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ECONOMIA AZIENDALE

- mariateresa.bianchi@uniroma.it

L'economia aziendale analizza il substrato economico dei lavoratori e concepisce l'azienda come un centro
di produzione organizzato, sistematico e destinato a perdurare nel tempo che deve produrre beni o servizi.
L’articolo 2555 del Codice Civile definisce l'azienda come il complesso dei beni organizzato
dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa. Questa è una definizione giuridica con finalità di tutelare il
soggetto più debole nei rapporti economici, ad esempio tra un'azienda e un lavoratore, il lavoratore.
Purché ci sia un'azienda devono esserci:

- produzione in senso economico, che consiste nell’avere la capacità di soddisfare un bisogno e di creare
utilità e valore;

- sistematicità dell'azione, cioè continuità;

- organizzazione, strettamente legata alla sistematicità, poiché affinché il centro di produzione sia
continuativo deve essere anche organizzato;

- capacità dell'azienda di perdurare nel tempo, cioè di spersonalizzarsi e di prescindere dall'opera dei
soggetti che hanno creato l'azienda stessa.

La famiglia intesa come singolo nucleo familiare non può essere considerata un’azienda poiché non vi è la
capacità di perdurare nel tempo, mentre l’insieme di più famiglie possono costituire un’azienda familiare.
L’elemento distintivo delle aziende può essere la dimensione, il fattore produttivo, ma in realtà è il fine per
il quale sono nate, quindi la finalità che perseguono. Gli associati, cioè coloro che hanno creato l’azienda,
possono coincidere con i consumatori dell’azienda, che quindi produce per il consumo interno.
I consumatori non pagano nulla perché sono gli stessi ad aver creato l’azienda. Questo tipo di azienda è lo
Stato italiano e noi associati, attraverso le imposte, diamo allo Stato i mezzi per creare beni e servizi che poi
lo Stato eroga. Noi associati non paghiamo il servizio, ma contribuiamo alla creazione e al mantenimento
dello stesso. Esiste poi un altro tipo di azienda in cui gli associati producono gratuitamente beni e servizi
destinati ad una collettività, quindi l’azienda produce per il consumo esterno, come le istituzioni di
beneficienza e assistenza (es: la Caritas). Esiste infine un terzo tipo di azienda in cui gli associati creano
l’azienda al fine di produrre beni e servizi per il mercato o per lo scambio, destinati a chi è disposto a
pagare per averli: è proprio così che si generano i flussi economici e finanziari, sui quali l’azienda si fonda
(es: industrie, banche, compagnie di assicurazioni, negozi). Un’azienda può anche svolgere sia attività di
consumo che di mercato: essa mantiene comunque un solo centro di produzione, con due destinazioni
differenti (es: azienda che svolge corsi di formazione ai dipendenti di un determinato ente, ma offre poi, a
pagamento, lo stesso servizio a terzi).

La grande differenza tra le aziende che producono per il consumo e quelle che producono per il mercato è
che nelle prime il consumatore è un beneficiario, quindi usufruisce del servizio erogato senza dover nulla in
cambio, mentre nelle seconde il consumatore è un compratore, quindi paga il servizio di cui usufruisce.

L’aspetto finanziario e quello economico esistono insieme e la connessione tra i due è talmente forte che
l’uno dipende dall’altro. L’aspetto finanziario riguarda le entrate (benefici) e le uscite (sacrifici) di denaro e
le movimentazioni di crediti e debiti, mentre il secondo riguarda i costi, i ricavi e la variazione del capitale.
Le aziende pubbliche di consumo pongono più l’accento sull’aspetto finanziario, quindi sulle spese,
piuttosto che sull’aspetto economico, quindi sui costi; inoltre usano i proventi come misura delle entrate.
Il ciclo economico-finanziario delle aziende che producono per il consumo
Si origina a partire dai proventi, contributi volontari o obbligatori, che sono rappresentati da imposte, tasse,
contributi, donazioni e lasciti. Le IMPOSTE sono prelievi coattivi o forzosi di ricchezza e sono commisurate al
reddito o al patrimonio, quindi alla grandezza flusso o alla grandezza stock. Il reddito può essere da lavoro
(autonomo o dipendente) oppure da investimento, cioè da capitale. La grandezza stock costituisce il
patrimonio e dipende dal reddito; il patrimonio cresce se cresce il reddito, ma non c’è proporzionalità tra i
due, poiché non potranno mai essere uguali. Le imposte si pagano quindi rispetto al reddito e al patrimonio
(IMU imposta patrimoniale).
Le TASSE sono pagamenti specifici di servizi di cui usufruiamo.
I CONTRIBUTI sono pagamenti della quota di iscrizione alla società, che possono essere fissi o variabili.
Le DONAZIONI sono un atto di liberalità tra vivi.
I LASCITI sono invece donazioni che vengono attivate dopo la morte. Il
Modello F24 è utilizzato in Italia per il pagamento di gran parte delle imposte, delle tasse e dei contributi,
sostituendo altri precedenti modelli, ciascuno valido per un tipo differente di tributo. Il
ciclo economico-finanziario dell’azienda che produce per il consumo interno ed esterno parte dai proventi
che, essendo elementi finanziari, generano disponibilità monetarie e servono per sostenere i costi e la
produzione interna o esterna. Questo ciclo è di tipo aperto poiché parte dai proventi e termina con il
consumo, quindi non torna nulla indietro. Come si fa allora a guadagnare? Una parte dei proventi viene
investita in investimenti fruttiferi, quindi viene investita per avere flussi addizionali finanziari che
incrementeranno i proventi. Un’altra fonte di sostentamento sono i contributi versati dagli associati.
I proventi anticipano i costi, cioè i costi sono in funzione/dipendono dai proventi, quindi la condizione di
equilibrio economico è garantita dall’uguaglianza tra proventi e costi (P=C). P<C (in t1) = P>C (in t2), cioè
deve essere soddisfatta a lungo termine, affinché i proventi siano in grado di remunerare i fattori della
produzione. Il ciclo si blocca con l’atto di consumo, ma la gestione dei proventi non è in funzione degli
investimenti, ovvero della quantità prodotta.

Il ciclo economico-finanziario delle aziende che producono per il mercato


Si origina a partire da un capitale iniziale che genera disponibilità monetarie, utilizzate per gli investimenti e
per sostenere i costi, che servono per la produzione che verrà poi ceduta su mercato. Tutto ciò genera un
flusso di ricavi che andrà a coprire i costi e a remunerare il capitale iniziale. Il capitale iniziale è un momento
economico poiché viene messo a disposizione al fine di avere un ritorno economico, cioè un guadagno.
Questo ciclo è di tipo chiuso, poiché il flusso torna indietro. In questo tipo di azienda si devono affrontare
prima i costi, poi vi saranno forse i ricavi, quindi questi ultimi sono in funzione/dipendono dai costi;
conseguiremo quindi i ricavi se e solo se avremo prima affrontato i costi. I ricavi sono inoltre in funzione del
mercato, per questo i ricavi non sono sempre garantiti: bisogna capire bene l’ottica del mercato. L’azienda
infatti corre il rischio di mercato, l’unico rischio NON assicurato. Essa ha quindi due variabili dipendenti:
costi (grandezze endogene, cioè dipendenti dal modello considerato) e mercato (grandezza esogena, cioè
indipendente dal modello considerato). La variabile mercato è piuttosto complessa poiché può contenere i
germi della crisi o i germi del successo: è una vera e propria incognita. Il mercato oggi è globale e i 2/3 delle
importazioni si hanno con la Cina. La produzione oggi deve essere marketing orienting, cioè deve essere
orientata al mercato, perciò occorre fare un’analisi dettagliata (soprattutto da parte delle start up), che
preveda anche l’analisi dell’offerta della concorrenza. L’analisi consiste prima nel testare il prodotto, ad
esempio realizzando prodotti a serie limitata, dopodiché stroncare o promuovere il mercato a seconda di
quanto il prodotto sia piaciuto o meno.
La teoria del consumatore razionale vede un consumatore non razionale, in quanto quest’ultimo cerca il
target stravagante. Esistono aziende che hanno grande successo in periodi di crisi e aziende che, con tutte
le carte in regola, falliscono. Ecco perché il mercato è complesso. Quest’ultimo può essere controllato
soltanto attraverso un’idonea attività di programmazione, quindi soltanto creando determinati meccanismi,
in grado di permettere all’azienda di cavalcare il successo. La
condizione di equilibrio economico si ha quindi, non quando R=C che indica il puro equilibrio contabile,
bensì quando i ricavi superano i costi (R>C), quindi quando si ha un’eccedenza di ricavi tale da garantire la
congrua, o adeguata, remunerazione dei fattori in posizione residuale. Questa adeguatezza si può calcolare:
coincide infatti con il tasso di congrua remunerazione, che rappresenta l’adeguato corrispettivo di un
investimento e varia sempre, a seconda delle condizioni esterne, del momento storico. Quando si investe si
rinuncia alla liquidità (0,5%), vengono garantite la copertura dal tasso di inflazione (2,5%), il rendimento dei
titoli privi di rischio (10%), ad esempio i titoli di Stato, e il compenso per il rischio di mercato (non vi è
percentuale netta, oscilla tra 2%-6%). Il tasso di congrua remunerazione sarà compreso fra il 6% e il 10%.
Ora supponiamo di avere un capitale di 1000 e un utile, cioè la differenza tra ricavi e costi, di 100: vi è
quindi un’eccedenza di ricavi (500 i ricavi, 400 i costi). Poiché il tasso di congrua remunerazione è pari al
10% (100 è un 10% di 1000) vi è un surplus. Se invece l’azienda ha un utile di 100 e distribuisce ai suoi soci
70 e ne trattiene 30 per far crescere il valore dell’azienda, il tasso di congrua remunerazione del 10% è
comunque soddisfatto, quello che cambia è la monetizzazione del tasso di congrua remunerazione.
Effettivamente ci sarà una monetizzazione più bassa per l’investitore, ma una remunerazione effettiva
maggiore. C’è differenza tra monetizzare la congrua remunerazione e la remunerazione vera e propria.
In conclusione l’equilibrio economico dipende dal ciclo economico finanziario dell’azienda, mentre
l’economicità no. In questo tipo di azienda ci sono i fattori contrattuali (capitale di credito), che si legano
all’azienda per contratto, e i fattori residuali (capitale di rischio), che corrono il rischio di mercato. Dei
primi sappiamo tutto, sono fattori certi, hanno una remunerazione certa e prestabilita dal contratto (es: i
lavoratori, le merci, gli impianti). I secondi invece non hanno diritto a nessuna remunerazione se non prima
di aver coperto tutti i fattori contrattuali, quindi tutti i costi (es: coloro che investono il capitale iniziale, che
viene legato ai risultati aziendali, al fine di trarne una remunerazione, che avverrà se e solo se R>C e quindi
vi è un surplus di ricavi). È possibile avere tutti i fattori in posizione residuale, ma non è possibile averli tutti
in posizione contrattuale: deve esserci almeno un fattore che assume su di sé il rischio di mercato,
rinunciando alla remunerazione contrattuale, prevista e certa. Anche se i fattori contrattuali non prevedono
il rischio di mercato, possono esserne coinvolti quando la gestione aziendale non riesce a produrre ricavi
sufficienti per la loro remunerazione.

Differenze tra i due cicli economici: la prima non corre alcun rischio, la seconda sì; ciò che cambia è anche
l’investimento iniziale, infatti nella prima azienda i proventi sostengono i costi, nella seconda invece vanno
prima sostenuti i costi, dopodiché forse avremo i ricavi.

L’impresa
L’azienda che produce per il mercato che ha come obiettivo la massimizzazione del profitto è l’impresa.
Quando R>C abbiamo l’utile o il sovrareddito, mentre quando R<C abbiamo una perdita. Il profitto non
riguarda solo la quantità, ma anche la qualità; si ha profitto infatti quando, oltre ad avere un’eccedenza di
ricavi sui costi, abbiamo anche una crescita del valore dell’azienda che prima o poi andrà a premiare
l’imprenditore che si è assunto il rischio di mercato ⇒ quando massimizziamo l’utile, abbiamo il profitto e
aumentiamo quindi il valore dell’azienda. Il profitto può essere prelevato dai soci o dagli amministratori,
oppure può essere lasciato nel ciclo aziendale al fine di potenziare la struttura economica dell’impresa.
Se a quest’ultimo aggiungiamo anche una parte della remunerazione del capitale di rischio non monetizzata
(cosiddetta capitalizzazione dell’azienda), si crea una sorta di autofinanziamento, che accresce la capacità
dell’azienda di sapersi gestire, senza dover ricorrere agli aiuti finanziari.
La capacità di realizzare i profitti è spesso in funzione del momento in cui si realizza il break even point, o
punto di rottura, a sua volta influenzato dai costi fissi: più sono i costi fissi più sarà difficile raggiungere il
break even point. Il break even point è il cosiddetto punto di equilibrio contabile, che si ha quando i ricavi
eguagliano i costi, R=C; al di sotto di questo punto avremo l’area perdita (R<C), al di sopra l’area surplus
(R>C). Per conoscerlo dobbiamo essere a conoscenza del capitale da remunerare e del tasso di congrua
remunerazione. L’analisi del BEP è fondamentale, in quanto ci permette di conoscere come raggiungere il
pareggio tra costi e ricavi e di come ottenere certi obiettivi di profitto, oltreché di osservare il grado di
redditività, in termini prospettici, di un oggetto della produzione, al variare della quantità di beni prodotti e
venduti (Q). Q è l’unico driver rilevanti di C e R e si basa su: Utile = RT – CT. Se Utile = 0, allora RT = CT e P x
Q = CF + (CVT x Q), dove i CV sono direttamente proporzionali a Q. Inoltre Q = CF/P – CV = quantità di
equilibrio, RT = CF/ (1 - CV/P) = fatturato di equilibrio. P – CV è il margine di contribuzione unitario,
(P – CV) x Q è il margine di contribuzione totale e 1 – CV/P è l’incidenza del margine di contribuzione sul
prezzo. Tra i fattori produttivi troviamo: terra, capitale, lavoro e oggi anche l’imprenditorialità.
Quest’ultima è la capacità di un soggetto di avere un’idea e di costruirci sopra un’azienda, nonché di
correre il rischio di mercato; questo soggetto ha il diritto, a breve o a lungo termine, di ricevere il premio di
imprenditorialità, sia quando si crea valore per l’azienda, sia quando quest’ultima viene ceduta.

L’impresa sociale
L’azienda che produce per il mercato che non ha come obiettivo la massimizzazione del profitto è l’impresa
sociale. Questa tipologia di azienda è finalizzata a produrre per il consumo sociale di terzi (ciclo aperto, costi
in funzione dei proventi) e si pone semplicemente di raggiungere l’equilibrio economico e di remunerare
quindi i fattori in posizione residuale, infatti per statuto non tocca un euro di quella remunerazione. Il suo
obiettivo è quello di assumere soggetti svantaggiati nel mondo del lavoro, come ex detenuti, ex tossico-
dipendenti, disabili etc… (Pasticceria Giotto), al fine di fare volontariato.
Lo Stato non è in grado di offrire la riabilitazione dei detenuti, di aiutare alcuni disabili: è qui che
intervengono queste aziende che, con fine solidaristico, danno lavoro a queste persone svantaggiate.
Queste aziende, dette no profit, fanno parte del terzo settore, insieme alle aziende che producono per il
consumo. Bisogna fare attenzione: molte aziende profit si nascondono sotto la facciata dell’azienda no
profit.

Esempi di aziende
Lo Stato è un’azienda che produce per il consumo interno, offrendo servizi pubblici quali la difesa, la
giustizia, l’ordine pubblico, la scuola, i trasporti. È un ente pubblico astratto, il cui soggetto economico è il
Partito di maggioranza o l’insieme di più partiti che detengono la maggioranza in Parlamento. La Cassa di
previdenza, che viene costituita con una parte dei contributi dei lavoratori per scopi previdenziali, quali la
pensione, l’invalidità o la morte. Anche La Sapienza è un’azienda pubblica che produce per il consumo
interno, il cui soggetto giuridico è La Sapienza stessa (ente astratto) e il soggetto economico è il rettore,
eletto da una maggioranza di docenti. L’Acea S.p.A. è un’azienda privata quotata in Borsa, il cui soggetto
giuridico è l’azienda stessa e il soggetto economico è il comune di Roma.
Le aziende private hanno entrambi i soggetti privati, le aziende pubbliche hanno entrambi i soggetti
pubblici (Asl, ospedali, Stato etc…); esistono poi aziende private a controllo pubblico, quindi con soggetto
giuridico privato e soggetto economico pubblico (Enel, Eni, Leonardo, ferrovie dello Stato), nate dopo la
Seconda Guerra Mondiale grazie all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), istituito nel 1933 durante il
fascismo. Lo Stato rimise su mercato le aziende, acquistandone le partecipazioni, diventando così il fulcro
dell'intervento pubblico nell'economia italiana. Intorno agli anni '80 nacque la privatizzazione (opposta alla
nazionalizzazione, affermatasi dopo la Seconda Guerra Mondiale), con la quale lo Stato cedette in Borsa le
partecipazioni, che aveva acquistato tramite l'IRI. L' Alitalia, privatizzata, entrò in crisi nel 2006, venne poi
ricostituita e oggi è stata acquistata dallo Stato, che ora cerca di rivendere. La Tim, al tempo Telecom,
privatizzata, subì la scalata da parte di un socio che iniziò a contrarre azioni diventando il socio di
maggioranza; lo Stato tramite la golden power fermò la scalata, acquistò la partecipazione di maggioranza e
oggi la Tim è un'azienda privata a controllo pubblico. Altre aziende come la Popolare di Bari, la Monti dei
Paschi di Siena, prima private, poi sull’orlo del fallimento, riprese grazie allo Stato che le acquistò e oggi
private a controllo pubblico. La LUISS è un'azienda privata che produce per il mercato.
La chiave del problema aziendale è l’economicità, cioè la capacità dell’azienda di raggiungere gli obiettivi
del soggetto economico ai minimi costi, senza sprechi, con attenzione alle prospettive future (legate alla
sostenibilità). L’economicità è un connotato caratteristico di ogni azienda, che può essere espressa
dall’equilibrio economico, ma non corrisponde ad esso, nel senso che deve esserci economicità pur in
assenza di equilibrio economico, infatti esiste un altro indicatore importante, diverso dall’equilibrio, che è
l’efficienza, legata all’efficacia (può esserci equilibrio anche in assenza di efficienza). Accrescere
l’economicità aziendale non significa necessariamente aumentare il surplus della stessa, bensì considerare
anche altri obiettivi, quali il miglior impiego dei fattori generanti costi fissi oppure il potenziamento della
presenza sul mercato.
Per fare un esempio l’Obamacare, il sistema di accesso alla sanità degli USA, dimostrò un’ottima efficienza.
Obama nel 2010 estese il diritto alla copertura assicurativa a fasce di reddito che prima non rientravano nei
criteri stabiliti dal Medicaid, un programma federale sanitario che aiuta gli individui e le famiglie a basso
reddito a sostenere i costi di un'assicurazione sanitaria, coprendone una parte più o meno rilevante.
Obama introdusse incentivi fiscali per favorire la stipula delle polizze sanitarie e l'obbligo per i datori di
lavoro di aziende con più di 50 dipendenti di contribuire alle spese per l'acquisto delle polizze da parte di
lavoratori. Introdusse il divieto per le compagnie di assicurazioni di negare la stipula di assicurazioni e
l'assistenza per determinate patologie. Introdusse poi sanzioni pecuniarie per il cittadino che non stipula
una polizza assicurativa. Tutto questo favorì l'accesso alle cure mediche a più di 30 milioni di cittadini
americani.

L’economia circolare è un sistema economico pensato per potersi rigenerare da solo, garantendo dunque


anche la sua ecosostenibilità (green).

I soggetti aziendali: soggetto economico e soggetto giuridico


Il soggetto aziendale qualifica il tipo di azienda. Il soggetto economico è quella persona fisica che è in grado
di imprimere la propria volontà nella gestione, quindi di fatto coincide con chi gestisce l’azienda (non
sempre, infatti il soggetto economico può affidare la gestione aziendale a terzi – azienda managerializzata),
e diventa tale quando possiede la capacità di agire che si acquisisce con la maggiore età. Il soggetto
giuridico è quella persona fisica o quell’ente astratto sul quale ricadono i diritti e i doveri che scaturiscono
dall’attività aziendale, di cui ne è il responsabile/titolare. Egli deve avere la capacità giuridica, che si
acquisisce dalla nascita (sia di una persona che di un ente); può essere inoltre interdetto per malattie o per
il vizio del gioco o per alcolismo/uso di droghe e al suo posto subentra un tutore. Il soggetto giuridico di
un’azienda può essere una persona fisica (aziende individuali) o una persona giuridica (associazioni e
fondazioni), che può essere di diritto pubblico o privato, mentre il soggetto economico coincide sempre con
una persona fisica.
L’attività aziendale viene solitamente gestita da una forma societaria, che a sua volta si divide in società di
persone e in società di capitali. Le prime si dividono in società semplice, società in collettivo e società in
accomandita semplice. Il loro soggetto giuridico coincide con il socio delle stesse che investe il suo stesso
patrimonio. Le società di capitali si distinguono in società per azioni, società in accomandita per azioni e
società a responsabilità limitata. Il loro soggetto giuridico coincide con la società stessa, infatti i soci non
rischiano la perdita del patrimonio personale, al massimo la perdita della quota di proprietà. Nelle società
di persone solitamente soggetto economico e soggetto giuridico coincidono. Nelle società di capitali
soggetto economico e soggetto giuridico non coincidono poiché il primo è una persona fisica, il secondo è
astratto.

I tre modelli di amministrazione e di controllo


Esistono tre modelli di amministrazione e di controllo: il modello tradizionale, previsto dal Codice Civile, il
modello dualistico, importato dalla Germania, e il modello monistico, importato dall’Inghilterra.
Il primo si basa sulla tripartizione dei poteri [assemblea dei soci (ha il compito di nominare gli
amministratori e si detiene ogni anno), Consiglio di amministrazione (ha il potere esecutivo) e il Collegio
sindacale (ha il potere di controllo ed è nominato dall’assemblea dei soci, a cui siedono soggetti
indipendenti dagli amministratori che devono essere revisori legali e rispondere di alcune precise
caratteristiche professionali)]. Il secondo prevede l’assemblea dei soci, che ha il compito di nominare il
Consiglio di sorveglianza, che svolge a sua volta compiti di controllo, in alcuni casi sostituisce l’assemblea
stessa e nomina inoltre il Consiglio di amministrazione. Il terzo prevede l’assemblea dei soci che nomina gli
amministratori, tra cui possiamo distinguere il Comitato di gestione e di controllo.
In tutti e tre i modelli abbiamo l’assemblea dei soci che si può convocare in seduta ordinaria (approvazione
del bilancio, nomina degli amministratori) o in seduta straordinaria (cambiamento dello Statuto, fusione
con un’altra società etc..). Per nominare una seduta ordinaria devono esserci almeno la metà dei soci, per
una seduta straordinaria devono esserci almeno il 51% dei 2/3 dei soci (quorum costitutivo-minimo dei
soci). Nell’assemblea ordinaria si ha la maggioranza con il 50% dei voti, nell’assemblea straordinaria si ha la
maggioranza con i 2/3 dei voti (quorum deliberativo-minimo dei voti). Non tutti i soci hanno diritto di voto,
esistono infatti i soci ordinari e i soci privilegiati. Questi ultimi, avendo comprato le azioni privilegiate,
hanno rendimento più alto degli altri al momento della ripartizione dei dividendi e al rimborso del capitale
in fase di liquidazione, ma non hanno diritto di voto. Quindi chi vota nell’assemblea ordinaria sono i soci
ordinari e colui che è in grado di influenzare la maggioranza dei voti è il soggetto economico della società
di capitali, nonché l’amministratore della stessa.

I patti sindacali o parasociali sono accordi tra soci, creati al fine di votare una stessa persona e avere quindi
la maggioranza. Essi non sono però patti stabili, poiché possono venire meno in qualsiasi momento.
L’analisi dei costi
L’analisi dei costi viene effettuata tramite il sistema di contabilità analitica o industriale, che mira a
registrare i fatti di interna gestione, e il sistema di contabilità generale, che registra invece i fatti di esterna
gestione.

 la contabilità generale consente la rilevazione dei fatti di esterna gestione (fornitori, clienti, altri
operatori) e di osservare gli effetti prodotti sugli equilibri generali aziendali, è infatti finalizzata alla
determinazione del reddito e del capitale di un periodo. Vengono analizzati tutti i fattori di costo e
ricavo, espressi poi dal contabile in partita doppia. Questa contabilità è obbligatoria e si riferisce al
passato;
 la contabilità analitica o industriale consente la rilevazione dei fatti di interna gestione (prodotti,
attività e processi): vengono assunti, analizzati e rielaborati i dati della contabilità generale (i dati
dei costi e dei ricavi), in termini prospettici, e se ne controllano gli effetti sull’ economicità; essi
vengono espressi successivamente dal contabile o extracontabile. Questa contabilità non è
obbligatoria, anche se necessaria ai fini della determinazione del budget, e si riferisce sia al passato
che al futuro. In relazione alla configurazione di costo essa si divide in contabilità a costi pieni (full
costing) e contabilità a costi variabili (direct costing), mentre in relazione al momento di
rilevazione si distingue in contabilità a costi consuntivi e contabilità a costi preventivi.

Un'azienda può decidere di tenere insieme o separate la contabilità generale (obbligatoria, rileva fatti di
esterna gestione, conduce al bilancio) e la contabilità analitica (non è obbligatoria, rileva fatti di interna
gestione, stabilisce il grado di efficienza).
Nel sistema unico contabile ho un’unica contabilizzazione, cioè un unico piano di conti. I conti economici di
contabilità generale (materie), che hanno l’importo in dare, essendo costi, confluiscono in un unico conto di
contabilità analitica (lavorazione). In quest’ultimo conto registrerò nel dare tutti i costi dei conti di
contabilità generale e aggiungerò anche l’utile. A questo punto possiamo determinare il costo complessivo
del prodotto, che verrà registrato nell’avere di un ulteriore conto (prodotto). È
chiaro che in questo esempio non distinguiamo contabilità analitica e generale, poiché la prima confluisce
nella seconda, ecco perché si parla di contabilità integrata.
Nel sistema duplice contabile invece le due contabilità vengono separate (COANA-COGE).
Tramite i conti di ripresa o di collegamento si passa dalla contabilità generale a quella analitica.
Questi conti funzionano al contrario rispetto ai conti di contabilità generale, infatti avvengono due
registrazioni: prima vengono registrati i conti di contabilità generale nel dare (materie), poi i conti di
contabilità analitica nell’avere (materie c/collegamento); successivamente questi conti alimentano un
ulteriore conto che registrerà nel dare tutti questi conti, a cui verrà aggiunto nell’avere l’utile d’esercizio
(lavorazione). A questo punto possiamo determinare il costo complessivo del prodotto, che verrà registrato
prima nel dare di un ulteriore conto di collegamento (prodotto c/collegamento) e successivamente
nell’avere di un conto di contabilità generale chiamato prodotto c/vendite.
Essendoci netta separazione tra le due contabilità, questo sistema è più chiaro e infatti è quello più
utilizzato, visto che i conti sono tanti e averli separati sicuramente evita la confusione. Inoltre grazie a
questi flussi informativi è possibile ricavare informazioni coerenti.
I costi sono molteplici, dipende rispetto a cosa sono riferiti: rispetto ad un fattore determinante abbiamo i
costi fissi e variabili, rispetto ad un oggetto specifico abbiamo i costi comuni (costi dei fattori produttivi e
delle attività di più produzioni) e speciali (costi dei fattori produttivi e delle attività per una singola
produzione), rispetto all’imputazione ad un oggetto abbiamo i costi diretti (costi con attribuzione oggettiva,
cioè sono strettamente collegati ad un determinato oggetto di costo) e indiretti (costi con attribuzione
soggettiva, cioè sono riferibili a più oggetti di costo), rispetto all’utilità del costo nel controllo di gestione
abbiamo i costi consuntivi o effettivi (costi effettivamente sostenuti), preventivi (costi effettuati prima di
essere sostenuti, quindi basati su stime) e standard (costi simili ai preventivi, ma più rigorosi, infatti si
basano su standard precisi, in base al quale si dividono in: standard tecnici o ideali, determinati in base al
rendimento dei fattori produttivi, come ad esempio la massima capacità di un impianto, e standard
rettificati, determinati correggendo le inefficienze, ad esempio del personale o della produzione).

L’analisi dei costi venne eseguita per la prima volta negli anni ’50 dagli USA, successivamente negli anni ’70
venne importata in Italia. Vi sono costi fissi e costi variabili, ed analizzarli è importante in quanto rilevano il
grado di efficienza dell’azienda, requisito essenziale dell’economicità, oltreché hanno effetto sulla
dimensione aziendale sia in un’ottica attuale che prospettica. I primi sono quelli che prescindono dalla
produzione, sono costi incomprimibili di struttura, ad esempio costi per gli impianti, i macchinari.
Hanno il cosiddetto andamento “a gradoni”, nel senso che tendono a rimanere costanti entro un definito
limite di capacità produttiva, ma a lungo termine tendono a variare anche loro, infatti al termine della
produzione, se ne genereranno di nuovi. Sono quelli da tenere più sotto controllo di tutti poiché se non vi è
copertura dei costi fissi non vi è azienda. Essi rendono la struttura immobilizzata, più rischiosa, infatti tanto
più l’azienda sosterrà costi fissi tanto più sarà rigida e rischiosa, al contrario tanto più sosterrà costi variabili
tanto più sarà elastica. Il costo variabile può essere più che proporzionale, proporzionale e meno che
proporzionale. Il costo fisso non è flessibile, il costo variabile sì. Tutte le aziende cercano di adottare forme
contrattuali volte a flessibilizzare i costi fissi affinché ci siano meno rischio e rigidità (esempio: leasing,
contratto operativo-finanziario con cui una parte concede un bene all’altra dietro corrispettivo e per un
determinato periodo di tempo, alla scadenza del quale la parte che ha in godimento il bene può restituirlo
o divenirne proprietario, pagando la differenza tra quanto già versato ed il valore del bene; sale and lease-
back, in italiano "vendita con patto di locazione", è una forma contrattuale tramite cui l’azienda acquista un
bene che poi vende alla società di leasing, da cui ottiene una quota annuale). Il nostro Paese ha una
legislazione volta ad attenuare la rigidità aziendale, motivo per il quale molti soggetti giuridici di imprese
hanno la possibilità di fare ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni, istituita nel 1947 per facilitare
l'assorbimento di dati negativi di mercato (intervento ordinario) e per consentire più complesse operazioni
di ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali (interventi straordinari). Questa Cassa permette di non
gravare sul conto economico dell'impresa una quota del costo del personale, addossandolo all'istituto
previdenziale (il personale indica il costo del lavoro, cioè un costo che fino allo Statuto dei lavoratori del
1970 è stato considerato un costo variabile, dopodiché è diventato un costo fisso). Il costo sociale ha infatti
un peso nel giudizio di economicità, motivo per il quale analizzare il fenomeno tenendo presente l'aspetto
sociale che, anche nei regimi più liberisti, investe l'azienda ed in particolare l'impresa, è fondamentale. Il
costo suppletivo o differenziale è il costo che sostengono le aziende per incrementare la produzione,
quindi per passare dalla quantità effettiva qn alla quantità effettiva qn+1. Esso è in funzione dei soli costi
variabili, in quanto quelli fissi rimangono costanti fino al termine della produzione (V2-V1); quando
l’incremento sostenuto è in funzione dei costi variabili mi conviene sempre sostenerlo, mentre quando
l’incremento sostenuto è in funzione dei costi fissi e variabili non mi conviene sempre sostenerlo (si
prospetta quando devo incrementare la produzione avendo già raggiunto la sua quantità massima).
La sua analisi è fondamentale per orientare la produzione e la vendita di prodotti al più elevato grado di
economicità. In azienda esistono i fattori limitazionali o fattori insostituibili e i fattori sostituzionali o
eliminabili. Le aziende tendono a saturare la loro capacità produttiva, cioè fanno in modo di stipulare
accordi commerciali che gli consentono di vendere tutti i prodotti. La politica dei prezzi multipli, inventata
da Bismark per combattere il dumping sociale (esportazioni illegali di merci a prezzi molto più bassi di quelli
praticati su mercato interno, con lo scopo di impadronirsi dei mercati esteri), è una strategia che viene
applicata per abbassare il prezzo di un prodotto in modo tale da venderlo e risolvere così il costo invenduto;
essa è strettamente collegata con il costo suppletivo. Lo scopo di questa politica è quello di conquistare
legalmente nuovi spazi sul mercato per, poi, consolidarli. Un altro modo per risolvere il costo invenduto è
l’offerta del tipo “paghi due, prendi tre” e simili. Analizzare bene il costo suppletivo è importante al fine di
comprendere il tema della scelta dimensionale; ovviamente lo studio del costo suppletivo trova
nell’impresa il suo unico campo di applicazione.

La tecnica del costing


La tecnica del costing permette un’analisi capillare dell’azienda e si divide in fasi diverse: la selezione,
l’aggregazione, la localizzazione e l’imputazione.

Nella prima fase devo discriminare i costi fissi dai costi variabili e inoltre distinguere i costi fissi diretti e
indiretti dai costi variabili diretti e indiretti. Un impianto è un costo fisso diretto se produco un solo
elemento, indiretto se produco più elementi. La manodopera è un costo fisso diretto se specializzata su un
prodotto, indiretto se specializzata su più prodotti. I costi di pubblicità sono variabili.
La tecnica del costing permette a questo punto di calcolare il margine di contribuzione, che si ottiene
tramite la differenza tra i ricavi unitari (prezzi di vendita del singolo prodotto) e i costi variabili indiretti, per
avere il margine di contribuzione lordo, inoltre se sottraggo i costi variabili diretti avrò il margine di
contribuzione netto (Mcontr=Pv-Cvind-Cvdir). In questo modo mi rimane la parte del ricavo che andrà a
coprire i costi fissi. Ovviamente tutto questo ha senso se l’azienda ha sia costi fissi che variabili.

Nella seconda fase analizziamo tutti gli elementi di costo per ricavare il costo economico tecnico, cioè il
costo più completo di un’azienda. Per arrivare a questo predetto costo bisogna innanzitutto ricavare il costo
primo, che si ottiene sommando le materie prime, sussidiarie o accessorie alla manodopera (costi diretti).
Dopodiché aggiungiamo al costo primo i costi indiretti di produzione (manodopera di supporto e di
controllo, tecnici direttivi, forza motrice etc…) e otteniamo il costo industriale a cui aggiungendo i costi
generali di amministrazione, i costi generali di vendita, compresi i costi di pubblicità, e gli oneri finanziari,
compresi i costi passivi e gli oneri bancari, arriviamo al costo complessivo o contabile.

Quest’ultimo, se riferito all’intero processo, esprime l’onere che, se coperto dai ricavi, consente la
condizione del puro equilibrio contabile. Se al costo complessivo aggiungiamo anche la remunerazione per
il rischio d’impresa (premio per l’imprenditorialità, detto onere figurativo) giungiamo al costo economico
tecnico, cioè al costo che, se coperto dai ricavi, consente la condizione del puro equilibrio economico.

Nella terza fase le aziende vanno divise in centri di costo, di ricavo e di responsabilità. I primi due sono
indispensabili per la determinazione, il calcolo e il controllo dei costi/ricavi, mentre i centri di responsabilità
si riferiscono a tutti i centri aziendali (centri di spesa, di profitto, d’investimento). L’azienda viene intesa
come complesso di elementi generatori di costi o di ricavi, che non vengono sostenuti per i singoli prodotti,
bensì per la produzione, infatti qui i costi diretti e indiretti vengono attribuiti prima ai centri di costo e poi
alle singole produzioni. I centri possono essere fisici o virtuali.
Individuare il responsabile di un centro significa individuare il soggetto a cui dare spiegazioni nel caso in cui
i costi crescano o diminuiscano, oppure il soggetto a cui chiedere spiegazioni nel caso in cui i ricavi crescano
o diminuiscano; insomma il responsabile del centro è colui che tiene sotto controllo costi e ricavi. La fase di
localizzazione è importante perché tramite essa tutti i singoli elementi dell’azienda vengono individuati e
divisi in vari centri.

Nella quarta fase tutti gli elementi di costo finora analizzati vengono scaricati sul singolo prodotto o
servizio. Per eseguire l’imputazione dei costi si parte da una base di riparto, cioè una grandezza che può
essere unica (il costo viene attribuito secondo un solo criterio) o multipla (il costo viene attribuito secondo
più criteri) o commerciale. Inoltre ci sono degli indici specifici di imputazione: a quantità fisiche-tecniche (se
si ricorre a indicatori espressi in metri, tonnellate, ore di lavoro) oppure a valore (se si ricorre a quantità
monetarie, cioè costo del lavoro, costo della produzione, costo degli impianti). Quest’ultima fase permette
di individuare il costo finale di produzione, in base alle varie attività riferite ai diversi centri di costo, in base
a parametri prefissati, detti cost driver. Questo costo non esprime mai una quantità certa, ma sempre
stimata, in quanto esso varia a seconda della scelta del metodo di ripartizione [FIFO (imputare le materie in
base a chi è entrata per prima in magazzino), LIFO (imputare le materie in base a chi è entrata per ultima in
magazzino), HIFO (imputare il costo più elevato per determinare poi il costo medio di magazzino)].

Inoltre distinguiamo i metodi del costing in:

 full costing, o metodo del costo pieno, che considera il costo totale di produzione formato dai costi
fissi e variabili. fc = cf+cv, R>fc, R – fc = margine di contribuzione. È più ridotto perché deve
consentire la reintegrazione dei soli costi di natura amministrativa e commerciale e realizzare
l’utile;
 direct costing, o metodo del costo variabile, che considera solo i costi variabili, poiché rileva i costi
fissi come costi di struttura necessari per produrre e non per ciascuna produzione.
dc = cv, R – dc = margine di contribuzione. È più ampio perché deve consentire la reintegrazione di
tutti i costi fissi e realizzare l’utile.

Ovviamente i risultati variano a seconda dei procedimenti di imputazione e delle basi usate, sta alla
capacità dell’operatore scegliere le basi e i criteri più opportuni, in modo tale da evitare l’attribuzione di
costi aggiuntivi. È necessario inoltre disporre di indicatori fisico-quantitativi, cioè di informazioni sui
processi produttivi, poiché i costi non sono generati dai prodotti, bensì dalle attività scelte per ottenerli
e collocarli sul mercato (Activity Based Costing).
La programmazione e il controllo di gestione (processo circolare)
Tutto questo è importante per eseguire la programmazione e il controllo di gestione, fondamentali per ogni
tipo di azienda per raggiungere l’economicità, fine ultimo delle aziende. La programmazione è l’attività più
complessa che si possa eseguire in azienda, poiché deve tener conto di molti fattori, sia interni che esterni
all’azienda, come i dati passati e i probabili andamenti futuri dell’azienda, il trend della domanda, l’offerta
concorrente, la disponibilità dei mezzi finanziari per realizzare investimenti, la possibilità di accedere alle
fonti di finanziamento. Essa può essere strategica o operativa.
Il processo circolare inizia con la programmazione strategica viene effettuata dall’Alta direzione, a medio-
lungo termine, che fissa la mission, cioè le linee strategiche di fondo, e le raccoglie in un documento detto
chiave industriale, un piano a scorrimento che prevede il ritocco dell’ultimo anno. Per essere efficace essa
deve avere un arco temporale che non superi i cinque anni, anche se oggi la media è di tre anni. È ovvio che
bisogna tenere conto dei tempi richiesti, ad esempio la programmazione agricola a volte prevede tempi
lunghi, quindi la programmazione può durare anche dieci anni. Con essa si deve prevedere l’indesiderabile
e controllare l’incontrollabile; in altri termini rappresenta il disegno del futuro desiderato e delle modalità
atte a determinarlo. Questa programmazione redige un Business plan, che descrive un progetto
imprenditoriale, comprendendo obiettivi, strategie, vendite, marketing e previsioni finanziarie; è
fondamentale in quanto coordina l’attività dell’intera organizzazione. Oltre all’individuazione degli
obiettivi, dei punti di forza e di debolezza e delle scelte fondamentali di marketing e organizzazione, la
programmazione strategica fornisce anche il Cash Flow, o flusso di cassa, cioè la conseguenza matematica
tra conto economico e stato patrimoniale, che fornisce informazioni sulla liquidità aziendale.
Gli obiettivi di fondo della programmazione strategica vengono realizzati dalla programmazione operativa,
che traduce i piani strategici in piani d’azione, attraverso il controllo degli obiettivi e l’analisi degli
scostamenti. Viene eseguita dai dirigenti dei vari reparti, quindi dalle seconde linee (centri di
responsabilità). Strumento cardine di quest’ultima programmazione è il budget, motivo per il quale la
programmazione operativa può anche essere definita come l’insieme dei singoli budget operativi e
funzionali, con i quali si guida il comportamento dei managers (senza il budget le seconde linee non
riuscirebbero a tradurre i piani strategici). Chi si occupa del budget sono persone fidate, poiché deve essere
redatto con molta cura, senza far prevalere gli interessi. Per anni il budget, detto top down o autorizzativo,
si è realizzato dall’alto verso il basso. Oggi prevede un modello che coinvolge tutti i livelli aziendali, detto
bottom up o partecipativo. Solitamente in assemblea il budget si decide verso novembre-dicembre, se le
aziende sono allineate con l’anno solare (ci sono ad esempio le società calcistiche che chiudono l’anno
verso maggio-giugno).
A fine anno il budget diventa il principale strumento di controllo della gestione, essendo quindi un piano
operativo, un programma di gestione e uno strumento di controllo di gestione. Consente il meccanismo
del feedback, in quanto, controllando gli obiettivi strategici, potrebbe invitare l’Alta Direzione a rivederli.
Il budget, nelle aziende importanti, viene ricontrollato almeno una volta al mese.
Nel master budget, che non è nient’altro che il budget finale, confluiscono tutti i tipi di budgets: il budget
delle vendite (finalizzato alla determinazione della quantità da produrre) il budget degli acquisti (finalizzato
alla determinazione dei costi delle materie, solitamente assunti sulla base dei valori della precedente
produzione), il budget della logistica (trasporto, modalità di organizzazione interna degli stabilimenti, ad
esempio dei supermercati), il budget del costo del lavoro diretto, il budget dei costi generali di produzione,
dei costi commerciali e dei costi amministrativi (costi indiretti che possono essere attribuiti ai prodotti in
base a specifici criteri d’imputazione: base unica o base multipla), il budget del marketing e il budget della
produzione.
Tutti questi budget settoriali confluiscono poi nel budget economico, mentre il budget della produzione
confluisce nel budget per gli investimenti, nel budget finanziario e infine nel budget patrimoniale.

Esiste inoltre lo zero based budgeting, costruito senza tener conto del passato; ad oggi poco usato perché
si preferisce tener conto dei dati storici. Non si costruisce mai un solo budget, in genere si eseguono
almeno tre scenari: sfidante (miglioramento notevole), possibile (lieve miglioramento) e conservativo o
storico. Un altro strumento di controllo sono i reports, cioè le informazioni dei vari centri che controllano
l’andamento della gestione e il suo allineamento con i piani aziendali; inoltre valutano le performance dei
managers. L’efficacia del controllo non è in funzione della quantità dei dati, bensì della loro qualità e della
tempestività con la quale vengono trasmessi.

Importante: non esiste un tipo di programmazione valido in assoluto, esistono molti fattori che concorrono
a formarlo, ma essi variano da azienda a azienda. In economia aziendale non esiste lo stereotipo!

Quindi programmare significa controllare e studiare una strategia da seguire per raggiungere
l’economicità aziendale, il che vuol dire che quanto più è difficile raggiungerla, tanto più occorre valutare le
possibili alternative per minimizzare i rischi e, per la stessa ragione, scegliere la strategia migliore.

L’analisi degli scostamenti e il follow up


Supponiamo di avere materie prime, manodopera, energia e ricavi delle vendite. Siamo a novembre 2020,
l’anno scorso le materie prime sono costate 100. Secondo lo scenario conservativo il budget è 100, secondo
quello possibile 95, secondo quello sfidante 80. Il costo della manodopera nello scenario conservativo è
200, in quello possibile 195, in quello sfidante 180. Il costo dell’energia nello scenario conservativo è 60, in
quello possibile 50, in quello sfidante 35. I ricavi delle vendite nello scenario conservativo sono 500, in
quello possibile 510, in quello sfidante 550. Nel mese di gennaio registriamo i risultati effettivi che l’azienda
ha conseguito: le materie prime sono 90, la manodopera 200, l’energia 52 e i ricavi 450.
Adesso eseguiremo l’analisi degli scostamenti (differenza tra quello che ho programmato nel budget e
quello che ho ottenuto), importantissima, deve essere eseguita anche quando i costi sono zero, poiché ogni
scostamento, positivo o negativo che sia, è un errore di programmazione (un incremento della domanda,
che potrebbe sembrare apparentemente un dato positivo, provoca l’innalzamento dei costi fissi: ecco
perché è importante agire con efficienza ed economicità, disponendo sempre di una riserva di capacità
produttiva. Un’attenta analisi del costo suppletivo può sicuramente aiutare a ricercare l’economicità).
Consiste nella verifica dei dati di bilancio rispetto a quanto stimato in fase di budget e gli unici scostamenti
positivi sono quelli che denotano una riduzione rispetto al budget.

Nel mese di gennaio può esserci uno stock di materie, quindi l’effetto rimanenza, in quanto c’è lo stop delle
vacanze: è evidente però che devo continuare a fare il monitoraggio.

Il follow up controlla i costi e consiste nel controllo dell’efficienza del feedback (o retroazione, prodotto che
l’azienda ha già venduto o un servizio che ha già erogato), per assicurarsi di conseguenza la conclusione
delle vendite.
Il follow up di gennaio prevede il costo effettivo delle materie prime decrementato rispetto all’anno scorso,
superiore rispetto allo scenario sfidante. Il costo effettivo della manodopera non ha efficientato la propria
produttività, in quanto è rimasto uguale all’anno scorso: partirà allora un feedback nei confronti dei
lavoratori al fine di spronarli a produrre di più. Il costo effettivo dell’energia è superiore sia allo scenario
sfidante che a quello possibile, perciò è ancora troppo alto, è inefficiente: bisogna eseguire un controllo
nell’immediato. I costi effettivi dei ricavi sono pessimi, di gran lunga inferiori rispetto ai tre scenari.
Tra i motivi potrebbero esserci una nuova concorrenza, una crisi economica (cause esogene). Dovrò reagire
rivedendo il budget e cambiando strategia, come ai tempi d’oggi, nel 2020, in preda ad una pandemia
mondiale, molte aziende hanno pensato di convertire la loro produzione: da abiti, borse e scarpe a camici,
mascherine etc…
Adesso eseguiamo il follow up di febbraio: il costo effettivo delle materie prime è 85, della manodopera è
192, dell’energia è 52 e dei ricavi è 480. Il primo costo è positivo, ottima efficienza (bisogna sempre tener
conto della materia prima usata). Il secondo costo si avvicina molto allo sfidante, perciò è positivo: può
accadere sia quando c’è miglioramento della produttività, sia quando i dipendenti si licenziano.
L'energia rimane uguale infatti, non potendo incidere su questo costo, bisogna rivedere sia il budget che
colui che fa i contratti. I ricavi invece migliorano rispetto a gennaio, però lo scostamento rimane negativo, in
quanto basso rispetto ai tre scenari. Se ciò dipende da un fattore esogeno, cioè esterno all'azienda, bisogna
rivedere il budget.
Il follow up di marzo prevede materie prime pari a 80, manodopera di 195, energia di 51 e ricavi di 500.
Il mese di marzo è fondamentale in quanto coincide con il primo quarto o primo trimestre dell'anno e
soprattutto perché al termine di questo mese il budget viene portato in amministrazione, perciò all'alta
direzione che controlla la programmazione strategica. Colui che riporta il budget è l'amministratore
delegato o il direttore generale o il direttore amministrativo che, insieme ai membri dell'Alta direzione,
conduce un'analisi. In questo caso le materie prime hanno raggiunto lo scenario sfidante, perciò oltre ad
essere state efficienti, potrebbero anche migliorare in futuro: ecco perché il budget delle materie prime
rimane lo stesso, anche se nei mesi successivi dovrà tendere al miglioramento. La manodopera ha
raggiunto lo scenario possibile, perciò andremo ad eliminare lo scenario sfidante di 190 e cercheremo di
mantenere costante lo scenario possibile di 195, che comunque è un buon dato. L'energia si trova ancora al
di sopra dello scenario possibile, perciò il budget va assolutamente rivisto (no 51, ma 55).
I ricavi invece sono gli stessi dell'anno precedente: evidentemente non piacciono più i prodotti che vendo,
probabilmente per una concorrenza migliore, perciò bisogna rivedere sia il budget che la programmazione
strategica, in quanto c'è bisogno di nuovi investimenti per rilanciare prodotti innovativi con appeal sul
mercato (es: auto elettriche o ibride). Quest’analisi effettuata ci permette di capire la complementarietà
delle due programmazioni: l’una influenza l’altra.

GLI STRUMENTI

 di rilevazione: Contabilità generale e analitica;


 di programmazione: Business plan e budget;
 di analisi: analisi di bilancio e degli scostamenti;
 di reporting: report periodici.

ANALISI QUANTITATIVE

 consuntive: bilancio e rendiconto finanziario;


 prospettiche: budget e flussi di Cassa.
La localizzazione aziendale
La localizzazione dell’azienda (non c’entra con la fase della localizzazione del costing) sceglie dove deve
essere ubicata la stessa. Essa prevede un’attenta analisi della domanda su mercato e una valutazione della
quantità di produzione da realizzare: occorre dimensionare l’azienda in base alle prospettive dei ricavi, dai
quali dipendono i volumi di produzione e dei costi. Una scelta sbagliata inerente alla dimensione
dell’azienda potrebbe provocarne la fuoriuscita dal mercato e favorire la concorrenza.

Altri importanti fattori di cui tener conto sono l’ambiente economico esterno, l’orientamento della politica
economica nazionale e i paesi terzi. Oggi solitamente le aziende vengono collocate lì dove la manodopera
costa meno, infatti negli ultimi anni abbiamo assistito ad una migrazione verso l’Est, poi verso la Cina,
l’India, il Brasile. Questo fenomeno è detto delocalizzazione selvaggia, poiché la manodopera a basso costo
viene sfruttata per produrre prodotti a basso prezzo, che poi vengono rivenduti a prezzi più alti, e magari
con l’etichetta made in Italy, poiché la vigente norma europea sul “made in” lo consente, visto che basta
una fase di lavorazione significativa nel Paese che emette l’etichetta; questo tipo di delocalizzazione è
scorretta. Quando invece l’azienda non punta a sfruttare solo la manodopera, ma segue una logica
imprenditoriale, attua una delocalizzazione corretta, che punta all’internazionalizzazione. Un’impresa
diventa globale quando è in grado di distribuire lo stesso prodotto, allo stesso prezzo, in tutto il mondo
(McDonald, coca cola). Un’azienda è internazionalizzata quando c’è disponibilità di capitali e si possono
quindi effettuare molti investimenti.

La glocalizzazione è un misto tra globalizzazione e localizzazione, quindi un prodotto glocal è globale, ma


viene prodotto solo in un luogo, ad esempio il parmigiano reggiano è globale, ma viene prodotto solo a
Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna. In Italia ci sono circa 450 prodotti glocal. La localizzazione
aziendale è una SCELTA STRATEGICA.

L’organizzazione aziendale
Oltre alle scelte strategiche, esistono le scelte del modello organizzativo, che seguono diversi stili di
direzione (modo attraverso cui si gestisce l’azienda). Ne esistono 2 tipi: accentrato e partecipativo-delegato.
Tanto più l’azienda sarà piccola, tanto più sarà accentrato. L’azienda deve essere proceduralizzata, nel
senso che deve essere organizzata e ognuno deve conoscere ed esercitare la propria mansione. Taylor
inventò l’analisi scientifica del lavoro per migliorare la produttività (colui che parlerà di catena di montaggio
e alienazione del lavoro). Il principio sul quale si basa l’organizzazione aziendale è quello di collocare la
forza lavoro, basata sulla sinergia degli individui che aumenta l’efficacia, al posto più idoneo, al fine di
ottenere la più alta produttività. Ogni ciclo aziendale necessita di un’organizzazione, che sarà ogni volta
diversa da ciclo a ciclo.

Modello organizzativo funzionale

Nella metà degli anni 50 del ‘900 si sviluppò il modello organizzativo funzionale, secondo cui l’azienda deve
essere divisa in varie funzioni: produzione, acquisiti, vendita, contabilità, marketing, programmazione e
controllo etc…, che costituiscono l’organigramma, che si modifica nel corso del tempo e che necessita di
una revisione periodica, al fine di verificare l’efficacia delle funzioni aziendali e proporre eventuali
miglioramenti. Scegliere l’organigramma è una scelta strategica, presa dall’Alta Direzione, che ha il dovere
di controllarla spesso per individuare le funzioni più importanti, che vengono tirate fuori
dall’organigramma, a cui bisogna fare attenzione (ad esempio oggi, con la pandemia di covid-19 in corso,
la funzione più importante, da tirar fuori dall’organigramma e da tenere sotto controllo è la finanza). Ogni
funzione è inserita in una casella e ognuna ha un capo.

Queste funzioni vengono riportate all’Alta Direzione se l’organigramma è composto da una linea continua,
se invece è tratteggiata vengono riportate all’Internal Auditing, che verifica che siano poste in essere tutte
le procedure e che non ci siano disfunzioni. L’Internal Auditing non dipende dall’Alta Direzione, infatti
verifica anche quest’ultima e riporta direttamente le informazioni al Consiglio amministrativo. L’art.231
del 2001: “societas delinquere potest”, cioè anche gli enti possono delinquere e quindi anch’essi sono
responsabili penalmente (prima la responsabilità era penale e personale, quindi propria delle sole persone
fisiche). Se l’azienda è in grado di creare procedure volte alla legalità e, quando viene commesso un reato,
riesce a dimostrare che le procedure erano poste in essere, essa viene giudicata scriminata, cioè non
responsabile, e viene esclusa dagli appalti pubblici/privati. Le procedure che vengono controllate affinché
siano svolte legalmente sono simili a quelle dell’Internal Auditing, la differenza è che nell’ultimo interviene
l’organismo di vigilanza, nominato dal Consiglio di Amministrazione: perciò la funzione è simile, però
l’Internal Auditing controlla l’efficienza aziendale, mentre l’organismo di vigilanza controlla che non
vengano commessi reati (corruzione, concussione etc…).

Modello organizzativo divisionale

Questo tipo di modello organizzativo prevede o la divisione geografica dell’organigramma, che viene quindi
diviso in Paesi, o la divisione del settore merceologico, cioè dei prodotti. A loro volta le caselle contenenti i
Paesi o i prodotti si suddividono in funzioni, che possono essere uniche o varie.

Modello Strategic Business Unit (SBU)

In questo tipo di modello organizzativo l’azienda viene divisa in unità di business, che hanno il compito di
svolgere la commessa assegnata, che può essere istituzionale o commerciale. La prima è solitamente
internazionale e accresce il prestigio dell’azienda, la seconda invece è spesso a scopo di denaro.
Le unità di business sono formate da un team e in Italia vige il principio della piramide gerarchica: in questo
modo, anche quando un’azienda ne compra un’altra e deve razionalizzarla, il team rimane piuttosto
inalterato. (es: Telecom, Leonardo). Una scelta strategica può essere volta alla crescita aziendale, che può
crescere dimensionalmente, per linee interne ed esterne. Mentre la crescita per linee interne avviene in
maniera equilibrata, omogenea, lenta e graduale e richiede ingenti investimenti e una certa capacità
imprenditoriale, la crescita per linee esterne si rileva essere molto più semplice e veloce e consiste
nell'aumentare le proprie dimensioni esternamente e nel realizzare sinergie tra le funzioni di imprese,
prima indipendenti, che aumentano la capacità di resa grazie proprio all’azione collettiva dei suoi membri,
effettuando una o più operazioni straordinarie come fusione o acquisizione.

Esiste inoltre un tipo di organizzazione detta a rete, come ad esempio la Benetton, che si basa sulla
distribuzione delle merci in franchising. Quest’ultimo prevede un contratto con il quale il franchisor, di
norma un produttore, concede, ad una pluralità d’imprese autonome, di vendere in esclusiva i prodotti con
il suo marchio.

Egli sostiene finanziariamente gli associati nella fase iniziale per le spese di allestimento del negozio e per
l’avviamento del ciclo commerciale, ma si riserva il diritto di imporre la sua impronta sul punto vendita, in
modo da ottenere uniformità sui negozi, che si presentano quindi come una catena.
Il Gruppo aziendale
Un Gruppo aziendale è un insieme di aziende (α, β e γ) che hanno la caratteristica di avere un unico
soggetto economico e tanti soggetti giuridici quanti sono le aziende coinvolte. Il Gruppo spesso viene
utilizzato per attività non molto corrette (ad esempio l’azienda α ha sede a New York e l’azienda β a Roma,
fanno attività di beneficenza e hanno molto prestigio, ma l’azienda γ del Gruppo si trova in Indonesia e lì
sfrutta i bambini per produrre ciò che poi viene rivenduto dalle aziende α e β). Vi sono delle scelte
localizzative, ad esempio molti hanno la sede In Olanda perché con il 30% del capitale si gestisce l’azienda
(es: il Gruppo FCA ha sede lì), e scelte fiscali, poiché in alcuni Paesi le tasse sono più basse. La società H
(Holding) è la capostipite di α, β e γ e non ha specifiche attività operative, ma detiene le azioni di alcune o
tutte le aziende del Gruppo. Non tutte le aziende però dipendono da una Holding di diritto privato, molte
dipendono da un ente pubblico. Gli enti pubblici economici hanno personalità giuridica pubblica e lo Stato
interviene nei loro settori produttivi (oggi società per azioni). Esistono diversi tipi di gruppi:

Gruppo ad integrazione verticale

Il Gruppo ad integrazione verticale lungo la stessa filiera produttiva ha come obiettivo quello di
incrementare la catena e di aumentare l’efficienza. α, β e γ producono cose diverse (es: H produce
frigoriferi, α produce i ripiani, β i cassetti e γ le luci). Spesso α, β e γ, essendo aziende consorelle, si fanno
degli sconti a vicenda, anche se queste pratiche sono illegali. Esempi di questo gruppo sono i Gruppi
farmaceutici, dove c’è chi è impegnato nella ricerca, chi nella produzione di materie e semilavorati etc…

Gruppo ad integrazione orizzontale

Il Gruppo ad integrazione orizzontale lungo filiere produttive a marchi diversi è in realtà un’applicazione del
costo suppletivo. α, β e γ producono le stesse cose (es: FCA produce macchine con marchi FIAT, Alfa
Romeo, Lancia, Maserati, Abarth etc… oppure Coop, Conad, quindi catene di supermercati). Il rischio di
concorrenza è alto, ma si assottiglia quando si distingue bene il marchio.

Gruppo polisettoriale

Il Gruppo ad integrazione polisettoriale è stato creato per diversificare il rischio d’impresa, ma allo stesso
tempo corrono il rischio del fallimento dell’intero Gruppo. In questo tipo di Gruppo α, β e γ sono delle sub-
holding, in quanto controllano a loro volta altre aziende (es: α controlla δ e ε). Esempi di questo Gruppo
sono i conglomerati, che comprendono una ampia varietà di settori, dal manifatturiero, al finanziario,
all’assicurativo etc… C’è una società madre che a sua volta comprende società capo settore che a loro volta
comprendono altre società (sub-holding).

Il soggetto economico è colui che detiene il capitale di comando della Holding, che può essere di diritto
pubblico (quando lo Stato interviene in uno o più settori produttivi – IRI, la più importante holding pubblica
italiana del secondo dopoguerra) o privato, ed è unico, mentre i soggetti giuridici sono diversi.
L’economista classifica un’azienda pubblica o privata in relazione alla natura del soggetto economico,
mentre il giurista tiene conto del soggetto giuridico.
Economicità super aziendale o del Gruppo
Ricordiamo cos’è l’economicità: la capacità dell’azienda di raggiungere gli obiettivi del soggetto economico
(colui che è in grado di influenzare la maggioranza dei voti) ai minimi costi, senza sprechi, con attenzione
alle prospettive future. Il Gruppo deve avere unitarietà aziendale, come se le varie aziende costituissero
una sola entità, e chi deve garantirla è il soggetto economico della holding, che non dovrà guardare
l’economicità della singola azienda, bensì quella di tutte le aziende del Gruppo. Questo garantisce
l’esistenza anche di quella azienda che si trova momentaneamente in difficoltà, poiché l’economicità del
Gruppo riesce comunque a sostenerla. Il Gruppo funziona bene quando c’è unitarietà nella gestione, che si
ha creando dei regolamenti di Gruppo, che prevengono la concorrenza. Nei gruppi è possibile che il
soggetto economico valuti positivamente l'opportunità di avere una o più aziende che, operando in settori
di supporto delle altre, abbiano costi non coperti interamente dai ricavi. In questo modo le consorelle del
Gruppo si avvalgono dei servizi offerti da queste aziende, quindi vi è una sorta di aiuto reciproco. È il caso
ad esempio delle società destinate alla ricerca e agli studi (elementi insopprimibili, in quanto fondamentali
per un perdurante ed ordinato sviluppo dell'equilibrio economico) oppure quelle finalizzate a produrre
servizi amministrativi o legali. Esistono poi delle vere e proprie strategie che vengono applicate dai soggetti
economici delle aziende: ad esempio può capitare che gli studi e le ricerche realizzati all'interno di un
Gruppo costino di più che se commissionati a società terze, ma il soggetto economico può valutare il
vantaggio della riservatezza e consentire così all'azienda di arrivare a sorpresa sul mercato.
In altri termini, le perdite di alcune aziende del Gruppo possono essere volute perché da tali perdite
possono prospetticamente scaturire maggiori profitti per altre aziende del Gruppo stesso: è in questo caso
che si parla di economicità sovraziendale. In un Gruppo può anche verificarsi che il soggetto economico
decida di vendere a prezzi non remunerativi, allontanando così l'azienda dall'autosufficienza economica, ma
svolgendo così un'azione dirompente su quel mercato, costringendo alla resa la concorrenza o comunque
impedendo l'ingresso a nuovi concorrenti.

La più estesa presenza sul mercato accresce sicuramente il prestigio e il valore della società capogruppo,
oltreché del soggetto economico, e quando la presenza sul mercato sarà consolidata, le aziende
originariamente sacrificate per tale obiettivo torneranno all'equilibrio economico. Dunque da questa analisi
possiamo comprendere che il soggetto economico è la chiave di tutte queste situazioni apparentemente
anomale. Se egli è pubblico, infatti può far sopravvivere aziende squilibrate in ragione dell'interesse sociale.
Il soggetto economico pubblico ha come obiettivo primario quello di favorire gli utenti meno abbienti e
come obiettivo secondario quello di incentivare l'uso del mezzo pubblico, motivo per il quale esso pratica
prezzi politici, cioè svincolati dal livello dei costi e da una logica di equilibrio sia pure contabile.

La strategia commerciale Joint-Venture è un accordo fra due o più aziende, creato al fine di realizzare un
progetto comune. Le varie società che contribuiscono alla realizzazione del singolo progetto sono
autonome, spesso concorrenziali (es: la società holding A è una FCA, la società B è la Ford, la società C è la
Opel: creando questo contratto, la FCA migliora la sua efficienza, non produce solo macchine Ford, ma
anche Opel, perciò migliora il suo costo suppletivo e distribuisce meglio i suoi costi fissi).
Terminato il contratto, le aziende tornano ad operare individualmente, infatti raggiunto l’obiettivo, se ne
fissa uno nuovo. Il substrato economico è alla base del contratto.

La strategia della Joint-Venture oggi è molto usata, poiché consente alle aziende di entrare nei mercati
internazionali, quindi è una modalità per inserirsi nei mercati, senza troppi investimenti. Solitamente
questo accordo viene stipulato tra aziende di paesi industrializzati, che hanno un qualificato Know-how,
cioè una serie di conoscenze ed esperienze in grado di far conseguire all’azienda migliori risultati tecnologici
ed economici, e aziende di paesi meno progrediti.

La Joint-Venture Company si ha quando due aziende realizzano un progetto insieme, ma poi questo
progetto viene acquisito totalmente da una delle due, che diventa quindi una società autonoma (es:
Swatch, consorzio svizzero, Mercedes, società tedesca, realizzano insieme la macchina Smart, perciò
entrambi hanno la quota del 50% sulla Smart. Realizzato il progetto, Swatch chiede a Mercedes di
acquistare la sua quota perché vuole tirarsi fuori dal contratto. Mercedes acquista la quota e la Smart
diventa 100% marchio Mercedes). Come si può ben vedere non c’è unitarietà di gestione nelle Joint-
Venture.

Altri esempi di Joint-Venture sono i raggruppamenti temporanei d’imprese o Ati o Consorzi, che si
uniscono solitamente per partecipare agli appalti pubblici, oppure la rete d’impresa, cioè un accordo
stipulato da piccole-medie imprese per realizzare un progetto insieme, come una ricerca scientifica, un
investimento, una produzione.

Le strategie aziendali
La strategia è fondamentale in un’azienda: bisogna avere una buona programmazione e un’ottima strategia
affinché l’azienda perduri nel tempo. Ad esempio, oggi, la pandemia mondiale di Covid19, ha messo a dura
prova tutti; molte aziende hanno convertito la loro produzione, ad esempio Ferragamo oggi produce camici
per i medici, altre aziende producono mascherine. Quindi molte aziende, grazie ad una buona
programmazione e a buoni investimenti (per lo più sociali), sono riuscite a mandare i lavoratori in smart-
working. Una strategia molto rischiosa, che funziona soltanto quando le aziende sono innovative e
producono qualcosa di nuovo, sono le aziende di nicchia, piccole aziende che si inseriscono in un grande
mercato già consolidato. Sul mercato vince sostanzialmente chi ci arriva primo. Fare investimenti, significa
avere costi, che comportano meno margine di ricavo, quindi meno utile, ma buoni investimenti
comportano tanti ricavi.

Investire è una strategia sicuramente rischiosa, ma necessaria affinché ci sia crescita aziendale. I fattori
produttivi in posizione residuale prevedono una remunerazione eventuale e non prestabilita, come quella
dei soci d’opera, cioè di coloro che apportano lavoro, che in questo caso è un fattore in posizione residuale.
Nel caso in cui invece la persona che apporta lavoro viene pagata a prestazione e non costituisce un socio
per l’azienda, il suo lavoro è in posizione contrattuale, cioè con remunerazione certa e prestabilita. Le
aziende capitalistiche hanno soltanto il capitale in posizione residuale, il lavoro è infatti in posizione
contrattuale e la remunerazione dei lavoratori è variabile, a seconda della performance offerta. Altri fattori
in posizione contrattuale sono le stock options, cioè opzioni call europee o americane che danno il diritto di
acquistare azioni di una società ad un determinato prezzo d'esercizio. Le stock options non esistono per
tutte le società per azioni, ma solo per quelle quotate . La contropartita dell’essere fattore in posizione
residuale non è la remunerazione, bensì la capacità di incidere sulla gestione. Un fattore in posizione
residuale deve esserci necessariamente, altrimenti non ci sarebbe l’azienda per il mercato, ma troppi fattori
in posizione residuale non fanno bene all’azienda, in quanto creerebbero un blocco nell’attività gestoria.
Tra le forme di alterazione del rapporto capitale-lavoro abbiamo la partecipazione del lavoro al capitale,
che prevede che i lavoratori sottoscrivano, a pagamento, azioni per la società: i lavoratori diventano così
soci di riferimento.
Tutto questo crea una migliore coesione tra i lavoratori, che saranno così più motivati e presteranno
migliori performance. Il Decreto Legislativo 58/24-02-1998, noto come TUF o Testo Unico Finanze, tratta
dei diritti dei soci di minoranza. Le minoranze hanno diritto a nominare almeno un sindaco se il collegio
sindacale è di 3 membri, due sindaci se il collegio sindacale è di 5 membri e così via; la minoranza possiede
inoltre dei posti nel Consiglio di Amministrazione, 2 posti se nel Consiglio ci sono 7 membri, 3 se ci sono 11
membri. In Italia l’unica azienda che ha fatto partecipare i lavoratori al capitale è stata Alitalia, ma il capitale
è andato perduto e di conseguenza è fallita: ecco perché oggi questa forma non si usa. Un’altra forma è la
cogestione, che può essere strutturata o non strutturata. La
prima nasce dal modello di organizzazione dualistico e prevede la presenza dei rappresentanti dei lavoratori
nell’ambito del Consiglio di Sorveglianza, che svolge compiti di controllo, in alcuni casi sostituisce
l’assemblea stessa e nomina inoltre il Consiglio di amministrazione. Questa cogestione però non è presente
in tutti i paesi, infatti il modello dualistico in Italia vieta la partecipazione dei lavoratori al Consiglio di
Sorveglianza. La seconda si ha quando l’imprenditore decide di vendere l’azienda o di cedere le sue quote
di maggioranza e l’acquirente è un concorrente: poiché i lavoratori rischiano il licenziamento, chiedono
all’imprenditore di avere più tempo per trovare un nuovo acquirente. I dipendenti, come garanzia, offrono i
loro stipendi, accettando di essere pagati con i fattori in posizione residuale e non più contrattuale, e il
Trattamento di fine rapporto o TFR o liquidazione, cioè una porzione di retribuzione che, in Italia, il datore
di lavoro cede al lavoratore, quando egli smette di lavorare per lui. I dipendenti diventano a tutti gli effetti
soggetti economici tanto quanto l’imprenditore, che rinuncia così, momentaneamente, al premio
d’imprenditorialità. Ultima forma è l’autogestione, dove i lavoratori, per salvaguardare il loro costo di
lavoro, prendono il posto dell’imprenditore; vi è quindi una vera e propria transizione dell’imprenditore e
un cambiamento completo di soggetto economico (management buyout - un'operazione di acquisizione di
azienda da parte di un gruppo di manager interni all'azienda, che assumono la figura di manager-
imprenditori).

Finanziamento d’azienda
Iniziamo ricordando il ciclo economico finanziario, che si genera dai proventi (contributi, lasciti, donazioni,
imposte e tasse), che danno luogo a disponibilità monetarie, con le quali si sostengono i costi e si
effettuano gli investimenti, al fine di realizzare una produzione, destinata al consumo interno o esterno.
La condizione d’equilibrio si ha quando i proventi eguagliano i costi: i costi sono in funzione/dipendono dai
proventi, perciò i proventi anticipano i costi. Tutto questo è un ciclo aperto. Queste aziende devono
semplicemente limitarsi a garantire il ciclo aziendale, perciò non hanno problemi finanziari di base. Ma ci
sono dei casi in cui anche le aziende che producono per il consumo necessitano di fonti finanziarie per
gestire l’azienda (ricordiamo che lo Stato è un’azienda che produce per il consumo interno): ad esempio
quando l’azienda è in deficit spending, cioè quando i costi superano i proventi, e decide quindi di
finanziarsi con il suo debito, poiché esiste il moltiplicatore keynesiano.
La teoria keynesiana si basa sull’ipotesi di un moltiplicatore keynesiano, uno strumento fondamentale di
analisi macroeconomica, secondo cui lo Stato è in grado di moltiplicare un euro fino ad 80 volte e, essendo
anticiclico, deve intervenire, finanziare l’azienda in difficoltà, al fine di rimetterla in moto, e poi tirarsi
indietro. Questa teoria si basa su una particolare funzione del consumo: gli investimenti privati sono
considerati costanti, mentre la spesa per il consumo “C” è determinata da una parte autonoma “A”,
indipendente dal reddito, e da una parte legata al reddito “Y” tramite la propensione al consumo degli
individui “c” (C=A+cY). Gli individui “c” utilizzano solo in parte il loro reddito per le spese di consumo, circa
l’80%, mentre l’altra parte è messa a risparmio. In pratica qualsiasi incremento del reddito genera un
effetto moltiplicativo della spesa C, superiore all’incremento iniziale, e viceversa. Questo fenomeno è detto
1
moltiplicatore keynesiano, la cui formula è .
1−c

Lo Stato chiede i soldi ai cittadini emettendo titoli di debito pubblico; lo spread coincide con la differenza
tra il tasso di interesse di emissione dei titoli di Stato e il tasso di interesse intrinseco del Bund tedesco, che
avendo il tasso di interesse più basso, viene preso come punto di riferimento. Se i titoli di interesse o BTP
(buoni del tesoro poliennale) sono alti significa che i rischi corsi sono più alti e quindi che lo Stato è in
default, cioè non è in grado di rimborsare i prestiti ceduti. Lo Stato può anche chiedere aiuto ad altri paesi
e, in casi di emergenza, anche all’Unione Europea, a cui l’Italia ha fatto ricorso quest’anno per via del
Covid19; nell’ultimo caso bisogna necessariamente dichiarare come si vuole investire keynesianamente il
denaro prestato. Il rating, in italiano classificazione, è un metodo utilizzato per valutare sia i titoli
obbligazionari, sia le imprese in base al loro rischio finanziario e prevede una classifica: da A a D (l’Italia ora
è in BBB-). Dunque possiamo affermare che la sopravvivenza dell'attività aziendale è consentita quando si
riesce a compensare alla carenza di mezzi finanziari, espressi dalla monetizzazione dei ricavi e dei proventi,
con altri flussi monetari, quali il ricorso al capitale di credito, nel caso delle aziende che producono per il
consumo, e al capitale di credito e di rischio, nel caso delle aziende che producono per il mercato. Ecco
perché esistono delle imprese che vengono mantenute in vita anche se non conseguono né l'obiettivo del
profitto, né quello minimo dell'equilibrio economico, appunto perché esiste qualcuno che, al posto loro, è
disposto a finanziare gli investimenti. Quando vengono impegnati capitali di rischio o di credito non
dobbiamo pensare subito che l'azienda sia in squilibrio economico, infatti in presenza di equilibrio
economico essi suppliscono ai ritardi nella monetizzazione dei ricavi, mentre in assenza di equilibrio
economico integrano il divario quantitativo tra costi e ricavi.

Il fabbisogno finanziario
Il fabbisogno finanziario coincide con la differenza temporale tra le entrate e le uscite. Esistono vari tipi di
fabbisogno, che variano a seconda dell'azienda presa in considerazione. Un'azienda stagionale ad esempio,
che produce panettoni, avrà un fabbisogno finanziario con periodi in cui avrà picchi di entrate e periodi in
cui avrà picchi di uscite, quindi il fabbisogno stagionale avrà sicuramente un andamento legato al periodo è
quello che bisogna fare in questa tipologia di azienda è quello di destagionalizzare, allungando così la vita
del business. Un'azienda con costi fissi molto elevati, ad esempio le imprese industriali che avendo
numerosi impianti, generatori di costi fissi, avranno un fabbisogno rigido, che non si può eliminare, mentre
le aziende con fabbisogno elastico sono quelle che hanno costi fissi bassi e molti costi variabili, come ad
esempio i supermercati, che se non riescono più a vendere un prodotto possono sempre smobilizzarlo
attraverso sconti. Infine ci sono le aziende con un fabbisogno consolidato, che sostanzialmente è sempre lo
stesso. Il fabbisogno può essere di breve, lungo o medio periodo ed è molto importante analizzarlo perché
ci permette di comprendere quale finanziamento sia meglio prendere in considerazione.
Un'azienda fallisce proprio quando non capisce la fonte del fabbisogno e di conseguenza non è in grado di
fare una scelta giusta riguardo il finanziamento (Parmalat).
Il fabbisogno finanziario è generato da tutte le voci di uscita, quindi tutto quello che induce al costo, come
la necessità di fare finanziamenti, il comprare impianti, il magazzino. In realtà anche i crediti generano un
fabbisogno perché sono una mancanza di liquidità; anche la liquidità in eccesso può causare fabbisogno
finanziario nel momento in cui non la impiego. Quindi tutti gli elementi che si trovano fra gli investimenti
dello stato patrimoniale altro non sono se non impieghi e quindi elementi che generano fabbisogno.
Il fabbisogno finanziario nelle aziende che producono per il consumo
Le aziende che producono per il consumo non nascono con un fabbisogno finanziario, poiché i proventi
anticipano i costi, ma può sempre esserci un gap temporale fra la ricezione dei proventi e il sostenimento
dei costi. Basta pensare alle aziende ospedaliere che erogano prestazioni sanitarie agli ammalati e solo
dopo un certo tempo ricevono il rimborso da parte dell’Ente locale competente: è il caso appunto delle Asl,
aziende pubbliche di consumo, che non avendo i proventi necessari, che la Regione dovrebbe fornirgli, sono
costrette ad indebitarsi. Questo accade perché le Regioni non hanno molte liquidità, motivo per il quale
molte volte si rivolgono alle banche per l’utilizzo del factoring, cioè un metodo di finanziamento che
permette di fattorizzare un credito, cioè di renderlo liquido ora, a fronte di un pagamento di interessi
domani (il Cash management gestisce le liquidità aziendali). Anche le aziende di consumo private possono
avere bisogno di finanziamenti e possono far ricorso ad esempio al cinque per mille, cioè ad una quota
dell'imposta IRPEF, che lo Stato italiano ripartisce per dare sostegno agli enti che svolgono attività
socialmente rilevanti (es: enti di ricerca per il cancro). Esistono poi gli enti bilaterali di formazione
continua, a cui le aziende sono iscritte e a cui possono far riferimento in caso di necessità di corsi di
formazione. I lavoratori e i datori di lavoro pagano dei contributi a questi enti (piccola parte di quelli versati
agli Enti previdenziali/assistenziali), anche se non sono i lavoratori e i datori di lavoro a pagare questi enti,
bensì l’INPS (Istituto nazionale della previdenza sociale), che ha tempi abbastanza lunghi, motivo per il
quale la maggior parte delle volte necessitano di fabbisogni finanziari. Tutti i casi analizzati hanno una
particolarità: la fisiologia inversa, poiché queste aziende di consumo, che di natura non dovrebbero avere
bisogno di aiuti finanziari, sono costrette ad indebitarsi perché le uscite anticipano le entrate.
Un’altra cosa importante è che l’unica fonte di finanziamento per queste aziende è il capitale di credito,
che porta con sé gli interessi passivi, perciò l’unica soluzione a cui possono ricorrere sono i prestiti.

Il fabbisogno finanziario nelle aziende che producono per il mercato


Le aziende che producono per il mercato si originano con un fabbisogno finanziario, perché il capitale
messo a disposizione non riuscirà mai a coprire tutte le spese dell’intera produzione, e soprattutto perché i
costi anticipano i ricavi. L’equilibrio finanziario è la capacità dell’azienda di far fronte sempre, in ogni
momento, ai propri impegni finanziari, ricorrendo o non ricorrendo al capitale di terzi (è importante
sottolineare che il primo finanziatore dell’azienda è il dipendente, che viene pagato a fine prestazione,
quindi anticipandola). Questo significa che l’azienda può essere equilibrata pur essendo in debito,
l’importante è che vi sia armonia tra fabbisogni finanziari e fonti di finanziamento, e tra entrate, generate
dai proventi e dai ricavi, e uscite finanziarie, generate dai costi. La connessione tra i due aspetti è talmente
forte che le condizioni dell’equilibrio economico possono essere compromesse da squilibri finanziari.
L’autosufficienza finanziaria invece si ha quando l’azienda è in grado di far fronte ai propri impegni
finanziari senza ricorrere ai finanziamenti. È impossibile che un’azienda che produce per il mercato sia in
grado di essere autosufficiente, neanche le aziende di monopoli lo sono, infatti raggiungerla non è
l’obiettivo di nessuna azienda. Se l’equilibrio economico coincideva con l’autosufficienza economica,
l’equilibrio finanziario non coincide con l’autosufficienza finanziaria.
Prima di ricorrere alle fonti di finanziamento è fondamentale capire che tipo di fabbisogno finanziario ho,
cosa me lo genera, quanto posso arrivare a coprire, i fattori dell’ambiente esterno all’impresa e anche il
metodo di incasso delle operazioni di gestione (analisi della natura del fabbisogno), infatti una scelta
finanziaria sbagliata ⇒ crisi dell’impresa. Non esiste però una soluzione unica e soprattutto valida per tutte
le imprese, ma bisogna sempre valutare caso per caso.
Al fine di aiutare le aziende e fornire loro indicazioni sulle scelte più adeguate alla gestione dei flussi
monetari e delle eccedenze di liquidità, nasce il Cash management, che cerca di indirizzare le aziende verso
una linea-guida comune: massimizzare il rendimento delle disponibilità nella più elevata sicurezza
d’investimento, tenendo ben presenti vincoli e possibilità derivanti dall’ambiente esterno ed interno
all’azienda.

Molto importante è la funzione finanziaria che svolge una doppia funzione di finanza e controllo degli
equilibri finanziari, dipendenti dall'attività economica. Ulteriore conferma del fatto che gli elementi
finanziari dipendono da quelli economici è che il fabbisogno finanziario è correlato al volume dei mezzi
monetari necessari per acquisire i fattori della produzione; ricordiamo inoltre che non è la natura del bene
a qualificare il fabbisogno, ma la funzione del fattore nel ciclo aziendale. Un’azienda con molti costi fissi ha
un fabbisogno rigido, quindi non è in grado di contrarre questo fabbisogno senza creare problemi alla
gestione interna. Il magazzino, in cui avrò le scorte, è uno di quei fattori da tenere sotto controllo: il punto
fisso di riordino stabilisce che vi siano delle merci che non devono mai mancare, quindi nel momento in cui
esse raggiungono questo punto fisso vengono automaticamente riordinate (es: le farmacie, che hanno dei
medicinali salvavita che non possono mai mancare). Il punto fisso di riordino sarà contenuto se avrò un
buon rapporto con i fornitori. Riordinare continuamente, quindi non fare mai magazzino, per non avere
parti dello stesso immobilizzate, rendono il fabbisogno elastico (tecnica del Just in time); essa non è
praticabile nella realtà, in quanto le scorte nel magazzino ci saranno sempre, piuttosto bisogna saperle
gestire, in accordo con i fornitori; inoltre si dovrebbero svolgere attività complementari che permettano di
non avere un flusso stagionale, bensì annuale. Queste aziende hanno come fonte di finanziamento, oltre al
capitale di credito, anche il capitale proprio o di rischio o paziente, l’autofinanziamento e le fonti
ibride/innovative.

Le imprese con fabbisogni finanziari da coprire si rivolgono ai mercati di capitali, che hanno come input il
risparmio e come output la domanda di capitali. Questo mercato si divide a sua volta in mercato
monetario, dove il risparmio è a breve termine e di conseguenza anche i capitali negoziati, e mercato
finanziario, dove il risparmio è a medio lungo termine e perciò anche i capitali negoziati.

All'interno del mercato finanziario inoltre si configura il mercato dei valori immobiliari, cioè quello in cui
capitali sono rappresentati da titoli, e il mercato dei valori non immobiliari, cioè quello in cui i capitali sono
rappresentati da prestiti a medio lungo termine.

 Lo Stato ricorre al mercato monetario attraverso i BOT (Buoni Ordinari del Tesoro) e al mercato
finanziario, più precisamente al mercato dei valori immobiliari, attraverso le emissioni di BPT (Buoni
del Tesoro Poliennale) e CCT (Certificati di Credito del Tesoro);
 Le imprese invece ricorrono al mercato monetario attraverso i prestiti concessi dalle banche e al
mercato finanziario se la loro veste giuridica consente l'emissione di obbligazioni, cioè titoli
rappresentativi di un credito che possono essere emessi da società per azioni e in accomandita per
azioni e da enti autorizzati, o di azioni, cioè titoli di partecipazione al capitale sociale che possono
essere emessi solo da società per azioni e in accomandita per azioni. Se la loro veste giuridica non
consente le emissioni di questi titoli, le imprese devono rivolgersi al mercato finanziario non
mobiliare per contrarre prestiti a medio o lungo termine.
Per effettuare la scelta del capitale da utilizzare bisogna osservare bene l'aspetto economico, cioè l'onere
connesso con il capitale di credito e la remunerazione richiesta dal capitale di rischio. Il capitale di rischio è
remunerato residualmente e coloro che lo offrono possono anche attendere anni, in vista di una
remunerazione sostanziosa, mentre i creditori vogliono la remunerazione alle scadenze prefissate, motivo
per il quale se l'investimento è ideato per produrre un ritorno economico dopo 2-3 anni, il ricorso al
capitale di rischio appare la scelta più idonea. Il concetto fondamentale alla base di tutto è che, anche nelle
condizioni più difficili, è doveroso scegliere secondo economicità. Una scelta effettuata con economicità è
ad esempio quella di investire continuamente in studi e ricerche, finalizzati a miglioramenti qualitativi della
produzione, che avendo tempi molto lunghi, sarebbe meglio finanziarie con capitali di rischio (ecco perché
detto paziente). Uno dei motivi della crisi delle imprese è proprio la sottocapitalizzazione, cioè il ricorso
improprio al capitale di credito.

È pur vero che le medie e piccole imprese hanno difficoltà di accesso al capitale di rischio, ma il
responsabile della funzione finanziaria e i suoi consulenti hanno comunque il dovere di valutare se il
capitale di credito consente comunque il mantenimento delle condizioni di equilibrio e soprattutto se vale
la pena investire; a volte bisogna saper prendere anche decisioni difficili, quali ad esempio quella di
liquidare l'impresa, piuttosto che effettuare investimenti rischiosi, che non sono in grado di essere poi
coperti ed essere obbligati successivamente alla liquidazione fallimentare. Molte imprese ad esempio
hanno deciso di aderire ad un’iniziativa dello Stato che mira a bilanciare gli svantaggi di localizzazioni,
aiutando le imprese aderenti con un sostanziale intervento pubblico nel finanziamento degli investimenti e
con opportuni sgravi fiscali sul reddito prodotto; in cambio le imprese devono ubicarsi, o comunque ubicare
alcuni impianti, in determinate zone del territorio nazionale, tale da favorire le aree meridionali e alcune
zone depresse del centro nord. Molte imprese però, nonostante gli aiuti, sono fallite, questo sottolinea
ancora una volta che le scelte ubicative, come quelle dimensionali, non possono essere indotte da vantaggi
finanziari immediati, ma devono essere studiate e prese con economicità.

Gli enti pubblici economici, che oggi sono stati trasformati in società per azioni, hanno un capitale di
rischio, che non coincide con il capitale sociale, bensì con il fondo di dotazione, che è in grado di
riequilibrare le fonti di finanziamento e migliorare il conto economico dell'impresa attraverso la riduzione
degli interessi passivi. Essi hanno un soggetto economico pubblico, di norma lo Stato; esempi di questi enti
sono le due grandi holding pubbliche residuali, l'IRI S.p.A. e l'ENI S.p.A.

L'obiettivo del mantenimento del controllo sul mercato deve essere raggiunto ricercando soluzioni diverse,
come ad esempio quella di concordare, con una Merchant Bank, l'aumento di capitale necessario a
finanziare i programmi di sviluppo dell'impresa, vincolando i pacchetti azionari in un patto di sindacato e nel
contempo stabilendo il diritto del soggetto economico di riacquistare i titoli della Merchant Bank ad
un'epoca prefissata, cioè una data in cui inizia a decorrere l'interesse su una partita finanziaria, e a
condizioni economiche predefinite.

Le Merchant Banks, al pari delle società finanziarie che operano nel settore del capital venture,
intervengono nel capitale di rischio puntando sul guadagno ricavabile dalla ricollocazione sul mercato delle
partecipazioni acquisite. Infatti è evidente che se l'iniziativa per le quali si è ricorsi all'aumento del capitale
è valida, l'impresa amplierà il proprio mercato, i propri profitti e quindi anche il valore delle azioni.
Operazioni realizzate con tale intervento sono il leveraged buyout, che consiste nel sostenere
finanziariamente un operatore che intende acquisire una società utilizzando per il pagamento i risultati
economici della stessa, il management buyout, che si verifica quando i managers vogliono acquistare la
società che gestiscono, lo start up, che consiste nel finanziamento di iniziative ricche di prospettive il cui
soggetto economico manca però dei necessari capitali per farle decollare, e il bridge financing, che consiste
nel sostegno del capitale di rischio a società che intendono ottenere la quotazione di borsa e debbono
presentarsi sul mercato con un partner solido e conosciuto.

ENTRAMBE LE AZIENDE, dunque, devono far fronte al divario tra la monetizzazione dei proventi e dei ricavi
e la scadenza delle spese, che impedisce al ciclo finanziario di essere autosufficiente ed impone quindi il
ricorso al finanziamento per integrare le entrate.

Capitale proprio e capitale di credito


Cercare capitale proprio non è facile perché bisogna trovare dei soggetti disposti a rischiare sull’azienda, ad
investire un capitale che non avrà una remunerazione certa e prestabilita. Il modo più semplice per
recuperare il capitale proprio è quello di quotarlo in Borsa. Per quotare un’azienda in Borsa essa deve avere
alcune caratteristiche, ad esempio l’ultimo bilancio deve essere chiuso in utile. I vantaggi di quotare
un’azienda in Borsa sono svariati: maggiore apertura verso il mercato, più soci, più capitali.
La Consob, una commissione che tutela gli investitori, vigila il comportamento delle società quotate, che
devono redigere una sorta di bilancio ogni tre mesi, che comporta oneri, costi e apparati burocratici interni
importanti. Questi bilanci sono sottoposti a revisione obbligatoria da parte di strutture esterne.
In Italia vi sono 300 titoli quotati, a dimostrazione del fatto che abbiamo un mercato piccolo. Per fare un
esempio possiamo citare l’azienda Bonifiche Ferraresi, che in 6 anni è diventata un Gruppo e la cui
Capogruppo è quotata in Borsa, ed è sia un’azienda agricola, che un’azienda industriale; ha inoltre
accordato una Joint Venture per avere dei mulini e creare dei prodotti propri.

Il capitale di credito è molto più flessibile e prevede delle forme a rientro e forme a rimborso.
Le prime prevedono che si possa richiedere tutto il capitale indietro da un giorno all’altro e che si possa
avere un conto in passivo fino ad un certo limite. Tramite il fido bancario però, vi è la possibilità di andare
oltre il conto corrente (elasticità di cassa); esso viene concesso dalla banca, dietro garanzia, se si ha merito
creditizio. Le seconde invece sono ad esempio il mutuo (si conoscono dall’inizio sia le rate da pagare che le
scadenze) o il factoring (forma autoliquidante).

Le banche sono intermediari finanziari e tra le aziende più patrimonializzate e più controllate, che tendono
a fondersi tra di loro per far crescere i propri capitali ed essere quindi più stabili. La
banca può ponderare un cliente per il 100% (per ogni euro che ci presta deve avere un capitale proprio di
un euro – cliente affidabile) o per il 150% (per ogni euro che ci presta deve avere un capitale proprio di un
euro e mezzo – cliente non affidabile). Il prime rate è il tasso d’interesse che viene affidato ai clienti
affidabili (il più basso possibile), il top rate viene affidato ai clienti non affidabili (il più alto possibile).
Gli accordi di Basilea hanno stabilito le regole per le banche occidentali. Dopo la crisi degli anni 2000 le
banche hanno fatto una politica di ponderazione più rigida, al fine di evitare il rischio d’inflazione, che non
consente l’erogazione di prestiti ai soggetti non affidabili (credit crunch). Non è infatti così semplice né
chiedere un prestito, poiché bisogna prestare garanzia, né sostenerlo, poiché bisogna pagare gli interessi. Il
prestito obbligazionario è una sollecitazione al pubblico risparmio, che la società chiede al mercato: in
cambio gli concede il titolo di credito su cui loro prendono gli interessi. Esso può essere convertito e si può
vendere il diritto alla conversione, detto warrant, che si converte da capitale proprio a capitale di credito e
diventa così una fonte ibride. Le fonti ibride di finanziamento hanno sia le caratteristiche del capitale
proprio che del capitale di credito. Il prestito partecipativo-subordinato o mezzanine finance, è a metà
strada fra capitale di credito e proprio e su di esso non vengono pagati interessi fino a che l’azienda non
raggiunge certi obiettivi posti nel contratto.
Chi concede il prestito rischia, ma quando l’azienda arriva agli obiettivi si troverà a pagare parecchi
interessi, quindi colui che cede il prestito avrà una remunerazione più alta. Solitamente lo chiedono le
aziende che non vogliono pagare subito gli interessi e hanno bisogno di concentrarsi sullo sviluppo e su
determinati obiettivi. Un altro prestito a metà strada è il venture capital, a titolo di capitale proprio, e lo si
riceve quando chi concede il capitale crede in quell’azienda, che comunque continuerà a gestirsi da sola,
ma crescerà grazie al capitale ricevuto; chi ha acquisito quella partecipazione potrebbe andarci a perdere,
nel caso in cui l’azienda fallisca, ma, nel caso in cui l’azienda consegua ottimi risultati, potrebbe poi
rivenderla ai soci o al mercato a prezzo più alto. Il venture capitalist ha un plus valore, così è successo alla
Apple (Steve Jobs) o alla Microsoft (Bill Gates). Ci sono poi i finanziamenti tecnologici, come quelli di
Amazon, che tramite i big data (cookies) controlla i suoi clienti, di cui potrà avere facilmente informazioni e
capire così se sono affidabili o meno. Queste forme di credito sono prevalentemente sviluppate nei paesi
asiatici.

Il cash flow
Il cash flow è importante perché viene analizzato come strumento di controllo e di indirizzo della gestione
finanziaria e come parametro per le scelte di investimento. L’analisi deve essere impostata avendo cura di
verificare prima l’andamento del flusso di cassa nel singolo ciclo economico (bisogna accertare se il flusso
determina una fonte da impiegare per la copertura dei fabbisogni o crei un fabbisogno da coprire con fonti
di finanziamento), per poi integrarlo nella globalità dei flussi aziendali. Il core business dell’impresa, cioè
l’attività principale della stessa, deve essere quindi il punto da cui muovere una corretta analisi. Il Cash flow
può essere calcolato in modo sintetico (entrate - uscite) o in modo analitico (ricavi operativi - costi
operativi +- Δcrediti +- Δdebiti). Se i ricavi operativi sono maggiori dei costi operativi l’azienda è sana, se i
costi operativi sono maggiori dei ricavi operativi l’azienda è in squilibrio.

Se i Δcrediti sono maggiori dei Δdebiti il cash flow diminuisce, in quanto se ho tanti crediti significa che non
sto incassando (il credito è la mancata monetizzazione del ricavo), se i Δdebiti sono maggiori dei Δcrediti il
cash flow aumenta, in quanto se ho tanti debiti significa che non sto pagando (il debito è la mancata
monetizzazione del costo). Il cash flow operativo, cioè quello calcolato in modo analitico, è quello
determinante per il controllo finanziario. Analizzando il dato quantitativo, espresso dal cash flow, della
gestione tipica o operativa si può capire l’aspetto qualitativo e poi verificarne le conseguenze per l’azienda
nel suo complesso. Per condurre quindi una corretta analisi finanziaria bisogna partire dal cuore
dell’impresa e capire se e perché la gestione genera un flusso netto positivo (fonte) o negativo
(fabbisogno). Capire vuol dire organizzarsi adeguatamente per utilizzare al meglio le eccedenze o viceversa
per fronteggiare nel modo più conveniente i fabbisogni. Organizzarsi inoltre significa trovare la soluzione
più opportuna anche in termini economici, a riprova che l’ottimizzazione della gestione finanziaria deve
essere ispirata ad economicità, i cui parametri sono i costi e i ricavi. Spesso il cash flow viene confuso con
l’autofinanziamento. In realtà è sbagliato affermare che i due processi coincidono, in quanto
l’autofinanziamento è un processo di natura economica, mentre il cash flow è un processo di natura
finanziaria. L’autofinanziamento ha poi come ruolo quello di costituire una fonte di finanziamento, in
quanto risultato positivo della gestione economica che crea risorse che sono in grado di finanziare
l’impresa. Questo può avvenire quando l’azienda decide di non distribuire tutti gli utili, ma trattenerne una
parte e investirli nell’azienda (è importante sottolineare infatti che questi utili, che costituiscono una sorta
di risparmio, non corrispondono a disponibilità monetarie, a conferma del fatto che l’autofinanziamento
nasce come “fonte investita”). L'autofinanziamento è un sistema gestibile e flessibile che permette di
rendere autonoma un'azienda dal punto di vista finanziario e lo si può calcolare in questo modo: utili non
distribuiti + ammortamenti + accantonamenti - utili utilizzo fondi. 
Tra i costi si considerano anche gli ammortamenti e gli accantonamenti per rischi e spese future, che
incidono negativamente sul risultato economico di periodo, ma non danno luogo ad uscite monetarie e
quindi a movimentazioni finanziarie. Se volessimo considerare questi oneri, la formula sarebbe esprimibile
in questo modo: A = U + ΔAm + ΔAc, dove U indica l’utile (R - C), ΔAm l’incremento netto degli
ammortamenti e ΔAc l’incremento netto degli accantonamenti per rischi e spese future.
Come dicevo prima quest’ultima formula viene utilizzata da alcuni per indicare il cash flow, ma è sbagliato
farlo, poiché il flusso di cassa si esprime con quest’altra formula: ricavi operativi - costi operativi +- Δcrediti
+- Δdebiti. L’equivoco nasce dall’uso che assume il cash flow come flusso finanziario generato dalla
gestione, definizione che spetta concettualmente all’autofinanziamento. Peraltro l’autofinanziamento va
riferito all’intera gestione aziendale, mentre il flusso di cassa va riferito alla sola gestione tipica, in quanto
va individuato ai fini della programmazione e del controllo di gestione. 

Se ci troviamo nella situazione in cui i debiti di una società diminuiscono avrò sicuramente un effetto
positivo sull'autofinanziamento, ma sul cash flow operazionale avrò un effetto negativo in quanto,
considerando la formula del cash flow, mi accorgerò di come l'azienda abbia pagato di più per coprire i
debiti. Quindi autofinanziamento e cash flow vanno nella stessa direzione in tutto, ad eccezione del livello
di capitale circolante netto, cioè quel capitale costituito da debiti e crediti:

 + crediti + autofinanziamento - cash flow


 + debiti - autofinanziamento +cash flow

Quando un'azienda e sana lo si vede proprio dalla sua capacità di autofinanziarsi e dal suo flusso di cassa:
non esiste infatti una percentuale che stabilisce quanto capitale proprio o quanto capitale di credito deve
usare un'azienda.

Per calcolare tutti i flussi della gestione aziendale si realizza uno schema generale dei movimenti monetari
dell'esercizio, a sezioni divise e contrapposte. Da una parte ci sono i fabbisogni, come gli investimenti
tecnici e finanziari, il rimborso prestiti, il pagamento dei dividendi e il cash out flow (negativo), dall'altra i
mezzi di copertura, che possono essere interni, quali il cash flow positivo e il realizzo investimenti (indica
tutte le cessioni che generano plusvalenza) oppure esterni, quali il capitale proprio e il capitale di credito
(mezzi esterni perché sono quello richiesti ai soci).
Se il cash flow operazionale è negativo indica un fabbisogno, quindi tanto più esso sarà negativo tanto più
l'azienda non sarà sana, visto che nelle aziende sane i mezzi di copertura superano i fabbisogni.
Per concludere un'azienda sana avrà il saldo nella prima parte del quadro generale dei movimenti monetari,
quindi nella sezione fabbisogni, mentre un'azienda che non è sana, cioè che ha fabbisogni finanziari
maggiori dei mezzi di copertura, avrà il saldo nella seconda parte del quadro, quindi nella sezione mezzi di
copertura. Grazie a questo quadro è possibile calcolare un indice aziendale importante: il GAF. 

Il GAF, cioè il grado di autonomia finanziaria di un'azienda, è dato dal rapporto tra cash flow (sia positivo
che negativo), pagamento dei dividendi e realizzo degli investimenti / investimenti (tecnici e finanziari) e
rimborso dei prestiti. Questi quozienti esprimono la capacità dell'azienda di operare in relativa
indipendenza dai creditori, cioè indicano la capacità di generare mezzi all'interno dell'azienda senza dover
ricorrere a fonti esterne (oggi le aziende sono perlopiù dipendenti dal mercato dei capitali); per certi versi
questi quozienti indicano la capacità di indebitamento. Più è alto il rapporto tra questi fattori maggiore sarà
la possibilità dell'autosufficienza finanziaria. Un'azienda però non deve puntare all'autosufficienza
finanziaria, bensì all'autonomia finanziaria, cioè deve cercare di ricorrere il meno possibile a fonti di terzi
(se si è indipendenti da terzi si è autosufficienti).
Grazie allo stato patrimoniale siamo in grado di capire se l'azienda è ricorsa all'autofinanziamento e ce ne
accorgiamo quando:

 le fonti di finanziamento diminuiscono nell'avere del conto, senza però alterare i finanziamenti nel
dare del conto;
 gli investimenti crescono o rimangono inalterati nel dare del conto e le fonti esterne diminuiscono
o rimangono uguali nell'avere del conto: ciò significa che lo stock degli investimenti aumenterà per
effetto dell'autofinanziamento.

Il ROE e il ROI
Oltre al cash flow è importante calcolare il ROE (return in equity), cioè il tasso di rendimento del capitale
proprio, che si ottiene dividendo il reddito netto e il capitale proprio, e il ROI (return on investiment), cioè il
tasso di rendimento del capitale investito, che si ottiene dividendo il reddito operativo e il capitale
investito. Il primo è importante perché tramite esso possiamo conoscere la redditività del capitale:
solitamente il capitale di credito risulta avere redditività maggiore rispetto al capitale proprio, motivo per il
quale oggi si parla di uso improprio del capitale o meglio di sottocapitalizzazione delle aziende.
Il secondo invece è importante perché, se confrontato con il tasso di interesse (i = oneri finanziari o
interessi passivi/investimento), è possibile capire se l’azienda possa indebitarsi (ROI ≥ i) oppure no (ROI < i). 

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