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Lo stato patrimoniale
Il primo rendiconto che vediamo è lo stato patrimoniale, che è formato da tre parti: a sinistra le
attività, a destra le passività e il capitale netto. La regola fondamentale dello stato patrimoniale è
la seguente uguaglianza: attività = passività + capitale netto. Le attività si dividono in correnti e
immobilizzate. Le attività correnti sono quelle che si trasformeranno in liquidità o produrranno la
loro utilità entro l’esercizio successivo. La cassa, che fa parte di quelle correnti, rappresenta la
liquidità corrente dell’impresa, in parole povere i soldi liquidi che l’impresa possiede in quel
momento. Altre attività correnti sono i crediti e le rimanenze. Tra le attività immobilizzate
troviamo gli asset materiali dell’azienda, così come quelli immateriali, come i marchi e i brevetti,
entrambi risorse dell’azienda: infatti i brevetti proteggono le invenzioni che avvengono all’interno
dell’azienda e il marchio è un elemento che identifica e contraddistingue l’azienda e il suo utilizzo
può essere concesso anche previa pagamento. In caso di fallimento di un’azienda, le attività
correnti possono essere immediatamente trasformate in liquidità per far fronte ad eventuali
debiti, mentre quelle immobilizzate necessitano di più tempo. Le passività si dividono in correnti e
a lungo termine. Tra quelle correnti rientrano i debiti verso i fornitori (non si paga mai al
momento dell’acquisto), i debiti verso le banche o verso l’erario; in generale sono tutti debiti che
vengono risolti in breve tempo. Le passività a lungo termine sono i debiti che impegnano l’azienda
per molti anni, come ad esempio un mutuo. C’è poi la sezione del capitale netto, dove troviamo il
capitale sociale (che noi confonderemo con il capitale versato), cioè l’ammontare di denaro che
viene inizialmente versato per legge dai soci fondatori dell’azienda. Un’altra importante voce del
capitale netto è la riserva di utili, cioè l’accumulo dei guadagni netti che l’azienda genera ogni
anno, pari alla differenza tra i ricavi e i costi. Infatti, gli utili generati ogni anno possono essere
redistribuiti o accumulati, nel qual caso vanno a finire nella riserva di utili e dunque ad alimentare
il capitale netto. Un’azienda non genera necessariamente degli utili alla fine dell’anno, può anche
andare in perdita. Se le passività rappresentano i diritti vantati da terzi, il capitale netto
rappresenta i diritti vantati dalla proprietà. Si possono anche vedere le attività come investimenti
dell’azienda, mentre la parte destra dello stato patrimoniale come fonti di finanziamento (ad
esempio investimento degli utili o contrazione di un debito con una banca per ottenere un
finanziamento). In generale, ciò che compare a sinistra nello stato patrimoniale è una componente
positiva, ciò che compare nelle passività è una componente negativa. La differenza tra questi due
elementi è il capitale netto, che, come suggerisce il nome, è un valore residuale. L’aumento di
capitale netto viene detto reddito o profitto o utile.
Lo stato patrimoniale si basa su alcuni concetti (o principi) contabili. Il primo è quello di
omogeneità. Significa che tutte le registrazioni contabili sono riferite solo ad eventi che producono
effetti esprimibili in termini monetari. Tutto ciò che non può essere espresso in questo modo non
compare nel bilancio, che è quindi un documento che non ci dice tutto di un’azienda, ma ci dà
indicazioni solo sul suo stato di salute economico-finanziario. Ad esempio il cambio di un manager
può essere un evento molto significativo per l’azienda, che comporta anche magari l’inserimento
in nuovi mercati e un cambio di strategia, ma non compare nel bilancio. Il principio di omogeneità
dice anche che i dati presenti in bilanci di anni diversi devono essere contestualizzati, poiché il
valore della moneta può cambiare, la popolarità di un marchio può cambiare, possono avvenire
eventi sociali particolari, ecc…
C’è poi il concetto di entità giuridica, che è sostanzialmente è il motivo principale per cui si devono
redigere i bilanci. L’azienda si rapporta con soggetti terzi, i quali possono avere dei diritti nei
confronti dell’impresa, o viceversa. È quindi necessario che l’azienda venga riconosciuta come
entità giuridica, motivo per cui è anche tenuta a redigere i rendiconti finanziari. Stabilito ciò, le
forme giuridiche con cui un’azienda può essere classificata sono diverse:
Il conto economico
Mentre lo stato patrimoniale è un’istantanea, il conto economico riporta i flussi di denaro di
un’impresa, nello specifico ricavi e costi. Il fatturato, sebbene sia un dato molto utilizzato per
caratterizzare un’azienda, corrisponde ai ricavi, ma non dà un’idea dei costi sostenuti. Se i costi
superano il fatturato, l’azienda è in perdita e nello stato patrimoniale si ha una diminuzione della
riserva di utili. Riprendiamo l’esempio precedente dell’azienda di Mario Rossi. Dopo aver versato
40mila euro di capitale sociale, l’azienda acquista materiali e macchinari e produce il suo prodotto,
ad esempio bottiglie. Queste successivamente vengono vendute creando crediti commerciali (che
solo dopo un certo tempo si trasformano in liquidità, di solito 3 o 6 mesi). Quando i crediti
diventano liquidità il ciclo si chiude. Dalla vendita di beni o servizi si ottiene quindi un ricavo, che è
l’elemento in ingresso nel conto economico e si concretizza in un aumento delle attività (o come
crediti commerciali o come cassa) o delle riserve di utili. L’elemento in uscita nel conto economico
sono i costi di competenza, che si concretizzano in un aumento delle passività o una riduzione
delle riserve di utili. Il costo quindi va ad impattare, riducendola, la riserva di utili. Infatti l’utile (o
profitto o risultato netto) è dato dai ricavi meno i costi.
Vediamo un esempio. Della merce precedentemente acquistata per 500 viene venduta per 800.
Per quanto riguarda lo stato patrimoniale, questa operazione comporta una riduzione delle risorse
(rimanenze) pari a 500 e un aumento di cassa (non necessariamente immediato) di 800. C’è quindi
complessivamente un aumento delle attività di 300. Ad esso deve corrispondere un aumento di
uguale entità nella colonna di destra, ma siccome nell’operazione non ci sono passività, sarà solo il
capitale netto ad aumentare di 300. Nello specifico, non essendoci aumenti di capitale sociale,
l’aumento riguarderà esclusivamente la riserva di utili. Quindi l’operazione genera un profitto di
300. Per quanto riguarda il conto economico, la riduzione delle risorse è un costo e riduce le
riserve di utili, mentre l’aumento di cassa è un ricavo e aumenta le riserve di utili. La differenza tra
ricavi e costi determina, come detto, l’utile o profitto.
Alcune specifiche: i ricavi non determinano necessariamente incassi nel momento in cui vengono
realizzati, perché spesso si fanno dei crediti. In maniera del tutto analoga, i costi non determinano
necessariamente un esborso immediato, anche perché potrebbero essere solo un consumo di
risorse. Quindi, i ricavi e i costi sono solo un incremento o un decremento del capitale netto. Inoltre
un aumento della cassa non rappresenta sempre un vantaggio per la proprietà, cioè un aumento
della liquidità non aumenta l’utile: ad esempio la cassa può aumentare dopo aver chiesto un
finanziamento in banca. A tal proposito, le riserve di utili non sono cassa. Poi, un aumento di
capitale non è un utile e allo stesso modo i dividendi non sono costi, sono solo la distribuzione
degli utili. Classificare i flussi in questa maniera significa ragionare per competenza, che è più
complesso di ragionare per cassa (cioè tenendo conto solo di entrate e uscite), ma fornisce anche
più informazioni.
Anche il conto economico è caratterizzato da concetti contabili, che in questo caso sono sei (per
un totale quindi di undici).
Il primo è quello della periodicità della misurazione, che fa riferimento anche allo stato
patrimoniale. Esso dice che le misurazioni vengono eseguite periodicamente, quindi i bilanci,
almeno internamente all’azienda, vengono aggiornati quasi quotidianamente, anche se poi il
bilancio definitivo viene pubblicato una volta all’anno (in genere sei mesi dopo la chiusura
dell’esercizio).
Il secondo concetto è quello di prudenza, che sostiene che si debba essere sempre conservativi nel
registrare i costi e i ricavi. I ricavi vanno registrati solo quando sono ragionevolmente certi, i costi
vanno registrati appena sono anche solamente possibili. I ricavi sono riconosciuti solo al momento
della consegna al cliente, ad esempio se l’azienda ha prodotto un’automobile che potenzialmente
può darle un ricavo molto cospicuo e questa è pronta per essere spedita, finché il cliente non la
riceve essa non può essere registrata come ricavo. Finché un bene non viene consegnato, esso
costituisce una rimanenza, che è sì un’attività nello stato patrimoniale, ma è una risorsa ferma in
magazzino che non rappresenta un ricavo, quindi viene generalmente vista come un problema per
l’azienda. D’altronde se un’azienda ha il magazzino pieno c’è qualcosa che non va. Questo è
strettamente correlato al concetto di produzione snella (o lean production), una filosofia nata con
Toyota negli anni ’50 e che mira allo svuotamento dei magazzini (eliminazione delle risorse
immobilizzate) e alla eliminazione degli sprechi. Se prima si produceva in base alla domanda
prevista, con la lean production si produce in base alla domanda reale, di fatto su commessa.
Questo metodo produttivo è particolarmente efficace per le aziende che producono beni molto
costosi, come appunto le automobili. Altri esempi: le rimanenze, se si presume che possano essere
vendute ad un valore maggiore di quello a cui sono state acquistate, va registrato il valore di
acquisto; viceversa, se si presume, per vari motivi (ad esempio per l’usura), che esse abbiano perso
valore e possano essere vendute ad un valore più basso a quello di acquisto, allora va registrato il
valore presunto, che è il più prudente. Oppure ancora, se una concessionaria subisce il furto di
un’auto nel corso dell’esercizio di un anno, anche se presume di poter recuperare l’auto il primo
gennaio dell’anno successivo, deve comunque registrare la perdita per l’anno in corso. Un altro
caso è quello dei costi di ricerca e sviluppo, che vanno registrati nel momento in cui vengono
sostenuti, anche se gli effetti degli investimenti potrebbero manifestarsi dopo molti anni.
Segue poi il principio della realizzazione dei ricavi. Il ricavo può essere riconosciuto prima
dell’incasso, caso largamente più frequente, se c’è un credito; se il pagamento invece avviene al
momento dello scambio della merce (raro tra aziende, ma si verifica ad esempio quando si
acquista un articolo in un negozio), il ricavo viene riconosciuto contestualmente all’incasso; il
ricavo può anche essere riconosciuto dopo l’incasso, ad esempio se un cliente paga in anticipo,
generalmente solo una quota dell’importo totale.
Un altro principio, fondamentale, è quello della competenza, che abbiamo visto bene nell’esempio
Maglioni srl. Esso sancisce che se un evento influenza sia i ricavi sia i costi sostenuti per realizzare
questi ricavi, allora i ricavi e i costi devono essere contabilizzati nello stesso periodo.
Chiariamo alcuni termini, sempre legati al concetto di competenza, che spesso vengono confusi tra
loro. Per costo, in senso generico, si intende il consumo di una certa quantità di risorse
economiche destinate ad un qualche scopo, ad esempio per la produzione, per l’affitto, ecc…
Quando questo scopo è l’acquisto di un bene si parla invece di spesa. Esborso significa invece un
pagamento per cassa. Infine il costo di competenza, come visto, è il costo sostenuto per ottenere i
ricavi relativi ad un certo periodo. Per riconoscere i costi di competenza, essi possono essere
correlati ai ricavi in tre modi:
Costi direttamente riconducibili ai ricavi. Sono il vero e proprio costo materiale dei beni
venduti.
Costi associati alle operazioni di gestione del periodo. Sono i costi relativi alle operazioni
che rendono possibile una certa attività, ad esempio il costo dei macchinari, gli stipendi,
l’affitto, ecc… Se vengono realizzati prodotti diversi nella stessa area produttiva, questi
generalmente vengono divisi per ogni tipo di prodotto.
Costi non direttamente riconducibili ai ricavi. Sono costi che l’azienda sostiene e che vanno
contabilizzati, ma che non hanno attinenza diretta con i prodotti venduti.
Un ulteriore principio è quello della continuità dei criteri di valutazione. Nei rendiconti finanziari è
importantissimo utilizzare sempre gli stessi criteri, in modo tale da poter fare confronti tra anni
diversi. Questo permette di analizzare la bontà e l’efficacia delle scelte manageriali e comprendere
anche su quali unità di business all’interno dell’azienda è meglio investire (ogni unità ha il suo
micro-bilancio), cioè quante risorse allocare su ogni unità e quali obiettivi prefissare. In ogni caso, i
criteri utilizzati per stilare i bilanci devono essere sempre gli stessi; utilizzare regole diverse può
portare ad ottenere risultati diversi. Ad esempio, se in un bilancio gli sconti e i resi vengono subito
tolti dai ricavi si ottengono certe percentuali di reddito, mentre se vengono decurtati dal margine
lordo le percentuali cambiano, pur essendo i ricavi lordi e i costi uguali nei due casi. Ciò che
cambia, nello specifico, è il margine lordo, dato da ricavi delle vendite meno costo del venduto.
Attenzione che il margine lordo non è il reddito. Poi, sottraendo al margine lordo i costi di periodo
ad esso associati, si ottiene il risultato operativo caratteristico. Ad esso si possono poi sottrarre i
costi di gestione accessoria (non legati direttamente alla produzione) per ottenere il risultato
operativo complessivo. A questo ancora si sottraggono gli interessi passivi e si perviene al risultato
operativo di competenza, a cui infine si sottraggono i costi di gestione straordinaria, ottenendo
così il risultato ante imposte. È bene comunque ricordare che a volte alcune di queste voci sono
nulle; costi di periodo e costi di gestione accessoria ci sono sempre, ma i costi di gestione
straordinaria non sono sempre presenti. Al risultato ante imposte chiaramente si sottrae il valore
delle imposte per ottenere il reddito netto. Ciò che ci deve rimanere è che:
Analisi di bilancio
Una volta redatti i rendiconti finanziari, si elaborano i dati contenuti al loro interno per calcolare
degli indici, tramite i quali si può valutare l’andamento dell’azienda (anche di quelle competitor),
correggere la strategia aziendale, calcolare il rating aziendale e completare le informazioni di
bilancio. I bilanci sono quindi dei punti di partenza, non di arrivo, e forniscono dati di input. Altre
azioni che si possono fare a partire dai bilanci sono le riclassificazioni e i flussi di cassa (che non
vedremo). È fondamentale confrontare gli indici di bilancio nel tempo e nello spazio (per valutare
le performance delle altre aziende). Gli indici di bilancio possono essere collocati in vari ambiti:
Contabilità direzionale
Finora ci siamo concentrati su informazioni di bilancio, provenienti dalla contabilità generale, che
permettono di redigere i rendiconti finanziari. Tra le informazioni monetarie vi sono però anche
quelle per il management, le quali derivano dalla contabilità direzionale. Il management è il
gruppo che prende le decisioni all’interno dell’azienda ed esegue le seguenti tre azioni:
programma, implementa e controlla. Ad esempio, sulla base del margine che un certo prodotto
riesce a generare e in base alle previsioni di mercato, si sceglie cosa e quanto produrre, dove
allocare le risorse (soprattutto quanto budget mettere a disposizione) e come organizzarle. Si
mettono poi in pratica i programmi fatti e si monitora periodicamente la situazione. Se emergono
situazioni non previste, ad esempio delle variazioni del mercato rispetto alle previsioni o delle
richieste particolari del cliente, si fanno delle modifiche e delle correzioni. Tutte le informazioni
necessarie per orientare il management nelle azioni di programmazione, implementazione e
controllo provengono dalla contabilità direzionale. Cerchiamo quindi di capire le differenze tra
questa e la contabilità generale. La contabilità generale innanzitutto è obbligatoria (tranne alcuni
casi particolari, tipo le partite IVA), quella direzionale no. Lo scopo della contabilità generale è
illustrare lo stato di salute dell’azienda agli stakeholders, anche per una questione di immagine
(mostrare un’immagine solida anche a persone che non hanno competenze specifiche economico-
manageriali). Lo scopo della contabilità direzionale è, come detto, orientare le decisioni del
management per raggiungere degli obiettivi e si rivolge appunto solo al gruppo manageriale. La
contabilità generale si basa sull’equazione fondamentale A – P = CN, mentre i concetti su cui si
basa la contabilità direzionale dipendono dalla finalità a cui essa è rivolta. La contabilità generale
deve rispettare il codice civile e i principi contabili, mentre la contabilità direzionale non deve
sottostare ad alcun obbligo formale. È poi interessante notare che il bilancio riporta informazioni
relative all’anno precedente, mentre la contabilità direzionale, essendo volta alla
programmazione, realizza stime e previsioni, quindi è orientata al futuro. Ad esempio si possono
fare sondaggi per capire le previsioni di vendita di un nuovo prodotto che si sta immettendo sul
mercato e di conseguenza decidere quanti macchinari acquistare per produrlo. A tal proposito,
come già detto, è importante allocare le risorse in maniera snella, orientando il più possibile
l’azienda verso una lean production. Per quanto riguarda le informazioni, quelle prodotte dalla
contabilità generale sono piuttosto circoscritte e sono sempre monetarie, mentre la contabilità
direzionale ne produce molte e di vario tipo. Ad esempio il numero di dipendenti e le loro
competenze, che ci danno un’idea di quanta capacità produttiva l’azienda abbia; oppure il lead
time di produzione, cioè la durata dell’intero ciclo produttivo di un prodotto, che in una trattativa
può far acquisire valore al prodotto stesso. Inoltre, le informazioni riportate nella contabilità
generale sono sempre precise e oggettive, mentre quelle relative alla contabilità direzionale,
essendo stime e previsioni, sono più soggette ad approssimazioni (che però sono minime nei
mercati molto stabili, ad esempio quello dei beni alimentari di prima necessità). Ancora, la
contabilità generale produce un report una volta all’anno, quella direzionale invece è
caratterizzata da una frequenza più elevata, settimanale o anche quotidiana. I bilanci della
contabilità generale vengono poi pubblicati mesi dopo la loro chiusura, mentre i report della
contabilità direzionale vengono resi noti in maniera tempestiva. Poi, mentre la contabilità generale
si riferisce all’azienda intera, quella direzionale si focalizza su specifiche unità della stessa, anche
piccole. Infine, la contabilità generale porta con sé una serie di responsabilità verso gli
stakeholders, che devono essere informati in maniera corretta e trasparente, mentre la contabilità
direzionale rimane dentro l’azienda e non ci sono delle responsabilità reali (anche se chiaramente
l’azienda potrà prendere provvedimenti nei confronti di chi ha sbagliato a redigere i report).
Quindi abbiamo visto che contabilità direzionale e contabilità gestionale sono due strumenti
entrambi importanti, ma diversi tra loro. Tuttavia, ci sono anche dei punti in comune tra i due. Ad
esempio c’è uno scopo comune: quello di orientare le scelte dell’azienda. Il bilancio orienterà
scelte strategiche di ampio respiro (ad esempio se è possibile accendere nuovi debiti come fonti di
finanziamento), mentre la contabilità direzionale guiderà scelte di natura più operativa.
Le informazioni di pertinenza della contabilità direzionale servono per: misurare i ricavi e i costi dei
prodotti dell’azienda per capire quali sono quelli più redditizi, controllare e gestire le varie unità di
business dell’azienda ed infine supportare il management nella scelta fra alternative diverse.
Ciascuno di questi scopi prevede la definizione di una diversa configurazione di costo:
Costo pieno, ovvero la somma del costo diretto del prodotto più una quota di costi
indiretti. Noti i costi pieni di ciascun prodotto, si possono stilare delle classifiche in base al
margine che ogni prodotto, o più in generale ogni unità produttiva, può garantire
all’azienda. Conoscere il costo pieno ci permette di valorizzare le rimanenze, nel senso
proprio di assegnare loro un valore e di determinarne di conseguenza il prezzo (che poi
coincide con il ricavo).
Costo per unità di competenza, ovvero come distribuire i costi per ogni unità di business
dell’azienda in modo da valutare le loro performance, in base alle quali possono essere dati
bonus e premi a chi ne fa parte. Inoltre, i costi per centro di competenza permettono di
distribuire in maniera consapevole il budget.
Costo differenziale, ovvero i costi che si genererebbero se l’azienda facesse delle scelte
alternative. Li vedremo alla fine del corso.
Costi impegnati: rendono disponibile una certa capacità. Nello specifico, il volume
produttivo può essere diviso in intervalli. All’interno di ogni intervallo c’è un unico valore
dei costi fissi, diverso per ogni intervallo. Ovvero i costi impegnati variano in maniera
discreta sulla base del volume. I costi impegnati, come suggerisce anche il nome, non sono
semplici da riprogrammare, quindi vanno valutati in maniera molto accurata. Un esempio
può proprio quello del magazzino fatto in precedenza: se si prevede che, dato un certo
volume di produzione, occorre costruire un magazzino nuovo, poi non è facile correggere
tale scelta. Lo stesso può dirsi per il potenziamento di un impianto. La caratteristica
principale dei costi impegnati è che non possono essere facilmente ridimensionati, sono
sostanzialmente bloccati e vengono aggiornati e adattati al fabbisogno a cadenza
temporale ampia. Servono per fare un “salto di qualità” e mantenere una certa
potenzialità, diversa dalla precedente. Ad esempio l’Unibo ha costruito la nuova sede (di
merda, nda) al Lazzaretto solo dopo aver appurato con certezza che, in base all’aumento
degli iscritti, era necessario introdurre una nuova struttura. I costi impegnati rappresentano
la quota maggiore dei costi sostenuti dalle aziende di servizi.
Costi discrezionali: sono costi che possono essere modulati con facilità e in breve tempo
per adattare la potenzialità dell’azienda alla domanda di mercato. Ad esempio Amazon nel
periodo natalizio assume a tempo determinato nuovi addetti ai magazzini e nuovi corrieri
per far fronte ad una domanda che non riuscirebbe a soddisfare con il solo personale
interno.
Ci sono poi i costi semi-variabili, che sono composti da una quota fissa e da una variabile.
Graficamente essi variano sempre linearmente con il volume di produzione, ma la retta non partirà
da zero, bensì da un certo valore di intercetta che corrisponde proprio ai costi fissi. Quindi i costi
totali saranno dati dai costi fissi più il prodotto tra il costo variabile unitario e il volume di
produzione.
Il costo medio unitario è invece una funzione decrescente del volume. Questo significa che più
prodotti vengono realizzati e minore è il costo di ciascuno di essi, perché intuitivamente i costi fissi
vengono distribuiti (o per meglio dire allocati) su un numero maggiore di prodotti. Attenzione che
il costo variabile unitario rimane sempre lo stesso, cambia semmai il costo fisso unitario, che
diminuisce. Bisogna poi tenere a mente che il costo unitario di un prodotto va sempre
contestualizzato accoppiandolo al suo volume di riferimento. Il costo unitario da solo non ha
senso, è sempre meglio quindi ragionare in termini di volume e costi totali.
Quindi, ricapitolando: i costi variabili complessivi variano in base alla produzione, i costi variabili
unitari no. I costi fissi complessivi non variano in base alla produzione, i costi fissi unitari sì (nello
specifico si riducono all’aumentare della produzione e viceversa).
Quando si analizzano i diagrammi costi-volume è bene tenere conto dell’intervallo di rilevanza,
cioè del volume massimo e minimo all’interno dei quali si suppone valida la relazione costi-volumi.
Questo influenza in modo particolare i costi fissi impegnati, poiché all’interno di un certo intervallo
di rilevanza essi sono costanti, ma se si esce da tale intervallo bisogna rivalutarli. Bisogna poi
tenere conto anche del periodo temporale di rilevanza, perché più è breve l’intervallo di tempo in
cui calcolo i costi e minore è la possibilità di adattare gli stessi al fabbisogno, perché ad esempio i
costi impegnati non possono essere modificati in un periodo ristretto, ma solo quelli discrezionali.
Virtualmente sul lungo periodo tutti i fattori di costo possono essere adattati al fabbisogno. Un
terzo elemento da tenere in considerazione è il contesto ambientale, ovvero la possibile presenza
di cause esterne (diverse dal volume di produzione) che possano modificare i costi. È il caso ad
esempio dell’inflazione, dell’aumento del costo delle materie prime dovuto a eventi esterni (ciò
che è successo dopo la pandemia), dell’adeguamento dei contratti di lavoro o dell’introduzione di
nuove tecnologie per i processi produttivi. Quindi i costi vanno progressivamente aggiornati anche
tenendo conto di questi aspetti.
Le ultime categorie che introduciamo sono quelle di costi a gradino e costi viscosi. I costi a gradino
si comportano in maniera simile ai costi fissi impegnati visti in precedenza, però non sono
caratterizzati dal fatto di essere bloccati per lunghi periodo di tempo. Sono quindi costi che variano
sì solo in maniera discreta (appunto a gradino, come quelli impegnati), ma possono subire
modifiche più frequenti, cioè hanno un periodo di rilevanza più breve. Sono ad ogni modo legati a
“blocchi” di risorse. Ad esempio se ogni dieci impiegati un ufficio necessita di un coordinatore, il
costo del coordinatore è un costo a gradino, cresce ogni dieci impiegati. L’esempio dell’assunzione
di nuovi dipendenti durante i periodi di maggiore richiesta ci dà l’idea di un costo a gradino (si
impegnano più risorse per raggiungere una potenzialità maggiore) che può variare in tempi brevi. I
costi viscosi sono invece costi variabili che diminuiscono lentamente al diminuire del volume e
crescono rapidamente all’aumentare del volume.
I costi possono essere messi in relazione al volume sulla base di valutazioni soggettive od
oggettive. Nel primo caso le valutazioni derivano da conoscenze dell’azienda che entrano in gioco
nel momento in cui non ci sono stime precise. È un esempio il lancio di un nuovo prodotto, per cui
non ci sono dati di mercato. Si ricorre invece a valutazioni oggettive, nello specifico regressioni
lineari, quando si è in presenza di dati storici su determinati prodotti. Anche questo metodo
comunque non è esente da errori e dà lo stesso peso ai dati relativi a tutti gli anni, non tenendo
conto quindi di motivazioni particolari che possono aver modificato i dati da un anno all’altro. Ad
esempio quest’anno si registrerà un aumento dei costi dovuto all’inflazione, bisogna quindi
contestualizzare i dati di questo periodo. Le regressioni lineari sono quindi uno strumento utile,
soprattutto per osservare gli andamenti sul lungo periodo, ma che va affiancato ad altre
informazioni per programmare la produzione.
Margine di contribuzione
Il primo passo da fare per determinare il margine di contribuzione di un prodotto è inserire anche i
ricavi nel grafico costi-volume di cui abbiamo parlato finora. Innanzitutto è importante definire il
punto in cui i ricavi eguagliano i costi, cioè il punto di pareggio, in corrispondenza del quale
troviamo il volume di pareggio (o break-even point), un dato molto importante che può fornire
informazioni preziose su un’azienda. Non rappresenta tuttavia un obiettivo da raggiungere, tranne
per le aziende che hanno appena iniziato la loro attività, che avranno un certo tempo entro il quale
raggiungere il break-even point. Appena la curva dei ricavi supera quella dei costi, intuitivamente,
l’azienda realizza un profitto. Per calcolare il volume di pareggio si parte dall’equazione:
Ricavi totali = Costi totali
I ricavi totali sono dati dal prodotto tra la quantità di pareggio e il prezzo unitario, mentre i costi
totali abbiamo già visto come si esprimono.
Q p ∙ Pr = Qp ∙ cvu + CFT
Q p ∙ ( Pr−cvu ) = CFT
La differenza tra il prezzo unitario e il costo variabile unitario assume notevole importanza e viene
definita proprio margine di contribuzione del prodotto. Infine si ottiene:
CFT
Qp =
mdc
Attenzione a non confondere il margine di contribuzione con il reddito unitario, perché ad esso
non viene sottratto il costo fisso unitario! Tuttavia il margine di contribuzione ci permette di
valutare la possibile redditività di un prodotto e può essere ancora più rilevante se si confrontano
prodotti che hanno gli stessi costi fissi. Essendo dato da due grandezze unitarie che non variano
con il volume (prezzo unitario e costo variabile unitario), il margine di contribuzione non varia con
il volume. Vediamo ora come relazionare il volume di produzione al profitto.
Profitto = Ricavi totali−Costi totali
PR = Q ∙ Pr −( Q ∙ cvu + CFT ) = Q ∙ mdc−CFT
Dove Q in questo caso non è il volume di pareggio (chiaramente il profitto al punto di pareggio è
nullo), ma il volume che è necessario produrre per ottenere un certo profitto che ci si pone come
obiettivo. Ricavando Q si ottiene:
PR +CFT
Q=
mdc
Se si producono più prodotti, quelli con margine di contribuzione più alto assorbono meglio i costi
fissi e contribuiscono maggiormente a generare profitto. Si dice che “marginano” di più.
Oltre a determinare il volume di pareggio e il volume necessario a realizzare un dato profitto,
l’analisi volumi-costi-profitto è utile anche a sostenere le decisioni del management. Ad esempio
se è opportuno spendere di più per pubblicizzare il prodotto (valutando anche il ricavo aggiuntivo
ottenuto grazie alla pubblicità) oppure se è necessario ridurre il prezzo di vendita. Vediamo un
esempio pratico. Si vendono normalmente 40 prodotti, che ci danno un margine di contribuzione
normale di 3200 € (80 € l’uno) a fronte di 2000 € di costi fissi. Se si decide di investire in pubblicità
si prevede di vendere 45 pezzi, ottenendo così un margine di contribuzione totale di 3600 €, ma a
fronte di 2500 € di costi fissi (cioè 500 € in più per la pubblicità). Quindi non conviene spendere
per la pubblicità, perché il profitto si riduce. E se invece si cambia strategia, abbassando il prezzo di
vendita? Supponendo di avere un margine di contribuzione unitario non più di 80 € ma di 60 € (25
€ in meno sul prezzo di vendita unitario ma risparmio di 5 € sul prezzo di acquisto unitario) e
supponendo di riuscire in questo modo a vendere 50 pezzi, il margine di contribuzione totale
diventa di 3000 €, quindi, con costi fissi di 2000 €, anche in questo caso non conviene cambiare le
cose.
Introduciamo ora il concetto di margine di sicurezza, che ci dice quanto si possono ridurre i ricavi
prima di raggiungere il punto di pareggio o, più precisamente, quanto il volume di vendite si
discosta dal volume di pareggio. Infatti il punto di pareggio viene visto un po’ come un campanello
di allarme, perché se l’azienda vi si trova vicino è più alta la probabilità che possa andare in
perdita. Se un’azienda ha un margine di sicurezza molto ampio, significa che l’azienda corre pochi
rischi ed è meno sensibile alle variazioni del mercato esterno. N.B. sottolineiamo che i ricavi, i
volumi e i margini che abbiamo visto finora sono sempre delle previsioni: volume di vendita e
volume di produzione sono sempre associati ma poi spesso non coincidono.
Un altro concetto importante è la leva operativa, che è il rapporto tra la variazione del reddito e la
variazione dei ricavi, a seguito di una variazione dei volumi rispetto a un valore di riferimento. Una
leva operativa alta comporta che, in percentuale, il reddito vari maggiormente rispetto ai ricavi. La
leva operativa va sempre espressa rispetto al volume di riferimento, perché non è detto che
passando da un volume di 200 a uno di 250 si ottenga la stessa leva operativa che si otterrebbe
passando da 300 a 350, sebbene la variazione in valore assoluto sia la medesima. La leva operativa
dipende da come sono strutturati i costi. Prendiamo a titolo di esempio due aziende che realizzano
gli stessi ricavi, ma una ha bassi costi variabili e alti costi fissi (ad esempio perché possiede molti
macchinari e produce i pezzi partendo da zero), mentre l’altra ha bassi costi fissi ma alti costi
variabili (perché magari non può permettersi investimenti troppo onerosi e allora compra i pezzi
già pronti e li assembla soltanto). È chiaro che l’impresa con elevati costi fissi avrà un grado di leva
operativa più alto e infatti ha come obiettivo quello di vendere molto di più. Quindi in questo caso
vendendo tanto l’azienda genera molto profitto. Nel secondo caso invece il grado di leva operativa
è più basso, quindi all’azienda non interessa più di tanto aumentare significativamente il suo
volume di produzione, è meno sensibile alle variazioni dei ricavi, sia in positivo, sia soprattutto in
negativo. Se i ricavi di un’azienda con alto grado di leva operativa calano (come è successo ad
esempio alle compagnie aeree, che hanno enormi costi fissi, durante la pandemia), il reddito
crolla, mentre un’azienda con basso grado di leva è meno vulnerabile da questo punto di vista. Di
fatti nel secondo caso l’azienda ha un margine di sicurezza più ampio, perché il suo punto di
pareggio è intrinsecamente più basso. Qual è la soluzione migliore? Non c’è una risposta a questa
domanda, perché semplicemente le due aziende sono strutturate in maniera diversa.
Sostanzialmente la prima azienda è più esposta alle variazioni di mercato, da cui può trarre profitti
esponenziali ma anche enormi danni, mentre la seconda azienda è in una posizione più
“tranquilla”. Generalmente le aziende tendono a rischiare poco e snellirsi, assomigliando più al
secondo caso che al primo. Il management nel primo caso cercherà di aumentare il più possibile la
produzione, non senza prima aver aumentato la domanda, tramite strategie di marketing o un
deprezzamento dei prodotti, oppure aggredendo mercati prima inesplorati, ad esempio come ha
fatto Apple con gli iPhone S, vendendo un prodotto visto come “di lusso” ad un prezzo minore,
inserendosi quindi in un mercato diverso.
Costi pieni
Come detto il costo quantifica, valorizza le risorse consumate per un certo scopo. Gli oggetti per
cui si può definire un costo sono i più disparati, anche se noi per semplicità ci riferiremo
solitamente ai prodotti. Vogliamo quindi valutare il consumo di risorse necessario per la
realizzazione di un certo prodotto. A volte determinare il costo pieno è molto semplice: ad
esempio se un’azienda acquista dei semi-lavorati e poi li assembla, il loro costo pieno corrisponde
al loro costo d’acquisto. In altri casi però, se l’azienda ha una linea produttiva, occorrono
valutazioni più approfondite. Il costo pieno si compone di costi diretti e di una quota equa di costi
indiretti. I costi diretti sono determinati in maniera oggettiva e si dice che vengono attribuiti al
prodotto. I costi indiretti sono determinati in maniera soggettiva, secondo criteri stabiliti dal
management, e si dice che vengono allocati al prodotto. I costi diretti sono sicuramente il costo
della materia prima e quello della manodopera, mentre i costi indiretti (di produzione) possono
essere il riscaldamento e l’illuminazione dello stabilimento, la manutenzione degli impianti, la
logistica interna (spostamento di persone e materiali). Il costo della manodopera sommato ai costi
indiretti determina i costi di trasformazione. I costi indiretti sono generalmente costi fissi e
rimangono costanti nel tempo e all’interno di un certo intervallo di volume. La somma dei costi
diretti e dei costi indiretti di produzione determina il costo pieno di produzione, che non è ancora
quello totale. I costi che vengono sostenuti al di fuori dell’area produttiva sono i costi di periodo e
devono anch’essi essere allocati ai prodotti. I costi di periodo sono divisi in costi commerciali e
costi generali e amministrativi. Il costo pieno di produzione più i costi di periodo danno il costo
pieno totale.
Dobbiamo capire ora come allocare i costi indiretti. Per farlo esistono due metodi: il metodo
diretto o semplificato e il metodo per centri di costo; noi vedremo solo il primo. Nel metodo
diretto si calcola il cosiddetto coefficiente di allocazione, che è per definizione una quota di costo
indiretto allocabile per ogni base di riporto. Tale coefficiente è quindi il rapporto tra i costi indiretti
e la base di riporto. La base di riporto si può scegliere in vari modi, ed è sostanzialmente la
proporzione con cui si decide di ripartire i costi indiretti. Vediamone un esempio. Un’azienda
produce due prodotti, A e B, nello stesso stabilimento. I costi diretti di A ammontano a 300.000 €,
mentre quelli diretti di B a 400.000 €. L’azienda vende 3000 prodotti A e 2000 prodotti B. C’è poi
un totale di 100.000 € di costi indiretti da allocare. In questo caso si sceglie come base di riporto il
volume di vendita, cioè si ripartiscono i costi fissi sulla base dei volumi di vendita. Il coefficiente di
allocazione varrà quindi:
Totale costi indiretti 100 000
= =20 €
Volume di vendita totale 2000+3000
Quindi ogni singolo prodotto ha una quota equa di costi indiretti corrispondente a 20 €, che poi
vengono ripartiti complessivamente moltiplicando questo coefficiente di allocazione per il volume
di vendita di ciascun prodotto. Quindi dei 100.000 € totali allocheremo 20*3000 = 60.000 € al
prodotto A e 20*2000 = 40.000 € al prodotto B. Quindi il costo pieno totale complessivo del
prodotto A sarà 300.000 + 60.000 = 360.000 €, mentre quello del prodotto B sarà 400.000 + 40.000
= 440.000 €. Dividendo questi valori per il volume di vendita di ciascun prodotto si ottengono i
costi pieni totali unitari, pari a 360.000/3000 = 120 € per il prodotto A e 440.000/2000 = 220 € per
il prodotto B. Negli esercizi normalmente la base di allocazione sarà assegnata (può essere anche il
costo della materia prima, la quantità di materia prima, il costo della manodopera, ecc…). N.B. il
costo pieno aiuta a definire il prezzo di vendita, ma il valore finale è del tutto discrezionale, non c’è
un metodo oggettivo per determinarlo.
Il costo pieno che abbiamo calcolato è poi quello che entra nello stato patrimoniale come valore
delle rimanenze (che siano esse di materie prime, di semi-lavorati o di prodotti finiti) e nel conto
economico come costo del venduto. Il costo pieno inoltre permette di valutare la redditività di un
prodotto o, più in generale, di un’intera linea produttiva. Infatti se al prezzo di vendita unitario si
sottrae il costo pieno unitario si ottiene il profitto unitario di un certo prodotto. Ricordiamo che se
invece al prezzo unitario togliamo il costo variabile unitario otteniamo il margine di contribuzione,
che non è un profitto perché non tiene conto dei costi pieni.
Break-even point. Ne abbiamo già parlato, si tratta di calcolare quanto l’azienda deve
produrre per non andare in perdita. Ovviamente poi l’obiettivo è quello di generare
profitto, quindi in seguito si calcola quanto l’azienda deve produrre per raggiungere un
certo profitto. Ricordiamo che il volume di pareggio si calcola come rapporto tra i costi fissi
totali e il margine di contribuzione. La faccenda si fa più interessante se l’azienda realizza
prodotti diversi, nella pratica quasi sempre. In questo caso si calcola il margine di
contribuzione del prodotto equivalente, ovvero una media dei margini di contribuzione di
ciascun prodotto, pesata sui relativi volumi di vendita, che chiaramente devono essere noti.
Mix ottimale di produzione. Riguarda le aziende che realizzano molteplici prodotti. Nella
pratica si calcola il margine di contribuzione unitario per vedere quale prodotto margina di
più e si sceglie di conseguenza la combinazione ideale dei prodotti. La scelta deve essere
orientata in modo da massimizzare il profitto in presenza di vincoli, quali ad esempio le ore
macchina disponibili o la massima produzione che può essere assorbita dal mercato. Nel
caso di un insieme di prodotti il reddito si calcola come:
PR = ∑ mc u i ∙ Qi - CFT
i
In assenza di vincoli (condizione puramente ideale), dalla formula si evince che è necessario
massimizzare il primo addendo: se c’è un prodotto che margina più degli altri si può
pensare di produrre solo quello. Se i prodotti marginano tutti allo stesso modo si può
scegliere se dividere equamente la produzione o se produrne uno solo. Se si manifesta un
vincolo interno, ad esempio le ore macchina disponibili, si calcola il cosiddetto margine di
contribuzione per risorsa scarsa, dove la risorsa scarsa in questo caso sono proprio le ore
macchina disponibili. Si calcola quindi un margine di contribuzione orario e si produce solo
il prodotto con il maggiore margine di contribuzione per risorsa scarsa. Questo parametro
serve solo ed esclusivamente per determinare il mix ottimale di produzione, poi dopo per
calcolare il profitto vero e proprio si usa il normale margine di contribuzione. Si può poi
avere anche un vincolo esterno, come quello della domanda di mercato, ovvero della
massima quantità di prodotto che può essere assorbita. In questo caso si procede per step:
prima si produce il bene con il maggiore margine di contribuzione per risorsa scarsa fino a
saturare il vincolo esterno, cioè fino a saturare la domanda di mercato. Successivamente si
producono progressivamente gli altri prodotti (in ordine di margine di contribuzione per
risorsa scarsa) fino a saturare il vincolo interno, cioè fino a consumare tutta la risorsa
scarsa, in questo caso fino a consumare tutte le ore macchina disponibili. È intuibile che più
vincoli ci sono e più il reddito si riduce.
Make or buy. Si determina se all’azienda conviene realizzare un prodotto internamente o
comprarlo già fatto (ultimamente succede sempre più spesso). Gli elementi fondamentali
su cui si basa la scelta tra alternative diverse sono i costi e i ricavi differenziali, ovvero quei
costi e quei ricavi che cambiano a seconda della scelta fatta e su cui quindi è necessario
ragionare. Il costo differenziale non va confuso con i costi pieni. I costi pieni hanno una
precisa definizione, sempre uguale, mentre i costi differenziali, essendo costituiti solo dagli
elementi che variano tra una scelta e l’altra, possono cambiare a seconda delle situazioni.
In linea generale, gli elementi che costituiscono il costo differenziale sono il costo della
materia prima, quello della manodopera e quello dell’energia se si decide di produrre
internamente e il costo d’acquisto se si decide di accingere dall’esterno. Nel confronto tra
le alternative si può evidenziare il cosiddetto reddito differenziale, cioè la differenza tra il
reddito generato da una soluzione e quello generato dalla soluzione alternativa. È
importante notare che, anche se da un punto di vista meramente economico comprare
dall’esterno può risultare più dispendioso, a volte questa strada può risultare comunque
più conveniente. Infatti, nel momento in cui si decide di acquistare un prodotto già finito,
internamente all’azienda si libera una certa capacità produttiva, che potrà essere impiegata
per realizzare altri prodotti. Si parla in questo caso di costo opportunità, ovvero quel
reddito potenziale a cui si rinuncia quando una determinata scelta implica l’esclusione di
un corso d’azione alternativo. Quindi a volte entrano in gioco anche fattori che non
compaiono a bilancio, ma rappresentano solo delle opportunità potenziali o delle
caratteristiche qualitative. Ad esempio, se si decide di comprare dall’esterno, magari si
libera della capacità produttiva, ma il fornitore potrebbe non essere affidabile e
consegnare un prodotto che a volte presenta dei difetti qualitativi non accettabili oppure
consegnare in ritardo. Questo aumenta il lead time dell’azienda che compra e quindi
rappresenta per essa un costo, che dovrà essere confrontato con il costo opportunità.
La differenza tra il valore attuale calcolato in questa maniera e l’impiego iniziale di risorse prende il
nome di valore attuale netto, o VAN, che è il parametro definitivo che stabilisce la bontà o meno
dell’investimento. Se il VAN è positivo significa che la sommatoria degli incassi attualizzati è
maggiore della spesa iniziale e dunque l’investimento è conveniente, viceversa se il VAN è
negativo l’investimento non è conveniente. Si dice che se il VAN è positivo il progetto produce
valore, mentre se è negativo distrugge valore. È chiaro che i flussi di cassa in ingresso sono delle
previsioni, non abbiamo mai la certezza assoluta che essi si verifichino. Nell’esempio della radio,
l’esborso iniziale è di 45000 €, l’incasso dopo un anno è di 47000 €, che attualizzato con r del 3,5%
diventa 45411€, pertanto il VAN di questo investimento è di 411 €, il che ci dice che l’investimento
è conveniente. È quindi possibile sommare algebricamente i flussi di cassa solo dopo averli riportati
tutti allo stesso periodo temporale.
Ricapitolando, gli elementi che entrano sempre in gioco nella valutazione di un investimento sono:
1. Il costo opportunità del capitale. È quel fattore che ci permette di assegnare un valore
economico al tempo. Nei nostri esercizi assumeremo una r come corrispondente ad un
investimento privo di rischio, tuttavia nei progetti reali chiaramente un certo grado di
rischio esiste e si definiscono a tal proposito delle classi di rischio. Generalmente
all’aumentare del costo opportunità aumenta il rischio. Infatti i progetti ad alto rischio, ma
che potrebbero diventare enormemente remunerativi, ad esempio la nascita di una start-
up, vengono di solito finanziati da organizzazioni particolari, non da banche. A risentire del
rischio di un investimento è il VAN; esistono strumenti per calcolare il VAN in presenza di
rischio, ma non sono di pertinenza di questo corso.
2. Durata, ovvero su quanti anni si sviluppa il progetto. Generalmente gli esborsi si verificano
nelle fasi iniziali del progetto, mentre in quelle intermedie e finali si manifestano gli
incassi. La vita economica di un investimento è il periodo di tempo per cui si prevede che
esso generi flussi di cassa positivi. Quando l’investimento non genera più flussi di cassa
positivi, la sua vita economica si può considerare conclusa. La vita economica di un
progetto è spesso minore della sua vita fisica. Infatti, la valutazione degli investimenti si fa
al massimo a cinque anni; oltre questo orizzonte temporale non è possibile fare previsioni
attendibili, poiché le condizioni al contorno variano continuamente. Ad esempio, si può
fare la valutazione dell’investimento per un impianto a cinque anni, ma poi chiaramente
quell’impianto opererà fisicamente ben più di cinque anni.
3. I flussi di cassa generati. Si tratta di flussi di cassa differenziali (maggiori incassi e minori
esborsi) rispetto ad una situazione che non preveda l’investimento. Possiamo avere ad
esempio degli investimenti che non aumentino i ricavi, ma diminuiscano solo i costi,
sebbene la situazione più comune sia una modifica sia dei costi che dei ricavi. Noi tuttavia
ragioneremo sempre con investimenti completamente nuovi, come se nel caso base i
costi e ricavi fossero tutti nulli. I flussi di cassa si calcolano in contabilità per cassa,
ottenuta rettificando (con metodo indiretto, che vedremo) la contabilità per competenza.
All’atto pratico quindi si calcolano prima tutti i ricavi del progetto e i relativi costi di
competenza, poi il reddito (operativo se ante imposte, netto se viene specificata la
presenza di imposte). In seguito si rettificano i costi e i ricavi per ottenere il flusso di cassa
operativo, che poi verrà confrontato con l’esborso iniziale.
4. L’entità dell’investimento o esborso iniziale. È la quantità di risorse finanziarie che
l’azienda sottopone a rischio nel momento in cui accetta l’investimento.
5. Il valore finale dell’investimento o valore di recupero. Al termine della vita economica si
ipotizza che il progetto abbia ancora un valore residuo, derivante ad esempio dalla
vendita delle immobilizzazioni.
Nella valutazione di un investimento entrano in gioco anche elementi non prettamente economici,
di cui si deve comunque tenere conto. Ad esempio, di solito chi propone il progetto può tendere
ad essere troppo ottimista e a fare stime un po’ generose. In altri casi l’investimento può essere
proposto immaginando che qualora questo venga respinto le cose rimangano invariate, non
succeda nulla; però può darsi che l’investimento avesse l’obiettivo di modificare la produzione di
un certo prodotto per andare in contro a cambiamenti dei gusti dei consumatori. In tal caso, se
l’investimento non andasse in porto le cose non rimarrebbero invariate, ma peggiorerebbero, cioè
si registrerebbe un calo delle vendite. In altri casi ancora si imputano i costi di formazione e di
avviamento connessi ad una nuova tecnologia solo al primo progetto che introduce la tecnologia
stessa, sebbene di questi costi potranno beneficiare anche progetti futuri. Di tutti questi aspetti
non monetari si tiene conto solo alla fine, quando la procedura di valutazione dell’investimento ha
portato al calcolo del VAN.
Ci concentriamo ora in modo particolare sul calcolo dei flussi di cassa, che avviene, come detto,
tramite metodo indiretto. Si parte dal conto economico differenziale e da questo si eseguono le
opportune rettifiche. Il reddito netto corrisponderebbe al flusso di cassa se tutti i costi e tutti i
ricavi fossero concomitanti ai rispettivi esborsi ed incassi, ma questo nella realtà non avviene mai.
Le rettifiche che dobbiamo fare sono di tre tipologie:
1) Rettifiche per costi e componenti non finanziari. Si tratta principalmente di:
a) Ammortamento, che è un costo non finanziario. Viene sottratto ai ricavi nel conto
economico differenziale, ma non è un vero e proprio esborso, ha solo una finalità fiscale.
Perciò, nel calcolo del flusso di cassa operativo, esso va sommato al reddito netto.
b) Plusvalenze e minusvalenze da alienazione di immobilizzazioni. Sono definite come il
valore di recupero di una immobilizzazione meno il suo valore contabile. Il valore contabile
è la parte di costo storico non ancora ammortizzata. Una volta calcolate, le plusvalenze si
sottraggono al reddito netto, mentre le minusvalenze si sommano.
2) Rettifiche per variazione del capitale circolante netto. Servono per tenere conto dei ricavi a
credito e dei costi a debito. Chiaramente se nel conto economico c’è un ricavo di competenza
di in un certo periodo, ma quel ricavo è a credito (ad esempio ci pagheranno dopo 60 giorni),
ad esso non corrisponde un incasso. Viceversa, se abbiamo sostenuto un costo di competenza,
ma quel costo è a debito, ad esso non corrisponde un esborso. Pertanto, l’incremento dei
crediti commerciali va sottratto al reddito netto (è un ricavo che in realtà non abbiamo avuto),
mentre l’incremento dei debiti commerciali va aggiunto (è un costo che in realtà non abbiamo
sostenuto). Se i crediti sono ad esempio a 90 giorni, si dovranno sottrarre al reddito i 3/12 dei
ricavi dell’anno. Anche l’incremento delle rimanenze va sottratto, come per l’incremento dei
crediti, perché quelle rimanenze rappresentano un ricavo che nella realtà non è avvenuto.
3) Flusso monetario per acquisto e alienazione di immobilizzazioni. Nel calcolo del flusso di
cassa operativo si deve sottrarre infine l’esborso dovuto all’acquisto delle immobilizzazioni e
l’incasso realizzato per la vendita delle stesse.