dell'impresa", di Sergio
Sciarielli
Economia e Gestione Delle Imprese
Universita degli Studi Roma Tre
81 pag.
Sergio Sciarelli.
Capitolo I
1. Organizzazione economica.
Ovvero l’impresa persegue l’obiettivo del soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, vendendo
loro prodotti che possano migliorarne la qualità della vita. Il so scopo è l’adattamento al macro-
ambiente esterno ed il miglioramento di questo. In linea col concetto di “funzione economica-
generale” ed in virtù del “principio di suddivisione e specializzazione del lavoro”, l’azienda si
pone anche lo scopo di soddisfare un bisogno particolare del consumatore, non tutti i suoi bisogni.
Così facendo, lascerà l’incarico ad altre imprese di soddisfare bisogni diversi da quelli che soddisfa
lei stessa.
2. Sistema sociale.
In qualità di sistema sociale, l’impresa si pone anche come centro dispensatore di ricchezza.
Garantisce una remunerazione a se stessa e soprattutto ai nuclei sociali che in essa operano. E’ il
grande meccanismo che contiene gli sforzi di tante persone, quindi è suo dovere garantire la
sopravvivenza e la remunerazione agli operatori che per essa lavorano.
3. Struttura patrimoniale.
Sotto un punto di vista puramente patrimoniale, l’impresa è un complesso di beni organizzati,
ricavati attraverso i processi produttivi. Naturalmente il suo obiettivo è creare reddito, cioè far si
che i ricavi siano maggiori dei costi. L’impresa è pertanto il personale utilizzo, effettuato
dall’imprenditore (presupponendo sia un singolo), di capitale ed abilità imprenditoriale.
Queste tre caratteristiche dell’impresa, naturalmente, coesistono contemporaneamente e risultano
pertanto “complementari”, un’impresa deve assolutamente fare in modo di soddisfare una
funzione economica, quindi un’impresa ha il dovere di adattarsi e migliorare qualitativamente
l’ambiente esterno nei confronti del quale vende i suoi prodotti, il dovere di remunerare e soddisfare
i gruppi sociali che la appartengono, quello di produrre reddito.
Capitolo III
1. La capacità di previsione razionale e di intuito, relativa sia alla produzione che al consumo.
2. Lo spirito d’iniziativa, l’intraprendenza, la libertà intellettuale
3. L’autorevolezza e la capacità di imporre un comando ai propri subordinati.
• Stakeholders.
Sono protagonisti della vita dell’impresa anche organi esterni ad essa, come gli stakeholders, gruppi
sociali di interesse rispetto ai quali l’azienda stabilisce rapporti bilaterali.
Tali stakeholders si configurano pertanto come gruppi di interesse che influenzano e al tempo
stesso vengono influenzati dall’azienda, nei confronti della quale diventano dei veri e propri
interlocutori. Per una rapida classificazione dei gruppi di interesse, mi avvalgo della precisa analisi
effettuata da Freeman ne “Strategic management”, dove si considerano “Stakeholders” sia i
dipendenti, i clienti, fornitori, i proprietari ed i lavoratori dell’impresa, sia i gruppi politici, quelli
istituzionali, finanziari, che i sindacati, i mass media e le associazioni di consumatori. Tra essi
ovviamente c’è una differenza fondamentale: alcuni influenzano l’azienda, e ne vengono
influenzati, in maniera molto più diretta e pesante, altri meno. Si distingue così tra stakeholders
primari e secondari:
1. Gli stakeholders primari sono quei gruppi di interesse che esercitano un ruolo diretto nella
gestione dell’azienda, e molto spesso sono legati ad essa attraverso contratti. Stiamo
parlando dei fornitori, dei proprietari, dei finanziatori dei dipendenti.
2. Per stakeholders secondari si intenderanno invece quei gruppi di interesse che, invece che
partecipare attivamente alla gestione dell’azienda, ne influenzano l’andamento ed i
comportamenti, offrendo ad essa feedback post-vendita, che ne possano “orientare” la
mission. Sto parlando di sindacati ed ambientalisti, mass-media ed istituzioni finanziarie:
gruppi sociali che possono fornire all’azienda, nella fase che succede la vendita,
informazioni e feedbacks sul prodotto, che possono essere positivi o negativi, possono
essere lamentele, punti di debolezza o magari pregi e compiacimenti.
L’impresa potrà quindi “orientare la sua mission”, ovvero indirizzare la gestione aziendale verso
una direzione che tiene conto delle informazioni esterne, ricavate dagli stakeholders.
Possiamo quindi, forti della conoscenza della “teoria degli Stakeholders”, fornire una nuova
definizione di impresa, ovvero quella di “un’organizzazione economica, legata ad un complesso
di interlocutori interni ed esterni, che svolge processi di acquisizione e produzione di beni e
servizi volti allo scopo di creare valore”.
Sotto questo punto di vista, la “creazione di valore” non è dovuta solo agli sforzi dell’azienda ma
anche al contributo che ad essa conferiscono gli stakeholders: si parla così di co-creazione di
Per quanto riguarda la fase di identificazione degli stakeholders, tale pratica è attuata dall’impresa
ponendosi delle domande di cui occorre trovare una risposta. Prima ci si pongono i seguenti 5
interrogativi:
1. Chi sono questi gruppi di interesse?
2. In quale ambito lavorano? O meglio, quali interessi sono in gioco?
3. Quali sfide\ostacoli\supporti\opportunità arrecano all’impresa?
4. Quali responsabilità addossano all’impresa, una volta entrati in relazione con essa?
5. Quali strategie di feedback (ovvero di risposta) l’impresa può attuare per rispondere in
maniera ottimale alle sollecitazioni proposte dagli stakeholders?
Una volta trovata risposta a queste domande, che corrispondo ad una primissima fase di
“conoscenza” e quindi di individuazione degli Stakeholders, l’azienda si pone 3 nuovi quesiti:
1. Qual è la forza di questi stakeholders, ovvero quanto possono influenzare l’impresa?
2. Questi gruppi di interesse hanno ricevuto un riconoscimento ufficiale in qualità di gruppi
sociali\politici\economici\ambientali?
3. Qual è il grado di “criticità” od “attualità” delle sollecitazioni che tali stakeholders hanno
apportato all’azienda, ovvero quanto tali sollecitazioni urgono di una risposta?
Una volta aver risposto anche a questi 3 quesiti, per un totale di 8, l’azienda avrà identificato questi
gruppi di interesse. L’identificazione degli stakeholders è importante per comprendere le loro
intenzioni, per capire cioè se saranno più propensi alla collaborazione ed al supporto aziendale o se
invece siano intenzionati a rappresentare un ostacolo, ed in alcuni casi, addirittura una minaccia, per
la sopravvivenza dell’azienda.
Sarà necessario pertanto operare ora una fase di “classificazione” degli stakeholders, ovvero una
suddivisione fondata sul criterio di cosa essi rappresentino per noi azienda. Avremo quindi 4
tipologie differenti di gruppi di interesse:
1. Stakeholders amichevoli o “supportive”, ovvero gruppi di interesse che rappresentano un
beneficio per l’azienda e che sono intenzionati a fornire ad essa un supporto.
2. Stakeholders avversari o “non supportive”, ovvero gruppi di interessi che rappresentano un
ostacolo, una minaccia per l’azienda e che sono intenzionati a conferire ad essa un danno, un
impedimento, una lamentela, una brutta reputazione.
3. Stakeholders “non orientati”, ovvero di incomprensibile posizionamento, al momento. Si
tratta di quei gruppi di interesse che nel momento dell’individuazione non si collocano né tra
gli avversari né tra gli amichevoli, e che potranno pertanto rappresentare in futuro o un
supporto oppure un ostacolo.
4. Stakeholders “marginali”, ovvero gruppi di interesse le cui sollecitazioni, nel momento in
cui vengono emanate, non rappresentano un fattore importante per l’azienda.
Bene, una volta classificati gli stakeholders, sarà possibile per l’azienda pianificare strategie di
risposta alle loro sollecitazioni. Avvalendoci del prezioso schema fornito da Savage-Nix-
Whitehead-Blair, possiamo notare come, tendenzialmente, queste sono le strategie utilizzate dalle
aziende per rispondere alle sollecitazioni dei gruppi di interesse: coinvolgimento, collaborazione,
difesa e monitoraggio. Altrettanto tendenzialmente, le imprese sono orientate a rispondere a
stakeholders amichevoli con il coinvolgimento, a stakeholders avversari con un meccanismo di
Capitolo IV.
Le finalità imprenditoriali,
La teoria del successo sociale.
• Occorre precisare che tale “Teoria delle 3 P” vale solamente nello specifico caso
dell’imprenditore-proprietario. Questo perché, naturalmente, nel caso di un manager
delegato da parte del proprietario alla gestione dell’azienda la situazione cambia. Nel caso di
un manager-imprenditore infatti il raggiungimento di risultati particolarmente brillanti da
parte dell’azienda potrebbe essere anche un “mezzo” per il raggiungimento di una scalata
sociale altrove, magari in un’altra azienda di maggiore rilievo. Diciamo quindi che nel caso
del manager-imprenditore il legame tra successo sociale e azienda è molto più labile che nel
caso dell’imprenditore proprietario: può avvenire cioè che il manager-imprenditore abbia
una quarta necessità, od obiettivo, da perseguire che è quello della “mobilità”, un mezzo
talvolta necessario alla sua personale scalata sociale.
Possiamo finalmente concludere e rispondere alle nostre domande. Quali sono le finalità che gli
imprenditori vogliono raggiungere nel momento in cui finanziano la propria impresa?
Abbiamo 3 casi possibili:
1. Il caso dell’imprenditore “visibile”, ovvero di quell’imprenditore, proprietario di
un’impresa, che ripone in questa attività tutte le aspirazioni della propria vita e che quindi
seguirà la “Teoria del successo sociale”.
2. Il caso dell’imprenditore “meno visibile ed integrato”, ovvero il caso in cui l’imprenditore
sia anche proprietario dell’azienda, ma che al tempo stesso l’azienda non sia poi così grande
ed importante, il caso in cui quindi tale proprietario non riponga in questa attività tutte le
aspirazioni della sua vita e che perseguirà quindi, piuttosto, la “Teoria della
massimizzazione del profitto nel lungo termine”.
3. Il caso del manager-imprenditore, ovvero di un dirigente che non è il proprietario
dell’impresa ma di cui ne viene delegata la gestione. In questo caso l’interprete perseguirà
quella che potremmo chiamare la “Teoria della Mobilità”, ovvero il manager sfrutterà la
Capitolo V
Capitolo VI
→ Riepilogando il tutto…
La scelta della strategia competitiva si compone di 3 fasi:
1. Prima deve essere fatta la scelta del mercato, attraverso il modello delle cinque forze di
Porter, che analizza il mercato in base alla concorrenza reale, potenziale diretta,
potenziale indiretta, alla forza della clientela e dei fornitori.
2. Poi deve essere fatto un “check”, ovvero una revisione, delle potenzialità dell’azienda,
attraverso il modello della catena al valore di Porter, che valuta il valore dell’impresa e
del prodotto, e poi deve essere eseguita una VRIO analysis, ovvero devono essere auto-
valutate le risorse strutturali e umane in possesso dell’azienda, in base al modello
proposto da Barney.
3. Solo alla fine, sarà necessario compararsi alla concorrenza attraverso l’analisi del
mercato e della sua potenziale evoluzione, attraverso il modello SWOT. Ù
Quali sono i vantaggi di una strategia di sviluppo orizzontale? Beh, di sicuro i vantaggi più
immediati sono i tempi brevi di attuazione e i rischi limitati e soprattutto facilmente individuabili.
Ma i vantaggi di maggior rilievo sono le conseguenti economie di costo di cui l’impresa potrà
Capitolo VIII
L’organizzazione dell’impresa.
• La funzione organizzativa.
Soffermiamoci sulla terza fase del ciclo direzionale, quella dell’organizzazione. La funzione
organizzativa , in senso aziendale, si occupa di disciplinare i compiti da svolgere ed assegnare i
ruoli le responsabilità a chi li compirà. Tuttavia, in dottrina, è stato fornito un duplice significato
alla fase dell’organizzazione. Seguendo il concetto “lato” o “marshalliano”, è organizzazione la
disposizione l’ordinamento di tutte le risorse, umane e strutturali, nonché delle strutture finanziarie
e patrimoniali dell’impresa. Sotto questo punto di vista il concetto di organizzazione sembra quasi
andare a coincidere con quello della direzione, che sta invece un gradino più in alto, e sembra
fuoriuscire dal ciclo di direzione. E’ per questo motivo che preferiremo intendere la funzione
organizzativa nel senso “ristretto” del termine, secondo cui ha lo scopo di ordinare i compiti, le
responsabilità e le relazioni tra le forze aziendali che svolgeranno le attività necessarie a
raggiungere gli obiettivi stabiliti in fase di programmazione. Sotto questo punto di vista,
l’organizzazione ha lo scopo di:
1. Definire i centri decisionali, di controllo e di esecuzione, scegliendo il personale
necessario a comporre queste unità organizzative.
2. Assegnare a ciascuna di queste unità organizzative le proprie responsabilità e i propri
compiti.
3. Stabilire le relazioni che intercorreranno tra i vari centri organizzativi.
4. Stabilire le procedure di decisione, controllo ed esecuzione che andranno attuate nei
centri.
Possiamo quindi affermare che:
Lo scopo ultimo della funzione organizzativa è il raggiungimento della massima efficienza
operativa, ottenibile attraverso la corretta suddivisione dei compiti tra i vari centri organizzativi e
soprattutto attraverso la loro coordinazione. Lo scopo prioritario è quindi l’aumento della
produttività del lavoro, ovvero raggiungere migliori risultati, a parità di sforzi sostenuti, oppure
raggiungere gli stessi risultati ma con sforzi minori. Per raggiungere questo obiettivo,
naturalmente, non basta solo suddividere i compiti, assegnare le responsabilità ed aspettare che
ciascuno svolga il suo lavoro: è assolutamente necessaria una cooperazione di gruppo, un team
work. La collaborazione fra le varie parti del sistema aziendale produce infatti il cosiddetto
“effetto sinergico”: si ottengono risultati maggiori se si lavora in gruppo rispetto a quelli che si
raggiungerebbero se ciascuno lavorasse separatamente, in maniera isolata.
Sotto questo punto di vista, i problemi dell’organizzazione, sui quali andare a lavorare per
migliorarla, possono scaturire da un aspetto strutturale dell’organizzazione, ovvero sugli sbagli che
sono stati fatti nello stabilire i compiti, le responsabilità e le relazioni fra forze in gioco; oppure
problemi possono nascere dall’aspetto comportamentale del sistema organizzativo, il quale risulta
molto più difficile da sanare: qui sono in gioco, infatti, problemi di tipo psico-sociologico che
riguardano la situazione di conflittualità\collaborazione presente tra le persone di qualsiasi impresa.
Tra i punti di forza del modello “funzionale”, c’è sicuramente un alto livello di specializzazione,
ovvero ogni mansione è diretta e controllata da un dirigente specializzato (la produzione da
un’ingegnere, l’amministrazione da un contabile). Tra i punti di debolezza, spicca la bassa
possibilità di coordinamento tra le varie funzioni, che rimangono piuttosto isolate ed agiscono
indipendentemente dalle altre.
3. Una struttura organizzativa multidivisionale o “modello divisionale”, che si concretizza
suddividendo l’organizzazione per gruppi di prodotti ( ad esempio l’organizzazione
relativa al prodotto alfa, quella relativa al prodotto beta), oppure suddividendo
l’organizzazione per aree geografiche in cui l’impresa opera ( opzione che avviene specie
nelle aziende multinazionali). Ogni gruppo di prodotti, od ogni area geografica, ha quindi
il suo centro direzionale d’azienda, che ne amministra le varie funzioni di produzione,
vendita, marketing e così via. Sotto questo punto di vista, i vari centri direzionali
assumono le caratteristiche di vere e proprie imprese autonome: il modello divisionale
permette infatti il frazionamento dell’organizzazione, e la creazione di veri e propri
“centri di profitto autonomi”. Ogni centro di profitto ha l’obiettivo di massimizzare i
risultati, ed è per questo che si crea un clima di conflittualità e competizione tra i vari
centri: ciascuno sarà spinto a portare risultati maggiori del vicino, all’impresa, risultano
come un centro di profitto migliore. Una tale situazione ci fa capire che l’obiettivo
dell’organizzazione multidivisionale è quello di focalizzarsi sui risultati e non sui compiti.
Al contrario che nell’organizzazione funzionale, a ciascun dirigente non è solo richiesto
di svolgere bene il proprio lavoro ma la richiesta è quella di portare i migliori risultati
possibili.
Il modello divisionale prevede, naturalmente, il decentramento, rispetto alla direzione centrale, delle
funzioni più specializzate, e al tempo stesso la centralizzazione di quelle funzioni che riguardano
l’intero sistema aziendale, come la finanza, ad esempio.
4. Struttura-Holding.
Quarto ed ultimo modello di organizzazione è la cosiddetta “struttura-holding”, che risulta più
che altro un’evoluzione del modello divisionale. In tale struttura, i vertici di azienda prima
operano una divisione in centri direzionali di profitto, e poi li rendono direttamente delle imprese
autonome. Naturalmente, tali imprese rimarranno legate all’azienda che le ha generate. La
proprietà originaria diventerà società-madre, ovvero fungerà da capo gruppo ai suoi
distaccamenti, che saranno le società-figlie, cioè fondamentalmente imprese controllate. La
società madre sarà una holding pura se si occuperà di funzioni semplicemente societarie, (come
avviene per l’ENI ad esempio), invece sarà una holding mista che svolgerà anche la funzione di
produzione (come avviene per la FIAT). Il ricorso al frazionamento di un’impresa in una struttura
holding garantisce vari vantaggi. Tra essi, maggiore libertà gestionale da parte delle aziende figlie,
che possono a loro volta controllare ulteriori aziende, accrescendo la dimensione dell’impresa
madre, rispetto alla quale queste diventeranno imprese-nipoti.
La fase di programmazione.
• Il business plan.
Il business plan è un importante documento che contiene tutte le informazioni sul progetto
imprenditoriale. E’ il riepilogo e la stesura formale di un progetto imprenditoriale ed indica
quindi quali obiettivi perseguire, quale struttura organizzativa sarà allestita, quali saranno
modalità di produzione, di approvvigionamento, quali le risorse da utilizzare e quanti
investimenti andranno attuati.
Per stilare un business plan andranno prima definite la cosiddetta “idea imprenditoriale” o
“business idea” e la “mission imprenditoriale”. La business idea è l’identificazione – del sistema
del prodotto, ovvero quale offerta sarà proposta nel mercato, - del segmento di mercato, ovvero a
quale clientela ci si andrà a rivolgere, -delle risorse interne con le quali sarà concretizzato il
progetto. Una volta identificata la business idea, si passa a determinare la “mission”, la ragion
d’essere dell’impresa, il suo scopo.
Si potrà quindi passare alla stesura formale del business plan, che è costituito da
1. Un sommario o “executive summary”, ovvero, più che un’introduzione, un riepilogo della
business idea, cioè quali prodotti vendere a quali clienti, per mezzo di quali risorse; poi si
riepiloga anche la mission imprenditoriale, cioè qual è lo scopo dell’organizzazione e con
quali strategie innovative metterla in atto.
2. Una prima metà di business plan, in cui si spiega nel dettaglio la “business idea” e si
definisce, soprattutto, la struttura organizzativa: chi sono i fondatori, da chi è composto il
management, quali esperienze e conoscenze hanno, quali posizioni chiave ci saranno
nell’organizzazione e come, eventualmente, saranno disposte gerarchicamente.
3. Una seconda metà di business plan, in cui vengono spiegati i cosiddetti “piani operativi”. I
piani operativi sono il piano marketing e vendita, il piano produzione, il piano
approvvigionamento, il piano degli investimenti e quello economico-finanziario. I piani
operativi si fondano, naturalmente, su dettagliate previsioni. Tali previsioni dovranno
assolutamente basarsi su informazioni certe ed attendibili, visto che la formulazione di piani
sbagliati può comportare gravi conseguenze per l’impresa. Tra i piani più a rischio, spicca di
sicuro il piano delle vendite: una previsione sbagliata riguardo alle potenziali vendite, alla
domanda di mercato, può provocare l’inattendibilità e quindi la futilità del business plan.
Questo perché una previsione sbagliata al riguardo delle vendite, se messa in atto in forma di
piano, può provocare il totale insuccesso e fallimento dell’impresa. Sotto questo punto di
vista, il dato più cruciale è quello che riguarda le vendite: dalla previsione della vendita
dipendono quindi i piani della produzione, dell’approvvigionamento, il piano degli
investimenti e quello economico-finanziario.
Capitolo X
• Il controllo susseguente.
La funzione di controllo susseguente consiste nella valutazione dell’efficienza e dell’efficacia
aziendale. L’efficienza è la capacità dell’azienda di raggiungere gli obiettivi, l’efficacia indica
invece come questi obiettivi sono stati raggiunti, in quale grado. L’efficienza viene quindi
misurata con il rapporto tra gli obiettivi raggiunti e le risorse impegnate per raggiungerli;
l’efficacia viene misurata invece con il rapporto tra i risultati raggiunti e gli obiettivi che
sarebbero dovuti essere raggiunti, stipulati in fase di programmazione.
Capitolo XII
Prima di passare all’applicazione, nel pratico, delle strategie e delle politiche di marketing, è
assolutamente indispensabile per l’azienda, tuttavia, scegliere il cosiddetto “market-target”, ovvero
il mercato bersaglio. Si tratta della scelta del mercato più idoneo ad attuare politiche e strategie di
marketing, mercato che viene scelto in base ad un approfondito ed accurato studio del
comportamento dei consumatori, della domanda, della concorrenza, delle motivazioni di acquisto.
La curva del ciclo di vita di un prodotto dipende naturalmente da vendite e profitti, ma anche,
talvolta dalle politiche effettuate dalle stesse imprese produttrici. Alcune aziende praticano infatti
politiche di invecchiamento precoce, o meglio di “obsolescenza programmata”, sul loro stesso
prodotto: fanno in modo che il prodotto risulti obsolescente prima del suo reale invecchiamento
sul mercato, inserendone il nuovo modello e guadagnando ricavi dal pretesto di “novità”; altre
aziende praticano invece politiche di ringiovanimento del prodotto, fornendo ad esso un nuovo
ciclo di vita.
1. Prodotti marginali o “dogs” , ovvero prodotti caratterizzati da una bassa quota di mercato,
in cui lo sviluppo della domanda è lento. Naturalmente, rappresentano il peggiore dei
prodotti possibili. Un prodotto marginale richiede infatti grandi investimenti, che però, data
la bassa domanda, portano pochi ricavi e tutto ciò, per lo più, per mantenere una posizione
competitiva debole. Il flusso di cassa dei prodotti marginali sarà il più basso di tutti.
2. Prodotti rischiosi o “question marks”. Si tratta di quei prodotti “rischiosi”, proprio perché
appartengono ad un mercato dalla domanda elevata, quindi molto concorrenziale anche, in
cui però la quota di mercato dell’azienda è debole. Ciò significa che tentare di far crescere
la propria posizione in un mercato dalla grande domanda, e quindi dalla grande affluenza di
concorrenti, è molto rischioso, perché l’investimento sarà altissimo. Sarà conveniente farlo?
Non si sa, per questo i prodotti rischiosi vengono chiamati anche enigmi (question marks).
Sarà necessario uno studio del mercato e della concorrenza per rispondere a tale enigma.
3. Prodotti di successo o “stars”. Per la Boston Consulting group le “stelle” sono quei prodotti
con alta quota di mercato e rapido sviluppo della domanda. Rappresentano un cash-flow
positivo, in quanto la buona posizione concorrenziale genera introiti. Al tempo stesso,
tuttavia, il grande sviluppo della domanda attrae la concorrenza, sicura che i prodotti
potranno essere venduti in quel mercato. Così, per battere la concorrenza, sarà necessario
investire e sfruttare le proprie risorse: le “stars” forniscono pertanto un buon cash-flow, ma
al tempo rappresentano grandi costi.
4. Prodotti da reddito o “cash cow”. I cosiddetti prodotti da reddito sono i migliori. Per quanto
riguarda la posizione concorrenziale, quella dell’azienda è preminente: l’impresa si è
assicurata una buona porzione di mercato. Dall’altro lato, la crescita della domanda è
lenta: ciò significa che la concorrenza non è attratta a entrare nel mercato, per paura che i
propri prodotti rimarranno invenduti. Il prodotto da reddito diventa così una “cash cow”,
ovvero letteralmente una mucca da mungere: l’azienda potrà sfruttare l’isolamento in un
mercato quasi completamente suo, e appunto “prosciugarne” quanto più il margine delle
vendite.
Così, il ciclo di vita di un prodotto può essere filtrato sotto l’ottica della matrice del portafoglio
prodotti. Secondo questa visione, un ciclo positivo consiste nel passaggio da prodotto rischioso a
prodotto di successo ed infine da reddito. Un ciclo negativo invece consiste nel decadimento di un
prodotto di successo o addirittura di reddito in uno prima rischioso e poi marginale.
Vediamo dunque che, nella determinazione del prezzo di vendita, più che il costo del prodotto
concorrono la concorrenza e il rapporto con essa.
Possiamo pertanto affermare che una efficace politica di prezzo si basa proprio sul concetto di
differenziazione. Se si imitano, infatti, i prezzi della concorrenza, il margine positivo potrà essere
ottenuto solo raggiungendo un costo unitario minore del prodotto, cioè esclusivamente lavorando
sul costo. Questa via risulta, tuttavia, molto difficile da praticare. La migliore politica di costo,
quindi, è quella della differenziazione del prodotto. Differenziando il prodotto rispetto alla
concorrenza, infatti, ci si immette in un “sub-mercato”, in un mercato di nicchia, in cui i
competitors diventano di meno e meno forti. Questo perché si vende un prodotto nuovo, che
soddisfa nuovi bisogni, e si potrà stabilirne il prezzo con maggiore libertà, senza rimanere vincolati
ai prezzi della concorrenza. Sappiamo che l’entrata in un sub-mercato è un grande vantaggio
competitivo, in quanto “isola” l’impresa rispetto alla concorrenza e le permette di lavorare con più
autonomia. E’ proprio ciò che avviene con la politica della differenziazione, che rappresenta un
grande vantaggio competitivo.
Una volta concretizzata una differenziazione del prodotto, sta all’azienda scegliere una politica di
“penetrazione” od una di “scrematura”.
Ea,b = indice di elasticità incrociata; Va = domanda del bene A; Pb= prezzo del bene B.
Traducendo la formula, la Variazione (Delta) della domanda del bene A, divisa per la domanda del
bene A, è uguale alla Variazione di prezzo del bene B, divisa per il prezzo del bene B. La formula
sta ad indicare se, al variare della domanda di A, varia anche il prezzo di B oppure no; viceversa,
può anche essere letta naturalmente all’opposto, per cui sta ad indicare anche se la variazione del
prezzo del bene B, varia la domanda del bene A.
L’indice di elasticità incrociata della domanda indica pertanto all’azienda se due prodotti sono
intersostituibili, complementari o non correlati.
1. Nel caso in cui due prodotti siano intersostituibili, l’aumento del prezzo del prodotto B
comporta l’aumento delle vendite del prodotto A, e quindi il risultato dell’indice di elasticità
incrociata sarà positivo.
2. Nel caso in cui due prodotti siano complementari, all’aumentare del prezzo di B diminuirà
la domanda del prodotto A, o viceversa, e l’indice sarà negativo.
3. Nel caso di due prodotti non correlati, l’indice di elasticità sarà uguale a zero, ed indicherà
che ogni tipo di variazione del prezzo del bene B non modifica né influisce sulla domanda
del prodotto A.
Per fare un esempio pratico, la progressiva e drastica riduzione del prezzo dei vecchi MP3,
comportò, di conseguenza la diminuzione delle vendite dei CD, considerati prodotti meno
tecnologici i quali, annullata la grande differenza di prezzo che c’era rispetto agli MP3, risultarono
meno convenienti nella scelta tra i due. In questo senso, i CD sono dei “prodotti alternativi” degli
MP3, in quanto all’aumentare del prezzo degli uni cala la domanda degli altri. La domanda delle
memory card invece, al diminuire del prezzo degli MP3, crebbe incredibilmente, ed infatti si
configurò come suo “prodotto complementare”.
E’ sulla base della consapevolezza di come si svolge il processo di acquisto, che le aziende
costruiscono le proprie iniziative comunicative. Tutte le iniziative aziendali rivolte a “farsi
conoscere”, cioè a inviare e ricevere messaggi, rientrano nelle “politiche di comunicazione”.
Ciascuna politica di comunicazione è costituita da:
1. Le relazioni pubbliche.
2. La pubblicità.
3. La promozione.
4. L’attività persuasiva dei venditori.
Tutte queste politiche di comunicazione costituiscono il cosiddetto “imbuto promozionale”, per cui
si intende uno schema ideale, che suddivide, in senso temporale, le fasi della promozione alla
vendita. Ovvero si parte con le attività atte a far conoscere l’impresa al pubblico più vasto, e pian
piano ci si avvicina all’atto di vendita al singolo. L’imbuto promozionale sviluppa due piani distinti:
- Un effetto orizzontale di contatto, ovvero l’obiettivo di farsi conoscere.
- Un effetto verticale di persuasione, ovvero l’obiettivo di vendere in senso vero e proprio. Ciascuna
politica dell’imbuto ha, nel lungo termine, lo scopo di aumentare il volume delle vendite; nel breve
termine, però, ciascuna di esse assume scopi diversi, alcune più in senso “orizzontale”, altre più in
senso “verticale”.
1. Pubbliche relazioni.
Si situano al primo step dell’imbuto promozionale perché naturalmente l’impresa ha ancora la
necessità di farsi conoscere. I clienti ancora non ci sono, e proprio nel tentativo di acquisirli si
attuano politiche di pubblica relazione. Sono, quindi, quelle iniziative che hanno lo scopo di
conferire una buona immagine all’impresa, di farla conoscere a quanta più gente possibile, senza
focalizzarsi subito sulle vendite vere e proprie: E’ una fase che punta più su un effetto orizzontale di
contatto rispetto che su uno verticale di persuasione. Per farsi conoscere, per ottenere attenzioni, nel
pratico, l’azienda organizza stage, conferenze, convegni, beneficenze e opere sociali.
2. Pubblicità.
La pubblicità è la seconda fase dell’imbuto promozionale. E’ sempre un’iniziativa a sviluppo
orizzontale, cioè manda un messaggio, relativo al prodotto, ad un pubblico quanto più vasto
possibile, ma stavolta l’iniziativa è colorata anche di un effetto “persuasivo” o verticale, cioè
l’obiettivo è anche fornire le specifiche di prezzo e qualità del prodotto e quindi indurre al consumo.
La pubblicità viene attuata mediante i “mass-media”, cioè attraverso televisioni, giornali,
quotidiani, radio, cinema e soprattutto, in tempi odieni, siti internet e social media. Specie in tempi
odierni, infatti, ha assunto sempre maggiore importanza la pubblicità via internet: attraverso
algoritmi utilizzati dai social network (facebook, instagram), si rintracciano i consumatori più
idonei all’acquisto del nostro prodotto, e si inviano le nostre inserzioni pubblicitarie direttamente al
loro profilo.
• Il processo distributivo.
Il processo di distribuzione aziendale viene effettuato attraverso delle politiche e si compone di 3
variabili strettamente interrelate tra loro:
1. L’intensità della distribuzione, ovvero la scelta che differenzia una vendita estensiva, una
vendita selettiva ed una esclusiva.
2. Il numero di operatori di vendita a cui affidarsi, che possono essere venditori aziendali o
commercianti esterni.
3. La tipologia del canale di distribuzione, che può essere un canale diretto, indiretto breve od
indiretto lungo.
Per quanto riguarda l’intensità della distribuzione, è naturale che le imprese attuano differenti
politiche rispetto alla tipologia del prodotto, alla sua qualità, al suo prezzo, al suo costo e
all’immagine della marca. Per tal motivo, alcune aziende preferiscono sviluppare una “vendita
estensiva”, che si rivolga cioè al maggior numero possibile di potenziali clienti e ottenere così la
massimizzazione delle vendite grazie ad una strategia “quantitativa”. Altre imprese possono
scegliere invece, sempre con lo scopo di massimizzare vendite e profitti, una “vendita selettiva” o
addirittura una “vendita esclusiva”. Quando, ad esempio, si vendono prodotti costosi, di alta qualità,
dalla marca molto importante e ben conosciuta nel mercato, talvolta si sceglie di vendere
esclusivamente a una clientela “selezionata”, che continui a garantire il carattere elitario
dell’impresa. L’esasperazione di questa politica è quella di una “vendita esclusiva”, caratterizzata da
una produzione molto ristretta di prodotti, che la clientela deve “riuscire ad acquistare” prima che
vadano sold-out. Questa politica è marcatamente qualitativa, e punta alla massimizzazione grazie
agli alti prezzi e al mantenimento continuo del “mercato del produttore”, ovvero la posizione
preminente di controllo del mercato da parte dell’azienda, grazie ad offerta molto ristretta e una
domanda ampia: i consumatori dovranno combattersi i pochi prodotti a disposizione.
Il numero dei punti vendita a cui distribuire il prodotto dipende, invece, dal grado di controllo che è
possibile applicare sugli stessi punti vendita e dal “grado di copertura” del mercato che i punti
vendita garantiscono. E’ naturale che distribuire il proprio prodotto a punti vendita esterni che lo
venderanno pochissimo è un’iniziativa controproducente. A tal motivo, per “misurare” il grado di
copertura dei punti vendita, è necessario calcolare due indici, chiamati:
- Quota numerica, che corrisponde al rapporto tra i punti di vendita aziendali e i punti vendita totali.
Capitolo XIV
Il processo produttivo.
• Il processo produttivo.
La funzione di produzione riguarda il processo di trasformazione dei beni, ossia è l’insieme di
operazioni mediante le quali le risorse acquistate dall’impresa, come materie prime e semilavorati,
vengono trasformate in prodotti finiti, pronti da collocare nel mercato. La fase produzione si colloca
quindi, come si può intuire, al centro della gestione aziendale, essendo preceduta da quella
dell’approvvigionamento delle risorse, e succeduta dalla fase di vendita.
L’efficienza della produzione dipende proprio dal grado di coordinamento che esiste tra essa e le
due fasi di approvvigionamento e di vendita. Dalla fase di approvvigionamento infatti riceve degli
imput, le risorse prime, gestite dalla logistica interna; la fase di produzione trasforma queste materie
prime in prodotti finiti; di conseguenza la fase di produzione produce degli output, che sarà la fase
di vendita a ricevere e a collocare nel mercato.
Capitolo XV
La gestione finanziaria.
La logistica
Kraljic consiglia di stringere accordi durevole e reciprocamente convenienti con i fornitori, nel caso
in cui si vogliamo acquistare materiali critici o strategici. Consiglia poi di assicurarsi tempestività e
velocità nella consegna degli ordini, nel caso di acquisto di materiali “colli di bottiglia”, e di
scegliere l’opzione più conveniente, tra una vasta gamma di fornitori, nel caso in cui si vogliano
acquistare prodotti non critici o di routine.
Il Ruolo del buyers è quindi delicato e centrale, in quanto la scelta del materiale, il suo prezzo e la
sua qualità sono caratteristiche che interessano a tutte le altre funzioni dell’impresa, da quella
produttiva, a quella finanziaria, a quella delle vendite. Per tal motivo, il buyer deve lavorare in
maniera estremamente coordinata con:
1. Il direttore della produzione, perché deve garantire ai cicli produttivi la costante
alimentazione di materie prime, e deve concordare con il direttore della produzione
l’idoneità del materiale al ciclo di lavorazione.
2. Il direttore del marketing e delle vendite, in quanto la qualità del materiale corrisponde
inevitabilmente anche alla qualità del prodotto. Così, in base alla qualità del materiale
scelto dal buyers, il direttore del marketing potrà orientare una maggiore o minore
differenziazione del prodotto e una differente politica di prezzo.
3. Il direttore finanziario, in quanto le modalità di pagamento al fornitore influiscono nel
“capitale circolante”: la scelta di un pagamento in formula anticipata, cash o dilazionata
dev’essere pertanto concordata con il direttore finanziario.
4. Il direttore della ricerca e dello sviluppo, per ricercare insieme, ove sia possibile, il
reperimento di materiali, all’avanguardia, o derivanti da recenti sviluppi della tecnologia.
Per concludere, la scelta del fornitore dipende in definitiva dal costo del materiale che offre,
dalla qualità del materiale che offre e dalla puntualità delle consegne. Maggiore è la richiesta di
immediatezza dell’ordine da parte del buyer, tanto più dovrà essere breve il lead time del
rifornimento.
Un punto di svolta fondamentale, nell’ambito degli acquisti di materiali, è il business to business,
cioè il metodo di acquisto di materiali on-line. In un’epoca in cui l’e-commerce diventa sempre più
importante, gli acquisti on line vengono eseguiti anche dalle imprese, che possono visionare il
prodotto in tempo reale.
Altro aspetto legato alla logistica è quello della “reverse logistic” o logistica del riciclo, legata alle
sempre maggiori esigenze di ambientalismo e sostenibilità, le quali hanno spinto tantissime imprese
a restituire i materiali di scarto per permetterne il riutilizzo.
• L’organizzazione dell’innovazione.
Ogni progetto di innovazione è frutto di un team, essendo il risultato di ricerche e conoscenze
differenziate. Per elaborare un progetto di innovazione, si susseguono, in scala, operazioni di
allestimento di un osservatorio di mercato, di un team, prima occasionale e poi permanente, e infine
di allestimento di di una rete di ricerca interaziendale.
CAPITOLO XIX
1.1 Un saldo finanziario, cioè la differenza tra fonti ed impieghi non correnti;
1.2 Un saldo corrente, cioè la differenza tra usi e fonti correnti, ed
1.3 Un saldo complessivo, cioè la somma algebrica dei primi due saldi.
Dal punto di vista puramente teorico l’azienda dovrebbe far tendere a zero i tre saldi, in modo che
sia ottenuto un equilibrio tra fabbisogno finanziario e disponibilità per investimenti. Dal punto di
vista invece pratico, l’obiettivo è far andare i conti in positivo, ovvero raggiungere la condizione per
cui le fonti di capitale siano maggiori del fabbisogno economico, potendolo così coprire
tranquillamente; con i saldi in positivo, si godrà di disponibilità di capitale, che dovrà essere
adeguatamente investita onde evitare che si trasformi in liquidità infruttifera. Al contrario, se i tre
2.2 Il quadro generale dei movimenti monetari, cioè il quadro che include tutte le entrate e tutte
le uscite (anche quelle non correnti) dell’impresa, e che include pertanto anche il prospetto dei
flussi monetari per operazioni di esercizio.
2.3 Il Piano di cassa o “Budget di Tesoreria”, invece, elenca le entrate e le uscite nel brevissimo
termine, infatti ha spesso scadenze mensili. Nel piano di cassa possono esserci entrate probabili,
molto probabili e sicure, ed uscite fisse, come le rate dei debiti da pagare, uscite periodiche, come
la liquidazione dell’IVA, o uscite straordinarie, come gli indennizzi per i licenziamenti.
I due metodi che ora mi accingo a descrivere si basano invece sulla “valutazione del tasso di
redditività”, cioè sulla misurazione dell’economicità di un investimento, ovvero della capacità dei
suoi redditi (introiti) di pareggiare e superare i costi del capitale investito. In questo tipo di
valutazioni, è incorporato anche il valore o il “prezzo” del denaro: infatti, anche il denaro stesso, il
capitale, ha un prezzo, determinato oggettivamente dal mercato e soggettivamente dai singoli
investitori. Per “valore o prezzo” del denaro si intende il fatto per cui un euro, ad esempio,
prestabile oggi stesso ha un prezzo molto più alto (cioè tassi di interesse molto più alti) rispetto ad
un euro prestabile tra un anno.
2.1) Il cosiddetto “MRP”, o “Material Requirements Planning”, che si basa sul concetto di far
coincidere le scorte con il fabbisogno esclusivamente di breve periodo.
2.2) La cosiddetta “Just in Time” o “JIT”, tecnica forse un po’ estrema ma talvolta molto efficace.
Il just in time infatti propone sostanzialmente la minimizzazione delle scorte lasciate in giacenza,
con lo scopo di avere risparmi nei costi, consistenti nell’eliminazione del rischio di deterioramento
ed obsolescenza dei prodotti, nel cui caso coinciderebbero solo ad perdita. Attuare il just in time è
molto difficile e pericoloso, perché è assolutamente indispensabile puntualità del fornitore e qualità
dei suoi materiali, per evitare che i cicli produttivi si blocchino, provocando un deficit nel reddito
aziendale. Per attuare il Just in Time infatti, occorre possedere un collegamento ravvicinato e stretto
con il fornitore, talmente stretto che spesso si trasforma in una cosiddetta “co-location”, ovvero
nell’inserimento dell’impianto produttivo dei materiali, proprio del fornitore, direttamente nello
stabilimento dell’azienda, così da ridurre a zero il tempo di trasporto dei materiali ed aumentare di
parecchio il grado di collaborazione e informazione.