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Introduzione

Un’azienda è un’organizzazione di persone e di beni (materiali o immateriali) che, attraverso una


serie di operazioni di gestione delle risorse, produce beni o servizi, al fine di soddisfare un bisogno.
Ad esempio Apple, creando i primi smartphone, andò a soddisfare il bisogno di comunicare in
maniera diversa. Le aziende possono produrre beni o servizi per il mercato generale (business to
consumer) o per altre aziende (business to business).
Le aziende possono essere definite secondo una visione giuridica (codice civile) o economica, che
di certo è più interessante ai fini di questo corso e che si focalizza sul concetto di soddisfacimento
di un bisogno.
Definizione giuridica: “complesso di beni organizzati da un soggetto (l'imprenditore), strutturato
funzionalmente per l'esercizio dell'impresa (produzione di beni e servizi).”
Definizione economica: “Istituto economico duraturo volto alla produzione di beni/servizi, per il
soddisfacimento (diretto o indiretto) dei bisogni umani.”
La disciplina che si occupa di studiare le aziende è l’economia aziendale. Studia il ciclo di vita,
l’organizzazione, i processi, le caratteristiche economico-finanziarie di un’impresa. Studia anche i
bisogni non tanto del mercato, quanto quelli dell’impresa stessa: tra questi, il principale è quello di
generare profitto.
La gestione aziendale si divide in tre aree:
1. Organizzazione: di quali reparti l’azienda si compone (es: settore economico-finanziario,
settore produzione, settore customer care) e come questi sono organizzati.
2. Gestione: come avvengono i processi all’interno dell’impresa (es. come vengono prese le
decisioni)
3. Rilevazione e controllo: si divide a sua volta in contabilità (tutto ciò che riguarda il bilancio,
che ci permette di comprendere lo stato di salute di un’azienda, può interessare ad
esempio agli investitori, ai competitor, allo Stato, ai lavoratori o anche un candidato ad una
posizione lavorativa) e controllo di gestione (serve per supportare le decisioni che
l’azienda deve prendere).
La contabilità è definita come il processo di raccolta, misurazione, analisi, interpretazione e
comunicazione di informazioni economiche. Tra queste figurano innanzitutto le fonti di
investimento e la loro composizione, tra cui l’imprenditore stesso, le banche, i bandi pubblici
(soprattutto per le start-up), il team di investitori, ma, ai fini del bilancio, anche i crediti verso terzi.
Inoltre tra le informazioni vi sono quelle sulle risorse: quante materie prime o prodotti finiti ci sono
e quali asset l’azienda possiede. Per la contabilità occorrono anche le informazioni sulla redditività,
ossia quanto l’azienda guadagna nel momento in cui vende i suoi prodotti. Tutte queste
informazioni sono rivolte agli stakeholders. A partire da queste informazioni è possibile poi
adempiere al fine ultimo della contabilità, ovvero la produzione di rendiconti economico-finanziari
che fotografino le condizioni dell’azienda. Le informazioni contenute in questi rendiconti sono
quantitative e, più nello specifico, monetarie. Queste a loro volta possono essere di natura fiscale
(non ci interessano, riguardano la tassazione), operative (riguardano i processi produttivi, un
esempio è l’importantissimo lead time), poi vi sono le informazioni di bilancio e quelle per il
management, su cui ci concentreremo maggiormente.
La contabilità deve sottostare a regole ben precise, stilate sulla base dei cosiddetti principi
contabili. Essi ci guidano nella redazione dei rendiconti finanziari e vengono stabiliti da
organizzazioni di accounting; possono essere soggetti a variazioni nel tempo, in risposta a
cambiamenti economici e sociali, e devono seguire i principi di rilevanza, oggettività e fattibilità.
Esistono diversi tipi di bilancio. Essendo l’azienda un ente definito dal codice civile, esiste il bilancio
civilistico, che è rivolto soprattutto alla tutela dei soggetti terzi che possono vantare crediti o avere
debiti nei confronti dell’azienda. C’è poi il bilancio fiscale, che serve per il pagamento delle tasse.
Infine, quello più importante ai fini di questo corso, è il bilancio gestionale, che serve all’azienda
per monitorare le proprie attività. I primi due sono pubblici, il terzo è interno.
I soggetti che possono essere interessati al bilancio dell’azienda sono gli stakeholders. Tra questi,
come detto, c’è in primo luogo la proprietà dell’azienda, poi possiamo trovare gli intermediari
finanziari, le banche e i fornitori, così come i clienti (soprattutto per acquisti molto onerosi, il
cliente, che può essere un’altra azienda, deve capire se l’azienda è in grado di portare a termine la
produzione), l’erario, i sindacati, i lavoratori dipendenti (che consultando i bilanci possono rendersi
conto se l’azienda rischia la chiusura) e quelli in cerca di impiego, il management dell’azienda (in
base alle informazioni contenute nei bilanci orienta le scelte strategiche) e infine la comunità
locale e nazionale, su cui un’impresa può avere un forte impatto.
Il bilancio è costituito da quattro documenti principali:
1. Stato patrimoniale. È un rendiconto di stato, cioè rappresenta una fotografia della
situazione patrimoniale e finanziaria dell’azienda nel momento in cui viene redatto, di
solito la fine dell’anno solare.
2. Conto economico. È un rendiconto di flusso, ci permette di capire come l’impresa crea
reddito all’interno dell’anno solare. Insieme allo stato patrimoniale è la parte più
importante del bilancio.
3. Rendiconto dei flussi di cassa. È un altro rendiconto di flusso ed è ricavabile dai primi due.
4. Nota integrativa. Si tratta di un documento che guida la lettura degli altri.
Ogni rendiconto riporta in intestazione il nome dell’azienda, il tipo di documento e la data.

Lo stato patrimoniale
Il primo rendiconto che vediamo è lo stato patrimoniale, che è formato da tre parti: a sinistra le
attività, a destra le passività e il capitale netto. La regola fondamentale dello stato patrimoniale è
la seguente uguaglianza: attività = passività + capitale netto. Le attività si dividono in correnti e
immobilizzate. Le attività correnti sono quelle che si trasformeranno in liquidità o produrranno la
loro utilità entro l’esercizio successivo. La cassa, che fa parte di quelle correnti, rappresenta la
liquidità corrente dell’impresa, in parole povere i soldi liquidi che l’impresa possiede in quel
momento. Altre attività correnti sono i crediti e le rimanenze. Tra le attività immobilizzate
troviamo gli asset materiali dell’azienda, così come quelli immateriali, come i marchi e i brevetti,
entrambi risorse dell’azienda: infatti i brevetti proteggono le invenzioni che avvengono all’interno
dell’azienda e il marchio è un elemento che identifica e contraddistingue l’azienda e il suo utilizzo
può essere concesso anche previa pagamento. In caso di fallimento di un’azienda, le attività
correnti possono essere immediatamente trasformate in liquidità per far fronte ad eventuali
debiti, mentre quelle immobilizzate necessitano di più tempo. Le passività si dividono in correnti e
a lungo termine. Tra quelle correnti rientrano i debiti verso i fornitori (non si paga mai al
momento dell’acquisto), i debiti verso le banche o verso l’erario; in generale sono tutti debiti che
vengono risolti in breve tempo. Le passività a lungo termine sono i debiti che impegnano l’azienda
per molti anni, come ad esempio un mutuo. C’è poi la sezione del capitale netto, dove troviamo il
capitale sociale (che noi confonderemo con il capitale versato), cioè l’ammontare di denaro che
viene inizialmente versato per legge dai soci fondatori dell’azienda. Un’altra importante voce del
capitale netto è la riserva di utili, cioè l’accumulo dei guadagni netti che l’azienda genera ogni
anno, pari alla differenza tra i ricavi e i costi. Infatti, gli utili generati ogni anno possono essere
redistribuiti o accumulati, nel qual caso vanno a finire nella riserva di utili e dunque ad alimentare
il capitale netto. Un’azienda non genera necessariamente degli utili alla fine dell’anno, può anche
andare in perdita. Se le passività rappresentano i diritti vantati da terzi, il capitale netto
rappresenta i diritti vantati dalla proprietà. Si possono anche vedere le attività come investimenti
dell’azienda, mentre la parte destra dello stato patrimoniale come fonti di finanziamento (ad
esempio investimento degli utili o contrazione di un debito con una banca per ottenere un
finanziamento). In generale, ciò che compare a sinistra nello stato patrimoniale è una componente
positiva, ciò che compare nelle passività è una componente negativa. La differenza tra questi due
elementi è il capitale netto, che, come suggerisce il nome, è un valore residuale. L’aumento di
capitale netto viene detto reddito o profitto o utile.
Lo stato patrimoniale si basa su alcuni concetti (o principi) contabili. Il primo è quello di
omogeneità. Significa che tutte le registrazioni contabili sono riferite solo ad eventi che producono
effetti esprimibili in termini monetari. Tutto ciò che non può essere espresso in questo modo non
compare nel bilancio, che è quindi un documento che non ci dice tutto di un’azienda, ma ci dà
indicazioni solo sul suo stato di salute economico-finanziario. Ad esempio il cambio di un manager
può essere un evento molto significativo per l’azienda, che comporta anche magari l’inserimento
in nuovi mercati e un cambio di strategia, ma non compare nel bilancio. Il principio di omogeneità
dice anche che i dati presenti in bilanci di anni diversi devono essere contestualizzati, poiché il
valore della moneta può cambiare, la popolarità di un marchio può cambiare, possono avvenire
eventi sociali particolari, ecc…
C’è poi il concetto di entità giuridica, che è sostanzialmente è il motivo principale per cui si devono
redigere i bilanci. L’azienda si rapporta con soggetti terzi, i quali possono avere dei diritti nei
confronti dell’impresa, o viceversa. È quindi necessario che l’azienda venga riconosciuta come
entità giuridica, motivo per cui è anche tenuta a redigere i rendiconti finanziari. Stabilito ciò, le
forme giuridiche con cui un’azienda può essere classificata sono diverse:

 Impresa singola, ad esempio una partita IVA.


 Società di persone, che non ha l’obbligo di versare un capitale sociale.
 Società di capitali, che sono invece tenute a versare un capitale sociale al momento della
costituzione dell’azienda.
Ognuna di queste, nel diritto civile, ha una definizione specifica, ha dei diritti diversi e deve
sottostare a degli obblighi diversi. La contabilità si riferisce sempre all’entità giuridica, non alle
persone che ne fanno parte. Ad esempio, se il proprietario dell’azienda sottrae 100 € alla cassa
della sua impresa per scopi personali, questo movimento deve essere registrato, poiché il
proprietario e l’impresa, anche se è la sua, sono entità giuridiche diverse. Se non vengono
registrati questi movimenti chiaramente il bilancio a fine anno non torna.
Il terzo principio è la prospettiva di continuità di funzionamento. Esso sancisce che la contabilità
deve assumere o che l’impresa continui ad operare in eterno o che sia in fase di chiusura, la quale
che può durare anche vari anni. Il bilancio che viene redatto sotto la prima ipotesi si dice bilancio
di esercizio, mentre quello che viene prodotto sotto la seconda ipotesi viene detto bilancio di
liquidazione. Le aziende in fase di liquidazione sono tenute a presentare questi bilanci finché tutte
le passività non vengono saldate.
Segue il concetto di costo. Tutte le risorse di un’azienda sono definite come asset o elementi
patrimoniali, ad esempio il magazzino, i macchinari o i software. Tutte le attività possono essere
monetarie o non monetarie (da non confondere con le informazioni), ad esempio la cassa è
un’attività monetaria, mentre le attività non monetarie sono quelle per cui non ci sono elementi
oggettivi che permettano di stabilirne il valore di mercato. Ad esempio un macchinario nuovo
perde di valore dopo essere stato acquistato, così come il valore delle case può fluttuare nel
tempo, ma non c’è un criterio univoco per determinare il valore di queste risorse. Quindi, nel
bilancio, per le attività non monetarie si fa riferimento al costo storico, cioè al costo di acquisto,
anche se questo non è poi il reale valore di mercato di una certa risorsa. Il costo storico è però un
elemento oggettivo e quindi permette di fare chiarezza. Poi se si vuole vendere una risorsa non
monetaria si fa una trattativa, nella quale entrano in gioco fattori soggettivi che portano ad un
prezzo di vendita (anche le valutazioni di mercato sono soggettive). Ma questo esula dalla
contabilità. Il costo storico viene ridotto nel corso del tempo tramite l’ammortamento (una specie
di consumo annuale della risorsa), tranne per i terreni, che non vanno incontro a svalutazione. È
invece sempre possibile aggiornare nel tempo il valore delle attività monetarie (ad esempio il
costo delle azioni) e si fa perciò riferimento al valore attuale delle stesse, detto anche fair value o
costo di presunto realizzo, che è sempre possibile conoscere in maniera oggettiva. In alcuni bilanci
è presente anche una voce che prende il nome di avviamento, che tiene conto di elementi che di
per sé è difficile inserire in un bilancio. Ad esempio, se si sta vendendo un’azienda ben radicata nel
territorio, va tenuto conto del fatto che essa si porterà dietro anche la sua clientela o magari il
know-how dei suoi tecnici; anche il prestigio di un’azienda è difficile da quantificare. Perciò nel
momento in cui un’azienda ne acquisisce un’altra ad un prezzo maggiore al suo fair value, la
differenza prende appunto il nome di avviamento e tiene conto del cosiddetto capitale
intellettuale dell’azienda, i suoi asset intangibili. Ad ogni modo esso non è sempre presente.
C’è poi il concetto del duplice aspetto, di cui in parte abbiamo già parlato. Esso sancisce che ogni
transazione produce sempre un effetto doppio sulle registrazioni contabili e l’equazione attività =
passività + capitale netto deve sempre essere verificata. Ad esempio, se l’azienda acquista un
macchinario ha una passività (i soldi spesi per comprarlo o comunque il debito contratto), ma allo
stesso tempo anche un’attività (aumento delle risorse, si ha un macchinario in più). Altro esempio,
Mario Rossi apre un’azienda e versa come capitale sociale 40mila euro, che vanno sia nel capitale
sociale sia nella cassa. In seguito l’impresa accende un debito con una banca per 15mila euro. La
cassa quindi aumenta e arriva a 55mila euro, ma nasce anche una passività da 15mila euro che va
a sommarsi al capitale netto (in questo caso pari al capitale sociale) e fa tornare l’equazione.
Le attività, come detto, possono essere divise in correnti e immobilizzate. Quelle correnti devono
essere convertite in liquidità entro la fine dell’esercizio. Ad esempio un credito a tre mesi è
un’attività corrente, la cassa o il conto corrente dell’azienda sono attività correnti e, più nello
specifico, delle liquidità in senso stretto. Un terreno o un macchinario sono attività immobilizzate,
così come gli investimenti di lunga durata, ad esempio le obbligazioni. Le attività immobilizzate
possono ulteriormente essere suddivise in materiali, immateriali e finanziarie. Per quanto riguarda
le passività, quelle correnti si dividono in finanziarie (riguardano solo la sfera finanziaria, ad
esempio debiti a breve termine verso le banche) e operative (riguardano la sfera operativa, ad
esempio debiti verso i fornitori). Contrapposte alle passività correnti, come già detto, ci sono
quelle a lungo termine, ad esempio dei mutui. Infine, l’ultimo elemento dello stato patrimoniale è
il capitale netto, composto dal capitale sociale e dalle riserve di utili, alimentate ogni anno
dall’utile di esercizio, che è noto a partire dal conto economico.

Il conto economico
Mentre lo stato patrimoniale è un’istantanea, il conto economico riporta i flussi di denaro di
un’impresa, nello specifico ricavi e costi. Il fatturato, sebbene sia un dato molto utilizzato per
caratterizzare un’azienda, corrisponde ai ricavi, ma non dà un’idea dei costi sostenuti. Se i costi
superano il fatturato, l’azienda è in perdita e nello stato patrimoniale si ha una diminuzione della
riserva di utili. Riprendiamo l’esempio precedente dell’azienda di Mario Rossi. Dopo aver versato
40mila euro di capitale sociale, l’azienda acquista materiali e macchinari e produce il suo prodotto,
ad esempio bottiglie. Queste successivamente vengono vendute creando crediti commerciali (che
solo dopo un certo tempo si trasformano in liquidità, di solito 3 o 6 mesi). Quando i crediti
diventano liquidità il ciclo si chiude. Dalla vendita di beni o servizi si ottiene quindi un ricavo, che è
l’elemento in ingresso nel conto economico e si concretizza in un aumento delle attività (o come
crediti commerciali o come cassa) o delle riserve di utili. L’elemento in uscita nel conto economico
sono i costi di competenza, che si concretizzano in un aumento delle passività o una riduzione
delle riserve di utili. Il costo quindi va ad impattare, riducendola, la riserva di utili. Infatti l’utile (o
profitto o risultato netto) è dato dai ricavi meno i costi.
Vediamo un esempio. Della merce precedentemente acquistata per 500 viene venduta per 800.
Per quanto riguarda lo stato patrimoniale, questa operazione comporta una riduzione delle risorse
(rimanenze) pari a 500 e un aumento di cassa (non necessariamente immediato) di 800. C’è quindi
complessivamente un aumento delle attività di 300. Ad esso deve corrispondere un aumento di
uguale entità nella colonna di destra, ma siccome nell’operazione non ci sono passività, sarà solo il
capitale netto ad aumentare di 300. Nello specifico, non essendoci aumenti di capitale sociale,
l’aumento riguarderà esclusivamente la riserva di utili. Quindi l’operazione genera un profitto di
300. Per quanto riguarda il conto economico, la riduzione delle risorse è un costo e riduce le
riserve di utili, mentre l’aumento di cassa è un ricavo e aumenta le riserve di utili. La differenza tra
ricavi e costi determina, come detto, l’utile o profitto.
Alcune specifiche: i ricavi non determinano necessariamente incassi nel momento in cui vengono
realizzati, perché spesso si fanno dei crediti. In maniera del tutto analoga, i costi non determinano
necessariamente un esborso immediato, anche perché potrebbero essere solo un consumo di
risorse. Quindi, i ricavi e i costi sono solo un incremento o un decremento del capitale netto. Inoltre
un aumento della cassa non rappresenta sempre un vantaggio per la proprietà, cioè un aumento
della liquidità non aumenta l’utile: ad esempio la cassa può aumentare dopo aver chiesto un
finanziamento in banca. A tal proposito, le riserve di utili non sono cassa. Poi, un aumento di
capitale non è un utile e allo stesso modo i dividendi non sono costi, sono solo la distribuzione
degli utili. Classificare i flussi in questa maniera significa ragionare per competenza, che è più
complesso di ragionare per cassa (cioè tenendo conto solo di entrate e uscite), ma fornisce anche
più informazioni.
Anche il conto economico è caratterizzato da concetti contabili, che in questo caso sono sei (per
un totale quindi di undici).
Il primo è quello della periodicità della misurazione, che fa riferimento anche allo stato
patrimoniale. Esso dice che le misurazioni vengono eseguite periodicamente, quindi i bilanci,
almeno internamente all’azienda, vengono aggiornati quasi quotidianamente, anche se poi il
bilancio definitivo viene pubblicato una volta all’anno (in genere sei mesi dopo la chiusura
dell’esercizio).
Il secondo concetto è quello di prudenza, che sostiene che si debba essere sempre conservativi nel
registrare i costi e i ricavi. I ricavi vanno registrati solo quando sono ragionevolmente certi, i costi
vanno registrati appena sono anche solamente possibili. I ricavi sono riconosciuti solo al momento
della consegna al cliente, ad esempio se l’azienda ha prodotto un’automobile che potenzialmente
può darle un ricavo molto cospicuo e questa è pronta per essere spedita, finché il cliente non la
riceve essa non può essere registrata come ricavo. Finché un bene non viene consegnato, esso
costituisce una rimanenza, che è sì un’attività nello stato patrimoniale, ma è una risorsa ferma in
magazzino che non rappresenta un ricavo, quindi viene generalmente vista come un problema per
l’azienda. D’altronde se un’azienda ha il magazzino pieno c’è qualcosa che non va. Questo è
strettamente correlato al concetto di produzione snella (o lean production), una filosofia nata con
Toyota negli anni ’50 e che mira allo svuotamento dei magazzini (eliminazione delle risorse
immobilizzate) e alla eliminazione degli sprechi. Se prima si produceva in base alla domanda
prevista, con la lean production si produce in base alla domanda reale, di fatto su commessa.
Questo metodo produttivo è particolarmente efficace per le aziende che producono beni molto
costosi, come appunto le automobili. Altri esempi: le rimanenze, se si presume che possano essere
vendute ad un valore maggiore di quello a cui sono state acquistate, va registrato il valore di
acquisto; viceversa, se si presume, per vari motivi (ad esempio per l’usura), che esse abbiano perso
valore e possano essere vendute ad un valore più basso a quello di acquisto, allora va registrato il
valore presunto, che è il più prudente. Oppure ancora, se una concessionaria subisce il furto di
un’auto nel corso dell’esercizio di un anno, anche se presume di poter recuperare l’auto il primo
gennaio dell’anno successivo, deve comunque registrare la perdita per l’anno in corso. Un altro
caso è quello dei costi di ricerca e sviluppo, che vanno registrati nel momento in cui vengono
sostenuti, anche se gli effetti degli investimenti potrebbero manifestarsi dopo molti anni.
Segue poi il principio della realizzazione dei ricavi. Il ricavo può essere riconosciuto prima
dell’incasso, caso largamente più frequente, se c’è un credito; se il pagamento invece avviene al
momento dello scambio della merce (raro tra aziende, ma si verifica ad esempio quando si
acquista un articolo in un negozio), il ricavo viene riconosciuto contestualmente all’incasso; il
ricavo può anche essere riconosciuto dopo l’incasso, ad esempio se un cliente paga in anticipo,
generalmente solo una quota dell’importo totale.
Un altro principio, fondamentale, è quello della competenza, che abbiamo visto bene nell’esempio
Maglioni srl. Esso sancisce che se un evento influenza sia i ricavi sia i costi sostenuti per realizzare
questi ricavi, allora i ricavi e i costi devono essere contabilizzati nello stesso periodo.
Chiariamo alcuni termini, sempre legati al concetto di competenza, che spesso vengono confusi tra
loro. Per costo, in senso generico, si intende il consumo di una certa quantità di risorse
economiche destinate ad un qualche scopo, ad esempio per la produzione, per l’affitto, ecc…
Quando questo scopo è l’acquisto di un bene si parla invece di spesa. Esborso significa invece un
pagamento per cassa. Infine il costo di competenza, come visto, è il costo sostenuto per ottenere i
ricavi relativi ad un certo periodo. Per riconoscere i costi di competenza, essi possono essere
correlati ai ricavi in tre modi:

 Costi direttamente riconducibili ai ricavi. Sono il vero e proprio costo materiale dei beni
venduti.
 Costi associati alle operazioni di gestione del periodo. Sono i costi relativi alle operazioni
che rendono possibile una certa attività, ad esempio il costo dei macchinari, gli stipendi,
l’affitto, ecc… Se vengono realizzati prodotti diversi nella stessa area produttiva, questi
generalmente vengono divisi per ogni tipo di prodotto.
 Costi non direttamente riconducibili ai ricavi. Sono costi che l’azienda sostiene e che vanno
contabilizzati, ma che non hanno attinenza diretta con i prodotti venduti.
Un ulteriore principio è quello della continuità dei criteri di valutazione. Nei rendiconti finanziari è
importantissimo utilizzare sempre gli stessi criteri, in modo tale da poter fare confronti tra anni
diversi. Questo permette di analizzare la bontà e l’efficacia delle scelte manageriali e comprendere
anche su quali unità di business all’interno dell’azienda è meglio investire (ogni unità ha il suo
micro-bilancio), cioè quante risorse allocare su ogni unità e quali obiettivi prefissare. In ogni caso, i
criteri utilizzati per stilare i bilanci devono essere sempre gli stessi; utilizzare regole diverse può
portare ad ottenere risultati diversi. Ad esempio, se in un bilancio gli sconti e i resi vengono subito
tolti dai ricavi si ottengono certe percentuali di reddito, mentre se vengono decurtati dal margine
lordo le percentuali cambiano, pur essendo i ricavi lordi e i costi uguali nei due casi. Ciò che
cambia, nello specifico, è il margine lordo, dato da ricavi delle vendite meno costo del venduto.
Attenzione che il margine lordo non è il reddito. Poi, sottraendo al margine lordo i costi di periodo
ad esso associati, si ottiene il risultato operativo caratteristico. Ad esso si possono poi sottrarre i
costi di gestione accessoria (non legati direttamente alla produzione) per ottenere il risultato
operativo complessivo. A questo ancora si sottraggono gli interessi passivi e si perviene al risultato
operativo di competenza, a cui infine si sottraggono i costi di gestione straordinaria, ottenendo
così il risultato ante imposte. È bene comunque ricordare che a volte alcune di queste voci sono
nulle; costi di periodo e costi di gestione accessoria ci sono sempre, ma i costi di gestione
straordinaria non sono sempre presenti. Al risultato ante imposte chiaramente si sottrae il valore
delle imposte per ottenere il reddito netto. Ciò che ci deve rimanere è che:

 Ricavi – costi totali nel periodo di competenza = reddito


 Ricavi – costo del venduto (costi direttamente legati al materiale venduto) = margine lordo
 Margine lordo – costi di periodo = risultato operativo caratteristico
 Ci sono poi altri risultati intermedi prima di raggiungere il risultato netto
Il risultato netto di un anno, calcolato nel conto economico, si va ad aggiungere alle riserve di utili
“fotografate” nello stato patrimoniale alla fine dell’anno precedente.
Infine, il concetto di significatività e rilevanza sostiene che nel bilancio vadano riportate solo le
transazioni rilevanti. Per rilevante si intende un elemento che, se non fosse presente, causerebbe
una diversa interpretazione e valutazione del bilancio. Ne consegue che stabilire se un evento è
rilevante o meno è spesso un processo discrezionale, non regolato in maniera univoca.

Analisi di bilancio
Una volta redatti i rendiconti finanziari, si elaborano i dati contenuti al loro interno per calcolare
degli indici, tramite i quali si può valutare l’andamento dell’azienda (anche di quelle competitor),
correggere la strategia aziendale, calcolare il rating aziendale e completare le informazioni di
bilancio. I bilanci sono quindi dei punti di partenza, non di arrivo, e forniscono dati di input. Altre
azioni che si possono fare a partire dai bilanci sono le riclassificazioni e i flussi di cassa (che non
vedremo). È fondamentale confrontare gli indici di bilancio nel tempo e nello spazio (per valutare
le performance delle altre aziende). Gli indici di bilancio possono essere collocati in vari ambiti:

 Redditività: capacità dell’azienda di generare reddito.


 Efficienza: quanto l’azienda riesce a sfruttare al meglio le risorse a disposizione.
 Liquidità: capacità dell’azienda di generare cassa, molto importante perché dà un’idea di
quanto velocemente l’azienda possa rispondere ai debitori.
 Struttura finanziaria: vale a dire la relazione tra i mezzi propri (capitale netto) e mezzi terzi
(finanziamenti che provengono dall’esterno).
 Investment ratio: performance aziendale nei confronti dei soci non operativi, valutata
quando l’azienda è quotata in borsa. In tal caso infatti la proprietà dell’azienda è condivisa
con investitori esterni. Questo permette di avere una maggiore liquidità, ma pone
all’azienda dei doveri nei confronti di questi soggetti.
Vediamo ora nello specifico i vari indici.
ROI (return on investment)
Reddito
ROI =
Investimento
È sicuramente l’indice più noto e utilizzato e può assumere significati diversi in base a come viene
valutato l’investimento. Esso può essere visto come l’insieme di tutte le attività, come il capitale
netto o come il capitale investito, cioè tutto ciò che otteniamo dall’esterno. Vediamo quindi i tre
indici specifici calcolati per ogni tipologia di investimento.
ROA (return on assets)
Reddito
ROA =
Totale attività
Il ROA ci dice quanto bene le attività sono state impiegate, cioè quanto l’azienda è riuscita a
generare profitto con le risorse a disposizione; valuta quindi il ritorno delle fonti finanziarie.
ROE (return on equity)
Reddito
ROE =
Capitale netto
L’equity viene intesa come la proprietà dell’azienda, in questo caso il capitale netto. Il ROE è un
indice quindi che interessa alla proprietà, che nelle aziende grandi non gestisce direttamente
l’impresa ma mette solo i soldi e quindi vuole essere informata su quanto essi generino profitto.

RONA (return on net assets)


Reddito
RONA =
Capitale netto + debiti finanziari
Misura il reddito generato da tutte le fonti finanziarie, nella loro interezza.
Indice di liquidità
Attività correnti
Passività correnti
L’indice di liquidità è il rapporto tra le attività che entro l’esercizio successivo diventeranno cassa e
i debiti che dovranno essere risolti entro l’esercizio successivo. Se questo indice è alto significa che
l’azienda è in grado di far fronte ai propri debiti e perciò assume una notevole rilevanza,
soprattutto verso gli stakeholder.
Indice di indebitamento
Debiti finanziari
Capitale netto
L’indice di indebitamento ci dice quanto debito l’azienda crea per finanziare le attività operative.
Infatti per le aziende spesso è più facile indebitarsi (o emettere azioni se l’azienda è quotata in
borsa) piuttosto che investire le proprie risorse, e infatti sono poche le aziende che riescono ad
operare senza richiedere finanziamenti. Se questo indice è alto l’azienda può sì essere in grado di
finanziare più attività, ma allo stesso tempo corre dei rischi.

Contabilità direzionale
Finora ci siamo concentrati su informazioni di bilancio, provenienti dalla contabilità generale, che
permettono di redigere i rendiconti finanziari. Tra le informazioni monetarie vi sono però anche
quelle per il management, le quali derivano dalla contabilità direzionale. Il management è il
gruppo che prende le decisioni all’interno dell’azienda ed esegue le seguenti tre azioni:
programma, implementa e controlla. Ad esempio, sulla base del margine che un certo prodotto
riesce a generare e in base alle previsioni di mercato, si sceglie cosa e quanto produrre, dove
allocare le risorse (soprattutto quanto budget mettere a disposizione) e come organizzarle. Si
mettono poi in pratica i programmi fatti e si monitora periodicamente la situazione. Se emergono
situazioni non previste, ad esempio delle variazioni del mercato rispetto alle previsioni o delle
richieste particolari del cliente, si fanno delle modifiche e delle correzioni. Tutte le informazioni
necessarie per orientare il management nelle azioni di programmazione, implementazione e
controllo provengono dalla contabilità direzionale. Cerchiamo quindi di capire le differenze tra
questa e la contabilità generale. La contabilità generale innanzitutto è obbligatoria (tranne alcuni
casi particolari, tipo le partite IVA), quella direzionale no. Lo scopo della contabilità generale è
illustrare lo stato di salute dell’azienda agli stakeholders, anche per una questione di immagine
(mostrare un’immagine solida anche a persone che non hanno competenze specifiche economico-
manageriali). Lo scopo della contabilità direzionale è, come detto, orientare le decisioni del
management per raggiungere degli obiettivi e si rivolge appunto solo al gruppo manageriale. La
contabilità generale si basa sull’equazione fondamentale A – P = CN, mentre i concetti su cui si
basa la contabilità direzionale dipendono dalla finalità a cui essa è rivolta. La contabilità generale
deve rispettare il codice civile e i principi contabili, mentre la contabilità direzionale non deve
sottostare ad alcun obbligo formale. È poi interessante notare che il bilancio riporta informazioni
relative all’anno precedente, mentre la contabilità direzionale, essendo volta alla
programmazione, realizza stime e previsioni, quindi è orientata al futuro. Ad esempio si possono
fare sondaggi per capire le previsioni di vendita di un nuovo prodotto che si sta immettendo sul
mercato e di conseguenza decidere quanti macchinari acquistare per produrlo. A tal proposito,
come già detto, è importante allocare le risorse in maniera snella, orientando il più possibile
l’azienda verso una lean production. Per quanto riguarda le informazioni, quelle prodotte dalla
contabilità generale sono piuttosto circoscritte e sono sempre monetarie, mentre la contabilità
direzionale ne produce molte e di vario tipo. Ad esempio il numero di dipendenti e le loro
competenze, che ci danno un’idea di quanta capacità produttiva l’azienda abbia; oppure il lead
time di produzione, cioè la durata dell’intero ciclo produttivo di un prodotto, che in una trattativa
può far acquisire valore al prodotto stesso. Inoltre, le informazioni riportate nella contabilità
generale sono sempre precise e oggettive, mentre quelle relative alla contabilità direzionale,
essendo stime e previsioni, sono più soggette ad approssimazioni (che però sono minime nei
mercati molto stabili, ad esempio quello dei beni alimentari di prima necessità). Ancora, la
contabilità generale produce un report una volta all’anno, quella direzionale invece è
caratterizzata da una frequenza più elevata, settimanale o anche quotidiana. I bilanci della
contabilità generale vengono poi pubblicati mesi dopo la loro chiusura, mentre i report della
contabilità direzionale vengono resi noti in maniera tempestiva. Poi, mentre la contabilità generale
si riferisce all’azienda intera, quella direzionale si focalizza su specifiche unità della stessa, anche
piccole. Infine, la contabilità generale porta con sé una serie di responsabilità verso gli
stakeholders, che devono essere informati in maniera corretta e trasparente, mentre la contabilità
direzionale rimane dentro l’azienda e non ci sono delle responsabilità reali (anche se chiaramente
l’azienda potrà prendere provvedimenti nei confronti di chi ha sbagliato a redigere i report).
Quindi abbiamo visto che contabilità direzionale e contabilità gestionale sono due strumenti
entrambi importanti, ma diversi tra loro. Tuttavia, ci sono anche dei punti in comune tra i due. Ad
esempio c’è uno scopo comune: quello di orientare le scelte dell’azienda. Il bilancio orienterà
scelte strategiche di ampio respiro (ad esempio se è possibile accendere nuovi debiti come fonti di
finanziamento), mentre la contabilità direzionale guiderà scelte di natura più operativa.
Le informazioni di pertinenza della contabilità direzionale servono per: misurare i ricavi e i costi dei
prodotti dell’azienda per capire quali sono quelli più redditizi, controllare e gestire le varie unità di
business dell’azienda ed infine supportare il management nella scelta fra alternative diverse.
Ciascuno di questi scopi prevede la definizione di una diversa configurazione di costo:
 Costo pieno, ovvero la somma del costo diretto del prodotto più una quota di costi
indiretti. Noti i costi pieni di ciascun prodotto, si possono stilare delle classifiche in base al
margine che ogni prodotto, o più in generale ogni unità produttiva, può garantire
all’azienda. Conoscere il costo pieno ci permette di valorizzare le rimanenze, nel senso
proprio di assegnare loro un valore e di determinarne di conseguenza il prezzo (che poi
coincide con il ricavo).
 Costo per unità di competenza, ovvero come distribuire i costi per ogni unità di business
dell’azienda in modo da valutare le loro performance, in base alle quali possono essere dati
bonus e premi a chi ne fa parte. Inoltre, i costi per centro di competenza permettono di
distribuire in maniera consapevole il budget.
 Costo differenziale, ovvero i costi che si genererebbero se l’azienda facesse delle scelte
alternative. Li vedremo alla fine del corso.

Classificazione dei costi


I costi vengono sempre rappresentati su un diagramma costo-volume di produzione. La prima cosa
che vediamo è appunto come il volume influenza i vari tipi di costi.
I costi variabili crescono linearmente all’aumentare del volume, in particolare il costo totale sarà
dato dal costo variabile unitario (cvu) per il volume di produzione. È fondamentale conoscere il
valore del volume di produzione, che può essere ad esempio il numero di articoli prodotti oppure il
ricavo su cui poi si calcola la provvigione che spetta all’agente commerciale. Il costo variabile può
essere influenzato da vari fattori. Ad esempio per una compagnia aerea il costo del carburante
dipende dalle ore di volo e dai kilometri percorsi oppure per un’impresa che produce bottiglie il
costo variabile dipenderà dal costo delle materie prime, o ancora per un’azienda che offre
assistenza tecnica il costo variabile sarà funzione delle ore di servizio prestate, ecc…
I costi fissi sono quei costi che non variano in base al volume di produzione. Un esempio è l’affitto:
non importa quanto l’azienda produca, finché i prodotti entrano nel magazzino, il costo dell’affitto
è sempre quello. Caso diverso quello in cui poi i prodotti siano troppi ed occorra affittare un nuovo
magazzino. I costi fissi si dividono in:

 Costi impegnati: rendono disponibile una certa capacità. Nello specifico, il volume
produttivo può essere diviso in intervalli. All’interno di ogni intervallo c’è un unico valore
dei costi fissi, diverso per ogni intervallo. Ovvero i costi impegnati variano in maniera
discreta sulla base del volume. I costi impegnati, come suggerisce anche il nome, non sono
semplici da riprogrammare, quindi vanno valutati in maniera molto accurata. Un esempio
può proprio quello del magazzino fatto in precedenza: se si prevede che, dato un certo
volume di produzione, occorre costruire un magazzino nuovo, poi non è facile correggere
tale scelta. Lo stesso può dirsi per il potenziamento di un impianto. La caratteristica
principale dei costi impegnati è che non possono essere facilmente ridimensionati, sono
sostanzialmente bloccati e vengono aggiornati e adattati al fabbisogno a cadenza
temporale ampia. Servono per fare un “salto di qualità” e mantenere una certa
potenzialità, diversa dalla precedente. Ad esempio l’Unibo ha costruito la nuova sede (di
merda, nda) al Lazzaretto solo dopo aver appurato con certezza che, in base all’aumento
degli iscritti, era necessario introdurre una nuova struttura. I costi impegnati rappresentano
la quota maggiore dei costi sostenuti dalle aziende di servizi.
 Costi discrezionali: sono costi che possono essere modulati con facilità e in breve tempo
per adattare la potenzialità dell’azienda alla domanda di mercato. Ad esempio Amazon nel
periodo natalizio assume a tempo determinato nuovi addetti ai magazzini e nuovi corrieri
per far fronte ad una domanda che non riuscirebbe a soddisfare con il solo personale
interno.
Ci sono poi i costi semi-variabili, che sono composti da una quota fissa e da una variabile.
Graficamente essi variano sempre linearmente con il volume di produzione, ma la retta non partirà
da zero, bensì da un certo valore di intercetta che corrisponde proprio ai costi fissi. Quindi i costi
totali saranno dati dai costi fissi più il prodotto tra il costo variabile unitario e il volume di
produzione.
Il costo medio unitario è invece una funzione decrescente del volume. Questo significa che più
prodotti vengono realizzati e minore è il costo di ciascuno di essi, perché intuitivamente i costi fissi
vengono distribuiti (o per meglio dire allocati) su un numero maggiore di prodotti. Attenzione che
il costo variabile unitario rimane sempre lo stesso, cambia semmai il costo fisso unitario, che
diminuisce. Bisogna poi tenere a mente che il costo unitario di un prodotto va sempre
contestualizzato accoppiandolo al suo volume di riferimento. Il costo unitario da solo non ha
senso, è sempre meglio quindi ragionare in termini di volume e costi totali.
Quindi, ricapitolando: i costi variabili complessivi variano in base alla produzione, i costi variabili
unitari no. I costi fissi complessivi non variano in base alla produzione, i costi fissi unitari sì (nello
specifico si riducono all’aumentare della produzione e viceversa).
Quando si analizzano i diagrammi costi-volume è bene tenere conto dell’intervallo di rilevanza,
cioè del volume massimo e minimo all’interno dei quali si suppone valida la relazione costi-volumi.
Questo influenza in modo particolare i costi fissi impegnati, poiché all’interno di un certo intervallo
di rilevanza essi sono costanti, ma se si esce da tale intervallo bisogna rivalutarli. Bisogna poi
tenere conto anche del periodo temporale di rilevanza, perché più è breve l’intervallo di tempo in
cui calcolo i costi e minore è la possibilità di adattare gli stessi al fabbisogno, perché ad esempio i
costi impegnati non possono essere modificati in un periodo ristretto, ma solo quelli discrezionali.
Virtualmente sul lungo periodo tutti i fattori di costo possono essere adattati al fabbisogno. Un
terzo elemento da tenere in considerazione è il contesto ambientale, ovvero la possibile presenza
di cause esterne (diverse dal volume di produzione) che possano modificare i costi. È il caso ad
esempio dell’inflazione, dell’aumento del costo delle materie prime dovuto a eventi esterni (ciò
che è successo dopo la pandemia), dell’adeguamento dei contratti di lavoro o dell’introduzione di
nuove tecnologie per i processi produttivi. Quindi i costi vanno progressivamente aggiornati anche
tenendo conto di questi aspetti.
Le ultime categorie che introduciamo sono quelle di costi a gradino e costi viscosi. I costi a gradino
si comportano in maniera simile ai costi fissi impegnati visti in precedenza, però non sono
caratterizzati dal fatto di essere bloccati per lunghi periodo di tempo. Sono quindi costi che variano
sì solo in maniera discreta (appunto a gradino, come quelli impegnati), ma possono subire
modifiche più frequenti, cioè hanno un periodo di rilevanza più breve. Sono ad ogni modo legati a
“blocchi” di risorse. Ad esempio se ogni dieci impiegati un ufficio necessita di un coordinatore, il
costo del coordinatore è un costo a gradino, cresce ogni dieci impiegati. L’esempio dell’assunzione
di nuovi dipendenti durante i periodi di maggiore richiesta ci dà l’idea di un costo a gradino (si
impegnano più risorse per raggiungere una potenzialità maggiore) che può variare in tempi brevi. I
costi viscosi sono invece costi variabili che diminuiscono lentamente al diminuire del volume e
crescono rapidamente all’aumentare del volume.
I costi possono essere messi in relazione al volume sulla base di valutazioni soggettive od
oggettive. Nel primo caso le valutazioni derivano da conoscenze dell’azienda che entrano in gioco
nel momento in cui non ci sono stime precise. È un esempio il lancio di un nuovo prodotto, per cui
non ci sono dati di mercato. Si ricorre invece a valutazioni oggettive, nello specifico regressioni
lineari, quando si è in presenza di dati storici su determinati prodotti. Anche questo metodo
comunque non è esente da errori e dà lo stesso peso ai dati relativi a tutti gli anni, non tenendo
conto quindi di motivazioni particolari che possono aver modificato i dati da un anno all’altro. Ad
esempio quest’anno si registrerà un aumento dei costi dovuto all’inflazione, bisogna quindi
contestualizzare i dati di questo periodo. Le regressioni lineari sono quindi uno strumento utile,
soprattutto per osservare gli andamenti sul lungo periodo, ma che va affiancato ad altre
informazioni per programmare la produzione.

Margine di contribuzione
Il primo passo da fare per determinare il margine di contribuzione di un prodotto è inserire anche i
ricavi nel grafico costi-volume di cui abbiamo parlato finora. Innanzitutto è importante definire il
punto in cui i ricavi eguagliano i costi, cioè il punto di pareggio, in corrispondenza del quale
troviamo il volume di pareggio (o break-even point), un dato molto importante che può fornire
informazioni preziose su un’azienda. Non rappresenta tuttavia un obiettivo da raggiungere, tranne
per le aziende che hanno appena iniziato la loro attività, che avranno un certo tempo entro il quale
raggiungere il break-even point. Appena la curva dei ricavi supera quella dei costi, intuitivamente,
l’azienda realizza un profitto. Per calcolare il volume di pareggio si parte dall’equazione:
Ricavi totali = Costi totali
I ricavi totali sono dati dal prodotto tra la quantità di pareggio e il prezzo unitario, mentre i costi
totali abbiamo già visto come si esprimono.
Q p ∙ Pr = Qp ∙ cvu + CFT

Q p ∙ ( Pr−cvu ) = CFT

La differenza tra il prezzo unitario e il costo variabile unitario assume notevole importanza e viene
definita proprio margine di contribuzione del prodotto. Infine si ottiene:
CFT
Qp =
mdc
Attenzione a non confondere il margine di contribuzione con il reddito unitario, perché ad esso
non viene sottratto il costo fisso unitario! Tuttavia il margine di contribuzione ci permette di
valutare la possibile redditività di un prodotto e può essere ancora più rilevante se si confrontano
prodotti che hanno gli stessi costi fissi. Essendo dato da due grandezze unitarie che non variano
con il volume (prezzo unitario e costo variabile unitario), il margine di contribuzione non varia con
il volume. Vediamo ora come relazionare il volume di produzione al profitto.
Profitto = Ricavi totali−Costi totali
PR = Q ∙ Pr −( Q ∙ cvu + CFT ) = Q ∙ mdc−CFT

Dove Q in questo caso non è il volume di pareggio (chiaramente il profitto al punto di pareggio è
nullo), ma il volume che è necessario produrre per ottenere un certo profitto che ci si pone come
obiettivo. Ricavando Q si ottiene:
PR +CFT
Q=
mdc
Se si producono più prodotti, quelli con margine di contribuzione più alto assorbono meglio i costi
fissi e contribuiscono maggiormente a generare profitto. Si dice che “marginano” di più.
Oltre a determinare il volume di pareggio e il volume necessario a realizzare un dato profitto,
l’analisi volumi-costi-profitto è utile anche a sostenere le decisioni del management. Ad esempio
se è opportuno spendere di più per pubblicizzare il prodotto (valutando anche il ricavo aggiuntivo
ottenuto grazie alla pubblicità) oppure se è necessario ridurre il prezzo di vendita. Vediamo un
esempio pratico. Si vendono normalmente 40 prodotti, che ci danno un margine di contribuzione
normale di 3200 € (80 € l’uno) a fronte di 2000 € di costi fissi. Se si decide di investire in pubblicità
si prevede di vendere 45 pezzi, ottenendo così un margine di contribuzione totale di 3600 €, ma a
fronte di 2500 € di costi fissi (cioè 500 € in più per la pubblicità). Quindi non conviene spendere
per la pubblicità, perché il profitto si riduce. E se invece si cambia strategia, abbassando il prezzo di
vendita? Supponendo di avere un margine di contribuzione unitario non più di 80 € ma di 60 € (25
€ in meno sul prezzo di vendita unitario ma risparmio di 5 € sul prezzo di acquisto unitario) e
supponendo di riuscire in questo modo a vendere 50 pezzi, il margine di contribuzione totale
diventa di 3000 €, quindi, con costi fissi di 2000 €, anche in questo caso non conviene cambiare le
cose.
Introduciamo ora il concetto di margine di sicurezza, che ci dice quanto si possono ridurre i ricavi
prima di raggiungere il punto di pareggio o, più precisamente, quanto il volume di vendite si
discosta dal volume di pareggio. Infatti il punto di pareggio viene visto un po’ come un campanello
di allarme, perché se l’azienda vi si trova vicino è più alta la probabilità che possa andare in
perdita. Se un’azienda ha un margine di sicurezza molto ampio, significa che l’azienda corre pochi
rischi ed è meno sensibile alle variazioni del mercato esterno. N.B. sottolineiamo che i ricavi, i
volumi e i margini che abbiamo visto finora sono sempre delle previsioni: volume di vendita e
volume di produzione sono sempre associati ma poi spesso non coincidono.
Un altro concetto importante è la leva operativa, che è il rapporto tra la variazione del reddito e la
variazione dei ricavi, a seguito di una variazione dei volumi rispetto a un valore di riferimento. Una
leva operativa alta comporta che, in percentuale, il reddito vari maggiormente rispetto ai ricavi. La
leva operativa va sempre espressa rispetto al volume di riferimento, perché non è detto che
passando da un volume di 200 a uno di 250 si ottenga la stessa leva operativa che si otterrebbe
passando da 300 a 350, sebbene la variazione in valore assoluto sia la medesima. La leva operativa
dipende da come sono strutturati i costi. Prendiamo a titolo di esempio due aziende che realizzano
gli stessi ricavi, ma una ha bassi costi variabili e alti costi fissi (ad esempio perché possiede molti
macchinari e produce i pezzi partendo da zero), mentre l’altra ha bassi costi fissi ma alti costi
variabili (perché magari non può permettersi investimenti troppo onerosi e allora compra i pezzi
già pronti e li assembla soltanto). È chiaro che l’impresa con elevati costi fissi avrà un grado di leva
operativa più alto e infatti ha come obiettivo quello di vendere molto di più. Quindi in questo caso
vendendo tanto l’azienda genera molto profitto. Nel secondo caso invece il grado di leva operativa
è più basso, quindi all’azienda non interessa più di tanto aumentare significativamente il suo
volume di produzione, è meno sensibile alle variazioni dei ricavi, sia in positivo, sia soprattutto in
negativo. Se i ricavi di un’azienda con alto grado di leva operativa calano (come è successo ad
esempio alle compagnie aeree, che hanno enormi costi fissi, durante la pandemia), il reddito
crolla, mentre un’azienda con basso grado di leva è meno vulnerabile da questo punto di vista. Di
fatti nel secondo caso l’azienda ha un margine di sicurezza più ampio, perché il suo punto di
pareggio è intrinsecamente più basso. Qual è la soluzione migliore? Non c’è una risposta a questa
domanda, perché semplicemente le due aziende sono strutturate in maniera diversa.
Sostanzialmente la prima azienda è più esposta alle variazioni di mercato, da cui può trarre profitti
esponenziali ma anche enormi danni, mentre la seconda azienda è in una posizione più
“tranquilla”. Generalmente le aziende tendono a rischiare poco e snellirsi, assomigliando più al
secondo caso che al primo. Il management nel primo caso cercherà di aumentare il più possibile la
produzione, non senza prima aver aumentato la domanda, tramite strategie di marketing o un
deprezzamento dei prodotti, oppure aggredendo mercati prima inesplorati, ad esempio come ha
fatto Apple con gli iPhone S, vendendo un prodotto visto come “di lusso” ad un prezzo minore,
inserendosi quindi in un mercato diverso.

Costi pieni
Come detto il costo quantifica, valorizza le risorse consumate per un certo scopo. Gli oggetti per
cui si può definire un costo sono i più disparati, anche se noi per semplicità ci riferiremo
solitamente ai prodotti. Vogliamo quindi valutare il consumo di risorse necessario per la
realizzazione di un certo prodotto. A volte determinare il costo pieno è molto semplice: ad
esempio se un’azienda acquista dei semi-lavorati e poi li assembla, il loro costo pieno corrisponde
al loro costo d’acquisto. In altri casi però, se l’azienda ha una linea produttiva, occorrono
valutazioni più approfondite. Il costo pieno si compone di costi diretti e di una quota equa di costi
indiretti. I costi diretti sono determinati in maniera oggettiva e si dice che vengono attribuiti al
prodotto. I costi indiretti sono determinati in maniera soggettiva, secondo criteri stabiliti dal
management, e si dice che vengono allocati al prodotto. I costi diretti sono sicuramente il costo
della materia prima e quello della manodopera, mentre i costi indiretti (di produzione) possono
essere il riscaldamento e l’illuminazione dello stabilimento, la manutenzione degli impianti, la
logistica interna (spostamento di persone e materiali). Il costo della manodopera sommato ai costi
indiretti determina i costi di trasformazione. I costi indiretti sono generalmente costi fissi e
rimangono costanti nel tempo e all’interno di un certo intervallo di volume. La somma dei costi
diretti e dei costi indiretti di produzione determina il costo pieno di produzione, che non è ancora
quello totale. I costi che vengono sostenuti al di fuori dell’area produttiva sono i costi di periodo e
devono anch’essi essere allocati ai prodotti. I costi di periodo sono divisi in costi commerciali e
costi generali e amministrativi. Il costo pieno di produzione più i costi di periodo danno il costo
pieno totale.
Dobbiamo capire ora come allocare i costi indiretti. Per farlo esistono due metodi: il metodo
diretto o semplificato e il metodo per centri di costo; noi vedremo solo il primo. Nel metodo
diretto si calcola il cosiddetto coefficiente di allocazione, che è per definizione una quota di costo
indiretto allocabile per ogni base di riporto. Tale coefficiente è quindi il rapporto tra i costi indiretti
e la base di riporto. La base di riporto si può scegliere in vari modi, ed è sostanzialmente la
proporzione con cui si decide di ripartire i costi indiretti. Vediamone un esempio. Un’azienda
produce due prodotti, A e B, nello stesso stabilimento. I costi diretti di A ammontano a 300.000 €,
mentre quelli diretti di B a 400.000 €. L’azienda vende 3000 prodotti A e 2000 prodotti B. C’è poi
un totale di 100.000 € di costi indiretti da allocare. In questo caso si sceglie come base di riporto il
volume di vendita, cioè si ripartiscono i costi fissi sulla base dei volumi di vendita. Il coefficiente di
allocazione varrà quindi:
Totale costi indiretti 100 000
= =20 €
Volume di vendita totale 2000+3000
Quindi ogni singolo prodotto ha una quota equa di costi indiretti corrispondente a 20 €, che poi
vengono ripartiti complessivamente moltiplicando questo coefficiente di allocazione per il volume
di vendita di ciascun prodotto. Quindi dei 100.000 € totali allocheremo 20*3000 = 60.000 € al
prodotto A e 20*2000 = 40.000 € al prodotto B. Quindi il costo pieno totale complessivo del
prodotto A sarà 300.000 + 60.000 = 360.000 €, mentre quello del prodotto B sarà 400.000 + 40.000
= 440.000 €. Dividendo questi valori per il volume di vendita di ciascun prodotto si ottengono i
costi pieni totali unitari, pari a 360.000/3000 = 120 € per il prodotto A e 440.000/2000 = 220 € per
il prodotto B. Negli esercizi normalmente la base di allocazione sarà assegnata (può essere anche il
costo della materia prima, la quantità di materia prima, il costo della manodopera, ecc…). N.B. il
costo pieno aiuta a definire il prezzo di vendita, ma il valore finale è del tutto discrezionale, non c’è
un metodo oggettivo per determinarlo.
Il costo pieno che abbiamo calcolato è poi quello che entra nello stato patrimoniale come valore
delle rimanenze (che siano esse di materie prime, di semi-lavorati o di prodotti finiti) e nel conto
economico come costo del venduto. Il costo pieno inoltre permette di valutare la redditività di un
prodotto o, più in generale, di un’intera linea produttiva. Infatti se al prezzo di vendita unitario si
sottrae il costo pieno unitario si ottiene il profitto unitario di un certo prodotto. Ricordiamo che se
invece al prezzo unitario togliamo il costo variabile unitario otteniamo il margine di contribuzione,
che non è un profitto perché non tiene conto dei costi pieni.

Le decisioni di breve termine


Sono decisioni che non impattano in maniera sostanziale l’azienda, hanno un effetto limitato nel
tempo e non modificano significativamente le risorse dell’azienda. Si distinguono dalle decisioni di
lungo termine, di fatto delle scelte sugli investimenti, le quali sono caratterizzate da un orizzonte
temporale di vari anni e vincolano in maniera permanente delle risorse. Le decisioni di breve
termine sono relative al massimo alla durata di un esercizio, o spesso anche meno. Esse si possono
distinguere in tre principali categorie, in base ai modelli su cui si basano:

 Break-even point. Ne abbiamo già parlato, si tratta di calcolare quanto l’azienda deve
produrre per non andare in perdita. Ovviamente poi l’obiettivo è quello di generare
profitto, quindi in seguito si calcola quanto l’azienda deve produrre per raggiungere un
certo profitto. Ricordiamo che il volume di pareggio si calcola come rapporto tra i costi fissi
totali e il margine di contribuzione. La faccenda si fa più interessante se l’azienda realizza
prodotti diversi, nella pratica quasi sempre. In questo caso si calcola il margine di
contribuzione del prodotto equivalente, ovvero una media dei margini di contribuzione di
ciascun prodotto, pesata sui relativi volumi di vendita, che chiaramente devono essere noti.
 Mix ottimale di produzione. Riguarda le aziende che realizzano molteplici prodotti. Nella
pratica si calcola il margine di contribuzione unitario per vedere quale prodotto margina di
più e si sceglie di conseguenza la combinazione ideale dei prodotti. La scelta deve essere
orientata in modo da massimizzare il profitto in presenza di vincoli, quali ad esempio le ore
macchina disponibili o la massima produzione che può essere assorbita dal mercato. Nel
caso di un insieme di prodotti il reddito si calcola come:
PR = ∑ mc u i ∙ Qi - CFT
i

In assenza di vincoli (condizione puramente ideale), dalla formula si evince che è necessario
massimizzare il primo addendo: se c’è un prodotto che margina più degli altri si può
pensare di produrre solo quello. Se i prodotti marginano tutti allo stesso modo si può
scegliere se dividere equamente la produzione o se produrne uno solo. Se si manifesta un
vincolo interno, ad esempio le ore macchina disponibili, si calcola il cosiddetto margine di
contribuzione per risorsa scarsa, dove la risorsa scarsa in questo caso sono proprio le ore
macchina disponibili. Si calcola quindi un margine di contribuzione orario e si produce solo
il prodotto con il maggiore margine di contribuzione per risorsa scarsa. Questo parametro
serve solo ed esclusivamente per determinare il mix ottimale di produzione, poi dopo per
calcolare il profitto vero e proprio si usa il normale margine di contribuzione. Si può poi
avere anche un vincolo esterno, come quello della domanda di mercato, ovvero della
massima quantità di prodotto che può essere assorbita. In questo caso si procede per step:
prima si produce il bene con il maggiore margine di contribuzione per risorsa scarsa fino a
saturare il vincolo esterno, cioè fino a saturare la domanda di mercato. Successivamente si
producono progressivamente gli altri prodotti (in ordine di margine di contribuzione per
risorsa scarsa) fino a saturare il vincolo interno, cioè fino a consumare tutta la risorsa
scarsa, in questo caso fino a consumare tutte le ore macchina disponibili. È intuibile che più
vincoli ci sono e più il reddito si riduce.
 Make or buy. Si determina se all’azienda conviene realizzare un prodotto internamente o
comprarlo già fatto (ultimamente succede sempre più spesso). Gli elementi fondamentali
su cui si basa la scelta tra alternative diverse sono i costi e i ricavi differenziali, ovvero quei
costi e quei ricavi che cambiano a seconda della scelta fatta e su cui quindi è necessario
ragionare. Il costo differenziale non va confuso con i costi pieni. I costi pieni hanno una
precisa definizione, sempre uguale, mentre i costi differenziali, essendo costituiti solo dagli
elementi che variano tra una scelta e l’altra, possono cambiare a seconda delle situazioni.
In linea generale, gli elementi che costituiscono il costo differenziale sono il costo della
materia prima, quello della manodopera e quello dell’energia se si decide di produrre
internamente e il costo d’acquisto se si decide di accingere dall’esterno. Nel confronto tra
le alternative si può evidenziare il cosiddetto reddito differenziale, cioè la differenza tra il
reddito generato da una soluzione e quello generato dalla soluzione alternativa. È
importante notare che, anche se da un punto di vista meramente economico comprare
dall’esterno può risultare più dispendioso, a volte questa strada può risultare comunque
più conveniente. Infatti, nel momento in cui si decide di acquistare un prodotto già finito,
internamente all’azienda si libera una certa capacità produttiva, che potrà essere impiegata
per realizzare altri prodotti. Si parla in questo caso di costo opportunità, ovvero quel
reddito potenziale a cui si rinuncia quando una determinata scelta implica l’esclusione di
un corso d’azione alternativo. Quindi a volte entrano in gioco anche fattori che non
compaiono a bilancio, ma rappresentano solo delle opportunità potenziali o delle
caratteristiche qualitative. Ad esempio, se si decide di comprare dall’esterno, magari si
libera della capacità produttiva, ma il fornitore potrebbe non essere affidabile e
consegnare un prodotto che a volte presenta dei difetti qualitativi non accettabili oppure
consegnare in ritardo. Questo aumenta il lead time dell’azienda che compra e quindi
rappresenta per essa un costo, che dovrà essere confrontato con il costo opportunità.

Le decisioni di lungo termine


Finora abbiamo visto come vengono supportate le decisioni di breve termine, che non hanno
quindi un effetto duraturo nel tempo. Ad esempio, modificare il mix di produzione oggi è
un’azione piuttosto semplice rispetto al passato, quando le aziende erano meno flessibili e anche
una modifica del genere poteva vincolare la produzione per un periodo di tempo piuttosto lungo.
Ora andiamo invece a vedere come vengono supportate le decisioni di lungo termine, che hanno
un impatto nel tempo più duraturo, tipicamente almeno cinque anni. Il concetto più importante a
riguardo è quello del valore economico nel tempo: infatti non è possibile combinare con semplici
somme algebriche dati economici che si manifestano in momenti diversi, bensì occorrono delle
correzioni. Quando si fa un investimento è necessario innanzitutto porsi come obiettivo il recupero
totale dell’investimento ed eventualmente un certo rendimento rispetto somma investita.
Tipicamente gli investimenti a basso rischio sono caratterizzati da un recupero totale e da bassi
rendimenti, mentre gli investimenti ad alto rischio non garantiscono un recupero totale ma
possono potenzialmente portare un rendimento molto elevato. Siccome sia il recupero sia il
rendimento si manifestano come incassi o flussi di cassa, per valutare gli investimenti è necessario
ragionare per cassa, non per competenza come fatto finora. Impareremo quindi a passare da
contabilità per competenza a quella per cassa.
Un investimento è un impegno di risorse monetarie di lungo periodo, in cui l’impiego di risorse è
molto elevato all’inizio, i cui risultati possono essere incerti lungo un orizzonte temporale ampio e
che non è facilmente reversibile. Ad esempio l’investimento necessario per costruire un nuovo
impianto oppure per digitalizzarlo e automatizzarlo con tecniche di machine learning sono esempi
di investimenti non facilmente reversibili. Gli elementi da tenere in considerazione in un
investimento sono l’esborso di cassa iniziale e le entrate di cassa future previste, nonché la durata.
Ad esempio iscriversi ad un MBA è un investimento, comporta un notevole esborso iniziale
(nell’ordine dei 100 – 150mila euro), ma garantisce a chi lo ha conseguito un posto di lavoro ai
vertici delle maggiori aziende e di conseguenza uno stipendio molto elevato, che sul lungo periodo
può ripagare la spesa iniziale.
Ora, mentre l’esborso iniziale si può far coincidere con un generico tempo zero, tutte le entrate di
cassa generate dall’investimento si manifesteranno via via negli anni, quindi in momenti diversi. È
bene a tal proposito ricordare una regola d’oro della finanza: il valore della moneta cambia nel
tempo! Questo fa sì, come detto, che i flussi di cassa che si manifestano in momenti diversi non
possano essere direttamente comparati. Si tende a dire che un euro oggi vale più di un euro
disponibile domani, perché l’euro oggi può essere investito e valere più di un euro domani.
Esistono infatti investimenti sicuri, a rischio nullo ma a rendimento bassissimo (circa 0.5%), come i
titoli di stato. Altro motivo è l’inflazione, che fa perdere valore alla moneta nel tempo. Un esempio
banale è il caffè: se un anno fa lo compravamo con 1,10 € (ladri anche un anno fa, nda), oggi
questa cifra non ci basta più. Vediamo un altro esempio più specifico. Immaginiamo che si acquisti
oggi una radio e si assuma un dj, spendendo in totale 45 mila euro iniziali. Si è poi certi che si
venderà la radio fra un anno a 47 mila euro. Intuitivamente potremmo pensare che l’investimento
sia conveniente poiché genera un reddito di 47 – 45 = 2 mila euro. Questa tuttavia è una semplice
somma algebrica, che eguaglia un esborso e un incasso che avvengono a distanza di un anno l’uno
dall’altro. Per confrontarli dobbiamo correggerli, come se avvenissero nello stesso istante. Ci viene
incontro il cosiddetto costo opportunità del capitale, definito come il rendimento che si otterrebbe
da un investimento in un progetto alternativo, caratterizzato da un livello di rischio uguale a quello
dell’investimento che stiamo valutando. Negli esercizi che faremo ci sarà assegnato un valore per il
costo opportunità del capitale, indicato con r e normalmente pari al 5% (che è comunque un
valore piuttosto alto). La conversione vera e propria tra flussi che avvengono in anni diversi si
esegue tramite il cosiddetto fattore di capitalizzazione, che equivale a 1 + r. Nello specifico, per
portare una cifra all’anno successivo, la si moltiplica per questo fattore. Nell’esempio precedente
quindi si otterrebbe 45.000 x 1,05 = 47.250 €. Questo significa che, se invece di comprare la radio
avessimo investito questi soldi ad un tasso del 5%, avremmo ottenuto 250 € in più. Perciò
l’investimento non conviene. In maniera più formale possiamo definire:
Montante=valore futuro=valore attuale ∙(1+ r)
Se il costo opportunità del capitale, sempre nell’esempio precedente, fosse stato del 3,5%, il
montante ad un anno sarebbe stato pari a 45.000 x 1,035 = 46.575 € e a questo punto sarebbe
convenuto comprare la radio. Si può anche fare il ragionamento inverso: ovvero quale somma
deve essere investita oggi per avere 47 mila euro tra un anno? Ovvero ci chiediamo come portare
all’anno corrente un flusso di cassa futuro. Se portare un flusso presente al futuro si dice
capitalizzare, portare un flusso futuro al presente si dice attualizzare. Per attualizzare si moltiplica
la cifra futura per il coefficiente di attualizzazione, che è il reciproco del coefficiente di
capitalizzazione.
1
Valore attuale=valore futuro ∙
1+r
Quindi, facendo sempre riferimento all’esempio precedente con r pari a 3,5%, per ottenere 47
mila euro fra un anno si dovrebbero investire 47.000/(1+0.035) = 45.411 € oggi. Se posso ottenere
47 mila investendone oggi solo 45.000, cioè comprando la radio, è chiaro che l’investimento è
conveniente. Per semplicità, noi negli esercizi ipotizzeremo di avere investimenti privi di rischio,
ma nella realtà non ci sono quasi mai investimenti davvero privi di rischio (tranne i buoni del
tesoro). Per fare confronti tra flussi relativi ad anni diversi si può sia capitalizzare che attualizzare,
le due strade sono alternative ed entrambe valide. Attualizzare significa individuare il valore
attuale della ricchezza la cui manifestazione monetaria è attesa in futuro, capitalizzare significa
individuare il valore futuro atteso della ricchezza la cui manifestazione monetaria è attuale.
Abbiamo detto che normalmente gli investimenti si sviluppano su un arco temporale di vari anni,
quindi è necessario attualizzare o capitalizzare non da un anno all’altro, bensì da un anno a vari
anni dopo o prima. Le formule in questo caso si modificano leggermente.
n
Montante=valore futuro=valore attuale ∙ ( 1+r )

Dove n è chiaramente il numero di anni e dove si è considerato r costante in tutto il periodo


analizzato. Ad esempio se all’inizio del periodo 1 abbiamo 1000 euro, con un costo opportunità del
capitale del 5%, alla fine del periodo 1 questi varranno 1050. Alla fine del periodo 10, quindi tra 10
anni, questi varranno 1000x(1+0.05)^10 = 1629 euro. Noi solitamente negli esercizi attualizzeremo
gli incassi per confrontarli con l’esborso iniziale. La formula per attualizzare su più anni sarà:
1
Valore attuale=valore futuro ∙
( 1+r )n
Ad esempio per ottenere 25 mila euro fra 15 anni, con un costo opportunità del 7%, oggi
dovremmo depositare 25000/(1+0.07)^15 = 9061 euro. Questi tassi nella pratica sono del tutto
irrealistici, ma ci si può avvicinare ad essi se si investe in borsa.
Finora abbiamo visto un unico flusso, ma negli investimenti generalmente ci sono più flussi, che si
verificano in anni diversi. Il valore attuale al tempo zero di vari flussi di cassa sarà dato dalla
seguente formula:
F1 F2 F3 Fn n
Fi
Valore attuale= + +
1+r ( 1+r ) (1+r )
2 3
+…+ = ∑
( 1+r ) i=1 ( 1+r )i
n

La differenza tra il valore attuale calcolato in questa maniera e l’impiego iniziale di risorse prende il
nome di valore attuale netto, o VAN, che è il parametro definitivo che stabilisce la bontà o meno
dell’investimento. Se il VAN è positivo significa che la sommatoria degli incassi attualizzati è
maggiore della spesa iniziale e dunque l’investimento è conveniente, viceversa se il VAN è
negativo l’investimento non è conveniente. Si dice che se il VAN è positivo il progetto produce
valore, mentre se è negativo distrugge valore. È chiaro che i flussi di cassa in ingresso sono delle
previsioni, non abbiamo mai la certezza assoluta che essi si verifichino. Nell’esempio della radio,
l’esborso iniziale è di 45000 €, l’incasso dopo un anno è di 47000 €, che attualizzato con r del 3,5%
diventa 45411€, pertanto il VAN di questo investimento è di 411 €, il che ci dice che l’investimento
è conveniente. È quindi possibile sommare algebricamente i flussi di cassa solo dopo averli riportati
tutti allo stesso periodo temporale.
Ricapitolando, gli elementi che entrano sempre in gioco nella valutazione di un investimento sono:
1. Il costo opportunità del capitale. È quel fattore che ci permette di assegnare un valore
economico al tempo. Nei nostri esercizi assumeremo una r come corrispondente ad un
investimento privo di rischio, tuttavia nei progetti reali chiaramente un certo grado di
rischio esiste e si definiscono a tal proposito delle classi di rischio. Generalmente
all’aumentare del costo opportunità aumenta il rischio. Infatti i progetti ad alto rischio, ma
che potrebbero diventare enormemente remunerativi, ad esempio la nascita di una start-
up, vengono di solito finanziati da organizzazioni particolari, non da banche. A risentire del
rischio di un investimento è il VAN; esistono strumenti per calcolare il VAN in presenza di
rischio, ma non sono di pertinenza di questo corso.
2. Durata, ovvero su quanti anni si sviluppa il progetto. Generalmente gli esborsi si verificano
nelle fasi iniziali del progetto, mentre in quelle intermedie e finali si manifestano gli
incassi. La vita economica di un investimento è il periodo di tempo per cui si prevede che
esso generi flussi di cassa positivi. Quando l’investimento non genera più flussi di cassa
positivi, la sua vita economica si può considerare conclusa. La vita economica di un
progetto è spesso minore della sua vita fisica. Infatti, la valutazione degli investimenti si fa
al massimo a cinque anni; oltre questo orizzonte temporale non è possibile fare previsioni
attendibili, poiché le condizioni al contorno variano continuamente. Ad esempio, si può
fare la valutazione dell’investimento per un impianto a cinque anni, ma poi chiaramente
quell’impianto opererà fisicamente ben più di cinque anni.
3. I flussi di cassa generati. Si tratta di flussi di cassa differenziali (maggiori incassi e minori
esborsi) rispetto ad una situazione che non preveda l’investimento. Possiamo avere ad
esempio degli investimenti che non aumentino i ricavi, ma diminuiscano solo i costi,
sebbene la situazione più comune sia una modifica sia dei costi che dei ricavi. Noi tuttavia
ragioneremo sempre con investimenti completamente nuovi, come se nel caso base i
costi e ricavi fossero tutti nulli. I flussi di cassa si calcolano in contabilità per cassa,
ottenuta rettificando (con metodo indiretto, che vedremo) la contabilità per competenza.
All’atto pratico quindi si calcolano prima tutti i ricavi del progetto e i relativi costi di
competenza, poi il reddito (operativo se ante imposte, netto se viene specificata la
presenza di imposte). In seguito si rettificano i costi e i ricavi per ottenere il flusso di cassa
operativo, che poi verrà confrontato con l’esborso iniziale.
4. L’entità dell’investimento o esborso iniziale. È la quantità di risorse finanziarie che
l’azienda sottopone a rischio nel momento in cui accetta l’investimento.
5. Il valore finale dell’investimento o valore di recupero. Al termine della vita economica si
ipotizza che il progetto abbia ancora un valore residuo, derivante ad esempio dalla
vendita delle immobilizzazioni.
Nella valutazione di un investimento entrano in gioco anche elementi non prettamente economici,
di cui si deve comunque tenere conto. Ad esempio, di solito chi propone il progetto può tendere
ad essere troppo ottimista e a fare stime un po’ generose. In altri casi l’investimento può essere
proposto immaginando che qualora questo venga respinto le cose rimangano invariate, non
succeda nulla; però può darsi che l’investimento avesse l’obiettivo di modificare la produzione di
un certo prodotto per andare in contro a cambiamenti dei gusti dei consumatori. In tal caso, se
l’investimento non andasse in porto le cose non rimarrebbero invariate, ma peggiorerebbero, cioè
si registrerebbe un calo delle vendite. In altri casi ancora si imputano i costi di formazione e di
avviamento connessi ad una nuova tecnologia solo al primo progetto che introduce la tecnologia
stessa, sebbene di questi costi potranno beneficiare anche progetti futuri. Di tutti questi aspetti
non monetari si tiene conto solo alla fine, quando la procedura di valutazione dell’investimento ha
portato al calcolo del VAN.
Ci concentriamo ora in modo particolare sul calcolo dei flussi di cassa, che avviene, come detto,
tramite metodo indiretto. Si parte dal conto economico differenziale e da questo si eseguono le
opportune rettifiche. Il reddito netto corrisponderebbe al flusso di cassa se tutti i costi e tutti i
ricavi fossero concomitanti ai rispettivi esborsi ed incassi, ma questo nella realtà non avviene mai.
Le rettifiche che dobbiamo fare sono di tre tipologie:
1) Rettifiche per costi e componenti non finanziari. Si tratta principalmente di:
a) Ammortamento, che è un costo non finanziario. Viene sottratto ai ricavi nel conto
economico differenziale, ma non è un vero e proprio esborso, ha solo una finalità fiscale.
Perciò, nel calcolo del flusso di cassa operativo, esso va sommato al reddito netto.
b) Plusvalenze e minusvalenze da alienazione di immobilizzazioni. Sono definite come il
valore di recupero di una immobilizzazione meno il suo valore contabile. Il valore contabile
è la parte di costo storico non ancora ammortizzata. Una volta calcolate, le plusvalenze si
sottraggono al reddito netto, mentre le minusvalenze si sommano.
2) Rettifiche per variazione del capitale circolante netto. Servono per tenere conto dei ricavi a
credito e dei costi a debito. Chiaramente se nel conto economico c’è un ricavo di competenza
di in un certo periodo, ma quel ricavo è a credito (ad esempio ci pagheranno dopo 60 giorni),
ad esso non corrisponde un incasso. Viceversa, se abbiamo sostenuto un costo di competenza,
ma quel costo è a debito, ad esso non corrisponde un esborso. Pertanto, l’incremento dei
crediti commerciali va sottratto al reddito netto (è un ricavo che in realtà non abbiamo avuto),
mentre l’incremento dei debiti commerciali va aggiunto (è un costo che in realtà non abbiamo
sostenuto). Se i crediti sono ad esempio a 90 giorni, si dovranno sottrarre al reddito i 3/12 dei
ricavi dell’anno. Anche l’incremento delle rimanenze va sottratto, come per l’incremento dei
crediti, perché quelle rimanenze rappresentano un ricavo che nella realtà non è avvenuto.
3) Flusso monetario per acquisto e alienazione di immobilizzazioni. Nel calcolo del flusso di
cassa operativo si deve sottrarre infine l’esborso dovuto all’acquisto delle immobilizzazioni e
l’incasso realizzato per la vendita delle stesse.

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