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Idea del lavoro nella costituzione

1. Saggio: “ Lavoro e progresso nella Costituzione”


In questo saggio, si esplorano le relazioni tra i concetti di "lavoro" e "progresso" prendendo in
considerazione due articoli della Costituzione Italiana: l'Articolo 1 (primo comma) e l'Articolo 4
(secondo comma).
Articolo 1 della Costituzione: "L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione."
Articolo 4 della Costituzione: riconosce a tutti i cittadini il "diritto al lavoro" e promuove le
condizioni per renderlo effettivo. Inoltre, stabilisce che ogni cittadino ha il dovere di svolgere
un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Le tematiche vengono affrontate seguendo una scansione cronologica e analitica:
1. Lavori della Costituente: Si esamina il contesto storico in cui la Costituzione Italiana è stata
elaborata e l'importanza attribuita al lavoro come elemento fondante della repubblica
democratica.
2. Diverse Interpretazioni degli Enunciati: Vengono esplorate le diverse interpretazioni e
significati attribuiti agli articoli nel corso del tempo, evidenziando come i concetti di lavoro e
progresso siano stati recepiti e discussi da vari interpreti.
3. Approfondimento delle Ragioni dell'Attualità: Si analizzano le ragioni per cui tali articoli
sono ancora rilevanti oggi, considerando le sfide attuali legate all'occupazione e allo sviluppo
economico e sociale.
4. Tentativo di Rilettura dei Termini: Si esplora un tentativo di reinterpretazione dei termini
"lavoro" e "progresso" alla luce delle condizioni e delle esigenze attuali, cercando di fornire
nuovi spunti di riflessione e adattamento.
L'Assemblea costituente è stata l'organo legislativo elettivo fondamentale incaricato della stesura
della Costituzione della Repubblica Italiana. Questo processo di redazione costituzionale si è
svolto nel periodo compreso tra il 25 giugno 1946 e il 31 gennaio 1948. Durante questo periodo,
l'Assemblea costituente non solo si è dedicata alla stesura della Costituzione ma ha anche svolto
altre importanti funzioni come la concessione della fiducia al governo, il voto sulle leggi di bilancio
e la ratifica dei trattati internazionali. La composizione dell'Assemblea costituente rifletteva la
pluralità di partiti politici dell'epoca.
All'interno dell'Assemblea costituente, è stata nominata una Commissione per la Costituzione,
nota come l'"assemblea dei 75," incaricata di redigere il progetto generale della Costituzione.
Questa Commissione a sua volta era suddivisa in tre sottocommissioni per trattare diverse aree
tematiche:
 Diritti e Doveri dei Cittadini, presieduta da Umberto Tupini (DC).
 Organizzazione Costituzionale dello Stato, presieduta da Umberto Terracini (PCI).
 Rapporti Economici e Sociali, presieduta da Gustavo Ghidini (PSI).
Le sottocommissioni avevano il compito di esaminare approfonditamente le questioni relative alle
loro specifiche aree di competenza. Tuttavia, è importante notare che molti articoli sono stati
discussi sia all'interno delle sottocommissioni che successivamente nell'Assemblea costituente. Le
conclusioni raggiunte nell'assemblea dei 75 non erano necessariamente vincolanti per la
Costituzione definitiva poiché molte questioni erano ancora aperte a ulteriori discussioni.
La proclamazione di "una Repubblica democratica fondata sul lavoro" rappresenta un elemento
unico nel contesto delle Costituzioni democratiche europee. Questa peculiarità dimostra il
contributo italiano alla formazione delle tradizioni costituzionali comuni in Europa. L'originalità
italiana non riguarda solo il riconoscimento dei diritti dei lavoratori ma anche i diritti sociali come
parte integrante del testo costituzionale, a differenza della proposta di Piero Calamandrei di inserirli
in un preambolo.
L'idea di inserire questi diritti nel preambolo è stata respinta in quanto l'inclusione di questi avrebbe
comportato una evidente diminuzione della loro importanza. Una volta che i diritti fossero stati
collocati nel preambolo, avrebbero potuto essere interpretati come "norme programmatiche", cioè
disposizioni che richiedono ulteriori azioni e attuazioni da parte del legislatore per diventare
effettive.
Tuttavia, nella Costituzione italiana, i diritti, inclusi quelli sociali, sono stati ritenuti principi con
efficacia precettiva e immediata. Ciò significa che richiedono un'applicazione immediata da parte
del legislatore statale, senza ulteriori passi interpretativi o attuativi.
All'interno dell’Assemblea costituente, si verificò un dibattito significativo tra Mortati e le sinistre
riguardo alla formulazione del principio fondamentale della Repubblica italiana. Mortati sosteneva
la seguente formulazione “Repubblica democratica fondata sul lavoro”; le sinistre, invece,
proposero di definire l'Italia come una "Repubblica di lavoratori," ma questa proposta fu respinta.
La ragione di tale rigetto risiedeva nel significato profondo che questa formula avrebbe potuto
assumere all'interno della Costituzione.
Secondo Mortati la formula "Repubblica di lavoratori" avrebbe potuto assumere una connotazione
classista, identificando l'intero ordinamento costituzionale con una categoria specifica, ovvero
quella dei lavoratori. Tuttavia, Mortati non negò che la classe operaia avesse assunto un ruolo
cruciale nell'intento di creare un nuovo equilibrio sociale, eliminando le disparità e promuovendo la
preminenza delle forze lavorative su altre classi sociali.
In precedenza, Mortati aveva sottolineato come questa posizione di classe generale degli operai
avesse portato al riconoscimento del diritto di cittadinanza nello stato italiano per tutte le categorie
di lavoro, anche non manuali. Questo ampliamento della struttura sociologica comprendeva tutti
coloro che svolgevano funzioni sociali non parassitarie o non implicanti lo sfruttamento del lavoro
altrui. L'unica eccezione era rappresentata dalle posizioni privilegiate o dai trattamenti non adeguati
alle capacità e ai rendimenti del lavoro.
Secondo Mortati, l'uso della formula " fondata sul lavoro" aveva una connotazione polemica nei
confronti del liberalismo che si basava sullo sfruttamento dei lavoratori. In questo senso, Mortati
condivideva alcune similitudini con il pensiero marxista. Tuttavia, a differenza di Marx, egli
riteneva che l'equilibrio sociale dovesse basarsi su "tutte le forze del lavoro," non solo sui lavoratori
subordinati. Questa differenza era evidente anche nella percezione dei privilegiati: per Mortati,
erano gli "oziosi volontari," mentre per la sinistra, che aveva proposto "Repubblica di lavoratori," i
privilegiati includevano anche gli imprenditori. Questo dimostra che dietro alle questioni
terminologiche c'erano due diverse concezioni del concetto di lavoro e del suo ruolo nella società.
Le diverse concezioni sul lavoro e sulla società si manifestano in questioni specifiche all'interno
dell’Assemblea costituente, e queste questioni vengono affrontate e risolte in modi diversi in base
alle diverse prospettive:
1. Una delle questioni affrontate riguardava l'attribuzione ai sindacati registrati del potere di
stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes per l'intera categoria di appartenenza dei
lavoratori.
2. Si discusse anche la composizione della seconda Camera del Parlamento. Si avanzò l'ipotesi di
differenziarla in base al criterio di rappresentanza professionale.
3. Le funzioni assegnate al CNEL, organismo consultivo per le questioni economiche e del lavoro,
furono oggetto di discussione. Questo rifletteva la divergenza di visioni sulla sua funzione e il
suo ruolo nel sistema decisionale.
La concezione di Mortati, basata sull'inclusività e sull'ampia rappresentanza delle forze lavorative,
trovava corrispondenza con il progetto democristiano di creare una camera rappresentativa delle
professioni e di prefigurare strutture pubbliche per la composizione degli interessi dei ceti
produttivi, come il CNEL o il sistema di contrattazione collettiva. Queste proposte erano coerenti
con la visione di una società in cui le diverse forze del lavoro collaboravano e cooperavano per il
bene comune.
D'altra parte, le posizioni dei partiti di sinistra riflettevano una concezione più conflittuale del
lavoro, in cui si sottolineava la lotta di classe e la necessità di difendere i diritti dei lavoratori contro
gli interessi dei datori di lavoro e dei privilegiati.
Il dibattito sulla subordinazione dei diritti politici all'adempimento del dovere di lavorare fu un tema
divisivo tra i costituenti, poiché rifletteva non solo diverse concezioni del lavoro, come discusso in
precedenza, ma anche diverse tradizioni politiche e culturali. Questa questione fu affrontata sia
nella prima che nella seconda sottocommissione dei 75, che si occupavano rispettivamente dei
diritti e doveri dei cittadini e dell'organizzazione costituzionale dello stato.
o Seconda Sottocommissione (Organizzazione Costituzionale dello Stato): Nel 1946, durante
le discussioni sulla definizione dei requisiti per l'elettorato attivo (cioè, chi ha il diritto di voto),
Mortati e Tosato sostennero la necessità di limitare questo diritto per coloro che non svolgono
volontariamente un'attività lavorativa.
Tuttavia, quest’ultima proposta incontrò diverse obiezioni da parte di altri costituenti:
 Bozzi sottolineò che determinare se un cittadino stesse lavorando o meno sarebbe stato
difficile da verificare e avrebbe richiesto la creazione di commissioni con poteri di
accertamento complicati, che avrebbero portato a decisioni arbitrarie.
 Amendola argomentò che questa restrizione non avrebbe eliminato in alcun modo
l'influenza delle forze parassitarie, poiché i "rentiers" (coloro che vivono di rendita) avevano
accesso al mondo finanziario e al giornalismo, e quindi potevano influenzare la politica
anche senza lavorare.
 Einaudi evidenziò la difficoltà, secondo la scienza sociale, nel definire ciò che costituisse
un lavoro produttivo o improduttivo, sociale o antisociale. Era difficile stabilire chi non
lavorava volontariamente e quindi applicare questa restrizione.
o Prima Sottocommissione (Diritti e Doveri dei Cittadini): Inizialmente, l'art.1 del progetto
costituzionale approvato dalla prima sottocommissione stabiliva che "La repubblica italiana ha
per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del paese." Lelio Basso sostenne che, se questa affermazione
fosse stata presa sul serio, chi non lavorava non partecipava effettivamente alla vita della
nazione e quindi propose di escludere dal diritto di voto coloro che volontariamente non
svolgevano un'attività produttiva.
 Moro sollevò l'obiezione che in Italia non era concepibile che ci fossero persone che non si
dedicassero volontariamente a un'attività produttiva. Inoltre, questa proposta avrebbe potuto
focalizzare l'attenzione su un aspetto negativo della società italiana che si voleva eliminare.
Moro sottolineò anche il rischio che questa misura potesse essere usata in modo arbitrario
per escludere dal voto cittadini che, sebbene si presumesse o volesse presumere non
svolgessero un'attività produttiva, in realtà lo facevano.
 Merlin e Mancini argomentarono che "prima si deve essere produttori e poi cittadini."
Questa prospettiva implicava che solo coloro che producevano per la società avrebbero il
diritto di scegliersi i loro rappresentanti.
Moro avanzò l'emendamento che affermava: "L'adempimento di questo dovere è presupposto per
l'esercizio dei diritti politici." Questa proposta fu approvata e comparve nel terzo comma dell'art. 31
della Costituzione italiana nel progetto costituzionale.
Nel 1947, il dibattito sulla questione riprese vigore, e il liberale Cortese propose la soppressione
della disposizione, che a suo avviso costituiva una sanzione grave e andava contro i principi
democratici, in quanto i cittadini con il diritto di voto potrebbero essere "ampliati o ristretti" a
seconda delle fortune dei partiti politici al potere.
In un dibattito successivo sull'art. 31 della Costituzione, l'idea di eliminare questa disposizione,
presente nel terzo comma, guadagnò sempre più consensi.
Foa suggerì di sostituire il primo comma con il seguente: "La Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto di voto ed assicura l'apprestamento dei piani economici per la difesa dei
consumatori e per garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei bisogni minimi vitali”.
I costituenti respinsero la proposta di sanzionare con la perdita del diritto di voto l'inadempimento
del dovere di lavorare. Questa proposta continuò ad essere sostenuta da Mortati, ma la sua visione
andava oltre la semplice sanzione. Mortati concepiva un profondo legame tra lavoro e democrazia,
che avrebbe dovuto ispirare l'intero ordinamento costituzionale italiano.
Secondo Mortati, l'articolo 1 della Costituzione, abbracciava una visione della vita in cui il lavoro
rappresentava la massima espressione della personalità sociale dell'individuo. Il lavoro permetteva
all'individuo di esprimere la propria creatività e costituiva il mezzo essenziale per contribuire alla
società attraverso la partecipazione alla costruzione della collettività. Questa visione del lavoro
conteneva un forte elemento di uguaglianza sociale.
Mortati sosteneva che per raggiungere l'omogeneità sociale era fondamentale eliminare le disparità
di classe che derivavano dall'esistenza di posizioni di vantaggio. Mortati enfatizzava anche il diritto
alla pari dignità sociale, che si applicava a ogni individuo indipendentemente dall'attività lavorativa
svolta, e il dovere morale e giuridico di adempiere al lavoro.
La posizione di Mortati, caratterizzata da un forte pathos morale di stampo corporativista, è stata
oggetto di critiche, in particolare da parte di Pinelli, che ha espresso le seguenti osservazioni:
Secondo Pinelli, il pathos morale presente nelle argomentazioni di Mortati è associato a concezioni
di pensatori come Tommaso d'Acquino, il quale affermava che il lavoro costituiva il fondamento
della società ed era l'unico legittimo fondamento per la proprietà e il guadagno, e Nicolò
Machiavelli, il quale collegava la "bontà delle repubbliche" a due elementi: evitare grandi alleanze
con gli stati vicini e assicurarsi che nessun cittadino viva come un gentiluomo (colui che vive senza
lavorare) o sia considerato tale..
Mortati sostiene che la tesi di Machiavelli sull'incompatibilità tra la presenza di ceti privilegiati e
una repubblica esprime la verità che in una repubblica, l'intero popolo deve partecipare direttamente
alla gestione dello Stato, e questo può avere successo solo se esiste un'equità sostanziale e se
vengono eliminati i privilegi. Nella visione di Mortati, l'equità è basata sulla concezione del lavoro
produttivo, che costituisce il titolo per la posizione attribuita ai cittadini nello Stato.
Mortati, inoltre, attribuisce particolare importanza al tema della mobilità sociale individuandone
l’origine nel lavoro, inteso come criterio di valutazione sociale e mezzo per favorire la circolazione
delle aristocrazie.
La valorizzazione del nesso costituzionale tra lavoro e democrazia costituiva una parte
fondamentale della visione di Mortati, ma tale approccio sembrava derivare da influenze straniere
più che dalle interpretazioni dei giuristi italiani contemporanei.
I giuslavoristi italiani vedevano nella previsione di acquisizione della personalità giuridica dei
sindacati (art. 39 della Costituzione) il pericolo di un collegamento con l'ordinamento corporativo,
che era stato abbandonato dopo la caduta del regime fascista. Santoro Passarelli, nel 1945, affermò
che le norme del diritto del lavoro non costituivano un sistema autonomo ma appartenevano al
diritto civile patrimoniale. Questa visione fece sì che Mortati si isolasse dalla maggioranza dei
giuristi italiani.
Difatti, Mortati propose un approccio pubblicistico all'autonomia collettiva, il che significa che
vedeva questa autonomia come una questione di diritto pubblico piuttosto che di diritto privato.
Nel 1975, Mancini nota che il dibattito sull'articolo 4 della Costituzione è diventato "marginale
ed esangue". Tuttavia, per la prima volta dopo Mortati, si cerca di attribuire rilevanza giuridica
all'articolo 4, ma cambia la prospettiva: si sposta l'attenzione dall'aspetto sanzionatorio a un
approccio promozionale ed incentivante.
Mancini concentra la sua attenzione sulla disciplina repressiva dell'ozio e del vagabondaggio
contenuta nella legge n. 1423 del 1956. Egli ritiene che l'obbligo di assistenza previsto da questa
legge nei confronti degli oziosi e dei vagabondi potrebbe rappresentare il primo passo verso
l'istituzione di un servizio sociale volto a recuperarli. Mancini sostiene che, se la Costituzione
stabilisce che tutti i cittadini devono essere impegnati in attività socialmente utili, allora deve anche
volere l'eliminazione delle cause che possono impedire o ostacolare tale impegno.
Questa interpretazione rappresenta una svolta rispetto alla visione di Mortati, che aveva proposto
sanzioni per coloro che non adempivano al dovere di lavorare. Negli anni '70, il testo costituzionale
divenne il punto di riferimento principale per il progresso spirituale e materiale, e si ampliò il
campo dei comportamenti censurabili in termini di parassitismo e devianza.
Pinelli procede con un'analisi scientifica delle politiche per l'occupazione e mette in evidenza un
capitolo "meno glorioso" in cui la ricostruzione dei percorsi scientifici si intreccia con l'esperienza
giuridica. Nel periodo tra il 1962 e il 1974, Federico Mancini descriveva questo periodo come
caratterizzato da una "difesa energica dell'occupazione e un debole attacco alla disoccupazione".
Gino Giugni, notando il crescente ravvicinamento tra il rapporto di lavoro subordinato e la
tradizionale concezione del pubblico impiego in termini di stabilità, ha sottolineato l'emarginazione
di varie forme di lavoro (a termine, per brevi periodi, ecc.). Giugni ha sottolineato che il diritto del
lavoro italiano ha contenuti di elevata irrazionalità economica, consumando ricchezza più di
quanto ne produca e risolvendo i problemi attraverso spostamenti dei costi (verso lo Stato, i
lavoratori, i datori di lavoro o determinate categorie).
Questo sembra contraddire quanto previsto dalla Costituzione italiana, ma Pinelli fa notare che le
rappresentazioni collettive complicano la situazione. In altre parole, mentre la Costituzione poteva
stabilire principi chiari, la loro attuazione effettiva e la creazione di politiche per l'occupazione
potevano essere influenzate da molteplici fattori, tra cui considerazioni economiche, sociali e
politiche. Ciò ha portato a un divario tra i principi costituzionali e la realtà delle politiche per
l'occupazione in Italia.
Fino agli anni '80, le rappresentazioni collettive del futuro in Italia erano fortemente influenzate
dalla combinazione di "progresso sociale" e "modernizzazione".
In questa fase, i partiti politici si impegnavano a garantire, attraverso la legislazione, che ci fosse
una coincidenza tra il progresso sociale, la modernizzazione e l'attuazione della Costituzione. Ciò
implicava un forte coinvolgimento dello Stato nell'economia attraverso interventi pubblici,
programmi e l'attuazione di un modello universalistico di diritti sociali, anche a costo di
interpretazioni flessibili del testo costituzionale.
Gli ostacoli di natura economica potevano sorgere anche dopo gli interventi pubblici, quindi la
rimozione di tali ostacoli doveva essere un compito costante. Questo approccio consentiva al diritto
costituzionale di adattarsi alle sfide del tempo in modo flessibile, componendo i principi in vari
modi.
Tuttavia, negli anni successivi al primo decennio dalla promulgazione della Costituzione, questa
concezione di attuazione costituzionale perse la sua connessione con l'idea di progresso. Questo
cambiamento fu causato da ragioni economiche e sociali, nonché dalle lunghe attese per le
trasformazioni politiche e sociali. L'idea di modernizzazione era ora legata alle élites e mirava a
migliorare l'efficienza e la competitività delle imprese e delle istituzioni italiane, a discapito del
mantenimento dei livelli di prestazioni pubbliche legati ai diritti sociali.
In passato, la Costituzione era vista come un mezzo per garantire il progresso sociale e la
modernizzazione del paese, con un forte legame tra lavoro, democrazia e attuazione dei principi
costituzionali. Tuttavia, nel corso del tempo, questa visione ha perso rilevanza a causa di ingiustizie
e incongruenze prodotte dall'attuazione stessa dei principi costituzionali.
Oggi, è necessario guardare al legame tra lavoro, democrazia e progresso all'interno della
Costituzione con uno sguardo critico e senza facili ironie. È importante riconsiderare questo legame
come parte integrante del discorso costituzionale, nonostante le sfide e le complessità che emergono
dall'attuazione dei principi costituzionali.
Il nesso tra lavoro e democrazia all'interno della Costituzione italiana è di fondamentale
importanza. Pierre Carniti ha sottolineato che il "cuore dello stato" è ora concentrato sulla difesa
del lavoro, e questo richiede l'impegno di tutti i cittadini, insieme a conoscenza, talento e passione
politica, per affrontare questa sfida concretamente.
In una società democratica, la crescita della disoccupazione minaccia i diritti di cittadinanza e la
coesione sociale, aspetti fondamentali della democrazia. Questa preoccupazione era particolarmente
evidente tra i Costituenti, che avevano vissuto il periodo fascista.
È importante notare che la Costituzione italiana non si riferisce solo al lavoro subordinato, ma
abbraccia una varietà di tipi di lavoro. Gli enunciati costituzionali, come l'articolo 4 della
Costituzione, sono di portata generale e si applicano a tutte le forme di lavoro. Questo approccio
alla Costituzione consente di cercare le condizioni della convivenza necessarie per il progresso.
Per garantire un progresso slegato da una visione paternalistica del potere pubblico e immune da
influenze storicistiche, è utile fare riferimento al termine "concorso". La Costituzione utilizza il
termine "concorso" in diverse occasioni, tutte interconnesse:
 Articolo 4 della Costituzione: "Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie
possibilità e la propria scelta un'attività o una funzione che concorra al progresso
materiale o spirituale della società."
 Articolo 49 della Costituzione: "Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente
in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale."
 Articolo 53 della Costituzione: "Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede
mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge."
Questo termine sottolinea l'importanza della partecipazione attiva di tutti i cittadini nel contribuire
al progresso sociale e spirituale della società, nonché nella determinazione della politica nazionale
attraverso un metodo democratico. La Costituzione italiana promuove il concorso come un mezzo
per raggiungere questi obiettivi e sottolinea l'importanza della partecipazione collettiva nella
costruzione di una società progressista e democratica.
Come si può vedere, il termine “concorso” in alcuni contesti, è associato a un obbligo, mentre in
altri denota un diritto o una libertà. Inoltre, il termine può significare sia competizione che
collaborazione con gli altri membri della società.
Nel contesto costituzionale, il concorso implica la partecipazione attiva di tutti i cittadini al
progresso materiale e spirituale della società. Questo coinvolgimento può avvenire sia attraverso un
eguale punto di partenza per tutti i cittadini, garantendo che ognuno abbia l'opportunità di
contribuire al progresso secondo determinati minimi, sia attraverso la considerazione dei meriti e
delle capacità individuali. In altre parole, il concorso nella Costituzione implica una combinazione
di uguaglianza iniziale delle opportunità e successiva valutazione in base ai meriti personali.
La Costituzione italiana, quindi, non riconosce l'individuo come soggetto che dipende
esclusivamente dallo stato-provvidenza né come un individuo che si afferma esclusivamente
attraverso una selezione naturale. Invece, la Costituzione concepisce l'individuo come un essere
sociale che contribuisce attivamente al proprio destino, ma è anche consapevole dei propri limiti.
Questa prospettiva è in linea con le affermazioni di Gaetano Silvestri, secondo il quale il punto di
incontro tra principi liberali classici e principi della democrazia pluralista contemporanea è la libera
competizione basata sul merito. La Costituzione promuove la competizione basata sul merito come
un modo per contrastare la disuguaglianza e la mancanza di libertà derivanti da disuguaglianze
legate alla fortuna, all'oppressione e alla frode, nonché dalla gerarchia dei meriti prestabiliti. In
questo contesto, la lotta quotidiana dovrebbe essere contro i "gentiluomini", avvicinandosi così alle
concezioni di Mortati, che enfatizzava l'importanza di una selezione delle capacità non ostacolata da
condizioni di inferiorità economica e di una discesa nella scala sociale non ostacolata dalla
trasmissione di posizioni di vantaggio a chi non possiede le capacità corrispondenti.

2. Saggio: “Politiche attive del lavoro e misure di contrasto alla povertà. Una prospettiva
costituzionale”.
Il rapporto tra le politiche del lavoro e le misure di contrasto alla povertà rappresenta una sfida
complessa per gli interpreti della Costituzione. Questo saggio si propone di esplorare in che modo
questa relazione si intreccia con i principi costituzionali e di analizzare come le istituzioni pubbliche
hanno tradotto questi principi in azioni concrete, oltre a considerare come dovrebbero affrontare
eventuali lacune o insuccessi nel processo.
La Costituzione italiana non contiene dettagliati programmi di politiche sociali o economiche, e
questa caratteristica è fondamentale per mantenerla flessibile e adattabile alle mutevoli esigenze
della società. Questa flessibilità permette ai pubblici poteri di esercitare una discrezionalità nella
formulazione e nell'attuazione delle politiche, riflettendo il principio democratico della
rappresentanza e dell'adattabilità.
All'interno della Costituzione, sono enunciati principi che forniscono un quadro guida per la
convivenza sociale, senza fornire dettagli specifici. Questi principi costituzionali, pur non essendo
programmi dettagliati, fungono da strumento per valutare la congruenza delle politiche pubbliche
con gli obiettivi generali della Costituzione. Questa valutazione aiuta a bilanciare la necessità di
flessibilità con l'orientamento fornito dai principi costituzionali, consentendo ai principi di guidare
l'azione pubblica senza essere vincolanti o eccessivamente prescrittivi.
Nel contesto della lotta alla povertà e alla promozione dell'occupazione, è importante riconoscere
che la norma relativa al diritto al lavoro nella Costituzione italiana non è semplicemente un
obiettivo di programma, ma rappresenta un principio fondamentale. Questo sottolinea l'importanza
di garantire il diritto al lavoro come elemento cruciale nella struttura sociale e politica del paese.
All'interno della Costituzione italiana, non troviamo la formulazione esplicita del termine "povero",
ma la Costituzione affronta la questione in vari modi e fa riferimento a specifiche situazioni. Alcuni
articoli chiave includono:
 Articolo 32: Questo articolo sancisce il diritto alla salute e fa riferimento agli "ingenti" per
garantire cure gratuite.
 Articolo 34: Questo articolo riconosce il diritto allo studio e menziona la possibilità di accesso
all'istruzione per coloro che sono "capaci e meritevoli" anche se sprovvisti dei mezzi necessari.
 Articolo 38 (primo comma): Questo articolo garantisce il diritto al mantenimento e
all'assistenza sociale per coloro che sono "inabili al lavoro" e sprovvisti dei mezzi necessari per
vivere.
Tutti questi articoli riflettono il principio di solidarietà sottolineato nell'Articolo 2 della
Costituzione, che sottolinea l'importanza della cooperazione sociale per il bene comune. Inoltre, gli
articoli menzionati sono in sintonia con il principio di "pari dignità sociale" sancito nell'Articolo 3
(primo comma) e con l'obiettivo di perseguire l'eguaglianza sostanziale, come sancito nell'Articolo
3 (secondo comma).
Il punto cruciale, secondo la prospettiva di Pinelli, è individuare come questi principi costituzionali
si traducano in direttive per l'azione dei pubblici poteri, concentrandosi sul legame tra lavoro e
assistenza sociale, che può essere oggetto di diverse interpretazioni.
Per alcuni, il lavoro retribuito è considerato un elemento essenziale e sufficiente per garantire la
protezione sociale e l'inclusione dei cittadini, basandosi su vari principi costituzionali:
 L'Articolo 4 della Costituzione sottolinea il diritto e il dovere di svolgere un'attività
lavorativa.
 Il principio di "retribuzione sufficiente" menzionato nell'Articolo 36 della Costituzione
sottolinea l'importanza di garantire una remunerazione adeguata per il lavoro svolto,
contribuendo così a prevenire la povertà e l'emarginazione.
 Allo stesso tempo, la Costituzione riconosce l'assistenza sociale per coloro che sono inabili e
disoccupati involontari, come indicato nell'Articolo 38 (commi 1 e 2) della Costituzione.
Tuttavia, va notato che ci sono diverse interpretazioni possibili di questi principi costituzionali e del
loro rapporto con le politiche di assistenza sociale. Alcuni potrebbero sostenere che l'assistenza
sociale dovrebbe essere disponibile anche per coloro che, sebbene abili al lavoro, non riescono a
trovare un'occupazione retribuita sufficiente per soddisfare i propri bisogni essenziali. Queste
interpretazioni possono variare in base alla prospettiva politica e alla visione della protezione
sociale.
I diritti sociali sono strettamente collegati al principio di eguaglianza sostanziale poiché implicano
il riconoscimento di diritti che sono considerati "sociali" perché richiedono un'azione o una
prestazione da parte di un'associazione o di una istituzione. Questa distinzione è importante in
quanto differenzia i diritti sociali dai diritti individuali.
Per comprendere meglio questa distinzione, consideriamo un esempio: il diritto di proprietà. Nel
caso del diritto di proprietà, non è necessario l'intervento di altri soggetti o istituzioni per garantirlo
costantemente. Tuttavia, se qualcuno dovesse privarmi del mio diritto di proprietà, potrei rivolgermi
a un apparato legale o giuridico esterno per far valere tale diritto. In questo caso, l'applicazione
della norma richiede l'intervento di un'autorità esterna solo in situazioni specifiche.
Al contrario, i diritti sociali richiedono un'azione positiva da parte della società o dello Stato per
essere garantiti. Questi diritti sono spesso definiti come "diritti a prestazione", il che significa che
qualcuno o qualcosa (che sia pubblico o privato) deve fornire una prestazione o un servizio per
soddisfarli. Ad esempio, il diritto all'istruzione implica che le istituzioni educative debbano essere
disponibili e accessibili a tutti i cittadini, richiedendo un'azione attiva per garantire questo accesso.
Questa concezione dei diritti sociali rappresenta una differenza significativa rispetto alla struttura
dello Statuto Albertino, che si concentrava principalmente sulle "libertà negative". Le libertà
negative implicano che lo Stato non deve interferire o limitare i diritti dei cittadini. Tuttavia, questa
prospettiva è limitata alle libertà individuali e non affronta la questione delle disuguaglianze sociali
o dell'accesso a risorse e servizi essenziali.
Quando parliamo dei diritti costituzionali, è essenziale comprendere il concetto di "nucleo
essenziale". Questo significa che i diritti costituzionali hanno un nucleo intangibile che non può
essere completamente annullato o limitato. Anche quando possono essere soggetti a limitazioni,
queste limitazioni devono rispettare il nucleo essenziale dei diritti. Il Costituente ha previsto delle
restrizioni rispetto alle limitazioni di questi diritti, tra cui la "riserva di legge" (il Parlamento
stabilisce le circostanze in cui i diritti possono essere limitati) e la "riserva giurisdizionale" (il
giudice può limitare i diritti solo con un decreto motivato).
Il concetto di "nucleo essenziale" si applica anche ai diritti all'assistenza e alla previdenza
sociale. Questi diritti, che sono considerati parte dei diritti costituzionali, devono essere garantiti in
modo tale da non intaccare il loro nucleo essenziale. C’è differenza tra diritto all’assistenza e diritto
alla previdenza:
- Diritto all’assistenza: Secondo la Corte costituzionale il diritto all’assistenza riguarda gli
inabili al lavoro, che hanno diritto ad un minimo assistenziale volto a soddisfare il bisogno
alimentare.
- Diritto alla previdenza: Riguarda i lavoratori che si trovano in condizioni particolari come
infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia o disoccupazione involontaria, che hanno diritto al
soddisfacimento di altri bisogni oltre al minimo indispensabile per vivere.

Tali principi vengono convertiti in direttive d’azione dei pubblici poteri, ed è fondamentale in
quest’ottica analizzare il nesso tra lavoro e assistenza che porta a principalmente due prospettive
differenti:
 Alcuni sostengono che la Costituzione implica una presunzione di piena occupazione o di
disoccupazione frizionale, e che quindi l'assistenza sia destinata all'inabile al lavoro. Questa
visione suggerisce che il welfare sia stato concepito dai costituenti con l'idea di fornire supporto
solo a coloro che sono realmente impossibilitati a lavorare (prospettiva assicurativa).
 D'altra parte, ci sono interpreti che sostengono che la Costituzione può essere interpretata come
se fornisse una presunzione a favore di un reddito universale che non dipende dal lavoro. Questa
prospettiva si allinea con l'idea di fornire assistenza e previdenza a tutti, indipendentemente
dalla situazione lavorativa (approccio universalistico).
La tesi secondo cui il riconoscimento del diritto al lavoro implicherebbe un obbligo per i poteri
pubblici di garantire la piena occupazione è stata esclusa sia dalla giurisprudenza costituzionale che
dalla maggior parte della dottrina legale.
La Costituzione italiana riconosce il diritto al lavoro a tutti i cittadini, ma questa affermazione è
accompagnata dalla previsione che la Repubblica debba promuovere le condizioni che rendano
effettivo tale diritto. Ciò significa che la Costituzione non impone un obbligo diretto ai pubblici
poteri di assorbire completamente la disoccupazione e di garantire posti di lavoro.
Invece, il compito delle autorità pubbliche è quello di creare un ambiente favorevole
all'occupazione e di promuovere l'occupabilità dei cittadini. Pertanto, l'indennità di disoccupazione
non deve essere vista come un "risarcimento" per il mancato raggiungimento del pieno impiego.
La mancanza di un obbligo diretto dei poteri pubblici nel garantire la piena occupazione diventa
evidente se si considerano due questioni:
 Nel corso dei lavori preparatori per la Costituzione, il presidente della commissione dei 75,
Ruini, ha affermato che il diritto al lavoro è da considerarsi come un diritto potenziale. La
Costituzione lo menziona affinché il legislatore possa promuoverne l'attuazione, in linea con
l'impegno assunto dalla Repubblica all'interno della stessa Costituzione. Questo implica che la
Repubblica deve creare le condizioni per favorire il diritto al lavoro, ma non esiste un obbligo
diretto di garantire la piena occupazione. È significativo notare anche il rigetto
dell'emendamento Montagna, che aveva lo scopo di obbligare lo Stato a coordinare e orientare
l'attività produttiva a livello nazionale per massimizzare il rendimento per la collettività,
sottolinea ulteriormente che non esiste un obbligo di questo genere.
 Il confronto tra l’Art. 4 e l’art. 34 della Costituzione fornisce un ulteriore chiave di lettura;
nell’art 4 cost. la Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro,
mentre nell’art 34 cost. la Repubblica rende effettivo il diritto ai capaci e meritevoli di
raggiungere i gradi più alti degli studi, anche se privi di mezzi. Nel secondo caso è la repubblica
che ha il compito di rendere effettivo il diritto, è direttamente responsabile. Nel primo caso
invece la Repubblica ha il compito di promuovere tale diritto, promuovere dunque presuppone
che ci siano altri attori istituzionali o non istituzionali che aiutino la repubblica a rendere
effettivo tale diritto.
Quanto fin qui affermato aiuta a spiegare perché la disoccupazione involontaria è inclusa tra le
situazioni considerate nell'articolo 38, secondo comma, della Costituzione italiana. È importante
notare che la piena occupazione non rappresenta un obbligo giuridico, ma piuttosto un obiettivo da
perseguire per indirizzare l'azione dei pubblici poteri. Inoltre, l’indennità di disoccupazione non
deve essere considerata come un pagamento a titolo di risarcimento, ma piuttosto come uno
strumento di supporto in risposta a una situazione di inadeguatezza, la cui durata non è prevedibile,
dei mezzi finanziari a disposizione dei lavoratori per soddisfare le proprie esigenze di vita.
In sintesi, l'obbligo della Repubblica è quello di rendere effettivo il diritto al lavoro, ma ciò non
significa adottare un atteggiamento passivo. È fondamentale comprendere la distinzione tra
disoccupazione volontaria e involontaria per garantire un adeguato funzionamento del sistema di
assistenza e previdenza sociale.
La disoccupazione volontaria si riferisce a situazioni in cui un individuo sceglie volontariamente di
non cercare lavoro o di non contribuire alla società, nonostante ci siano opportunità disponibili. In
tali casi, la Costituzione italiana non riconosce un diritto automatico a ricevere un sostegno
economico.
D'altra parte, la disoccupazione involontaria si verifica quando un individuo è privato
involontariamente di un'opportunità di lavoro a causa di circostanze al di fuori del proprio controllo.
In queste situazioni, la Costituzione prevede il diritto a un sostegno economico per affrontare le
difficoltà causate dalla disoccupazione involontaria.
Questa distinzione è essenziale per garantire una responsabilizzazione collettiva. Tuttavia, è
importante sottolineare che la questione è molto complessa, poiché riguarda anche il numero di
individui disposti a svolgere lavori umili o meno gratificanti. È un tema dibattuto, come evidenziato
da Sylos Labini, e richiede un equilibrio tra la promozione del diritto al lavoro e la
responsabilizzazione individuale e collettiva.
Successivamente, nel saggio ci si concentra sui pubblici poteri e su come hanno gestito la
connessione tra lavoro e assistenza. Secondo Pinelli, un elemento costante, indipendentemente
dalle diverse filosofie politiche, è l'inadempimento del compito costituzionale di promuovere
l'occupazione.
Tale inattività coesiste con varie azioni intraprese dai pubblici poteri, tra cui l'erogazione di sussidi,
tentativi falliti di mediazione tra domanda e offerta di lavoro e la creazione di amministrazioni
come i centri per l'impiego, che tuttavia hanno spesso continuato a esistere senza conseguire
risultati significativi.
La Corte costituzionale ha esaminato la legislazione relativa all'occupazione giovanile compresa tra
il 1977 (legge n. 285 sull'occupazione giovanile) e il 1987 (legge n. 56 che ha riformato la
disciplina del collocamento).
Nella sua valutazione, la Corte ha evidenziato diverse criticità, tra cui la persistenza di disparità
regionali, la mancanza di coordinamento nei sistemi formativi; inoltre, le elevate spese sostenute
non sono state accompagnate da un miglioramento qualitativo della formazione o da un aumento
quantitativo dell'occupazione; infine, sono emerse nuove esigenze legate all'innovazione
tecnologica e alla necessità di nuove forme contrattuali e modalità di lavoro più flessibili, ma queste
esigenze non sono state soddisfatte adeguatamente.
La Corte costituzionale italiana ha il compito di controllare la costituzionalità delle leggi, ma il
suo ruolo è limitato dal fatto che non può creare nuove norme. Tuttavia, in alcune situazioni, può
influenzare indirettamente il legislatore spingendolo a rivedere le leggi incostituzionali,
contribuendo così al processo di legiferazione.
Nel saggio, Pinelli, si interroga sul fatto che le politiche attive del lavoro adottate dai pubblici
poteri potrebbero non essere effettivamente politiche "attive". Le politiche attive del lavoro
dovrebbero essere finalizzate al reinserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro, ma talvolta
sembrano concentrarsi principalmente sulla tutela del reddito e sull'equa distribuzione delle
opportunità di lavoro.
Il tema dell'assistenza sociale, secondo Pinelli, può essere affrontato prendendo in considerazione
quanto emerso dalla "Commissione per l'analisi delle compatibilità macroeconomiche della
spesa sociale" nota come Commissione Onofrio, nel 1997. Questa commissione ha evidenziato
alcune importanti considerazioni riguardo alle prestazioni monetarie di tipo passivo, come le
prestazioni monetarie e gli ammortizzatori sociali destinati ai disoccupati. Tali prestazioni, secondo
la commissione, non sono in grado né di ottenere risultati significativi in termini di ridistribuzione
delle risorse né di affrontare adeguatamente i reali bisogni dei beneficiari, fornendo loro opportunità
concrete.
La Commissione Onofrio ha sottolineato che, rispetto agli altri paesi europei, l'ammontare
complessivo della spesa per le politiche di protezione sociale in Italia è simile, ma la struttura
interna è notevolmente diversa, definendo questa situazione come una "grave anomalia". Queste
anomalie sono state analizzate in due aspetti:
 In Italia, una percentuale significativa delle risorse destinate alla protezione sociale è orientata a
sostenere anziani e superstiti (51,5% della spesa totale, rispetto alla media europea del 45,3%).
D'altro canto, la spesa relativa a rischi come formazione/disoccupazione, famiglia/maternità e
altre forme di assistenza è inferiore (18,4%, rispetto alla media europea del 31,9%). La spesa
sanitaria in Italia è allineata con quella degli altri paesi europei.
 Si osserva un marcato divario tra le prestazioni previste per i lavoratori inseriti nel mercato del
lavoro regolare, come quelli che lavorano in grandi imprese o nel settore pubblico, e le altre
prestazioni previste per gli altri lavoratori o per i non occupati. Ad esempio, la pensione di un
lavoratore con una posizione "forte" può essere fino a quattro volte superiore rispetto a quella di
chi riceve una pensione sociale. In altri paesi europei, questo divario è di solito di 1 a 2. Inoltre,
chi beneficia dell'indennità di mobilità in Italia (indennità assegnata ai lavoratori che perdono il
lavoro a seguito di procedure di mobilità) riceve più del doppio rispetto a chi riceve un'indennità
ordinaria. In altri paesi, il trattamento è uniforme per tutti i lavoratori. Si sottolinea anche
l'assenza di un reddito minimo per coloro che sono completamente privi di mezzi.
L'auspicio del "minimo vitale" proposto dalla Commissione Onofrio nel 1997 ha ricevuto diverse
risposte in Italia nel corso degli anni:
 Legge n. 328 del 2000 "Legge Quadro per la Realizzazione del Sistema Integrato di
Interventi e Servizi Sociali": Questa legge ha introdotto il concetto di reddito minimo di
inserimento, tuttavia, l'effettiva sperimentazione di tale reddito è stata limitata a pochi
Comuni e ha incontrato notevoli difficoltà nella sua implementazione.
 Carta Acquisti per i Cittadini Poveri (Social Card) - Anno 2000: Per far fronte
all'aumento della povertà, è stata introdotta la Carta Acquisti destinata ai cittadini più poveri.
Questa carta è stata concessa "al fine di soccorrere le fasce più deboli della popolazione in
stato di particolare bisogno". Tuttavia, questa "concessione" ha suscitato preoccupazioni a
livello costituzionale poiché sembrava non trattarsi di un diritto (come previsto dall'Articolo
38 della Costituzione), ma piuttosto di un beneficio derivante da una concessione dello
Stato.
 Reddito di Inclusione - Anno 2017: Nel 2017 è stato introdotto il Reddito di Inclusione,
che prevede l'erogazione di una somma mensile insieme all'elaborazione di progetti
personalizzati volti all'attivazione e all'inclusione sociale e lavorativa dei beneficiari.
 Reddito di Cittadinanza - Anno 2019: Nel 2019 è stato istituito il Reddito di Cittadinanza,
basato su trasferimenti finanziari e sull'opportunità per i beneficiari di accedere a corsi di
formazione e opportunità lavorative dedicate a un pubblico più ampio.
In relazione al reddito di cittadinanza, Mortati sottolinea come persista la tesi, utilizzata per
rispondere alle accuse di assistenzialismo, degli obblighi di assistenza come un "risarcimento" del
danno per il mancato raggiungimento della piena occupazione o come una compensazione delle
istituzioni per la mancata garanzia di uguaglianza di opportunità. Questa tesi è stata già confutata in
base all'articolo 4 e all'articolo 38 della Costituzione italiana.
Secondo Pinelli, è importante notare che le politiche finalizzate al raggiungimento di obiettivi,
come la promozione delle condizioni di vita, sono state spesso male impostate e raramente attuate in
modo efficace. Inoltre, Pinelli sottolinea che il reddito di cittadinanza presta un'attenzione del tutto
insufficiente alla natura e al rischio della povertà, in quanto questo è legato alla condizionalità al
lavoro. La condizionalità dovrebbe limitarsi a verificare il fenomeno dell'azzardo morale e a
superare eventuali barriere formative e informatiche che ostacolano l'accesso a un lavoro dignitoso.
Secondo Pinelli, la decisione di collegare politiche attive del lavoro e misure di contrasto alla
povertà attraverso l'introduzione della condizionalità non è da criticare di per sé. Tuttavia, è
importante notare che la legge non fornisce adeguati strumenti per dimostrare l'immediata
disponibilità al lavoro, in particolare quelli previsti per il reddito di cittadinanza sono considerati
troppo generici, poco credibili e spesso esistono solo sulla carta. Questo rappresenta un punto
debole che mette in evidenza le carenze strutturali delle politiche attive del lavoro in Italia.

3. Saggio. “Lo sciopero alla Costituente e nella giurisprudenza costituzionale”


Sebbene gli studi preliminari alla redazione della Costituzione italiana non abbiano ricevuto
l'attenzione prioritaria degli studiosi del diritto di sciopero, secondo Pinelli, le questioni sollevate
in quella sede rappresentano le stesse sfide che si sono manifestate nei decenni successivi, quali:
l’esercizio del diritto di sciopero come forma di autotutela dei lavoratori e le soglie minime che
dovrebbero essere rispettate nei servizi pubblici essenziali; la soggettiva applicabilità dell'art. 40 in
relazione alle diverse categorie di lavoratori e alla determinazione dell'essenzialità o meno del
requisito della subordinazione; la questione dei datori di lavoro e il loro diritto corrispondente al
"diritto di serrata," ovvero il diritto di chiudere temporaneamente l'attività in risposta allo sciopero;
gli scioperi per fini non esclusivamente economici e rivendicativi indirizzati verso questioni
politiche, sociali o ambientali; l’applicazione oggettiva della nozione di sciopero che mira a
individuare le forme concrete di espressione dell'autotutela dei lavoratori protette dall'articolo 40.
L'articolo 40 della Costituzione italiana stabilisce chiaramente che “Il diritto di sciopero si
esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano”. Tuttavia, questa disposizione ha sollevato
interrogativi significativi sulla sua portata e sul suo impatto. In particolare, la mancanza di dettaglio
nel testo costituzionale ha spinto Pinelli e altri a interrogarsi sul motivo per cui il testo
costituzionale rimanesse silente su questioni così cruciali.
Questo silenzio costituzionale ha suscitato preoccupazioni tra coloro che temevano che un
riferimento generico alla legge potesse indebolire il diritto di sciopero dal punto di vista
costituzionale. Vittorio Foa, ha sollevato questa preoccupazione, mettendo in evidenza come, in
relazione ad altri diritti legati ai rapporti civili e sociali, non ci sia mai stato un semplice riferimento
alla legge. Quando c'è stato un riferimento alla legge in altri contesti costituzionali, sono stati
stabiliti chiaramente i limiti e i vincoli legislativi per garantire la protezione del diritto.
La mancanza di chiarezza nel testo costituzionale ha dato luogo a dibattiti e discussioni sulla
necessità di definire più specificamente i confini e i limiti del diritto di sciopero attraverso la
legislazione. Tali dibattiti hanno influenzato la formulazione delle leggi successive che
regolamentano il diritto di sciopero in Italia e hanno contribuito a definire la sua portata e i suoi
limiti all'interno del contesto costituzionale.
Durante il dibattito nella Costituente, la Terza Sottocommissione della Commissione dei 75
aveva affidato a Giuseppe Di Vittorio la relazione sul "diritto di associazione e sull'ordinamento
sindacale".
Di Vittorio, segretario della CGIL e membro del PCI, nel suo contributo alla discussione, ha
enfatizzato il ruolo privilegiato del sindacato all'interno della società. Ha sottolineato come il
sindacato rappresentasse un "presidio più sicuro della libertà umana". In altre parole, Di Vittorio
vedeva il sindacato come un baluardo fondamentale per la tutela delle libertà individuali e come un
mezzo attraverso il quale i lavoratori potevano ottenere le condizioni necessarie per partecipare alle
competizioni economiche senza essere svantaggiati sin dall'inizio. Questo è stato reso possibile
grazie all'associazione di lavoratori diversi all'interno del sindacato, il quale ha fornito loro la
capacità di agire collettivamente contro il potere economico dei singoli capitalisti.
In definitiva, secondo Di Vittorio, il sindacato era lo strumento chiave per l'affermazione del diritto
alla vita e del diritto al lavoro, come sanciti dalla Costituzione. Il sindacato svolgeva un ruolo
fondamentale nella protezione delle libertà individuali e nell'assicurare che i lavoratori avessero la
possibilità di competere equamente nell'ambito economico.
A ciò corrispondeva la visione della classe operaia come classe generale. In questa prospettiva, la
classe operaia rappresenta non solo gli interessi dei lavoratori, ma anche gli interessi dell'intera
nazione. Questo significa che i sindacati non agiscono esclusivamente per promuovere interessi
particolaristici o egoistici, ma per difendere interessi di carattere collettivo che spesso coincidono
con quelli dell'intera nazione.
In altre parole, i sindacati lavorano per il benessere generale dei lavoratori, il quale può essere
ottenuto solo attraverso un maggiore sviluppo dell'economia nazionale, un aumento della
produzione, un miglioramento della ricchezza del paese e una distribuzione più equa dei beni
prodotti. Questa visione sottolinea che gli interessi egoistici o settoriali dei lavoratori devono essere
controllati ed eliminati attraverso la convergenza verso interessi fondamentali e permanenti
dell'insieme dei lavoratori, indipendentemente dalla loro categoria.
Nella sua relazione, Giuseppe Di Vittorio si propone di superare un dilemma fondamentale relativo
al ruolo e alla natura del sindacato nell'ambito della Costituzione italiana. Tale dilemma può essere
riassunto come segue: "Il sindacato può essere unico, riconosciuto come un ente giuridico di diritto
pubblico sottoposto al controllo dello Stato, oppure può essere considerato un'organizzazione di
fatto, indipendente dallo Stato, senza un riconoscimento giuridico, e a cui non possono essere
affidate funzioni pubbliche."
Di Vittorio propone un nuovo tipo di sindacato con caratteristiche distintive e originali. Questo
nuovo sindacato dovrebbe consentire sia la garanzia di libertà, autonomia e indipendenza per
l'organizzazione sindacale, sia la possibilità di svolgere funzioni di carattere pubblico in modo
legale. Tali funzioni pubbliche sono già svolte di fatto dal sindacato.
È importante notare che l'idea di assegnare funzioni pubbliche al sindacato non implica
necessariamente un controllo diretto da parte dello Stato sul sindacato stesso. Invece, si tratta di
riconoscere e legalizzare le funzioni pubbliche che il sindacato già svolge nella pratica.
Tra le funzioni di carattere pubblico che Di Vittorio propone di affidare al sindacato ci sono:
1. La stipulazione dei contratti collettivi: Questi contratti avrebbero efficacia per tutti i
membri della categoria lavorativa rappresentata dal sindacato, garantendo quindi l'equità nei
rapporti di lavoro e la tutela dei diritti dei lavoratori.
2. Il collocamento dei lavoratori: Il sindacato potrebbe svolgere un ruolo nel facilitare la
ricerca di lavoro per i suoi membri, aiutando a collocare i lavoratori nelle opportunità
occupazionali disponibili.
In questo modo, l'approccio di Di Vittorio cerca di superare il dilemma tra considerare il sindacato
un'organizzazione di fatto o un ente giuridico di diritto pubblico, cercando di conciliare
l'indipendenza e l'autonomia sindacale con la possibilità di svolgere funzioni pubbliche a beneficio
dei lavoratori e dell'intera società.
La posizione di Giuseppe Di Vittorio rispetto al diritto di sciopero è stata molto chiara e centrata
sul riconoscimento dell'importanza sociale dei lavoratori e della necessità di proteggere l'integrità
della personalità umana attraverso questo diritto. Di Vittorio ha sostenuto che lo sciopero
rappresenta una dimostrazione della potenza e dell'indispensabilità della funzione sociale dei
lavoratori. Ha affermato che il diritto di sciopero è un mezzo fondamentale per difendere l'integrità
della personalità umana e che il suo divieto costituirebbe una mutilazione della personalità stessa.
Di Vittorio ha avanzato la seguente proposta in merito all'articolo 40 della Costituzione italiana:
"La Repubblica garantisce le libertà sindacali ed il diritto di sciopero a tutti i lavoratori". Questa
proposta riflette la sua convinzione che il diritto di sciopero dovrebbe essere riconosciuto come un
diritto fondamentale per tutti i lavoratori.
Per quanto riguarda lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, che potrebbe causare danni
significativi a un gran numero di persone, Di Vittorio ha suggerito che eventuali abusi potrebbero
essere contenuti attraverso l'autolimitazione del sindacato. Tuttavia, ha sostenuto che la serrata,
ovvero la chiusura temporanea di un'attività da parte del datore di lavoro in risposta allo sciopero,
non dovrebbe essere posta sullo stesso piano dello sciopero. Questo perché, nonostante la parità
nella legittimità degli interessi economici tra lavoratori e datori di lavoro, i lavoratori sono in un
numero incomparabilmente maggiore rispetto ai datori di lavoro, e i sindacati rappresentano
interessi vitali e ampi della massa di cittadini non abbienti che lo Stato deve tutelare.
Inoltre, Di Vittorio ha fatto notare che lo sciopero ha un limite rappresentato dalla mancata
retribuzione dei lavoratori coinvolti, mentre sia lo sciopero che la serrata rappresentano una
limitazione del profitto per il datore di lavoro. Tuttavia, il bisogno di sopravvivenza dei lavoratori è
una questione di vitale importanza, e Di Vittorio ha sottolineato che questo dovrebbe essere
considerato quando si valutano le limitazioni imposte a tali diritti sindacali.
Durante il dibattito costituzionale, la definizione costituzionale del diritto di sciopero era
principalmente finalizzata a riconoscere il diritto come un mezzo di difesa dell'integrità della
persona. In altre parole, la Costituzione cercava di affermare il diritto di sciopero come un mezzo
attraverso cui i lavoratori, che spesso erano poveri e svantaggiati, potevano affermare la propria
indispensabilità dal punto di vista sociale. Il divieto di sciopero era considerato una mutilazione
della personalità e, pertanto, si accostava il diritto di sciopero ai diritti della personalità umana.
A partire dal 1943, si verificarono una serie di scioperi di fatto che, partendo da rivendicazioni
economiche, si trasformarono in scioperi politici. Questi scioperi furono condotti come una lotta
contro il regime fascista, e il consenso per il diritto di sciopero fu generalmente ben accolto durante
i lavori della Costituente. La discussione principale riguardava piuttosto i limiti legislativi che
dovrebbero essere imposti a questo diritto.
Nella Terza Sottocommissione, la proposta di Di Vittorio non ricevette un ampio sostegno,
principalmente a causa della mancanza di limiti legislativi specifici che facevano temere un
riconoscimento indiscriminato dello sciopero, anche per i funzionari pubblici.
La posizione di Fanfani, rappresentante dei centristi, enfatizzò che era necessario riconoscere il
diritto di sciopero a livello costituzionale; questo avrebbe comportato l'abrogazione delle norme
penalistiche di origine fascista, che rappresentavano il principale ostacolo alla libera espressione del
diritto di sciopero.
Il dibattito nella Terza Sottocommissione non portò a un accordo definitivo, ma evidenziò la
complessità delle questioni legate al diritto di sciopero e alla sua definizione costituzionale.
Durante il dibattito presso la Prima Sottocommissione della Commissione dei 75, Palmiro
Togliatti ha avanzato una proposta riguardo al diritto di sciopero. La sua posizione era la
seguente: "La legge assicura ai lavoratori il diritto di sciopero." Questa proposta ha suscitato
riflessioni sulla possibilità che, se la legge avesse mantenuto il silenzio su questo diritto, il diritto di
sciopero non sarebbe stato garantito.
Inoltre, l'onorevole Merlin aveva l'intenzione di aggiungere al testo proposto da Togliatti una
disposizione che vietasse lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Togliatti, d'altro canto, riteneva
che fosse sufficiente il controllo da parte del governo, di volta in volta, per evitare che lo sciopero
coinvolgesse i servizi pubblici essenziali.
Tuttavia, l'opposizione ai limiti legislativi imposti allo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha
incontrato l'ostilità non solo di Togliatti ma anche dei socialisti Mancini e Basso. Questo perché tali
limiti non solo offendevano il principio di eguaglianza tra i lavoratori, ma presupponevano anche
una differenza tra lo Stato e gli altri datori di lavoro privati. Questa differenza è stata
successivamente abbattuta quando è stato riconosciuto che lo Stato doveva essere considerato
responsabile come qualsiasi altro datore di lavoro per le azioni e le colpe dei suoi dipendenti.
Il dibattito nella Prima Sottocommissione ha rivelato le complessità legate all'articolo sulla libertà
di sciopero e ai limiti che dovrebbero essere imposti, specialmente nei servizi pubblici essenziali,
portando a discussioni approfondite tra i membri della Costituente.
Di fronte allo stallo del dibattito sulla definizione del diritto di sciopero e dei suoi limiti, il
presidente Tupini ha proposto una formulazione di compromesso per cercare di ottenere un
accordo. La sua proposta recitava: "È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero. La legge
ne regola le modalità di esercizio unicamente per quanto attiene:
a) alla procedura di proclamazione;
b) all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;
c) al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva."
Il primo comma di questa proposta è stato approvato con 14 voti a favore e un astenuto, indicando
un certo grado di consenso sulla definizione generale del diritto di sciopero. Tuttavia, i commi
successivi, che riguardavano la disciplina degli scioperi nei servizi pubblici essenziali, hanno
incontrato una maggiore opposizione. Questi commi sono stati approvati con sette voti a favore, sei
contrari e un astenuto, il che rifletteva una divisione significativa tra le forze politiche sulla
questione dei limiti degli scioperi nei servizi pubblici essenziali.
In questo modo, la proposta di compromesso di Tupini ha contribuito a sbloccare il dibattito e ha
portato all'approvazione di una definizione generale del diritto di sciopero, ma ha anche evidenziato
le divergenze politiche sulla regolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici essenziali.
Nella seduta del 14 gennaio 1947, la Commissione per la Costituzione si trovò di fronte a due
opzioni molto diverse riguardo al diritto di sciopero, proposte provenienti dalle due
sottocommissioni. La situazione di stallo fu risolta quando il democristiano Merlin propose una
formula presa integralmente dalla Costituzione francese: "Il diritto di sciopero si esercita
nell'ambito delle leggi che lo regolano."
Questa proposta significava che il diritto di sciopero veniva riconosciuto, ma andava esercitato
secondo quanto stabilito dalle leggi che ne regolamentavano l'esercizio. L'obiettivo di questa
formulazione era porre un freno agli articoli del codice Rocco che qualificavano lo sciopero come
un reato, e al tempo stesso limitare alcune funzioni fondamentali per evitare che lo Stato fosse
messo in pericolo.
Anche se le forze politiche di sinistra erano contrarie alle limitazioni previste per lo sciopero,
Giuseppe Di Vittorio, sostenne l'emendamento dell'onorevole Merlin. Questo gesto da parte di Di
Vittorio aveva lo scopo di garantire l'unità tra le grandi correnti sindacali all'interno della CGIL.
Nonostante avesse appoggiato la proposta di Merlin, Di Vittorio non stava rinunciando alla sua
visione di un sindacato capace di autolimitarsi nella gestione degli scioperi, ma stava rinunciando a
vedere questa visione sancita direttamente dall'articolo 40 della Costituzione.
In questa parte del saggio, Pinelli cerca di stabilire un confronto tra le intenzioni dei Costituenti
italiani e l'evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale in relazione al diritto di
sciopero. L'obiettivo è valutare se e in che modo l'enunciato costituzionale abbia dimostrato una
capacità interpretativa sufficiente per fungere da modello per una serie di situazioni e concetti che
sono stati collegati all'istituto dello sciopero.
La novità del diritto di sciopero, rispetto alla libertà di sciopero, risiede nell'effetto meramente
sospensivo che l'inadempienza all'obbligo di lavorare produce sul rapporto di lavoro. Tuttavia,
questo diritto non si esaurisce con la semplice sospensione del lavoro, ma comprende una serie di
comportamenti tutelati dalla legge che costituiscono i vari elementi in cui si sviluppa l'azione dello
sciopero. Pertanto, il rispetto di questa complessità è stata la prima condizione per la costruzione
dello sciopero come istituto, il quale è stato variamente intrecciato con la sua collocazione nel
quadro dei principi costituzionali.
Durante il processo di smantellamento del Codice Rocco (il Codice penale che durante il periodo
fascista considerava lo sciopero come un reato perseguibile penalmente), la modifica fu piuttosto
selettiva. Vennero mantenute in vigore tutte le norme così generiche da poter comprendere
situazioni di abbandono del lavoro che danneggiassero la sua regolarità e continuità, come ad
esempio lo sciopero di solidarietà (come stabilito nella sentenza 123 del 1962). Inoltre, le
modifiche dell’art 503 c.p., (sciopero politico) non hanno corretto adeguatamente l'area di
operatività del precetto penale e non hanno definito in modo chiaro l'obiettivo sovversivo dello
sciopero rispetto alla compromissione dei valori dell'ordinamento costituzionale, politico (come
indicato nella sentenza 290 del 1974).
Un altro aspetto del percorso giurisprudenziale della Corte in cui il confronto con le intenzioni
originali dei Costituenti è abbastanza agevole riguarda la preparazione del terreno per l'adozione
della legge n. 146 del 1990, che disciplina lo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Già nella sentenza n. 123 del 1969, la Corte costituzionale riconosceva la "pienezza dell'esercizio
del diritto di sciopero" nell'ambito dei pubblici uffici e dei servizi, fintanto che tale esercizio non
danneggiasse le funzioni o i servizi pubblici essenziali che avessero caratteristiche di preminente
interesse generale ai sensi della Costituzione. La Corte lasciava quindi ai giudici il compito di
individuare l'interesse in questione. Inoltre, in questa sentenza, la Corte aggiungeva che "la
soddisfazione di tali finalità non richiede necessariamente e sempre l'esclusione dell'esercizio del
diritto di sciopero per tutti i preposti a compiti di protezione, potendo risultare sufficiente consentire
l'esercizio in una misura tale da assicurare almeno un minimo di prestazioni essenziali. Ma è chiaro
che la disciplina non potrebbe che essere consentita con apposita legge, a cui comporterebbe
fissarne i casi di ammissibilità, condizioni e modi necessari per assicurare l'efficienza e la continuità
dei servizi stessi."
Questo passaggio della sentenza del 1969 ha preparato il terreno per l'adozione della legge n. 146
del 1990, che ha dettagliatamente disciplinato lo sciopero nei servizi pubblici essenziali,
stabilendo le circostanze in cui tale sciopero può essere ammesso, le condizioni e le modalità
necessarie per garantire l'efficienza e la continuità dei servizi.
La sentenza n. 222/1976 segnò un punto di svolta nell'individuazione dei limiti alle prestazioni
minime per cui si richiedeva l'intervento del legislatore. Questa pronuncia è strettamente legata a un
ospedale psichiatrico e alla questione del divieto di sciopero in tale contesto.
La Corte costituzionale affermò che "quando ragioni di necessità impongono di ridurre,
eventualmente anche al minimo, l'appagamento di esigenze della collettività o di una più ristretta
comunità sociale, è sempre possibile individuare tra i servizi quelli che debbono conservare
necessaria efficienza - e che sono poi quelli essenziali - e quelli suscettibili di essere ridotti". Nel
caso specifico, la Corte prevedeva che dovesse essere assicurato un certo rapporto tra infermieri e
posti letto, il che doveva essere garantito da una legge.
Questa sentenza segnò una deviazione rispetto alle pronunce precedenti nel senso
dell'individuazione delle prestazioni ritenute essenziali, pur sempre basandosi su una legge. La
Corte riconobbe la possibilità di determinare quali servizi dovessero mantenere un livello di
efficienza essenziale, consentendo una certa riduzione in altri casi, a seconda delle necessità della
collettività o di comunità sociali più ristrette.
Durante il periodo in cui la Corte costituzionale assumeva un ruolo sempre più attivo e lo Statuto
dei Lavoratori era in vigore, i sindacati confederali lanciarono l'idea di codici di
autoregolamentazione, considerandosi eredi della classe generale così come individuata da Di
Vittorio. Tuttavia, questa iniziativa fu alla fine abbandonata in favore di una disciplina legislativa
più stringente. Questo cambiamento fu guidato da una presa di coscienza della realtà sindacale
dell'epoca, caratterizzata dalla proliferazione di sigle sindacali e comitati di rappresentatività
incerta, nonché dalla frammentazione del sindacato. Inoltre, si aprì una nuova partita istituzionale,
poiché i sindacati cercarono di ottenere legittimità tramite una differenziazione del sindacalismo
autonomo.
I sindacati si trovarono a partecipare a processi di apprendimento insieme a giudici, partiti politici e
il parlamento. Questo era necessario per affrontare un problema costituzionale che i Costituenti
originari non avrebbero potuto prevedere: il riconoscimento di diritti fondamentali in capo a
soggetti utenti dei servizi pubblici essenziali, una questione che non era stata presa in
considerazione quando venne redatta la Costituzione. Durante il dibattito in seno alla Costituente,
l'attenzione era principalmente concentrata sull'inammissibilità dello sciopero all'interno della
magistratura e delle forze dell'ordine, e questa discussione generò reazioni da parte delle sinistre che
criticavano l'élite liberale prefascista per la sua diffidenza nei confronti delle masse popolari.
Nel successivo quarantennio, le istituzioni democratiche si sono consolidate notevolmente,
contribuendo a dissolvere in radice i sentimenti di diffidenza e divisione che caratterizzavano il
periodo precedente.

4. Saggio: “Dal protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 alla rilettura dell’art. 39 cost.”
Il protocollo d'intesa siglato il 31 maggio 2013 da Confindustria, CGIL, CISL e UIL è stato letto
in una sequenza che va dall'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, al quale si propone di
dare applicazione, fino alla sentenza n. 231 del 13 luglio 2013 della Corte costituzionale che ha
dichiarato l'illegittimità dell'art.19 dello statuto dei lavoratori nella parte in cui non prevede che le
RSA possono essere costituite anche nell'ambito di associazioni sindacali che seppur non firmatarie
abbiano partecipato alla negoziazione.
Leggerli in sequenza è utile nella misura in cui accordo e protocollo d'intesa affrontano la questione
dell'individuazione della rappresentanza sindacale in vista del riconoscimento di un'efficacia dei
contratti collettivi per tutti i lavoratori del settore, elementi su cui incide la pronuncia della Corte
costituzionale. Gli esiti di tale sequenza sono, secondo Pinelli, incerti ed egli crede che seppure vi
fosse una soluzione accettata dalle parti sociali e adottata con legge questa non coinciderebbe con
l'attuazione (in senso stretto) della seconda parte dell'art. 39 Cost.
Il protocollo d'intesa del 31 maggio 2013 si propone di dare applicazione all'accordo del 28
giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula di Contratti Collettivi
Nazionali di Lavoro. Tuttavia, va notato che vi è una certa asimmetria di contenuti tra i due accordi,
con Pinelli che sottolinea come essi siano "incentrati su equilibri diversi". Nell'accordo del 2011,
solo i primi due degli otto punti trattano della contrattazione collettiva nazionale, mentre gli altri
riguardano quella aziendale. Nel protocollo del 2013, invece, si dedica principalmente al primo
livello di contrattazione, ovvero la contrattazione di primo livello a livello nazionale.
Il protocollo si suddivide in due sezioni principali:
1. Misurazione della Rappresentatività: Questa sezione stabilisce il criterio della
ponderazione tra il dato associativo e il dato elettivo nelle RSU e prevede che il 5% del
totale dei lavoratori della categoria rappresenti la soglia per la rappresentatività sindacale. Il
dato associativo si riferisce al numero di lavoratori iscritti al sindacato o quanti sono
tesserati, mentre il dato elettivo fa riferimento al numero di rappresentanti sindacali eletti
nelle RSU.
2. Titolarità ed Efficacia della Contrattazione: Questa sezione stabilisce che il contratto
collettivo nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e
normativi comuni a tutti i lavoratori del settore impiegati nel territorio nazionale.
L'accordo del 28 giugno 2011, invece, si propone di stabilire:
1. Le Linee Portanti di un Nuovo Rapporto tra Contrattazione Collettiva Nazionale e
Aziendale: L'obiettivo è trovare un punto d'incontro tra la stabilità delle condizioni di lavoro
nazionali e la flessibilità richiesta dalle diverse esigenze produttive.
2. Finalizzazione della Contrattazione a una Politica di Sviluppo Adeguata alle Diverse
Necessità Produttive: L'accordo del 2011 mira anche a orientare la contrattazione collettiva
verso una politica di sviluppo che possa adattarsi alle diverse esigenze produttive. Questo
implica la necessità di conciliare le esigenze della produzione con il rispetto dei diritti e
delle necessità delle persone.
All'interno di questo accordo, viene dato poco spazio al criterio della rappresentatività sindacale.
Viene fissata solamente la soglia del 5% come requisito per la legittimazione a negoziare. La
maggior parte del contenuto dell'accordo è dedicata alla contrattazione aziendale, evidenziando così
l'importanza di dare alle imprese una maggiore autonomia nella definizione delle condizioni di
lavoro all'interno dei propri contesti aziendali.
Nella prima sezione del protocollo del 2013, anziché applicare quanto previsto dall'accordo del
2011, vengono introdotte ex novo regole che riguardano la rappresentatività sindacale:
 Punto 3: I contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle Organizzazioni Sindacali che
rappresentano almeno il 50% + 1 della rappresentanza, previa consultazione certificata delle
lavoratrici e dei lavoratori a maggioranza semplice, saranno efficaci ed esigibili. La
sottoscrizione dell'accordo sarà vincolante per entrambe le parti coinvolte.
 Punto 4: Il rispetto delle procedure comporta l'applicazione degli accordi all'insieme dei
lavoratori e delle lavoratrici e la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti
firmatarie del protocollo. Le parti coinvolte si impegnano a dare piena applicazione agli accordi
così definiti e a non promuovere azioni di contrasto agli stessi.
Questi punti del protocollo del 2013 rappresentano un cambiamento significativo rispetto
all'accordo del 2011, in quanto stabiliscono nuove regole per la rappresentatività sindacale e
l'efficacia dei contratti collettivi nazionali. Le regole si basano sulla percentuale di rappresentanza
delle organizzazioni sindacali e introducono un processo di consultazione certificata delle
lavoratrici e dei lavoratori prima della sottoscrizione degli accordi. Ciò mira a garantire una
maggiore legittimità e applicabilità agli accordi collettivi.
Secondo Pinelli, parlare di "applicazione degli accordi all'insieme dei lavoratori e delle lavoratrici"
nel protocollo del 2013 è considerato più generico e meno impegnativo rispetto a quanto previsto
dall'accordo del 2011. Quest'ultimo sottolineava la funzione di garantire la certezza dei trattamenti
economici e normativi per tutti i lavoratori del settore su tutto il territorio nazionale. In altre parole,
l'accordo del 2011 aveva un obiettivo più ambizioso in termini di uniformità delle condizioni di
lavoro.
Tuttavia, secondo Pinelli, le parti firmatarie del protocollo del 2013 sembrano aver riconosciuto che
l'aspirazione a conferire efficacia erga omnes ai contratti collettivi nazionali superava le proprie
disponibilità. Nonostante ciò, l'aspirazione a una maggiore uniformità delle condizioni di lavoro
continua a essere presente, in particolare nel punto 3 del protocollo, che è considerato l'elemento più
incisivo e innovativo dell'intero documento. Questo punto stabilisce che i contratti collettivi
nazionali saranno efficaci ed esigibili, il che rappresenta un passo significativo verso la
standardizzazione delle condizioni di lavoro su scala nazionale.
Quest'aspirazione a una maggiore uniformità delle condizioni di lavoro va considerata alla luce
della sentenza n. 231 della Corte costituzionale, che sembra confermare la sequenza di eventi
indicata all'inizio del processo di negoziazione. La sentenza ha contribuito a delineare il percorso
verso una maggiore efficacia dei contratti collettivi nazionali e ha influenzato la direzione presa dal
protocollo del 2013.
La Corte costituzionale, nella sua decisione del 2013, ha rilevato che, una volta venuta meno la
funzione di selezionare i soggetti in base alla loro rappresentatività sindacale, la disposizione
impugnata si è prestata a una "eterogenesi dei fini". Questo significa che il criterio della
sottoscrizione dei contratti collettivi entra in collisione con gli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione
italiana.
La decisione della Corte del 2013 è stata interpretata come una "falsa sentenza additiva" (o
sentenza additiva manipolativa), poiché non ha aggiunto come sufficiente l'ipotesi esplicitamente
prevista della sottoscrizione, ma ha ritenuto necessaria e sufficiente la sola partecipazione delle
organizzazioni sindacali alle trattative.
Inoltre, sebbene la Corte abbia eliminato il requisito della sottoscrizione dei contratti collettivi
dell'art. 19 per costituire le RSA, sostituendolo con la partecipazione alle trattative, ciò non elimina
la necessità di verificare l'esistenza di un "contratto collettivo applicato nell'unità produttiva" ai fini
dell'applicazione dello stesso articolo.
Dal punto di vista sostanziale, la decisione di un sindacato di non firmare un contratto collettivo che
ha negoziato è considerata diversa dall'insufficienza rappresentativa che emerge dall'incapacità di
un sindacato a partecipare alle trattative.
La sentenza della Corte costituzionale del 2013 è strettamente collegata al protocollo del 2013 in
diversi modi chiave:
1. La Corte ha sottolineato che il raggiungimento del 5% di rappresentatività sindacale è un
prerequisito fondamentale sia per partecipare alla contrattazione collettiva nazionale, come
stabilito nel protocollo, che per la costituzione delle RSA. Questo ha reso uniformi i criteri per
entrambe le situazioni.
2. La sentenza della Corte non è stata emessa come un monito, ma come un'indicazione per il
legislatore. La Corte ha fornito diverse alternative possibili per affrontare la questione della
rappresentatività sindacale e dell'articolo 39 della Costituzione, lasciando al legislatore la
decisione su quale percorso intraprendere.
3. Diverse Versioni di Rappresentatività: La Corte è consapevole delle diverse definizioni di
rappresentatività sindacale nel corso degli anni. Dal concetto di rappresentatività presunta nel
1970 a quella effettiva nel 1975 e alla rappresentatività certificata e misurata nel 2013. La Corte
ha riconosciuto la necessità di adeguare il quadro legislativo alla nuova versione di
rappresentatività introdotta nel 2013.
Il richiamo all'articolo 39 della Costituzione, che riguarda la libertà sindacale e la rappresentanza
sindacale, è strettamente collegato alle alternative proposte nell'accordo del 2011 e nel protocollo
del 2013. In particolare, entrambi gli accordi cercano di affrontare la questione della
rappresentatività sindacale introducendo nuovi criteri. Ciò include l'obbligo di trattare con le
organizzazioni sindacali che superano una soglia di sbarramento e l'attribuzione del requisito
previsto dall'articolo 19 a un rinvio generale al sistema contrattuale nel suo complesso, anziché a
singoli contratti collettivi applicati nelle unità produttive.
Nonostante il richiamo all'articolo 39 della Costituzione, entrambi gli accordi non hanno impedito
di affrontare la questione della violazione del quarto comma di tale articolo. Questo comma afferma
che i sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono stipulare contratti collettivi di lavoro
con efficacia obbligatoria per tutti i membri delle categorie cui il contratto si riferisce. Tuttavia, se
la stipulazione di un contratto collettivo diventa l'unica premessa per ottenere i diritti sindacali e
viene subordinata all'assenso dell'impresa, si verifica una violazione dell'articolo 39, comma primo
e quarto. Questo perché tale pratica implica una sanzione per il dissenso sindacale, limitando così la
libera scelta del sindacato e delle forme di tutela considerate più adeguate per i propri
rappresentanti.
Pinelli evidenzia l'accusa di una presenza ingombrante dei commi successivi al primo dell'articolo
39 della Costituzione italiana. Questa presenza è attribuita a due fattori principali:
1. Peso dell'Evolvere dalla Contrattazione Corporativa a Quella Collettiva: Inizialmente,
l'Italia aveva un sistema di contrattazione corporativa, ma nel corso del tempo si è evoluta verso
una contrattazione collettiva. Questo cambiamento ha portato all'espansione degli articoli
successivi all'articolo 39 per regolare la contrattazione collettiva, le relazioni industriali e le
forme di tutela dei lavoratori.
2. Riposizionamento dell'Azione Sindacale nelle "Categorie": La presenza di articoli successivi
all'articolo 39 è anche dovuta al riposizionamento dell'azione sindacale all'interno delle
"categorie" di lavoratori. Ciò significa che le disposizioni successive cercano di definire le
competenze, le prerogative e le responsabilità delle organizzazioni sindacali all'interno di
specifiche categorie di lavoratori.
Durante la stagione della rappresentatività presunta, c'era la convinzione che ci fosse un divario
incolmabile tra la legittimazione delle organizzazioni sindacali risolta nel primo comma dell'articolo
39 e la presenza dei successivi commi. Questi commi presidiavano le questioni relative agli
obblighi delle organizzazioni sindacali e richiedevano una riserva di legge per l'attivazione di tali
obblighi.
L'articolo 39 della Costituzione italiana è stato oggetto di un importante tentativo di rilettura che
si basa sulla capacità dei principi costituzionali di adattarsi alle sfide del tempo grazie alla loro
struttura aperta. Questa rilettura invita a considerare l'elasticità della norma costituzionale e la
possibilità di sviluppare due progetti di legislazione sindacale distinti:
1. Primo Progetto: Una parte dell'articolo 39 può essere utilizzata per creare una legge
sindacale dettagliata che implica un intervento diretto nelle attività delle associazioni
sindacali. Questo progetto prevede l'attribuzione di un potere normativo esercitato attraverso
contratti collettivi ma garantito dallo Stato.
2. Secondo Progetto: Un'altra parte dell'articolo 39 garantisce la libertà delle organizzazioni
sindacali senza richiedere che la legge rimanga completamente passiva. In altre parole, la
legge può intervenire per rendere effettiva la libertà sindacale e sostenere l'esercizio
dell'autonomia collettiva.
Il quarto comma dell'articolo 39 non si oppone a interventi legislativi che conferiscono ai contratti
collettivi un'efficacia superiore a quella che avrebbero autonomamente. Tuttavia, si oppone agli
interventi legislativi che concedono a sindacati diversi da quelli registrati un monopolio legale nella
rappresentanza contrattuale di categoria con efficacia erga omnes.
Questo tentativo di rilettura dell'articolo 39 cerca di trovare un equilibrio tra il riconoscimento della
libertà sindacale e la necessità di regolamentare le relazioni industriali attraverso la legislazione
sindacale.

5. Saggio: “ I limiti legislativi dell’autonomia collettiva: un indirizzo solo apparentemente


consolidato. Oss. a sent. n. 219 del 2014”
Nel saggio in questione, l'attenzione è focalizzata sulle ragioni che hanno portato al rigetto della
questione di legittimità, in riferimento alla violazione dell'articolo 39 della Costituzione, di una
disciplina che stabilisce un limite agli incrementi economici stabiliti da contratti collettivi che
riguardano i rapporti di lavoro pubblico privatizzato. La Corte costituzionale ribadisce che
l'autonomia collettiva può essere limitata o addirittura annullata nei suoi risultati concreti non solo
quando introduce trattamenti economici svantaggiosi rispetto a quanto previsto dalla legge, ma
anche quando è necessario proteggere interessi generali di rilevanza superiore.
Inoltre, la Corte sottolinea che il fatto che il trattamento economico sia oggetto di contrattazione
collettiva non esclude il fatto che questa deve svolgersi entro i limiti di compatibilità con le finanze
pubbliche stabiliti in modo legittimo dal legislatore.
L'autore del saggio, Pinelli, si interroga su come sia emerso e consolidato questo indirizzo di
limitazione dell'autonomia collettiva, un indirizzo che la sentenza in esame considera così stabile da
non richiedere ulteriori specifiche per il caso in questione. La risposta a questa domanda può essere
trovata in diverse sentenze della Corte costituzionale:
 Sentenza n.34 del 1985: Questa sentenza ha stabilito i limiti alla concertazione tra il
governo e i sindacati nel contesto del nostro sistema di governo. In questa decisione, è stato
richiamato il principio della supremazia della legge al fine di tutelare interessi generali, che
sono affidati agli organi politici. La sentenza ha anche limitato il campo di applicazione
della contrattazione collettiva, stabilendo che tali limitazioni non possono essere derogate.
 Sentenza n.124 del 1991: In questa sentenza, la Corte ha affermato che all'interno dei
parametri stabiliti dalla legge, le parti sociali devono godere di libertà nel determinare la
misura dell'indicizzazione e altri elementi retributivi. Le limitazioni legali alla
contrattazione collettiva sono giustificabili solo in situazioni eccezionali e temporanee,
senza la necessità di specificare la durata precisa delle restrizioni.
 Sentenza n.143 del 1998: Rispetto alla sentenza del 1991, questa decisione ha mantenuto la
compressione dell'autonomia collettiva per la salvaguardia di interessi generali superiori, ma
non più necessariamente legati a situazioni di emergenza o temporanee.
 Sentenza n. 393 del 2000: In questa sentenza, la Corte ha introdotto il concetto di una
"salvaguardia indifferenziata" dell'autonomia collettiva. Questo significa che l'autonomia
collettiva può essere compressa o addirittura annullata quando l'esigenza superiore e
generale da tutelare è legata all'attuazione di principi costituzionali, senza la necessità che il
legislatore stabilisca limiti massimi specifici.
 Sentenza n.40 del 2007: Questa sentenza ha ripreso i principi affermati nella sentenza del
2000 ma per la prima volta si è riferita al lavoro pubblico privatizzato, estendendo quindi
l'ambito di applicazione dei principi stabiliti precedentemente.
La ricerca di Pinelli ha avuto l'obiettivo di dimostrare che l'indirizzo giurisdizionale riguardante i
limiti dell'autonomia collettiva non è stato affatto univoco. In diverse sentenze prese in esame, il
concetto di "salvaguardia di superiori interessi generali" è stato interpretato in modi diversi. In
alcuni casi, questa affermazione è diventata una clausola generale di stile, che può essere utilizzata
in modo indiscriminato per comprimere l'autonomia collettiva. In altri casi, invece, si è cercato di
circoscrivere il limite solo all'accertamento di un'effettiva situazione di emergenza.
Inoltre, è importante notare che in queste sentenze si fa riferimento al lavoro pubblico
privatizzato. Questo perché anche nel contesto del lavoro pubblico, la contrattazione collettiva
deve tener conto dei limiti di compatibilità con le finanze pubbliche. In altre parole, l'autonomia
collettiva non può operare in modo totalmente indipendente quando si tratta di questioni finanziarie
legate al settore pubblico.

6. Saggio: “Conferimenti di funzioni a regioni ed enti locali e riforma del mercato del lavoro”

Le innovazioni nella disciplina e nell’organizzazione pubblica del mercato del lavoro


La legge n. 59 del 1997 ha previsto il conferimento di funzioni e compiti in materia di mercato del
lavoro alle regioni ed enti locali. Questo trasferimento mirava a porre fine alla separazione tra
funzioni di collocamento, riservate allo Stato, e funzioni di formazione professionale e
orientamento, riservate alle regioni. Tuttavia, questa separazione era stata considerata irrazionale,
anche dalla Corte costituzionale, che aveva cercato di mitigarla tramite le proprie sentenze.
Nonostante il tentativo di cambiamento, sorge l'incertezza riguardo alle conseguenze di questa
legislazione. È fondamentale capire se si riprodurrà la stessa frammentazione dell'intervento
pubblico, ma questa volta a livello locale anziché nazionale. L'unica certezza è la riduzione degli
uffici statali periferici, che sono stati trasferiti alle regioni ed enti locali.
Inoltre, questa legge ha portato a una revisione delle aspettative nei confronti dei pubblici poteri. Si
chiede ora ai pubblici poteri di svolgere un ruolo di regolamentazione del mercato del lavoro che
assicuri la trasparenza e la tutela dei soggetti contrattualmente deboli. La vicenda dei conferimenti
alle regioni si è intrecciata con altri sviluppi, come l'accordo per il lavoro del 1996, incluso nella
legge n. 196 del 1997, che ha riconosciuto e disciplinato forme di mediazione privata. Inoltre, va
menzionata la sentenza della Corte di giustizia della CE che ha condannato la Repubblica per il
monopolio dello stato nei servizi di collocamento dei lavoratori.
I principi regolativi dei conferimenti posti dalla l.n. 59 del 1997
La legge n. 59 del 1997 stabilisce i principi fondamentali che devono guidare il conferimento di
funzioni alle regioni e agli enti locali nelle materie di cui all'articolo 117 della Costituzione.
Questi principi sono essenziali per garantire un adeguato funzionamento del sistema di
conferimento: principio di sussidiarietà, completezza, cooperazione, responsabilità, omogeneità,
adeguatezza, differenziazione, di copertura finanziaria e patrimoniale, di autonomia organizzativa.
Riguardo le funzioni assegnate alle regioni, queste sono diverse da quelle attribuite agli enti locali.
Il principio di sussidiarietà non implica automaticamente che tutte le funzioni diverse dalla
programmazione e quelle costituzionalmente riservate allo Stato debbano essere trasferite ai comuni
ed enti locali, ma piuttosto esprime una direttiva che può essere derogata in modo ampio. Il
principio di sussidiarietà è strettamente connesso al criterio di scorrimento delle funzioni e dei
compiti, basato sulla capacità dell'ente di gestirli in modo omogeneo, adeguato e differenziato.
La legge sembra richiedere una ricognizione analitica delle singole funzioni e compiti prima di
determinare come bilanciare i principi per ciascuna materia. Tuttavia, Pinelli nota che questo
potrebbe comportare la suddivisione delle materie in settori organici, simile a quanto avvenuto con
la prima regionalizzazione, anziché raggiungere gli obiettivi desiderati.
I principi dell'articolo 4 richiedono un reciproco contemperamento, che può rappresentare una sfida
nell'assicurarne il rispetto durante il processo legislativo delegato.
Questi aspetti evidenziano la complessità delle considerazioni legate all'applicazione dei principi
regolativi per il conferimento di funzioni alle regioni ed enti locali e la necessità di ponderare
attentamente le diverse variabili coinvolte.
L’attuazione dei principi operata con il d.lgs. n. 469 del 1997
Il decreto legislativo n. 469 del 1997, relativo all'attuazione dei principi stabiliti dalla legge n. 59
del 1997, si suddivide in quattro parti. I primi tre capitoli sono strettamente connessi e disciplinano
il trasferimento di funzioni e compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro alle
regioni ed enti locali, l'organizzazione dei servizi regionali per l'impiego e il trasferimento delle
risorse correlate alle regioni.
Il nucleo centrale dell'iniziativa regionale in queste materie è la pianificazione e il coordinamento, e
a tal fine è prevista la creazione di una commissione regionale tripartita che agisce come luogo di
progettazione, proposta e valutazione delle politiche regionali. Inoltre, è istituita una struttura
regionale con personalità giuridica, incaricata di fornire assistenza tecnica e monitorare le politiche,
al fine di garantire il coordinamento tra queste ultime e le politiche formative.
Per quanto riguarda la gestione e l'erogazione dei servizi, questa responsabilità è affidata alle
province, che operano attraverso i centri per l'impiego. Questi centri sono costituiti su base
provinciale, con un'utenza di almeno 100.000 abitanti. La decisione di organizzare i servizi su base
provinciale è preceduta dalla dichiarazione dei principi di omogeneità, adeguatezza e
differenziazione.
Tuttavia, si nota un certo scostamento rispetto ai principi di adeguatezza, omogeneità e
differenziazione quando si osserva il processo di sostituzione degli uffici statali decentralizzati con
le nuove strutture e commissioni regionali e provinciali. In particolare, le Agenzie regionali per
l'impiego non vengono soppressi, ma si svuotano attraverso il trasferimento del personale con
contratti di diritto privato. Vengono inoltre affiancate da strutture regionali di monitoraggio. La
Commissione regionale per l’impiego, precedentemente esistente, viene rimpiazzata da una
commissione permanente tripartita a livello regionale, che si occupa di progettazione,
valutazione e verifica delle linee programmatiche e delle politiche del lavoro di competenza
regionale. Ogni regione ha un organismo istituzionale finalizzato all'integrazione tra i servizi per
l'impiego, le politiche attive del lavoro e le politiche formative.
Infine, a livello provinciale, subentra una commissione di concertazione e consultazione delle parti
sociali, presieduta dal presidente della provincia.
Secondo Pinelli, c'è un'attenzione eccessiva all'uniformità organizzativa che ha prevalso sui principi
di differenziazione e adeguatezza. Questo potrebbe comportare la presenza di molte organizzazioni
con funzioni e compiti omogenei allo stesso livello di governo, riducendo l'efficacia dell'attuazione
dei principi della legge n. 59 del 1997.
La sentenza dell’11 dicembre 1997 della Corte di giustizia della CE, sez. VI
La sentenza dell'11 dicembre 1997 della Corte di giustizia della CE, Sezione VI, fornisce una
conferma indiretta delle preoccupazioni espresse da Pinelli. La Corte ha condannato la Repubblica
per la violazione degli articoli 86 e 90 del Trattato CE in relazione al divieto di qualsiasi attività di
mediazione e interposizione tra domanda e offerta di lavoro svolta da entità diverse dagli uffici
pubblici di collocamento.
La Corte ha stabilito che, nell'ambito del diritto della concorrenza, la nozione di "impresa"
comprende qualsiasi entità che svolga un'attività economica, indipendentemente dal suo status
giuridico o dalle modalità di finanziamento. In particolare, ha dichiarato che l'attività di
collocamento della manodopera costituisce un'attività economica.
La Corte ha respinto l'argomento secondo il quale il divieto di abuso di posizione dominante,
come previsto dall'articolo 86 del Trattato, annullerebbe il ruolo degli uffici di collocamento, a
meno che non fossero manifestamente in grado di soddisfare l'intera domanda di lavoro nel settore.
Ha sottolineato che in un mercato estremamente vasto e diversificato, soggetto a significativi
cambiamenti, gli uffici pubblici di collocamento potrebbero non essere in grado di soddisfare una
parte significativa della domanda di servizi.
Con la fine del monopolio degli uffici di collocamento pubblici, l'efficienza dei servizi pubblici
sarà valutabile direttamente sul campo, in una situazione di competizione con le agenzie private.
Questo conferma le preoccupazioni espresse in merito alla nuova organizzazione della presenza
pubblica sul mercato del lavoro.
Le implicazioni sostanziali di questa sentenza meritano una valutazione particolare, soprattutto per
quanto riguarda la regolamentazione dell'attività di mediazione privata disciplinata dal decreto in
questione.
La disciplina dell’attività di mediazione privata secondo il Capo IV del d.lgs. n.469 del 1997 e
secondo la l. n. 196 del 1997
Il Capo IV del d.lgs. n. 469 del 1997 disciplina l'attività di mediazione privata.
L'articolo 10 del decreto legislativo stabilisce che il procedimento di autorizzazione per l'esercizio
dell'attività di mediazione privata è centralizzato presso il Ministero del Lavoro. L'autorizzazione
può essere richiesta da imprese e società cooperative il cui unico scopo sociale è l'attività di
mediazione, e che dispongono di uffici e operatori idonei, basati su un'esperienza di almeno due
anni.
L'articolo 11 del decreto legislativo definisce il sistema informativo lavoro, che rappresenta uno
strumento per l'esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo. Il Ministero del Lavoro
è responsabile delle attività di progettazione, sviluppo e gestione di questo sistema. Gli enti pubblici
e le imprese autorizzate alla mediazione sono tenuti a collegarsi e scambiare dati tramite il sistema
informativo lavoro. Inoltre, queste imprese hanno il diritto di accedere alle banche dati e di
utilizzare i servizi di rete offerti dal sistema informativo lavoro, previo accordo con il Ministero.
L'assegnazione dello stato della facoltà di autorizzazione, come stabilito dall'articolo 10, può essere
giustificata dall'esigenza di mantenere una distinzione tra le istituzioni responsabili
dell'autorizzazione per la mediazione privata e quelle che competono con operatori privati nella
stessa attività. Tuttavia, ciò non implica che il ruolo del Ministero debba essere estremamente
invasivo.
Dopo la decisione della Corte di giustizia, Pietro Ichino ha sottolineato che la principale
distinzione sul mercato del lavoro non dovrebbe essere tra enti pubblici e privati o tra operatori
grandi e piccoli, ma piuttosto tra coloro che operano in modo trasparente e visibile e coloro che
agiscono nell'illegalità o nell'opacità. Ichino aveva auspicato che il Ministero si limitasse a
monitorare il funzionamento della rete informatica e telematica nazionale, gestita da un consorzio
privato, anziché avere un ruolo attivo nella gestione.
Tuttavia, le funzioni di gestione del servizio informazione lavoro e l'ampio spazio lasciato alle
autorizzazioni ministeriali dimostrano che i suggerimenti di Ichino sono rimasti inascoltati.
La legge n. 196 del 1997 attribuisce al Ministero del Lavoro un ruolo di notevole importanza,
includendo compiti quali la certificazione, l'autorizzazione, la vigilanza, il controllo, l'erogazione di
finanziamenti, la promozione di accordi con le parti sociali e la sostituzione delle stesse in caso di
mancata stipulazione degli accordi.
Tuttavia, questo ruolo di forte presenza statale è stato successivamente messo in discussione dai
conferimenti di competenze alle regioni e agli enti locali. In virtù di tali trasferimenti, il Ministero
del Lavoro ha perso ogni potere di programmazione, indirizzo e gestione del mercato del lavoro.
Inoltre, la legge n. 196 del 1997, legittimando la presenza di intermediari privati sul mercato del
lavoro, ha anticipato le scelte successive contenute nel decreto legislativo n. 469 del 1997,
specialmente per quanto riguarda la previsione di contratti di fornitura di prestazioni di lavoro
temporaneo.
Conclusioni
La legge di delegazione ha stabilito principi che richiedevano un equilibrio e una coesistenza, non
sovrapposizioni. Questo aspetto diventa ancora più rilevante quando il monopolio sul collocamento
viene abolito. Il servizio pubblico si trova ora a competere con agenzie private, con ovvie
implicazioni in termini di organizzazione. La presenza pubblica nel mercato del lavoro e le
responsabilità di regolamentazione richiedevano un assetto istituzionale flessibile, capace di gestire
e coordinare le informazioni in modo efficace, e stabile nelle proprie strutture interne.
Il mercato del lavoro è un terreno di gioco condiviso sia dalle agenzie private che dalle istituzioni
pubbliche, entrambe operanti nel settore della mediazione. Le risorse organizzative messe a
disposizione dalle autorità pubbliche devono essere confrontate con quelle del settore privato, e
l'obiettivo principale è garantire la soddisfazione della domanda di prestazioni lavorative.
Tuttavia, i conferimenti di competenze alle regioni e agli enti locali hanno riprodotto a livello
regionale e locale gli stessi problemi che la legge di delegazione aveva cercato di risolvere: una
combinazione irrazionale tra unità amministrative e frammentazione di funzioni e compiti.
Inoltre, per quanto riguarda la disciplina della mediazione privata, sembra emergere una visione di
un pubblico potere ancora rigido nella gestione e incerto nella regolamentazione.

7. Saggio: “ Il ruolo dei sindacati nell’amministrazione centrale dello stato”


I sindacati e la legge quadro sul pubblico impiego
Pinelli scrive a distanza di due anni dall'adozione della legge quadro sul pubblico impiego ed
afferma che si è molto lontani dal fornire un quadro completo delle implicazioni comportate dalla
nuova normativa. La legge n. 93 del 1983 è stata fortemente voluta dai sindacati, che vi hanno visto
il coronamento di una lunga battaglia avviata nel 1968 con la legge n. 132 e proseguita negli anni
successivi in direzione di una crescente contrattualizzazione del pubblico impiego. Le più
importanti normative sull'impiego pubblico, come il testo unico del 1923 e del 1957, altro non erano
che una codificazione dei principi elaborati in precedenza dal Consiglio di Stato.
Contrattazione collettiva e rappresentanza nel pubblico impiego
Quindi, cosa accade con quella legge del 1983? Si verifica il passaggio da una concezione
esclusivamente autoritativa del pubblico impiego a una in cui convivono momenti autoritativi e
momenti di negoziazione.
Il sindacato, secondo Pinelli, può essere definito come un attore strutturalmente frammentato in due
modi:
1. Orizzontalmente, perché nonostante le innumerevoli affermazioni degli anni '70, le
confederazioni sindacali non monopolizzavano la rappresentanza dei pubblici dipendenti.
2. Verticalmente, perché esiste e continua ad esistere una conflittualità tra le Confederazioni
sindacali di categoria.
Il legislatore ha riconosciuto questa problematica con l'adozione della legge nel 1983 e ha cercato di
fornire una soluzione:
A) Introduzione del maggior favore per i sindacati confederali:
 L'art. 5 stabilisce che "la determinazione del numero dei comparti e la composizione degli
stessi sono effettuate con atto governativo sulla base degli accordi tra il governo e le
confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale."
 L'art. 6 prevede che "per le trattative concernenti i dipendenti delle amministrazioni dello
Stato, la delegazione sindacale è composta dai rappresentanti delle organizzazioni nazionali
di categoria maggiormente rappresentative per ogni singolo comparto e dalle confederazioni
maggiormente rappresentative su base nazionale."
 L'art. 12 stabilisce che la delegazione delle organizzazioni sindacali che partecipa alle
trattative concernenti accordi intercompartimentali è prevista e raggiunge tre rappresentanti
per ogni Confederazione maggiormente rappresentativa su base nazionale.
Tali formulazioni impegnative cercano di concentrare le trattative sui sindacati confederali.
Tuttavia, ciò ha sollevato seri dubbi sulla legittimità costituzionale di un meccanismo che limita
fino a questo punto l'autonomia sindacale nell'individuazione delle parti abilitate a trattare.
La giurisprudenza della Corte costituzionale non è stata del tutto univoca su questo punto, e ciò può
essere spiegato dal collegamento tra l'art. 39 della Costituzione, il primo comma e i successivi
commi che restano inattuati.
La sentenza n. 15 del 1975 ha chiarito che l'articolo 39 della Costituzione, con il riaffermare sul
piano sindacale il principio generale di libertà associativa contenuto nell'art. 18 della Costituzione,
comporta:
 La garanzia per i lavoratori di associarsi liberamente senza speciali autorizzazioni.
 La garanzia per i sindacati di autogovernarsi e autodeterminarsi liberamente attraverso un
ordinamento interno basato sulla democrazia per il conseguimento dei loro obiettivi.
 La liceità della pluralità sindacale, che significa la libertà di esistenza di più organizzazioni
sindacali all'interno di una stessa categoria e settore economico, indipendentemente dal
metodo di organizzazione o di raggruppamento seguito.
Questi principi costituzionali sottolineano l'importanza della libertà sindacale e dell'autonomia
sindacale nell'organizzazione e nella rappresentanza dei lavoratori.
In una sentenza più recente, la Corte costituzionale ha affermato che fino a quando il legislatore
non disciplina l'individuazione dei sindacati legittimati alla contrattazione collettiva, non può essere
affidata al libero gioco delle forze sociali. Questo sottolinea l'importanza di una normativa chiara e
precisa in materia di rappresentanza sindacale nel settore pubblico.
Inoltre, la giurisprudenza costituzionale ha dimostrato una certa riluttanza nell'affermare
l'unificazione tra il regime giuridico dell'impiego pubblico e quello dell'impiego privato. Infatti, la
Corte costituzionale ha costantemente cercato di evidenziare le differenze tra questi due settori,
nonostante l'effetto omogeneizzante della normativa ordinaria, con l'obiettivo di mantenere il
pubblico impiego nell'ambito di applicazione dell'articolo 97 della Costituzione.
È importante notare che il principio del "maggior favore" accordato alle confederazioni sindacali
maggiormente rappresentative trova una giustificazione specifica nella legge n. 93 del 1983. Il
legislatore ha attribuito un ruolo predominante a queste confederazioni poiché le considera più
responsabili e capaci di organizzare e partecipare a trattative che promuovano i principi di
omogeneizzazione delle posizioni giuridiche, perequazione e trasparenza dei trattamenti economici,
nonché efficienza amministrativa. Questa visione riflette la funzionalizzazione del principio del
"maggior favore" verso le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, al fine di
raggiungere gli obiettivi delineati nell'articolo 97 della Costituzione
L'articolo 97 della Costituzione, secondo Pinelli, potrebbe sollevare la questione se il legislatore
abbia il diritto di devolvere ad atti subordinati la disciplina di determinati aspetti dell'organizzazione
degli uffici, presumendo che i principi costituzionali, in particolare il principio del buon andamento,
possano essere più efficacemente rispettati attraverso il consenso degli interessati, subordinando
così l'adozione di tali atti alla legge.
In caso di dissenso delle organizzazioni sindacali non favorite dal legislatore, Pinelli esamina
diverse possibilità:
1. Le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative possono decidere, in sede di
trattativa, di accogliere le richieste delle organizzazioni dissidenti, come avviene già in
alcune situazioni.
2. Le organizzazioni sindacali dissidenti hanno la facoltà di dichiarare che non parteciperanno
alle trattative e devono trasmettere le loro osservazioni al Presidente del Consiglio dei
ministri e ai ministri coinvolti. Il Consiglio dei ministri è tenuto ad esaminare queste
osservazioni prima di sottoscrivere l'ipotesi di accordo (come previsto dall'articolo 6 della
legge).
3. Le organizzazioni dissidenti hanno la possibilità di impugnare davanti al giudice
amministrativo l'atto governativo che recepisce le norme risultanti dalla disciplina prevista
dall'accordo.
Questo implica che, nonostante la legge delinei chiaramente i canali istituzionali per risolvere i
conflitti intersindacali, si presume che le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative
abbiano la capacità di aggregare un ampio consenso attorno a sé, al fine di evitare l'ingovernabilità
dei meccanismi tipicamente consensuali
B) Nel contesto dei rapporti tra le Confederazioni sindacali e le organizzazioni categoriali, è
importante notare il trattamento particolare riservato alle Confederazioni. Queste Confederazioni
non solo sono coinvolte nella stipulazione degli accordi relativi ai comparti e agli accordi
intercompartimentali, ma devono anche partecipare alla stipulazione degli accordi che riguardano le
materie elencate nell'articolo 3 della legge. Inoltre, devono farlo insieme ai rappresentanti delle
organizzazioni nazionali di categoria maggiormente rappresentative per un singolo comparto.
Questo coinvolgimento delle Confederazioni ha una funzione di assistenza e controllo politico
rispetto alle organizzazioni di categoria.
L'ulteriore favore riservato alle Confederazioni nazionali risponde alle esigenze di rispetto dei
principi indicati nell'articolo 4 della legge. Tuttavia, questo solleva interrogativi sulla capacità delle
strutture centrali delle Confederazioni di gestire le spinte settoriali o particolaristiche. In questo
contesto, la legge rappresenta una vera sfida.
Il sindacato, fra lobbying e bargaining
Nello studio condotto durante il periodo che ha preceduto l'approvazione della legge quadro sul
pubblico impiego, il ruolo del sindacato dei pubblici dipendenti veniva suddiviso in due momenti
distinti:
1. Organizzazione degli uffici: In questo contesto, il sindacato agisce principalmente come un
gruppo di pressione. Poiché qualsiasi modifica strutturale all'organizzazione amministrativa
deve essere effettuata tramite leggi o atti aventi forza di legge, il sindacato ha limitate
opportunità di influire direttamente su tali questioni.
2. Condizioni di lavoro: In questo caso, il sindacato gode di una piena legittimazione come
parte contrattuale. Durante questo periodo, la contrattazione collettiva nel pubblico impiego
ha assunto caratteristiche miste, che includono sia il bargaining sindacale, ovvero
negoziazioni dirette tra il sindacato e i datori di lavoro, sia il lobbying, che coinvolge
interventi ministeriali e parlamentari. Le trattative, le manovre, gli scioperi e le agitazioni
rappresentano un insieme di azioni condotte da vari attori, a seconda della forza contrattuale
di ciascun sindacato e dei gruppi di interesse coinvolti.
Quanto al nuovo assetto disegnato in proposito dalla legge quadro occorre distinguere i problemi
immediatamente giuridici da quelli concernenti l'organizzazione. Se è certo che il vecchio schema
dello Stato giuridico è stato scomposto non sono altrettanto certe le nuove linee lungo le quali è
avvenuta la nuova composizione: questo vale in particolare per la distinzione degli ambiti di
disciplina riservati alla legge da quelli affidati alla contrattazione. Mentre agli atti autoritativi
unilaterali sono demandati gli ambiti oggettivi afferenti la organizzazione della funzione
pubblica, la organizzazione degli uffici in senso stretto viene spartita tra atti unilaterali e
contrattazione: i primi dovendo regolare gli organi, gli uffici, i modi di conferimento della titolarità
dei medesimi, i principi fondamentali di organizzazione degli uffici, la seconda i criteri per
l'organizzazione del lavoro nell'ambito della disciplina fissata ai sensi dell'articolo due e i criteri per
la disciplina dei carichi di lavoro e le altre misure volte ad assicurare l'efficienza degli uffici.
Secondo Pinelli per quanto possa essere difficile distinguere tra organizzazione del lavoro ed
organizzazione degli uffici occorre convenire con chi esprime perplessità circa l'opportunità di
condizionare necessariamente l'adozione di qualsiasi provvedimento riguardante l'organizzazione
del lavoro e l'efficienza degli uffici, alla preventiva stipulazione di un accordo con i sindacati.
Le problematiche e le disposizioni esaminate sembrano presentare questioni di legittimità
costituzionale. Il legislatore ha cercato di bilanciare la sua rinuncia parziale alla sovranità in materia
richiedendo che gli accordi rispettino i principi costituzionali. Tuttavia, emergono alcune questioni:
1. Fin quando il legislatore affida a leggi successive il compito di disciplinare solo i principi
fondamentali di organizzazione degli uffici, non ci sono problemi particolari, poiché la riserva
di legge (art. 97 della Costituzione) è di natura relativa.
2. La disciplina dell'organizzazione del lavoro è affidata alla contrattazione collettiva. Tuttavia,
Questa situazione evidenzia un importante aspetto: sembra che il legislatore consideri l'ambito
dell'organizzazione degli uffici come comprensivo di soli principi fondamentali, mentre per
l'organizzazione del lavoro non sembra esserci una distinzione chiara di principi fondamentali
separati. Pertanto, sembra che l'organizzazione del lavoro debba adottare i principi fissati per
l'organizzazione degli uffici.
Un altro punto da notare è che i criteri per disciplinare l'organizzazione del lavoro, inclusi quelli
relativi ai carichi di lavoro e all'efficienza degli uffici, sono affidati alla contrattazione collettiva.
Questo suggerisce che il legislatore ritiene che l'efficienza degli uffici e il buon funzionamento
siano più adeguatamente disciplinati tramite la contrattazione collettiva rispetto alla legge.
Tuttavia, questa interpretazione solleva interrogativi sulla costituzionalità della legge, poiché
sembra trasferire una parte significativa del potere decisionale dalla sfera legislativa alla
contrattazione, senza una chiara definizione dei principi fondamentali relativi all'organizzazione
degli uffici e all'organizzazione del lavoro. Ciò potrebbe generare preoccupazioni riguardo alla
separazione dei poteri e all'equilibrio tra legge e contrattazione nel contesto del pubblico impiego.
La Corte costituzionale, secondo Pinelli, potrebbe censurare la legge in questione se mantenesse il
proprio orientamento giurisprudenziale. Alcune sentenze precedenti indicano una certa tendenza
della Corte a considerare l'ordinamento giuridico che disciplina il lavoro nel pubblico impiego come
un sistema volto a liberare il rapporto di lavoro dalla sovrapposizione del rapporto organico di
ufficio. Queste sentenze distinguono nettamente tra i due tipi di relazioni, enfatizzando le
somiglianze tra il lavoro nelle pubbliche amministrazioni e il lavoro nelle aziende private nonché il
principio costituzionale del buon andamento sottolineato dall'articolo 97 della Costituzione.
Nella sentenza n. 161 del 1982, la Corte costituzionale annullò l'articolo 7, comma 3, della legge
n. 386 del 1974, che assegnava agli accordi nazionali l'autorità di produrre effetti, inclusi quelli di
annullare clausole di contratti individuali, accordi a livello locale, provinciale o regionale. Questi
accordi potevano escludere miglioramenti retributivi per i dipendenti. In questo modo, il livello
delle retribuzioni, che aveva un impatto significativo sul buon andamento della pubblica
amministrazione, veniva svincolato dal rispetto della riserva di legge.
Riguardo le implicazioni organizzative e sindacali legate alla legge del 1983 sul pubblico impiego,
si sottolinea che la soluzione dei problemi relativi alla revisione dei vecchi modelli organizzativi è
stata rinviata. Inoltre, i sindacati confederali, sebbene sensibili ai problemi di revisione
organizzativa, sembrano avere difficoltà ad affrontare quelli legati all'organizzazione delle
pubbliche amministrazioni.
Viene criticata l'idea che il successo del sindacato debba essere misurato dalla quantità di spazi che
riesce a conquistare all'interno delle amministrazioni pubbliche. Si sostiene che la Cittadella delle
amministrazioni è composta da una pluralità di centri in conflitto, e ci sono limiti formali e
sostanziali imposti dall'organizzazione costituzionale all'azione sindacale nelle pubbliche
amministrazioni.

8. Saggio: “Profili costituzionali della riforma del rapporto di pubblico impiego”


*il saggio è stato scritto prima della “privatizzazione” del settore pubblico, che trae fondamento dal d.lgs. n.29 del
1993; ad oggi il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione viene disciplinato dal d.lgs. n.165 del 2000.

Il saggio esplora le analogie e le differenze tra il lavoro pubblico e privato, concentrandosi sulla
giurisprudenza della Corte costituzionale. L'autore, Pinelli, mira a esaminare le rappresentazioni del
rapporto di impiego pubblico e la loro coerenza con la costituzione.
A partire dalla sentenza n. 88 del 1963, emergono profonde differenze tra il lavoro pubblico e
privato sottolineate dalla Corte. Mentre il lavoro privato è principalmente regolato da leggi di
natura economica, alle quali le parti contraenti si adeguano, si riconosce la necessità di
regolamentare il pubblico impiego in modo diverso. Questa differenziazione riguarda criteri di
assunzione dei dipendenti, norme sulle promozioni, trasferimenti, collocamento a riposo e il
trattamento in caso di quiescenza.
Inizialmente, la Corte sottolinea la necessità di questa netta differenziazione. Tuttavia, in seguito, la
Corte comincia a considerare la legislazione volta a garantire la stabilità dell'impiego nel settore
privato e la possibilità di attività sindacale nell'ambito dell'amministrazione statale. Questo si
traduce in un sistema che promuove il coinvolgimento dei sindacati nelle discussioni sul trattamento
economico dei dipendenti pubblici.
Con la sentenza n. 49 del 1976, si osserva come le differenze tra il pubblico impiego e l'impiego
privato siano state notevolmente ridotte. Questa sentenza segna un punto importante nella
percezione delle differenze tra i due settori lavorativi.
Successivamente, con la sentenza n. 878 del 1988, la Corte costituzionale nota un cambiamento
sostanziale nella struttura e nella funzione della pubblica amministrazione. Questa trasformazione
ha portato a un'articolazione più complessa della pubblica amministrazione in vari centri, ciascuno
con funzioni e regimi diversi. Di conseguenza, le differenze tra il rapporto di impiego pubblico e il
rapporto di lavoro privato diventano sempre meno significative. La Corte, in questa sentenza,
annulla l'articolo 2 del D.P.R. 5 gennaio 1950 n. 180 nella parte in cui non prevede la
pignorabilità e la sequestrabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti dallo stato. Questa
azione elimina l'ultimo elemento che differenziava il pubblico impiego da quello privato in termini
di retribuzione.
Il processo di osmosi tra il pubblico impiego e l'impiego privato non è stato considerato
irreversibile, e vi sono state sentenze che hanno sottolineato la necessità di rispettare la riserva di
legge dell'art. 97 della Costituzione. Inoltre, sono state avanzate enunciazioni volte a giustificare
costituzionalmente le possibilità e i limiti di questo processo di osmosi.
Particolare attenzione è dedicata alla sentenza n. 68 del 1980, che l'autore del saggio, Pinelli,
considera la più lungimirante. Questa sentenza esclude l'estensione dell'art. 28 dello statuto dei
diritti dei lavoratori (sulla condotta antisindacale) ai sindacati del pubblico impiego. Questa
decisione è basata sull'osservazione della profonda differenza strutturale tra lo Stato, datore di
lavoro nel settore pubblico, e l'imprenditore privato. Lo Stato non partecipa in alcun modo a
situazioni conflittuali di natura economica, direttamente o indirettamente qualificate, e quindi non è
possibile sostenere che l'interesse delle imprese, dal punto di vista storico, sia equivalente
all'interesse dell'amministrazione come datore di lavoro nei rapporti di pubblico impiego.
Nella stessa sentenza n. 68 del 1980, si sottolinea che è stato un merito liberare il rapporto di
lavoro di impiego pubblico dalla prevaricante sovrapposizione del rapporto organico di ufficio.
Questa separazione netta tra i due tipi di relazione è stata enfatizzata per quanto riguarda la loro
regolamentazione, evidenziando le notevoli somiglianze con il lavoro privato. Tuttavia, sorge un
problema delicato una volta che queste distinzioni sono state apportate.
La questione principale riguarda fino a che punto e in quali ambiti soggettivi produca diversità
l'inclusione del lavoro in un'amministrazione regolata dal principio costituzionale del "buon
andamento". Questo principio non si riferisce solamente all'organizzazione interna dei pubblici
uffici ma si estende anche alla regolamentazione del pubblico impiego. In altre parole, è innegabile
che la disciplina del lavoro sia uno strumento che contribuisce alle finalità assegnate agli uffici
all'interno dei quali si struttura l'amministrazione pubblica. Questa prospettiva segue l'orientamento
della Corte costituzionale, che richiama la concezione del rapporto di pubblico impiego proposta da
Massimo Saverio Giannini un decennio prima.
La proposta di unificare il rapporto di lavoro pubblico e quello privato è motivata dalla deludente
esperienza attuativa della legge quadro n. 93 del 1983, che è stata problematica sotto tre aspetti
principali:
1. La legge quadro presentava ambiguità nelle formulazioni che determinavano la ripartizione
di attribuzioni di potestà normativa tra legge e contrattazione. Ciò ha generato critiche sia in
termini di opportunità, poiché avrebbe complicato qualsiasi processo di riforma
dell'organizzazione amministrativa, sia in termini di violazione della riserva di legge.
2. L'ambiguità della legge era intrinseca e non poteva essere risolta attraverso i rapporti di
forza tra le parti o le interpretazioni dei giudici. La giurisprudenza amministrativa tendeva a
restaurare la forza imperativa dei decreti di recezione degli accordi, il che aggiungeva
ulteriore complessità al quadro normativo.
3. La legislazione successiva alla legge quadro spesso contraddiceva o limitava le sue
disposizioni. Ad esempio, alcuni settori come i dipendenti della Consob o dell'Ente
Nazionale Ferrovie dello Stato venivano esclusi dal regime stabilito dalla legge quadro per
essere disciplinati in modo più privatistico. Questa micro-legislazione in deroga alla
contrattazione collettiva non si è affatto arrestata, nemmeno in materia di trattamento
economico, dove c'era il rischio che spinte particolaristiche ottenessero successo.
La questione diventava ancor più complicata perché negli anni '80 si sviluppava la tendenza a
migliorare l'efficienza e la produttività nella pubblica amministrazione attraverso fondi di
incentivazione, indennità di funzione o altre forme simili. Questo ha reso difficile determinare se in
ogni caso prevalesse davvero la spinta verso l'efficienza o se il richiamo all'efficienza fosse solo un
modo elegante e moderno per introdurre nuovi privilegi.
Secondo Pinelli, è importante notare che nemmeno una legge che stabilisce l'uniformazione del
rapporto di lavoro pubblico e privato potrebbe evitare il fenomeno della rilegificazione. In altre
parole, non sarebbe sufficiente una semplice unificazione per risolvere tutte le questioni legate alla
disciplina del lavoro pubblico.
Pinelli sottolinea l'importanza di considerare attentamente la tipologia del rapporto di pubblico
impiego. Alcuni hanno sostenuto che tale tipologia dovrebbe essere presa in considerazione durante
una riforma della disciplina e hanno proposto un'estensione dell'unificazione a tutto il pubblico
impiego. Tuttavia, c'è chi ha contestato questa idea, suggerendo che non tutti i dipendenti titolari di
potestà pubblica dovrebbero essere inclusi nella contrattazione collettiva.
La chiave per comprendere questa questione risiede nella nozione che, anche se questi dipendenti
sono lavoratori, ciò non significa automaticamente che il loro rapporto di lavoro debba essere
regolato dalla contrattazione collettiva. Tale equazione tra legge e atto unilaterale o autoritativo non
è sostenibile dal punto di vista costituzionale. Secondo l'articolo 97 della Costituzione, le scelte
politiche in questo ambito sono riservate al Parlamento, e insistere sul carattere unilaterale dell'atto
significherebbe adottare una prospettiva diversa rispetto all'ordinamento giuridico generale.
Considerare il semplice interesse organizzativo dell'amministrazione come equivalente all'interesse
collettivo dei dipendenti significherebbe trascurare la funzionalizzazione dell'amministrazione alla
tutela degli interessi pubblici. Inoltre, la disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali
deve tener conto di un'eccezione per i servizi pubblici comprensivi di servizi privati in cui sono
coinvolti interessi della collettività e valori costituzionali che non possono essere negoziati
liberamente tra le parti in conflitto.
Nella nostra legislazione, la tendenza verso una convergenza tra lo stato giuridico del lavoratore
privato e quello del lavoratore pubblico sembrerebbe preannunciare, piuttosto che una fusione, delle
fratture all'interno del modello uniforme dell'impiego pubblico autoritativo. La giurisprudenza
sembra confermare che questo fenomeno non è caratterizzato da un'attrazione irresistibile tra i due
mondi, ma piuttosto da un loro avanzare in orbite coordinate e convergenti. Nel contesto di queste
trasformazioni, il nocciolo del rapporto di pubblico impiego, cioè il rapporto di impiego
ministeriale, ha sempre meno rilevanza formale rispetto ad altri tipi di rapporti di impiego pubblico.
Pinelli sottolinea l'importanza della nozione di "responsabile dirigenziale" introdotta dall'articolo
19 del Decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R.) n. 748 del 1972 da parte del Consiglio
di Stato. Questa figura rappresenta un cambiamento significativo nella percezione del lavoro
pubblico. Nella responsabilità dirigenziale, ciò che assume rilevanza non è tanto il fatto che il
dirigente è stato più o meno osservante del proprio dovere, ma piuttosto quanto i risultati
complessivi dell'azione dell'ufficio corrispondano alle ragionevoli attese, sia dal punto di vista
quantitativo che qualitativo. In altre parole, il focus si sposta dai processi e dalla fedeltà formale
all'efficacia e all'efficienza nell'operato dell'ufficio pubblico.
La sentenza della Corte costituzionale, n. 331 del 1988, è significativa perché affronta questioni
relative all'accesso agli impieghi pubblici e fornisce indicazioni sulla convergenza tra il lavoro
pubblico e quello privato. In questo caso, la Corte ha dovuto giudicare una legge regionale che era
stata denunciata per violazione dell'articolo 97 della Costituzione, in quanto conferiva poteri
discrezionali alla giunta in merito alla nomina dei dirigenti.
La Corte ha escluso la presenza di discrezionalità e, in modo significativo, ha sottolineato che,
anche se la legge avesse dato rilevanza all'aspetto fiduciario nella nomina dei dirigenti, ciò non
avrebbe violato il principio di buon andamento. Anzi, il massimo rispetto per questo principio
potrebbe giustificare l'introduzione, da parte del legislatore regionale, di un sistema di selezione dei
massimi dirigenti dell'amministrazione che si basa su criteri oggettivi e riconosciuti di competenze
ed esperienze professionali, forse modellato sul carattere fiduciario dell'incarico nei confronti della
giunta o dei singoli assessori regionali.
La riflessione di Pinelli mette in luce come all'interno dell'amministrazione pubblica stiano
emergendo zone d'ombra rispetto al principio di legalità e come stia crescendo l'esigenza di una
significativa delegificazione. Questa tendenza è guidata dalla complessità dell'organizzazione
amministrativa e dalla qualità e quantità dei servizi da fornire, i quali spesso richiedono un grado
considerevole di discrezionalità da parte dei funzionari di livello più elevato e una maggiore
capacità manageriale.
In altre parole, le sfide attuali dell'amministrazione pubblica sono talmente complesse che la
semplice applicazione rigida delle normative e dei principi legali potrebbe non essere sufficiente per
affrontarle in modo efficace. Di conseguenza, si riconosce sempre più la necessità di concedere un
margine di discrezionalità ai funzionari di alto livello e di sviluppare nuove forme organizzative che
non possono essere completamente contenute nei tradizionali dogmi della responsabilità politica.
Questo approccio riflette il riconoscimento che, in alcuni settori dell'amministrazione pubblica, è
necessario concedere una certa autonomia decisionale ai funzionari per affrontare le sfide specifiche
e fornire servizi efficienti e di alta qualità. Ciò potrebbe comportare una maggiore flessibilità
nell'interpretazione e nell'applicazione delle leggi e dei regolamenti, pur mantenendo una rigorosa
attenzione ai principi di legalità e di trasparenza.
Il disegno di legge (d.d.l) governativo presentato alla fine del 1988 dedicato al riordino della
dirigenza statale e delle altre pubbliche amministrazioni territoriali e istituzionali riflette
ulteriormente le linee di tendenza che emergono nell'esperienza amministrativa italiana.
Nel d.d.l, si prevede che l'incarico di dirigente possa essere attribuito con un rapporto di natura
privatistica e possa essere assegnato a persone estranee all'amministrazione, a condizione che
abbiano le competenze e le professionalità necessarie per svolgere le funzioni richieste. Questo
incarico avrebbe una durata non superiore a 5 anni, rinnovabile, o potrebbe essere legato alla durata
della progettazione, esecuzione e verifica di specifici programmi. Questo evidenzia l'obiettivo di
rendere più flessibile l'accesso alla dirigenza pubblica e di attirare talenti esterni con competenze
specializzate.
Le finalità dichiarate complessivamente perseguite dal progetto includono:
1. Separare le competenze degli organi politici da quelle della dirigenza amministrativa,
garantendo che entrambi contribuiscano all'identificazione e alla formazione degli obiettivi
politici e alla loro attuazione.
2. Stabilire un circuito di responsabilità dei dirigenti nei confronti del ministro, ancorato ai
risultati o all'andamento della gestione. Ciò significa che i dirigenti sarebbero chiamati a
rispondere direttamente per i risultati ottenuti e l'efficienza dell'amministrazione.
Inoltre, il progetto attribuisce ai dirigenti generali una serie di compiti importanti, tra cui la
predisposizione di programmi articolati per progetti, l'organizzazione delle risorse umane e
finanziarie, e l'esercizio di tutti i poteri di spesa. Questi aspetti riflettono la volontà di rafforzare il
ruolo e la responsabilità della dirigenza pubblica nell'attuazione degli obiettivi politici e
nell'efficiente gestione delle risorse.
Secondo Pinelli, i richiami precedentemente discussi dimostrano come l'estensione dei principi del
lavoro privato ai dirigenti sia incompatibile non tanto con il progetto governativo quanto con
l'obiettivo di rendere più flessibile l'organizzazione e di responsabilizzare la dirigenza. Questa
incompatibilità diventa evidente soprattutto per coloro che già svolgono funzioni ad alta carica di
politicità all'interno dell'amministrazione pubblica.
Il progetto di estendere i principi del lavoro privato evoca un dilemma tra garantismo inefficiente e
efficienza arbitraria. Una volta riconosciuto che esistono valide ragioni per riformare la disciplina
del lavoro pubblico e che la distinzione tra le funzioni svolte dai dipendenti è il criterio
fondamentale che giustifica discipline diverse, rimane da definire cosa si intenda per "titolarità di
potestà pubblica."
Il problema è ampio e complesso, in quanto ci sono dirigenti che non esercitano una potestà
pubblica e l'ambito di applicazione della titolarità è molto più esteso rispetto alla dirigenza. Pinelli
richiama l'articolo 97 della Costituzione italiana, il quale stabilisce che la definizione dei rapporti
di lavoro nella pubblica amministrazione deve essere fissata per legge, anche se non ignora la
difficoltà di delineare con precisione questi concetti.
Secondo Pinelli, per sostenere una riforma così sostanziale come l'unificazione del regime di
pubblico impiego con quello privatistico, il sindacato non dovrebbe basare la sua argomentazione
unicamente sulla cattiva performance della legge quadro, ma dovrebbe presentare ragioni di
carattere più generale. La legge quadro potrebbe non aver prodotto risultati brillanti, ma il punto
centrale è che, quando si propone una riforma destinata a cambiare radicalmente il sistema di
pubblico impiego, sarebbe opportuno avere una visione consapevole e sistemica della situazione. Le
motivazioni che sostengono tale proposta sono cruciali, specialmente quando si afferma che essa è
una risposta alla deludente attuazione della legge quadro.
Pinelli conclude sostenendo che, dal suo punto di vista, l'unificazione del regime di pubblico
impiego con quello privatistico non contribuirebbe in modo determinante all'efficienza della
pubblica amministrazione. La riforma dovrebbe essere valutata in base a obiettivi chiari e alla sua
capacità di migliorare l'efficienza e l'efficacia dell'amministrazione pubblica. In altre parole, il
cambiamento dovrebbe essere giustificato da benefici concreti e misurabili, e non dovrebbe essere
visto come una soluzione automatica ai problemi esistenti.
9. Saggio: “La tutela della Corte contro il ricorso ad automatismi legislativi nella
determinazione dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo. Oss. a Corte cost. 194 del
2018”
*Sentenza n.194 del 2018: sentenza che sovverte il metodo di calcolo dell’indennità per licenziamento illegittimo.
Viene dichiarata l’illegittimità dell’art.3 del D.lgs. 4 marzo 2015 n.23 nella parte in cui determina tale indennità in un
importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio.

La decisione richiede particolare attenzione poiché introduce principi relativi all'uso di


automatismi legislativi. Nel cuore della motivazione, si individuano due aspetti chiave: la
dichiarazione di costituzionale illegittimità dell'articolo 3, comma 1, del Decreto Legislativo
23/2015, che vincolava l'indennità per licenziamento illegittimo esclusivamente all'anzianità di
servizio. Questa decisione si basa sui principi di uguaglianza e ragionevolezza.
La Corte costituzionale ripercorre la propria giurisprudenza sul diritto al lavoro, concentrandosi in
particolare sul principio delle giustificazioni necessarie per il recesso e sul diritto corrispondente
alla stabilità del posto di lavoro. Questi meccanismi mirano a correggere un disequilibrio pratico
che si verifica nei contratti di lavoro e a rafforzare il riconoscimento del diritto al lavoro come
fondamentale. In questo contesto, si afferma che il legislatore deve istituire specifiche protezioni
per garantire tale diritto.
La violazione del principio di uguaglianza emerge dalla quantificazione dell'indennità di
licenziamento, legata esclusivamente all'anzianità di servizio. Questo approccio rende l'indennità
rigida e uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, nonostante la prassi passata dimostri
che l'anzianità è solo uno dei fattori che influenzano il danno subito dal lavoratore a causa di un
licenziamento ingiustificato.
In realtà, dovrebbero essere considerate molteplici dimensioni, come le dimensioni dell'attività
economica, il numero di dipendenti occupati, il comportamento delle parti coinvolte e le condizioni
specifiche di ciascun caso. Questi fattori dovrebbero offrire al giudice la possibilità di una
valutazione discrezionale prudenziale al fine di risolvere le controversie.
La discrezionalità del giudice mira a personalizzare il risarcimento per il lavoratore, il che è in linea
con il principio di uguaglianza. La previsione di un risarcimento uniforme, indipendentemente dalle
circostanze e dalle peculiarità di ciascun licenziamento, comporta una standardizzazione indebita di
situazioni che possono essere profondamente diverse.
La discussione che aveva preceduto la riforma, spesso accompagnata da una forte esposizione
mediatica, aveva posto l'accento sulla questione della reintegrazione, che era diventata una
questione divisiva tra fazioni politiche e sociali opposte. Tuttavia, una volta superata questa fase di
dibattito, l'attenzione si era spostata sulla certezza dell'ammontare dell'indennità da versare.
Nel contesto di queste censure basate sulla violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza,
la decisione della Corte si espone in modo più sfumato in termini di bilanciamento. La
quantificazione dell'indennità non solo è considerata certa, ma anche rigida in quanto non è
suscettibile di essere adattata in base a criteri diversi dall'anzianità di servizio. Di conseguenza, non
si riesce a realizzare un adeguato equilibrio tra gli interessi coinvolti: da un lato, la libertà di
organizzazione delle imprese e, dall'altro, la tutela dei lavoratori licenziati ingiustamente.
Nella sua decisione, la Corte costituzionale si è focalizzata sulla violazione del nucleo fondamentale
del principio di uguaglianza. Le affermazioni di principio che hanno sostenuto questa violazione
sono state poi confermate nel contesto dell'analisi della ragionevolezza, in particolare riguardo
all'adeguatezza del risarcimento forfettizzato per bilanciare adeguatamente gli interessi in conflitto.
La Corte ha ribadito l'eccessiva dipendenza dell'aumento dell'indennità esclusivamente
dall'anzianità di servizio, ritenendo tale approccio irragionevole per due motivi principali. In primo
luogo, non riesce a compiere in modo soddisfacente la sua funzione primaria di ripartire il danno
subito dal lavoratore ingiustamente licenziato. In secondo luogo, manca di un'efficace funzione
dissuasiva nei confronti del datore di lavoro, che potrebbe essere spinto a licenziare senza una
valida giustificazione, mettendo così a rischio l'equilibrio degli obblighi contrattuali.
Da questa situazione emerge una violazione degli articoli 4 e 35 della Costituzione, che
attribuiscono un particolare valore al lavoro al fine di realizzare un pieno sviluppo della personalità
umana. Questa protezione del lavoro non riguarda solo le garanzie per l'esercizio di altri diritti
fondamentali nei luoghi di lavoro, ma serve anche a prevenire il timore del licenziamento, che
potrebbe spingere i lavoratori a rinunciare a parte dei propri diritti. La Corte ha richiamato
precedenti giurisprudenziali per confermare l'intenzione di stabilire un orientamento consolidato
volto a riequilibrare le posizioni delle parti all'interno del rapporto di lavoro.
Sebbene la Corte non utilizzi il termine "automatismi", la sua decisione si inserisce in un ampio
filone giurisprudenziale che affronta casi in cui la legge in questione crea una standardizzazione
indebita di situazioni che sono, nella realtà concreta, diverse tra loro. Non tutte le regole basate su
meccanismi rigidi presentano tale irragionevolezza. Quest'ultima sorge quando questi meccanismi
vengono applicati in settori che richiedono flessibilità, proporzionalità e la capacità di adattarsi a
una varietà di situazioni nella vita reale.
Il ricorso esclusivo all'anzianità di servizio come unico criterio per determinare l'indennità in caso
di licenziamento illegittimo potrebbe superare l'irragionevolezza solo se, al termine di un
bilanciamento, emergesse un controinteresse che prevalesse. Tuttavia, la Corte esclude che ciò
accada nel caso specifico che sta esaminando.
La soluzione decisoria solitamente prescelta dalla Corte per affrontare automatismi irragionevoli è
la sentenza additiva, tanto che si è suggerita l'introduzione di un apposito sottotipo, quello delle
"sentenze additive per deficit di flessibilità". Tuttavia, nel caso specifico in esame, la Corte ha
scelto un diverso approccio: ha accolto parzialmente la questione, dichiarando illegittime solo le
parole "d'importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio" nell'articolo 3.
L’accoglimento, pertanto, è riferito al solo ricorso al criterio di anzianità di servizio, mentre altre
disposizioni, in particolare quella che prevede che "il giudice condanna il datore di lavoro al
pagamento di un'indennità non soggetta a contribuzione previdenziale in misura comunque non
inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità," sono state mantenute.
Il vincolo giuridico imposto al giudice consiste esclusivamente nella quantificazione delle
indennità fra quattro e ventiquattro mensilità, senza la necessità di considerare alcun criterio
specifico, come l'anzianità di servizio o altri parametri. Tuttavia, è importante notare che, in pratica,
il giudice terrà conto principalmente dell'anzianità di servizio e di altri criteri precedentemente
menzionati, che possono essere dedotti in modo sistematico dall'evoluzione delle norme che
limitano i licenziamenti.
La frase "terrà conto" indica che il giudice considererà queste variabili, anche se formalmente la
sentenza può sembrare un accoglimento parziale che elimina solo una parte della disposizione sotto
esame. Tuttavia, dal punto di vista sostanziale, questa sentenza rientra tra le "sentenze additive",
solitamente adottate quando la soluzione normativa adeguata è implicita nell'ordinamento.
Nonostante sia plausibile che la maggior parte dei giudici si attenga a quanto indicato nella
motivazione, è possibile che, se anche un solo giudice dovesse ignorare i criteri menzionati nella
motivazione sostenendo che essi non sono presenti nel dispositivo, questo comporterebbe
conseguenze giuridiche. La scelta di emettere una sentenza di accoglimento parziale potrebbe essere
stata dettata dalla considerazione dell'impatto che il ricorso a una sentenza additiva avrebbe avuto
sulla discrezionalità legislativa.
Nella motivazione, si affronta una diversa questione riguardante l'entrata in vigore del Decreto
Legislativo n. 87 del 2018, che ha modificato i limiti minimi e massimi dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), aumentandoli da 4 a 6 mensilità
per il limite minimo e da 24 a 36 mensilità per il limite massimo. La Corte esclude che questa
modifica del diritto abbia influenzato il meccanismo oggetto di contestazione, pertanto i termini
essenziali del problema sollevato dal giudice rimettente rimangono invariati.
Questo è sufficiente per evitare la necessità di restituire gli atti al giudice rimettente, affinché valuti
se sussistano ancora dubbi sulla legittimità costituzionale espressi nell'ordinanza di remissione. La
dimostrazione che la modifica del diritto successiva è priva di portata innovativa, oltre a escludere
la restituzione degli atti al giudice rimettente, implica anche la trasposizione della questione di
legittimità da un testo all'altro, nonostante l'assenza di spiegazioni dettagliate nella motivazione al
riguardo.
Tuttavia, è importante notare che la giurisprudenza consolidata ammette tale trasferimento solo
quando la modifica della disposizione impugnata non alteri la sua portata percettiva, ma lo esclude
nel caso opposto. Anche se la modifica in questione sembra rientrare nella prima categoria, ciò non
toglie che l'operazione di trasferimento richiedesse almeno una breve giustificazione, poiché essa
rappresenta una scelta che, a differenza della restituzione degli atti al giudice rimettente, va oltre
l'instaurazione del giudizio incidentale.

10. Saggio: “Democrazia e rappresentanza sociale nell’era post-ideologica”


Il dibattito sulla democrazia e la rappresentanza sociale nell'era post-ideologica richiede una
comprensione approfondita del significato del termine "post-ideologico". Esistono diverse
interpretazioni di questa espressione:

 Cambiamento di ideologie dominanti: Alcuni intendono che nell'epoca attuale, le ideologie


che hanno dominato il Novecento non siano più in grado di interpretare adeguatamente la realtà
storico-sociale. Questa prospettiva suggerisce che altre ideologie abbiano preso il posto di
quelle considerate superate. In questo contesto, si ritiene che nuove ideologie possano emergere
e rivendicare una posizione predominante.
 Fine delle ideologie: Altri intendono affermare che, nella nostra epoca, le ideologie come
concetti strutturati e distinti non abbiano più senso. In questo caso, si esclude completamente
l'ipotesi che nuove ideologie possano emergere per sostituire quelle del passato.
Entrambe le prospettive, nonostante le loro differenze, concordano su un punto chiave: ritengono
che le ideologie del Novecento abbiano esaurito la loro capacità di fornire interpretazioni efficaci
della realtà sociale. Questo contesto di cambiamento o di fine delle ideologie ha un impatto
significativo sulla comprensione della democrazia e della rappresentanza sociale, poiché le
ideologie svolgono spesso un ruolo importante nella definizione di tali concetti e nella pratica
politica. Pertanto, esaminare la democrazia e la rappresentanza sociale in un'era post-ideologica
comporta la sfida di ridefinire questi concetti in un contesto in cui le ideologie tradizionali
potrebbero non essere più guida.
Le ideologie non rappresentano solo punti di vista sulla realtà, ma anche veicoli attraverso i quali è
possibile influenzarla e modificarla. In questo senso, le ideologie condividono una caratteristica
comune con i valori che guidano una determinata società. L'incapacità delle ideologie del
Novecento di offrire interpretazioni efficaci della realtà ha sollevato una domanda cruciale: i valori
di eguaglianza, solidarietà e giustizia sociale possono ancora avere rilevanza nella realtà sociale
contemporanea?
Questo è un tema di grande interesse per i lavoratori e i loro sindacati, nonché per Pinelli,
costituzionalista, poiché questi principi, insieme ad altri come libertà, dignità e democrazia, cercano
di guidare la nostra convivenza. Pinelli riconosce che non è in grado di fornire una risposta
definitiva a questa domanda. Tuttavia, suggerisce che, se riteniamo che la dissoluzione delle
ideologie del Novecento abbia portato alla scomparsa delle ideologie come concetti strutturati,
diventa notevolmente più difficile immaginare che i valori che erano stati incorporati dalle
ideologie possano ancora essere rilevanti nella realtà sociale o addirittura orientare la convivenza.
In questo contesto, emerge una riflessione sulla relazione tra ideologie e valori, e sulla sfida di
preservare e ridefinire valori fondamentali in un'epoca in cui le ideologie tradizionali potrebbero
essere in declino o meno influenti.
Sono passati ormai vent'anni dall'avvento dei mercati globali, e più di una volta nella nostra storia
si è diffusa l'idea della "fine della storia". Tuttavia, oggi possiamo affermare che non è affatto finito
nulla. La dissoluzione delle ideologie del Novecento non ha comportato la fine della discussione
sulle ideologie; al contrario, questa discussione è diventata più prominente e impegnativa. Perché
ciò accade? Secondo Pinelli, questa situazione è il risultato dell'investimento emotivo, sia
individuale che collettivo, nelle ideologie del Novecento.
Nel 1982, prima dei discorsi sull'era post-ideologica, Riccardo Orestano ha scritto un articolo
intitolato "Ideologia, parola da non far più paura". Orestano ha notato che la parola "ideologia"
deriva etimologicamente da "idea," che è l'espressione del pensiero che deriva da processi
individuali e collettivi orientati a modificare la realtà. Le ideologie, d'altro canto, rappresentano
l'espressione di volontà plurime convergenti che generano idee-forza, idee-guida e pensieri per
l'azione. Spesso fanno leva su stati emotivi e cercano di plasmare la realtà storica e sociale in cui si
manifestano.
Orestano suggerisce che non dobbiamo avere paura delle ideologie, perché conviviamo
costantemente con esse, che lo vogliamo o meno. Il problema sta nell’essere onesti con se stessi e
nel chiarire, sia a noi stessi che agli altri, quando stiamo utilizzando un registro ideologico e quando
no. In altre parole, riconoscere il ruolo delle ideologie nella nostra vita e nel dibattito pubblico è
importante, e dovremmo essere trasparenti riguardo a quando stiamo facendo ricorso a esse e
quando no.
Con l'avvento dei mercati globali, l'approccio di Pinelli diventa sempre più importante poiché
consente di evitare le trappole ideologiche in cui regolarmente si cerca di farci cadere. Questo
approccio permette anche di distinguere tra il bisogno di informazione e analisi e la comprensione
di come valori come eguaglianza, solidarietà e giustizia sociale possano guidare la convivenza.
Secondo Pinelli, il rischio di cadere in queste trappole ideologiche è maggiore quando si adottano
visioni deterministiche dello sviluppo storico. Giorgio Ruffolo ha sottolineato l'importanza di
respingere il "giustificazionismo" della disuguaglianza come un prezzo da pagare per la crescita,
proprio come abbiamo respinto il "giustificazionismo" marxista nella storia.
In questo senso, il rapporto con le ideologie viene "sdrammatizzato" o alleggerito, perché solo dopo
diventa più facile affrontare la realtà e riconoscere che le trasformazioni più radicali nei modelli di
convivenza non comportano semplicemente la sostituzione di un modello con un altro.
In riferimento alla realtà attuale, René-Jean Dupuy ha respinto le profezie che prevedono il trionfo
dei mercati globali sugli stati, sottolineando che l'avvento di un nuovo modello di società si
combina spesso con il precedente, senza sopprimerlo, in una tensione dialettica aperta, poiché gli
esseri umani sono liberi e imprevedibili. Questo richiama l'importanza di non assumere una visione
deterministica del futuro e di essere aperti alle possibilità impreviste nei cambiamenti sociali.
Dal punto di vista dell'esperienza concreta e dei rapporti di forza, il problema principale riguarda la
combinazione del vecchio e del nuovo. È davvero possibile affermare che le frontiere degli stati non
hanno più importanza o che sono state aggirate? L'aggiramento delle frontiere è un fenomeno
macroscopico causato da prodotti finanziari e comunicazioni in rete, ma le frontiere continuano a
segnare il limite territoriale della sovranità dal punto di vista del diritto internazionale e, di
conseguenza, dal punto di vista della guerra e della pace.
La domanda riguarda anche se il mercato globale abbia effettivamente fatto scomparire lo stato
sociale dall'orizzonte della nostra esperienza o se si sia adattato e si sia sovrapposto allo stato
sociale, pur condizionandolo in modo significativo.
In altre parole, nonostante la globalizzazione e la crescente interconnessione tra nazioni, le frontiere
statali mantengono ancora un'importanza significativa dal punto di vista legale e geopolitico. Allo
stesso tempo, la presenza dei mercati globali ha reso necessaria una riflessione su come gli stati
sociali possano adattarsi a questa nuova realtà e continuare a garantire benessere e protezione
sociale ai loro cittadini, nonostante le sfide poste dalla globalizzazione economica. Si tratta di una
questione complessa e in continua evoluzione, che richiede una profonda analisi delle dinamiche
politiche ed economiche del nostro tempo.
In un saggio recente, Giulio Tremonti parte da un dato concreto, ovvero la crisi della finanza
globale, per proporre un'ideologia critica nei confronti del mercato. Tuttavia, anziché spiegare come
le istituzioni finanziarie internazionali abbiano cercato di affrontare la crisi e perché tali tentativi
siano risultati insufficienti, e quali interventi alternativi sarebbero necessari, Tremonti si limita a
sottolineare che i mercati si basano sulle iniezioni illimitate di liquidità fornite dalle banche centrali,
istituzioni pubbliche. Questo atteggiamento serve a dimostrare il presunto fallimento del sistema.
L'attacco frontale di Tremonti al "mercatismo" della finanza globale occupa la parte restante del suo
libro e include critiche all'indirizzo della sinistra riformista europea, accusata di cedere alle
ideologie mercantili. Questa critica emerge in un momento in cui c'è un bisogno evidente di una
politica alternativa che possa contrastare il mercatismo, e per svilupparla, è necessaria una filosofia
politica diversa.
Sarebbe facile affermare che la globalizzazione finanziaria è stata preparata dalle liberalizzazioni
promosse da Ronald Reagan e Margaret Thatcher. È interessante notare che la sinistra si è trovata al
governo in quasi tutti gli Stati membri solo a cavallo del nuovo secolo. In questo contesto, l'Unione
Europea ha varato a Lisbona una strategia che, pur senza rinnegare il trattato di Maastricht, puntava
all'innovazione e alla ricerca come motori di nuova occupazione. Tuttavia, se la strategia di Lisbona
è fallita, la responsabilità è attribuita alle disfunzioni dei processi decisionali dell'Unione, di cui
tutti gli Stati membri sono i primi responsabili, indipendentemente dal colore politico dei governi in
carica.
Il punto principale del libro non è tanto il tentativo di superare la contrapposizione tra destra e
sinistra, ma il modo in cui ci si arriva. La destra ha abbracciato i valori della tradizione, dello Stato
e della religione, poiché è investita della funzione di infondere sicurezza a popolazioni spaventate
dalla perdita di riferimenti istituzionali e legami comunitari portati dalla globalizzazione.
L'intenzione del libro sembra essere quella di amplificare il bisogno di sicurezza fino a renderlo il
principio fondamentale della convivenza, sostituendo la democrazia, la libertà e l'uguaglianza.
L'attacco al "mercatismo" sembra essere basato sull'uso della paura come strumento di potere.
Ciò assume maggiore rilevanza se si considera che Tremonti è un esperto dei mercati finanziari e
dei loro meccanismi. Tuttavia, nel libro, egli non si sforza di spiegare al lettore come funzionano
questi meccanismi né di indicare dove possano verificarsi concentrazioni tra le banche centrali
preposte a prevenire e contenere l'instabilità e la volatilità dei mercati finanziari. Questo aspetto non
detto sembra essere un artificio per introdurre la "politica della paura," in un periodo in cui le
statistiche del ministero dell'Interno registrano una diminuzione dei reati. Il saggio evidenzia anche
la scarsa informazione di cui disponiamo sul funzionamento dei mercati globali e sui flussi
migratori, sottolineando come ogni ideologia possa facilmente sfruttare questi elementi come leve
di persuasione.
Riguardo il tema dei "labour standard," che sono standard minimi di rispetto dei diritti dei
lavoratori applicabili universalmente, disponiamo di informazioni piuttosto scarse.
L'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) è stata istituita nel 1919 con lo scopo di fissare
queste convenzioni standard, ma non le è stato conferito il potere di attuarle direttamente. Al
contrario, l'attuazione dei labour standard spetta ad altre organizzazioni internazionali specializzate
o a organizzazioni che interagiscono con le loro attività. Ad esempio, il Fondo Monetario
Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale sono coinvolte in tali attività.
Tuttavia, queste istituzioni sono state create in epoche successive con finalità diverse da quelle
dell'OIL. Questo crea delle problematiche di coordinamento tra le varie organizzazioni
internazionali nel promuovere e attuare labour standard e diritti dei lavoratori a livello globale.
Nel 1994, il consiglio di amministrazione dell'OIL istituì un gruppo di lavoro a composizione
tripartita, con rappresentanti di Stati, sindacati dei lavoratori e sindacati di datori di lavoro, con
l'obiettivo di discutere tutti gli aspetti pertinenti alla dimensione sociale della liberalizzazione del
commercio internazionale.
Le Dichiarazioni di Copenaghen delle Nazioni Unite del 1995 sottolinearono la necessità di
garantire i diritti sociali fondamentali in un contesto di globalizzazione dei mercati.
Nel 1996, l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa emise una raccomandazione che
lamentava la mancanza di misure atte a preservare i diritti sociali fondamentali in un contesto di
globalizzazione dei mercati.
Nel 1998, l'OIL emise una dichiarazione che prevedeva una lista di standard minimi di lavoro e una
clausola che ne vietava l'uso per scopi protezionistici.
Tuttavia, nonostante questi dibattiti e dichiarazioni, la maggior parte degli Stati membri dell'OMC
(Organizzazione Mondiale Del Commercio) non ha adottato misure volte a garantire il rispetto
degli standard minimi sul lavoro. Inoltre, l'OMC non ha utilizzato i poteri sanzionatori di cui
dispone nei confronti degli Stati inadempienti.
La Comunità Europea, dopo aver inizialmente rifiutato di inserire clausole nei suoi accordi
commerciali per garantire l'attuazione delle convenzioni dell'OIL, ha poi stabilito che l'accesso
privilegiato al commercio e ai fondi per lo sviluppo sarà condizionato alla capacità dei paesi terzi di
rispettare gli standard minimi sul lavoro, pur respingendo l'uso di tali clausole a fini protezionistici.
Le sfide legate alla promozione e all'attuazione dei labour standards in un contesto di
globalizzazione economica, includono la possibilità che la "legge del più forte" possa ostacolare i
tentativi di farli rispettare, specialmente quando non c'è una coordinazione efficace tra le
organizzazioni internazionali coinvolte. Le relazioni tra queste organizzazioni possono influire sulla
capacità di far rispettare i diritti dei lavoratori.
Un'altra questione riguarda il coinvolgimento limitato di coloro che potrebbero promuovere
attivamente il rispetto dei labour standards nelle economie avanzate. Spesso, altre questioni più
urgenti o di interesse nazionale possono avere la precedenza.
Inoltre, la mancanza di informazioni o di consapevolezza sui processi decisionali internazionali
relativi ai labour standards può essere un ostacolo significativo agli sforzi volti a farli rispettare.
Molte persone potrebbero non essere a conoscenza di come tali standard vengano negoziati e
attuati.
La persistenza del dumping sociale, cioè la competizione basata sulla riduzione dei diritti dei
lavoratori e dei salari, rimane una preoccupazione importante nell'organizzazione mondiale del
lavoro. I labour standards giocano un ruolo chiave nel contrastare il dumping sociale.
Un'ulteriore sfida è determinare se vi è una sufficiente attenzione ai problemi derivanti dalla
globalizzazione economica per i lavoratori, o se si preferisce concentrarsi principalmente sulla
globalizzazione stessa e combattere coloro che utilizzano concetti come flessibilità, inclusione e
rete per giustificare politiche che potrebbero minare i diritti dei lavoratori.
Pinelli mette in evidenza l'importanza dell'utilizzo delle parole e del lessico nel dibattito sulla realtà
del lavoro e dei rapporti sociali. Egli suggerisce che la coppia di concetti "inclusione" ed
"esclusione" potrebbe essere utilizzata per introdurre una nuova ideologia, sostituendo quella più
tradizionale basata sull'"uguaglianza" e sulla "diseguaglianza". L'uso di questo nuovo lessico
potrebbe essere interpretato come un tentativo di mascherare un'ideologia specifica.
Tuttavia, Pinelli sostiene che è essenziale valutare come queste parole vengono utilizzate nel
contesto specifico e se nascondono un'ideologia o se possono avere significati diversi. Questo
approccio consente di restituire alle parole i loro diversi significati e di affrontare il lessico senza
paura quando è utilizzato in modo solidaristico.
Ad esempio, il termine "rete" potrebbe essere utilizzato in un senso positivo, per indicare una
connessione e solidarietà tra individui o gruppi. Allo stesso modo, il concetto di "flessibilità del
lavoro" può essere interpretato in modi diversi. Potrebbe significare l'assenza di garanzie, ma
potrebbe anche indicare la creazione di lavori che si discostano dal tradizionale modello fordista,
offrendo maggiore autonomia e varietà nelle mansioni. La chiave, secondo Pinelli, è che la
flessibilità del lavoro dovrebbe essere il risultato di un negoziato bilaterale e non una decisione
unilaterale delle imprese, al fine di garantire benefici sia per i datori di lavoro che per i lavoratori.
Il ritardo culturale e le difficoltà dei sindacati nell'interpretare i cambiamenti nel mondo del lavoro,
e quindi di rappresentanza sociale, possono essere attribuiti a diverse cause. Una delle spiegazioni
potrebbe risiedere in un ritardo culturale, in cui i sindacati hanno avuto difficoltà a adattarsi alle
trasformazioni del lavoro e dei rapporti sociali, utilizzando un lessico obsoleto. Tuttavia, ci sono
altre ragioni strettamente connesse ai cambiamenti politici e sociali in Italia.
Un punto di svolta importante è stato il 1993, che ha visto l'accordo sul costo del lavoro e la crisi
dei partiti che avevano contribuito a scrivere la Costituzione italiana. In seguito a questa crisi dei
partiti, il sindacato ha assunto un ruolo di supplenza, dovuto all'assenza di radicamento sociale dei
partiti e al loro indebolimento nei processi decisionali. Questa istituzionalizzazione del sindacato
lo ha portato a concentrarsi su compiti e responsabilità istituzionali, il che ha reso più difficile
allargare l'area della sua rappresentanza.
Inoltre, l'istituzionalizzazione della prassi della concertazione ha accentuato la dimensione
nazionale del sindacato. Questo si è verificato in un momento in cui c'era una spinta verso
l'autonomia e il decentramento a livello regionale. Questo approccio riflette un modello di
razionalità sinottica che può contrastare con la realtà sempre più complessa e frammentata del
lavoro e delle imprese. La strutturazione dei livelli di governo tra Unione europea, stato e regioni ha
reso più complicata la definizione e l'attuazione di politiche economiche, soprattutto per istituzioni
e associazioni radicate a livello nazionale.
Tutto ciò può aver contribuito a rendere più difficile ai sindacati adattarsi e rappresentare
efficacemente i lavoratori di fronte ai cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro.
Le difficoltà di rappresentanza sociale riguardano anche le possibili sfide alternative rispetto a
quelle sperimentate finora. Alcune di queste sfide includono:
1. Differenziazione dei livelli retributivi: Questa idea riguarda la possibilità di differenziare i
livelli retributivi a livello di contrattazione collettiva in base al diverso potere d'acquisto in
diverse aree del paese. Questa proposta può generare conflitti significativi poiché diversi
attori cercheranno di negoziare in modo da ottenere vantaggi per le loro specifiche aree
geografiche.
2. Regolamentazione del lavoro non tutelato: È importante notare che soluzioni semplici,
come estendere lo statuto dei lavoratori a tutti i lavoratori, possono comportare aumenti di
costi e una diminuzione complessiva dei diritti dei lavoratori. Una strada possibile potrebbe
essere quella di estendere i diritti a piccoli passi, attraverso tentativi ed errori, coinvolgendo
i sindacati e i diversi segmenti del mondo del lavoro. Questo potrebbe richiedere
un'interazione con i diversi attori del mondo del lavoro e il tentativo di mantenere uniti i
lavoratori tradizionali insieme a quelli con rapporti di impiego diversi.
3. Timore della flessibilità intensa: Questo timore riguarda non solo i lavoratori "outsider"
ma anche quelli più garantiti con il potenziale per l'unificazione. La capacità dei sindacati di
mettere al centro dell'agenda gli aspetti che aggregano tutti i lavoratori sarà cruciale per
affrontare questo timore e garantire una rappresentanza efficace di tutti i lavoratori.
Affrontare queste sfide richiederà un approccio flessibile e la capacità dei sindacati di negoziare e
coalizzarsi in modo strategico per promuovere i diritti e gli interessi dei lavoratori in un mondo del
lavoro in continua evoluzione.
Le difficoltà menzionate sono il risultato di sviluppi politico-istituzionali imprevisti che hanno
costretto i sindacati a svolgere un ruolo di supplenza in un contesto in cui dovevano rappresentare
l'intera forza lavoro a livello nazionale, anche affrontando le spinte per l'autonomia regionale, locale
e la diversificazione territoriale, nonché il dumping sociale nei mercati globali. Inoltre, non esistono
soluzioni facili per garantire una maggiore perequazione tra i lavoratori tutelati e non tutelati, né per
ristrutturare il sindacato in modo da adattarlo alle diverse esigenze della rappresentanza sociale in
un mondo del lavoro sempre più frammentato.
Tuttavia, queste difficoltà non devono essere viste come scuse, ma piuttosto come sfide che possono
essere affrontate con fiducia nei valori di eguaglianza, solidarietà e giustizia sociale. Questi valori
possono servire da guida nella costruzione di nuovi modelli e approcci che tengano conto della
complessità e della diversità del mondo del lavoro attuale, pur rinunciando all'ideologia del secolo
scorso. Il sindacato e altre organizzazioni devono lavorare in modo creativo e innovativo per
affrontare queste sfide e rappresentare al meglio gli interessi dei lavoratori in un contesto in
continua evoluzione.

11. Saggio: “ Diritti e politiche sociali nel progetto di trattato costituzionale europeo”
Nel Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, approvato dalla Convenzione europea,
la dimensione sociale è enfatizzata con una chiarezza che contrasta con i silenzi presenti nel trattato
di Roma e le reticenze riscontrate nei trattati più recenti.
Il Trattato è stato firmato a Roma nel 2004, ma non ha ottenuto la ratifica da parte di Francia e
Paesi Bassi. Questo insuccesso ha portato all'inizio dei lavori sul trattato di Lisbona. È importante
notare che il trattato di Roma al quale si fa riferimento in questa parte è quello del 1957, che ha
sancito la nascita della Comunità Europea.
Nel suo saggio, Pinelli si concentra sull'analisi delle diverse situazioni iniziali degli Stati membri e
dell'Unione Europea in merito ai diritti sociali. Successivamente, esamina le modalità di
integrazione reciproca e le decisioni prese dai redattori del progetto di trattato costituzionale
riguardo a questo tema.
Nei dibattiti politico-costituzionali del secondo dopoguerra, prevalse l'idea che i diritti sociali
fossero strettamente legati all'elemento della prestazione pubblica e alla redistribuzione del reddito
in senso egualitario. Questa prospettiva prevalse rispetto a quella dei pluralisti, i quali
consideravano i diritti sociali come diritti legati all'integrazione del singolo nei gruppi sociali o
nelle formazioni sociali di appartenenza.
La tesi dell'egualitaria redistribuzione del reddito si impose in quanto le promesse di interventi
pubblici per ridurre la povertà generalizzata trovavano maggiore sostegno in un contesto come
quello del dopoguerra. Di conseguenza, le idee dei pluralisti furono sconfitte, poiché in un'epoca
segnata da una diffusa povertà, prevalse la visione di un intervento pubblico mirato a ridistribuire il
reddito in modo più equo.
All'epoca del Trattato di Roma del 1957, l'aspirazione alla prosperità era ancora considerata una
condizione essenziale per il riscatto sociale e la dignità umana. Questa aspirazione era al centro
delle preoccupazioni delle élite dirigenti degli stati della cosiddetta "piccola Europa," composta da
Italia, Francia, Repubblica federale della Germania (Germania Ovest), Belgio, Paesi Bassi e
Lussemburgo.
Tuttavia, ciò che differenziava questo periodo da quello delle assemblee costituenti di un decennio
prima erano gli strumenti a disposizione. La Comunità Economica Europea (CEE) era orientata
principalmente a creare un mercato comune, un obiettivo meno ambizioso rispetto alla creazione di
una nazione e difficile da trasformare in una federazione. La creazione della comunità economica
europea contribuì, insieme ad altre condizioni internazionali, a garantire benessere e pace tra gli
Stati che avevano originato le due guerre mondiali.
Il successo del processo di integrazione dei mercati aveva mantenuto la sua estraneità originale
rispetto alle aspirazioni legate alle costituzioni e alle tradizioni degli Stati membri. Allo stesso
tempo, gli Stati membri, attuando i principi costituzionali dei diritti sociali, rafforzavano la
dimensione nazionale del diritto costituzionale. Ad esempio, in Svezia, lo "stato sociale"
significava "stato del popolo," e in molti paesi, l'istituzione dello stato sociale contribuiva a
rafforzare la dimensione nazionale del diritto costituzionale.
La separazione tra aspetti economici e politici dell'Unione Europea termina con il Trattato di
Maastricht, il quale segna la nascita dell'"Europa Sociale." Questo trattato, raggiungendo il
traguardo del mercato unico, istituisce l'Unione Europea con obiettivi chiaramente politici che
coinvolgono gli Stati membri e i loro popoli.
Maastricht pone per la prima volta il problema dell'incontro tra due ambiti istituzionali: quelli
dell'Unione e dei suoi Stati membri. Tuttavia, né in questa occasione, né successivamente, l'idea di
uno stato sociale europeo si è mai concretizzata.
Di solito, l'Unione Europea non dispone di propri apparati amministrativi; l'attuazione della
normativa europea spetta quasi sempre alle amministrazioni degli Stati membri, secondo il modello
dell'amministrazione indiretta o del federalismo d'esecuzione, simile a quello degli stati federali
come la Germania. Questo approccio mira a evitare la creazione di un apparato burocratico
centralizzato a Bruxelles. Tuttavia, nonostante ciò, l'Unione è spesso percepita come un'entità
distante dai cittadini a causa della sua burocratizzazione.
Le istituzioni del welfare e una protezione sociale completa richiedono risorse finanziarie
significative, molto al di là di quanto previsto dall'Unione Europea. Per diventare uno stato sociale a
tutti gli effetti, l'Unione dovrebbe essere completamente ripensata nei suoi principi, obiettivi e
regole di funzionamento.
Quando i documenti ufficiali e i trattati europei fanno riferimento alle "politiche sociali"
dell'Unione Europea, si riferiscono a un concetto più limitato.
Ad esempio, l'articolo 136 del Trattato CE elenca gli obiettivi delle politiche sociali, tra cui la
promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una protezione
sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane per garantire un livello
occupazionale adeguato e duraturo, nonché la lotta contro l'emarginazione. Tuttavia, la parte
rimanente dello stesso articolo circoscrive notevolmente la portata di questi impegni, stabilendo che
tali politiche devono tenere conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare delle relazioni
contrattuali e delle necessità di mantenere la competitività dell'economia della comunità.
Le politiche sociali dell'Unione Europea sono caratterizzate dal costante rivolgersi verso i lavoratori
per combattere le discriminazioni e verso il mercato del lavoro per incrementare l'occupazione.
Inoltre, tali politiche si concentrano su ambiti circoscritti, come le discriminazioni di genere e
consultazioni sindacali su questioni specifiche, piuttosto che su politiche sociali in generale.
La normativa dell'Unione Europea non ha sostituito né si è sovrapposta a quella degli Stati membri,
ma ha creato un doppio livello di discipline. Questa situazione è stata oggetto di diverse
interpretazioni e dibattiti.
La strutturale ambiguità delle politiche sociali dell'Unione riflette eventi storici significativi. Ad
esempio, il principio di pari trattamento retributivo tra uomini e donne fu inserito nel trattato su
richiesta della Francia. Questo fu fatto per il timore che l'apertura del mercato ai paesi in cui il
differenziale retributivo tra uomini e donne era molto più alto, come Olanda e Italia, avrebbe potuto
danneggiare le imprese francesi.
La discussione sulle finalità delle politiche sociali dell'Unione Europea è stata plasmata da due
importanti novità che hanno avuto un impatto significativo sulla sua evoluzione. Queste novità sono
emerse all'indomani del progetto di trattato costituzionale europeo e hanno contribuito a ridefinire il
ruolo e l'ambito delle politiche sociali nell'Unione. In questo contesto, la strategia elaborata dal
Consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000 ha delineato un obiettivo ambizioso; inoltre, la
proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, conosciuta come Carta
di Nizza, ha aggiunto un nuovo strato di protezione dei diritti dei cittadini europei. Questa Carta è
stata solennemente proclamata nel 2000 e successivamente rafforzata con l'entrata in vigore del
"Trattato di Lisbona" nel 2007, ottenendo lo stesso valore giuridico dei trattati stessi.
La strategia elaborata a Lisbona non solo ha stabilito un ambizioso traguardo di raggiungere la
piena occupazione nell'Unione Europea entro il 2010, ma ha anche introdotto un approccio
integrato per perseguire questo obiettivo. L'obiettivo principale era sviluppare le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione come base per una crescita economica sostenibile con la
creazione di nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.
Questo approccio integrato ha incluso un forte impulso all'istruzione e alla ricerca, l'integrazione
dei programmi di ricerca europei e nazionali, la promozione dell'imprenditorialità e il
completamento del mercato interno attraverso la liberalizzazione di settori come il gas, l'elettricità, i
servizi postali e i trasporti. Tuttavia, un rapporto successivo elaborato da una task force incaricata di
valutare lo stato dell'occupazione nell'Unione ha evidenziato gravi ritardi e carenze degli Stati
membri nel recepire le indicazioni della strategia di Lisbona. Si è quindi rivelato che la piena
occupazione poteva essere realizzata solo attraverso una combinazione di politiche economiche,
sociali e del lavoro, con l'adozione dell'"Open Method of Coordination" tra gli Stati membri su
impulso del Consiglio europeo come traduzione istituzionale.
La proclamazione della Carta di Nizza ha ulteriormente enfatizzato la dimensione sociale nel
dibattito pubblico europeo. Questa Carta non si è limitata a riconoscere i classici diritti sociali,
come il diritto all'istruzione, all'assistenza e alla salute, ma ha anche affermato che l'Unione
Europea si fonda sui valori indivisibili della dignità umana, della libertà, dell'uguaglianza e della
solidarietà. Questi valori costituiscono i titoli in cui si articola la Carta e rappresentano la base dei
diritti fondamentali che essa riconosce.
Alcuni studiosi hanno interpretato i diritti sociali affermati dalla Carta come obiettivi delle
politiche statali piuttosto che come diritti immediatamente esigibili. Questa prospettiva non è vista
come un punto di debolezza, ma piuttosto come una forza di un diritto sovranazionale in fase di
sviluppo. Inoltre, alcuni moderni diritti sociali, tra cui quelli relativi alla formazione professionale e
alla formazione permanente per la tutela dei lavoratori disoccupati, sono sempre più protetti tramite
procedure invece che attraverso il tradizionale ricorso giurisdizionale.
Nel processo di ripensamento degli strumenti di garanzia dei diritti sociali, emerge la possibilità di
colmare, almeno in alcuni settori, il tradizionale divario tra un'Unione fondata principalmente sul
mercato e un concetto di stato costituzionale in cui i diritti sociali sono considerati come diritti a
prestazioni concretamente realizzabili. Esso si riferisce al rapporto tra la Carta dei Diritti e le
legislazioni nazionali, da cui emerge una maggiore complessità nel rapporto tra i diritti sociali e le
politiche sociali dell'Unione.
Sia a Nizza che a Lisbona, si è cercato di adottare un approccio integrato in cui le politiche sociali
diventano una parte fondamentale della missione dell'Unione, mentre i diritti sociali diventano parte
integrante del patrimonio indivisibile dei valori su cui l'Unione si fonda. Tuttavia, per garantire che
il coordinamento delle politiche regolative nazionali, come impostato a Lisbona, possa "realizzare
tutti i suoi potenziali effetti virtuosi", è essenziale un costante allineamento con i principi sanciti
nella Carta dei Diritti.
In confronto ai tradizionali meccanismi di gestione delle azioni di prestazioni pubbliche legate ai
diritti sociali, la strategia di Lisbona rappresenta un cambiamento significativo, spostando
l'attenzione dall'erogazione delle prestazioni sociali alle condizioni che rendono sostenibile la loro
erogazione. Questo spostamento richiede un ampio consenso e una stretta collaborazione da parte
delle autorità nazionali. Tuttavia, va notato che, sebbene gli Stati membri rimangano protagonisti
primari nella definizione delle politiche sociali europee, il contesto istituzionale multilivello in cui
operano presenta una crescente complessità e vincolatività.
È in questo contesto che il riconoscimento dei diritti sociali cessa di essere un semplice espediente
retorico e diventa una bussola indispensabile per orientare le politiche sociali e i processi decisionali
a livello europeo. In questo modo, i diritti sociali non sono solo dichiarati, ma diventano una forza
guida per le politiche sociali, contribuendo a garantire che i diritti dei cittadini siano effettivamente
protetti e promossi nel contesto dell'Unione Europea.
In conclusione, abbiamo esaminato il motivo per cui la creazione di un sistema di welfare modellato
sull'approccio nazionale non è un'opzione realistica nell'ambito dell'Unione Europea. Abbiamo
esplorato l'evoluzione incerta delle politiche occupazionali e del lavoro dell'Unione fino agli anni
'90, rilevando le sfide e le ambiguità presenti in questo settore.
Successivamente, abbiamo analizzato come la strategia di Lisbona e la Carta di Nizza abbiano
contribuito a mettere in evidenza in modo più chiaro e completo gli aspetti fondamentali e
complementari della dimensione sociale dell'Unione Europea. Questo approccio integrato ha
superato le resistenze verso una visione troppo settoriale delle politiche sociali, offrendo una visione
più coerente e inclusiva dell'ambito sociale dell'Unione.
Questa analisi ha permesso a Pinelli di esaminare le disposizioni del progetto costituzionale europeo
relative alla dimensione sociale con una maggiore consapevolezza della portata delle sfide e delle
opportunità in gioco.
Nella prima parte del progetto costituzionale, si sottolinea che l'Unione Europea è fondata su
valori quali la libertà, la democrazia e l'uguaglianza, con l'obiettivo di sviluppo sostenibile basato su
un'economia sociale di mercato altamente competitiva, che mira alla piena occupazione e al
progresso sociale. La politica sociale è riconosciuta come un settore di competenza concorrente tra
l'Unione e gli Stati membri, con l'Unione che adotta misure volte a coordinare le politiche
occupazionali degli Stati membri, ad esempio attraverso l'adozione di orientamenti politici comuni.
Inoltre, viene sottolineato il ruolo delle parti sociali nell'Unione e la promozione del dialogo tra di
esse, nel rispetto della loro autonomia.
Nella seconda parte del progetto costituzionale, viene inclusa la Carta dei Diritti Fondamentali
dei Cittadini dell'Unione, che abbraccia tutti i diritti sociali tradizionali.
Nella terza parte, sono dedicate sezioni specifiche all'occupazione, alla politica sociale e alla
coesione economica, sociale e territoriale, evidenziando l'importanza e la centralità di queste
tematiche nel contesto costituzionale europeo.
In questo modo, il progetto costituzionale europeo riflette un impegno verso una dimensione sociale
più ampia e integrata all'interno dell'Unione Europea, con l'obiettivo di garantire una maggiore
coesione sociale e una migliore tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei.
In sintesi, il progetto di trattato costituzionale regola una vasta gamma di aspetti legati alla
dimensione sociale che sono emersi nel contesto giuridico dell'Unione Europea. Tuttavia, finora
sono emerse due principali critiche:
1. Le disposizioni relative ai diritti e ai principi sociali all'interno del trattato costituzionale
potrebbero essere percepite come carenti di quella normatività e vincolatività che tali diritti
e principi hanno conquistato nelle costituzioni dei paesi laburisti e democratico-sociali del
secolo scorso. In altre parole, alcune voci ritengono che i diritti sociali nell'ambito
dell'Unione Europea potrebbero non avere la stessa forza e protezione che hanno in alcuni
stati membri.
2. La sezione della parte terza del trattato costituzionale dedicata alle politiche sociali potrebbe
non aver completamente risolto l'incoerente ripartizione delle competenze tra gli Stati
membri e l'Unione Europea. Questa ripartizione incoerente coinvolge questioni relative alla
politica economica, alla moneta, al welfare e alla sicurezza sociale. Inoltre, potrebbe esserci
una certa confusione riguardo alla disciplina del lavoro indotta dal mercato unico.
Tuttavia, secondo Pinelli, sarebbe più produttivo concentrarsi su questioni specifiche relative alla
dimensione sociale dell'Unione Europea e sulla sua Costituzione. Questa Costituzione è un progetto
con possibilità da esplorare e valorizzare, situandosi tra le intenzioni e le realizzazioni concrete.
L'obiettivo è comprenderne appieno il potenziale e lavorare verso una maggiore coesione sociale e
la realizzazione dei diritti sociali nell'Unione Europea

12. Saggio: “Modello sociale europeo e costituzionalismo sociale europeo”


Il titolo del saggio presuppone la possibilità di individuare un modello sociale europeo e un
costituzionalismo europeo, oltre a suggerire un collegamento tra i due. Il termine "un" è utilizzato
quando gli studiosi si riferiscono alle politiche sociali dell'Unione Europea o quando cercano di
distinguere il modello di convivenza costituzionale radicato in Europa da quelli di altri continenti e
macroaree. Tuttavia, è importante notare che in realtà in Europa persistono più modelli di società e
di costituzionalismo.
In questo saggio, Pinelli si propone di approfondire le ragioni di questa dispersione istituzionale
che, secondo l'autore, indebolisce il modello sociale europeo, privandolo del sostegno necessario.
Gli studiosi oscillano tra diverse posizioni, che vanno dalla negazione della possibilità di
identificare una società europea, dovuta al relativo scetticismo riguardo a un'integrazione profonda
al di là di alcune soglie a causa di ostacoli linguistici e culturali, fino all'analisi del modello sociale
europeo come risultato delle politiche sociali intraprese dalla Comunità Europea a partire dal
Programma del 1974. Queste oscillazioni dipendono anche dalle diverse accezioni del concetto di
"modello sociale" europeo. Queste interpretazioni consentono di rilevare i segni di una persistente
pluralità di modelli sociali radicati in diverse regioni del continente e forniscono una base per
valutare le condizioni e le possibilità di utilizzare il pronome singolare ("un") per riferirsi a un unico
modello sociale europeo.
Pinelli utilizza due studi specifici per sostenere la sua argomentazione:
Michael Albert conia il termine "modello renano" per identificare un modello caratterizzato da
una forte presenza dei pubblici poteri nel campo economico e da una decisione pubblica
altamente centralizzata. Questo modello è distinto dal "modello anglosassone," che si
caratterizza per una maggiore liberalizzazione dei servizi e del mercato del lavoro.
André Sapir individua ulteriori modelli all'interno dell'Europa, tra cui:
 Modello Nordico (scandinavo e olandese): contraddistinto da elevati livelli di protezione
sociale e imposizioni fiscali più elevate nel mercato del lavoro, promuovendo l'efficienza e
l'equità.
 Modello Anglosassone (Irlanda e Regno Unito): con un'assistenza sociale significativa e
una differenziazione nei livelli di retribuzione che enfatizza l'efficienza rispetto all'equità.
 Modello Continentale: caratterizzato da benefici di disoccupazione e pensioni che
favoriscono l'equità rispetto all'efficienza.
 Modello Mediterraneo: la spesa pubblica è focalizzata sulle pensioni, e il mercato del
lavoro è orientato a proteggere gli occupati, con tassi ridotti di equità ed efficienza.
Albert si concentra sulla dimostrazione della superiorità del modello renano, mentre Sapir enfatizza
la necessità di riformulare i sistemi di welfare che sono affetti da inefficienze di fronte alle sfide
imposte dalla globalizzazione all'economia europea. Queste differenze sottolineate da Albert e Sapir
servono a Pinelli per illustrare i limiti dell'approccio europeistico e per contrastare qualsiasi
definizione troppo omogenea di un modello sociale europeo. Queste stesse distinzioni possono
essere riflesse nella distinzione tra politiche costituzionali e l'interpretazione dei principi
costituzionali generalmente accettati.
Nel contesto delle concezioni di eguaglianza, è importante notare che la differenziazione assume
significati diversi nei modelli sociali europei.
Nel modello liberale, tipico dei paesi anglosassoni, le politiche redistributive non si basano su
diritti, ma piuttosto sulla valutazione dei bisogni individuali. Di conseguenza, le differenziazioni
economiche sono considerate correggibili solo nei confronti di coloro che non sono riusciti a
ottenere successo nel mercato del lavoro. La garanzia dei mezzi di sostentamento per questi
individui non li protegge completamente in una società orientata al predominio dell'affermazione
individuale, spesso portando a stigmatizzazione ed esclusione sociale.
Nel modello socialdemocratico, tipico dell'Europa continentale, le politiche redistributive sono viste
come una sorta di ricompensa per coloro che sono occupati e che godono di diritti sociali. Gli
individui esclusi dal mercato del lavoro ricevono assistenza principalmente attraverso le famiglie, e
sono tollerate diseguaglianze di status, tra cui quelle basate sul genere.
Questi due approcci riflettono le diverse prospettive sul ruolo dello Stato nel garantire l'eguaglianza
e nel gestire le differenze economiche e sociali all'interno della società.
La diversa lettura dei dilemmi tra dignità e libertà rispecchia le differenze nelle prospettive
culturali e giuridiche tra i vari modelli sociali europei. Ad esempio, i richiami delle Corti europee
alla dignità umana e alle misure "paternalistiche" sono stati criticati dai costituzionalisti inglesi.
Questi critici vedono tali interventi come paternalistici, ovvero basati su un approccio che limita la
libertà individuale in nome della dignità umana. Questa critica è spesso collegata all'approccio
filosofico di John Stuart Mill, che sosteneva che le interferenze nella sfera individuale dovrebbero
essere giustificate solo quando c'è un rischio di danno a terzi.
Per evidenziare l'importanza di questa differenza di prospettive, la delegazione britannica chiese
una serie di clausole specifiche per l'incorporazione della Carta dei diritti fondamentali nel Trattato
che istituisce una Costituzione per l'Europa. Queste clausole erano volte a precludere ogni
intervento creativo o ampliativo nella portata dei diritti sociali riconosciuti dai giudici europei.
Il saggio di Pinelli procede ora a ripercorrere i passaggi salienti della storia europea in cui i
dilemmi tra dignità e libertà hanno assunto differenti significati, spesso influenzati dalle circostanze
storiche. Un elemento tipico dell'Europa è la complessità di tali dilemmi, che rappresentano un
aspetto distintivo della tradizione europea.
Nelle discussioni politico-costituzionali e nelle assemblee costituenti del secondo dopoguerra,
prevalse l'idea che i diritti sociali fossero strettamente legati all'idea di prestazione pubblica e alla
redistribuzione del reddito in modo egualitario. Questa visione aveva la meglio rispetto a quella dei
pluralisti, che invece consideravano i diritti sociali come legati all'integrazione individuale nei
gruppi sociali o nelle formazioni sociali. Tuttavia, quest’ultima visione era più adatta in un contesto
di relativo benessere, mentre in un'epoca di povertà generalizzata, questa visione non poteva
attecchire in modo efficace.
Durante questo periodo post-guerra, la distinzione tra dignità e libertà era molto più sottolineata
di quanto lo sia oggi. Ad esempio, l'articolo 36 della Costituzione italiana fa riferimento a una
retribuzione "in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un'esistenza libera e
dignitosa". Questo riflette la stretta correlazione tra la dignità umana e la garanzia di un tenore di
vita sufficiente per una vita libera e dignitosa.
Nel Regno Unito, durante quel periodo, venne introdotto il Piano Beveridge, un importante
progetto di riforma sociale. Nel frattempo, T.H. Marshall stava scrivendo un saggio sulla
cittadinanza. A suo avviso, il nuovo modello universalistico proposto non si basava principalmente
sulla redistribuzione delle ricchezze, ma piuttosto sulla possibilità di trattare tutti i cittadini come
membri di una singola classe sociale. Questo approccio aveva l'obiettivo di ridurre l'incertezza e le
disparità tra i cittadini, eliminando gli effetti di segregazione provocati dal sistema precedente dei
servizi pubblici.
Marshall rappresenta la tendenza anglosassone a focalizzare l'attenzione sulle discriminazioni legate
allo status sociale come principale area di differenza da correggere ed eliminare. Questo modello
universalistico mirava a fornire un trattamento equo e uguale a tutti i cittadini, indipendentemente
dal loro background sociale o dallo status.
All'epoca del Trattato di Roma del 1957, l'aspirazione alla prosperità economica veniva vista
come una condizione per il riscatto della dignità umana. Tuttavia, i leader dei cosiddetti "Sei della
piccola Europa" adottarono strumenti diversi da quelli inizialmente previsti dalle Assemblee
Costituenti che avevano lavorato sulle costituzioni dei rispettivi paesi un decennio prima.
Durante questo periodo, si diede il via alla creazione di un mercato comune in Europa. Nel
frattempo, vennero attuate le disposizioni costituzionali relative ai diritti sociali. L'ascesa dello
Stato sociale rafforzò la dimensione nazionale del diritto costituzionale e della vita politica, con una
chiara separazione tra gli sforzi per promuovere la prosperità economica all'estero e quelli per
gestire la politica economica interna.
Questa fase di separazione tra le politiche comunitarie e le politiche sociali nazionali si concluse
definitivamente con il Trattato di Maastricht, che segnò la nascita della cittadinanza europea e
l'accentuazione dell'importanza di una dimensione sociale per l'Europa. A Maastricht, per la prima
volta, si rese necessario un raccordo tra ambiti istituzionali e funzionali che fino ad allora erano stati
distinti. L'apertura dei confini nazionali, insieme alla predeterminazione di vincoli di compatibilità
macroeconomica e al coordinamento politico, comportò un cambiamento nei tradizionali equilibri
sostenuti dalle misure di redistribuzione statale.

La mancata costruzione di uno "Stato sociale europeo" e la prevalenza delle politiche sociali
rivolte ai lavoratori e non ai cittadini possono essere spiegate da diverse ragioni:
1. Mancanza di apparati amministrativi propri dell'Unione: L'Unione Europea non dispone di
un apparato amministrativo centrale per attuare politiche sociali. L'attuazione delle normative
europee spetta alle amministrazioni degli Stati membri, seguendo un modello di federalismo
d'esecuzione simile a quello presente negli Stati federali europei.
2. Evitare un Moloch burocratico a Bruxelles: L'Unione Europea ha cercato di evitare la
creazione di un'enorme burocrazia centralizzata a Bruxelles. Questo approccio è stato adottato
per mantenere un certo grado di flessibilità e per evitare che l'Unione diventi eccessivamente
centralizzata.
3. Necessità di risorse finanziarie ingenti: La creazione di uno "Stato sociale europeo"
richiederebbe ingenti risorse finanziarie che l'Unione Europea attualmente non possiede. La
gestione di un sistema di welfare richiederebbe finanziamenti significativi, e gli Stati membri
spesso preferiscono mantenere il controllo sui propri budget sociali.
4. Eccezione per il settore agricolo: Un'eccezione a questa mancanza di uno "Stato sociale
europeo" è rappresentata dal settore agricolo, con la Politica Agricola Comune (PAC), che
costituisce un sistema di welfare specifico per gli agricoltori e rappresenta un'area in cui
l'Unione Europea ha un ruolo più attivo.
Quando i trattati europei e i documenti ufficiali si riferiscono alle "politiche sociali", si intendono
in realtà politiche più circoscritte e mirate a promuovere l'occupazione, migliorare le condizioni di
lavoro e combattere l'emarginazione. Queste politiche sono rivolte principalmente ai lavoratori, con
l'obiettivo di combattere le discriminazioni nel mercato del lavoro e di aumentare l'occupazione. In
questo senso, l'Unione Europea ha una visione più specifica delle politiche sociali rispetto alle
politiche redistributive tipiche degli Stati del benessere.
La sovrapposizione della normativa europea a quella degli Stati membri ha dato luogo a diverse
interpretazioni, e ciò ha portato a diverse tesi e orientamenti, tra cui:
1. Una tesi sostiene che le politiche antidiscriminatorie dell'Unione Europea mirano
principalmente a evitare distorsioni sul mercato del lavoro, il che potrebbe alterare le condizioni
di libera concorrenza.
2. L’orientamento sostenuto dalla Corte di Giustizia è che le disposizioni del Trattato CE sul pari
trattamento retributivo non abbiano solo l'obiettivo di garantire la concorrenza sul mercato, ma
anche di promuovere il progresso sociale come fine a sé stesso. Ciò significa che le politiche
sociali dell'Unione non si limitano a evitare distorsioni economiche, ma mirano anche al
miglioramento delle condizioni sociali.
Le dispute si riferiscono spesso a una differenza fondamentale tra due concetti di eguaglianza:
l'eguaglianza redistributiva, che si concentra sulla correzione delle disuguaglianze economiche, e
l'eguaglianza di status, che si concentra sul miglioramento delle condizioni di vita e sul
riconoscimento sociale. Questa dicotomia impedisce di cogliere appieno la possibile
complementarità tra le due accezioni di eguaglianza.
Secondo Pinelli, è necessario superare questa dicotomia e considerare una nozione più comprensiva
di inclusione sociale. Questo significa riconoscere che la correzione delle disparità di status
richiede anche misure redistributive, e viceversa, la correzione delle disuguaglianze economiche
può comportare cambiamenti nelle gerarchie di riconoscimento sociale. Pertanto, un approccio più
completo all'eguaglianza dovrebbe mirare all'inclusione sociale in tutte le sue dimensioni.
Pinelli mette in evidenza l'evoluzione dei principi di non discriminazione e di eguaglianza nel
contesto dell'Unione Europea
1. Il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità: Inizialmente, questo
principio era strettamente legato alla libertà di circolazione all'interno del mercato comune.
Tuttavia, nel corso del tempo, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha ampliato il suo
significato e riferito tale principio non solo alla circolazione dei beni e dei servizi, ma anche ai
diritti sociali dei cittadini europei. Ciò implica che la non discriminazione sulla base della
nazionalità è diventata una condizione per garantire i diritti sociali dei cittadini europei.
2. Il principio di eguaglianza: Questo principio è strettamente connesso alla pari dignità sociale.
La Corte costituzionale italiana, in casi di "discriminazione al rovescio" (cioè, la
discriminazione nei confronti dei cittadini italiani), ha fatto uso del principio comunitario di non
discriminazione basata sulla nazionalità. Questo significa che il principio di eguaglianza è stato
applicato per garantire che i cittadini italiani non subiscano discriminazioni in base alla loro
nazionalità all'interno dell'Unione Europea.
Pinelli affronta poi il dilemma tra equità ed efficienza del mercato, un assioma ricorrente nelle
politiche ed economie dei paesi europei. Questo dilemma afferma che le politiche economiche e
sociali devono trovare un equilibrio tra l'obiettivo di garantire l'equità sociale, cioè, ridurre le
diseguaglianze e garantire la protezione sociale, e l'obiettivo di promuovere l'efficienza del mercato,
cioè, favorire la competitività economica e la crescita.
Tuttavia, Pinelli suggerisce che non si dovrebbe considerare questo dilemma come una scelta
esclusiva tra equità o efficienza. Invece, dovremmo riconoscere che c'è spazio per una
complementarità tra questi due obiettivi. Ad esempio, i mercati del lavoro possono essere progettati
in modo da garantire non solo efficienza economica ma anche una certa equità e protezione contro i
rischi legati alla disoccupazione e ai bassi redditi. Questo approccio permette di bilanciare i due
obiettivi in modo più armonioso, riconoscendo che l'efficienza economica può essere migliorata
anche quando le politiche sociali sono ben progettate.
Inoltre, Pinelli sottolinea che queste differenze di vedute dovrebbero essere affrontate in un contesto
europeo più ampio, anziché basarsi su schemi comodi derivati dalle specifiche storie nazionali.
Questo implica una maggiore cooperazione e coordinamento tra gli Stati membri e una
responsabilità condivisa nell'affrontare le sfide sociali ed economiche a livello europeo, invece di
scaricare la colpa su Bruxelles o mantenere le politiche rigidamente ancorate alle specifiche
tradizioni nazionali.
Perché le istituzioni europee possano affrontare efficacemente i dilemmi e promuovere politiche che
bilancino equità ed efficienza, è fondamentale che agiscano in modo complementare e in costante
raccordo con i principi enunciati nella Carta dei diritti. Questo approccio diventa ancora più
rilevante dopo l'adozione della Carta di Nizza e della Strategia di Lisbona.
La Strategia di Lisbona, varata dal Consiglio Europeo, aveva l'obiettivo di promuovere la crescita
economica sostenibile con la creazione di nuovi e migliori posti di lavoro, insieme a una maggiore
coesione sociale. Questa strategia aveva come strumento istituzionale il "metodo aperto di
coordinamento," che comportava varie fasi:
1. La Commissione europea presentava linee guida e formulava raccomandazioni agli Stati
membri.
2. Gli Stati membri, con la partecipazione delle autonomie territoriali e delle parti sociali,
attuavano le linee guida della Commissione.
3. La Commissione aveva il compito di sviluppare le migliori pratiche e inviare annualmente una
relazione sui progressi al Consiglio europeo, che aveva un ruolo guida e di coordinamento per
garantire la coerenza globale ed efficacia nei progressi volti al raggiungimento degli obiettivi
strategici.
Questo approccio avrebbe dovuto assicurare una coerente implementazione delle politiche
economiche e sociali nei vari Stati membri, garantendo al contempo il rispetto dei principi enunciati
nella Carta dei diritti, tra cui l'equità sociale. L'obiettivo era creare una crescita economica basata
sulla conoscenza, competitiva e dinamica, insieme a una maggiore coesione sociale nell'Unione
europea.
La strategia di Lisbona, se confrontata con i tradizionali meccanismi di gestione ed erogazione
delle prestazioni pubbliche nei diritti sociali, rappresenta un cambiamento significativo
nell'approccio alle politiche sociali europee. Invece di un intervento pubblico diretto e pesante, la
strategia di Lisbona sposta l'attenzione verso soluzioni più decentralizzate e flessibili.
Alcune caratteristiche chiave di questa strategia includono:
1. La strategia di Lisbona si basa principalmente su strumenti di "soft law" anziché su obblighi
comunitari vincolanti. Questo significa che si tratta più di raccomandazioni e orientamenti
piuttosto che di norme vincolanti. Questo approccio consente maggiore flessibilità e adattabilità,
ma può anche mancare di efficacia senza sanzioni formali in caso di inadempienza.
2. La strategia di Lisbona applica il principio di sussidiarietà, che assegna compiti e funzioni
amministrative all'ente di livello superiore solo quando non possono essere svolte in modo
efficace dall'ente di livello inferiore. Questo principio mira a garantire che le decisioni siano
prese al livello più vicino possibile ai cittadini. Ad esempio, le politiche sociali possono essere
attuate a livello nazionale o locale, anziché attraverso direttive centralizzate dall'alto.
Questo significa un allontanamento dalla tradizione di regolazione dall'alto tipica della tradizione
giuridica romano-germanica. In passato, le politiche sociali dell'Unione erano spesso guidate da
direttive centrali. La strategia di Lisbona abbraccia un approccio più decentrato e flessibile.
Il Metodo Aperto di Coordinamento è una forma di cooperazione tra gli Stati membri che si basa
su obiettivi comuni, ma senza imposizioni rigide o automatiche di regolamenti. Questo rappresenta
un compromesso tra l'assimilazione completa e il mutuo riconoscimento automatico. Nel contesto
del mercato del lavoro, ad esempio, la strategia di Lisbona ha abbandonato la regola
dell'assimilazione rigida, che era precedente, e ha promosso una maggiore cooperazione tra gli Stati
membri per raggiungere obiettivi comuni.
La proclamazione della Carta dei diritti a Nizza rappresenta un momento significativo in cui la
dimensione sociale viene posta al centro della sfera pubblica europea. Questo rappresenta un
importante spostamento rispetto alla tradizionale distinzione tra diritti individuali di libertà e diritti
sociali che era stata tipica del costituzionalismo europeo del secondo dopoguerra. La Carta
abbraccia il principio di indivisibilità dei valori, che significa che non dovrebbe esserci una
gerarchia fissa tra i diritti individuali di libertà e i diritti sociali, ma piuttosto una loro composizione
dinamica e armoniosa.
In particolare, la Carta assorbe il patrimonio costituzionale europeo, che include elementi sia del
modello socialdemocratico che di quello liberale. Un esempio di questa sintesi è il concetto di
persona, che sottolinea l'importanza dei diritti individuali e sociali nell'ambito dei diritti
fondamentali. I redattori della Carta riconoscono che né il modello socialdemocratico né quello
liberale da soli sono sufficienti per affrontare le nuove sfide e le sfide emergenti legate ai diritti
fondamentali.
La considerazione che alcuni diritti sociali affermati nella Carta dei diritti siano visti come obiettivi
di politiche statali anziché come diritti immediatamente esigibili non rappresenta una debolezza del
diritto sovranazionale in formazione, ma potrebbe essere vista come una sua forza. Questo significa
che tali diritti sociali, come il diritto al collocamento gratuito o i diritti alla formazione
professionale e alla formazione permanente per i lavoratori disoccupati, possono essere interpretati
come obiettivi che richiedono l'azione degli Stati membri per essere attuati.
In altre parole, invece di rappresentare obblighi diretti dell'Unione Europea o della Corte di
Giustizia Europea, tali diritti potrebbero legittimare leggi nazionali che proteggono i soggetti deboli,
in particolare quelli colpiti dalla mancanza di lavoro o dalla disoccupazione. Questo potrebbe
consentire una maggiore flessibilità e adattabilità nell'attuazione di politiche sociali a livello
nazionale, tenendo conto delle specificità e delle esigenze di ciascuno Stato membro.
Tuttavia, è importante notare che questa ipotesi non equivale alla giustiziabilità diretta di tali diritti
sociali, come avviene per i diritti civili e politici. Invece, potrebbero essere oggetto di un'attuazione
procedurale attraverso leggi nazionali e politiche, piuttosto che essere direttamente soggetti a
giudizio davanti a una corte sovranazionale.
L'analisi di Pinelli suggerisce che la complementarità tra Nizza e Lisbona può essere valutata
principalmente in base all'efficacia dell'attuazione delle politiche sociali e alla garanzia dei diritti
sociali nell'Unione Europea. Finora, la strategia di Lisbona sembra incontrare ostacoli significativi e
difficoltà insormontabili.
Le ragioni del fallimento della strategia di Lisbona sono state attribuite a diverse cause, tra cui:
1. Fallimento legato allo strumento di coordinamento aperto in sé: Il metodo aperto di
coordinamento utilizzato nella strategia di Lisbona potrebbe non essere stato efficace
nell'indurre gli Stati membri a compiere cambiamenti significativi nelle loro politiche sociali ed
economiche. Questo strumento potrebbe non aver fornito sufficienti incentivi o meccanismi di
controllo per garantire un'attuazione efficace delle politiche.
2. Mancanza di incentivi per gli Stati membri a cambiare politica: Secondo Pinelli, una delle
ragioni del fallimento potrebbe essere la mancanza di incentivi sufficienti per gli Stati membri a
modificare le proprie politiche e adottare le riforme necessarie per raggiungere gli obiettivi della
strategia di Lisbona. In altre parole, gli Stati membri potrebbero non aver avuto abbastanza
motivazione per impegnarsi pienamente nell'attuazione delle politiche sociali.
Secondo l'analisi di Pinelli, la strategia di Lisbona rappresentava un tentativo di riorientare la
spesa pubblica verso settori come la formazione, la ricerca e l'innovazione tecnologica, che sono
importanti per la crescita economica, ma che potrebbero non tradursi immediatamente in guadagni
di consenso elettorale. In altre parole, investire in questi settori potrebbe essere essenziale per il
futuro, ma potrebbe non essere politicamente attraente a breve termine.
Gli Stati membri avrebbero dovuto compiere scelte che sacrificavano il consenso elettorale
immediato per favorire l'obiettivo di crescita economica e prosperità a lungo termine. Questo tipo di
decisioni potrebbe essere difficile da prendere, poiché gli Stati tendono a orientare la spesa pubblica
verso settori che promettono risultati più immediati e visibili, soprattutto in vista delle elezioni.
L'analisi di Pinelli suggerisce che questo potrebbe essere uno dei motivi per cui molti Stati membri
hanno incontrato difficoltà nell'attuazione della strategia di Lisbona. La tensione tra le esigenze a
breve termine e gli obiettivi a lungo termine può rendere complesso il processo decisionale e
l'attuazione di politiche che mirano a promuovere la crescita economica e la coesione sociale.
La Carta di Nizza (che è diventata parte del diritto comunitario con il Trattato di Lisbona del 2009)
ha avuto successo soprattutto nell'ambito giurisdizionale, con numerose sentenze emesse dalle corti
europee e dalle corti costituzionali nazionali. Queste decisioni giuridiche hanno contribuito a creare
un quadro più ampio per la tutela dei diritti sociali.
Tuttavia, secondo Pinelli, mancano ancora elementi di infrastruttura politica e istituzionale per
affrontare pienamente i diritti sociali di prestazione a livello europeo. Ciò significa che, al di là delle
decisioni giuridiche, manca una politica coordinata a livello europeo per affrontare le sfide sociali e
le disuguaglianze. La costruzione di una "politica europea dei diritti sociali" richiederebbe un
maggiore coinvolgimento delle istituzioni e un dialogo più ampio tra gli Stati membri.
L'ipotesi di una supplenza giudiziale, secondo Pinelli, è insostenibile per diverse ragioni. In primo
luogo, il modello europeo previsto dalla Carta dei Diritti Fondamentali non potrebbe sviluppare
appieno le proprie potenzialità attraverso un approccio giudiziale diretto. In secondo luogo, l'uso dei
diritti sociali come parametro di legittimità per gli atti di soft-law europei potrebbe incontrare limiti
nel regime giurisdizionale vigente per gli atti comunitari.
Pinelli suggerisce che l’istituzione dell’Agenzia europea per il monitoraggio dello stato di
attuazione dei diritti fondamentali all'interno dell'Unione europea dovrebbe operare in modo
indipendente rispetto agli Stati membri e sarebbe incaricata di raccogliere dati, valutare l'attuazione
dei diritti fondamentali e pubblicare rapporti periodici. Questa struttura istituzionale servirebbe da
collegamento tra la sfera politica e quella giurisdizionale, contribuendo a garantire il rispetto dei
diritti sociali a livello europeo.
Inoltre, Pinelli suggerisce che le parti sociali e i sindacati dovrebbero essere riorganizzati a livello
europeo e coinvolte in modo più significativo nei processi decisionali relativi alle politiche sociali
dell'Unione. Questo coinvolgimento consentirebbe una maggiore partecipazione delle parti
interessate e contribuirebbe alla definizione di politiche sociali più efficaci ed equilibrate.
Complessivamente, queste proposte mirano a migliorare l'implementazione dei diritti sociali
nell'Unione europea, superando le sfide legate al monitoraggio e all'attuazione di tali diritti a livello
sovranazionale attraverso cambiamenti istituzionali e nuovi meccanismi di controllo.

13. Saggio: “Il lavoro, la Costituzione e il “mostro” europeo


Il saggio di Pinelli inizia ponendosi una domanda fondamentale: i principi costituzionali relativi al
mercato e al lavoro sono incompatibili con quelli dell'Unione? Successivamente, il saggio si
sviluppa con alcune osservazioni sulle opinioni espresse dai relatori in merito alla giurisprudenza
europea riguardante il mercato e il lavoro, con particolare attenzione al dialogo tra le Corti di
Giustizia di Lussemburgo e Strasburgo. Infine, Pinelli si dedica a riflessioni sul cambiamento
nell'assetto delle relazioni industriali, prendendo come esempio l'Italia nel 2012, anno in cui ha
scritto il saggio.
Il punto di partenza di Pinelli si basa sugli interventi alla Costituente di Vittorio Foa e Luigi
Einaudi. Questi due eminenti esponenti si esprimevano in modo molto diverso rispetto alle idee
predominanti del loro tempo. Entrambi condividevano l'idea che continuare a concepire la
dicotomia tra lo Stato e il singolo imprenditore come una dicotomia assorbente significasse evitare
di affrontare i grandi problemi emersi con il corporativismo fascista e le nuove forme di intervento
pubblico nell'economia a partire dagli anni Trenta.
Tuttavia, Foa ed Einaudi avevano approcci differenti nella loro visione di come affrontare questa
sfida:
 Einaudi sosteneva esplicitamente il principio della concorrenza come un baluardo contro i
monopoli, che potessero essere sia privati che pubblici.
 Foa, d'altra parte, metteva l'accento sul controllo democratico del potere economico dello Stato.
Metteva in guardia la sinistra dal considerare necessariamente una vittoria il dirigismo e le
nazionalizzazioni, sottolineando l'importanza di un adeguato controllo democratico su tali
iniziative.
Nel redigere i principi del lavoro e sulle libertà, i grandi partiti andarono in tutt’altra direzione.
L’idea di una relazione intersoggettiva dei rapporti economici non era al centro delle loro
preoccupazioni. Al contrario, dominava piuttosto la contrapposizione tra lo Stato e l'individuo
imprenditore, dotato di "animal spirits," ovvero un'energia intraprendente e imprenditoriale, o tra
l'imprenditore e i lavoratori subordinati, riflettendo il conflitto di classe.
Eppure, nella Costituzione italiana, erano rimaste tracce preziose che consentivano interpretazioni
diverse da quelle originariamente intese dai Costituenti:
1. La legge 287 del 1990 sull'Antitrust, esplicitamente qualificata come "attuazione dell'art. 41
Costituzione," è preceduta dalla giurisprudenza costituzionale, che aveva già riconosciuto in
quell'articolo il principio di libertà di concorrenza e aveva auspicato una legge di attuazione in
merito.
2. L'articolo 4 della Costituzione, dopo aver riconosciuto il diritto al lavoro, indica alla
Repubblica il compito di promuovere le condizioni per renderlo effettivo. Questo inciso, frutto
di un emendamento di Vittorio Foa, presuppone l'esistenza di un mercato del lavoro e richiede
che la Repubblica intervenga per correggere le distorsioni che potrebbero verificarsi in quel
mercato a svantaggio dei disoccupati. La Costituzione non ignora il problema del mercato del
lavoro, sebbene non si proponga di risolverlo, ma piuttosto impone l'obbligo di adottare
politiche attive del lavoro in ottemperanza all'articolo 3 della Costituzione, che richiede la
rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale.
All’obbligo costituzionale di politiche attive del lavoro fanno riscontro, in riferimento a rapporti di
lavoro già istaurati, una serie di enunciati volti alla tutela del contraente debole. La tutela del
contrente debole è ciò che ha contribuito alla trasformazione del diritto del lavoro in quanto
disciplina scientifica ed è il faro che illumina i principi costituzionali, indipendentemente dalla
tendenza di molti giuslavoristi e costituzionalisti a guardare al rapporto di lavoro subordinato come
l’unico rapporto di lavoro costituzionalmente tutelato. Il fondamentale collegamento tra l’art.1
Cost. e l’art.35 Cost. dove la tutela riguarda “tutte le forme ed applicazioni” è stato così
notevolmente sacrificato (per ragioni storiche e per inerzia secondo Pinelli). La lettura degli
enunciati partiva da altre basi: collegamento tra l’art.3 Cost. ed art.2 Cost. in virtù del quale la
rimozione degli ostacoli di ordine economico-sociale avrebbe dato vita ad un modello di società tale
che ostacoli simili non potessero più riformarsi (interpretazione storicamente comprensibile che
però non trova riscontro nei principi costituzionali).
Tutto ciò che è stato esposto finora dimostra perché, secondo Pinelli, non esiste un contrasto
insormontabile tra i principi costituzionali italiani e quelli del diritto europeo, specialmente se si
tiene conto dell'evoluzione dinamica del contesto legale. Pinelli sostiene che l'idea di un "mostro"
europeo sarebbe fuorviante, poiché ignorerebbe i cambiamenti radicali nella giurisprudenza della
Corte di giustizia europea riguardo alla libertà di circolazione. Questi cambiamenti comprendono
il passaggio dalla considerazione del lavoratore come merce alla giurisprudenza sulla cittadinanza
europea, che ha radici anteriori al Trattato di Maastricht. Pertanto, queste evoluzioni smentiscono
l'idea di un "mostro" europeo.
Pinelli non crede che la Corte di Giustizia europea sia ancorata al liberalismo o che cerchi di
sopprimere i diritti dei lavoratori. Non ritiene che si debba guardare alla Corte di Strasburgo come
unica fonte di protezione dei diritti umani. La Corte di Strasburgo ha una tradizionale missione, e le
rare volte in cui è stata citata in contesti relativi al diritto del lavoro e alla contrattazione collettiva,
come nel caso della sentenza Demir, ha trattato questioni diverse. Nonostante ciò, Pinelli sottolinea
che non si può escludere la possibilità di futuri sviluppi, ma finora la Corte di Strasburgo non ha
sfidato la Corte di Giustizia europea in materia di diritto del lavoro e contrattazione collettiva.
In merito al mutamento delle relazioni industriali in corso in Italia, secondo Pinelli, il pluralismo
tradizionalmente caratteristico del diritto del lavoro italiano sta vivendo momenti difficili. La
decisione di conferire efficacia erga omnes alla contrattazione collettiva aziendale, come è stato
fatto per l'accordo stipulato da Fiat, solleva dubbi di costituzionalità significativi. Tuttavia, questo
cambia anche il panorama delle relazioni industriali in Italia in modo profondo. Il capitalismo
italiano sta attraversando un periodo di trasformazione, che Pinelli ritiene avvenga principalmente a
causa di fattori interni e non tanto a causa dell'Unione europea o della globalizzazione dei mercati,
sebbene questi possano rendere più evidenti tali trasformazioni.
In una Repubblica in cui il diritto del lavoro non è stato effettivamente garantito, come richiesto
dalla Costituzione italiana, Pinelli si preoccupa più di ciò che sta accadendo in Italia che del
cosiddetto "mostro europeo".

14. Saggio: “Le misure di contrasto alla crisi dell’eurozona e il loro impatto sul modello sociale
europeo”
Pinelli inizia la sua analisi ponendo una domanda fondamentale: perché l'aspetto sociale dell'Europa
è diventato più sfumato negli anni? Egli ritiene che una delle cause principali di ciò sia la crisi
finanziaria globale. Tuttavia, prima di esplorare questa affermazione, è importante definire cosa si
intenda per "finanza globale". Questo termine comprende una serie di istituzioni finanziarie
internazionali, come banche commerciali globali e vari tipi di fondi, che gestiscono enormi volumi
di denaro provenienti da imprese multinazionali e banche ordinarie. Curiosamente, nonostante la
crisi finanziaria globale del 2007-2008, la finanza globale sembra essersi ripresa, ma i suoi costi
stanno ricadendo sugli europei.
La crisi dell'eurozona, secondo Pinelli, è il risultato di una mancanza di risposta politica da parte
dell'Europa. Questo, a sua volta, è legato a gravi problemi istituzionali all'interno dell'Unione
Europea (UE). Quindi, per capire come il volto sociale dell'UE abbia subito un cambiamento così
profondo, è essenziale esaminare questi problemi istituzionali. È innegabile che il diritto europeo
aveva sviluppato un proprio modello sociale, ma la crisi economica si è abbattuta su questo modello
con una forza devastante. La domanda chiave che Pinelli cerca di affrontare è come questa crisi sia
potuta accadere senza una resistenza efficace e senza reazioni adeguate da parte delle istituzioni
europee e degli Stati membri.
Pinelli osserva che spesso si tende a sovrastimare il ruolo della Commissione Europea,
assimilandola a un governo nazionale, mentre è nota la perdita del suo peso nel processo
decisionale. Inoltre, esiste una differenza significativa sia dal punto di vista politico che finanziario
tra gli Stati dell'eurozona. Questa disuguaglianza rende difficile la coesistenza all'interno
dell'Europa dopo la crisi.
Nel suo saggio, Pinelli si concentra su due aspetti principali. Innanzitutto, esplora le misure di
contrasto adottate durante la crisi che hanno colpito il modello sociale europeo. In secondo luogo, si
chiede se le ragioni dietro questo impatto siano legate a una fragilità intrinseca del modello sociale
europeo.
Pinelli inizia la sua analisi con un accenno alla distribuzione di poteri sulla politica economica tra
gli Stati Membri e l'Unione Europea. Questa distribuzione di poteri è regolamentata principalmente
dagli articoli del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE).
 In primo luogo, si fa riferimento all'Articolo 2 del TFUE, che elenca le competenze
dell'Unione, distinguendo tra competenze esclusive e competenze concorrenti con gli Stati
membri. Si afferma che "Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche ed
occupazionali secondo le modalità previste dal seguente trattato, la definizione delle quali è
competenza dell’Unione."
 Successivamente, l'Articolo 5 del TFUE, che è collegato all'Articolo 2, afferma che "Gli Stati
membri coordinano le loro politiche economiche nell’ambito dell’Unione. A tal fine il
Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche. Agli
Stati membri la cui moneta è l’euro si applicano disposizioni specifiche."
 Inoltre, Pinelli cita l'Articolo 119 del TFUE, che stabilisce che "ai fini enunciati dall’Articolo 3
del TUE l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni previste dai
trattati, l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle
politiche economiche degli Stati Membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi
comuni, condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera
concorrenza. Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati,
quest’azione comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di
una politica monetaria e di una politica di cambio uniche, che hanno l’obiettivo principale di
sostenere le politiche economiche generali dell’unione conformemente al principio di
un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza."
Pinelli sottolinea che questo sistema è stato inizialmente delineato a Maastricht e successivamente
arricchito dal "Patto di stabilità e crescita (Six Pack)" nel 1996, che impone agli Stati membri
l'obbligo di rispettare un limite del 3% nel rapporto tra deficit e PIL.
A Lisbona, è stato introdotto un articolo che riguarda gli Stati membri che utilizzano l'euro come
loro moneta. Questo articolo stabilisce che il Consiglio dell'Unione Europea adotta misure volte a
"rafforzare" il coordinamento e la sorveglianza delle politiche di bilancio, nonché a elaborare
orientamenti di politica economica. È importante notare che queste misure devono essere coerenti
con quelle adottate per l'intera Unione Europea e devono essere sottoposte a sorveglianza.
Mentre per tutti gli Stati dell’Unione sono possibili solo misure di coordinamento e indirizzi di
massima, per quanto riguarda gli Stati che utilizzano l'euro, vengono previste misure specifiche di
coordinamento più robusto e orientamenti di politica economica vincolanti. Questo significa che per
questi Stati ci sono regole più rigide e impegnative da seguire per garantire una maggiore coesione
economica.
Infine, il Consiglio si impegna a garantire un coordinamento più stretto delle politiche economiche
e una convergenza economica duratura tra gli Stati membri. Qui emerge una distinzione tra due tipi
di programmi: i "programmi di stabilità" per gli Stati dell'eurozona e i "programmi di
convergenza" per gli Stati che non utilizzano l'euro. Questa distinzione riflette le diverse esigenze
e situazioni degli Stati membri.
Tuttavia, Pinelli identifica alcune limitazioni in questo sistema. In particolare, nota che c'è una
sproporzione tra la politica economica comune e gli strumenti disponibili per attuarla. Inoltre, la
politica monetaria è governata da meccanismi automatizzati che mancano della flessibilità
necessaria per affrontare situazioni macroeconomiche specifiche. Infine, il coordinamento delle
politiche economiche nazionali non sembra essere sufficiente a prevenire comportamenti
opportunistici da parte degli Stati membri, noti come "free rider," che potrebbero sfruttare gli sforzi
degli altri senza contribuire in modo equo alla stabilità economica dell'Unione Europea.
La crisi dell'eurozona ha comportato una serie di misure adottate dalle istituzioni europee che
hanno ulteriormente complicato l'architettura prevista dal Trattato di Lisbona. Queste misure
hanno creato una marcata differenziazione tra le procedure destinate agli Stati dell'eurozona e quelle
applicabili a tutti gli Stati membri dell'Unione Europea. Un cambiamento significativo è avvenuto
attraverso l'articolo 136 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), in cui il
Consiglio europeo ha aggiunto un paragrafo che consente agli Stati membri che utilizzano l'euro di
istituire un meccanismo di stabilità, ove indispensabile, per garantire la stabilità dell'intera zona
euro. Tuttavia, la concessione di assistenza finanziaria attraverso questo meccanismo è soggetta a
condizioni rigorose. Questa decisione è stata presa in risposta a dubbi sulla legalità di alcune misure
intergovernative, volte al sostegno reciproco, adottate tra gli Stati dell'eurozona,.
È importante notare che l'adozione di alcune di queste misure è avvenuta attraverso il diritto
comunitario, compresi regolamenti e direttive che hanno modificato il Patto di Stabilità
(conosciuti come Six Pack). Altri strumenti sono stati adottati attraverso il diritto internazionale e
includono l'istituzione di fondi come il Mesf (Fondo europeo di stabilità finanziaria), il Mes
(Meccanismo europeo di stabilità), il Trattato di stabilità (noto come Fiscal Compact) e il Patto
Euro Plus.
L'adozione di questi strumenti solleva due questioni principali: in primo luogo, se siano efficaci nel
raggiungere l'obiettivo di garantire la stabilità dell'Unione Economica e Monetaria (Uem); in
secondo luogo, se siano conformi al diritto primario europeo e ai diritti costituzionali degli Stati
membri. Pinelli sostiene che entrambe le risposte sono negative e che vi siano vizi formali e
giuridici comuni a queste misure. In altre parole, secondo Pinelli, queste misure non solo potrebbero
non essere efficaci nel raggiungere i loro obiettivi, ma potrebbero anche essere problematiche dal
punto di vista legale e costituzionale.
 In primo luogo, evidenzia che questi strumenti potrebbero non essere adatti a raggiungere
l'obiettivo prefissato. Gli accordi internazionali non sono stati ratificati da tutti gli Stati membri,
e ciò potrebbe portare a situazioni in cui alcuni Stati dell'eurozona li adottino, mentre altri no.
Inoltre, gli Stati non appartenenti all'eurozona potrebbero decidere di adottarli, creando una
diversificazione nella loro applicazione. Ad esempio, il Fiscal Compact ha effetti variabili che
hanno portato l'Unione Europea a differenziare i suoi Stati membri in 5/6 cerchi, indicando
livelli diversi di adesione alle regole.
 Inoltre, il Fiscal Compact solleva interrogativi sul rispetto del principio di legalità, poiché è
stato adottato bypassando il Trattato di Lisbona, in circostanze che non consentivano di
soddisfare i requisiti per la revisione dei trattati.
 Pinelli critica anche la decisione di intensificare la sorveglianza delle politiche economiche
nazionali all'interno dell'Uem come risposta alle sfide della speculazione finanziaria, e di
subordinare il sostegno finanziario agli Stati in difficoltà al rispetto delle regole concordate in
comune.
Questa filosofia basata sulle regole è chiaramente di impronta tedesca, secondo Pinelli, ed è
evidente negli atti del Six Pack. Egli ritiene che l'esperienza accumulata e gli errori commessi nei
primi decenni dell'Unione Economica e Monetaria abbiano portato all'idea di una governance
economica rafforzata, che dovrebbe basarsi su una maggiore responsabilità nazionale nella
definizione delle regole e delle politiche concordate, nonché su un quadro più solido a livello
dell'Unione per la sorveglianza delle politiche economiche nazionali.
Questo approccio si riflette anche nel paragrafo aggiuntivo dell'articolo 136 del TFUE e
soprattutto nel Fiscal Compact, dove, oltre al primato delle regole come il pareggio di bilancio,
sono previste procedure di sorveglianza più rigorose per garantire il rispetto di tali regole. Inoltre, si
prevede un vertice di capi di governo dei paesi dell'euro, le cui funzioni e struttura corrispondono a
quelle del Consiglio Europeo come previsto dal Trattato di Lisbona.
L'apparente indifferenza dei mercati finanziari di fronte ad annunci di nuove misure economiche
porta a riflettere sulla capacità degli strumenti attualmente previsti di raggiungere l'obiettivo
principale, ovvero la stabilità dell'euro.
Nel contesto del Fiscal Compact, emerge una discussione sulla legittimità delle previsioni che
richiedono che le regole di bilancio siano incorporate nei diritti nazionali dei paesi firmatari come
disposizioni vincolanti e permanenti. Questa domanda solleva il dubbio se tali previsioni siano
davvero necessarie.
In questo contesto appare equivoco l'uso dell'espressione "pareggio di bilancio", in quanto
l'articolo 3 del Fiscal Compact, là dove richiama il Patto di stabilità e crescita, prevede che gli
obiettivi di bilancio a medio termine possono divergere dal requisito di un saldo prossimo al
pareggio, offrendo al tempo stesso un margine di sicurezza rispetto al rapporto tra disavanzo e pil
del 3%. Questo solleva interrogativi sul motivo per cui dovrebbe essere introdotto nei sistemi
costituzionali nazionali.
Inoltre, il Fiscal Compact invita gli Stati membri a rivedere le loro Costituzioni in linea con queste
nuove regole, ma sembra ripetere concetti già presenti nel diritto dell'Unione Europea.
L'aspetto innovativo sembra essere l'intenzione di rendere giuridicamente impossibili i deficit
pubblici eccessivi attraverso disposizioni costituzionali. Tuttavia, questo solleva preoccupazioni
riguardo al rispetto delle identità nazionali e delle strutture fondamentali degli Stati membri.
Sorgono dubbi anche sulla compatibilità di alcune disposizioni del Fiscal Compact con il diritto
dell'Unione Europea, in quanto sembrano complicare ulteriormente il coordinamento delle politiche
economiche nazionali e dei rapporti tra l'Unione Europea e l'Unione Economica e Monetaria (Uem).
La tesi avanzata è che tali atti (Six Pack e Fiscal Compact) abbiano effettivamente rafforzato il
ruolo della Commissione europea nell'Unione Europea. Tuttavia, secondo l'opinione espressa da
Pinelli, questo rafforzamento è solo parziale. È ampiamente accettato che la Commissione abbia
principalmente svolto un ruolo di supporto, senza entrare in un campo decisionale che è
strettamente sotto il controllo del Consiglio europeo e dei Capi di governo degli Stati membri.
Un punto importante da considerare è che il peso effettivo della Commissione nell'equilibrio
istituzionale dell'Unione Europea dipende dal modo in cui essa esercita il potere di iniziativa che le
è conferito dai trattati. Questo potere di iniziativa può essere utilizzato in modo sostanziale, ossia
per proporre politiche e decisioni autonomamente, o può essere limitato a registrare la convergenza
di scelte già fatte dai governi nazionali. La pratica, secondo l'appunto, sembra indicare che spesso la
Commissione si trova nella seconda situazione, agendo principalmente come un registratore di
decisioni prese a livello nazionale.
Inoltre, durante periodi di crisi, ciò che desta preoccupazione non è tanto una concentrazione di
potere nella Commissione quanto l'assenza di un governo efficace del Consiglio europeo. In altre
parole, la mancanza di una guida chiara e coerente da parte del Consiglio europeo è considerata più
allarmante durante le crisi rispetto al problema di un eccessivo potere nelle sue mani. Questa
situazione solleva un dilemma tra "governance" (gestione o conduzione) e "governo" effettivo
dell'Unione Europea, indicando che la sfida sta nel trovare un equilibrio tra queste due necessità.
Storicamente, l’Unione è stata caratterizzata da una disparità tra il sostegno popolare relativamente
basso e la capacità di ottenere risultati positivi a livello comunitario. In altre parole, l'UE sembrava
avere una base di supporto limitata tra i cittadini, ma era comunque in grado di raggiungere obiettivi
concreti.
La crisi ha poi minato la fiducia nell'UE riguardo alla sua capacità di governo efficace e al
conseguimento di risultati positivi. La crisi ha messo in discussione la capacità dell'Unione di
affrontare situazioni difficili in modo adeguato.
In questo contesto, viene menzionato un rapporto del 2012, scritto dal presidente della BCE
insieme ai presidenti della Commissione dell'Eurogruppo e della BCE. Questo rapporto suggerisce
una nuova prospettiva rispetto alla "filosofia delle regole" e propone una "fiscal union", ovvero una
maggiore condivisione finanziaria e coordinamento economico tra gli Stati membri.
Il rapporto identifica tre fasi per raggiungere questa "fiscal union":
1. Imporre limiti di spesa e di indebitamento a livello nazionale, con l'obbligo di giustificare
eventuali superamenti per garantire l'equità sociale.
2. Condividere la gestione del debito, con decisioni di bilancio condivise e l'uso di vari strumenti
finanziari comuni.
3. Creare una fiscal union completa, con l'istituzione di un ministero del Tesoro comune e il
coordinamento con i bilanci nazionali.
Il rapporto sottolinea l'importanza di coinvolgere i cittadini e di ottenere il loro consenso sulle
decisioni di bilancio a lungo termine che influenzano le loro vite. Questo rappresenta un
cambiamento significativo nel linguaggio e nell'approccio, riconoscendo le limitazioni delle
decisioni prese in passato.
Per capire appieno gli effetti delle misure di contrasto alla crisi sulla solidità del modello sociale
europeo, è importante considerare molteplici variabili. In primo luogo, va sottolineato che queste
misure tendono a erodere i principi fondamentali che costituiscono il cuore del modello sociale
europeo.
Un aspetto importante da considerare è che l'attuazione di queste misure comporta una sorta di
sorveglianza paternalistica da parte degli Stati finanziariamente virtuosi (che possono essere
considerati "maturi") su quelli che invece stanno affrontando difficoltà economiche. Questa
supervisione implica una perdita del principio di solidarietà tra gli Stati membri dell'Unione
Europea, un principio che è sancito nei Trattati europei e che dovrebbe svolgere un ruolo integrativo
nel modello sociale europeo.
Dal punto di vista giuridico, queste misure hanno un impatto significativo sugli elementi
fondamentali del modello sociale europeo, compresa la tutela dei diritti fondamentali. Ad esempio,
il Fiscal Compact, con le sue regole sulla gestione dei bilanci nazionali, non distingue tra spese di
investimento e spese correnti. Ciò significa che le misure tendono a promuovere una disciplina
finanziaria più favorevole alle spese di investimento rispetto a quelle correnti. Questo può avere
conseguenze sul finanziamento dei servizi pubblici, delle politiche per l'occupazione e della crescita
economica.
Il MES, o Meccanismo Europeo di Stabilità, è visto come una sorta di versione regionale del Fondo
Monetario Internazionale (FMI). È un'istituzione che opera su un piano intergovernativo, con un
consiglio di governatori composto dai ministri dell'economia dei paesi dell'eurozona. Questa
struttura decisionale porta a un aumento della complessità e a una diminuzione della trasparenza
nell'ambito istituzionale dell'Unione Europea.
Un emendamento proposto dal Parlamento europeo, ma non accettato dal Consiglio europeo,
cercava di stabilire una "rigorosa condizionalità" per il MES, in linea con gli obiettivi e i principi
sanciti nei trattati dell'Unione Europea. Questa "rigorosa condizionalità" avrebbe implicato che il
MES fosse strettamente legato al diritto primario dell'Unione Europea, ma in realtà, il MES è stato
istituito attraverso un trattato internazionale che è esterno al diritto comunitario.
La questione chiave è se il MES debba essere considerato conforme ai principi giuridici dell'Unione
Europea, in particolare alla Carta dei Diritti dell'Unione Europea. Questa questione è stata
affrontata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nel 2012, nel caso Pringle contro l'Irlanda.
La Corte ha stabilito che le disposizioni della Carta dei Diritti si applicano agli Stati membri solo
quando essi stanno attuando il diritto dell'Unione Europea. La Carta non estende la sua applicazione
al di fuori delle competenze dell'Unione, né conferisce nuove competenze o compiti all'Unione, né
modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati.
Inoltre, la Corte ha specificato che gli Stati membri non stanno attuando il diritto dell'Unione
quando istituiscono un meccanismo di stabilità come il MES, poiché i trattati istitutivi dell'Unione
non conferiscono competenze specifiche all'Unione per questo scopo.
La risposta desumibile dal caso Pringle c. Irlanda è che i requisiti di stretta condizionalità sfuggono
all’osservanza dei principi del diritto primario dell’Unione, compresa la carta dei diritti. Questo
solleva preoccupazioni riguardo al modello sociale europeo, poiché le politiche economiche e
sociali vengono subordinate all'obiettivo di ridurre il debito, e ciò comporta una differenziazione
implicita tra gli Stati membri che potrebbe avere conseguenze potenzialmente dannose per l'Unione,
mettendo in pericolo il modello sociale europeo.
Fino a questo momento sono state indagate alcune ragioni istituzionali che hanno contribuito a un
vuoto politico nell'Unione Europea, per dimostrare come l'attacco speculativo nell'eurozona abbia
agito come una sorta di catalizzatore piuttosto che come la causa principale di una crisi più ampia,
che coinvolge non solo l'Unione Economica e Monetaria ma anche l'Unione nel suo complesso.
Queste ragioni hanno rivelato una fragilità specifica nel modello sociale europeo.
Il primo segnale di questa fragilità emerge nel settore Strategico dei Servizi Pubblici. La Direttiva
Servizi n. 2006/123 CE ha concesso agli Stati membri un'ampia discrezionalità nella definizione
degli obiettivi di politica sociale e nei livelli di tutela degli interessi generali. Inoltre, la direttiva ha
escluso i servizi pubblici economici dal campo di applicazione del principio di libera prestazione
dei servizi, contrariamente a un orientamento della Corte di Giustizia Europea, che aveva cercato di
estendere il principio a un numero crescente di attività di interesse pubblico. Questa direttiva è stata
criticata come una "occasione mancata" per affrontare il bilanciamento tra interventi volti a
garantire l'integrazione economica e quelli finalizzati a evitare il dumping sociale.
Un secondo sintomo della fragilità del modello sociale europeo risale alla Strategia di Lisbona del
2000. La Strategia di Lisbona, basata sul Metodo Aperto di Coordinamento (MAC), ha utilizzato
processi anziché atti formali e si è basata su leggi flessibili (soft law) piuttosto che su leggi rigide
(hard law). Tuttavia, i sostenitori di questa strategia hanno sottovalutato la necessità che gli Stati
membri attuassero riforme strutturali nei sistemi di welfare e spostassero risorse dalle politiche
sociali tradizionali agli investimenti nell'economia della conoscenza. Questo ha sollevato
preoccupazioni sul consenso elettorale dei governi. La strategia ha cercato di avvicinare l'Unione
Europea ai cittadini, ma in realtà ha spesso adottato paradigmi elitari e scientifici che sono stati
percepiti come distanti dai cittadini. In questo secondo caso, quindi, si finisce per sottovalutare la
dimensione intergovernativa dell’assetto istituzionale europeo.
Un terzo sintomo può ravvisarsi nella perdurante assenza di rappresentanza di interessi efficace. In
questi anni, c’è stata una resistenza significativa dei sindacati con legami di decisione politica a
livello nazionale a partecipare alle dinamiche decisionali a livello europeo. Anche dopo la sentenza
della Corte europea nel caso "Viking", che riguardava il diritto di sciopero, questa riluttanza non è
diminuita.
La Commissione Europea ha presentato una proposta di regolamento che affrontava la questione del
diritto di promuovere azioni collettive, compreso il diritto o la libertà di sciopero e sul
riconoscimento che le parti sociali a livello europeo possono concludere accordi a livello di Unione
e definire orientamenti relativi a procedure e modalità di mediazione, conciliazione. Tuttavia, più di
un terzo dei parlamentari nazionali ha attivato la procedura di allerta (early warning), pertanto la
Corte ritirò la proposta di creando problemi giuridici e tensioni sociali.
In conclusione, durante la crisi nell'area dell'euro, il modello sociale europeo è diventato
vulnerabile, come se fosse il punto debole di un sistema più ampio. Inoltre, il rapporto tra il
modello sociale europeo e la sfera politica europea è stato caratterizzato da incertezza e
ambiguità, oscillando tra due estremi:
 La pretesa di autosufficienza: il modello sociale europeo ha cercato di gestire le proprie
sfide e questioni in modo indipendente, come se potesse affrontare le sfide da solo senza
l'intervento della politica europea.
 La vana tendenza a cercare nelle politiche sociali un autentico indirizzo politico.

15. Saggio: “I diritti sociali nello spazio europeo (sistemi di valori a confronto)”
In questo saggio, Pinelli esamina la relazione tra le dinamiche dei mercati finanziari globali, i
cambiamenti nella natura del capitalismo e la redistribuzione del potere nelle relazioni tra
imprenditori e lavoratori. Inoltre, focalizza la sua attenzione sul confronto tra il diritto
costituzionale e il diritto dell'Unione Europea, concentrandosi in particolare sul diritto di sciopero e
sulle tendenze divergenti tra i due sistemi giuridici, entrambi mostrando le proprie fragilità.
Il saggio parte dall'articolo 117 del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, che
stabilisce l'obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nei paesi membri,
promuovendo la loro parificazione nel progresso. Questo dovrebbe avvenire attraverso il
funzionamento del mercato comune e l'armonizzazione dei sistemi sociali, nonché attraverso le
procedure previste dal trattato e l'avvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative tra gli Stati membri.
Inoltre, l'articolo 151 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) stabilisce
che l'Unione Europea e gli Stati membri hanno come obiettivi la promozione dell'occupazione, il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una protezione sociale adeguata, il dialogo
sociale, lo sviluppo delle risorse umane per garantire un alto livello occupazionale e la lotta contro
l'emarginazione. Questi obiettivi dovrebbero essere realizzati considerando la diversità delle prassi
nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e la necessità di mantenere la competitività
economica dell'Unione attraverso il funzionamento del mercato interno e l'armonizzazione dei
sistemi sociali.
Pinelli sembra suggerire che nonostante questi obiettivi enunciati nei trattati, le tendenze nei sistemi
giuridici nazionali e dell'Unione Europea relativi al diritto di sciopero siano andate in direzioni
opposte, evidenziando le fragilità di entrambi i sistemi.
Il passaggio da Roma a Lisbona ha introdotto una previsione importante nei trattati dell'Unione
Europea: "L'Unione e gli Stati membri ritengono che dal funzionamento del mercato interno, dalle
procedure previste dai trattati e dal ravvicinamento delle disposizioni nazionali risulterà una
evoluzione. Inizialmente, nel Trattato di Roma, questa evoluzione si limitava al "miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro", consentendo la "parificazione nel progresso". Nel Trattato di
Lisbona, questi obiettivi sono stati ampliati per includere anche "la promozione dell'occupazione,
una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane per garantire un
alto livello occupazionale e duraturo e la lotta contro l'emarginazione".
Questi obiettivi rappresentano un comune denominatore per l'Unione Europea e i suoi Stati
membri, nonostante la genericità dei mezzi previsti per raggiungerli. Inizialmente, potrebbe
sembrare una contraddizione tra l'aspetto prescrittivo degli obiettivi, che indicano cosa deve essere
fatto, e l'aspetto predittivo posto dalla previsione, che prevede che il funzionamento del mercato
interno e altri elementi porteranno a un'evoluzione corrispondente al raggiungimento di quegli
obiettivi.
La domanda di Pinelli riguardo il perché all’interno di un testo normativo si trovi una predizione è
valida e può essere interpretata in diversi modi.
Per rispondere a questo interrogativo, Pinelli si sofferma sui lavori preparatori del Trattato di
Roma e su come diverse correnti di pensiero influenzarono la sua creazione.
L'articolo 117 del Trattato della Comunità Economica Europea (Trattato di Roma)
rappresenta, secondo Pinelli, una versione della teoria neoclassica del commercio internazionale che
era predominante all'epoca. Questa teoria suggeriva che in un mercato comune in cui non ci fosse
differenza nei salari tra i diversi stati membri, tali salari non sarebbero stati un elemento di
competizione. Di conseguenza, la gestione e la retribuzione dei lavoratori sarebbero state di
competenza esclusiva dei singoli stati membri, sia dal punto di vista giuridico che effettivo.
L'idea del "social dumping" (ovvero la pratica di sfruttare condizioni di lavoro e retribuzione più
basse in un paese rispetto ad altri per ottenere un vantaggio competitivo) rappresentava una
preoccupazione chiave all'epoca. La Francia, ad esempio, temeva che l'apertura del mercato ai paesi
come l'Olanda e l'Italia, dove i salari erano significativamente più bassi rispetto alla Francia,
avrebbe danneggiato le imprese francesi. Questo timore ha portato alla richiesta da parte della
Francia di includere nel trattato il principio del "pari trattamento retributivo" tra uomini e donne,
che era un modo per cercare di evitare il "social dumping".
Dato il timore della Francia di subire un impatto negativo sull'economia a causa del differenziale
salariale tra i paesi membri, si è raggiunto un compromesso tra Francia e Germania. Questo
compromesso ha portato a disposizioni relativamente limitate nel Trattato di Roma riguardanti il
lavoro. In altre parole, il trattato non ha affrontato in modo dettagliato la regolamentazione del
lavoro, ma ha introdotto il principio del "pari trattamento retributivo" come un passo iniziale verso
l'armonizzazione delle condizioni di lavoro tra i paesi membri.
Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, un'antica previsione teorica presente fin dai tempi
del Trattato di Roma è diventata ancora più significativa. Questa previsione riguarda i diritti
fondamentali dei cittadini europei e la loro interazione con le competenze dell'Unione Europea in
materia di lavoro.
In particolare, si sottolinea che nonostante l'accento crescente posto sui diritti dei cittadini europei
a Lisbona, le competenze dell'Unione Europea in materia di lavoro non hanno necessariamente
progredito allo stesso ritmo. Si fa notare che il Trattato di Lisbona richiede esplicitamente di
tenere in considerazione le diverse pratiche nazionali, soprattutto per quanto riguarda le relazioni
contrattuali. Questo implica che l'Unione Europea deve considerare le differenze nei modi in cui i
diversi paesi trattano le questioni legate al lavoro.
Pinelli, suggerisce un'interpretazione di fondo secondo cui l'Unione Europea potrebbe naturalmente
orientarsi verso la protezione dei meccanismi del libero mercato, inclusa la libertà di lavoro.
Questo suggerisce che l'Unione Europea potrebbe non essere completamente predisposta a
proteggere i diritti dei lavoratori in modo completo, né a opporsi efficacemente alla globalizzazione
dei mercati, ma potrebbe essere strutturalmente orientata ad accoglierla.
Tuttavia, Pinelli fa notare che questa visione naturalistica non spiega completamente l'evoluzione
del diritto dell'Unione Europea. Ha rilevato l'introduzione di importanti strumenti legali, come la
"Carta Sociale dei Diritti Fondamentali dei Lavoratori" del 1989 e la "Carta di Nizza", che ha
attribuito rango costituzionale a diritti individuali e collettivi. Questi strumenti rappresentano un
impegno significativo dell'Unione Europea nei confronti dei diritti dei lavoratori e dei cittadini,
indicando una prospettiva più equilibrata tra la tutela dei diritti e il libero mercato.
È possibile intravedere una discrepanza tra i diritti e le competenze nell'Unione Europea,
evidenziando un deficit nella politica europea. Questo deficit rappresenta l'incapacità dell'Unione
Europea di sviluppare il sistema di istituzioni e strumenti necessari per tradurre in pratica i valori e
gli obiettivi condivisi dagli Stati membri.
Questo problema è emerso in particolare nel periodo successivo al Trattato di Maastricht da una
politica europea incapace di fronteggiare le quattro sfide fondamentali: la formazione di mercati
globali; l’allargamento all’Europa centro-orientale; l'assetto delle istituzioni politiche;
l’adempimento alle promesse della strategia di Lisbona.
Questo deficit di politica europea è in parte attribuibile alla limitata partecipazione degli Stati
membri nei processi decisionali dell'Unione. Gli Stati hanno mantenuto il controllo su molte
politiche sociali, impedendo lo sviluppo di una rappresentanza efficace degli interessi europei. Di
conseguenza, l'Unione Europea ha spesso lottato per affrontare le sfide in modo unitario e coerente,
a causa della frammentazione delle politiche nazionali.
La Corte di Lussemburgo è l'unico organo che si inserisce nel dibattito tra i diritti dei lavoratori e
le competenze dell'Unione Europea. La questione fondamentale riguarda chi abbia il controllo
completo su questo diritto: gli Stati membri o l'Unione stessa. La situazione è diventata
giuridicamente complessa e politicamente delicata.
Nonostante l'articolo 153 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) escluda
esplicitamente il diritto di sciopero dalle competenze dell'Unione, la Corte di Lussemburgo ha
stabilito che gli Stati membri non possono violare il diritto dell'Unione in questa materia. Questo
rappresenta un notevole attivismo giuridico.
In risposta alle critiche dei sindacati e degli Stati membri, la Commissione Europea ha presentato
una proposta di regolamento sull'esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nell'ambito
della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. La proposta mirava a garantire che
l'esercizio delle libertà economiche europee rispettasse il diritto fondamentale di promuovere azioni
collettive. Inoltre, le parti sociali europee avrebbero potuto definire accordi o orientamenti relativi
alla risoluzione delle controversie legate al diritto di sciopero in contesti transnazionali.
Tuttavia, la proposta di regolamento è stata successivamente ritirata in seguito a reazioni negative.
Di conseguenza, l'indirizzo stabilito nella sentenza Viking, che riguarda il bilanciamento tra
principi in conflitto, continua a essere rilevante in situazioni transnazionali o con caratteristiche
transnazionali.
Successivamente Pinelli propone un parallelo tra una sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione
Europea (Corte di Lussemburgo) chiamata "Viking" e un caso noto negli Stati Uniti noto come il
caso "Lochner". Questo confronto è presentato da un giurista inglese che desidera evidenziare che,
sia negli Stati Uniti che nell'Unione Europea, le corti possono influenzare le decisioni legislative e,
talvolta, mettere in discussione il principio della proprietà privata. Tuttavia, nel Regno Unito, esiste
una tradizionale diffidenza verso l'ingerenza dei giudici nelle decisioni politiche.
Il caso "Lochner" negli Stati Uniti riguarda una decisione della Corte Suprema che ha dichiarato
incostituzionale una legge dello stato di New York che regolava l'orario di lavoro dei fornai. Questa
decisione è stata considerata una interferenza della Corte Suprema nelle leggi economiche e una
sfida al principio della proprietà privata.
Il giurista inglese cerca di stabilire un parallelismo tra questa decisione americana e la sentenza
"Viking" della Corte di Lussemburgo. Entrambe le decisioni dimostrerebbero che le corti possono
influenzare le politiche legislative e sfidare le convenzioni economiche, anche se con approcci
diversi. Tuttavia, il giurista sottolinea che negli Stati Uniti, c'è una tradizionale diffidenza verso
l'ingerenza giudiziaria nelle questioni politiche, mentre in Europa, le istituzioni politiche sono
percepite come relativamente deboli e incapaci di bilanciare il potere della magistratura. Questa
situazione può rendere l'Unione Europea più suscettibile all'attivismo giuridico.
Infine, Pinelli suggerisce che quanto analizzato può sostenere coloro che mantengono una visione
"naturalistica" dell'Unione Europea, cioè che l'Unione è naturalmente orientata verso il liberalismo
economico e la tutela dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, questa interpretazione può essere
controversa e complessa data la varietà di sfide istituzionali e politiche nell'Unione Europea.
Nel saggio, Pinelli esamina le critiche provenienti dall'Italia riguardo alle sentenze Viking e Laval
della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Corte di Lussemburgo) e affrontano diverse
preoccupazioni e questioni sollevate in questo contesto.
Alcune critiche si concentrano sull'asimmetria percepita nel modo in cui la Corte ha bilanciato il
diritto di sciopero e la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. Alcuni ritengono che questo
bilanciamento sia stato influenzato da una visione che mette in contrasto le libertà economiche con i
diritti sociali, contraddicendo il principio di indivisibilità sancito nella Carta dei Diritti
Fondamentali dell'Unione Europea, il quale impone che nessun diritto debba prevalere sugli altri.
Inoltre, vi è preoccupazione per il fatto che la Corte si sia immischiata nelle finalità degli scioperi, e
questo è visto come un ostacolo all'integrazione europea. Queste critiche portano all'attenzione la
regola dell'"insindacabilità giurisdizionale delle finalità dello sciopero" presente nell'ordinamento
italiano. In questo contesto, emerge anche un conflitto tra gli obiettivi nazionali del diritto del
lavoro e le restrizioni imposte dalle sentenze della Corte.
Alcuni critici, invece, mettono in discussione l'attivismo delle corti e suggeriscono che affidare
esclusivamente a un dialogo tra le corti (a livello europeo e nazionale) la protezione dei diritti
fondamentali potrebbe non essere la soluzione ottimale. Questo scetticismo può derivare dalla
percezione di un deficit politico e dalla convinzione che le corti non dovrebbero avere un ruolo così
centrale. Questa critica viene esaminata alla luce del confronto tra i Trattati dell'Unione Europea e
la tradizione costituzionale italiana in cui viene ripreso il paradigma naturalistico e la
contrapposizione tra il sistema costituzionale italiano e il mercato europeo dove le convenzioni
hanno svolto un ruolo importante. Pinelli afferma che questo spiega le limitazioni imposte al
sindacato nelle modalità di esercizio dello sciopero, ma non nei suoi scopi, i quali sono stati definiti
attraverso convenzioni stipulative.
Nel saggio Pinelli si concentra sulle diverse tipologie di rapporti di lavoro e come le influenze
dell'Unione Europea abbiano plasmato le decisioni prese a livello nazionale, superando gli obblighi
derivanti dalle direttive europee e le interpretazioni fornite dalla giurisprudenza. La Commissione
Europea ha introdotto concetti come "modernizzazione del mercato del lavoro", "flessibilità" e
"flessibilità nella sicurezza (flexicurity)", che hanno contribuito a ridefinire la distinzione
tradizionale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
Tuttavia, le leggi in Italia riguardanti i rapporti di lavoro hanno continuato a riflettere una
particolarità del sistema italiano. Ci sono diverse ragioni che spiegano questa discrepanza:
1. La legislazione italiana ha introdotto molte tipologie diverse di lavoro, creando incertezze
interpretative sulla reale estensione delle tutele per i lavoratori più vulnerabili.
2. L'Unione Europea ha promosso l'ideologia del "lavoro flessibile" e ha incoraggiato il
ravvicinamento delle condizioni di vita e di lavoro tra i diversi tipi di lavoratori. Questo
approccio è stato riflesso anche nella "clausola di non regresso" delle direttive europee, che
impedisce alle normative nazionali di diventare meno protettive durante l'attuazione delle
direttive stesse. In altre parole, un paese membro non può indebolire le sue leggi a tutela dei
lavoratori quando adotta le direttive europee, al fine di limitare le politiche di
deregolamentazione che potrebbero compromettere la concorrenza tra gli Stati membri.
Questo principio è stato sfruttato in Italia dalla Corte costituzionale e dai tribunali ordinari per
difendere i lavoratori più vulnerabili. In sintesi, il sistema legale italiano ha cercato di mantenere o
migliorare le tutele dei lavoratori, anche quando le influenze europee hanno promosso la flessibilità
del lavoro.
Quindi, il modello emergente di lavoro flessibile promosso dal diritto dell'Unione Europea cerca di
bilanciare diverse esigenze, tra cui la modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, la flessibilità
per i datori di lavoro e la sicurezza per i lavoratori. Tuttavia, i problemi principali si pongono a
livello nazionale.
In particolare, ci si chiede se i principi costituzionali che dovrebbero guidare le decisioni normative
e giuridiche in materia di tipologie di rapporti di lavoro siano in conflitto con quelli derivanti dal
diritto dell'Unione Europea. Un riferimento importante potrebbe essere l'articolo 35 della
Costituzione Italiana, che sottolinea la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
Tuttavia, questo principio non è stato sempre adeguatamente valorizzato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, il che ha portato a fraintendimenti.
Nel 1996, la Corte costituzionale contestò un processo legislativo che sembrava stesse eliminando
la distinzione tra diverse tipologie di contratti di lavoro, collegando la protezione del lavoratore alla
sua prestazione, indipendentemente dal tipo di contratto. La Corte stabilì che il concetto di
subordinazione "in senso stretto" doveva essere legato a due condizioni specifiche: l'alienità del
risultato del lavoro e l'alienità dell'organizzazione in cui si svolgeva il lavoro. In altre parole, solo
quando il risultato del lavoro e l'organizzazione erano controllati da un datore di lavoro esterno si
poteva parlare di subordinazione.
La connessione tra subordinazione (il tipo di contratto) e statuto è una caratteristica che ha radici
storiche. Tuttavia, una volta che la subordinazione non è più la forma predominante di impiego,
questa connessione ha generato confusione. Nonostante l'articolo 35 della Costituzione affermi la
tutela del lavoro "in tutte le sue forme e applicazioni," questa disposizione non è stata sempre
interpretata in modo da riflettere la realtà del mercato del lavoro in evoluzione.
Solo recentemente c'è stata una svolta nella giurisprudenza e nella dottrina, con una
reinterpretazione degli articoli 36 e 40 della Costituzione, che ora vengono interpretati come non
riferiti solo al lavoro subordinato, ma a tutte le forme di lavoro. Questo segna un cambiamento
significativo nell'approccio alla tutela del lavoro in Italia e nella sua armonizzazione con il diritto
dell'Unione Europea.
In Italia, si presenta un problema significativo legato all'utilizzo del lavoro illegale. Negli anni '60,
c'era una cultura di sospetto nei confronti di queste pratiche, ma nel tempo questa cultura è venuta
meno. Tuttavia, l'uso di lavoro illegale persiste e può assumere diverse forme. Può includere l'uso di
tipologie contrattuali legali che vengono utilizzate in modo inappropriato in violazione delle leggi e
dei contratti collettivi che regolamentano il lavoro. Inoltre, può includere il lavoro non dichiarato, in
cui le prestazioni lavorative non vengono ufficialmente registrate o dichiarate alle autorità
competenti.
La legislazione italiana in materia di lavoro è stata a lungo caratterizzata da disattenzione e
confusione riguardo a come affrontare il problema del lavoro illegale.
Sebbene sia vero che l'ideologia del lavoro flessibile abbia contribuito ad aumentare questo
fenomeno, non è corretto attribuire la colpa all'Unione Europea. Il diritto dell'Unione Europea, al
contrario, ha promosso politiche e iniziative volte a contrastare il lavoro illegale. La Commissione
Europea ha avviato numerose azioni di contrasto contro il lavoro illegale nell'ultimo ventennio.
Secondo Pinelli, è importante riflettere sui risultati di una tradizione nazionale che si è dimostrata
incapace di affrontare le sfide inaspettate e di adattarsi ai cambiamenti. L'Italia deve cercare di
rinnovarsi e confermare la propria identità nel contesto europeo, affrontando i problemi legati al
lavoro illegale in modo più efficace e in linea con le politiche europee.
16. Saggio: “Il coraggio della concretezza. A proposito di Gino Giugni e Selig Perlman”
Nel 1955, Gino Giugni, dopo aver vinto una borsa di studio negli USA, decide di tradurre l'opera
"A Theory of Labor Movement" (1928) di Selig Perlman, un noto storico americano del lavoro.
Questa decisione aveva due obiettivi principali. In primo luogo, voleva contribuire a
internazionalizzare le scienze sociali italiane, mettendo in contatto Giugni con gli ambienti
progressisti americani. In secondo luogo, cercava di infrangere l'immagine della classe operaia
italiana promossa dall'ideologie dominanti durante la guerra fredda.
La teoria di Perlman si adattava bene a questi obiettivi. La sua teoria, basata sull'istituzionalismo,
criticava profondamente la visione dell'"homo oeconomicus" della dottrina classica, che trascurava
completamente i comportamenti di gruppo. Questo era particolarmente rilevante in un mondo
dominato dai monopoli delle grandi corporazioni, dai sindacati e dallo Stato.
Invece di contrapporre un modello teorico a un altro, Perlman e gli studiosi di quel periodo
studiavano direttamente sul campo i meccanismi delle società anonime, le prime sindacalizzazioni e
la tecnica della contrattazione collettiva. La contrattazione collettiva era vista come un veicolo per
la pressione sindacale, mirante a ottenere una maggiore libertà e sicurezza per i singoli lavoratori
sul luogo di lavoro, nonché una maggiore partecipazione alla vita pubblica.
In questo contesto, l'obiettivo dei sindacati non era tanto la collettivizzazione dei mezzi di
produzione, come avveniva in altre parti d'Europa, ma una visione di pluralismo e di collaborazione
tra i vari attori. Questo approccio era molto diverso da quello europeo, che era più aperto agli esiti
corporativi negli anni '30 e che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, dovette affrontare la necessità di
una ricostruzione economica che avrebbe richiesto un maggiore coinvolgimento dello Stato.
La considerazione di Gino Giugni non era solo una riflessione storica o accademica, ma aveva un
intento pratico e metodologico che mirava a coinvolgere tre diverse categorie di ascoltatori:
1. Giuristi del lavoro e studiosi di relazioni industriali: Giugni intendeva fornire soluzioni
concrete ai problemi pratici che questi esperti affrontavano nella loro professione. La traduzione
dell'opera di Selig Perlman offriva un quadro teorico che poteva essere applicato alle sfide reali
nel campo delle relazioni industriali e del diritto del lavoro.
2. Sindacati: Giugni cercava di comunicare ai sindacati che “la coscienza del posto di lavoro” dei
lavoratori poteva essere un elemento importante per costruire la solidarietà sindacale. Inoltre,
voleva sottolineare che l'individualismo non doveva essere visto con disprezzo all'interno del
movimento sindacale. Questa visione andava oltre la prospettiva tradizionale europea dei
sindacati.
3. Politici: Il terzo gruppo di destinatari era rappresentato dai politici. Giugni cercava di ispirare i
politici a uscire dall'immobilismo politico, una situazione paragonata alla "bonaccia delle
Antille". Questa espressione fa riferimento a una metafora utilizzata da Italo Calvino per
descrivere l'inerzia del Partito Comunista Italiano (PCI) durante il periodo staliniano. Nella
metafora di Calvino, la nave corsara (che rappresenta il PCI) rimane ferma davanti ai galeoni
dei "Papisti" (che simboleggiano la Democrazia Cristiana), a causa delle rigorose regole
imposte dall'ammiraglio Drake (che rappresenta Stalin). Questa inattività impedisce al PCI di
agire o di attaccare i suoi avversari politici.
L'intenzione di Giugni era di scuotere i politici dal loro immobilismo e incoraggiarli a prendere
iniziative più dinamiche.
In definitiva, il suo lavoro non aveva l'obiettivo di spingere le persone a copiare gli americani, ma
piuttosto di offrire nuove prospettive e soluzioni ai problemi esistenti nelle relazioni industriali, nei
sindacati e nella politica italiana.
Gino Giugni, nel suo lavoro, non si limitò a tradurre e riprendere il pensiero di Selig Perlman
riguardo al movimento sindacale americano. Egli compì un passo ulteriore, esaminando le radici e
la storia del mondo del lavoro in Italia. Questa analisi riguarda un capitolo spesso dimenticato ma
nobile della storia italiana, precedente all'industrializzazione che ha favorito la crescita della
Confederazione Generale del Lavoro.
Prima che l'industrializzazione prendesse piede in Italia, le leghe contadine si riunivano nella
Camera del Lavoro e intraprendevano iniziative concrete di rivendicazione. Queste iniziative non
avevano solo un obiettivo economico, ma assumevano anche un significato più ampio.
Contribuivano a elevare il senso di dignità sia a livello individuale che collettivo tra i lavoratori,
affrancandoli dalla miseria civile. Le azioni intraprese in quel contesto andavano ben oltre la mera
lotta economica e sottolineavano l'importanza del riscatto sociale e della dignità umana.
Inoltre, queste leghe contadine e le relative iniziative di rivendicazione ebbero un impatto positivo
sulla crescita delle cooperative e sullo sviluppo del socialismo municipale in Italia. Quindi, Giugni
metteva in luce come le origini del movimento sindacale italiano fossero intrinsecamente legate a
queste radici storiche di lotta per i diritti dei lavoratori e il miglioramento delle loro condizioni di
vita e lavoro.
Pinelli affronta il concetto del "ritardo italiano," che è spesso citato nelle scienze sociali e nel
dibattito pubblico come un riferimento. Questo concetto è legato all'idea che la modernizzazione di
un paese, la sua capacità di tenere il passo con gli altri, sia sufficiente a qualificare una prospettiva
riformista.
Tuttavia, Pinelli mette in guardia contro una visione riformista che confonde la difesa delle
condizioni di lavoro attuali con il desiderio di preservare le condizioni di lavoro del passato. Questo
errore si verifica anche quando il riformismo abbandona i valori che possono guidare la
modernizzazione. In questo contesto, le conclusioni di Giugni fungono da punto di partenza
essenziale per qualsiasi prospettiva riformista.
Con l'avvento della rivoluzione tecnologica, l'identificazione tradizionale tra l'individuo e il
produttore, tipica del pensiero socialista, è diventata obsoleta. Questo non significa però che i
valori associati ad essa debbano essere accantonati. L'uso intensivo della tecnologia, che ha
frammentato le catene di produzione e ha creato nuove opportunità nel settore dell'informatica, può
avere esiti diversi.
Pinelli sottolinea che l'uso della tecnologia può portare a una società in cui gli individui sono
passivi, con gerarchie più sottili e insidiose, distanti gli uni dagli altri, ma uniti solo da flussi
costanti di immagini sostitutive della loro identità. Questi flussi di informazioni sono diventati
estremamente preziosi.
Inoltre, Pinelli suggerisce che non solo il socialismo tradizionale, ma anche il liberalismo, rischia
di diventare obsoleto se non viene adottata una prospettiva più avanzata. La tecnologia può essere
utilizzata per creare una società in cui gli individui sono motivati da un processo continuo di
apprendimento, lavorano consapevolmente e cercano nuove opportunità di lavoro. Questo richiede
una collaborazione tra istituzioni pubbliche, imprese e sindacati nell'ambito dell'istruzione e della
formazione professionale. In particolare, Pinelli sottolinea che la sinistra italiana deve reinventare
una prospettiva riformista altrimenti altri prenderanno l'iniziativa in forme e luoghi diversi, con
tempi imprevedibili.

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