solo ambito dei rapporti
configurabili come rapporti di lavoro subordinato.

Il comportamento antisindacale

Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della
libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle
associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore (1) del luogo ove è posto in essere il
comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie
informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di
lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento
illegittimo e la rimozione degli effetti. —> art.28 comma 1

La definizione di condotta antisindacale data dall’art.28 comma 1, non è analitica (l’art.28


è una norma aperta) ma teleologica:
Nel senso che il legislatore definisce il comportamento come illegittimo sulla base della
sua idoneità a ledere i beni protetti —> cioè libertà / attività sindacale / diritto di sciopero;
nella consapevolezza che questi beni possono essere lesi da multipli comportamenti, non
definibili a priori.

Comportamento —> è di ampio significato, include:

- atti giuridici

- comportamenti materiali (es. impedire il volantinaggio in azienda)

- comportamenti omissivi

Secondo l’orientamento consolidato della Cassazione, ai fini della ammissibilità del


ricorso di cui all’art.28 St.Lav. —> la condotta antisindacale deve essere:

- attuale o, (requisito non previsto per legge, ma individuato in via interpretativa)

- almeno ne devono perdurare gli effetti

Il requisito della attualità è soddisfatto quando il comportamento sia “tuttora preesistente


e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per
la situazione di incertezza che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un
ostacolo al libero svolgimento della attività sindacale” —> Cassazione

Poiché la condottò antisindacale deve dunque considerarsi attuale quando il


comportamento sia ancorai atto o quando ne perdurino gli effetti lesivi, il ricorso potrà
essere ammissibile anche. Notevole distanza di tempo dal momento in cui il
comportamento antisindacale ha avuto inizio, o dalla conclusione di singoli episodi.

diretti —> il comportamento è illegittimo se diretto ad impedire o limitare i beni protetti;


secondo la interpretazione che è stata appoggiata dall’orientamento delle
Sezioni Unite della Cassazione con la S.5295/1997 con “diretto” non vuole
intendersi intenzionalmente diretto, MA oggettivamente idoneo a produrre la
lesione dei beni protetti, senza che sia necessario accertare la presenza di
uno specifico intento lesivo —> coerentemente con una confezione oggettiva
della discriminazione

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—> è necessario precisare che: le incertezze sul carattere intenzionale o meno della
condotta antisindacale si possono dunque dirsi superate, ma è necessario
specificare che la stessa Cassazione alle volte è più favorevole ad una
interpretazione intermedia tra intenzionalità e oggettività:

- Ove si tratti di una lesione diretta di una prerogativa sindacale -> questa
costituisce di per sé condotta antisindacale, indipendentemente
dall’intento lesivo

- Ove si tratti di una lesione di diritti individuali —> l’antisindacabilità della


condotta sussiste solo quando sia prova l’esistenza di un intento a
frustare, mediante tale lesione i beni protetti

La dottrina distingue tra:

• Condotta antisindacale giuridicamente rilevante: comportamenti antisindacali in


senso giuridico, nelle quali rientrano tutti quegli atti e quei comportamenti che sono
oggettivamente diretti ad ostacolare le libertà e i diritti dei lavoratori e dei sindaci
garantiti dagli artt. 39 e 40 Cost.

• Condotta antisindacale nei fatti, ma non rilevante giuridicamente: comportamenti


che rientrano nella ordinaria logica conflittuale delle relazioni industriali, e consistono in
condotte antagonistiche, ma comunque legittime del datore di lavoro —> esempio =
opporre resistenza alle rivendicazioni sindacali

La legittimazione ad agire in giudizio

Ricorso: costituisce l’atto introduttivo di un procedimento speciale, al quale si applicano i


principi generali del diritto civile nei limiti della compatibilità con le sue caratteristiche di
processo sommario e urgente

L’art.28 c.1. prevede che il ricorso al Tribunale del luogo in cui è stato posto in essere il
comportamento del quale si intende denunciare il carattere antisindacale sia proposto:

“Dagli organi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbaino interesse”

Sono questi i soggetti che quindi hanno per legge la legittimazione esclusiva ad agire in
giudizio —> la riserva della legittimazione attiva a favore dei sindacati aveva suscitato
dubbi sulla legittimità costituzionale che poi vennero però respinti dalla
Corte Cost. con la: Sentenza n°54/1974

- In questa occasione la Corte ha ritenuto ragionevole riservar era la legittimazione attiva al


ricorso ad organizzazioni sindacali aventi una struttura nazionale in quanto organizzazioni più
responsabili—> escludendo con ciò le organizzazioni articolate su un minor ambito territoriale

- Argomentazione: se ogni singolo lavoratore o qualsiasi sindacato fossero legittimati al ricorso ex


art.28 la situazione che ne deriverebbe sarebbe tale da compromettere l’attività dell’azienda, da
lederne la produttività, ed ostacolare, se non paralizzarla l’azione direttiva dell’imprenditore

La Corte Cost. è tornata altre 2 volte sulla questione della legittimazione attiva:
1. Sentenza 334/1988 —> in cui la Corte ha ribadito che il sindacato non agisce nel
procedimento di cui all’art.28 come rappresentante dei lavoratori, ma come portatore di un
interesse collettivo proprio
2. Sentenza 89/1995 —> La corte ha ribadito ce la dimensione organizzativa nazionale del
sindaco legittimato ad agire:

- consente una idonea selezione “dell’interesse collettivo rilevante da porre a base del
conflitto con la parte imprenditoriale”
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- corrisponde al ruolo tradizionalmente svolto dal movimento sindacale italiano
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Inoltre questa disposizione: “Dagli organi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi
abbaino interesse” ha dato luogo a 2 problematiche interpretative:

CHE COSA DEBBA INTENDERSI CON ASSOCIAZIONI NAZIONALI —> IN CHE COSA
CONSISTE IL REQUISITO DELLA DIMENSIONE NAZIONALE DEL SINDACATO

É opinione comune che per essere legittimato al ricorso il sindacato non debba
necessariamente avere una struttura pluricategoriale nè debba aderire a Confederazioni
nazionali.

Più controversa è la questione di che cosa si debba intendere per associazione nazionale,
questione sulla quale vi sono più orientamenti interpretativi:

- giurisprudenza prevalente in passato = esclusa la legittimazione dei sindacati di


dimensione puramente locale o aziendale, essa aveva interpretato il requisito della
“nazionalità” come riferibile al sindacato nazionale di categoria, anche detto
monocategoriale —> vale a dire alla struttura verticale, cioè di categoria, del sindaco.
E non a quella orizzontale, cioè pluricategoriale.
Il requisito cosi interpretato faceva riferimento faceva riferimento alla rilevanza del
sindacato nell’ambito di una categoria e non alla sua effettiva diffusione sul territorio
nazionale.
Di conseguenza la rilevanza nazione ale del sindacato era richiesta se la categoria era
effettivamente diffusa a livello nazionale, se invece si trattava di una categoria presente
solo in lanci ambiti territoriali e non in altri, o se si trattava di una sola azienda
nazionale, il requisito della nazionalità era dato per scontato.
A questo orientamento si era rimproverato di usare una nozione di categoria che era
estranea al diritto vigente.

- Orientamento della Cassazione nel 1990 = che accoglie la critica all’orientamento


passato prevalente, e sostiene che il carattere nazionale del sindaco previsto dall’art.28
non si riferisce alla struttura organizzativa, in rodine alla quale la legge non può dettare
regole, MA alla dimensione nazionale della organizzazione, che non essendo legata nè
ad una aggregazione confederale, nè alla stipulazione di contratti collettivi, consente
concreti spazi di operatività anche alla organizzazioni che dissentono dalle politiche
sindacali maggioritarie.
In sostanza ciò che si richiede ad un sindaco per poter essere definito come nazionale:
non è di essere presente in tutte le regioni italiane, ma di essere presente in un numero
sufficientemente elevato di esse, che testimoni la sua effettiva presenza sul territorio
nazionale —> possono essere legittimate anche le organizzazione sindaci
pluricategoriale ma in tal caso o limiti minimi di presenza sul territorio aumentano di
quelli richiesti ad una associazione di categoria

QUINDI= attualmente pare prevalere un orientamento favorevole a definire nazionale il


sindacato che abbia una dimensione nazionale, indipendentemente dal modello
organizzativo prescelto.

PERO’= nascono nuove divergenze interpretative in merito agli indici dai quali debba
dedursi l’esistenza di una tale dimensione —> in sostanza: ciò su cui si discute è:

1. se sia definibile come nazionale il sindacato effettivamente operante su tutto il


territorio nazionale o,

2. se sia sufficiente per essere nazionale lo statuto dell’associazione preveda lo


svolgimento di attività di tutela degli interessi dei lavoratori su tutto il territorio
nazionale

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Il punto 2 è stato condiviso dalla Cassazione nel 2002, per la quale vanno valorizzati il
contenuto degli statuti come strumenti di identificazione della legittimazione ex art. 28

Ma nella più recente giurisprudenza prevale il punto 1 -> anche se anche su questo punto
non in maniera univoca:

Il concreto ed effettivo svolgimento di una attività su tutto il territorio nazionale (1) è


dimostrato, da attività di cui costituisce d’espressione tipica:

- non solo la stipulazione del c.c.n. ma anche di Goni altro elemento indicativo in
concreto di una attività sindacale a livello nazionale

- altre volte sembra volersi restringere alla stipulazione del c.c.n. l’indice della diffusione
nazione del sindaco e dell’effettività della sua azione

CHE COSA DEBBA INTENDERSI PER ORGANISMI LOCALI DELLE ASS. NAZIONALI

Secondo la più consolidata giurisprudenza della Cassazione, per organismi locali delle
associazioni sindacali si devono intendere, in quanto più vicini alle reali condizioni
esistenti nei singoli luoghi di lavoro:

le articolazioni più periferiche delle strutture sindacali nazionali -> cioè di norma i sindacati
provinciali di categoria

La stessa Cassazione ha escuso:

- le strutture regionali del sindacato

- degli organismi a livello superiore di quello provinciale

- degli organismi locali delle confederazioni nazionali che non siano incardinati in un
sindacato di categoria nazionale

La specificazione di quali siano gli organismi locali legittimati ad agire deve dedursi dagli
statuti interni delle associazioni medesime che individuano le strutture provinciali o di
zona o di comprensorio.

Non ha avuto successo la tesi di definire come “organismi locali” delle associazioni
sindacali nazionali le RSA e le RSU, esclusione ribadita anche dalla Cassazione, in
quanto: esse sono strutture autonome dal punto di vista organizzativo, non sono inserite
organicamente nella struttura verticale dei sindaci nel cui ambito sono costituite, e sono
rappresentative dei lavoratori della unità produttiva e non del sindacato di rifermento nella
unità produttiva.

L’interesse ad agire: la plurioffensività della condotta


antisindacale

Il ricorso in giudizio per la repressione della condotta antisindacale spetta agli organismi
locali delle ass. sindaci nazionali:“che vi abbiano interesse”

In tal modo il legislatore ribadisce una regola del diritto processuale, secondo cui l’azione
giudiziaria è riservata al titolare di un interesse giuridicamente rilevante.

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I. Resta da affrontare la questione di quale interesse sia giuridicamente rilevante.

I beni protetti dall’art.28 sono:

- libertà

- attività sindacale

- diritto allo sciopero

Essi spettano sia:

- ai lavoratori come singoli e come affiliati ad un sindaco

- alla organizzazione sindacale in quanto tale

Con la Sentenza della Corte Cost. n°54/1974 essa specifica che l’interesse ad agire è un:

Interesse collettivo —> perciò riferibile al sindacato e non al singolo lavoratore; tant’è
che la legge legittima al ricorso della condotta antisindacale il sindaco in via esclusiva.

• Dal punto di vista sostanziale la condotta antisindacale può essere plurioffensiva, nel
senso che può determinare contemporaneamente:

- la lesione di un interesse collettivo di cui è portatore il sindaco

- la lesione di un interesse individuale del lavoratore colpito.

• Dal punto di vista processuale l’interesse giuridico rilevante è però il solo interesse
collettivo —> infatti secondo quanto ha affermato la Corte Costituzionale nella
S.54/1997 il legislatore ha introdotto uno strumento processuale “per tutelare in via
d’urgenza interessi che trascendono quello del singolo e che si aggiunge ai mezzi di
tutela individuale”

La plurioffensività della condotta antisindacale ha riflessi importanti sul piano


processuale, determinando l’autonomia e l’indipendenza del procedimento ex art.28
rispetto alla eventuale azione individuale del lavoratore.

Sono azioni che hanno presupposti processuali diversi.

Potrà allora avvenire che lo stesso fatto (es. licenziamento di un lavoratore) dia luogo a 2
pronunce diverse:

- il ricorso per condotta antisindacale potrebbe essere respinto

- mentre l’azione intentata dal lavoratore potrebbe essere accolta, in quanto potrebbe
essere dichiarato illegittimo il suo licenziamento.

II. Ulteriore questione relativa questa volta alla possibilità di configurare una
condotta antisindacale quando la fonte delle prerogative del sindacato, e nella
specie delle RSA o della RSU che si assumono violate sia il contratto
collettivo e non la legge.

Questione conclusa con un orientamento dei giudici favorevole in questo senso: cioè essi
non escludono che la violazione di diritti sindacali che trovano fonte nel c.c. sia
configurabile come condotta antisindacale.

In particolare non quando si tratti della violazione delle prerogative sindacali ma delle
clausole normative del c.c.; la giurisprudenza ritiene che si configuri la condotta
antisindacale quando la violazione sia reiterata e sistematica ,e sia perciò lesiva della
credibilità del sindaco firmatario.

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III. Un’altra questione che assume rilevo è quella del rifiuto del datore di lavoro di
trattare con il sindacato

Nel nostro ordinamento non è previsto un generale obbligo a trattare con i sindacati per il
datore di lavoro; l’obbligo, tuttavia, può sussistere quando:

- la legge specificatamente lo prevede

- o quando a prevedere la trattativa sia il c.c.

Premesso questo, la giurisprudenza:

- ha tuttavia ravvisato gli estremi della condotta antisindacale nel rifiuto immotivato di
trattare con la RSU, perchè tale comportamento può essere giudicato co orario ai
principi di buona fede e correttezza nelle relazioni industriali

- ha configurato anche come condotta antisindacale l’esclusione dalle trattative per il


rinnovo del contratto collettivo aziendale di una organizzazione sindacale, quando il
precedente c.c. prevedeva la convocazione congiunta di tutte le organizzazioni
sindacali per tutte le ipotesi di contrattazione

- Non considera condotta antisindacale il rifiuto del datore di lavoro di contrarre su laterei
che il c.c. nazionale esclude dalle materie di competenza della contrattazione
decentrata.

Però dobbiamo specificare che:

Nella motivazione della sentenza 231/2013 sull’art.19 la Corte cost. configura come
condotta antisindacale l’eventuale, non giustificata, esclusione dalle trattative contrattuali
di un sindaco, la cui rappresentatività sia “acquisita”—> è sufficiente una tale
affermazione per dire che in tal modo la corte ha introdotto un obbligo a trattare in capo
dal datore di lavoro?

La risposta dei commentatori è prevalentemente negativa —> si violerebbe la libertà


sindacale anche dei datori di lavoro garantita dall’art.39 Cost..

Quindi si considera che la Corte si sia pronunciata con quella frase in merito alla
distinzione concettuale tra: libertà e arbitrio

La libertà del datore di lavoro di trattare con chi vuole non è assoluta: la Corte fa grave sul
datore di lavoro l’onere della giustificazione dell’esclusione dal tavolo negoziale del
sindaco, che nei fatti goda di un significativo consenso tra i lavoratori.

Il procedimento e le sanzioni

Il procedimento regolato dall’art.28 è un procedimento: speciale e di urgenza

Nel primo grado si articola in 2 fasi:

FASE SOMMARIA INNANZI AL GIUDICE DEL LAVORO: con essa si apre il


procedimento nel Tribunale del luogo ove è posto in essere il comportamento
denunziato.
“Il giudice, entro 2 giorni dal deposito del ricorso, convocate le parti e assunte
sommarie informazioni, qualora ritenga sussistete la condotta antisindacale, ordina al
datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione
del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.
Il termine di 2 giorni non è perentorio, il provvedimento del giudice è legittimo anche
se emesso tardivamente.
Il datore di lavoro può fare opposizione al decreto entro 15 giorni dalla sua
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comunicazione alle parti davanti al Tribunale, che decide con sentenza


immediatamente esecutiva.

FASE CHE SI APRE CON LA OPPOSIZIONE AL DECRETO: ove il giudice abbia


ritenuto fondata la opposizione al decreto, la sentenza che chiude questa seconda
fase del giudizio, revocherà il decreto emesso a conclusione della prima fase.
La sentenza può essere impugnata davanti alla Corte D’Appello, secondo le regole
ordinarie del processo del lavoro

Il provvedimento presuppone la attualità della condotta, i comportamenti non possono


essere completamenti esauriti, i cui effetti continuino in ogni caso a prodursi.

Al datore di lavoro che non attemperà all’ordine del giudice si applica la sezione di cui
all’art.650 cod.pen. che prevede: l’arresto fino a 3 mesi o l’ammenda.

Il giudice decide decide solo sulla mancata ottemperanza del datore di lavoro dell’ordine
del giudice, perchè questo è il reato di cui si tratta, ma non è compito suo valutare se la
condotta antisindacale sussisteva o meno.

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PARTE IV: CONTRATTO COLLETTIVO E


CONTRATTAZIONE NEL SETTORE PRIVATO

IL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE

IL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE

Premessa: distinguiamo tra:

- contrattazione collettiva nel settore privato -> questo che facciamo ora

- contrattazione collettiva nel settore pubblico -> disciplinata dalla legge -> Parte V

I contratti collettivi stipulati a partire dalla fine della 2°guerra mondiale sono detti:

“contratti collettivi di diritto comune”

Per segnalare che la loro disciplina, in mancanza di una legge che specificatamente li
riguardi, deve essere rinvenuta nel diritto privato, e più in particolare nelle disposizioni del
codice civile in materia di contratti.

Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, e a causa della mancata attuazione dell’art.39
c.2/3/4 il contratto collettivo pare dunque essere tornato alle origini, almeno nel senso che
negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione dottrina e giurisprudenza si
sono trovate, come già era avvenuto ai primi commentatori all’inizio del secolo ventesimo,
a dover costituire una teoria del contratto collettivo in assenza di una legge che ne
dettasse la disciplina.

A partire dall’immediato dopoguerra, dottrina e giurisprudenza hanno dunque elaborato


una teoria del contratto collettivo di diritto comune basta sul codice civile, alla quale
tuttavia la giurisprudenza ha aggiunto (+) qualche frammento della disciplina del
remoto contratto collettivo corporativo contenuta nel Libro V del codice civile,
contribuendo a complicare il disegno complessivo della costruzione.

Contratto collettivo di diritto comune è =

1. È un’ atto di autonomia privata, che come tale non è fonte del diritto oggettivo.

2. È un contratto stipulato da soggetti (le organizzazioni sindacali) che ne rappresentano


altri (i datori di lavoro e i lavoratori, parti dei contratti individuai di lavoro)

Le nozioni che illustreremo in questo capitolo riguardano il contratto collettivo in generale,


ma hanno come riferimento principale (benché non esclusivo) il contratto collettivo
nazionale di categoria.

Natura giuridica e tipicità del contratto collettivo

La teoria del contratto collettivo di diritto comune trova il proprio fondamento nella teoria
della rappresentanza sindacale che pur essendo stata sottoposta a profonde revisioni non
è mai stata abbandonata: la giurisprudenza continua infatti a farvi ricorso.

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La rappresentanza sindacale oggi non è più concepita come strettamente associativa,


cioè dell’associazione verso i suoi iscritti in nome e per contro dei quali agisce, MA come
rappresentanza tendenzialmente generale, cioè estesa al di fuori della cerchia dei suoi
iscritti.

Rinviando a quanto detto parlando della privatizzazione del diritto sindacale, conseguente
alla mancata attuazione dei commi 2/3/4 dell’art.39 Cost, ricordiamo qui che il contratto
collettivo di di diritto comune è sì un contratto, ma è caratterizzato da uno scopo che ne
spiega insieme il carattere: collettivo e la tipicità.

SCOPO DEL CONTRATO COLLETTIVO:


è quello di esercitare, nei confronti dei datori di lavoro che sono o diverranno soggetti dei
contratti individuali di lavoro, una funzione/parte normativa:

—> funzione che consiste nel predeterminare il contenuto essenziale di quegli stessi
contratti, sia per tanto riguarda il trattamento economico dei lavoratori, sia per quanto
riguarda tutti gli altri istituiti o aspetti che rilevano nella attuazione del rapporto di lavoro.

—> regolare in modo uniforme il contenuti dei contratti individuali di lavoro, dettando
altresì regole per lo svolgimento dei rapporti di lavoro.

—> questa parte comprende tutte quelle clausole (es. orario) che disciplinano il rapporto
di lavoro tra le 2 parti: datore di lavoro e lavoratore, che è il rapporto individuale di lavoro

—> Questa funzione non è l’unica, ma è sicuramente quella fondamentale.

COSA FA NELLA PRATICA IL CONTRATTO COLLETTIVO:


Esso, essendo espressione di autonomia negoziale ovvero di auto-regolamentazione di
interessi da parte di soggetti di diritto privato contrapposti, tende a:

Regolare rapporti in corso di esecuzione o futuri rapporti intercorrenti NON già tra le
parti contraenti (cioè tra i sindacati che lo stipulano) MA tra altri e diversi soggetti (i
singoli datori di lavoro e lavoratori), in virtù del potere di rappresentanza volontaria che
questi hanno conferito o successivamente conferiranno durante la vigenza del contratto,
alla parti collettive, all’atto di adesione alle stesse.

TIPICITA’ DEL CONTRATTO COLLETTIVO:


Il contratto collettivo, anche se privo di specifica disciplina legale, ha una sua propria
tipicità, che assume rilievo anche nell’ordinamento statuale, infatti:

senza definire cosa sia o come debba essere un contratto collettivo la legge prende in
considerazione questo prodotto della autonomia collettiva.

FORMA DEL CONTRATTO COLLETTIVO:


Per quanto in passato un settore della dottrina ritenesse necessaria la forma scritta del
contrato collettivo, prevale attualmente l’orientamento secondo cui, in mancanza di
espresse previsioni legali, vige il principio della libertà di forma desumibile dagli
artt.1350 e seguenti del codice civile. —> specificato dalla Cassazione

Peraltro, il principio costituzionale di libertà dell’organizzazione sindacale rende senz’altro


inapplicabile al contratto collettivo di diritto comune l’art. 2072 c.c. relativo al deposito e
alla pubblicazione del contratto collettivo corporativo.

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Presuppone tuttavia la stesura per iscritto dei contratti collettivi l’art.17 L.936/1986, che
prevede il deposito dei contratti collettivi presso l’archivio del CNEL.

INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO COLLETTIVO:


Secondo l’orientamento prevalente, essendo il contratto collettivo un contratto di diritto
privato, deve essere interpretato secondo i criteri dettati dal codice civile per
l’interpretazione dei contratti —> artt.1362 e seguenti

In particolare l’art.1362 c.c.: dispone che: “nell’interpretare il contratto si deve indagare


quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle
parole” dipone inoltre che “per determinare la comune intenzione delle parti si deve
valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del
contratto”

É detta interpretazione soggettiva, quella interpretazione volta a comprendere la comune


intenzione delle parti. Per metterla in pratica la giurisprudenza privilegia il senso letterale
delle parole, ritenendo che ove il testo sia sufficientemente chiaro il criterio letterale sia
l’unico in grado di determinare la comune intenzione.

Tuttavia, tenendo conto del fatto che i soggetti che stipulano i contratti collettivi sono ≠
dai soggetti destinati della maggior parte delle sue clausole (quelle della funzione/parte
normativa e non quelle della funzione/parte obbligatoria) la dottrina si è espressa nel
senso della prevalenza dei criteri oggettivi di interpretazione -> ai quali il giudice deve
far ricorso quando i criteri soggettivi non siano sufficienti a ricostruire la comune volontà.

Nell’ambito dei criteri oggettivi: particolare rilievo è attibuito al criterio di cui all’art.1363:
“le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a
ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto”—> rilievo spiegato dalle finalità
dell’oggetto del contratto collettivo.

Inoltre piuttosto che ricostruire la comune volontà delle organizzazioni sindacali stipulanti,
il giudice adegua dunque il significato della clausola contrattuale, attribuendole un
significato coerente e non contrario con norme di legge: significato che le parti
potrebbero anche non aver voluto attribuire alla clausola —> ma detto adeguamento sale
ala validità della clausola, dato che il contrasto con una norma di legge la renderebbe
nulla.

Gli interpreti escludono la possibilità del ricorso alla analogia—> non è dunque ammesso:

- colmare le lacune di un contratto collettivo con clausole di un altro contratto collettivo


(analogia esterna);

- estendere le clausole di uno stesso contratto al di là dei casi espressamente previsti


(analogia intenera).

La disciplina processuale:

Fino al 2006:
la dottrina/giurisprudenza riteneva che la interpretazione del contratto
collettivo si sostanziasse in un accertamento di fatto, riservato al giudice di
merito, ed escludeva pertanto la possibilità di ricorso alla Corte di Cassazione
per violazione o falsa applicazione del contratto collettivo; in quanto la
Cassazione è solo giudice che interpreta il diritto non fatti (merito).

Si poteva arrivare in Cassazione solo per vizi di motivazione o per violazione o


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falsa applicazione delle regole di cui agli artt.1362 e seguenti del cod.civ.

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Con il D.lgs 40/2006:


il legislatore ha introdotto uno speciale regime processuale che riduce
la distanza che separa la disciplina del contratto collettivo nel settore
privato da quella del settore pubblico—> qui è previsto il ricorso in
cassazione nei casi vietati sopra detti + la risoluzione in via pregiudiziale
2 Novità:

RIGUARDANTE IL RICORSO PER CASSAZIONE

Il nuovo testo dell’art.360 del cod.proc.civile estende i motivi del ricorso per cassazione
anche alle norme dei contratti collettivi e accordi nazionali di lavoro (nazionali, perchè la
interpretazione dei contratti collettivi aziendali resta di esclusiva competenza del giudice
di merito).

Questa possibilità solleva però una questione: è legittimo domandarsi se tale estensione
non stravolga la tradizionale concezione del contratto collettivo come atto negoziale di
autonomia privata, equiparandolo alla fonti del diritto oggettivo.

Questione posta anche alla Corte Cost. che la ha dichiarata inammissibile con:

Ordinanza n°298/2007

RIGUARDANTE L’ACCERTAMENTO PREGIUDIZIALE MEDIANTE IL RICORSO PER


CASSAZIONE, DELLA VALIDITÀ’, DELL’EFFICACIA ED DELL’INTERPRETAZIONE DEI
CONTRATTI E ACCORDI COLLETTIVI NAZIONALI

Con il D.lgs 40/2006 viene introdotto un nuovo articolo: art.420-bis cod.proc.civile il


quale prevede che: quando per la definizione di una controversia di lavoro sia necessario
risolvere in via pregiudizievole una questione concernente l’efficacia, la validità o
l’interpretazione delle caudale di un contratto o acceso collettivo nazionale rilevante per la
causa in corso, il giudice decide con sentenza non definitiva tale questione,
anticipandone la soluzione e adattando i provvedimenti necessari per la prosecuzione del
giudizio.

Procedura utilizzabile solo quando la clausola contrattuale sia di contenuto oscuro e


possa prestarsi diverse e contrastanti interpretazioni, o sia sospettabile di nullità o
inefficacia.

- La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione, da proporsi


entro 60 g. dalla comunicazione dall’avviso di deposito della sentenza —> il ricorso per
cassazione sospende il giudizio fino alla definizione della questione pregiudiziale.

• Se la cassazione accoglie il ricorso, la causa, cessando in tutto o in parte la


decisione, la è rinviata la giudice a quo, innanzi al quale ciascuna delle parti può
riassumerla.

• Se la cassazione respinge il ricorso, la causa è ugualmente rimessa al giudice di


merito per la riassunzione del medesimo termine

- Se però la sentenza non è stata impugnata passa in giudicato e il giudizio di merito


prosegue regolarmente

Obiettivi della riforma:


- Valorizzare la funzione nomofillatica della Cassazione —> funzione cioè di assicurare
l’intercettazione uniforme del diritto. Essa è certamente valorizzata dal ricorso in via
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pregiudiziale. Però la piena realizzazione di questa funzione può essere limitata da 2


circostanze:

1. libertà del giudice di merito (di un giudizio diverso da quello interessato al ricorso
pregiudiziale) di non uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Cassazione

2. il giudice di merito resta libero di valutare se la questione richieda o meno una


decisione in via pregiudiziale: —> se non ritenga necessario l’intervento in via
pregiudiziale della Cassazione, il giudice del merito deciderà senz’altro la causa

- Deflazionare il processo del lavoro e ridurre la durata del processo —> la deflazione è
affidata alla capacità del procedimento di affermarsi nella pratica giudiziaria come
strumento per la formazione di precedenti utili l’interpretazione dei contratti collettivi

- Razionalizzare la gestione delle cause seriali

La struttura del contratto collettivo. Parte obbligatoria e


parte normativa.

Riprendiamo un concetto accennato prima per fare una fondamentale distinzione tra:

• PARTE NORMATIVA —> è la parte del contratto collettivo maggiore di cui sono
destinatari i datori di lavoro e i lavoratori ai quali si applica il contratto collettivo e per i
quali il contratto collettivo costituisce una delle principali fonti (concorrente con la legge
e con lo stesso contratto individuale) che disciplinano i rapporti di lavoro.
Svolge la funzione fondamentale e originaria del contratto collettivo.

Quindi le clausole che vanno a costituire la parte normativa del contrato collettivo
contengono regole riguardanti:

- Orari di lavoro

- Festività

- Ferie

- Norme disciplinari

- Classificazione dei lavoratori

- Trattamento retributivo …

• PARTE OBBLIGATORIA —> rappresenta un’altra funzione del contratto collettivo, che
progressivamente si è andata ad affiancare a quella normativa. Questa funzione è
assolta da quelle clausole che sono dirette, non a creare diritti ed obblighi delle parti del
contratti individuale di lavoro, ma ad instaurare rapporti obbligatori direttamente tra i
sindacati stipulanti e a regolare i rapporti tra di loro.

Quindi le clausole che vanno a costituire la parte obbligatoria del contratto collettivo
sono:

- le clausole di tregua sindacale

- le clausole di raffreddamento del conflitto

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- le clausole che disciplinano l’organizzaizone delle procedure negoziali -> proroga e


disdetta, trattative per il rinnovo del contratto collettivo

- le clausole che stabiliscono le competenze dei diversi livelli di contrattazione

- le clausole che prevedono la istituzione e il funzionamento delle rappresentanze


sindacali
- le clausole relative all’esercizio dei diritti sindacali da parte delle rappresentanze
sindacali

- le clausole relative ai diritti di informazione sindacale

- clausole di procedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali-> che prevedono obblighi


di comportamento del datore di lavoro

- clausole relative alla istituzione di organismi paritetici


- clausole che prevedono l’istituzione di collegi di conciliazione e arbitrato —> funzione: di
composizione dei conflitti (parte VI) —> esse sono in genere ricondotte alla parte
obbligatoria del c.c. ma hanno una funzione propria.

La dottrina sottolinea il collegamento tra parte obbligatoria e parte normativa del c.c.
affermando: il carattere strumentale della obbligatoria sulla normativa.

La strumentalità non deve essere comunque fraintesa: se una clausola è ricondotta alla
parte obbligatoria del contratto collettivo, è oggetto di una disciplina giuridica diversa da
quella propria della parte normativa.

La violazione delle clausole obbligatorie ha infatti rilevanza solo nei rapporti tra gli
stipulanti del contratto collettivo di diritto comune cioè: i sindacati, e non nei rapporti tra le
parti del contratto individuale di lavoro —> di conseguenza saranno esperiti i rimedi di
diritto comune per inadempimento del contratto e sarà altresì esperibile, se vi sono i
presupposti, il ricorso per condotta antisindacale.

Tale distinzione tale due parti del c.c. è molto chiara dal punto di vista teorico, ma non lo
è sempre dal punto di vista pratico: spesso esse si intrecciano, rendendo in tal modo
rilevante anche sul piano dei rapporti di lavoro la violazione di una clausola della parte
obbligatoria —> quando questo avviene la dottrina qualifica tali clausole con il nome di:

miste

Sono clausole miste:

- Le clausole in materia di scelta dei lavoratori da porre in Cassa Integrazione

- Le clausole di rientro dalla Cassa Integrazione

- Le clausole che prevedono i criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità

- Le clausole in materia di appalti e trasferimento per ramo di azienda che pongono limiti
al decentramento produttivo in funzione di salvaguardare l’occupazione.

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L’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO:

Abbiamo detto che: la funzione essenziale del contratto collettivo è quella di regolare il
contenuto dei contratti individuali di lavoro degli iscritti ai sindacati stipulanti.

In linea di principio, solo il datore di lavoro iscritto all’organizzazione sindacale dei datori di
lavoro stipulante è tenuto, in ragione del proprio vincolo associativo, all’applicazione del
contratto collettivo nei confronti dei soli lavoratori iscritti alle organizzazioni sindacali dei
lavoratori stipulanti.
Se poi il datore di lavoro recede dalla propria organizzazione, si libera dall’obbligo di
applicare i contratti collettivi successivi al recesso, restando il suo obbliò limitato
all’applicazione del solo contratto vigete nel momento in cui il recesso si è verificato, e
fino alla scendeva del contratto stesso.

Distinguiamo:

- Efficacia oggettiva
- Efficacia soggettiva —> individua i destinatari, cioè gli obbligati alla applicazione
del contratto collettivo

L’efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune resta comunque limitata;
in quanto dal punto di vista strettamente giuridico l’efficacia erga omnes può essere
garantita solo dalla legge. Tanto limitata che, negli anni 50’ il maggior problema era
certamente quello della diffusa disapplicazione del contratti collettivi: problema di
dimensione tanto imponente che il parlamento fu costretto a porvi rimedio con
l’emanazione di una apposita legge.

L’estensione erga omnes dei contratti collettivi di diritto


comune. Finalità e struttura della Legge Vigorelli.

La L. n°741/1959 “Legge Vigorelli”

—> consentì di realizzare, nel iro di 15 mesi, l’estensione erga omnes dei contratti
collettivi nazionali di categoria e integrativi provinciali stipulati nel corso del declino
precedente.

—> con essa il legislatore si proponeva di risolvere in via transitoria (cioè nell’attesa di una
legge di attuazione del comma 4 dell’art.39 Cost), il problema della limitata efficacia
soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, per la cui applicazione resta
essenziale l’iscrizione del datore di lavoro all’organizzazione sindacale stipulante.

—> l’estensione erga omnes dei contratti collettivi di diritto comune serviva anche per
risolvere il problema della integrale sostituzione dei vecchi contratti collettivi corporativi
ultrattivi

—> è intitolata: “Norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e


normativo ai lavoratori” —> era una legge delega, infatti il Governo era delegato a:
“emanare norme giuridiche al fini di assicurare minimi di trattamento nei confronti di tutti
gli appartenenti ala medesima categoria” —> è la finalità dell’intervento legislativo.

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—> il legislatore delegava dunque il Governo ad emanare decreti legislativi, nei quali
dovevano essere recepiti i contratti collettivi nazionali di categoria e integrativi provinciali
stipulati prima della entrata in vigore della legge

—> L’estensione erga omnes dell’efficacia del contratto collettivo avveniva appunto
mediante la recezione nel decreto -> un decreto per ogni contratto collettivo di cui si
estendeva la efficacia. Per recedere nei decreti i c.c. dovevano essere depositati a tra dei
sindaci stipulanti presso il Ministero del Lavoro, che provvedeva alla loro pubblicazione in
un apposito bollettino.

—> tenendo presente la finalità di detto intervento, è importante precisare che: la Corte
Cost. specificò che l’estensione erga omnes riguardava solo la parte normativa, non
quella obbligatoria. —> S. n°8/1966 e S. n°50/1966

—> prevedeva un dovere per il Governo di: “uniformarsi a tutte le clausole del contratto
collettivo” —> es. non poteva essere modificata la categoria contrattuale, cioè il campo di
applicazione del contratto, come definito nel contratto medesimo

—> non potevano essere modificate o soppresse singole clausole contrattuali -> il testo
doveva essere recepito nella sua interezza, poi sarebbe spettato al giudice dichiarare la
nullità della clausola contraria alla legge, qualora la questione fosse stata sollevata in
giudizio

—> la legge in sostanza si limitava a prescrivere che: tutti i datori di lavoro, iscritti e
non iscritti ai sindacati datoriali stipulanti, che in ragione dell’attività effettivamente
esercitata rientrassero nell’ambito della categoria per la quale era stato stipulato il
contratto collettivo poi recepito nel decreto del Governo, dovessero applicare il
contratto collettivo a tutti i posti dipendenti.

Prevalenza del trattamento più favorevole…

Uno dei punti più rilevanti della legge Vigorelli era l’introduzione del:

principio di maggior favore per i lavoratori come regola del rapporto tra contratti collettivi

Esso costituiva una novità perchè l’art.2077 codice civile, che contiene la regola della
prevalenza delle clausole più favorevoli al lavoratore, disciplina il rapporto tra contratto
collettivo e contratto individuale di lavoro e NON il rapporto tra contratti collettivi.

La legge Vigorelli regolava anzitutto il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello —>
era prevista infatti l’estensione erga omnes:

- sia dei contratti provinciali integrativi (stipulati sulla base del rinvio contenuto nel
contratto collettivo nazionale)

- sia dei contratti provinciali autonomi rispetto ai contratti nazionali (all’epoca poco
frequenti).

In questo ultimo caso l’estensione era però sottoposta alla condizione che essi
contenessero condizioni di miglior favore rispetto al contratto nazionale.

La legge così fissava la regola della prevalenza: del c.c. di inferiore livello più
favorevole, sul c.c. nazionale meno favorevole.

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L’estensione erga omnes, mentre garantiva ai lavoratori di quella provincia la


conservazione del c.c. più favorevole, determinava l’estensione di quel contratto anche a i
lavoratori ai quali non era stato fino a quel momento applicabile.

…e successione nel tempo tra c.c.

Lo stesso principio della prevalenza del contratto collettivo più favorevole era poi
formulata nell’art.7 della legge, che regolava i rapporti tra contratti collettivi nazionali di
categoria e la loro secessione nel tempo.

L’art.7 prevedeva:

1. Che il c.c. esteso erga omnes mediante la recezione nel decreto legislativo si
sostituisse di diritto ai trattamenti in atto: ciò che determinava il definitivo venir meno
dei:

- c.c. corporativi ancora applicati

- c.c. di diritto comune applicati Manon estesi erga omnes.

2. Che restavano salve anche le “condizioni di carattere aziendale più favorevoli ai


lavoratori —> dunque: dove il c.c. aziendale applicato nella azienda fosse più
favorevole ai lavoratori del c.c. nazionali e/o provinciale esteso erga omnes, i
lavoratori conservavano il trattamento più favorevole

3. Che il c.c. esteso erga omnes conservasse l’efficacia oltre la scadenza -> fosse cioè
ultrattivo e fino a quando non fosse sostituito da altro c.c. avanti efficacia per tutti gli
apparteniti alla categoria (quindi erga omnes) —> per una sostituzione completa si
necessitava che il contratto collettivo seguite avesse la medesima officia di quello che
si andava a sostituire.

La sostituzione poteva perciò avere luogo solo se:

- IPOTESI 1:fosse stata data attuazione all’art.39 o,


- IPOTESI 2: se fosse stata emanata una nuova legge che consentisse l’estensione
erga omnes oltre il termine di un anno previsto dalla legge Vigorelli.
Nessuna di queste 2 ipotesi si è però realizzata

Per quanto riguarda la IPOTESI 2: il Parlamento aveva fatto un tentativo per rendere più
stabile e quindi meno transitorio il meccanismo della Legge Vigorelli, emanando la:

L. N°1027/1960 -> che prorogava di 10 mesi il termine per il deposito dei c.c.
consentendo così al Governo di emanare i d.lgs. di estensione dei
nuovi contratti stipulati nel frattempo

La S. 106/1962 della Corte Cost. annullò questa legge affermando che: “anche una sola
reiterazione della delega toglie alla legge i caratteri della transitorietà e della eccezionalità
e finisce col sostituire al sistema costituzionale un altro sistema arbitrariamente costituito
dal legislatore e pertanto illegittimo.

La Corte però salvò la legittimità costituzionale della Legge Vigorelli , considerandola un


intervento legislativo di carattere transitorio, giustificato da pressanti ragioni di interesse
pubblico.

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L’applicazione della legge Vigorelli

La legge Vigorelli aveva dettato regole anche in merito al rapporto tra:

c.c. esteso erga omnes e contratto collettivo di diritto comune (successivo).

Secondo quanto previsto dall’art. 7, ferma restando l’efficacia erga omnes del c.c. esteso,
i datori di lavoro affilati alle associazioni dei datori di lavoro che avevano successivamente
stipulato nuovi contratti collettivi di diritto comune e che quindi erano obbligati per
vincolo associato ad applicare tale contratto ai propri dipendenti, potevano sostituire i
trattamenti economici e normativi previsti dal c.c. erga omnes con i trattamenti previsti dal
nuovo con c.c. solo se questi ultimi erano più favorevoli ai lavoratori.

L’applicazione di detto articolo ha dato luogo a varie controversie, sopratutto originate


dalla circostanza che il nuovo c.c. contenga qualche clausola (es. relative alla
retribuzione) meno favorevole rispetto a quelle del contratto collettivo esteso erga omnes.

Segnaliamo 2 orientamenti della giurisprudenza:

1. Nelle prime sentenze emesse in materia la Cassazione aveva operato il confronto tra:
c.c. recepiti in decreto e c.c. di diritto comune con riferimento alle singole clausole,
conformemente all’orientamento seguito per il raffronto tra c.c. e norme inderogabili di
legge —> criterio del cumulo.
Il risultato pratico era: il cumulo fra i trattamenti derivanti dal contratto recepito e quelli
più favorevoli derivanti dal contrato collettivo di diritto comune applicabile

2. Dopo la stessa Corte si è orientata per l’adozione del criterio del conglobamento.
Operando il raffronto con riferimento:

- Alle volte all’insieme delle clausole del contratto

- Altre alla complessiva disciplina di ciascun istituto, conforme a quello utilizzato sul
piano dei rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale di lavoro.

Esempio con l’istinto della retribuzione:

Nel confronto tra contratti collettivi si dovrà guardare all’insieme della disciplina della
retribuzione nell’uno e nell’altro contratto e valutare se, complessivamente il trattamento
retributivo risulti nel secondo contratto più favorevole che nel primo.

Questo cirteiro del conglobamento è tuttora utilizzato dalla giurisprudenza nel raffronto tra
c.c. di diritto comune.

L’estensione del contatto collettivo di diritto comune:

- al datore di lavoro non iscritto

Come abbiamo letto, l’estensione erga omnes dei contratti collettivi ad opera della legge
costituisce nella nostra esperienza giuridica post-costituzionale un episodio unico e forse
non ripetibile.

La legge Vigorelli prendeva prevedeva la sostituzione completa dei contratti collettivi


recepiti nei decreti legislativi solo ad opera di nuovi c.c. aventi la emessi, a efficacia, ma
questi contratti non c’erano allora e non ci sono stati neppure dopo, perchè:

- da un lato il parlamento ha continuato a non dare attuazione all’art.39 cost.

- dall’altro il tentativo di estendere erga omnes i contratti collettivi di diritto comune con il
sistema dei decreti è stato bloccato una volta per tutte dalla Corte Costituzionale.

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Quindi: la legge Vigorelli chiudeva una travagliata vicenda della contrattazione collettiva
post-bellica.

Ma la ripresa della contrattazione collettiva agli insidi egli anni 60 riapriva il problema della
sostituzione dei vecchi c.c. estesi erga omnes con i nuovi c.c. di diritto comune —>
riproponendo per intero il problema della limitata efficacia soggettiva di questi contratti.

La giurisprudenza successiva ha progressivamente elaborato una serie di:

criteri interpretativi —> che consentono di dare applicazione al c.c. di diritto comune
anche al di fuori della rappresentanza sindacale strettamente
intesa.

Sono 2:
1. ADESIONE ESPLICITA
Riguarda il comportamento delle parti del contratto individuale di lavoro, le quali, ai
fini della determinazione del contenuto del contratto, abbiano fatto ESPLICITO
RINVIO al contratto collettivo.
—> così facendo affermano i giudici, le parti hanno recepito il c.c., determinando il
contenuto del c. individuale per relationem.
Quando ciò avviene il datore di lavoro non si può liberare unilateralmente dall’obbligo
di applicare il c.c., in quanto tale obbligo ha font nel contratto individuale

2. ADESIONE IMPLICITA
Riguarda il comportamento del datore di lavoro, il quale non essendo obbligato da un
vincolo associativo ( non iscritto ) decida di applicare spontaneamente, nei contratti
individuali di lavoro di cui è parte, l’intero contratto collettivo o numerose clausole di
esso. Questo metodo costituisce una IMPLICITA ADESIONE al c.c.
Questa implicita adesione opera solo se il numero e l’importanza delle clausole
recepite consente di ritenere che si sia voluto recepire l’intero contratto.
L’adesione ha in ogni caso oggetto ad uno specifico c.c. e non i c.c. successivi, che il
datore di lavoro può dichiara di non voler applicare —> infatti la applicazione
spontanea di un c.c. non dà luogo ad un uso normativo

Il lavoratore che pretende l’applicazione del c.c. dovrà provarne la recezione esplicita o
implicita: ma sarà sufficiente, per soddisfare l’onere ella prova, la mancata contestazione
da parte del datore di lavoro, o la prova che il rapporto tra le parti si sa svolto nel
presupposto dell’applicazione del c.c.

- ai lavoratori non iscritti

La giurisprudenza, sollecitata da una autorevole dottrina, ha affermato che il datore di


lavoro obbligato all’applicazione di un c.c. per:

- vincolo associato

- adesione esplicita

- adesione implicita

è tenuto ad applicarlo nei confronti dei lavoratori che da lui dipendono, senza distinzioni
tra iscritti e non iscritti ai sindaci stipulanti.

Si giustifica per:

- una ragione di praticità

- anche perchè d'altronde i sindacati simulano i contratti collettivi per la genericità dei
lavoratori e non per i soli iscritti —> di ciò troviamo conferma negli AI del 2011 e 2014.

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- anche perchè il datore di lavoro applica in modo uniforme ai propri dipendenti il c.c.
non solo per evitare una doppia contabilità, ma anche per non incentivare con il suo
comportamento l’iscrizione dei lavoratori ai sindacati stipulanti

- Differenziare il trattamento dei lavoratori in ragione della loro affiliazione sindacale


potrebbe costituire violazione degli artt.15/16 dello St.Lav. , anche perchè la differenza
di trattamento sarebbe fondata su una indagine in rondine all’affiliazione sindacale che
è vietata dall’art.8 St.Lav.

Fino a che i c.c. sono stati sottoscritti unitariamente dai sindaci maggiormente
rappresentativi, l’applicazione di questa regola giurisprudenziale, elaborata nell’evidente
intento di garantire, nell’interesse die lavoratori, l’applicazione uniforme del c.c., non ha
dato luogo a particolari problemi.

Il problema si è riproposto più recentemente in termini diversi: a causa della


moltiplicazione dei casi di stipulazione di contratti collettivi separati, la cui applicazione ai
lavoratori iscritti a sindacati non stipulanti è controversa, soprattutto se i lavoratori
mostrano esplicito dissenso in questo senso. —> se ne sono occupati:

- i giudici quando in vari casi i sindacati non stipulati hanno fatto ricorso

- e parti sociali —> nell’AI 2013 e nel T.U. 2014 hanno dettato in materia regole ispirate al
principio di maggioranza, dirette a garantire l’applicabilità del contratto collettivo anche
ai lavoratori iscritti ai sindacati dissenzienti. (P. IV Cap.II s.II )

L’efficacia soggettiva del c.c. “separato”. Rinvio.

Contratto collettivo separato = è un c.c. sottoscritto solo da alcune organizzazioni


sindacali che hanno partecipato ale trattative.

In particolare sono definiti c.c.


separati:

- I contratti di categoria
Stipulati solo da alcune delle organizzazioni sindacali che
- I contratti aziendali
avevano stipulato il precedente contratto, e che
dissentendo dai contenuti del nuovo contratto ne rifiutano
la sottoscrizione

L’applicazione indiretta del c.c. di diritto comune. Il ricorso


all’art.36 Cost.

Un discorso a se merita un orientamento giurisprudenziale che, facendo leva sulla


applicazione da parte del giudice dell’art. 36 Cost (“ sufficienza e proporzionalità della
retribuzione in relazione alla qualità e alla quantità del lavoro”) che consente di fare
indiretta applicazione dei c.c. di diritto comune, sia pure limitatamente alla parte salariale.

Il giudice se ritiene che la retribuzione prevista dal c.individuale di lavoro, inferiore a quella
garantita dal c.c. di categoria (che nella specie non trova applicazione), sia contraria ai
principi di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost. (al quale è riconosciuta
immediata percettività anche nei rapporti tra privati), dichiara la nullità della clausola del
c.individuale, e facendo ricorso all’art. 2099 del cod.civ., in base al quale: “in mancanza di

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norme corporative o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice”,


colma la lacuna coì creatasi nel contratto, determinando egli stesso la retribuzione
proporzionale e sufficiente.

Secondo un orientamento consolidato nella giurisprudenza il c.c. della categoria


merceologica alla quale è riconducibile l’attività esercitata dall’imprenditore, benché non
applicabile nel caso di specie costituisce un: parametro di riferimento ai fini della
determinazione della retribuzione conforme ai principi formulati nell’art.36 Cost.

La giurisprudenza è concorde nell’affermare che i minimi salariali (detti anche "minimi


tabellari”) precisi dalla contrattazione collettiva non devono essere necessariamente
assunti dal giudice (non vincolante), perché se no si attribuirebbe ai c.c. di diritto comune
una efficacia erga omnes che non gli è più propria.

L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL C.C.(ART.2070 COD.CIVILE)

A norma dell’art. 2070 comma 1 codice civile ai fini della applicazione del c.c.
l’appartenenza alla categoria professionale si determinava in base all’attività esercitata
dall’imprenditore.

L’applicabilità di detto articolo al contratto collettivo di diritto comune è esclusa dalla


dottrina unanime, che segnala il contrasto tra questa norma corporativa e e il principio di
libertà sindacale di cui all’art.39 c.1.

Gli orientamenti della giurisprudenza, a differenza della dottrina invece non furono
unanimi.

Per comprendere il significato dei diversi orientamenti interpretativi occorre distinguere:

2 diversi ordini di problemi:

1. Il primo problema sorge quando il datore di lavoro esercita una certa attività (es.
impresa produttrice di tessuti) che rientra nella categoria alla quale si riferisce un certo
c.c. (nell’es. il c.c. della industria tessile), ma non essendo il datore di lavoro iscritto
all’organizzazione stipulante e non avendo aderito, nè esplicitamente nè
implicitamente per fatti concludenti al c.c.:

- non applica alcun contratto collettivo o,

- applica il c.c. di un’altra categoria (es. il c..c dell’industria dei cappelli)

2. Il secondo problema sorge quando, diversamente dalla precedente ipotesi, il datore di


lavoro iscritto ad una organizzazione datoriale applica il c.c. da questa stipulato, ma
che non corrisponde alla attività effettivamente esercitata

Secondo l’orientamento ormai prevalso anche in giurisprudenza, dopo l’intervento delle


S.U. della Cassazione s. N° 2665/1997, vige nel nostro ordinamento il principio della auto-
definzione della categoria in forza del quale spetta unicamente alle organizzazioni
stipulanti definire il campo di applicazione del contratto collettivo, senza alcuna possibilità
di alcuna imposizione eteronoma.

Quindi l’imprenditore associato ad una organizzazione datoriale applica il contratto da


questa stipulato anche se, per ipotesi, l’attività che egli esercita non rientra nell’ambito di
applicazione di quel contratto., o vi rientra solo in parte.

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Il principio della libertà sindacale rende perciò inapplicabile l’art.2070 c.1.

Nonostante ciò la giurisprudenza riconosce una portata residuale a tale disposizione,


attribuendogli in taluni casi:

- l’individuazione dello specifico contratto collettivo applicabile.

- all’art. 2070 viene inoltre riconosciuta la funzione di individuare il c.c. di categoria al


quale rinvia l’art. 36 St.Lav. —> si stratta della: “clausola sociale”, mediante la quale
l’imprenditore al fine di usufruire di benefici accordati dallo stato si obbliga a garantire
ai propri dipendenti trattamenti economici e normativi non inferiori a quelli previsti dai
contratti collettivi di categoria.

Infine, non mancano decisioni nelle quali i giudici ritengono ancora applicabile la regola
contenuta nell’art.2070 c.2 a norma della quale se l’imprenditore esercita distinte attività
autonoma si applicano ai rispettivi rapporti di lavoro i c.c. corrispondenti alle singole
attività: tuttavia, al fine di rispettare il principio della libertà sindacale, l’applicazione dei
diversi c.c. è subordinata alla condizione che il datore di lavoro sia iscritto o meno a un
sindacato o che abbia aderito ai c.c.

P.254/255

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FUNZIONE NORMATIVA E INDEROGABILITÀ’ DEL C.C.

La disposizione più importante nella disciplina del c.c. corporativo era certamente quella
contenuta nell’art.2077 codice civile intitolato: “all’inderogabilità del c.c.”.

Le regole dettate da tale disposizione sono le seguenti:

Il c.c. costituisce la disciplina giuridica come a tutti i rapporti individuali di lavoro fra
datori di lavoro e lavoratore della categoria alla quale si applica il c.c.

I singoli datori di lavoro e lavoratori sono obbligati a uniformare il contenuto del


contratto individuale al c.c.

Le clausole difformi al c.c. nel c.individuale sono sostituite di diritto dalle clausole del
c.c. —> inserzione automatica

Il c.c. spiega la propria efficacia normativa (detta anche reale) nei confronti dei
contratti individuali preesistenti e successivi alla sua entrata in vigore comportando la
modificazione di tutti i contratti individuali di lavoro

Q ciò fanno eccezione le sole clausole dette “speciale condizioni” individuali più
favorevoli ai lavoratori.

L’inderogabilità del c.c. aveva consentito alla dottrina corporativa di costituire la teoria del
c.c. come fonte eteronoma di disciplina dei contenuti dei c.individuali di lavoro.

Con la soppressione dell’ordinamento corporativo, e l’avvio di una nuova esperienza di


contrattazione collettiva che ha natura, come abbiamo visto, privatistica ed efficacia
soggettiva limitata in linea di principio ai soli iscritti alle organizzazioni stipulanti, il
problema del rapporto tra c.c. e c. Individuale doveva riproporsi, e con questo la
questione della applicabilità dell’art.2077 al c.c. di diritto comune.

L’inderogabilità in pejus…

Nel corso degli anni 50 del 1900, la giurisprudenza ed un settore della dottrina
affermarono:

l’applicabilità dell’art.2077 codice civile, separando nettamente la questione


dell’efficacia erga omnes dalla questione della inderogabilità del contratto collettivo.

Si trattò di una importante opera di “decorporativizzazione” dell’art.2077 che consentì di


separare: l’inderogabilità dalla natura pubblicistica del c.c. —> riconnettendola invece alla
funzione di esso.

L’intento evidente di questa operazione era quello di dare forza al c.c. di diritto comune in
un periodo nel quale il dibattito alla attuazione dell’art.39 Cost. era aperto

MA: un altro argo settore della dottrina era contrario alla applicazione dell’art. 2077 al
c.c. di diritto comune in quanto:

la ritenevano incompatibile con la natura privatistica del c.c.

PREVALSE: l’orientamento che si era consolidato era quello favorevole alla applicazione
dell’art.2077 —> in virtù del nesso coessenziale tra inderogabilità e funzione del c.c.,
indipendentemente dalla sua efficacia.

Tant’è che si finì per legittimare la tesi che l’inderogabilità fosse divenuta ormai norma di
diritto giurisprudenziale vivente
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Nonostante la prevalenza di detto orientamento, il problema rimaneva aperto tra le


discussioni dei giuristi, e alla sua SOLUZIONE contribuì il legislatore con:

Art.6 L.533/1973 “riforma del processo del lavoro”.

Il legislatore riformulando l’art. 2113 codice civile stabilì: l’invalidità delle rinunce e delle
transazioni del lavoratore su diritti derivanti da “norme inderogabili della legge e dei
contratti collettivi”.


Dal vecchio testo che sanciva la inderogabilità della legge e delle norme corporative

l’art.2113 —> è stato infatti letto dalla dottrina prevalente come:

1. espressa previsione dell’inderogabilità dei c.c. di diritto comune e,

2. solo secondo alcuni, come implicita previsione dell’applicabilità dell’art.2077.

Sul punto 2 si registrano opinioni divergenti, chi lo ritiene ancora inapplicabile sostiene
che: il c.c. diviene fonte di integrazione del c. individuale per mezzo dell’art.2113, che
attribuisce al contratto collettivo la qualità di fonte normativa inderogabile del contenuto
del contratto individuale.

Sancita/ confermata dal legislatore la l’inderogabilità del contratto collettivo di diritto


comune, resta da chiarire che la funzione di regolamentazione inderogabile dei contratti
individuali assolta dal c.c. equivale a quella propria di una fonte eteronoma rispetto al
contratto individuale.

Qualificare il contratto collettivo di diritto comune come una "fonte eteronoma” significa
significa dire che il c.c. determina la disciplina dei rapporti individuali di lavoro,
indipendentemente, e anche in contrasto, dalla volontà della parti del contratto
individuale, alla stessa stregua per le norme imperative di legge.

Poiché l’inderogabilità del c.c. implica che il contenuto dei cl individuali già stipulati o che
saranno successivamente stipulati si deve uniformare alle clausole del c.c.,
l’inderogabilità implica anche che al sopravvivere di un nuovo c.c. applicabile, i c.
Individuali vi si dovranno uniformare —> diritti e obblighi che trovavano fonte nel
precedente c.c. saranno sostituiti dai nuovi diritti e nuovi obblighi che trovano fonte nel
nuovo c.c

QUINDI: il contenuto dei c.individuali segue le vicende della fonte che li disciplina

…la derogabilità in melius

A norma dell’art. 2077 c.2 del codice civile, alla regola dell’inderogabilità del c.c. fanno
eccezione le sole clausole dette “speciali condizioni” individuali più favorevoli al
lavoratore, che hanno fonte nel c. individuale di lavoro.

Nel contratto corporativo questo poteva avvenire solo se si trattasse di una “speciale
condizione” —> la funzione “livellatrice” assegnata al c.c. corporativo limitava così lo
spazio riservato all’autonomia individuale, restringendolo alla stipulazione di clausole
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poste in essere in relazione a speciali attitudini del lavoratore, che il datore di lavoro
intendere premiare con un trattamento di miglior favore.

Quindi nel periodo corporativo la deroga al c.c. di diritto comune era dunque ammessa
solo per le clausole stipulate intuite personae, cioè per quelle clausole riguardanti il
singolo lavoratore e le peculiarità tecniche della sua prestazione.

Solo recentemente la giurisprudenza ha superato tale orientamento, reinterpretando


l’espressione “speciali condizioni” nel senso più ampio di qualunque clausola più
favorevole al lavoratore, che trovi fonte nel c. individuale, senza che sia necessario
indagare se sia stata stipulata intuitu personae.

EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO

Diversamente dalla legge, i contratti collettivi sono discipline a termine, cioè soggette a
scadenza.

Anche per il fatto che il c.c., essendo un contratto è soggetto al principio generale della
non perpetuità del vincolo obbligatorio, dunque anche s era stata di scadenza non fosse
stata prevista tra le parti, i vincoli obbligatori che trovano fonte nel contratto collettivo non
potrebbero essere perpetui e le parti dovrebbero disporre di uno strumento giuridico
( recesso unilaterale ) per porre essi a termine.

É però necessario specificare:

—> che ove il c.c. abbia un termine di durata, il recesso unilaterale ante tempus sarebbe
illegittimo.

—> la possibilità di recedere spetta però alle sole parti stipulanti: al singolo datore di
lavoro non è consentito recedere unilateralmente ( a meno che non si tratti di un
c.c.aziendale)

I contratti collettivi nazionali di categoria (CCNL) prevedono:

- una durata del contratto la cui definizione è rimessa esclusivamente alla volontà delle
parti.

- secondo il P. 1993 durata del contratto era quadriennale per la parte normative e
duennale per la parte retributiva; a partire dalla applicazione delle nuove regole del
sistema contrattuale la durata è triennale, senza più distinzione tra parte normativa e
retributiva.

- La proroga o il rinnovo tacito di anno in anno del contratto scaduto che possono essere
evitata mediante disdetta, che ciascuna delle parti può dare ordinariamente 3 mesi
prima della scadenza ( la disdetta, non serve ad anticipare la data d scadenza del
contratto ed è ≠ dal recesso unilaterale , ma solo ad evitare che il contratto scaduto
continui a produrre effetti).

La scadenza del c.c. apre una vicenda complessa, legata non solo alle trattative per il
rinnovo, ma anche agli effetti che si producono nella disciplina dei c.individuali
nell’intervallo di tempo che separa la scendeva del c.c. dall’entrata in vigore del nuovo
contratto.

La situazione di vuoto normativo però non si verifica a oggi in quanto è prevista


normalmente dai c.c. una clausola di ultrattività, in base alla quale il c.c. scaduto,
perchè difettato o privo della clausola che permette il rinnovo tacito, resta in vigore fino a
che non sia sostituito da un nuovo contratto collettivo.

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LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Sezione I: il sistema contrattuale


A partire dalla soppressione dell’ordinamento corporativo e dalla ripresa della libera
negoziazione sindacale, il nostro sistema di relazioni industriali ha conosciuto diverse fasi.
Di ciò abbia dato brevemente conto nella Parte II Cap.II, torneremo ora sulla evoluzione
del nostro sistema di relazioni industriali, concentrando l’attenzione sul sistema
contrattuale ì, con particolare riferimento alla sua articolazione interna

Centralizzazione contrattuale e alter ne vicende della


contrattazione articolata

- Nel primo periodo dopo la fine della 2° guerra mondiale e durante tutti gli anni 50 del
1900, la contrattazione collettiva è stata decisamente caratterizzata da:

una forte centralizzazione.

Dominarono il campo gli Accordi interconfederali stipulati tra le confederazioni sindacali


dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro, che trovano applicazione in interi settori e
contenevano discipline relative a grandi materie.

Il livello confederale di contrattazione era assolutamente dominante: ad esso era infatti


affidata la determinazione diretta e rigida delle retribuzioni, le CI, i licenziamenti individuali
e collettivi, la struttura della retribuzione.

Proprio con l’accordo sul conglobamento del 1954, che riconosceva alle Federazioni
nazionali il potere di negoziare autonomamente le variazioni retributive, consentì di dare
nuovo impulso alla contrattazione nazionale di categoria, che fino ad allora aveva
riconosciuto difficoltà e ritardi.

- Lo scenario della contrattazione collettiva subì una notevole modificazione all’inizio degli
anni 60, quando cominciarono le lotte per il rinnovo dei contratti collettivi di importanti
categorie dell’industria, e in particolare di quella dei metalmeccanici, la cui lunga vertenza
si concluse con al stipulazione dei contratti dell’industria pubblica e privata del 1962-3,
che riconoscevano formalmente:

“LA CONTRATTAZIONE ARTICOLATA”—> segnando il passaggio dalla
contrattazione nazionale esclusiva ad un sistema contrattuale coordinato su
più livelli di contrattazione.

In ogni caso la contrattazione decentrata (anche quella aziendale) era ancora n elle mani
dei sindaci provinciali, perchè ancora non erano presenti soggetti sindacali organizzati a
livello aziendale ai quali fosse riconosciuta competenza contrattuale.

-Il nodo della contrattazione aziendale venne al pettine poco dopo, nella stagione delle
lotte operaie del 1968-69, caratterizzata da una intesa attività conflittuale e contrattuale,
che ebbe il proprio sbocco nelle vicende dell’autunno caldo del 1969, il cui epicentro fu il
rinnovo del contratto dei metalmeccanici.

Con la stipulazione di questo contratto si aprì un capitolo nuovo delle relazioni industriali,
nel quale ebbe un largo sviluppo la contrattazione aziendale.

La contrattazione raggiunse nel periodo 1968-73 il massimo di decentramento e il minimo


di istituzionalizzazione: la contrattazione aziendale divenne trainante nel settore
industriale, rompendo i limiti in cui l’aveva costretta il modello di articolazione contrattuale
dei primi anni 60.

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La contrattazione aziendale in questo periodo si diffuse quantitativamente e si Estes


anche nei contenuti, introducendo innovazioni che superano i confini posti dai contratti
nazionali.

Mancavano le regole procedurali per il coordinamento tra i livelli contrattuali. In tutto


questo però il contratto nazionale di categoria non perdeva nè di importanza nè di ruolo.

- A partire dalla seconda metà degli anni 70 del secolo scorso, la crisi economica e le
sfavorevoli condizioni del mercato del lavoro determinarono un processo di nuova
centralizzazione della contrattazione collettiva, che portò al ridimensionamento della
contrattazione aziendale, alla quale sottrasse spazio la politica di modernazione salariale
e la scelta di obiettivi di carattere politico generale da parte delle Confederazioni.

É questo il periodo in cui emerge il problema dei rapporti tra contratti collettivi di diverso
livello: nei contratti aziendali si introducevano talora deroghe peggiorative rispetto al
contratto nazionale di categoria, e assumeva una centralità fino ad allora sconosciuta la
questione della tutela del dissenso dei lavoratori, che contestavano l’operato dei
rappresentanti sindacali.

In questo periodo perdono potere i CdF, che erano stati protagonisti della contrattazione
aziendale. Quest’ultima invece ora tornava sempre più spesso nelle mani dei sindacati
provinciali o addirittura nazionali.

La frustrazione della base, la crisi dei CdF, la stessa centralizzazione contrattuale, tutto
contribuiva ad aprire la crisi di rappresentatività che comincia ad investire le grandi
Confederazioni dei lavoratori

- Una ripresa della contrattazione collettiva a tutti i livelli si ebbe solo nella 2° metà degli
anni 80 del 1900. Ma ancora una volta la ripresa avveniva in un quadro privo di regole

- Le regole arrivarono all’inizio degli anni 90: il Pr. 1993 fu stimolato in un quadro
economico e politico profondamente mutato.

LA DISCIPLINA DEL SISTEMA CONTRATTUALE

Premessa:
Il Protocollo del 1993 poneva per la prima volta le basi di un sistema contrattuale regolato
nella struttura e nel funzionamento.

Le regole del sistema contrattuale sono state successivamente modificate da una serie di
Accordi interconfederali e anche dall’intervento del legislatore.

• NEGLI ACCORDI INTERCONFEDERALI:

Cosa prendeva il Protocollo del 1993:

Il sistema contrattuale era articolato su 2 livelli:

- Il contratto nazionale di categoria—> durata quadriennale per la parte normativa e


biennale per la parte salariale

- Il contratto aziendale —> durata quadriennale

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Questi 2 livelli avevano competenze diverse e non sovrapponibili:

- contratto nazionale di categoria —> ad esso sonettava la determinazione degli


effetti eco. del contratto, in coerenza con i tassi di inflazione programmata, tutelando
il potere di acquisto dei lavoratori, e aumentando i salti in ragione della produttività
del settore interessato

- contratto aziendale —> utilizzare i margini di produttività eccedenti quelli utilizzati a


livello nazionale, definendo trattamenti economici (premi x obiettivi) correlati
all’andamento della produttività delle singole aziende.

Detta ripartizione delle competenze si basava sul sistema delle: clausole di rinvio —> dal
livello nazionale a quello aziendale.

La coerenza tra i 2 livelli del sistema contrattuale era affidata alla disciplina delle RSU e
alla competenza negoziale congiunta di queste con le associazioni territoriali dei sindaci
nazionali

A pochi anni da questa disciplina la Commissione incaricata a comprenderne criticità e i


vantaggi aveva evidenziato il limitato successo della contrattazione aziendale, ancora
concentrata nelle sole aree economicamente forti del Nord. Tuttavia era già in atto un
mutamento della sede tradizionale della contrattazione decentrata.

Nella seconda metà del anni 90 erano infatti aumentate le esperienze di contrattazione
territoriale regionale, provinciale o di distretto —> più vicina alle esigenze delle realtà locali
e delle strutture produttive di piccole dimensioni, alle quali non era in grado di rispondere
nè:

- la contrattazione nazionale centralizzata

- la contrattazione aziendale

La contrattazione territoriale subì però una battuta di arresto negli anni successivi, dopo
aver trovato sostegno nel Patto di Natale (1998), anche a causa di un quadro normativo
disordinato.

Rilanciata nell’Accordo quadro del 2009 ripresa nell'Accordo 2011 la contrattazione


territoriale di prossimità ha trovato espresso sostegno nell’art.8 della L.148/2011, che le
attribuisce competenza in materia di verga a contrato nazionale ed anche alla legge

Primo tentativo di riforma. L’Accordo quadro 22 gennaio 2009

Il sistema contrattuale del P.1993 è rimasto in piedi fino al 2009. Ma della sua riforma si
era già largamente discusso anche negli anni precedenti e le questioni principali erano 3:

1. Alleggerimento del ruolo del contratto nazionale di categoria, con eventuale


sperimentazione a livello nazionale di nuove misure dirette a compensare la carenza di
contrattazione aziendale nelle imprese di piccola e media dimensione.

2. Le clausole di uscita —> la previsione da parte dei contratti nazionali di categoria della
possibilità di introdurre, a livello aziendale e/o territoriale deroghe al contratto
nazionale stesso

3. L’introduzione del livello territoriale di contrattazione , non come livello aggiuntivo cioè
come 3° livello intermedio tra nazionale e aziendale MA come livello alternativo a
quello aziendale

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Ma la questione più controversa era quella della revisione della dinamica degli effetti
economici dei contratti collettivi che secondo il Protocollo del 1993 doveva essere
coerente con i tassi di inflazione programmata.

Raccogliendo parte dei frutti sul dibattito sulla riformare del sistema contrattuale, e dopo
una lunga e faticosa trattativa tra le parti sociali con la mediazione del governo, era stato
stipulato: L’Accordo Quadro del 2009 (AQ).

La CGIL aveva partecipato alla trattativa ma non aveva sottoscritto l’accordo


manifestando dissenso sul contenuto e metodi della negoziazione.

L’Accordo è stato superato nelle sue parti essenziali (quelle sulla contrattazione aziendale
in specifico) dai successivi AI del 2011/ 2013/ e 2014 sottoscritti unitariamente da CGIL,
CISL, e UIL ; e solo alcune parti non regolate dai nuovi AI possono ritenersi confermate.

Però importante faremo rifermento a cosa prevedeva l’AQ 2009:

• Conferma il modello articolato su 2 livelli, dove il:

- Primo livello —> è quello del c.c.n. di categoria -> con vigenza di 3 anni per la
parte normativa e anche per la parte economica, distinzione quindi abrogata.
Al contratto di primo livello era attribuita la funzione di garantire la certezza dei
trattamenti eco. e normativi comuni peer tutti i lavoratori del settore ovunque
impiegati nel territorio nazionale

- Secondo livello —> quello della contrattazione aziendale o alternativamente


territoriale -> con vigenza di 3 anni

• Per la dinamica degli effetti economici il tasso di inflazione programmata di cui al P.1993
era sostituito dal nuovo indice previsionale costruito sulla base dell’IPCA:

- cioè l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia,
depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importanti

- Elaborato da un soggetto terzo

- La verifica circa eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale


effettivamente osservata era affidata ad un Comitato paritetico

• Grande rilievo assumeva nell’AI del 2009, che è l’accordo sempre non sottoscritto dalla
CGIL che ha dato attuazione al AQ 2009, la contrattazione di 2° livello. L’AI del 2009 si
proponeva infatti di incentivare e valorizzare la contrattazione aziendale, o in altenrstvia
quella territoriale, nell’ottica di un decentramento regolato dal centro.

• Era previsto che la contrattazione aziendale si esercitasse nelle materie “delegate” in


tutto o in parte dal c.c.n. di categoria o dalla legge; e dovesse riguardare materie che
non fossero già state destinate ad altri livelli di contrattazione

• Il punto più interessante e innovativo nell’ AI del 2009, nella parte riguardante la
contrattazione di 2° livello era rappresentato dalle: clausole di uscita -> intese dirette a
derogare il c.c.n. di categoria, e questi accordi derogatori dovevano essere
preventivamente approvati dalle parti stipulanti i c.c.n. di lavoro della categoria
interessata.
—> questa parte dell’AI è venuta in considerazione nel dibattito suscitato dal primo
accordo stipulato nel “caso FIAT” (accordo di Pomigliano). L’accordo aziendale della
FIAT, non sottoscritto dalla CGIL; introduceva deroghe peggiorative al c.c.n. della
categoria dei metalmeccanici, ma la clausola di uscita prevista dall’AI del 2009 non era

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applicabile, in quanto non prevista dal c.c.n. di categoria allora vigente. Allora si era
cercato di porre rimedio con un successivo accordo “separato” anche esso.

La riforma in 2 tempi: il sistema contrattuale negli AI unitari

Il sistema contrattuale è stato ricostruito in 2 tempi:

Il primo tempo è rappresentato dall’AI del 2001 :

- Nel quale le parti ribadivano il ruolo centrale del CCNL e nello stesso tempo
affermavano di condividere l’obiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione della
contrattazione collettiva aziendale, precisando però che:
“la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate, in tutto o in
parte dal CCNL o dalla legge.”

- Il CCNL era gerarchicamente sovraordinato rispetto ai contratti di 2 livello, dei quali


doveva:

- predeterminare le competenze

- definire i limiti e le procedure per le “specifiche intese modificative” delle


regolamentazioni contenute nel CCNL di quella categoria consentite a livello aziendale
—> le clausole di uscita erano dunque previste MA ricondotte almeno a regime
sotto il controllo della contrattazione nazionale

- Per quanto riguarda ala contrattazione nazionale la innovazione principale era la


fissazione di una soglia minima di rappresentatività della categoria per l’ammissione dei
sindacati al tavolo negoziale del 5%

Il secondo tempo è rappresentato da: il Protocollo del 2013 e il T.U. del 2014:

- Regole che riguardano al fase iniziale del procedimento negoziale del c.c.n. di
categoria:
«nel rispetto della libertà e autonomia di ogni organizzazione sindacale, le Federazioni
di categoria - per ogni singolo contratto collettivo nazionale - decideranno le modalità
di definizione della piattaforma e della delegazione trattante e le relative attribuzioni con
proprio regolamento. In tale ambito, e in coerenza con le regole definite nella presente
intesa, le organizzazioni sindacali favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di
piattaforme unitarie. (...) Fermo restando quanto previsto al secondo paragrafo, in
assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la
negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali
che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al
50% +1».

- Regole che riguardano la conclusione del procedimento negoziale del c.c.n. di


categoria:
il c.c. sul quale converge il consenso della maggioranza dei sindacati che hanno
partecipato alle trattative, avendo superato al soglia minima di rappresentatività della
categoria, e che, sottoposto a referendum ottiene il consenso della maggioranza dei
lavoratori che ne sono destinatari, è efficace anche nei confronti:

- Dei lavoratori dissenzienti

- Dei sindacati che non lo hanno sottoscritto

Tali regole del 2):

- potrebbero prefigura l’affermazione di una rigida regola di maggioranza: nel sensi che,
posta la partecipazione alla contrattazione nazionale di categoria di una larga platea di
sindaci rappresentativi il c.c. sul quale converge il consenso della maggioranza si
impone a che alla minoranza dissenziente —> ma proprio la previsione della verifica del

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consenso dei lavoratori in caso di divergenze rilevanti tra i sindacati partecipanti alle
trattative rende evidente che le parti hanno ritenuto più opportuno subordinare al
consenso della maggioranza dei lavoratori destinatari, l’applicazione di un contratto sul
quale converga il consenso solo della maggioranza dei sindacati partecipanti alla
negoziazione.

- In ogni casi è chiaro che l’insieme di queste regole non implica l’efficacia erga omnes
del c.c., ma solo l’effetto vincolante nei confronti delle parti che hanno partecipato alla
trattativa.
L’efficacia erga omnes, cioè l’estensione degli effetti del c.c. anche ai sindaci non
partecipanti alla trattativa potrebbe essere stabilita solo dalla legge.

Per quanto riguarda la contrattazione collettiva aziendale:

Essa è una parte molto corposa che il T.U. 2014 ha ripreso dall’AI del 2011, senza
sostanziali modificazioni e riguarda regole di contenuto innovativo rispetto però all’AQ e
AI 2009.

Queste regole riguardano:

- la rappresentatività dei soggetti stipulanti e,

- l’efficacia del c.aziendale


—> cioè la sua applicabilità anche ai lavoratori che aderiscono a sindacati dissenzienti
—> è affidata alla applicazione della regola di maggioranza, diversamente coniugata a
seconda che a stipulare il contratto siano la RSU o le RSA (vedi sez.II)

AI 2018: “Patto della fabbrica”

La contrattazione interconfederale unitaria ha continuato ad intervenire nel sistema


contrattuale anche dopo il 2014.

Ferme restando le regole del T.U. 2014, il più recente AI, che è questo del 2018, introduce
una serie di regole:

- il primo obiettivo —> affidato all’estensione della soglia minima di rappresentanza alle
organizzazioni datoriali, è disboscare la giungla della contrattazione nazionale di
categoria

- Il secondo obiettivo —> creare le condizioni per lo sviluppo virtuoso della


contrattazione aziendale, affidandolo principalmente alla revisione della struttura
salariale

Questo Ai prevede che alcune componenti del TEC (Trattamento economico complessivo)
,saranno definite in sede aziendale, e saranno perciò diversificati da azienda a azienda.

• CON L’INTERVENTO DEL LEGISLATORE

Il primo intervento del legislatore sul sistema contrattuale è contenuto nel:

Art.8 del d.l. 138/2011 -> conferito in Legge n°148/2011

Nella parte dedicata alla contrattazione collettiva definita di prossimità, cioè quella
aziendale e territoriale, il legislatore ha scavalcato L’AI 28 giugno 2011, stipulato appena 2
mesi prima, prevedendo che i contrati collettivi aziendali/territoriali possono derogare, con
effetti erga omnes, ai contratti collettivi nazionali di categoria., senza vincoli nè
procedurali nè sostanziali
—> la serie delle materie su cui è possibile la deroga è aperta, e l’efficacia generale,

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dunque anche nei confronti dei lavoratori iscritti ai sindaci dissenzienti, è condizionata ad
un generico criterio maggioritario.

QUESTO AMPLIAMENTO DEL RAGGIO DI AZIONE DELLA C.AZIENDALE: priva di vincoli


mette in discussione il ruolo centrale affidato dalle parti sociali al CCNL, che dovrebbe
invece continuare a assicurare la uniformità di trattamenti minimi ai lavoratori sul territorio
nazionale.

Inoltre: l'attribuzione di efficacia erga omnes a contratti collettivi aziendali in deroga,

stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi anche solo sul piano

territoriale, e indipendentemente da strumenti di verifica del consenso della

maggioranza dei sindacati rappresentativi, nonché della maggioranza dei lavoratori


interessati, riapre la strada per la contrattazione collettiva separata, che, le parti sociali
hanno cercato di espugnare dalla prassi delle relazioni industriali negli anni precedenti.

Malgrado l'impegno assunto dalle Confederazioni firmatarie dell'AI del 2011

a non applicare questa disposizione di legge ( “Una legge Contro L’accordo”), nella realtà
si registra una certa diffusione della contrattazione aziendale che fa uso dell'ampio spazio
di deroga al contratto collettivo nazionale e alla legge garantito dall'art. 8, legge n.
148/2011. Sino ad ora Governo e parlamento sembra aver dimenticato tale art.8.

Un’altro intervento del legislatore è rappresentato dal:

Art.51 d.lgs. 81/2015

il legislatore si è preoccupato di specificare con art. 51 che:

i contratti collettivi ai quali la legge fa rinvio (con funzione di integrazione o sostituzione


della legge, nonché di deroga alla legge) sono «i contratti collettivi nazionali, territoriali o
aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali
aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria».

Poiché il rinvio all'art. 51 ricorre anche nella legislazione successiva che regola materie
estranee a quelle regolate dal d.lgs. n. 81/201524, l'art. 51 va assumendo il carattere di
regola generale: regola che, secondo alcuni, supera, se non addirittura abroga
implicitamente, anche in ragione della successione delle leggi nel tempo, la regola
contenuta nell'art. 8, legge n. 148/2011.

La tesi sarebbe convincente se vi fosse piena sovrapponibili tra l’art.8 e il 51, ma così non
è, perchè:

- l’art. 8 —> assegna alla “contrattazione di prossimità” la capacità di derogare alla


legge, con efficacia erga omnes, in una ampia serie di materie, una parte delle quali
restano al di fuori del perimetro, pure molto ampio, segnato dalle norme legali di rinvio
alla contrattazione collettiva.

- l’art.51 —> seleziona i soggetti (organizzazioni sindacali) che le leggi, nelle clausole di
rinvio, autorizzano ad intervenire mediante la contrattazione collettiva anche di livello
aziendale.

Ciò non di meno, pare quanto mai opportuno che in tutti gli ambiti nei quali

il legislatore fa rinvio alla contrattazione collettiva sia stata “ripristinata” una corretta
gerarchia delle fonti, nel senso che è la legge ad attribuire, mediante specifici rinvii,
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funzione normativa alla contrattazione collettiva (con efficacia generale al massimo


implicita), e non, come prevede l'art. 8, la contrattazione collettiva di prossimità a vedersi
attribuita, una volta per tutte, una funzione normativa derogatoria efficace erga omnes.

Sezione II: le dinamiche del sistema contrattuale


Premesse: nell’esperienza degli anni passati, la presenza di diversi livelli di contrattazione,
ha aperto una serie di problemi complessi, in quanto nella pratica i 2 livelli di
contrattazione che non avrebbe dovuto intrecciarsi, invece si sono toccati. É avvenuto
che i c.az. abbiano regolato materie già presenti nei c.c.n. di categoria, andando quindi
contro al P.1993, talora introducendo deroghe in pejus al CCNL.

Gli orientamenti della giurisprudenza a cui faremo rifermento si sono firmati proprio nel
contenzioso innescato da queste vicende.

SCADENZA E RINNOVO DEL CONTRATTO COLLETTIVO


NAZIONALE DI CATEGORIA

La scadenza del c.c. apre una fase nuova, governata da altre regole:

1. contrattuali relative alle procedure di rinnovo (regole procedurali)

2. in parte contrattuali e in parte legali in materia di effetti conseguenti alla scadenza c.c.

Il Protocollo del 1993 prendeva che:


- 3 mesi prima della scadenza, i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro dovessero
incontrarsi per avviare le trattative per il rinnovo del c.c.

- Poiché le trattative ordinariamente si prolungano molto oltre la scadenza del c.c., il


P.1993 aveva previsto:

• L’indennità di vacanza contrattuale —> che comportava un aumento della


retribuzione prevista dal contrato ormai scaduto pari:

- al 30% del tasso di inflazione programmato qualora la vacanza contrattuale, cioè


il periodo che va dalla scendendo del c.c. al suo rinnovo, si prolungasse oltre 3
mesi dalla scadenza del c.c.

- al 50% del tasso di inflazione programmato ove la vacanza si prolungasse oltre 6


mesi

• La clausola di tregua sindacale —> stabilendo che durante i 3 mesi precedenti alla
scadenza del contratto e per il mese successivo, le parti non dovessero assumere
iniziative unilaterali ne procedere ad azioni dirette (come sciopero o serrata): la
violazione di questo periodo di raffreddamento del conflitto comportava in capo alla
parte responsabile, l’anticipazione o lo slittamento di 3 mesi del termine a partire dal
quale decorrerà il periodo di vacanza contrattuale.

Queste regole sono state modificate dall’AQ del 2009, e gli AI 2009 di attuazione che
prevedono:
- Il termine per la presentazione delle proposte per il rinnovo del CCNL è di 6 mesi prima
della scadenza del contratto.

- La indennità di vacanza contrattuale è soppressa: al suo posto è previsto “un


meccanismo” che, alla data di scadenza del contratto precedente, riconosce una
copertura economica (non meglio definita); la misura di tale copertura a favore die
lavoratori è stabilita nei singoli c.c.n. di categoria.

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- Le trattative per il rinnovo del c.c. fino al 2009 si erano concluse ordinariamente con
una ipotesi di accordo —> che veniva sottoposta alla approvazione dei lavoratori o
mediante assemblee o referendum; e in caso di esito positivo della consultazione
l’accordo era ratificato ( con effetto retroattivo).

Con il Protocollo 2013 e T.U. 2014:


l’accordo sul quale si sia registrato il consenso delle organizzazioni sindacali che
rappresentano il 50% + 1 dei lavoratori della categoria (dove la rappresentatività è
costituita combinando dato associativo e elettorale) è sottoposta a referendum: l’efficacia
del contratto, e la sua applicazione a tutti i datori di lavoro e lavoratori che ne sono
destinatari, è allora condizionata al consenso espresso nella consultazione della
maggioranza dei lavoratori.

Le regole procedurali per lo svolgimento della consultazione sono definite nei c.c. di
categoria.

Effetti della scadenza del contratto collettivo

In attesa del rinnovo del c.c. e della sua sostituzione con un nuovo contratto, il c..c privo
di clausola di ultrattività e definitivamente scaduto —> cessa di produrre effetti, non
avendo più la efficacia quindi di disciplinare i rapporti di lavoro.

A tali rapporti restano invece applicabili le altre discipline contrattuali e legali vigenti al
momento della scadenza e non travolte dalla scadenza del contratto collettivo; la Cassazione
ha affermato che, dopo la scadenza del c.c., i rapporti di lavoro restano disciplina da esso,
quando risulti per fatti concludenti la prosecuzione della sua applicazione.

L’impatto della scadenza del c.c. sui contratti individuali si giustifica nella teoria che
configura il c.c. come una fonte eteronoma, concorrente con la fonte individuale, oltre con
quella legale.

Secondo l’orientamento prevalente in dottrina e in Cassazione il c.c. non si incorpora nel


c. individuale, ma li regola dall’esterno, come fonte eteronoma inderogabile (art.2077): la
disciplina del c.individuale segue dunque le vicende della sua fonte.

Il contratto individuale è esposto al modificarsi della sua disciplina, determinata dal


succedersi dei c.c. che lo regolano. Ogni modifica intervenuta nella sfera dell’autonomia
collettiva si riflette, così, sui contenuti cel contratto individuale, senza distinzione tra
modifiche migliorative o peggiorative.

La questione della “intangibilità” della retribuzione

Secondo una opinione largamente diffusa in dottrina e anche in una buona parte della
giurisprudenza:

ove l’entità del trattamento economico trovi fonte del c.c. applicato dalle parti del c.
individuale di lavoro (non in una clausola individuale intutitu personae o in un uso
aziendale) alla scadenza del c.c., al quale il c. Individuale si era uniformato, ed in attesa

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dell’entrata in vigore di un nuovo contratto, può essere pattuita a livello individuale una
retribuzione inferiore rispetto a quella prevista dal c.c. scaduto.

Un limite tuttavia sussiste: La cassazione ha più volte ribadito che la nuova disciplina può
modificare in senso peggiorativo il trattamento retributivo precedente—> la retribuzione è
dunque riducibile MA resta in ogni caso ferma la osservanza della tutela del
lavoratore offerta dall’Art.36 Cost.

Poiché è pressi costante die giudice fare riferimento al c.c. per la


determinazione della retribuzione proporzionale e sufficiente, il

trattamento economico previsto dal c.c. scaduto può essere considerato
idoneo ad assicurare una retribuzione conforme al dettato dell’art.36

Benché questo sia l’orientamento prevalente nella giurisprudenza della Cassazione (nel 2003), la
Corte alle volte se ne è discosta. Precisando quanto aveva affermato diversi anni addietro
(1995), la storia contemporanea ha infatti affermato che la scadenza del contratto collettivo non
determina l’automatica cessazione delle clausole a contenuto retributivo, essendo la
retribuzione un bene a rilevanza costituzionale (art.36 Cost.)

Sulla questione sono però intervenute le S.U. della Cassazione, ribadendo che la applicazione
di una regola di ultrattività del c.c. in contrasto con l’intento delle parti stipulanti non è
compatibile con la garanzia dell’autonomia collettiva di cui all’art.39 c.1 Cost —> le clausole
retributive, hanno affermato le Sezioni Unite della Cassazione, non hanno efficacia vincolante
diretta per il periodo successivo alla scadenza contrattuale, pur potendo conservare un rilievo
indiretto sul piano del rapporto individuale di lavoro, quale parametri per la determinazione della
giusta retribuzione ex art. 36 Cost.

QUINDI: potemmo dire che le S.U. hanno provveduto ha reimpostare la questione nei suoi
termini tradizionali e consolidati.

Pur i nuovi assunti in linea di massima non rappresenta un ostacolo il principio della parità
di trattamento —> in quanto secondo l’orientamento prevalente l’ordinamento italiano
non prevede tale principio.

È quello delle S.U. della Cassazione, in contrario a quando


affamato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 108/1989.

Il riassorbimento dei super minimi

La questione del venir meno della parte retributiva del c.c. scaduto non deve essere
confusa con una diversa questione che riguarda: l’eventuale sopravvivenza di quei
trattamenti economici e normativi che trovano fonte nel c. Individuale -> si tratta della

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ipotesi in cui, a livello individuale sia pattuito un livello di trattamento più favorevole di
quello previsto dal c.c.

Ricordiamo allora che:

- da un lato -> la legittimità delle clausole individuali di miglior favore è sancita


dall’art.2077 codice civile, che da sempre la giurisprudenza applica ai rapporti tra c.c.
di diritto comune e c. individuale di lavoro

- dall’altro -> che trattandosi di clausole autonomamente e legittimamente pattuite tra le


parti del contratto individuale, il trattamento economico previsto trova fonte nel c.
Individuale e non nel c.c. scaduto.

Ciò sembra sufficiente a risolvere in senso positivo la questione della sopravvivenza di tali
clausole alla scadenza del c.c., MA la soluzione in realtà non è cosi semplice, in quanto
questi trattamenti possono essere oggetto di RIASSORBIMENTO, e venire perciò meno
con la sopravvenienza del nuovo c.c.

Infatti, secondo un indirizzo interpretativo consolidato, in materia di SUPER MINIMI


opera una presunzione semplice di assorbibilità, cioè di
riassorbimento nel trattamento previsto dal nuovo c.c.,
superabile con la prova o:
Sono eccedenze della retribuzione
rispetto rispetto ai minimi tabellari
- dell’esistenza di una espressa previsione pattizia
contraria o,

- del collegamento causale dell’erogazione con i particolari meriti del dipendente

La giurisprudenza disti due infatti tra:

- SUPER MINIMI GENERICI

—> corrisposti per ragioni non attinenti alle qualità personali del singolo lavoratore

—> per essi vale la presunzione semplice di assorbimento: essi sono dunque
. conglobati nel nuovo trattamento retributivo previsto dal nuovo c.c., a meno che:

- lo stesso c.c. non stabilisca diversamente o,

- le parti del c. individuale non abbiano espressamente pattuito la conservazione ad


personam del super minimo e del suo cumulo con il nuovo trattamento retributivo

- SUPER MINIMI DI MERITO (INTUITU PERSONAE)

—> sono invece sottratti al assorbimento, restando perciò in vita e si cumulano al nuovo
. trattamento retributivo

—> la ragione di questa differenza, rappresentata dal cumulo di detti super minimi, sta
. nella estraneità di tali clausole, di carattere strettamente personale, all’area coperta
. dalla contrattazione collettiva.

—> l’onere della prova che il super minimo sia effettivamente “di merito” e non”generico”
grava sul lavoratore che ne chiede la conservazione.

In Conclusione:

Le clausole più favorevoli del c.individuale possono sopravvivere alle modificazioni che
intervengono a livello della fonte di disciplina del rapporto di lavoro ( il c.c. ), MA:

- da un lato -> deve trattarsi di trattamenti più favorevoli che trovano effettivamente la
loro fonte nel c.individuale

- dall’altro -> deve trattarsi di clausole più favorevoli stipulate intutitu personae

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La sostituzione del nuovo c.c. al c.c. scaduto

Quando al contratto collettivo scaduto faccia seguito il rinnovo del contratto, si verifica la
secessione della nuova disciplina alla precedente. 

La secessione apre il problema della sostituzione dei trattamenti previsti dal c.c. scaduto
con i nuovi trattamenti.

Prima di affrontare questo problema, occorre prima chiarire:

quali siano le circostanze in cui possa verificarsi la successione/sostituzione del nuovo c.c.
al precedente.

La questione si pone quando le parti che hanno stipulato il nuovo c.c. non sono le
medesime che hanno stipulato il precedente —> è il caso di quei c.c. separati

Per co prendere al meglio quali siano i problemi coinvolti faremo ricorso ad un esempio
storico: IL CASO DEL RINNOVO “SEPARATO” DEL CCNL DEI METALMECCANICI

Problemi di efficacia soggettiva del c.c. “separato”

Alla luce dell’orientamento interpretativo di cui abbiamo fatto riferimento nel capitolo
precedente, il datore di lavoro iscritto all’organizzazione datoriale che ha stipulato il c.c. si
obbliga ad applicare il contratto vigente a tutti i propri dipendenti, indipendentemente
dalla loro affiliazione sindacale.

In linea di principio, dunque, quando un nuovo c.c. succede al precedente, la nuova


disciplina succede al precedente dovrà essere applicata a tutti i dipendenti.

La circostanza che una o più delle organizzazioni sindacali che avevano stipulato il
precedente co rato non avessero sottoscritto anche quello nuovo era stata fin qui
considerata, in linea di principio, priva di rilevanza.

MA queste regole sono state elaborate in via interpretativa quando sussisteva una unità di
azione sindacale, e quando dalla applicazione del nuovo c.c. di categoria i lavoratori
traevano vantaggio—> il quadro muta quando venga a meno l’unità di azione
sindacale

La vicenda più importante finita nella aule giudiziarie è quella legata al c.c. dei metalmeccanici,
che ha fatto da sfondo al "CASO FIAT”:

- Il CCNL dei metalmeccanici del 2008 ( in vigore fino al 31 dicembre 2011, ma ultrattivo) era
stato disdettato nel 2009 da FIM-CISL e UILM nella prospettiva della attuazione delle nuove
regole di cui agli AQ e AI di attuazione del 2009, non sottoscritti dalla CGIL.

- Questi sindacati avevano quindi situato con Federmeccanica il 15 ottobre del 2009 un accordo
“separato”.

- Scaduto il c.c. del 2008 si erano aperte le trattative per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici:
Federmeccanica di intesa con FIM-CISL e UILM-UIL avevano escluso dalle trattative la
FIOM, in quanto non firmataria dell’accordo “sperato del 2009”, stipulato mentre era
ancorai vigore il CCNL del 2008 che era stato invece sottoscritto anche dalla FIOM

- Le parti hanno ritenuto che il rinnovo avesse come base di partenza l’a corso del 2009 e gli
accordi successivi, con i quali era stato modificato il CCNL del 2008.

- La FIOM aveva fatto ricorso contro la esclusione dalle trattative, ma il giudice le aveva dato
torto

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Questa complicata vicenda pone una serie di problemi da chiarire:

A) Il primo e principale problema è se, essendo ancora vigente il c.c. unitario del 2008, un
nuovo contratto ( accordi del 2009 e successivi ) potesse sostituirlo, non essendo stato
sottoscritto dal sindaco maggiormente rappresentativo della categoria: FIOM-CGIL, che
giudicava il nuovo c.c. peggiorativo rispetto al precedente.

Premettiamo che la dottrina prevalente è concorde nel ritenere che nulla impedisca alle
parti o una sola di esse di recedere dal contratto prima della scadenza, e soprattuto di
sovrapporre al primo un nuovo contratto; anche la maggior parte dei giudici che sia Ono
pronunciati sulla questione a seguito dei ricordi promossi dalla FIOM è stata di questo
avviso.

MA se a stipulare il nuovo contratto sono alcune e non tutte le parti che hanno stipulato il
c.c. precedente, e questo contratto è ancora in vigore, si verifica una situazione di:
“CONCORRENZA TRA VECCHIO E NUOVO CONTRATTO”

—> in sostanza: il problema della sostituzione si risolve nel problema della applicabilità
del nuovo contrato ai lavoratori che, aderendo al sindacato non firmatario pretendono di
vedersi applicato (fino alla scadenza) il contratto precedente.

Come si risolve?

3 risposte della dottrina:

1. Per il primo orientamento, il nostro sistema di contrattazione collettiva non regolato


dalla legge si basa sul principio di unanimità dei partecipanti al tavolo negoziale e
NON sul criterio proporzionalistico con rilevanza del sindacato di maggioranza come
nel inattuato art.39 comma 4,: chi non è d’accordo può ritirarsi dal tavolo, negando la
firma, ma il contratto collettivo sarà non di meno applicabile a tutti i lavoratori, iscritti e
non iscritti ai sindacati firmatari, in base alla appartenenza del datore di lavoro.
Questa soluzione è certamente coerente alla regola giurisprudenziale secondo la
quale il datore di lavoro iscritto alla organizzazione datoriale che ha stipulato il c.c. si
obbliga ad applicare il contratto vigente a tutti i suoi dipendenti, indipendentemente
dalla loro affiliazione sindacale.
Ma trascura di prendere in considerazione la questione del dissenso dei lavoratori non
rappresentati.

2. Per il secondo orientamento, la tutela della libertà sindacale dei lavoratori legittima il
loro rifiuto di vedersi applicato un contratto collettivo non firmato dal sindaco al quale
aderiscono.
Questa risposta rimette in discussione la regola giurisprudenziale che vincola il datore
di lavoro ad applicare uniformemente il c.c. a tuti i propri dipendenti, prospettando la
necessità di tornare alla concezione della rappresentanza sindacale come
rappresentanza dei soli iscritti al sindacato o, al massimo, dei soli lavoratori
consenzienti.

3. Il terzo orientamento evita di rispondere in sostanza alla domanda, in base ad esso: la


risoluzione del problema non deve essere cercato sul piano della efficacia soggettiva
del contratto collettivo e la sua funzione normativa, ma sul piano della autonomia
individuale.
Nella prassi diffusa il c..c si applica perchè al momento della assunzione, le parti
convengono di fare “rinvio” “dinamico” alla contrattazione collettiva, come fonte di
disciplina del contratto individuale, senza alcun riferimento all’identità dei soggetti
collettivi che hanno firmato il CCNL —> di conseguenza la circostanza che il nuovo
c.c. sia separato non rileva, ma ad essere rilevante è l’obbligo che deriva ad ambedue

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le parti dal contratto individuale che hanno stipulato.


Questo orientamento:

- in primo luogo trascura di considerare che, almeno quando il datore di lavoro sia
iscritto alla organizzazione stipulante, il c.c. opera come fonte eteronoma e la sua
vincolatività non dipende dalla recezione nel contratto individuale mediante
clausola di rinvio

- In secondo luogo, trascura di considerare che la clausola di rinvio vincola il


lavoratore alla applicazione di un determinato contratto collettivo, ma non anche
alle discipline stipulate dai sindacati ai quali non aderisca.

ORIENTAMENTO PREVALENTE: nella giurisprudenza formatasi sin qui sulla vicenda è nel
senso della non applicabilità del nuovo c.c. separato ai lavoratori aderenti al sindacato
non firmatario, o che comunque non abbiano espressamente richiesto l’applicazione del
nuovo contratto separato.

Tuttavia secondo alcuni giudici, gli aumenti salariali previsti dal nuovo contratto collettivo
devono essere applicati a tutti i dipendenti, in quanto la mancata applicazione
costituirebbe una discriminazione collettiva vietata dall’art.16 St.Lav. —> decisione e
valutazione comunque opinabile.

B) Un secondo problema è se, una volta scaduto un CCNL che sia stato sottoscritto solo
da alcune organizzazioni sindacali, il sindacato non firmatario possa essere escluso dalle
trattative per il rinnovo del contratto. Qui le risposte possono variare a seconda della
peculiarità del caso che si esamina

Il caso, che ha portato alla attenzione di tutti i l problema della composizione del tavolo
negoziale è quello del rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, dalle cui trattative
federmeccanica, d’intesa con FIM-CISL e UILM-UIL avevano escluso la FIOM.

Nel caso il problema si è posto perchè con l’AI 28 giugno 2011 le Confederazioni avevano
concordantemente definito una siterei di regole relative sia alla composizione del tavolo
negoziale, ammettendo solo i sindacati che raggiungessero la soglia di rappresentatività
del 5%, sia alla funzione del CCNL di garantire trattamenti economici e normativi uniformi
a tutti i lavoratori destinatari.

Tali regole sono state successivamente confermate dal Protocollo del 2013 e dal T.U.
sulla rappresentanza 2014.

La FIOM esclusa dal tavolo delle trattative per volontà non solo di Federmeccanica ma
anche di FiM-CISL, UILM-UIL, aveva contestato in giudizio a tuti questi soggetti
l’inadempimento degli obblighi contrattuali assunti con la stipulazione del AI del 2011, alla
quale si sarebbero dovuto attenere le Federazioni di categoria che aderiscono alle
Confederazioni firmatarie, chiedendo inoltre al giudice di annullare il CCNL nel frattempo
eventualmente stipulato.

Il giudice, Tribunale Roma 13 maggio del 2013, ha respinto il ricorso, con


l’argomentazione che: l’AI non produce effetti direttamente in capo alle Federazioni di
categoria, che mantengono la propria autonomia rispetto alle Confederazioni alle quali
aderiscono.

Ad avviso del giudice, l’AI è fonte di obbligazione per le sole Confederazioni firmatarie; la
Federazione che adotta comportamenti non coerenti con quanto disposto dall’AI

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certamente responsabile verso la propria Confederazione, ma questa responsabilità non


ha rilevanza esterna verso terzi.

Il giudice ha quindi preliminarmente escluso che l’AI 28 giugno 2011 fosse fonte di
obbligazione per Federmeccanica, FIM-CISL, UILM-UIL, e dunque che imponesse la
presenza al tavolo delle trattative dei sindacati che avessero raggiunto il 5%; di
conseguenza ha escluso che dall’AI potesse derivare l’imposizione di un obbligo a
trattare con il sindacato rappresentativo; perciò ha respinto il ricorso della FIOM.

I diritti quesiti

Torniamo ora all’ipotesi, largamente diffusa nella pratica, in cui non è contestata la
successione di un c.c. nazionale ad un precedente c.c., stipulato dagli stessi soggetti e
per la medesima categoria.

Una massima giurisprudenziale ormai consolidata afferma: in caso di successione tra c.c.
di didietro comune, dello stesso livello ma anche di diverso livello, le clausole del nuovo
contratto si sostituiscono in toto alle precedenti:

- sia nel caso in cui le nuove siano più favorevoli

- sia nel caso in cui le nuove siano meno favorevoli

Facendo proprio l’orientamento della dottrina prevalente, la giurisprudenza afferma che:

“Le disposizioni dei c.c. non si incorporano nel contenuto dei c.individuali dando luogo a
diritti quesiti sottratti al potere dei sindacati, MA invece operano dall’esterno sui singoli
rapporti di lavoro come fonte eteronoma di regolamento concorrente con la fonte
individuale.

La teoria dell'incorporazione è estranea alla nostra Pertanto nella ipotesi di successione


cultura; certamente ha contribuito la lunga esperienza fra c.c., le precedenti disposizioni non
corporativa a rafforzare la convinzione che il contratto sono suscettibili di essere conservate
collettivo sia una fonte eteronoma di disciplina dei secondo il criterio del trattamento più
contratti individuali, sovraordinata rispetto alla fonte
favorevole, che riguarda il rapporto tra
autonoma (cioè al contratto individuale) e inderogabile.

contratto collettivo e contratto


individuale (art.2077)

La sostituzione del nuovo al vecchio contratto non può però incidere sui:

“diritti quesiti dei lavoratori”


—> cioè quei diritti, che trovando fonte nelle clausole del c.c. previgente, siano entrati già
a far parte del patrimonio dei lavoratori in una fase del rapporto già esaurita.

—> il diritto quesito non si congiura invece quando si sia in presenza di stazioni future o
di fattispecie in via di consolidamento relative alla naturale evoluzione del rapporto di
lavoro.

Disposizione di diritti individuali, effetto retroattivo e


transazione collettive

Un problema diverso si pone nel caso della modifica con effetto retroattivo, ad opera di
un successivo c.c., della disciplina di:

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- un beneficio economico (es. premio di produttività) o,

- di un altro trattamento normativo previsto dal contratto previgente

La questione dell’effetto retroattivo della modifica in pejus è stata risolta dalla Cassazione
con la S. 4839/2001, sulla base di 3 regole interconnesse:

1) la disciplina intertemporale del c.c. è affidata alla libera determinazione della


volontà delle parti contraenti, le quali possono quindi attribuire efficacia retroattiva
all’intero contratto o anche a parti di esso.

2) In assenza di specifiche pattuizioni il c.c. non è retroattivo


3) Ove le parti dispongono l’efficacia retroattiva della soppressione di benefici previsti
da accordi precedenti, oppure la decorrenza ex tunc di discipline meno favorevoli,
queste pattuizioni incontrano il limite della intangibilità dei diritti quesiti

La giurisprudenza esclude che il potere di rappresentanza sindacale includa anche il


potere di disporre di diritti individuali dei lavoratori e perciò richiede che i titolari di tali
diritti diano mandato ad hoc.

In dottrina, per contro, si sottolinea come mentre deve escludersi che rientri nel potere
negoziale dei sindacati disporre di diritti dei lavoratori che trovano al loro fonte nella legge
o nel c.individuale di lavoro, rientra invece nella: “attività di amministrazione del contratto
collettivo” e alla competenza propria dei sindacati, la stipulazione di accordi diretti a
risolvere delle controversie interpretative o di applicazione del contratto collettivo in
vigore —> tali accordi modificando il contratto travolgono anche delle situazioni di debito/
credito che da esso traevano origine —> in tale ultimo caso resta però ferma l’intangibilità
dei diritti nascenti del c.c. ma che per essersi perfezionati in capo al soggetto individuale,
rientrano ormai nella sua sfera dispositiva —> alla fine, dunque, il limite al potere
dispositivo delle organizzazioni sindacali è rappresentato dai diritti quesiti dei lavoratori.

IL CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE

La contrattazione collettiva aziendale ha fatto la sua comparsa ufficialmente sulla


scena solo con: la disciplina della contrattazione articolata, che dai contratti dei
metalmeccanici dell’industria pubblica e privata del 1962/3 si diffuse, non senza difficoltà,
in altri c.c. del settore industriale.

In realtà una contrattazione collettiva aziendale di scarso contenuto e dimensioni


esisteva già, perché le Commissioni interne (CI) svolsero una attività contrattuale intensa,
di contenuto essenzialmente economico —> questa contrattazione era priva di
riconoscimento, in quanto gli AI che istituivano le CI escludevano la loro competenza
contrattuale.

In dottrina —> si discusse a lungo sulla natura giuridica dei contratti stipulati dalle CI,

In giurisprudenza —> negava inizialmente una natura giuridica di “c.c.”, in quanto


stipulato da un soggetto non sindacale, che non poteva perciò
rappresentare i lavoratori nella contrattazione.

Successivamente: l’orientamento della giurisprudenza mutò, quando ormai era


unanime il consenso sulla qualificazione del contratto aziendale come contratto collettivo.

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La Cassazione affermò (fine anni 60’, inizio 70’) allora che il contratto aziendale:
“Non è la somma di contratti individuali conclusi tra il datore di lavoro e singoli lavoratori,
ma un atto generale di autonomia negoziale che, concernendo una pluralità di lavoratori
collettivamente considerati e soggettivamente non identificati nel contratto e identificabili
solo quando entrino a far parte di una determinata azienda, realizza una uniforme
disciplina dell'interesse collettivo di costoro con efficacia normativa generalizzata, che è
tipica della contrattazione collettiva anche se limitata ad una sola azienda”

Il riconoscimento al c.aziendale del carattere “collettivo” era diventato unanime:

dopo che la contrattazione collettiva nazionale di categoria aveva introdotto la


articolazione contrattuale, prevedono espressamente che al:

il livello aziendale era assegnata una funzione:


- di integrazione e,
- applicazione di quanto previsto dal c. nazionale.
Nelle clausole di rinvio, il CCNL demandava al c.aziendale il compito di completare e
perfezionare la disciplina del lavoro

Soggetti della contrattazione aziendale erano:


dalla parte dei lavoratori —> sindacati di livello provinciale

Si poneva il problema della efficacia del c.c.aziendale nei confronti dei:

lavoratori non iscritti ai sindacati provinciali che avevano stipulato il contratto, ma solo in
teoria, perchè nella pratica mancarono le occasioni per occuparsene —> perchè:

- questa contrattazione ci mise molto per decollare negli anni 60

- il ciclo conflittuale degli ultimi anni 70’ travolse il sistema della contrattazione articolata,
facendo svolgere al c.aziendale una funzione non integrativa ma sostitutiva/
modificativa del CCNL

- a stipularlo erano soggetti nuovi: Consigli di fabbrica o RSA

L’efficacia generale del c.aziendale -> cioè nei confronti di tutti i lavoratori occupati
nella azienda:
era comunemente affermata o presupposta; questo perchè il contrato prevedeva in
genere trattamenti migliorativi per tutti i lavoratori dell’impresa, non vi era interesse ne per
il datore di lavoro che lo stipulava, ne dei lavoratori che ne traevano vantaggio di
metterne in discussione l’efficacia generale.

Il problema dell'efficacia del contratto collettivo aziendale doveva riemergere, e non


a caso, nel dibattito (e specialmente nella giurisprudenza) verso la fine degli anni settanta.
La situazione era profondamente cambiata:

- da un lato si intensificavano i casi di contratti aziendali che derogavano in pejus al


contratto collettivo nazionale, provocando il dissenso di gruppi di lavoratori che ne
rifiutavano l'applicazione;

- d’altra parte, il legislatore faceva sempre più spesso rinvio alla contrattazione collettiva
(anche aziendale) devolvendole il potere di introdurre deroghe a talune disposizioni di
legge. Anche in questo caso si poneva il problema dell'efficacia del contratto aziendale,
quando a stipularlo fossero soggetti (come le RSA, o come gli stessi CdF) privi di
potere di rappresentanza generale dei lavoratori nell'ambito dell’azienda.

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L’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale:

orientamenti giurisprudenziali

In mancanza di discipline legali e contrattuali a cui fare riferimento, il problema legato alla
efficacia soggettiva del c.aziendale è stata in passato ripetutamente affrontato dalla
giurisprudenza.

1993 -> solo in questo anno con Il P. 1993 sopravvenne la disciplina contrattuale che
regolava:

- i rapporti tra i diversi livelli di contrattazione

- la competenza contrattuale della RSU

- MA NON REGOLAVA sulla efficacia del contratto stipulato dalla RSU


|QUINDI|: la giurisprudenza ha elaborato una propria teoria, che però oggi deve fare i
conti con le nuove discipline contrattuali legali che sono sopravvenute nel tempo, nelle
quali l’efficacia del c.aziendale è stata direttamente collegata alla rappresentatività dei
soggetti stipulanti.

La Cassazione ha affermato: “il c.c.aziendale, che si trova in una condizione paritaria quanto a
forza giuridica rispetto al c.c. di superiore livello (CCNL), vincola, indipendentemente dalla loro
affiliazione sindacale, tutti i lavoratori della azienda, stante l’attitudine del c.aziendale ad
incidere su interessi collettivi indivisibili dei lavoratori”

Questa parte ha suscitato problemi di conflitto tra contratti di diverso livello.

A questa “teoria dell’indivisibilità dell’interesse collettivo” però è importante aggiungere


che:

Essa trovava un temperamento nella giurisprudenza della Cassazione che escludeva


l'efficacia dell'accordo aziendale nei confronti dei lavoratori non aderenti alle associazioni
sindacali stipulanti, ovvero aderenti alle associazioni non firmatarie di cui condividevano
l'espresso dissenso, ma solo quando tale accordo contenesse disposizioni peggiorative
della precedente disciplina.

Oppure:

Un interesse collettivo indivisibile, che giustifica l'efficacia generale del contratto collettivo
aziendale, pareva alla Corte ravvisabile quando la deroga in pejus fosse in qualche modo
compensata da un vantaggio corrispondente ad un interesse collettivo dei lavoratori (ad
esempio, si diminuisce la retribuzione, ma si salvano posti di lavoro); dove tale
compensazione mancasse del tutto, il contratto avrebbe vincolato solo coloro che sono
vincolati in base alle regole della rappresentanza associativa (dunque gli iscritti al
sindacato o gli aderenti alle RSA stipulanti).

Dalla Giurisprudenza più recente si è ottenuta ad oggi, in conclusione, questa regola, che
rappresenta una correzione parziale alla teoria sopra detta:

Il c.c.aziendale ha una efficacia generale intrinseca, che non viene negata, anzi viene
ribadito che l’estensione generalizzata dell’efficacia soggetti dei c.c.aziendali costituisce
una regola generale in ragione degli interessi collettivi inscindibili che perseguono; ma
mette anche in evidenza come il principio di libertà sindacale imponga di non estendere
l’efficacia del c.c.aziendale ai lavoratori che, aderendo ad un sindacato diverso da quello
che ha stipulato il contratto, ne condividano il dissenso.

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Efficacia degli accordi “gestionali”

Il problema della officia soggettiva del c.c.aziendale ha trovato una soluzione a sé nel
caso di quegli accordi collettivi ai quali si attribuisce una:

FUNZIONE GESTIONALE (o detta di procedimentalizzazione del potere imprenditoriale)

Si tratta di accordi che non hanno la funzione di predeterminare il trattamento economico e normativo dei
lavoratori, bensì quella di concordare un provvedimento di gestione del personale.

Esempio —> procedere per un certo numero di lavoratori al licenziamento collettivo

Questi accordi non producono direttamente effetti sui rapporti individuali di lavoro, e
dunque:

“Non appartengono alle specie dei c.c. normativi, i soli contemplati dall’art.39 c.4 cost.,
destinati a regolare i rapporti individuali di lavoro di una o più categorie professionali o di
una o più singole imprese. Si tratta di un tipo diverso di contratto, la cui efficacia diretta si
esplica solo verso degli imprenditori stipulanti o del singolo imprenditore nel caso di
accordo aziendale” —> S.268/1994 Corte Cost.

Sempre secondo la Corte Cost, la questione dell’efficacia erga omnes non si pone in
riferimento a questo tipo di contratti gestionali: l’imprenditore che al contratto si è
vincolato lo applicherà nei confronti di tutti i suoi dipendenti; ove si tratti di un c.c.
previsto dalla legge, l’efficacia nei confronti dei singoli lavoratori si fonda sulla legge (che
rinvia appunto al c.c.)

Tale soluzione della Corte è stata oggetto di numerose critiche.

CONTRATTI DI SOLIDARIETÀ
Una considerazione a sé meritano i contratti di solidarietà previsti dalla legge n. 863/1984

e successive modificazioni.

Si tratta di contratti collettivi aziendali stipulati dal datore di lavoro con le associazioni
aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, per il
raggiungimento di due distinti obiettivi:

- la salvaguardia dell'occupazione in un caso —> contratti c.d. difensivi: il contratto


prevede la riduzione dell'orario di lavoro e della retribuzione al fine di evitare in tutto o
in parte il licenziamento collettivo; la stipulazione del contratto dà luogo all'intervento
della Cassa integrazione guadagni (CIG) a parziale e temporaneo sostegno del reddito
dei lavoratori.

- l'incremento dell'occupazione nell’altro —> contratti c.d. espansivi: il contratto


prevede la riduzione dell'orario e della retribuzione al fine di incrementare l'organico
aziendale con nuove assunzioni a tempo indeterminato. In questo secondo caso, il
datore di lavoro che assume godrà di benefici contributivi, ma i lavoratori che
subiscono la riduzione dell'orario e della retribuzione non avranno il sostegno della
CIG.

Mentre questo secondo tipo di contratto di solidarietà ha scarso successo pratico, si


registra in questo periodo, a causa della grave crisi in cui versano molte imprese, una
notevole diffusione dei contratti di solidarietà del primo tipo.

I contratti di solidarietà espansivi sono ora disciplinati dal d.lgs. n. 148/2015.

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Efficacia soggettiva del c.aziendale e rappresentatività dei


soggetti stipulanti secondo la disciplina interconfederale

Il problema dell’efficacia del c.c.aziendale (normativo, cioè destinato a regolare i rapporti


individuali di lavoro) si pone, come abbiamo visto, essenzialmente quando all’intento
dell’impresa vi sono lavoratori che pretendono che il contratto, da cui dissentono, non sia
loro applicato perchè o:

- non sono stati rappresentanti nella stipulazione

- sono stati mal rappresentati —> anomalo

L’efficacia generale del c. aziendale è un obiettivo sicuramente importante.

Nell’AI 28 giungo 2011 le parti sociali avevano affrontato il problema dell’efficacia generale
del c.aziendale partendo dai soggetti della contrattazione aziendale.

Le regole stabilite dall’AI sono state ribadite nel T.U. 2014, ed ora daremo conto delle
regola da questo previste:

Della Parte: DATORE DI LAVORO —> non si pongono problemi particolari perchè il
soggetto stipulante è lo stesso datore di lavoro, che stipula il contratto per conto proprio
o con l’assistenza della associazione imprenditoriale d appartenenza, ed assume in
proprio le obbligazioni di cui il contratto è fonte.

Della parte dei: LAVORATORI —> si pongono problemi a causa della possibile presenza
in azienda di rappresentanze diverse: RSU O RSA

1. CONTRATTO AZIENDALE STIPULATO DALLA RSU

Dalla parte dei lavoratori:

- P.1993 agente contrattuale era la RSU e la sua competenza era però concorrente con quella delle
strutture territoriali dei sindacati firmatari del CCNL di categoria.

- AI del 2011 conferma la scelta a favore della RSU ma aveva però attribuito implicitamente alla RSU
competenza contrattuale esclusiva
- T.U. 2014 conferma l’Ai 2011

Quando a stipulare il contratto collettivo aziendale è la RU, e questo organismo collegiale e unitario è
l'unico interlocutore del datore di lavoro, era convinzione già diffusa che il contratto avesse efficacia
generale —> come ha affermato un giudice, «il contratto stipulato dalla RU è vincolante per tutti i
lavoratori che hanno partecipato all'elezione perché il mandato che ha ad oggetto proprio la gestione
degli interessi indivisibilmente riferiti all'azienda, si sovrappone al rapporto associativo»; «nel voto deve
ritenersi compresa la volontà del lavoratore di accettare le regole elettorali e quindi la rappresentanza dei
soggetti risultati vincitori».

QUINDI: la RSU, essendo eletta a scrutinio universale dai lavoratori dell'impresa, li rappresenta tutti:
anche quelli che hanno votato per candidati della minoranza, o addirittura per candidati non eletti,
ed anche quelli che non sono andati a votare, avendone il diritto.

Tuttavia occorre tenere presente che: all’interno delle RSU sono normalmente presenti una maggioranza e
una minoranza, e spesso l’operato della maggioranza non è condiviso da quello della minoranza e ove si
tratti della sottoscrizione di un accordo, avviene che la minoranza lo contesti, e pretenda che non sia
applicato anche ai lavoratori che nella minoranza si riconoscono —> per dare al problema del possibile
conflitto interno alla RSU una soluzione nel senso dell’efficacia generale del c.aziendale l’AI 2011 aveva
stabilito che:

“Ai c.c.aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci per tutto il personale in forza e 139
vincolano tutti i sindaci, espressione delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo
interconfederale, operati all’interno dell’azienda se approvati dalla maggioranza dei componenti delle RSU”
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L’applicazione alla RSU della regola dei maggioranza viene rafforzata dal T.U. 2014, che alla efficacia
generale, già prevista dall’AI del 2011, aggiunge la: esigibilità del c.c.aziendale approvato appunto dalla
maggioranza.

L’esigibilità è a sua volta rafforzata dalla prevista definizione di una: clausola di tregua sindacale —> che
obbliga tutte le componenti delle RSU, incluse le minoranze dissenzienti, ad astenersi da comportamenti
attivi od omissivi che impediscono l’esigibilità dei c.c.aziendali, approvati alle condizioni previste e
disciplinate dal T.U.

Questa rigida regola di maggioranza non è “compensata” dall’introduzione di un meccanismo,


tipicamente il referendum, di verifica del consenso della maggioranza dei lavoratori interessati: verifica
che tuttavia sarebbe necessaria per garantire ai lavoratori la possibilità di esprimersi sull’operato die
propri rappresentanti, almeno quando il c.c.aziendale deroghi in pejus al CCNL di categoria.

2. CONTRATTI COLLETTIVI AZIENDALI STIPULATI DALLE RSA

In tutte le ipotesi in cui al tavolo della contrattazione aziendale non siedano tutti i soggetti che
rappresentano i lavoratori, e in tutte le ipotesi in cui l’accordo non porti la firma di organizzazioni sindacali
rappresentative, si pone il problema dell’efficacia soggettiva dell’accordo.

Anche su questa controversa questione (resa scottante dalle vicende della contrattazione aziendale FIAT
derogatoria "separata") era intervenuto l'AI del 2011. In tale accordo le parti, pur avendo l'evidente
intenzione di rilanciare le RSU, sembravano avere accettato l'idea che in aziende, che pure aderiscono a

Confindustria (e dunque tenute all'epoca ad applicare il Protocollo e l'AI del 1993, per questa parte allora
vigenti), la rappresentanza dei lavoratori potesse essere affidata, anziché alla RSU, alle RSA costituite ai
sensi dell'art. 19 St. lav.

La situazione è stata chiarita con il Protocollo del 2013 e il T.U. 2014, che:

- da un lato ribadiscono in modo netto la scelta a favore della RSU,

- d'altra parte regolano il rapporto tra RSU e (residuali) RSA nel modo che abbiamo già detto.

Per quanto riguarda l’efficacia soggettiva del c.c. aziendale stipulato dalle RSA, il T.U. detta le
seguenti regole:

“In caso di presenza di RSA costituite ex art.19, i suddetti c.c.aziendali esplicano pari efficacia”, cioè
efficacia nei confronti di tutti i lavoratori della azienda, “se approvati dalle RSA costituite nell’ambito di
associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza
delle deleghe relative ai contribuiti sindacali conferite dai lavoratori della azienda nell’anno precedente a
quello in cui avviene la stipulazione, rilevati e comunicati direttamente dall’azienda.

Inoltre, i contratti collettivi aziendali approvati dalle RSA con le modalità sopra indicate devono essere
sottoposti: al voto dei lavoratori promosso dalle RSA a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni
dalla conclusione del contratto, da:

- almeno una organizzazione firmataria del presente accordo o,

- almeno dal 30% dei lavoratori dell'impresa.

Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% +1 degli aventi diritto al voto.
L'intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti».

2 IMPORTANTI DIFFERENZE CON IL C.C.AZIENDALE STIPULATO DALLE RSU:

1. Riguarda il criterio maggioritario adottato: la maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali
fa riferimento al dato associativo —> il c.c.aziendale per essere efficace verso tutti i lavoratori dovrà
essere stipulato dalle RSA costituite nell’ambito dei sindacati che, nel c.aziendale, hanno il maggior
numero di iscritti

2. Riguarda la verifica del consenso/dissenso dei lavoratori destinatari del c.c.aziendale —> è qui
prevista la eventuale verifica ex post del dissenso della maggioranza dei lavoratori ai quali si pretende
che il c.aziendale sia applicato, indipendentemente dal fatto che siano stati rappresentanti nella
negoziazione, perchè non sindacalizzati o aderenti ad un sindaco escluso dalla negoziazione

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LE DIFFERENZE TRA TALI REGOLE STA NELLA DIVERSITÀ DEI SOGGETTI STIPULANTI:

Le RSA non sono elette dai lavoratori, ma costituite ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito di sindaci ai
quali aderiscono; di conseguenza non rappresentano la generalità dei lavoratori, ma ciascuna i lavoratori
che in essa si riconoscono —> per poter applicare il c.aziendale stipulato da una RSA anche ai lavoratori
non rappresentati, le parti sociali hanno ritenuto necessario adottare un meccanismo che consenta di
verificare anzitutto il consenso delle RSA maggioritarie, e in secondo luogo die lavoratori destinatari.

RAPPORTI TRA CONTRATTI DI DIVERSO LIVELLO

Il problema dei rapporti tra CCNL e c.aziendale si pone essenzialmente quando il


c.aziendale deroghi in pejus al CCNL di categoria in vigore e applicato alla impresa.

La deroga in meluis non provoca infatti normalmente problemi, a meno che il CCNL non
preveda inderogabilità.

I problemi possono nascere anche in ordine alla mancata applicazione di un aumento


salariale ai lavoratori che aderiscono al sindacato non firmatario.

I RAPPORTI TRA CONTRATTI DI DIVERSO LIVELLO IN TAPPE STORICHE:


- Protocollo del 1993 —> no “clausola di uscita”-> non si poteva derogare al CCNL

stagione di divisione tra le maggiori confederazioni sindacali-> crisi sistema contrattuale


- Accordi del 2009 —> prevista la innovativa “clausola di uscita”

ritrovata l’unità tra le maggiori confederazioni sindacali almeno sulla definizione delle regole
- AI unitario 28 giugno 2011 —> che pur, confermando la previsione di possibili deroghe
al CCNL ad opera del c.aziendale, a tuttavia assoggettato la stipulazione di Italia
accordi derogatori a condizioni diverse rispetto al 2009.

a poco tempo di distanza


- è intervento il legislatore: la disciplina contrattuale dei c.aziendali derogatori è ancora
diversa da quella prevista dalle parti sociali

allora intervengono nuovamente le parti sociali


- 2013 e 2014 con gli AI più volte citati, che ribadiscono quanto detto nel 2011.

Il contratto aziendale derogatorio

In questo paragrafo ricostruiamo lo stato della questione dei rapporti tra c.c. di diverso livello,
partendo dalla giurisprudenza, per andare alle regole dettate dalle parti sociali fino poi alle regole
dettate dal legislatore.

A) Giurisprudenza
Va premesso l’orientamento in merito: all’efficacia soggettiva del c.c.aziendale che, come
detto, è favorevole a riconoscere l’efficacia generale, salvi i casi di aperto dissennò dei
lavoratori non rappresentati nella negoziazione.

I c.c.aziendali derogatori in pejus sono anche detti:

- ablativi

- gestionali —> termine usato in questo caso nel senso della gestione di una crisi
aziendale, alla quale le parti fanno fronte mediante la stipulazione di un accordo

La stipulazione di c.c.aziendali derogato in pejus è motivata da:

1. Dalla esigenza di gestire situazioni di crisi animali

2. Di contrattare la mobilità dei lavoratori

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3. Di rendere più flessibile l’uso della forza lavoro in cambio di controparte in termini

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La giurisprudenza concordemente ritiene che:

Il c.c. aziendale derogatorio in pejus, stipulato successivamente all'entrata in vigore


del CCNL, possa essere considerato legittimo.

I giudici escludono infatti anche in questo caso l'applicabilità dell'art. 2077 cod. civ., e
dunque la prevalenza del trattamento più favorevole.

La Cassazione in un primo tempo aveva ritenuto che il problema del conflitto tra contratti collettivi di
diverso livello potesse essere regolato in base al criterio cronologico:

secondo cui la norma successiva prevale comunque sulla norma precedente —> la tesi era fondata sul
presupposto della pari dignità tra:

- c.c.aziendale (atto di autonomia negoziale che ha la funzione e l'efficacia normativa tipica di ogni c.c.)

- contratto collettivo nazionale.

La tesi della prevalenza del contratto successivo (1980), ma non il suo presupposto cioè la pari dignità e
funzione dei contratti collettivi indipendentemente dal livello, è stata successivamente abbandonata dalla
S.C., con il decisivo argomento che:

l'applicazione di tale criterio presuppone che si tratti di norme provenienti dalla stessa fonte, mentre nel
caso si tratta di fonti diverse, dotate di pari forza giuridica, e di reciproca autonomia.

La Corte, pur mostrando un certo cauto favore per la tesi della prevalenza del:

- contratto aziendale in quanto norma speciale -> più vicina alle situazioni da regolare,

- sul contratto nazionale -> norma generale,

suggerita da un settore della dottrina, ha ritenuto che il problema possa essere risolto avvalendosi
piuttosto del criterio della competenza:

in base a tale criterio, è legittimo l'accordo aziendale derogatorio in pejus, se la deroga ha ad oggetto
una materia per la quale la contrattazione aziendale può essere ritenuta, interpretando la volontà delle
parti, competente a disporre.

Il criterio della competenza risulta però utilizzabile solo ove:

1. i livelli di contrattazione diano vita ad un sistema funzionalmente coordinato, dal quale sia possibile
dedurre l'esistenza di norme giuridicamente vincolanti in ordine alla ripartizione delle competenze
contrattuali, e

2. i contratti di diverso livello siano conclusi tra soggetti collegati tra di loro nell'ambito di un sistema
organizzato di ripartizione delle competenze.

È questo il caso della contrattazione aziendale successiva al Protocollo del 1993, che si collocava
nell'ambito del sistema contrattuale da questo delineato.

Ciò non toglie tuttavia che nella contrattazione aziendale si verificassero casi di violazione dei limiti di
competenza.

La giurisprudenza, d'accordo con l'opinione prevalente in dottrina, ha ritenuto che le clausole del
Protocollo relative alla competenza dei diversi livelli contrattuali avessero: natura obbligatoria e non
normativa, e che la loro violazione non avesse effetto sulla validità del contratto con cui i limiti erano
stati violati.

Come vedremo oltre (sub b), le regole contrattuali sulla competenza derogatoria della
contrattazione aziendale sono mutate: ma la loro qualificazione come regole della
parte obbligatoria del contratto collettivo sembra ancora attuale.

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B) Le parti sociali
La competenza della contrattazione aziendale a deroghe al c.nazionale è stata negli ultimi
anni al centro di un dibattito, nel quale si è fatta largo spazio l’opinione favorevole a
liberare, almeno in parte, la contrattazione aziendale dal vincolo del rispetto del
c.nazionale.

Il T.U. sulla rappresentanza, che riproduce quanto già detto nel AI 2011, ha previsto la
“clausola di uscita”, vale a dire la possibilità che il c.c.aziendale introduca deroghe,
dette specifiche intese nelle quali rientrano anche le deroghe in pejus, al c.nazionale.

La CLAUSOLA DI USCITA è DIVISA IN 2 PARTI, RELATIVAMENTE A 2 IPOTESI:

1) Nella prima parte è prevista la possibilità che siano stipulati c.c.aziendali derogatori,
ma nei limiti e con le procedure previste dal c.c.nazionale
—> tali contratti avranno efficacia generale se stipulati secondo le regole illustrate
sopra, relative all’efficacia erga omnes del c.c.aziendale (maggioranza della RSU,
oppure RSA maggioritarie ed esito negativo dell’eventuale referendum abrogativo)

2) La seconda parte della clausola si riferisce:

(a) Alla situazione transitoria e,

(b) Al caso, anche futuro, nel quale il c.nazionale non disponga in materia

Il contratto dovrà essere stipulato d'intesa, e cioè congiuntamente, tra la RSU o le RSA e i
sindacati territoriali aderenti alle Confederazioni firmatarie dell'Accordo Interconfederale
—> il contratto dovrà dunque trovare il consenso degli organismi rappresentativi di livello

aziendale e dei sindacati che operano all'esterno dei luoghi di lavoro.

Non è però chiaro se, nei casi (a) e (b), ai fini dell'efficacia generale dei contratti derogatori
dovranno essere applicate le stesse regole che si applicano nell'ipotesi 1: la coerenza
interna dell'Accordo farebbe propendere per la risposta positiva.

C) Il legislatore; Art.8 L. 148/2011 e Art. 51 D.lgs. 81/2015

• Art.8 L.148/2011 —> ha dettato, sotto il titolo di “sostegno della contrattazione collettiva
di prossimità”, nuove regole in materia di efficacia dei c.aziendali e territoriali derogatori

Comma 1-> il legislatore ha attibuito alla contrattazione aziendale (e territoriale) la


competenza a derogare con effetti erga omnes al CCNL

Comma 2-> sono elencate le materie sulle quali può intervenire la contrattazione aziendale
(o territoriale) derogatoria.

Si tratta di materie inerenti all'organizzazione del lavoro e della produzione in riferimento:

a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie;

b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale;

c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime


della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;

d) alla disciplina dell'orario di lavoro;

e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le


collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla
trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del
recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio,
il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento
della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di
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interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento


causato dalla domanda o dalla frazione del coendo parentale …

Comma 2-bis -> la competenza derogatoria è estesa anche alle leggi in materia di lavoro,
fatti salvi solo il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle
normative comunitarie e convenzioni internazionali sul lavoro —> aprendo
seri interrogativi alla conformità di una simile previsione a fondamentali
principi costituzionali

OSSERVAZIONI:
I. I limiti sostanziali/funzionali che l’AI del 2011 pone alla contrattazione aziendale
vengono forzati: ai sensi dell’art.8 la contrattazione aziendale/territoriale può infatti
intervenire su una serie di materie, assai più ampia e genericamente indicata rispetto
a quella prevista dall’Accordo —> che era ampia ma limitata alle gestione di situazioni
di crisi o alla presenza di investimenti significativi.
Questo ampiamente del raggio di azione di una contrattazione collettiva aziendale
mette in discussione il ruolo centrale fino ad ora affidato al CCNL, che le parti hanno
affermato nel AI 2011, e ribadito negli accordi unitari successivi.
Tale ampliamento deve essere controllato, pena la modificazione del ruolo del
contratto aziendale

II. Occorre rilevare le differenze tra la disciplina interconfederale e l’art.8 in tema di


vincoli procedurali:

- Gli Al —> prevedono che le clausole di uscita possano essere stipulate, a regime:
solo nei limiti e con le procedure previste dal contratto nazionale di categoria (in
via transitoria, o nel silenzio del contratto collettivo varranno le regole richiamate sopra,
sub ipotesi 2).

- L'art. 8, comma 1 —> non fa invece alcun riferimento al contratto collettivo nazionale,
prevedendone solo la derogabilità ad opera della contrattazione aziendale o territoriale:
la legge autorizza perciò una contrattazione locale del tutto svincolata da quella
nazionale, e dunque al di fuori del sistema previsto dagli AI.

É vero che questa previsione impedisce certo alle parti sociali di ricondurre la
contrattazione locale sotto il controllo della contrattazione nazionale;
ma non è meno vero che un contratto aziendale che, pur violando le regole imposte
dagli AI, fosse conforme alla legge, non potrebbe essere giudicato invalido.

SE L'ART. 8 TROVASSE EFFETTIVA ED AMPIA APPLICAZIONE COSA SI AVREBBE?

Frammentazione e particolarismo della contrattazione diventerebbero una caratteristica


del nostro sistema di relazioni industriali: non un decentramento regolato della disciplina
delle condizioni di lavoro, ma un aziendalismo spinto ai limiti dell'anarchia

III. Differenze notevoli corrono tra la disciplina interconfederale e l'art. 8 relativamente alla
definizione dei soggetti stipulanti gli accordi derogatori dotati di efficacia generale:

- Della disciplina interconfederale si è detto sopra

- L'art. 8, comma 1, prevede che la contrattazione aziendale o territoriale in deroga


dotata per legge di efficacia generale possa essere stipulata:

a. “da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul


piano nazionale o territoriale”.

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Diversamente da quanto previsto nell'AI, che individua come agenti contrattuali a livello
aziendale la RSU o le RSA, il legislatore assegna la competenza contrattuale a (e non ai)
sindacati comparativamente più rappresentativi non solo sul piano nazionale, ma
anche sul piano territoriale: ciò che costituisce la rottura di una consolidata tradizione
(che ha sempre misurato la rappresentatività su base nazionale), a favore di un criterio
molto incerto;

b. dalle «rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e


degli accordi interconfederali vigenti, compreso l'accordo interconfederale del 28
giugno 2011 (..) a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio
maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali»

Il richiamo all’AI è stato interpretato da alcuni come sostanziale recezione dell’insieme


delle regole procedurali previste dall’accordo —> come se il generico “criterio
maggioritario alludesse proprio a quelle regole”. Ma è anche da dubitare che le cose
stiano così perché:

- il richiamo all’AI è alla lettera limitato alle sole “rappresentano sindacali” e non è invece
esteso all’insieme delle regole dettate al fine di garantire che il c.aziendale derogatorio
sia stipulato da soggetti che rappresentano la maggioranza dei lavoratori interessati,
con regole giustamente differenziate a seconda che a stipulare siano RSA o RSU

- l’art.8 si riferisce ance alla contrattazione territoriale che non è invece prevista dall’AI

- la contrattazione aziendale efficace erga omnes vive, nella previsione del legislatore, al
di fuori di un sistema contrattuale regolato, come lo è invece dal punto di vista dei
vincoli sostanziali e procedurali nell’AI.

• Art.51 D.lgs 81/2015—> Gli interrogativi lasciati dall’art.8 sono molti e per risolverli si
attende appunto l’intervento del legislatore che per molti è questo art.51

Si esclude che questa disposizione abroghi implicitamente o superi l’art.8.

Art.51 specifica che: “i contratti collettivi ai quali la legge fa rinvio (lo stesso d.lgs 81/2015
e leggi successive) sono:

- i contratti nazionali stipulati da associazioni comparativamente più rappresentative sul


piano nazionale, e altresì

- “i c.c.aziendali stipulati dalle loro rappresentanza sindacali aziendali (RSA) ovvero dalla
rappresentanza sindacale unitaria” (RSU)

QUINDI: ove la legge non specifichi il livello contrattuale al quale fa rinvio, deve ritenersi
che il rinvio operi indifferentemente al livello nazionale e a quello aziendale, rispetto al
quale ultimo l’art.51 stabilisce solo i requisiti soggettivi dell’agente contrattuale abilitato.

Al riguardo, oltre a “legificare” le RSU (la cui fonte istituiva è, e resta, contrattuale), sia
pure in via indiretta, e limitatamente alla competenza contrattuale aziendale, il legislatore
prede in considerazione i c.c. aziendali stipulati dalle RSA che fanno capo a (non ai)
sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale.

Il legislatore non solo non tiene conto delle regole fissate nel T.U. 2014 per la verifica della
effettiva rappresentatività nell’ambito negoziale, ma interviene indirettamente anche
sull’art.19 St.Lav., individuando nelle sole RSA costituite nell’ambito delle associazioni

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comparativamente più rappresentative sul piano nazionale quelle dotate, in via esclusiva,
della competenza a contrattare sulle materie oggetto del rinvio da parte della legge.

É legittimo allora porsi interrogativo sulla conformità dell’art.51 ai principi costituzionali di


eguaglianza e libertà sindacale.

Scadenza del c.aziendale e sopravvivenza del c.nazionale

Nel tempo:

- Protocollo del 1993—> aveva previsto una durata determinata per i c.aziendali di 4 anni

- AQ e AI 2009 —> avevano previsto una durata di 3 anni

- AI 2011 e successivi —> nulla dicono, quindi si intende confermata la durata di 3 anni

Premesso questo, è avvenuto speso in passato che c.aziendali stipulati nelle aziende
fossero privi di scadenza.

Questo pone 2 questioni:

A) se ciascuna delle parti possa recedere unilateralmente dal contrato —>


orientamento giurisprudenziale favorevole all’ammissibilità del recesso unilaterale
(detto anche disdetta unilaterale con preavviso), fondata sul principio della non
perpetuità dei vincoli obbligatori.
Effetti della disdetta uni. del c. saranno gli stessi del caso del c.nazionale già visti:

- salvaguardia delle retribuzioni adeguata i sensi dell’art.36 Cost.

- intangibilità dei diritti quesiti

B) se la sopravvenienza del c.nazionale determini automaticamente la scadenza dei


contratti aziendali previgenti —> si pone perchè si tratta di contratti di diverso
livello, relativamente autonomi e stipulati da soggetti in parte diversi (se fossero del
stesso livello si applicherebbe il criterio cronologico, ma non lo sono).
Il linea generale il problema viene affrontato dai c.nazionali nelle clausole di
inscindibilità, di cui la legittimità è dubbia.
La risoluzione relativa alla sopravvenienza del c.nazionale resta in ogni caso
dubbia: è chiaro che la abrogazione dei contratti aziendali per sopravvenienza del
c.nazionale non è nè implicita nè automatica, infatti per far si che ciò si verifichi
devono sussistere 2 condizioni:

1. È necessario che le parti manifestino la loro volontà di sostituire tutte le


preesistenti discipline di cui possono disporre (non le discipline legali, non le
clausole più favorevoli dei c.individuali

2. È necessario che tra contratto nazionale e contratti aziendali, dei quali il


c.nazionale dispone l’abrogazione, esista un rapporto di “sistema”—> cioè
occorre che nel sistema contrattuale vi siano nome giuridicamente vincolanti in
ordine alla ripartizione delle competenze e che i c. di diverso livello siano
conclusi tra soggetti collegati tra loro nell’ambito del sistema organizzato:
questo è il caso della contrattazione collettiva che si svolge nell’ambito del
sistema delineato dagli AI più volte citati.

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CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE E USO AZIENDALE

Nell’analizzare la complessa problematica della secessione/sostituzione tra c.c. del


medesimo livello o di diverso livello, abbaiamo detto che: le clausole più favorevoli del
c.individuale resistono alle modificazioni che intervengono a livello della “fonte” di
disciplina del rapporto (c.nazionale e/o c.aziendale). Deve trattarsi di clausole più
favorevoli intuitu personae.

Molto più problematica la soluzione nel caso in cui il trattamento più favorevole di una
determinata collettività di lavoratori trovi fonte in un uso aziendale

- Cioè: il reiterato comportamento unilaterale del datore di lavoro

- Sulla sua problematica si registrano orientamenti contrastanti in giurisprudenza:


• Prima metà anni 90’—> orientamento consolidato in base al quale: si parlava di uso aziendale
negoziale: è il trattamento più favorevole che trovi fonte nel comportamento unilaterale del datore di
lavoro, reiterato nel tempo, consistente nel corrispondere tale trattamento ad una determinata
collettività di lavoratori. Esso vincolava i lavoratori che soddisfavano le condizioni della sua
applicazione.
Secondo tale orientamento l’uso negoziale si inserisce come clausola più favorevole, nei c.individuali
di lavoro dei singoli dipendenti.
Il trattamento più favorevole, costituendo clausola dei c.individuali nei quali è stata inserita la
“clausola d’uso”, rimane così insensibile, in applicazione dell’art.2077 c.c., alle eventuali
modificazioni in pejus introdotte da un accordo o da un c.c.

• 1996 —> S. 9690/1996 Cassazione ha ispirato un nuovo orientamento in base al quale: l’uso
aziendale è definito come fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano
dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.
L’uso aziendale presuppone non già una semplice reiterazione di comportamenti, ma uno specifico
intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo.
Tale orientamento equipara gli effetti dell’uso aziendale a quelli del c.c.aziendale.
Tale orientamento riporta l’uso aziendale all’intento della dialettica dei rapporti collettivi.
Sollecitato dalla dottrina che avare criticato il precedente nella convinzione che i trattamenti collettivi
che i giudici riconducevano a comportamenti individuali e spontanei del datore di lavoro, dovessero
essere invece ricondotti ad accordi collettivi aziendali, anche informali o taci, in difetto di un
interlocutore sindacale.

Occorre in proposito rilevare che, se effettivamente la fonte del trattamento fosse un uso aziendale
assimilabile (alla luce della volontà delle parti) ad un accordo collettivo, la questione della sopravvivenza
del trattamento ad un accordo collettivo successivo che ne prevedesse la soppressione dovrebbe essere
senz'altro risolta facendo ricorso ai criteri elaborati per regolare la successione tra contratti del medesimo
livello.

Ci pare tuttavia che non si possa presumere sempre e assolutamente che si tratti di un accordo collettivo e
non invece di comportamento unilaterale e spontaneo del datore, e che tutto alla fine debba risolversi
(come peraltro affermano i giudici) nella ricostruzione della volontà delle parti.

• Nella successiva giurisprudenza la Cassazione —>

- conferma l'assimilazione dell'efficacia dell'uso aziendale sul piano dei rapporti individuali a quella del
c.c.aziendale,

- qualifica l'uso aziendale come "fonte sociale” —> così definendo le fonti eteronome:

- contratto aziendale,

- regolamento d'azienda,

- usi aziendali
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dirette a disciplinare in modo uniforme i rapporti di lavoro con riferimento alla collettività impersonale
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Sezione III: il c.c. come “fonte”

CONTRATTO COLLETTIVO COME “FONTE”

• Da un punto di vista formale il contratto collettivo:

- nazionale di categoria,

- territoriale,

- aziendale

ha continuato a vivere nel nostro ordinamento come un contratto di diritto privato,

• Da un punto di vista dei fatti (sostanziale) il contratto collettivo:


sempre più spesso è stato ed è utilizzato dallo stesso legislatore come una vera e
propria fonte del diritto, alla quale la legge delega direttamente funzioni normative,
chiamandola ad integrare la disciplina legale, a sostituirla, ed anche ad apportare ad
essa deroghe su vasta scala.

L'attribuzione di una funzione normativa ai contratti collettivi ha posto problemi di ordine


teorico, ma anche pratico, di notevole rilevanza:

A) Il primo problema consiste nella: individuazione del contratto collettivo al quale si


possa ritenere che la legge abbia fatto rinvio.
Il problema si pone perchè:

- nel nostro ordinamento i c.c. hanno natura privatistica ed efficacia soggettiva


limitata (con l’eccezione dei c.c.territoriali e aziendali previsti dall’art.8 ai quali il
legislatore ha attribuito efficacia erga omnes).

- nessun sindacato ha il monopolio della rappresentanza e dunque possono


coesistere, per una stessa categoria, una pluralità di c.c., in concorrenza tra loro.

Una risposta a questo problema il legislatore l’ha fornita con la l’art.51 rinviando
ciò che abbiamo detto e diremo oltre.

B) Il secondo problema è quello: dell’efficacia soggettiva dei c.c. ai quali la legge abbia
delegato la funzione di integrare, sostituire o modificare la disciplina legale di un
determinato istituto (ancora una volta al di fuori della ipotesi regolata dall’art.8).

3 OPINIONI DIVERGENTI:

1. Ritiene che i c.c. a cui la legge fa rinvio abbaino efficacia erga omnes —> Ci sono
varie spiegazioni di questa opinione:

- una sta nel vedere nel rinvio una vera devoluzione di funzioni normative dalla
legge alla contrattazione collettiva, in ragione della quale il c.c. sarebbe dotato
della stessa efficacia generale propria della legge devolvente. Il c.c. delegato
diverrebbe una fonte extra ordinem.
- L’altra si basa sulla maggiore rappresentatività dei sindacati che li hanno
stipulati, rappresentatività che giustificherebbe la supremazia del c.c. stipulato
da questi sindacati su altre pattuizioni collettive e sulle pattuizioni individuali
degli iscritti e dei non iscritti

2. Esclude la efficacia generale dei c.c. “delegati” (a cui la legge fa rinvio), criticando la
precedente per la sua “pubblicizzazione del c.c.”. Afferma che i c.c. “delegati”
rimangono atti di autonomia privata, quindi il c.c. malgrado il rinvio operato dalla
legge sarebbe ancora una fonte normativa di natura negoziale.

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3. Concorda con la opinione (2) sulla natura dei c.c. “delegati” come atti di autonomia
privata e sulla loro efficacia soggettiva limitata -> inter partes e non ultra partes.
Ma diverge in un aspetto: le clausole contrattuali che contengono limitazioni/
modifiche / integrazioni della legge non hanno funzione normativa, ma si tratterebbe
di clausole obbligatorie, fonte cioè di obbligazione tra le sole parti stipulanti.

É evidente che se si convenisse sulla indiretta, ma implicita, estensione erga omnes


dell’efficacia di questi c.c. “delegati”, inevitabilmente si porrebbe a questione del conflitto
con l’art. 39 c.4. Cost. .Questione che si pone anche nel caso in cui la legge attribuisca
efficacia erga omnes al c.c. aziendale: è il caso dell’Art.8. L.148/2011

Diversificazione funzionale dei contratti collettivi

Il problema dell’eventuale conflitto tra:

- le leggi che fanno rinvio alla contrattazione collettiva estendendo erga omnes l’efficacia
dei c.c. “delegati” e,

- l’art.39 c.4.

ha formato oggetto di alcune decisioni della Corte Costituzionale, che hanno aperto la
strada alla teorizzazione della: DIFFERENZIAZIONE FUNZIONALE DEI C.C.

- Teoria che consente di ritenere che non ogni intervento legislativo che direttamente o
indirettamente estenda l’efficacia dei c.c. sia in conflitto con l’inattuato comma 4.

- Si tratta della s. 268/1994 Corte Cost. nella quale quest’ultima ha qualificato come
contratti gestionali quei c.c. mediante i quali gli imprenditori si auto-limitano
nell’esercizio di un potere altrimenti libero, escludendo che per tali contratti si ponga
la questione dell’efficacia erga omnes negli stessi termini in cui si pone per i c.c. che
regolano il trattamento economico e normativo dei lavoratori —> la corte ha dunque
proposto una diversificazione funzionale che poi è stata approfondita dalla dottrina

- La differenziazione funzionale tracciata dalla dottrina in base al:

- Settore —> settore pubblico è diverso dal privato

- Livello

- Finalità —> integrative o modificative o sostitutive o di deroga, di disposizioni


legali; di trasposizione delle direttive dell’UE

- Carattere gestionale

Resta conclusivamente da osservare che la integrazione tra legislazione e contrattazione


ha comportato un allargamento delle funzioni del c.c. ed una sostanziale anche se non
formale penetrazione di esso tra le fonti del diritto.

Giustamente si rileva come tutto ciò sia avvenuto in un quadro legale inadeguato, nel
quale è evidente la sproporzione tra la rilevanza dei compiti affidati alla contrattazione
collettiva dalla legge e la mancanza di regole generali e certe in materia di selezione dei
soggetti sindacali legittimati a stipulare c.c. ai quali la stessa legge attribuisce
implicitamente efficacia generale

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Sezione IV: rapporti tra legge e contrattazione collettiva

LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E LA LEGGE

Il rapporto tra legge e c.c. è stato tradizionalmente costituito in senso gerarchico:

la legge è inderogabile, e il c.c. può derogare ad essa solo con clausole più favorevoli

ai lavoratori.

QUINDI, REGOLA GENERALE DI QUESTO RAPPORTO E’:

Il c.c. non può apportare deroghe in pejus a ciò che è previsto per legge,
(derivante da plurime sentenze della corte costituzionale)

La legge quindi può porre vincoli e limiti inderogabili alla contrattazione collettiva: purché
ciò sia giustificato dalla presenza di interessi generali.

IL TRADIZIONALE RAPPORTO GERARCHICO TRA LEGGE E C.C:

• Con la legislazione dell’emergenza della 2° metà degli anni 70’, aveva subito molte
alterazioni, che rispondevano ad esigenze di delegiferazione del diritto del lavoro —>
cioè sostituzione della fonte legale rigida con la più flessibile fonte contrattuale.

Nella legislazione del lavoro si era andato infatti progressivamente arricchendo il ruolo
della contrattazione collettiva alla quale la legge delegava direttamente funzioni
normative, chiamandola ad integrare la disciplina legale, e talora ad apportare deroghe
anche in pejus alla legge.

• Con la seconda metà degli anni 80’ —> il fenomeno di alterazione del rapporto
gerarchico aumenta: la legge ha autorizzato la contrattazione collettiva ad attenuare i
vincoli legali nella disciplina di taluni istituti contrattuali, soprattuto nel campo dei
rapporti di lavoro flessibili (contratto a termine; part-time; apprendistato; di
somministrazione) completandola o modificandola.

• Con Legge Biagi (“riforma del mercato del lavoro”) —> si sono verificate modificazioni
importanti nel ruolo assegnato dalla legge alla contrattazione collettiva, e hanno avuto
seguito nella legislazione successiva culminata con l’emanazione dei decreti legislativi
in attuazione della legge delega n°183/2014 (“Jobs Act”).
Nel diritto vigente i numerosissimi rinvii investono molteplici aspetti della disciplina del
contratto di lavoro standard e dei contratti di lavoro non standard.

I RINVII ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA POSSONO DISTINGUERSI IN:

• Necessari —> la legge rinvia al c.c. il compito di integrare la disciplina di un determinato


istituto -> qui l’integrazione è condizione necessaria per rendere utilizzabile tale istituto

• Facoltativi —> la legge prevede come non necessario l’intervento della contrattazione
collettiva -> in caso di inerzia della contrattazione c. la disciplina dell’istituto è affidata:

- alle disposizione suppletive di legge

- all’autonomia individuale

- all’intervento della pubblica amministrazione

Essi sono qualitativamente più rilavanti, e assegnano alla contrattazione collettiva:

- Funzioni di integrazione del precetto legale

- Funzioni di sostituzione del precetto legale -> qui la legge ha funzione suppletiva

- Funzioni di deroga al precetto legale

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Lo spazio lasciato alla contrattazione collettiva è in realtà di tipo: RESIDUALE, perchè:

- da un lato è la legge a dettare minuziose regole che costringono la contrattazione in


uno spazio ristretto e predeterminato

- dall’altro lato perchè la legge accresce lo spazio dell’autonomia individuale (non tanto
collettiva)

Il rapporto tra legge e contrattazione collettiva così istituto mette in evidenza, ad onta del
massiccio ricorso al rinvio, la scelta del legislatore di depotenziare l’autonomia collettiva,
costringendola al ruolo “servente” di un disegno politico che trova realizzazione nella
minuziosa regolazione ad opera della legge dei rapporti di lavoro.

Il rapporto tra legge e c.c. negli artt.8 e 51.

Problemi di costituzionalità.

• Art.8 L.148/2011 —> ci sofferimmo sul comma 2-bis

In questo comma il legislatore ha attribuito alla c.aziendale e territoriale la


competenza a derogare, con effetti erga omnes anche alle leggi in materia di lavoro e
relativamente ad una pluralità di materie.

L’unico limite alla potestà derogatoria attribuita alla contrattazione di prossimità è


individuato dal comma 2-bis nel: rispetto della Costituzione / vincoli derivanti da norme
comunitarie / vincoli derivanti da convenzioni internazionali.

+
Con la s. 221/2012 -> l’elenco delle materie in cui la contrattazione aziendale può
derogare è tassativo e la l’art.8 è una norma eccezionale e non si applica se non nei tempi
e nei casi previsti

Malgrado ciò se questa parte dell’art.8 rimarrà in vigore potrebbero manifestarsi tutte le
sue potenziali capacità di riformare radicalmente il diritto del lavoro, mettendone in
discussine un valore fondamenta: la inderogabilità della legislazione di tutela dei lavoratori

Questo perchè il comma 2-bis assegna alla contrattazione territoriale e aziendale un


potere du deroga alla legge estremamente ampio, aprendo la strada alla sostituzione della
legge dello Stato con discipline aziendali e/o locali, frutto del compromesso, spesso “al
ribasso”, fra interessi privati particolari. —> strada impraticabile

Ciò non significa che la legge non possa in alcun caso essere derogata da una disciplina
contrattuale collettiva, ma perchè la deroga non si ponga in contrasto ai principi
costituzionali che tutelano il lavoro occorre che la legge stessa definisca precisamente
quale contrattazione, quindi livello e rappresentatività dei soggetti stipulanti, ed entro
quali limiti, sia autorizzata ad operare la deroga, escludendo in ogni caso la derogabilità
delle disposizioni di legge che garantiscono diritti fondamentali dei lavoratori.

PROFILI DI INCOSTITUZIONALITÀ DELL’ART.8 COMMA 2-BIS:

- la violazione dell'art. 39, comma 4, che continua ad impedire al legislatore ordinario


di estendere erga omnes l'efficacia dei contratti collettivi, prescindendo dall'attuazione
(almeno) dei principi in esso contenuti.
É vero, come si è da più parti sottolineato, che questa disposizione si riferisce

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espressamente ai contratti collettivi nazionali di categoria (all'epoca gli unici ai quali il


costituente potesse fare riferimento); ma questo non vuol dire che il legislatore possa
attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi aziendali senza tener conto dei
principi contenuti nell'art. 39.
Il pluralismo sindacale e il conseguente criterio proporzionalistico costituiscono i
presupposti ai quali l'art. 39 condiziona l'efficacia generale dei c.c., e questi
presupposti devono sussistere, qualunque sia il c.c. che il legislatore pretende di
estendere erga omnes.

- La discussa violazione all'art. 39, comma 1, se si ritiene che il legislatore abbia


indebitamente interferito nell’autonomia delle organizzazioni sindacali, garantita
appunto dal comma 1, di decidere liberamente in ordine ai rapporti tra i livelli
contrattuali, alle competenze contrattuali delle strutture sindacali, all'applicazione del
principio di maggioranza.

Tutti questi profili di incostituzionalità attendono il vaglio della Corte Costituzionale se mai
ciò sarà.

É importante rilevare in tutto questo che è ormai considerazione diffusa che l’art.8 abbia
perso buona parte del proprio rilievo:

- al cospetto di norme legislative che, intervenendo senza mediazioni sindacali proprio


su alcune delle materie che l’art.8 affidava alla contrattazione di prossimità hanno reso
superfluo ogni ulteriore allentamento tramite i contratti di secondo livello (anche se
nella torria possibile)

- il parziale superamento nei fatti dell’art.8 è frutto dei d.lgs. noti come: JOBS ACT -> nel
quale il legislatore fa largo usi del rinvio alla contrattazione collettiva

• Art.51 L.81/2015 —> che individua attraverso la qualificazione dei soggetti stipulanti
tutti i c.c. (indifferentemente se aziendali o nazionali) ai quali lo stesso d. 81/2015 rinvia

DUBBI DELLA DOTTRINA SULLA COSTITUZIONALITÀ DELL’ART.51:

I dubbi NON investono la scelta dei sindacati comparativamente più rappresentativi quali
soggetti stipulanti dei contratti collettivi nazionali di categoria ai quali la legge attribuisce
funzione normativa (integrativa o derogatoria in pejus della legge): si tratta di una scelta
collaudata, giustificata dalla necessità di selezionare i contratti collettivi ai quali è affidata
la funzione normativa, in base alla affidabilità (maggiore rappresentatività comparativa) dei
contraenti.

I dubbi INVESTONO INVECE la scelta compiuta dI legislatore nell'art. 51 di affidare la


funzione normativa (specie derogatoria e senza delimitazione di campo) a contratti
stipulati oltre che dalle RSU (ma la loro rappresentatività è fuori discussione) dalle RSA.
Queste ultime sono individuate con criteri che non sono quelli previsti dall'art. 19 St. lav.,
e che, soprattutto prescindono dalla verifica della effettiva rappresentatività al livello
aziendale dei sindacati nel cui ambito sono costituite (il potere normativo è conferito
infatti alle RSA costituite nell'ambito dei sindacati comparativamente più rappresentativi a
livello nazionale), e neppure fanno riferimento a quel “criterio maggioritario” richiamato
invece dall'art. 8.

La selezione così compiuta dal legislatore interroga sulla ragionevolezza di una scelta che
rischia di mettere in discussione i principi fondamentali di pluralismo e democraticità
sanciti dall'art. 39 Cost.

L'interrogativo per ora è privo di autorevoli risposte.

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Sezione V: contrattazione collettiva e diritto dell’UE

CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E DIRITTO DELL’UE

Fino all’entrata in vigore del Trattamento di Lisbona (2009), i diritti sociali tra i quali
rientrano i diritti sindacali:

- Associazione sindacale

- Contrattazione collettiva

- Sciopero

dovevano essere “tenuti presenti” dalla Comunità e dagli Stati, ma non costituivano un
limite assoluto e neppure una finalità prioritaria dell’azione della Comunità e degli Stati.

Attualmente lo “statuto” dei diritti sociali è, almeno in teoria, più sicuro dal momento che,
la Carta UE espressamente richiama dall’art.6 comma 1 TUE, è una fonte in senso
tecnico, e rientra nel diritto primario dell’Unione.

Inserisce tra i diritti fondamentali 3 diritti la cui disciplina è esclusa dalle competenze
dell’UE (ai sensi dell’art. 153 c.5 TFUE), che sono:

1. Il diritto di associazione sindacale

2. Il diritto di negoziazione collettiva

3. Il diritto di sciopero

Alcune decisioni della Corte di Giustizia dell’UE hanno portato all’attenzione la questione
dell’ingresso del diritto di sciopero tra i diritti fondamentali garantiti dall’UE e, con esso,
del difficile bilanciamento tra diritto di sciopero e libertà economiche.

Allo stato attuale, tuttavia, l’esclusione dei diritti sindacali dalla competenza di cui
all’art.153 c.5 TFUE implica che l’UE non può intervenire con normative proprie sui
rapporti intersindacali e sul conflitto collettivo, su cui hanno competenza esclusiva gli
Stati membri.

La competenza esclusiva degli Stati membri in materia sindacale non comporta


un’indifferenza dell’UE verso la contrattazione collettiva, che costituisce la forma di
regolazione delle condizioni di lavoro più diffusa nei Paesi europei.

La promozione del “dialogo sociale” tra le parti e della contrattazione collettiva è entrata
stabilmente a far parte dei compiti della Commissione europea.

Il favore del diritto dell’UE verso il modello contrattuale si esprime altresì nella
disposizione di cui all’art.153 c.3 TFUE in base alla quale “uno Stato membro può affidare
alle parti sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive”,
nell’ambito delle materie di cui all’art.153 TFUE.

Lo Stato, che è il soggetto obbligato alla trasposizione delle direttive ove abbia
demandato alle parti sociali il compito della trasposizione mediante contratto collettivo,
deve esercitare anche il controllo sulla loro attività normativa.

Nel Patto di Natale del dicembre 1998, parti sociali e Governo avevano indicato nella
concertazione sociale la via maestra per la trasposizione delle direttive: ciò
malgrado i limiti e le difficoltà che la trasposizione per questa via incontra in Italia.

La Corte di Giustizia aveva denunciato la mancanza nel nostro sistema giuridico dia
cruenti idonei a garantire l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, ritenendo
che tale mancanza costituisse una insormontabile ostacolo alla trasposizione delle
direttive mediante i c.c.
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In tempi più recenti si è andata manifestando, tra gli studiosi italiani, un’opinione
favorevole al superamento di quell’ostacolo: la giurisprudenza della Corte Costituzionale
che sottrae al conflitto con l’art.39 c.4, quei c.c. ai quali può essere assegnata una
funzione diversa da quella propria dei CCNL di categoria nella loro parte normativa
previsti dall’inattuata disposizione costituzionale.

Non meno rilevante l’argomento basato sulla primatè del diritto dell’UE e sulla estraneità
perciò dell’ordinamento giuridico nazionale della questione relativa all’efficacia generale
dei c.c. che traspongono direttive comunitarie, che sarebbe questione di diritto dell’UE e
non di diritto interno.

Non vi è dubbio che i c.c. siano per il diritto comunitario, “strumenti di attuazione del
diritto derivato”: da ciò si fa discendere la conseguenza che “eventuali meccanismi legali
di estensione delle norme concordate tra le parti sociali per mettere in atto la direttiva
risponderebbero ad esigenze ordinamenti autonome del diritto comunitario, come tali
diverse ed eccedenti rispetto al campo di applicazione della disposizione costituzionale”.

Fino ad ora il legislatore italiano ha ignorato le prospettive aperte dagli studiosi.

Secondo quanto previsto dalla L.234/2012 la trasposizione delle direttive avviene


mediante decreti legislativi emanati sulla base della delega contenuta nella Legge di
Delegazione Europea.

La legge europea contiene invece disposizioni legislative che danno diretta attuazione alle
direttive o che modificano disposizioni vigenti oggetto di procedure d’infrazione nei
confronti dell’Italia o di sentenze di condanna della CGUE

La strada della contrattazione collettiva di trasposizione delle direttive può rilevarsi un


percorso irto di ostacoli e motto accidentato.

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PARTE V: LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL


SETTORE PUBBLICO

LA DISCIPLINA DEL LAVORO PUBBLICO TRA LEGGE E


CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

LA PRIVATIZZAZIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO: OVVERO


DAL DIRITTO PUBBLICO ALLA CONTRATTAZIONE
COLLETTIVA

L’ingresso ufficiale della contrattazione collettiva nel settore pubblico è avvenuto in epoca
recente, e il suo sviluppo è strettamente legato alla privatizzazione della disciplina del
rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione (p.a.).

Prima della privatizzazione:

si colloca la “Legge quadro sul pubblico impiego n°93/1983”

—> per la prima volta riconobbe alla contrattazione collettiva, già diffusa in alcuni
comparti del settore pubblico, un ruolo di FONTE della regolamentazione dei rapporti di
pubblico impiego, sia pure limitatamente alla parte non riservata alla legge.

—> tuttavia però non prevedeva ancora la contrattualizzazione della disciplina dei rapporti
di pubblico impiego.

—> l’elenco delle materie riservate alla legge era molto lungo + il c.c. non aveva efficacia
diretta, ma solo mediata: una volta stipulato doveva essere recepito in un decreto
presidenziale -> i sistematici ritardi nella ricezione dei c..c nei decreti determinò la crisi di
questo modello di regolamentazione.

Tale crisi aprì la strada ad una molto più incisiva riforma della disciplina del lavoro nel
settore pubblico avvenuta in fasi successive.

Possiamo ricondurre la privatizzazione (PRIMA FASE):

alla legge delega 421/1992 e al d.lgs. 29/1993.

Il legislatore ha perseguito il disegno di ricondurre sotto il dominio del diritto privato e del
diritto del lavoro in particolare la disciplina dall’impiego presso le p.a., nell’intento di
eliminare la diversità che caratterizzava lo statuto giuridico dei pubblici dipendenti.

Nella struttura del rapporto di lavoro la privatizzazione produce infatti un mutamento


importante: come avviene nel rapporto di lavoro privato anche nel lavoro pubblico il
rapporto si instaura mediante la stipulazione di un contratto
contrattualizzazione della disciplina del rapporto

la p.a. diviene contraente e agisce nell’ambito della autonomia privata

tuttavia, e qui permane la diversità tra lavoro pubblico e privato, l’autonomia della
p.a. è limitata non in funzione della protezione degli interessi privati ma pubblici ->
questo perché la privatizzazione del rapporto di lavoro non comporta la privatizzazione
del datore di lavoro, che rimane un soggetto pubblico tenuto ad attenersi ai criteri di
imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione (art.97 Cost.)

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La privatizzazione del lavoro pubblico richiedeva preliminarmente la soluzione del nodo


teorico rappresentato dalla riserva di legge di cui all’art.97 Cost. Non risolto dalla legge
93/1983.

La soluzione ha trovato l’avallo della Corte Costituzionale con la S.313/1996 —> la corte
si è dimostrata subito favorevole alla fuoriuscita della disciplina del pubblico impiego dal
regime pubblicistico in cui era rimasta ingabbiata.

Così fu spianata la strada della privatizzazione.

SECONDA FASE:

Il disegno della privatizzazione ancora incerto lacunoso nella prima fase è stato portato a
compimento nella seconda fase, nella quale è stata decisiva l’opera di Massimo D’Antona
—> il progetto ruotava attorno a 3 capisaldi:

La contrattualizzaizone piena dei rapporti di lavoro

L’estensione conseguente della competenza della contrattazione collettiva a tutte


le materie inerenti al rapporto di lavoro

La giurisdizione del giudice ordinario su tutte le controversie in materia di lavoro


pubblico

—> il progetto aveva preso corpo ed era culminato nel: d.lgs. 165/2001

- Pur fallendo nell’obiettivo della compilazione di un vero T.U., aveva ordinato la materia.

- É poi stato sottoposto a incessanti modifiche

- Rispetto alla legislazione del 92/93 il passo avanti nella privatizzazione era notevole

- Ha aperto un grosso varco nel muro che separa l’organizzazione degli uffici riservata
alla legge dalla gestione del personale, mettendo anche un parte non piccola
dell’organizzazione sul tavolo della contrattazione collettiva —> mediante una ambigua
formula: “materie relative al rapporti di lavoro” il d.lgs. ha consentito di recuperare alla
contrattazione tutta l’aerea della bassa organizzazione.

- Due erano le grandi scommesse di questo disegno (obiettivi):

1. Una dirigenza autonoma e responsabile, capace di interpretare seriamente il ruolo


di “datore di lavoro” per la quale la riforma aveva scelto la via della privatizzazione.

2. Una contrattazione collettiva anch’essa autonoma e responsabilmente partecipe


dell’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa pubblica a e di reculare l’efficienza
della p.a.

Come è andata? Questi 2 obiettivi non furono raggiunti, il d.lgs. ebbe scarso successo.

TERZA FASE:

Lo scarso successo del precedente d.lgs. ha aperto la strada alla:

“Riforma Brunetta” -> d.lgs. 150/2009:

- malgrado le molte limitazioni imposte alla contrattazione collettiva, affidava alla


negoziazione una parte importante della sua attuazione

- non ha avuto il tempo di entrare pienamente in funzione: sotto la spinta della crisi
economica e dell’esigenza di contenere la spesa pubblica, il d.l. 78/2010 bloccava i
rinnovi dei contratti nazionali scaduti tutti nel 2009, bloccando così anche le retribuzioni
dei lavoratori del settore pubblico. Questo blocco è stato prorogato fino al 31 dicembre
del 2015.

- Lo sblocco si ebbe con la S.178/2015 della Corte Cost. con la quale essa dichiara la
illegittimità “sopravvenuta” del prolungamento del blocco, per violazione dell’art.39 c.1.
e dell’art.28 Carta UE che garantiscono il diritto dei sindacati alla negoziazione

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collettiva: prerogativa messa a repentaglio appunto dalla normativa sul blocco della
contrattazione.

- L’intervento della corte costituzionale ha costretto il governo a riavviare le procedure


per il rinnovo dei c.c.

QUARTA FASE:

Nel frattempo del blocco e della sentenza era stato avviato un ampio progetto di riforma,
anticipato da alcune disposizioni essenzialmente dirette a tagliare la spesa pubblica. Tale
progetto è poi confluito nella emanazione dei d.lgs. 74 e 75 del 2017 detti:

“Riforma Madia”:

Il lasso di tempo che ha separato la legge delega (2015) dai d.lgs. è dovuto all’intervento
demolitorio della Corte Cost. (sentenza n. 251/2016) sulla legge delega per violazione
delle prerogative delle Regioni e della "leale collaborazione" tra Stato e Regioni.

A seguito del parere del Consiglio di Stato, che ha ritenuto non fossero necessari
interventi sulla legge dichiarata incostituzionale, la legge delega non è più tornata in
Parlamento, mentre il Governo ha provveduto a dare esecuzione al giudicato
costituzionale nei decreti legislativi.

IL RAPPORTO TRA LEGGE E CONTRATTAZIONE


COLLETTIVA NELLA DISCIPLINA DEI RAPPORTI DI LAVORO
PUBBLICO: DALLA RIFORMA “BRUNETTA” ALLA “MADIA”

La “Riforma Brunetta” aveva come obiettivo principale la riduzione dei costi della p.a.; ma
ad essi accoppiava anche obiettivi di miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia della
p.a., nel quale era incluso il contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo dei
pubblici dipendenti.

Per realizzare i propri obiettivi si affidava allo strumento di una regolazione per legge a
tuto campo, uno strumento che:

- rappresentava sfiducia nella capacità della contrattazione collettiva di realizzare gli


obiettivi enunciati

- portava con sé l’inevitabile centralizzazione della disciplina

Quindi: la riforma brunetta conteneva un massiccio ritorno alla disciplina per legge del
lavoro pubblico e la rilegificazione avveniva a danno della contrattazione collettiva.

Nella disciplina pre vigete la riforma brunetta: d.lgs. 165/2001 erano ridotti al minimo sia
lo spazio riservato alla legge sia lo spazio riservato agli atti normativi unilaterali della p.a.
ed era anche scomparso l’elenco delle materie riservate alla legge previsto nel 1993.

La scelta del legislatore non riguardava solo l’estensione della competenza: alla
contrattazione collettiva era affidato infatti il compito precipuo di delegificare la disciplina
del lavoro pubblico sovrapponendosi alla legge -> tale innovazione instaurava un
rapporto anomalo tra legge e contratto collettivo, anche se riconosciuto legittimo dalla
Corte Cost.

Detto rapporto anomalo era stato riportato alla “normalità” dalla riforma Brunetta: in
quanto il suo art.1 rovesciava questo rapporto delimitando il ruolo del c.c. nello spazio
residuale non occupato dalla legge.

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Con la “Riforma Madia” il rapporto è tornato al passato, modificando quindi l’assetto


delle fonti, attribuendo maggior importanza alla fonte negoziale del c.c.

Inoltre attribuisce alla contrattazione collettiva potestà derogatoria nei confronti della
legge, che si estende anche a normative antecedenti al 2017.

Detta potestà però non è illimitata:

1. perchè si ritiene che la legge futura può sempre escludere la propria derogabilità ai
danni della contrattazione collettiva

2. sono inderogabili tutte quelle discipline legislative che prevedono espressamente la


loro inderogabilità

3. Tale potere “spetta solo ai c.c. nazionali e solo nelle materie affidate alle
contrattazione collettiva e nel rispetto dei principi stabiliti”

Problematica della Riforma Madia:

Affida ancora una volta la riforma della p.a all’intervento legislativo centralizzato, con
norme generali e astratto che prescindono dalla considerazione delle profonde differenze
che concorrono tra i diversi settori della p.a. e lasciano aperto il nodo della dirigenza
pubblica

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LA DISCIPLINA LEGALE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA


NEL SETTORE PUBBLICO

LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL SETTORE


PUBBLICO: PREMESSE

Premessa:

Malgrado l'alleggerimento dei vincoli imposti dalla “Riforma Brunetta” anche dopo la “Riforma
Madia” l'intervento della legge nell'area dell'autonomia collettiva resta più marcato di quanto
non lo fosse nella fase della seconda privatizzazione del lavoro pubblico.

Una parte consistente dell'allineamento agli assetti del sistema contrattuale del settore
privato, anziché essere demandato all'autonomia collettiva, come accade nel settore
privato, è stato direttamente realizzato dal legislatore.

L'allineamento investe molti aspetti sostanziali e procedurali della contrattazione, tra cui:

- la durata del contratto nazionale, che diviene triennale

- il coordinamento tra i livelli contrattuali

- la durata triennale del contratto integrativo decentrato.

Altri significativi interventi della legge nell'area dell'autonomia collettiva sono:


• la prevista riduzione dei comparti -> ambiti di applicazione dei contratti nazionali, che
dai 10 (previsti dal contratto collettivo nazionale quadro del 2007) sono passati a 4:

- Funzioni centrali

- Funzioni locali

- Istruzione e Ricerca

- Sanità

cui corrispondono quattro aree separate per la dirigenza.

I comparti sono stati definiti in appositi accordi quadro tra:

- L'Agenzia per la rappresentanza negoziale —> ARAN, e

- Le Confederazioni rappresentative.

• Anche la riforma Madia mantiene ferma la gerarchia tra i livelli contrattuali,


imponendo forti limiti alla competenza della contrattazione integrativa decentrata

• La legge impone contenuti predeterminati ai contratti collettivi, che peraltro non


avranno neppure totale competenza nella disciplina dei rapporti di lavoro e delle
relazioni sindacali, perché potranno regolarli solo nello spazio che residua
dall'intervento della legge.

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LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E LE SUE REGOLE


Premessa:
É utile segnalare che prima la Riforma Brunetta e ora la Riforma Madia sono intervenute
essenzialmente sul testo del d.lgs. 165/2001, modificandone o sostituendone numerosi
articoli; la riforma Madia ha provveduto ad un riassetto del 165/2001.

La contrattazione collettiva del settore pubblico è rigidamente disciplinata dalla legge


ed è soggetta a molti vincoli.

L’ambito di applicazione della contrattazione collettiva

La disciplina contrattuale dei rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze della p.a. ha
un vasto campo di applicazione, ma vi sono delle eccezioni:

Art.3 d.lgs. 165/2001 prevede:

- Magistrati

- Avvocati dello Stato

- Forze armate

- Polizia

- Carriera diplomatica e precettistica

- Docenti universitari

L’aerea di applicazione del 165/2001 coincide con l’area assoggettata alla contrattazione
collettiva del del settore pubblico e coinvolge anche la dirigenza pubblica.

L’area di competenza della contrattazione

Nel 1993 erano state escluse dall’area di competenza della contrattazione collettiva 7
materie che erano riservate alla legge o agli atti normativi dell’amministrazione.

Il 165/2001 non aveva più fatto riferimento alle 7 materie riservate alla legge; era definita
l’area di competenza riservata agli atti normativi delle amministrazioni e comprendeva la
definizione delle linee fondamentali dell’organizzazione degli uffici.

Ma il silenzio del legislatore era stato interpretato in modo non univoco:

- Secondo alcuni —> le 7 materie essendo estranee all’area dei rapporti di lavoro non
potevano rientrare nella competenza della contrattazione

- Secondo altri —> la limitazione di competenza della contrattazione collettiva doveva


ritenersi implicitamente abrogata

Con al Riforma Brunetta le materie tipicamente ( anche se poche) rientranti nella


competenza della contrattazione in quanto direttamente pertinenti al rapporto di lavoro
rientravano nell’ambito della contrattazione solo dopo che la legge ne aveva regolato la
parte essenziale.

In caso di violazione dei limiti imposti dalla legge era previsto che le clausole del
c.c.nazionale fossero nulle e sostituite di diritto, applicando così al c.c.nazionale pubblico
la regola che si ritiene applicabile al c.c. privato in caso di violazione delle norme
inderogabili di legge.

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Con la Riforma Madia l’area della competenza della c.c. torna ad allargarsi:

Secondo quanto previsto dall'Art. 40, c.1, 165/2001, la contrattazione collettiva è


nuovamente consentita, nei limiti previsti dalle norme di legge, nelle materie:

- relative alle sanzioni disciplinari,

- alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio,

- della mobilità

Non diversamente da quanto previsto dalla riforma Brunetta, sono invece escluse dalla
contrattazione collettiva le materie attinenti:

- all'organizzazione degli uffici

- le materie oggetto di partecipazione sindacale

- le materie afferenti alle prerogative dirigenziali

- la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali

L’esclusione della materia organizzativa dalla competenza dei c.c. è netta.

Le competenze della contrattazione integrativa sono stabilite dei c.c.nazionali

(art.40 c.3-bis 165/2001)

I livelli contrattuali

Nella prima disciplina della contrattazione collettiva del settore pubblico (1993) erano
configurati 3 livelli di contrattazione.

Con la riforma 165/2001 i livelli contrattuali si erano già ridotti a 2:

a) Livello nazionale di comparto


b) Livello integrativo

L’articolazione su 2 livelli è confermata dall’art.40 del 165/2001 attualmente vigente.

La presenza di un terzo livello contrattuale comune a più comparti è solo eventuale, ed è


rimessa alla volontà delle parti.

a) CONTRATTO NAZIONALE DI COMPARTO


Come nel settore privato al centro del sistema contrattuale stanno i contratti collettivi
nazionali di categoria, così nel settore pubblico al centro stanno i contratti collettivi
nazionali di comparto (CCNL).

Sono stati riaccorpati in macro aree quei settori omogenei o affini della p.a. che in
passato erano dieci in 4.

Per ogni comparto vi è un unico contratto collettivo, all’interno del quale vi è:

- una parte generale applicabile all’intento comparto

- sezioni, o parti, o clausole speciali.

Hanno durata triennale (3 anni) senza più distinzione tra parte normativa ed economica

b) CONTRATTO INTEGRATIVO
La contrattazione integrativa è quella che si svolge al livello della singola p.a. o della
singola unità amministrativa.

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La valorizzazione della contrattazione integrativa era stata prevista dall’Intesa sugli assetti
della contrattazione nel settore pubblico (2009), in cui si affermava che questo livello
poteva costituire un valido strumento per migliorare l’efficienza e la produttività del lavoro
pubblico.

La pretesa valorizzazione avviene nel contesto di una serie di stringenti regole che
costringono la contrattazione integrativa entro il ristretto spazio delimitato dal CCNL.

Al miglioramento dell'efficienza e della produttività del lavoro sembrano guardare quelle


regole che finalizzano la specifica competenza della contrattazione integrativa in materia
di trattamenti economici accessori alla promozione di politiche premiali e
meritocratiche del personale.

A tali politiche dovrà essere destinata una quota prevalente del trattamento

accessorio: andando oltre la logica della performance individuale, che pervadeva la


"riforma Brunetta"; la nuova disciplina sembra voler dare maggior peso alla valutazione
della performance organizzativa (con riferimento all’amministrazione nel suo complesso
e alle unità organizzative o aree di responsabilità in cui si articola l’amministrazione).

La contrattazione integrativa deve svolgersi sulle materie e eni limiti previsti dal contratto
nazionale di comparto, tra i soggetti e con le procedure previste da questo.

La p.a. non può sottoscrivere contratti integrativi in contrasto con i vincoli posti dal
c.nazionale, le eventuali clausole contrastanti sono nulle e non possono essere applicate.

Sono i c.nazionali a definire le risorse finanziarie che ciascuna amministrazione può


destinare alla contrattazione integrativa.

Durata: triennale (3 anni)

Per tuto il periodo in cui il rinnovo del c.c. nazionali di comparto è stato bloccato, è stata
bloccata anche la contrattazione integrativa; questo anche perché essa ha come
fondamentale presupposto la contrattazione nazionale, che ne determina le competenze.

I SOGGETTI DELLA CONTRATTAZIONE

1. L’ARAN
A livello nazionale, la parte pubblica contratta mediante l’ARAN.

“Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni”

Ha personalità giuridica di diritto pubblico

Rappresenta legalemte le p.a.

Esercita ogni attività relativa:

- alle relazioni sindacali,

- alla contrattazione collettiva,

- all’assistenza delle p.a. ai fini dell’applicazione uniforme dei c.c.

- allo svolgimento delle attività di monitoraggio, studio e documentazione


necessarie per la contrattazione

Le singole amministrazioni possono avvalersi dell’assistenza dell’ARAN nella


contrattazione integrativa

La sua struttura è stata ridisegnata più volte e l’ultima Riforma è quella Brunetta che le
ha apportato modifiche poi confermate nella Riforma Madia.

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Sono organi dell’ARAN:

- Presidente -> nominato dal PDR su proposta del Ministro per la p.a. e
l’innovazione

- Collegio di indirizzo e controllo -> composto da 4 membri

Essi furono in carica 4 anni

Compito principale: contrattazione nazionale di comparto

Agisce autonomamente ma nel rispetto degli atti di indirizzo preventivamente formulati


dai Comitati di settore —> organismi istituiti per legge per ogni comparto

—> essi esprimono mediante il potere di indirizzo gli interessi


collettivi delle amministrazioni del comparto

A seguito dell’istituzione dei comitati di settore l’ARAN ha perso il carattere di organo


tecnico del Governo che poteva essere attribuito in origine, senza che ciò diviene nè
un’autorità amministrativa indipendente, nè una associazione rappresentativa
volontaria delle p.a. —> L’ARAN resta un soggetto pubblico, che rappresenta
legalmente, e non per volontaria adesione, le p.a.

2. I SINDACATI RAPPRESENTATIVI

Le regole vigenti in merito sono dettate dall’art.43 d.lgs. 165/2001.

Nella contrattazione nazionale di comparato di fronte all’ARAN siedono le


organizzazioni sindacali selezionate secondo i criteri di rappresentatività già previsti

La disciplina legale della rappresentatività è stata introdotta dalla “seconda


privatizzazione” del pubblico impiego

La disciplina legale ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento criteri di
selezione dei soggetti sindacali legittimati a stipulare i c.c. nazionali di comparto e
pertanto ammessi al tavolo delle trattative.

Quindi —> condizione necessaria sufficiente perchè un sindacato sia ammesso al


tavolo delle trattative che si svolgono con l’ARAN è la sua rappresentatività, misurata
sulla base dei ritri definiti dall’art.43: “sono ammesse alle trattative le organizzazioni
sindacali che abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non inferiore al
5%, considerando a tal fine la media tra il dato associativo e il dato elettorale”

Dato associativo:

É espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento di contributi sindacali rispetto al totale delle
deleghe rilasciate nell’ambito considerato. Il versamento dei contributi mediante delega è previsto dai
c.c. di comparto e il conteggio delle deleghe a favore di ciascun sindacato consente di valutarne la
consistenza associativa.

Questo dato: calcola infatti la percentuale sul numero totale dei lavoratori sindacalizzati, cioè dei
lavoratori che pagano i contributi sindacali mediante delega

Dato elettorale

É espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nella elezione delle rappresentanze unitarie del personale.

Questo dato: registra il livello di consenso di cui un sindaco gode tra iscritti e non iscritti

Spetta all’ARAN verificare la rappresentatività dei sindacati con i quali negozia.

La rappresentatività del sindacato è misurata a livello del comparto.

La rappresentatività del sindacato è misurata a livello del comparto. Le Confederazioni,


che sono ammesse alle trattative per il contratto di comparto, e che contrattano con
l'ARAN gli accordi-quadro (cioè i contratti applicabili in più comparti o in un'area
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contrattuale), sono individuate in base ad una rappresentatività non propria, ma derivata;


sono infatti ammesse le Confederazioni alle quali siano affiliate le organizzazioni sindacali
che, a livello di comparto, abbiano raggiunto la soglia minima di rappresentatività
anzidetta.

3. LE RAPPRESENTANZE UNITARIE DEL PERSONALE

A livello della singola amministrazione l’art.42 d.lgs. 165/2001 prevede l’istituzione


della rappresentanza unitaria del personale: l’istituzione è doverosa in quanto la
rappresentanza unitaria (elettiva) è un momento indispensabile per il funzionamento
dell’intero sistema contrattuale, essendo i dati che emergono dalle elezioni delle
rappresentanze necessari a calcolare la rappresentatività dei sindacati che abbiano
presentato proprie liste elettorali e dunque la possibilità di essere ammessi alla
contrattazione a livello nazionale.

Secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 165/2001, i sindacati maggiormente


rappresentativi ai sensi dell'art. 43 possono costituire rappresentanze sindacali ai sensi
dell'art. 19 St. lav.;
La legge prevede però che in ciascuna amministrazione che occupi più di 15
dipendenti debba essere costituita una rappresentanza unitaria del personale eletta da
tutti i lavoratori.
I sindacati maggiormente rappresentativi non hanno l'obbligo, ma solo la facoltà, di
partecipare all'elezione della rappresentanza unitaria: se non partecipano,
mantengono la propria separata rappresentanza sindacale, che godrà dei diritti
sindacali di cui agli artt. 23, 24 e 30 St.Lav, ma in proporzione al grado di
rappresentatività.
Resta da considerare che i sindacati che non partecipano alle elezioni delle
rappresentanze unitarie, non potendo contare sul dato elettorale, devono avere una
notevole consistenza associativa per poter partecipare alle trattative a livello
nazionale.

La disciplina legale delle rappresentanze è stata completata da un:


Accordo quadro del 1998, nel quale le rappresentanze unitarie del personale previste
dalla legge hanno assunto il nome di: rappresentanze sindacali unitarie (RSU)

Le RSU nel settore pubblico trovano la loro fonte istitutiva anzitutto nella legge ( e solo
successivamente nella c.c. alla quale la legge fa rinvio) sono:

Interamente elettive —> elette a suffragio universale e con voto segreto, tutti i seggi sono
ripartiti tra tutte le liste sindacali concorrenti proporzionalmente ai voti ottenuti.

Possono presentare liste:

- i sindaci ammessi alle trattative per il c.nazionale

- altri sindacati purché siano costituiti in associazione abbiano aderito all’Accordo -


quadro del 1998, e la presentazione delle liste è subordinata anche alla sottoscrizione
di una percentuale variabile dal 2% al 3% in ragione del numero di dipendenti aventi
diritto al voto.

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L’accordo del 1998 ha assicurato la tendenziale sostituzione: delle RSA, delle quali
l’art.42 prevede la possibile costituzione, con le RSU che subentrano nei diritti e nelle
prerogative delle RSA:

É prevista infatti la “clausola di dissolvenza”:

- in base alla quale “le associazioni sindacali firmatarie dell’accordo quadro si


impegnano a partecipare alle elezioni e rinunciano a costituire RSA autonome”

- questa clausola è analoga alla “clausola di salvaguardia” prevista dal settore privato

La RSU: è titolare esclusiva dei diritti di informazione e partecipazione previsti dalla legge
o dai c.c. ed è legittimata a stipulare i contratti collettivi integrativi, ma in via solo
potenzialmente esclusiva perchè può essere affiancata da rappresentanti dei sindacati
firmatari del contratto di comparto: e infetti l’AI del 1998 ha previsto la competenza
contrattuale concorrente, in conformità a quanto era previsto dagli AI del 1993 nel settore
privato, anche se nel privato non è più cos’ perchè alla RSU è stata attribuita competenza
esclusiva.

L’AI del 1998 ha anche stabilito che la RSU, vista la sua collegialità assume le sue
decisioni a maggioranza.

LE PROCEDURE NEGOZIALI E I CONTROLLI

CONTRATTI DI COMPARTO (CCNL)

La riforma Brunetta ha introdotto alcune innovazioni nel procedimento negoziale che


non hanno subito variazione nella riforma Madia; per la parte non regata dalla legge
saranno le parti stipulanti i CCNL a regolare alcuni aspetti:

- tempi di presentazione delle proposte per il rinnovo dei CCNL

- tempi di apertura del negoziato

- procedure di raffreddamento dei conflitti

Il procedimento per la stipulazione dei CCNL, gli STEP:

I. Fase preliminare: le risorse destinate alla contrattazione sono definite dal Ministro
dell’economia e delle finanze il quale, con apposita norma da inserire nella legge di
stabilità “quantifica l’onere derivante dalla contrattazione collettiva, con specifica
indicazione di quello da porre a carico del bilancio dello Stato e quello al quale
provvedono le amministrazioni pubbliche.

II. Quantificate le risorse disponibili, l’avvio della contrattazione vera e propria deve
essere preceduto dalle deliberazioni di indirizzo dei Comitati di settore.
Gli atti di indirizzo devono essere sottoposti al Governo, che ha 20 giorni di tempo per
eventuali osservazioni, decorsi, gli atti possono essere trasmetti all’ARAN

III. Vengono individuati gli agenti contrattuali ai sensi dell’art.43 secondi i criteri di
rappresentatività

IV. Si avvia la trattativa contrattuale vera e propria della quale l’ARAN terrà
costantemente informato il Comitato di settore interessato.
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La trattativa si concluderà con la sottoscrizione di una ipotesi di accordo, che deve


essere trasmessa dall’ARAN entro 10 giorni al Governo, che ha 20 giorni per esperire
le proprie osservazioni.

V. La prosecuzione del procedimento negoziale è subordinata al parere favorevole del


Comitato di settore interessato -> parere vincolante per l’ARAN

VI. Acquisito il parere favorevole l’ARAN trasmette alla Conte dei Conti la quantificazione
dei costi contrattuali, la Corte dei conti controlla la copertura finanziaria delle spese
previste dal contratto e certifica l’attendibilità dei costi quantificati, deliberando entro
15 giorni dalla trasmissione della quantificazione dei costi.

- Se la certificazione NON è positiva le parti non possono procedere alla


sottoscrizione del contratto e devono riaprire le trattative. Se la certificazione
non positiva riguarda solo alcune clausole, il contratto può essere sottoscritto
ma le clausole non positivamente certificate sono inefficaci

- Se la certificazione è positiva l’ARAN può sottoscrivere il contratto collettivo

VII. A norma dell’art.43 c.3 l’ARAN prima di sottoscrivere il CCNL deve tuttavia verificare
che sull’ipotesi di accordo confisca il consenso delle organizzazioni sindacali che
rappresentano almeno il 51% come media tra dato associativo ed elettorale nel
comparto o nell’area contrattuale, o, in mancanza, almeno il 60% del dato elettorale
nel medesimo ambito.
Il consenso non è però espresso direttamente dagli interessati come avverrebbe se
l’ipotesi di accordo fosse sottoposta a referendum fra lavoratori i destinatari, ma
attraverso le organizzazioni sindacali che rappresentano, nella media tra dato
associativo e dato elettorale, o nella significativa maggioranza del solo dato elettorale,
la maggioranza dei lavoratori interessati.

VIII. L’accertamento del consenso della maggiorammo dei destinatari svolge certamente
un ruolo i portante poiché il c.c. nel settore pubblico ha una almeno implicita efficacia
erga omnes: il legislatore sembra essersi preoccupato di mettere in piedi un
meccanismo, che pur non essendo quello previsto dall’art.39 c.4 Cost., ad esso
quanto meno si ispirasse, collegando l’efficacia generale del c.c. al principio di
maggioranza.

IX. I CCNL redatti in forma scritta sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale

X. La disciplina del procedimento negoziale del CCNL si ci elude con alcune norme
innovative: art.47-bis “tutela retributivo per i dipendenti pubblici” con le quali il
legislatore ha ritenuto di porre rimedio al grave problema dei ritardi della
contrattazione pubblica. Disposizione mai usata per ora.

CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA

Il procedimento negoziale della contrattazione integrativa, regolato dai CCNL:

Le p.a. sono tenute a trasmettere all’ARAN entro 5 giorni dalla sottoscrizione il c.c. e
l’indicazione delle modalità di copertura dei costi.

Il controllo sulla compatibilità dei costi della contrattazione integrativa è effettuato dal:
Collegio dei Revisori dei conti.

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Le p.a. sono inoltre tenute a inviare ogni anno al Ministero dell’economia e delle finanze
specifiche informazioni sui costi della contrattazione integrativa.

La riforma Madia ha introdotto alcune importanti novità sia di carattere procedurale, sia di
carattere sostanziale:

- L’art. 40, c. 3 ter, prevede che nel caso in cui non si raggiunga l'accordo per la
stipulazione del contratto integrativo, e qualora il protrarsi delle trattative determini un
pregiudizio alla funzionalità dell'azione amministrativa, l'amministrazione interessata
possa provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo fino
alla successiva sottoscrizione, proseguendo tuttavia le trattative al fine di pervenire in
tempi celeri alla conclusione dell’accordo.

- Le risorse disponibili per la contrattazione integrativa e le loro modalità di utilizzazione


sono disposte dal CCNL; secondo quanto disposto dall’art.40 c.3-quinquies, le p.a.
non possono in ogni caso sottoscrivere in sede decentrata c.c. integrativi in contrasto
con i vincoli e con i limiti risultati dai CCNL —> le clausole in violazione di tali limiti
sono nulle e sono sostituite ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.2 cod.civ.
Ove si siano superati i vincoli finanziari è previsto l’obbligo di recupero nella sessione
negoziale successiva, con quote annuali e per un numero massimo di annualità
corrispondente a quelle di cui si è verificato il superamento di tali vincoli -> la quota di
recupero per non può eccedere il 25% delle risorse destinate alla contrattazione
integrativa —> sembrerebbe così esclusa la possibilità di recupero delle somme
indebitamente erogate anche nei contorni dei singoli dipendenti.

- La riforma Madia ha introdotto anche una disposizione il cui evidente obiettivo è quello
di combattere l'assenteismo dei pubblici dipendenti.
Si tratta di una misura punitiva che rischia di colpire indiscriminatamente "furbetti del
cartellino", lavoratori di salute cagionevole, e lavoratori zelanti.
Secondo quanto disposto dall'art. 40, c. 4 bis: “I contratti collettivi nazionali di lavoro
devono prevedere apposite clausole che impediscono incrementi della consistenza
complessiva delle risorse destinate ai trattamenti economici accessori, nei casi in cui i dati
sulle assenze, a livello di amministrazione o di sede di contrattazione integrativa, rilevati a
consuntivo, evidenzino, anche con riferimento alla concentrazione in determinati periodi in cui
è necessario assicurare continuità nell'erogazione dei servizi all'utenza o, comunque, in
continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, significativi scostamenti rispetto a dati
medi annuali nazionali o di settore”.
Le difficoltà di applicazione di una misura siffatta sono evidenti: non è infatti chiaro
quali assenze debbano essere computate, né in che cosa consista lo scostamento
"significativo" dai dati annuali medi del settore; meglio sarebbe allora optare, come è
parso voler fare il Governo, su misure premiali per incentivare una più elevata presenza
in servizio dei dipendenti.

EFFICACIA SOGGETTIVA E INDEROGABILITA’ DEL


CONTRATTO COLLETTIVO NEL SETTORE PUBBLICO
Il c.c. esplica direttamente la propria funzione normativa, come regolamentazione
generale dei rapporti di lavoro nelle p.a. del comparto cui il contratto si riferisce.

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Per ciò che attiene l’efficacia soggettiva: il legislatore non prevede espressamente
l’efficacia generale del CCNL, ma nonostante ciò l’efficacia generale è tuttavia
deducibile dai 2 diversi strumenti utilizzai della legge per ottenerla in via indiretta:

1. PRIMO STRUMENTO = Consiste nella attribuzione della rappresentanza legale delle


p.a. all’ARAN: dalla parte del datore di lavoro, dunque il legale rappresentante stipula
un contratto i cui effetti ricadranno necessariamente in capo a tutte le amministrazioni
del comparto interessato (art.46 c.1 L.165/2001)

2. SECONDO STRUMENTO = previsto dall’art.45 c.2. che impone alle p.a. l’obbligo di
garantire ai propri dipendenti la parità di trattamento contrattuale e comunque
trattamenti non inferiore a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi.
Si tratta di una regola giustificata da esigenze di standardizzazione dei trattamenti
anche in favore dei lavoratori non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti,
mediante appunto l’estensione in via indiretta dell’efficacia soggettiva del
contratto collettivo.

Su questo strumento di estensione indiretta dell'efficacia del contratto collettivo si è


pronunciata la Corte costituzionale con la S.309/1997:

affermando che esso non realizza quell'efficacia erga omnes che l'art. 39, c. 4, Cost.,
riserva ai contratti stipulati secondo le regole ivi previste, ma «si colloca sul diverso piano
delle conseguenze che derivano per un verso dal vincolo di conformarsi imposto alle p.a.,
e per l'altro, dal legame che avvince il contratto individuale al contratto collettivo».
Il vincolo che grava sulle p.a. di conformarsi al contratto collettivo costituisce, ad avviso
della Corte, funzione diretta di un preciso dovere della p.a. .

Quanto al lavoratore, «l'obbligo di conformarsi, negozialmente assunto, nasce proprio dal


rinvio alla disciplina collettiva» contenuto nel contratto individuale, che ha sostituito l’atto
di nomina: in altri termini, il singolo dipendente accetta che il rapporto di lavoro si instauri
(o prosegua) secondo le regole definite dal contratto collettivo.

La decisione della Corte ha suscitato non poche critiche:

Una prima opinione —> pur condividendo la scelta della Corte di ricondurre il contratto
collettivo pubblico al contratto collettivo privatistico, sottolinea come la formula usata dal
legislatore sia stata interpretata dalla Corte nel senso della incorporazione del contratto
collettivo nei contratti individuali di lavoro. Ma l'incorporazione è in aperta contraddizione
con la natura di "fonte" eteronoma attribuita al contratto collettivo che, secondo la legge,
ha l'efficacia diretta propria di una fonte di disciplina dei rapporti individuali, e non opera
dunque per la via indiretta dell'incorporazione nei contratti individuali.

Una seconda opinione —> critica invece la Corte proprio per aver ricondotto il contratto
collettivo pubblico al contratto collettivo privatistico, trascurando il fatto che si tratta di un
contratto «nuovo e dalle marcate caratteristiche, nelle quali è racchiusa la sua più intima e
moderna essenza di fonte del diritto», come tale dotata, in sé, di efficacia erga omnes.

Le opinioni critiche espresse dai commentatori ci riportano al cuore del problema, e cioè
la definizione della natura giuridica del contratto collettivo pubblico, al quale si ricollega
anche la questione dell'efficacia erga omnes (diretta o solo indiretta) del contratto.

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La controversa natura giuridica del CCNL del settore pubblico

2 opinioni

QUELLA PREVALENTE:

Attribuisce natura privatistica al c.c. del settore pubblico.

Secondo questa opinione il c.c. del settore pubblico non è tuttavia un c.c. di “diritto
comune” ma un contratto nominato: la legge disciplina infatti i soggetti, le procedure, gli
effetti che non sono quelli propri del c.c. del settore privato ma che come ha affermato la
Corte Cost. son sono in contrasto con l’art.39 Cost.

QUELLA CONTRARIA:

Il c.c. è un contratto di diritto pubblico, fonte del diritto, dotata come tale di efficacia
generale.

Secondo questa opinione la funzione della contrattazione collettiva non può esaurirsi in
quella tradizionale di assicurare adeguati livelli di tutela dei lavoratori tipica del settore
privato, ma deve contemporaneamente rispondere all’esigenza di realizzare, insieme a
tale tutela, le finalità di cui all’a.97 Cost.

Qui viene vista la contrattazione collettiva del settore pubblico come funzionalizzata,
cioè tenuta a farsi carico anche di interessi diversi da quelli delle parti contrapposte.

Non può tuttavia essere omessa la considerazione dei molti elementi di specialità che
contraddistinguono questa contrattazione, che allontanano il procedimento negoziale e il
suo stesso prodotto (il contratto collettivo) dalla contrattazione e dai contratti del settore
privato:

- la forma scritta, che qui è imposta;

- la pubblicità (i contratti nazionali sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale);

- il potere di controllo preventivo della Corte dei conti, la cui certificazione positiva è
condizione di efficacia delle clausole contrattuali;

- l'inserimento obbligatorio nel contratti di apposite clausole, che prevedono «la


possibilità di prorogare l'efficacia temporale del contratto ovvero di sospenderne
l'esecuzione parziale o totale in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa;

- la speciale disciplina delle controversie in materia di interpretazione dei contratti


collettivi nazionali sottoscritti dall'ARAN, la cui finalità dichiarata è quella di favorire la
stipulazione di accordi di interpretazione autentica con effetto retroattivo (art. 49, dlgs.
n. 165/2001).

L’interpretazione dei contratti collettivi del settore pubblico

Le regole sostanziali e processuali relative all’interpretazione dei c.c. del settore pubblico,
che abbiamo richiamato sopra, sono state ritenute coerenti con le “peculiarità” del c.c. di
questo settore, la cui uniforme applicazione deve essere perseguita anche per i suoi
riflessi sui valori protetti dall’art.97 Cost.

Di tale coerenza si potrebbe dubitare oggi, dato che, il legislatore ha introdotto uno
speciale regime processuale del c.c. di diritto comune, che riduce appunto, la distanza
che lo sperava in passato dalla disciplina del c.c. del settore pubblico.

Solo per il settore pubblico erano infatti espressamente previsti:

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- sia il ricorso in Cassazione per violazione e falsa applicazione del c.c.,

- sia la risoluzione in via pregiudiziale delle questioni concernenti l’efficacia, la validità e


l’interpretazione dei c.c. .

Le distanze tra settore privato e pubblico tuttavia permangono.

Per quanto attiene al:

Ricorso in via pregiudiziale in Cassazione rinvio a p.106 —> il procedimento di cui all'art.
420-bis è stato infatti modellato sul procedimento previsto dall’Art. 64 del 165/2001,
nell'intento di realizzare per il settore privato gli stessi obiettivi che il legislatore si era
proposto di realizzare per il settore pubblico:

- valorizzare la funzione nomofilattica della Cassazione

- deflazionare il processo del lavoro e ridurne la durata

- razionalizzare la gestione delle cause seriali.

Dobbiamo soffermarci sulle differenze che rendono la disciplina dell’interpretazione


del c.c. del settore pubblico ancora peculiare (ma vale la pena di sottolineare che
anche nell’interpretazione del c.c. del settore pubblico il giudice fa ricorso alle
disposizioni sull’interpretazione dei contratti):

- l’art.49 del 165/2001 prevede che quando insorgono controversie sull’interpretazione


del CCNL le parti che lo hanno sottoscritto si incontrino per definire consensualmente il
significato della clausola controversa. L’accordo sostituisce la clausola in questione sin
dall’inizio della vigenza del contratto: l’interpretazione autentica concordata tra le parti
ha dunque effetto retroattivo e vincolante.

- L'agevolazione della conclusione di accordi collettivi trova sostegno nelle disposizioni


dell'art. 64 del 165/2001: come l'art. 420 bis cod. proc. civ., anche l'art. 64 regola il
ricorso per cassazione in via pregiudiziale nelle controversie individuali per la soluzione
delle quali sia necessario risolvere (appunto pregiudizialmente) una questione relativa
all'interpretazione delle clausole del contratto collettivo, ovvero alla validità o
all'efficacia di esse.
Diversamente da quanto previsto dall'art. 420 bis, l'art. 64 subordina però il
meccanismo del ricorso pregiudiziale per cassazione al rinvio preventivo alle parti
stipulanti, perché definiscano mediante accordo la controversia relativa
all’interpretazione delle clausole del c.c.
L’accordo può contenere non solo l'interpretazione autentica, ma anche una modifica
della clausola o delle clausole controverse.
Ove le parti non raggiungano l'accordo, il giudice decide con sentenza non definitiva,
avverso la quale è ammesso soltanto il ricorso immediato per cassazione.
Benché la sentenza interpretativa della Cassazione abbia effetti solo tra le parti della
controversia individuale, trattandosi dell’interpretazione di un c.c. ad efficacia
indirettamente generale, anche gli effetti della sentenza tendono ad essere generali
—> gli effetti della sentenza si riflettono infatti indirettamente ultra partes,
essendo le p.a. tenute a dare applicazione uniforme alle clausole del c.c.

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PARTE VI: IL CONFLITTO COLLETTIVO

IL DIRITTO DI SCIOPERO

PREMESSA. IL CONFLITTO COLLETTIVO E LO SCIOPERO

SCIOPERO = forma più incisiva di autotelaio degli interessi dei lavoratori, e una loro tipica
azione di lotta.

Nel nostro rodimento giuridico è stato:

- Prima un reato

- Poi una libertà


- Poi un reato ancora (anni 50’)

- Poi finalmente un diritto —> ma dire diritto, non è ancora abbastanza, perchè la sua
natura e la sua estensione hanno formato oggetto di interpretazioni che nel tempo si sono
profondamente modificate.

Negli anni 50’: del secolo scorso, il potere esecutivo interveniva direttamente e
indirettamente nella repressione dell’attività sindacale; e all’attività repressiva del
Governo vi era parallelamente sul piano giudiziario un orientamento fortemente restrittivo
dei giudici in materia di sciopero—> erano condannati:

- scioperi politici -> considerati azioni di lotta al di fuori al di fuori della garanzia
costituzionale del diritto di sciopero e considerati reati come nel periodo fascista

- ogni forma “anomala” di lotta -> es. scioperi a singhiozzo, era considerata illecita, fonte
di responsabilità disciplinare per i lavoratori che le avessero adottate.

Negli anni 60’ l’atteggiamento dell'esecutivo e del giudiziario iniziò a modificarsi, via via
che il quadro politico si modificava con la formazione di governi di colazione con socialisti
e centristi. Ad accelerare i tempi furono però le vicende politico-sindacali del 1968/9, che
resero urgente l’intervento di una nuova legge che istituisse un nuovo quadro giuridico
delle relazioni industriali.

Dopo l’emanazione dello Statuto dei Lavoratori, che pure sullo sciopero interviene solo
indirettamente, le teorie del diritto di sciopero sono cambiate, pure in assenza di una
modificazione del quadro giuridico che specificatamente riguardi lo sciopero: non
regolato dalla legge era, e non regolato è rimasto fino ad ora.

CONFLITTO —> può manifestarsi in una pluralità di forme (boicottaggio,


assenteismo, rallentamento della produzione)


SCIOPERO —> costituisce l’aspetto prevalente del conflitto organizzato

AZIONE DI SCIOPERO —> astensione organizzata dalla lavoro di un gruppo di lavoratori


subordinati, del settore pubblico o privato, per la tutela di diritti ed interessi comuni di
carattere sindacale o politico

PROCLAMAZIONE DELL’AZIONE DI SCIOPERO —> è una vicenda del conflitto, o meglio


costituisce un’arma o risorsa di cui il sindacato o altro soggetto collettivo può disporre nel
conflitto, e consiste nel chiamare i lavoratori a scioperare, cioè ad esercitare il diritto di 171
astenersi
dal lavoro
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La distinzione tra sciopero e conflitto collettivo è resa evidente dall’attuale disciplina


legale dello sciopero nei pubblici servizi essenziali, che impone l’esperimento preventivo,
rispetto alla proclamazione dello sciopero, delle procedure di raffreddamento e
conciliazione.

Tenendo distinto il conflitto dallo sciopero si comprende meglio la funzione delle


procedure preventive, che è quella di consentire il ricorso all’arma dello sciopero nei soli
casi nei quali le parti non siano riuscite a trovare una soluzione pacifica e concordata del
conflitto.

Si intende che il ricorso allo sciopero a sua volta può generare conflitto: ma ancora una
volta occorre distinguere tra il conflitto e le armi di cui le parti possono disporre per
risolverlo.

LO SCIOPERO NEL CODICE PANALE “ROCCO”

Codice Zanardelli (1889) —> sciopero viene depenalizzato con anche la serrata; ma
comunque restava una mancata esecuzione del della prestazione lavorativa, che secondo
i giudici di allora rendeva legittimo il licenziamento.

Codice Rocco (1930) —> si torna al diritto penale con l’avvento del fascismo. Qui lo
sciopero e la serrata sono reati.

Divideva la materia in 2 capitoli separati:

1. L’uno relativo al SETTORE PRIVATO (collocato nel capo dedicato ai delitti contro
l’economia pubblica)

• Art. 502 c.p. = prevedeva il reato di serrata e di sciopero per fini contrattuali, e si trattava
allora come ora delle azioni di lotta più ricorrenti, poste in essere per rivendicare nuove
condizioni di lavoro.
L’azione criminosa —> dello sciopero era uguale a quella della serrata, però in più era
caratterizzata però dal fatto di essere collettiva, e consisteva:

- nell’abbandonare collettivamente il lavoro, ma anche

- prestarlo in modo da turbare la continuità o la regolarità

Sanzione —> pecuniaria, e minore rispetto quella della serrata.

• Art. 503 c.p. = prendeva il reato di serrata e di sciopero per fini non contrattuali, quindi
per fine politico.
L’azione criminosa —> era la stessa della art.502.

Sanzione —> molto più pesante

• Art. 504 c.p. = prevedeva il reato di serrata e di sciopero per fini non contrattuali, quindi
per fine di costringere l’Autorità a dare o ad omettere un provvedimento o di
influire sulla sua deliberazione.

Sanzione —> reclusione fino a 2 anni

• Art.505 c.p. = prendeva il reato di serrata e di sciopero per fini di solidarietà o di


protesta.
Solidarietà -> si manifesta in una azione di appoggio alle rivendicazioni altrui.
Solidarietà e protesta sono ragioni “tipiche” dello sciopero e anche della serrata se
collettiva.

Sanzione —> dell’art. 502

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2. L’altro relativo al SETTORE PUBBLICO E DEI PUBBLICI SERVIZI (collocato nel capo
dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione)

Lo sciopero dei: pubblici dipendenti e degli addetti a pubblici servizi (anche se dipendenti
di imprese private sempre concessionarie di pubblici servizi) era regalato dall’Art.330 c.p.
denominato “abbandono collettivo”.

Tale articolo e seguenti sono stati abrogati solo con la L.146/1990 —> sullo sciopero dei
pubblici servizi essenziali.

IL DIRITTO DI SCIOPERO NEL DIRITTO VIGENTE.

• Le fonti inter nazionali


Le fonti da richiamare sono:

- La Convenzione OIL 87/1948 sulla libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale

- La Convenzione OIL 98/1949 sull’applicazione del principio del diritto di organizzazione


e negoziazione collettiva.
Nessuna di esse cita il diritto allo sciopero, che ha comunque ottenuto il pieno
riconoscimento come diritto fondamentale dal CEACR

- La Carta Sociale Europea (CSE) del1961, prevede espressamente il diritto di sciopero


all’art. 6 comma 4. La CSE è richiama dall’art.151 del TFUE ma non è integrata nel
diritto dell’Unione

- CEDU e il suo art.11, che non contempla espressamente il diritto di sciopero, ma nella
interpretazione di tale art. la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che lo
sciopero costituisce un corollario inscindibile dei diritti di associazione e negoziazione
collettiva garantiti dall’art.11 CEDU

• Il diritto dell’UE

Nel diritto dell’UE il diritto di sciopero fa la sua comparsa ufficiale nel 2000 con:

Art.28 della Carta UE —> che prevede il diritto dei lavoratori e dei datori di lavoro, o delle
rispettive organizzazioni, di “ricorrere in caso di confitti di
interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi,
compreso lo sciopero conformemente al diritto dell’Unione e
della legislazione e prassi nazionali”

—> lo sciopero dunque è un diritto fondamentale sancito dalla Carta


UE, alla quale nel 2007/2009 con il Trattato di Lisbona è stato
attibuito lo stesso valore giuridico dei Trattati.

—> ricomprende lo sciopero ma implicitamente anche la serrata,


perchè la Carta UE mette sullo stesso piano, a parità di armi,
datori di lavoro e lavoratori (diversamente dalla Costituzione)

—> ricomprende lo sciopero nella più ampia categoria dell’azione


collettiva, che comprende altre forme di lotta sindacale: es.
boicottaggio

Prima di entrare nella Carta UE e divenire un diritto ufficialmente fondamentale e


riconosciuto, il diritto allo sciopero non era sconosciuto all’UE: era già previsto in una
Carta comunitaria che però non divenne mai vincolante.

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• L’art.40 della Costituzione


L’art.40 dispone: “Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano”

La formulazione, che riproduce quella del preambolo della Costituzione francese del
1946, è il frutto del compromesso raggiunto, in seno all'Assemblea Costituente, tra le
posizioni della:

- sinistra comunista e socialista —> favorevole ad una formulazione che assicurasse il


diritto di sciopero ai lavoratori, senza limiti e condizioni

- quelle dei cattolici —> favorevoli al riconoscimento del diritto, purché circoscritto
nell'ambito del conflitto economico e sociale, e limitato dalla legge quanto a modalità
di esercizio

Il compromesso si trovò infine nella riproduzione della formula francese, che al


riconoscimento del diritto, accompagnata la previsione di limiti legali all’esercizio del
diritto.

La Costituzione riserva alla legge la disciplina dell'esercizio del diritto di sciopero.

Ma fatta eccezione per la materia dello sciopero nei pubblici servizi, oggetto di una
specifica disciplina legale a partire dal 1990, la legge alla quale l'art. 40 Cost. affida la
regolamentazione del diritto di sciopero non è stata emanata, essenzialmente per
ragioni di opportunità politica.

Il mancato intervento della legge non ha tuttavia determinato una lacuna nella disciplina
della materia: al di là di qualche sporadica disposizione legislativa (che citeremo oltre), è
stato il lavoro interpretativo condotto negli anni:

- dalla Corte Costituzionale,

- dai giuristi,

- dai giudici

a dar luogo ad una complessa disciplina extra-legislativa del diritto di sciopero.

NATURA GIURIDICA E TITOLARITÀ DEL DIRITTO SCIOPERO

Nell'ordinamento vigente, lo sciopero è qualificato dall'art. 40 Cost. come:

DIRITTO SOGGETTIVO.
Lo stesso art. 40 rinvia alla legge la definizione delle condizioni per il suo legittimo
esercizio —> il rinvio:

- ha valore di riserva, sicché condizioni ed esercizio del diritto in questione non


possono essere disciplinati se non dalla legge,

- non implica un riconoscimento senza limiti del diritto di sciopero; al contrario,


lascia al legislatore ordinario ampia discrezionalità.

Nei paragrafi che seguono riassumeremo brevemente i risultati della cospicua opera
creativa sin qui svolta dagli interpreti nella definizione della natura e dei limiti del diritto di
sciopero.

Natura giuridica

Art.40 —> norma precettiva —> suscettibile di immediata applicazione

Dal carattere percettivo ne consegue chele disposizioni del c.p. Rocco sono incompatibili
con la garanzia costituzionale del diritto di sciopero. Evidenza che però ha faticato ad
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emergere, tant’è che la Corte Cost. ha dovuto pronunciarsi più volte per annullare gli artt.
prima citatati quasi integralmente e annullare nella sua totalità l’art.502.

Per quanto riguarda la natura del diritto di sciopero -> la discussione è stata lunga e
intensa e non si può ancora dire conclusa.

L'opinione più risalente:

Configurava il diritto di sciopero come diritto potestativo, vale a dire come potere
attribuito ai lavoratori di «sospendere i relativi rapporti di lavoro mediante una
manifestazione di volontà di per se stessa idonea a produrre una modificazione in loro
favore del contratto».

Questa opinione è stata sottoposta a molte critiche: in particolare, è parsa


eccessivamente restrittiva la concezione del diritto sciopero come diritto relativo che si
esercita solo nell'ambito del contratto di lavoro, perché finisce per renderne legittimo
l’esercizio solo in presenza di rivendicazioni economico-contrattuali, rientranti nella
disponibilità diretta ed immediata del datore di lavoro.

I suoi fini legittimi, se visto come diritto potestativi, sono: solo i fini contrattuali, cioè
economico-professionali in senso stretto.

In tempi meno remoti:

Si sono affermate diverse concezioni del diritto di sciopero, qualificato dalla dottrina
alternativamente come:

- diritto assoluto della persona o,

- libertà fondamentale, cioè come diritto di far valere un interesse professionale,


latamente inteso, nei confronti del datore di lavoro, ma anche nei confronti di altri
interlocutori: il Governo, il Parlamento, la pubblica amministrazione.

La qualificazione del diritto di sciopero come diritto assoluto della persona o libertà
fondamentale si è affermata nel tempo, prevalendo sulla precedente costruzione del
diritto di sciopero come diritto potestativo, in ragione del:

progressivo abbandono della teoria del fondamento economico-contrattuale del diritto di


sciopero, cui ha contribuito anche la Corte costituzionale, con le sentenze sullo sciopero
politico e sullo sciopero di solidarietà.

Se qualificato come libertà fondamentale i fini legittimi sono anche, oltre quelli
contrattuali, quelli politici -> cioè economico-politici

Questa qualificazione trova la propria base nel principio di eguaglianza in senso


sostanziale, enunciato dall'Art. 3, c. 2 Cost., in quanto lo sciopero costituisce uno degli
strumenti giuridici che concorrono all'eliminazione degli “ostacoli che di fatto
impediscono il pieno sviluppo della persona umana”

Al di là delle divergenze interpretative, possiamo dire che, nel nostro diritto positivo, il
diritto di sciopero è qualificato come diritto fondamentale, in quanto riposa su norme
giuridiche fondamentali:

- l'art. 40 Cost,

- l'art. 28 CDFUE

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Titolarità

Diritto di sciopero = diritto individuale ad esercizio collettivo —> in quanto titolare del
diritto è il singolo lavoratore, ma l’esercizio del diritto, essendo connesso alla tutela di un
interesse collettivo dei lavoratori, è necessariamente collettivo.

A qualificare come collettivo l’esercizio del diritto non è il numero di scioperanti, ma il


fatto che l’interesse che vogliono tutelare sia collettivo.

Abbiamo detto che lo sciopero è un diritto di cui è titolare ciascun lavoratore, ma occorre
precisare quali lavoratori concretamente ne sono titolari:

- Lavoratori subordinati -> nel settore privato, pubblicare e gli addetti ai pubblici servizi

- Lavoratori autonomi -> quando però i loro rapporti con il committente siano
caratterizzati dalla subordinazione economica

- Lavoratori parasubordinati -> collaboratoti coordinati continuativi

Non sono titolari del diritto di sciopero:

- Militari -> la S.120/2018 la Corte Cost. Gli ha concesso di associarsi sindacalmente ma


non ha rimosso il divieto di sciopero

- Polizia

Dalla titolarità individuale del diritto di sciopero discendono 3 conseguenze importanti:

a) L'esercizio del diritto di sciopero non esige una proclamazione sindacale, neppure
nell'ambito dei servizi pubblici dove pure la legge detta regole minuziose in ordine alla
proclamazione dello sciopero.
La proclamazione dello sciopero non è dunque una prerogativa sindacale, anche se
nella maggior parte dei casi sono proprio le organizzazioni sindacali a prendere
l'iniziativa di proclamare lo sciopero.
Secondo la definizione dello sciopero, corrente in giurisprudenza e in dottrina, lo
sciopero consiste in un'astensione dal lavoro collettiva e concordata: ciò significa che
una qualche deliberazione (del sindacato, ma anche di un gruppo spontaneo di
lavoratori) è necessaria, se non altro a fini organizzativi, ma non si richiede che la
deliberazione sia formalizzata.

b) Il diritto italiano non distingue tra sciopero spontaneo, (altrimenti detto "selvaggio"),
figura invece che altri ordinamenti prevedono, e sciopero organizzato.
Nel nostro ordinamento, lo sciopero può essere sia un'azione collettiva spontanea,
concordata direttamente tra i lavoratori interessati, sia un'azione organizzata dai
sindacati.

c) Se la titolarità del diritto di sciopero è esclusivamente individuale e non collettiva, in


quanto collettivo è solo l’esercizio, i sindacati non hanno il potere di disporre di un
diritto del quale non sono titolari.

I LIMITI AL DIRITTO DI SICOPERO

La natura di diritto fondamentale attribuita al diritto di sciopero non ne fa un diritto privo di


limiti, che si distinguono in:

- Limiti interni -> quelli che condizionano l’estensione del diritto di sciopero

- Limiti esterni -> quelli che condizionano le modalità di esercizio del diritto di sciopero

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• Limiti inter ni

Essi possono derivare dalla:

A. definizione della nozione giudica di diritto di sciopero -> l’estensione del diritto
varia a seconda che si ritenga che l’art.40 Cost. garantisca il diritto ad una azione
conflittuale che abbia determinate caratteristiche e non altre

In passato: dottrina e giurisprudenza accoglievano una nozione giuridica di

sciopero, che era: solo l’astensione concertata e completa dal lavoro, effettuata dai lavoratori nei
confronti di un datore di lavoro, al fine di tutelare un proprio interesse economico-professionale
collettivo.

Tale “definizione” aveva la funzione di sottrarre alla tutela garantita dall'art. 40 tutte quelle astensioni
dal lavoro che non corrispondessero a tale nozione giuridica come:

- gli scioperi per fini economico-politici,

- di solidarietà e di protesta

- gli scioperi articolati (a singhiozzo, a scacchiera, e così via).

Queste ultime forme di sciopero erano considerate dalla giurisprudenza illecite anche perché erano
considerate in grado di produrre un effetto dannoso sull'organizzazione aziendale maggiore di quello
che si riteneva lo sciopero potesse legittimamente produrre in base alle regole del diritto dei contratti.

La Cassazione: accantona definitivamente questa restrittiva nozione giuridica di sciopero:

partendo dalla constatazione che il nostro ordinamento non contiene una definizione di sciopero, ma si
limita ad assumere questo termine nel significato che le è proprio nel contesto sociale di riferimento.

Sentenza n. 711/1980 —> con la parola sciopero, nel nostro contesto sociale si suole intendere nulla
più che un'astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento
di un fine comune.

A tale essenziale nozione rimane estranea qualsiasi delimitazione attinente all'ampiezza dell'astensione:

- se continuativa o intermittente -> esempio nello sciopero a singhiozzo;

- se necessariamente estesa a tutto il nucleo aziendale, o se limitata a determinati settori di esso ->
esempio nello sciopero a scacchiera ed in quello parziale.

All'anzidetta nozione di sciopero rimane estranea anche ogni considerazione dei suoi effetti, più o
meno dannosi per l'azienda. Il danno inflitto alla produzione dell'impresa è allo stesso tempo la
conseguenza normale e il fine legittimo dello sciopero.

B. definizione delle finalità del legittimo esercizio del diritto di sciopero —>
l’estensione del diritto varia a seconda che si ritenga che il ricorso allo sciopero sia
legittimo per alcune finalità e non per altre.

Essendo acquisito che limiti interni al diritto di sciopero non possano essere fatti
discendere dalla nozione giuridica di sciopero, altri limiti interni possono essere fatti
discendere invece:

- dalla definizione della natura giuridica del diritto, e

- dalla definizione degli interessi per la tutela dei quali si assume che il diritto sia stato
riconosciuto.

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Il merito dell’allargamento dell’area degli interessi collettivi per i quali è legittimo il ricorso allo sciopero
(dai soli economico-professionali, anche agli economico-politici) è riconosciuto alla:

Corte Costituzionale, che ha cancellato quasi per intero le disposizioni del c.p. Rocco 502 s.s.

S. 29/1960 —> la Corte interviene sull’art. 502 c.2 che qualificava come reato lo sciopero a
fini contrattuali, ovvero quello finalizzato a premere sul datore di lavoro per ottenere un
trattamento migliore (offensivo) o evitare l’introduzione di una regolamentazione
peggiorativa (difensivo) -> norma incompatibile con il riconoscimento del diritto di
sciopero

S. 123/1962 —> la Corte riconosce legittimo lo SCIOPERO DI SOLIDARIETÀ, effettuato da alcuni


lavoratori in appoggio a rivendicazioni di carattere economico di lavoratori
dipendenti da altri datori di lavoro, sempre che fosse accertata l’affinità delle
esigenze che motivano l’agitazione degli in con quella degli altri.

—> Pur non avendo dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.505, la Corte aveva
dunque aperto la strada ad un sensibile allargamento degli scopi per i quali lo
sciopero può essere legittimamente esercitato.

S. 290/1974 —> sentenza additiva di accoglimento, con la quale la Corte ha stabilito che il reato di
SCIOPERO POLITICO è incompatibile con l’art.40 Cost, fatta eccezione per il caso
(non previsto dall’Art.503) in cui lo sciopero sia diretto a:

- Sovvertire l’ordine costituzionale

- Ostacolare il regolare funzionamento delle funzioni democratiche

—> nella motivazione della sentenza, la Corte Cost. distingue tra le:

- rivendicazioni economico-professionali -> riconducibili sotto la protezione


dell’art.40; è intesa in modo molto ampio, tanto d poter farci rientrare la maggior
parte degli scioperi proclamati

- rivendicazioni politiche in senso stretto -> che pur costituendo legittimo esercizio
della libertà di opinione, restano al di fuori della protezione dell’art.40; cioè non
costituiscono sciopero ai sensi dell’art.40

—> La corte ha del resto affermato che, nella maggior parte dei casi, non è possibile
tracciare una distinzione netta tra sciopero politico e economico-professionale, dato
che spesso anche queste ultime hanno come controparte non i datori di
lavoro ma il Governo

S.165/1983 —> la Corte Cost. ha dichiarato l’illegittimità dell’art.504 c.p., con gli stessi termini e con
le medesime motivazioni di cui alla S.290/1974

Il controllo giudiziaria sulle finalità legittime o illegittime dello sciopero ha dunque perso via via di
importanza, poiché è ormai largamente riconosciuta la laicità anche dello sciopero politico.

• Limiti ester ni

In via generale, può affermarsi che l’esercizio del diritto di sciopero trova limiti nella tutela
degli altrui diritti ed interessi di pari o preminente dignità.

L’esistenza di tali limiti esterni ha influenza non sulla sussistenza del diritto di sciopero
stesso, ma sulla leicità delle modalità di esercizio del diritto adottate dagli scioperanti,
governate da una serie di complesse regole.

La questione dell’eventuale illiceità di talune modalità di esercizio è stata affrontata


178
dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

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L’attenzione degli interpreti si è concentrata sulle forme anomale di sciopero:


• sciopero articolato, nelle correnti forme:

- sciopero a scacchiera —> viene effettuato a scaglioni tra i vari reparti di uno
stabilimento o di diversi stabilimenti di una stessa impresa: cosi mentre un reparto
lavora l’altro si ferma, e viceversa -> effetti di disorganizzazione

- sciopero a singhiozzo —> consiste nell’alternare brevi astensioni a periodi più o


meno lunghi di lavoro

Questa tipologia di sciopero prima della S.711/1980 era considerato illecito.

• Ogni altro forma di sciopero in cui l’astensione dal lavoro non sia continuativa e
non interessi contemporaneamente l’intera manodopera occupata in una fabbrica o
in un ufficio

Costituisce dunque sciopero legittimo, ai sensi dell’art.40, ogni astensione collettiva dal
lavoro, totale o parziale che sia, lunga o breve, continuativa o intermettente.

L’esercizio del diritto di sciopero è però illecito, e quindi non gode della protezione
dell’art.40, quando sia effettuato senza le dovute cautele e accorgimenti, tanto da
apparire idoneo a pregiudicare irreparabilmente non la produzione, ma la:

produttività dell’impresa —> cioè la possibilità per l’imprenditore di esercitare la propria


iniziativa economica, la cui libertà è riconosciuta dall’art.41
Cost.

—> può essere pregiudicata quando per esempio si è fatto


ricorso a forme di sciopero che determinano, che
determinano un esorbitante fermo degli impianti, che
impedisce all’imprenditore di riprendere sollecitamente
l’attività dopo la cessazione dello sciopero.

—> il danno alla produttività è stato ravvisato nei casi in cui lo


sciopero metteva a rischio:

- la funzionalità o,

- l’integrità degli impianti, oltre che delle persone

- quasi totale crollo della produzione determinato dallo


sciopero articolato, potenzialmente in grado di
provocare effetti dannosi sugli impianti, così in sostanza
recuperando come danno alla produttività il grave danno
alla produzione

Attraverso la nozione di produttività la Cassazione perviene in sostanza a bilanciare il


diritto di sciopero con la libertà di iniziativa economica: l’esercizio dello sciopero è
legittimo fino a quando il danno inferto alla produzione non pregiudichi la produttività
dell’impresa, cioè la sua possibilità di stare sul mercato.

Diritto di sciopero e tutela delle libertà economiche nell’UE

A livello europeo, il problema del bilanciamento appena detto è emerso grazie a 2


sentenze della Corte di Giustizia del dicembre del 2007:

- Laval —> conflitto tra diritto di sciopero e libertà di circolazione dei servizi

- Viking —> conflitto tra diritto di sciopero e libertà di stabilimento

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La corte qui è stata chiamata a rispondere a:

se sia legittima l’azione collettiva dei lavoratori di uno Stato membro diretta ad imporre ad
una impresa impaltatrice con sede in altro Stato membro l’applicazione delle condizioni di
lavoro previste dal c.c. applicato dall’impresa appaltante, o se tale azione costituisca una
illegittima limitazione della libertà di circolazione nel mercato unico europeo di un’impresa

Risposta complessa: perchè coinvolge la stessa competenza della Corte di giustizia


decidere, perchè:

- da un alto il TFUE (art.153 c.5) esclude dall’ambito di azione e dalle competenze


normative dell’UE il diritto di associazione, il diritto di sciopero e di serrata.

- dall’altro all’epoca del 2007 la Carta UE non era ancora vincolante, in quanto la otterrà
solo nel 2009 con l’entrata in vigore dei Trattati.

Mentre l’esclusione dello sciopero e dei diritti di negoziazione e di azione collettiva dalla
competenza dell’UE ha il significato di un limite posto all’intervento normativo diretto
dall’Unione, l’inclusione dello sciopero tra i diritti fondamentali dell’UE lascia aperta alla
Corte di giustizia la porta dell’intervento sul diritto interno degli Stati membri, di cui
controlla la compatibilità con il diritto dell’UE.

La Risposta: l’azione collettiva può costituire una restrizione alle libertà economiche o un
ostacolo al loro esercizio.

Tale restrizione è ammissibile solo:

- qualora persegua un obiettivo legittimo compatibile con il Trattato

- se è giustificata da ragioni imperative di interesse generale

- se è proporzionata, cioè idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e


non vada al di là di ciò che è necessario per conseguirlo.

Così formulato il bilanciamento tra tra diritto di sciopero e libertà economiche sembra
presentarsi rovesciato rispetto al bilanciamento effettuato alla luce della tradizione
costituzionale italiana che accorda priorità ai diritti sociali rispetto alle libertà economiche.

Nel diritto dell’UE viceversa, la libertà economica può legittimamente espandersi fino al
limite in ci non intacca il contenuto essenziale del diritto fondamentale di azione collettiva.

Per concludere: attualmente alla luce dell’art.28 della Carta UE si può affermare che il
diritto di ricorrere allo sciopero per difendere gli interessi dei lavoratori costituisce un
diritto fondamentale tutelato nell’UE —> la forza vincolante della Carta UE porta infatti
con sé il vantaggio di dare luogo ad una modificazione degli equilibri interni al diritto
europeo —> le libertà economiche subiscono il bilanciamento con i diritti sociali, co i
quali devono necessariamente conciliarsi.

Limiti contrattuali: le clausole di tregua sindacale

Ancora in materia di limiti all’esercizio del diritto di sciopero è necessario precisare che:

il diritto italiano non obbliga i soggetti promotori dello sciopero a cercare preventivamente
una soluzione pacifica del conflitto.

Questo obbligo può essere invece previsto dalle stesse parti nel contratto collettivo,
mediante una clausola detta:

clausola di tregua sindacale o di pace sindacale —> essa comporta la rinuncia


all’azione diretta (lo sciopero per i lav. e la serrata per i datori) durante la vigenza del c.c. o
per un periodo di tempo entro il quale deve svolgersi un tentativo di trovare una soluzione
pacifica del conflitto (detta: conciliazione o arbitrato)

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La clausola di tregua sindacale deve essere = esplicita


Conseguentemente, lo sciopero proclamato durante la vigenze del c.c., e in assenza di un
clausola esplicita di tregua sindacale è legittimo.

Esse furono:

- Introdotte nella contrattazione collettiva nei primi anni 60’, ma poi conobbero nei fatti
un rapido declino.

Era peraltro fortemente controverso il loro carattere vincolante nei confronti dei singoli
lavoratori. L’opinione prevalente riteneva infatti che queste clausole facessero perciò
parte della “parte obbligatoria” del c.c. e si escludeva con ciò l’effetto normativo di
regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro, limitandone il carattere vincolante alle
sole parti collettive che le avessero stipulate.

Di conseguenza lo sciopero proclamato da una organizzazione sindacale stipulante in


violazione della clausola di tregua sindacale avrebbe dato luogo a responsabilità per
inadempimento del contratto verso la controparte cioè l’organizzazione imprenditoriale
stipulante; ma l’esercizio del diritto di sciopero da parte dei lavoratori sarebbero stato
legittimo

- Cadute in disuso le clausole di tregua sindacale il problema della composizione


pacifica dei conflitti collettivi è stato nuovamente affrontato a partire dagli anni 80’

Regole procedurali o clausole di procedimentalizzazione del conflitto, che prevedevano


anche la tregua sindacale cioè l’astensione dallo sciopero, sono previste nei CCNL di
categoria e sono dirette alla: prevenzione delle controversie collettive in materia di
interpretazione dei c.c.

Anche il rinnovo dei c.c. è assoggettato a regole procedurali di raffreddamento del


conflitto.

- Le clausole di tregua sindacale hanno conosciuto negli ultimi anni una nuova stagione.

Si tratta questa volta di clausole che:

impegnano i sindacati firmatari a “garantire l’esigibilità degli impegni assunti” con il


contratto collettivo: non dunque ad astenersi dal proclamare lo sciopero per un periodo
“di raffreddamento” e ad attendere l’esito del tentativo di conciliazione, ma ad astenersi
dal proclamare sciopero durante la vigenza del c.c. che hanno stipulato.

L’AI 2011 e P. 2013 e T.U. 2014 —> prevedono che i c.c.aziendali, stipulati alle condizioni
previste dall’Accordo, definiscano clausole di tregua di questo tipo: ma con la
precisazione che vincolano solo i sindaci firmatari e non i singoli lavoratori, come già era
emerso negli anni 60’.

Questo sulla base della titolarità individuale del diritto di sciopero, e sulla conseguente
indisponibilità di tale diritto da parte die sindacati.

La clausola di tregua è rafforzata nei 2 accordi del 2014 e 2013 dalla previsione di
sanzioni a carico delle organizzazioni sindacali che le abbiano violate.

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Il T.U. 2014, che da attuazione al P. 2013 detta 2 distinte regole:

1. PER I C.C.NAZIONALI —>

Le Confederazioni firmatarie, nell'intento di prevenire e sanzionare “azioni di contrasto di


ogni natura”, che possano compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali,
e “l'esigibilità e l'efficacia dei c.c. stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure
previste negli AI citati, hanno stabilito che i CCNL di categoria:

“dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per


tutte le parti, l'esigibilità degli impegni assunti con il CCNL di categoria e a prevenire il
conflitto”.

Il T.U. aggiunge che “i medesimi CCNL dovranno, altresì, determinare le conseguenze


sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano
l'esigibilità dei CCNL di categoria stipulati ai sensi della presente intesa”.

L'espressa previsione di sanzioni, sia di carattere pecuniario, sia addirittura di limitazione


dei diritti e dell'agibilità sindacale, a carico “di tutte le parti contraenti” ha suscitato

forti reazioni negative anzitutto nell'ambito di una delle Confederazioni firmatarie.

Erano prevedibili:

- dal punto di vista giuridico, pare infatti legittimo esprimere dubbi sulla validità di
clausole che si pongono in contrasto con norme fondamentali, imponendo limitazioni di
diritti di libertà —> la libertà sindacale è sancita dall'art. 39, c. 1, Cost.;

- ove poi la repressione delle "azioni di contrasto di ogni natura" dovesse essere
interpretata nel senso di una limitazione del diritto al ricorso al giudice, il contrasto con
l'art. 24 Cost. sarebbe del tutto evidente.

2. PER I C.C.AZIENDALI —>

Il T.U. prevede che tali contratti definiscano clausole di tregua sindacale e sanzionatorie,
finalizzate a garantire l'esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva.

Tali clausole “hanno effetto vincolante per:

- il datore di lavoro,

- tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori

- le associazioni sindacali espressioni delle Confederazioni sindacali firmatarie del


presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito”

Tali clausole non hanno effetto vincolante per: i singoli lavoratori.

Ancora una volta le Confederazioni firmatarie, nell'intento di garantire alle imprese la


stabilità del contratto:

- insistono sulla affermazione della regola di maggioranza —> in base alla quale il
contratto approvato dalla maggioranza vincola anche la minoranza dissenziente, tenuta
ad astenersi da ogni "azione di contrasto" e

- rafforzano la regola con l'espressa previsione di sanzioni a carico delle rappresentanze


o delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie che violino la
clausola di tregua. Valgono, anche in questo caso, le considerazioni svolte sopra.

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EFFETTI DELLO SCIOPERO: LA SOSPENSIONE DEL


RAPPORTO DI LAVORO

Lo sciopero, dato che consiste in una astensione dal lavoro, consiste anche in un
inadempimento della prestazione lavorativa, consentito nella misura in cui costituisca
esercizio legittimo del diritto appunto di astenersi dal lavoro.

L’esercizio del diritto di sciopero sospende il rapporto di lavoro, anche se non


integralmente, in quanto rimangono in vita i diritti e gli obblighi non strettamente connessi
all’esecuzione della prestazione lavorativa tra cui i diritti sindacali (es. il diritto di
assemblea).

Il lavoratore che si sia astenuto dalla prestazione lavorativa per esercitare il proprio diritto
di sciopero perde la retribuzione —> perdita che corrisponde alla durata dell’astensione
dal lavoro —> quantificazione della perdita della retribuzione diviene difficile nel caso di
scioperi articolati

Secondo la Cassazione -> non è legittimo per il datore di lavoro rifiutare la prestazione del
lavoratore tra una sospensione e un’altra durante uno sciopero a singhiozzo, perchè
sarebbe un illegittimo rifiuto della prestazione lavorativa, come non può rifiutare la
prestazione durante lo sciopero a singhiozzo dei lavoratori non scioperanti. Quindi dovrà
essere calcolata la retribuzione non in base al giorno, ma in base ai tempi della giornata in
cui l’adempimento non è stato sospeso.

Eccezione: il datore di lavoro può legittimamente rifiutare le prestazioni offerte dai


lavoratori tra una sospensione e l’altra, e le prestazioni dei lavoratori non scioperanti
quando le prestazioni non siano utilizzabili, e di conseguenza non retribuire i lavoratori per
l’intera durata dello sciopero articolato.

Inoltre: il datore di lavoro è liberato dall’obbligo di utilizzare e retribuire le prestazioni di


lavoro offerte quando sussista una sopravvenuta temporanea impossibilità di utilizzare le
prestazioni —> tale impossibilità si verifica quando la necessità di operare variazioni al
ciclo produttivo comporti o la possibilità di danni per gli impianti, ovvero spese tali da
rendere la prestazione del tutto antieconomica per l’azienda, e non semplicemente non
conveniente, cioè tale da annullare il margine di profitto che l’azienda potrebbe trarre dalle
prestazioni rifiutate

—> impossibilità quindi e non mera difficoltà


—> impossibilità relativa e non assoluta

—> si risolve in sostanza nell’apprezzamento della proficuità delle prestazioni offerte, alla
luce dell’organizzazione aziendale che il datore di lavoro non è tenuto a modificare al fine
di utilizzare le prestazioni.

MODALITÀ’ PARTICOLARI DI SCIOPERO E ALTRE FORME DI


LOTTA

Nella pratica sindacale è frequente il ricorso ad altre forme di lotta che non sempre la
giurisprudenza riconduce alla fattispecie di sciopero.

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Esse sono:

• Sciopero dello straordinario —> rifiuto collettivo di svolgere il lavoro straordinario


richiesto dal datore di lavoro

• Sciopero delle mansioni —> rifiuto collettivo di svolgere compiti aggiuntivi o


comunque estranei alla prestazione di lavoro tipica della qualifica lavorativa

• Sciopero pignolo —> applicazione rigorosa e pedante delle direttive e dei regolamenti,
che determina il rallentamento di tutte le operazioni

• Non collaborazione —> fino al limite dell’ostruzionismo

• Sciopero del rendimento —> rallentamento volontario e concordato della produzione

Viste come inadempimenti parziali della prestazione lavorativa, escludendo che potessero
essere ricondotti alla nozione giuridica di sciopero allora corrente, e di conseguenza
essere considerato legittimo esercizio del diritto, anche quando era evidente che i
comportamenti individuali rientravano in una azione di autotutela collettiva.

Con la S. 711/1980 della Cassazione, e alla mutata concezione dello sciopero che ha
portato con sé, si era manifestato in giurisprudenza qualche dissenso in orine alla
qualificazione degli scioperi consistenti in astensioni parziali.

Ma di recente la Corte sembra essere tornata sui suoi passi ( 2016 ).

Restano senz’altro fuori dalla nozione dia sciopero, alcune connesse alla nozione di
sciopero, altre alternative ad esso:

- Picchettaggio —> consiste in un raggruppamento di lavoratori scioperanti, che


stazionano vicino o di fronte ai cancelli dell’azienda, per disturbare o bloccare
l’ingresso dei crumiri (cioè coloro che non partecipano allo sciopero).

Può essere:

- picchettaggio di mera persuasione -> legittimo in quanto consiste in una libera


manifestazione del pensiero

- picchettaggio violento -> da luogo a comportamenti penalmente e civilmente

illeciti (es. minacce ai crumiri)

- Occupazione della azienda —> ad essa i lavoratori ricorrono in casi particolarmente


gravi, primo fra tutti la minaccia di cessazione dell’attività, con conseguente perdita dei
posti di lavoro
Qui la Corte Costituzionale si è pronunciata nella sentenza: 220/1975 -> con la quale la
Corte ha affermato la legittimità costituzionale dell’art.508 c.p. che configura il reato di
occupazione di azienda, il cui dolo specifico ricorre se l’occupazione ha lo scopo di
turbare il normale svolgimento del lavoro, ma ha ritenuto lecita l’occupazione di
azienda, quando questa avvenga nel corso di uno sciopero, o quando l’attività della
azienda sia già sospesa -> la leicità penale non risolve la questione della illecita civile e
la conseguente possibilità per l’imprenditore di esercitare l’azione a tutela del possesso

- Sciopero bianco —> consiste nella occupazione di azienda, in quanto gli scioperanti
permangono in azienda, che invece di abbondare i luoghi di lavoro vi ci trattengono allo
scopo di: per impedire che il datore di lavoro possa utilizzare i non scioperanti.
L’occupazione ha luogo quando la permanenza si prolunghi oltre la giornata lavorativa,
e gli scioperanti presidino l’azienda anche di notte.

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LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI

PREMESSA

Negli anni 80’ e 90’ si è assistito al fenomeno della: “terziarizzazione” del conflitto che
implica:

- lo spostamento del baricentro degli scioperi al di fuori della industria ma verso il


terziario

- conseguenze importanti riguardanti anche la natura dei conflitti

- elevata visibilità dei loro scioperi

Nei servizi pubblici (settore terziario) lo sciopero non ha bisogno di essere lungo e
numeroso per essere efficace -> anche il solo effetto “annuncio” è il più delle volte
sufficiente a creare la paralisi del servizio.

Proprio per fronteggiare la esplosione della conflittualità sindacale dei servizi pubblici,
verso la fine degli anni 80’ il Parlamento si mise al lavoro, prendendo in considerazioni le
porreste avanzate in quegli anni dalle grandi Confederazioni sindacali, fino arrivare al
risultato che è rappresentato dalla: Legge 146/1990

LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI: LA


DISCIPLINA PREVIGENTE

La L.146/1990:

- è il primo intervento del legislatore diretto a disciplinare, secondo quanto previsto


dall’Art.40 Cost, l’esercizio del diritto di sciopero.

- la disciplina legale riguarda i soli servizi pubblici

Prima della L.146/1990:

- esisteva una displica giuridica, come in tutti gli altri settori, alla quale avevano dato un
contributo rilevante giudici, giuristi e la Corte Costituzionale

- la problematica era dominata dalla questione dell’applicabilità delle disposizioni del


c.p. del 1930, artt. 330 e 333, che vietavano l’astensione dal lavoro dei pubblici
dipendenti e degli addetti a pubblici servizi, e di conseguenza ci si chiedeva quindi se
questi soggetti fossero titolari del diritto allo sciopero

La questione venne affrontata 5 volte dalla Corte Costituzionale:

- s. 46/1958

- s. 123/1962

- s. 31/1969

- s. 222/1976

- s. 125/1980

La Corte era arrivata alla fine ad affermare la legittimità dello sciopero economico-
professionale dei pubblici dipendenti e degli addetti ai pubblici servizi, e la
conseguente non applicabilità degli artt. 330 e 333.

La Corte aveva però individuato all’interno dei pubblici servizi una categoria detta:

“pubblici servizi essenziali” -> servizi di preminente interesse generale, per i quali
doveva permanere un particolare regime giuridico
dello sciopero

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Secondo la Corte nei servizi pubblici essenziali lo sciopero era penalmente lecito solo se
non arrecava pregiudizio agli interessi generali preminenti degli utenti: di conseguenza, lo
sciopero poteva essere legittimamente esercitato solo se la legge o, in mancanza,
l’autoregolamentazione sindacale, avessero previsto regole atte a garantire il
funzionamento minimo del servizio, vale a dire le presentazioni indispensabili ad
assicurare un’efficienza del servizio sufficiente a salvaguardare gli interessi generalo
preminenti degli utenti.

Con questa decisione la Corte aveva aperto le porte alla regolamentazione sindacale
dello sciopero nei servizi pubblici essenziali -> conseguenza furono i:

“Codici di auto-regolamentazione”
—> adottati negli anni 80’ dalle maggiori sindacati presenti nel settore dei pubblici servizi,
prevedendo una serie di prestazioni da erogare in caso di sciopero, che assicuravano il
funzionamento minimo del servizio colpito dallo sciopero.

—> però non ebbero successo -> ogni codice era applicabile ai lavoratori affiliati al
sindacato che lo aveva adottato, ma non era in grado di vincolare i lavoratori non affiliati,
che restavano pertanto liberi di esercitare lo sciopero senza sicurare le prestazioni
indispensabili previste dal codice sindacale.

—> lo scarso successo rese evidente la necessità dell’intervento della legge, infatti anche
i sindaci divenirono favorevoli ad una legge perchè ormai l’opinione pubblica era molto
dissenziente sul loro operato in quanto vi erano continui scioperi di questi servizi che i
codici non erano in grado di regolamentare. Quindi la collaborazione tra Governo e
sindacati diede poi vita alla legge 146/1990 che ebbe molto consenso dell’opinione
pubblica.

LA DISCIPLINA DELLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI


ESSENZIALI NELLE L.146/1990 E L.83/2000

La L.146/1990 è stata riformata dopo 10 anni dalla sua entrata in vigore dalla L.83/2000,
che ha colmato delle lacune che si erano rese visibili in quegli anni.

Art.1 c.1. L.146/1990 ->“al fine di limitare l’esercizio del diritto di sciopero, sono considerati
come pubblici servizi essenziali i servizi volti a garantire il godimento dei diritti della
persona costituzionalmente tutelati alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà
di circolazione, all’assistenza e alla previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di
comunicazione” —> l’elenco dei diritti degli utenti tutelati è tassativo.

Art.1 c.2 L.146/1990 -> contiene invece un elenco esemplificato dei servizi pubblici
essenziali la cui erogazione assicura il godimento di quei diritti.

É un elenco molto lungo che comprende: servizi sanitari, igiene urbana, protezione civile,
trasporto aereo, ferroviario e marittimo, le scuole, le poste…

Essendo un elenco non tassativo, ma esemplificativo è possibile una interpretazione


estensiva dei servizi qualificabili come essenziali; questa è stata praticata dalla
“Commissione di garanzia” (CGS)

—> autorità indipendente e garante della corretta applicazione della legge

—> ha progressivamente inserito nella lista dei servizi pubblici essenziali nuovi servizi e
una serie di servizi strumentali nei quali l’astensione dal lavoro può determinare serie
conseguenze negative sul funzionamento dei servizi principali.

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4 ATTORI PRINCIPALI:

Nell’ambito dei servizi pubblici definiti dall’art.1 L.146, la legge affida la regolamentazione
dell’esercizio del diritto di sciopero a 4 attori: Legge / Parti sociali / CGS / Autorità Amm

• LA LEGGE: le regole legali

Le regole legali nella legge del 1990 erano poche e sono stata ampliate dalla legge del
2000, e aumento di regole comporta aumento dei limiti direttamente posti dalla legge
all’esercizio del diritto di sciopero.

Queste regole hanno una portata generale cioè si applicano a tutti i pubblici servizi
essenziali e sono:

I. Procedura preliminare di raffreddamento e conciliazione del conflitto —> il ricorso alla


procedura deve obbligatoriamente precedere la proclamazione dello sciopero

II. Comunicazione scritta (data, modalità, motivazione dello sciopero) al:

- datore di lavoro e

- all'autorità amministrativa titolare del potere di precettazione, che, a sua volta, è


tenuta a trasmettere immediatamente tale comunicazione alla CGS

III. Preavviso minimo di dieci giorni —> il preavviso intercorre tra la proclamazione e
l'effettuazione dello sciopero;

IV. Durata determinata dello sciopero —> vale a dire divieto di sciopero ad oltranza

V. Intervallo minimo —> al fine di evitare l'oggettivo addensamento delle azioni di


sciopero, fra scioperi suscettibili di colpire il funzionamento di uno stesso servizio
nell'ambito dello stesso "bacino di utenza", indipendentemente dal fatto che lo
sciopero sia stato proclamato dall'uno o dall'altro sindacato;

VI. Obbligo di assicurare l'erogazione delle prestazioni indispensabili, al fine di garantire


un minimo di funzionamento del servizio colpito dallo sciopero, in capo agli:

- scioperanti,

- alle organizzazioni sindacali

- agli altri soggetti collettivi che hanno proclamato lo sciopero,

- dei datori di lavoro pubblici e privati.

I datori di lavoro sono inoltre tenuti ad informare gli utenti, almeno 5 giorni prima, sulle
modalità dello sciopero e sugli eventuali servizi alternativi disponibili. I media (radio,
televisione e giornali) sono egualmente tenuti a dare informazioni agli utenti sulle modalità
dello sciopero e sulle prestazioni indispensabili assicurate.

PER QUANTO RIGUARDA LA DISCIPLINA DELLE PRESTAZIONI INDISPENSABILI:

mentre le regole legali hanno una portata generale, la disciplina delle prestazioni
indispensabili deve essere definita servizio per servizio —> la legge prevede che il compito
di porre in essere tali discipline specifiche sia affidato alle PARTI SOCIALI, in particolare:

- quando si tratta dello sciopero dei lavoratori subordinati -> la legge prevede che la
disciplina delle prestazioni indispensabili sia contenuta in accordi collettivi stipulati
tra: il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori (se a.aziendali) oppure
tra sindacati dei datori di lavoro e sindacati dei lavoratori (se CCNL)

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- quando si tratta dello sciopero di lavoratori autonomi, liberi professionisti, piccoli


imprenditori, la disciplina sarà contenuta in codici di autoregolamentazione adottati
dai sindaci che li rappresentano

QUINDI: per la legge le fonti principali della disciplina delle prestazioni indispensabili
relativo all’esercizio del diritto di sciopero sono:

- l’accordo collettivo e

- il codice di autoregolamentazione

Inoltre, la legge aggiunge che io compito di porre in essere tale disciplina può essere
affidato in via sussidiaria dalla legge alla CGS che può esercitarlo solo in mancanza di un
idoneo accordo o codice.

PER QUANTO RIGUARDA LA DISCIPLINA CONTRATTUALE DELLE PRESTAZIONI


INDISPENSABILI:

Non è di facile soluzione il problema degli effetti degli accordi collettivi e dei codici di
autoregolamentazione che regolano l’esercizio del diritto di sciopero.

Ma tenendo conto della necessaria uniformità e certezza delle regole, l’opinione


prevalente ritiene che gli accordi collettivi e i codici di autoregolamentazione, i cui
effetti sono in linea di principio limitati ai soggettai che li hanno stipulati in quanto atti di
autonomia privata, producono effetti generalmente vincolanti a partire dal momento
in cui la CGS li abbia valutati IDONEI —> detta “valutazione di idoneità”

Se vi è una “valutazione positiva” da parte della CGS i sindacati, gli scioperanti e i datori
di lavoro sono tenuti ad assicurare durante gli scioperi le prestazioni indispensabili
previste dall’ accordo o dal codice.

Quindi l’efficacia generale (erga omnes) degli accordi/codici è riconducibile non


direttamente all’accordo/codice che restano sti di autonomia privata, ma alla “valutazione
positiva” della CGS che gli conferisce forza e valore di una disciplina.

ECCEZIONE = a questa regola fanno eccezione quelle parti degli accordi collettivi
che contengono: clausole procedurali di raffreddamento e conciliazione dei conflitti
—> la valutazione della idoneità non produce un effetto di estensione dell’efficacia
delle regole procedurali nei confronti delle organizzazioni sindacali rimaste
estranee alla loro negoziazione.

La mancata estensione erga omnes delle clausole procedurali si basa:

- sia sulla tesi della efficacia obbligatoria e non normativa di tali clausole

- sull’interpretazione corrente del principio di libertà di organizzazione sindacale

Il criterio al quale la CGS deve ispirare le proprie valutazioni corrisponde allo scopo che
la legge enuncia come ragione della limitazione dell'esercizio del diritto di sciopero:

cioè, come prevede l'art. 1, c. 2, lo scopo di contemperare il diritto di sciopero con i diritti
degli utenti costituzionalmente tutelati.

In linea di principio dunque i diritti degli utenti, fatta eccezione per la vita la salute e la
sicurezza che non possono subire limitazioni, non hanno senz'altro priorità sul diritto di
sciopero, ma questo e quelli vanno contemperati, individuando caso per caso le misure
necessarie perché l'esercizio del diritto di sciopero non pregiudichi i diritti degli utenti, che
la legge impone che siano comunque salvaguardati solo nel loro contenuto essenziale (e
dunque non per intero).

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Al fine del contemperamento, la legge n. 83/2000 ha previsto una sorta di:

criterio quantitativo, al quale la CGS deve attenersi nel formulare le proprie valutazioni
sull'idoneità di accordi/codici:

- le prestazioni indispensabili devono assicurare al massimo il 50% del funzionamento


normale del servizio, e

- il personale comandato in servizio per garantire tali prestazioni indispensabili non deve
ordinariamente superare il 30% del personale normalmente impiegato

• LA CGS
• Autorità indipendente

• Ad essa la legge affida il compito di: garantire il contemperamento tra diritti di rango
costituzionale -> come nella specie sono il diritto di sciopero e i diritti della persona
degli utenti

• Era composta da 9 membri ridotti poi a 5 nel 2011


—> designati dai Presidenti della Camera e del Senato
—> scelti tra: esperti di diritto del lavoro, diritto costituzionale e relazioni industriali
—> nominati con DPR

• Le sue delibere sono atti amministrativi e sono soggette al controllo giudiziario del
giudice amministrativo

• Ha 3 funzioni:

1. Regolare l’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali con la
“valutazione della idoneità” —> funzione normativa
La CGS è tenuta ad esercitare il proprio potere regolamentare in 2 casi:
—> nel caso in cui abbai fatto una valutazione negativa di un accordo/codice
—> nel caso in cui l’accordo non sia stato stipulato o il codice non sia stato adottato.

In entrambi i casi la CGS è tenuta a formulare una proposta alle parti sull’insieme delle prestazioni
indispensabili e delle altre misure che devono essere garantite in caso di sciopero.

La proposta è sottoposta alle parti e alle organizzazioni degli utenti, che hanno 15 giorni per formulare
le proprie osservazioni, decorsi i quali la CGS ha ancora 20 giorni per emanare la propria
regolamentazione provvisoria —> in quanto suscettibile di essere sostituita in ogni momento
dall’accordo o dal codice se valutati idonei.

2. Prevenire gli scioperi illegittimi che è un potere ma anche un dovere.


Tale controllo riguarda solo le regole relative all’esercizio del diritto di sciopero, quindi le modalità
non le motivazioni perchè non ha alcuna competenza in merito agli interessi del conflitto.

Al momento in cui l’autorità amministrativa fa pervenire alla CGS la comunicazione della proclamazione
di cui sciopero nell’ambito di un servizio pubblico essenziale:

- la CGS ne prende conoscenza

- se individua qualche ragione di illegittimità dello sciopero invia una comunicazione immediata alla
organizzazione sindacale responsabile della proclamazione

- se la comunicazione non è sufficiente, allora la CGS delibera un invito formale (ordine) al sindacato
proclamante per rinviare o revocare lo sciopero.

Inoltre la CGS può segnalare l’autorità amministrativa competente l’opportunità di intervenire 189
al fine di evitare un pericolo reale di pregiudizio grave e imminente ai diritti degli utenti

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3. Sanzionare i comportamenti illeciti dei datori di lavoro e delle organizzazioni o associazioni dei
lavoratori autonomi, liberi professionisti e piccoli imprenditori tenuti in occasione dello sciopero

Potere attribuito dalla L.83/2000

Le sanzioni sono diverse per natura e meccanismo di applicazione a seconda dei destinatari.

Le sanzioni che spetta attualmente alla CGS irrogare sono:

- le sanzioni cosiddette collettive a carico delle organizzazioni sindacali dei lavoratori (sospensione
dei permessi sindacali retribuiti ovvero dei contributi associativi, oppure esclusione dalle trattative
per un periodo di due mesi);

- le sanzioni amministrative a carico delle organizzazioni dei lavoratori autonomi, liberi professionisti e
piccoli imprenditori, nonché dei dirigenti e responsabili di aziende e pubbliche amministrazioni, dei
responsabili legali dei soggetti sindacali che non fruiscono di permessi sindacali e contributi
riscossi dal datore di lavoro.

La procedura è rigidamente regolata dalla legge:

- Il procedimento deve essere aperto con un atto notificato alle parti interessate,

- La delibera di valutazione, che deve essere motivata, deve essere notificata alle parti e trasmessa
alla Direzione provinciale del lavoro (ora ITL: ispettorato territoriale del lavoro) in tutti i casi in cui
competa all'ITL l'applicazione della sanzione amministrativa.

- Ove si tratti di una delibera di valutazione negativa, nella delibera dovrà essere indicato anche il
termine entro il quale essa deve essere applicata.

La legge affida alla CGS sia la valutazione del comportamento, sia l'irrogazione della sanzione,
mentre resta affidata ad altri solo l’applicazione delle sanzioni (es. datore di lavoro).

Le delibere sanzionatorie della CGS sono impugnabili davanti al giudice ordinario.

NON RIENTRA NELLE COMPETENZE: la valutazione del comportamento dei singoli lavoratori, in
quanto una loro violazione delle regole in materia di esercizio del diritto di sciopero costituisce una
violazione del contratto di lavoro.

La legge 83/2000 prevede infatti che l’applicazione delle sanzioni disciplinari proporzionali alla gravità
dell’infrazione, escusò in ogni caso il licenziamento spetti al datore di lavoro.

Tuttavia, se la CGS ha formulato una valutazione negativa del comportamento delle organizzazioni
sindacali che hanno proclamato lo sciopero, prescrive al datore di lavoro l’applicazione della sanzione
disciplinare —> per ricordare così al datore di lavoro che è suo obbligo applicarla ai lavoratori che si

• L’AUTORITÀ AMMINISTRATIVA: la precettazione


La l. 146 e la l. 83 sembrano affidare un ruolo marginale al Governo, che è il quarto attore
nella regolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

La legge conferisce all’autorità amministrativa il potere di emanare:

l’ordinanza di precettazione —> essa può essere messa solo quando lo sciopero è in
grado di costituire un “pericolo grave di pregiudizio grave ed imminente” ai diritti degli
utenti -> può verificarsi anche quando lo sciopero è legittimo ma preoccupano i suoi
effetti

GLI STEP:
1. L’autorità amministrativa competente a seguito di una delibera di segnalazione della
CGS, o di propria iniziativa in caso di urgenza, invita le parti a rinunciare a porre in essere
l’azione di sciopero che provoca tale pericolo.

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A livello teorico —> dato che la legge affida alla CGS lil potere di sollecitare l’intervento
della autorità amministrativa, in linea di principio, spetta alla CGS
valutare se i presupposti per l’intervento amministrativo sussistano,
quindi è la CGS che decide se e come l’autorità deve intervenire.

A livello pratico —> il ruolo del Governo è quello di un vero protagonista, il ricorso alla
precettazione è frequente.

2. A seguito dell’esito negativo di un tentativo di conciliazione che deve essere esperito


nel più breve tempo possibile, l’autorità amministrativa può emanare un’ordinanza con la
quale impone le misure necessarie ad evitare il pregiudizio dei diritti degli utenti.

3. L’ordinanza non può essere emanata più tardi di 48 ore prima dello sciopero.

Può prevedere sia il:

- rinvio dello sciopero

- la riduzione della sua durata

- l’adesione di tutte le misure indispensabili ad assicurare il funzionamento parziale del


servizio

La mancata ottemperanza all’ordinanza di precettazione comporta l’applicazione di una:


sanzione amministrativa pecuniaria a carico dei singoli scioperanti, nonché delle
organizzazioni sindacali, delle associazioni, e degli organismi di rappresentanza dei
lavoratori autonomi che hanno proclamato lo sciopero.

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LA SERRATA

La disciplina della serrata: dal reato alla libertà di serrata

Rispetto allo sciopero il peso della serrata è modesto, poiché nella pratica il ricorso a
questo strumento di autotelai da parte dei datori di lavoro è poco frequente.

Serrata —> consiste in un comportamento dell’imprenditore che, per ragioni di solito


legate al conflitto collettivo, chiude in tutto o in parte l’azienda, impedendo ai lavoratori di
prestare il proprio lavoro, e rifiutando perciò di pagare le retribuzioni.

Può essere:

- Singola -> attuata da un impresa

- Collettiva -> attuata da più imprese concordantemente e contestualmente

- a carattere difensivo -> se costituisce la risposta all’azione di lotta dei lavoratori

- a carattere offensivo -> se costituisce una iniziativa assunta per anticipare o prevenire
l’azione dei lavoratori

CENNI STORICI GIURIDICI SULLA SERRATA:

Il codice penale Rocco, agli artt.502 s.s. prevedeva insieme al reato di sciopero anche
quello di serrata.

Non è citata la serrata nella nostra Carta Costituzionale, ma non è una dimenticanza, anzi
è una scelta dei costituenti, che rifiutarono di accettare che sciopero e serrata dovessero
essere posti sullo stesso piano, come se si trattasse di fenomeni di carattere speculare.

La scelta del costituente è stata dunque “parziale”: ai lavoratori è riconosciuto il diritto di


sciopero, come fondamentale strumento di autotelai dei propri interessi collettivi; ai datori
di lavoro non è riconosciuto il diritto di sospendere l’attività dell’impresa per contrastare le
rivendicazioni dei lavoratori.

L’art.28 Carta UE: riconosce quella “parità delle armi” che la nostra costituzione ha
negato alla serata, anche qui senza per menzionarla.

Che nel nostro ordinamento la serata non sia un diritto dei lavoratori è sempre stato
pacifico. Ma il problema che si è posto in passato è stato se:

il silenzio della Costituzione dovessero essere interpretato cime un’implicita conferma


dell’illiceità penale della serrata, e dunque della sopravvivenza degli artt. 502 e s.s.

La risposta è stata data dalla Corte costituzionale nella:

S.29/1960 —> la Corte decidendo la questione di legittimità sull’art.502 (serrata per fini
contrattuali), considerava, preliminarmente, che il arcato esplicito riconoscimento nella
Costituzione di un diritto di serrata non implica che “possa dirsi compatibile col sistema
sancito dalla Costituzione quella norma penale che a suo tempo fu disposta contro la
serrata dal sistema corporativo”. La Corte conclude valutando la serrata come un
comportamento penalmente lecito, rinviando al legislatore la sua disciplina.

S.141/1967 —> ribadisce quanto affermato nella sentenze precedente sulla leicità penale
della serrata per fini contrattuali, ma la Corte, decidendo sulla legittimità dell’art.505
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(serrata per fini di solidarietà e di protesta), fa restare fermo in vigore il divieto penalmente
sanzionato di serrata per fini diversi da quelli contrattuali.

S.222/1975—>la Corte dichiara illegittimo l’art.506 precisando tuttavia che la


sospensione del lavoro effettuata per protesta da esercenti piccole industrie e commerci
privi di dipendenti viene impropriamente definita serrata trattandosi invece di sciopero, in
quanto non avendo persone alle proprie dipendenze non sono datori di lavoro.

La richiesta della Corte di un intervento legislativo per disciplinare la serrata non ha più
avuto riscontri, in quanto non è mai stata emanata una legge. Ciò non significa che una
disciplina non suscita, poiché ancora una volta interpreti come dottrina e giurisprudenza
hanno affidato il compito di dettare tale disciplina al diritto privato.

La serrata come illecito civile

La serrata per fini contrattuali, non è più un reato, ma non è neppure un diritto, è piuttosto
una libertà, riconducibile nell'ambito dell'art. 39, c.1.

L'interruzione totale o parziale dell'attività aziendale, con finalità di pressione o di lotta,


determinando una sospensione unilaterale dell'esecuzione dei rapporti di lavoro,
costituisce una violazione del contratto di lavoro.

La violazione consiste nel rifiuto illegittimo di ricevere le prestazioni offerte dai lavoratori
che sono disponibili a lavorare, ma non possono farlo, a causa della sospensione
dell'attività aziendale.

Il datore di lavoro è creditore delle prestazioni lavorative, ed egli che omette di cooperare
all'adempimento dei lavoratori che sono i debitori delle prestazioni lavorative versa in una
situazione di mora del creditore (art. 1206 cod.civ.), ed è pertanto tenuto a risarcire ai
lavoratori il danno, corrispondente alla retribuzione che sarebbe normalmente spettata
loro.

La configurazione della serrata come illecito contrattuale per violazione dell'obbligo


di ricevere la prestazione lavorativa può essere superata quando la mancata utilizzazione
delle prestazioni lavorative non sia qualificabile come rifiuto illegittimo, ma sia invece
giustificata alla luce del diritto dei contratti.

Una prima ipotesi —> secondo l'orientamento della giurisprudenza prevalente, il datore di
lavoro è liberato dall'obbligo di utilizzare e retribuire le prestazioni di lavoro offerte quando
sussista una sopravvenuta temporanea impossibilità di utilizzare tali prestazioni.

Una seconda ipotesi —> detta: serrata di ritorsione, si verifica quando il datore di lavoro
sospenda l’attività aziendale in risposta ad uno sciopero articolato -> ma essendo lo
sciopero articolato legittimo, il lavoratore si vede responsabile di una condotta
antisindacale di cui all’art.28 St.Lav.

Il comportamento è però legittimo se lo sciopero articolato pregiudica la produttività della


impresa: in tal caso la sospensione dell’attività è legittima poiché è diretta a
salvaguardare la sicurezza degli impianti o delle persone, o la stessa sopravvivenza
dell’impresa non costituisce condotta antisindacale, ma comportamento contrattualmente
legittimo.

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Il crumiraggio ester no ed inter no

Problema connesso è quello dei limiti in cui l’adozione di misure dirette a contenere gli
effetti dannosi dello sciopero possa considerarsi lecita.

Secondo la comune opinione infatti, la soggezione del datore di lavoro allo sciopero,
mentre rende illeciti i comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio del diritto di
sciopero da parte dei lavoratori, non esclude la possibilità di reagire ad esso, adottando
appunto le misure che ritenga necessarie a limitare i danni.

Particolare rilievo assume in questo ambito l’utilizzazione di lavoratori non scioperanti


(crumiri) in sostituzione di lavoratori scioperanti. Distinguiamo:

• Crumiraggio interno —> quando vengono utilizzati lavoratori dipendenti dal datore di
lavoro che non partecipano allo sciopero.
Viene riconosciuto come legittimo dall’opinione prevalente, ma ponendo particolare
attenzione alla circostanza che i lavoratori non scioperanti siano correttamente utilizzati
nel rispetto delle prescrizioni legali e contrattuali relative alla loro assunzione e alla loro
utilizzazione: l’utilizzazione in mansioni inferiori è consentita per specifiche esigenze
aziendali, purché si tratti di attività marginali funzionalmente accessorie.

• Crumiraggi esterno —> quando il datore di lavoro, per ridurre gli effetti dello sciopero,
faccia ricorso all’assunzione di lavoratori esterni.
Le vigenti discipline del contratto di lavoro a te mio determinato, della somministrazione
di lavoro e del lavoro intermittente vietano il ricorso alla stipulazione di contrati di lavoro
“flessibili” per sostituire lavoratori in sciopero.

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