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2. Saggio: “Politiche attive del lavoro e misure di contrasto alla povertà. Una prospettiva
costituzionale”.
Il rapporto tra le politiche del lavoro e le misure di contrasto alla povertà rappresenta una sfida
complessa per gli interpreti della Costituzione. Questo saggio si propone di esplorare in che modo
questa relazione si intreccia con i principi costituzionali e di analizzare come le istituzioni pubbliche
hanno tradotto questi principi in azioni concrete, oltre a considerare come dovrebbero affrontare
eventuali lacune o insuccessi nel processo.
La Costituzione italiana non contiene dettagliati programmi di politiche sociali o economiche, e
questa caratteristica è fondamentale per mantenerla flessibile e adattabile alle mutevoli esigenze
della società. Questa flessibilità permette ai pubblici poteri di esercitare una discrezionalità nella
formulazione e nell'attuazione delle politiche, riflettendo il principio democratico della
rappresentanza e dell'adattabilità.
All'interno della Costituzione, sono enunciati principi che forniscono un quadro guida per la
convivenza sociale, senza fornire dettagli specifici. Questi principi costituzionali, pur non essendo
programmi dettagliati, fungono da strumento per valutare la congruenza delle politiche pubbliche
con gli obiettivi generali della Costituzione. Questa valutazione aiuta a bilanciare la necessità di
flessibilità con l'orientamento fornito dai principi costituzionali, consentendo ai principi di guidare
l'azione pubblica senza essere vincolanti o eccessivamente prescrittivi.
Nel contesto della lotta alla povertà e alla promozione dell'occupazione, è importante riconoscere
che la norma relativa al diritto al lavoro nella Costituzione italiana non è semplicemente un
obiettivo di programma, ma rappresenta un principio fondamentale. Questo sottolinea l'importanza
di garantire il diritto al lavoro come elemento cruciale nella struttura sociale e politica del paese.
All'interno della Costituzione italiana, non troviamo la formulazione esplicita del termine "povero",
ma la Costituzione affronta la questione in vari modi e fa riferimento a specifiche situazioni. Alcuni
articoli chiave includono:
Articolo 32: Questo articolo sancisce il diritto alla salute e fa riferimento agli "ingenti" per
garantire cure gratuite.
Articolo 34: Questo articolo riconosce il diritto allo studio e menziona la possibilità di accesso
all'istruzione per coloro che sono "capaci e meritevoli" anche se sprovvisti dei mezzi necessari.
Articolo 38 (primo comma): Questo articolo garantisce il diritto al mantenimento e
all'assistenza sociale per coloro che sono "inabili al lavoro" e sprovvisti dei mezzi necessari per
vivere.
Tutti questi articoli riflettono il principio di solidarietà sottolineato nell'Articolo 2 della
Costituzione, che sottolinea l'importanza della cooperazione sociale per il bene comune. Inoltre, gli
articoli menzionati sono in sintonia con il principio di "pari dignità sociale" sancito nell'Articolo 3
(primo comma) e con l'obiettivo di perseguire l'eguaglianza sostanziale, come sancito nell'Articolo
3 (secondo comma).
Il punto cruciale, secondo la prospettiva di Pinelli, è individuare come questi principi costituzionali
si traducano in direttive per l'azione dei pubblici poteri, concentrandosi sul legame tra lavoro e
assistenza sociale, che può essere oggetto di diverse interpretazioni.
Per alcuni, il lavoro retribuito è considerato un elemento essenziale e sufficiente per garantire la
protezione sociale e l'inclusione dei cittadini, basandosi su vari principi costituzionali:
L'Articolo 4 della Costituzione sottolinea il diritto e il dovere di svolgere un'attività
lavorativa.
Il principio di "retribuzione sufficiente" menzionato nell'Articolo 36 della Costituzione
sottolinea l'importanza di garantire una remunerazione adeguata per il lavoro svolto,
contribuendo così a prevenire la povertà e l'emarginazione.
Allo stesso tempo, la Costituzione riconosce l'assistenza sociale per coloro che sono inabili e
disoccupati involontari, come indicato nell'Articolo 38 (commi 1 e 2) della Costituzione.
Tuttavia, va notato che ci sono diverse interpretazioni possibili di questi principi costituzionali e del
loro rapporto con le politiche di assistenza sociale. Alcuni potrebbero sostenere che l'assistenza
sociale dovrebbe essere disponibile anche per coloro che, sebbene abili al lavoro, non riescono a
trovare un'occupazione retribuita sufficiente per soddisfare i propri bisogni essenziali. Queste
interpretazioni possono variare in base alla prospettiva politica e alla visione della protezione
sociale.
I diritti sociali sono strettamente collegati al principio di eguaglianza sostanziale poiché implicano
il riconoscimento di diritti che sono considerati "sociali" perché richiedono un'azione o una
prestazione da parte di un'associazione o di una istituzione. Questa distinzione è importante in
quanto differenzia i diritti sociali dai diritti individuali.
Per comprendere meglio questa distinzione, consideriamo un esempio: il diritto di proprietà. Nel
caso del diritto di proprietà, non è necessario l'intervento di altri soggetti o istituzioni per garantirlo
costantemente. Tuttavia, se qualcuno dovesse privarmi del mio diritto di proprietà, potrei rivolgermi
a un apparato legale o giuridico esterno per far valere tale diritto. In questo caso, l'applicazione
della norma richiede l'intervento di un'autorità esterna solo in situazioni specifiche.
Al contrario, i diritti sociali richiedono un'azione positiva da parte della società o dello Stato per
essere garantiti. Questi diritti sono spesso definiti come "diritti a prestazione", il che significa che
qualcuno o qualcosa (che sia pubblico o privato) deve fornire una prestazione o un servizio per
soddisfarli. Ad esempio, il diritto all'istruzione implica che le istituzioni educative debbano essere
disponibili e accessibili a tutti i cittadini, richiedendo un'azione attiva per garantire questo accesso.
Questa concezione dei diritti sociali rappresenta una differenza significativa rispetto alla struttura
dello Statuto Albertino, che si concentrava principalmente sulle "libertà negative". Le libertà
negative implicano che lo Stato non deve interferire o limitare i diritti dei cittadini. Tuttavia, questa
prospettiva è limitata alle libertà individuali e non affronta la questione delle disuguaglianze sociali
o dell'accesso a risorse e servizi essenziali.
Quando parliamo dei diritti costituzionali, è essenziale comprendere il concetto di "nucleo
essenziale". Questo significa che i diritti costituzionali hanno un nucleo intangibile che non può
essere completamente annullato o limitato. Anche quando possono essere soggetti a limitazioni,
queste limitazioni devono rispettare il nucleo essenziale dei diritti. Il Costituente ha previsto delle
restrizioni rispetto alle limitazioni di questi diritti, tra cui la "riserva di legge" (il Parlamento
stabilisce le circostanze in cui i diritti possono essere limitati) e la "riserva giurisdizionale" (il
giudice può limitare i diritti solo con un decreto motivato).
Il concetto di "nucleo essenziale" si applica anche ai diritti all'assistenza e alla previdenza
sociale. Questi diritti, che sono considerati parte dei diritti costituzionali, devono essere garantiti in
modo tale da non intaccare il loro nucleo essenziale. C’è differenza tra diritto all’assistenza e diritto
alla previdenza:
- Diritto all’assistenza: Secondo la Corte costituzionale il diritto all’assistenza riguarda gli
inabili al lavoro, che hanno diritto ad un minimo assistenziale volto a soddisfare il bisogno
alimentare.
- Diritto alla previdenza: Riguarda i lavoratori che si trovano in condizioni particolari come
infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia o disoccupazione involontaria, che hanno diritto al
soddisfacimento di altri bisogni oltre al minimo indispensabile per vivere.
Tali principi vengono convertiti in direttive d’azione dei pubblici poteri, ed è fondamentale in
quest’ottica analizzare il nesso tra lavoro e assistenza che porta a principalmente due prospettive
differenti:
Alcuni sostengono che la Costituzione implica una presunzione di piena occupazione o di
disoccupazione frizionale, e che quindi l'assistenza sia destinata all'inabile al lavoro. Questa
visione suggerisce che il welfare sia stato concepito dai costituenti con l'idea di fornire supporto
solo a coloro che sono realmente impossibilitati a lavorare (prospettiva assicurativa).
D'altra parte, ci sono interpreti che sostengono che la Costituzione può essere interpretata come
se fornisse una presunzione a favore di un reddito universale che non dipende dal lavoro. Questa
prospettiva si allinea con l'idea di fornire assistenza e previdenza a tutti, indipendentemente
dalla situazione lavorativa (approccio universalistico).
La tesi secondo cui il riconoscimento del diritto al lavoro implicherebbe un obbligo per i poteri
pubblici di garantire la piena occupazione è stata esclusa sia dalla giurisprudenza costituzionale che
dalla maggior parte della dottrina legale.
La Costituzione italiana riconosce il diritto al lavoro a tutti i cittadini, ma questa affermazione è
accompagnata dalla previsione che la Repubblica debba promuovere le condizioni che rendano
effettivo tale diritto. Ciò significa che la Costituzione non impone un obbligo diretto ai pubblici
poteri di assorbire completamente la disoccupazione e di garantire posti di lavoro.
Invece, il compito delle autorità pubbliche è quello di creare un ambiente favorevole
all'occupazione e di promuovere l'occupabilità dei cittadini. Pertanto, l'indennità di disoccupazione
non deve essere vista come un "risarcimento" per il mancato raggiungimento del pieno impiego.
La mancanza di un obbligo diretto dei poteri pubblici nel garantire la piena occupazione diventa
evidente se si considerano due questioni:
Nel corso dei lavori preparatori per la Costituzione, il presidente della commissione dei 75,
Ruini, ha affermato che il diritto al lavoro è da considerarsi come un diritto potenziale. La
Costituzione lo menziona affinché il legislatore possa promuoverne l'attuazione, in linea con
l'impegno assunto dalla Repubblica all'interno della stessa Costituzione. Questo implica che la
Repubblica deve creare le condizioni per favorire il diritto al lavoro, ma non esiste un obbligo
diretto di garantire la piena occupazione. È significativo notare anche il rigetto
dell'emendamento Montagna, che aveva lo scopo di obbligare lo Stato a coordinare e orientare
l'attività produttiva a livello nazionale per massimizzare il rendimento per la collettività,
sottolinea ulteriormente che non esiste un obbligo di questo genere.
Il confronto tra l’Art. 4 e l’art. 34 della Costituzione fornisce un ulteriore chiave di lettura;
nell’art 4 cost. la Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro,
mentre nell’art 34 cost. la Repubblica rende effettivo il diritto ai capaci e meritevoli di
raggiungere i gradi più alti degli studi, anche se privi di mezzi. Nel secondo caso è la repubblica
che ha il compito di rendere effettivo il diritto, è direttamente responsabile. Nel primo caso
invece la Repubblica ha il compito di promuovere tale diritto, promuovere dunque presuppone
che ci siano altri attori istituzionali o non istituzionali che aiutino la repubblica a rendere
effettivo tale diritto.
Quanto fin qui affermato aiuta a spiegare perché la disoccupazione involontaria è inclusa tra le
situazioni considerate nell'articolo 38, secondo comma, della Costituzione italiana. È importante
notare che la piena occupazione non rappresenta un obbligo giuridico, ma piuttosto un obiettivo da
perseguire per indirizzare l'azione dei pubblici poteri. Inoltre, l’indennità di disoccupazione non
deve essere considerata come un pagamento a titolo di risarcimento, ma piuttosto come uno
strumento di supporto in risposta a una situazione di inadeguatezza, la cui durata non è prevedibile,
dei mezzi finanziari a disposizione dei lavoratori per soddisfare le proprie esigenze di vita.
In sintesi, l'obbligo della Repubblica è quello di rendere effettivo il diritto al lavoro, ma ciò non
significa adottare un atteggiamento passivo. È fondamentale comprendere la distinzione tra
disoccupazione volontaria e involontaria per garantire un adeguato funzionamento del sistema di
assistenza e previdenza sociale.
La disoccupazione volontaria si riferisce a situazioni in cui un individuo sceglie volontariamente di
non cercare lavoro o di non contribuire alla società, nonostante ci siano opportunità disponibili. In
tali casi, la Costituzione italiana non riconosce un diritto automatico a ricevere un sostegno
economico.
D'altra parte, la disoccupazione involontaria si verifica quando un individuo è privato
involontariamente di un'opportunità di lavoro a causa di circostanze al di fuori del proprio controllo.
In queste situazioni, la Costituzione prevede il diritto a un sostegno economico per affrontare le
difficoltà causate dalla disoccupazione involontaria.
Questa distinzione è essenziale per garantire una responsabilizzazione collettiva. Tuttavia, è
importante sottolineare che la questione è molto complessa, poiché riguarda anche il numero di
individui disposti a svolgere lavori umili o meno gratificanti. È un tema dibattuto, come evidenziato
da Sylos Labini, e richiede un equilibrio tra la promozione del diritto al lavoro e la
responsabilizzazione individuale e collettiva.
Successivamente, nel saggio ci si concentra sui pubblici poteri e su come hanno gestito la
connessione tra lavoro e assistenza. Secondo Pinelli, un elemento costante, indipendentemente
dalle diverse filosofie politiche, è l'inadempimento del compito costituzionale di promuovere
l'occupazione.
Tale inattività coesiste con varie azioni intraprese dai pubblici poteri, tra cui l'erogazione di sussidi,
tentativi falliti di mediazione tra domanda e offerta di lavoro e la creazione di amministrazioni
come i centri per l'impiego, che tuttavia hanno spesso continuato a esistere senza conseguire
risultati significativi.
La Corte costituzionale ha esaminato la legislazione relativa all'occupazione giovanile compresa tra
il 1977 (legge n. 285 sull'occupazione giovanile) e il 1987 (legge n. 56 che ha riformato la
disciplina del collocamento).
Nella sua valutazione, la Corte ha evidenziato diverse criticità, tra cui la persistenza di disparità
regionali, la mancanza di coordinamento nei sistemi formativi; inoltre, le elevate spese sostenute
non sono state accompagnate da un miglioramento qualitativo della formazione o da un aumento
quantitativo dell'occupazione; infine, sono emerse nuove esigenze legate all'innovazione
tecnologica e alla necessità di nuove forme contrattuali e modalità di lavoro più flessibili, ma queste
esigenze non sono state soddisfatte adeguatamente.
La Corte costituzionale italiana ha il compito di controllare la costituzionalità delle leggi, ma il
suo ruolo è limitato dal fatto che non può creare nuove norme. Tuttavia, in alcune situazioni, può
influenzare indirettamente il legislatore spingendolo a rivedere le leggi incostituzionali,
contribuendo così al processo di legiferazione.
Nel saggio, Pinelli, si interroga sul fatto che le politiche attive del lavoro adottate dai pubblici
poteri potrebbero non essere effettivamente politiche "attive". Le politiche attive del lavoro
dovrebbero essere finalizzate al reinserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro, ma talvolta
sembrano concentrarsi principalmente sulla tutela del reddito e sull'equa distribuzione delle
opportunità di lavoro.
Il tema dell'assistenza sociale, secondo Pinelli, può essere affrontato prendendo in considerazione
quanto emerso dalla "Commissione per l'analisi delle compatibilità macroeconomiche della
spesa sociale" nota come Commissione Onofrio, nel 1997. Questa commissione ha evidenziato
alcune importanti considerazioni riguardo alle prestazioni monetarie di tipo passivo, come le
prestazioni monetarie e gli ammortizzatori sociali destinati ai disoccupati. Tali prestazioni, secondo
la commissione, non sono in grado né di ottenere risultati significativi in termini di ridistribuzione
delle risorse né di affrontare adeguatamente i reali bisogni dei beneficiari, fornendo loro opportunità
concrete.
La Commissione Onofrio ha sottolineato che, rispetto agli altri paesi europei, l'ammontare
complessivo della spesa per le politiche di protezione sociale in Italia è simile, ma la struttura
interna è notevolmente diversa, definendo questa situazione come una "grave anomalia". Queste
anomalie sono state analizzate in due aspetti:
In Italia, una percentuale significativa delle risorse destinate alla protezione sociale è orientata a
sostenere anziani e superstiti (51,5% della spesa totale, rispetto alla media europea del 45,3%).
D'altro canto, la spesa relativa a rischi come formazione/disoccupazione, famiglia/maternità e
altre forme di assistenza è inferiore (18,4%, rispetto alla media europea del 31,9%). La spesa
sanitaria in Italia è allineata con quella degli altri paesi europei.
Si osserva un marcato divario tra le prestazioni previste per i lavoratori inseriti nel mercato del
lavoro regolare, come quelli che lavorano in grandi imprese o nel settore pubblico, e le altre
prestazioni previste per gli altri lavoratori o per i non occupati. Ad esempio, la pensione di un
lavoratore con una posizione "forte" può essere fino a quattro volte superiore rispetto a quella di
chi riceve una pensione sociale. In altri paesi europei, questo divario è di solito di 1 a 2. Inoltre,
chi beneficia dell'indennità di mobilità in Italia (indennità assegnata ai lavoratori che perdono il
lavoro a seguito di procedure di mobilità) riceve più del doppio rispetto a chi riceve un'indennità
ordinaria. In altri paesi, il trattamento è uniforme per tutti i lavoratori. Si sottolinea anche
l'assenza di un reddito minimo per coloro che sono completamente privi di mezzi.
L'auspicio del "minimo vitale" proposto dalla Commissione Onofrio nel 1997 ha ricevuto diverse
risposte in Italia nel corso degli anni:
Legge n. 328 del 2000 "Legge Quadro per la Realizzazione del Sistema Integrato di
Interventi e Servizi Sociali": Questa legge ha introdotto il concetto di reddito minimo di
inserimento, tuttavia, l'effettiva sperimentazione di tale reddito è stata limitata a pochi
Comuni e ha incontrato notevoli difficoltà nella sua implementazione.
Carta Acquisti per i Cittadini Poveri (Social Card) - Anno 2000: Per far fronte
all'aumento della povertà, è stata introdotta la Carta Acquisti destinata ai cittadini più poveri.
Questa carta è stata concessa "al fine di soccorrere le fasce più deboli della popolazione in
stato di particolare bisogno". Tuttavia, questa "concessione" ha suscitato preoccupazioni a
livello costituzionale poiché sembrava non trattarsi di un diritto (come previsto dall'Articolo
38 della Costituzione), ma piuttosto di un beneficio derivante da una concessione dello
Stato.
Reddito di Inclusione - Anno 2017: Nel 2017 è stato introdotto il Reddito di Inclusione,
che prevede l'erogazione di una somma mensile insieme all'elaborazione di progetti
personalizzati volti all'attivazione e all'inclusione sociale e lavorativa dei beneficiari.
Reddito di Cittadinanza - Anno 2019: Nel 2019 è stato istituito il Reddito di Cittadinanza,
basato su trasferimenti finanziari e sull'opportunità per i beneficiari di accedere a corsi di
formazione e opportunità lavorative dedicate a un pubblico più ampio.
In relazione al reddito di cittadinanza, Mortati sottolinea come persista la tesi, utilizzata per
rispondere alle accuse di assistenzialismo, degli obblighi di assistenza come un "risarcimento" del
danno per il mancato raggiungimento della piena occupazione o come una compensazione delle
istituzioni per la mancata garanzia di uguaglianza di opportunità. Questa tesi è stata già confutata in
base all'articolo 4 e all'articolo 38 della Costituzione italiana.
Secondo Pinelli, è importante notare che le politiche finalizzate al raggiungimento di obiettivi,
come la promozione delle condizioni di vita, sono state spesso male impostate e raramente attuate in
modo efficace. Inoltre, Pinelli sottolinea che il reddito di cittadinanza presta un'attenzione del tutto
insufficiente alla natura e al rischio della povertà, in quanto questo è legato alla condizionalità al
lavoro. La condizionalità dovrebbe limitarsi a verificare il fenomeno dell'azzardo morale e a
superare eventuali barriere formative e informatiche che ostacolano l'accesso a un lavoro dignitoso.
Secondo Pinelli, la decisione di collegare politiche attive del lavoro e misure di contrasto alla
povertà attraverso l'introduzione della condizionalità non è da criticare di per sé. Tuttavia, è
importante notare che la legge non fornisce adeguati strumenti per dimostrare l'immediata
disponibilità al lavoro, in particolare quelli previsti per il reddito di cittadinanza sono considerati
troppo generici, poco credibili e spesso esistono solo sulla carta. Questo rappresenta un punto
debole che mette in evidenza le carenze strutturali delle politiche attive del lavoro in Italia.
4. Saggio: “Dal protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 alla rilettura dell’art. 39 cost.”
Il protocollo d'intesa siglato il 31 maggio 2013 da Confindustria, CGIL, CISL e UIL è stato letto
in una sequenza che va dall'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, al quale si propone di
dare applicazione, fino alla sentenza n. 231 del 13 luglio 2013 della Corte costituzionale che ha
dichiarato l'illegittimità dell'art.19 dello statuto dei lavoratori nella parte in cui non prevede che le
RSA possono essere costituite anche nell'ambito di associazioni sindacali che seppur non firmatarie
abbiano partecipato alla negoziazione.
Leggerli in sequenza è utile nella misura in cui accordo e protocollo d'intesa affrontano la questione
dell'individuazione della rappresentanza sindacale in vista del riconoscimento di un'efficacia dei
contratti collettivi per tutti i lavoratori del settore, elementi su cui incide la pronuncia della Corte
costituzionale. Gli esiti di tale sequenza sono, secondo Pinelli, incerti ed egli crede che seppure vi
fosse una soluzione accettata dalle parti sociali e adottata con legge questa non coinciderebbe con
l'attuazione (in senso stretto) della seconda parte dell'art. 39 Cost.
Il protocollo d'intesa del 31 maggio 2013 si propone di dare applicazione all'accordo del 28
giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula di Contratti Collettivi
Nazionali di Lavoro. Tuttavia, va notato che vi è una certa asimmetria di contenuti tra i due accordi,
con Pinelli che sottolinea come essi siano "incentrati su equilibri diversi". Nell'accordo del 2011,
solo i primi due degli otto punti trattano della contrattazione collettiva nazionale, mentre gli altri
riguardano quella aziendale. Nel protocollo del 2013, invece, si dedica principalmente al primo
livello di contrattazione, ovvero la contrattazione di primo livello a livello nazionale.
Il protocollo si suddivide in due sezioni principali:
1. Misurazione della Rappresentatività: Questa sezione stabilisce il criterio della
ponderazione tra il dato associativo e il dato elettivo nelle RSU e prevede che il 5% del
totale dei lavoratori della categoria rappresenti la soglia per la rappresentatività sindacale. Il
dato associativo si riferisce al numero di lavoratori iscritti al sindacato o quanti sono
tesserati, mentre il dato elettivo fa riferimento al numero di rappresentanti sindacali eletti
nelle RSU.
2. Titolarità ed Efficacia della Contrattazione: Questa sezione stabilisce che il contratto
collettivo nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e
normativi comuni a tutti i lavoratori del settore impiegati nel territorio nazionale.
L'accordo del 28 giugno 2011, invece, si propone di stabilire:
1. Le Linee Portanti di un Nuovo Rapporto tra Contrattazione Collettiva Nazionale e
Aziendale: L'obiettivo è trovare un punto d'incontro tra la stabilità delle condizioni di lavoro
nazionali e la flessibilità richiesta dalle diverse esigenze produttive.
2. Finalizzazione della Contrattazione a una Politica di Sviluppo Adeguata alle Diverse
Necessità Produttive: L'accordo del 2011 mira anche a orientare la contrattazione collettiva
verso una politica di sviluppo che possa adattarsi alle diverse esigenze produttive. Questo
implica la necessità di conciliare le esigenze della produzione con il rispetto dei diritti e
delle necessità delle persone.
All'interno di questo accordo, viene dato poco spazio al criterio della rappresentatività sindacale.
Viene fissata solamente la soglia del 5% come requisito per la legittimazione a negoziare. La
maggior parte del contenuto dell'accordo è dedicata alla contrattazione aziendale, evidenziando così
l'importanza di dare alle imprese una maggiore autonomia nella definizione delle condizioni di
lavoro all'interno dei propri contesti aziendali.
Nella prima sezione del protocollo del 2013, anziché applicare quanto previsto dall'accordo del
2011, vengono introdotte ex novo regole che riguardano la rappresentatività sindacale:
Punto 3: I contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle Organizzazioni Sindacali che
rappresentano almeno il 50% + 1 della rappresentanza, previa consultazione certificata delle
lavoratrici e dei lavoratori a maggioranza semplice, saranno efficaci ed esigibili. La
sottoscrizione dell'accordo sarà vincolante per entrambe le parti coinvolte.
Punto 4: Il rispetto delle procedure comporta l'applicazione degli accordi all'insieme dei
lavoratori e delle lavoratrici e la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti
firmatarie del protocollo. Le parti coinvolte si impegnano a dare piena applicazione agli accordi
così definiti e a non promuovere azioni di contrasto agli stessi.
Questi punti del protocollo del 2013 rappresentano un cambiamento significativo rispetto
all'accordo del 2011, in quanto stabiliscono nuove regole per la rappresentatività sindacale e
l'efficacia dei contratti collettivi nazionali. Le regole si basano sulla percentuale di rappresentanza
delle organizzazioni sindacali e introducono un processo di consultazione certificata delle
lavoratrici e dei lavoratori prima della sottoscrizione degli accordi. Ciò mira a garantire una
maggiore legittimità e applicabilità agli accordi collettivi.
Secondo Pinelli, parlare di "applicazione degli accordi all'insieme dei lavoratori e delle lavoratrici"
nel protocollo del 2013 è considerato più generico e meno impegnativo rispetto a quanto previsto
dall'accordo del 2011. Quest'ultimo sottolineava la funzione di garantire la certezza dei trattamenti
economici e normativi per tutti i lavoratori del settore su tutto il territorio nazionale. In altre parole,
l'accordo del 2011 aveva un obiettivo più ambizioso in termini di uniformità delle condizioni di
lavoro.
Tuttavia, secondo Pinelli, le parti firmatarie del protocollo del 2013 sembrano aver riconosciuto che
l'aspirazione a conferire efficacia erga omnes ai contratti collettivi nazionali superava le proprie
disponibilità. Nonostante ciò, l'aspirazione a una maggiore uniformità delle condizioni di lavoro
continua a essere presente, in particolare nel punto 3 del protocollo, che è considerato l'elemento più
incisivo e innovativo dell'intero documento. Questo punto stabilisce che i contratti collettivi
nazionali saranno efficaci ed esigibili, il che rappresenta un passo significativo verso la
standardizzazione delle condizioni di lavoro su scala nazionale.
Quest'aspirazione a una maggiore uniformità delle condizioni di lavoro va considerata alla luce
della sentenza n. 231 della Corte costituzionale, che sembra confermare la sequenza di eventi
indicata all'inizio del processo di negoziazione. La sentenza ha contribuito a delineare il percorso
verso una maggiore efficacia dei contratti collettivi nazionali e ha influenzato la direzione presa dal
protocollo del 2013.
La Corte costituzionale, nella sua decisione del 2013, ha rilevato che, una volta venuta meno la
funzione di selezionare i soggetti in base alla loro rappresentatività sindacale, la disposizione
impugnata si è prestata a una "eterogenesi dei fini". Questo significa che il criterio della
sottoscrizione dei contratti collettivi entra in collisione con gli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione
italiana.
La decisione della Corte del 2013 è stata interpretata come una "falsa sentenza additiva" (o
sentenza additiva manipolativa), poiché non ha aggiunto come sufficiente l'ipotesi esplicitamente
prevista della sottoscrizione, ma ha ritenuto necessaria e sufficiente la sola partecipazione delle
organizzazioni sindacali alle trattative.
Inoltre, sebbene la Corte abbia eliminato il requisito della sottoscrizione dei contratti collettivi
dell'art. 19 per costituire le RSA, sostituendolo con la partecipazione alle trattative, ciò non elimina
la necessità di verificare l'esistenza di un "contratto collettivo applicato nell'unità produttiva" ai fini
dell'applicazione dello stesso articolo.
Dal punto di vista sostanziale, la decisione di un sindacato di non firmare un contratto collettivo che
ha negoziato è considerata diversa dall'insufficienza rappresentativa che emerge dall'incapacità di
un sindacato a partecipare alle trattative.
La sentenza della Corte costituzionale del 2013 è strettamente collegata al protocollo del 2013 in
diversi modi chiave:
1. La Corte ha sottolineato che il raggiungimento del 5% di rappresentatività sindacale è un
prerequisito fondamentale sia per partecipare alla contrattazione collettiva nazionale, come
stabilito nel protocollo, che per la costituzione delle RSA. Questo ha reso uniformi i criteri per
entrambe le situazioni.
2. La sentenza della Corte non è stata emessa come un monito, ma come un'indicazione per il
legislatore. La Corte ha fornito diverse alternative possibili per affrontare la questione della
rappresentatività sindacale e dell'articolo 39 della Costituzione, lasciando al legislatore la
decisione su quale percorso intraprendere.
3. Diverse Versioni di Rappresentatività: La Corte è consapevole delle diverse definizioni di
rappresentatività sindacale nel corso degli anni. Dal concetto di rappresentatività presunta nel
1970 a quella effettiva nel 1975 e alla rappresentatività certificata e misurata nel 2013. La Corte
ha riconosciuto la necessità di adeguare il quadro legislativo alla nuova versione di
rappresentatività introdotta nel 2013.
Il richiamo all'articolo 39 della Costituzione, che riguarda la libertà sindacale e la rappresentanza
sindacale, è strettamente collegato alle alternative proposte nell'accordo del 2011 e nel protocollo
del 2013. In particolare, entrambi gli accordi cercano di affrontare la questione della
rappresentatività sindacale introducendo nuovi criteri. Ciò include l'obbligo di trattare con le
organizzazioni sindacali che superano una soglia di sbarramento e l'attribuzione del requisito
previsto dall'articolo 19 a un rinvio generale al sistema contrattuale nel suo complesso, anziché a
singoli contratti collettivi applicati nelle unità produttive.
Nonostante il richiamo all'articolo 39 della Costituzione, entrambi gli accordi non hanno impedito
di affrontare la questione della violazione del quarto comma di tale articolo. Questo comma afferma
che i sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono stipulare contratti collettivi di lavoro
con efficacia obbligatoria per tutti i membri delle categorie cui il contratto si riferisce. Tuttavia, se
la stipulazione di un contratto collettivo diventa l'unica premessa per ottenere i diritti sindacali e
viene subordinata all'assenso dell'impresa, si verifica una violazione dell'articolo 39, comma primo
e quarto. Questo perché tale pratica implica una sanzione per il dissenso sindacale, limitando così la
libera scelta del sindacato e delle forme di tutela considerate più adeguate per i propri
rappresentanti.
Pinelli evidenzia l'accusa di una presenza ingombrante dei commi successivi al primo dell'articolo
39 della Costituzione italiana. Questa presenza è attribuita a due fattori principali:
1. Peso dell'Evolvere dalla Contrattazione Corporativa a Quella Collettiva: Inizialmente,
l'Italia aveva un sistema di contrattazione corporativa, ma nel corso del tempo si è evoluta verso
una contrattazione collettiva. Questo cambiamento ha portato all'espansione degli articoli
successivi all'articolo 39 per regolare la contrattazione collettiva, le relazioni industriali e le
forme di tutela dei lavoratori.
2. Riposizionamento dell'Azione Sindacale nelle "Categorie": La presenza di articoli successivi
all'articolo 39 è anche dovuta al riposizionamento dell'azione sindacale all'interno delle
"categorie" di lavoratori. Ciò significa che le disposizioni successive cercano di definire le
competenze, le prerogative e le responsabilità delle organizzazioni sindacali all'interno di
specifiche categorie di lavoratori.
Durante la stagione della rappresentatività presunta, c'era la convinzione che ci fosse un divario
incolmabile tra la legittimazione delle organizzazioni sindacali risolta nel primo comma dell'articolo
39 e la presenza dei successivi commi. Questi commi presidiavano le questioni relative agli
obblighi delle organizzazioni sindacali e richiedevano una riserva di legge per l'attivazione di tali
obblighi.
L'articolo 39 della Costituzione italiana è stato oggetto di un importante tentativo di rilettura che
si basa sulla capacità dei principi costituzionali di adattarsi alle sfide del tempo grazie alla loro
struttura aperta. Questa rilettura invita a considerare l'elasticità della norma costituzionale e la
possibilità di sviluppare due progetti di legislazione sindacale distinti:
1. Primo Progetto: Una parte dell'articolo 39 può essere utilizzata per creare una legge
sindacale dettagliata che implica un intervento diretto nelle attività delle associazioni
sindacali. Questo progetto prevede l'attribuzione di un potere normativo esercitato attraverso
contratti collettivi ma garantito dallo Stato.
2. Secondo Progetto: Un'altra parte dell'articolo 39 garantisce la libertà delle organizzazioni
sindacali senza richiedere che la legge rimanga completamente passiva. In altre parole, la
legge può intervenire per rendere effettiva la libertà sindacale e sostenere l'esercizio
dell'autonomia collettiva.
Il quarto comma dell'articolo 39 non si oppone a interventi legislativi che conferiscono ai contratti
collettivi un'efficacia superiore a quella che avrebbero autonomamente. Tuttavia, si oppone agli
interventi legislativi che concedono a sindacati diversi da quelli registrati un monopolio legale nella
rappresentanza contrattuale di categoria con efficacia erga omnes.
Questo tentativo di rilettura dell'articolo 39 cerca di trovare un equilibrio tra il riconoscimento della
libertà sindacale e la necessità di regolamentare le relazioni industriali attraverso la legislazione
sindacale.
6. Saggio: “Conferimenti di funzioni a regioni ed enti locali e riforma del mercato del lavoro”
Il saggio esplora le analogie e le differenze tra il lavoro pubblico e privato, concentrandosi sulla
giurisprudenza della Corte costituzionale. L'autore, Pinelli, mira a esaminare le rappresentazioni del
rapporto di impiego pubblico e la loro coerenza con la costituzione.
A partire dalla sentenza n. 88 del 1963, emergono profonde differenze tra il lavoro pubblico e
privato sottolineate dalla Corte. Mentre il lavoro privato è principalmente regolato da leggi di
natura economica, alle quali le parti contraenti si adeguano, si riconosce la necessità di
regolamentare il pubblico impiego in modo diverso. Questa differenziazione riguarda criteri di
assunzione dei dipendenti, norme sulle promozioni, trasferimenti, collocamento a riposo e il
trattamento in caso di quiescenza.
Inizialmente, la Corte sottolinea la necessità di questa netta differenziazione. Tuttavia, in seguito, la
Corte comincia a considerare la legislazione volta a garantire la stabilità dell'impiego nel settore
privato e la possibilità di attività sindacale nell'ambito dell'amministrazione statale. Questo si
traduce in un sistema che promuove il coinvolgimento dei sindacati nelle discussioni sul trattamento
economico dei dipendenti pubblici.
Con la sentenza n. 49 del 1976, si osserva come le differenze tra il pubblico impiego e l'impiego
privato siano state notevolmente ridotte. Questa sentenza segna un punto importante nella
percezione delle differenze tra i due settori lavorativi.
Successivamente, con la sentenza n. 878 del 1988, la Corte costituzionale nota un cambiamento
sostanziale nella struttura e nella funzione della pubblica amministrazione. Questa trasformazione
ha portato a un'articolazione più complessa della pubblica amministrazione in vari centri, ciascuno
con funzioni e regimi diversi. Di conseguenza, le differenze tra il rapporto di impiego pubblico e il
rapporto di lavoro privato diventano sempre meno significative. La Corte, in questa sentenza,
annulla l'articolo 2 del D.P.R. 5 gennaio 1950 n. 180 nella parte in cui non prevede la
pignorabilità e la sequestrabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti dallo stato. Questa
azione elimina l'ultimo elemento che differenziava il pubblico impiego da quello privato in termini
di retribuzione.
Il processo di osmosi tra il pubblico impiego e l'impiego privato non è stato considerato
irreversibile, e vi sono state sentenze che hanno sottolineato la necessità di rispettare la riserva di
legge dell'art. 97 della Costituzione. Inoltre, sono state avanzate enunciazioni volte a giustificare
costituzionalmente le possibilità e i limiti di questo processo di osmosi.
Particolare attenzione è dedicata alla sentenza n. 68 del 1980, che l'autore del saggio, Pinelli,
considera la più lungimirante. Questa sentenza esclude l'estensione dell'art. 28 dello statuto dei
diritti dei lavoratori (sulla condotta antisindacale) ai sindacati del pubblico impiego. Questa
decisione è basata sull'osservazione della profonda differenza strutturale tra lo Stato, datore di
lavoro nel settore pubblico, e l'imprenditore privato. Lo Stato non partecipa in alcun modo a
situazioni conflittuali di natura economica, direttamente o indirettamente qualificate, e quindi non è
possibile sostenere che l'interesse delle imprese, dal punto di vista storico, sia equivalente
all'interesse dell'amministrazione come datore di lavoro nei rapporti di pubblico impiego.
Nella stessa sentenza n. 68 del 1980, si sottolinea che è stato un merito liberare il rapporto di
lavoro di impiego pubblico dalla prevaricante sovrapposizione del rapporto organico di ufficio.
Questa separazione netta tra i due tipi di relazione è stata enfatizzata per quanto riguarda la loro
regolamentazione, evidenziando le notevoli somiglianze con il lavoro privato. Tuttavia, sorge un
problema delicato una volta che queste distinzioni sono state apportate.
La questione principale riguarda fino a che punto e in quali ambiti soggettivi produca diversità
l'inclusione del lavoro in un'amministrazione regolata dal principio costituzionale del "buon
andamento". Questo principio non si riferisce solamente all'organizzazione interna dei pubblici
uffici ma si estende anche alla regolamentazione del pubblico impiego. In altre parole, è innegabile
che la disciplina del lavoro sia uno strumento che contribuisce alle finalità assegnate agli uffici
all'interno dei quali si struttura l'amministrazione pubblica. Questa prospettiva segue l'orientamento
della Corte costituzionale, che richiama la concezione del rapporto di pubblico impiego proposta da
Massimo Saverio Giannini un decennio prima.
La proposta di unificare il rapporto di lavoro pubblico e quello privato è motivata dalla deludente
esperienza attuativa della legge quadro n. 93 del 1983, che è stata problematica sotto tre aspetti
principali:
1. La legge quadro presentava ambiguità nelle formulazioni che determinavano la ripartizione
di attribuzioni di potestà normativa tra legge e contrattazione. Ciò ha generato critiche sia in
termini di opportunità, poiché avrebbe complicato qualsiasi processo di riforma
dell'organizzazione amministrativa, sia in termini di violazione della riserva di legge.
2. L'ambiguità della legge era intrinseca e non poteva essere risolta attraverso i rapporti di
forza tra le parti o le interpretazioni dei giudici. La giurisprudenza amministrativa tendeva a
restaurare la forza imperativa dei decreti di recezione degli accordi, il che aggiungeva
ulteriore complessità al quadro normativo.
3. La legislazione successiva alla legge quadro spesso contraddiceva o limitava le sue
disposizioni. Ad esempio, alcuni settori come i dipendenti della Consob o dell'Ente
Nazionale Ferrovie dello Stato venivano esclusi dal regime stabilito dalla legge quadro per
essere disciplinati in modo più privatistico. Questa micro-legislazione in deroga alla
contrattazione collettiva non si è affatto arrestata, nemmeno in materia di trattamento
economico, dove c'era il rischio che spinte particolaristiche ottenessero successo.
La questione diventava ancor più complicata perché negli anni '80 si sviluppava la tendenza a
migliorare l'efficienza e la produttività nella pubblica amministrazione attraverso fondi di
incentivazione, indennità di funzione o altre forme simili. Questo ha reso difficile determinare se in
ogni caso prevalesse davvero la spinta verso l'efficienza o se il richiamo all'efficienza fosse solo un
modo elegante e moderno per introdurre nuovi privilegi.
Secondo Pinelli, è importante notare che nemmeno una legge che stabilisce l'uniformazione del
rapporto di lavoro pubblico e privato potrebbe evitare il fenomeno della rilegificazione. In altre
parole, non sarebbe sufficiente una semplice unificazione per risolvere tutte le questioni legate alla
disciplina del lavoro pubblico.
Pinelli sottolinea l'importanza di considerare attentamente la tipologia del rapporto di pubblico
impiego. Alcuni hanno sostenuto che tale tipologia dovrebbe essere presa in considerazione durante
una riforma della disciplina e hanno proposto un'estensione dell'unificazione a tutto il pubblico
impiego. Tuttavia, c'è chi ha contestato questa idea, suggerendo che non tutti i dipendenti titolari di
potestà pubblica dovrebbero essere inclusi nella contrattazione collettiva.
La chiave per comprendere questa questione risiede nella nozione che, anche se questi dipendenti
sono lavoratori, ciò non significa automaticamente che il loro rapporto di lavoro debba essere
regolato dalla contrattazione collettiva. Tale equazione tra legge e atto unilaterale o autoritativo non
è sostenibile dal punto di vista costituzionale. Secondo l'articolo 97 della Costituzione, le scelte
politiche in questo ambito sono riservate al Parlamento, e insistere sul carattere unilaterale dell'atto
significherebbe adottare una prospettiva diversa rispetto all'ordinamento giuridico generale.
Considerare il semplice interesse organizzativo dell'amministrazione come equivalente all'interesse
collettivo dei dipendenti significherebbe trascurare la funzionalizzazione dell'amministrazione alla
tutela degli interessi pubblici. Inoltre, la disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali
deve tener conto di un'eccezione per i servizi pubblici comprensivi di servizi privati in cui sono
coinvolti interessi della collettività e valori costituzionali che non possono essere negoziati
liberamente tra le parti in conflitto.
Nella nostra legislazione, la tendenza verso una convergenza tra lo stato giuridico del lavoratore
privato e quello del lavoratore pubblico sembrerebbe preannunciare, piuttosto che una fusione, delle
fratture all'interno del modello uniforme dell'impiego pubblico autoritativo. La giurisprudenza
sembra confermare che questo fenomeno non è caratterizzato da un'attrazione irresistibile tra i due
mondi, ma piuttosto da un loro avanzare in orbite coordinate e convergenti. Nel contesto di queste
trasformazioni, il nocciolo del rapporto di pubblico impiego, cioè il rapporto di impiego
ministeriale, ha sempre meno rilevanza formale rispetto ad altri tipi di rapporti di impiego pubblico.
Pinelli sottolinea l'importanza della nozione di "responsabile dirigenziale" introdotta dall'articolo
19 del Decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R.) n. 748 del 1972 da parte del Consiglio
di Stato. Questa figura rappresenta un cambiamento significativo nella percezione del lavoro
pubblico. Nella responsabilità dirigenziale, ciò che assume rilevanza non è tanto il fatto che il
dirigente è stato più o meno osservante del proprio dovere, ma piuttosto quanto i risultati
complessivi dell'azione dell'ufficio corrispondano alle ragionevoli attese, sia dal punto di vista
quantitativo che qualitativo. In altre parole, il focus si sposta dai processi e dalla fedeltà formale
all'efficacia e all'efficienza nell'operato dell'ufficio pubblico.
La sentenza della Corte costituzionale, n. 331 del 1988, è significativa perché affronta questioni
relative all'accesso agli impieghi pubblici e fornisce indicazioni sulla convergenza tra il lavoro
pubblico e quello privato. In questo caso, la Corte ha dovuto giudicare una legge regionale che era
stata denunciata per violazione dell'articolo 97 della Costituzione, in quanto conferiva poteri
discrezionali alla giunta in merito alla nomina dei dirigenti.
La Corte ha escluso la presenza di discrezionalità e, in modo significativo, ha sottolineato che,
anche se la legge avesse dato rilevanza all'aspetto fiduciario nella nomina dei dirigenti, ciò non
avrebbe violato il principio di buon andamento. Anzi, il massimo rispetto per questo principio
potrebbe giustificare l'introduzione, da parte del legislatore regionale, di un sistema di selezione dei
massimi dirigenti dell'amministrazione che si basa su criteri oggettivi e riconosciuti di competenze
ed esperienze professionali, forse modellato sul carattere fiduciario dell'incarico nei confronti della
giunta o dei singoli assessori regionali.
La riflessione di Pinelli mette in luce come all'interno dell'amministrazione pubblica stiano
emergendo zone d'ombra rispetto al principio di legalità e come stia crescendo l'esigenza di una
significativa delegificazione. Questa tendenza è guidata dalla complessità dell'organizzazione
amministrativa e dalla qualità e quantità dei servizi da fornire, i quali spesso richiedono un grado
considerevole di discrezionalità da parte dei funzionari di livello più elevato e una maggiore
capacità manageriale.
In altre parole, le sfide attuali dell'amministrazione pubblica sono talmente complesse che la
semplice applicazione rigida delle normative e dei principi legali potrebbe non essere sufficiente per
affrontarle in modo efficace. Di conseguenza, si riconosce sempre più la necessità di concedere un
margine di discrezionalità ai funzionari di alto livello e di sviluppare nuove forme organizzative che
non possono essere completamente contenute nei tradizionali dogmi della responsabilità politica.
Questo approccio riflette il riconoscimento che, in alcuni settori dell'amministrazione pubblica, è
necessario concedere una certa autonomia decisionale ai funzionari per affrontare le sfide specifiche
e fornire servizi efficienti e di alta qualità. Ciò potrebbe comportare una maggiore flessibilità
nell'interpretazione e nell'applicazione delle leggi e dei regolamenti, pur mantenendo una rigorosa
attenzione ai principi di legalità e di trasparenza.
Il disegno di legge (d.d.l) governativo presentato alla fine del 1988 dedicato al riordino della
dirigenza statale e delle altre pubbliche amministrazioni territoriali e istituzionali riflette
ulteriormente le linee di tendenza che emergono nell'esperienza amministrativa italiana.
Nel d.d.l, si prevede che l'incarico di dirigente possa essere attribuito con un rapporto di natura
privatistica e possa essere assegnato a persone estranee all'amministrazione, a condizione che
abbiano le competenze e le professionalità necessarie per svolgere le funzioni richieste. Questo
incarico avrebbe una durata non superiore a 5 anni, rinnovabile, o potrebbe essere legato alla durata
della progettazione, esecuzione e verifica di specifici programmi. Questo evidenzia l'obiettivo di
rendere più flessibile l'accesso alla dirigenza pubblica e di attirare talenti esterni con competenze
specializzate.
Le finalità dichiarate complessivamente perseguite dal progetto includono:
1. Separare le competenze degli organi politici da quelle della dirigenza amministrativa,
garantendo che entrambi contribuiscano all'identificazione e alla formazione degli obiettivi
politici e alla loro attuazione.
2. Stabilire un circuito di responsabilità dei dirigenti nei confronti del ministro, ancorato ai
risultati o all'andamento della gestione. Ciò significa che i dirigenti sarebbero chiamati a
rispondere direttamente per i risultati ottenuti e l'efficienza dell'amministrazione.
Inoltre, il progetto attribuisce ai dirigenti generali una serie di compiti importanti, tra cui la
predisposizione di programmi articolati per progetti, l'organizzazione delle risorse umane e
finanziarie, e l'esercizio di tutti i poteri di spesa. Questi aspetti riflettono la volontà di rafforzare il
ruolo e la responsabilità della dirigenza pubblica nell'attuazione degli obiettivi politici e
nell'efficiente gestione delle risorse.
Secondo Pinelli, i richiami precedentemente discussi dimostrano come l'estensione dei principi del
lavoro privato ai dirigenti sia incompatibile non tanto con il progetto governativo quanto con
l'obiettivo di rendere più flessibile l'organizzazione e di responsabilizzare la dirigenza. Questa
incompatibilità diventa evidente soprattutto per coloro che già svolgono funzioni ad alta carica di
politicità all'interno dell'amministrazione pubblica.
Il progetto di estendere i principi del lavoro privato evoca un dilemma tra garantismo inefficiente e
efficienza arbitraria. Una volta riconosciuto che esistono valide ragioni per riformare la disciplina
del lavoro pubblico e che la distinzione tra le funzioni svolte dai dipendenti è il criterio
fondamentale che giustifica discipline diverse, rimane da definire cosa si intenda per "titolarità di
potestà pubblica."
Il problema è ampio e complesso, in quanto ci sono dirigenti che non esercitano una potestà
pubblica e l'ambito di applicazione della titolarità è molto più esteso rispetto alla dirigenza. Pinelli
richiama l'articolo 97 della Costituzione italiana, il quale stabilisce che la definizione dei rapporti
di lavoro nella pubblica amministrazione deve essere fissata per legge, anche se non ignora la
difficoltà di delineare con precisione questi concetti.
Secondo Pinelli, per sostenere una riforma così sostanziale come l'unificazione del regime di
pubblico impiego con quello privatistico, il sindacato non dovrebbe basare la sua argomentazione
unicamente sulla cattiva performance della legge quadro, ma dovrebbe presentare ragioni di
carattere più generale. La legge quadro potrebbe non aver prodotto risultati brillanti, ma il punto
centrale è che, quando si propone una riforma destinata a cambiare radicalmente il sistema di
pubblico impiego, sarebbe opportuno avere una visione consapevole e sistemica della situazione. Le
motivazioni che sostengono tale proposta sono cruciali, specialmente quando si afferma che essa è
una risposta alla deludente attuazione della legge quadro.
Pinelli conclude sostenendo che, dal suo punto di vista, l'unificazione del regime di pubblico
impiego con quello privatistico non contribuirebbe in modo determinante all'efficienza della
pubblica amministrazione. La riforma dovrebbe essere valutata in base a obiettivi chiari e alla sua
capacità di migliorare l'efficienza e l'efficacia dell'amministrazione pubblica. In altre parole, il
cambiamento dovrebbe essere giustificato da benefici concreti e misurabili, e non dovrebbe essere
visto come una soluzione automatica ai problemi esistenti.
9. Saggio: “La tutela della Corte contro il ricorso ad automatismi legislativi nella
determinazione dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo. Oss. a Corte cost. 194 del
2018”
*Sentenza n.194 del 2018: sentenza che sovverte il metodo di calcolo dell’indennità per licenziamento illegittimo.
Viene dichiarata l’illegittimità dell’art.3 del D.lgs. 4 marzo 2015 n.23 nella parte in cui determina tale indennità in un
importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio.
11. Saggio: “ Diritti e politiche sociali nel progetto di trattato costituzionale europeo”
Nel Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, approvato dalla Convenzione europea,
la dimensione sociale è enfatizzata con una chiarezza che contrasta con i silenzi presenti nel trattato
di Roma e le reticenze riscontrate nei trattati più recenti.
Il Trattato è stato firmato a Roma nel 2004, ma non ha ottenuto la ratifica da parte di Francia e
Paesi Bassi. Questo insuccesso ha portato all'inizio dei lavori sul trattato di Lisbona. È importante
notare che il trattato di Roma al quale si fa riferimento in questa parte è quello del 1957, che ha
sancito la nascita della Comunità Europea.
Nel suo saggio, Pinelli si concentra sull'analisi delle diverse situazioni iniziali degli Stati membri e
dell'Unione Europea in merito ai diritti sociali. Successivamente, esamina le modalità di
integrazione reciproca e le decisioni prese dai redattori del progetto di trattato costituzionale
riguardo a questo tema.
Nei dibattiti politico-costituzionali del secondo dopoguerra, prevalse l'idea che i diritti sociali
fossero strettamente legati all'elemento della prestazione pubblica e alla redistribuzione del reddito
in senso egualitario. Questa prospettiva prevalse rispetto a quella dei pluralisti, i quali
consideravano i diritti sociali come diritti legati all'integrazione del singolo nei gruppi sociali o
nelle formazioni sociali di appartenenza.
La tesi dell'egualitaria redistribuzione del reddito si impose in quanto le promesse di interventi
pubblici per ridurre la povertà generalizzata trovavano maggiore sostegno in un contesto come
quello del dopoguerra. Di conseguenza, le idee dei pluralisti furono sconfitte, poiché in un'epoca
segnata da una diffusa povertà, prevalse la visione di un intervento pubblico mirato a ridistribuire il
reddito in modo più equo.
All'epoca del Trattato di Roma del 1957, l'aspirazione alla prosperità era ancora considerata una
condizione essenziale per il riscatto sociale e la dignità umana. Questa aspirazione era al centro
delle preoccupazioni delle élite dirigenti degli stati della cosiddetta "piccola Europa," composta da
Italia, Francia, Repubblica federale della Germania (Germania Ovest), Belgio, Paesi Bassi e
Lussemburgo.
Tuttavia, ciò che differenziava questo periodo da quello delle assemblee costituenti di un decennio
prima erano gli strumenti a disposizione. La Comunità Economica Europea (CEE) era orientata
principalmente a creare un mercato comune, un obiettivo meno ambizioso rispetto alla creazione di
una nazione e difficile da trasformare in una federazione. La creazione della comunità economica
europea contribuì, insieme ad altre condizioni internazionali, a garantire benessere e pace tra gli
Stati che avevano originato le due guerre mondiali.
Il successo del processo di integrazione dei mercati aveva mantenuto la sua estraneità originale
rispetto alle aspirazioni legate alle costituzioni e alle tradizioni degli Stati membri. Allo stesso
tempo, gli Stati membri, attuando i principi costituzionali dei diritti sociali, rafforzavano la
dimensione nazionale del diritto costituzionale. Ad esempio, in Svezia, lo "stato sociale"
significava "stato del popolo," e in molti paesi, l'istituzione dello stato sociale contribuiva a
rafforzare la dimensione nazionale del diritto costituzionale.
La separazione tra aspetti economici e politici dell'Unione Europea termina con il Trattato di
Maastricht, il quale segna la nascita dell'"Europa Sociale." Questo trattato, raggiungendo il
traguardo del mercato unico, istituisce l'Unione Europea con obiettivi chiaramente politici che
coinvolgono gli Stati membri e i loro popoli.
Maastricht pone per la prima volta il problema dell'incontro tra due ambiti istituzionali: quelli
dell'Unione e dei suoi Stati membri. Tuttavia, né in questa occasione, né successivamente, l'idea di
uno stato sociale europeo si è mai concretizzata.
Di solito, l'Unione Europea non dispone di propri apparati amministrativi; l'attuazione della
normativa europea spetta quasi sempre alle amministrazioni degli Stati membri, secondo il modello
dell'amministrazione indiretta o del federalismo d'esecuzione, simile a quello degli stati federali
come la Germania. Questo approccio mira a evitare la creazione di un apparato burocratico
centralizzato a Bruxelles. Tuttavia, nonostante ciò, l'Unione è spesso percepita come un'entità
distante dai cittadini a causa della sua burocratizzazione.
Le istituzioni del welfare e una protezione sociale completa richiedono risorse finanziarie
significative, molto al di là di quanto previsto dall'Unione Europea. Per diventare uno stato sociale a
tutti gli effetti, l'Unione dovrebbe essere completamente ripensata nei suoi principi, obiettivi e
regole di funzionamento.
Quando i documenti ufficiali e i trattati europei fanno riferimento alle "politiche sociali"
dell'Unione Europea, si riferiscono a un concetto più limitato.
Ad esempio, l'articolo 136 del Trattato CE elenca gli obiettivi delle politiche sociali, tra cui la
promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una protezione
sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane per garantire un livello
occupazionale adeguato e duraturo, nonché la lotta contro l'emarginazione. Tuttavia, la parte
rimanente dello stesso articolo circoscrive notevolmente la portata di questi impegni, stabilendo che
tali politiche devono tenere conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare delle relazioni
contrattuali e delle necessità di mantenere la competitività dell'economia della comunità.
Le politiche sociali dell'Unione Europea sono caratterizzate dal costante rivolgersi verso i lavoratori
per combattere le discriminazioni e verso il mercato del lavoro per incrementare l'occupazione.
Inoltre, tali politiche si concentrano su ambiti circoscritti, come le discriminazioni di genere e
consultazioni sindacali su questioni specifiche, piuttosto che su politiche sociali in generale.
La normativa dell'Unione Europea non ha sostituito né si è sovrapposta a quella degli Stati membri,
ma ha creato un doppio livello di discipline. Questa situazione è stata oggetto di diverse
interpretazioni e dibattiti.
La strutturale ambiguità delle politiche sociali dell'Unione riflette eventi storici significativi. Ad
esempio, il principio di pari trattamento retributivo tra uomini e donne fu inserito nel trattato su
richiesta della Francia. Questo fu fatto per il timore che l'apertura del mercato ai paesi in cui il
differenziale retributivo tra uomini e donne era molto più alto, come Olanda e Italia, avrebbe potuto
danneggiare le imprese francesi.
La discussione sulle finalità delle politiche sociali dell'Unione Europea è stata plasmata da due
importanti novità che hanno avuto un impatto significativo sulla sua evoluzione. Queste novità sono
emerse all'indomani del progetto di trattato costituzionale europeo e hanno contribuito a ridefinire il
ruolo e l'ambito delle politiche sociali nell'Unione. In questo contesto, la strategia elaborata dal
Consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000 ha delineato un obiettivo ambizioso; inoltre, la
proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, conosciuta come Carta
di Nizza, ha aggiunto un nuovo strato di protezione dei diritti dei cittadini europei. Questa Carta è
stata solennemente proclamata nel 2000 e successivamente rafforzata con l'entrata in vigore del
"Trattato di Lisbona" nel 2007, ottenendo lo stesso valore giuridico dei trattati stessi.
La strategia elaborata a Lisbona non solo ha stabilito un ambizioso traguardo di raggiungere la
piena occupazione nell'Unione Europea entro il 2010, ma ha anche introdotto un approccio
integrato per perseguire questo obiettivo. L'obiettivo principale era sviluppare le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione come base per una crescita economica sostenibile con la
creazione di nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.
Questo approccio integrato ha incluso un forte impulso all'istruzione e alla ricerca, l'integrazione
dei programmi di ricerca europei e nazionali, la promozione dell'imprenditorialità e il
completamento del mercato interno attraverso la liberalizzazione di settori come il gas, l'elettricità, i
servizi postali e i trasporti. Tuttavia, un rapporto successivo elaborato da una task force incaricata di
valutare lo stato dell'occupazione nell'Unione ha evidenziato gravi ritardi e carenze degli Stati
membri nel recepire le indicazioni della strategia di Lisbona. Si è quindi rivelato che la piena
occupazione poteva essere realizzata solo attraverso una combinazione di politiche economiche,
sociali e del lavoro, con l'adozione dell'"Open Method of Coordination" tra gli Stati membri su
impulso del Consiglio europeo come traduzione istituzionale.
La proclamazione della Carta di Nizza ha ulteriormente enfatizzato la dimensione sociale nel
dibattito pubblico europeo. Questa Carta non si è limitata a riconoscere i classici diritti sociali,
come il diritto all'istruzione, all'assistenza e alla salute, ma ha anche affermato che l'Unione
Europea si fonda sui valori indivisibili della dignità umana, della libertà, dell'uguaglianza e della
solidarietà. Questi valori costituiscono i titoli in cui si articola la Carta e rappresentano la base dei
diritti fondamentali che essa riconosce.
Alcuni studiosi hanno interpretato i diritti sociali affermati dalla Carta come obiettivi delle
politiche statali piuttosto che come diritti immediatamente esigibili. Questa prospettiva non è vista
come un punto di debolezza, ma piuttosto come una forza di un diritto sovranazionale in fase di
sviluppo. Inoltre, alcuni moderni diritti sociali, tra cui quelli relativi alla formazione professionale e
alla formazione permanente per la tutela dei lavoratori disoccupati, sono sempre più protetti tramite
procedure invece che attraverso il tradizionale ricorso giurisdizionale.
Nel processo di ripensamento degli strumenti di garanzia dei diritti sociali, emerge la possibilità di
colmare, almeno in alcuni settori, il tradizionale divario tra un'Unione fondata principalmente sul
mercato e un concetto di stato costituzionale in cui i diritti sociali sono considerati come diritti a
prestazioni concretamente realizzabili. Esso si riferisce al rapporto tra la Carta dei Diritti e le
legislazioni nazionali, da cui emerge una maggiore complessità nel rapporto tra i diritti sociali e le
politiche sociali dell'Unione.
Sia a Nizza che a Lisbona, si è cercato di adottare un approccio integrato in cui le politiche sociali
diventano una parte fondamentale della missione dell'Unione, mentre i diritti sociali diventano parte
integrante del patrimonio indivisibile dei valori su cui l'Unione si fonda. Tuttavia, per garantire che
il coordinamento delle politiche regolative nazionali, come impostato a Lisbona, possa "realizzare
tutti i suoi potenziali effetti virtuosi", è essenziale un costante allineamento con i principi sanciti
nella Carta dei Diritti.
In confronto ai tradizionali meccanismi di gestione delle azioni di prestazioni pubbliche legate ai
diritti sociali, la strategia di Lisbona rappresenta un cambiamento significativo, spostando
l'attenzione dall'erogazione delle prestazioni sociali alle condizioni che rendono sostenibile la loro
erogazione. Questo spostamento richiede un ampio consenso e una stretta collaborazione da parte
delle autorità nazionali. Tuttavia, va notato che, sebbene gli Stati membri rimangano protagonisti
primari nella definizione delle politiche sociali europee, il contesto istituzionale multilivello in cui
operano presenta una crescente complessità e vincolatività.
È in questo contesto che il riconoscimento dei diritti sociali cessa di essere un semplice espediente
retorico e diventa una bussola indispensabile per orientare le politiche sociali e i processi decisionali
a livello europeo. In questo modo, i diritti sociali non sono solo dichiarati, ma diventano una forza
guida per le politiche sociali, contribuendo a garantire che i diritti dei cittadini siano effettivamente
protetti e promossi nel contesto dell'Unione Europea.
In conclusione, abbiamo esaminato il motivo per cui la creazione di un sistema di welfare modellato
sull'approccio nazionale non è un'opzione realistica nell'ambito dell'Unione Europea. Abbiamo
esplorato l'evoluzione incerta delle politiche occupazionali e del lavoro dell'Unione fino agli anni
'90, rilevando le sfide e le ambiguità presenti in questo settore.
Successivamente, abbiamo analizzato come la strategia di Lisbona e la Carta di Nizza abbiano
contribuito a mettere in evidenza in modo più chiaro e completo gli aspetti fondamentali e
complementari della dimensione sociale dell'Unione Europea. Questo approccio integrato ha
superato le resistenze verso una visione troppo settoriale delle politiche sociali, offrendo una visione
più coerente e inclusiva dell'ambito sociale dell'Unione.
Questa analisi ha permesso a Pinelli di esaminare le disposizioni del progetto costituzionale europeo
relative alla dimensione sociale con una maggiore consapevolezza della portata delle sfide e delle
opportunità in gioco.
Nella prima parte del progetto costituzionale, si sottolinea che l'Unione Europea è fondata su
valori quali la libertà, la democrazia e l'uguaglianza, con l'obiettivo di sviluppo sostenibile basato su
un'economia sociale di mercato altamente competitiva, che mira alla piena occupazione e al
progresso sociale. La politica sociale è riconosciuta come un settore di competenza concorrente tra
l'Unione e gli Stati membri, con l'Unione che adotta misure volte a coordinare le politiche
occupazionali degli Stati membri, ad esempio attraverso l'adozione di orientamenti politici comuni.
Inoltre, viene sottolineato il ruolo delle parti sociali nell'Unione e la promozione del dialogo tra di
esse, nel rispetto della loro autonomia.
Nella seconda parte del progetto costituzionale, viene inclusa la Carta dei Diritti Fondamentali
dei Cittadini dell'Unione, che abbraccia tutti i diritti sociali tradizionali.
Nella terza parte, sono dedicate sezioni specifiche all'occupazione, alla politica sociale e alla
coesione economica, sociale e territoriale, evidenziando l'importanza e la centralità di queste
tematiche nel contesto costituzionale europeo.
In questo modo, il progetto costituzionale europeo riflette un impegno verso una dimensione sociale
più ampia e integrata all'interno dell'Unione Europea, con l'obiettivo di garantire una maggiore
coesione sociale e una migliore tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei.
In sintesi, il progetto di trattato costituzionale regola una vasta gamma di aspetti legati alla
dimensione sociale che sono emersi nel contesto giuridico dell'Unione Europea. Tuttavia, finora
sono emerse due principali critiche:
1. Le disposizioni relative ai diritti e ai principi sociali all'interno del trattato costituzionale
potrebbero essere percepite come carenti di quella normatività e vincolatività che tali diritti
e principi hanno conquistato nelle costituzioni dei paesi laburisti e democratico-sociali del
secolo scorso. In altre parole, alcune voci ritengono che i diritti sociali nell'ambito
dell'Unione Europea potrebbero non avere la stessa forza e protezione che hanno in alcuni
stati membri.
2. La sezione della parte terza del trattato costituzionale dedicata alle politiche sociali potrebbe
non aver completamente risolto l'incoerente ripartizione delle competenze tra gli Stati
membri e l'Unione Europea. Questa ripartizione incoerente coinvolge questioni relative alla
politica economica, alla moneta, al welfare e alla sicurezza sociale. Inoltre, potrebbe esserci
una certa confusione riguardo alla disciplina del lavoro indotta dal mercato unico.
Tuttavia, secondo Pinelli, sarebbe più produttivo concentrarsi su questioni specifiche relative alla
dimensione sociale dell'Unione Europea e sulla sua Costituzione. Questa Costituzione è un progetto
con possibilità da esplorare e valorizzare, situandosi tra le intenzioni e le realizzazioni concrete.
L'obiettivo è comprenderne appieno il potenziale e lavorare verso una maggiore coesione sociale e
la realizzazione dei diritti sociali nell'Unione Europea
La mancata costruzione di uno "Stato sociale europeo" e la prevalenza delle politiche sociali
rivolte ai lavoratori e non ai cittadini possono essere spiegate da diverse ragioni:
1. Mancanza di apparati amministrativi propri dell'Unione: L'Unione Europea non dispone di
un apparato amministrativo centrale per attuare politiche sociali. L'attuazione delle normative
europee spetta alle amministrazioni degli Stati membri, seguendo un modello di federalismo
d'esecuzione simile a quello presente negli Stati federali europei.
2. Evitare un Moloch burocratico a Bruxelles: L'Unione Europea ha cercato di evitare la
creazione di un'enorme burocrazia centralizzata a Bruxelles. Questo approccio è stato adottato
per mantenere un certo grado di flessibilità e per evitare che l'Unione diventi eccessivamente
centralizzata.
3. Necessità di risorse finanziarie ingenti: La creazione di uno "Stato sociale europeo"
richiederebbe ingenti risorse finanziarie che l'Unione Europea attualmente non possiede. La
gestione di un sistema di welfare richiederebbe finanziamenti significativi, e gli Stati membri
spesso preferiscono mantenere il controllo sui propri budget sociali.
4. Eccezione per il settore agricolo: Un'eccezione a questa mancanza di uno "Stato sociale
europeo" è rappresentata dal settore agricolo, con la Politica Agricola Comune (PAC), che
costituisce un sistema di welfare specifico per gli agricoltori e rappresenta un'area in cui
l'Unione Europea ha un ruolo più attivo.
Quando i trattati europei e i documenti ufficiali si riferiscono alle "politiche sociali", si intendono
in realtà politiche più circoscritte e mirate a promuovere l'occupazione, migliorare le condizioni di
lavoro e combattere l'emarginazione. Queste politiche sono rivolte principalmente ai lavoratori, con
l'obiettivo di combattere le discriminazioni nel mercato del lavoro e di aumentare l'occupazione. In
questo senso, l'Unione Europea ha una visione più specifica delle politiche sociali rispetto alle
politiche redistributive tipiche degli Stati del benessere.
La sovrapposizione della normativa europea a quella degli Stati membri ha dato luogo a diverse
interpretazioni, e ciò ha portato a diverse tesi e orientamenti, tra cui:
1. Una tesi sostiene che le politiche antidiscriminatorie dell'Unione Europea mirano
principalmente a evitare distorsioni sul mercato del lavoro, il che potrebbe alterare le condizioni
di libera concorrenza.
2. L’orientamento sostenuto dalla Corte di Giustizia è che le disposizioni del Trattato CE sul pari
trattamento retributivo non abbiano solo l'obiettivo di garantire la concorrenza sul mercato, ma
anche di promuovere il progresso sociale come fine a sé stesso. Ciò significa che le politiche
sociali dell'Unione non si limitano a evitare distorsioni economiche, ma mirano anche al
miglioramento delle condizioni sociali.
Le dispute si riferiscono spesso a una differenza fondamentale tra due concetti di eguaglianza:
l'eguaglianza redistributiva, che si concentra sulla correzione delle disuguaglianze economiche, e
l'eguaglianza di status, che si concentra sul miglioramento delle condizioni di vita e sul
riconoscimento sociale. Questa dicotomia impedisce di cogliere appieno la possibile
complementarità tra le due accezioni di eguaglianza.
Secondo Pinelli, è necessario superare questa dicotomia e considerare una nozione più comprensiva
di inclusione sociale. Questo significa riconoscere che la correzione delle disparità di status
richiede anche misure redistributive, e viceversa, la correzione delle disuguaglianze economiche
può comportare cambiamenti nelle gerarchie di riconoscimento sociale. Pertanto, un approccio più
completo all'eguaglianza dovrebbe mirare all'inclusione sociale in tutte le sue dimensioni.
Pinelli mette in evidenza l'evoluzione dei principi di non discriminazione e di eguaglianza nel
contesto dell'Unione Europea
1. Il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità: Inizialmente, questo
principio era strettamente legato alla libertà di circolazione all'interno del mercato comune.
Tuttavia, nel corso del tempo, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha ampliato il suo
significato e riferito tale principio non solo alla circolazione dei beni e dei servizi, ma anche ai
diritti sociali dei cittadini europei. Ciò implica che la non discriminazione sulla base della
nazionalità è diventata una condizione per garantire i diritti sociali dei cittadini europei.
2. Il principio di eguaglianza: Questo principio è strettamente connesso alla pari dignità sociale.
La Corte costituzionale italiana, in casi di "discriminazione al rovescio" (cioè, la
discriminazione nei confronti dei cittadini italiani), ha fatto uso del principio comunitario di non
discriminazione basata sulla nazionalità. Questo significa che il principio di eguaglianza è stato
applicato per garantire che i cittadini italiani non subiscano discriminazioni in base alla loro
nazionalità all'interno dell'Unione Europea.
Pinelli affronta poi il dilemma tra equità ed efficienza del mercato, un assioma ricorrente nelle
politiche ed economie dei paesi europei. Questo dilemma afferma che le politiche economiche e
sociali devono trovare un equilibrio tra l'obiettivo di garantire l'equità sociale, cioè, ridurre le
diseguaglianze e garantire la protezione sociale, e l'obiettivo di promuovere l'efficienza del mercato,
cioè, favorire la competitività economica e la crescita.
Tuttavia, Pinelli suggerisce che non si dovrebbe considerare questo dilemma come una scelta
esclusiva tra equità o efficienza. Invece, dovremmo riconoscere che c'è spazio per una
complementarità tra questi due obiettivi. Ad esempio, i mercati del lavoro possono essere progettati
in modo da garantire non solo efficienza economica ma anche una certa equità e protezione contro i
rischi legati alla disoccupazione e ai bassi redditi. Questo approccio permette di bilanciare i due
obiettivi in modo più armonioso, riconoscendo che l'efficienza economica può essere migliorata
anche quando le politiche sociali sono ben progettate.
Inoltre, Pinelli sottolinea che queste differenze di vedute dovrebbero essere affrontate in un contesto
europeo più ampio, anziché basarsi su schemi comodi derivati dalle specifiche storie nazionali.
Questo implica una maggiore cooperazione e coordinamento tra gli Stati membri e una
responsabilità condivisa nell'affrontare le sfide sociali ed economiche a livello europeo, invece di
scaricare la colpa su Bruxelles o mantenere le politiche rigidamente ancorate alle specifiche
tradizioni nazionali.
Perché le istituzioni europee possano affrontare efficacemente i dilemmi e promuovere politiche che
bilancino equità ed efficienza, è fondamentale che agiscano in modo complementare e in costante
raccordo con i principi enunciati nella Carta dei diritti. Questo approccio diventa ancora più
rilevante dopo l'adozione della Carta di Nizza e della Strategia di Lisbona.
La Strategia di Lisbona, varata dal Consiglio Europeo, aveva l'obiettivo di promuovere la crescita
economica sostenibile con la creazione di nuovi e migliori posti di lavoro, insieme a una maggiore
coesione sociale. Questa strategia aveva come strumento istituzionale il "metodo aperto di
coordinamento," che comportava varie fasi:
1. La Commissione europea presentava linee guida e formulava raccomandazioni agli Stati
membri.
2. Gli Stati membri, con la partecipazione delle autonomie territoriali e delle parti sociali,
attuavano le linee guida della Commissione.
3. La Commissione aveva il compito di sviluppare le migliori pratiche e inviare annualmente una
relazione sui progressi al Consiglio europeo, che aveva un ruolo guida e di coordinamento per
garantire la coerenza globale ed efficacia nei progressi volti al raggiungimento degli obiettivi
strategici.
Questo approccio avrebbe dovuto assicurare una coerente implementazione delle politiche
economiche e sociali nei vari Stati membri, garantendo al contempo il rispetto dei principi enunciati
nella Carta dei diritti, tra cui l'equità sociale. L'obiettivo era creare una crescita economica basata
sulla conoscenza, competitiva e dinamica, insieme a una maggiore coesione sociale nell'Unione
europea.
La strategia di Lisbona, se confrontata con i tradizionali meccanismi di gestione ed erogazione
delle prestazioni pubbliche nei diritti sociali, rappresenta un cambiamento significativo
nell'approccio alle politiche sociali europee. Invece di un intervento pubblico diretto e pesante, la
strategia di Lisbona sposta l'attenzione verso soluzioni più decentralizzate e flessibili.
Alcune caratteristiche chiave di questa strategia includono:
1. La strategia di Lisbona si basa principalmente su strumenti di "soft law" anziché su obblighi
comunitari vincolanti. Questo significa che si tratta più di raccomandazioni e orientamenti
piuttosto che di norme vincolanti. Questo approccio consente maggiore flessibilità e adattabilità,
ma può anche mancare di efficacia senza sanzioni formali in caso di inadempienza.
2. La strategia di Lisbona applica il principio di sussidiarietà, che assegna compiti e funzioni
amministrative all'ente di livello superiore solo quando non possono essere svolte in modo
efficace dall'ente di livello inferiore. Questo principio mira a garantire che le decisioni siano
prese al livello più vicino possibile ai cittadini. Ad esempio, le politiche sociali possono essere
attuate a livello nazionale o locale, anziché attraverso direttive centralizzate dall'alto.
Questo significa un allontanamento dalla tradizione di regolazione dall'alto tipica della tradizione
giuridica romano-germanica. In passato, le politiche sociali dell'Unione erano spesso guidate da
direttive centrali. La strategia di Lisbona abbraccia un approccio più decentrato e flessibile.
Il Metodo Aperto di Coordinamento è una forma di cooperazione tra gli Stati membri che si basa
su obiettivi comuni, ma senza imposizioni rigide o automatiche di regolamenti. Questo rappresenta
un compromesso tra l'assimilazione completa e il mutuo riconoscimento automatico. Nel contesto
del mercato del lavoro, ad esempio, la strategia di Lisbona ha abbandonato la regola
dell'assimilazione rigida, che era precedente, e ha promosso una maggiore cooperazione tra gli Stati
membri per raggiungere obiettivi comuni.
La proclamazione della Carta dei diritti a Nizza rappresenta un momento significativo in cui la
dimensione sociale viene posta al centro della sfera pubblica europea. Questo rappresenta un
importante spostamento rispetto alla tradizionale distinzione tra diritti individuali di libertà e diritti
sociali che era stata tipica del costituzionalismo europeo del secondo dopoguerra. La Carta
abbraccia il principio di indivisibilità dei valori, che significa che non dovrebbe esserci una
gerarchia fissa tra i diritti individuali di libertà e i diritti sociali, ma piuttosto una loro composizione
dinamica e armoniosa.
In particolare, la Carta assorbe il patrimonio costituzionale europeo, che include elementi sia del
modello socialdemocratico che di quello liberale. Un esempio di questa sintesi è il concetto di
persona, che sottolinea l'importanza dei diritti individuali e sociali nell'ambito dei diritti
fondamentali. I redattori della Carta riconoscono che né il modello socialdemocratico né quello
liberale da soli sono sufficienti per affrontare le nuove sfide e le sfide emergenti legate ai diritti
fondamentali.
La considerazione che alcuni diritti sociali affermati nella Carta dei diritti siano visti come obiettivi
di politiche statali anziché come diritti immediatamente esigibili non rappresenta una debolezza del
diritto sovranazionale in formazione, ma potrebbe essere vista come una sua forza. Questo significa
che tali diritti sociali, come il diritto al collocamento gratuito o i diritti alla formazione
professionale e alla formazione permanente per i lavoratori disoccupati, possono essere interpretati
come obiettivi che richiedono l'azione degli Stati membri per essere attuati.
In altre parole, invece di rappresentare obblighi diretti dell'Unione Europea o della Corte di
Giustizia Europea, tali diritti potrebbero legittimare leggi nazionali che proteggono i soggetti deboli,
in particolare quelli colpiti dalla mancanza di lavoro o dalla disoccupazione. Questo potrebbe
consentire una maggiore flessibilità e adattabilità nell'attuazione di politiche sociali a livello
nazionale, tenendo conto delle specificità e delle esigenze di ciascuno Stato membro.
Tuttavia, è importante notare che questa ipotesi non equivale alla giustiziabilità diretta di tali diritti
sociali, come avviene per i diritti civili e politici. Invece, potrebbero essere oggetto di un'attuazione
procedurale attraverso leggi nazionali e politiche, piuttosto che essere direttamente soggetti a
giudizio davanti a una corte sovranazionale.
L'analisi di Pinelli suggerisce che la complementarità tra Nizza e Lisbona può essere valutata
principalmente in base all'efficacia dell'attuazione delle politiche sociali e alla garanzia dei diritti
sociali nell'Unione Europea. Finora, la strategia di Lisbona sembra incontrare ostacoli significativi e
difficoltà insormontabili.
Le ragioni del fallimento della strategia di Lisbona sono state attribuite a diverse cause, tra cui:
1. Fallimento legato allo strumento di coordinamento aperto in sé: Il metodo aperto di
coordinamento utilizzato nella strategia di Lisbona potrebbe non essere stato efficace
nell'indurre gli Stati membri a compiere cambiamenti significativi nelle loro politiche sociali ed
economiche. Questo strumento potrebbe non aver fornito sufficienti incentivi o meccanismi di
controllo per garantire un'attuazione efficace delle politiche.
2. Mancanza di incentivi per gli Stati membri a cambiare politica: Secondo Pinelli, una delle
ragioni del fallimento potrebbe essere la mancanza di incentivi sufficienti per gli Stati membri a
modificare le proprie politiche e adottare le riforme necessarie per raggiungere gli obiettivi della
strategia di Lisbona. In altre parole, gli Stati membri potrebbero non aver avuto abbastanza
motivazione per impegnarsi pienamente nell'attuazione delle politiche sociali.
Secondo l'analisi di Pinelli, la strategia di Lisbona rappresentava un tentativo di riorientare la
spesa pubblica verso settori come la formazione, la ricerca e l'innovazione tecnologica, che sono
importanti per la crescita economica, ma che potrebbero non tradursi immediatamente in guadagni
di consenso elettorale. In altre parole, investire in questi settori potrebbe essere essenziale per il
futuro, ma potrebbe non essere politicamente attraente a breve termine.
Gli Stati membri avrebbero dovuto compiere scelte che sacrificavano il consenso elettorale
immediato per favorire l'obiettivo di crescita economica e prosperità a lungo termine. Questo tipo di
decisioni potrebbe essere difficile da prendere, poiché gli Stati tendono a orientare la spesa pubblica
verso settori che promettono risultati più immediati e visibili, soprattutto in vista delle elezioni.
L'analisi di Pinelli suggerisce che questo potrebbe essere uno dei motivi per cui molti Stati membri
hanno incontrato difficoltà nell'attuazione della strategia di Lisbona. La tensione tra le esigenze a
breve termine e gli obiettivi a lungo termine può rendere complesso il processo decisionale e
l'attuazione di politiche che mirano a promuovere la crescita economica e la coesione sociale.
La Carta di Nizza (che è diventata parte del diritto comunitario con il Trattato di Lisbona del 2009)
ha avuto successo soprattutto nell'ambito giurisdizionale, con numerose sentenze emesse dalle corti
europee e dalle corti costituzionali nazionali. Queste decisioni giuridiche hanno contribuito a creare
un quadro più ampio per la tutela dei diritti sociali.
Tuttavia, secondo Pinelli, mancano ancora elementi di infrastruttura politica e istituzionale per
affrontare pienamente i diritti sociali di prestazione a livello europeo. Ciò significa che, al di là delle
decisioni giuridiche, manca una politica coordinata a livello europeo per affrontare le sfide sociali e
le disuguaglianze. La costruzione di una "politica europea dei diritti sociali" richiederebbe un
maggiore coinvolgimento delle istituzioni e un dialogo più ampio tra gli Stati membri.
L'ipotesi di una supplenza giudiziale, secondo Pinelli, è insostenibile per diverse ragioni. In primo
luogo, il modello europeo previsto dalla Carta dei Diritti Fondamentali non potrebbe sviluppare
appieno le proprie potenzialità attraverso un approccio giudiziale diretto. In secondo luogo, l'uso dei
diritti sociali come parametro di legittimità per gli atti di soft-law europei potrebbe incontrare limiti
nel regime giurisdizionale vigente per gli atti comunitari.
Pinelli suggerisce che l’istituzione dell’Agenzia europea per il monitoraggio dello stato di
attuazione dei diritti fondamentali all'interno dell'Unione europea dovrebbe operare in modo
indipendente rispetto agli Stati membri e sarebbe incaricata di raccogliere dati, valutare l'attuazione
dei diritti fondamentali e pubblicare rapporti periodici. Questa struttura istituzionale servirebbe da
collegamento tra la sfera politica e quella giurisdizionale, contribuendo a garantire il rispetto dei
diritti sociali a livello europeo.
Inoltre, Pinelli suggerisce che le parti sociali e i sindacati dovrebbero essere riorganizzati a livello
europeo e coinvolte in modo più significativo nei processi decisionali relativi alle politiche sociali
dell'Unione. Questo coinvolgimento consentirebbe una maggiore partecipazione delle parti
interessate e contribuirebbe alla definizione di politiche sociali più efficaci ed equilibrate.
Complessivamente, queste proposte mirano a migliorare l'implementazione dei diritti sociali
nell'Unione europea, superando le sfide legate al monitoraggio e all'attuazione di tali diritti a livello
sovranazionale attraverso cambiamenti istituzionali e nuovi meccanismi di controllo.
14. Saggio: “Le misure di contrasto alla crisi dell’eurozona e il loro impatto sul modello sociale
europeo”
Pinelli inizia la sua analisi ponendo una domanda fondamentale: perché l'aspetto sociale dell'Europa
è diventato più sfumato negli anni? Egli ritiene che una delle cause principali di ciò sia la crisi
finanziaria globale. Tuttavia, prima di esplorare questa affermazione, è importante definire cosa si
intenda per "finanza globale". Questo termine comprende una serie di istituzioni finanziarie
internazionali, come banche commerciali globali e vari tipi di fondi, che gestiscono enormi volumi
di denaro provenienti da imprese multinazionali e banche ordinarie. Curiosamente, nonostante la
crisi finanziaria globale del 2007-2008, la finanza globale sembra essersi ripresa, ma i suoi costi
stanno ricadendo sugli europei.
La crisi dell'eurozona, secondo Pinelli, è il risultato di una mancanza di risposta politica da parte
dell'Europa. Questo, a sua volta, è legato a gravi problemi istituzionali all'interno dell'Unione
Europea (UE). Quindi, per capire come il volto sociale dell'UE abbia subito un cambiamento così
profondo, è essenziale esaminare questi problemi istituzionali. È innegabile che il diritto europeo
aveva sviluppato un proprio modello sociale, ma la crisi economica si è abbattuta su questo modello
con una forza devastante. La domanda chiave che Pinelli cerca di affrontare è come questa crisi sia
potuta accadere senza una resistenza efficace e senza reazioni adeguate da parte delle istituzioni
europee e degli Stati membri.
Pinelli osserva che spesso si tende a sovrastimare il ruolo della Commissione Europea,
assimilandola a un governo nazionale, mentre è nota la perdita del suo peso nel processo
decisionale. Inoltre, esiste una differenza significativa sia dal punto di vista politico che finanziario
tra gli Stati dell'eurozona. Questa disuguaglianza rende difficile la coesistenza all'interno
dell'Europa dopo la crisi.
Nel suo saggio, Pinelli si concentra su due aspetti principali. Innanzitutto, esplora le misure di
contrasto adottate durante la crisi che hanno colpito il modello sociale europeo. In secondo luogo, si
chiede se le ragioni dietro questo impatto siano legate a una fragilità intrinseca del modello sociale
europeo.
Pinelli inizia la sua analisi con un accenno alla distribuzione di poteri sulla politica economica tra
gli Stati Membri e l'Unione Europea. Questa distribuzione di poteri è regolamentata principalmente
dagli articoli del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE).
In primo luogo, si fa riferimento all'Articolo 2 del TFUE, che elenca le competenze
dell'Unione, distinguendo tra competenze esclusive e competenze concorrenti con gli Stati
membri. Si afferma che "Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche ed
occupazionali secondo le modalità previste dal seguente trattato, la definizione delle quali è
competenza dell’Unione."
Successivamente, l'Articolo 5 del TFUE, che è collegato all'Articolo 2, afferma che "Gli Stati
membri coordinano le loro politiche economiche nell’ambito dell’Unione. A tal fine il
Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche. Agli
Stati membri la cui moneta è l’euro si applicano disposizioni specifiche."
Inoltre, Pinelli cita l'Articolo 119 del TFUE, che stabilisce che "ai fini enunciati dall’Articolo 3
del TUE l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni previste dai
trattati, l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle
politiche economiche degli Stati Membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi
comuni, condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera
concorrenza. Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati,
quest’azione comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di
una politica monetaria e di una politica di cambio uniche, che hanno l’obiettivo principale di
sostenere le politiche economiche generali dell’unione conformemente al principio di
un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza."
Pinelli sottolinea che questo sistema è stato inizialmente delineato a Maastricht e successivamente
arricchito dal "Patto di stabilità e crescita (Six Pack)" nel 1996, che impone agli Stati membri
l'obbligo di rispettare un limite del 3% nel rapporto tra deficit e PIL.
A Lisbona, è stato introdotto un articolo che riguarda gli Stati membri che utilizzano l'euro come
loro moneta. Questo articolo stabilisce che il Consiglio dell'Unione Europea adotta misure volte a
"rafforzare" il coordinamento e la sorveglianza delle politiche di bilancio, nonché a elaborare
orientamenti di politica economica. È importante notare che queste misure devono essere coerenti
con quelle adottate per l'intera Unione Europea e devono essere sottoposte a sorveglianza.
Mentre per tutti gli Stati dell’Unione sono possibili solo misure di coordinamento e indirizzi di
massima, per quanto riguarda gli Stati che utilizzano l'euro, vengono previste misure specifiche di
coordinamento più robusto e orientamenti di politica economica vincolanti. Questo significa che per
questi Stati ci sono regole più rigide e impegnative da seguire per garantire una maggiore coesione
economica.
Infine, il Consiglio si impegna a garantire un coordinamento più stretto delle politiche economiche
e una convergenza economica duratura tra gli Stati membri. Qui emerge una distinzione tra due tipi
di programmi: i "programmi di stabilità" per gli Stati dell'eurozona e i "programmi di
convergenza" per gli Stati che non utilizzano l'euro. Questa distinzione riflette le diverse esigenze
e situazioni degli Stati membri.
Tuttavia, Pinelli identifica alcune limitazioni in questo sistema. In particolare, nota che c'è una
sproporzione tra la politica economica comune e gli strumenti disponibili per attuarla. Inoltre, la
politica monetaria è governata da meccanismi automatizzati che mancano della flessibilità
necessaria per affrontare situazioni macroeconomiche specifiche. Infine, il coordinamento delle
politiche economiche nazionali non sembra essere sufficiente a prevenire comportamenti
opportunistici da parte degli Stati membri, noti come "free rider," che potrebbero sfruttare gli sforzi
degli altri senza contribuire in modo equo alla stabilità economica dell'Unione Europea.
La crisi dell'eurozona ha comportato una serie di misure adottate dalle istituzioni europee che
hanno ulteriormente complicato l'architettura prevista dal Trattato di Lisbona. Queste misure
hanno creato una marcata differenziazione tra le procedure destinate agli Stati dell'eurozona e quelle
applicabili a tutti gli Stati membri dell'Unione Europea. Un cambiamento significativo è avvenuto
attraverso l'articolo 136 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), in cui il
Consiglio europeo ha aggiunto un paragrafo che consente agli Stati membri che utilizzano l'euro di
istituire un meccanismo di stabilità, ove indispensabile, per garantire la stabilità dell'intera zona
euro. Tuttavia, la concessione di assistenza finanziaria attraverso questo meccanismo è soggetta a
condizioni rigorose. Questa decisione è stata presa in risposta a dubbi sulla legalità di alcune misure
intergovernative, volte al sostegno reciproco, adottate tra gli Stati dell'eurozona,.
È importante notare che l'adozione di alcune di queste misure è avvenuta attraverso il diritto
comunitario, compresi regolamenti e direttive che hanno modificato il Patto di Stabilità
(conosciuti come Six Pack). Altri strumenti sono stati adottati attraverso il diritto internazionale e
includono l'istituzione di fondi come il Mesf (Fondo europeo di stabilità finanziaria), il Mes
(Meccanismo europeo di stabilità), il Trattato di stabilità (noto come Fiscal Compact) e il Patto
Euro Plus.
L'adozione di questi strumenti solleva due questioni principali: in primo luogo, se siano efficaci nel
raggiungere l'obiettivo di garantire la stabilità dell'Unione Economica e Monetaria (Uem); in
secondo luogo, se siano conformi al diritto primario europeo e ai diritti costituzionali degli Stati
membri. Pinelli sostiene che entrambe le risposte sono negative e che vi siano vizi formali e
giuridici comuni a queste misure. In altre parole, secondo Pinelli, queste misure non solo potrebbero
non essere efficaci nel raggiungere i loro obiettivi, ma potrebbero anche essere problematiche dal
punto di vista legale e costituzionale.
In primo luogo, evidenzia che questi strumenti potrebbero non essere adatti a raggiungere
l'obiettivo prefissato. Gli accordi internazionali non sono stati ratificati da tutti gli Stati membri,
e ciò potrebbe portare a situazioni in cui alcuni Stati dell'eurozona li adottino, mentre altri no.
Inoltre, gli Stati non appartenenti all'eurozona potrebbero decidere di adottarli, creando una
diversificazione nella loro applicazione. Ad esempio, il Fiscal Compact ha effetti variabili che
hanno portato l'Unione Europea a differenziare i suoi Stati membri in 5/6 cerchi, indicando
livelli diversi di adesione alle regole.
Inoltre, il Fiscal Compact solleva interrogativi sul rispetto del principio di legalità, poiché è
stato adottato bypassando il Trattato di Lisbona, in circostanze che non consentivano di
soddisfare i requisiti per la revisione dei trattati.
Pinelli critica anche la decisione di intensificare la sorveglianza delle politiche economiche
nazionali all'interno dell'Uem come risposta alle sfide della speculazione finanziaria, e di
subordinare il sostegno finanziario agli Stati in difficoltà al rispetto delle regole concordate in
comune.
Questa filosofia basata sulle regole è chiaramente di impronta tedesca, secondo Pinelli, ed è
evidente negli atti del Six Pack. Egli ritiene che l'esperienza accumulata e gli errori commessi nei
primi decenni dell'Unione Economica e Monetaria abbiano portato all'idea di una governance
economica rafforzata, che dovrebbe basarsi su una maggiore responsabilità nazionale nella
definizione delle regole e delle politiche concordate, nonché su un quadro più solido a livello
dell'Unione per la sorveglianza delle politiche economiche nazionali.
Questo approccio si riflette anche nel paragrafo aggiuntivo dell'articolo 136 del TFUE e
soprattutto nel Fiscal Compact, dove, oltre al primato delle regole come il pareggio di bilancio,
sono previste procedure di sorveglianza più rigorose per garantire il rispetto di tali regole. Inoltre, si
prevede un vertice di capi di governo dei paesi dell'euro, le cui funzioni e struttura corrispondono a
quelle del Consiglio Europeo come previsto dal Trattato di Lisbona.
L'apparente indifferenza dei mercati finanziari di fronte ad annunci di nuove misure economiche
porta a riflettere sulla capacità degli strumenti attualmente previsti di raggiungere l'obiettivo
principale, ovvero la stabilità dell'euro.
Nel contesto del Fiscal Compact, emerge una discussione sulla legittimità delle previsioni che
richiedono che le regole di bilancio siano incorporate nei diritti nazionali dei paesi firmatari come
disposizioni vincolanti e permanenti. Questa domanda solleva il dubbio se tali previsioni siano
davvero necessarie.
In questo contesto appare equivoco l'uso dell'espressione "pareggio di bilancio", in quanto
l'articolo 3 del Fiscal Compact, là dove richiama il Patto di stabilità e crescita, prevede che gli
obiettivi di bilancio a medio termine possono divergere dal requisito di un saldo prossimo al
pareggio, offrendo al tempo stesso un margine di sicurezza rispetto al rapporto tra disavanzo e pil
del 3%. Questo solleva interrogativi sul motivo per cui dovrebbe essere introdotto nei sistemi
costituzionali nazionali.
Inoltre, il Fiscal Compact invita gli Stati membri a rivedere le loro Costituzioni in linea con queste
nuove regole, ma sembra ripetere concetti già presenti nel diritto dell'Unione Europea.
L'aspetto innovativo sembra essere l'intenzione di rendere giuridicamente impossibili i deficit
pubblici eccessivi attraverso disposizioni costituzionali. Tuttavia, questo solleva preoccupazioni
riguardo al rispetto delle identità nazionali e delle strutture fondamentali degli Stati membri.
Sorgono dubbi anche sulla compatibilità di alcune disposizioni del Fiscal Compact con il diritto
dell'Unione Europea, in quanto sembrano complicare ulteriormente il coordinamento delle politiche
economiche nazionali e dei rapporti tra l'Unione Europea e l'Unione Economica e Monetaria (Uem).
La tesi avanzata è che tali atti (Six Pack e Fiscal Compact) abbiano effettivamente rafforzato il
ruolo della Commissione europea nell'Unione Europea. Tuttavia, secondo l'opinione espressa da
Pinelli, questo rafforzamento è solo parziale. È ampiamente accettato che la Commissione abbia
principalmente svolto un ruolo di supporto, senza entrare in un campo decisionale che è
strettamente sotto il controllo del Consiglio europeo e dei Capi di governo degli Stati membri.
Un punto importante da considerare è che il peso effettivo della Commissione nell'equilibrio
istituzionale dell'Unione Europea dipende dal modo in cui essa esercita il potere di iniziativa che le
è conferito dai trattati. Questo potere di iniziativa può essere utilizzato in modo sostanziale, ossia
per proporre politiche e decisioni autonomamente, o può essere limitato a registrare la convergenza
di scelte già fatte dai governi nazionali. La pratica, secondo l'appunto, sembra indicare che spesso la
Commissione si trova nella seconda situazione, agendo principalmente come un registratore di
decisioni prese a livello nazionale.
Inoltre, durante periodi di crisi, ciò che desta preoccupazione non è tanto una concentrazione di
potere nella Commissione quanto l'assenza di un governo efficace del Consiglio europeo. In altre
parole, la mancanza di una guida chiara e coerente da parte del Consiglio europeo è considerata più
allarmante durante le crisi rispetto al problema di un eccessivo potere nelle sue mani. Questa
situazione solleva un dilemma tra "governance" (gestione o conduzione) e "governo" effettivo
dell'Unione Europea, indicando che la sfida sta nel trovare un equilibrio tra queste due necessità.
Storicamente, l’Unione è stata caratterizzata da una disparità tra il sostegno popolare relativamente
basso e la capacità di ottenere risultati positivi a livello comunitario. In altre parole, l'UE sembrava
avere una base di supporto limitata tra i cittadini, ma era comunque in grado di raggiungere obiettivi
concreti.
La crisi ha poi minato la fiducia nell'UE riguardo alla sua capacità di governo efficace e al
conseguimento di risultati positivi. La crisi ha messo in discussione la capacità dell'Unione di
affrontare situazioni difficili in modo adeguato.
In questo contesto, viene menzionato un rapporto del 2012, scritto dal presidente della BCE
insieme ai presidenti della Commissione dell'Eurogruppo e della BCE. Questo rapporto suggerisce
una nuova prospettiva rispetto alla "filosofia delle regole" e propone una "fiscal union", ovvero una
maggiore condivisione finanziaria e coordinamento economico tra gli Stati membri.
Il rapporto identifica tre fasi per raggiungere questa "fiscal union":
1. Imporre limiti di spesa e di indebitamento a livello nazionale, con l'obbligo di giustificare
eventuali superamenti per garantire l'equità sociale.
2. Condividere la gestione del debito, con decisioni di bilancio condivise e l'uso di vari strumenti
finanziari comuni.
3. Creare una fiscal union completa, con l'istituzione di un ministero del Tesoro comune e il
coordinamento con i bilanci nazionali.
Il rapporto sottolinea l'importanza di coinvolgere i cittadini e di ottenere il loro consenso sulle
decisioni di bilancio a lungo termine che influenzano le loro vite. Questo rappresenta un
cambiamento significativo nel linguaggio e nell'approccio, riconoscendo le limitazioni delle
decisioni prese in passato.
Per capire appieno gli effetti delle misure di contrasto alla crisi sulla solidità del modello sociale
europeo, è importante considerare molteplici variabili. In primo luogo, va sottolineato che queste
misure tendono a erodere i principi fondamentali che costituiscono il cuore del modello sociale
europeo.
Un aspetto importante da considerare è che l'attuazione di queste misure comporta una sorta di
sorveglianza paternalistica da parte degli Stati finanziariamente virtuosi (che possono essere
considerati "maturi") su quelli che invece stanno affrontando difficoltà economiche. Questa
supervisione implica una perdita del principio di solidarietà tra gli Stati membri dell'Unione
Europea, un principio che è sancito nei Trattati europei e che dovrebbe svolgere un ruolo integrativo
nel modello sociale europeo.
Dal punto di vista giuridico, queste misure hanno un impatto significativo sugli elementi
fondamentali del modello sociale europeo, compresa la tutela dei diritti fondamentali. Ad esempio,
il Fiscal Compact, con le sue regole sulla gestione dei bilanci nazionali, non distingue tra spese di
investimento e spese correnti. Ciò significa che le misure tendono a promuovere una disciplina
finanziaria più favorevole alle spese di investimento rispetto a quelle correnti. Questo può avere
conseguenze sul finanziamento dei servizi pubblici, delle politiche per l'occupazione e della crescita
economica.
Il MES, o Meccanismo Europeo di Stabilità, è visto come una sorta di versione regionale del Fondo
Monetario Internazionale (FMI). È un'istituzione che opera su un piano intergovernativo, con un
consiglio di governatori composto dai ministri dell'economia dei paesi dell'eurozona. Questa
struttura decisionale porta a un aumento della complessità e a una diminuzione della trasparenza
nell'ambito istituzionale dell'Unione Europea.
Un emendamento proposto dal Parlamento europeo, ma non accettato dal Consiglio europeo,
cercava di stabilire una "rigorosa condizionalità" per il MES, in linea con gli obiettivi e i principi
sanciti nei trattati dell'Unione Europea. Questa "rigorosa condizionalità" avrebbe implicato che il
MES fosse strettamente legato al diritto primario dell'Unione Europea, ma in realtà, il MES è stato
istituito attraverso un trattato internazionale che è esterno al diritto comunitario.
La questione chiave è se il MES debba essere considerato conforme ai principi giuridici dell'Unione
Europea, in particolare alla Carta dei Diritti dell'Unione Europea. Questa questione è stata
affrontata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nel 2012, nel caso Pringle contro l'Irlanda.
La Corte ha stabilito che le disposizioni della Carta dei Diritti si applicano agli Stati membri solo
quando essi stanno attuando il diritto dell'Unione Europea. La Carta non estende la sua applicazione
al di fuori delle competenze dell'Unione, né conferisce nuove competenze o compiti all'Unione, né
modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati.
Inoltre, la Corte ha specificato che gli Stati membri non stanno attuando il diritto dell'Unione
quando istituiscono un meccanismo di stabilità come il MES, poiché i trattati istitutivi dell'Unione
non conferiscono competenze specifiche all'Unione per questo scopo.
La risposta desumibile dal caso Pringle c. Irlanda è che i requisiti di stretta condizionalità sfuggono
all’osservanza dei principi del diritto primario dell’Unione, compresa la carta dei diritti. Questo
solleva preoccupazioni riguardo al modello sociale europeo, poiché le politiche economiche e
sociali vengono subordinate all'obiettivo di ridurre il debito, e ciò comporta una differenziazione
implicita tra gli Stati membri che potrebbe avere conseguenze potenzialmente dannose per l'Unione,
mettendo in pericolo il modello sociale europeo.
Fino a questo momento sono state indagate alcune ragioni istituzionali che hanno contribuito a un
vuoto politico nell'Unione Europea, per dimostrare come l'attacco speculativo nell'eurozona abbia
agito come una sorta di catalizzatore piuttosto che come la causa principale di una crisi più ampia,
che coinvolge non solo l'Unione Economica e Monetaria ma anche l'Unione nel suo complesso.
Queste ragioni hanno rivelato una fragilità specifica nel modello sociale europeo.
Il primo segnale di questa fragilità emerge nel settore Strategico dei Servizi Pubblici. La Direttiva
Servizi n. 2006/123 CE ha concesso agli Stati membri un'ampia discrezionalità nella definizione
degli obiettivi di politica sociale e nei livelli di tutela degli interessi generali. Inoltre, la direttiva ha
escluso i servizi pubblici economici dal campo di applicazione del principio di libera prestazione
dei servizi, contrariamente a un orientamento della Corte di Giustizia Europea, che aveva cercato di
estendere il principio a un numero crescente di attività di interesse pubblico. Questa direttiva è stata
criticata come una "occasione mancata" per affrontare il bilanciamento tra interventi volti a
garantire l'integrazione economica e quelli finalizzati a evitare il dumping sociale.
Un secondo sintomo della fragilità del modello sociale europeo risale alla Strategia di Lisbona del
2000. La Strategia di Lisbona, basata sul Metodo Aperto di Coordinamento (MAC), ha utilizzato
processi anziché atti formali e si è basata su leggi flessibili (soft law) piuttosto che su leggi rigide
(hard law). Tuttavia, i sostenitori di questa strategia hanno sottovalutato la necessità che gli Stati
membri attuassero riforme strutturali nei sistemi di welfare e spostassero risorse dalle politiche
sociali tradizionali agli investimenti nell'economia della conoscenza. Questo ha sollevato
preoccupazioni sul consenso elettorale dei governi. La strategia ha cercato di avvicinare l'Unione
Europea ai cittadini, ma in realtà ha spesso adottato paradigmi elitari e scientifici che sono stati
percepiti come distanti dai cittadini. In questo secondo caso, quindi, si finisce per sottovalutare la
dimensione intergovernativa dell’assetto istituzionale europeo.
Un terzo sintomo può ravvisarsi nella perdurante assenza di rappresentanza di interessi efficace. In
questi anni, c’è stata una resistenza significativa dei sindacati con legami di decisione politica a
livello nazionale a partecipare alle dinamiche decisionali a livello europeo. Anche dopo la sentenza
della Corte europea nel caso "Viking", che riguardava il diritto di sciopero, questa riluttanza non è
diminuita.
La Commissione Europea ha presentato una proposta di regolamento che affrontava la questione del
diritto di promuovere azioni collettive, compreso il diritto o la libertà di sciopero e sul
riconoscimento che le parti sociali a livello europeo possono concludere accordi a livello di Unione
e definire orientamenti relativi a procedure e modalità di mediazione, conciliazione. Tuttavia, più di
un terzo dei parlamentari nazionali ha attivato la procedura di allerta (early warning), pertanto la
Corte ritirò la proposta di creando problemi giuridici e tensioni sociali.
In conclusione, durante la crisi nell'area dell'euro, il modello sociale europeo è diventato
vulnerabile, come se fosse il punto debole di un sistema più ampio. Inoltre, il rapporto tra il
modello sociale europeo e la sfera politica europea è stato caratterizzato da incertezza e
ambiguità, oscillando tra due estremi:
La pretesa di autosufficienza: il modello sociale europeo ha cercato di gestire le proprie
sfide e questioni in modo indipendente, come se potesse affrontare le sfide da solo senza
l'intervento della politica europea.
La vana tendenza a cercare nelle politiche sociali un autentico indirizzo politico.
15. Saggio: “I diritti sociali nello spazio europeo (sistemi di valori a confronto)”
In questo saggio, Pinelli esamina la relazione tra le dinamiche dei mercati finanziari globali, i
cambiamenti nella natura del capitalismo e la redistribuzione del potere nelle relazioni tra
imprenditori e lavoratori. Inoltre, focalizza la sua attenzione sul confronto tra il diritto
costituzionale e il diritto dell'Unione Europea, concentrandosi in particolare sul diritto di sciopero e
sulle tendenze divergenti tra i due sistemi giuridici, entrambi mostrando le proprie fragilità.
Il saggio parte dall'articolo 117 del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, che
stabilisce l'obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nei paesi membri,
promuovendo la loro parificazione nel progresso. Questo dovrebbe avvenire attraverso il
funzionamento del mercato comune e l'armonizzazione dei sistemi sociali, nonché attraverso le
procedure previste dal trattato e l'avvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative tra gli Stati membri.
Inoltre, l'articolo 151 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) stabilisce
che l'Unione Europea e gli Stati membri hanno come obiettivi la promozione dell'occupazione, il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una protezione sociale adeguata, il dialogo
sociale, lo sviluppo delle risorse umane per garantire un alto livello occupazionale e la lotta contro
l'emarginazione. Questi obiettivi dovrebbero essere realizzati considerando la diversità delle prassi
nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e la necessità di mantenere la competitività
economica dell'Unione attraverso il funzionamento del mercato interno e l'armonizzazione dei
sistemi sociali.
Pinelli sembra suggerire che nonostante questi obiettivi enunciati nei trattati, le tendenze nei sistemi
giuridici nazionali e dell'Unione Europea relativi al diritto di sciopero siano andate in direzioni
opposte, evidenziando le fragilità di entrambi i sistemi.
Il passaggio da Roma a Lisbona ha introdotto una previsione importante nei trattati dell'Unione
Europea: "L'Unione e gli Stati membri ritengono che dal funzionamento del mercato interno, dalle
procedure previste dai trattati e dal ravvicinamento delle disposizioni nazionali risulterà una
evoluzione. Inizialmente, nel Trattato di Roma, questa evoluzione si limitava al "miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro", consentendo la "parificazione nel progresso". Nel Trattato di
Lisbona, questi obiettivi sono stati ampliati per includere anche "la promozione dell'occupazione,
una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane per garantire un
alto livello occupazionale e duraturo e la lotta contro l'emarginazione".
Questi obiettivi rappresentano un comune denominatore per l'Unione Europea e i suoi Stati
membri, nonostante la genericità dei mezzi previsti per raggiungerli. Inizialmente, potrebbe
sembrare una contraddizione tra l'aspetto prescrittivo degli obiettivi, che indicano cosa deve essere
fatto, e l'aspetto predittivo posto dalla previsione, che prevede che il funzionamento del mercato
interno e altri elementi porteranno a un'evoluzione corrispondente al raggiungimento di quegli
obiettivi.
La domanda di Pinelli riguardo il perché all’interno di un testo normativo si trovi una predizione è
valida e può essere interpretata in diversi modi.
Per rispondere a questo interrogativo, Pinelli si sofferma sui lavori preparatori del Trattato di
Roma e su come diverse correnti di pensiero influenzarono la sua creazione.
L'articolo 117 del Trattato della Comunità Economica Europea (Trattato di Roma)
rappresenta, secondo Pinelli, una versione della teoria neoclassica del commercio internazionale che
era predominante all'epoca. Questa teoria suggeriva che in un mercato comune in cui non ci fosse
differenza nei salari tra i diversi stati membri, tali salari non sarebbero stati un elemento di
competizione. Di conseguenza, la gestione e la retribuzione dei lavoratori sarebbero state di
competenza esclusiva dei singoli stati membri, sia dal punto di vista giuridico che effettivo.
L'idea del "social dumping" (ovvero la pratica di sfruttare condizioni di lavoro e retribuzione più
basse in un paese rispetto ad altri per ottenere un vantaggio competitivo) rappresentava una
preoccupazione chiave all'epoca. La Francia, ad esempio, temeva che l'apertura del mercato ai paesi
come l'Olanda e l'Italia, dove i salari erano significativamente più bassi rispetto alla Francia,
avrebbe danneggiato le imprese francesi. Questo timore ha portato alla richiesta da parte della
Francia di includere nel trattato il principio del "pari trattamento retributivo" tra uomini e donne,
che era un modo per cercare di evitare il "social dumping".
Dato il timore della Francia di subire un impatto negativo sull'economia a causa del differenziale
salariale tra i paesi membri, si è raggiunto un compromesso tra Francia e Germania. Questo
compromesso ha portato a disposizioni relativamente limitate nel Trattato di Roma riguardanti il
lavoro. In altre parole, il trattato non ha affrontato in modo dettagliato la regolamentazione del
lavoro, ma ha introdotto il principio del "pari trattamento retributivo" come un passo iniziale verso
l'armonizzazione delle condizioni di lavoro tra i paesi membri.
Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, un'antica previsione teorica presente fin dai tempi
del Trattato di Roma è diventata ancora più significativa. Questa previsione riguarda i diritti
fondamentali dei cittadini europei e la loro interazione con le competenze dell'Unione Europea in
materia di lavoro.
In particolare, si sottolinea che nonostante l'accento crescente posto sui diritti dei cittadini europei
a Lisbona, le competenze dell'Unione Europea in materia di lavoro non hanno necessariamente
progredito allo stesso ritmo. Si fa notare che il Trattato di Lisbona richiede esplicitamente di
tenere in considerazione le diverse pratiche nazionali, soprattutto per quanto riguarda le relazioni
contrattuali. Questo implica che l'Unione Europea deve considerare le differenze nei modi in cui i
diversi paesi trattano le questioni legate al lavoro.
Pinelli, suggerisce un'interpretazione di fondo secondo cui l'Unione Europea potrebbe naturalmente
orientarsi verso la protezione dei meccanismi del libero mercato, inclusa la libertà di lavoro.
Questo suggerisce che l'Unione Europea potrebbe non essere completamente predisposta a
proteggere i diritti dei lavoratori in modo completo, né a opporsi efficacemente alla globalizzazione
dei mercati, ma potrebbe essere strutturalmente orientata ad accoglierla.
Tuttavia, Pinelli fa notare che questa visione naturalistica non spiega completamente l'evoluzione
del diritto dell'Unione Europea. Ha rilevato l'introduzione di importanti strumenti legali, come la
"Carta Sociale dei Diritti Fondamentali dei Lavoratori" del 1989 e la "Carta di Nizza", che ha
attribuito rango costituzionale a diritti individuali e collettivi. Questi strumenti rappresentano un
impegno significativo dell'Unione Europea nei confronti dei diritti dei lavoratori e dei cittadini,
indicando una prospettiva più equilibrata tra la tutela dei diritti e il libero mercato.
È possibile intravedere una discrepanza tra i diritti e le competenze nell'Unione Europea,
evidenziando un deficit nella politica europea. Questo deficit rappresenta l'incapacità dell'Unione
Europea di sviluppare il sistema di istituzioni e strumenti necessari per tradurre in pratica i valori e
gli obiettivi condivisi dagli Stati membri.
Questo problema è emerso in particolare nel periodo successivo al Trattato di Maastricht da una
politica europea incapace di fronteggiare le quattro sfide fondamentali: la formazione di mercati
globali; l’allargamento all’Europa centro-orientale; l'assetto delle istituzioni politiche;
l’adempimento alle promesse della strategia di Lisbona.
Questo deficit di politica europea è in parte attribuibile alla limitata partecipazione degli Stati
membri nei processi decisionali dell'Unione. Gli Stati hanno mantenuto il controllo su molte
politiche sociali, impedendo lo sviluppo di una rappresentanza efficace degli interessi europei. Di
conseguenza, l'Unione Europea ha spesso lottato per affrontare le sfide in modo unitario e coerente,
a causa della frammentazione delle politiche nazionali.
La Corte di Lussemburgo è l'unico organo che si inserisce nel dibattito tra i diritti dei lavoratori e
le competenze dell'Unione Europea. La questione fondamentale riguarda chi abbia il controllo
completo su questo diritto: gli Stati membri o l'Unione stessa. La situazione è diventata
giuridicamente complessa e politicamente delicata.
Nonostante l'articolo 153 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) escluda
esplicitamente il diritto di sciopero dalle competenze dell'Unione, la Corte di Lussemburgo ha
stabilito che gli Stati membri non possono violare il diritto dell'Unione in questa materia. Questo
rappresenta un notevole attivismo giuridico.
In risposta alle critiche dei sindacati e degli Stati membri, la Commissione Europea ha presentato
una proposta di regolamento sull'esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nell'ambito
della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. La proposta mirava a garantire che
l'esercizio delle libertà economiche europee rispettasse il diritto fondamentale di promuovere azioni
collettive. Inoltre, le parti sociali europee avrebbero potuto definire accordi o orientamenti relativi
alla risoluzione delle controversie legate al diritto di sciopero in contesti transnazionali.
Tuttavia, la proposta di regolamento è stata successivamente ritirata in seguito a reazioni negative.
Di conseguenza, l'indirizzo stabilito nella sentenza Viking, che riguarda il bilanciamento tra
principi in conflitto, continua a essere rilevante in situazioni transnazionali o con caratteristiche
transnazionali.
Successivamente Pinelli propone un parallelo tra una sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione
Europea (Corte di Lussemburgo) chiamata "Viking" e un caso noto negli Stati Uniti noto come il
caso "Lochner". Questo confronto è presentato da un giurista inglese che desidera evidenziare che,
sia negli Stati Uniti che nell'Unione Europea, le corti possono influenzare le decisioni legislative e,
talvolta, mettere in discussione il principio della proprietà privata. Tuttavia, nel Regno Unito, esiste
una tradizionale diffidenza verso l'ingerenza dei giudici nelle decisioni politiche.
Il caso "Lochner" negli Stati Uniti riguarda una decisione della Corte Suprema che ha dichiarato
incostituzionale una legge dello stato di New York che regolava l'orario di lavoro dei fornai. Questa
decisione è stata considerata una interferenza della Corte Suprema nelle leggi economiche e una
sfida al principio della proprietà privata.
Il giurista inglese cerca di stabilire un parallelismo tra questa decisione americana e la sentenza
"Viking" della Corte di Lussemburgo. Entrambe le decisioni dimostrerebbero che le corti possono
influenzare le politiche legislative e sfidare le convenzioni economiche, anche se con approcci
diversi. Tuttavia, il giurista sottolinea che negli Stati Uniti, c'è una tradizionale diffidenza verso
l'ingerenza giudiziaria nelle questioni politiche, mentre in Europa, le istituzioni politiche sono
percepite come relativamente deboli e incapaci di bilanciare il potere della magistratura. Questa
situazione può rendere l'Unione Europea più suscettibile all'attivismo giuridico.
Infine, Pinelli suggerisce che quanto analizzato può sostenere coloro che mantengono una visione
"naturalistica" dell'Unione Europea, cioè che l'Unione è naturalmente orientata verso il liberalismo
economico e la tutela dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, questa interpretazione può essere
controversa e complessa data la varietà di sfide istituzionali e politiche nell'Unione Europea.
Nel saggio, Pinelli esamina le critiche provenienti dall'Italia riguardo alle sentenze Viking e Laval
della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Corte di Lussemburgo) e affrontano diverse
preoccupazioni e questioni sollevate in questo contesto.
Alcune critiche si concentrano sull'asimmetria percepita nel modo in cui la Corte ha bilanciato il
diritto di sciopero e la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. Alcuni ritengono che questo
bilanciamento sia stato influenzato da una visione che mette in contrasto le libertà economiche con i
diritti sociali, contraddicendo il principio di indivisibilità sancito nella Carta dei Diritti
Fondamentali dell'Unione Europea, il quale impone che nessun diritto debba prevalere sugli altri.
Inoltre, vi è preoccupazione per il fatto che la Corte si sia immischiata nelle finalità degli scioperi, e
questo è visto come un ostacolo all'integrazione europea. Queste critiche portano all'attenzione la
regola dell'"insindacabilità giurisdizionale delle finalità dello sciopero" presente nell'ordinamento
italiano. In questo contesto, emerge anche un conflitto tra gli obiettivi nazionali del diritto del
lavoro e le restrizioni imposte dalle sentenze della Corte.
Alcuni critici, invece, mettono in discussione l'attivismo delle corti e suggeriscono che affidare
esclusivamente a un dialogo tra le corti (a livello europeo e nazionale) la protezione dei diritti
fondamentali potrebbe non essere la soluzione ottimale. Questo scetticismo può derivare dalla
percezione di un deficit politico e dalla convinzione che le corti non dovrebbero avere un ruolo così
centrale. Questa critica viene esaminata alla luce del confronto tra i Trattati dell'Unione Europea e
la tradizione costituzionale italiana in cui viene ripreso il paradigma naturalistico e la
contrapposizione tra il sistema costituzionale italiano e il mercato europeo dove le convenzioni
hanno svolto un ruolo importante. Pinelli afferma che questo spiega le limitazioni imposte al
sindacato nelle modalità di esercizio dello sciopero, ma non nei suoi scopi, i quali sono stati definiti
attraverso convenzioni stipulative.
Nel saggio Pinelli si concentra sulle diverse tipologie di rapporti di lavoro e come le influenze
dell'Unione Europea abbiano plasmato le decisioni prese a livello nazionale, superando gli obblighi
derivanti dalle direttive europee e le interpretazioni fornite dalla giurisprudenza. La Commissione
Europea ha introdotto concetti come "modernizzazione del mercato del lavoro", "flessibilità" e
"flessibilità nella sicurezza (flexicurity)", che hanno contribuito a ridefinire la distinzione
tradizionale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
Tuttavia, le leggi in Italia riguardanti i rapporti di lavoro hanno continuato a riflettere una
particolarità del sistema italiano. Ci sono diverse ragioni che spiegano questa discrepanza:
1. La legislazione italiana ha introdotto molte tipologie diverse di lavoro, creando incertezze
interpretative sulla reale estensione delle tutele per i lavoratori più vulnerabili.
2. L'Unione Europea ha promosso l'ideologia del "lavoro flessibile" e ha incoraggiato il
ravvicinamento delle condizioni di vita e di lavoro tra i diversi tipi di lavoratori. Questo
approccio è stato riflesso anche nella "clausola di non regresso" delle direttive europee, che
impedisce alle normative nazionali di diventare meno protettive durante l'attuazione delle
direttive stesse. In altre parole, un paese membro non può indebolire le sue leggi a tutela dei
lavoratori quando adotta le direttive europee, al fine di limitare le politiche di
deregolamentazione che potrebbero compromettere la concorrenza tra gli Stati membri.
Questo principio è stato sfruttato in Italia dalla Corte costituzionale e dai tribunali ordinari per
difendere i lavoratori più vulnerabili. In sintesi, il sistema legale italiano ha cercato di mantenere o
migliorare le tutele dei lavoratori, anche quando le influenze europee hanno promosso la flessibilità
del lavoro.
Quindi, il modello emergente di lavoro flessibile promosso dal diritto dell'Unione Europea cerca di
bilanciare diverse esigenze, tra cui la modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, la flessibilità
per i datori di lavoro e la sicurezza per i lavoratori. Tuttavia, i problemi principali si pongono a
livello nazionale.
In particolare, ci si chiede se i principi costituzionali che dovrebbero guidare le decisioni normative
e giuridiche in materia di tipologie di rapporti di lavoro siano in conflitto con quelli derivanti dal
diritto dell'Unione Europea. Un riferimento importante potrebbe essere l'articolo 35 della
Costituzione Italiana, che sottolinea la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
Tuttavia, questo principio non è stato sempre adeguatamente valorizzato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, il che ha portato a fraintendimenti.
Nel 1996, la Corte costituzionale contestò un processo legislativo che sembrava stesse eliminando
la distinzione tra diverse tipologie di contratti di lavoro, collegando la protezione del lavoratore alla
sua prestazione, indipendentemente dal tipo di contratto. La Corte stabilì che il concetto di
subordinazione "in senso stretto" doveva essere legato a due condizioni specifiche: l'alienità del
risultato del lavoro e l'alienità dell'organizzazione in cui si svolgeva il lavoro. In altre parole, solo
quando il risultato del lavoro e l'organizzazione erano controllati da un datore di lavoro esterno si
poteva parlare di subordinazione.
La connessione tra subordinazione (il tipo di contratto) e statuto è una caratteristica che ha radici
storiche. Tuttavia, una volta che la subordinazione non è più la forma predominante di impiego,
questa connessione ha generato confusione. Nonostante l'articolo 35 della Costituzione affermi la
tutela del lavoro "in tutte le sue forme e applicazioni," questa disposizione non è stata sempre
interpretata in modo da riflettere la realtà del mercato del lavoro in evoluzione.
Solo recentemente c'è stata una svolta nella giurisprudenza e nella dottrina, con una
reinterpretazione degli articoli 36 e 40 della Costituzione, che ora vengono interpretati come non
riferiti solo al lavoro subordinato, ma a tutte le forme di lavoro. Questo segna un cambiamento
significativo nell'approccio alla tutela del lavoro in Italia e nella sua armonizzazione con il diritto
dell'Unione Europea.
In Italia, si presenta un problema significativo legato all'utilizzo del lavoro illegale. Negli anni '60,
c'era una cultura di sospetto nei confronti di queste pratiche, ma nel tempo questa cultura è venuta
meno. Tuttavia, l'uso di lavoro illegale persiste e può assumere diverse forme. Può includere l'uso di
tipologie contrattuali legali che vengono utilizzate in modo inappropriato in violazione delle leggi e
dei contratti collettivi che regolamentano il lavoro. Inoltre, può includere il lavoro non dichiarato, in
cui le prestazioni lavorative non vengono ufficialmente registrate o dichiarate alle autorità
competenti.
La legislazione italiana in materia di lavoro è stata a lungo caratterizzata da disattenzione e
confusione riguardo a come affrontare il problema del lavoro illegale.
Sebbene sia vero che l'ideologia del lavoro flessibile abbia contribuito ad aumentare questo
fenomeno, non è corretto attribuire la colpa all'Unione Europea. Il diritto dell'Unione Europea, al
contrario, ha promosso politiche e iniziative volte a contrastare il lavoro illegale. La Commissione
Europea ha avviato numerose azioni di contrasto contro il lavoro illegale nell'ultimo ventennio.
Secondo Pinelli, è importante riflettere sui risultati di una tradizione nazionale che si è dimostrata
incapace di affrontare le sfide inaspettate e di adattarsi ai cambiamenti. L'Italia deve cercare di
rinnovarsi e confermare la propria identità nel contesto europeo, affrontando i problemi legati al
lavoro illegale in modo più efficace e in linea con le politiche europee.
16. Saggio: “Il coraggio della concretezza. A proposito di Gino Giugni e Selig Perlman”
Nel 1955, Gino Giugni, dopo aver vinto una borsa di studio negli USA, decide di tradurre l'opera
"A Theory of Labor Movement" (1928) di Selig Perlman, un noto storico americano del lavoro.
Questa decisione aveva due obiettivi principali. In primo luogo, voleva contribuire a
internazionalizzare le scienze sociali italiane, mettendo in contatto Giugni con gli ambienti
progressisti americani. In secondo luogo, cercava di infrangere l'immagine della classe operaia
italiana promossa dall'ideologie dominanti durante la guerra fredda.
La teoria di Perlman si adattava bene a questi obiettivi. La sua teoria, basata sull'istituzionalismo,
criticava profondamente la visione dell'"homo oeconomicus" della dottrina classica, che trascurava
completamente i comportamenti di gruppo. Questo era particolarmente rilevante in un mondo
dominato dai monopoli delle grandi corporazioni, dai sindacati e dallo Stato.
Invece di contrapporre un modello teorico a un altro, Perlman e gli studiosi di quel periodo
studiavano direttamente sul campo i meccanismi delle società anonime, le prime sindacalizzazioni e
la tecnica della contrattazione collettiva. La contrattazione collettiva era vista come un veicolo per
la pressione sindacale, mirante a ottenere una maggiore libertà e sicurezza per i singoli lavoratori
sul luogo di lavoro, nonché una maggiore partecipazione alla vita pubblica.
In questo contesto, l'obiettivo dei sindacati non era tanto la collettivizzazione dei mezzi di
produzione, come avveniva in altre parti d'Europa, ma una visione di pluralismo e di collaborazione
tra i vari attori. Questo approccio era molto diverso da quello europeo, che era più aperto agli esiti
corporativi negli anni '30 e che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, dovette affrontare la necessità di
una ricostruzione economica che avrebbe richiesto un maggiore coinvolgimento dello Stato.
La considerazione di Gino Giugni non era solo una riflessione storica o accademica, ma aveva un
intento pratico e metodologico che mirava a coinvolgere tre diverse categorie di ascoltatori:
1. Giuristi del lavoro e studiosi di relazioni industriali: Giugni intendeva fornire soluzioni
concrete ai problemi pratici che questi esperti affrontavano nella loro professione. La traduzione
dell'opera di Selig Perlman offriva un quadro teorico che poteva essere applicato alle sfide reali
nel campo delle relazioni industriali e del diritto del lavoro.
2. Sindacati: Giugni cercava di comunicare ai sindacati che “la coscienza del posto di lavoro” dei
lavoratori poteva essere un elemento importante per costruire la solidarietà sindacale. Inoltre,
voleva sottolineare che l'individualismo non doveva essere visto con disprezzo all'interno del
movimento sindacale. Questa visione andava oltre la prospettiva tradizionale europea dei
sindacati.
3. Politici: Il terzo gruppo di destinatari era rappresentato dai politici. Giugni cercava di ispirare i
politici a uscire dall'immobilismo politico, una situazione paragonata alla "bonaccia delle
Antille". Questa espressione fa riferimento a una metafora utilizzata da Italo Calvino per
descrivere l'inerzia del Partito Comunista Italiano (PCI) durante il periodo staliniano. Nella
metafora di Calvino, la nave corsara (che rappresenta il PCI) rimane ferma davanti ai galeoni
dei "Papisti" (che simboleggiano la Democrazia Cristiana), a causa delle rigorose regole
imposte dall'ammiraglio Drake (che rappresenta Stalin). Questa inattività impedisce al PCI di
agire o di attaccare i suoi avversari politici.
L'intenzione di Giugni era di scuotere i politici dal loro immobilismo e incoraggiarli a prendere
iniziative più dinamiche.
In definitiva, il suo lavoro non aveva l'obiettivo di spingere le persone a copiare gli americani, ma
piuttosto di offrire nuove prospettive e soluzioni ai problemi esistenti nelle relazioni industriali, nei
sindacati e nella politica italiana.
Gino Giugni, nel suo lavoro, non si limitò a tradurre e riprendere il pensiero di Selig Perlman
riguardo al movimento sindacale americano. Egli compì un passo ulteriore, esaminando le radici e
la storia del mondo del lavoro in Italia. Questa analisi riguarda un capitolo spesso dimenticato ma
nobile della storia italiana, precedente all'industrializzazione che ha favorito la crescita della
Confederazione Generale del Lavoro.
Prima che l'industrializzazione prendesse piede in Italia, le leghe contadine si riunivano nella
Camera del Lavoro e intraprendevano iniziative concrete di rivendicazione. Queste iniziative non
avevano solo un obiettivo economico, ma assumevano anche un significato più ampio.
Contribuivano a elevare il senso di dignità sia a livello individuale che collettivo tra i lavoratori,
affrancandoli dalla miseria civile. Le azioni intraprese in quel contesto andavano ben oltre la mera
lotta economica e sottolineavano l'importanza del riscatto sociale e della dignità umana.
Inoltre, queste leghe contadine e le relative iniziative di rivendicazione ebbero un impatto positivo
sulla crescita delle cooperative e sullo sviluppo del socialismo municipale in Italia. Quindi, Giugni
metteva in luce come le origini del movimento sindacale italiano fossero intrinsecamente legate a
queste radici storiche di lotta per i diritti dei lavoratori e il miglioramento delle loro condizioni di
vita e lavoro.
Pinelli affronta il concetto del "ritardo italiano," che è spesso citato nelle scienze sociali e nel
dibattito pubblico come un riferimento. Questo concetto è legato all'idea che la modernizzazione di
un paese, la sua capacità di tenere il passo con gli altri, sia sufficiente a qualificare una prospettiva
riformista.
Tuttavia, Pinelli mette in guardia contro una visione riformista che confonde la difesa delle
condizioni di lavoro attuali con il desiderio di preservare le condizioni di lavoro del passato. Questo
errore si verifica anche quando il riformismo abbandona i valori che possono guidare la
modernizzazione. In questo contesto, le conclusioni di Giugni fungono da punto di partenza
essenziale per qualsiasi prospettiva riformista.
Con l'avvento della rivoluzione tecnologica, l'identificazione tradizionale tra l'individuo e il
produttore, tipica del pensiero socialista, è diventata obsoleta. Questo non significa però che i
valori associati ad essa debbano essere accantonati. L'uso intensivo della tecnologia, che ha
frammentato le catene di produzione e ha creato nuove opportunità nel settore dell'informatica, può
avere esiti diversi.
Pinelli sottolinea che l'uso della tecnologia può portare a una società in cui gli individui sono
passivi, con gerarchie più sottili e insidiose, distanti gli uni dagli altri, ma uniti solo da flussi
costanti di immagini sostitutive della loro identità. Questi flussi di informazioni sono diventati
estremamente preziosi.
Inoltre, Pinelli suggerisce che non solo il socialismo tradizionale, ma anche il liberalismo, rischia
di diventare obsoleto se non viene adottata una prospettiva più avanzata. La tecnologia può essere
utilizzata per creare una società in cui gli individui sono motivati da un processo continuo di
apprendimento, lavorano consapevolmente e cercano nuove opportunità di lavoro. Questo richiede
una collaborazione tra istituzioni pubbliche, imprese e sindacati nell'ambito dell'istruzione e della
formazione professionale. In particolare, Pinelli sottolinea che la sinistra italiana deve reinventare
una prospettiva riformista altrimenti altri prenderanno l'iniziativa in forme e luoghi diversi, con
tempi imprevedibili.