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Economia e gestione delle imprese

Definizione di impresa

L’impresa può definirsi come l’organizzazione economica che, mediante l’impiego di un complesso
differenziato di risorse materiali o immateriali, svolge processi di acquisizione e di produzione di beni o
servizi, da scambiare con entità esterne al fine di conseguire un reddito.

Questa definizione fa riferimento solo alle imprese for profit, non ci consente di includere quelle imprese
che vanno al di là del conseguimento del reddito.

L’impresa può definirsi “un sistema socio-tecnico di tipo aperto”.

È necessario distinguere il concetto di sistema dal concetto di insieme: l’insieme è un aggregato di elementi,
può anche essere costituito da un unico elemento. Un insieme di elementi diventa “sistema” quando
ricorrono le seguenti tre condizioni:

1. presenza di una pluralità di elementi costitutivi, che, nell’impresa, sono l’elemento umano e i mezzi
tecnici;
2. l’interazione e la comunicazione tra le parti;
3. l’interazione finalizzata al conseguimento di fini comuni, stabiliti da un centro decisionale.

L’impresa è un sistema aperto perché interagisce con un ambiente di riferimento, e trova le ragioni di
legittimazione e le modalità di sussistenza attraverso le relazioni con l’esterno. Il sistema chiuso è un
sistema che non interagisce con l'ambiente esterno e trova le ragioni di legittimazione e le modalità di
sussistenza al proprio interno, non ha bisogno di fare scambi con l’ambiente esterno.

L’ambiente esterno sono tutte le condizioni, i soggetti e le forze che sono all’esterno dell’impresa però lo
distinguiamo in macroambiente (detto anche generale) e microambiente (detto anche transazionale o
competitivo):

- L’ambiente esterno al livello macro è l’insieme di condizioni sociali, demografiche, politiche e sociali
a contorno all’attività dell’impresa;
- L'ambiente micro è più a diretto contatto e controllo con l’attività dell’impresa, incide di più sulla
redditività dell’impresa perché all’interno del microambiente ci sono soggetti e forze con cui
l’impresa ha la possibilità di avere un rapporto molto più dialettico, di interdipendenza e di
condizionamento reciproco.

L’impresa può essere considerata parte di un sistema più ampio che è l’ambiente nel quale è inserita e può
essere scomposta in una serie di sub-sistemi. Il valore dell’impresa, così considerata nella sua complessità,
risulta essere superiore al valore delle singole parti che compongono il sistema stesso.

L’impresa come sistema complesso è un insieme o un raggruppamento che la nostra mente riesce a
concepire in modo unitario e ordinato, in virtù delle connessioni e interdipendenze che, direttamente,
legano tutte le parti o componenti separate, costituenti l’insieme (Saraceno 1972).

L’approccio sistemico viene definito come “terza via tra riduzionismo ed olismo”: olismo significa guardare
l’insieme nel suo complesso, riduzionismo significa guardare i singoli elementi in maniera analitica.
L'approccio sistemico è una terza via perché è una soluzione compromissoria, che non disdegna né una
visione analitica delle singole componenti e neanche una visione del complesso, del suo insieme.

Possiamo comprendere quest’affermazione attraverso una rappresentazione grafica in cui abbiamo 2


rappresentazioni grafiche di 2 sistemi (a e b). Dal punto di vista grafico la differenza è che i singoli
componenti (a) sono in grassetto mentre invece le relazioni o i legami (b) sono con la linea tratteggiata. Nel
sistema b vediamo che non c’è più il tratteggio nei legami tra i singoli componenti ma sono tutte linee
marcate, il tratteggio invece lo troviamo nell’identificazione dei singoli componenti. Che cosa vuole dire
questa rappresentazione grafica? L’approccio riduzionistico o analitico si focalizza sui singoli elementi
sottovalutando le relazioni che esistono tra questi componenti. La visione olistica mette in evidenza le
relazioni tra i vari componenti, quindi vede con una prospettiva più ampia l’intero sistema.

Dunque, secondo l’approccio analitico-riduzionistico ognuna di queste funzioni mira ad ottimizzare sé


stessa, secondo l’approccio sistemico mira all’ottimizzazione dell’impresa nel suo complesso.
L’ottimizzazione di un sistema nel suo complesso non è sempre la somma delle ottimizzazioni parziali.
Ottimizzare l’impresa nel suo complesso alcune volte significa non riuscire ad ottimizzare totalmente le
singole componenti, dunque è necessario trovare un punto di equilibrio tra esigenze contrapposte. Guidare
un sistema significa guidare le relazioni che esistono tra i vari soggetti, ciò significa che nel farlo ci si può
anche allontanarsi da un’ottimizzazione parziale delle singole componenti.

L’impresa è un sistema aperto (in continuo contatto con l’ambiente esterno), relazionale (componente
tecnica e componente sociale), cognitivo (generazione delle conoscenze), vitale (sistema in grado di
sopravvivere).

Che tipo di sistema riusciamo ad individuare nell’impresa?

Individuiamo 4 tipi di sistema all’interno dell’impresa:

 Un sistema economico: l’impresa è rivolta al soddisfacimento di bisogni umani attraverso la


trasformazione in senso economico di risorse limitate;
 Un sistema sociale: distribuisce la ricchezza creata fra tutte le categorie di soggetti (lavoratori,
finanziatori, fornitori) che partecipano all’attività dell’impresa. È un sistema sociale che concorre
allo sviluppo della società, all’accrescimento del benessere sociale ed ambientale, all’affermazione
di determinati valori etici condivisi;
 Un sistema patrimoniale: un complesso di beni organizzato al fine di produrre un reddito che
remuneri l'investimento di capitali e l’assunzione del rischio imprenditoriale;
 Un sistema culturale: l’impresa contribuisce all'accrescimento delle conoscenze ed incide sui
modelli di vita e culturali di un popolo.

La cosa importante però è che l’impresa non è creatrice di ricchezza non soltanto a favore
dell’imprenditore, ma l’impresa è un'entità organizzata di un sistema economico e sociale e quindi tutti
quelli che partecipano a questa attività dell’impresa hanno un'aspettativa legittima di avere remunerato e
di partecipare alla distribuzione della ricchezza creata alla quale loro hanno contribuito a determinare.
Quindi l’impresa la possiamo definire come: “L’impresa può definirsi come l’organizzazione economica,
costituita da un complesso di interlocutori interni ed esterni che, mediante l’impiego di un complesso
differenziato di risorse, svolge processi di acquisizione e di produzione di beni o servizi, allo scopo di creare
e distribuire valore tra tutti i suoi partecipanti”.

Equilibrio d’impresa

L’equilibrio dell’impresa riguarda l’equilibrio economico, finanziario ed organizzativo.

-Equilibrio economico: il profitto deve essere tale da remunerare tutti i fattori di produzione (i costi), ma
anche da remunerare il compenso per l’assunzione del rischio imprenditoriale e anche per l’attività
imprenditoriale. Ma anche di trattenere una parte di questa ricchezza creata per le esigenze di sviluppo, di
prosecuzione, di reinvestimento all’interno dell’azienda per quell’attività per svilupparla e per migliorarla.

-Equilibrio finanziario: è la più adeguata composizione tra le fonti e gli impieghi. Nel concetto di equilibrio
finanziario c’è anche un concetto di equilibrio monetario, monetario fa riferimento semplicemente ad
entrate ed uscite, flussi in entrata e flussi in uscita;

-Equilibrio organizzativo: quando l'organizzazione è in equilibrio. L’organizzazione fa riferimento alle


funzioni o alle attività che si svolgono oppure alle risorse umane e alle relazioni tra i vari soggetti. Prima
ancora di poter pensare e conseguire un equilibrio economico e finanziario è necessario che la nostra
organizzazione sia in equilibrio.

L’evoluzione storica dei sistemi di governo

Come è cambiato l’approccio al governo dell’impresa? Questi processi evolvono perché ad evolvere sono i
contesti ambientali.

Anni 30 - PIANIFICAZIONE FINANZIARIA

Nelle imprese si cominciarono a definire modelli di pianificazione finanziaria, finalizzati a gestire i processi
di crescita e di aumento della complessità delle imprese (approccio razionale basato sul principio di
stazionarietà). I meccanismi essenziali di coordinamento e di controllo aziendale erano, pertanto, i sistemi
di budgeting operativo e di analisi degli investimenti. L’analisi era volta al perseguimento dell’equilibrio
finanziario e operativo dell’impresa: era un’analisi a breve termine dei costi e dei ricavi e del miglioramento
della gestione di cassa. Il management si occupava, essenzialmente, della misurazione annuale degli
scostamenti tra target effettivamente raggiunti e target di budget. Il budget è un conto economico
previsionale, è un criterio di management, significa definire degli obiettivi.

Questi sono gli anni in cui nascono le tecniche di budgeting (misurazione degli scostamenti tra risultati
raggiunti e target di budget) e il metodo dei flussi di cassa attualizzati per valutare i progetti di investimento
a supporto della crescita aziendale.

Anni 50 – PIANIFICAZIONE A LUNGO TERMINE

Dopo tendenze di crescita molto sostenute e un andamento più stabile dei mercati, le imprese adottarono
una pianificazione strategica a lungo termine (long range planning), basata sulla determinazione dei trend
del passato, sull’utilizzo di tecniche di regressione e di modelli econometrici. Secondo la pianificazione di
lungo periodo, la crescita dell’impresa era considerata tendenziale e connessa linearmente all’espansione
delle risorse interne, in un’ipotesi di sostanziale immutabilità dei rapporti impresa-ambiente.

Anni 60 – PIANIFICAZIONE STRATEGICA

Con il boom economico c’è una crescita dei clienti ma anche dei concorrenti. Il mercato cambia e la
pianificazione strategica non può più essere rigida, ma flessibile, anche se di lungo termine. L’ambiente
strategico si comincia a presentare “complesso”, ma resta ancora fondamentalmente prevedibile nella sua
evoluzione. Il campo di indagine si sposta dall’analisi retrospettiva dei fenomeni all’analisi prospettiche
delle tendenze ambientali future. Aumentano anche gli elementi di rischio, ovvero una maggiore
esposizione all’ambiente esterno sul quale l’impresa ha difficoltà a prendere decisioni. L’impresa comincia a
collaborare con gli attori dell’ambiente esterno.

Anni 70 – MANAGEMENT STRATEGICO

Tutti gli elementi cominciano ad andare in crisi. Si tende a fare previsioni sulla memoria perché i fattori che
influenzano il mercato sono molti e quindi non c’è possibilità di fare previsioni che assicurino il soggetto
economico. Bisogna quindi costituire un sistema strategico flessibile che si deve adeguare e deve
“autocorregersi” per conservare la validità delle decisioni di fronte ai possibili cambiamenti, anche
trovando soggetti diversi dall’imprenditore, puntando ad esempio sulle capacità dei manager. In tal modo,
la pianificazione diventa terreno di tranelli (legati alla struttura dell’impresa) e inganni (legati
all’attendibilità delle previsioni). La necessità è quella di adottare sistemi di governo di tipo evolutivo.

Le finalità dell’impresa

Le diverse parti di cui è composta l’impresa sono orientate versa una comune finalità. Tale finalità presenta
un contenuto di tipo economico, nel senso che l’impresa svolge operazioni di trasformazione al fine di
aumentare il valore delle risorse impiegate; questo maggior valore deve essere poi distribuito agli aventi
diritto. Il fine dell’impresa appare, quindi, come una sorta di “combinazione” tra i diversi obiettivi di tutti i
portatori di interesse che ruotano attorno all’impresa. Ci sono varie teorie:

Le teorie classiche e neoclassiche si basano sulla massimizzazione del profitto. L’impresa opera in un
mercato di concorrenza perfetta e compie scelte razionali

La teoria della sopravvivenza, ovvero la capacità dell’impresa di perdurare nel tempo, comprende tutti gli
adattamenti della stessa ai mutamenti dell’ambiente esterno e tutti i comportamenti che attua al fine di
influire e modificare a proprio vantaggio l’ambiente nel quale opera.

La teoria della creazione di valore diventa un presupposto affinché l’impresa possa svolgere la propria
missione di creazione di ricchezza e della sua distribuzione a tutti quei soggetti che apportano risorse
all’impresa stessa.

Decisioni aziendali

Nelle imprese vengono assunte decisioni aventi caratteristiche diverse sotto il profilo dell’importanza della
scelta, dei contenuti e della collocazione della responsabilità a livello organizzativo.

L’insieme delle decisioni aziendali può essere classificata in due livelli ordinati “gerarchicamente”:

1. Decisioni strategiche
2. Decisioni operative

Le decisioni strategiche sono finalizzate al raggiungimento di obiettivi di lungo periodo e a determinare la


direzione, il verso e l’intensità del vettore di crescita dell’impresa; esse sono un mezzo per determinare lo
scopo dell’impresa in termini di obiettivi, programmi di azione e priorità di allocazione delle risorse. Le
decisioni strategiche si collocano in un orizzonte di medio e lungo periodo. Esse sono centralizzate, nel
senso che vengono assunte da un numero circoscritto di attori; scaturiscono in condizioni di incertezza, in
quanto sono volte a cogliere i segnali deboli che emergono nell’ambiente di riferimento e che, non avendo
un pieno riscontro con gli eventi del passato, possono presentare livelli più o meno elevati di rischio; non
sono ripetitive e non sono, quindi, risolvibili attraverso un confronto tra decisioni alternative e con quelle
formulate nel passato; richiedono un giusto trade off tra la razionalità del ragionamento scientifico e
l’intuizione propria della creatività manageriale.
Le decisioni operative sono finalizzate ad implementare decisioni strategiche attraverso un uso ottimale
delle risorse disponibili o acquisibili: gli effetti di queste decisioni si manifestano nel breve periodo e non
incidono in modo significativo sul rapporto tra l'impresa e il suo ambiente di riferimento. Si tratta di
decisioni programmate, il cui processo decisionale è vincolato al rispetto di procedure, regole, e programmi
predefiniti. Inoltre, realizzandosi in soluzioni ai problemi operativi, come risposta al quesito di ricercare la
via ottimale per operare, possono tradursi in routine, attraverso il consolidamento nell’impresa delle azioni
sperimentate con successo nel passato.

Gli effetti delle decisioni operative si manifestano nel breve periodo, sono finalizzate all’implementazione
delle decisioni strategiche e non incidono in modo significativo sul rapporto tra l’impresa e il suo ambiente
di riferimento.

Relazione tra decisioni strategiche e decisioni operative

Esiste, comunque, una stretta connessione circolare tra decisioni strategiche e operative, in quanto anche
le modalità di implementazione delle scelte strategiche possono far rivisitare a posteriori le decisioni
intraprese. Sono funzionali, strumentali al conseguimento degli obiettivi strategici.

Per Mintzberg (1985) deve coesistere sia l’aspetto deliberato, che deriva da decisioni derivanti da un
processo razionale, sia quello emergente, che nasce dall’esperienza e dalla capacità creativa delle persone
di rapportarsi ai cambiamenti del contesto di riferimento. SLIDE

Le strategie

Il primo livello di strategia è a livello corporate, cioè strategie di sviluppo, tra cui sviluppo dimensionale,
sviluppo del mercato e diversificazione. Vi è poi la strategia di ogni singola business unit, cioè le strategie
competitive, tra cui leadership di costo, differenziazione e focalizzazione. Infine abbiamo la strategia a
livello funzionale, cioè strategia di marketing, produttiva.

In un sistema ambientale complesso ed in continua evoluzione, il vantaggio competitivo delle imprese


dipende, in larga parte, non solo dalle scelte strategiche che l’impresa realizza per cogliere le opportunità
del mercato o per difendersi dalle minacce della concorrenza, ma anche dalla capacità manageriale di
creare relazioni competitive e collaborative con i fornitori dei fattori e delle tecnologie.

La formulazione della strategia deve basarsi sia sull’analisi strategica dell’ambiente, sia sulle capacità dei
manager di utilizzare e combinare le risorse.

La catena del valore

La

catena del valore è uno strumento elaborato da Porter di analisi dell’ambiente interno. La catena del valore
è una rappresentazione grafica dell’impresa, è uno strumento concettuale per l’analisi dell’ambiente
interno che consente di rappresentare l’impresa suddividendola in attività primarie e attività di supporto,
finalizzate al conseguimento di un margine. La catena del valore visualizza il valore che un’impresa è in
grado di creare per i suoi clienti. Il margine è la differenza tra il valore totale dell’output e il costo
complessivo delle attività, mentre il valore è la somma che i compratori sono disposti a pagare per l’output
aziendale. La parola “valore” non deve essere confinata soltanto all’aspetto economico in quanto oggi
l’impresa si legittima non solo come organizzazione che crea ricchezza da un punto di vista economico, ma
anche valore sociale.

La catena di valore è funzionale sia in fase di analisi che di attuazione. In fase di analisi, la catena del valore
diventa lo strumento analitico che consente di individuare i punti di forza, cioè la base per il conseguimento
di un vantaggio competitivo sostenibile, e i punti di debolezza, cioè le attività che, essendo contraddistinte
da livelli insoddisfacenti di efficienza/efficacia, spiegano una posizione competitiva debole attuale e
prospettica. In fase di attuazione, la catena del valore evidenzia il collegamento esistente tra gestione
strategica e gestione operativa.

Le attività primarie rappresentano il processo basico, quindi produzione e commercializzazione. Esse sono:
logistica in entrata, produzione, logistica in uscita, marketing e vendite, servizi post-vendita (assistenza,
garanzia, ricambio).

Le attività di supporto sono tutte quelle attività a supporto delle attività primarie, cioè che sono funzionali
e strumentali per la creazione del valore, e hanno una caratteristica di trasversalità rispetto a processi basici
che sono di produzione e di commercializzazione. Le attività di supporto sono: attività di infrastruttura,
finanza, approvvigionamenti, ricerca e sviluppo, gestione e sviluppo risorse umane.

Ogni attività della catena si serve di input materiali, di risorse umane e di tecnologia, usa e crea
informazioni, crea attivo e passivo patrimoniale, è valutata in termini di “costi e ricavi diretti”.

La catena del valore è quindi uno strumento:

 descrittivo, perché consente di fotografare l’impresa individuando le attività strategicamente


rilevanti sulle quali il manager può intervenire per raggiungere specifici obiettivi;
 di pianificazione strategica, perché l’individuazione del contributo al margine di ogni singola attività
può guidare il manager nella scelta delle aree sulle quali intervenire per raggiungere un vantaggio
competitivo;
 di valutazione della strategia, perché l’adozione di una determinata strategia, modificando la
configurazione della catena del valore con conseguente modifica del margine, può consentire al
manager di valutare se la strategia adottata ha contribuito a incrementare o meno il valore per
l’impresa rispetto alle scelte attuate nel passato.

Inoltre, la catena del valore è un modo per riclassificare il conto economico: il margine è la differenza tra
valore totale dell’output meno costo complessivo delle attività, quindi il profitto, l’utile. È quindi un’analisi
di tutte le singole attività primarie e di supporto con le componenti positive e negative di questo margine.

La catena del valore consente di evidenziare il contributo che ciascuna attività apporta alla determinazione
del profitto.

Attività primarie

La prima attività è la logistica, in entrata e in uscita. La logistica è un’attività che si occupa del trasferimento
fisico delle materie prime, di semi componenti, di prodotti finiti, di informazioni. Le attività sono attività di
ricevimento, magazzinaggio, di distribuzione. I costi di gestione depositi sono i fitti passivi o ammortamento
e spese di manutenzione e di riparazione. I costi di gestione dei materiali sono la gestione delle scorte,
gestione degli ordini, layout di magazzino, programmazione uscite dal magazzino. I costi di distribuzione
sono il trasporto, ammortamento/fitti passivi automezzi, spese di riparazione e di manutenzion
e. Vi è poi il costo del personale.

Attività operative

-Costi variabili di produzione (compreso i costi di acquisto dei semilavorati)

-Costi di collaudo e di controllo qualità (personale, materiali, procedure informatiche, servizi acquisiti da
terzi)

-Costi di gestione e manutenzione impianti (compreso i costi di acquisto di licenze, brevetti,..)

Marketing e vendite

COSTI DEL PERSONALE COSTI PER EFFETTUARE LE VENDITE (rendere disponibile il prodotto sul mercato)

COSTI PER LA GESTIONE DELLE LEVE DEL MARKETING MIX (compreso i costi relativi alla gestione delle
forme distributive)

Riguarda tutte le attività del marketing operativo che andrà ad attuare quello strategico, dirette ad
anticipare e interpretare le tendenze del mercato come la gestione della pubblicità, delle promozioni, della
forza vendita, la scelta dei canali, la determinazione dei prezzi; serve per supportare le vendite

Servizi di assistenza post-vendita

Comprendono tutte le attività finalizzate a migliorare o a mantenere il valore dei prodotti, ma anche
mettere il cliente in condizione di riacquistare il prodotto.

INSTALLAZIONI E RIPARAZIONI (non sempre disponibile)

COSTI DEL PERSONALE

COSTI DI GESTIONE SCORTE DEI PEZZI DI RICAMBIO (al netto dei ricavi conseguibili dall’assistenza post-
vendita e dalle riparazioni effettuate)

Attività di supporto

Approvvigionamento

L’approvvigionamento ha il compito di individuare e quantificare i flussi di materie prime e di semilavorati


di introdurre nel processo produttivo, attraverso un’azione di selezione dei fornitori e una programmazione
degli acquisti che sia coerente con la politica delle scorte perseguita dall’impresa in funzione dei ritmi della
produzione.

COSTI PER RICERCHE DI MERCATO SPESE RELATIVEAI CONTATTI CON I FORNITORI (mi rivolgo al fornitore
che ha il prezzo più basso oppure vincolo l’azienda a un fornitore per un lungo periodo)

COSTO DEL PERSONALE

Sviluppo della tecnologia

Riguarda la capacità innovativa dell’impresa, ovvero tutte le attività finalizzate al cambiamento innovativo
di prodotti, processi, funzioni aziendali, anche trovare nuove soluzioni per migliorare i prodotti che già ci
sono.

COSTI PER MATERIALI, ATTREZZATURE E IMPIANTI DEI LABORATORI

SPESE PER CONSULENZE ESTERNE DI R&S


COSTO DEL PERSONALE ADDETTO ALLA R&S (al netto dei ricavi per vendita a terzi di know how sviluppato
all’interno)

Gestione delle risorse umane

Gestisce l’ingresso di persone in azienda e le loro carriere; insieme delle politiche di reclutamento,
selezione, addestramento e formazione del personale impiegato all’interno dell’organizzazione, ai diversi
livelli gerarchici; fondamentale per la creazione e lo sviluppo del “capitale sociale”.

COSTI PER SELEZIONE, ASSUNZIONE E ADDESTRAMENTO DEL PERSONALE

COSTI DELLE RICERCHE SULLO SVILUPPO DELLE CARRIERE E SULLA MOBILITÀ

Attività infrastrutturali

Riguardano l’amministrazione dell’impresa e si occupa principalmente della pianificazione e il controllo


d’azienda.

COSTI PER LA GESTIONE DEGLI UFFICI amministrativi/finanziari/legali/della pianificazione/della direzione


generale.

Critiche al modello tradizionale

Il modello tradizionale fatto Porter negli anni ‘80 è stato oggetto di cinque critiche:

1. Si fonda sui caratteri di distinguibilità. Il vantaggio competitivo non deriva dalla bravura a svolgere
le singole attività, ma dalla capacità di combinare le risorse e tradurle in competenze distintive.
2. Si fonda sui caratteri di sequenzialità. La creazione del valore segue logiche di circolarità e non di
sequenzialità.
3. Sono state fatte alcune critiche sulla collocazione delle attività tra primarie e di supporto.
Per alcuni, la funzione finanziaria non può essere considerata di supporto, in quanto in certi casi è
un'attività primaria nella creazione del valore.
È un po’ riduttivo pensare che lo sviluppo della tecnologia avvenga negli uffici e nei reparti R&S
(ricerca e sviluppo). Il concetto di innovazione tecnologica viene fuori dal contributo di tutte le aree
dell’impresa.
Un’ulteriore critica è stata fatta al marketing (visione troppo operativa e poco strategica):
sembrerebbe che il compito del marketing sia quello di vendere e pubblicizzare gli output, quindi è
come se venisse prima il processo di produzione con le sue esigenze di ottimizzazione e poi in
seguito marketing e vendite. In realtà, la logica di una impresa marketing-oriented è una logica
dove queste attività sono invertite, cioè c’è prima il marketing e poi la produzione; la produzione
diventa strumentale al marketing e non viceversa.
4. Critica alla natura statica della catena di valore.
È uno strumento di valutazione ex-post piuttosto che ex-ante della strategia da adottare e non
considera adeguatamente le risorse immateriali, né le possibili risposte dei concorrenti.
In questo senso, per decidere ex-ante dobbiamo anche tener conto delle risorse immateriali che
non sono adeguatamente considerate, ed anche delle possibili risposte dei concorrenti. La visione
dinamica è una visione che ingloba più variabili.
5. Riproduce una logica ‘’sbilanciata’’. È troppo focalizzata sull’ambiente interno e quindi commette,
al contrario, lo stesso errore di considerare l’ambiente esterno quale determinante del vantaggio
competitivo. Ciò che conta, ai fini del vantaggio competitivo, è come si integra la catena del valore
con l’ambiente esterno.
Il sistema del valore

È proprio quel rapporto strategico che collega più catene di valore. Ogni impresa occupa quindi una
posizione all’interno del sistema del valore: tutte le catene devono collimare insieme. I fornitori creano e
consegnano gli input alle imprese clienti; le imprese produttrici, trasformando gli input, aggiungono ad essi
valore; l’output delle imprese produttrici si dirige verso i compratori passando attraverso le catene del
valore dei canali di distribuzione che, a loro volta, aggiungono valore ai beni ricevuti dai produttori. Il valore
non si verifica in catene sequenziali, ma in costellazioni complesse e l’obiettivo di questa nuova logica di
valore porta l’impresa a coinvolgere clienti, fornitori, alleati e partner per co-produrre offerte sempre più
complesse e variegate. La co-creazione di valore è un processo dinamico e interattivo.

L’outsourcing della catena del valore

L’outsourcing consiste nella decisione dell’impresa di far realizzare a terzisti alcune attività della catena del
valore che prima svolgeva al proprio interno, oppure, nella decisione di esternalizzare alcune o tutte le
attività relative a un nuovo business che l’impresa intende attivare. Comporta lo spostamento di un’attività
della catena del valore o di un processo attraverso i confini dell’impresa, uno spostamento che è alla base
di una decisione di “make-or-buy”. MAKE OR BUY: organizzare le attività della catena di valore su un
controllo diretto (MAKE) o su un controllo indiretto (BUY) che si basa anche sul mercato. Il buy può essere a
volte una decisione pericolosa perché tutto dipende da ciò che succede nel paese in cui avviene l’attività
esternalizzata e questo potrebbe quindi provocare non solo danni finanziari ma anche strategici poiché
potrebbe perdere quote di mercato e dovrà quindi poi ristabilire la sua immagine.

Determinante per il successo dell’Outsourcing non solo la ricerca di un risparmio sui costi e l’ottenimento di
risorse da riallocare, ma anche la capacità dell’impresa di sapersi concentrare sulle attività della catena che
possono generare maggior valore.

Negli anni sono cambiate le tipologie di attività che vengono esternalizzate: il modello
venditore/compratore e la creazione di rapporti di sub-fornitura che ne derivavano sono attualmente
sostituiti da modelli di partnership, cioè reshoring e back-reshoring.

La logistica

La logistica, in entrata e in uscita, implementa, controlla e gestisce il flusso e lo stoccaggio di materie prime,
semilavorati e prodotti finiti e delle relative informazioni che attraversano l'impresa. La logistica gestisce
flussi fisici e flussi informativi che sono oggetto della logistica. Essa si distingue strumentalmente in attività
poste a monte dell’attività di produzione e attività poste a valle. Il fondamento del concetto di logistica
integrata è rappresentato dalla minimizzazione del costo totale delle attività logistiche viste nel loro
complesso, dato un obiettivo di livello di servizio da garantire.

La missione della logistica è pianificare e coordinare tutte le attività necessarie per raggiungere il livello di
servizio desiderato al minor costo possibile. Il servizio logistico come capacità di rendere disponibile il
prodotto al posto giusto, al momento giusto nelle caratteristiche giuste e nelle quantità giuste, e al costo
giusto.

È possibile suddividere i costi logistici in 5 grandi gruppi:

-Costi di mantenimento delle scorte

-Costi di magazzinaggio

-Costi di trasporto e distribuzione


-Costi inerenti ai lotti

-Costi di processazione ordini e dei sistemi informativi.

Si possono classificare i depositi in funzione del ruolo occupato dal deposito stesso nella supply chain. Si
parla allora di depositi di fabbrica e depositi distributivi.

I depositi di fabbrica si possono distinguere a loro volta in: depositi di materie prime, in cui vengono
stoccate le materie prime provenienti da diversi fornitori, in attesa che vengano utilizzate nel processo
produttivo; i magazzini interoperazionali, sono depositi che vengono collocati fra due fasi successive del
processo produttivo e rispondono a esigenze di controllo delle scorte dei semilavorati e di
disaccoppiamento dei flussi produttivi.

I depositi distributivi sono invece sistemi che nella catena logistica si possono inquadrare come facenti
parte del sistema distributivo vero e proprio. Con una struttura distributiva tradizionale a diffusione
capillare sul territorio, le aziende erano in grado di rifornire un certo bacino di punti vendita e di distribuire
i prodotti sul territorio, garantendo un certo livello di servizio ad un certo costo logistico complessivo.

Evoluzione del sistema di logistica

Logica di tipo push

La logica tradizionale del sistema è di tipo push, con sistemi “production oriented”, ossia orientati alla
produzione. Tali sistemi cercano prima di tutto di ricercare il minimo costo di produzione, attraverso grandi
lotti produttivi. Questo ci determina una produzione ‘’per magazzino’’. Tali lotti, se eccedenti la domanda,
venivano messi a scorta in attesa di essere venduti. Per i magazzini era priorità la capacità di stoccaggio
rispetto alla distribuzione.

Logica di tipo pull

Nell’ultimo decennio le aziende cercano il vantaggio competitivo nell’eccellenza del servizio con bassi livelli
di scorta. Lo stesso servizio o addirittura un servizio migliore viene garantito attraverso l’efficienza dei
processi, dei flussi di materiali e di informazioni attraverso la rete, piuttosto che tramite livelli di scorte
elevati in grado di far fronte alle richieste del cliente.

La logica del sistema è di tipo pull con le informazioni che risalgono a ritroso nel sistema distributivo. I punti
vendita emettono quindi degli ordini ai pochi depositi periferici o direttamente a quelli centrali, i quali
vengono riforniti dal sistema produttivo flessibile. Ai diversi livelli della catena, è priorità la capacità di
smistamento e distribuzione. Questo obiettivo ha comportato sia un “dimagrimento” della rete, con
riduzione della giacenza lungo il canale che congiunge produttori e consumatori, sia un cambiamento di
ruolo, focalizzandosi sulla capacità di coordinamento, smistamento e distribuzione della merce piuttosto
che sulla capacità di stoccaggio. Per quanto riguarda i depositi periferici, si assiste ad un processo ancora
più accentuato a quello dei depositi centrali. Oltre alla già citata riduzione in numero, si cerca per quanto
possibile di modificarne la funzionalità facendolo evolvere verso la struttura del transit point. I transit point
possono essere visti come CEDI (centri di distribuzione) in cui viene meno la funzione di stoccaggio, mentre
rimangono solamente le funzioni di smistamento e di distribuzione. Nel transit point, quindi, i flussi di
merce in ingresso permangono per il tempo strettamente necessario per il loro smistamento e la loro
spedizione verso le rispettive destinazioni.

La gestione delle scorte

Le scorte assumono un ruolo cruciale nella gestione della supply chain poiché permettono di regolare lo
svolgimento dei processi di acquisto, di trasformazione e di distribuzione delle produzioni realizzate.
Funzione e classificazione delle scorte:

- scorte di materie prime, servono per separare le rigide necessità, sia in termini temporali che di
quantità, dei reparti di produzione rispetto alle irregolarità di consegna dei fornitori;
- scorte di semilavorati, servono per isolare il singolo centro di lavoro rispetto alle fasi a monte e a
valle, affinché questo possa essere programmato in modo sostanzialmente autonomo e possa
funzionare per un certo lasso di tempo senza risentire dell’influenza dei flussi in entrata e in uscita;
- scorte di prodotto finito, servono per sganciare, sempre in termini di tempo e quantità, le esigenze
dei clienti dai vincoli del ciclo produttivo.

Classificazione in base alla funzione delle scorte:

- scorte di transito: si generano a causa del tempo necessario per trasferire un bene da uno stadio di
fabbricazione o da un punto di stoccaggio al successivo;
- scorte di ciclo (o di partita): si generano quando si produce in misura maggiore rispetto a quanto
serve per il fabbisogno immediato (rimanenza);
- scorte di sicurezza: servono a far fronte alle incertezze e alle irregolarità che caratterizzano i flussi
all’interno della catena logistica;
- scorte di disaccoppiamento: fornire una certa indipendenza a ogni stadio della catena logistica;
- scorte stagionali: servono per l’andamento stagionale dei mercati e la diversità che c’è tra cicli
temporali di produzione e cicli temporali di consumo.

Elementi di economia della gestione delle scorte

Quando parliamo di gestione scorte dobbiamo far riferimento a:

- costi di natura logistica per movimentazione e stoccaggio;

- costi finanziari per immobilizzo di capitale.

È necessario considerare sempre, come elementi da un punto di vista economico, anche altri fenomeni
legati alle scorte:

- i rischi di obsolescenza, i rischi di deterioramento, di perdite o furti;

- entità e variabilità della domanda.

I motivi per la costituzione delle scorte:

- Mantenere basso il costo di produzione;

- Far fronte alla variabilità della domanda;

- Tenere conto della variabilità dei tempi di riapproviggionamento;

-Contenere i costi di acquisto (trarre vantaggio dagli sconti di quantità). È fondamentale bilanciare i costi
amministrativi e i costi di mantenimento delle scorte e, a questo fine, si usa la formula del lotto economico;

- Trarre vantaggio dagli sconti di quantità;

- Tenere conto delle variazioni stagionali;

-Fronteggiare le fluttuazioni o la speculazione sui prezzi, quindi le scorte si possono costituire anche in
misura maggiore anche in previsione di inflazione e quindi mi approvvigiono prima di una reale esigenza;

-Creare un ‘’disaccoppiamento’’ tra le fasi sia di produzione che di distribuzione, cioè tra esigenze di
produzione ed esigenze di consumo.
Tecniche di gestione delle scorte

I modelli ‘’tradizionali’’ di gestione delle scorte più diffusi nelle imprese occidentali sono essenzialmente
riconducibili a due filosofie di fondo:

-La modalità ‘’stock control’’ o ‘’look back’’ ossia guardare l’andamento passato, storico;

-La modalità ‘’flow control’’ o ‘’look ahead’’, guardare in avanti, guardare in funzione delle previsioni.

STOCK CONTROL o LOOK BACK

Nel caso delle “stock control” o “look back”, la scorta viene reintegrata ogni qualvolta scende al di sotto di
un certo livello di scorta ritenuto fisiologico. È una logica reattiva, che si realizza predisponendo scorte che
anticipano il manifestarsi del fabbisogno. Quindi, il fabbisogno non viene previsto in relazione a quanto può
manifestarsi nel futuro, ma è stimato in funzione della storia più o meno recente che caratterizza il
determinato articolo da gestire.

Le tecniche che si rifanno all’approccio ‘’stock control’’ sono:

- tecniche a quantitativi fissi, l'approvvigionamento avviene sempre in quella quantità, ma con un tempo
variabile. La dimensione dell’ordine è pari a un quantitativo prefissato, mentre l’intervallo di tempo
intercorrente tra i singoli ordini è variabile in funzione dei consumi che effettivamente si verificano nel
tempo;

- tecniche a intervalli fissi, l’approvvigionamento avviene in quantità diverse, ma con un intervallo fisso;
ordini fatti ogni tot di tempo prestabilito ma della quantità che mi serve al momento.

Modello ad intervallo fisso

Per prodotti con domanda sufficientemente prevedibile e regolare nel tempo le aziende utilizzano il
modello ad intervallo fisso, dove ogni articolo viene riordinato ad intervalli prefissati e costanti di tempo
(intervallo di riordino) in quantitativi variabili.

L’intervallo di riordino ottimale viene predeterminato tenendo conto, oltre che delle vendite previste
(individuate secondo la logica “look back”), del trade-off esistente tra il costo di emissione di una riga
d’ordine, che spingerebbe verso un intervallo di riordino più lungo, e il costo di mantenimento delle scorte,
per cui risulterebbe preferibile un intervallo più ridotto.
In particolare, l’intervallo di riordino T viene determinato in base alla seguente formula:

T = [ √(2 * Ce) ] / [ √(p * Cp * Dpr) ]

Ce = costo di emissione di una riga d’ordine;

p = prezzo unitario annuo di acquisto dell’articolo;

Cp = costo percentuale (annuo) di mantenimento delle scorte;

Dpr = vendite annue previste; se ho previsto delle vendite di grande quantità mi porta a fare ordini più
frequenti. La quantità da riordinare è variabile:

Q = S max – Sd

Dove:

S max (la quantità massima ordinabile) – Sd (scorta in mano + scorta ordinata – scorta impegnata)

 Scorta in mano = scorta che fisicamente è presente all’interno del sistema logistico nei diversi depositi e
quindi immediatamente utilizzabile;

 Scorta ordinata = quantità che pur essendo già ordinata non è ancora giunta all’interno del sistema
logistico e quindi non è ancora dichiarabile come disponibile;

 Scorta impegnata = quantità di merce che risulta già ordinata e attribuita a un cliente ma che per varie
ragioni è fisicamente ancora presente nel sistema logistico;

La scorta massima (o scorta obiettivo) include, oltre la domanda futura Dpr prevista durante l’intervallo di
riordino T e il tempo di reintrego t, un quantitativo a titolo di scorta di sicurezza SS:

S max= Dpr (T+t) +SS

Con:

Dpr (T + t) = vendite previste nel corso dei tempi di riordino e di reintegro

SS= k * e (T+t)

Dove:

e(T+t): errore previsionale mediamente commesso dal programma di previsione vendite in riferimento alla
somma dei tempi di riordino e di reintegro;

k: coefficiente di sicurezza = coefficiente moltiplicativo dell’errore previsionale.

Con la definizione del coefficiente di sicurezza k si va a stabilire il livello di servizio che si vuole offrire al
cliente in termini di disponibilità a scorta degli articoli ordinati; un alto livello di k, infatti, aumenterà le
scorte di sicurezza e ridurrà conseguentemente il rischio che l’articolo ordinato risulti fuori scorta.

L’attribuzione di valori diversi di k ai singoli articoli permette quindi di effettuare una differenziazione di
servizio su di essi; a parità di modello utilizzato, vengono fissati coefficienti di sicurezza maggiori per gli
articoli che presentano maggiori volumi di vendita.

L’intervallo di approvvigionamento fisso T scaturisce dal seguente ragionamento:

F :360=EOQ :T
T =360 ×
√ 2K
Fac
Modello a quantità fisse

Per prodotti con domanda sufficientemente prevedibile ma non troppo regolare nel tempo si privilegia il
modello a quantità fisse (modello a punto di riordino).

Il LEAD TIME (tempo guida) risulta composto dai seguenti tre tempi:

1 - il tempo necessario per spiccare l’ordine (avvio della procedura amministrativa, consultazione dei
fornitori, autorizzazioni all’acquisto, emissione dell’ordine, etc.);

2 - il tempo occorrente per l’arrivo della merce;

3 - il tempo necessario per la messa a disposizione della merce (atti di ricevimento, controllo, assunzione in
carico, etc.).

Il LIVELLO DI RIORDINO è funzione di tre elementi:

1 - il lead time

2 - il consumo nell’unità di tempo

3 - la scorta di sicurezza

Lotto economico d’acquisto (Economic Order Quantity)

Il lotto economico d’acquisto rappresenta il quantitativo fisso; è funzione di due elementi:

1. Costo di mantenimento delle scorte:


- interesse sui capitali immobilizzati;
- costo di funzionamento del servizio magazzino;
- ammontare delle perdite per sciupii, deterioramenti, furti;
- costo dell’obsolescenza;
2. Costo di ordinazione delle merci:
- costo di funzionamento dei servizi d’acquisto;
- spese postali e telefoniche;
- spese di trasferta degli agenti d’acquisto;
- costo di ricevimento, controllo ed analisi delle merci.

Determinazione analitica del lotto economico d’acquisto


Gli elementi per il calcolo:

F = fabbisogno complessivo di merce nell’unità di tempo

Q = quantità da acquistare (lotto economico d’acquisto)

a = costo di acquisto di un’unità di merce

c = costo unitario di conservazione (% del valore medio giacenza)

K = costo di una ordinazione

Q
Cm=c × ×a
2
Il costo di mantenimento è un costo che aumenta al crescere delle quantità in scorta.

F
Co=K ×
Q
Il costo di ordinazione è un costo che diminuisce al crescere delle quantità in scorta.

Il lotto economico d’acquisto risulta così determinato dall’uguaglianza delle due funzioni di costo:

Cm=Co
Q F
c× × a=K ×
2 Q

EOQ=
√ 2 FK
ac
Quindi il lotto economico è il punto di minimo della curva del costo totale.

La quantità ottimale da ordinare Q viene calcolata bilanciando il costo di mantenimento dello stock con
quello dell’emissione dell’ordine.

La quantità EOQ, detta lotto economico di acquisto, rende minimo il costo totale di approvvigionamento. Il
criterio del lotto economico di acquisto: il costo totale comprende il costo di mantenimento delle scorte e il
costo di riordino. Il lotto economico è il punto di minimo della curva del costo totale; tale quantità (EOQ) è
rappresentabile attraverso la formula:

EOQ = [ √(2Dpr * Ce) ] / [ √(p * Cp) ]

dove:

Dpr = vendite annue previste;

Ce = costo di emissione di una riga d’ordine;

p = prezzo unitario annuo di acquisto dell’articolo;

Cp = costo percentuale (annuo) di mantenimento delle scorte

Il valore del punto d’ordine viene invece determinato in modo da coprire, senza l’uso delle scorte di
sicurezza, la domanda prevista durante il tempo di riordino. Esso risulta, quindi, rappresentabile dalla
formula:

So = Dpr(t) + SS
con:

SS=k e(t)

dove:

e(t) = errore previsionale mediamente commesso dal programma di previsione vendite in riferimento al
tempo di reintegro;

k = coefficiente di sicurezza.

Modello a ripristino

Per prodotti con domanda irregolare e/o estremamente contenuta le aziende, in genere, utilizzano il
modello a ripristino.

Tale modello prevede l’ordinazione di un lotto (minimo) di acquisto costante ogni volta che la scorta
disponibile ha raggiunto un livello minimo prefissato.

Si tratta quindi di un modello analogo a quello a punto d’ordine dal quale però differisce per i seguenti
aspetti:

 il punto d’ordine è estremamente contenuto (in genere 0) e viene fissato senza tener conto della
domanda nel tempo di riordino ma con il semplice obiettivo di ridurre quanto più possibile il livello
di scorte;
 il lotto economico, viene sostituito con il lotto minimo d’acquisto imposto dal fornitore; esso non
tiene conto quindi né dell’entità della domanda né dei costi connessi alla gestione delle scorte.

FLOW CONTROL o LOOK AHEAD

Nel caso del “flow control” o “look ahead”, non si costituisce una scorta a priori in base agli andamenti
storici e passati, ma la programmazione dei flussi avviene rispettando la tempificazione dei fabbisogni
calcolati in base alla richiesta finale effettiva o in funzione di previsioni attendibili della richiesta finale. Nel
“flow control” l’eventuale formazione di stock lungo la catena logistica è il risultato di vincoli di rigidità
intrinseci al sistema stesso, non certo frutto della logica di gestione sottostante, come avviene invece nello
“stock control”.

In astratto nel “flow control” non dovrebbero esistere scorte di nessun tipo di materiale, salvo per quelle di
transito. Si è detto in astratto perché sarebbe necessario prevedere in misura accurata il manifestarsi della
domanda, anticipare adeguatamente la produzione e l’approvvigionamento dei materiali necessari, non
avere variabilità nei rifornimenti e nel sistema produttivo, ecc….

La produzione

Tutte le imprese, siano esse produttrici di beni oppure di servizi, svolgono, al centro del loro percorso di
creazione del valore, un'attività di trasformazione di risorse, che costituiscono gli “input” del processo
produttivo, in altre risorse, cioè “output”, aventi diverse caratteristiche e funzionalità.

La principale differenza tra la produzione di beni e quella di servizi è l’immagazzinabilità, cioè la possibilità
di trasportare ed immagazzinare i beni materiali, a differenze del servizio, che non si può immagazzinare.

Un’altra differenza sta nella gestione della qualità: nel caso della produzione di beni è possibile realizzare
un controllo preventivo della qualità dei prodotti mediante collaudi prima della loro commercializzazione.
Questo consente di provvedere alla riparazione o alla sostituzione dei prodotti difettosi prima di effettuare
la consegna al cliente, con evidenti riduzioni dei costi, di disservizi, di lamentele e di reclami. Nel caso della
produzione di servizi non è possibile realizzare un controllo preventivo perché produzione, distribuzione,
acquisto e consumo sono momenti contestuali; la simultaneità tra produzione e consumo impedisce la
realizzazione di qualsiasi controllo preventivo. Il servizio deve sempre espletarsi in modo corretto, se ciò
non avviene l’impresa è costretta a qualunque intervento correttivo successivo indipendentemente dal suo
costo, per evitare danni di immagine e la possibile perdita del cliente.

Un’altra differenza è la misura delle prestazioni. Nella produzione di servizi vi è la difficoltà di applicare
criteri di valutazione oggettivi in quanto si devono lasciare ampi margini di adattabilità alle esigenze
individuali dei clienti ed all’intensità di erogazione imposta dalla domanda. Quindi, la qualità di un servizio è
innanzitutto un concetto soggettivo, legato alla soddisfazione del cliente.

Le operations

Le attività operative o operations sono tutte quelle attività relative alle produzioni di beni o erogazione di
servizi all’interno di un’impresa. Tutte le imprese svolgono, al centro del loro percorso di creazione del
valore, un’attività di trasformazione di input, mediante le risorse dell’impresa, in output che hanno la
finalità di soddisfare determinate richieste della domanda.

Le decisioni in ambito delle operations hanno un forte connotato strategico; si fa sempre più spazio al
concetto di OPERATION STRATEGY ovvero le decisioni che condizionano le capabilities. La gestione delle
operations è funzionale al raggiungimento di obiettivi strategici di lungo periodo, da coordinare con le altre
funzioni aziendali.

Le scelte della produzione riguardano:

 l’assetto infrastrutturale, cioè la dimensione, la localizzazione e il grado di automazione degli


impianti;
 la produzione in senso stresso, cioè la determinazione dei livelli di automazione degli impianti e
dell’integrazione delle apparecchiature, i sistemi di programmazione e controllo della produzione e
i sistemi di qualità;
 l’assetto organizzativo, cioè la determinazione della struttura organizzativa, dei meccanismi di
coordinamento e delle competenze delle risorse umane.

Un aspetto fondamentale della produzione è come riuscire ad ottenere vantaggi competitivi. Il primo modo
è quello classico, basato sulla riduzione dei costi di produzione attraverso l’aumento dei volumi produttivi.
Un altro modo è basato sulla flessibilità dell’impresa cioè sulla flessibilità dell’impianto, ovvero dalla
capacità di svolgere le attività in modi differenti. L’ultimo modo per provare ad avere un vantaggio
competitivo è caratterizzato dall’elasticità del sistema produttivo, cioè sulla capacità di variare i mix
produttivi. Un concetto che ha un ruolo fondamentale nel sistema produttivo è quello della qualità della
produzione. Un prodotto per essere definito qualitativamente idoneo deve essere conforme alle specifiche,
idoneo all’uso e che soddisfi il cliente, per arrivare infine alla definizione di qualità totale.

Le economie di impianto o funzionamento

Le economie di impianto o di funzionamento rappresentano quel risparmio di costo che noi possiamo
ottenere attraverso l’individuazione di un grado di sfruttamento dell’impianto che ci ottimizza quel costo,
quindi ottimale da un punto di vista economico perché riusciamo ad avere il costo unitario totale più basso
sfruttando l’impianto in un grado inferiore alla sua massima potenzialità.

Le economie di scala

Le economie di scala possono essere definite come riduzione del costo unitario del prodotto o servizio
derivante da un aumento del volume di produzione. Le economie scala costituiscono un modello di analisi
statico in quanto derivanti da un confronto istantaneo tra il costo di fabbricazione del prodotto utilizzando
in modo alternativo diverse scale di produzione. Alla base ci sono delle determinanti:

1. Le relazioni input-output: determinate combinazioni consentono di variare il complesso degli input


a fronte di cambiamenti dell’output dando luogo a rendimenti crescenti o decrescenti secondo la
legge di rendimenti non proporzionali.
2. L’indivisibilità dei fattori incide sulla possibilità di conseguire economie visto che alcuni impianti non
posso essere frazionati sotto una certa soglia, per cui sarà possibile ripartire i costi di produzione
fissi su una maggiore quantità di output determinando una riduzione del costo medio unitario.
3. Il livello di specializzazione: la riduzione dei costi conseguente alla scomposizione dei processi
produttivi in fasi elementari, le economie di specializzazione rappresentano una fonte per le
economie di scala poiché consentono la standardizzazione produttiva: riduce il costo medio unitario
di produzione.

Le economie di scala e di impianto quindi comportano la DOM (dimensione ottima minima), che costituisce
la capacità produttiva ottima dell’impianto che permette di produrre al minimo costo unitario. Superando
tale soglia si parla di DISECONOMIE DI SCALA.

Le diseconomie di scala

Le cause delle diseconomie di scala sono molteplici: i maggiori costi per la realizzazione di impianti con
componenti non rinvenibili sul mercato nelle dimensioni desiderate ma da far realizzare “su misura” da
imprese terze; i maggiori costi di coordinamento derivanti dall’aumentata complessità organizzativa; i
maggiori costi di gestione dei magazzini; quelli legati all’incremento del rischio, ecc…

Le condizioni ambientali e tecnologiche come determinanti della dimensione degli impianti

La tendenza dell’impresa a non oltrepassare una determinata dimensione deriva dunque da due cause
fondamentali:

- il vincolo imposto dal mercato: l’impresa deve valutare il tasso di crescita della domanda;

- il vincolo tecnico-economico che impone di non superare una determinata soglia dimensionale.

Nell’attuale contesto ambientale, le imprese non abbracciano in modo indiscriminato il modello di crescita
dimensionale descritto: anzi, sta aumentando il peso percentuale di settori e di imprese che tendono ad
una crescita esterna, basata sostanzialmente sulla realizzazione di accordi con altre imprese oppure su
rapporti contrattuali di sub-fornitura. In tal modo, le imprese abbandonano i tradizionali criteri di gestione
basati sull'orientamento alla produzione (abbassamento dei costi medi unitari) e tendono a soddisfare le
esigenze di mercato attraverso un’organizzazione elastica e flessibile della funzione di produzione
(orientamento al marketing).

Le economie di scopo e di varietà

Per economie di scopo si intende il raggiungimento di un vantaggio di costo derivante dalla produzione di
diverse tipologie di output mediante l’impiego dello stesso impianto. Le economie di scopo sono misurabili
tramite la differenza tra il costo di produzione di due prodotti con due impianti diversi e il medesimo costo
di produzione con l’utilizzo di un unico impianto:

C(x+y) < C(x) + C(y)

Oltre alle economie di scopo produttive è possibile ottenere dei vantaggi di ampiezza anche in attività non
direttamente collegate con il processo produttivo, come la R&S, il marketing, il trasporto e le spese
generali.
La presenza di economie di scopo sottende l’esistenza di capacità produttive non completamente utilizzate
o di fattori della produzione con capacità produttiva illimitata (es. marchi, know-how).

Overcapacity

Una delle criticità principali derivanti dallo squilibrio tra domanda e offerta è la presenza di capacità
produttiva in eccesso, tipica delle imprese che realizzano prodotti che si trovano nella fase di maturità del
loro ciclo di vita.

L’overcapacity rappresenta un forte vincolo per le imprese che, nella ricerca di economie di scala e di
scopo, si trovano gestire elevati costi fissi e domanda ridotta; è una condizione che coinvolge un gran
numero di aziende nelle quali la capacità produttiva non è completamente utilizzata per la produzione.
Questo fenomeno è pericoloso soprattutto nel lungo periodo a causa dei sovrainvestimenti che possono
minacciare il livello di profittabilità.

Una risposta può trovarsi:

- nelle attività di marketing: l’impresa può collocare il proprio eccesso di offerta sul mercato e non
perdere i margini di profitto rilevanti;
- nella modularità della produzione: la possibilità di creare processi produttivi complessi composti in
piccoli subsistemi che possono essere progettati per funzionare autonomamente o in modo
integrato con le altre apparecchiature;
- nei sistemi push-pull: che assicura ai consumatori il ricevimento di prodotti che soddisfano i loro
bisogni anche in situazioni imprevedibili, ma che le imprese beneficiano della possibilità di
realizzare le scelte produttive dopo che i clienti manifestano le proprie richieste.

Il diagramma di redditività

Nella pianificazione delle attività produttive ci si sofferma sulla valutazione delle scelte di investimento. La
break even analysis permette di focalizzare l’attenzione sulle relazioni costi-volumi-risultati indicando la
quantità a partire dalla quale l’impresa dovrebbe iniziare a produrre utili.

I costi totali di produzione possono essere espressi come una funzione lineare di Q (quantità di prodotto
finito realizzata in un determinato periodo). I CT sono composti da una quota di costi fissi (CF) e dai costi
variabili (CV). I costi fissi sono quei costi che non variano al variare della quantità prodotta; i costi fissi sono
costituiti principalmente dalle quote di ammortamento di terreni, fabbricati, macchinari. I costi variabili
sono quei costi che variano al variare della quantità prodotta; i costi variabili sono quelli derivanti
dall’utilizzo dei fattori di flusso della produzione (materie prime, semilavorati, lavoro diretto ecc..).
In questo diagramma, sull’asse delle x troviamo le quantità prodotte e vendute, sull’asse delle y troviamo i
costi e i ricavi.

- Q 0: poche vendite (ricavi < costi) = perdite

- Q 1: quanti prodotti devo vendere per coprire i costi (break even point)

- Q2: molte vendite (ricavi > costi) = utile

Rt= P x Q

Ricavi totali = prezzo unitario di vendita ⋅ quantità

Ct= CF + CV

Costi totali = costi fissi + costi variabili

CV= C x Q
Costi variabili= costo unitario ⋅ quantità

Per la determinazione del punto di pareggio (BEP) bisogna eguagliare i ricavi e i costi:

Ct=Rt

CF + CV = P x Q

CF + C x Q = P x Q

CF
Q=
( P−CV )
Il volume di produzione e di vendita di pareggio è dato dal rapporto tra i costi fissi e la differenza tra ricavi
unitari e costi variabili unitari. Tale differenza (P – CV) è denominata “margine di contribuzione unitario”
(coefficiente angolare della curva dei ricavi) e misura il contributo che ogni unità di prodotto venduta
apporta al risultato operativo dell’impresa. Serve per coprire i costi fissi e produrre un profitto. Questa
differenza è positiva quando ogni prodotto contribuisce all’utile aziendale. Se l’azienda riuscirà a vendere
più unità del prodotto sarà nell’area degli utili, se non dovesse riuscirci, subirebbe delle perdite.

In corrispondenza del break even point, il margine di contribuzione è uguale ai costi fossi.

Il diagramma di redditività consente di determinare il grado di sfruttamento della capacità produttiva che
permette la realizzazione dell’equilibrio economico dell’azienda.

RT e CT si incontrano nel punto QBEP.

Se la potenzialità economico-strutturale migliora, QBEP si sposta verso destra (se l’azienda produce/vende
Q2) e si amplia l’area dei profitti. Al contrario, si sposta verso sinistra (se l’azienda produce/vende Q1) e
l’impresa può correre il rischio di entrare nell’area delle perdite.

Il segmento Q2- QBEP si definisce margine di sicurezza, il segmento Q1- QBEP, invece, margine di deficit.

L’analisi del punto di pareggio è spesso funzionale all’analisi della leva operativa, data da:

LO = variazione percentuale del reddito operativo/ Variazione percentuale delle vendite

A un dato livello di fatturato, la leva operativa misura il rapporto tra l’incremento percentuale dell’utile
della gestione caratteristica e l’aumento percentuale del volume delle vendite e indica, quindi, la
propensione della struttura alla generazione di maggiori utili.

Analiticamente:

∆ RO
( )
RO
LO=
( ∆ R / R)
Dove:

LO = leva operativa

RO= reddito operativo

R= fatturato totale

∆ RO=RO t +1−RO t

∆ R=Rt +1−Rt
Graficamente l’effetto leva rappresenta l’ampiezza dell’angolo α dell’area dei profitti nel diagramma di
redditività. La leva operativa esprime il differente impatto che la gestione dei costi esercita sul reddito
operativo. È elevata quando l’incidenza dei costi fissi sul totale dei costi è alta, rilevando una maggiore
rischiosità dell’impresa; in presenza di una bassa leva operativa, la rischiosità della struttura dei costi
dell’impresa è bassa.

Tipologie di processi produttivi

Una delle più note classificazioni dei processi produttivi è fornita dalla «matrice prodotto-processo». Le
variabili sono il prodotto, classificato in base a volumi e varietà (trade-off), e i processi, identificati per grado
di rigidità e regolarità dei flussi.

PRODUZIONI CONTINUE:

- Processo regolare e rigido

- Standardizzazione degli input, degli output e delle condizioni di funzionamento degli impianti

- La produzione è tipicamente per il magazzino

- Ottenimento di beni congiunti e sottoprodotti

- Controllo di qualità e di processo necessari

PRODUZIONI JOB-SHOP E A LOTTI:

- Volumi di produzione crescenti e discreta varietà

- Le risorse dedicate a ciascun progetto non sono esclusive ma condivise con altri prodotti

PRODUZIONI IN LINEA:

- Standardizzazione vincolante sia di prodotto sia di processo

- Alti volumi di produzione

- Sfruttamento di economie di scala mediante l’utilizzo dell’impianto in modo ripetitivo e continuo

La matrice prodotto-processo evidenzia che le condizioni ideali sono quelle corrispondenti ai punti della
diagonale principale -> AREA DI COERENZA

Marketing

Il marketing viene definito come un complesso di decisioni, il cui obiettivo è la massimizzazione


dell'efficienza e dell'efficacia del processo di trasferimento del valore generato dall’impresa ai clienti finali.

L’importanza e la natura di tale attività è cambiata nel tempo:

1. orientamento alla produzione: è quell'enfasi data al processo di produzione finalizzato ad


ottimizzare il processo di produzione. Il processo di produzione si ottimizza con un costo unitario di
produzione minimizzato. Orientamento alla produzione è associato all’epoca e al paradigma della
produzione di massa, cioè una produzione incentrata su prodotti omogenei standardizzati finalizzati
a tenere il costo unitario di produzione più basso possibile;
2. orientamento alle vendite: l’evoluzione dell'ambiente esterno ci porta ad altri orientamenti, in
quanto quelli precedenti cominciano ad essere non coerenti con le condizioni dell’ambiente
esterno. Le imprese cominciano a strutturarsi con propri venditori, proprie filiali di vendite, per
spingere le produzioni verso il mercato.
orientamento al marketing: nasce quando sorge un problema di mercato, di collocazione di
prodotti sul mercato. Prima, nel rapporto tra domanda e offerta, la domanda riusciva ad assorbire
tutta l’offerta; nel tempo questo rapporto si è invertito e quindi, attualmente, vi è un eccesso di
offerta rispetto alla domanda. Si crea una competizione tra gli offerenti e il mercato comincia a
diventare una risorsa scarsa.

Ci sono cinque motivi per cui le persone non comprano:

1. No need

Il primo motivo è il bisogno: il bisogno è quello che muove il nostro atto di acquisto. Il marketing non può
creare artificialmente un bisogno, ma può lavorare sul bisogno latente o su un bisogno avvertito in maniera
molto contenuta, al fine di aumetarlo.

2. No urgency

Il secondo motivo è l’urgenza, questo perché il mercato è in continua evoluzione. Per incrementare le
vendite, ti inducono chiaramente ad acquistare perché altrimenti si perde quell’occasione.

3. No desire

Il terzo motivo è il desiderio: il marketing, attraverso un meccanismo di induzione e di desiderio, ti dà dei


motivi per i quali tu desideri quella determinata cosa.

4. No money

Il quarto motivo è il denaro: non sono disposto a comprare quella cosa perché non è corrispondente al
valore che io percepisco. Quindi il compito del marketing è quello di indurre a dare valore (con dei motivi)
anche laddove magari non c’è (valore).

5. No trust

Il quinto motivo è la fiducia: bisogna usare gli altri consumatori, cioè qualche espediente che possa far
superare questo problema della fiducia in quello che si sta facendo (nei prodotti o nella stessa azienda).

La gestione del marketing e delle vendite

Il processo di marketing si articola su due livelli:

- Livello analitico-strategico

- Livello operativo

Quindi quando parliamo di processo di marketing distinguiamo 5 fasi, di cui 4 relative al marketing
strategico e 1 relativa al marketing operativo:

1. Definizione del mercato

Innanzitutto, è necessario definire il mercato potenziale di riferimento (perché, a chi, come);

2. Segmentazione del mercato

Segmentazione del mercato significa creare delle sottoclassificazioni, cioè una suddivisione del mercato in
segmenti, laddove il segmento è un insieme di consumatori che esprime un bisogno o un’esigenza in
maniera omogenea.
3. Scelta dei segmenti obiettivo

Dopo aver capito come il mercato si segmenta, si fa la scelta dei segmenti obiettivo: è la scelta
imprenditoriale del modello di business.

Le scelte di marketing strategico possono essere di 3 tipi:

- Marketing indifferenziato, cioè si prescinde dalla diversificazione del mercato e dalla


segmentazione. Ci si rivolge in maniera indifferenziata con un prodotto indifferenziato per tutti;
- Marketing differenziato, cioè si adatta l’offerta in base alle esigenze specifiche dei diversi segmenti
di mercato;
- Marketing di nicchia o concentrato, cioè si serve solo una fascia precisa di mercato.
4. Posizionamento del prodotto

Il posizionamento del prodotto rappresenta come il prodotto viene percepito dal mercato, e qual è la
collocazione del prodotto nella mente del consumatore.

Queste 4 decisioni sono decisioni di marketing strategico che danno l’identità al business. Vi è poi la parte
del marketing operativo:

5. Progettazione e implementazione di azioni di marketing (leve di marketing mix)

Significa progettare e implementare azioni di marketing cioè come chi servire, come servirlo, e in che modo
noi intendiamo essere in quel business, come costruiamo il valore attraverso le leve del marketing mix. Le
leve del marketing mix sono 4: products, price, place (inteso come distribuzione) e promotion (intesa come
comunicazione). Marketing mix significa l’insieme delle politiche tra di loro coerenti e coerenti con gli
obiettivi di marketing prefissati. Si parla sia di coerenza interna, cioè tra le 4 leve, e la coerenza esterna,
cioè rispetto agli obiettivi che si vuole realizzare.

La segmentazione del mercato

La segmentazione del mercato è una suddivisione, una frammentazione dei consumatori di un’area di
prodotto/mercato in gruppi, in funzione delle loro caratteristiche intrinseche o comportamentali in base a
dei criteri. È necessario distinguere tra un momento di macro-segmentazione, cioè un primo livello di
segmentazione che ha un carattere più generale, e un momento di micro-segmentazione, molto più
specifica e ci porta poi al risultato finale che desideriamo, cioè quello di individuare quali sono i diversi
segmenti di quell’area prodotto/mercato.

La macro-segmentazione è la scomposizione del mercato di riferimento in prodotti-mercati (o business


units) in base a 3 variabili: bisogni, acquirenti, tecnologie. Poi all’interno di questi prodotti-mercati così
identificati facciamo una micro-segmentazione, cioè scomponiamo questi prodotti-mercati che abbiamo
individuato e analizziamo poi in dettaglio la diversità dei bisogni all’interno dei prodotti-mercati identificati.

La micro-segmentazione consiste nel suddividere il prodotto-mercato in sottoinsiemi di clienti omogenei nel


modo di avvertire un determinato bisogno.

1. Analisi della segmentazione, suddividere il prodotto-mercato in segmenti omogenei;


2. Scelta dei segmenti-target, selezionare uno o più segmenti-target, da avvicinare con un prodotto e
un programma di vendita adatti;
3. Scelta di posizionamento, significa posizionarsi all’interno di quel segmento in base alle attese degli
acquirenti e anche in base alle posizioni occupate dalla concorrenza;
4. Programma di marketing mirato, consiste nello sviluppo di un programma adattato di prodotto,
prezzo, distribuzione e comunicazione.

Segmentazione socio-demografica
È dalla diversità dei profili socio-demografici che scaturisce la diversità dei vantaggi che i consumatori
cercano nel prodotto. Le variabili più utilizzate sono la collocazione geografica, il sesso, l’età, il reddito e le
classi socio-professionali. Questa è la prassi più utilizzata per facilità di misurazione e di accesso diretto alle
informazioni, in quanto non è difficile trovare ed avere questi dati.

Il limite di questo metodo è che è una segmentazione a posteriori, cioè pone l’accento sulla descrizione
degli individui che compongono il segmento, piuttosto che sui fattori che spiegano la formazione di quel
segmento stesso.

Segmentazione socio-culturale e psicografica

Fa riferimento a criteri legati alla cultura, lo stile di vita delle persone, come la religione, il livello di
istruzione ecc.

Segmentazione comportamentale

Un’ulteriore base di segmentazione è rappresentata dal comportamento di acquisto dei consumatori. I


criteri di segmentazione sono:

- Tipo cliente: clienti potenziali, non clienti, clienti al primo acquisto, clienti regolari od occasionali…
- Tasso di utilizzazione del pdt: mira ad identificare il 20 o 30% di clienti che realizza il 70 o 80% del
volume d’affari. Piccoli, medi e grandi utilizzatori;
- Fedeltà del cliente: fedeltà incondizionata, non esclusiva e clienti non fedeli;
- Sensibilità agli elementi di marketing: clienti sensibili al prezzo, qualità o offerte speciali.

Segmentazione in base al beneficio ricercato

Fa riferimento a criteri che hanno una natura in base al beneficio ricercato, e quindi qui entriamo
nell’analisi di quali sono i benefici primari e secondari.

Segmentazione in basi ai vantaggi perseguiti

Ci si concentra sul sistema di valori dei diversi consumatori, cioè il valore o il vantaggio perseguito in un
prodotto diventa il fattore esplicativo da individuare per la formazione del segmento.

Il modello comportamentale è il modello “del paniere di attributi”. Qualsiasi prodotto è un insieme di


attributi, perché in ottica di marketing è necessario fare questa individuazione di quali sono tutti gli attributi
di un prodotto, perché questo diventa poi la base della segmentazione. Il vantaggio di questa
segmentazione è che si concentra sulle differenze tra i sistemi di valore degli acquirenti, cioè quali sono i
valori, i vantaggi.

Gli altri tipi di segmentazione sono più facili e sono descrittivi; questo tipo di segmentazione non è
descrittivo ex-post. Il limite sta nella difficoltà nell’individuazione degli attributi da privilegiare e l’elevato
costo nella raccolta di dati primari direttamente dal mercato, e capire quali sono le preferenze del mercato
e fare quelle scelte di segmento.

La segmentazione è sempre efficace?

Una segmentazione è efficace quando ci consente di avere una risposta differenziata tra i diversi segmenti,
e cioè quando sono rispettate la condizione di eterogeneità tra i segmenti e la condizione di omogeneità
all’interno del segmento. Ciò significa che i segmenti tra di loro devono essere significativamente diversi
(eterogeneità) e all’interno del segmento deve esserci la massima omogeneità dei consumatori.

Per essere efficace, il segmento deve avere una dimensione sufficiente, cioè un potenziale tale da
giustificare lo sviluppo di una strategia di marketing specifica.
Inoltre, il segmento deve essere misurabile; deve essere possibile determinare la dimensione, il potere
d’acquisto del cliente e le caratteristiche in termini di comportamento d’acquisto.

Infine, l’accessibilità, cioè il segmento deve poter essere raggiunto in un determinato modo.

La segmentazione è un’attività molto molto creativa, in quanto vi è uno spettro di variabili da considerare
numerose e differenziate.

Posizionamento del prodotto

Ci troviamo ancora nella fase del marketing strategico. Lo scopo finale del posizionamento è quello di
creare una preferenza stabile nei confronti della mia offerta rispetto a quella dei concorrenti.

Il processo di posizionamento mira a soddisfare tre condizioni:

1. Creare un sistema d'offerta che siano una fonte di valore d’uso per il segmento obiettivo. È
necessario creare qualcosa che sia fonte di valore, d’uso, che serva a soddisfare qualche esigenza,
che dia qualche utilità al nostro consumatore. Il prezzo non è altro che la quantificazione monetaria
del valore che io attribuisco a quel bene o quel servizio. Quindi l’impresa deve essere brava
innanzitutto a definire il valore d’uso di questo bene o servizio per il nostro target (per il nostro
segmento obiettivo), ma anche a trasferire il valore ai clienti finali;
2. Creare una proposta di valore differente rispetto a quella dei concorrenti, cioè far sì che quello che
l’impresa propone abbia degli elementi di distintività (al limite di unicità se questo processo
funziona bene) rispetto all’offerta dei concorrenti;
3. Creare un'immagine della proposta di valore riconoscibile e memorizzabile, quindi creare
un’immagine positiva del prodotto.

La decisione di posizionamento si articola in due momenti:

- Determinazione dell’immagine del prodotto o della marca dell’impresa e dei concorrenti nella
“mente” del segmento di mercato rispetto agli attributi principali utilizzati nel processo di acquisto;
- Valutazione del posizionamento percepito, e quindi qual è poi effettivamente la vera percezione del
consumatore rispetto al prodotto. Quando questo accade, ci sono eventuali azioni correttive del
gap percepito.

Marketing operativo

Conclusa la parte riguardante il marketing strategico, si entra nel marketing operativo, e in particolare nelle
politiche del marketing mix. Le politiche o leve del marketing mix sono le 4 P (prodotto, prezzo,
distribuzione, comunicazione).

Prodotto

Le politiche del prodotto hanno a che fare con tutte quelle decisioni che riguardano la messa a fuoco di tutti
gli elementi e gli attributi del prodotto, quindi l’impresa deve scegliere la giusta combinazione delle
caratteristiche del prodotto/servizio. Le caratteristiche e gli attributi del prodotto devono generare utilità
per l’acquirente, perché deve dare dei benefici che siano legati agli aspetti tecnici prestazionali o che siano
legati anche ad altre dimensioni del prodotto.

Le categorie di beni possono essere individuate in funzione del livello di informazione e del rischio:

 Beni convenience e preference: sono i beni di largo e generale consumo. I beni di largo e generale
consumo sono beni che vengono acquistati con un’elevata frequenza, che hanno un prezzo di
vendita contenuto e che non richiede un particolare processo di acquisizione di informazioni o di
valutazione comparativa tra le diverse offerte del mercato.
I beni convenience sono beni di largo e generale consumo non di marca, mentre i beni preference
sono beni di largo e generale consumo di marca. I beni convenience sono beni che costano poco e
che vengono acquistati con grande frequenza e, quindi, per i quali non si è disposti a perdere tanto
tempo per fare un’analisi di mercato, di tutte le offerte che ci sono, metterle in comparazione e fare
un processo più articolato di scelta razionale sulla base di una comparazione di questi elementi.
 Beni shopping: sono i beni che hanno un prezzo più elevato, una frequenza di acquisto molto meno
ricorrente rispetto ai beni convenience e sono i classici beni che vengono comprati dopo aver
effettuato un minimo di analisi, dopo aver avvertito l’esigenza di acquisire delle informazioni sui
prodotti che ci sono;
 Beni specialty: sono i beni che vengono acquistati molto di rado, che hanno un costo molto elevato
e quindi lì il processo e la mia necessità di informazione è molto maggiore rispetto ai beni shopping.
Ad esempio, un bene specialty è un automobile, un bene che viene acquistato molto raramente e
che ha un prezzo elevato, quindi la ricerca di informazione sarà sicuramente problematica,
difficoltosa, onerosa.

Il rischio collegato a questi acquisti è ben diverso: nei beni convenience è un rischio molto basso, ci
interessa molto poco dover fronteggiare questo rischio, motivo per il quale il livello di informazione che noi
andiamo ad acquisire è basso. Nei beni shopping il rischio di acquisto è più alto, in quanto stiamo parlando
di beni che hanno un prezzo più o meno elevato, ma comunque un prezzo che mi giustifica una esigenza e
una ricerca di informazione. Il rischio dei beni specialty è molto elevato perché stiamo parlando di beni con
alto prezzo, quindi il rischio di acquisto è molto alto.

Il rischio si fronteggia informandosi, quindi il livello di informazione e il livello di rischio sono due elementi
strettamente connessi: al crescere del rischio di acquisto cresce il fabbisogno di informazione, quando il
rischio di acquisto è elevato ovviamente è elevato anche il fabbisogno di informazione.

Le scelte di prezzo

Il prezzo è:

- Un parametro di riferimento primario, un elemento che viene sempre preso in considerazione;


- È la quantificazione monetaria del valore assegnato al prodotto;
- È un aspetto critico nel caso di ingresso di un nuovo prodotto per il mercato e qui abbiamo due
opzioni fondamentali: la scrematura del mercato e la penetrazione del mercato. Quando si parla di
penetrazione del mercato, si parla di entrare nel mercato con un prezzo più basso dei concorrenti
per avere un obiettivo di sviluppo rapido, cioè in tempi stretti raggiungere un certo volume di
vendita. La scrematura è l’opposto, cioè significa fissare il prezzo alto e necessariamente scremare il
mercato perché saranno meno i consumatori disposti a comprare ad un prezzo elevato.

Gli elementi che devono essere presi in considerazione per la fissazione di un prezzo sono: i costi di
produzione di quel prodotto; l’elasticità della domanda, cioè la sua reazione a diverse ipotesi diverse di
prezzo (e quindi devo tener conto della disponibilità della domanda ad accettare un prezzo più alto e fino a
che punto la domanda mi mostra disponibilità ad accettare un prezzo più alto); i concorrenti, bisogna
sempre tener conto dei prezzi dei concorrenti.

Distribuzione

Il canale distributivo non è altro che l’insieme dei soggetti che svolgono funzioni di intermediazione
commerciale. La distribuzione è un insieme di attività che servono per trasferire fisicamente i prodotti dal
produttore al consumatore, che quindi consentono che i prodotti si trasferiscono dai luoghi di produzione ai
luoghi di consumo. I canali distributivi possono distinguersi in:

- canali diretti: quando non ci sono intermediari commerciali, quindi il produttore si collega in
maniera diretta ai suoi consumatori (ad esempio e-commerce);
- canali indiretti: quando il collegamento tra produzione e consumo è mediato dalla presenza degli
intermediari commerciali, e cioè da tutte quelle figure professioniste delle funzioni di distribuzione
che sono tipicamente i grossisti, i dettaglianti, i rappresentanti, gli agenti di vendita, ossia tutte
quelle figure di intermediazione commerciale. Il canale indiretto a sua volta lo distinguiamo in lungo
e breve in base alla numerosità di questi soggetti. Il canale indiretto lungo risponde all’esigenza di
distribuire il più capillarmente possibile prodotti convenience. Il prezzo diminuisce perché la fase di
distribuzione finale non è controllata ma delegata; si lavora anche sulla quantità. Nel caso del
canale indiretto breve l’impresa dovrà instaurare un numero di relazioni superiore al canale
indiretto lungo, in quanto dovrà raggiungere direttamente i vari punti vendita in cui includere la
propria offerta nell’assortimento. Ne consegue che il costo è maggiore, perché non è solo
rappresentato dal margine al distributore, ma anche dalla componente fissa dovuta all’utilizzo di
una struttura logistica a cui è demandata direttamente la consegna.

La scelta del canale può dipendere dalle caratteristiche del prodotto, dalle risorse disponibili, dalle
caratteristiche del mercato, dal comportamento dei concorrenti. In linea generale, i prodotti convenience
vengono commercializzati attraverso canali indiretti lunghi, cioè di solito seguono la trafila (produttore,
grossista, dettagliante, consumatore) e quindi con una presenza significativa di soggetti. Un canale indiretto
breve lo possiamo trovare per i beni shopping, mentre un canale diretto tipico è nel settore B2B (business
to business), dove cioè non abbiamo intermediazione, ma un collegamento diretto tra consumatori e
produttori.

La pressione distributiva

La pressione distributiva significa definire il numero di punti vendita che trattano la stessa categoria di
prodotti in cui l’impresa vuole essere presente; scegliere una pressione distributiva significa scegliere quali
sono i punti di vendita dove io voglio che il mio prodotto sia presente, dove voglio commercializzare il mio
prodotto.

Possiamo distinguere tre diverse politiche distributive:

 distribuzione intensiva: l’obiettivo è di garantire un’elevatissima copertura del mercato con la


presenza nella maggioranza dei punti vendita che hanno in assortimento quel particolare prodotto
(beni convenience e preference);
 distribuzione selettiva: l’obiettivo è di selezionare un numero limitato di punti vendita in modo da
poter esercitare un maggior livello di controllo sul canale. La scelta dei punti vendita avviene in
funzione delle caratteristiche dell’intermediario, del prodotto e del segmento obiettivo (beni
shopping);
 distribuzione esclusiva: assegna a pochi punti vendita un’esclusività territoriale. È la più complessa
da gestire perché l’azienda vuole farsi notare come un brand esclusivo nella mente del
consumatore (beni specialty).

Comunicazione

L’ultima delle P è la promotion, cioè la comunicazione.

La finalità della comunicazione è offrire informazioni inerenti la differenziazione dell’offerta; oltre che
fornire informazioni, c’è anche uno scopo di orientamento e di attrazione. Gli strumenti a disposizione
sono:

 Pubblicità: è un tipo di media indifferenziato, con un messaggio non dedicato quindi non ha molta
efficienza per capire se questo messaggio informativo ha influito realmente sulle vendite;
 Direct marketing: strumenti diretti, dedicati a quelle persone che sappiamo potrebbe vincolare
quei soggetti all’acquisto (collegamento diretto tra i venditori e il consumatore);
 Pubbliche relazioni: ossia le public relation che fanno le aziende per avere visibilità, per partecipare
alla vita della collettività, per avere consenso diffuso;
 Sponsorizzazioni: si lavora sull’immagine, sul fatto che c’è il nome o logo, quindi è un modo di
promuovere l'immagine o l’azienda;
 Promozioni: le promozioni sono quelle politiche che sono fatte di breve periodo che servono per
aiutare le vendite.

Gli obiettivi della comunicazione sono (AIDA -> fasi che attraversa il consumatore per poi concretizzare il
suo acquisto):

- Attenzione: qualcosa che deve richiamare l’attenzione del consumatore sul ì prodotto;
- Interesse: provocare un interesse su quel prodotto/servizio;
- Desiderio: questo interesse deve tradursi poi in desiderio di avere quel prodotto;
- Azione: e poi dal desiderio c’è l’azione, cioè l’acquisto di quel prodotto.

Servizi di assistenza post-vendita

Questi sono servizi che l’azienda attiva per seguire il consumatore anche dopo l’acquisto e per farli
rimanere consumatori di quel prodotto/azienda. È un’attività supplementare per aggiungere valore al
prodotto. Sono servizi di assistenza, come la manutenzione, il ricambio. In ottica di marketing relazionale, è
molto importante perché significa che la relazione con i clienti non finisce nel momento in cui i consumatori
comprano, c’è poi una vita successiva all’acquisto.

Le determinanti sottese all’importanza dei servizi di assistenza post-vendita sono la concentrazione della
domanda, la dilatazione dell’offerta, la difficoltà di mantenere i vantaggi competitivi.

Il “service” assume una sostanziale valenza strategica. Queste attività di assistenza post-vendita
rappresentano:

- una leva per la fidelizzazione del cliente, perché parliamo di uno strumento di marketing
relazionale, cioè gestire al meglio la relazione con il cliente e proiettare una relazione nel
medio/lungo periodo;
- una fonte di vantaggio competitivo, perché è un'area dove io mi vado a differenziare rispetto ai
concorrenti e quindi la devo inquadrare come fonte di vantaggio competitivo;
- un business autonomo ad elevata redditività.

La gestione delle risorse umane


La gestione delle risorse umane è un insieme delle pratiche di reclutamento, selezione, addestramento e
formazione del personale impiegato all’interni dell’organizzazione. È una delle attività più critiche che esiste
in un’impresa perché gestire le risorse umane non è una cosa affatto semplice: l’uomo è la risorsa più
difficile da gestire in quanto è portatrice di elementi di criticità importanti ed ha un potenziale enorme, sia
in positivo che in termini di disfunzionalità e di negatività.

Prima si parlava di gestione del personale da almeno 20 anni si parla di gestione delle risorse umane. Negli
ultimi venti anni, la gestione delle risorse umane ha avuto un’importanza crescente non solo per ragioni
collegate ai costi, ma soprattutto per l’influenza che la qualità delle risorse umane ha sul perseguimento
degli obiettivi strategici e sul successo dei modelli organizzativi prescelti. La rilevanza delle risorse umane è
connessa sia alle conoscenze, sia al capitale sociale che deriva dall’interazione di tali individui e dalla
contestualizzazione delle loro conoscenze. Leana e Van Buren definiscono come “capitale sociale
organizzativo” proprio quel surplus di conoscenza che deriva dall’interazione sociale tra i membri di
un’organizzazione e che si manifesta nella capacità degli stessi di perseguire obiettivi comuni.

Esiste un rapporto di stretta interdipendenza tra gestione delle risorse umane e capacità strategica
dell’impresa. La gestione delle risorse umane dipende fortemente dal modo in cui il management coinvolge
gli individui impegnati ai vari livelli dell’organizzazione e dalla sua capacità di motivarli, sviluppando il loro
senso di appartenenza nell’organizzazione.

Tematica centrale è la strutturazione della mansione, che deve coniugare la dimensione specialistica con la
dimensione dell’appagamento professionale, psicologico, sociale.

Tecniche di strutturazione della mansione:

- Job enlargement (dimensione orizzontale);


- Job rotation;
- Job enrichment (dimensione verticale: autonomia e potere decisionale);
- Lavoro di gruppo

Tre parametri di valutazione dei contenuti della mansione: varietà, autonomia e contribuzione.

Reclutamento e selezione: esigenza di flessibilità dell’impresa

Richiede la capacità delle risorse umane di accrescere il proprio capitale cognitivo e di adattarsi a situazioni
nuove che possono richiedere lo sviluppo di conoscenze nuove e diverse rispetto a quelle possedute o la
necessità di modificare il proprio ambito di responsabilità e le mansioni svolte all’interno dell’impresa.

Gli strumenti più utilizzati per il reclutamento sono:

Interno (job posting) o esterno:

- Autocandidature;
- La ricerca, da parte delle imprese, dei talenti presso scuole, istituti di ricerca e università;
- Il ricorso ad agenzie pubbliche o private che raccolgono i curricula delle persone in cerca di lavoro;
- Il rapporto con associazioni professionali e sindacati.

La selezione è la scelta dei soggetti che entreranno a far parte dell’organizzazione sulla base di una
valutazione di conoscenze, attitudini, capacità di apprendimento, personalità.

La selezione è composta da due momenti: il primo di screening dei curriculum ricevuti (parametri generali:
livello di scolarizzazione, competenze linguistica e informatica, precedenti esperienze lavorative) e in
seguito una valutazione della motivazione del candidato e della coerenza con il profilo ricercato (colloqui e
test attitudinali). Le principali tecniche di selezione sono colloqui, prove professionali, indirizzate a
verificare le abilità specifiche dei candidati, e test psicologici (test d’intelligenza, psico-attitudinali, di
personalità, di conoscenza).

Reclutamento attraverso il mercato interno

Il ricorso al mercato interno favorisce inoltre una maggiore integrazione e coesione delle risorse umane,
ottiene un miglior rendimento dagli investimenti in formazione (il cui risultato resta e viene capitalizzato
all’interno dell’impresa) e migliora le relazioni con i sindacati. Si utilizza soprattutto per le posizioni più
elevate, considerando le possibilità di carriera delle risorse umane già presenti e per le quali risulta minore
il rischio di incertezza relativo all’effettiva verifica delle capacità e delle conoscenze richieste per una
determinata posizione. Tuttavia, espone l’impresa ad una serie di costi relativi alla rigidità dei meccanismi di
amministrazione che devono essere creati e mantenuti in essere dall’impresa, e all’assunzione dei rischi di
obsolescenza delle risorse umane.

Le scelte di Outsourcing delle risorse umane prevedono una riduzione dei costi di reclutamento e selezione,
e delle prime attività di formazione e addestramento. L’utilizzo di risorse umane interne facilita il
coordinamento e facilita la comprensione, da parte del management, delle competenze e delle capacità
effettivamente e stabilmente presenti all’interno dell’organizzazione; esso facilita, inoltre, il processo di
socializzazione e riduce i costi di transazione, costi che sono particolarmente elevati nel caso di lavoratori
specializzati o portatori di competenze specifiche. Il ricorso a lavoratori esterni (temporanei o a contratto)
riduce, invece, i costi amministrativi, innalza il livello di flessibilità organizzativa dell’impresa, garantisce
maggiore discrezionalità nella composizione delle R.U. che possono essere di supporto all’impresa in una
particolare fase della gara competitiva.

1. Valore -> contributo che le risorse umane possono potenzialmente offrire al raggiungimento del
vantaggio competitivo
2. Unicità -> livello di specificità delle risorse e frequenza con cui vengono utilizzate all’interno
dell’impresa

QUALI SCELTE?

Elevato valore/ Elevata unicità -> Sviluppo interno

Basso valore/ Bassa unicità -> Mercato

Elevato valore/ Bassa unicità -> Alleanze

Basso valore/ Elevata unicità -> Acquisizione di risorse già formate

ADDESTRAMENTO e FORMAZIONE

L’addestramento è il trasferimento di abilità già definite e controllabili (operai e operai specializzati)

La formazione è lo sviluppo di abilità nuove o relative al dominio di situazioni incerte e diverse rispetto al
passato.

Conoscenze generali: mantengono un valore anche all’esterno dell’impresa

Conoscenze specifiche: strettamente ancorate al contesto organizzativo nel quale si sviluppano

Sviluppo della tecnologie

Lo sviluppo della tecnologia come attività di supporto riguarda un insieme di attività finalizzate al
miglioramento dei prodotti e dei processi: sviluppo del know-how, delle procedure informatiche, delle
tecnologie di produzione, dei progetti e degli studi di fattibilità. La tecnologia è presente in tutte le attività
della catena del valore, perché qualsiasi attività necessita di conoscenze tecnologiche. Tuttavia, anche se
esiste questa trasversalità, è anche vero che risulta necessario individuare un “luogo” all’interno
dell’azienda in cui queste conoscenze tecnologiche vengono generate.

In passato, sembrava essere una competenza esclusiva delle aziende del settore high-tech; oggi, tale attività
deve essere patrimonio di tutte le aziende indipendentemente dal settore in cui operano: per innovazioni,
infatti, si intendono le modifiche dei prodotti o dei processi o dell’approccio al mercato di riferimento. La
tecnologia viene inserita nelle attività di supporto, sia perché deve fornire le conoscenze a tutte le attività
della catena del valore, sia perché deve continuamente dialogare con queste ultime per determinare quali
sono le innovazioni necessarie all’impresa per il raggiungimento del vantaggio competitivo. Infatti, lo
sviluppo della tecnologia è una competenza base dell’azienda ottenuta dalla combinazione di diversi
segmenti di conoscenza, e, nel momento in cui genera un vantaggio competitivo, può qualificarsi come
competenza distintiva. La ricerca e sviluppo non si concentra più solo sulla produzione, ma soprattutto sul
trasformare gli investimenti di essa in risultato, poiché è un’attività che va a impattare sulla pianificazione
strategica.

Closed e open innovation model

CLOSED INNOVATION -> Grande impresa verticalmente integrata che sviluppa l’innovazione facendo leva
sulla R&S interna.

Tuttavia tale atteggiamento, nel lungo periodo, potrebbe costituire un problema in quanto una crescita
autoreferenziale delle risorse e delle competenze potrebbe limitare la capacità dell’impresa di attingere a
idee realmente nuove stimolando la crescita su conoscenze esistenti (explotation) piuttosto che lo sviluppo
di conoscenze diverse (exploration). E quindi si sviluppa l’open innovation.

OPEN INNOVATION -> Il valore non è più il risultato esclusivo di una trasformazione interna di input in
output ma si origina da una combinazione intelligente ed efficace di risorse interne ed esterne.

Ciò non comporta che l’impresa debba trascurare di investire in R&S interna, perché le due devono essere
modalità complementari e non sostitutive per lo sviluppo dell’innovazione.
Open e Closed Innovation Model sono modelli complementari più che alternativi. Inoltre tra di essi esistono
numerose sfumature intermedie che definiscono il grado di apertura dell’impresa.

Tipologie di innovazione

 INNOVAZIONE DI PROCESSO: miglioramento dei processi produttivi, della gestione, della logistica,
introduzione di sistemi informativi ma sugli stessi prodotti;
 INNOVAZIONE DI PRODOTTO: lancio sul mercato di prodotti nuovi o incremento della gamma
esistente.

Tra le due tipologie di innovazioni c’è un legame, in cui si distingue:

- Performance maximizing: momento iniziale, nel quale un ruolo fondamentale è svolto dalle
innovazioni di prodotto, necessarie per la conquista di maggiori quote di mercato con prodotti
innovativi; gli stimoli all’innovazione sono dati da informazioni circa i bisogni degli users e gli input
tecnici degli stessi, l’obiettivo è un cambiamento radicale dei prodotti per ottenere un vantaggio
competitivo;
- Sales maximizing: seconda fase, stimoli all’innovazione sono ricercati nelle opportunità generate
dall’evoluzione delle competenze interne ed essa viene applicata soprattutto per migliorare le
caratteristiche funzionali del prodotto al fine di una maggiore varietà del prodotto stesso;
- Cost minimazing: ultima fase, nella quale la pressione alla riduzione dei costi di produzione spinge
allo sviluppo di innovazioni, per cui è necessaria l’applicazione di innovazioni di processo perché si
riducano i costi di produzione.

Due aree applicative della R&S -> R&S di prodotto e di processo. L’importanza delle due aree è legata anche
alla strategia competitiva di base.

Secondo Freeman abbiamo:

 INNOVAZIONI RADICALI: costituiscono innovazioni volte a sostituire o a relegare tecnologie e


filosofie esistenti ad un ruolo secondario, che si manifestano in modo discontinuo nel tempo.
Creazione di nuovi business distruzione di quelli esistenti;
 INNOVAZIONI INCREMENTALI: miglioramenti apportati al prodotto o ai processi, in genere
stimolati dalla domanda, che si manifestano con una successione costante nel tempo.

Le due devono essere complementari tra di loro. Per raggiungere il successo nello sviluppo innovativo, le
imprese devono, ogni tanto, addirittura frenare il cambiamento, cioè a fasi di maggiori cambiamenti
devono intervallarsi fasi di minori cambiamenti in un approccio di “stabilità dinamica”. Potrebbe capitare
infatti che l’impresa, innovando, si ritrovi a fronteggiare rischi non controllabili in quanto entra in attività
per le quali non possiede appropriate conoscenze. In tal senso, può essere utile considerare la
classificazione delle innovazioni proposta da Pisano che classifica le innovazioni in funzione
dell’adattamento della nuova tecnologia rispetto alle competenze di mercato e tecnologiche già possedute
dall’impresa:

- Routine innovations: si basano sulle competenze già possedute dall’impresa sia di mercato che
tecnologiche; rientrano in questa categoria le innovazioni di carattere incrementale, ad esempio il
lancio di un nuovo modello di processore o di smartphone;
- Distruptive innovation: si basano sulle competenze tecnologiche esistenti dell’impresa ma che
richiedono l’implementazione di nuove logiche di mercato perché si rivolgono a nuovi gruppi di
consumatori o soddisfano bisogni diversi dei consumatori già in essere; come ad es. la TV on
demand;
- Radical innovation: prevedono l’implementazione di nuove tecnologie non possedute dall’impresa
per creare prodotti che si rivolgono alla stessa base di consumatori e soddisfano gli stessi bisogni;
ad es. auto elettrica;
- Architectural innovation: prevedono lo sviluppo di nuove conoscenze di mercato e nuove
competenze tecnologiche e costituiscono, quindi, la forma più complessa di innovazione.

Generazione dell’innovazione tecnologica

INVENZIONE -> È il risultato dell’uso creativo della conoscenza, cioè implica lo sviluppo di un concetto
specifico che, se sfruttato economicamente sotto forma di processo produttivo o prodotto, può considerarsi
innovazione. Questa fase è relativa alla produzione di “idee innovative” ed è strettamente collegata al
concetto di creatività. In questa fase l’impresa deve cercare di sviluppare il maggior numero di idee possibili
e, in questo senso, può attingere a qualunque fonte di conoscenza sia interna all’organizzazione. Infatti
oggi, l’idea dei clienti come fonte dell’innovazione è la prassi per molte grandi imprese che, chiedono ai
clienti di fornire idee per realizzarne di nuovi o il miglioramento dei prodotti. L’invenzione prevede poi la
selezione delle idee e la scelta di quella o di quelle che devono poi procedere alla fase di sviluppo.

INNOVAZIONE -> L’innovazione può richiedere l’investimento di ingenti risorse umane e finanziare per
poterne sostenere tutte le fasi di sviluppo. È strettamente connessa con l’attività di sviluppo e si tratta della
sperimentazione dei nuovi prodotti e il loro miglioramento attraverso dei test su di essi. Ruolo non
secondario è attribuito agli errori in cu ci si può imbattere nella sperimentazione, che sono la base per poter
migliorare le tecnologie prodotte. La fase di sviluppo richiede per l’impresa il più alto dispendio di energie,
anche economiche, ed è per questo che molte imprese oggi cercano occasioni di collaborazione con altri
soggetti per condividere e/o esternalizzare parte della fase del processo di sviluppo dell’innovazione.

DIFFUSIONE -> È un fenomeno sociale complesso che coinvolge fattori economici e non economici. Si tratta
di aprire il processo di innovazione al mercato per poi alimentare gli altri processi.

Sviluppo delle tecnologie: risorse interne

1. PROCESSO DI TRASFERIMENTO DELLE CONOSCENZE TACITE: tali conoscenze sono costituite


dall’insieme delle conoscenze frutto delle esperienze maturate che si stratificano in azienda nel
corso degli anni, che consentono alla stessa di ottenere continui incrementi di produttività, di
qualità e di miglioramento delle condizioni di lavoro.
• Vantaggi: patrimonio esclusivo dell’azienda e difficili da imitare, basso costo.
2. REALIZZAZIONE DI UN REPARTO DI R&S INTERNO (forma di creazione della conoscenza più
sofisticata): l’azienda deve disporre al proprio interno di un gruppo di lavoro dedicato
all’innovazione.
• Vantaggi: pieno controllo sull’innovazione e sulle sue evoluzioni, rendite temporanee, promozioni
a livello governativo.
• Svantaggi: elevati costi, processo rischioso, tempi lunghi di sviluppo delle innovazioni,
disponibilità di risorse umane e tecnologiche adeguate.

Sviluppo delle tecnologie: risorse esterne

1. CONTRATTI DI LICENZA: attribuiscono all’azienda contraente il diritto di utilizzare innovazioni


sviluppate dall’azienda che cede il diritto di utilizzo.
• Vantaggi: possibilità di saltare la fase di sviluppo per passare subito all’implementazione,
riduzione dei costi e loro diluizione nel tempo.
• Svantaggi: nessun controllo del know-how dell’innovazione, rendita limitata nel tempo, contratti
a volte non in esclusiva.
2. ACQUISTO DI TECNOLOGIE: l’azienda acquista un bene che ha incorporata una tecnologia
innovativa.
• Vantaggi: forma più rapida per ottenere una tecnologia, basso rischio, supporto del fornitore
nelle fasi di implementazione.
• Svantaggi: nessun controllo delle conoscenze, né diri o di esclusiva sull’innovazione tecnologie
non “core”.
3. ACQUISTO DI AZIENDE CON TECNOLOGIE PROPRIE: entrare in possesso del patrimonio di
conoscenze dell’azienda acquisita. L’acquisizione può riguardare il trasferimento del pacchetto di
controllo dell’azienda innovatrice, in altri casi può implicare l’acquisto del 100% delle aziende.
• Vantaggi: acquisto di tecnologia e quota di mercato, rischio limitato.
• Svantaggi: difficoltà di valutazione nel caso di imprese con tecnologie intangibili (accordi di pre-
acquisizione), integrazione tra le diverse imprese.
4. REVERSE ENGINEERING (e imitazione e ricerca): lo sviluppo avviene cercando di risalire alle
tecnologie incorporate in un prodotto, realizzato da un’altra impresa, studiandone le sue
caratteristiche salienti per cercare di risalire ai processi necessari per la sua realizzazione, alle
competenze tecniche di cui si ha bisogno per poter essere competitivi con quel prodotto e ai criteri
seguiti per il suo sviluppo.
• Vantaggi: processo poco rischioso, costi limitati, possibilità di migliorare i prodotti.
• Svantaggi: scelta di essere “follower”, non sempre è possibile risalire con precisione alla
tecnologia dell’impresa innovatrice, violazione di brevetti e possibili costi legali.

Sviluppo delle tecnologie: combinazioni di sviluppo interno ed esterno


1. TRASFERIMENTO DI TECNOLOGIE (donor e receiver): da una parte è necessario disporre di un dono
della tecnologia, ovvero di un’azienda disposta a cedere il proprio know-how (donor), dall’altro,
l’azienda receiver deve disporre di risorse nel proprio staff in grado di interpretare conoscenze
sviluppate da terzi e di promuoverle all’interno della propria azienda.
• Vantaggi: costi contenuti e time to market (tempo di lanci del prodotto sul mercato) più breve.
• Svantaggi: know-how difficile da accettare -> trasferimento di innovazioni di processo.
2. CONTRATTI ESTERNI DI RICERCA E SVILUPPO: svolgere parte della propria attività innovativa
ricorrendo a risorse esterne specializzate. I contratti esterni vengono affidati a centri di ricerca
specializzati pubblici e privati, a dipartimenti universitari e ad aziende specializzate nella ricerca
applicata.
• Vantaggi: acquisizione di competenze di cui non si ha disponibilità, eliminazione di costi fissi.
• Svantaggi: non pieno controllo della tecnologia, tempi e costi simili ad un reparto interno di R&S,
l’ente esterno può vendere ad altri soluzioni simili.
3. CONTRATTI ESTERNI DI R&S CON PARTNERSHIP: molto simile a quella precedente. La differenza
sta nel fatto che, in questa modalità, ci sono più aziende in alleanza a stipulare contratti di ricerca
con soggetti esterni. Queste, possono sia essere tra loro concorrenti, ovvero essere operanti nello
stesso settore ma in segmenti diversi della filiera industriale. Si opera in alleanza quando i progetti
di ricerca sono troppi rischiosi da poter essere sostenuti da una singola impresa.
• Vantaggi: ripartizione del rischio e riduzione dei costi di sviluppo, confronto che genera
apprendimento.
• Svantaggi: condivisione dei risultati della ricerca, adattamento dei risultati all’impresa.
4. JOINT VENTURE E CONSORZI: modello di acquisizione delle innovazioni sviluppate da altre imprese;
esse possono essere costituite sotto forma di società vere e proprie o sotto forma di accordi
contrattuali che coinvolgono due o più imprese, in particolare, nel caso in cui l’accordo coinvolga un
numero più elevato di attori si configurano i consorzi. Le joint venture e i consorzi vengono
costituiti da imprese con risorse complementari o in grado di generare sinergie positive.
• Vantaggi: riduzione dei tempi e dei costi di accesso al mercato.
• Svantaggi: condivisione degli obiettivi strategici.

La Finanza

Ci sono 3 fasi individuabili nel ruolo della finanza nel governo dell’impresa: finanza subordinata; finanza
integrata; finanza strategica collegata al modello del valore.

Finanza subordinata

Il compito più antico e tradizionale della finanza era quello di reperire mezzi di finanziamento necessari a
soddisfare il fabbisogno finanziario collegato alle politiche di investimento, cioè trovare come finanziare gli
investimenti. La fase della finanza subordinata evoca una fase in cui la finanza è un semplice mezzo di
collegamento tra i fabbisogni generati dalle scelte strategiche tradotti in progetti di investimento e i mercati
dei capitali.

Finanza integrata

Nella fase successiva si parla di finanza integrata o allargata. Fa riferimento all'ampliamento della funzione
anche alle decisioni relative all’efficace impiego del capitale. La “finanza allargata” o “finanza integrata”
acquisisce un carattere nettamente decisionale e amplia le proprie competenze all’intera problematica
relativa all’acquisizione e all’impiego delle risorse finanziarie. Assume il compito di valutare la convenienza
economica dei progetti di investimento derivanti da esigenze di crescita o da fabbisogni legati al regolare
svolgimento dell’attività aziendale, tutelando le condizioni di equilibrio finanziario
Questa fase allargata è, sostanzialmente, la fase di sviluppo di tutte le tecniche di valutazione dei progetti e
di investimento. Lo scopo fondamentale è quello di tutelare le condizioni di equilibrio finanziario
(patrimoniale, che ha a che fare con la struttura delle fonti e degli impieghi; monetario, che ha a che fare
con le entrate e le uscite).

Finanza strategica

Questa terza fase di finanza strategica è derivata dall’affermazione del modello del valore. La “finanza
strategica” diventa funzione di supporto alle strategie aziendali: si assiste così ad un avvicinamento e
interazione tra strategia e finanza, da cui scaturisce il modello del valore: ogni decisione aziendale deve
essere presa in considerazione del valore che essa è capace di creare per gli azionisti. Tale valore (per gli
azionisti) generalmente viene calcolato attraverso la somma dei dividendi percepiti e dal guadagno in conto
capitale derivante dall'aumento del prezzo delle azioni sul mercato dei capitali.

L’attività finanziaria è oggi deputata a:

1. Predisporre le regole e gli strumenti da utilizzare per la valutazione degli investimenti e delle
strategie;
2. Decidere qual è la struttura finanziaria di copertura e il reperimento delle fonti di finanziamento,
significa quel concetto di equilibrio finanziario di cui parlavamo e cioè avere un rapporto equilibrato
tra fonti e impieghi di capitale. Quindi reperire le fonti di finanziamento in modo da salvaguardare
l’equilibrio finanziario, e quindi il compito della finanza è quello di presidiare che nella scelta delle
nostre fonti di finanziamento noi riusciamo sempre a salvaguardare un concetto di equilibrio
finanziario;
3. Gestire la Tesoreria;
4. Gestire i rischi (risk management), quest’area negli ultimi 15 anni ha avuto una importanza
crescente molto importante. La figura del risk manager è una figura professionale che in azienda
prima non esisteva che invece è cominciata a esistere che si occupa di gestire i rischi di tutti i tipi
dell’azienda e trovare chiaramente il modo migliore per fronteggiare i rischi.

Valutazione degli investimenti

La valutazione degli investimenti è l’impiego di mezzi finanziari allo scopo di ottenere una serie di risultati
futuri, distribuiti su un periodo temporale più o meno esteso. Un investimento è, quindi, una decisione che
presenta alcune caratteristiche peculiari: riguarda tipicamente l’acquisizione di immobilizzazioni tecniche;
sugli investimenti tende a concentrarsi il rischio d’impresa: l’uscita monetaria è certa, mentre i flussi di
ritorno sono gravati da un rischio dovuto all’andamento della situazione aziendale; implica un ciclo
finanziario lungo, inteso come gap temporale tra l’uscita finanziaria e un ritorno dilazionato anche in più
soluzioni nel tempo.

Abbiamo due criteri di valutazione degli investimenti:

 Criteri finanziari di valutazione degli investimenti basati sul discounted cash flow (flussi di cassa
attualizzati):
- Valore Attuale Netto (VAN)
- Tasso Interno di Rendimento (TIR)
 Criteri non finanziari di valutazione degli investimenti:
- Tempo di recupero (payback period)

La metodologia comunemente utilizzata per valutare in via preventiva le decisioni di investimento, in un


contesto di risorse finanziarie scarse, è il modello del Capital Budgeting:
- Fissazione dell’orizzonte temporale, basato sulla vita economica del bene oggetto di investimento,
cioè sul numero di anni in cui l’investimento sarà in grado di generare flussi finanziari futuri, che
scaturisce dalla comparazione tra la vita fisica del bene e il periodo di obsolescenza;
- Quantificazione dei flussi di cassa per ogni proposta;
- Valutazione dei flussi di cassa attualizzati mediante la Discounted Cash Flow Analysis: tutti i flussi di
cassa futuri generati dall’oggetto di investimento vengono attualizzati attraverso un fattore di
attualizzazione che tiene conto dei capitali impiegati e del grado di rischio della nuova iniziativa;
- Selezione delle proposte sulla base di un criterio di accettazione.

I flussi finanziari da prendere in considerazione sono quelli futuri e differenziali (flussi incrementali),
costituiti da tutti i flussi di cassa in uscita e in entrata direttamente generati dall’investimento di cui si sta
valutando la fattibilità finanziaria. Tipologie:

• I flussi generati dall’acquisto dell’oggetto dell’investimento (in uscita);

• I cash flow generati dalla gestione caratteristica;

• I flussi generati dall’impiego del capitale circolante netto operativo (CCNO);

• I flussi ottenibili dal valore residuo dell’oggetto di investimento alla fine della vita economica.

Il tasso di attualizzazione fa riferimento al costo medio del capitale:

Weighted Average Cost of Capital

WACC =C D × ( D+D E )+ C ×( D+E E )


E

Dove:

C D = costo del capitale preso a prestito

C E = costo del capitale proprio (Equity)

D= valore di mercato del debito

E= valore di mercato del capitale proprio.

Criteri finanziari di valutazione degli investimenti

Il Valore Attuale Netto (VAN) è calcolato come differenza tra i flussi di cassa in entrata e i flussi di cassa in
uscita, attualizzati, generati dall’investimento. In formula:
n
VAN =∑ ( Ei−Ui)(1+ c)−i
i=1

Con:

Ei= = entrate monetarie al tempo i

Ui = uscite monetarie al tempo i

C = costo medio ponderato del capitale

n= durata dell’investimento
−i
(1+c ) = fattore di attualizzazione
Il costo medio ponderato scaturisce dal modo in cui è stato finanziato l’investimento, con capitale proprio
e/o capitale a debito. C indica il tasso soglia di accettazione, che risulta essere funzione del costo del
capitale impiegato e del grado di rischio dell’investimento.

Affinché l’investimento sia ritenuto accettabile, è necessario che il VAN sia maggiore di zero.

Il Tasso Interno di Rendimento (TIR) è quel saggio che rende equivalenti i flussi positivi ed i flussi negativi di
una determinata operazione di investimento. Questo tasso interno di rendimento si calcola andando a
porre la formula del VAN=0, quindi quel tasso che mi rende pari a 0 il valore attuale netto.
n
TIR=∑ ( Ei−Ui ) ( 1+ x ) =0
−i

i=1

Con:

x=tasso interno di rendimento

Se tale tasso è superiore al tasso soglia di accettazione, l’investimento risulterà accettabile.

Criterio non finanziario di valutazione degli investimenti

Il Payback Period prevede una stima del tempo necessario affinché il flusso di cassa cumulato imputabile al
progetto eguagli il valore del capitale investito. Si calcola come rapporto tra capitale investito e media
annuale degli incassi. Nel caso di investimenti alternativi, sarà preferito quello che presenta un payback
period inferiore. Si caratterizza per un’elevata semplicità di calcolo.

Limiti:

- Non fornisce una valutazione precisa e di tipo quantitativo della redditività di un investimento;
- Non considera il valore finanziario del tempo;
- Non dà una misura della redditività dell'investimento confrontabile con il costo del capitale
impiegato;
- Non tiene conto dei flussi finanziari successivi alla scadenza del tempo di ritorno in liquido, che, in
alcuni casi, potrebbero essere rilevanti.

Esempio:

Supponiamo che un investimento richieda un esborso iniziale di 3000€ e produca per sei anni un incasso
annuale di 1000 €. Il flusso di cassa cumulato generato dall’investimento è pari a 6000 €, la media annuale
degli incassi è pari a 1000 €, il payback period sarà dato da 3000/1000 (rapporto tra capitale investito e
media annuale degli incassi) = 3 anni

Nel caso gli incassi annuali siano diversi, è necessario sommare gli incassi e poi dividerli per il numero degli
anni in modo da ottenere l’incasso medio annuo. Ad esempio:

Esborso iniziale 3000 €

1 anno = 500

2 anno = 500

3 anno = 1000

4 anno = 1000

5 anno = 2000

6 anno = 1000
Totale: 6000

Il payback period dovrebbe essere 3000/1000 (rapporto tra capitale investito e media annuale degli incassi)
= 3 anni, ma in realtà non è così.

L’analisi del singolo investimento non considera il fatto che gli investimenti rappresentano in realtà un
insieme unitario e coordinato di azioni che fanno capo a scelte strategiche. Di qui l’esigenza di valutare
complessivamente una strategia aziendale, stimata sulla base del contributo che essa fornisce alla
creazione di valore per l’azionista (Shareholder Value Approach). Tale valore viene generalmente calcolato
attraverso la somma dei dividendi percepiti e del guadagno in conto capitale (capital gain) derivante
dall’aumento del prezzo delle azioni sul mercato dei capitali.

Reperimento delle fonti di finanziamento

Il secondo compito della finanza è il reperimento delle fonti di finanziamento. Il fabbisogno finanziario
deriva da un divario temporale tra l’uscita monetaria per l’acquisizione di una certa risorsa e una o più
entrate future generate da quella stessa risorsa. Questo si chiama ciclo finanziario, cioè il divario temporale
che esiste tra uscite monetarie ed entrate monetarie.

La finanza definisce le fonti di finanziamento da utilizzare a copertura, più adeguate dal punto di vista
quantitativo e qualitativo. Le fonti di finanziamento sono:

 Fonti esterne: vengono classificate di solito in capitale di credito (medio e lungo termine) e capitale
proprio;
 Fonti interne: vengono classificate in autofinanziamento e disinvestimenti.

Approssimativamente, ad ogni posta attiva deve contrapporsi una fonte avente la stessa scadenza.

L’equilibrio finanziario prevede che la parte del fabbisogno complessivo che si dimostra persistente nel
tempo (quindi la parte dell’investimento consolidato) sia coperta con mezzi finanziari durevoli, propri o di
terzi, mentre la parte fluttuante sia coperta con finanziamenti a breve termine (quindi specularmente
impieghi a breve finanziati con fonti a breve). In secondo luogo, una parte del capitale circolante deve
essere finanziata con debiti a medio-lungo termine o capitale netto, cioè fonti consolidate.

Gestione della Tesoreria

L’ultimo compito della finanza è la gestione della Tesoreria, cioè il controllo dei flussi in entrata e in uscita,
presidio del saldo di cassa. La gestione della tesoreria è svolta da tutte le tipologie di imprese, in un’ottica
strategica, significa soprattutto determinare quanta liquidità deve detenere un’impresa, cioè scegliere tra il
contante e le numerose possibilità di investimento in titoli a breve termine (cambiali finanziarie, certificati
di deposito, Buoni del Tesoro, operazioni pronti contro termine, ecc).

Esiste un trade-off tra avere un elevato livello di liquidità e un basso livello di liquidità: un elevato livello di
liquidità significa perdita di interessi; un basso livello di liquidità significa avere una vendita ripetuta di
piccole quantità di titoli per far fronte ai fabbisogni e cioè elevate spese amministrative.

Organizzazione

L’organizzazione aziendale e la funzione organizzazione si occupa di definire i compiti, individuare le


responsabilità, regolare le relazioni tra le risorse umane presenti nell’impresa.

La funzione organizzativa

La funzione organizzativa si sostanzia nel definire:

- i centri decisionali, di controllo ed esecutivi da istituire nell’impresa;


- autorità e responsabilità da attribuire ad ognuno di questi centri: autorità e responsabilità sono due
facce della stessa medaglia. È necessario che ci sia un perfetto allineamento tra autorità e
responsabilità, in caso contrario vi è un elemento di malfunzionamento e di disequilibrio
organizzativo;
- relazioni formali da attivare tra i vari centri: sono relazioni formalizzate, cioè sono dei modi
codificati di relazionarsi tra i diversi centri di unità organizzative. Vi sono anche relazioni informali:
l’informalismo è una dimensione molto strutturante di un'organizzazione, non meno del
formalismo. Tutto quello che informalmente accade nell’organizzazione è fondamentale: i
meccanismi informali sono meccanismi che incidono tantissimo sul comportamento, sulle
dinamiche, sui risultati, sui modi di lavorare, al di là delle relazioni formalizzate (cioè quello che è
scritto);
- procedure di decisione, di informazione e di esecuzione necessarie per l'ordinato svolgimento della
gestione.

La scelta della struttura organizzativa

La scelta della configurazione organizzativa è sia condizionata dalla strategia dell’impresa, ma anche
dall’ambiente in cui l’impresa opera, richiedendo assetti ora flessibili, ora più o meno rigidi. La varietà e il
dinamismo ambientali esercitano notevole pressione sui “tipi” e sulle “modalità” organizzative, in quanto
inducono adeguamenti negli assetti e nei processi organizzativi, in ragione delle finalità strategiche
dell’impresa.

Nell’attività organizzativa si ritrovano:

 Azioni di coordinazione: al fine di portare avanti le diverse operazioni dell’attività imprenditoriale


tenendo presenti le loro mutue relazioni;
 Azioni di integrazione: finalizzate a ricomporre il lavoro in modo tale che le singole operazioni
necessarie alla realizzazione di un dato progetto siano fra loro complementari.

I criteri di valutazione per valutare le scelte organizzative, soprattutto nella sua dimensione di coerenza
rispetto a queste indicazioni di carattere esterno, sono:

-Innanzitutto coerenza tra obiettivi strategici e fattori critici di successo, quindi la prima cosa per valutare
una struttura organizzativa, per giudicarne l’adeguatezza o meno è capire se c’è coerenza tra gli obiettivi
strategici e i fattori critici di successo di quel particolare business;

-Qual è l’impatto della struttura dei costi, ogni organizzazione c’ha una struttura dei costi diversa. Ci sono
scelte organizzative che costano tanto che potrebbero essere molto efficaci ma sono anche molto costose;
-Qual è il livello di autonomia o di integrazione tra le diverse unità; -Il numero di livelli gerarchici, ogni
organizzazione è più o meno piatta, più o meno verticale, quindi la possiamo vedere molto verticalizzata
oppure più piatta. La tendenza sicuramente nel corso degli anni è avere delle organizzazioni meno
verticistiche ossia meno articolate ma un po’ più piatte, quindi meno livelli gerarchici;

-L’elasticità della struttura, è intesa come la capacità della struttura di modificarsi , di adeguarsi rispetto ai
cambiamenti ambientali;

-La capacità di reazione ed adattamento all’evoluzione dell’ambiente;

Questo è importante perché noi abbiamo diverse condizioni in cui si svolge la gestione e quindi la
progettazione di strutture organizzative ci da un grado diverso in termini di risposta rispetto all’ambiente
esterno, noi possiamo avere una gestione che si svolge in condizioni di:

1. Stabilità, cioè il tipo e il livello di prestazione tendono a mantenersi costanti nel tempo;

2. Elasticità operativa, è quando noi dobbiamo modificare le caratteristiche qualitative e quantitative della
produzione, quindi ad esempio dobbiamo modificare le quantità cioè dobbiamo avere la capacità ad
adattarci ad esigenze di quantità diversa. L’elasticità operativa può essere ricondotta anche all’aspetto
qualitativo della produzione, quindi è l’esigenza ad esempio di adattamento dei nostri prodotti rispetto ai
gusti del consumatore, dei mercati, rispetto a una differenziazione dei bisogni dei nostri consumatori.

3. Elasticità strategica, invece è la capacità di adattarsi a mutamenti dell'ambiente esterno i quali richiedono
un cambiamento della strategia adottata, quindi l’elasticità strategica deve essere la nostra capacità di
modificare anche rapidamente e tempestivamente la strategia rispetto a delle condizioni nuove, diverse,
rispetto a quelle che c’erano in precedenza e quindi rispetto al cambiamento dell'ambiente esterno;

4. Elasticità strutturale, i cambiamenti della strategia devono trovare immediato riscontro nell’evoluzione
della struttura organizzativa, cioè che la struttura segue la strategia quindi se io cambio la strategia devo
avere un immediato riscontro anche nel cambiamento della struttura organizzativa. Cioè la capacità
dell'azienda di cambiare tempestivamente la sua struttura organizzativa.

Configurazioni organizzative

Abbiamo 5 configurazioni organizzative (in realtà 4 perché tra struttura divisionale e multidivisionale non
c’è nessuna differenza secondo il professore):

1. Struttura elementare o semplice

È una struttura presente nelle piccole imprese, nella quale c’è l’imprenditore che svolge anche mansioni
manageriali e ha sotto di sé le unità operative. È una struttura che si scontra con il cambiamento se
l’impresa si amplia perché risulta inadeguata nell’affrontare mercati più innovativi. Nella struttura
elementare non vi sono gerarchie ben delineate, né dirigenti, né supervisori, in quanto l’imprenditore
comunica direttamente con il personale, spesso in modo informale, e dialoga direttamente con fornitori e
clienti. È una struttura abbastanza piatta nella quale ci sono compiti ben definiti per ogni reparto, con delle
relazioni di line e qualche relazione di staff.

È articolata quindi in due livelli organici:

 livello sovraordinato, in cui sono concentrate le responsabilità di governo economico e di


direzione,
 livello subordinato, in cui sono comprese le unità operative, prive di sostanziali responsabilità
decisionali, ovvero reparti, uffici o semplici addetti alle vendite, difatti i processi produttivi sono
essenziali.

Ci sono 2 dimensioni: la dimensione verticale ci indica le relazioni di line, cioè gerarchiche (quindi i livelli
gerarchici); quelle orizzontali sono invece le relazioni di staff che sono fuori dalla linea gerarchica, ma sono
organi di staff che servono per supporto delle attività di quella persona, di quell’unità organizzativa, rispetto
al quale sono previste. L’organigramma rappresenta solo quella parte formale dell’organizzazione, non c’è
la rappresentazione grafica dell’informalismo, ma c’è la rappresentazione grafica di ciò che è stabilito come
previsione di unità organizzative come legami e relazioni tra queste.

Caratteristiche della struttura elementare

Per quanti riguarda i vantaggi in questo tipo di struttura abbiamo:

-Elevati livelli di flessibilità, basso livello di specializzazione e di divisione del lavoro; la disponibilità a
svolgere, in condizioni di emergenza, una pluralità di compiti, diffusione di meccanismi di integrazione
basati su relazioni personali tra le risorse umane impiegate.

Per quanto riguarda gli svantaggi invece abbiamo:

- Scarsa formalizzazione dell’organizzazione; processi decisionali poco strutturati, ma accentrati in capo ad


un unico soggetto (l’imprenditore/ proprietario); stile di direzione autoritario e paternalistico.

2. Struttura funzionale

La struttura funzionale è una struttura organizzata in base alle funzioni aziendali. Le funzioni aziendali sono
produzione, marketing, finanza ecc. La struttura funzionale si qualifica per 3 livelli:

-direzione generale, cui spetta il compito di coordinamento delle diverse aree funzionali;
-direzione delle aree, in cui ogni area è specializzata in una certa attività;

-unità operative, con i compiti esecutivi.

È una struttura presente nelle imprese di medie dimensioni. Nella struttura funzionale si affrontano
problemi legati alla quantità e alla complessità del mercato che la piccola impresa non affronta. Infatti, la
struttura funzionale prevede il raggruppamento sotto il controllo di uno stesso manager, di tutte le attività
che riguardano una stessa “funzione” (gestione del personale, R&S, marketing, ecc.). L’imprenditore,
quindi, si ritrova con un personale specializzato: ogni manager ha una funzione con una certa con una certa
autonomia e dialogano con lo stesso imprenditore. Le funzioni non dialogano direttamente tra di loro ma
con l’imprenditore, cioè indirettamente, attraverso la direzione che deve anche affidare gli obiettivi e
organizzare tutto in modo strategico e sinergico. Sotto le funzioni ci sono le “attività” che sono
operative/esecutive di quella stessa funzione.

Caratteristiche struttura funzionale

Per quanti riguarda i vantaggi in questo tipo di struttura abbiamo:

- Specializzazione delle risorse con sviluppo di conoscenze, una maggiore efficienza ed economicità dal
punto di vista tecnico; ci dà l'opportunità di migliorare prodotti e processi; una maggiore efficienza della
direzione.

Per quanto riguarda gli svantaggi invece abbiamo:

- Difficoltà di coordinamento e comunicazione dovuti alla crescita dimensionale;

- Difficoltà nella gestione di più linee di prodotti, perché questa è una struttura che va molto bene quando ci
sono imprese monobusiness o mono prodotto cioè quando non fa molte cose diverse l’una dall’altro.
Quando abbiamo più linee di prodotti abbiamo delle inadeguatezze, e questa inadeguatezza, questa
difficoltà nella gestione di più linee di prodotti è tanto maggiore quanto più diverse sono queste linee di
prodotto tra loro. Maggiore è la diversità tra le linee di prodotto, maggiori saranno anche le difficoltà di
gestirle con questo tipo di struttura;

- Lentezza di risposta ai cambiamenti ambientali a causa della struttura tendenzialmente rigida ed


obsolescente poiché ad oggi è richiesta un maggiore flessibilità in vista anche della globalizzazione;

- I manager potrebbero entrare in conflitto se questi sono troppo orientati all’ottimizzazione dei propri
risultati e conseguentemente l’impresa può correre il rischio di non raggiungere un risultato di ottimo
complessivo.

3. Struttura divisionale
Le responsabilità sono assegnate per prodotto, per area geografica o per mercato, cosicché l’impresa si
adatta meglio alle evoluzioni del mercato.

All’interno della struttura divisionale si vengono a creare delle piccole imprese all’interno dell’impresa, e
infatti molto spesso queste divisioni acquistano autonomia anche da un punto di vista giuridico, cioè si
costituiscono come società a sé separate da quella che diventerà poi la casa madre. Quindi all'interno di
questa struttura le divisioni sono delle unità organizzative dotate di ampia autonomia strategica,
decisionale, operativa, ma non anche autonomia giuridica perché sono delle unità organizzative all’interno
di quell’impresa. Può succedere però che una divisione diventi società a sé, e cioè può accadere che la
struttura divisionale metta in atto una societarizzazione delle proprie divisioni. Infatti, le holding sono
spesso ex imprese divisionalizzate, cioè imprese che avevano una struttura divisionale che poi nel tempo è
cambiata e si è trasformata in una holding, in un gruppo di società dove abbiamo sempre la società madre e
le società figlie che hanno però una massima autonomia contabile, giuridica, gestionale e strategica
(ovviamente una autonomia strategica sempre però condizionata all'appartenenza ad un gruppo).

La struttura divisionale prevede 5 livelli:

1. Direzione generale: centri decisionali strategici (cosa produrre, per quali mercati, quali risorse
assegnare ecc..);
2. Staff centrali: specialisti con funzioni di supporto e/o di consulenza alla direzione centrale;
3. Divisioni: con responsabilità diretta di gestione o su un prodotto o su un'area geografica o su un
segmento di mercato di clientela;
4. Aree funzionali: con competenze specializzate di funzione;
5. Unità operative: con compiti esecutivi.

Tra questi 5 livelli (secondo il prof) non si deve inserire lo staff perché non fa parte della struttura
gerarchica, cioè non sono relazioni verticali (line), ma sono strutture di staff e graficamente sono messe in
maniera orizzontale.

Rappresentazione grafica della struttura divisionale

Un’ipotesi di configurazione di struttura divisionale viene indicato attraverso una linea marcata del legame
gerarchico tra Direzione Generale e Divisione A e Divisione B. La Divisione A ha all’interno: pianificazione,
marketing, personale, ricerca e sviluppo, cioè tutte le funzioni; la Divisione B avrà la stessa articolazione
della Divisione A. È importante notare che in questa rappresentazione, sotto la Direzione Generale,
abbiamo il livello pianificazione, marketing, personale, ricerca e sviluppo, cioè le stesse funzioni che
troviamo all’interno della divisione li troviamo sopra la divisione e sotto la Direzione Generale. In questa
duplicazione che noi vediamo ci sono comunque degli elementi in comune tra le diverse divisioni che
vengono quindi tolte dalla divisionalizzazione e lasciate a un livello centralizzato. Ciò significa nella
pianificazione è possibile individuare qualcosa che è comune a tutte le divisioni (quindi lo gestisco
centralmente) e qualcosa che invece va decentrato, cioè frazionato, scomposto e affidato singolarmente
alle singoli divisioni. Di conseguenza, vi è un'esigenza di coordinamento (da un punto di vista pianificatorio,
produttivo, da un punto di vista del marketing, da un punto di vista del personale, da un punto di vista della
ricerca e sviluppo); ci sono delle cose che non avrebbe senso spezzettare, frazionare all’interno delle
divisioni, ma che possono e devono essere gestite in maniera coordinata un livello superiore rispetto a
quello delle divisioni.

Caratteristiche struttura divisionale

Per quanti riguarda i vantaggi in questo tipo di struttura abbiamo:

- Capacità di gestire e coordinare imprese diversificate; maggiore motivazione e responsabilizzazione dei


dirigenti di divisione; adeguatezza ai rapidi cambiamenti dell’ambiente esterno; soddisfazione del cliente,
come conseguenza di una risposta calibrata rispetto alle esigenze dello specifico business; alto grado di
coordinamento tra le funzioni; maggiore adattamento delle unità a differenze di prodotto, geografiche, di
clientela.

Per quanto riguarda gli svantaggi invece abbiamo:

- Minore efficienza, perché aumentando la divisione abbiamo una duplicazione di funzioni e di attività e
quindi perdiamo in termini di efficienza;

- Difficoltà di reperimento di manager competenti: è chiaro che io avrò più facilità a trovare manager
generalisti rispetto a manager molto specializzati su quell’area geografica, su quel prodotto o su quel tipo di
cliente;

- Possibile conflittualità tra i responsabili di divisione; riduzione economie di scala nelle unità funzionali;
difficile coordinamento tra le linee di prodotto.

Efficienza ed efficacia sono 2 termini che vanno innanzitutto associati a queste 2 strutture (funzionale e
divisionale), la struttura funzionale proprio perché accorpa tutto all’interno della stessa unità organizzativa
naturalmente raggiunge un livello di efficienza maggiore perché i costi sono sicuramente ridotti, c’è una
maggiore efficienza dovuta ad una specializzazione e al fatto che possiamo avere economie di scala sia
produttive che gestionali.

Struttura multi-divisionale

La struttura multi-divisionale è la struttura utilizzata nelle grandi imprese. Come la struttura divisionale, è
decentrata, divisionalizzata per prodotto o area geografica e le divisioni rappresentano sempre dei centri di
profitto, con direzione centrale poco sviluppata, ma in più, ci sono delle attività che la direzione generale
avoca a sé, es. la pianificazione, così che la divisione attui la sua pianificazione e sia costruita in base a un
obiettivo complessivo dell’azienda madre. Si caratterizza per la suddivisione delle attività, fondata sulla
specializzazione per business, prodotto o mercato.

Si articola nei seguenti livelli:

- Direzione generale, che si occupa dell’elaborazione delle strategie complessive;

- Staff centrali (Finanza, Personale, … ), che supportano sia la direzione generale, sia le divisioni sottostanti;

- Divisioni, ove i rispettivi responsabili ricevono una delega a gestire la propria divisione come una vera
impresa;

- Unità operative, con compiti esecutivi nell’ambito di una specifica area.

VANTAGGI: Efficacia di coordinamento (responsabilità) finalizzata al raggiungimento degli obiettivi


(risultati).

SVANTAGGI: Perdita di efficienza tecnica complessiva.

4. Struttura a matrice
La struttura matrice è una struttura sintesi di tutte e due gli schemi, sia quella funzionale e sia quella
divisionale. Abbiamo un doppio livello di unità organizzative sottoposte alla direzione generale: uno è il
livello orizzontale e uno è il livello verticale. Sotto la direzione generale abbiamo funzione A, funzione B e
funzione C (quindi produzione, marketing, finanza ecc..); in verticale abbiamo progetto X, progetto Y e
progetto Z. Le strutture a matrice hanno due livelli di comando non solo verticale: l’unità di comando “di
funzione”, con i responsabili funzionali, che curano l’esplicazione efficace ed efficiente di una certa funzione
indipendente dai progetti; l’unità di cpoomando “di progetto”, con i responsabili di progetto, che
coordinano, assumendosene le responsabilità, lo specifico progetto.

La struttura a matrice è tipica di imprese che lavorano su progetti, quindi per attività di carattere
progettuale; ogni responsabile, ai livelli inferiori, è alle dipendenze del direttore di linea e di quello di
prodotto o di progetto.

Nelle strutture a matrice esistono due gruppi di manager:

-Responsabili funzionali: ad esempio responsabile produzione, responsabile marketing, responsabile


finanza ecc.. (responsabili X, Y, Z);

-Responsabili di progetto (project manager).

È un modello valido per prodotti con breve ciclo di vita o per imprese che operano su commessa, cioè su
qualcosa che ha un orizzonte temporale definito, che è destinata a morire in un certo arco di tempo.

Caratteristiche della struttura matrice

Per quanti riguarda i vantaggi in questo tipo di struttura abbiamo:

- Centralità delle conoscenze distintive dell’organizzazione, maggiori possibilità di “conversione” tra


obiettivi/interessi differenti; condivisione flessibile delle risorse umane tra i progetti in una logica di
lavorazione su commessa, o anche di prodotti però con breve ciclo di vita; adatta a decisioni complesse e
cambiamenti in un ambiente instabile;

- Opportunità per lo sviluppo di competenze sia funzionali sia di prodotto/progetto, perché se ad esempio
sono io l’uomo di finanza che sono stato attribuito ad un determinato progetto a quel punto svilupperò
competenze funzionali legate alla mia funzione ma anche competenze su quel progetto.

Per quanto riguarda gli svantaggi invece abbiamo:

- Rischio di duplicazioni di funzioni; conflitti gestionali inevitabili a causa di sovrapposizioni tra capi; richiesta
di notevoli sforzi per garantire un bilanciamento del potere tra le funzioni e i progetti.

Macroambiente

L’ambiente esterno o macroambiente costituisce l’insieme delle forze, dei fenomeni e delle tendenze di
carattere generale che condizionano le scelte e i comportamenti dell’impresa e di tutti gli attori del sistema
competitivo. Il macroambiente rappresenta il contesto istituzionale, economico, culturale, tecnologico, ecc.
riferito all’area geografica dove opera, o intende operare, l’impresa.

Le variabili che compongono il macroambiente non sono direttamente controllabili dall’impresa; tuttavia,
attraverso le proprie azioni, l’impresa può condizionarne l’intensità e modificare la direzione con cui
possono verificarsi.

La strategia è il modo in cui noi ci rapportiamo all’ambiente esterno, è definire la nostra relazione con
l’ambiente esterno. L’analisi strategica dell’ambiente esterno è l’attività volta a raccogliere, selezionare,
elaborare informazioni che consentano al decisore di disporre di un quadro attuale e prospettico
dell’ambiente in cui opera l’impresa.
Gli eventi e i fenomeni del macroambiente si ripercuotono non solo sulla singola impresa, ma su tutti i
soggetti e sulle imprese che appartengono a una stessa area competitiva, ovvero su tutte le forze del
microambiente. Il macroambiente è caratterizzato dalla varietà (molti elementi che devono essere “tenuti
in considerazione”) e variabilità (tali fattori tendono a modificarsi nel tempo, spesso anche in maniera
imprevedibile). Al fine di rendere maggiormente “ordinato” il processo di valutazione dell’ambiente
generale, le variabili del macroambiente vengono studiate facendo ricorso a diversi modelli di analisi,
individuando pertanto quali variabili possono essere rilevanti nel processo decisionale e nelle scelte
strategiche in termini di opportunità e minacce. Tra essi l’analisi PESTEL:

 P -> politics: ambiente politico-istituzionale


 E -> economics: ambiente economico
 S -> social: ambiente socio-demografico
 T -> technology: ambiente tecnologico
 E -> environment: ambiente naturale
 L -> legal: ambiente giuridico-normativo

L’ambiente politico-istituzionale

L’analisi dell’ambiente politico istituzionale si propone di individuare l’insieme delle politiche adottate dai
governi in materia di attività economica, che possono influenzare l’assetto competitivo di alcuni settori. Il
ruolo dello Stato in molti settori produttivi e in molti Paesi è rilevante perché lo stesso Stato si comporta da
impresa pubblica. I fattori politico-istituzionali fanno riferimento alle regolamentazioni governative,
settoriali e legali, formali e informali che vincolano l’impresa in uno specifico contesto, ad esempio
regulation/deregulation. La deregulation è in particolare uno dei principali fenomeni di questi anni in Italia:
la deregulation è la politica mediante la quale lo Stato interviene nell’economia abolendo vincoli e misure
protezionistiche. Essa è, pertanto, all’origine di forti cambiamenti negli assetti della competizione. L’insieme
di questi fattori è imprevedibile e connesso a fattori legati a mutamenti dell’orientamento politico,
difficilmente conoscibili in anticipo con certezza.

L’ambiente economico

L’analisi dell’ambiente economico ha come obiettivo quello di individuare e osservare la posizione attuale e
i futuri cambiamenti delle principali variabili che caratterizzano gli scenari macroeconomici nazionali ed
internazionali quali, ad es. gli investimenti, i tassi di cambio, di lavoro, perché questi elementi influenzano i
prezzi, i consumi, i costi produttivi e del lavoro. Per quanto riguarda il PIL, se il PIL cresce, rappresenta
un’opportunità per le imprese nella misura in cui le stesse riescono a prevedere gli andamenti favorevoli
sfruttandoli per il proprio sviluppo. Al contrario, in condizioni di PIL sfavorevole, le imprese sono chiamate a
ridisegnare i propri assetti strategici focalizzando la propria attenzione sul recupero di efficienza e sulla
riduzione dei costi di produzione. I tassi di cambio sono quelli che influenzano di più questo aspetto: la loro
variazione influenza notevolmente i margini di profitto delle imprese internazionalizzate nella misura in cui
le stesse si approvvigionano di input dall’estero e collocano i propri output sui mercati internazionali. In
generale, le variazioni di queste condizioni determinano in alcuni casi il c.d. reshoring: ad oggi,
l’innalzamento del costo del lavoro in alcuni Paesi in cui diverse imprese europee e statunitensi avevano de
localizzato parti cospicue delle attività manifatturiere e ha indotto le stesse a riposizionare tali attività nei
Paesi di origine.

L’ambiente socio-demografico

L’ambiente socio-culturale è l’insieme dei valori, credi, tradizioni, linguaggi, stili di vita, tipici delle diverse
culture, nonché le modalità organizzative proprie della società civile (sindacati, organizzazioni politiche,
etc.). Esso consente di identificare i modelli culturali prevalenti in un’area e i loro futuri cambiamenti.
L’analisi dell’ambiente DEMOGRAFICO individua le principali tendenze relative alla struttura demografica
della popolazione appartenente all’area-paese in cui l’impresa opera o intende operare in futuro; include
tutti i fenomeni che incidono sulla dinamica e sulla struttura della popolazione, in termini di classi di età,
sesso e gruppi etnici.

Serve a capire il bacino di mercato di riferimento e le tendenze, in via generale. Riguarda soprattutto gli stili
di vita delle persone, ovvero il sistema di attività, opinioni e interessi di un cittadino, che vanno mappate in
maniera macro. I più importanti sono ecologismo, salutismo o edonismo. Ad oggi, l’azienda si basa anche
molto sulla MASS CUSTOMIZATION: l’azienda risponde proponendo questa personalizzazione delle vendite
che vanno verso gli stili di vita e i trend del territorio.

L’ambiente tecnologico

L’ambiente tecnologico è quel sottosistema costituito dall’insieme delle tecnologie il cui impatto si diffonde
oltre i confini dell’impresa e dei singoli ambienti competitivi. La tecnologia può avere una profonda
incidenza sulle fonti del vantaggio competitivo e quindi sconvolgere le relazioni concorrenziali fra le
imprese. La tecnologia più di altri fattori contribuisce alla crescita economica.

L’ambiente naturale

L’ambiente naturale identifica le dotazioni naturali ed in generale dei fattori country specific dell’area-
paese in cui l’impresa si colloca. Esso, quindi, è inteso come “bacino di dotazioni materiali ed immateriali”
indispensabili all’attività di impresa, che permettono alla stessa di aumentare la sua quota nel mercato e
anche magari minimizzare i costi. Ci deve anche essere attenzione all’ambiente e alla sostenibilità nella
prospettiva del Triple Bottom Line, il risultato di esercizio: il concetto di sviluppo sostenibile deve essere
implementato nella misurazione delle performance aziendali, poiché le imprese devono anche procedere
anche alla valutazione della condotta ambientale e sociale.

L’ambiente giuridico-normativo

L’ambiente giuridico-normativo è l’insieme di regole, attenenti al lavoro, all’ambiente, alla tutela del
consumatore, alla concorrenza, al governo societario e sono la concretizzazione degli orientamenti politici e
dei condizionamenti esercitati dalla società civile.

Microambiente

Il microambiente o ambiente competitivo è costituito da tutte quelle forze, fenomeni ed attori che,
operando nello specifico campo di attività dell’impresa, ne influenzano scelte strategiche e le performance.
Tali forze e soggetti determinano l’intensità della concorrenza e influenzano le prospettive di redditività
dell’impresa e dei suoi concorrenti. L’analisi dell’ambiente competitivo mira all’individuazione del campo di
attività nel quale l’impresa intende competere e, quindi, dei soggetti con cui l’impresa deve interagire al
fine di ottenere un efficace posizionamento competitivo, e, a individuare le forze che impattano sulla
competitività della stessa.

Il rapporto corretto con l’ambiente esterno va visto in un'ottica reciproca di interdipendenza e


bidirezionalità.

Le fasi dell’analisi del microambiente sono:

1. Definizione del campo di indagine

Si fa attraverso l’identificazione del settore e delle aree strategiche d’affari (ASA) in cui l’impresa opera.

Prima di poter parlare del concetto di area strategica d’affari (ASA) dobbiamo parlare del concetto di
settore. Il settore è costituito dall’insieme delle imprese, con caratteristiche omogenee, che concorrono
nello stesso mercato per la soddisfazione di un gruppo di consumatori. Vi sono due criteri per definire i
confini di un settore:

1. Il primo criterio è quello della sostituibilità dal lato dell’offerta: il settore è costituito da tutte le
imprese che offrono prodotti o servizi che hanno le stesse caratteristiche merceologiche, ovvero si
avvalgono delle stesse caratteristiche produttive, ricorrono agli stessi mercati d’acquisto e di
vendita. Questo criterio di individuazione del settore è fondato sull’omogeneità delle imprese (ad
esempio il concorrente di Trenitalia è Italo);
2. Il secondo criterio è quello della sostituibilità dal lato della domanda: il settore è costituito da tutte
quelle imprese che offrono prodotti e servizi intercambiabili, indipendentemente dalla loro affinità
merceologica (ad esempio il concorrente di Italo può essere anche Flixbus).

L’area strategica d’affari ASA

La visione del settore costituisce un dato oggettivo e risulta limitata perché include nell’analisi solo le
caratteristiche delle imprese che offrono un dato prodotto trascurando gli elementi che contraddistinguono
il mercato servito e, quindi, il rapporto prodotto/mercato. La definizione dell’ambito competitivo, infatti,
consente di integrare la prospettiva dell’offerta con quella della domanda considerando le diverse modalità
di soddisfazione di bisogni specifici di un dato segmento. Partendo da tale principio, può essere identificato
un particolare ambito competitivo rappresentato dall’Area Strategica d’Affari (ASA), al quale devo fare
riferimento per costruire la mia azione strategica.

In un’ottica che considera

I confini dell’ASA possono essere individuati attraverso la combinazione di tre dimensioni:

- i clienti (chi viene servito dall’impresa);

- le categorie di bisogni che possono essere soddisfatte da un dato bene;

- le tecnologie utilizzate per soddisfare i bisogni dei clienti.

Quindi l’area strategica d’affari ASA è quella perimetrazione del settore dove io mi vado a collocare, che è
frutto delle decisioni strategiche che le imprese di volta in volta adotta e quindi è qualcosa non di oggettivo
ma di soggettivo perché è legato alle scelte che l’impresa fa rispetto a queste 3 variabili (clienti, bisogni,
tecnologie).

2. Analisi delle caratteristiche strutturali

A questo punto andiamo a vedere le caratteristiche strutturali e delle dinamiche concorrenziali che si
sviluppano in questa area strategica d’affari ASA.

Quindi ci avvaliamo di un modello analitico proposto da Porter, modello che si chiama “modello della
concorrenza allargata di Porter” oppure “modello delle 5 forze competitive”, modello che prende in
considerazione 5 forze competitive che operano all’interno dell’ASA e che incidono sulla redditività di
quell’ASA.

Queste 5 forze competitive sono:

 I concorrenti effettivi: grado di rivalità tra l’impresa e i concorrenti del settore.

Questa forza si può misurare in base al fatturato: più imprese competitors ci sono meno sarà il fatturato
(concentrazione del settore). L’intensità della concorrenza dipende anche dalle somiglianze che presentano
le varie imprese: più sono simili più ci sarà rivalità, al contrario più le imprese mostrano caratteri strutturali
diversi meno sarà accentuata la competizione (diversità dei concorrenti). Il grado di concorrenza all’interno
di un ambito competitivo risulta correlato anche alla differenziazione del prodotto/servizio: più i prodotti
appaiono sostanzialmente omogenei, più i clienti saranno indotti a sostituirli tra loro in funzione del prezzo:
i prodotti/servizi poco differenziati risultano, infatti, perfettamente sostituibili e il prezzo costituisce l’unica
variabile competitiva su cui le imprese si confrontano. Le imprese che riescono a differenziare il proprio
prodotto rispetto ai concorrenti riescono, infatti, più facilmente a fidelizzare il consumatore che, soddisfatto
dall’individuazione di un prodotto che risponde in maniera adeguata alle proprie esigenze specifiche,
risulterà meno attratto da prodotti concorrenti, a meno che, nel tempo, le sue aspettative non risultino
disattese. L’intensità della competizione diretta tra imprese è funzione anche del rapporto che esiste tra
dimensione della domanda e dimensione dell’offerta in un determinato business e, in particolare, dipende
dall’esistenza di capacità produttiva in eccesso rispetto alla domanda: tale eccedenza di offerta può essere
la risultante sia di una contrazione nella domanda da parte dei clienti, sia di un eccesso di investimenti da
parte delle imprese. Quest’ultimo fattore va a incedere appunto sulle barriere in uscita, che sono quegli
investimenti in quel mercato che mi impediscono di uscirne. La struttura dei costi si basa sui costi fissi e
variabili: se c’è un’elevata percentuale di costi fissi verrà sfruttata al massimo la capacità produttiva e
questo favorirà una competizione basata sul prezzo; al contrario con una struttura dei costi più flessibile,
ovvero composta più di costi variabili, la competizione sarà poco centrata sul prezzo.

 I fornitori: essi condizionano la capacità competitiva dell’impresa.

Dimensioni delle imprese rispetto a quelle del settore: se l’impresa è più grande, si avrà un privilegio da
parte del fornitore. Concentrazioni dei settori di fornitura: quando ci sono pochi fornitori per un settore.
Rilevanza della fornitura rispetto alla capacità del prodotto del settore. Possibilità di interazione a monte: se
l’azienda riesce a comprarsi il fornitore, e quindi il fornitore non deve rischiare di perderla come cliente,
questo creerà un legame tra azienda e fornitore rendendo la vita più difficile ai concorrenti. Dipendenza dei
fornitori dal settore: il fornitore dipende dal cliente ecc. Possibilità di altri mercati di sbocco: cliente e
fornitore non sono vincolati e non stabiliscono accordi a lungo termine.

 I clienti: bisogna consolidare il rapporto con i clienti, ma anche con i consumatori di secondo livello
che acquisteranno dai clienti.

Il potere dei clienti si basa su alcuni fattori:

 Sensibilità del consumatore al prezzo -> il cliente finale fa una differenza tra beni essenziali e non:
- quota ridotta del reddito per il prodotto;
- rilevanza del prodotto (essenzialità)
 Potere contrattuale:
- numero di consumatori;
- alti costi di spostamento da un prodotto all’altro;
- limitate capacità di gestire informazioni sul prodotto.

Il potere dei fornitori e dei clienti è una forza competitiva che va a condizionare le prospettive di redditività.

 I concorrenti potenziali o nuovi entranti: allarghiamo questo concetto di concorrenza ancor di più
perché ci mettiamo dentro anche quelli che sono i potenziali concorrenti.

Le economie di scala, per aumentare la capacità produttiva, essere competitivi nel settore e aggiudicarsi
una parte del mercato, hanno bisogno di difendersi dai nuovi entranti. Il fabbisogno di capitale sta proprio
alla base della necessità di difendersi dai nuovi entranti, aumentando il capitale proprio rispetto al capitale
di terzi. La differenziazione del prodotto sta nel legare i clienti al marchio: nella mente dei clienti significherà
un prodotto differente e più qualitativo, e quindi continueranno a scegliere lo stesso e non quello dei nuovi
entranti. Il difficile accesso ai canali di distribuzione quando non c’è il luogo per vendere il prodotto come
azione del competitor esistente bloccando i canali di distribuzione ai nuovi entranti, che dovranno puntare
su un abbassamento del prezzo che però riduce i margini di profitto. La presenza di vantaggi di costo
assoluti per le imprese che già operano nel settore bloccano i nuovi entranti perché i concorrenti sono già in
possesso di brevetti ecc. che i nuovi entranti non hanno. I nuovi entranti non generici sono quelli che
rappresentano una minaccia.

 I prodotti sostitutivi o succedanei: rappresentano prodotti e servizi che, pur avendo caratteristiche
merceologiche diverse, assolvono alla stessa funzione d’uso di quelli concorrenti nel settore.

Due prodotti sono “sostitutivi” quando la loro elasticità incrociata è positiva ed è elevata: all’aumentare del
prezzo di uno, si espande la domanda dell’altro. L’azienda deve contrastare la minaccia dei prodotti
sostitutivi trovando soluzioni che facciano continuare a comprare i propri prodotti ai clienti.

Lo scopo analitico di questo modello della concorrenza allargata delle 5 forze competitive di Porter è quello
di analizzare in un’ottica più ampia il concetto di competizione, studiare l’ambiente competitivo, non solo
concorrenti diretti, ma anche questi altri fattori (motivo per il quale si chiama modello allargato). Serve per
capire qual è l’attrattività di questo business: attrattività=potenzialità di redditività all’interno di questo
business. Quindi l'attrattività, ossia la capacità di fare profitti elevati, dipende non solo dai concorrenti che
esistono, ma anche da quali sono i prodotti sostitutivi, quali sono le minacce di nuovi entranti, che potere
contrattuale hanno i fornitori, e chi sono i clienti di questo business che poteri esprimono nei confronti
dell’impresa.

I fattori strutturali della concorrenza e della redditività secondo Porter

L’intensità della rivalità tra concorrenti

Quanto maggiore è il grado di rivalità tra le imprese, tanto minori sono le prospettive di redditività nel
lungo periodo.

La rivalità si esprime in:

 Guerre di prezzo: quando abbiamo un grado di rivalità tra i concorrenti molto alta vi sono frequenti
e ricorrenti guerre di prezzo, con conseguente riduzione dei margini di profitto per tutte le imprese;
 Aumento degli investimenti in innovazione di prodotto e di pubblicità: un’intensa rivalità
costringerà l’impresa a fare investimenti nell’innovazione di un prodotto e nella pubblicità. Quindi,
settori molti competitivi con elevata intensità di concorrenza hanno anche un'elevata intensità di
investimenti pubblicitari.

L’intensità della concorrenza diretta dipende da:

 Concentrazione

La concentrazione significa quante sono le imprese concorrenti. Ci sono mercati o business molto
concentrati, cioè dove ci sono poche imprese grandi, oppure business dove c’è molta frammentazione,
ossia dove ci sono tantissime imprese ma piccole. Un’alta concentrazione in un'area strategica significa che
ci sono poche imprese che si appropriano della quasi totalità del valore.

 Diversità dei concorrenti

Più simili sono i concorrenti, più l’intensità della rivalità è maggiore. Questo perché sono concorrenti che
sostanzialmente fanno la stessa cosa, hanno le stesse strategie, gli stessi segmenti target, le stesse
tecnologie.

 Differenziazione del prodotto/servizio

È la diversità dal punto di vista produttivo, quindi quanto i prodotti sono differenziati l’uno dall’altro.
L’intensità della concorrenza è massima quando c’è omogeneità del prodotto perché significa che tutte le
imprese fanno la stessa cosa.

 Capacità produttiva in eccesso rispetto alla domanda

C’è una capacità produttiva che eccede la capacità di assorbimento da parte del mercato, cioè offerta che
eccede la domanda (esempio: se l’insieme delle imprese offrono 10.000 penne, quindi vi è un’offerta di
10000 penne, ma la domanda ne chiede 8.000, vuol dire che c’è una concorrenza fortissima tra quelli che
producono queste penne perché la domanda non è in grado di assorbire tutta questa produzione
realizzata).

 Barriere all’uscita

Operare in un determinato settore significa fare determinati investimenti, usare certe risorse che non
hanno una grande possibilità di essere riutilizzate in altre attività o quanto meno possono essere utilizzate,
ma non senza incorrere in ingenti perdite. Quindi, se devo entrare in un business dove so che devo
sostenere degli investimenti specifici, nel momento in cui io volessi uscire da questo business, sono
consapevole che questi investimenti li perderò, perché non sono degli investimenti che posso recuperare e
riutilizzare facilmente in altre attività (costi non recuperabili), quindi questo mi ci fa pensare se io voglio
entrare o non entrare in quel business.

 Struttura dei costi (rapporto costi/fissi costi variabili)

Quando si parla di struttura dei costi, si parla del rapporto tra costi fissi e costi variabili. Se in un’attività
produttiva il rapporto costi fissi e costi variabili è molto alto significa che i costi fissi prevalgono molto sui
costi variabili. Questo implica un aumento dei volumi di produzione per poter assorbire questi costi fissi
elevati.

Il potere contrattuale dei fornitori

I fornitori hanno elevato potere contrattuale quando:

 Piccoli numeri
Piccoli numeri significa pochi fornitori: essendo pochi fornitori questi hanno più potere contrattuale.
Quando ci sono molti fornitori, questi hanno meno potere contrattuale perché l’impresa può rivolgersi a
una molteplicità di fornitori;

 Elevati costi di switching

Sono elevati costi di cambiamento, cioè quando il cambio del fornitore comporta dei costi aggiuntivi;

 Piccola dimensione dei clienti

I fornitori hanno un elevato potere contrattuale quando i clienti esprimono una piccola domanda rispetto al
fatturato totale che un fornitore può vendere;

 Elevato apporto qualitativo della fornitura del prodotto finale


 Elevata differenziazione del prodotto

Se i fornitori sono specializzati o il loro prodotto è molto differenziato hanno un alto potere contrattuale;
viceversa, se i prodotti sono omogenei il potere contrattuale dei singoli fornitori è basso;

 Possibile integrazione a valle

Integrazione significa che un’impresa può fare tutto da sola, quindi dalle materie prime fino al prodotto
finito. In questo caso si parla di un’azienda altamente integrata, in quanto fa tutte queste fasi di
lavorazione. Integrarsi verticalmente significa partire da una situazione di posizione all’interno di questa
filiera e aggiungere ulteriori fasi o a valle o discendente (quindi avvicinandosi al prodotto finito) o a monte o
ascendente (quindi andando verso le materie prime).

Il potere contrattuale dei clienti

Il potere contrattuale dei clienti aumenta quando:

 il mercato di acquisto è concentrato, si compone di grandi clienti che assorbono quote elevate del
fatturato delle imprese venditrici;
 sono disponibili prodotti sostitutivi: in questo caso, il cliente ha più potere perché non è dipendente
da quella produzione, ma può andare presso altri fornitori;
 i costi di riconversione dei clienti sono bassi, ossia quando il cambio di fornitore non comporta
nessun costo di switching significativo;
 i prodotti acquistati non sono determinanti per la qualità del prodotto o del servizio dei clienti,
oppure per contenere il costo totale del cliente;
 i prodotti acquistati sono indifferenziati e standardizzati: quando ci sono prodotti omogenei o
standardizzati il potere contrattuale dei clienti è massimo,
 i clienti minacciano di integrarsi a monte: il cliente ha più potere nei confronti del fornitore quando
ha la possibilità di integrarsi a monte, cioè di fare in proprio quello che prima faceva il suo
fornitore;
 la minaccia di integrazione a valle delle imprese dell’ASA è remota;
 le condizioni economico-finanziarie delle imprese clienti sono solide;
 i clienti sono informati sui prezzi di mercato e, quindi sui costi delle imprese fornitrici: i clienti sanno
perfettamente quali sono le condizioni di mercato, quali sono i prezzi, quali sono i costi delle
imprese fornitrici e quindi un cliente informato è un cliente più potente naturalmente.

La concorrenza potenziale

Ci sono dei business in cui è facile entrare ed uscire, in quanto non ci sono né barriere all'entrata né
barriere all'uscita. Viceversa, ci sono dei business in cui è più difficile entrare ed anche più difficile uscire.
Le barriere all’entrata costituiscono differenziali di costo a carico delle imprese che vogliono entrare su un
determinato mercato; ciò significa bisogna sopportare dei costi aggiuntivi, costi notevoli, per poter
accedere in quel business. Come tali, riducono la convenienza dei potenziali concorrenti ad entrare o
pongono tali soggetti in una posizione di maggiore debolezza rispetto agli operatori già consolidati. È chiaro
che chi opera all’interno di un business già da tempo ha una posizione di notevole vantaggio rispetto a chi,
invece, si affaccia in quel momento in quel business. Nelle forme più estreme, tali barriere bloccano in
maniera assoluta l’entrata di nuovi concorrenti.

Queste barriere possono essere classificate in:

 Barriere istituzionali: sono chiaramente ostacoli ad entrare in un determinato business, come


copyright, brevetti, protezionismo, ecc…
 Barriere strutturali: sono le economie di scala, vantaggi assoluti di costo, fabbisogno di capitale,
differenziazione, accesso ai canali di distribuzione. Le economie di scala significa dotarsi di una
capacità produttiva maggiore per poter avere un costo unitario di produzione più basso possibile;
rappresentano un ostacolo fortissimo perché significa che chi vuole entrare deve entrare già in
quella scala produttiva per poter essere competitivo. Un altro ostacolo è quello della
differenziazione: entrare in un business dove il prodotto è standardizzato ed omogeneo è molto più
facile di entrare in un business dove c'è differenziazione di prodotto perché la differenziazione di
prodotto significa che l’impresa è stata brava a creare qualcosa di diverso agli occhi del
consumatore. Un’altra barriera importante è l’accesso ai canali di distribuzione perché entrare in
un nuovo business significa dover conquistare gli intermediari di distribuzione (i grossisti, i punti di
vendita) prima ancora dei clienti, dei consumatori finali. Anche il fabbisogno di capitale rappresenta
una barriera strutturale, in quanto per entrare in un business bisogna farsi conoscere e quindi
bisogna fare degli investimenti pubblicitari impegnativi perché bisogna informare il mercato della
tua esistenza;
 Barriere strategiche: sono le minacce di ritorsioni da parte di chi già opera nei confronti dei nuovi
entranti, come la pubblicità e l’abbassamento dei prezzi.

La minaccia di prodotti sostitutivi

I prodotti sostitutivi rappresentano prodotti e servizi che, pur avendo caratteristiche merceologiche diverse,
assolvono alla stessa funzione d’uso di quelli concorrenti nel settore. Due prodotti sono sostitutivi quando
la loro elasticità incrociata è positiva ed è elevata: all’aumentare del prezzo di uno, si espande la domanda
dell’altro. Può anche capitare che se aumenta il prezzo del prodotto A si riduce la domanda del prodotto B:
in questo caso i beni sono complementari. Se invece all’aumentare del prezzo di A la quantità di B rimane
invariata significa che il legame tra i due prodotti è indipendente. La presenza di prodotti sostitutivi rende la
domanda elastica al prezzo, determinando il prezzo massimo che i clienti sono disposti a pagare per il
prodotto.

3. Ricostruzione dei principali raggruppamenti strategici

Porter si è chiesto perché imprese che operano all’interno della stessa area strategica d’affari (e quindi
sottoposte alle stesse forze e dinamiche che costituiscono quell’area strategica d’affari), hanno una
redditività diversa. La risposta è che all’interno di quell’ASA ci sono imprese con comportamenti strategici
diversi; il concetto di raggruppamento strategico nasce dal fatto che bisogna abbandonare l’ipotesi che
tutte le imprese appartenenti ad un’ASA siano accomunate dalle stesse caratteristiche. Nella realtà, in una
stessa ASA possono coesistere diversi raggruppamenti strategici.

L’ambiente competitivo rilevante per le imprese è costituito dal raggruppamento strategico. Un


raggruppamento strategico è un insieme di imprese concorrenti che seguono strategie comuni o simili,
riconducibili alle stesse dimensioni strategiche. I raggruppamenti strategici che appartengono ad una stessa
ASA possono, quindi, essere “mappati” attraverso l’utilizzo delle dimensioni strategiche su cui si basa il
vantaggio competitivo. Le dimensioni strategiche più rilevanti possono essere: ampiezza della gamma,
estensione geografica dell’offerta, tipologia di canale distributivo, livello di servizio offerto, livello di qualità
di prodotti o servizi, politica di prezzo, grado di integrazione verticale, tipologia di cliente servito, livello di
diffusione e identificazione della marca, livello di innovazione tecnologica.

4. Individuazione dei principali concorrenti

L’individuazione dei principali concorrenti avviene all’interno dei raggruppamenti strategici più importanti,
per individuare i concorrenti diretti con cui un’impresa si confronta. Due imprese che operano in
raggruppamenti strategici differenti pongono generalmente poca attenzione alle reciproche scelte
strategiche e le loro interazioni competitive risultano comunque limitate. Ovviamente, tale “poca
considerazione” dipende dalle differenze che esistono tra un raggruppamento e l’altro e, in particolare,
dalla facilità con cui un’impresa può passare da un insieme a un altro. Questa facilità discente dalle
“barriere alla mobilità” esistenti, che funzionano come deterrenti allo spostamento tra un gruppo a un
altro. Più elevato è il livello di tali barriere, più difficile risulta per un’impresa il passaggio da un
raggruppamento a un altro.

L’analisi dell’ambiente interno

L’obiettivo dell’analisi dell’ambiente interno è comprendere il legame tra risorse, competenze, scelte
strategiche e vantaggio competitivo. In un'ottica tradizionale, la focalizzazione era prevalentemente
sull’analisi dell’ambiente esterno; il problema dell’allocazione delle risorse interne per ottimizzare efficacia
ed efficienza veniva affrontato successivamente in fase di attuazione della strategia. La strategia era, quindi,
guidata dai risultati dell’analisi dell’ambiente esterno, in termini di opportunità e minacce.

In un'ottica innovativa, le risorse e le competenze definiscono l’identità e gli obiettivi strategici dell’impresa.
La formulazione della strategia si fonda, quindi, prima sull’analisi dell’ambiente interno, delle risorse, delle
competenze, perché sono quelle che danno l’identità all'impresa e sono quelle le fonti di un vantaggio
competitivo durevole, ed in seguito sull’analisi dell’ambiente esterno.

Approccio Resource-based view

L’impresa è un insieme eterogeneo di risorse e di competenze; queste risorse e competenze costituiscono


la base per il conseguimento del vantaggio competitivo. Quindi, il vantaggio competitivo si fonda sulle
risorse e le competenze che ha un'impresa al suo interno. Tanto più rapido è il cambiamento ambientale,
tanto più risorse e competenze devono essere in grado di sostenere una strategia di lungo periodo. Si
afferma il principio della coerenza tra risorse, competenze e obiettivi strategici.

Con questo approccio della Resource-based view, cambia la logica alla base della formulazione delle
strategie, perché mentre nell’ottica tradizionale il focus era sull’ambiente esterno, nell'approccio based-
view è sull’ambiente interno. Diventa fondamentale ciò che si sa fare, sfruttando il patrimonio di risorse e
di competenze che si possiede in un certo momento. Ciò non implica una “visione statica” delle risorse e
delle competenze, ma ingloba anche una visione di “costruzione dinamica” delle stesse. Le imprese
possono ottenere una elevata redditività operando in settori poco attrattivi, così come possono ottenere
bassa redditività in settori molto attrattivi.

Risorse e competenze

Le risorse sono gli asset specifici di un’impresa; esse sono costituite da tutto ciò che l’impresa utilizza per
creare, produrre e distribuire valore sul mercato. Le risorse possono essere suddivise in risorse tangibili e in
risorse intangibili.

Per quanto riguarda le risorse tangibili individuiamo:


 Le risorse finanziarie, le cui caratteristiche sono capacità di indebitamento dell’impresa,
generazione interna di fondi, capacità di investimento e capacità di fare fronte alle fluttuazione
nella domanda e nei profitti. Per quanto riguarda gli indicatori, invece, abbiamo rapporto fra
passività e consistenze patrimoniale, percentuale di contante netto per gli investimenti, valutazione
di solidità del credito.
 Le risorse fisiche, le cui caratteristiche sono dimensione degli impianti, localizzazione impianti,
livello tecnico e flessibilità dell’impianto e delle attrezzature, localizzazioni ed usi alternativi dei
terreni e dei fabbricati. Per quanto riguarda gli indicatori, invece, abbiamo valore di vendita delle
attività immobilizzate, età media degli impianti, scala degli impianti, flessibilità degli impianti e delle
attrezzature.

Per quanto riguarda le risorse intangibili individuiamo:

 Le risorse tecnologiche, le cui caratteristiche sono entità della tecnologia, brevetti, copyright,
segreti industriali e di esperienza, laboratori di ricerca. Per quanto riguarda gli indicatori, invece,
abbiamo numerosità e rilevanza dei brevetti, entrate per vendita di licenze, personale impiegato
nella R&S rispetto al totale.
 Le risorse di reputazione, le cui caratteristiche sono reputazione mediante marche, rapporti con i
clienti, reputazione per la qualità dei prodotti e dei servizi, affidabilità ecc.. Per quanto riguarda gli
indicatori, invece, abbiamo riconoscimento della marca, prezzi superiori alle marche concorrenti,
percentuale acquisti ripetuti, livello e solidità dei risultati.

Vi è poi la categoria delle risorse umane, le cui caratteristiche sono reputazione dell’impresa presso gli
stakeholder, addestramento e esperienza degli addetti, capacità disponibili, adattabilità degli addetti,
flessibilità strategica, impegno e lealtà dei dipendenti, capacità di raggiungere e mantenere un vantaggio
competitivo. Per quanto riguarda gli indicatori, invece, abbiamo educazione e qualificazione tecnica dei
dipendenti, livello retributivo rispetto al settore, dati sui conflitti, indice di rotazione personale.

Oggi, le risorse immateriali sono le più importanti fonti del vantaggio competitivo, ancor più di quelle
materiali. Esse sono accumulabili, perché tendono a sedimentarsi nel tempo; sono, quindi, risorse
immateriali di conoscenza e di reputazione, di relazione, che noi accumuliamo nel tempo con processi di
apprendimento ed esperienziali. Inoltre, non sono perfettamente trasferibili perché fanno parte di quelle
conoscenze tacite legate all’impresa.

Capitale intellettuale

Il capitale intellettuale è l’insieme del sapere, delle informazioni, dell’esperienza, che ritroviamo all’interno
di un’impresa. Il capitale intellettuale si distingue in:

 Capitale umano: fa riferimento alle conoscenze possedute dalle persone operanti in azienda;
 Capitale dell’organizzazione: sono le attività e le procedure che consentono il funzionamento
aziendale;
 Capitale relazionale: sono i rapporti attivati dall’impresa con gli attori del contesto. Si fa
riferimento all’insieme di rapporti che si auspicano positivi, di fiducia, di collaborazione, con i
fornitori, i clienti, i concorrenti, la collettività generale, i media ossia tutti i portatori di interesse nei
confronti dell’attività dell’impresa.

Le competenze

Le competenze sono le abilità delle imprese di impiegare e combinare queste risorse. Mentre la risorsa è
l'elemento in sé (l’asset elementare), la competenza è l’abilità di saperla usare e metterla in relazione con
tutte le altre risorse, cioè di combinare non soltanto la singola, ma l’insieme delle risorse al fine di
conseguire un vantaggio competitivo. Le competenze distintive sono particolari competenze in grado di
rendere unica l’impresa nel mercato in cui opera (core competence). La core competence è l’abilità dei
manager di combinare le risorse disponibili in modo da conseguire maggiore forza o minore debolezza nei
confronti dei concorrenti e degli attori chiave del mercato. Le competenze distintive hanno una natura
trasversale, cioè sono una combinazione di tutte le risorse e le attività dell’impresa. Più forte è l’interazione,
più difendibile risulta essere il vantaggio competitivo.

Proprietà delle competenze

Le competenze sono:

 durevoli, cioè sono competenze che posso proiettare nel medio/lungo periodo;
 difficilmente trasferibili;
 difficilmente replicabili;
 dinamiche, cioè la capacità di proiezione nel medio/lungo periodo ma soprattutto in virtù del
principio di coerenza che deve esserci tra risorse, competenze, strategie e vantaggio competitivo
come risultato della coerenza tra risorse, competenze e strategie.

Possiamo parlare di competenze di mercato, organizzative, tecnologiche, di general management e di


apertura.

Strumenti per l’analisi dell’ambiente interno

Per analizzare punti di forza e debolezza dell’impresa possiamo utilizzare diversi strumenti:

 Analisi della catena del valore in modo comparativo rispetto ai competitor


 Analisi di Benchmarking:

Il benchmarking è un metodo largamente utilizzato per confrontare un’impresa con altre


imprese/organizzazioni, appartenenti spesso alla stessa ASA, ma talvolta anche appartenenti ad ASA
diverse che presentano tuttavia problematiche gestionali simili.

 Analisi V.R.I.O

L’analisi VRIO si fonda su quattro attributi che le risorse e le competenze devono avere per essere
considerate strategiche: devono rispecchiare un valore economico (V), devono essere rare (R), inimitabili
(I), e devono possedere un orientamento organizzativo (O). Quest’analisi può essere applicata all’impresa
nel suo complesso, ad ogni singola attività della catena del valore aziendale o ad ogni singola risorsa o
conoscenza posseduta dall’impresa.

Analisi SWOT

L’analisi SWOT è uno strumento usato per valutare i punti di forza (strengths), i punti di debolezza
(weaknesses) dell’impresa, le opportunità (opportunities) e le minacce (threats) dell’ambiente esterno.

Strategie competitive

Le strategie competitive individuano le modalità attraverso cui conferire ai prodotti e ai servizi un vantaggio
competitivo efficace, difendibile e duraturo. Quando si parla di strategie competitive si fa sempre
riferimento all'opera di Porter, che ha individuato 3 strategie di base competitive:

1. Leadership di costo
2. Differenziazione
3. Segmentazione o focalizzazione (in realtà non è una tipologia di strategia competitiva, ma
piuttosto un ambito nel quale si esercita).
Con la leadership di costo le imprese puntano ad essere i leader di costo, cioè i produttori in grado di
produrre quel prodotto o servizio al costo più basso sul mercato. La differenziazione si fonda sulla ricerca di
elementi, caratteristiche, attributi, distintivi diversi da quelle che hanno i concorrenti.

Leadership di costo

L’impresa si propone di diventare il produttore a più basso costo. Essa può ottenere una redditività
superiore alla media dell’ASA, applicando prezzi uguali o vicini a quelli dei concorrenti e può ampliare la
quota di mercato praticando prezzi più bassi rispetto ai concorrenti.

Il vantaggio di costo rappresenta una difesa efficace contro le cinque forze competitive. Nei confronti dei
concorrenti diretti, l’impresa non deve temere le conseguenze di un’eventuale guerra di prezzo, essendo in
grado di realizzare un profitto anche ad un livello di prezzo che per la concorrenza è il minimo praticabile. I
clienti, per quanto possano forti, non riescono ad ottenere un ribasso del prezzo al di sotto di quello
praticato dall’impresa che gode della migliore posizione, in quanto non riuscirebbero a trovare sul mercato
un prezzo più basso. Nei confronti dei fornitori, i bassi costi di gestione delle attività difendono l’impresa
dagli effetti di aumenti nei costi di approvvigionamento imposti da forti fornitori (se ho un costo unitario
più basso, che è il risultato della mia capacità di abbassare i costi di gestione, riesco ad ammortizzare e ad
assorbire meglio degli altri eventuali aumenti nei prezzi di fornitura imposti da fornitori forti). I bassi costi
consentono di praticare bassi prezzi, tali da rappresentare una barriera contro l’entrata di eventuali nuovi
concorrenti ed una buona protezione nei confronti dei prodotti sostitutivi.

Il vantaggio di costo di un’impresa rispetto ai concorrenti può derivare da:

 la migliore utilizzazione delle risorse o delle attività generatrici del valore dell’impresa (impianti di
produzione, strutture distributive e logistiche, strutture di R&S). In generale, si riesce ad avere una
leadership di costo quando si è massimamente efficienti, quando qualsiasi processo gestionale è
ottimizzato;
 lo sfruttamento di economie di scala o di scopo (Le economie di scala significa il risparmio che noi
abbiamo, possiamo conseguire collegato alla scala operativa per cui economie di scala
all’incremento della capacità produttiva noi riusciamo ad avere un incremento meno che
proporzionale dei costi e quindi abbiamo dei risparmi in termini di costi unitari. Economie di scopo
è il risparmio che io ottengo in relazione al fatto che faccio insieme nell’ambito dello stesso
processo 2 o più cose, svolgo insieme 2 o più attività e riesco ad avere un costo totale inferiore alla
somma dei costi delle singole attività se le facessi in maniera separatamente);
 la sistematica innovazione delle tecnologie di processo e di prodotto che consente all’impresa di
operare con maggiori livelli di efficienza rispetto ai concorrenti;
 lo sfruttamento degli effetti di esperienza. L’esperienza può essere una generatrice di risparmi, di
ottimizzazione, di miglioramento qualitativo e anche di ottimizzazione delle risorse (magari ho un
consolidato di storia e di esperienza produttiva e anche di gestione di altre funzioni come i apporti
con i fornitori)
 L’adozione di migliori tecniche di produzione;
 Il costo degli input;
 L’adozione di sistemi di management delle attività produttive e degli approvvigionamenti basati su
filosofie che riducono costi specifici.

Analisi della catena del valore per conseguire una leadership di costo

Il testo ci propone un'analisi della catena del valore allo scopo di valutare le possibilità di poter conseguire
una leadership di costo, e cioè usando lo schema della catena del valore che è fondata sulla
disaggregazione delle attività. Possiamo individuare:
 quali sono i fattori che determinano i costi delle diverse attività e la loro importanza relativa, quindi
un'analisi dei costi delle singole attività ci consente di capire quali sono i livelli di costi che noi
sosteniamo delle singole attività e all’interno dell’attività;
 perché l’impresa sostiene dei costi diversi da quelli dei concorrenti, quindi comparandoli con quelli
dei concorrenti;
 quali sono le attività per le quali sarebbe più opportuno incentrare all'esterno la gestione, ossia se
sostanzialmente quella cosa conviene che la facciamo noi o la facciamo fare ad altri perché è un
modo di risparmiare a dei costi.

Differenziazione

L’impresa persegue una strategia di differenziazione, offrendo ai propri clienti un prodotto con una o più
caratteristiche di esclusività che, nella percezione del cliente stesso, risultano meglio in grado di soddisfare
un determinato bisogno. Bisogna sottolineare “nella percezione del cliente stesso” perché la cosa
importante è ciò che pensa il cliente, che i clienti percepiscano caratteristiche di distintività e di
differenziazione rispetto ai prodotti concorrenti.

Il cliente attribuisce un valore tale da accettare di pagare un prezzo più elevato, il cosiddetto il premium
price. Il premium price è quel prezzo incrementato che è il risultato di un valore riconosciuto da parte del
consumatore. Quindi, se il consumatore riconosce questo valore di differenziazione sarà anche disposto a
pagare un prezzo più elevato per quella esclusività che l’impresa ha messo nella sua offerta. La
differenziazione, infatti, consente all’impresa di imporre prezzi più alti o comunque di creare preferenza e
fedeltà per i propri prodotti o servizi.

La differenziazione migliora la posizione dell’impresa nei confronti delle 5 forze competitive (concorrenti
diretti, clienti, fornitori, prodotti sostitutivi, nuovi entranti).

Nei confronti dei concorrenti diretti, la differenziazione riduce la sostituibilità del prodotto, accresce la
fedeltà dei clienti, diminuisce la sensibilità al prezzo. La maggiore fedeltà è un ostacolo molto forte per i
nuovi concorrenti. Il margine più elevato accresce la capacità dell’impresa di assorbire gli aumenti imposti
da eventuali fornitori dotati di forte potere contrattuale. Le caratteristiche distintive di un prodotto e la
fedeltà della clientela costituiscono una difesa anche nei confronti dei prodotti sostitutivi.

Il vantaggio della differenziazione rispetto ai concorrenti può derivare dalle caratteristiche e prestazioni dei
prodotti, dalle leve dei servizi (consegna, riparazioni, manutenzione, assistenza), dal livello di qualità degli
input. Un’impresa può differenziarsi anche nelle attività di marketing, nel livello di investimenti pubblicitari.
Altre fonti di differenziazione rispetto ai concorrenti sono le competenze dei dipendenti, la collocazione
geografica, il livello di integrazione verticale (ci può consentire un maggiore controllo sugli input e sui
processi di distribuzione).

Legame tra leadership di costo e differenziazione

Porter affermava che leadership di costo e differenziazione di norma sono incompatibili. A partire da altri
studiosi, non si è più condivisa questa visione così rigida; quindi, sono state individuate delle circostanze
nelle quali è possibile realizzare contemporaneamente leadership di costo e differenziazione.

1. La concorrenza sia ‘bloccata a metà del guado’, cioè sostanzialmente non è né nell’uno che né
nell’altro;
2. I costi siano condizionati dalla quota di mercato, quindi elevati volumi di vendita cosicché i costi si
riducano all'incremento della quota di mercato;
3. Introduzione di innovazioni tecnologiche, perché l’impresa, anche avendo un approccio di
leadership di costo, riesce comunque ad innovare tecnologicamente, e cioè a portare
differenziazione.
Queste condizioni valgono nel breve periodo, perché nel lungo periodo:

1. La condizione di blocco a metà del guado dei concorrenti è solo temporanea, perché poi bisogna
andare verso una strategia di base che impronti la strategia competitiva;
2. Nel lungo periodo, anche i concorrenti abili possono avere la stessa quota di mercato, quindi elevati
volumi e stesso livello di costo;
3. Nel lungo periodo è difficile difendersi e ci saranno sempre fenomeni imitativi da parte dei
concorrenti.

Integrazione tra leadership di costo e differenziazione

Uno dei pochi casi di leadership di costo e differenziazione è il caso di IKEA. Il modello IKEA non è un
modello di business facilmente imitabile, IKEA è diventato qualcosa di unico. Grazie alla combinazione di
combinazione di competenze, volte alla minimizzazione dei costi, unite alla creatività e alla capacità
innovativa (espressione di competenze di differenziazione), IKEA è riuscita a proporre, alla clientela
internazionale, prodotti a basso costo ma con caratteristiche inconfondibili, tanto da riuscire a diventare
uno stile ‘stile IKEA’.

Le strategie d’impresa

La strategia è una risposta di adattamento dell’impresa sia all’ambiente esterno che all’ambiente interno.
Possiamo distinguere le strategie d’impresa in:

 Strategie di sviluppo dimensionale


 Strategie di risanamento (situazioni di crisi)
 Strategie di rafforzamento o assestamento della propria posizione rispetto alla concorrenza

Le strategie di sviluppo

Lo sviluppo può essere di vario tipo:

- sviluppo dimensionale in senso stretto: un incremento della quota di mercato. La quota di mercato
è la fetta di mercato nel quale opero; si può calcolare in valore o in quantità.
- sviluppo monosettoriale/polisettoriale: all’interno di quello stesso settore in cui operi oppure in
più settori;
- integrazione orizzontale e verticale;
- per via interna o per via esterna: per via interna significa con risorse interne, quindi facendo
investimenti; per via esterna significa attraverso la collaborazione, attraverso la cooperazione con
altre imprese.

Matrice prodotto/mercato

Negli anni ‘80 Ansoff ha proposto una matrice per classificare le strategie di sviluppo e in particolare
individuarle in base a 2 variabili: i prodotti e i mercati. Abbiamo sull’asse delle ascisse i prodotti (attuali o
nuovi) e sull’asse delle ordinate i mercati (attuali o nuovi). Incrociando queste 2 variabili individuiamo 4
tipologie di strategie diverse:

1. Penetrazione di mercato

La penetrazione di mercato è volta ad ampliare la presenza dell’azienda sugli stessi mercati e per gli stessi
prodotti. L’impresa continua a produrre gli stessi prodotti cui affida le stesse missioni e cerca
semplicemente di migliorare la posizione competitiva ampliando le proprie quote di mercato. È possibile
espandere il proprio business aumentando l’acquisto medio, e quindi inducendo i clienti ad acquistare di
più, e aumentando la base di clienti, cioè cercando di acquisire nuovi clienti.
Quando si parla di strategia di espansione possiamo distinguere una:

- Espansione intesa in termini assoluti (aumento delle vendite);

- Espansione intesa in termini relativi (aumento della quota di mercato).

2. Sviluppo del prodotto

L’impresa resta focalizzata sullo stesso mercato di riferimento nel quale introduce nuovi prodotti (prodotti
nuovi su mercati tradizionali). Questo significa sviluppare il prodotto attraverso un approfondimento delle
linee esistenti o aggiungendo nuove linee di prodotto.

Lo sviluppo del prodotto prevede l’utilizzo delle seguenti risorse:

 Forte presenza presso i clienti chiave: avere una rete di clienti molto fedeli, dei rapporti di
relazione molto stretti con i clienti che sono, quindi, molto più disposti ad accettare le innovazioni
ed i nuovi prodotti;
 Introduzione nei canali distributivi: significa avere una presenza nei canali distributivi molto
consolidata avendo sviluppato nel tempo rapporti di collaborazione con i distributori, cioè rapporti
consolidati di fiducia reciproca, di continuità di rapporti commerciali;
 Ben introdotta rete di vendita;
 Forte immagine di marca per brand extension: avere una grande reputazione del brand rende i
clienti molto favorevoli a politiche di nuovi prodotti.
3. Lo sviluppo del mercato

In questo caso l’impresa, pur producendo gli stessi prodotti, individua nuove missioni e, quindi, cerca di
colpire clienti diversi rispetto ai precedenti ampliando il proprio mercato di riferimento. Significa rivolgersi a
prodotti attuali su nuovi mercati, facendolo, per esempio, attraverso nuovi mercati geografici e nuovi
segmenti di clienti. Consiste, quindi, in una ripetizione su scala più ampia delle stesse politiche con lievi
variazioni e nella ricerca di differenti leve commerciali (ad esempio variazione prezzo o canali distributivi).

4. Diversificazione

Tale strategia si configura nel momento in cui l’impresa sviluppa nuovi prodotti cui vengono affidate nuove
missioni. Prevede l’ingresso in nuove ASA; è una strategia che prevede prodotti nuovi con mercati nuovi
(Ansoff) o lo sfruttamento delle risorse inutilizzate (Penrose).

Una studiosa di management (Penrose) ha sostanzialmente messo in evidenza come diversificazione


significa sfruttare risorse inutilizzate, cioè è la disponibilità di risorse in eccesso rispetto alle esigenze attuali
che spinge le imprese a diversificare, quindi ad entrare in nuovi business. E queste risorse possono essere
connesse alla base produttiva (diversificazione produttiva) oppure connesse al mercato (diversificazione
connessa al mercato). La diversificazione può essere vista come un vettore di crescita, e quindi una
strategia di crescita per migliorare la nostra redditività; può anche essere vista come vettore di difesa per
ridurre il rischio complessivo dell’impresa.

La diversificazione concentrica (o laterale/correlata) è una diversificazione che ha nessi tecnologici o di


mercato con la precedente attività. La diversificazione conglomerale è una diversificazione che non ha alcun
nesso con la precedente attività.

La finalità della matrice di Ansoff è quella di classificare le strategie e distinguere le diverse modalità di
crescere in base al fatto se si fondano da un lato sui prodotti attuali o se si fondano su prodotti nuovi, e
dall’altro se si fondano queste strategie di crescita su rivolgersi sugli attuali mercati oppure se rivolgersi a
nuovi mercati.

Matrice sulla classificazione delle strategie


Questa classificazione è stata fatta con una logica precisa, cioè quella di vedere le diverse strategie in ottica
di competenze. Si analizzano le strategie in funzione dell’impatto che le strategie hanno sul patrimonio
delle competenze dell’impresa.

Nell’ambito di questa matrice, da un lato le strategie vengono collocate in base al tipo di sviluppo di
competenze, che può essere discontinuo o di tipo continuo o tendenziale rispetto al patrimonio di
competenze in dotazione dell’impresa in quel momento. Dall’altro lato, invece, le strategie vengono
collocate in base al patrimonio cumulato a somma positiva, nulla o negativa, cioè se questo patrimonio di
competenze alla fine risulta accresciuto oppure invariato/diminuito.

Ricentraggio

Tra le varie strategie all’interno di questa matrice c’è il ricentraggio: ricentraggio significa che si tagliano dei
rami secchi, ossia si tagliano le attività non correlate alle attività “core”. È una classica strategia che viene
seguita per focalizzarsi su quello che è il core business dell’impresa, cioè sull’attività centrale, eliminando le
attività non particolarmente redditizie.

Riconversione

La strategia di riconversione è l’abbandono della linea produttiva esistente e, con uno sviluppo interno, la
sua sostituzione con una nuova linea produttiva, possibilmente vicina, almeno da un punto di vista
tecnologico, a quella precedente.

Il classico di strategia di riconversione è l’esempio di imprese produttrici di mezzi cingolati che venivano
usati nei periodi bellici e poi sono state trasformati in imprese produttrici di trattori nei periodi post-guerra.

I motivi della strategia di riconversione possono essere:

- crisi strutturale dell’ASA;

- interventi della pubblica amministrazione volti a disincentivare o bloccare la produzione in determinati


settori;

- incapacità delle imprese di reagire alle innovazioni tecnologiche e alle azioni di marketing dell’impresa
leader;

- impossibilità di superare difficoltà degli approvvigionamenti con una strategia di integrazione verticale.

Per quanto riguarda i risultati della riconversione, vi è la progettazione di una nuova linea di prodotti,
connessa tecnologicamente e possibilmente anche dal punto di vista del mercato, con la precedente.

Gli ostacoli della riconversione provengono da resistenze alle modificazioni interne all’impresa da parte dei
dipendenti ai diversi livelli.

Strategia di integrazione verticale

La strategia di integrazione verticale è l’espansione dell’impresa in altri stadi della filiera tecnico-produttiva.
La crescita dell’impresa si realizza aggiungendo alla linea o alle linee esistenti, nuove linee produttive e
attività precedentemente svolte dai fornitori (integrazione verticale “a monte” o ascendente) o dai clienti
(integrazione verticale “a valle” o discendente).

Le decisioni riguardo all'ampiezza verticale della dimensione aziendale devono individuare:

- la scelta delle fasi da svolgere all’interno, quindi comprendere quali fasi della filiera economico-produttiva
svolgere all’interno e quali invece all’esterno;

- come coordinare tra di loro queste attività;


- quanta parte del proprio fabbisogno dobbiamo soddisfare con una produzione interna;

- quante risorse finanziarie destinare a questa scelta.

Tipologie di integrazione verticale

Possiamo individuare diverse tipologie di integrazione verticale. Rispetto al numero delle fasi della filiera in
cui l’impresa è presente, l’integrazione verticale può essere:

 completa (l’impresa si sviluppa in senso verticale fino ad occupare tutte le fasi della filiera);
 incompleta (l’impresa è presente solo in alcuni stadi collegati verticalmente).

Rispetto alla copertura dei fabbisogni, l’integrazione verticale può essere:

 con eccedenze (l’impresa si assicura una capacità produttiva dei processi a monte o a valle
sovradimensionata rispetto alle sue esigenze di input o output);
 con ricorso al mercato (l’impresa, pur presente in tutti gli stadi della catena verticale, ricorre anche
ad imprese esterne per l’approvvigionamento, la trasformazione o la distribuzione dei beni o
servizi).

Criticità delle strategie di integrazione verticale

Le criticità che dobbiamo valutare in merito all’integrazione verticale sono:

- incremento della leva operativa (la leva operativa è il rapporto tra costi fissi e costi variabili, ha a
che fare con la struttura dei costi);
- incremento del fabbisogno di capitali e rigidità degli investimenti, questa rigidità dipende però
comunque per quanto possa essere poi facile disinvestire è comunque una rigidità nel senso che
sto investendo per strutturarmi per fare una nuova attività e non è una cosa che posso risolvere
facilmente entrare e uscire nel giro di poco;
- aumento delle barriere all’uscita;
- perdita di flessibilità;
- perdita di specializzazione, perché prima l’impresa era più focalizzato su quello che faceva, e adesso
ha focalizzato altre attività.

Disintegrazione verticale

Esistono anche dei processi di deverticalizzazione o disintegrazione verticale. I motivi sono:

- l’esigenza di una maggiore flessibilità produttiva e un più efficiente sfruttamento delle economie di
specializzazione. L'obiettivo della disintegrazione è quello di recuperare flessibilità e di recuperare
economie di specializzazione;
- decentramento produttivo per esternalizzare fasi di lavorazioni e per ridurre il costo del lavoro della
grande impresa;
- maggiore efficienza mediante diverse scale ottimali di capacità produttiva.
L’impresa sistema

L'approccio sistemico allo studio dell'impresa ha radici antiche. La prima applicazione di questo approccio
sistemico allo studio dell'impresa risale al 1938 ad opera di Barnard. Nel 1977 Von Bertalanffy è il primo che
fa un'opera molto sistematica, molto imponente e significativa, finalizzata a vedere l'impresa come un
sistema con tutte le implicazioni, con tutte le caratteristiche di cui abbiamo qualche modo fatto cenno. Un
altro contributo importante è stato fatto nel 1988 da Kast e Rosenzweig che hanno dato i principi fondanti
di questo approccio sistemico. Essi dissero che: ‘’Un sistema è un insieme unitario organizzato composto di
due o più parti interdipendenti, componenti o sub-sistemi e delineati da confini identificabili dai suoi sopra
sistemi ambientali’’.

Questo significa che l'impresa è un'entità che comprende al suo interno parti componenti o sub-sistemi e a
sua volta interagisce all'esterno con i sovra sistemi ambientali esterni. Il concetto di interdipendenza
differenzia il concetto di sistema dal concetto di insieme: l'insieme è un semplice aggregato; il sistema,
invece, è un insieme di soggetti e parti, componenti, interagenti l'uno dall'altro e delineati da dei confini
rispetto ai sovra sistemi ambientali esterni.

Non tutte le imprese sono sistemi: diventare “sistema” è un traguardo, non una condizione
intrinsecamente connessa all’impresa, frutto di un processo evolutivo e di intenzionale costruzione.
Esistono quattro condizioni che vanno individuate affinché si possa parlare effettivamente di un sistema:

1. Differenziazione del lavoro all'interno dell'impresa

È un’esigenza connessa alla dimensione dell’impresa e alla fase del ciclo di vita, laddove governance e
management divergono progressivamente. La differenziazione riguarda la suddivisione delle attività,
individuando ruoli, competenze, compiti. Secondo Teece (1993), la capacità manageriale di suddividere il
lavoro e di coordinarlo è un requisito fondamentale per la capacità competitiva dell’impresa, che spesso è
un fatto personale, piuttosto che derivante da impianti e strumenti di lavoro.

Dalla suddivisione del lavoro scaturisce il fondamentale principio di management del controllo di gestione.
Ogni parte svolge un compito preciso, ha precisi obiettivi, è un centro di responsabilità di costo e/o di
ricavo, è finalizzata ad un risultato. Fare controllo di gestione significa accertarsi, verificare che ogni parte
della nostra impresa raggiunga gli obiettivi che gli sono stati assegnati e, se non li raggiunge, individuare
quali sono le modalità di intervento necessarie per riallineare i risultati rispetto agli obiettivi che sono stati
prefissati. Il controllo di gestione è un meccanismo operativo molto importante che aiuta le imprese a
raggiungere il successo, gli obiettivi e ad intervenire in tempo, se ci si sta allontanando dalla rotta che
porterebbe al raggiungimento degli obiettivi.

2. Una efficiente ed efficace struttura organizzativa

Strutturazione significa dare ordine alle operazioni e ai compiti, definire le regole di interazione tra le parti,
e cioè delle procedure di interazione, definire il processo decisionale di governance e di management e la
connessa catena di autorità e poteri. Tutto ciò significa “gerarchia”, modello di strutturazione formale ed
ordinato delle funzioni, dei compiti, delle unità organizzative. La struttura organizzativa è piena di relazioni
informali, di informazioni e comunicazioni top-down, bottom-up e trasversali.

Strutturazione significa anche scegliere la forma giuridica e scegliere il modello organizzativo in modo
“razionale”, ossia ricercando appropriatezza rispetto alla strategia prescelta.

3. Integrazione

L’integrazione è la riconduzione ad unità delle parti e dei partecipanti differenziati. Dopo aver fatto la
differenziazione, e quindi dopo aver differenziato il lavoro assegnandolo all'interno dell'impresa a ciascun
soggetto, a ciascuna unità organizzativa, ciascun ufficio, bisogna ricondurre ad unità ciò che è stato
differenziato, ordinato e strutturato. Dobbiamo garantirci questa integrazione perché altrimenti le parti di
questo sistema sarebbero slegate tra loro. L’integrazione può essere spontanea (organizzazioni semplici) o
procurata (organizzazioni complesse). L’integrazione è un compito tipico del management; comprende tre
attività:

- coordinamento, perché il manager è un soggetto integratore che deve coordinare;


- controllo, cioè verificare che l’impresa sta andando nella giusta direzione;
- esercizio di leadership: la leadership è un meccanismo di integrazione ed è la capacità di
influenzare il comportamento degli altri. Leadership significa coordinare, controllare, ma anche
supportare, stimolare, motivare. La leadership non è legata all’autorità formale.

Teoria X

La teoria X si fonda sui principi del management scientifico, si riconduce ai principi di Taylor e Fayol
sull'organizzazione del lavoro. Lo Scientific Management aveva questa ambizione di codificare i processi, di
codificare tutto ossia i principi di essere molto prescrittiva, quindi regole e procedure come meccanismo
principe di integrazione.

Teoria Y

La teoria Y è fondata sulla cura delle relazioni umane e sulla cooperazione tra capo e subordinato (Barnard
e Homans sono i due esponenti principali di quest’approccio). Si dà molto spazio all’informalismo, in
maniera completamente opposta la teoria X, che invece dà molto spazio al formalismo, alle regole alle
procedure.

Teoria Z

La teoria Z viene dalla cultura giapponese ed è fondata sulla capacità di autoregolazione dei piccoli gruppi
umani. È un modo di stimolare innovazioni di processo, di prodotto, un modo di dare voce a quello che è
l’informalismo.

4. Finalizzazione comune

La finalizzazione può essere generale o istituzionale, ed è quella che troviamo nello statuto e nell'atto
costitutivo; riguarda, quindi, la produzione di beni o servizi. La finalità particolare riguarda la distribuzione
degli utili (finalità for profit, non profit, socio-economica). La finalizzazione significa, quindi, avere una
finalità generale e una finalità particolare, e tradurre poi queste finalità in obiettivi. Gli obiettivi sono le
strategie, i piani e i programmi. È molto frequente che le interferenze di finalità personalistiche di singoli o
cordate di potere interferiscano con le finalità del sistema. Questo è sicuramente un elemento di
disfunzionalità, una condizione che ci allontana dalla condizione di sistemicità perché nel concetto di
sistema si ha un perfetto allineamento di tutte le componenti, di tutte le attività e di tutti i soggetti verso il
fine comune. La condizione di sistematicità è una ‘’finalizzazione chiara e condivisa’’: tutti devono
contribuire a realizzare le finalità comuni.

L’equilibrio sistemico

Un'equilibrata amministrazione aziendale è informata al principio della economicità. L’economicità è una


condizione da raggiungere, è un criterio di gestione, è la sintesi di efficienza ed efficacia. L’efficienza è
l’ottimizzazione delle risorse disponibili, è la capacità di ottenere il massimo risultato con il minor impiego
di input.

L’efficienza può essere tecnica o produttiva, che osserva le quantità fisiche, che fanno riferimento alle
caratteristiche del bene (misura il modo in cui i fattori sono utilizzati nel processo produttivo. Indica la
capacità dell’azienda di produrre più unità fisiche di output dato un certo ammontare di input e una certa
tecnologia o viceversa) e allocativa o gestionale, che osserva le quantità monetarie, ossia l’espressione del
bene in denaro (misura la capacità di combinare input e output al minimo costo. Indica la capacità
dell’azienda di ottenere più unità di output con la minore quantità di mezzi monetari a disposizione).

L’efficacia è la massimizzazione dei ricavi e dell’output, cioè il raggiungimento degli obiettivi dell’azienda.
L’efficacia è il rapporto tra risultato raggiunto ed obiettivo prefissato. L’efficienza può essere interna o
gestionale (misura e indica la capacità di raggiungere determinati obiettivi prefissati) e esterna o sociale
(misura e indica la capacità dell’azienda di soddisfare i bisogni).

Operare in condizioni di efficienza ed efficacia consente il raggiungimento di condizioni di redditività, di


solidità e di solvibilità finanziaria. La redditività è il risultato di operare con economicità. L'equilibrio è uno
stato di equilibrio economico, finanziario ed organizzativo.

Equilibrio economico

L’equazione dell’equilibrio economico RV=CS + RD

RV= ricavi complessivi

CS=costi di competenza dell’esercizio

RD=reddito economico di esercizio

Siamo in equilibrio economico quando attraverso i nostri ricavi riusciamo a coprire tutti i costi di
competenza dell'esercizio e anche a ottenere un reddito economico di esercizio.

Il reddito economico di esercizio va inteso come reddito minimo di equilibrio, in grado di remunerare le
attese del capitale di rischio (D) e l’attività prestata dall'imprenditore (L).

RD= D + L

Il reddito minimo di equilibrio deve anche alimentare un processo di autofinanziamento con delle riserve di
utili.

RD = D + L + I

Ciò significa che stiamo parlando di un equilibrio che noi cerchiamo di proiettare nel medio-lungo periodo.

Se questo reddito economico di esercizio è minore di 0 (RD < 0) è una crisi fisiologica o patologica?

Questa situazione di negatività è assolutamente una crisi fisiologica, cioè un’alternanza tra risultati positivi
e negativi, ma dipende dai motivi che l’hanno determinata. È chiaro che può diventare una crisi patologica
da curare, nel momento in cui non ci sono motivi diversi dal constatare un reddito negativo se non quelli di
un’inefficacia, del fatto che ci sono dei costi troppo elevati ecc.

Equilibrio finanziario

L’equilibrio finanziario ha due dimensioni: l'equilibrio patrimoniale e l'equilibrio monetario. L'equilibrio


patrimoniale lo leggiamo in chiave di solidità, l'equilibrio monetario in chiave di solvibilità.

L’equilibrio patrimoniale è il rapporto tra capitale proprio e capitale di terzi, è il rapporto che c'è tra le fonti
di capitale e il tipo di impiego che noi abbiamo nel nostro stato patrimoniale. La solidità patrimoniale è un
perfetto equilibrio delle fonti dell'attivo e del passivo, sia all'interno tra di loro e sia in orizzontale come
corrispondenza tra tipologia di fonte.

L’equilibrio monetario è una questione di solvibilità, cioè la capacità di far fronte agli impegni debitori che
presi nei confronti dei terzi. Siamo solvibili quando abbiamo la possibilità di soddisfare le esigenze dei terzi
e rispettare gli impegni che abbiamo preso. Una crisi di solvibilità è quando abbiamo difficoltà a pagare i
nostri debiti, quando non abbiamo dei flussi di monetari tali da poter soddisfare le esigenze dei nostri
creditori, il personale, i fornitori.

Equilibrio patrimoniale

KI= CPR + CRD + FDI

KI= capitale investito (immobilizzazioni + disponibilità, ossia il capitale circolante)

CPR= capitale netto (capitale sociale, utili e riserve)

CRD= capitale di credito

FDI= fondi accantonamenti e ammortamento

Equilibrio monetario

L’equilibrio monetario è una condizione che noi ricerchiamo posto che esista un disallineamento temporale
e/o quantitativi delle entrate e delle uscite rispetto alla dinamica dei costi e dei ricavi (costi e ricavi, cioè
dinamica economica, entrate e uscite, cioè dinamica finanziaria). Il disallineamento tra entrate e uscite
rispetto alla dinamica costi ricavi esiste per vari motivi:

1. Dilazioni di pagamento e di incasso;


2. Sconti connessi all’anticipato incasso di fatture;
3. Minori incassi per difficoltà del debitore.

Equilibrio finanziario

F1 + E= U + F2

F1 e F2= fondo di cassa iniziale e finale

E= entrate per vendita (riscossione di crediti, accensione di debiti, interessi e dividendi, ecc..)

U= uscite per acquisti (concessione di prestiti, estinzione di debiti, salari e stipendi, pagamento di dividendi
ed interessi ecc..)

Considerando anche la dinamica dei crediti e dei debiti, e non soltanto E ed U come uscite effettive ed
entrate effettive, avremo:

F1 + (E + ΔCgc) = (U1 + ΔDgc) + F2

ΔCgc=variazione dei crediti inizio/fine

ΔDgc=variazione dei debiti inizio/fine

Se F1 + E < U?

Se il fondo iniziale più quelle che sono le entrate dell'anno sono state insufficienti a coprire le uscite del
periodo, possiamo parlare di un’insolvenza contingente o strutturale: bisogna capire se questa difficoltà di
far fronte alle uscite è qualcosa che si riconduce ad elementi strutturali oppure a elementi temporanei
contingenti.

Se F1 + E > U? Vi è un’incapacità di impiego delle eccedenze monetarie.

Equilibrio organizzativo
L'equilibrio organizzativo è la madre di tutti gli equilibri, è l'equilibrio di base che dobbiamo avere per poter
generare equilibrio economico e equilibrio finanziario. L’equilibrio organizzativo è uno stato di armonia
della struttura, dei processi, delle interazioni che deve caratterizzare il contesto entro cui si genera poi
l'equilibrio economico e l'equilibrio finanziario.

Questo concetto si collega alla teoria del rapporto tra incentivi e contributi, che è sostanzialmente una delle
parti più importanti dell'equilibrio organizzativo. Il contributo lavorativo di ciascun soggetto deve essere
congruo e coerente con il sistema di incentivi, così come il sistema di incentivi da parte dell'organizzazione
dell’impresa deve essere coerente e allineato rispetto al contributo dei vari soggetti. Gli incentivi non sono
solo quelli monetari, ma anche quegli incentivi non economici che comunque riconoscano il contributo che
un individuo dà all’impresa. È necessario che ci sia armonia interfunzionale e armonia interpersonale.

Strategie di adattamento

La strategia attiene alla relazione tra impresa e ambiente. La strategia è la ricerca consapevole di strumenti,
metodi e azioni suscettibili di assicurare all'impresa sopravvivenza, successo o vantaggio competitivo, in
condizioni di equilibrio. Fare strategia significa avere le idee chiare, definirle, identificare il nostro percorso
futuro.

La parola adattamento è insita nel concetto di strategia, perché la strategia è un adattamento alle
condizioni dell'ambiente esterno e interno, e la vita dell'impresa è un continuo adattarsi a ciò che accade
nel mondo esterno e nel mondo interno, a livello macro, a livello competitivo, ossia in tutte le dimensioni
che abbiamo analizzato.

Strategia è pensiero e azione: è sicuramente pensiero perché è necessario definire il percorso evolutivo
dell’impresa, quindi capire quali sono le alternative strategiche che l’ambiente esterno e interno ci
consentono; è, poi, azione perché è necessario metterle in atto, cioè tradurre la strategia in piani strategici
e in programmi. I piani strategici e i programmi sono i modi attraverso i quali la strategia viene formalizzata.
Piano strategico è una questione che riguarda la governance; i programmi afferiscono alla sfera
dell'attuazione, dell’implementazione, quindi è una competenza del management.

Le strategie possono anche essere classificate in:

 Strategie di mantenimento o di non crescita: strategia è anche un non crescere, ossia rendersi
conto che non ci sono le condizioni ambientali all'esterno o all’interno per poter realizzare un
percorso di crescita;
 Strategie di controllo e crescita: controllo è una parola che viene utilizzata in opposizione
all’adeguamento che si fa nei confronti dell’ambiente esterno. L’adeguamento è un adeguarsi
passivamente; il controllo è un controllare l’evoluzione della propria azienda e anche l'evoluzione
dell’ambiente esterno;
 Strategie di cooperazione: Cafferata le individua come terza fattispecie di strategie. È una strategia
che imposta la propria attività sulla base di una cooperazione.

Pensare e fare strategia significa:

- Individuare percorsi strategici alternativi;


- Scegliere un percorso specifico;
- Pianificare un obiettivo;
- Risultati;
- Monitoraggio: fare un'analisi dei risultati ottenuti sulla base degli obiettivi pianificati.

Le fasi canoniche della formalizzazione della strategia nel piano d’azione sono:

1. Individuare percorsi strategici alternativi sulla base dell'analisi dell’ambiente esterno e interno;
2. La scelta del percorso: trovare quello che ci appare più conveniente, il più opportuno da perseguire
in quel momento;
3. Structure follows strategy: adeguamento della struttura organizzativa rispetto alla strategia. Si
deve assicurare sempre coerenza tra struttura organizzativa e strategia;
4. Implementazione del piano strategico in programmi attraverso la struttura;
5. Controllo: capire se l’impresa è in una situazione di equilibrio o di disequilibrio. Il controllo serve
per capire se si sta andando nella giusta direzione.
6. Raccolta ed elaborazione delle informazioni, che sono il risultato dell'attività di controllo, ai fini
della validazione della strategia.

Gruppi di imprese

Un gruppo di imprese è un insieme di imprese che sono dotate di soggettività giuridica che condividono il
soggetto economico, in grado di esercitare uno stabile controllo sul capitale e un'influenza dominante sulla
strategia delle società coinvolte nel gruppo. Il soggetto economico è il soggetto che guida il gruppo, che
controlla il capitale e influenza le strategie.

Il gruppo di imprese può nascere:

1. Per sviluppo endogeno (per gemmazione), ad esempio una parte di un'azienda si separa e diventa
essa stessa un'azienda separata;
2. Per sviluppo esogeno (per acquisizione), ad esempio quando un'impresa acquista una percentuale
X di controllo di un'altra impresa;
3. Per sviluppo collaterale, cioè creazione o acquisizione di società che svolgono servizi per l'intero
gruppo.

Opposta alla crescita endogena o esogena è la strategia di disinvestimento (cessione o esternalizzazione).


Molto spesso l'impresa ha bisogno di ridimensionare le proprie dimensioni quindi per esempio di
disinvestire, uscire da certi business, ridurre la propria presenza in determinati business, quindi cessione;
oppure disinvestimento inteso come esternalizzazione cioè rivolgersi ad altre imprese per fare una cosa che
inizialmente faceva l’impresa stessa. La cessione può riguardare anche manager e dipendenti dell'azienda e
può o meno far nascere rapporti di cooperazione in varie forme.

Strategie di non crescita

Le strategie di non crescita riguardano il consolidamento del posizionamento raggiunto o la cooperazione


con altre imprese per raggiungere un obiettivo comune.

Strategia di cooperazione

La strategia di cooperazione riguarda il perseguimento di un obiettivo comune e l’utilizzo di risorse


complementari.

Accordi e cooperazione possono essere:

 a monte, a valle o laterale: a monte, cioè con i fornitori, a valle, cioè con i clienti, o laterale;
 formale o informale;
 equity o non equity: equity quando la collaborazione è rafforzata da una partecipazione al capitale
sociale; non equity quando non implica alcuna forma di relazione dal punto di vista sociale.

In ogni caso, va considerato che l’accordo e la cooperazione è una forma di limitazione reciproca dei poteri
di iniziativa.

Reti di imprese
Le reti di impresa sono imprese che instaurano durevoli e ordinati rapporti di cooperazione, basati sulla
reciproca fiducia e su relazioni contrattuali intense ripetute nel tempo. Ciascun membro è indispensabile
all'altro, con compiti di produzione o di fornitura di acquisto da assolvere nell'interesse di tutti. Le reti di
mercato sono quelle in cui non si può individuare un leader all’interno, al contrario delle reti guidate, dove
si ha un leader ossia un'impresa che svolge la funzione di coordinamento, di coesione, di programmazione
dell'intera rete.

Crisi e risanamento

La crisi è uno stato di difficoltà consolidata, e non un momento di situazione temporaneo; sono situazioni
che hanno dei motivi legati alle attività del business dell’impresa. Da una situazione di crisi possono
derivare la cessazione volontaria o la cessazione necessitata (fallimento). Le crisi possono anche
rappresentare un potenziale per le imprese, che permette di individuare le disfunzioni, curarle e far
rinascere l'impresa. Nella cultura giapponese, la crisi è un'opportunità ed è giusto considerare la crisi come
un momento forte che impone una riflessione e un cambiamento sicuramente. La crisi può essere anche
generatore di cose positive come la rinascita dell'impresa.

Il fronteggiamento della crisi può consistere in:

- Restructuring, ossia ristrutturazione dei processi produttivi e organizzativi;

- Disinvestimento (downsizing, outsourcing o cessazioni);

- Cooperazioni difensive, perché anche la cooperazione può essere un modo per risanare l’azienda sempre
alla luce di un discorso di andarsi ad avvalere di risorse e di competenze che non si hanno naturalmente;

- Mutamento del soggetto economico e/o del business;

- Fusione con altre imprese.

La cosa importante è che la crisi deve essere vista come un'opportunità per il recupero e lo sviluppo
dell’impresa, attraverso cambiamenti strutturali o strategici, ed il rilancio con maggiori presupposti di
crescita e di rafforzamento delle posizioni competitive. Questa è una visione molto ottimistica di crisi, come
un momento di riflessione strategica obbligata.

Cambiamenti, innovazioni, resistenze, drammi

Equilibrio, adattamento, cambiamento. Questa parole vanno insieme: l'equilibrio è il fine dell’impresa; le
imprese cambiano perché devono adattarsi a un nuovo contesto per recuperare una condizione di
equilibrio; il cambiamento deve essere inteso come risposta adattiva a contesti che cambiano, finalizzato al
recupero di situazioni di equilibrio del sistema impresa.

L'esigenza di cambiamento può derivare da fattori esterni e da fattori interni. Il tipo di cambiamento può
essere marginale o radicale o può essere un cambiamento strategico o organizzativo. Il cambiamento
marginale o radicale è il cambiamento di alcuni processi. Il cambiamento strategico è il cambiamento della
strategia o dell’organizzazione. Il cambiamento strategico deriva da decisioni di governo, mentre il
cambiamento organizzativo deriva da decisioni manageriali. Il cambiamento organizzativo riguarda la
modifica della personalità e dei comportamenti dei singoli individui, la modifica dell’organizzazione del
lavoro e/o della struttura organizzativa, la modifica del clima, atmosfera di lavoro.

Sviluppo organizzativo

Lo sviluppo organizzativo riguarda tutto ciò che migliora sotto il profilo dei metodi e dei processi decisionali
e di direzione, il contributo più elevato dei singoli alla strategia, l'aumento della soddisfazione del
personale; in generale, ogni miglioramento delle competenze e quindi della capacità competitiva
dell'impresa.

Il cambiamento può essere visto anche in relazione a quello che è il ciclo di vita dell'impresa. Esso è
composto da varie fasi: nascita, crescita, maturità, declino ed estinzione. È un modello ideale dalla durata e
dalle fasi variabili. Nella fase di nascita prevale il determinismo ambientale rispetto al controllo, e quindi la
parola adattamento qui significa “adeguamento”, perché l’impresa non può fare nulla se non adeguarsi alle
regole e a certe condizioni. Nella fase di crescita adattamento è inteso come “controllo”; c'è una
determinazione del soggetto economico che diventa importante in termini di controllo dell'ambiente
esterno. L’impresa non è più in una condizione di passività rispetto a quello che la circonda, di conseguenza
non dovrà soltanto adeguarsi, ma avrà maggiori possibilità di controllo. La fase di maturità è caratterizzata
dall’azzeramento dei tassi di crescita del fatturato e da investimenti che sono di sostituzione o di
aggiornamento. La fase di declino è un’occasione di cambiamento radicale, ossia deve essere considerata
come una situazione di opportunità, al fine di risollevarsi e sfuggire alla fase successiva, cioè l'estinzione.

Resistenze al cambiamento

Le imprese possono non cambiare a causa di fattori esterni e fattori interni. I fattori esterni di non
cambiamento sono: l'ambiente stazionario, l'arretratezza del sistema economico a livello macro, l'assenza
di innovazioni tecnologiche, resistenza di barriere all'entrata ecc.. Sono una serie di condizioni esterne che
sostanzialmente non richiedono il cambiamento o non stimolano il cambiamento. I fattori interni sono: la
rigidità patrimoniale, l'eccessiva gerarchizzazione e burocratizzazione, la sedimentazione di interessi e
cultura, i limiti della razionalità del soggetto economico, la difesa dell'integrità della struttura. Molta
codificazione, molta formalizzazione, molta proceduralizzazione sono elementi di rigidità, ossia sono
elementi che impediscono, ostacolano il cambiamento o producono un cambiamento eccessivamente
lento.

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