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ECONOMIA ED ORGANIZZAZIONE AZIENDALE II

Contabilità: definizione e scopo


La contabilità è il processo di raccolta, misurazione, analisi, interpretazione, sintesi e
comunicazione di informazioni economiche e finanziarie che consentano ai decisori di esprimere
giudizi e valutazioni sull’impresa.
La contabilità, come un linguaggio, ha le seguenti caratteristiche:
- Ha natura tecnica
- È guidata da regole (il linguaggio deve essere regolamentato affinché si riduca l’azione di
un traduttore di bilancio a livello internazionale tra aziende non appartenenti alla stessa
nazione; le regole sono in continua evoluzione e non approvate da tutti gli attori
economici)
- Evolve in risposta ai cambiamenti economici e sociali.
Note le risorse a disposizione di un’azienda, è necessario organizzarle per delineare il profilo
patrimoniale ed economico della stessa. Con “profilo patrimoniale” si intende l’ammontare di una
generica risorsa impiegata nell’azienda; quelle che ricoprono maggiore rilevanza sono le fonti di
finanziamento, cioè il denaro e da quali creditori proviene.
Il “profilo economico” è impiegato nel calcolo del profitto dell’azienda per controllare se le fonti
finanziarie investite hanno avuto un riscontro positivo nel fatturato.
Tali profili si studiano tramite bilancio e rendiconti finanziari; lo scopo è la trascrizione in maniera
codificata di informazioni che, come risultato, delineano il profilo finanziario ed economico.
Gli attori sono gli shareholders, cioè i proprietari dell’azienda e gli stakeholders, cioè gli attori
esterni all’amministrazione.

Classificazione delle informazioni


Le informazioni possono essere suddivise in quantitative e non quantitative. Le risorse
quantitative possono essere definite attraverso unità di misura (ad esempio, l’euro, per indicare il
denaro) e l’unità di misura deve essere unitaria per tutto il calcolo del bilancio generale della
contabilità; le risorse non quantitative sono soggettive e non possono essere determinate
attraverso unità di misura, infatti sono trascurabili nel bilancio (ad esempio, le risorse naturali,
come il personale dell’azienda, possono essere più o meno capaci, più o meno produttive ma non
esiste un’unità di misura tale che possa definirne il valore).
La suddivisione delle informazioni quantitative avviene in: misurate in denaro e non monetarie. Le
informazioni quantitative misurate in denaro sono quelle inserite nel bilancio generale. Quelle non
misurabili attraverso il denaro vengono trascurate e sono, ad esempio, i volumi di vendita
dell’azienda; se essi sono espressi in funzione del prezzo, allora tale dato può essere utilizzato
nella definizione di bilancio generale.
Le informazioni monetarie si distinguono in quattro categorie:
1) Informazioni operative (Operating information)
sono le informazioni che hanno a che fare con il dettaglio delle attività ordinarie, ad
esempio il costo del fatturato al giorno ma, essendo troppo dettagliate, vengono
trascurate.
2) Informazioni contabili e di bilancio (Financial accounting)
Riguardano le voci di bilancio e sono utilizzate da terzi o dal management.
3) Informazioni per il management (management accounting)
Sono la sintesi delle informazioni di bilancio e sono impiegate dal management per
pianificare e porre in atto le decisioni. Infatti, non tutte le informazioni inserite nel bilancio
sono indispensabili per la gestione dell’azienda; al manager sono consegnate una parte di
esse e sono di estrema importanza per aiutarlo ed orientarlo nel processo di decisione,
esecuzione, controllo, feedback, utile per lavorare in retroazione.
4) Informazioni di natura fiscale (Tax accounting)
Sono finalizzate al pagamento delle imposte.

Il meccanismo gestionale di un’impresa corrisponde al processo di decisione dal quale consegue il


processo di esecuzione, un successivo processo di controllo e, a partire da esso, con quello di
feedback, si innesca un meccanismo di correzione per i punti precedenti.
In particolare, il controllo di gestione è il processo che produce informazioni monetarie e non
monetarie, utilizzate per favorire il proseguimento degli obiettivi dell’impresa.

Contabilità generale
Gli stakeholder sono i soggetti economici interessati al bilancio, esterni all’azienda, come, ad
esempio, gli attori che comprano nel mercato azionario le quote di un’azienda così da diventarne
proprietari in “quota parte” e che non si interessano all’organizzazione dell’azienda stessa; essi
sono detti “portatori di interessi”. Esempi di portatori di interessi sono le banche, i fornitori che
devono assicurarsi che il finanziamento effettuato nei confronti dell’azienda gli possa essere
restituito in base ai dati di bilancio a seguito di una scadenza di contratto, gli intermediari
finanziari, clienti, che devono capire a chi affidare i propri soldi per i prossimi investimenti,
concorrenti che devono creare nuove strategie.

Definizione di impresa
Dal Codice civile, l’impresa viene definita derivandola dal concetto di “azienda”. Con “azienda” si
intende il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’impresa; tale
definizione, però, risulta semplicistica e poco pratica perché definisce l’azienda con un concetto
statico che non tiene conto del suo cambiamento nel tempo in base a nuovi progressi economici e,
inoltre, è una definizione parziale e dalla quale si deve derivare quella di impresa, quindi si utilizza
un’altra definizione.
Per definizione, quindi, l’impresa è un istituto economico duraturo che produce beni e servizi. Si
definisce “istituto” in quanto è un organismo caratterizzato da sistemi coordinati tra persone, beni
ed operazioni esecutive; “economico” perché in esso vengono assunte decisioni per adattare i
mezzi scarsi a fini molteplici; “duraturo” perché deve sopravvivere anche oltre la vita fisica delle
persone e dei beni utilizzati e, a tale scopo, si studiano strategie di breve e lungo periodo; con
“produzione di beni e servizi” si fa riferimento alla missione dell’impresa, cioè quella di creare una
nuova utilità che deve soddisfare il bisogno del consumatore.
L’obiettivo dell’impresa è non solo la produzione di profitto a scopo di lucro sia nel breve che lungo
periodo e in maniera continuativa, ma anche la massimizzazione del capitale.
Poiché l’impresa è un sistema dinamico che si autoregola cercando di ottimizzare il profitto, essa
viene studiata attraverso l’equazione di costi, profitto e ricavo: la somma dei costi di produzione e
il profitto dell’impresa rappresenta i ricavi della stessa.
Per garantire un maggior profitto sia nel medio che nel lungo periodo, le scelte dell’azienda
devono essere ponderate in modo tale da aumentare la clientela o la qualità: se, ad esempio,
l’azienda decide di abbassare la qualità diminuendo i costi di produzione nel breve periodo, si
ricava maggior profitto poiché diminuiscono i costi ma, nel lungo periodo, la clientela smette di
acquistare da essa poiché si rende conto dell’abbassamento della qualità della materia prima;
altro esempio è quello di un'azienda che decide di prendere scelte poco sostenibili socialmente e
che, nel lungo periodo, viene scartata dal consumatore.
Obiettivi dell’impresa
Gli obiettivi di un’impresa sono molteplici e possono essere categorizzarti in:
1) Obiettivo generico di soddisfazione di tutti i portatori di interessi, quale il
soddisfacimento degli azionisti che devono vedere massimizzato il capitale azionario poiché
essi non ricevono nel breve periodo il ricavo ed è, inoltre, frammentato in “dividendi”, cioè
la parte di amministrazione da essi investita nell’impresa; il soddisfacimento dei creditori,
aumentando le tutele nei loro confronti garantendo maggiori investimenti, valorizzazione e
coinvolgimento dei lavoratori per evitare che essi si allontanino dall’azienda e tutela
dell’ambiente per andare incontro all’esigenza dei consumatori legati a tale aspetto.
2) Obiettivo di massimizzazione del capitale azionario, che riflette le politiche di lungo
termine dell’azienda. Infatti, per un investitore esterno è un criterio di scelta.

Tipi di società
Analizzando in particolare le società regolate dal Codice civile di tipo lucrativo, esse possono
essere suddivise in base al livello personale o attraverso il patrimonio dell’azienda.
La società che risponde alle obbligazioni sociali e giuridiche a livello personale, cioè attraverso i
soci che la compongono, è una società di persone, la quale non hanno personalità giuridica
autonoma, cioè le persone dei soci non sono assorbite dalla creazione di un nuovo soggetto
giuridico. Ciò significa che se non è possibile distinguere la personalità giuridica delle persone che
compongono la società dalla personalità della società stessa. Con le società di persone, ogni socio
possiede una responsabilità illimitata poiché risponde agli obblighi nei confronti della società
attraverso il suo patrimonio personale e non attraverso un unico patrimonio associato all’azienda
stessa. La società di persone è somma dei contributi dei singoli soci che inseriscono, attraverso
patti e obbligazioni, una quota pattuita ma possono essere colpiti tutti i beni personali dei soci
(non esiste un unico patrimonio).
Le società che rispondono alle obbligazioni sociali giuridiche attraverso il patrimonio dell’azienda
stessa si dicono “società di capitali” e sono quelle le quali acquisiscono personalità giuridica in
seguito alla registrazione del loro atto costitutivo tramite notaio e tale personalità fa venir meno il
rilievo delle figure dei singoli soci. Ciò significa che i soci che compongono la società di capitali non
devono rispondere con il proprio personale patrimonio alle obbligazioni della società stessa ma si
utilizza l’utile della società.
Ad esempio, ciò che cambia profondamente tra una società di persone ed una di capitali è il
metodo di pagamento delle imposte sulla società stessa: per le società di persone, la tassa imposta
è l’IRPEF ed è una tassa progressiva in base al reddito delle persone; sulle società di capitale la
tassa è l’IRES, non progressiva e con un’aliquota uguale per tutti.
In posizione intermedia tra le società a responsabilità illimitata e quelle a responsabilità limitata si
colloca la società in accomandita, cioè società in cui i soci contribuenti sono suddivisi in due
categorie: alcuni rispondono ad obbligazioni illimitatamente, altre limitatamente alla quota
conferita; si tratta di una società ibrida.

Società semplice
La società semplice appartiene alla classificazione di società di persone a responsabilità illimitata
ed è un’attività non commerciale (come, ad esempio, una famiglia che deve ridistribuire i
patrimoni immobiliari). I soci sono obbligati ad eseguire il conferimento promesso, rispondono
illimitatamente alle obbligazioni sociali, acquistano il diritto di ottenere la parte di utili pattuita e
hanno il diritto di partecipare alla gestione sociale. I creditori della società possono soddisfarsi sui
beni sociali e colpire i beni personali dei soci amministratori (cioè sui loro patrimoni poiché non ne
esiste uno collettivo essendo una società di persone).

Società in nome collettivo (snc)


La società in nome collettivo fa parte della società di persone con capacità illimitata ma, a
differenza della società semplice, prevede esercizio commerciale. Si utilizzano le stesse regole
(cioè la stessa disciplina) impiegate per la società semplice, aggiungendo tutela per i creditori.
A differenza della società semplice, deve essere stabilito un contratto pubblico oppure tramite
forma privata con le firme dei contraenti autentificata dal notaio. I soci hanno un obbligo
maggiore: la non concorrenza poiché deve essere garantito l’interesse comune tra tutti gli
amministratori.

Società in accomandita semplice (sas)


La società in accomandita semplice è caratterizzata dai soci suddivisi in due categorie: soci
accomandatari e soci accomandanti. I soci accomandatari hanno le stesse funzioni dei soci della
società in nome collettivo, quelli accomandanti hanno responsabilità limitata.
La disciplina riguarda la medesima utilizzata nel caso di una società in nome collettivo con
l’aggiunta di regolamentazione per i soci accomandanti.

Società per azioni (spa)


La società in azioni è una delle prime società di capitale, che si differenzia da quelle di persone
poiché la responsabilità è limitata per i membri. Si rende necessario lo sviluppo e la
regolamentazione di società di capitali poiché, all’aumentare delle dimensioni dell’azienda, magari
dopo l’aumento di profitti e capitale investiti su di essa, non è più possibile affidare ad un unico
imprenditore la gestione poiché su di esso ricadrebbero enormi responsabilità sociali, economiche
e fiscali; si ripartiscono tali responsabilità su parti terze, creando società per capitale.
A differenza delle società di persone, la S.p.A. ha una persona giuridica che si distingue dalle
personalità dei soci perché si liberano questi ultimi dalle obbligazioni sociali poiché la società
risponde soltanto attraverso il suo patrimonio, il capitale è diviso in azioni (a differenza delle
società a responsabilità limitata, S.r.l.) e non vi è alcuna responsabilità dei soci verso terzi; l’unico
caso in cui i soci hanno questa responsabilità è nel momento in cui, per la prima volta, viene
quotata la società in borsa, suddividendo così il capitale in azioni.
Le azioni sono partecipazioni sociali determinate non in funzione della loro appartenenza ad un
soggetto, bensì sulla base di un importo astrattamente fissato nell’atto costitutivo. Esse devono
avere tutte uguale valore, pari ad una frazione del capitale sociale.
I soci hanno il diritto di partecipazione e voto nell’assemblea in base alla quota parte, hanno il
diritto di una parte degli utili in base alla quota parte, il diritto di opzione nella sottoscrizione di
azioni di nuova emissione (cioè tutti possono partecipare all’acquisto di nuove quote, non è
limitata alle parti maggioritarie) e il diritto di recesso.
Gli organi che compongono una società per azioni sono: assemblea dei soci, che ha una funzione
deliberativa, consiglio di amministrazione, con funzione amministrativa, collegio sindacale, con
funzioni di controllo di gestione e verifica che quanto deliberato sia poi anche stato amministrato,
organo di revisione esterno che ha la funzione di controllo contabile.

Società in accomandita per azioni (sapa)


La società in accomandita per azioni è una società per azioni modificata dalla presenza di soci
accomandatari, con potere amministrativo e senza limiti di obbligo sociale. Questo potere
amministrativo concesso ai soci accomandatari può essere revocato e, se ciò accade, ne consegue
che il socio perde la qualità di accomandatario e resta semplice azionista.

Società a responsabilità limitata (S.r.l.)


Una società a responsabilità limitata è strettamente affine alla società per azioni ma si distingue
perché le quote di partecipazioni non possono essere rappresentate da azioni, quindi non
costituisce oggetto di sollecitazione all’investimento poiché non è possibile da parte di terze parti
la quota in borsa del suo capitale.
Per gestire la società responsabilità limitata, è possibile affidare ad un singolo socio la parte
amministrativa (organo amministrativo monocratico) oppure a più soci, formando il consiglio di
amministrazione.

Criteri di contabilità
I criteri alla base della contabilità sono tre: rilevanza, oggettività e fattibilità e attraverso essi
vengono scritti i principi fondamentali che guidano l’azione.
Per “rilevanza” si intende la caratteristica delle informazioni la cui comunicazione risulta essere
indispensabile per la società; con “oggettività” si fa riferimento alla caratteristica dell’informazione
che la rende uguale per tutti i soggetti (ad esempio, se non è possibile determinare un valore
univoco da associare ad un oggetto dopo il suo acquisto, è preferibile utilizzare il prezzo di vendita
iniziale, andando però incontro ad approssimazioni ed errori deterministici); con “fattibilità” si
tiene conto della reale produzione dell’informazione (ad esempio, se l’oggetto del quale si voleva
determinare il valore sul mercato non può essere però poi utilizzato per ricavarne un utile, è
superfluo determinarne il valore se poi non è fattibile la vendita). Tali principi sono detti in “Trade
off” perché possono andare in contrasto l’uno con l’altro, ad esempio l’oggettività, per essere
garantita, dovrebbe essere studiata tramite un’analisi del prezzo reale dell’oggetto ma questo
processo richiede un costo che potrebbe essere addirittura superiore a quello di vendita, quindi
non è fattibile il processo.

I codici per la redazione di un bilancio contabile


Il bilancio è regolato dalla legge poiché deve fornire un quadro fedele e rilevante della situazione
economica, patrimoniale e finanziaria di un’azienda. Comporta, per i redattori, l’assunzione di
precise responsabilità, restando fedeli alle norme da applicare.
Poiché la contabilità riguarda una “comunicazione” di bilancio, deve essere redatta attraverso un
codice dato dall’insieme di norme e regole per verificarne la veridicità e osservarne il corretto
sviluppo, in maniera conforme alla legge da applicare.
Le regole da applicare devono essere le medesime a livello internazionale poiché il bilancio
contabile non deve possedere limiti sulla lingua o sulle leggi in diversi Stati (ad esempio, per
un’azienda estesa in diverse nazioni, deve essere redatto un solo bilancio contabile, senza
differenziarlo in base alla sede). A livello internazionale, le fonti dei principi contabili sono:
- IASP (International accounting standard board), si adopera per l’armonizzazione della
prassi contabile nei principali paesi del mondo;
- IAS (International accounting standard);
- IFRS (International financial reporting standard).
In Italia il riferimento è al Codice civile ma sono stati aggiunti anche altri principi contabili quali IAS
e IFRS.
Per le imposte, il riferimento al testo unico imposte dirette: ogni paese costruisce le proprie leggi
per le tassazioni, quindi non esiste un unico ente internazionale a cui fare riferimento; i principi
contabili, invece, sono stati redatti dal consiglio nazionale dei dottori commercialisti e dei
ragionieri.
I principi alla base della contabilità non sono obbligatori da seguire per tutte le aziende: per
società minori si esclude la redazione del bilancio consolidato, cioè il bilancio che tiene conto per
degli utili derivati da aziende consolidate, cioè gruppi di imprese. All’aumentare della dimensione
della società, escludendo le società minori, si sviluppa il bilancio d’esercizio ma sono facoltativi
IAS/IFRS. Per società oggetto di consolidamento, si deve redigere sia il bilancio di esercizio e
consolidato, mantenendo facoltativi IAS/IFRS. Per le aziende assicurazioni sono obbligatori sia il
bilancio consolidato che d’esercizio, così come le società quotate, banche.

Rendiconti
La finalità della contabilità la produzione di rendiconti che formano il bilancio e possono essere
suddivisi in quattro documenti principali:
1) Stato patrimoniale, un rendiconto calcolato in un istante di tempo determinato che
“fotografa” la contabilità dell’azienda a livello patrimoniale;
2) Conto economico, un rendiconto definito in un periodo di tempo determinato che ha come
data di inizio un primo stato patrimoniale e quello finale lo stato patrimoniale calcolato
nell’istante successivo;
3) Rendiconto dei flussi di cassa, così come il conto economico è redatto in un periodo di
tempo determinato, per tale motivo è definito come un “flusso” ed è calcolato nello stesso
periodo del conto economico.
4) Nota integrativa, documento in formato libero che spiega le principali scelte prese ed i
criteri per redigere i precedenti rendiconti. Infatti, lo stato patrimoniale e i flussi di conto
economico e di cassa sono rendiconti basati su numeri, ad essi non è associata una
spiegazione, che viene fornita successivamente nel documento di nota integrativa.

Tipologie di bilancio
Il bilancio può essere di due tipologie: ad uso interno, il quale non deve rispettare precise regole
poiché viene stilato per un utilizzo interno all’azienda per monitorare l’andamento della stessa; ad
uso esterno, il quale rappresenta il bilancio contabile ufficiale il cui contenuto è redatto
attenendosi al Codice civile ed è definito da parametri determinati che le aziende hanno l’obbligo
di seguire per poi renderlo pubblico. La pubblicazione di un bilancio è necessaria per tutelare gli
interessi dei creditori, rendere comprensibile la lettura persone esterne, rendere comparabili i
bilanci nel tempo.
Esistono, inoltre, diverse categorie di bilancio tenendo conto della stesura in base a:
- Forma giuridica dell’impresa, il bilancio sarà più o meno semplificato;
- Settore, le imprese bancarie ed assicurative focalizzano l’attenzione del bilancio
sull’aspetto dei flussi, le aziende produttive sul valore dei profitti;
- Modalità di reperimento dei capitali, ad esempio per le società quotate in borsa il bilancio
si differenzia da quello di società di produzione;
- Dimensione, può essere più o meno abbreviato in base alla natura dell’azienda;
- Dalla circostanza in cui l’azienda opera, se in continuità di funzionamento o meno (infatti se
l’azienda dichiara la chiusura deve pubblicare il bilancio di chiusura o fallimento, se dichiara
una continuità di esercizio, il bilancio di esercizio).
I bilanci possono essere di tipo civilistico (con finalità giuridica e reperito pubblicamente), fiscale
(finalità fiscale è reso pubblico), gestionale (con finalità gestionali e di reperibilità privata).
Stato patrimoniale
Lo stato patrimoniale è un rendiconto sullo stato di un’azienda, il cui nome è indicato
nell’intestazione, così come l’istante di tempo in cui è stato redatto. È un rendiconto a due
colonne, suddiviso in sezione di sinistra e sezione di destra: la sezione di sinistra riguarda le
attività, quella di destra la passività e il capitale netto.
Le attività, situate nella colonna di sinistra dello stato patrimoniale, riguardano le risorse
dell’azienda, quali caste, macchinari, brevetti, cioè “cose” di valore che servono all’azienda per la
produzione di beni o servizi per cui la società è nata e sulle quali vanta un primato.
Nella colonna di destra sono presenti i diritti vantati verso terzi o dalla proprietà, con riferimento
al diritto residuale. Con “obblighi verso terzi” si indica la passività dell’azienda, cioè la somma di
tutti gli obblighi verso soggetti esterni alla società, come ad esempio le banche e gli investitori, ai
quali l’azienda deve restituire una somma determinata di denaro. Nella creazione di beni e servizi,
infatti, l’azienda contrae degli obblighi verso coloro che non sono i proprietari (cioè i terzi) ai quali
devono restituire il denaro in un tempo definito a priori tramite contratto.
I diritti “vantati dalla proprietà” rappresentano il diritto residuale, cioè il capitale netto. I
proprietari hanno un diritto che può essere valutato solo dopo aver svolto l’obbligo verso terzi;
infatti, la passività e il capitale netto non hanno lo stesso livello di obbligatorietà.

Conto economico
Il conto economico è un rendiconto di flusso relativo a due istanti di tempo, i quali vengono
apposti nell’intestazione (ad esempio, se il periodo è quello dell’anno corrente, il rendiconto di
flusso viene calcolato tra il 1° gennaio e il 31 dicembre del medesimo anno). Il rendiconto
economico è a scalare: si parte da una cifra iniziale, come i ricavi dell’azienda, ai quali si vanno a
detrarre tutti i costi impiegati nella produzione, per poi ricavare come risultato finale, l’utile nel
periodo di tempo determinato. La sottrazione dei costi avviene in maniera ordinata: al ricavo si
sottrae il costo del venduto per ricavare il margine lordo che è indicazione di quanto l’azienda è
stata produttiva; ad esso si sottraggono i costi operativi (come gli stipendi degli impiegati) per poi
ricavare il risultato prima delle imposte; dopodiché si sottraggono le imposte per ottenere, in
conclusione, il risultato netto.
Il rendiconto economico serve a spiegare come il reddito dell’azienda è stato generato. Con “costo
del venduto” si fa riferimento al costo delle risorse direttamente riconducibili ai ricavi, come
l’acquisto delle materie prime per la produzione; con “costi operativi” si fa riferimento ai costi
associati alle singole transazioni di vendita (non parte del CDV, cioè costo del venduto) e i costi
delle attività di gestione.
Dal conto economico, si ricava il risultato netto, cioè l’utile che appartiene ai proprietari
dell’azienda stessa e che viene immagazzinato nelle “risorse degli utili”: tale denaro, che può
anche non essere in forma liquida, viene accantonato per poterlo consegnare ai soci o ripagare gli
obblighi verso terzi. Infatti, le risorse riguardano denaro “fittizio” che può ancora non appartenere
fisicamente alle casse della società (ad esempio, se i creditori devono ancora pagare per l’acquisto
del bene, si deve aspettare che la quota rientri) e si deve prima rendere liquida un’altra voce del
bilancio prima di poter accedere ai soldi delle riserve utili.
La riserva può anche essere suddivisa in “dividendi”, cioè diritti verso i soci. A partire dalle riserve
di utili dell’anno precedente, si somma il risultato netto dell’anno corrente, adesso si sottraggono i
dividendi per ottenere la riserva di utile al termine dell’anno corrente. I dividendi vengono sottratti
alle riserve utili ma non fanno parte del conto economico; soltanto le riserve degli utili calcolate al
termine dell’anno corrente sono inserite nella passività e, quindi, nel CE.
Approcci alla contabilità
Lo studio di un bilancio di contabilità può essere effettuato seguendo due approcci differenti: dal
punto di vista del contabile che segue i concetti e le tecniche necessarie per raccogliere,
sintetizzare comunicare l’informazione contabile; dal punto di vista dell’utilizzatore delle
informazioni contabili.
Attraverso gli strumenti contabili, l’utilizzatore è capace di valutare il profilo economico,
finanziario e patrimoniale della gestione globale di un’impresa, riuscendo a capirne l’analisi nel suo
insieme. Per dedurre lo stato di un’azienda, è necessario osservare la condizione di equilibrio
economico, finanziario e patrimoniale.

Equilibrio economico
L’equilibrio economico è lo stato in cui l’azienda si trova quando il flusso di ricavi è durevolmente
in grado di fronteggiare il flusso dei costi. Il flusso dei ricavi deve fronteggiare “durevolmente” il
flusso dei costi poiché può accadere che in un determinato periodo di tempo l’azienda debba
fronteggiare costi di produzione superiori ai ricavi (ad esempio, per la modernizzazione degli
impianti nel lungo periodo) ma se questa condizione permane nel tempo, dunque diventa
durevole, si perde l’equilibrio economico.

Ciclo produttivo
Il ciclo produttivo di un’azienda riguarda l’acquisizione di fattori produttivi che vengono impiegati
in un processo di trasformazione aziendale e la somma dei costi di acquisizione e di trasformazione
rappresenta il flusso dei costi; dopo la trasformazione, il bene viene posto sul mercato è soggetto
alla vendita dalla quale si ottengono i flussi di ricavi.
Quando il flusso di ricavi è maggiore del flusso dei costi, l’azienda sta producendo un utile
d’esercizio; se il flusso di ricavi è minore del flusso di costi, si ottiene una perdita di esercizio. Dal
ciclo produttivo si può dedurre se è o meno presente un equilibrio economico.
Equilibrio finanziario
L’impresa si trova in una condizione di equilibrio finanziario quando il flusso delle entrate è
costantemente in grado di fronteggiare il flusso delle uscite. Oltre ad un equilibrio economico,
deve essere presente anche un equilibrio finanziario che riguarda le entrate ed uscite economiche
e monetarie di un’azienda: esse, però, non sono sempre simultanee si deve tener conto anche dei
pagamenti successivi al momento in cui si calcola l’equilibrio finanziario. Le entrate e le uscite
monetarie fanno parte anche della gestione e restituzione dei finanziamenti; l’equilibrio finanziario
è sempre legato agli investimenti aziendali. Quando le caratteristiche degli investimenti e dei
finanziamenti sono tra di loro omogenee si ottiene equilibrio finanziario. Con il termine
“omogenee” si intende che gli investimenti producono entrate di denaro che possono produrre un
utile capace di restituire nei tempi previsti la stessa quantità di denaro per ripagare il debito nei
confronti dell’investitore. Gli investimenti devono essere scelti consapevolmente per rispettare
l’equilibrio finanziario e l’azienda deve poter investire con lo scopo finale di aumentare l’utile nel
lungo periodo.
Anche se l’equilibrio economico e finanziario sono correlati, non sempre coincidono poiché i ricavi
e i costi possono non essere immediati, quindi un equilibrio economico non sempre si riflette in un
equilibrio finanziario perché nell’istante di tempo in cui è calcolato è possibile che l’azienda stia
aspettando l’entrata da parte di un cliente o debba sostenere un’uscita verso terzi.

Equilibrio patrimoniale
L’equilibrio patrimoniale rappresentato dalla relazione esistente fra le diverse fonti di
finanziamento, esaminate dal punto di vista della loro provenienza. Le fonti di finanziamento sono
studiate dal punto di vista della loro provenienza: se il finanziamento deriva da una banca si tiene
conto di esso nella passività dello stato patrimoniale e l’azienda deve poter restituire l’importo con
una scadenza prefissata; se il finanziamento è fornito da un socio non si contrae un obbligo nei
suoi confronti, se non nel capitale netto.
Esso è determinato da: situazione patrimoniale precedente e flussi finanziari ed economici
dell’esercizio.

11 principi che presiedono alla redazione di bilancio


1) Primo principio: omogeneità
Il principio di omogeneità sancisce che le registrazioni contabili si devono riferire unicamente ad
eventi che producono effetti esprimibili affidabilmente in termini monetari e deve essere possibile
sommare algebricamente le risorse di natura diversa.
Deve essere possibile misurare in maniera oggettiva i dati inseriti nel bilancio economico. Il
responsabile della redazione può scegliere in autonomia i dati da inserire nel rendiconto ma
devono tutti essere di tipo monetario e rispettare la realtà, altrimenti con un controllo sulla
veridicità potrebbe essere imputato di frode.
Non vengono riportati tutti gli aspetti fondamentali che riguardano l’impresa, quindi si parla di un
bilancio incompleto: mancano, ad esempio, il numero dei dipendenti che non è possibile
esprimere attraverso la moneta ma si inserisce il salario totale dal quale è possibile risalire in
maniera indiretta al numero approssimato dei dipendenti.
Un altro aspetto che modifica la lettura di un bilancio è che la moneta è un’unità di misura
scomoda poiché cambia in base al potere di acquisto con l’aumento o diminuzione di inflazione,
quindi è necessario scegliere un istante di tempo in cui approssimare il valore della moneta e per
confrontare i rendiconti di anni differenti deve essere noto il valore della moneta all’anno fissato.
2) Secondo principio: dell’entità giuridica
La contabilità si ferisce ad una sola entità giuridica, cioè la società e non alle persone ad essa
collegate. Se, quindi, si sposta liquidità tra l’impresa ed uno dei soci, deve essere dichiarata la
somma di denaro estratta dalle casse dell’impresa ma non il modo in cui vengono spesi i soldi
perché riguardano un’altra entità giuridica, cioè il proprietario.

3) Terzo principio: continuità di funzionamento


Le rilevazioni contabili devono assumere in alternativa:
- che l’azienda sia in una fase di interruzione dell’attività,
- che l’azienda rimanga in vita per un tempo indeterminato.
Si deve assumere vera una delle due rilevazioni e, nel primo caso, viene redatto un bilancio di
liquidazione o fallimento, nel secondo caso viene pubblicato un bilancio d’esercizio.
Se si tratta di un’azienda di produzione, il bene perde di valore se viene dichiarato dall’impresa
l’interruzione dell’attività.

4) Quarto principio: del costo


Prima di introdurre il quarto principio, il principio di costo, è necessario effettuare una
categorizzazione delle attività in non monetarie e monetarie.
L’attività non monetaria non è assimilabile a soldi liquidi e il costo d’acquisto continua ad essere il
riferimento per la contabilizzazione anche nei periodi successivi, ad esempio nell’acquisto di un
immobile.
L’attività monetaria, assimilabile a soldi liquidi, viene registrata al costo d’acquisto, così come
quella non monetaria, solo nel momento di acquisto ma nel tempo cambia il prezzo e si adatta al
nuovo valore di mercato.
Il valore delle attività non monetarie come terreni, edifici, attrezzature si modifica nel tempo ma,
per la contabilizzazione, viene utilizzato il costo d’acquisto, detto costo storico, che rappresenta il
valore di mercato dell’attività non monetaria solo al momento di acquisto. La differenza tra il costo
di mercato il prezzo d’acquisto cresce nel tempo per le attività non monetarie ma si accetta questa
approssimazione perché altrimenti sarebbe necessario interpellare un perito per la
determinazione del nuovo valore ma diventa un’operazione infattibile e si continua ad utilizzare il
costo storico. Tali principi sono applicabili solo fin quando sono ragionevoli: se, ad esempio, un
terreno acquistato come non edificabile viene poi considerato sul mercato edificabile, il suo prezzo
può cambiare enormemente e non ha più senso usare il principio di costo, mantenendo il suo
costo d’acquisto, quindi deve essere rettificato e ciò poi verrà spiegato nella nota integrativa.
Se questo Trade-off è troppo spinto, si redige un nuovo valore attraverso un’analisi da parte di un
perito. L’ammortamento, invece, misura il consumo di un bene per produrre, ad esempio per un
terreno usato per fini agricoli.
Per le attività non monetarie si adegua il valore del bene da contabilizzare a quello di mercato
senza applicare il principio di costo perché si può determinare il nuovo valore a basso costo, è
dunque fattibile (ad esempio, per i titoli di Stato).
Il fair Value è l’importo netto al quale un’attività potrebbe essere venduta in una normale
transazione di mercato, dato dalla differenza di prezzo di mercato e costi di vendita e rappresenta
il costo corrente. Ad un bene viene applicato il principio del costo corrente soltanto per
investimenti mobiliari, macchinari o impianti delle imprese quotate poiché un eccesso di
oggettività può produrre un’eccessiva mortificazione del valore del bene.
5) Quinto principio: del duplice aspetto
Le risorse economiche di un’azienda sono dette “beni patrimoniali” o “attività”: i diritti vantati su
queste attività appartengono alla categoria di passività, che rappresenta i diritti vantati dei
creditori o da un qualsiasi attore terzo esterno all’azienda e diverso dai proprietari della stessa, il
capitale netto, l’insieme dei diritti vantati dalla proprietà. Poiché su ogni attività aziendale
qualcuno vanta diritti e poiché l’ammontare complessivo di questi diritti non può eccedere
l’ammontare delle attività sulle quali diritti possono essere vantati, si afferma che, in ogni istante
di tempo, si deve verificare l’equazione:
' '
ATTIVIT A =PASSIVIT A + CAPITALE NETTO
È la legge fondamentale del bilancio.
In particolare, se l’attività è minore o uguale della somma tra passività e capitale netto, vuol dire
che su ogni attività sulla quale non vantano diritti i creditori sarà rivendicata dai detentori del
capitale, cioè i proprietari stessi (infatti, a liquidità di una azienda, dopo aver ripagato di debiti
verso terzi, la restante parte delle attività va ai soci e se le attività fossero minore non si avrebbe
una parte che soddisfa i soci stessi); viceversa se l’attività è maggiore uguale della somma tra
passività e capitale netto ciò risulterebbe essere impossibile perché il totale dei diritti vantati
sull’azienda non può essere più grande dei beni posseduti da essa; come conseguenza, si usa
l’uguaglianza.
Ogni transazione produce un effetto doppio sulle registrazioni contabili poiché l’aumento di un
nuovo bene fa diminuire il capitale netto e la passività e viceversa: si parla, perciò, di partita
doppia.
Scrivendo il bilancio come:
' '
CAPITALE NETTO= ATTIVIT A −PASSIVIT A
Si definisce il valore residuale del capitale netto poiché prima devono essere rispettati i diritti
vantati da parti terze e poi con il residuo si applicano i diritti per i proprietari.

Stato patrimoniale secondo la prospettiva delle risorse e dei diritti vantati


Lo stato patrimoniale può essere redatto secondo varie prospettive, ad esempio collocando nella
sezione di sinistra le risorse possedute dall’azienda e nella sezione di destra i diritti vantati. Tale
prospettiva, però, presenta due limiti sulla definizione di captale netto: infatti, esso non può
essere definito come un diritto vantato in senso stretto poiché per legge può essere recepito dai
soci allorquando vengono soddisfatti i diritti verso terzi oppure quando l’azienda cessa la sua
funzione; assume, inoltre, un vero valore in condizione di liquidità e legalmente può essere
vantato solo quando si ferma la continuità di funzionamento.

Stato patrimoniale secondo la prospettiva degli impieghi e delle fonti di finanziamento


Una diversa prospettiva per la redazione dello stato patrimoniale è quella in cui, nella sezione
attività, si collocano gli impieghi o gli investimenti dell’azienda; se è presente un investimento,
poiché ogni azione corrisponde ad una doppia conseguenza, dal lato della passività e del capitale
netto, nella sezione di destra, si collocano le fonti di finanziamento che hanno reso possibile tali
investimenti. La sezione di destra, quindi, si suddivide in fonti di finanziamenti di terzi e fonti
finanziarie messe a disposizione dalla proprietà (cioè dai soci della società stessa).
Dal punto di vista dell’utilizzatore, questa prospettiva è più semplificata poiché aiuta meglio a
capire come è stato impiegato il denaro dell’attività: è, infatti, una visione meno coerente con
quella del contabile ma più pratica.
Voci dello stato patrimoniale
Le principali voci dello stato patrimoniale sono: attività, passività, capitale netto.
Le attività sono identificate dalle risorse economiche dell’azienda o, alternativamente, dagli
impieghi ed investimenti aziendali. Le passività sono interpretabili come i diritti dei creditori nei
confronti dell’attività o come fonti finanziarie messe a disposizione dei creditori. Il capitale netto
rappresenta i diritti residuali della proprietà oppure le fonti finanziarie messe a disposizione dei
soci stessi.
In particolare, affinché una risorsa possa essere considerata un’attività per l’azienda, deve
rispettare i seguenti parametri:
- Deve essere acquistata attraverso una transazione; infatti, se sul mercato non avviene una
transazione con la quale si garantisce l’acquisto da parte dell’azienda del bene, esso non
può rientrare nel bilancio. Se un bene non acquistato ma di appartenenza della società
acquista valore nel tempo, comunque non rientra a far parte delle attività nello stato
patrimoniale. Ad esempio, i marchi delle aziende che possiedono intrinsecamente un
elevato valore monetario ma non sono stati acquistati attraverso una transazione, non
possono essere considerati delle attività (infatti, il bilancio si considera incompleto proprio
perché non risponde affidabilmente ai tre criteri per la presenza del Trade off).
- Deve essere una risorsa economica, quindi deve essere possibile trasformare l’attività in
denaro liquido (cassa o equivalente, cioè un bene che può essere trasformato in denaro
liquido), possiede un valore di mercato e deve produrre utilità, quindi aiutare nella
produzione.
- Deve poter essere controllata dall’azienda, ad esempio in presenza di un contratto di
leasing (come un contratto di noleggio) deve essere possibile per l’azienda riscattare il bene
al termine del contratto (se ciò non è possibile, viene inserito solo nel conto economico).
- Il suo costo deve essere misurabile in modo attendibile al momento dell’acquisto.

Stato patrimoniale riclassificato finanziariamente


Per riordinare le voci dello stato patrimoniale si effettua una operazione di riclassificazione e si
ordinano le voci in base all’esigibilità, cioè la possibilità di trasformare il bene in denaro liquido in
breve termine e si classificano prima le risorse più esigibili e poi quelle meno.
In base all’esigibilità, nella sezione delle attività di sinistra si collocano prima le attività correnti,
cioè quelle attività che sono già denaro liquido (cassa) oppure che lo possono diventare in breve
periodo (come dopo la stesura di un contratto con un cliente al quale viene fatto credito); seguono
le attività immobilizzate, cioè quelle che non diventeranno denaro liquido in breve termine, cioè
prima del termine del prossimo esercizio (come i contratti a lungo termine o i macchinari).
Nella sezione di destra, i diritti vantati da terzi e dalla proprietà vengono suddivisi in: passività
correnti, cioè i debiti che verranno ripagati entro l’esercizio successivo (ad esempio, la
retribuzione per i dipendenti, se non è ancora stata pagata in toto per il mese corrente), la
passività a lungo termine (ad esempio il mutuo che è un debito di lungo periodo contratto con le
banche) ed infine il capitale netto.
Questa classificazione serve a dare indicazione sul punto di vista della liquidità: se le attività
correnti sono maggiori delle passività correnti non si ha necessità di avviare prestiti a lunga
scadenza poiché si suppone che l’azienda sia capace di soddisfare tutti i debiti del breve periodo;
viceversa, se le attività correnti sono minori delle passività correnti, presumibilmente l’azienda si
troverà in crisi di liquidità finanziaria.

Quoziente di liquidità
Il quoziente di liquidità è un parametro utilizzato per calcolare la liquidità finanziaria ed è dato dal
rapporto tra le attività correnti e le passività correnti:
attività correnti
=x
passività correnti
È detto “quoziente di liquidità primario” per differenziarlo da quello “stretto” che esclude dalle
attività correnti quelle di magazzino.
Il valore del quoziente di liquidità deve essere confrontato con quelli dell’azienda negli anni passati
oppure utilizzato come riferimento con i parametri di aziende esterne, ad esempio con quelle dei
concorrenti. Il valore del quoziente di liquidità deve essere ¿ 1 affinché l’azienda non si trovi in crisi
finanziaria e, in particolare, ¿ 1 ,5 così da garantire anche le approssimazioni di stima. Vi è anche un
limite superiore poiché se fosse troppo elevato significherebbe che l’azienda presenta liquidità in
eccesso e non sta investendo.
Se è troppo basso, è indice di difficoltà finanziaria; se troppo alto, l’azienda si sta proteggendo
troppo.

Attività correnti
Le attività correnti possono essere: liquidità in senso stretto, attività che si trasformeranno in
liquidità entro l’esercizio successivo e attività che produrranno la loro utilità entro l’esercizio
successivo. Per “attività con liquidità in senso stretto” si intendono: cassa usata per gestire spese
giornaliere, conto corrente attivo dove si fanno transitare gli incassi, bollette e pagamenti degli
stipendi, titoli immediatamente smobilizzati (ad esempio, dopo l’acquisto da parte dell’azienda di
titoli utilizzati per ridurre la liquidità in eccesso).
Le attività correnti di altre tipologie sono i crediti commerciali (quelli nei confronti dei clienti),
cambiali commerciali attive (che si differenziano dei crediti commerciali poiché sono un titolo
immediatamente esecutivo, ad esempio per il pignoramento), crediti commerciali verso società
del gruppo e crediti finanziari (che si generano quando è l’azienda a prestare denaro a terzi),
rimanenze (cioè le attività di magazzino che non sono sottoforma di liquidità ma che si
trasformeranno entro l’esercizio successivo), anticipi a fornitori (considerate attività perché
l’azienda acquisisce il diritto di ricevere entro la fine del prossimo esercizio la merce pagata).

Attività immobilizzate
Le attività immobilizzate sono quelle di lungo termine e possono essere: materiali, finanziarie,
immateriali. Le immobilizzazioni materiali sono terreni, immobili, macchinari, attrezzature,
eccetera e sono immobilizzazioni tangibili che produrranno gradualmente in futuro la loro utilità.
Le attività immobilizzate finanziarie sono intangibili, come titoli, crediti finanziari a lungo periodo
e crediti commerciali e rappresentano somme di denaro o diritti a ricevere determinate somme in
futuro. Le attività immobilizzate immateriali sono intangibili, ad esempio l’avviamento, i costi di
impianto e ampliamento, i costi di ricerche sviluppo (vengono riconosciute come attività anche i
beni che l’azienda ha autoprodotto), diritti di brevetto industriale, marchi e i titoli acquistati con
finalità strategiche atti a controllare piccole aziende.
In particolare, l’avviamento rappresenta un’attività immobilizzata immateriale presente solo se
un’impresa ne acquista un’altra ad un prezzo maggiore del fair value, cioè maggiore della
differenza tra attività e passività. Ciò accade perché nell’acquistare un’altra impresa, il valore di
mercato è dato dal valore contabile, cioè dalla differenza tra le attività e la passività ma, al
momento di acquisto, il costo è maggiorato per la presenza di attività intangibili ed immateriali
come la notorietà e il marchio. Se l’azienda acquistata sta per fallire, la si paga addirittura meno
della differenza. La differenza che riconosce elementi immateriali è detta attività netta o
patrimonio netto rettificato. Si può definire, dunque, l’avviamento come la differenza tra il prezzo
pagato per l’acquisto dell’azienda e il fair value del patrimonio netto rettificato.
Ad esempio, nell’acquistare un’azienda, l’impresa deve pagare non solo il suo fair value ma anche
una somma di denaro maggiorata pari all’avviamento e ciò viene inserito nella sezione delle
attività immobilizzate dell’azienda che acquista (poiché si deve sempre rispettare il V principio).

Passività correnti
Le passività correnti sono quelle di breve periodo e posson essere di tipo finanziarie come debiti a
breve verso banche, debiti a breve verso società del gruppo o quote in scadenza di debiti a lungo
termine (ad esempio, nell’accendere un mutuo una delle scadenze può rientrare nelle passività da
ripagare entro la fine dell’esercizio).
Quelle operative, dette anche di funzionamento, sono i debiti verso i fornitori, debiti tributari,
debiti verso il personale, costi sospesi, anticipi da clienti (visti come passività poiché l’azienda,
entro l’anno corrente, comunque dovrà consegnare la merce al cliente).

Passività di lungo termine


Le passività di lungo termine sono prestiti obbligazionari, mutui, debiti a lungo termine verso
società del gruppo, trattamento di fine rapporto (TFR), eccetera.

Capitale netto
Il capitale netto si suddivide in: capitale versato e riserve di utili.
Il capitale versato è l’ammontare di denaro apportato direttamente dalla proprietà (nel caso di
società per azioni, dagli azionisti). Il capitale versato si suddivide, a sua volta, in capitale sociale,
cioè il prodotto tra il numero di azioni per il prezzo pagato, e riserva di sovrapprezzo delle azioni,
cioè il prodotto tra il numero di azioni per la differenza tra il prezzo pagato e il valore nominale
dell’azione (infatti, al momento dell’emissione dell’azione, ad essa viene associato un valore
nominale). La quota di capitale posseduta, quindi la quota di proprietà dell’azionista, rappresenta
il numero di azioni possedute (ad esempio, se un socio possiede 10 azioni su 1000, gli appartiene
l’1% dell’azienda).
Le riserve di utili sono la ricchezza generata attraverso la gestione e non distribuita sottoforma di
dividendi ai soci e si differenzia dal capitale versato perché quest’ultimo è un “capitale di
conferimento” che può essere restituito solo a chiusura dell’azienda mentre le riserve di utili
(capitale di risparmio) possono essere restituite anche sottoforma di dividendi. Le riserve di utili di
una società per azioni sono gli utili netti complessivamente realizzati e non distribuiti, quindi sono
pari alla differenza tra la sommatoria degli utili e la sommatoria di dividendi oppure pari alla
sommatoria degli utili non distribuiti.
Analisi delle transazioni
Per capire come effettuare il bilancio di un’azienda si studia in primis l’analisi delle transazioni,
stilando lo stato patrimoniale (tenendo conto anche del conto economico, cioè la differenza tra
ricavi e costi) dopo ogni operazione, chiedendosi se ognuna di essa presenta un risvolto
patrimoniale o economico o entrambi.
N.B. Si deve sempre rispettare il principio del doppio effetto!

1) Avvio dell’azienda, versamento di 10.000 di capitale iniziale


Con l’avviamento dell’azienda, i proprietari versano una somma che rientra nella cassa
e, dal lato delle passività, rientra nel capitale versato.
2) Accensione di debiti di 5000, corrisponde all’aumento nella cassa e alla voce di debito
verso le banche.

3) Acquisto di merce di 2000 in contanti.


Poiché è espresso “in contanti” significa che viene prelevata dalla cassa la somma, si
aggiunge nelle attività la voce relativa alle rimanenze (cioè al magazzino) e si lascia
invariata la passività e capitale netto. L’acquisto di merce non può essere considerato
un costo di produzione fino a quando non è presente un ricavo dalla vendita,
altrimenti, se si contabilizzasse il costo prima della vendita, non sarebbe possibile
rispettare il V principio.
4) Vendita di merci per 300, acquistate a 200 in contanti.
Ciò significa che rientrano nelle casse dell’azienda 300 e si sottrai 200 al magazzino. La
vendita comporta un riscontro economico, quindi si calcola il conto economico come la
differenza tra i ricavi ed i costi, cioè pari a 300−200=100 e questo valore viene
trasportato nello stato patrimoniale in corrispondenza delle riserve utili.

5) Acquisto di merce 2000 a credito.


Si aggiunge 2000 alle rimanenze, dal lato della passività si aggiunge la voce del debito
verso fornitori pari a 2000 (poiché non è stato pagato in contanti).

6) Vendita di merce per 800 acquistata per 500 in contanti.


Poiché la merce è stata acquistata in contanti dai clienti, il guadagno va nella cassa e si
sottrae 800 al magazzino; si produce un utile pari a 300 e si somma nelle riserve di utili.
7) Vendita di merce per 900 acquistata per 600 a credito.
Poiché non ci sono contanti in circolazione, la cassa si mantiene costante, si diminuisce
di 900 le rimanenze e, poiché si è fatto credito ai clienti, aumenta di 900 la voce “crediti
commerciali”; dal lato delle passività, si aggiunge 300 alle riserve di utili.

8) Acquisto di una polizza assicurativa di 200 pagata anticipatamente.


Non c’è costo fin quando non viene utilizzata, però si considera una riduzione di 200
dalle casse e aumento di costi anticipati a 200 nel lato delle attività, mentre le passività
si mantengono costanti.

9) Acquisto di terreni di 10.000 per 2000 in contanti 8000 per mutuo.


Diminuisce di 2000 in cassa, si apre la voce “terreni” per 10.000 e dal lato delle
passività si aggiunge il mutuo ipotecario di 8000.
10) Vendita di terreni acquistati a 5000 a 1000 in contanti e il resto trasferendo
sull’acquirente il muto per 4000.
Non c’è il ricavo e se ci fosse non lo si metterebbe nella voce di ricavi di produzione. La
cassa aumenta di 1000, diminuisce la voce terreni a 5000 e dalla parte della perdita
diminuisce il mutuo a 4000.

11) Si riceve un’offerta per il capitale netto di 15.000 però viene rifiutata.
In questo caso, non viene modificato il bilancio perché il valore di mercato non lo
influenza.
12) Prelievo di cassa di 200 e di merce di 400 da parte di un proprietario.
Dalla cassa si sottraggono 200, dalle rimanenze 400 e le riserve di utili diminuiscono di
600 (cioè la somma di pagamento in natura, cioè quelle delle merci, e pagamento
contante prelevato dalla cassa). Si è distribuito, sotto forma di dividendo, un utile al
proprietario.
13) L’acquirente dei terreni ha rivenduto gli stessi per 8000.
Non si modifica il bilancio perché si applica il principio di costo ai terreni, che sono beni
non monetari.
14) Trasformazione da impresa individuale a società per azioni.
Non comporta modifica al bilancio.
15) Riduzione del debito bancario per 2000.
Si riduce la cassa di 2000 e si riduce il debito verso le banche di 2000.

Variazione del capitale netto


La variazione del capitale netto può avvenire attraverso gestione o per operazioni non legate ad
essa. Considerando la variazione del capitale netto per effetto della gestione, si considera la sua
variazione in un certo periodo dato dalla differenza tra i ricavi ed i costi, che produce l’utile del
periodo; la variazione del capitale netto non legata alla gestione è data dall’apporto di capitale a
cui si sottraggono i dividendi. Per ottenere il capitale netto totale si sommano le riserve di utili nel
periodo con il capitale versato nello stesso periodo.
Il capitale netto può essere aumentato attraverso l’aumento di capitale versato o attraverso
l’aumento dei ricavi e diminuito attraverso i dividendi o i costi.

Metodo partita doppia


Il metodo della partita doppia è fondato sui conti, cioè tabelle a due colonne suddivise in due
sezioni:
1) Dare, la sezione di sinistra
2) Avere, la sezione di destra
Anche se la scelta dei nomi delle sezioni non ha a che fare con ragioni operative del metodo. Lo
scopo è la registrazione di operazioni contabili, tenendo conto dei loro incrementi e decrementi. Il
conto, rispettando il principio di omogeneità, considera valori monetari riguardanti “la vita” di un
determinato oggetto da inserire nel bilancio. All’apertura del conto, si colloca il saldo iniziale, si
registrano sotto varie voci le operazioni contabili e si conclude il saldo finale del conto che viene
registrato dove il valore è maggiore tra le due sezioni e il saldo rappresenta la differenza tra i totali
delle sezioni di dare e avere.
Con “addebitare, caricare” si intende la registrazione nella sezione del dare; con “accreditare,
scaricare” si intende la registrazione nella sezione dell’avere.
Nella registrazione, si devono determinare la voce, la sezione e l’importo.
Classificazione dei conti
I conti si suddividono in due categorie:
1) Permanenti, chiamati così perché permangono tra diversi stati patrimoniali successivi. Ciò
accade perché quando vengono chiusi i saldi di un anno, i valori vengono riportati per
l’inizio del saldo dell’anno successivo perché lo stato patrimoniale è un rendiconto che
“fotografa” un istante di tempo e quindi si sovrappongono la chiusura di un conto con
l’apertura del successivo.
2) Temporanei, sono i conti del conto economico e all’inizio di ogni esercizio, i conti vengono
aperti con uno stato iniziale nullo e in fase di chiusura, attraverso un’operazione di segno
opposto, vengono azzerati. Questo perché il conto economico è un rendiconto che tiene
conto degli incrementi e decrementi delle riserve di utili, come differenza di ricavi e costi;
per comodità, si aprono i conti temporanei e alla fine dell’esercizio ci si devono riallineare
con lo stato patrimoniale e quindi vengono riportati nella voce di risorse di utili.

Regola del metodo di partita doppia


Il metodo della partita doppia presenta un’unica regola, la quale si basa su una convenzione di
segno sulle operazioni da registrare (ma non è giustificata logicamente, cioè il bilancio sarebbe
corretto anche utilizzando un’altra convenzione).
Per rispettare il principio del duplice aspetto, le attività con incremento vengono inserite nella
sezione del dare (+), il decremento nell’avere (-).
Le passività e il capitale netto sono registrati con incrementi nell’avere (+) e decrementi nel dare
(-), seguendo la convenzione della registrazione invertita.
Per il principio del duplice aspetto, tale regola, istante per istante, si traduce in: la somma di tutte
le registrazioni nel dare eguagliano la somma di tutte le registrazioni nell’avere (da ciò deriva il
nome “partita doppia”)
∑ dare=∑ avere
Ciò si verifica perché per la convenzione della registrazione invertita e per il principio del duplice
aspetto, si parte da un saldo iniziale pari a zero quando le attività sono uguali alla somma tra
passività e capitale netto, quindi all’istante iniziale il dare è uguale ad avere; dopodiché, vengono
svolte operazioni che hanno un effetto duplice; se un’operazione si colloca solo nelle attività o solo
nelle passività e capitale netto, per rispettare il quinto principio, ci deve essere un incremento e
decremento nella stessa sezione. Ogni operazione sarà sempre data da due o più registrazioni.
L’unico caso in cui apparentemente si fanno registrazioni che non rispettano il principio
dell’uguaglianza delle sommatorie è quando si azzerano i conti del conto economico ma si torna in
pari quando lo si riporta nelle riserve di utili.
Per i conti del CE, i ricavi coincidono con le riserve di utili e, quindi, per essi vale la stessa regola
della registrazione di passività e CN mentre i costi, invece, vengono registrati come attività poiché
rappresentano una diminuzione delle riserve degli utili e quindi si utilizza la convinzione opposta a
quella delle passività e CN.

Piano dei conti


Il piano dei conti è l’elenco dei conti accesi: il numero delle voci presenti nei rendiconti è sempre
minore del numero di voci presenti nel piano dei conti poiché in essi si inseriscono anche le sotto
voci, come il nome specifico delle banche con le quali si accendono dei mutui, i diversi fornitori,
eccetera.
Mastro e libro giornale
Il Mastro è l’insieme dei conti accesi con annessi valori. Il libro giornale, invece, operativamente
riporta le operazioni contabili con la data: si allineano a destra le operazioni da mettere nell’avere
e a sinistra quelle da mettere nel dare; vengono riportati i valori per ogni operazione e un segno (la
spunta) per segnare che tale operazione è già stata inserita all’interno del mastro. È un libro in
ordine cronologico, a differenza del mastro.

Ciclo contabile
Il ciclo contabile parte dall’analisi delle transazioni, esse vengono registrate nel libro giornale
quotidianamente e riportate poi a mastro. Quando si redige il mastro si effettuano anche scritture
di chiusura e di assestamento, si calcolano i rendiconti dello stato patrimoniale alla fine dell’anno
corrente e si riapre il conto dell’anno successivo a partire dagli stessi valori.

Scritture di assestamento
Per modificare i saldi in modo da riflettere la situazione dei valori alla fine del periodo contabile, si
effettuano delle operazioni di assestamento, cioè di rettifica ed integrazione alle voci già aperte
nel mastro per
- Conti già registrati che devono essere modificati perché da ripartire fra due o più periodi
contabili;
- Costi di competenza non registrati;
- Ricavi già rilevati che devono essere modificati perché di competenza di più periodi;
- Ricavi già realizzati ma non registrati;
- Ammortamento, cioè l’indicazione dell’utilizzo dei beni che si consumano in un periodo
determinato di tempo. Un metodo per calcolarlo si basa sulla supposizione che l’utilizzo dei
beni avvenga in maniera costante nel periodo.
A conclusione del mastro, si apre la posta rettificata dell’attivo che corregge i valori del rendiconto
dello stato patrimoniale.
N.B. i costi vengono contabilizzati quando il bene acquistato viene impiegato per la produzione, ad
esempio l’affitto viene considerato un costo e quindi viene inserito nei costi del CE sotto la voce
“costo fitti” solo dopo la conclusione del mese pagato, quando si è esaurita la risorsa; al momento
del pagamento anticipato dell’affitto, quest’ultimo va solo inserito nella voce “costi anticipati”
nelle attività perché non ancora è stato sfruttato per la produzione.
In generale, un’operazione di:
- Acquisto viene inserita solo nello SP, ad esempio debito vs terzi;
- Utilizzo nei costi del CE;
- Pagamento nella cassa dello SP;
- Ricavi (e dopo l’utilizzo delle risorse, i costi) nel CE.

Ciclo finanziario
Il ciclo finanziario di un’impresa è legato alle operazioni di gestione: liquidità (operazioni di
acquisto e produzione), rimanenze (operazioni di gestione e vendita), crediti commerciali
(raccolta di credito), le quali possono essere rappresentate attraverso un flusso continuo. I flussi di
impresa sono continui nel tempo ma c’è necessità di misurare i risultati di un certo periodo, cioè
frazionare lo svolgimento delle attività; infatti, le informazioni con le quali si va a redigere il
bilancio vengono acquisite con una cadenza annuale.
Elementi del conto economico
Il conto economico viene redatto attraverso due voci: ricavi e costi di competenza.
I ricavi sono flussi in ingresso che risultano dalla vendita di beni o servizi e che si concretizzano in
aumenti di valore di attività (ad esempio, la cassa se i pagamenti sono effettuati in contanti, in
crediti commerciali se il cliente paga accredito) e delle riserve di utili.
I costi di competenza sono legati ad uno specifico periodo. Per verificare se un costo appartiene
ad un periodo, si osserva, ad esempio, se è legato a quello di materia prima comprata nel relativo
periodo. Sono flussi in uscita che si concretizzano in riduzioni di cassa o aumento delle passività e
riduzione delle riserve di utili.
La differenza di ricavi e costi di competenza rappresenta il reddito netto.
Con “reddito”, si intende il profitto dell’azienda, il risultato netto o l’utile netto; se i costi di
competenza sono superiori ai ricavi, l’azienda ottiene una perdita, cioè un valore negativo del
risultato netto.

Principio di periodicità della misurazione (VI)


Si consideri un’azienda e relativi ricavi (come le quote di iscrizione) e costi (stipendi, locazioni
varie): dalla differenza dei ricavi e costi si ottiene l’utile netto. Se l’azienda lavora in un periodo di
tempo determinato, la misura del reddito di breve durata è semplice da misurare poiché
rappresenta la differenza tra gli incassi e gli esborsi complessivamente generati dalle attività
svolte. Per il business di lungo periodo, per calcolare l’utile del periodo bisogna considerare solo i
costi del periodo, quindi è necessario determinare un principio per valutarli.
Generalmente, le imprese non hanno una vita di pochi mesi e i portatori di interesse non sono
disposti ad attendere molti anni prima di avere informazione sulla performance economica
dell’impresa (ad esempio, gli azionisti vogliono conoscere la performance dell’azienda su cui
investono in breve periodo), quindi è necessario suddividere le informazioni in intervalli frequenti
e periodici per formulare una strategia che sia utile ad attori esterni all’impresa.
Il principio di periodicità della misurazione si basa sul concetto di periodicità dell’informazione: la
contabilità misura il risultato economico di un determinato periodo di tempo denominato
“periodo amministrativo, esercizio". Il risultato economico (reddito) del periodo non è la
differenza tra gli incassi gli esborsi che hanno manifestazione nel periodo ma è la variazione del
capitale netto riconducibile allo svolgimento delle attività gestionali.
Il periodo amministrativo è lo specifico intervallo di tempo che richiede la suddivisione del flusso
continuo degli eventi e coincide con l’anno solare, cioè con l’esercizio fiscale.

Reddito e capitale netto


Il capitale netto, per definizione, è la somma del capitale versato e le riserve di utili, le quali sono la
sommatoria degli utili non distribuiti a cui si sottrae la sommatoria dei dividendi. Nel periodo
amministrativo, cioè nell’intervallo in cui vengono calcolate le informazioni, il reddito varia in base
al risultato dell’esercizio (che può essere sia positivo che negativo, cioè può sia far aumentare che
decrementare il reddito) e ai dividendi, che si sottraggono ad esso.
N.B. quando si redige il rendiconto annuale:
- i ricavi non determinano necessariamente degli incassi (ad esempio, se il cliente paga
accredito non aumenta il valore di cassa),
- i costi non determinano necessariamente esborsi nel momento in cui si consumano le
risorse correlate (le risorse umane impiegate nella produzione possono essere pagate con
lo stipendio anche successivamente alla data in cui è stato redatto il rendiconto),
- i ricavi e i costi sono rispettivamente incrementi e decrementi delle risorse di utili,
- può anche non esserci alcun legame tra reddito e variazione di cassa (non è detto che ci sia
variazione di reddito, infatti ciò avviene solo alla fine del periodo con la rettifica),
- gli apporti di capitale non sono ricavi e i dividendi non sono costi, così come le riserve di
utili non sono a cassa.
Si definisce così la contabilità per competenza che è più complessa di quella finanziaria ma tiene
conto di maggiori informazioni; detta “per competenza” perché tiene conto del periodo.

Principio di prudenza (VII)


Il principio di prudenza viene utilizzato per tutelare l’azienda dall’incertezza delle misurazioni.
Si basa sul ragionevole scetticismo che aumenta la credibilità dei risultati; con “prudenza” si
intende la doverosa attitudine a sottostimare il reddito e le attività qualora sussista incertezza
nella misurazione.
Applicando il concetto di prudenza,
- si riconoscono i ricavi solo quando sono certi (normalmente riconosciuti al momento della
consegna al cliente o erogazione del servizio),
- si riconoscono i costi solo quando sono possibili.
Attraverso il principio di prudenza, si afferma che le rimanenze di un prodotto, di cui si conosce il
costo di acquisto e la possibile vendita, vengono contabilizzate valore minore tra il costo
d’acquisto e il fair value (prezzo di mercato).
infatti, a causa di obsolescenza, il prodotto sul mercato perde di valore rispetto al prezzo di
acquisto, quindi in questo caso si sceglie il fair value.
Altro caso in cui è possibile applicare il principio di prudenza è quando l’azienda subisce un furto:
anche nell’ipotesi che la merce rubata possa essere restituita all’anno successivo, si deve
contabilizzare la perdita finché non verrà effettivamente ritrovata la merce.
Per il riconoscimento dei ricavi, l’azienda deve aver svolto tutto quanto necessario per avere il
diritto a ricavo, prima di riconoscerlo: esso può essere riconosciuto prima del periodo dell’incasso
se si tratta di interessi attivi maturati e non ancora pagati, contestualmente all’incasso e
corrisponde ad un aumento di cassa, successivamente all’incasso come acconti o anticipi da clienti,
quando non corrisponde ancora ad un ricavo ma ad un finanziamento.

Principio di realizzazione dei ricavi (VIII)


Con il principio di prudenza si conosce il periodo in cui è possibile riconoscere il ricavo ma
attraverso il principio di realizzazione di ricavi si conosce quanto deve essere riconosciuto: di solito
non si riducono i ricavi ma si integrano con costi specifici, applicando il criterio di oggettività,
effettuando una stima del risultato.

Principio di competenza (IX)


La vendita presenta due aspetti: aumento delle risorse di utili con i ricavi realizzati e riduzione
delle risorse di utili con i costi correlati.
Il costo è l’ammontare delle risorse economiche per un qualche scopo, la spesa è il costo
d’acquisto, cioè la manifestazione contabile tramite riduzione di attività e aumento di passività,
l’esborso è un pagamento per cassa e il costo di competenza è un costo da assegnare al periodo.
In particolare, le attività generano una spesa quando acquistate e un costo di competenza
quando consumate. Ad esempio, se l’azienda acquista 10.000 € di gasolio (spesa) e i primi 8000
vengono consumati al 31 dicembre 2015, questi rappresentano il costo di competenza fino
all’anno 2015; i restanti 2000 € consumati entro 31 dicembre 2016 rappresentano il costo di
competenza del secondo esercizio.
Criteri per riconoscere i costi di competenza del periodo
1) Ricavi e costi determinati dallo stesso evento devono essere riconosciuti nello stesso
periodo, ad esempio il costo merci vendute, provvigioni, cioè la percentuale di merce
venduta da un lavoratore nel periodo,
2) I costi di competenza non direttamente riconducibili ai ricavi possono essere associati a
costi di gestione del periodo oppure ad operazioni che non generano ricavi futuri. Ad
esempio, il costo dei materiali rappresenta un costo riconducibile ai ricavi, lo stipendio del
responsabile del controllo di gestione è un costo relativo alle operazioni di gestione e le
rimanenze divenute obsolete nel periodo rappresentano costi non associati a ricavi futuri.
Ad eccezione delle azioni vendute, la maggior parte delle spese diventano costi di competenza nel
tempo.
Le spese del periodo sono anche i costi di competenza, ad esempio nell’acquisto di materie prime;
le spese di periodo precedenti che diventano costi di competenza nel periodo possono essere i
prodotti venduti all’anno successivo rispetto alla loro produzione nell’esercizio precedente; spese
del periodo che diventano costi di competenza in periodi futuri, quando la risorsa si utilizza anche
avendola pagata anticipatamente e costi di competenza che saranno pagati in periodi futuri.

Operazioni a fine periodo


A conclusione del rendiconto, si devono effettuare delle operazioni di rettifica ed integrazione alla
fine del periodo.
Le operazioni di rettifica comprendono le spese che diventano costi di competenza in periodi
futuri, come costi anticipati e risconti attivi; incassi che diventano ricavi in periodi futuri (ricavi
anticipati e risconti passivi).
Le operazioni di integrazione comprendono i costi di competenza da pagare, cioè i costi posticipati
e ratei passivi; ricavi realizzati ma non registrati, come i ratei attivi; accantonamento a fondi rischi,
quando non si è sicuri di ricevere l’effettivo pagamento in futuro.
In generale, associato al concetto di “posticipato” vi è il rateo e al concetto di “anticipato” il
risconto; se si tratta di un costo posticipato, il rateo è passivo e nel caso di ricavo posticipato il
rateo è attivo e vale il viceversa negli anticipi.
Costo posticipato = rateo passivo
Ricavo posticipato = rateo attivo
Costo anticipato = risconto attivo
Ricavo anticipato = risconto passivo
Principio di continuità dei criteri di valutazione (X)
Il principio di continuità dei criteri di valutazione afferma l’obbligo di mantenere continuità nei
criteri adottati per la redazione del bilancio. I principi danno delle indicazioni sull’orientamento da
tenere nella redazione delle scritture contabili, anche se esistono margini di soggettività: si
possono scegliere quali criteri adottare ma, una volta utilizzati, devono essere mantenuti nel
tempo. Se dovesse essere necessario modificare il criterio utilizzato rispetto all’anno precedente, è
necessario specificare la motivazione e gli effetti che ne conseguono nella nota integrativa. Si deve
applicare il principio di continuità per confrontare i bilanci della stessa azienda rispetto a
rendiconti passati e facilitare la lettura per le parti terze; infatti, per il principio di omogeneità, si
effettuano approssimazioni per i conti e queste scelte devono essere uguali negli anni, altrimenti
non è possibile confrontarli e osservare l’andamento dell’azienda nel tempo.

Principio di significatività e rilevanza (XI)


Il principio di significatività e rilevanza afferma quali transazioni devono essere considerate nella
redazione del bilancio e quali possono essere trascurate; infatti, la frase “de minimis non curat lex”
afferma che la legge interviene solo per le azioni rilevanti, non le minuzie. Con “rilevanti” si fa
riferimento a tutte quelle transazioni che, se non fossero contabilizzate, modificherebbero il
bilancio; dal punto di vista concettuale, alcune implicazioni possono rilevare sul bilancio ma non
essere nell’unità di grandezza significativa per esso, di conseguenza sono considerate “non
significative” e possono essere trascurate. Ad esempio, se un’azienda produttrice di computer
acquista della cancelleria, le penne che non sono ancora state utilizzate non devono essere
contabilizzate per il principio di competenza e si può fare soltanto quando viene consumato
l’inchiostro; pur essendo concettualmente corretto, la transazione non è significativa, quindi pur
essendo un bene utilizzato per produrre, viene contabilizzato integralmente come costo del
periodo, indipendentemente dal fatto che sia stato usato o meno.
In generale, non esiste una distinzione netta fra ciò che è rilevante o meno, ciò dipende dal
giudizio del responsabile del rendiconto.

Classificazioni del conto economico (CE)


Nel conto economico devono essere contabilizzati costi e ricavi in modo da non solo calcolare
l’utile ma anche riordinare le voci per capire i punti di forza e debolezza dell’azienda per poi
migliorarla.
Per lo stato patrimoniale, il principio di riordinamento delle voci è la liquidità crescente; per il
conto economico, si effettuano tre categorizzazioni:
1) Costo del venduto
2) Margine di contribuzione
3) A valore aggiunto.
Il conto economico è un “di cui” dello stato patrimoniale poiché il risultato netto è una singola
voce dello stato patrimoniale stesso e le voci non sono altro che un incremento o decremento
delle risorse di utili (anche se queste ultime non corrispondono esattamente al risultato netto
poiché possono variare anche attraverso operazioni che non dipendono dal conto economico,
come la distribuzione dei dividendi). Il conto economico è un prospetto scalare che riporta i
risultati della gestione e ognuno dei modi per categorizzarlo mette in luce i risultati diversi.
Classificazione 1) in base al costo del venduto
La classificazione del conto economico al costo del venduto è un rendiconto ad uso interno, cioè
non è possibile ottenerlo dal bilancio civilistico prescritto dalla legge; questo perché mancano
informazioni che sono disponibili solo all’interno dell’azienda stessa, la quale non è obbligata a
pubblicizzare tutte le sue azioni.
Con l’espressione “ad uso interno” si intende che il rendiconto può essere visto da terze parti ma
non è un prospetto obbligatorio per legge e i criteri non sono soggetti a prescrizioni normative; è
solo utile a capire come è gestita l’azienda ma non è obbligatorio e non coincide con il bilancio
civilistico, nel quale sono presenti i dati aggregati per tipologia di costi, cioè “per natura”.
I dati del conto economico civilistico non sono aggregati in base al criterio di destinazione, quindi
non si può dedurre quali sono i costi usati, ad esempio, nella produzione o nell’amministrazione
ma questo dato è noto all’azienda e si può ricavare dai CE redatti ad uso interno.
Per redigere il conto economico in base al costo del venduto si parte dai ricavi da vendite netti
(A), cioè i ricavi che sono ottenuti per vendita di beni e servizi per cui l’azienda è messa in essere.
Ad essi, si sottraggono i costi del venduto (B), così da ottenere il margine lordo (C = A - B), il quale
è indice di quanto l’azienda è stata efficace a produrre.
Al margine lordo, si sottraggono i costi di ricerche sviluppo, i costi commerciali, I costi generali ed
amministrativi così da ottenere i costi operativi (D), che l’azienda sviluppa per svolgere ordinarie
operazioni ma non sono connesse alla vendita (ad esempio le buste paga per i dipendenti, i costi di
formazione).
La differenza tra il margine lordo e i costi operativi restituisce il risultato operativo caratteristico
(E = C – D), detto “caratteristico” poiché le voci che lo compongono si riferiscono ai servizi e i beni
collegati all’azienda direttamente.
Da i ricavi da vendite netti fino al risultato operativo caratteristico, si tratta di una gestione
caratteristica; segue la gestione accessoria, cioè le informazioni non collegate al servizio e al bene
dell’azienda, cioè l’oggetto sociale, ma rappresentano i proventi e costi esterni maturati
dall’azienda. Un esempio di gestione accessoria è quella svolta dalle agenzie assicurative, le quali
acquistano immobili per assicurarsi che nel momento in cui si debba rimborsare il cliente, ci sia
capitale in mobilizzato o liquido; i costi e ricavi di questa gestione accessoria, non direttamente
correlati all’attività dell’azienda, si inseriscono nel bilancio non caratteristico poiché altrimenti si
confonderebbero con i ricavi delle vendite.
La somma tra il risultato operativo caratteristico e i proventi/costi della gestione accessoria (F)
restituiscono il risultato operativo complessivo (G = E + F).
Segue la gestione finanziaria: si basa sul fattore produttivo del denaro e si ottiene sottraendo al
risultato operativo complessivo gli interessi passivi (H), cioè il costo del denaro (in realtà, è
possibile ottenere anche interessi attivi, caratterizzati dal +, se il fisco deve rimborsare l’azienda).
Da questa differenza, si ottiene il risultato ordinario di competenza (I = G – H).
L’insieme della gestione caratteristica, accessoria e finanziaria è detta gestione ordinaria, per
distinguerla dalla gestione straordinaria che serve a correggere le scritture contabili dell’anno
precedente fatte con stime sbagliate. Ad esempio, se all’azienda è stata rubata un’auto, si deve
contabilizzare come un costo poiché non verrà mai utilizzata e viene aggiunta nella “minus
valenza”; se, ad esempio, un terreno posseduto dall’azienda diventa edificabile, ad esso si
aggiunge valore ed entra a far parte della “plus valenza”. La minus valenza e la plus valenza sono
voci dei proventi/costi della gestione straordinaria (L). Al risultato ordinario di competenza si
sommano i valori della gestione straordinaria per ottenere il risultato ante imposte (M = I + L). Al
risultato prima delle imposte si sottrai il valore delle imposte sul reddito (N) per ottenere il
risultato netto (O = M – N), il quale confluisce nelle risorse di utili nello stato patrimoniale.
Per confrontare i valori del conto economico, si calcolano le percentuali delle voci, dividendo i
valori per i ricavi di vendita netti (gli unici pari al 100%). Le percentuali sono indicazione del tipo di
azienda: per un’impresa molto basata sulla forza lavoro e le materie prime, il margine lordo sarà
una percentuale molto bassa, a differenza di un’azienda basata sui servizi pubblicitari che
presenterà un valore di margine lordo più elevato poiché i costi del venduto saranno ridotti.

Classificazione 2) in base al margine di contribuzione


Il conto economico classificato in base al margine di contribuzione è, come quello in base al costo
del venduto, ad uso interno esterne a capire come i cambiamenti dei ricavi modificano il reddito
dell’azienda e si può, così, rispondere alla domanda “se ricavi crescono di una percentuale, di
quanto aumenta o diminuisce il reddito?”. Il reddito, infatti, dipende dalla struttura dei costi
dell’azienda, cioè la relazione tra i costi fissi e costi variabili. Si devono distinguere i costi fissi e
variabili, andando a modificare la gestione caratteristica dell’azienda nel conto economico.
A partire dal risultato operativo caratteristico, infatti, il rendiconto del conto economico a margine
di contribuzione coincide con quello a costo del venduto; per le voci precedenti, si parte dai ricavi
da vendite netti (A) e ad essi si sottraggono i costi variabili che comprendono sia quelli dei beni
venduti sia altri costi, come ad esempio le approvvigioni variabili nel periodo considerato.
Si ottiene così il margine di contribuzione, adesso si sottraggono i costi fissi per ottenere il
risultato operativo caratteristico.
N.B. il costo del venduto non è uguale al costo variabile poiché può capitare che ci siano pure costi
fissi, quali l’ammortamento; i costi operativi non sono uguali ai costi fissi perché in essi potrebbero
ricadere anche costi variabili.
Classificazione 3) in base al valore aggiunto
Il conto economico redatto attraverso il valore aggiunto è anche esso ad uso interno ma
teoricamente chiunque potrebbe risalire adesso partendo dai dati pubblici del bilancio civilistico. A
differenza del conto economico classificato in base al costo del venduto e al margine di
contribuzione, quello in base al valore aggiunto richiede costi classificati per natura, così come
accade nel bilancio civilistico e serve a capire come e perché si modifica il valore aggiunto della
produzione in azienda, cioè la trasformazione del bene a partire dalle materie prime fino al
prodotto finito. Il valore aggiunto, infatti, è la differenza tra il valore prodotto e il costo di fattori
esterni, detto “aggiunto” perché fornito dall’azienda al suo interno ed è una misura del livello di
integrazione dell’impresa. Un’impresa può essere verticalmente o orizzontalmente integrata: se
un’azienda è più verticalmente integrata, acquista minori quantità dall’esterno poiché si
autoproduce la maggior parte delle materie prime; viceversa, sei un’azienda è più orizzontalmente
integrata, acquista maggiormente da fornitori esterni e colloca, ad esempio, solo il marchio di
vendita sul prodotto finito.
Dal risultato operativo caratteristico, le voci del conto economico classificato a valore aggiunto
coincidono con la classificazione precedente ma cambia a partire dai ricavi di vendita netti poiché
ad essi si aggiunge la variazione delle rimanenze e di lavori in corso per ottenere il valore della
produzione; ad essi si sottraggono i consumi di materie prime e i costi per servizi acquistati
all’esterno per ottenere il valore aggiunto, al quale si sottrai il costo del personale, ammortamenti
e accantonamenti per ottenere il risultato operativo caratteristico.
Reddito dell’impresa
Il reddito può essere determinato per contabilità per competenza o per contabilità finanziaria:
- Per contabilità e per competenza, il reddito è visto come differenza tra ricavi e costi del
periodo;
- Con la contabilità finanziaria, il ricavo è riconosciuto solo quando incassato è un costo solo
quando pagato. Con questo principio, non viene rispettato nel concetto di realizzazione dei
ricavi e il principio di competenza.

Calcolo imposte dirette sul reddito


Il calcolo delle imposte dirette sul reddito si effettua sulle società di capitali o sulle persone fisiche.
Le imposte dirette sul reddito di società di capitali avvengono attraverso una aliquota unica,
secondo il principio della flat tax mentre sulle persone fisiche con una tassazione progressiva.
Poiché il principio di prudenza sottovaluta l’utile per dare garanzia ai creditori, l’azienda potrebbe
essere indotto a pagare meno tasse poiché si dichiara meno dell’utile realmente realizzato; per
questo motivo, al risultato ante imposte del conto economico si effettuano delle operazioni di
correzione secondo la legislazione fiscale, per poi andare a pagare 2 tipologie di imposte:
1) IRAP, dal valore del 3,9% di quello rettificato del risultato ante imposte e si applica sul
costo del lavoro;
2) IRES, al 24% del reddito imponibile, cioè quello modificato ante imposte.
Ciclo operativo di un’impresa di produzione
Per il principio di realizzazione dei ricavi e di prudenza, l'impresa è obbligata a contabilizzare i
ricavi che sono ragionevolmente certi e i conseguenti costi.
Per capire quando i ricavi e i costi siano ragionevolmente certi per l’impresa al fine di
contabilizzarli, si osserva lo schema del ciclo operativo: a partire dall’acquisto di materie prime,
fino alla consegna e accettazione da parte del cliente e a riscuotere l’incasso del credito.
Per il principio di prudenza, è possibile contabilizzare solo quando si consegna al cliente ma
attraverso quello dei ricavi si determina la quantità da contabilizzare.

Riconoscimento dei ricavi


I ricavi possono essere riconosciuti quando:
- L’azienda deve aver fatto tutto quello che doveva fare per avere diritto a guadagnare il
reddito;
- Il reddito deve essere misurabile in modo attendibile e convertibile in denaro (per ricavo si
intende la differenza tra i ricavi e i costi, sempre esprimibili attraverso l’unità di misura del
denaro). La misurazione del reddito è un’approssimazione poiché richiede stime, crediti
inesigibili, ammortamenti o altre scritture di rettifica e integrazione.
Il riconoscimento dei ricavi non può essere effettuato al momento di ricezione di un ordine per il
principio di prudenza; non è possibile contabilizzare il ricavo neanche quando si riceve un acconto
sui prodotti da consegnare poiché rappresentano esclusivamente un finanziamento; al momento
della produzione dei beni genericamente non è possibile contabilizzare il reddito, tranne in alcuni
casi particolari come quelli in cui si hanno delle commesse che durano nel tempo e non è
ragionevole contabilizzarle tutte alla consegna finale del servizio, ad esempio i lavori di costruzione
di edifici pubblici. Ciò perché altrimenti non si riuscirebbe a rappresentare l’azienda correttamente
e sembrerebbe che essa non abbiano i ricavi nei costi fino al momento della contabilizzazione. In
base allo stato di avanzamento dei lavori è possibile contabilizzare una parte o meno parte del
lavoro finito. Nel caso di consegna di merce in conto vendita, cioè consegnata ad un terzo ente che
la rivenderà ad un ultimo cliente, come i concessionari di auto, non è possibile contabilizzare il
ricavo poiché non è ancora avvenuta la vendita al cliente finale. In generale, per il principio di
riconoscimento dei ricavi, soltanto nel momento di consegna del prodotto finito, cioè di
erogazione del servizio da parte dell’azienda il cliente è possibile contabilizzare il ricavo e i
seguenti costi (regola della consegna).
Regola della consegna
La regola della consegna è quella più comune per il riconoscimento dei ricavi ed afferma che ciò
avviene nel periodo in cui i prodotti sono consegnati e i servizi erogati; la consegna non è
comunque una condizione sufficiente se avviene per rate, dando possibilità di revoca da parte del
cliente come le vendite su web, eccetera. Un ulteriore motivo per il quale la regola della consegna
non è sempre sufficiente è il conto vendita, non è motivo di riconoscimento dei ricavi poiché, fin
quando non è consegnata al cliente finale, la merce consegnata a parti terze è solo una
mobilizzazione fisica.

Regola della percentuale di completamento


La regola della percentuale di completamento afferma che nel caso di progetti di lungo periodo
(come la costruzione di edifici pubblici) l’ammontare di ricavo riconosciuto è proporzionale alla
percentuale del progetto realizzato, tenendo conto delle diverse tipologie di contratto tra
l’azienda e il cliente:
- Contratto a prezzo fisso, quando il cliente paga somme prestabilite a conclusione di
determinate fasi di lavoro;
- Contratti a costo-rimborso, quando il cliente paga i costi sostenuti e ad essi si aggiunge un
margine riconosciuto. In questo caso, la misurazione del ricavo è la percentuale sostenuta
rispetto al totale.

Regola del contratto completato


La regola del contratto completato si applica quando l’utile dei singoli periodi non è stimabile con
ragionevole certezza che i costi sono rilevati come attività sino al momento di realizzazione del
ricavo.

Per un progetto della durata di tre anni, si determinano i pagamenti ricevuti dal committente al
termine dei tre periodi di lavorazione, per un totale di 900 €. Note le spese di progetto, è possibile
applicare le due regole per il riconoscimento dei ricavi: regola della percentuale e regola del
contratto completato.
Secondo la regola della percentuale, in base alle percentuali di completamento del progetto si
determina il valore dei ricavi, dei costi e, di conseguenza, l’utile come differenza delle due voci
precedenti (ad esempio, nel primo anno, con una percentuale di completamento pari al 20% e una
spesa totale di 800 €, si ottiene un costo nel periodo di 160 mentre per i ricavi si calcola il 20% di
900 per il primo periodo e così via).
Secondo la regola del contratto completato, si contabilizzano i ricavi e i costi (di conseguenza
anche l’utile) solo al completamento dell’attività, cioè soltanto nel terzo anno quando si
contabilizza il totale dei ricavi (cioè i pagamenti ricevuti dal cliente pari a 900 €) e i costi totali (le
spese di progetto pari a 800 €); l’utile sarà pari a 100 €.
N.B. applicando la regola del contratto completato, poiché i costi e i ricavi possono essere
riconosciuti solo al termine del servizio, fino a quel momento non vi sono operazioni nel conto
economico ma soltanto nello stato patrimoniale dove, nel lato delle attività, si contabilizzano i
costi come un “lavori in corso” (WIP).
Le due regole sono del tutto equivalenti ma la scelta dell’utilizzarne una piuttosto che un’altra
dipende dalla natura dell’impresa.

Regola della rata


La maggior parte delle aziende predispone un pagamento rateizzata ma, per sopperire ad un
possibile mancato pagamento, si innalza il prezzo di vendita, per la presenza di tasse ed interessi.
Al momento di un mancato pagamento, all’azienda non conviene indire una causa contro il cliente
per riavere indietro il prodotto, quindi cerca di contabilizzare il denaro man mano; di conseguenza,
non è possibile applicare la regola della consegna e si introduce quella della rata.
Secondo la regola della rata, il pagamento della stessa è contabilizzato come un ricavo e la parte
corrispondente del complessivo costo del venduto è registrata nello stesso periodo.

Regola costo di recupero


La regola del costo di recupero afferma che non è rilevato alcun reddito fino a che le rate pagate
non abbiano ricoperto il costo del venduto totale.

In questo esempio, si ipotizza che un bene abbia il valore di 2200 € e che venga venduto al
mercato a 4000 € con un pagamento costituito da due rate annuali di pari importo.
Attraverso la regola della consegna, sarebbe necessario contabilizzare tutti i 4000 € come ricavo
nel momento della consegna (si considera come periodo il 2015) e il costo del venduto pari a 2200
€, da cui si ricava un margine lordo di 1800. Con la regola della consegna, il secondo anno in cui
vengono saldate le rate, non viene contabilizzata alcuna operazione economica.
Con la regola della rata si contabilizzano le due rate nei due periodi separatamente, pari alla
percentuale di importo del 50% l’una.
Con la regola del costo recupero, il ricavo si calcola attraverso la percentuale della rata del 50% sui
due anni mentre i costi del venduto vengono contabilizzati in totale solo quando viene pagata la
seconda rata, quindi nel primo anno si contabilizza un costo del venduto esattamente pari al ricavo
e nel secondo anno si stabilisce il margine lordo.

Ammontare del ricavo


L’ammontare del ricavo avviene attraverso:
- Ammontare dei crediti stimati inesigibili (storno diretto, svalutazione crediti, conto di
rettifica dei crediti come il fondo di svalutazione crediti, la stima come percentuale delle
vendite a credito e cancellazione di un credito inesigibile);
- Gli sconti;
- I resi e abbuoni;
- I costi di garanzia.
Ammontare del ricavo dei crediti stimati inesigibili
I crediti rappresentano il diritto legale di avere soldi dal cliente e, per tale motivo, sono inseriti
nello SP nelle attività.
Per sopperire alla possibile mancanza di pagamento da parte del cliente, dal lato delle attività
viene istituito un fondo di svalutazione dei crediti perché si tiene conto che una percentuale del
credito non verrà pagato: si effettua, dunque, una rettifica dell’attività aprendo un conto tecnico di
segno opposto, pari proprio al fondo di svalutazione crediti.
Nel conto economico viene poi aperto un conto detto svalutazione crediti, conto di costo, che
serve per rettificare i ricavi (infatti è un conto di segno opposto a quello dei ricavi). Tutto ciò può
essere contabilizzato nello stesso anno per il principio di prudenza e si può contabilizzare solo
quando si può fare una stima con ragionevole certezza, quindi si sa per esperienza, che un certo
ricavo non verrà incassato (storno diretto).
Se, invece, si sa che lo specifico cliente non pagherà quanto deve è possibile far diventare quel
credito formalmente inesigibile, cioè l’impresa accetta con una nota di credito di perdere il diritto
di non avere quel denaro.

Esempio:
Stima al 3% di 100.000 €, quindi il fondo di svalutazione crediti è pari a 3000 € (si registrano
nell’avere poiché diminuiscono le attività). Dalla nota di credito, l’azienda dichiara di perdere il
diritto a recuperare 1000 €.
In questo caso, i crediti diminuiscono di 1000 e di quei 3000 che si erano stimati di non incassare
effettivamente 1000 non verranno incassati e quindi vengono registrati nel fondo svalutazione
crediti in dare.
Se il credito inesigibile fosse 4000, verrebbero registrati 3000 nel fondo svalutazione crediti in dare
mentre gli altri 1000 rappresentano una minusvalenza da svalutazione crediti (si apre un conto e
si registrano in dare poiché sono costi e si contabilizzano come le attività), cioè si rettificano le
stime fatte in precedenza in negativo perché l’incasso sarà ancora minore di quanto stimato.
Se invece si incassano precisamente 100.000 € si avrà una plusvalenza, per cui si aprirà un conto
chiamato plusvalenza da rivalutazione crediti e la plusvalenza verrà registrata in avere (poiché è
un ricavo e si contabilizza come le passività).

Sconti
Gli sconti possono essere registrati in due modi:
1) Riduzione dei ricavi lordi, per cui si registrano i ricavi come differenza tra ricavi lordi e
sconti;
2) Costo di periodo, per cui si registra il valore pieno del bene e lo sconto come un costo di
periodo.
Se su un certo bene viene applicato uno sconto, che non viene goduto dall’azienda, si registra il
ricavo del bene al prezzo scontato e poi si apre un conto (ricavi sconti non goduti) il cui valore e la
differenza tra il prezzo pagato dal cliente e il valore del bene scontato.

Resi e abbuoni
Il reso rappresenta la restituzione del prodotto con vendita avvenuta a credito.
L’abbuono, invece, rappresenta la restituzione del prodotto pagato anticipatamente e prevede un
rimborso del cliente.
Quando vengono contabilizzati, bisogna effettuare una stima dei beni che saranno rimandati
all’azienda. In questo caso, non si tratta di una rettifica, ma di un vero e proprio conto (fondo
rischi per resi e abbuoni) che fa parte delle passività.
Costi di garanzia
La garanzia rappresenta l’obbligo da parte dell’impresa di riparare o sostituire in futuro prodotti
difettosi e rappresenta un ridimensionamento del reddito del periodo.
Quando si tiene conto dei costi di garanzia, si effettua una rettifica che comporta un aumento del
costo del venduto, per cui vengono contabilizzati i costi di garanzia e contestualmente viene
istituito un fondo rischi per garanzia con cui l’impresa stima il valore dei prodotti che dovranno
essere riparati o sostituiti. Quando un prodotto viene effettivamente sostituito, si riduce il fondo
rischi per garanzia e diminuiscono le rimanenze.

Attività monetarie
Le attività monetarie (denaro o diritti a ricevere denaro) compaiono nello stato patrimoniale al
valore di mercato e su di loro non è applicato l’ammortamento. Viceversa, le attività non
monetarie compaiono nello stato patrimoniale al valore contabile netto, cioè al valore di acquisto
al netto di rettifiche come l’ammortamento. Fanno eccezione le rimanenze (si indica il valore di
produzione) e alcune immobilizzazioni materiali di società quotate (vale il principio del fair value).

Indici per analizzare le attività monetarie


1) Indice di liquidità ristretto
attività correnti monetarie
indice di liquidità ristretto=
passività correnti

Sono escluse dalle attività monetarie le rimanenze (non hanno valore di mercato in quanto non
ancora vendute) e i costi anticipati. È un indice più restrittivo dell’indice di liquidità, infatti varia in
un intervallo più piccolo.

2) Giorni di cassa
cassa
giorni di cassa=
costi finanziari giornalieri

Indica per quanti giorni l’impresa sarà in grado di fronteggiare i pagamenti con la cassa e le
liquidità a disposizione, se non ci fosse ulteriore incasso. Questo indice non tiene conto degli
esborsi per acquisto di immobilizzazioni o rimborso di debiti o di incassi derivante dall’accensione
di debiti.
I costi finanziari giornalieri (costi finanziari/365) sono quei costi riferiti ad esborsi finanziari
(acquisto di materie prime, pagamento stipendi). Non si considerano l’ammortamento,
minusvalenze o fondi di svalutazione, in quanto non prevedono degli esborsi.

3) Tempo di incasso del credito


crediti commerciali
tempo di incasso del credito=
ricavi a credito giornalieri

Rappresenta il tempo medio necessario per ricevere il pagamento da parte dei clienti.
Questo indice viene particolarmente utilizzato per effettuare un confronto con il tempo medio di
pagamento del debito (Debiti commerciali/costo al debito/365) e maggiore è la differenza tra
questi due indici, maggiore è l’equilibrio tra incasso e pagamento dei debiti.
Gestione delle rimanenze
Per assegnare un valore alle rimanenze in base alla diversa tipologia di impresa si deve calcolare il
costo del venduto, noti i costi unitari, le quantità acquistate e, di conseguenza, le rimanenze a fine
periodo in cui si redige lo stato patrimoniale.
Per determinare le rimanenze e il costo del venduto, quindi, si devono conoscere le quantità e
applicare ad S. un inventario di tipo periodico o perpetuo; per quanto riguarda i costi unitari, si
possono applicare quattro metodi: identificazione specifica, costo medio, LIFO e FIFO.
A seconda della tipologia di impresa per la quale si redigono i rendiconti, si può applicare un
metodo per valutare le rimanenze e il costo del venduto piuttosto che un altro; le imprese si
differenziano in:
- Imprese commerciali, le quali si occupano di acquisto e rivendita di merci ed hanno a
disposizione principalmente un solo magazzino;
- Imprese di produzione, le quali durante la lavorazione aggiungono il valore di manodopera
alle materie prime, dunque dispongono di tre magazzini per le materie prime, i
semilavorati e i prodotti finiti;
- Imprese di servizio, le quali non possiedono un magazzino fisico poiché la maggior parte di
esse si occupa di immobilizzazioni immateriali.

Imprese commerciali
Per valutare le rimanenze di un’impresa commerciale, si parte dalle rimanenze iniziali, applicando
una scrittura di apertura, che coincidono con le rimanenze finali dello scorso esercizio.
Ad esempio, considerando 800 € di rimanenze iniziali all’apertura, nel corso dell’anno si ipotizza
l’acquisto di merci ad un valore di 2000 €. Nel corso dell’anno, l’azienda ha disponibili 2800 € di
merce valutata da vendere e devono essere divise in rimanenze finali e costo del venduto tra lo
stato patrimoniale e il conto economico.
Per semplificare la valutazione delle rimanenze e del costo del venduto, si effettua un’ipotesi
semplificativo: alla fine del periodo i beni disponibili per la vendita sono parte delle rimanenze
oppure sono stati venduti, dunque vale che
rimanenze iniziali+ acquisti=rimanenze finali+CdV
Tale equazione non è scontata poiché non è detto che tutte le rimanenze iniziali, alla quale si
aggiungono gli acquisti durante il periodo considerato, siano parte di rimanenze finali e costo del
venduto poiché una parte di esse può anche essere sottratta all’azienda tramite furti oppure
essere persa. Inoltre, è possibile che il costo unitario, cioè il costo di acquisto delle rimanenze vari
nel tempo e, quindi, è necessario effettuare una stima per valutarle e ciò può non coincidere
direttamente con il costo del venduto (si escludono, poi, i casi in cui la vendita è stata fatta senza
fattura e, quindi, il costo del venduto non risulta contabilizzato).

Primo metodo: inventario periodico


L’inventario periodico (metodo indiretto) calcola deduttivamente il valore del costo del venduto,
determinando il valore delle rimanenze finali del periodo.
Per effettuare l’inventario periodico, si parte dal valore delle rimanenze iniziali e ad esse si
aggiungono gli acquisti (se sono stati effettuati) e si sottraggono le rimanenze finali e questa
differenza coincide con il costo del venduto che si calcola in maniera indiretta.
In generale, con l’inventario periodico si utilizza il seguente modello:
- Rimanenze iniziali (-), corrispondono alle rimanenze finali del periodo precedente;
- Acquisti del periodo (-), sono i valori accumulati nel sistema contabile;
- Rimanenze finali (+), sono le rimanenze valorizzati alla fine del periodo attraverso un
inventario fisico;
- Costo del venduto (-), calcolato come l’ammontare residuo effettuando la differenza tra le
rimanenze finali e la somma di rimanenze iniziali acquisti del periodo.

Esercizio 1 (su appunti)


Nelle scritture di apertura, nello stato patrimoniale si apre il conto “giacenze” che fa riferimento
alla merce contabilizzato al termine dell’esercizio precedente. Si suppone che all’istante iniziale di
apertura del nuovo rendiconto tutta la merce sia stata venduta così da svuotare il magazzino e
sottrarre della stessa quantità in avere le giacenze e con una scrittura di segno opposto nel conto
economico (conto di costo) pari a “rimanenze iniziali”.
Con questo metodo di inventario periodico non si fa “transitare” l’acquisto di merce per lo stato
patrimoniale poiché tutte le operazioni vengono contabilizzate nel conto economico, avendo
supposto che all’istante iniziale tutta la merce a disposizione per l’azienda fosse stata già venduta.
Con questo artificio contabile, il costo del venduto sarà il noto solo al termine delle scritture di
chiusura poiché, avendo supposto che tutta la merce sia stata già venduta all’istante iniziale, non
deve essere contabilizzato il costo del venduto ad ogni vendita.
Se, ad esempio, l’impresa effettua un acquisto per 2000 €, questo valore viene contabilizzato nel
conto economico a prendo la voce “acquisti” (costo) e gli altri 2000 saranno inseriti, ad esempio,
nello stato patrimoniale come debiti verso fornitori oppure in cassa, in base alla modalità di
pagamento.
Per le scritture di chiusura, si devono reinserire i valori di merce nel magazzino che non sono stati
effettivamente venduti, attraverso un’operazione di segno opposto nel conto economico, aprendo
il conto “rimanenze finali” ed è un valore noto tramite l’inventario.
Alla fine, si conoscerà il costo del venduto, chiudendo tutti i conti temporanei del CE e segnando
con il + i ricavi, le rimanenze finali e con il – le rimanenze iniziali e gli acquisti e sarà, quindi,
calcolato tramite la differenza tra le rimanenze finali e la somma di rimanenze iniziali e acquisti.

Secondo metodo: inventario perpetuo


Inventario perpetuo (metodo diretto) determina il valore della merce venduta ogni volta che hai
consegnato al cliente, quindi si conosce istante per istante il valore delle rimanenze finali e il costo
del venduto.
Ad esempio, se l’impresa acquista quattro televisori al costo unitario di 200 € l’uno, si conosce il
costo totale pari ad 800. Immediatamente, nello stato patrimoniale, nelle rimanenze sono aggiunti
in dare il valore di 800 € per il primo acquisto di questi quattro televisori e, con la successiva
operazione del 6 maggio, si vende 1 televisore per un costo unitario pari a 200 €, il quale viene
sottratto in avere nelle rimanenze nello stato patrimoniale e, analogamente, dopo la vendita viene
contabilizzato al costo del venduto. Si procede così operazione per operazione e sarà sempre noto
il valore delle rimanenze e del costo del venduto.
Inventario perpetuo si può effettuare se giornalmente sono noti il numero di merce venduta o
acquistata, se l’impresa ha a disposizione una tecnologia (ad esempio lo scanner a codice a barre)
che consenta di monitorare l’uscita all’entrata nel magazzino delle rimanenze.
L’inventario perpetuo rappresenta un metodo diretto per il calcolo delle rimanenze finali e del
costo del venduto poiché ogni transazione modifica immediatamente i valori contabili e questi
valori sono noti in tempo reale.
N.B. con l’utilizzo dell’inventario perpetuo non è necessario aprire i conti nel CE delle rimanenze
iniziali e rimanenze finali poiché tutto è contabilizzato in tempo reale anche nello stato
patrimoniale.

Aziende di produzione
Le aziende di produzione trasformano le materie prime in prodotti finiti e il costo del venduto di
un’azienda di produzione è costituito anche dai costi di trasformazione delle materie prime, quindi
il suo calcolo è più complicato di quello per un’azienda commerciale.
Si considerano tre conti di rimanenze: le materie prime, semilavorati e prodotti finiti.
A partire dai materiali diretti (MD) acquistati dall’azienda presso fornitori, essi corrispondono alle
giacenze iniziali inserite nel primo magazzino, quello delle materie prime; da questo primo
magazzino vengono prelevati i prodotti per produrre semilavorati che, nel corso del ciclo
produttivo, finiscono nel magazzino dei semilavorati. In questa prima fase si considerano i costi di
produzione tra i materiali diretti e i semilavorati; tali costi sono diretti se fanno riferimento a quelli
di acquisto dei materiali diretti e alla manodopera (MOD) E costi indiretti di produzione, cioè
utilizzati per produrre diversi prodotti e devono essere spalmati su di essi (ad esempio, il costo per
lo stabilimento produttivo).
Dal magazzino dei semilavorati si prelevano i prodotti finiti che vanno nel magazzino PF e ad essi si
associano i costi dei beni prodotti, ai quali si aggiungono i costi del venduto quando la merce è
consegnata al cliente.
Applicando l’inventario periodico alle aziende di produzione, si considerano esclusivamente gli
scambi con l’esterno (come le fatture le registrazioni delle stesse) che sono di più facile
determinazione rispetto alle operazioni interne. Come svantaggio, applicando l’inventario
periodico si determina il valore dell’inventario finale con una stima, cioè in modo approssimato.

Costi di prodotto e di periodo


I costi di prodotto sono dati da: costo d’acquisto di materiali diretti (che nello stato patrimoniale si
contabilizzano come rimanenze di materiali diretti), costo della manodopera diretta (che nello
stato patrimoniale si contabilizzano come rimanenze di semilavorati) e costi generali di produzione
(sempre legati nello stato patrimoniale alle rimanenze di semilavorati).
Dopo la vendita delle rimanenze di prodotti finiti, si contabilizza il costo dei beni venduti.
I costi di periodo sono: costi non di produzione correlati ai ricavi (che nel conto economico
corrispondono ai costi commerciali generali amministrativi), costi commerciali non correlati ai
ricavi (che nel conto economico rappresentano i costi commerciali generali amministrativi).
In particolare, i costi di prodotto sono relativi soltanto alle imprese commerciali e le imprese di
produzione, poiché nelle imprese di servizio si suppongono assenti costi di magazzino se l’impresa
si occupa di immobilizzazioni immateriali.
Come identificare il valore delle rimanenze se cambia il costo unitario
L’ipotesi iniziale è:
Rimanenze iniziali +acquisti=costo del venduto+rimanenze finali
I metodi utilizzati per valutare il valore delle rimanenze quando cambia il costo del venduto sono:
1) Metodo identificazione specifica, il quale può essere applicato se si dispone di una
tecnologia capace di differenziare le merci pagate ad un costo unitario piuttosto che un
altro e, di conseguenza, si conosce con esattezza il loro valore e non è necessaria una
stima;
2) Costo medio, applicato quando non si possiede una tecnologia tale da poter applicare il
primo metodo né si conosce il metodo di consegna al cliente delle rimanenze (se a partire
dai prodotti più nuovi o da quelli più vecchi). Se si applica il metodo del costo medio, si
deve aggiornare man mano il costo in base alla merce acquistata;
3) FI.F.O. (first in first out), il metodo basato sull’ipotesi che l’impresa consegni il cliente prima
I prodotti più vecchi e poi quelli più nuovi. Si tratta di un’ipotesi, quindi il valore della merce
è ottenuto per stima.
4) L.I.F.O. (last in first out), metodo applicato se si ipotizza che la vendita avvenga prima per I
prodotti più nuovi.
LIFO sottostima le rimanenze finali e sovrastima il costo del venduto se è presente inflazione
positiva (crescita dei prezzi di costo unitario) mentre FIFO sovrastima le rimanenze sottostima il
costo del venduto. Con LIFO, sopra stimando il costo del venduto, la differenza tra ricavi e costi che
rappresenta l’utile dell’azienda risulta minore e, quindi, si applica su di esso una quantità minore di
tasse. Dal punto di vista civilistico, nel pubblicare il bilancio di un’azienda che viene quotata in
borsa per azioni, rappresentare un utile molto basso è uno svantaggio poiché gli investitori
potrebbero considerarlo un valore di scarsa prestazione.
In generale, per il principio di continuità, una volta scelto il metodo con il quale valutare le
rimanenze quando varia il costo unitario, questo metodo deve essere utilizzato anche nel tempo,
per favorire futuri confronti tra i rendiconti all’anno corrente della stessa azienda rispetto i
rendiconti degli anni passati oppure effettuando il confronto fra diverse aziende. Se risulta
necessario cambiare il metodo, si specifica nella nota integrativa.
In particolare, si sceglie il valore minimo tra il costo e il valore di mercato e la restante parte
registrata come minusvalenza, se c’è svalutazione di scorte.
Parametri per valutare le rimanenze
CdV
1) rotazione delle rimanenze=
rimanenze finali
È il parametro utile a calcolare ogni quanto viene effettuato il rinnovo del magazzino. Ad esempio,
se la rotazione delle rimanenze pari a quattro, significa che le rimanenze subiscono ricambio
quattro volte all’anno, cioè ogni tre mesi.
Si tratta di un parametro calcolato come il rapporto tra una valori di flusso, cioè il costo del
venduto, e le rimanenze finali, cioè valori in stock; per essere precisi, si dovrebbe calcolare la
media tra le rimanenze iniziali e finali per effettuare un rapporto tra grandezze entrambi di flusso.
rimanenze
livello delle rimanenze=
2) CdV
365 ¿
¿
Indica per quanti giorni si può produrre con le rimanenze a disposizione senza comprare altra
merce.
ricavi−CdV
3) margine % lordo=
ricavi
Rappresenta i ricavi e all’aumentare di questo parametro in percentuale, diminuisce il peso del
costo del venduto rispetto ai ricavi.

Tipologie di immobilizzazioni
Si deve determinare quando un’attività diventa una risorsa per l’azienda, così da contabilizzare nel
conto economico. I benefici dovuti all’acquisto di una attività (come, ad esempio, un macchinario o
attrezzatura per produrre) si possono verificare nel periodo, contabilizzandoli come costi di
competenza, in periodi futuri, determinando in proporzione all’utilizzo della risorsa la sua stima di
costo, attraverso l’operazione di ammortamento; una generica risorsa che deve essere
ammortizzata è detta “capitalizzata”.
Il processo di correlazione di ricavi e costi delle immobilizzazioni è detto, quindi, ammortamento,
del quale si deve determinare la quota in base alla vita residua della risorsa e al valore residuo.
Al momento dell’acquisto di una risorsa, ci si deve chiedere se è una immobilizzazione da
capitalizzare (cioè il suo utilizzo deve essere contabilizzato in un periodo di tempo più lungo della
redazione dell’esercizio corrente e, quindi, su di essa deve essere applicato il principio
dell’ammortamento) oppure di una risorsa contabilizzata nel periodo, attraverso un costo di
competenza che riduce le riserve di utili.
Le immobilizzazioni si distinguono in materiali o immateriali. Le risorse immobilizzate e
immateriali sono i terreni (i quali non subiscono ammortamento qui che si ipotizza che abbiano
vita infinita e, quindi, la quota di ammortamento risulterebbe infinitesima nel periodo di esercizio
considerato), i fabbricati, gli impianti e i macchinari e le risorse naturali (come, ad esempio, una
miniera) che subiscono ammortamento. Le immobilizzazioni immateriali sono l’avviamento,
immobilizzazioni con vita utile finita o costi di ricerca e sviluppo, tutti i soggetti ad ammortamento,
a differenza delle immobilizzazioni intangibili con vita utile infinita.

Immobilizzazioni materiali
Le immobilizzazioni immateriali legate ad un costo di competenza, quindi nel periodo, sono i beni
a utilità pluriennale di basso costo (in genere inferiori al vecchio milione di lire, per legge) e i costi
di manutenzione ordinaria. I costi per manutenzione straordinaria, invece, sono capitalizzati;
inoltre, in base alla definizione di “unità di attività” si contabilizzano diversamente le risorse.
In genere, ogni immobilizzazione caratterizzata da una vita utile, un costo storico ed un valore
residuo; la sua vita utile è determinata da due fattori, deterioramento (vita fisica) o obsolescenza
(vita economica) e si considera il valore minore tra le due per definire la vita utile.

Ammortamento
Per definizione, l’ammortamento si definisce come il rapporto tra la differenza del costo storico e
il valore residuo (spesso trascurato) e la vita utile assegnata all’immobile.
N.B. si tratta di stima, non valori deterministici.
Per determinare l’ammortamento non si può procedere con osservazione diretta del consumo
fisico poiché sarebbe necessaria una perizia per ogni bene posseduto dall’azienda, effettuata anno
per anno; non è possibile neanche far coincidere l’ammortamento con il valore di mercato poiché
ciò non è rilevante per la determinazione dell’usura del bene come risorsa.
I metodi per calcolare l’ammortamento sono:
1) Ammortamento lineare a quote costanti;
2) Ammortamento accelerato a quote decrescenti;
3) Ammortamento in base alle unità prodotte.
Ad esempio, ipotizzando il costo storico di un macchinario pari a 20.000 € e una vita utile di 5 anni,
se l’ammortamento applicato è lineare, quindi a quote costanti, si considera una quota pari a 4000
€/l’anno. Con l’applicazione di un ammortamento lineare, dal primo al quinto anno di vita del
macchinario, decresce il suo valore non ammortizzato fino a zero mentre le quote di
ammortamento si mantengono costanti a 4000 €.
Quando si registra la quota di ammortamento nel CE come costo, si apre una posta rettificata
dell’attivo (quindi segno opposto), detta fondo ammortamento in cui si registra la diminuzione del
valore dell’attività senza sottrarlo direttamente al conto immobilizzazioni tecniche; ciò si fa per
mantenere traccia del costo storico del bene affinché negli anni successivi in cui verrà redatto il
rendiconto, si possa applicare sullo stesso valore iniziale la nuova quota di ammortamento. Per
questo motivo, il conto “immobilizzazioni tecniche” è detto un conto lordo, cioè al lordo
dell’ammortamento. Il valore di immobilizzazione netta è pari a 20.000 – 4.000 = 16.000 €.
Con l’ammortamento accelerato le quote sono decrescenti: si considerano al massimo due quote
da distribuire sul totale di anni di vita utile dell’immobilizzazione e la prima, applicata sui primi
anni di vita utile è sempre maggiore della seconda, applicata sugli ultimi anni. Si applica questa
procedura si si ipotizza che l’utilità del bene non sia costante nel suo utilizzo poiché magari il
macchinario viene utilizzato nei primi anni per effettuare lavorazioni ad alto valore aggiunto e nei
successivi per operazioni ordinarie.
L’ammortamento in base alle unità prodotte si calcola in base ad un parametro caratteristico del
bene, come ad esempio il numero di chilometri percorsi da un mezzo di trasporto. In questo caso,
non è il tempo il parametro per valutare l’usura del bene ma i chilometri e l’ammortamento è
calcolato in €/km.

N.B: La scelta del metodo di ammortamento può essere effettuata per trarre vantaggio per fini
fiscali o civilistici. Ai fini fiscali, si sceglie un metodo che garantisca il maggior sgravio nei primi
anni, cioè la maggior quantità di ritorno dal fisco.
Dal punto di vista civilistico, si dovrebbe scegliere il metodo che meglio rappresenta l’utilizzo del
bene ma in realtà si sceglie un unico che viene applicato per tutti tipi di risorsa.
Dismissione delle immobilizzazioni
Quando si vende un bene in mobilizzato, si deve tener conto del suo valore residuo per la
valutazione e la determinazione del suo valore di vendita:
Ipotizzando un’immobilizzazione dal valore di 10.000 € è un fondo ammortamento da 7000 €,
suppongo di vendere il bene a 5000 €; il valore effettivo che l’azienda associa all’immobilizzazione
è pari alla differenza tra il costo storico e il fondo ammortamento, quindi pari a 3000 € ma la
vendita avviene per un costo di 5000 €, quindi maggiore del suo valore effettivo. Per
ridimensionare il bilancio, si apre un conto nel CE detto “plusvalenza da alienazione
immobilizzazioni” in cui si registra, così come si fa per i ricavi, in avere i 2000 € di differenza tra il
valore di vendita e quello effettivo (esempio su appunti).
In particolare, nel conto economico si registrano le minusvalenze plusvalenze in corrispondenza
della gestione caratteristica se l’ammortamento riguarda elementi utilizzati per la produzione (cioè
per l’attività primaria svolta dall’azienda), in “gestione accessoria” se si tratta di ammortamento di
beni utilizzati per fini secondari (Ad esempio, se l’azienda possiede un capannone per la
produzione molto grande decide di affittarne una parte, l’ammortamento si registra in gestione
accessoria per la parte relativa al subaffitto e, se dovesse vendere quella parte, se ci fosse
plusvalenza la registrerebbe sempre in gestione accessoria).
N.B. se l’azienda decidesse di vendere un capannone dove al 50% si produce e nell’altro 50% si
subaffitta, le plusvalenze o minusvalenze si registrano al 50% nella gestione caratteristica e al 50%
in quella accessoria.
Si registrano, infine, in “gestione straordinaria” se si tratta di minusvalenza dovuta a eventi fuori
dall’ordinario come furti o incendi di immobilizzazioni.

Svalutazioni e ripristini
Il valore di una immobilizzazione può essere svalutato se il valore più alto fra il valore economico e
il prezzo di vendita netto è più basso del valore contabile netto. L’ammortamento, di conseguenza,
si adegua nuovo valore contabile netto, senza cambiare la vita utile.
(esempio su appunti)
Se i motivi della svalutazione venissero meno, allora il bene deve essere ripristinato. Si tratta di un
ripristino (e non di rivalutazione) perché l’operazione può essere compiuta solo in presenza di
una precedente svalutazione e l’aumento non può determinare un valore superiore a quello
precedente la svalutazione.
(esempio su appunti)

Fair value e rivalutazioni


Per applicare il principio del fair value, si deve determinare il valore corrente dell’immobilizzazione
e si effettua una rivalutazione del bene. Si applica quando il valore di mercato è maggiore del
valore residuo del bene e si apre un conto il capitale netto detto “riserva rivalutazioni immobiliari”
e non in plusvalenza poiché il bene non è stato venduto effettivamente.
Per il principio del costo non si dovrebbe cambiare nulla, si sostituisce a questo principio quello del
fair value E per il principio di prudenza non si può registrare la plusvalenza, perciò si apre il conto
del capitale netto.
(esempio su appunti)
Avviamento
L’avviamento è il valore attribuito all’azienda quando essa viene acquistata da un’altra impresa e
corrisponde al valore contenuto nelle immobilizzazioni in materiali come il marchio o la
prospettiva di crescita. Per calcolare l’avviamento si effettua la differenza tra il prezzo di acquisto
di un’impresa e il fair value netto, cioè al netto tra attività e passività, sottraendo il capitale netto
che viene distribuito tra i soci dell’azienda che viene acquistata.
L’avviamento rappresenta il valore che si attribuisce a qualcosa di immateriale che l’azienda
acquistata possiede, quindi viene contabilizzato nelle attività.

Indici per l’analisi delle attività non monetarie


fondo ammortamento
1) Età media immobilizzazioni ammortizzabili=
quota annuale di amm
Rappresenta l’età dell’attività, cioè da quanto tempo la si possiede.
costo storico−valore residuo
2) numero complessivo di anni di amm=
quota annuale diamm
Ed indica qual è la vita delle immobilizzazioni.
3) spesaannuale per attività immateriali=∆ valore attività nello SP+quota amm
Si ricorda che:
- VF=VI + acquisti – quota amm
- Acquisti=(VF – VI )+quota amm
Dove VI e VF sono il valore iniziale e finale dell’attività calcolate a inizio e fine periodo.
Passività
Per definizione, la passività dello stato patrimoniale è un obbligo a pagare somme di denaro
oppure rendere disponibili beni o erogare servizi. Eccezioni a questa definizione sono i fondi rischi
per garanzia (costi futuri probabili con ragionevole precisione) e gli obblighi che non sono passività
come contratti non ancora eseguiti.
Le passività si dividono in correnti e debiti a lungo termine. Le passività correnti si suddividono in
passività operative e debiti di finanziamento a breve termine:
1) Le passività operative sono debiti e obblighi collegati allo svolgimento della gestione come
i debiti verso fornitori, acconti da clienti o costi sospesi e non presentano un interesse
esplicito, cioè non è esplicitato nel contratto l’interesse e, al limite, prevedono un interesse
implicito quando, allo scadere del tempo previsto per il pagamento, L’impresa riconosce il
ritardo con un surplus.
2) I debiti di finanziamento a breve termine possiedono un interesse esplicito come i pronti
contro termine, con il quale il soggetto cede titoli a chi li acquista con la promessa
contrattuale di riacquistare in breve scadenza (ciò accade principalmente quelle grandi
aziende) e, anche se dovessero calare i valori dei titoli, per contratto verso terzi verrebbero
ripagati con lo stesso valore iniziale non in base alla loro redditività.
Le passività a lungo termine possono essere (come fonti di finanziamento):
1) Mutui, che prevedono rate di importo costante nelle quali sono comprensivi gli interessi. In
particolare, gli interessi (oneri finanziari) diminuiscono all’aumentare degli anni in cui deve
essere estinto il mutuo mentre la restituzione di debito aumenta, a parità di rata. Volendo
estinguere, quindi, il mutuo dopo la metà degli anni previsti, si deve restituire più del 50%
poiché il mutuo a rata costante prevede che non siano costanti le quote di interesse che
vengono calcolate sulla restituzione di debito residuo anno per anno e, nei primi anni, sono
al massimo le quote di interesse e al minimo quelle di restituzione del debito.
Nel caso di mutui con ipoteca, si applica un’ipoteca sull’immobile acquistato così che, se
non dovessero essere pagate le rate del mutuo, i terzi verso i quali si è acceso il mutuo
possono pignorare l’immobile e riavere indietro il rimborso del debito.
2) Obbligazioni, ottenute quando il soggetto che la emette vende la promessa di restituire il
denaro entro una data prefissata e aggiungendo una cedola, cioè un rendimento
prestabilito e costante che può essere pagato semestralmente o una volta all’anno.
L’obbligazione è venduta all’asta, quindi viene venduta al soggetto disposto a pagare il
prezzo massimo per l’acquisto dell’obbligazione. Nel mercato obbligazionario e, il prezzo
d’acquisto dell’obbligazione può essere superiore o inferiore alla somma di denaro da
restituire che viene promessa con l’emissione dell’obbligazione stessa. Se, ad esempio, il
valore nominale dell’obbligazione è pari a 1000 € e il prezzo di vendita è inferiore e pari a
980 €, vuol dire che l’acquirente, al termine dello scadere dell’obbligazione, riceverà
indietro i 980 € che avrà pagato e anche 20 € per il totale della somma del valore nominale
di 1000 €.
Ciò che spinge l’acquirente a pagare più o meno del valore nominale dell’obbligazione è la
fiducia nei confronti del venditore: si pagherà meno del valore nominale se si suppone che
l’obbligazione sia rischiosa. All’aumentare del prezzo di vendita dell’obbligazione,
diminuisce il rendimento del finanziamento e vale il viceversa. L’azienda che mette
l’obbligazione mira a venderla al prezzo massimo mentre l’acquirente ad acquistarlo al
prezzo minimo così da aumentare l’interesse su di essa.
Ad esempio, se il valore nominale dell’obbligazione è 1000 € e l’acquirente la acquista a
1000 € con 50 € di cedola annuale, il rendimento del finanziamento è pari al 5%. Se il valore
nominale è 1000 € e il prezzo di acquisto e 950 con cedola annuale di 50 €, il rendimento
del finanziamento è il rapporto tra 50/950, pari a 5,26%.
Se il valore nominale 1000 € il prezzo di acquisto è 1050 con cedola annuale di 50 €, il
rendimento del finanziamento è il rapporto 50/1050, pari a 4,76%. All’aumentare del
prezzo di acquisto, diminuisce il rendimento se è presente una cedola sull’obbligazione.
È possibile anche emettere un’obbligazione senza cedola (una tipologia di obbligazione a
cedola zero sono i BOT di Stato) ed essi, all’asta sul mercato azionare, verranno pagati
meno del valore nominale poiché non vi è interesse legato alla cedola ma è solo pari alla
differenza tra il valore nominale il prezzo di acquisto, diviso il prezzo di acquisto; ad
esempio, 1000 € di valore nominale e pagamento di 950 € con cedola zero, dopo un anno
l’acquirente avrà indietro 950 + 50 € in totale e l’interesse sarà dato da (1000 – 950)/950 =
5,26%.
Durante il periodo in cui l’impresa definisce il tasso di interesse della cedola e quello di
emissione sul mercato obbligazionario potrebbe cambiare il rendimento di mercato: se il
rendimento di mercato è maggiore del rendimento della cedola, allora l’obbligazione viene
messa con uno sconto di prezzo, viceversa con un premio di prezzo. Ad esempio, se il
valore nominale è 1000 € e la cedola è al 10%, il rendimento sul mercato pari a 12%
(corrisponde al rischio), il prezzo che l’investitore disposto a pagare pari a 833,33 €, cioè il
rapporto tra cedola di 100 € (10% di 1000) e 0,12; in questo caso, lo sconto di prezzo è di
1000 – 833,33 = 167,67. Se il rendimento di mercato fosse al 9%, il prezzo sarebbe di 1111
€, cioè il rapporto tra la cedola di 100 € e 0,09; il premio di prezzo è di 1111 – 1000 = 111.
3) Leasing, si divide in operativo e finanziario e si differenziano perché il leasing operativo ha
una durata molto breve rispetto alla vita del bene (ad esempio i costi di noleggio di
un’auto) mentre il leasing finanziario è una locazione durata prossima alla stima di vita del
bene, quindi si può considerare quasi appartenente all’acquirente del leasing. Il metodo
con il quale si contabilizza, in Italia, è quello patrimoniale, mentre nei paesi anglosassoni
con il metodo finanziario. Con il metodo patrimoniale, supponendo un leasing di 20.000 €
e pagamento annuale di 5000 €, a fine anno si contabilizza in cassa l’uscita di 5000 € e
l’aumento di costo di leasing nel conto economico di 5000 €; con questo metodo, non si
contabilizzano debiti nelle passività.

Capitale netto
A partire dal capitale versato per le S.p.A., si analizzano le diverse tipologie di azioni:
1) Azioni di risparmio, non hanno diritto di voto e godono di privilegi come un dividendo
minimo;
2) Azioni privilegiate, possiedono diritto di voto nelle assemblee straordinarie e privilegio di
prelevar Sioni degli utili fino a una certa percentuale del valore nominale;
3) Azioni ordinarie, concedono diritto al voto nelle assemblee ordinarie e straordinarie e
diritto residuale sulle attività.
Il capitale netto, visto come ammontare direttamente investito dagli azionisti, si divide in capitale
sociale (valore nominale per le azioni in circolazione) e riserva da sovrapprezzo delle azioni: ad
esempio, se si emettono 1000 azioni al valore di 10 € è un prezzo di 100, la cassa aumenta di
10.000 € (il prodotto tra il prezzo della singola azione per il numero totale), il capitale sociale
aumenta di 10.000 € (il prodotto tra il numero di azioni vendute per il valore nominale) E la riserva
da sovrapprezzo azioni aumenta di 90.000 (differenza tra 100.000 e 10.000).
Altre tipologie di azioni sono le azioni proprie: sono azioni acquistate dall’azienda che limite, si
tratta di una riduzione dei diritti vantati dalla proprietà sulle attività, quindi corrispondono ad una
posta rettificata del passivo. La differenza tra le azioni emesse e quelle proprie è il capitale in
circolazione.
Le azioni proprie sono spesso acquistate come incentivo per i manager (stock options), cioè viene
dato al manager un’opzione di acquisto di un’azione tra un certo numero di anni ad un prezzo
fissato oggi. Ad esempio, si fissano 100.000 azioni acquistabili tra 3 anni ad un prezzo di 10 €: si
cerca di allineare gli obiettivi del manager con gli obbiettivi dei proprietari dell’impresa, cioè
aumento del valore delle azioni dell’impresa. Supponendo che il valore nominale dell’azione sia
oggi 8 € e che si stimi che nei prossimi 3 anni possa crescere del 5% all’anno, allora l’azione tra 3
anni varrà ( 8∗( 1 , 05 )3 ) =9,261 €, allora al manager si dà l’occasione di acquietarle a 10 € così da
incentivarlo a lavorare per far aumentare il valore nominale delle azioni. Più riesce a far
aumentare questo valore, più gli converrà esercitare questa opzione di acquisto. A fronte di
1.000.000 € che il manager pagherebbe tra 3 anni acquistando l’azione, potrebbe rivenderle al
valore nominale ormai raggiunto (ad esempio, 12 €) così da guadagnarci 200.000 €. Per poter
applicare una stock options, si devono possedere le azioni oggi e le si acquista al prezzo di 8 €.
Se qualcuno vuole acquistare le quote d’azione, deve fare una OPA, cioè una offerta pubblica di
acquisto, dichiarando che sta comprando le azioni per diventarne il proprietario dell’azienda; per
resistere a questa “scalata ostile”, l’azienda acquista azioni proprie.
Per contabilizzare le azioni proprie, si suppone di avere 10.000 azioni al valore di 1 € e una certa
riserva di sovrapprezzo azioni di 3.000 €. Se l’azienda decide di acquistare 100 azioni proprie, le
deve pagare al prezzo di mercato che potrebbe essere di 2 €, allora in cassa si registra in avere 200
€, 100 vengono registrati in conto “azioni proprie” che è una posta rettificativa del passivo
(quindi segno meno, in dare) e gli altri 100 vanno in dare in riserva sovrapprezzo azioni (100 azioni
* 1 € di valore nominale); ora, la differenza nella riserva di sovrapprezzo è il capitale in
circolazione.

Dividendi
L’azienda può distribuire i dividendi sia in contanti sia in azioni. All’azienda conviene distribuirle in
azioni così da aumentare il capitale sociale che è una garanzia per gli investitori esterni.
Se li si distribuisce in contanti, si registra una uscita di cassa e diminuzione di riserve di utili; se
sottoforma di azioni, aumenta il capitale sociale e diminuiscono le riserve di utili.
Nella riserva legale, per legge, c’è l’obbligo di accantonare 1/20 degli utili fino al 20% del capitale
sociale, quindi con un utile, il 5% si registra in riserva legale e il restante 95% in riserve di utili.
Struttura del capitale
Una società può farsi finanziare da soggetti terzi con mutui o obbligazioni o da soci con azioni. Con
finanziamenti da parti terze, come banche o mercato, ogni anno si pagano gli interessi; se dai soci,
non ci sono obblighi. Confrontano il finanziamento da parte terza o da soci, il primo è molto più
rischioso ma se aumenta il rischio l’azienda deve pagare meno il capitale di prestito (gli interessi)
rispetto al capitale di rischio (i dividendi); allora, si deve cercare di mantenere un’alta redditività
del capitale di rischio, altrimenti quando aumenta il capitale, nessuno lo acquisterà poiché
comprerebbero obbligazioni. Il capitale di prestito è la fonte di finanziamento più rischiosa per
l’azienda, quella di rischio è la più rischiosa per l’investitore, il che significa che quello meno
gravoso (meno costoso e riducibile dalle tasse) è il capitale di prestito mentre quello di rischio
deve essere quello più rischioso altrimenti nessuno lo acquista.
Supponendo di avere un totale di passività e capitale netto di 7.000 €, essi sono divisi in:

Con questi dati si possono definire degli indici:


N.B. l’acronimo “RAI” è Risultato Ante Imposte ed “EBIT” è Earning Before Interest and Tax.
Un altro indice è l’utile per azione che misura la performance dell’azione in un determinato
periodo, calcolato come l’utile netto diviso il numero delle azioni ordinarie in circolazione.

Bilancio civilistico
Così come pubblicati, i bilanci devono far riferimento al Codice civile. Nello stato patrimoniale, le
voci dell’attivo sono ben codificate e secondo quattro livelli:
- Per lettera maiuscola (primo livello)
- Per numeri romani
- Per i numeri arabi
- Per lettere minuscole
I primi due livelli (in grassetto) sono obbligatori e devono sempre esserci, analogamente nel
passivo e capitale netto.
Lo stato patrimoniale e, in particolare, attivo e passivo, non è già classificato per esigibilità e
liquidità poiché la classificazione avviene in base all’origine, ad esempio, una volta scelta la
categoria per un asset (titolo), essa non viene cambiata. Nel bilancio civilistico, l’origine resta la
stessa fino alla conclusione di vita dell’asset; dunque, è necessario riclassificare in base a liquidità
ed esigibilità.
N.B. Il capitale circolante, per come è stato definito, è la differenza tra attivo corrente e il passivo
corrente, da non confondere con attivo circolante.
Dalla classificazione del bilancio civilistico, non è possibile calcolare gli indici per liquidità poiché
non seguono la riclassificazione classica.
Nel conto economico, la classificazione avviene con:
- Per lettera maiuscola (primo livello)
- Per numero arabo (secondo)
- Per lettera minuscola (terzo)
Non è classificato a coto del venduto che non è esplicitato, infatti non è scritto il margine lordo
industriale, vi sono solo il valore e costi della produzione (in cui si inseriscono sia i ricavi da
proventi che accessori). Per utilizzare la classificazione a costo del venduto, si deve riclassificare.
Esempio
Nel redigere il CE a costo del venduto (classificazione classica), nel 2017 ai ricavi delle vendite (30 *
100) si sottraggono i costi del venduto (30 * 20) e si ottiene 2.400 €; nel 2018 analogamente. La
percentuale di margine lordo è di 80% poiché i ricavi corrispondono al 100% e, rispetto ad essi, si
calcola la percentuale di 20%, cioè rapporto di (600/3000) * 100.
Nel bilancio civilistico, ai ricavi delle vendite si aggiunge la variazione delle rimanenze, ad esso si
sottrae il costo della produzione (40 * 20) e si ottiene lo stesso 2.400 €.
Le percentuali, in questo caso, diventano il 75% nel 2017 e 60% nel 2018 e sembrerebbe che si sia
persa efficienza di vendita: ciò è dovuto alla minore vendita e aumento di scorte e le percentuali
sono diverse poiché sono calcolate rispetto al valore della produzione e non del venduto.

Rendiconto di flussi di cassa


Insieme allo stato patrimoniale (che si occupa dell’equilibrio tra attività e passività), al conto
economico (che si occupa dell’aspetto economico) e la nota integrativa, il rendiconto di flussi di
cassa è il quarto rendiconto che va a comporre il bilancio di un’impresa: esso non è obbligatorio
per tutte poiché in parte deducibile dal CE e SP ma poiché per decifrarlo serve una conoscenza
della materia e per le aziende quotate in borsa è necessaria la sua espressione esplicita.
Esso è necessario a spiegare il terzo aspetto dell’azienda: quello finanziario, deducendo i flussi di
cassa come entrate ed esborsi in un certo periodo amministrativo. Per dedurre i flussi, è
necessario utilizzare il principio di cassa a partire da quello per competenza con il quale si redige il
CE e lo SP.
Le operazioni del bilancio si suddividono in:
1) Gestione corrente: sono quelle che si riferiscono alle attività di acquisto-trasformazione-
vendita. Con “gestione corrente” si intendono le operazioni che attengono all’attivo e
passivo operativo corrente.
2) Gestione degli investimenti e alienazioni: sono quelle di acquisto e vendita di
immobilizzazioni tecniche e di altre attività di lungo termine.
3) Gestione finanziarie: includono l’ottenimento delle fonti di finanziamento (debito di
regolamento e capitale di rischio), nonché il rimborso di debiti di regolamento e il
pagamento di dividendi.

Metodo diretto
Con il metodo diretto si registrano le entrate e le uscite di tutto l’estratto conto raggruppate per
macro categorie: è di facile comprensione per coloro che possiedono poche conoscenze in ambito
amministrativo ma è poco utile al manager poiché non si deducono i flussi di cassa e i loro legami
con elementi di natura patrimoniale o economica; infatti, la differenza tra gli estratti conto di due
anni successivi non fornisce informazioni su cosa ha generato aumenti o diminuzioni di cassa
poiché non sono correlate a voci di conto economico e stato patrimoniale.
N.B. Non sempre l’aumento di cassa o la diminuzione di essa corrispondono ad un effetto sempre
positivo o sempre negativo: ad esempio, se l’azienda in un anno effettua numerosi investimenti, le
uscite di cassa aumenteranno ma ciò comporta un effetto positivo sulla vita futura dell’azienda.
Si potrebbe anche effettuare un confronto riga per riga tra i rendiconti di due anni successivi e,
confrontando le varie voci di stessa natura, ne risulterebbe un confronto più efficace ma
comunque non fornisce informazioni su come sono cambiate queste voci (ad esempio, se la cassa
aumenta di 300 € tra due anni, allo stesso modo potrebbero essere cresciuti i crediti verso i clienti
e non corrisponde ad un effetto positivo).

Metodo indiretto
Il metodo indiretto deduce la variazione di cassa ricorrendo a concetti economici e finanziari,
utilizzando il linguaggio della gestione.
A partire dall’utile ricavato dal conto economico, si devono effettuare delle rettifiche per
trasformare il metodo di competenza utilizzato per la sua redazione in una contabilizzazione per
cassa.
Per rettificare il reddito calcolato attraverso la competenza economica del periodo in competenza
di cassa si aggiungono ammortamenti e quote di fondo svalutazione poiché rappresentano costi
non finanziari che vengono contabilizzati nel conto economico ma che non corrispondono ad
un’uscita di cassa nel periodo. A partire dall’utile, quindi, si sommano l’ammortamento dedotto
dal conto economico e le quote ai fondi di svalutazione.
N.B. Per rettificare il rendiconto è necessario conoscere il CE dell’anno corrente e lo stato
patrimoniale dell’anno precedente e dell’attuale.
Un’altra rettifica si effettua per le variazioni del capitale circolante operativo netto, cioè la
differenza tra le attività operative e le passività operative correnti, cioè tutte quelle voci dello stato
patrimoniale che servono a gestire la normale operatività dell’azienda, ad esempio, i crediti
commerciali, i debiti verso i clienti e si escludono da questi i debiti di breve periodo.
Quando si va a sommare la quota di ammortamento all’utile per rettificare i flussi di cassa, non si
deve considerare questa aggiunta come un fattore positivo poiché è esclusivamente un fattore
tecnico che non è indicativo della bravura dell’azienda.
Rettifiche nel metodo indiretto
La regola generale per le rettifiche dei rendiconti di flussi di cassa: le variazioni di attività si
registrano con il segno – (si registrano al segno opposto), le variazioni di passività con il + (cioè non
cambiano segno).
Dunque, le possibili operazioni di rettifica per gestione corrente (capitale circolante) sono:
1) Variazione di crediti commerciali quando tutti i ricavi sono a credito, si sottrae poiché è una
differenza tra voci dell’attivo (ad esempio, se la differenza è -3, si registra +3 al rendiconto
e se la differenza è +3, si registra -3);
2) Variazione di crediti commerciali quando parte dei ricavi sono di cassa e altri a credito, dal
ricavo si sottrae di nuovo la differenza tra crediti finali e iniziali;
3) Variazione di rimanenze, si sottrae poiché è una differenza dell’attivo;
4) Variazione debito verso fornitori, si somma poiché è una differenza di passivo (se, ad
esempio, la variazione di debiti è pari a -3, resta -3 e viceversa, cioè mantiene il segno);
5) Variazione del TFR, si somma poiché passività.

Le possibili operazioni di rettifica per gestione degli investimenti sono:


1) Variazione di acquisto, si sottrae poiché è una differenza dell’attivo
2) Alienazione dall’azienda di un immobile, quindi cessione, si sottrae poiché attivo.
N.B. dal CE si somma al reddito (utile) l’ammortamento. Se la differenza di quota di
ammortamento nello SP è diversa dall’ammortamento già sommato, se ne tiene conto; viceversa,
quando la variazione di quote di ammortamento coincide con l’ammortamento stesso già
sommato, non si fa nessuna rettifica.

Le possibili operazioni di rettifica per gestione finanziaria sono:


1) Variazione di debito (sia accendendone uno nuovo, sia pagandone), corrisponde a
variazione di cassa;
2) Distruzione di dividendi: poiché nelle riserve di utili è già contemplato il risultato netto del
CE, se la differenza di riserve di utili coincide con l’utile del CE dell’anno corrente, allora i
dividendi non sono stati distribuiti, questo perché dividendi=utile−∆ RU
Se presenti, i dividendi si sottraggono al reddito poiché rappresentano un’uscita di cassa.

Equazione fondamentale per la regolazione del metodo indiretto


La variazione di cassa è data da:
∆ cassa=¿
utile +∆ fondo amm+∆ debiti vs terzi+ ∆ debiti finanziamenti+ ∆ capitale sociale−∆ attività correnti−∆ attività imm

Esempio rendiconto di flussi di cassa


Indici di analisi del rendiconto di flussi di cassa
flusso di cassa gestione corrente
1) indice di liquidità del reddito=
risultato netto

flusso di cassa gestione corrrente


2) indice di liquidità del debito=
debiti finanziari

Analisi di bilancio
Effettuato il bilancio di un’azienda, a partire da esso si deduce il valore dell’impresa sul mercato,
tenendo conto di un’analisi che vada a correggere le stime e le approssimazioni con le quali è stato
redatto (ad esempio, per il fondo ammortamento e le rimanenze). Il valore di mercato di
un’impresa è collegato all’utile ma non riflette le aspettative sulle performance future della stessa:
non si può, in base solo i dati di bilancio che tengono conto di fonti passate, dedurre direttamente
il valore di mercato; di conseguenza, si necessita di indicatori per l’analisi.
Esistono diverse tipologie di indicatori e sono utilizzati per osservare il soddisfacimento degli
obiettivi da parte dell’azienda e applicati gerarchicamente a partire da aspetti macroscopici fino a
quelli microscopici, si classificano in quattro gruppi: indicatori di performance globale, di
profittabilità, di efficienza e finanziari.
Il confronto applicabile ad un’impresa può essere di due tipologie: confronto longitudinale (di
trend o di andamento) con il quale è possibile confrontare periodi diversi della stessa azienda,
sviluppando un’analisi autoreferenziale; confronto trasversale, con il quale si osserva lo stesso
periodo di tempo e per più aziende diverse, così da confrontare quella principale con una di
riferimento dello stesso ambito di mercato.

Indicatori di performance globale


Tutti gli indicatori dati dal rapporto tra voce di reddito (come il risultato netto, risultato operativo
eccetera) e investimenti (capitale netto, totale attività, capitale investito) sono detti indicatori
Return On Investment (ROI). Questa tipologia di indicatori rappresenta una famiglia di indici, tra i
quali si ricorda:
risultato operativo
ROI=RONA=ROCE=
capitaleinvestito
Dove “capitale investito” è la somma del capitale netto e i debiti finanziari, cioè i debiti ad
interesse esplicito come verso le banche o terzi (non verso i fornitori). Il capitale investito coincide
con le attività nette, cioè alla differenza tra il totale delle attività e i debiti di regolamento, cioè i
debiti ad interesse implicito (TFR, debiti verso fornitori).
Questo indice non dipende dalle parti terze che forniscono i soldi all’azienda poiché la percentuale
che esso esprime è sempre la stessa.
Un altro indicatore che consente di misurare il ritorno di tutte le fonti finanziarie a prescindere
dalla loro composizione è il Return On Assets (ROA), cioè l’indice che esprime le redditività di tutte
le attività aziendali ed esprime quanto bene le attività siano state utilizzate, cioè il loro
rendimento.
risultato operativo
ROA=
totale attività
Il ROE è il Return On Equity, cioè l’indice che misura il ritorno dell’investimento delle proprietà sia
con l’apporto di capitale sia con le riserve di utili poiché si considera il capitale netto.
redditonetto
ROE=
capitale netto
Il ROD è Return On Debit, cioè l’indice che misura l’onerosità dei debiti finanziari. E dato, al
numeratore, dagli oneri finanziari pagati nel periodo (cioè debito moltiplicato per tasso di
interesse, tenendo conto della frazione di utilizzo del debito) e al denominatore della somma
pesata dei debiti; il risultato coincide con la percentuale di tasso di interesse:
oneri finanziari
ROD=
debiti finanziari

Relazioni tra indicatori di performance


A partire dalla definizione di ROE, cioè rapporto tra reddito netto e capitale netto, si effettua una
scomposizione in:
ROI∗C i
∗Rn
Cn
ROE=
Ro
Ci Rn
Dove è il rapporto di indebitamento (rapporto tra capitale investito e capitale netto) e è
Cn Ro
l’indice della gestione non caratteristica (rapporto tra risultato netto e risultato operativo).

Equazione di Modigliani-Miller
L’equazione che lega tutti gli indicatori tra loro e la loro dipendenza dalla leva finanziaria è:

(
ROE= ROI +
( ROI−ROD )∗CT
CN ) (1−TF)

Dove CT è il capitale terzo e CN capitale netto; TF è la aliquota di tasse da pagare.


Questa equazione esplica la relazione tra la redditività e il rischio: il debito verso terzi costa meno
del capitale netto, quindi indebitarsi produce un effetto positivo per gli azionisti ma aumenta
anche il rischio di aumento di tassi di interesse negli anni. L’indebitamento tramite debito verso
terzi corrisponde alla leva finanziaria, la quale, nell’equazione, è espressa dalla differenza tra ROI e
ROD. Poiché per gli investitori è più comodo investire nel debito piuttosto che nelle azioni
dell’azienda poiché sono più rischiose, lo scopo dell’azienda è rendere più attrattivo l’acquisto di
azioni, aumentando la differenza tra ROI e ROD; infatti, all’aumentare di questa differenza,
aumenta il ROE che rappresenta la redditività delle azioni. Per far aumentare l’acquisto di azioni,
deve aumentare il capitale terzo, utilizzando l’effetto leva per incrementare la parentesi.
Se, quindi, nell’analisi di bilancio, il ROE < ROI o di poco superiore, si deve aumentare attraverso
l’effetto leva.

A parità di capitale netto, imposte sul reddito e interessi sul debito finanziario, al risultato
operativo si sottraggono gli oneri finanziari così da ottenere il reddito ante imposte e ad esso si
sottraggono le imposte per ottenere il reddito di esercizio: se un’impresa non possiede debito
finanziario, il ROE sarà il valore minimo possibile mentre all’aumentare del debito finanziario
aumenta la percentuale, a parità di altri risultati. Se si confrontano i ROE di due anni successivi in
cui un’impresa riduce il risultato operativo rispetto all’anno precedente, si osserva che, sebbene
all’aumentare del debito finanziario aumenti questo indicatore, al ridursi del risultato operativo, si
riduce l’incremento del ROE; questo rappresenta un effetto negativo poiché se aumentano troppo
i debiti, l’azienda non può più trarre vantaggio poiché aumenta il rischio per l’azienda stessa di
richiedere denaro da parti terze poiché aumentano per essa i tassi di interesse.

Un altro indicatore di performance globale è il quoziente prezzo/utili:


prezzo di mercato dell ' azione
P/ E=
utilenetto dell ' azione
All’aumentare di questo indicatore, aumenta la sopravvalutazione dell’azione ma ciò significa, dal
punto di vista del mercato, che si hanno alte aspettative di crescita per l’azienda.

Indici di profittabilità
Poiché ogni voce del conto economico può essere espressa in percentuale rispetto ai ricavi, si può
effettuare un’analisi verticale del rendiconto di un’azienda calcolando: il margine lordo
percentuale, il reddito percentuale prima delle imposte e il reddito percentuale netto.

Indici di efficienza
Sono indici ottenuti in base al turn-over:

Noti gli indici di profittabilità e di efficienza, si può esprimere il ROI in funzione di essi:
reddito
∗ricavi
ricavi
ROI= =marginelordo %∗rotazione CI o CN
investimenti
Ad esempio, Si confrontano due aziende con lo stesso ricavo di periodo: la prima è un’azienda più
piccola per la quale il risultato operativo è minore della seconda poiché sono più alti costi delle
materie prime in quanto l’ordinazione delle stesse è minore e non si riescono ad abbattere
correttamente i costi unitari e anche il capitale investito, per l’azienda più grande, risulta essere
maggiore poiché ci sono più immobilizzazioni. A parità di ricavo, poiché il capitale investito è
minore per l’azienda più piccola, la rotazione del capitale sarà superiore di quella più grande.
In base al risultato operativo, poi, è possibile calcolare il ROI.

L’indice che determina quanto un’azienda utilizza una immobilizzazione materiale è:


ricavi
Rotazione I . M .=
imm mat nette
Quanto più basso è questo valore, tanto di più l’azienda utilizza le immobilizzazioni materiali e
sono dette “capital intensive” (quelle che sfruttano maggiormente le immobilizzazioni immateriali
sono le knowledge intensive).

Per il capitale circolante CC si utilizzano:


ricavi
Rotazione CCN =
attività operative−debiti di regolamento

attività operative−debiti diregolamento


Rotazione CCN %= ∗100
ricavi
Gli indici per i dividendi sono:
Controllo di gestione
Ricordando i principali limiti del bilancio (contabilità generale, indicata con CO.GE) quali la
descrizione di soli effetti monetari, dati passati, stima di diverse voci, si deduce che il rendiconto di
bilancio non corrisponde al valore di mercato dell’azienda; per ampliare le informazioni a
disposizione, si introduce il controllo di gestione. Il controllo di gestione ha il compito di misurare,
controllare e supportare le decisioni nel periodo considerato, in riferimento ai dati esposti dal
bilancio. Il controllo di gestione, detto anche contabilità direzionale, è svolto dal controller, una
figura professionale capace di utilizzare le informazioni economiche per esprimere pareri sulle
scelte future dell’azienda; il controller, inoltre, a un continuo confronto con i manager, tenendo
conto delle condizioni al contorno (ad esempio la predisposizione del manager all’utilizzo di un
linguaggio tecnico).
Il controllo di gestione, dunque, produce informazioni quantitative, sia monetarie che non (ad
esempio, esso prende in considerazione i volumi di prodotto venduti, il numero di dipendenti
assunti dall’azienda, i loro contratti, eccetera) utilizzate dal management per favorire il
raggiungimento degli obiettivi.

Differenze tra CdG e CO.GE


1. Necessità d’uso: il bilancio è obbligatorio per legge, rappresenta un rendiconto asettico che
riporta i dati dell’azienda conseguiti nel periodo, applicando i principi; il controllo di
gestione, invece, è facoltativo e si redige sei benefici che vengono fuori
dall’implementazione di questo sistema sono maggiori dei costi per la sua redazione;
2. Scopo: lo scopo del bilancio è produrre dei rendiconti per soggetti economici esterni, il
controllo di gestione viene utilizzato per raggiungere uno scopo, in particolare prendere
decisioni in base a stime future;
3. Utilizzatori: il bilancio viene utilizzato da molte persone esterne all’azienda, il controllo di
gestione da gruppi ristretti di cui si conoscono le identità poiché interni all’azienda;
4. Struttura sottostante: il bilancio tiene conto del principio del duplice aspetto per cui le
attività coincidono alle passività cui si sommano al capitale netto, il controllo di gestione
non rispetta questo principio ma ha come obiettivo i tre scopi (misurare, controllare e
supportare le decisioni);
5. Fonte dei principi: il bilancio è vincolato al Codice civile ed è legato alla prassi contabile; il
controllo di gestione la valorizzazione delle risorse, ad esempio, non deve rispettare i
principi del bilancio;
6. Prospettiva temporale: il bilancio a una prospettiva storica poiché riporta fatti consunti, il
controllo di gestione utilizza i dati del bilancio per effettuare previsioni future;
7. Contenuto delle informazioni: a differenza del bilancio che riporta soltanto fatti monetari, il
controllo di gestione si occupa anche di misurare e controllare aspetti non monetari legati
alla produzione, quali le unità vendute, la tempestività delle consegne, la quantità di
personale impiegato alla produzione di un singolo prodotto;
8. Precisione delle informazioni: in entrambi sono presenti delle approssimazioni ma esse
sono maggiori nel controllo di gestione;
9. Frequenza del reporting: il bilancio viene obbligatoriamente redatto con frequenza annuale
mentre il controllo di gestione presenta una frequenza molto più elevata, addirittura a
cadenza giornaliera;
10. Tempestività nel reporting: a differenza del bilancio che deve essere pubblicato oltre circa
cinque mesi dalla scadenza, il controllo di gestione deve essere pubblicato entro pochi
giorni poiché riporta dati e stime futuri giornalieri o mensili;
11. Oggetto del reporting: il costo del venduto si basa anche sul singolo prodotto, a differenza
del bilancio che si occupa di tutta l’impresa;
12. Responsabilità potenziali: il controllo di gestione non è legato a nessuna responsabilità, se
non il licenziamento da parte dell’impresa del responsabile alla sua redazione se effettuato
in maniera non conforme alle informazioni ricercate.

Similitudini tra bilancio e controllo di gestione


Note le differenze tra il controllo di gestione e la contabilità generale si osservano anche le
similarità:
1. I criteri generali sono condivisi, al fine di redigere un controllo di gestione utilizzando gli
stessi dati riportati dal bilancio, quindi, anche il CdG segue il principio di competenza e non
per cassa;
2. Poiché ogni informazione legata ad un costo, esse alimentano non solo il bilancio ma anche
il controllo di gestione; i dati riportati dal controllo di gestione sono recuperati dalla
contabilità generale;
3. Scopo comune: entrambi sono utilizzati a fini decisionali; in particolare, nel controllo di
gestione questo obiettivo è esplicitato, a differenza del bilancio dove si utilizzano degli
indicatori per prendere decisioni in merito al futuro dell’azienda.

I tre scopi del controllo di gestione


Il primo scopo del controllo di gestione è la misurazione, tramite la determinazione dei costi pieni,
delle informazioni come il valore delle rimanenze, il costo del prodotto, sebbene risultino di
difficile determinazione poiché sarebbe necessario suddividere i costi anche degli stabilimenti, del
personale, dei salari sui singoli prodotti, quindi, anche nel controllo di gestione, sono necessarie
delle stime. In particolare, attraverso il costo del prodotto si definisce l’utile dell’impresa, quindi e
tanto più necessario il controllo di gestione è tanto quanto più complessa l’azienda: ad esempio,
se l’azienda è produttrice di diverse categorie di prodotti, aumenta le necessità del controllo di
gestione rispetto ad un’azienda produttrice di un unico elemento sul quale tutti i costi verrebbero
suddivisi. Tramite il CdP si individua anche il prezzo normale, cioè la somma tra costo del prodotto
e margine lordo.
Il secondo obiettivo è il controllo: per esso, si determinano le configurazioni di costo per il centro
di responsabilità CdR, il quale, per definizione, è una unità di produzione fittizia o reale che è
sottoposta alla responsabilità di un manager.
Il terzo obiettivo è la scelta tra le alternative, tramite la definizione del costo differenziale,
osservando dunque come cambia il costo al variare delle decisioni prese (se è un costo non cambia
in base alle decisioni, non è oggetto del controllo di gestione).
In generale, nonostante il controllo di gestione sia un sistema molto complesso e costoso,
comporta notevoli approssimazioni e, anche se si riuscisse a dedurre i costi al centesimo, si deve
conoscere il grado di approssimazione. Inoltre, il controller fornisce i dati sottoforma di numeri ma
non prende decisioni, altrimenti potrebbe essere portato ad influenzare le decisioni finali.

Misurazione
Al fine di ricoprire il primo scopo, quello di misurazione, si definiscono i costi pieni: sono costi
legati ad una singola legge di variazione, secondo la quale i costi fissi e variabili possiedono un
andamento lineare poiché, date le tante approssimazioni del controllo di gestione, supporre la
linearità dei costi non introduce una approssimazione troppo elevata.
Questa ipotesi si assume vera in un limitato intervallo di tempo e di output (ad esempio, tramite
l’inflazione cambiano i prezzi e i costi del prodotto, di conseguenza, sebbene l’andamento sia
lineare, non è possibile considerarli sempre costanti se l’intervallo di tempo è troppo elevato).
L’andamento dei costi pieni si può rappresentare tramite una retta passante per l’origine nel piano
(Volumi di prodotto; Costo totale) e vale che:
CT =CVu∗X
Dove X è la quantità di volumi, CVu il costo variabile unitario e rappresenta anche la pendenza
della retta (in questo caso, il costo marginale, cioè quello definito sull’ultima unità di prodotto
venduta, coincide con il CVu).
E anche le provvigioni, calcolate in percentuale rispetto ai ricavi, si considerano costanti e ciò vale
se il prezzo di vendita si mantiene costante.
La X ,quindi, non è solo rappresentata dalle unità prodotte o vendute ma anche dai ricavi, dalle
possibili ore lavorate, dalle ore di funzionamento degli impianti, delle ore di servizio, i chilometri
percorsi, in generale anche da quantità non monetarie.
Il costo fisso, rappresentato da una retta orizzontale, non varia con il volume anche se non è detto
che in un intervallo di tempo più ampio esso si mantenga costante; se l’intervallo di rilevanza, cioè
quello all’interno del quale viene calcolato il costo, è sufficientemente piccolo, vale che:
CT =CFT
I costi totali coincidono con i costi fissi totali se l’intervallo di rilevanza tende a un infinitesimo.
Si evidenziano due tipologie di costi fissi:
1. Costi impegnati, che vengono sostenuti per mettere a disposizione dell’organizzazione
delle capacità produttive, ad esempio i macchinari. Rappresenta un costo fisso poiché viene
sostenuto indipendentemente dalle unità di volume prodotte; volendo, però,
implementare la produzione con altri volumi, sarà necessario acquistare ulteriori
macchinari, aumentando così costi impegnati. Nell’intervallo di rilevanza, che rappresenta
l’intervallo di analisi, se vi sono troppi costi impegnati, in corrispondenza di un evidente
riduzione di ricavi, i costi non variano di molto, anche in assenza di produzione.
In generale, i costi impegnati hanno una frequenza bassa e non possono essere
ridimensionati senza compromettere le prestazioni dell’azienda (ad esempio, se si dovesse
rompere un macchinario, la produzione si arresterebbe).
2. Costi discrezionali, i quali si rinnovano periodicamente, come ad esempio i fondi per le
pubblicità. A discrezione del manager si tiene fisso questo costo ma può essere variato con
frequenze più elevate rispetto ai costi impegnati e rappresenta un costo fisso poiché
indipendentemente dalla produzione, deve essere sostenuto.
A differenza dei costi impegnati, possono essere ridimensionati senza mettere a
repentaglio nel breve periodo la sopravvivenza dell’impresa (ad esempio, nel breve periodo
il cliente non si accorgerebbe dell’assenza di pubblicizzazione se questo costo discrezionale
venisse rimosso, quindi la vendita non verrebbe intaccata).
Oltre ai costi variabili e fissi, esistono anche costi semi variabili, caratterizzati da una componente
fissa ed una variabile, ad esempio l’energia elettrica che è un costo fisso ed uno variabile
proporzionato al kilowattora. Per essi vale che:
CT =CFT +CVu∗X
Con l’aggiunta di un ulteriore costo fisso, aumenta l’intercetta; all’aumentare dei costi variabili,
aumenta la pendenza.
Il costo medio unitario rappresenta il rapporto tra il costo unitario e il volume; se ci sono solo costi
variabili, il costo variabile unitario coincide con quello medio ma se i costi totali sono somma di
costi variabili e fissi, il costo medio unitario è diverso da quello variabile unitario e pari a:
CFT
CTM = +CVu
X

Quindi, all’aumentare dei volumi, si riducono i costi fissi e i costi totali medi, a parità di costi
variabili unitari. Quando si parla di costo medio unitario si deve sempre specificare l’unità di
volume corrispondente e, in generale, è meglio ragionare in termini di costo totale piuttosto che di
costo totale medio per la determinazione del budget.

I diagrammi di costo-volume sono definiti nell’intervallo di rilevanza (che non può essere
compreso tra zero e più infinito poiché variano nel tempo i costi), in un periodo temporale nel
quale si effettua l’analisi e anche il contesto ambientale, cioè qual è l’ambiente all’interno del
quale vale il diagramma.

Talvolta, l’ipotesi di linearità non è valida, ad esempio in presenza di costi con comportamento
curvilineo o costi viscosi. Per i costi con comportamento curvilineo, si possono considerare
intervalli sufficientemente piccoli per ricondursi a casi lineari; per i costi viscosi, invece, si fa
riferimento a dei costi con due pendenze diverse in base all’output. In generale, un costo viscoso
(sticky) è un costo che diminuisce più difficilmente rispetto a quando tenda ad aumentare; ad
esempio, il costo del lavoro è legato ai contratti dei dipendenti ma all’aumentare della quantità
prodotta aumenta il numero di lavoratori assunti ma per una riduzione di quantità prodotta non
verranno eccessivamente licenziati lavoratori poiché legati per contatto all’impresa.

In generale, tutti i costi impegnati, aumentando l’intervallo di osservazione, presentano un


andamento “a gradini”.
Una volta noti i costi in relazione al volume, per la misurazione si effettuano delle stime che
possono essere soggettive (sono sviluppate da personale che conosce il fenomeno e non è
necessario CdG) o statistico, tramite la regressione lineare a partire dai dati del passato del
bilancio. L’aspetto problematico della stima statistica è l’eliminazione di possibili costi troppo
lontani dalla regressione lineare, quindi dalla stima, e, inoltre, se l’andamento del costo è a
gradini, con la stima si arriverebbe ad un andamento lineare e si andrebbero ad approssimare i
costi fissi con quelli semi variabili.

N.B. se un prodotto, dopo l’acquisto, è restituibile al fornitore, allora rappresenta un costo


variabile; altrimenti, fisso (esempio, un reso da parte dell’impresa verso terzi).

Margine di contribuzione e BEP


Il BEP, cioè il Break Even Point, rappresenta il punto in corrispondenza del quale i ricavi unitari
sono uguali ai costi unitari; in particolare, il ricavo unitario in corrispondenza, quindi, ad un singolo
prodotto corrisponde al suo prezzo di vendita.
Nel piano (volumi di vendita; costi e ricavi), si rappresentano tramite rette (ipotizzando un modello
lineare) i costi totali, la cui intercetta corrisponde ai costi fissi totali, e i costi variabili.
Per definizione, il margine di contribuzione unitario corrisponde alla differenza tra i ricavi unitari e
i costi unitari:
mdc= prezzo−cost o variabile unitario=P−cvu
Il BEP si osserva in corrispondenza dell’intersezione delle due rette, le cui coordinate sono la
quantità di pareggio e il fatturato di pareggio (cioè il valore del volume di pareggio).
A sinistra del BEP si individua l’area di perdita poiché i ricavi sono inferiori ai costi; a destra l’area
di profitto dove i costi sono inferiori dei ricavi e l’azienda produce utile.

Per calcolare l’ascissa del BEP, la quantità di pareggio è pari a:


CTF
x p=
mdc
Partendo dalla definizione di:
(x ¿¿ p∗P)=(x ¿¿ p∗cvu )+CTF ¿ ¿
Per calcolare l’ordinata, il fatturato di pareggio:
CTF CTF
x p= =
mdc % mdc
P
Dove mdc % rappresenta il margine di contribuzione percentuale, pari a:
mdc
mdc %=
P
Si definisce anche il margine di sicurezza percentuale per un generico punto x effettivocome la
percentuale di cui si può ridurre il volume, senza uscire dall’area di profitto:
x eff −x p
mds %= ∗100
x eff
Per ogni unità di prodotto finito, l’impresa ottiene un ricavo unitario che coincide con il prezzo di
vendita e per conseguirlo, si sfruttano i costi variabili; ciò che resta della quantità di profitto non
utilizzata per ricoprire questi costi, rappresenta il margine di contribuzione che, per definizione, è
la differenza tra il prezzo di vendita e costi variabili unitari. All’aumentare delle unità di prodotto
finito vendute, con i ricavi unitari si cerca di recuperare anche i costi fissi, oltre a quelli variabili;
quando i costi fissi sono ugualmente soddisfatti, il ricavo aumenta le riserve di utili dell’impresa, la
quale ottiene un effettivo profitto dalle vendite. Il margine di contribuzione è, quindi, il recupero
dei costi fissi, dopo il quale si ottiene il profitto. Si può definire il margine di contribuzione totale
come il prodotto tra il margine di contribuzione unitario per la quantità venduta:
MdC=mdc∗Q
Se si sono recuperati tutti i costi fissi, ∆ MdC =∆ RO e il risultato operativo è positivo.
Per definizione, il RO=ricavi totali−costi totali , da cui si ottiene che:
RO=( X∗P )−(X∗cvu+CTF )
RO=X∗( P−cvu )−CTF
RO=( X∗mdc)−CTF
E la quantità venduta X =Q, sarà data da:
CTF + RO
X=
mdc
Considerando anche le aliquote delle imposte fiscali:

X=
(
CTF + ) RN
1−alq
mdc
Infatti, se le aliquote fossero nulle, il risultato netto coinciderebbe con quello operativo e si
otterrebbe l’equazione precedente.
Per rappresentare la retta del RO, l’intercetta corrisponde a -CTF e la pendenza è il mdc:
RO=mdc∗X −CTF
È necessario effettuare il controllo di gestione e l’analisi sulle strutture dei costi per determinare il
punto di pareggio, quindi la quantità necessaria da produrre per evitare di andare in perdita
oppure per assumere decisioni basate su stime future. Un esempio di stima è quella sulla
pubblicità: ipotizzando l’aumento dei costi fissi con l’aggiunta di quelli per la pubblicità e
supponendo di aumentare la quantità di prodotti venduti grazie ad essa, si studia si si ottiene un
effettivo vantaggio dalla pubblicità oppure no. Analogamente, per prendere decisioni su possibili
riduzioni di prezzo sulle quantità da vendere, si osservano i margini di contribuzione: se superiore
nel caso di riduzione di prezzo (e ipotesi di aumento delle quantità vendute), allora conviene;
viceversa, no.

Conto economico a margine di contribuzione


Il conto economico può essere redatto anche secondo il margine di contribuzione; in questo
modo, i ricavi si sottraggono i costi variabili per ottenere il margine di contribuzione, ad esso si
sottraggono i costi fissi per ottenere il risultato netto.
Leva operativa
Poiché il controllo di gestione si basa su stime, è necessario osservare quanto è sensibile il reddito
a cambiamenti dei ricavi: i ricavi e il reddito non variano in modo proporzionale ma tramite il
grado di leva operativa che, per definizione, è pari a:
∆ reddito
∆ reddito reddito
grado di levaoperativa= =
∆ ricavi ∆ ricavi
ricavi
Anche pari a:
MdC
grado di levaoperativa=
reddito
Questa leva è detta “operativa” poiché fa riferimento alla tipologia di produzione, se è interna o
esterna all’azienda. Con una produzione interna, si fa riferimento ad un’impresa, come quelle di
produzione, che investe principalmente in macchinari, ricerca e sviluppo e possiede alti costi fissi e
bassi costi variabili; se l’azienda produce esternamente, come nel caso delle aziende di
commercio, possiede alti costi variabili e bassi costi fissi.
In base alla struttura dei costi dell’azienda, quindi, si definisce il grado di leva operativa e quanto è
sensile il reddito rispetto alla variazione di ricavi. Ad esempio, le imprese con alti costi fissi e bassi
costi variabili, come le aziende di produzione che producono “internamente”, sono aziende con un
alto grado di leva operativa, a differenza delle aziende di commercio con un basso grado di leva
operativa.
L’effetto della leva operativa può essere più o meno vantaggioso per l’azienda in base anche alla
tipologia di mercato: se l’azienda opera in un mercato stabile, conviene avere un alto grado di leva
operativa poiché l’azienda ha un mdc più alto e sa di poter ricoprire i costi fissi con l’aumento dei
volumi di vendita; viceversa, se il mercato è oscillante, conviene avere un grado di leva basso
poiché l’azienda sarà più sensibile ai cali di ricavo.
Il reddito è funzione dei costi fissi e del margine di contribuzione.

Caso aziende multiprodotto


Nella realtà, ogni impresa non produce un singolo prodotto (o comunque molto raro) ma più
prodotti; partendo dal caso di soli due prodotti, se essi possiedono lo stesso margine di
contribuzione, al livello di controllo di gestione i due corrispondono allo stesso prodotto;
viceversa, se il margine di contribuzione differisce tra i due prodotti:
(x ¿¿ A∗mdcA)+(x ¿¿ B∗mdc B)−CTF =RO ¿ ¿
Da cui si ricavano i valori dei volumi dei due prodotti ma vi sono infinite combinazioni e quindi si
possono rappresentare su delle rette:
Ogni retta corrisponde ad un valore desiderato del risultato operativo e tutti i punti appartenenti
ad esse corrispondono alle combinazioni dei volumi dei due prodotti che concorrono a questo
risultato.
Ai costi fissi totali si aggiungono i costi fissi specifici di ogni prodotto, come ad esempio i
macchinari impiegati per la loro produzione e l’acquisto delle materie prime. Se il singolo prodotto
nel volume scelto non riesce a recuperare i costi fissi specifici, non riuscirà sicuramente neanche a
ricoprire quelli totali distribuiti su tutti i prodotti. Per calcolare il BEP, si può passare ad un
prodotto equivalente e ciò è possibile solo se i mix di produzione si mantengono costanti:

Al denominatore, si ottiene la media pesata del margine di contribuzione del prodotto equivalente
dove i pesi sono i mix dei diversi prodotti.
Nell’andare a costruire un prodotto equivalente fittizio a quelli prodotti in realtà dall’azienda, si
vanno a perdere informazioni su come il prodotto singolo riesca a recuperare tutti i costi fissi
direttamente collegati ad esso.
Per recuperare queste informazioni, a partire dal conto economico classificato a margine di
contribuzione, i ricavi del singolo prodotto si sottraggono i costi variabili per ottenere il primo
margine di contribuzione, ad esso si sottraggono i costi fissi diretti di prodotto per ottenere il
secondo margine di contribuzione, il quale si sottraggono i costi fissi comuni per tutti i prodotti per
ottenere il risultato operativo.
Dall’analisi di più prodotti, per capire come aumentare l’utile si osservano le tendenze delle rette
nel piano (Q ; RO) dove la retta rappresenta il risultato operativo, la cui pendenza è il mdc.
All’aumentare del margine di contribuzione, aumenta la pendenza della retta, quindi in
corrispondenza di una quantità minore prodotta si ottiene un risultato operativo maggiore; per
scegliere quali prodotti devono essere incrementati nella produzione al fine di aumentare l’utile, si
osserva esclusivamente il margine di contribuzione e si aumentano i prodotti che possiedono un
margine di contribuzione più elevato e si riducono quelli con un margine di contribuzione più
basso.

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