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Riassunti di "La gestione

dell'impresa", di Sergio
Sciarielli
Economia e Gestione Delle Imprese
Universita degli Studi Roma Tre
81 pag.

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La gestione dell’Impresa,

Sergio Sciarelli.

Capitolo I

• L’impresa ed il suo ruolo economico e sociale ( l’impresa come sistema


socio-tecnico).
Come ben sappiamo, l’impresa è definita un istituto economico duraturo. Significa che sono le
aziende (intese come imprese) che si occupano della trasformazione di risorse in prodotti,
indispensabili per la soddisfazione dei clienti. Le imprese sono sistemi che utilizzano sia risorse
umane, ( e quindi sono sistemi sociali) che beni materiali.
Ciò che differenzia un’impresa da una Chiesa, da un’associazione culturale, è il suo scopo
produttivo: il fine ultimo dell’impresa è massimizzare il raggiungimento di obiettivi prefissati
utilizzando al meglio una gamma di mezzi limitati. Ciò significa ottenere un reddito, inteso come
il pareggio ed eventuale superamento del rapporto tra i ricavi ottenuti dalla cessione dei prodotti e i
costi sostenuti per la produzione.
Per realizzare il reddito, è necessario un continuo miglioramento dell’azienda ed una continua
trasformazione dinamica che gli permetta di rimanere sempre in linea ed in aggiornamento con
l’ambiente esterno cui è correlata.
Per ricapitolare il concetto di impresa, offriamone una definizione:
- definizione di impresa: “L’impresa è un’organizzazione economica che ha lo scopo
dell’acquisizione di materie, della trasformazione di tali materie in prodotti, e dello scambio dei
prodotti per ottenere un reddito.”
Tale definizione non include, tuttavia, il fondamentale concetto di “sistema” che tanto è legato a
quello di impresa. Per “sistema”, in generale, si intende un insieme integralo ed interrelato di
parti, ovvero costituito da tanti elementi che risultano in reciproca relazione tra loro. Bene,
l’impresa è un sistema economico, ovvero è un sistema di parti integrate ed interrelate tra loro che
hanno lo scopo di raggiungere un obiettivo comune.
Naturalmente, per raggiungere obiettivi aziendali, c’è la necessità di ottenere un reddito, che può
essere raggiunto solo attraverso una relazione con un macro-ambiente esterno. In tale macro-
ambiente esterno l’impresa si pone l’obiettivo di cedere i beni ottenuti dalla produzione. Ma occorre
ricordarci che né l’impresa, né i macro-ambienti esterni ( anch’essi sistemi, come “il mercato) sono
delle entità statiche. Al contrario, sia il sistema dell’impresa che i sistemi ambientali esterni, come
il mercato, sono entità dinamiche, in continua trasformazione, in costante cambiamento.
Per ricapitolare, pertanto, l’azienda è un sistema:
– integrato di parti, cioè costituito da più parti interrelate tra loro per il raggiungimento di un
obiettivo comune,
- in continua relazione con macro-ambienti esterni,
- dinamico, essendo dinamici sia l’azienda stessa che gli ambienti con cui è a contatto.
Volendo andare più nello specifico, l’impresa risulta pertanto un sistema dinamico sociale aperto:
Già, perché la continua relazione con un ambiente esterno la rende un sistema dinamico ed aperto.
E’ sistema dinamico perché si interfaccia con realtà in continua evoluzione ed è pertanto chiamata
anch’essa al dinamismo, alla trasformazione. Con l’ambiente esterno instaura contatti, e risulta
pertanto un sistema aperto, capace di generare relazioni di input ed output, cioè di ingresso ed
uscita: si parla dell’ingresso di materie prime destinate alla trasformazione in beni, e all’uscita di
tali beni sotto forma di prodotti venduti.

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Allo stesso tempo, è un sistema sociale, perché, come abbiamo detto, utilizza delle risorse ma tra
queste risorse una importanza primaria la assumono le risorse umane.
Per definire in maniera esauriente il concetto di impresa è stato fatto un parallelo biologico.
L’impresa è stata paragonata all’organismo vivente umano, un sistema anch’esso integrato di parti,
che hanno precisi ruoli da svolgere, indispensabili al fine della sopravvivenza dell’organismo
stesso. Anche l’organismo vivente si caratterizza di meccanismi di entrata di risorse e di uscita di
risorse, un ciclo metabolico finalizzato al raggiungimento di un equilibrio dinamico, simile al ciclo
che l’azienda compie per il raggiungimento dell’equilibrio economico (pareggio o surplus positivo
del rapporto tra ricavi e costi).
Tuttavia, ben presto, il parallelo tra sistema aziendale e sistema organico è stato ritenuto fallace. La
prima grande differenza è che l’impresa è un istituto economico duraturo, cioè un sistema di parti
integrate tra loro, con l’obiettivo non solo di massimizzare il raggiungimento di obiettivi utilizzando
mezzi limitati ma anche di sopravvivere al di là della caducità e mortalità degli elementi che la
compongono. Sappiamo bene che al contrario l’organismo vivente è connotato da mortalità. E’ stata
pertanto ritenuta più precisa una definizione di impresa come “sistema aperto socio-tecnico”. Con
l’inserimento della parola “tecnico”, al concetto di impresa precedentemente spiegato si aggiunge
l’utilizzo dei beni materiali. L’impresa è infatti un sistema dinamico ed aperto che risulta essere
socio-tecnico, cioè:
- “sociale”, perché utilizza risorse umane sia esterne che interne (esterne come gli stakeholders,
gruppi di interesse che stilano le aspettative aziendali)
- e “tecnico”, perché utilizza anche risorse materiali, come attrezzature, tecnologie e fattori
produttivi.

• Il valore sociale dell’impresa e la “corporate social responsability”.


Abbiamo appena spiegato i due poli, quello sociale e quello materiale, che rendono l’azienda un
sistema socio-tecnico, dinamico ed aperto. Ora, tuttavia, occorre anzitutto affermare che la
componente sociale ha un’importanza maggiore di quella materiale e dobbiamo spiegarne il motivo.
L’azienda è, difatti, un sistema costituito da uomini, che organizzano, pianificano ed agiscono. Al
tempo stesso l’impresa ha come scopo la soddisfazione di bisogni umani. Tuttavia, al contrario
delle concezioni tradizionali del passato (come la teoria Tayloriana) , che focalizzavano tutta
l’attenzione sulla sola soddisfazione dei bisogni d’azienda, oggigiorno si è compreso che risulta
fondamentale, ed un dovere, soddisfare bisogni personali sia dei consumatori che dei lavoratori
dipendenti. L’azienda non deve cioè limitarsi a produrre beni che ne permettano l’aumento del
reddito, non deve avere come unico obiettivo incrementare la propria ricchezza, ma è suo dovere
e sua responsabilità soddisfare anche i bisogni di consumatori e dipendenti. Si parla in tal caso di
“Corporate social responsability”, od anche “responsabilità sociale d’azienda”, e si intende il
dovere e la responsabilità che le imprese devono garantire nel migliorare la qualità della vita
degli ambienti in cui operano. Obiettivo da soddisfare, per le imprese, deve quindi essere il
miglioramento della qualità di vita dei suoi dipendenti e dei suoi acquirenti. Non dovranno le
imprese, pertanto, focalizzarsi sui soli bisogni aziendali ma trovare il giusto equilibrio tra la
soddisfazione dei bisogni della proprietà e la soddisfazione dei bisogni sociali, personali,
dell’ambiente esterno con cui la stessa si relaziona. A tal proposito Carroll ha definito l’azienda “a
multipurpose social insitution”, “un’istituzione sociale a finalità plurime”, non più, come nelle
errate visioni del passato, un’organizzazione che ha come unico scopo il lucro.

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• Le molteplici funzioni d’azienda.
L’azienda è contemporaneamente:

1. Organizzazione economica.
Ovvero l’impresa persegue l’obiettivo del soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, vendendo
loro prodotti che possano migliorarne la qualità della vita. Il so scopo è l’adattamento al macro-
ambiente esterno ed il miglioramento di questo. In linea col concetto di “funzione economica-
generale” ed in virtù del “principio di suddivisione e specializzazione del lavoro”, l’azienda si
pone anche lo scopo di soddisfare un bisogno particolare del consumatore, non tutti i suoi bisogni.
Così facendo, lascerà l’incarico ad altre imprese di soddisfare bisogni diversi da quelli che soddisfa
lei stessa.

2. Sistema sociale.
In qualità di sistema sociale, l’impresa si pone anche come centro dispensatore di ricchezza.
Garantisce una remunerazione a se stessa e soprattutto ai nuclei sociali che in essa operano. E’ il
grande meccanismo che contiene gli sforzi di tante persone, quindi è suo dovere garantire la
sopravvivenza e la remunerazione agli operatori che per essa lavorano.

3. Struttura patrimoniale.
Sotto un punto di vista puramente patrimoniale, l’impresa è un complesso di beni organizzati,
ricavati attraverso i processi produttivi. Naturalmente il suo obiettivo è creare reddito, cioè far si
che i ricavi siano maggiori dei costi. L’impresa è pertanto il personale utilizzo, effettuato
dall’imprenditore (presupponendo sia un singolo), di capitale ed abilità imprenditoriale.
Queste tre caratteristiche dell’impresa, naturalmente, coesistono contemporaneamente e risultano
pertanto “complementari”, un’impresa deve assolutamente fare in modo di soddisfare una
funzione economica, quindi un’impresa ha il dovere di adattarsi e migliorare qualitativamente
l’ambiente esterno nei confronti del quale vende i suoi prodotti, il dovere di remunerare e soddisfare
i gruppi sociali che la appartengono, quello di produrre reddito.

• L’impresa come “sistema cognitivo”.


Le moderne teorie aziendalistiche hanno sottolineato un aspetto importante delle imprese, la loro
caratteristica di essere “sistemi cognitivi”. Significa che, delle imprese, viene data, recentemente ed
al contrario che nel passato, molta più importanza ai beni ed alle immobilizzazioni immateriali. Sto
parlando delle risorse umane, che finalmente hanno ricevuto il riconoscimento dell’importanza che
assumono in azienda. Per impresa come “sistema cognitivo” significa dire che, dell’azienda, la parte
più importante sono le risorse umane, i beni immateriali, che rappresentano la vera ricchezza e
potenza aziendale dell’impresa. Questo perché se i beni materiali e tangibili possono fornire una
produzione tecnica, i beni immateriali producono la vera ricchezza dell’impresa, e cioè la
conoscenza, il sapere, i valori. La vera crescita aziendale coincide pertanto con l’apporto ed il
contributo che riescono a dare i suoi beni immateriali, un contributo che ci calcola in valori,
conoscenza e saperi.
Sotto questo punto di vista, l’azienda è pertanto vista come “l’insieme di beni ed immobilizzazioni,
materiali ed immateriali, risorse finanziare ed umane, finalizzato alla produzione e diffusione di
valore”.

Capitolo III

I protagonisti della vita dell’impresa: l’imprenditore e gli stakeholders.

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• Nell’impresa l’imprenditore è il soggetto economico che mette a rischio, consapevolmente e
razionalmente, il suo capitale al fine di ottenere la produzione di beni destinati ad essere
ceduti a terzi.
La capacità imprenditoriale è stata a lungo analizzata e definita in dottrina, sceglierò pertanto la
definizione di imprenditorialità e quella, annessa, di managerialità più precise ai fini dei nostri studi.
Shumpeter disse che il vero focus, il centro, il fulcro fondamentale della capacità imprenditoriale è
l’abilità di promuovere le innovazioni, e attribuiva all’imprenditore la responsabilità di possedere le
tre seguenti caratteristiche:

1. La capacità di previsione razionale e di intuito, relativa sia alla produzione che al consumo.
2. Lo spirito d’iniziativa, l’intraprendenza, la libertà intellettuale
3. L’autorevolezza e la capacità di imporre un comando ai propri subordinati.

In realtà Schumpeter riprese caratteristiche già descritte da Marshall ne “Principi di economia”,


quando sostenne che l’imprenditore debba possedere:

1. Una conoscenza assoluta di ogni aspetto dell’azienda.


2. Spirito d’iniziativa, tendenza al rischio.
3. Capacità di comando e massimizzazione dei benefici che può ottenere dai suoi
collaboratori.

Sarà per me dovuto, di conseguenza, fornire una definizione di “imprenditorialità” ed una di


“managerialità” così da poterle individuare e distinguere tra loro.
- L’imprenditorialità è la capacità di prendere decisioni rischiose, che possano razionalmente
portare alla produzione di beni destinati alla vendita, e quindi ad un profitto.
- La managerialità è la capacità di razionalizzare l’esecuzione di tali decisioni imprenditoriali,
ovvero la capacità di concretizzare le decisioni imprenditoriali nella maniera corretta, riducendo
al minimo falle ed errori.
Secondo la dottrina inglese di Williamson, poi, la differenza tra imprenditorialità e managerialità si
riduce alla differenza tra la capacità di creare valore per l’azienda, (cioè di creare od inventarsi il
meccanismo del profitto) e la capacità di ridurre al minimo le percentuali di inefficienze e quindi
di perdite. Alle nozioni di imprenditorialità e managerialità sono imprescindibilmente connesse
quelle di efficienza ed efficacia.
L’efficacia è più propriamente in mano all’imprenditore, perché corrisponde alla capacità che le
decisioni imprenditoriali hanno di creare valore per l’impresa.
L’efficienza è più propriamente in mano, invece, al manager, perché corrisponde alla capacità di
concretizzare al meglio, nella maniera più razionale e corretta, l’esecuzione delle decisioni
imprenditoriali.

• Organi di decisione, controllo, esecuzione: le caratteristiche degli organi di


decisione.
Come ben sappiamo, dal nostro studio di economia aziendale, all’interno dell’impresa si
concretizzano le tre fasi fondamentali della decisione, del controllo e dell’esecuzione. Possiamo dire
con fermezza che l’attività decisoria sia la più importante, il processo fondamentale che funge da
motore a tutte le altre. Chi partecipa a quest’attività, e chi ne partecipa, quali capacità possiede in
più rispetto ai restanti organi?
Beh, possiamo sicuramente dire che la suddivisione tra organi “deliberanti” e “non deliberanti”,
ovvero la distinzione tra gli organi aziendali che hanno il potere della decisione e organi che non ce
l’hanno, è del tutto relativa. In molte aziende le cose, nel particolare, si fanno diverse. Tuttavia
possiamo attenerci ad una distinzione relativa e suddividere in organi deliberanti, ovvero quelli
addetti a redigere la fase di decisione, organi esecutivi, chiamati alla concretizzazione del progetto

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ideato in fase di decisione, ed organi di controllo, incaricati della supervisione dell’elaborazione di
feedbacks e feedforwards.
Ora, occorre specificare che, all’interno dell’impresa, gli organi deliberanti hanno un più ampio
potere decisionale rispetto a quelli di controllo e di esecuzione e rispetto ad essi si collocano in
posizioni gerarchiche d’azienda più alte. All’interno del medesimo organo deliberante, poi,
naturalmente ci sono diverse gerarchie e diversi tipi di micro-organi di decisione. Si suddividono
principalmente in 3 tipologie:
1. Organi di proprietà o azionisti,
2. Organi di amministrazione o amministratori,
3. Organi di direzione o dirigenti.
Azionisti, amministratori e dirigenti costituiscono il centro deliberante, ma per farne parte devono
tutti possedere delle caratteristiche, degli attributi. Per far parte del centro decisionale infatti non
bisogna necessariamente possedere particolari poteri né essere i vertici d’azienda o i proprietari. Ma
sarà indispensabile possedere 4 qualità o caratteristiche:
1. L’autorità
2. L’abilità professionale
3. La disponibilità delle informazioni
4. La capacità di controllo delle decisioni.
Chiunque non possegga le seguenti caratteristiche non può, di norma, far parte dell’organo
deliberativo. In realtà ci sono situazioni in cui organi privi di una di queste quattro qualità, come gli
organi di staff privi dell’autorità, partecipino attivamente all’attività decisionale.

• Stakeholders.
Sono protagonisti della vita dell’impresa anche organi esterni ad essa, come gli stakeholders, gruppi
sociali di interesse rispetto ai quali l’azienda stabilisce rapporti bilaterali.
Tali stakeholders si configurano pertanto come gruppi di interesse che influenzano e al tempo
stesso vengono influenzati dall’azienda, nei confronti della quale diventano dei veri e propri
interlocutori. Per una rapida classificazione dei gruppi di interesse, mi avvalgo della precisa analisi
effettuata da Freeman ne “Strategic management”, dove si considerano “Stakeholders” sia i
dipendenti, i clienti, fornitori, i proprietari ed i lavoratori dell’impresa, sia i gruppi politici, quelli
istituzionali, finanziari, che i sindacati, i mass media e le associazioni di consumatori. Tra essi
ovviamente c’è una differenza fondamentale: alcuni influenzano l’azienda, e ne vengono
influenzati, in maniera molto più diretta e pesante, altri meno. Si distingue così tra stakeholders
primari e secondari:
1. Gli stakeholders primari sono quei gruppi di interesse che esercitano un ruolo diretto nella
gestione dell’azienda, e molto spesso sono legati ad essa attraverso contratti. Stiamo
parlando dei fornitori, dei proprietari, dei finanziatori dei dipendenti.
2. Per stakeholders secondari si intenderanno invece quei gruppi di interesse che, invece che
partecipare attivamente alla gestione dell’azienda, ne influenzano l’andamento ed i
comportamenti, offrendo ad essa feedback post-vendita, che ne possano “orientare” la
mission. Sto parlando di sindacati ed ambientalisti, mass-media ed istituzioni finanziarie:
gruppi sociali che possono fornire all’azienda, nella fase che succede la vendita,
informazioni e feedbacks sul prodotto, che possono essere positivi o negativi, possono
essere lamentele, punti di debolezza o magari pregi e compiacimenti.
L’impresa potrà quindi “orientare la sua mission”, ovvero indirizzare la gestione aziendale verso
una direzione che tiene conto delle informazioni esterne, ricavate dagli stakeholders.
Possiamo quindi, forti della conoscenza della “teoria degli Stakeholders”, fornire una nuova
definizione di impresa, ovvero quella di “un’organizzazione economica, legata ad un complesso
di interlocutori interni ed esterni, che svolge processi di acquisizione e produzione di beni e
servizi volti allo scopo di creare valore”.
Sotto questo punto di vista, la “creazione di valore” non è dovuta solo agli sforzi dell’azienda ma
anche al contributo che ad essa conferiscono gli stakeholders: si parla così di co-creazione di

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valore, co-creazione determinata in parte dall’azienda in parte dai gruppi di interesse esterni che
forniscono ad essa informazioni importanti.

• Individuazione e classificazione degli Stakeholders.


I gruppi di interesse di cui abbiamo appena parlato possono rappresentare diverse cose per
l’impresa. Potranno rappresentare una minaccia, un ostacolo, oppure un’incentivazione, un
supporto, un’opportunità. Per comprendere, tuttavia, in quale modo, e con quali intenzioni, tali
stakeholders vogliono influenzare l’azienda è necessario prima identificarli e poi classificarli.

Per quanto riguarda la fase di identificazione degli stakeholders, tale pratica è attuata dall’impresa
ponendosi delle domande di cui occorre trovare una risposta. Prima ci si pongono i seguenti 5
interrogativi:
1. Chi sono questi gruppi di interesse?
2. In quale ambito lavorano? O meglio, quali interessi sono in gioco?
3. Quali sfide\ostacoli\supporti\opportunità arrecano all’impresa?
4. Quali responsabilità addossano all’impresa, una volta entrati in relazione con essa?
5. Quali strategie di feedback (ovvero di risposta) l’impresa può attuare per rispondere in
maniera ottimale alle sollecitazioni proposte dagli stakeholders?
Una volta trovata risposta a queste domande, che corrispondo ad una primissima fase di
“conoscenza” e quindi di individuazione degli Stakeholders, l’azienda si pone 3 nuovi quesiti:
1. Qual è la forza di questi stakeholders, ovvero quanto possono influenzare l’impresa?
2. Questi gruppi di interesse hanno ricevuto un riconoscimento ufficiale in qualità di gruppi
sociali\politici\economici\ambientali?
3. Qual è il grado di “criticità” od “attualità” delle sollecitazioni che tali stakeholders hanno
apportato all’azienda, ovvero quanto tali sollecitazioni urgono di una risposta?
Una volta aver risposto anche a questi 3 quesiti, per un totale di 8, l’azienda avrà identificato questi
gruppi di interesse. L’identificazione degli stakeholders è importante per comprendere le loro
intenzioni, per capire cioè se saranno più propensi alla collaborazione ed al supporto aziendale o se
invece siano intenzionati a rappresentare un ostacolo, ed in alcuni casi, addirittura una minaccia, per
la sopravvivenza dell’azienda.

Sarà necessario pertanto operare ora una fase di “classificazione” degli stakeholders, ovvero una
suddivisione fondata sul criterio di cosa essi rappresentino per noi azienda. Avremo quindi 4
tipologie differenti di gruppi di interesse:
1. Stakeholders amichevoli o “supportive”, ovvero gruppi di interesse che rappresentano un
beneficio per l’azienda e che sono intenzionati a fornire ad essa un supporto.
2. Stakeholders avversari o “non supportive”, ovvero gruppi di interessi che rappresentano un
ostacolo, una minaccia per l’azienda e che sono intenzionati a conferire ad essa un danno, un
impedimento, una lamentela, una brutta reputazione.
3. Stakeholders “non orientati”, ovvero di incomprensibile posizionamento, al momento. Si
tratta di quei gruppi di interesse che nel momento dell’individuazione non si collocano né tra
gli avversari né tra gli amichevoli, e che potranno pertanto rappresentare in futuro o un
supporto oppure un ostacolo.
4. Stakeholders “marginali”, ovvero gruppi di interesse le cui sollecitazioni, nel momento in
cui vengono emanate, non rappresentano un fattore importante per l’azienda.
Bene, una volta classificati gli stakeholders, sarà possibile per l’azienda pianificare strategie di
risposta alle loro sollecitazioni. Avvalendoci del prezioso schema fornito da Savage-Nix-
Whitehead-Blair, possiamo notare come, tendenzialmente, queste sono le strategie utilizzate dalle
aziende per rispondere alle sollecitazioni dei gruppi di interesse: coinvolgimento, collaborazione,
difesa e monitoraggio. Altrettanto tendenzialmente, le imprese sono orientate a rispondere a
stakeholders amichevoli con il coinvolgimento, a stakeholders avversari con un meccanismo di

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difesa, a stakeholders “non orientati” con una strategia di collaborazione, a stakeholders
marginali attraverso il monitoraggio.
Di norma, questa classificazione vede gli stakeholders primari tutti all’interno dei cosiddetti
stakeholders “amichevoli”, e i secondari che si distribuiscono nelle altre tre categorie di gruppi di
interesse marginali, avversari e non orientati.
Nella teoria degli stakeholders viene a crearsi un problema. Come possiamo vedere, può
concretizzarsi il caso in cui la proprietà investitrice mantenga nelle sue mani anche il management,
ovvero il governo dell’impresa. In questo caso, tra gli stakeholders primari comparirebbero
solamente i consumatori, i lavoratori ed i fornitori, mentre all’interno dell’azienda sarà compreso
sia il management che la proprietà. Può tuttavia avvenire anche il caso in cui ci sia una
dissociazione tra proprietà investitrice (magari composta da diversi azionisti) e management che
governa l’azienda. Nel caso in cui proprietà e governo siano controllate da persone differenti, allora
l’impresa sarà da individuare come il management, mentre la proprietà investitrice andrebbe a
rientrare nella categoria degli stakeholders primari, di cui abbiamo parlato prima, che influenzano
da vicino (in questo caso da vicinissimo) l’impresa stessa.

• Le “economie di relazione” e la gestione degli stakeholders.


Possiamo, forti delle conoscenze appena acquisito, affermare che un clima amichevole e
collaborativo tra stakeholders e imprese è un vantaggio per tutti. E’ per questo motivo che le
imprese spesso ricorrono alle cosiddette “economie di relazione”. Possedere un clima favorevole
non solo internamente all’azienda ma anche con gli interlocutori esterni può rappresentare infatti un
vantaggio di imprescindibile importanza per la sopravvivenza stessa dell’azienda. Si cerca, così,
molto spesso, la via della collaborazione, che, se viene corrisposta, viene immediatamente
ufficializzata attraverso la creazione di vere e proprie “reti di imprese”, in cui vanno a confluire
sia l’azienda sia i gruppi di interessi legati ad essa. Questa strategia, che trasforma la relazione di
interessi tra Stakeholders e azienda in una relazione economico-aziendale, viene chiamata
“economia di relazione”.

Capitolo IV.

Le finalità imprenditoriali,
La teoria del successo sociale.

• Finalità imprenditoriali e “tipologie di imprenditorialità”.


In questo capitolo affronteremo il tema complesso delle finalità imprenditoriali. Per farlo, occorre
anzitutto porre in chiaro che un’impresa non “ha finalità”, essendo l’impresa l’entità economica
composta da risorse immateriali e materiali che ha come funzione quella di produrre valore.

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Pertanto l’impresa ha delle funzioni da svolgere, ed è pertanto l’imprenditore colui che si pone
piuttosto delle finalità, degli scopi, degli obiettivi. Ma per imprenditore possiamo voler dire diverse
cose. Infatti, come già avevamo accennato nel capitolo precedente, l’impresa è costituita da
proprietà e management, cioè da chi detiene il possesso e l’investimento dell’impresa, e da chi ne
detiene il governo ed il controllo gestionale. Può avvenire tuttavia che tra la proprietà e la gestione
dell’impresa ci sia una dissociazione: ovvero che si concretizzi il caso in cui l’investitore
proprietario deleghi il governo della sua impresa ad un manager. In questi casi, chi sarà colui che
deciderà le più importanti finalità d’azienda, il gestore o il proprietario? Beh, per rispondere a
questa domanda chiariamo anzitutto che, nel caso di imprenditore di tipo classico (che ha in
possesso sia proprietà che governo d’impresa) i problemi neanche nascono essendo lui l’unico
detentore di tutto. Nel caso invece di un “imprenditore delegato”, le cose variano a seconda delle
diverse “tipologie di imprenditorialità”: può esserci “imprenditoria privata”, “imprenditoria
pubblica”, “imprenditoria diretta” o “delegata”. Per ora avvaliamoci solamente di questi concetti e
cominciamo a parlare delle varie “teorie delle finalità imprenditoriali”.

• La teoria della massimizzazione del profitto.


Una delle teorie possibili di “finalità imprenditoriali” è la teoria della massimizzazione del
profitto, cioè la teoria che sostiene che la massimizzazione del profitto, inteso come rapporto tra
ricavi e costi, sia l’unico vero grande fine dell’impresa. Dichiarando anzitutto come falsa questa
concezione, ovvero l’idea che la massimizzazione del profitto sia l’unica vera finalità aziendale,
spieghiamone ora il perché.
Sarà per noi di fondamentale importanza chiarire anzitutto il concetto di “profitto”, per poter parlare
della teoria che lo riguarda più da vicino.
Sul concetto di profitto le scuole di pensiero hanno fornito 4 diverse interpretazioni:
1. La scuola di pensiero economica classica vede il profitto come “il compenso (cioè la
remunerazione, alla pari dei salari e degli stipendi) che l’investitore riceve in cambio della
gestione ed organizzazione dei fattori produttivi”.
2. Un’altra corrente di pensiero vede il profitto come “il risarcimento (od il premio)
dell’imprenditore per il rischio che ha scelto di prendersi investendo del capitale in un
determinato mercato”
3. La scuola di pensiero di Schumpeter definisce invece il profitto come “il premio che
l’investitore riceve per aver promosso l’innovazione”
4. Un’ultima interpretazione del concetto di profitto è legata invece al concetto di concorrenza
e di mercati concorrenziali: “data l’imperfezione dei mercati, ovvero la percentuale di
errore dei competitors, il profitto sarà la conseguenza dell’acquisizione di posizioni
monopolistiche, nel mercato, rispetto agli altri produttori” (ovvero il compenso per aver
ottenuto una posizione maggiore ed in generale un’attività economica migliore dei propri
concorrenti).
Beh, dal nostro personale punto di vista, tenderemo a considerare valide tutte queste definizioni di
profitto, per niente in contrasto tra loro ed anzi del tutto complementari ed idonee a formare una
definizione unica e completa:
“Il profitto è il compenso per la gestione dei fattori produttivi, per il rischio assunto
nell’investimento, per la promozione dell’innovazione, per l’acquisizione di posizioni
monopolistiche e quindi migliori rispetto ai propri concorrenti di mercato”.
Bene, ora che abbiamo chiarito la definizione ed il concetto di profitto, possiamo parlare della teoria
della massimizzazione del profitto. In linea con quanto dicevano gli economi di stampo classico, è
la massimizzazione del profitto l’unica vera finalità dell’impresa? Beh, la risposta è no, ed ora
vedremo perché.
Il motivo principale per cui la massimizzazione del profitto non è l’unica vera finalità delle imprese
è il fatto che tale massimizzazione del profitto dipende da altri fattori. Questi fattori sono il fattore
tempo ed il fattore rischio, in inglese chiamati “time-preference” e “uncertainty condition”
(condizione di incertezza).

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Tali fattori sono fondamentali perché investono costantemente la massimizzazione del profitto, che
di certo non può non essere calcolata in un lasso di tempo, e di certo non può non comportare un
rischio per l’impresa.
Soffermandoci sul fattore tempo, la massimizzazione dei profitti andrà concretizzata in tempi
lunghi. Ovvero la massimizzazione dei profitti deve essere garantita per tutta la durata della vita
dell’impresa, in un limite che l’imprenditore spera tenda all’infinito. Per garantirsi una
massimizzazione dei profitti nel lungo termine, è talvolta richiesto, nell’immediato, il
conseguimento di finalità del tutto opposte al raggiungimento dei profitti stessi: ad esempio
l’investimento in servizi trasversali che possano migliorare la reputazione dell’azienda, investimenti
finalizzati alla soddisfazione dei bisogni personali dei dipendenti. Insomma, talvolta è necessario
remare nella direzione opposta alla massimizzazione dei profitti, nell’immediato, per garantirsi
quella stessa massimizzazione dei profitti nel futuro, in maniera lungimirante.
Analogamente, anche il fattore rischio può spingere il management a perseguire finalità del tutto
opposte, nell’immediato, rispetto alla massimizzazione dei profitti, ma con l’obiettivo di
garantirsela in futuro. Infatti, a tal proposito, gli studiosi di economica Hay e Morris, in
“Economia Industriale”, sottolineano proprio come alla base della teoria della massimizzazione
del profitto vi è il concetto tradizionale di “impresa olistica”, ovvero di azienda che massimizza i
profitti in condizioni di completa certezza. Hay e Morris intendevano spiegare come, per
un’impresa, sia di fondamentale importanza lavorare nella percentuale più alta possibile di
“certezza”, ovvero sicurezza del proprio investimento. Gli economi intendono sottolineare quanto
sia importante per un’azienda tutelare il proprio investimento, riducendo il più possibile la
percentuale di “incertezza” (uncertainty condition) e quindi di rischio della propria attività. Tanto
più sarà basso il rischio, tanto più i profitti saranno sicuri. Per garantirsi percentuali basse di
“incertezza”, pertanto, è talvolta necessario, nell’immediato, compiere delle spese e degli
investimenti che se pur frenano la massimizzazione dei profitti momentanea, ne assicurano
l’esistenza nel lungo termine.
Per lo più dobbiamo considerare il fattore della soddisfazione dei bisogni umani, finalità che
l’impresa deve perseguire per garantirsi la sua stessa sopravvivenza. Aprire un’impresa significa
tentare di soddisfare i bisogni personali dei clienti e dei dipendenti che ne fanno parte. Una
focalizzazione totale ed esclusiva sulla massimizzazione dei profitti distoglierebbe più del dovuto
l’attenzione dell’azienda sulla soddisfazione dei bisogni umani. Ciò porterebbe, paradossalmente e
inverosimilmente, ad un calo della produzione in tempi lunghi, seppur nel breve può corrispondere
ad un aumento. Perché col passare del tempo calerebbe la soddisfazione del cliente, la soddisfazione
dei dipendenti stessi e si inaridirebbe l’atmosfera lavorativa, con conseguente calo dell’efficienza.
In conclusione, possiamo affermare che la massimizzazione dei profitti è solo una delle finalità
imprenditoriali, ma non è né l’unica né la più importante.
• La teoria dello sviluppo e della sopravvivenza aziendale .
La teoria della massimizzazione del profitto perde la sua validità proprio a causa delle sempre più
frequente dissociazione tra proprietà investitrice e managering direzionale. Se, infatti,
l’imprenditore di stampo classico aveva come finalità primaria quella di garantirsi la
massimizzazione dei profitti, il manager moderno ha come scopo principale quello della
sopravvivenza dell’azienda.
Da questo punto ne consegue la formulazione di una vera e propria “Teoria della sopravvivenza”
dell’impresa, che individua nella sopravvivenza dell’impresa la finalità più importante per il
governo aziendale. In questa diversa tipologia di direzione, la massimizzazione del profitto non è
più vista come la finalità più stringente ed urgente da concretizzare, ma più come un fattore
strumentale alla sopravvivenza: garantirsi un buon accrescimento patrimoniale, attraverso i profitti,
permette una sopravvivenza più duratura.
Tale teoria della sopravvivenza ha trovato uno dei principali sostenitori nell’economista austriaco,
naturalizzato statunitense, Peter Drucker, il quale nel “Potere dei dirigenti” ha parlato dei cinque
aspetti fondamentali che garantiscono la sopravvivenza di un’azienda: un congruo lavoro al

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riguardo dell’innovazione, delle risorse umane, delle risorse finanziarie, della redditività
dell’impresa, e della posizione occupata nel mercato rispetto ai concorrenti.
Anche altri studiosi si sono interessati alla teoria della sopravvivenza, come Jonh Kennet
Galbraith, che nel suo “Nuovo Stato Industriale” ha sostenuto come questa nuova finalità
prioritaria della sopravvivenza si sia concretizzata man mano che la struttura governativa
dell’azienda passava sempre più nelle mani di un manager e sempre meno nella proprietà che
investiva. Sotto questo punto di vista, la sopravvivenza, che è la finalità principale, rimane ad
ogni modo strettamente legata dalla massimizzazione dei profitti: perché è la garanzia dei profitti
che permette una “sicura sopravvivenza” dell’impresa, e pertanto, secondo Galbraith, la
massimizzazione dei profitti ha un ruolo primario nelle subfinalità subordinate alla
sopravvivenza.

• La teoria della creazione e diffusione di valore.


La teoria della creazione e diffusione del valore sostiene che la finalità principale dell’impresa
sia quella di creare un valore economico sempre maggiore. Tale finalità, al contrario di quelle di
sopravvivenza e di massimizzazione dei profitti, è condivisa e perseguita da tutti i partecipanti
all’impresa e non più solo da imprenditori e manager.
Occorre tuttavia specificare nel dettaglio cosa si intende per creazione del valore e cosa per
diffusione. Per “creazione del valore” si intende la capacità e l’obiettivo di massimizzare i profitti
nel lungo termine, o, come meglio spiegò Rapparot ne “La strategia del valore”, di
“massimizzare i redditi futuri attesi”. La differenza rispetto alla teoria della massimizzazione del
profitto, sta nell’obiettivo (o nella finalità) non più di voler ottenere un differenziale positivo tra
costi e ricavi, ma quelli di assicurarsi una continua crescita di questo differenziale nel tempo. E’
questa la vera finalità d’impresa nella strategia del valore.
Strategia che, attraverso una rivisitazione di matrice Statunitense, si colore anche del concetto di
“diffusione del valore”. Se il valore va creato, i nostri colleghi statunitensi sostengono che vada
anche “diffuso” nel mercato, ovvero che debba essere trasferito nel mercato, in cui viene espresso
da quote azionarie. Così facendo, il valore dell’impresa sarà più appetibile per gli azionisti, i
quali, una volta scelto di investire su di essa, avranno anch’essi tutto l’interesse che l’impresa
cresca e che il suo valore continui ad aumentare.
Tendenzialmente possiamo affermare che la finalità della sola creazione del valore è maggiormente
perseguita dagli imprenditori vecchio stampo, che fungono anche da gestori\manager d’azienda: per
loro l’obiettivo principale è la possibilità di massimizzare sempre di più i profitti. Mentre per le
cosiddette “public company”, ovvero le tipologie di imprese di cui avevamo parlato, in cui
l’imprenditore proprietario è dissociato dal governo d’azienda, che viene delegato ad un manager,
sarà più appetibile perseguire una finalità di creazione e poi di diffusione del valore economico
d’azienda.

• La teoria manageriale dello sviluppo dimensionale.


Parliamo ora di un’altra teoria, creata proprio nel tentativo di individuare la più importante finalità
da raggiungere da parte dell’impresa. Presuppongo innanzitutto che tale teoria dello sviluppo
dimensionale è perseguita dalle aziende dissociate, ovvero dai cosiddetti manager che le governano.
La teoria della crescita dimensionale, sostenuta, tra tutti, specialmente da Baumol, si fonda sul
pensiero che la più importante finalità da raggiungere, per il manager, sia quella di ottenere la
massimizzazione del fatturato, e non più la massimizzazione del profitto. Dobbiamo anzitutto
chiarire la differenza tra fatturato e profitto. Il fatturato è l’ammontare di ciò che l’azienda vende,
mentre il profitto è l’ammontare che rimane sottraendo i costi ai ricavi. L’obiettivo da conseguire,
secondo i sostenitori della teoria della crescita dimensionale, è pertanto il fatturato, la
massimizzazione delle vendite.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario spesso il reinvestimento di parte del profitto,
oppure l’investimento di nuovo capitale ottenuto attraverso indebitamento, in mercati trasversali,

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pubblicità, materie prime migliori od in qualsiasi settore che garantisca un aumento delle vendite
e quindi del fatturato. Secondo Baumol, questa specifica finalità porta all’impresa innumerevoli
benefici, riassumibili in 3 garanzie principali:
1. Una garanzia di sopravvivenza aziendale più duratura, grazie all’aumento delle dimensioni
dell’impresa grazie alla massimizzazione delle vendite.
2. Una garanzia di redditività aziendale, cioè la garanzia di poter occupare posizioni migliori
dei propri concorrenti nel mercato.
3. La garanzia di miglioramento delle potenzialità di avanzamento in carriera per i dirigenti
di grado più alto dell’azienda: un aumento del fatturato e del volume aziendale porterebbe
infatti alla maggiore disponibilità di avanzamento in carriera per i dirigenti.
Baumol specifica come la massimizzazione delle vendite non corrisponda necessariamente
all’aumento dei pezzi venduti: i motivi di vendite maggiori possono essere innumerevoli, dal
miglioramento della qualità del prodotto, all’investimento in pubblicità efficaci.
Il rapporto tra massimizzazione dei profitti e massimizzazione delle vendite non va visto in netta
antitesi, tuttavia. Diciamo che la focalizzazione sull’uno o sull’altro aspetto dipende dalla finalità
che si sceglie di perseguire. Per i sostenitori della teoria della crescita dimensionale, tale è la finalità
ultima e la massimizzazione dei profitti il mezzo per ottenerla. Per i sostenitori della
massimizzazione del profitto, tale è il fine ultimo e l’aumento delle vendite è il mezzo che serve a
raggiungerlo.

• I «limiti sociali» che impediscono l’illimitata massimizzazione del profitto.


Come abbiamo ben spiegato fino ad ora, l’impresa è un’organizzazione cooperativa, ovvero
un’organizzazione che si trova in costante rapporto con dei gruppi sociali interni ed esterni. Con tali
gruppi sociali possono venirsi a creare situazioni di collaborazione ma anche di conflittualità di
interessi. Nel caso in cui si concretizzi un conflitto di interessi con un gruppo esterno legato
all’azienda, come possono essere i clienti, i fornitori, i distributori, gli investitori, i concorrenti, il
problema potrebbe essere risolto, nella maniera peggiore possibile, con la sostituzione o “cambio”
dell’opponente, che sarebbe in ogni caso possibile. Nel caso di un conflitto di interessi interno
invece, non può essere applicata la manovra risolutiva della sostituzione dell’opponente, essendo in
questo caso l’opponente membro dell’impresa stessa, e quindi tutelato dai diritti e dalla
salvaguardia del lavoro.
Come che sia, ogni gruppo sociale che viene a contatto con l’azienda ne influenza il profitto,
ovvero il differenziale tra ricavi e costi, ed ha quindi la capacità di produrre una crisi per
l’impresa. Per questo motivo, la ricerca sfrenata, senza scrupoli e vincoli, della massimizzazione
del profitto, incontra dei limiti e risulta nei fatti inapplicabile all’infinito.
Il mio scopo, ora, è proprio dimostrare come i limiti alla massimizzazione del profitto siano dei
“limiti sociali”, ovvero dei limiti che nascono dal rapporto che l’azienda inevitabilmente instaura
con i gruppi sociali interni ed esterni ad essa.
Caliamoci infatti nella parte di un manager d’azienda e poniamoci come obiettivo quello di
massimizzare il risultato economico dell’impresa. Elaborando ragionamento su come sia possibile
ottenere tale obiettivo, occorre anzitutto porre come fissi due postulati:
- Dobbiamo presupporre una situazione di stabilità di mercato, ovvero di stabilità tra prodotti e
mercato.
-Dobbiamo presupporre di trattare un unico prodotto.
Detto ciò, cominciamo a ragionare su come sia possibile massimizzare i risultati di un’impresa:
1. Un primo tentativo potrebbe essere quello di aumentare i ricavi, il che significa a sua volta
poter percorrere due strade diverse:
1.1) Aumentare il prezzo del prodotto, che provocherebbe nel breve termine di sicuro un aumento
dei ricavi, ma potrebbe spingere al tempo stesso, gli acquirenti a comprare da un altro fornitore
1.2) Si può altresì aumentare la quantità venduta all’interno di un set, ma anche questa soluzione
sembra fallace, perché se da una parte può invogliare maggiormente gli acquirenti, dall’altra

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porterebbe la concorrenza a fare lo stesso provocando solamente una diminuzione dei ricavi
complessivi.
2. Un altra direzione potrebbe essere l’abbassamento dei costi. Anche qui la soluzione si
divarica in due sottoinsiemi:
2.1) Si potrebbe effettuare una riduzione del costo unitario, con conseguenze del tutto negative,
2.2) Oppure si potrebbe abbassare il costo delle risorse impiegate: ciò significherebbe abbassare
anche il costo delle risorse immateriali utilizzate, e quindi, nei fatti, effettuare tagli al personale
lavorativo. Ciò comporta sempre conseguenze negative, quindi si preferisce spesso ricorrere ad
ammortizzazioni sociali oppure ad interventi di prepensionamento che incentivano il turnover di
impiegati.
Ma se né abbassare i costi né aumentare i ricavi sono soluzioni soddisfacenti, su cosa dovremmo
puntare? Beh, è stato analizzato che la soluzione migliore per massimizzare i profitti nel lungo
termine sia quella di investire sull’innovazione.
3. Solo grazie all’innovazione è possibile, da parte dell’imprenditore, difendere ed
eventualmente migliorare la propria posizione residuale. E’ questo il settore in cui quindi
occorre investire, con lungimiranza. Investire sull’innovazione richiede tuttavia due tipi di
costi: costi organizzativi di ricerca e costi organizzativi di sviluppo. I primi sono costi che
servono a finanziare le strutture, la loro pianificazione, analisi e sviluppo. I secondi sono
costi necessari all’individuazione di nuove tecnologie e quindi nuovi mercati. Anche
eventuali costi legati all’innovazione vengono solitamente tagliati durante una crisi
aziendale, nonostante, al fine di modificare l’equilibrio tra costi e ricavi un’innovazione
nella gestione sia indispensabile.
Capiamo quindi che il nostro bramato obiettivo, quello del massimo profitto risulta nei fatti
compromesso dal rapporto di collaborazione\contrapposizione che l’azienda inevitabilmente
instaura con i suoi gruppi interni ed esterni. Possiamo in definitiva concludere quindi, che
l’obiettivo del massimo profitto dovrebbe piuttosto essere ridefinito come obiettivo del “massimo
profitto condizionato”:
Il “massimo profitto” è un obiettivo ostacolato da limiti sociali, appena descritti, e da limiti di
conoscenza dell’ambiente e dei mercati. In relazione a quest’ultimo ostacolo ha parlato il Simon,
sostenendo che l’imprenditore punti, piuttosto che al profitto “massimo”, al profitto “più
soddisfacente possibile”. Per questo il profitto è condizionato, è condizionato dal limite della
conoscenza, ridotta, del mercato e dell’ambiente, fattori che l’imprenditore può solo parzialmente
conoscere: in base a tale conoscenza ridotta, potrà raggiungere le soluzioni “più soddisfacenti”
ma non quelle perfette, in linea col pensiero della razionalità limitata, che vede il manager come
“uomo amministrativo”, umano e dotato di limiti, e non più come “l’uomo economico” della
teoria tradizionale, che avrebbe dovuto piuttosto conoscere alla perfezione mercato ed ambiente e
trovare sempre la soluzione perfetta.

• La teoria del “successo sociale”.


Siamo pertanto sicuri che la vera finalità massima dell’imprenditore sia raggiungere il “massimo
reddito”, o come meglio Simon l’ha ridefinito, il “reddito più soddisfacente” per l’impresa? Beh,
diciamo che questa è una delle filosofie che un manager può scegliere di seguire, ma non l’unica.
Parleremo ora, infatti, di un percorso di aspirazioni diverso, che viene chiamato “Teoria del
successo sociale”. Secondo tale teoria spiegheremo come, all’interno degli obbiettivi
dell’imprenditore, si mixino tra loro finalità d’impresa e finalità morali personali. Cominciamo
infatti a domandarci:
“l’imprenditore è mosso solamente da interessi economici, ho aspira a finalità personali, che
riguardano la sfera del sociale? “
Beh, di sicuro l’imprenditore-proprietario di un impresa persegue anche finalità sociali e personali.
Nessuno meglio di Abraham Maslow ha potuto spiegare la questione, nel momento in cui ha stilato
la sua famosa piramide o scala dei bisogni, all’interno della quale sono spiegate anche le
motivazioni per cui un imprenditore sceglie di aprire la propria attività. La scala dei bisogni di

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Maslow pone, del tutto generalmente, in scala i seguenti bisogni umani: alla base della piramide ci
sono i bisogni “fisiologici”, necessari alla vita, al secondo gradino quelli di “sicurezza”, ovvero i
meccanismi di sopravvivenza; nel terzo gradino si trovano i bisogni “sociali”, ovvero la necessità
di interagire con delle persone e sentirsi parte di una comunità; seguono i bisogni di “stima di se”,
quei comportamenti che ci rendono fieri di noi stessi, che calibrano la nostra autostima, come la
soddisfazione nel proprio lavoro; al quinto livello si trovano i bisogni di “stima degli altri”, la
necessità di apparire in un certo modo, l’immagine che vogliamo dare di noi stessi; al sesto ed
ultimo gradino si trovano i bisogni di “auto-realizzazione”, cioè le aspirazioni più profonde delle
persone, gli obiettivi che più di ogni altra cosa vogliono raggiungere per essere felici.
Partendo da questa piramide, del tutto generale, attualizziamola nel settore dell’imprenditoria. La
teoria del successo vedremo che si identificherà come la “Teoria delle 3 p”, dove le p sono le
finalità dell’imprenditore, ricavate in base alla Piramide di Maslow:
1. “Profitto” : è il livello primario della scalata sociale, il cui mantenimento è fondamentale.
Si tratta di garantire la sopravvivenza dell’impresa, attraverso la gestione corretta
dell’equilibrio tra costi e profitti.
2. “Potere o leadership competitiva”: si tratta del bisogno dell’imprenditore di imporsi come
figura di preminenza e importanza all’interno del suo settore concorrenziale, quella di
affermarsi cioè nella sua classe sociale di appartenenza. Ottenere il potere significa
quindi ottenere potere nel mercato, marcare con forza l’importanza di se e della propria
azienda rispetto ai competitori.
3. “Prestigio o leadership sociale”: è l’ultimo traguardo da raggiungere nella scalata
sociale, ovvero assumere posizioni di rilevanza non solo nel mercato ma nella società,
grazie alla propria azienda. La grandezza della propria impresa marca con forza anche la
grandezza del suo imprenditore proprietario, permettendogli di godere di questa posizione
agli occhi di tutti.

• Occorre precisare che tale “Teoria delle 3 P” vale solamente nello specifico caso
dell’imprenditore-proprietario. Questo perché, naturalmente, nel caso di un manager
delegato da parte del proprietario alla gestione dell’azienda la situazione cambia. Nel caso di
un manager-imprenditore infatti il raggiungimento di risultati particolarmente brillanti da
parte dell’azienda potrebbe essere anche un “mezzo” per il raggiungimento di una scalata
sociale altrove, magari in un’altra azienda di maggiore rilievo. Diciamo quindi che nel caso
del manager-imprenditore il legame tra successo sociale e azienda è molto più labile che nel
caso dell’imprenditore proprietario: può avvenire cioè che il manager-imprenditore abbia
una quarta necessità, od obiettivo, da perseguire che è quello della “mobilità”, un mezzo
talvolta necessario alla sua personale scalata sociale.

Possiamo finalmente concludere e rispondere alle nostre domande. Quali sono le finalità che gli
imprenditori vogliono raggiungere nel momento in cui finanziano la propria impresa?
Abbiamo 3 casi possibili:
1. Il caso dell’imprenditore “visibile”, ovvero di quell’imprenditore, proprietario di
un’impresa, che ripone in questa attività tutte le aspirazioni della propria vita e che quindi
seguirà la “Teoria del successo sociale”.
2. Il caso dell’imprenditore “meno visibile ed integrato”, ovvero il caso in cui l’imprenditore
sia anche proprietario dell’azienda, ma che al tempo stesso l’azienda non sia poi così grande
ed importante, il caso in cui quindi tale proprietario non riponga in questa attività tutte le
aspirazioni della sua vita e che perseguirà quindi, piuttosto, la “Teoria della
massimizzazione del profitto nel lungo termine”.
3. Il caso del manager-imprenditore, ovvero di un dirigente che non è il proprietario
dell’impresa ma di cui ne viene delegata la gestione. In questo caso l’interprete perseguirà
quella che potremmo chiamare la “Teoria della Mobilità”, ovvero il manager sfrutterà la

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teoria delle 3 p come mezzo per ottenere la propria scalata sociale, potenzialmente anche
altrove, in un’altra azienda di maggior rilievo.

Capitolo V

La gestione strategica dell’impresa.

• Il concetto di “strategia” e la direzione strategica.

Cosa si intende per strategia? Si intende un comportamento aziendale volto al raggiungimento di


obiettivi nel lungo termine, che comporta spesso una riformulazione dell’assetto aziendale ed una
riassegnazione delle risorse da utilizzare. Il ricorso alla strategia è dovuto spesso al fatto che le
aziende, specie quelle di piccole dimensioni, mettono in pratica politiche vecchie, del passato, o
magari di altri, che puntano al raggiungimento di obiettivi solo nel breve periodo. Tali atteggiamenti
aziendali non tengono conto quindi di ciò che potrebbe avvenire dopo nell’ambiente esterno, con
cui l’azienda è sempre a contatto che potrebbe cambiare. Il cambiamento dell’ambiente esterno può
rappresentare una potenziale minaccia per l’impresa, minaccia che deve essere prevista in tempo e
disinnescata. A questo serve la strategia aziendale. Diciamo di poter distinguere tra 3 diverse scelte
strategiche, o fasi della strategia:
1. Scelte strategiche, ovvero quelle scelte della direzione appena descritte, volte al lungo
periodo, al raggiungimento di obiettivi primari.
2. Scelte tattiche, che modificano l’utilizzo delle risorse
3. Scelte operative, che pongono in atto la strategia.
La gestione strategica non è suddivisa, tuttavia, solamente da una ripartizione di compiti da svolgere
ma anche da una gerarchia di scelte strategiche, gerarchia formata da tre livelli:
1. Strategie complessive o “corporate”, ovvero le strategie di gestione che mirano ai tempi
più lunghi e che si situano al vertice della piramide: sono le più importanti, perché
concernono la scelta dei mercati, delle aree d’affari, degli obiettivi da raggiungere.
2. Strategie competitive, poste al livello intermedio, che consistono nel decidere quali
saranno le modalità con cui l’azienda farà competizione nel mercato.
3. Strategie funzionali, situate alla base della piramide, che concernono l’organizzazione
delle fasi interne all’azienda, come quelle di vendita, di marketing, di produzione.
Ma non sempre, purtroppo, la gestione aziendale compie scelte strategiche. Come abbiamo già
detto, molto spesso le aziende riproducono pedissequamente, copiando, politiche e iniziative
collaudate nel passato o proprie di altri, che non saranno in grado di garantire la sopravvivenza
dell’azienda nel lungo termine. E’ a questo che serve la strategia: garantire la sopravvivenza
dell’azienda nel lungo termine, sventare le possibili minacce in tempo. Minacce che potrebbero
provenire dai mutamenti che subisce, nel corso del tempo, l’ambiente esterno con il quale l’azienda
è costantemente in contatto. Una corretta gestione strategica sceglie l’ambiente più adatto allo
sviluppo dell’azienda, quell’ambiente il cui futuro mutamento sarà prevedibile o addirittura
manipolabile dall’impresa stessa, così da poter rendere quella trasformazione un’opportunità e non
un pericolo. Ricordiamo, che per “ambiente esterno” si intende l’ambiente con cui inevitabilmente
l’azienda si relaziona costantemente ed instaura con esso un rapporto di scambi. Si parla infatti di
ambiente competitivo e transazionale: perché con esso l’azienda effettua, attraverso contratti, delle
transazioni, che possono essere di ordine acquisitivo (come nel caso dell’acquisto di fabbricati od
attrezzature necessarie alla produzione) o di ordine realizzativo ( come nel caso dello scambio che
si instaura tra l’azienda ed il cliente nell’atto di vendita).
Non è detto, come stavamo dicendo, che un imprenditore risponda al mutamento aziendale con un
atteggiamento strategico. Potremmo classificare in tre tipologie i comportamenti che una gestione
può adottare di fronte al mutare dell’ambiente esterno:

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1. Un atteggiamento di attesa, ovvero un atteggiamento passivo nei confronti dell’ambiente
esterno, attendista, che applica le relative modifiche all’azienda solo dopo che il
mutamento sarà già avvenuto. Un atteggiamento ripetitivo, tipico delle piccole imprese.
2. Un atteggiamento anticipatorio, ovvero un atteggiamento razionale e strategico, che si
concretizza nel grande sforzo di riuscire a monitorare l’ambiente esterno e poterne così
prevedere l’eventuale mutamento. Grazie a questo meccanismo, la gestione riuscirà ad
apportare le giuste modifiche all’impresa in anticipo, tempestivamente, sventando ogni
potenziale pericolo con lungimiranza.
3. Un atteggiamento proattivo, cioè atto ad influenzare, addirittura, l’ambiente esterno,
manipolandolo dal principio e spingendolo a mutare nella direzione più favorevole allo
sviluppo dell’azienda. In questi casi, l’azienda riesce a svolgere addirittura un ruolo di
leadership nei confronti dell’ambiente, riesce a controllarne lo sviluppo e a volgerlo a suo
favore.
Come possiamo ben vedere, c’è una grande differenza tra il primo atteggiamento aziendale e gli
altri due. L’elemento di distinzione tra essi è il cosiddetto “intento strategico”, ovvero l’intento di
prevedere, eventualmente influenzare, l’ambiente esterno così da poterne trasformare le potenziali
minacce in opportunità per l’impresa. Per concludere, possiamo quindi ricapitolare che la gestione
si concretizza in tre fasi, che sono quella della formulazione a livello alto-direzionale, quella della
proiezione a scadenza lunga (proiezione a lungo termine) e quella della priorità degli obiettivi. Tali
fasi sintetizzano l’essenza cardine della strategia: un comportamento aziendale che guarda, con
lungimiranza, ad obiettivi a lungo termine e che modifica l’equilibrio aziendale riformulando
eventualmente anche le risorse da utilizzare, al fine di ottenere suddetti obiettivi. Come è intuibile,
una volta messa in atto, una strategia è difficilmente modificabile, altrimenti perderebbe in coerenza
e credibilità la gestione, oppure perché risulterà impossibile rescindere contratti con terzi.

Capitolo VI

Le strategie competitive e i modelli di analisi di mercato.

• I quattro modelli teorici delle strategie competitive.


Ricordiamo, anzitutto, il rapporto gerarchico tra strategie complessive e strategie competitive, che
abbiamo affrontato nel capitolo V. Pur sussistendo un rapporto gerarchico che vede le strategie
complessive ad un gradino più alto della piramide e quelle competitive ad uno più basso, occorre
opportuno chiarire che le prime sono sempre il risultato delle seconde. Non esiste strategie
complessiva che non si basi su una strategia competitiva. Questo è chiaro, poiché la decisione di
riversarsi su un mercato (ovvero una scelta complessiva) non può che essere fatta sulla base di
un’analisi delle possibilità di competere che l’azienda ha in quel mercato (e quindi sulla base di una
strategia competitiva). Capiamo bene, quindi, che prima di poter parlare di strategie complessive
occorre focalizzarci su quelle competitive, che ne fungono da fondamenta, ed è ciò che ci
accingeremo a fare ora.
Prima di riversarci all’analisi delle possibili strategie competitive e quindi nelle possibilità di analisi
del mercato, vale la pena soffermarci sui 4 possibili paradigmi che gli studiosi hanno fornito sul
rapporto di influenza che esiste tra aziende e ambienti:
1. Paradigma strutturalista.
Secondo gli strutturalisti è il mercato ad influenzare le aziende che entrano in contatto con esso. Gli
strutturalisti immaginano quindi una “catena di influenze” come la seguente: struttura-condotta-
performance. Tale sequenza sta a significare una catena di influenze, ovvero il concetto per cui sia
la struttura dell’ambiente ad influenzare la “condotta”, cioè il comportamento aziendale, che a
sua volta inciderà sul risultato finale, e quindi sulla performance d’azienda. Sotto questo punto di
vista, gli strutturalisti individuano l’azienda come un sistema passivo, che subisce i cambiamenti

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dell’ambiente e si può solamente adattare ad essi: tali cambiamenti forniscono influenze sul
comportamento aziendale e quindi sulla performance finale.
2. Paradigma “comportamentista”
Al paradigma strutturalista, classico, si sono opposti in molti ma sono i “comportamentisti” ad
averlo messo del tutto in discussione. I sostenitori del paradigma comportamentista sostengono
piuttosto che sia l’impresa ad influenzare l’ambiente con cui si relaziona, attraverso degli output
che lo modificano. Tali pensatori non vedono quindi l’impresa come un sistema passivo che può
solo adattarsi ai cambiamenti ed alle influenze dell’ambiente, bensì come un soggetto attivo e
dominante, capace di esercitare una leadership nei confronti dell’ambiente esterno. Per tal motivo,
alla sequenza struttura-condotta-performance, i comportamentisti sostituiscono la sequenza
condotta-struttura-performance, ovvero saranno i comportamenti aziendali a modificare la
struttura dell’ambiente e ciò influirà positivamente sulle performance d’azienda.
Secondo il modello comportamentista, le influenze sull’ambiente sono messe in pratica grazie alle
cosiddette “Dynamic capabilities”, cioè “capacità dinamiche” proprie dell’impresa che riescono ad
introdurre nell’ambiente un’innovazione. Finché si è in possesso delle capacità di innovare si ha un
vantaggio, quando anche i competitori si appropriano delle innovazioni il vantaggio svanisce.
Naturalmente sembra opportuno chiarire che l’approccio comportamentista non nega una
percentuale di influenza anche dell’ambiente sull’impresa: il rapporto di base è sempre quello di
interdipendenza reciproca tra i due poli.
3. Paradigma fondato sulle risorse.
Un terzo paradigma è sostenuto da coloro che credono in una possibile influenza dell’ambiente,
da parte delle aziende, ma tale influenza dipende dalle risorse che tali aziende hanno in possesso.
Alla classica sequenza struttura-condotta-performance, si sostituisce quindi la sequenza risorse-
condotta-performance, modello che si fonda sulla consapevolezza che sono le risorse in possesso
dell’azienda l’elemento in grado di modificare l’ambiente e migliorarlo, così che si possano ottenere
conseguenze positive anche nelle performance.
4. Paradigma del “Knowledgne-capabilities-performance”.
Tale modello, il modello della conoscenza-capacità-performance, sostiene che tutte le possibilità
di un’impresa di influenzare un mercato siano riposte nel grado di conoscenza che tale impresa
ha al riguardo dell’ambiente. Tali conoscenze possono essere convogliare in “capacità
innovative”, cioè nelle capacità in grado di mettere in pratica delle innovazioni, che comporteranno
vantaggi a livello di risultati finali, ovvero performance. Questo modello si fonda sulla Teoria di
Nonaka “dell’impresa come sistema cognitivo”, ovvero come sistema capace di creare e diffondere
conoscenza.

• Lo schema di analisi di mercato della “concorrenza allargata” o delle


“cinque forze” di Porter.
Passiamo ora al concreto, a veri e propri schemi di analisi di mercato, e partiamo dallo “schema di
analisi della concorrenza allargata”. Ideato da Michael Porter nel 1979, lo schema da maggior
rilievo, nella scelta di un mercato, a fattori esogeni piuttosto che endogeni, ovvero da maggior
rilievo all’influenza che il mercato può fornire all’azienda piuttosto che quella che l’azienda non
possa fornire al mercato. Si basa pertanto sul paradigma strutturalista che immagina una catena
di influenza struttura-condotta-performarce. Secondo tale schema la scelta di un mercato è
determinata fondamentalmente da due fattori: l’attrattività di un mercato e la capacità dell’azienda
di assumere un vantaggio competitivo durevole rispetto alla concorrenza. Porter ha individuato
inoltre cinque “forze competitive” ovvero cinque fattori che determinano l’attrattività di un
mercato:
1. La concorrenza reale, ovvero la competizione che esiste tra i concorrenti già presenti sul
mercato.

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2. La concorrenza potenziale diretta, dove per “concorrenza potenziale” si intendono i
competitori nuovi, che ancora non sono sul mercato ma che possano potenzialmente
entrarvi, da distinguere con la “concorrenza reale”, fatta di competitori già presenti sul
mercato; per “concorrenza diretta” si intende la capacità di tali competitori di vendere il
prodotto originale. Pertanto per “concorrenza potenziale diretta” si intende la quantità di
competitori che potranno in futuro inserirsi nel mercato, e vendere il prodotto originale.
3. La concorrenza potenziale indiretta, ovvero la concorrenza potenziale, quindi quei
competitori che ancora non sono sul mercato, ma che potranno potenzialmente entrarvi,
che però venderanno prodotti “sostitutivi”, cioè simili ma non uguali al prodotto venduto
dalla nostra azienda.
4. La potenza contrattuale della clientela o “forza della clientela”, cioè la capacità che la
clientela possiede di lamentare prezzi troppo alti, e quindi esigerne di più bassi, di
lamentare scarsa qualità, e quindi esigere qualità maggiore.
5. La potenza contrattuale dei fornitori o “forza dei fornitori”, che influenzano il costo delle
attrezzature e dei macchinari necessari alle aziende per la produzione.

• Le barriere alla concorrenza.


Nell’ambito delle strategie competitive, un ruolo cruciale assumono le cosiddette “barriere alla
concorrenza”, ovvero gli ostacoli che nascono tra i competitori. Soffermiamoci per ora sulle
cosiddette “barriere in entrata”, ovvero, così come le ha definite Stigler, sui “costi che devono
essere sopportati da un’impresa che vorrebbe entrare in un certo settore industriale, ma che non
sono sopportati dalle imprese già operanti nel suddetto settore”.
Possiamo dire che sono proprio le barriere in entrata a distinguere vari tipi di mercati: se le barriere
in entrata sono assenti, siamo di fronte ad una situazione di libera concorrenza, nel caso opposto,
con barriere forti, saremo di fronte ad un monopolio. In base alla consistenza delle barriere poi ci si
può trovare di fronte ad una situazione di oligopolio, ovvero di grande quote di mercato possedute
da una cerchia ristretta di produttori.
Le “barriere in entrata” possono essere interne ed esterne:
- Le barriere in entrata esterne impediscono od ostacolano l’ingresso di nuovi competitori.
- Le barriere in entrata interne tutelano le aziende già presenti nel mercato contro potenziali azioni
espansive dei competitori.
Passiamo quindi in rassegna ai vari tipi di barriere esistenti:
1. Le economie di gestione adottate dai competitori:

1.1) Economie di scala.


Sono quelle politiche aziendali volte ad abbassare il costo della produzione. Le aziende, in questi
casi, tentano di ridurre il costo delle materie prime nella fase di approvvigionamento, oppure di
ridurre i costi durante la fase di trasformazione dei beni. A tal proposito è bene eseguire un’ulteriore
ripartizione interna: esistono economie di scala d’impianto ed economie di scala d’impresa. Nelle
economie di scala d’impianto, l’azienda, attraverso l’appropriazione di interi impianti produttivi,
si garantisce un costo minore della trasformazione dei beni, che sarebbe costata molto di più nel
caso di una commissione a terzi. Nel caso delle economie di scala d’impresa, invece, la riduzione
dei costi è dovuta principalmente alla dimensione globale che l’azienda riesce ad assumere,
grazie alla quale riesce a chiudere acquisti di una certa rilevanza, che diminuiscono il prezzo,
oppure a stringere accordi particolarmente favorevoli, grazie alla potenza del proprio prestigio. Il

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fatto che alcune aziende, preesistenti nel mercato, godano di economie di scala rappresenta un
ostacolo per i nuovi arrivati che intendono immettersi in quel mercato.

1.2) Economie di apprendimento.


Un altro ostacolo , per un’azienda che sta per immettersi in un mercato, può essere rappresentato dal
processo di apprendimento. Le imprese preesistenti avranno già da tempo messo in pratica
politiche di apprendimento del mercato, che avranno permesso loro di acquisire conoscenze ed
esperienza riguardo a quel determinato settore. Di tale beneficio non godono invece i nuovi
competitori che vogliono immettersi nel mercato, che si ritrovano per tal motivo, rispetto ai vecchi,
in posizione di svantaggio ed inferiorità.

1.3) Economie di scopo o di interrelazione.


Sono economie di gestione che riescono ad ottenere risparmi grazie allo svolgimento congiunto
di più attività. Naturalmente, il coordinamento e l’organizzazione, sono obiettivi la cui
concretizzazione richiede del tempo, per le imprese. Per questo motivo, aziende preesistenti godono
di coordinamento e team work di livelli estremamente più alti rispetto ai nuovi competitori, che si
trovano in una condizione di svantaggio.

1.4) Economie di relazione.


Si tratta di politiche del management volte a stabilire alleanze strategiche e rapporti fiduciari tra
l’azienda ed i clienti, tra l’azienda ed i fornitori. Grazie a tali rapporti fiduciari, l’impresa riesce a
ottenere dei vantaggi quantificabili sul risultato finale, privilegio di cui non godono i nuovi
competitors e che rappresentano per loro una barriera in entrata.

2. La disponibilità di brevetti o “know-how”.


Il possesso di brevetti o di “know-how” da parte delle aziende preesistenti impedisce ai
concorrenti la potenziale entrata nel mercato, nel caso in cui non abbiano la possibilità di
appropriarsene, o di ricorrere a brevetti e know-how sostitutivi.
3. L’eventuale scarsità dei fattori produttivi.
I fattori produttivi sono un elemento fondamentale per le aziende. Se le aziende preesistenti hanno
già ottenuto il monopolio dei fattori produttivi, che possono essere le attrezzature, i fabbricati, la
manodopera, significa che è terminata la disponibilità di tali fattori e quindi i nuovi competitori
si ritroveranno senza mezzi per poter produrre. La scarsezza o limitatezza dei fattori produttivi di
un mercato può pertanto rappresentare un ostacolo per coloro che vogliono immettersi nel settore.
4. La differenziazione dei prodotti e il suo livello di necessità.
Un altro tipo di barriera in entrata può essere il “grado di differenziazione” dei prodotti. Se i
prodotti di un mercato sono già altamente differenziati, ovvero ciascuna azienda li ha
personalizzati e costituiti di elementi propri, innovativi, differenti dalla concorrenza, sarà difficile
andare a competere con tali imprese. Minore è il grado di differenziazione di un prodotto, quindi,
maggiore sarà la possibilità dei nuovi competitori di entrare nel settore e differenziarlo, renderlo
proprio ed innovativo, nonché adeguatamente pubblicizzarlo una volta che è stato prodotto.
Concentriamoci ora sulle barriere in uscita. Ostacoli ed impedimenti possono essere riscontrati
anche da aziende che intendono uscire da un mercato. Ostacoli che possono essere sociali, come
l’impossibilità a tagliare l’occupazione e quindi la remunerazione dei dipendenti, od ostacoli
economici, come l’impossibilità al disinvestimento. Per tal motivo alcune aziende possono
incontrare “barriere in uscita” che influenzano il mercato: il fatto che una azienda sia costretta a
rimanere ancorata ad un settore danneggia il mercato stesso e tutte le altre aziende che ne fanno
parte. Sotto questo punto di vista, le barriere in uscita possono assumere anche la valenza di barriere

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in “entrata”, poiché rappresentano un elemento di allerta per le aziende le quali intendono entrare in
un mercato, in questo caso compromesso e da cui sarà difficile, eventualmente, uscirvi.

• Il modello di analisi di mercato del “Business” di Abel.


Oltre a quello di Porter, è stato formulato anche un altro modello di analisi di mercato, da Abell, il
quale ha definito il concetto di “business”, ovvero di porzione di mercato in cui l’azienda intende
operare. Il “Business” per Abel è appunto una porzione di mercato in cui l’azienda deve
focalizzarsi, e che deve scegliere in base a 3 criteri:
1. I gruppi di consumatori a cui rivolgersi.
2. Le funzioni d’uso da soddisfare.
3. Le tecnologie o modalità grazie alle quali mettere in pratica tali funzioni d’uso.
Questi tre criteri sono continuamente interrelati tra loro, spiega Abel. Perché infatti uno stesso
prodotto può soddisfare diverse funzioni d’uso, e tali funzioni possono essere garantite da diverse
tecnologie. Ad esempio un’industria che produce imballaggi, potrà produrre imballaggi in carta,
destinati a soddisfare la funzione d’uso di imballare cibi solidi, e al tempo stesso imballaggi in
plastica, la cui funzione d’uso è l’imballaggio di cibi liquidi. Due diverse funzioni d’uso per lo
stesso prodotto, che ha anche due diverse tecnologie in uso, la lavorazione della plastica e della
carta. Tali prodotti saranno destinati ad una porzione di clientela, che sarà il terzo criterio per
scegliere un business.

• Le fonti del vantaggio competitivo: la catena al valore.


Ogni strategia competitiva, sostiene Porter, si fonda sul concetto di valore e di catena al valore.
Cosa significa questo concetto? Porter intende dire che ogni prodotto dell’azienda costituisce un
valore per il cliente, valore quantificabile attraverso il suo prezzo. Tale valore è quindi divisibile in
due parti: i costi sopportati dall’azienda per produrlo, imballarlo, venderlo e fornire assistenza
post-vendita ai clienti, + il margine di guadagno che rimane all’azienda, quindi il prezzo.
Maggiore sarà la differenza tra prezzo del prodotto e costo delle attività di produzione, vendita e
post-vendita, tanto maggiore sarà il valore del prodotto. Capiamo bene, pertanto, che tutte le
“funzioni di gestione” contenute nel primo blocco, quello concernente le fasi di produzione, vendita
e post-vendita, sono operazioni che influiscono sul valore del prodotto e che quindi, comportano un
guadagno. Per tal motivo queste “funzioni di gestione” sono dette “fonti del vantaggio
competitivo” e si suddividono in attività primarie, concernenti alla produzione ed alla vendita, ed
attività di supporto, che pongono le basi per poter avviare le attività primarie.
1. Le attività primarie sono quattro: la logistica interna, ovvero la gestione dei materiali in
magazzino, l’attività di trasformazione dei beni (in generale le attività produttive), la
logistica esterna e per ultima la fase di vendita e post-vendita.
2. Le attività di supporto sono l’approvvigionamento delle materie, lo sviluppo delle
tecnologie produttive, la gestione delle risorse umane e le attività infrastrutturali. Queste
quattro attività di supporto sono la base necessaria ed indispensabile per far avviare le
attività primarie.

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Sotto questo quadro generale, Porter intendeva quindi spiegare che il valore del prodotto non nasce
dal nulla, ma è il risultato di una “catena del valore”, ovvero del valore che l’azienda riesce ad
assumere durante ciascuna di queste fasi. Il valore del prodotto finale rappresenta pertanto solo
l’esito finale di questa catena del valore: se vengono eseguite bene il valore del prodotto aumenta e
così si acquisisce un “vantaggio competitivo” od addirittura una “dominanza competitiva”.

• Le strategie competitive: differenziazione, leadership di costo, leadership di


servizio, specializzazione.
Come abbiamo appena visto, il vantaggio competitivo di un’azienda consiste nella capacità di
essa di differenziarsi rispetto alla concorrenza, di inserirsi in un sub-mercato di nicchia ed
assumere all’interno di esso una posizione “quasi” monopolistica. Naturalmente, diciamo “quasi”
monopolistica perché la dominanza dell’azienda, ottenuta grazie alla differenziazione, può in ogni
caso essere messa in discussione ed essere combattuta dalla concorrenza, attraverso
- strumenti concorrenziali, come le variazioni di prezzo o l’incremento della qualità.
- L’imitazione, da parte della concorrenza, delle innovazioni sul prodotto, così da potersi porre
alla pari dell’azienda che lo ha differenziato.
Occorre quindi specificare che, in tempi moderni, non esiste solo la differenziazione tra le strategie
competitive che possono essere adottate. Elenchiamone qui alcuni casi:
1. Differenziazione.
Capiamo bene quanta importanza assuma in questo contesto il concetto di differenziazione. Intorno
al 1930 la differenziazione ha cominciato ad imporsi come modello di strategia competitiva,
cancellando il vecchio modello della “concorrenza perfetta”. Il superamento del modello della
concorrenza perfetta avvenne grazie alla demolizione di uno dei suoi pilastri fondanti: l’omogeneità
dei prodotti. In una condizione di mercato in cui i prodotti sono tutti uguali, naturalmente l’unico
elemento differenziante e l’unica arma concorrenziale è il prezzo. Con l’introduzione della
differenziazione, l’elemento di distinzione divenne direttamente il prodotto e questa condizione di
omogeneità dei prodotti crollò, aprendo la strada ad un nuovo tipo di mercato fatto di sub-mercati.
L’entrata di un’azienda in un mercato di nicchia ne permette l’isolamento dalla concorrenza,
l’innalzamento di barriere nei confronti di essa, barriere che permettono all’impresa di giovare
della posizione di dominanza all’interno di questo mercato nel mercato.
2. Leadership di costo.
E’ una strategia competitiva basata sul raggiungimento, da parte della concorrenza, della base
minima di differenziazione del mercato (quindi basata anzitutto sull’imitazione delle modifiche
innovative). Dopo aver raggiunto almeno il pareggio nella differenziazione, la strategia della
leadership punta sullo sfruttamento di un minore costo globale di produzione: stando in un
mercato di nicchia, i costi saranno ridotti rispetto al macro-mercato. Così, in questa situazione di
convenienza riguardo ai costi, tale concorrenza potrà utilizzare, come strumento competitivo, il
prezzo, giocando sulle sue variazioni.
3. Leadership di servizio.
E’ una strategia competitiva, analizzata da Vargo-Lusch, che sfrutta, come strumento
concorrenziale, una qualità elevata dei servizi di vendita e post-vendita del prodotto. Una cura
maggiore dei servizi può fornire maggiore soddisfazione da parte della clientela e rappresentare così
un vantaggio competitivo nel mercato.
4. Specializzazione.

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Strategia competitiva fondata sulla focalizzazione, ovvero sulla scelta, sin dall’inizio, di un
mercato di nicchia piuttosto che di un macro-mercato, mercato di nicchia che garantisce minore
addensamento di competitori e differenziazione intrinseca.
Quale che sia la strategia utilizzata, rimane il fatto che un grande vantaggio competitivo è
l’isolamento rispetto alla concorrenza, l’inserimento cioè in un mercato di nicchia permesso dalla
differenziazione più o meno elevata di un prodotto.

• La VRIO analysis e l’importanza delle risorse di un’impresa .


Un differenziazione rispetto alla concorrenza, tuttavia, non può essere eseguita solo sul prodotto,
bensì su tute le “condizioni soggettive” dell’impresa. Più precisamente parleremo di
“innovazione”: un modo per ottenere delle barriere in entrata rispetto alla concorrenza, un modo
quindi per ottenere un vantaggio competitivo rispetto ad essa, non è solo la differenziazione del
prodotto ma anche e soprattutto l’innovazione delle risorse dell’azienda. Per risorse dell’azienda
intenderemo dire l’insieme del capitale umano e del capitale strutturale dell’azienda: dalle
infrastrutture ai processi produttivi, dal team work alle direttive manageriali, dalla fase di vendita
a quella post-vendita. Tutti questi meccanismi aziendali devono essere ben strutturati e
continuamente innovati per poter ottenere un vantaggio competitivo rispetto all’azienda. E’ stato a
tal proposito elaborato, da V. Barney ne “I vantaggi competitivi”, un sistema di analisi delle risorse
d’impresa, chiamato “VRIO” analysis, che valuta il livello delle risorse dell’impresa in base a
quattro criteri:
1. Attributo di valore, ovvero quanto valore hanno le risorse aziendalisti.
2. Attributo di rarità, ovvero quanto sono rari i meccanismi aziendali, qual è il livello della
loro unicità o comunque scarsa diffusione presso le aziende concorrenti.
3. Attributo dell’inimitabilità, ovvero quanto sono difficili da replicare ed imitare da parte
della concorrenza i meccanismi della propria impresa.
4. Attributo dell’organicità, cioè quanto le risorse aziendali in senso lato, sia quelle umane che
quelle strutturali, siano “durevoli” nel tempo.
Ne consegue, naturalmente, che quanto più le risorse, il patrimonio, le conoscenze, le esperienze,
i processi produttivi, il personale ed il management saranno dotati di valore, di rarità, difficili da
replicare e quindi inimitabili e durevoli, tanto più l’impresa possederà un vantaggio competitivo
rispetto alla concorrenza.
Naturalmente, c’è da precisare che questo insieme di capitale umano e capitale strutturale, che
corrisponde alle risorse di un’impresa, deve essere continuamente salvaguardato e innovato; deve
essere quindi sottoposto ad operazioni di “manutenzione ordinaria e straordinaria”. Si tratta nel
caso della manutenzione straordinaria di un processo di mantenimento e preservazione dei
risultati raggiunti, nel caso della manutenzione straordinaria del loro potenziale
perfezionamento, attraverso iniziative di innovazione plausibili da eseguire.

• Il modello SWOT di analisi competitiva.


E’ stato elaborato, di conseguenza, un “modello di analisi competitiva”, ovvero un sistema capace
di valutare il peso e l’efficienza di un’azienda rispetto alla concorrenza. Su quali criteri si basa
questa valutazione? Sul rapporto che l’azienda, nei suoi punti di forza e di debolezza, assume nei
confronti della trasformazione e dell’evoluzione del mercato. Questo modello di analisi
competitiva viene chiamato “SWOT”, che sta per “strenght, weakness, opportunity and threat”,
ovvero “punti di forza, punti di debolezza, opportunità e minacce”. Tale sistema elabora quanto
un’azienda sia capace, rispetto alla concorrenza, di monitorare l’evoluzione di un mercato e
prevedere ciò che diventerà. In base a queste previsioni, sarà possibile per l’impresa trasformare

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potenziali minacce in opportunità, riuscendo così a sfruttare i propri punti di forza, e a non
lasciarsi schiacciare dai propri punti di debolezza.

→ Riepilogando il tutto…
La scelta della strategia competitiva si compone di 3 fasi:
1. Prima deve essere fatta la scelta del mercato, attraverso il modello delle cinque forze di
Porter, che analizza il mercato in base alla concorrenza reale, potenziale diretta,
potenziale indiretta, alla forza della clientela e dei fornitori.
2. Poi deve essere fatto un “check”, ovvero una revisione, delle potenzialità dell’azienda,
attraverso il modello della catena al valore di Porter, che valuta il valore dell’impresa e
del prodotto, e poi deve essere eseguita una VRIO analysis, ovvero devono essere auto-
valutate le risorse strutturali e umane in possesso dell’azienda, in base al modello
proposto da Barney.
3. Solo alla fine, sarà necessario compararsi alla concorrenza attraverso l’analisi del
mercato e della sua potenziale evoluzione, attraverso il modello SWOT. Ù

• Le strategie competitive e l’equilibrio tra domanda ed offerta: il “mercato del


venditore” ed il “mercato del compratore”.
Nell’analisi di mercato è importante valutare il rapporto tra domanda ed offerta, ovvero tra
quanto i venditori producono e quanto i compratori richiedono. E’ difficile infatti ipotizzare una
situazione di completo equilibrio tra domanda ed offerta: dovrebbe concretizzarsi il caso in cui la
domanda dei compratori sia perfettamente combaciante con la disponibilità dei prodotti nei
magazzini, od, analogamente, che l’azienda delle offerte soddisfi perfettamente tutte le richieste
della clientela. Diciamo quindi che ci può essere una situazione di equilibrio al massimo relativo tra
domanda ed offerta e che regna, a livello statistico nei mercati, una condizione di squilibrio. Ma ciò
che a noi interessa non è il risultato finale dell’equilibrio tra domanda ed offerta, bensì l’equilibrio
tra “potenzialità di produzione” e “capacità di assorbimento”. Nel caso in cui, infatti, la
domanda degli acquirenti superi la “potenzialità di produzione” del mercato, significa gli
acquirenti dovranno competere l’uno con l’altro per potersi impossessare di una quantità
limitata di prodotti, che non basta a soddisfare tutti. In una situazione come questa, si avrà un
netto vantaggio delle imprese e dei produttori, che non dovranno lottare contro potenziali minacce
di invenduto, potranno alzare il prezzo del prodotto, e potranno stabilire le condizioni del settore a
loro piacimento: saremo nel caso del “mercato del venditore”.
Nel caso opposto invece, quello in cui la “capacità di assorbimento”, ovvero il peso della
domanda, sia inferiore al numero della produzione, si avrà un eccedenza di prodotti, e saranno le
aziende a dover competere tra di loro per aggiudicarsi la propria clientela sottraendola alla
concorrenza. In questa condizione, chiamata “mercato del compratore”, saranno i clienti a
ricoprire una posizione di vantaggio, in quanto possederanno loro il potere di determinare il
successo di alcune aziende e l’insuccesso di altre.

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Capitolo VII

Strategie complessive o corporate:


le strategie di sviluppo dimensionale e il rinnovamento strategico

• Le risorse, competenze, capacità e situazioni che orientano la scelta delle


strategie complessive.
Abbiamo parlato, fin’ora, delle strategie competitive e sappiamo che esse rappresentano le
fondamenta su cui costruire una strategia complessiva. Ricordiamo dunque quanto importante e
prioritario sia, nello sviluppo dell’impresa, il peso delle risorse da essa possedute. Le risorse,
soprattutto quelle immateriali, possono costituire delle “capacità distintive” o “core competencies”
per l’azienda, che la distinguono cioè dalla concorrenza e che le garantiscono un vantaggio
competitivo rispetto ad essa. Il vantaggio competitivo si fonda dunque sulle risorse materiali ed
immateriali di un’azienda. Focalizzandoci sulle risorse immateriali, tali risorse forniscono
all’impresa il vantaggio della fiducia, cioè costruiscono un’immagine favorevole dell’impresa
all’interno del mercato in cui opera, ed il vantaggio delle competenze, proprie dei singoli membri
dell’azienda. E’ quando queste competenze passano dalle mani dei singoli al possesso dell’intera
azienda che si ottiene il vero vantaggio competitivo, perché diventano così delle “capacità
competitive”, delle “routine” che chiunque in azienda può concretizzare. Sto parlando del
passaggio dalle “competenze statiche”, perché limitate all’uso del singolo, alle “capacità
dinamiche”, le cosiddette “dynamic capabilities”, che sono definite come le “abilità a combinare
i fattori produttivi in modo innovativo”.
A tal proposito, nella scelta delle strategie complessive assumono un ruolo fondamentale le risorse.
Tali risorse non sono mai, tuttavia, illimitate e devono essere sottoposte ad un arbitraggio, ovvero
alla scelta tra diverse opzioni. Arbitraggi diversi sono, ad esempio, la preferenza di vantaggi nel
lungo termine, quindi la scelta di investire, o di vantaggi nel breve termine, quindi la scelta di
ottenere liquidità immediatamente. La scelta di una strategia complessiva dipende quindi dalla
“situazione” in cui l’impresa si trova, dalle risorse che possiede rispetto alla concorrenza. E’
naturale, ad esempio, che un’azienda equilibrata sotto il punto di vista finanziario ed economico,
non minacciata dal pericolo imminente del fallimento, sarà più predisposta a scegliere di investire
ed ottenere così grandi vantaggi nel lungo termine; al contrario, un’azienda caratterizzata da
squilibri finanziari, punterà piuttosto alla liquidità immediata ed alla sopravvivenza. E’ tutta una
questione di risorse. E’ rispetto alle risorse che le imprese posseggono che si attua la scelta delle
strategie complessive. Sotto questo punto di vista, esistono, schematicamente, 3 strategie
complessive alternative:
1. Il percorso dello sviluppo dimensionale, ovvero la strada che l’azienda deve percorrere
per raggiungere l’obiettivo della crescita dimensionale, della massimizzazione dell’uso
delle risorse, dell’acquisizione di un peso contrattuale crescente verso fornitori, clienti,
concorrenza.
2. Il percorso del risanamento, ovvero la strada percorsa da quelle aziende caratterizzate da
forti squilibri economici e finanziari, che hanno bisogno di forti innovazioni nella
gestione per poter sopravvivere.

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3. Il percorso di rafforzamento o assestamento, ovvero un percorso seguito da quelle aziende
che, pur non trovandosi in crisi, si trova in una situazione di svantaggio competitivo nel
mercato in cui opera ed ha quindi assoluta necessità di mantenere e difendere le posizioni
che è riuscita ad occupare.

• Il processo di sviluppo dimensionale.


Soffermiamoci, in questo capitolo, esclusivamente sul processo (1) di sviluppo dimensionale.
Diciamo, innanzitutto, che c’è una differenza tra sviluppo dimensionale e crescita dell’azienda. Il
concetto di “crescita” aziendale coincide con la definizione filosofica di sviluppo, diversa dal
connotato che assume in “sviluppo dimensionale”, e cioè il significato di “movimento verso il
meglio”. Per tale motivo, la crescita dell’impresa è il suo movimento verso il meglio, è pertanto
un processo qualitativo, che si occupa quindi di migliorare ed evolvere il rapporto tra l’impresa e
l’ambiente esterno. Lo sviluppo dimensionale è invece un processo quantitativo, atto ad
aumentare il volume dell’azienda. Diciamo che tra crescita e sviluppo c’è una relazione: è la fase
di crescita, ovvero un miglioramento qualitativo, a precedere e determinare lo sviluppo
dimensionale, quindi un miglioramento quantitativo del volume d’azienda.
Il processo di sviluppo dimensionale è il percorso seguito dalle imprese più sane, in quanto migliora
le condizioni dell’azienda in relazione all’ambiente esterno. Tuttavia, lo sviluppo dimensionale non
giova alle imprese sempre ed indiscriminatamente: rappresenta una garanzia di sopravvivenza per
medie e grandi imprese, ma lo stesso non si può dire, ad esempio, per le piccole imprese. Le piccole
imprese infatti, caratterizzate da uno stretto rapporto tra proprietà e gestione, seguendo il percorso
dello sviluppo dimensionale potrebbero paradossalmente andare incontro a minacce e pericoli per la
sopravvivenza aziendale. Un’espansione rilevante della piccola impresa potrebbe inserirla in
mercati troppo grandi, costituiti da competitori troppo forti, o ridimensionare in maniera drastica la
sua gestione. Conseguenze come queste potrebbero danneggiarla piuttosto che giovarla.
Ad ogni modo, lo sviluppo dimensionale beneficia il divario-costi ricavi, incentivando la
cosiddetta “curva di apprendimento”. Il concetto di curva di apprendimento è il seguente: più
aumenta il volume delle vendite, tanto più migliora l’efficienza della produzione (che viene
migliorata con i maggiori ricavi) e di conseguenza si ottengono minori prezzi unitari del prodotto.
Diminuiti i costi, l’impresa sarà in grado di produrre di più rispetto ai suoi concorrenti sul
mercato, guadagnando un vantaggio competitivo. Quando la curva di apprendimento si estende
al di là della sola funzione produttiva, e raggiunge anche le funzioni gestione, come il marketing
e l’amministrazione, si parla di “curva di esperienza”.
Tra i benefici del percorso dello sviluppo dimensionale ci sono anche benefici “sociali”:
l’imprenditore che è a capo dell’impresa o che la gestisce, di sicuro ne guadagnerà in potere ed in
prestigio se essa assume dimensione, peso, rilevanza maggiore.
Tutti questi benefici e queste belle conseguenze dello sviluppo dimensionale sono tuttavia
dipendenti da una condizione: che il percorso di crescita (processo qualitativo) e di sviluppo
dimensionale (processo quantitativo) siano eseguite nella maniera corretta. Se così non
avvenisse, il percorso dello sviluppo dimensionale potrebbe non portare risultati o addirittura
portarne di negativi. E’ questo il motivo per cui molte aziende che perseguono lo sviluppo
dimensionale finiscono in una situazione di crisi.
Ciò che intendo dire è che il processo di crescita e sviluppo dimensionale incontra dei limiti, è
dettato da delle cause, e produce degli effetti.

1. Limiti allo sviluppo dimensionale.


Partendo proprio dai limiti, dobbiamo anzitutto chiarire che il punto di partenza di ogni impresa è
quello di una dimensione non ottimale, mentre l’obiettivo, per molte, è il raggiungimento di una
dimensione ottimale. Durante questo percorso l’impresa si troverà di fronte dei limiti, che dobbiamo
distinguere in limiti interni ed esterni.

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- I limiti interni si suddividono a loro volta in limiti d’impianto e limiti d’impresa. I limiti di
impianto sono tutti quei limiti legati alle risorse materiali, ai fabbricati ed alle attrezzature e sono
limiti precisamente individuabili.
Ad esempio esistono limiti di natura tecnica, come la limitata potenzialità dei cicli produttivi,
oppure limiti di natura organizzativa, come l’incapacità di reperire la manodopera necessaria alla
produzione. I limiti d’impresa sono invece molto più flessibili e più difficilmente identificabili, e
potrebbero scaturire da ogni situazione relativa alle risorse umane che agiscono nell’impresa.
- Per quanto concerne, invece, i limiti esterni, stiamo parlando di tutti quegli ostacoli allo sviluppo
d’impresa dovuti ad eventi esogeni, provenienti dall’ambiente, come può essere la maggiore
pressione della concorrenza.
2. Effetti dello sviluppo dimensionale.
Lo sviluppo dimensionale causa poi, sicuramente, anche degli effetti, che si configurano in vantaggi
e svantaggi.
- I vantaggi si ottengono fondamentalmente grazie al miglioramento dell’equilibrio tra costi e
ricavi. Lo sviluppo dimensionale può produrre un abbassamento dei costi, grazie ad economie di
scala (abbassamento del costo unitario grazie a maggiori vendite) od economie di apprendimento
(costi più bassi ottenuti grazie ad esperienze e conoscenze acquisite nel settore); oppure lo
sviluppo dimensionale può portare ad un innalzamento dei ricavi, attraverso l’aumento dei prezzi
o il raggiungimento di maggiori volumi di vendita.
- Gli svantaggi possono essere di diversi tipi: una eventuale diseconomia di scala, ovvero il
tragico caso in cui, all’aumentare del volume della produzione e della vendita, invece di
diminuire il costo unitario del prodotto questo aumenti producendo così un grave problema; Una
maggiore rigidità organizzativa: l’azienda, forte delle sue nuove posizioni ottenute, potrebbe
drasticamente modificare l’organizzazione che richiederà ritmi più rigidi; La perdita del
controllo da parte della gestione, dovuto all’aumento delle dimensioni aziendali; la maggiore
visibilità di mercato, ottenuta con le maggiori dimensioni: evento che può diventare un problema
specie per piccole aziende che sono aumentate di volume, che si troveranno a contatto con un
mercato troppo ampio per loro e contro competitori troppo potenti.
3. Cause dello sviluppo dimensionale.
Anche le cause dello sviluppo dimensionale possono essere esterne od interne. La teoria
tradizionale era solita dare più peso alle cause esterne, ovvero individuava le vere cause della scelta
dello sviluppo dimensionale nelle occasioni provenienti dai mercati. In realtà ci sembra più
opportuno dire che le cause di sviluppo dimensionale abbiano origine anche dall’interno, proprio
nel concetto delle risorse d’impresa. Se le risorse sono parzialmente sfruttate, è da qui che
l’azienda parte per organizzarne l’ottimizzazione d’uso. Dunque una causa interna è spesso il
parziale sfruttamento delle proprie risorse, il quale viene sottoposto ad un miglioramento.
Ovviamente, le occasioni perfette per concretizzare questo miglioramento sono le opportunità che
provengono dai mercati, che si configurerebbero dunque solo come lo step finale, l’occasione per
mettere in pratica lo sviluppo dimensionale. Sotto questo punto di vista, cause interne ed esterne
risultano essere strettamente legate tra loro, quasi a formare una motivazione unica della scelta di
sviluppo e crescita.

• Tre diverse tipologie di sviluppo dimensionale.

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Volendo schematizzare, il percorso di sviluppo dimensionale,di cui tanto abbiamo parlato, si può
concretizzare in tre diverse modalità:
1. Un percorso di sviluppo monosettoriale, che consiste nel rafforzamento della posizione
dell’impresa nel settore e nel mercato in cui già opera. Il percorso monosettoriale può essere
eseguito mediante due modalità: uno sviluppo od integrazione orizzontale, uno sviluppo od
integrazione verticale.
2. Un percorso di sviluppo polisettoriale, che consiste nell’entrata, da parte dell’impresa, in
nuovi mercati. Una volta che l’impresa ha intrapreso l’espansione in nuovi mercati, si può
attuare una “diversificazione laterale o correlata”: è il caso in cui, tra il prodotto venduto
nel vecchio mercato e quello venduto nel nuovo, esistano delle affinità di ordine tecnico o di
marketing, ovvero il caso in cui i due beni possano essere prodotti dai medesimi impianti
produttivi, oppure distribuiti dai medesimi canali di distribuzione; altrimenti si può attuare
una “diversificazione conglomerale o non correlata”, in cui non esiste alcun legame tra i
prodotti vecchi e nuovi, e tra i loro mercati.
3. Un percorso di sviluppo internazionale, che consiste sempre nell’entrata in nuovi mercati,
ma in mercati internazionali. Tale scelta, talvolta, comporta la modifica dei meccanismi di
acquisizione delle risorse, di vendita, di produzione. Lo sviluppo interazionale si può
concretizzare attraverso una espansione internazionale del mercato, oppure attraverso una
riconfigurazione multinazionale della gestione.

• La strategia di sviluppo monosettoriale.


Lo sviluppo monosettoriale ha lo scopo di rafforzare la posizione dell’impresa all’interno del
mercato in cui già opera. Non riguarda pertanto l’entrata in nuovi mercati. La strategia di sviluppo
monosettoriale può essere concretizzata in due modalità differenti:
1. Attraverso l’ampliamento delle potenzialità produttive dei propri impianti, od anche
attraverso la creazione ex-novo di nuove cellule produttive.
2. Attraverso la strategia dell’integrazione orizzontale, ovvero attraverso l’assorbimento di
imprese similari, imprese spesso concorrenti che operano nello stesso mercato di quella che
attua la strategia. Focalizziamoci un attimo sul caso dell’integrazione orizzontale. Cosa si
intende per imprese similari? E cosa per stesso mercato? Per “stesso settore” o “stesso
mercato” si intende la medesima area d’affari in cui più aziende vendono prodotti simili,
uguali, oppure complementari. Naturalmente, due imprese appartengono allo stesso
mercato quando condividono, di esso, i medesimi vincoli tecnologici e vincoli di mercato.
Per “vincoli tecnologici” si intendono i vincoli relativi ai cicli di produzione, alla
lavorazione e trasformazione delle materie prime, vincoli condivisi appunto da due imprese
appartenenti allo stesso settore. Per “vincoli di mercato” intendiamo invece i comuni
problemi a cui sono sottoposte due imprese che operano nello stesso settore, problemi che
riguardano le politiche di mercato, come la distribuzione, la logistica, la pubblicità.
Per quanto riguarda poi il concetto di “imprese similari”, capiamo bene che operando esse nello
stesso settore della nostra impresa saranno rispetto ad esse delle concorrenti. Per tal motivo, ne
consegue che strategie di integrazione orizzontale non appaiono sempre come strade vantaggiose da
percorrere. Il vantaggio dipende dalla consistenza della concorrenza nel mercato: in settori
altamente saturi, dalla concorrenza agguerrita, la via dell’integrazione orizzontale può diventare
pericolosa. Al contrario, risulterà una via vantaggiosa nei riguardi di imprese in difficoltà , che non
possono essere un pericolo, e che anzi potranno ampliare la gamma di prodotti e conferire il proprio
volume di affare alla nostra azienda.

Quali sono i vantaggi di una strategia di sviluppo orizzontale? Beh, di sicuro i vantaggi più
immediati sono i tempi brevi di attuazione e i rischi limitati e soprattutto facilmente individuabili.
Ma i vantaggi di maggior rilievo sono le conseguenti economie di costo di cui l’impresa potrà

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godere, economie di costo che si differenziano in economie di dimensione o di di scala e in
economie di espansione.
1. Le economie di dimensione o di scala sono , come già ben sappiamo, quelle politiche
aziendali volte ad ottenere un abbassamento del costo unitario del prodotto. Possono essere
attuate grazie ad un aumento del volume delle vendite: maggiori saranno le vendite, tanto
più si potrà produrre, con costi relativamente più bassi grazie ad ordini maggiori di materie
prime.
2. Le economie di espansione sono invece i risparmi dei costi relativi allo sviluppo
dimensionale. Naturalmente queste vengono prima delle economie di dimensione, che ne
sono una conseguenza: di fatti, non può esistere un risparmio del costo unitario del prodotto,
ovvero un aumento delle vendite, se prima non c’è stata una crescita dimensionale. Prima si
cresce dimensionalmente, e solo poi si potranno aumentare le vendite e quindi ottenere
riduzioni dei costi dei prodotti.

• L’integrazione verticale e la teoria dei costi di transazione .


Un’impresa attua una strategia di sviluppo od integrazione verticale quando assume il controllo
di impianti di produzione oppure di sistemi di distribuzione. Come possiamo ben vedere,
l’integrazione verticale si attua in entrata ed in uscita. E’ più preciso, a tal proposito,
- chiamare “incorporazione verticale ascendente” o “a monte” l’incorporazione, da parte di
un’azienda, all’interno della sua organizzazione, di un impianto di produzione di beni o servizi.
- Si parlerà invece di “integrazione verticale discendente” o “a valle”, l’impossessamento da
parte dell’azienda di sistemi di distribuzione di beni o servizi.
Nel caso in cui un’impresa non scelga di incorporare i sistemi di produzione o di distribuzione
all’interno, essa dovrà trovare il modo di ottenere le risorse e di distribuirle affidandosi al mercato.
Tale impresa sarà sottoposta, pertanto, al pagamento del cosiddetto “costo di transazione”, ovvero il
costo relativo all’approvvigionamento dei beni e alla loro distribuzione, affidata ad aziende esterne.
Il costo di transazione comprende anche le spese relative al reperimento delle informazioni su
queste imprese, al loro controllo sulla fase esecutiva.
Perché è importante il concetto di “costo di transazione”? Perché spiega il motivo per cui,
all’interno di uno stesso mercato, alcune aziende scelgono l’integrazione verticale, cioè entrano
direttamente in possesso di sistemi produttivi e distributivi, ed altre preferiscono affidare queste
pratiche a imprese esterne, pagandone il costo di transazione. Perché le aziende attuano
comportamenti tanto contrastanti? Una spiegazione è stata fornita, intorno agli anni ‘80, da
Williamson, il quale ha fondato la sua risposta sulla “teoria dei costi di transazione”.
Williamson ci spiega che l’ago della bilancia, che spinge le aziende a impossessarsi dei sistemi
produttivi e distributivi, o di affidarsi a ditte esterne, è il confronto tra il costo di transazione e il
costo relativo ad una produzione\distribuzione interna. La scelta tra “make” (creare) or “buy”
(comprare) sarà dettata dai costi del produrre e dai costi del comprare, e dal loro confronto. Se
sarà più oneroso produrre autonomamente, ci si rivolgerà a imprese esterne, se invece comprare
il prodotto a terzi costerà di più che produrlo in casa, allora si sceglierà l’integrazione verticale.
Il limite che sancisce cosa è più conveniente eseguire all’interno e cosa all’esterno dell’azienda è
detto “confine efficiente”: è il limite che sancisce l’efficienza massima delle attività interne
all’azienda. Superato il “confine efficiente”, le azioni interne non saranno più efficienti e ci si
dovrà rivolgere al mercato per farle svolgere da imprese esterne. Per questo motivo, il criterio
discriminante è “l’economicità”: bisogna far realizzare all’azienda tutte le operazioni che che
costerebbero di più se delegate al mercato.
Naturalmente, una produzione interna fornisce garanzie rispetto all’affidamento a ditte esterne. Si
evita, ad esempio, il rischio di un comportamento opportunistico da parte dell’interlocutore,
attuabile sia in fase precontrattuale, quando l’impresa esterna potrebbe disporre di informazioni
inaccessibili alla nostra azienda e trarne vantaggio; sia in fase post-contrattuale, quando potrebbe
assumere comportamenti vantaggiosi per se.

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C’è da aggiungere che un processo di sviluppo monosettoriale verticale, discendente od ascendente
che sia, porta sempre ad un aumento del valore aggiunto. Per valore aggiunto si intende la
differenza tra i ricavi (ovvero il valore del prodotto finito) ed i costi sostenuti per produrlo. Nel caso
di un’integrazione ascendente, grazie all’internalizzazione del ciclo produttivo, si avranno costi
minori delle materie e dei beni; nel caso di un’integrazione discendente, l’impresa godrà invece di
prodotti finali di alta qualità, e quindi dal prezzo più elevato, poiché ne avrà gestito l’azienda stessa
il packaging, il trasporto, la fase di vendita e cura del cliente post-vendita. In ogni caso, dunque, si
ha un aumento del valore aggiunto, ammesso naturalmente che la scelta di una integrazione
verticale sia stata dettata da costi di transazione troppo alti. Naturalmente, un’integrazione
ascendente sarà vantaggiosa solamente se i costi di produzioni interni saranno minori rispetto ai
costi di transazione da pagare a terzi. Per tal motivo, come ogni iniziativa della gestione, anche
l’interazione verticale non è una strategia di sviluppo universalmente vantaggiosa e sempre
positiva: dipende sempre dalle capactà di chi la attua e dal mercato in cui l’azienda si trova.
Vale la pena aggiungere che i processi di interazione verticale, ascendenti e discendenti, creano
barriere in entrata e barriere in uscita. Creano barriere in entrata perché, chi è intenzionato ad
entrare, si troverà in una situazione di svantaggio rispetto all’azienda integrata per quanto riguarda
l’approvvigionamento e la distribuzione dei beni. Allo stesso tempo, creano barriere in uscita,
poiché per un’azienda integrata, che ha investito per possedere sistemi di produzione e
distribuzione, sarà più difficile il disinvestimento.
La dottrina, tuttavia, ha spiegato come il mito della verticalizzazione abbia perso consistenza, che
non “paghi più”, ovvero non garantisca i vantaggi che si possono avere comprando beni e servizi
dal mercato esterno.

• Polisettorialità: la diversificazione laterale e conglomerale .


L’impresa, in certi casi, sceglie di allontanarsi dai mercati in cui già opera ed inserirsi in nuovi
settori. In questi casi, come osserva l’Ansoff, si parla di “diversificazione produttiva”. E’ il
principio della multisettorialità o polisettorialità dell’espansione produttiva, che ha come obiettivo
l’occupazione, da parte dell’azienda, di posizioni concorrenziali in mercati nuovi.
Tra prodotti lavorati e venduti nel nuovo mercato e quelli che si trattavano nel vecchio mercato,
possono esistere delle convergenze tecnologiche o di marketing. E’ il caso delle convergenze
tecnologiche quando sia i vecchi beni che i nuovi possono essere prodotti dai medesimi impianti,
oppure necessitano la trasformazione delle stesse materie prime. Si parla invece di affinità nel
marketing quando sia i prodotti venduti nel vecchio mercato che quelli venduti nel nuovo possono
essere distribuiti attraverso gli stessi canali di distribuzione, oppure propagandati mediante le stesse
campagne promozionali. Nel caso in cui esista un collegamento ed una affinità, in termini di
marketing e tecnologici, tra i vecchi ed i nuovi prodotti, si starà attuando una “diversificazione
laterale”; nel caso in cui invece non ci sia alcun legame tra i vecchi ed i nuovi prodotti, né nel
marketing né nella tecnologia produttiva, si parlerà di “diversificazione conglomerale”.
Possono pertanto verificarsi 4 diverse situazioni:
1. Una integrazione orizzontale, di cui abbiamo già parlato, in cui ci sarà un collegamento
diretto, tra i prodotti vecchi e nuovi, sia nel marketing che nelle tecnologie produttive.
2. Una diversificazione laterale, nel caso in cui ci sia convergenza nel marketing ma non
nelle tecnologie produttive, tra vecchi e nuovi prodotti.
3. Una diversificazione laterale, naturalmente all’inverso, nel caso in cui ci sia affinità nelle
tecnologie produttive ma non nel marketing.
4. Una diversificazione conglomerale, nel caso in cui non ci sia alcuna affinità tra prodotti
vecchi e nuovi, né nelle tecnologie produttive né nel marketing.
In teoria, la dottrina ha aggiunto un altro significato alla definizione di “conglomerazione”, ulteriore
rispetto a quello di diversificazione. Infatti, come ha specificato V.Podestà ne “La strategia
dell’impresa”, ci sarebbe “conglomerazione” nel caso in cui l’impresa non riesca ad ottenere
una produzione dominante, né ad occupare una posizione preminente nel mercato.

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Quali sono i motivi per cui un’impresa debba scegliere la via della diversificazione e quali saranno
i vantaggi una volta percorsa questa strada?
Beh, possiamo affermare che il motivo principale della scelta di diversificazione è l’impossibilità di
espandersi soddisfacentemente nel mercato in cui già si opera, ormai saturo e privo di opportunità,
opportunità che vanno quindi ricercati in settori differenti.
Tra i vantaggi, di sicuro una diversificazione dei rischi di mercato: al contrario dell’integrazione
orizzontale, dove i rischi della nuova e della vecchia produzione si congiungono in un’insieme
unico, con la diversificazione produttiva i mercati sono due, differenti e distinti, e quindi anche i
rischi di mercato rimangono circoscritti nel proprio settore.
Aggiungiamo, per concludere, che nel caso di diversificazione laterale, di solito, si preferisce
percorrere la via dell’espansione interna all’impresa, creando ex-novo nuovi impianti produttivi.
Nel caso della diversificazione conglomerale invece, data la scarsa conoscenza del nuovo settore in
cui ci si sta inserendo, si preferisce di solito acquisire dall’esterno, dal mercato i sistemi di
produzione e distribuzione, creano così una cosiddetta struttura di “holding”.

• La strategia di espansione internazionale.


L’espansione internazionale consiste nel dislocamento di centri di produzione, e nelle fasi
successive, della vendita e della gestione, in Paesi esteri. Ma attenzione non tutte le iniziative di
espansione internazionale sono uguali. Molto spesso infatti, le strategie di sviluppo internazionale
non sono coordinate e programmate, bensì risultano “scelte opportunistiche”, politiche dettate
cioè dalla possibilità di avvantaggiarsi di più bassi costi di lavoro, grazie al decentramento dei
cicli produttivi in paesi esteri. In questi casi si parla di espansione internazionale ma non di
espansione multinazionale. C’è una differenza tra questi due concetti, differenza che potremo
meglio capire elencando le varie fasi o “step” con cui si attua una politica di espansione
internazionale:
1. Esportazione: la fase 1 è l’esportazione di prodotti che venivano fabbricati esclusivamente
in patria. Ora verranno venduti anche in Paesi esteri.
2. Produzione indiretta: nel tentativo di produrre all’estero, in futuro, si passa alla fase due,
che
consiste nella concessione a produttori stranieri dei brevetti e dei “know-how” necessari alla
produzione degli stessi beni dell’azienda.+
3. Vendita diretta: si passa alla creazione di reti di distribuzione all’estero, che permettono di
vendere senza utilizzare i canali distributivi in patria.
4. Vendita e produzione diretta: si giunge finalmente alla creazione di impianti produttivi
direttamente in Paesi esteri, con conseguenti risparmi nei costi, e si passa naturalmente
alla vendita.
5. Organizzazione multinazionale: è il passaggio fondamentale che rende l’impresa
un’impresa multinazionale, e consiste nel dislocamento, non solo degli impianti produttivi
e distributivi all’estero, ma anche e soprattutto della gestione. Interi centri direzionali
autonomi vengono allestiti in Paesi esteri, e rimangono sempre collegati con i centri
direzionali in patria.
Come possiamo vedere dalle fasi dello sviluppo internazionale, la differenza tra espansione
internazionale ed espansione multinazionale è la seguente: l’espansione internazionale può essere,
eventualmente, anche un fatto isolato, dettato dall’opportunità di ottenere risparmi nei costi di
lavoro, attraverso lo spostamento dei cicli di produzione all’estero; l’espansione multinazionale
invece si concretizza attraverso la fase successiva, ovvero attraverso il dislocamento dell’intera
gestione all’estero, attraverso la creazione di veri e propri centri direzionali autonomi.
L’espansione multinazionale non sarà di certo il frutto di una politica isolata, bensì di una
strategia programmata e mirata non solo a ottenere risparmi di costo, ma soprattutto ad
appropriarsi di intere porzioni di mercato estere, fino a quel momento inaccessibili.
Naturalmente, l’elemento fondamentale che rende possibile la trasformazione dell’impresa in un
impresa multinazionale è un’ingente quantità di capitale da investire.

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• Politiche di crescita interaziendale ed interrelata: impresa-rete e reti di
imprese.
Molte imprese eseguono le strategie di sviluppo dimensionale fin’ora descritte in sequenza: partono
da un maggiore sviluppo nel proprio mercato, attraverso un’integrazione orizzontale, poi passano ad
un’integrazione verticale, ed eventualmente una diversificazione, spostandosi in altri mercati in
cerca di nuove opportunità di espansione. Infine, saranno spinte ad un’evoluzione di tipo
internazionale, e si estenderanno in Paesi esteri, consolidandosi come imprese multinazionali.
Queste logiche di crescita interna ed esterna, in tempi recenti, sono state spesso accantonate in
favore di una politica di crescita interrelata o “crescita interaziendale”. Si tratta della reciproca
collaborazione che più aziende stabiliscono, per vie contrattuali, con l’obiettivo di garantirsi diverse
aree d’affari, un incremento dell’efficienza produttiva. Stringendo tra esse rapporti di
collaborazione e partnership, le aziende vanno a costituire una “rete” o “network”. A tal proposito, è
necessario distinguere tra due tipologie di “networks” che possono costituirsi tra imprese:
1. Impresa-rete.
E’ l’iniziativa, di una grande impresa, di aggregare intorno ad essa, attraverso rapporti di
partnership e collaborazione, tutti gli stakeholders con i quali lavora, dai distributori ai fornitori
di risorse. Forte di un rapporto di coalizione con i gruppi di interesse, l’azienda creerà appunto
intorno ad essa una rete, all’interno della quale potrà godere di situazioni vantaggiose. Come
possiamo vedere, quella dell’impresa rete è un’iniziativa che mira a sfruttare al massimo le
economie di relazione.
2. Rete di imprese.
Una rete o network di imprese è invece il sistema di partnership che si crea quando più aziende
decidono di coalizzarsi in rapporti collaborativi.
Naturalmente, essendoci maggiore accentramento intorno all’impresa principale, nel caso
dell’impresa rete l’organizzazione sarà più rigida e più difficile da rescindere. Nel caso, invece,
delle reti di imprese il gruppo sarà molto più flessibile: ciascun partecipante alla rete capirà quando
è il momento di uscirne, e le modalità saranno meno complicate.
Esistono due modelli di networks: il modello Europeo, che vede l’aggregazione di imprese
appartenenti all’UE, ed il modello Americano, di calibro più internazionale.

• L’esigenza di un cambiamento strategico e l’inerzia organizzativa.


Per concludere il discorso, possiamo affermare che in ogni caso, per qualsiasi azienda, la
cosiddetta “inerzia amministrativa”, ovvero la poca propensione al cambiamento, risulta sempre
essere un problema. Nessuna impresa può pensare di sopravvivere a lungo senza cambiamenti,
poiché l’ambiente, mutevole e in continua e veloce trasformazione, richiede un cambiamento a
sua volta delle strategie aziendali.
Nel tentativo di organizzare una strategia di rinnovamento, ogni azienda parte naturalmente da due
punti fondamentali, che sono la posizione detenuta nel mercato e i risultati reddituali. Sulla base di
queste caratteristiche capirà di trovarsi in una situazione di crisi, oppure di vantaggio competitivo.
In entrambi i casi un cambiamento strategico andrà eseguito, nel primo caso immediatamente,
nell’altro in tempi più lunghi. L’obiettivo di qualsiasi strategia di rinnovamento, che riguardi la
gestione, la produzione, la fase di vendita, ha naturalmente l’obiettivo di aumentare il volume delle
vendite, migliorare la performance economica, garantire lunga sopravvivenza all’azienda. Come già
abbiamo spiegato all’inizio del capitolo, le basi e i criteri su cui fondare una strategia di

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rinnovamento sono le risorse a disposizione (sia umane che strutturali) e il rapporto con l’ambiente
esterno. Si può rinnovare partendo quindi dall’interno, dal proprio capitale umano e strutturale, o
agendo all’esterno, sulle performance che l’azienda detiene nei confronti del mercato. Ad ogni
modo, tra risorse e ambiente, tra ciò che è in possesso l’azienda e ciò non ha, c’è sempre un
rapporto di interdipendenza. Definiamo quindi le fasi entro le quali si attua una strategia di
trasformazione dell’organizzazione:
1. Prima si definiscono gli obiettivi
2. Poi si individuano le innovazioni da compiere
3. Si quantificano le risorse da investire per concretizzare le innovazioni
4. Si stabiliscono i tempi di realizzazione
5. Si attribuiscono le responsabilità a livello di governance.
Come ho già spiegato, poi, l’urgenza di un rinnovamento strategico è dettata dalla situazione che
l’impresa ha rispetto alle sue risorse e rispetto al mercato esterno. In una situazione di turbolenza e
dinamismo del mercato, risulta impensabile procrastinare un rinnovamento strategico, vitale per la
sopravvivenza. E’ in tale procrastinazione di un cambiamento, troppo spesso attuata, che Grant
individua la ragione principale del fallimento di molte imprese.

Capitolo VIII

L’organizzazione dell’impresa.

• Il ruolo del management e il “ciclo di direzione”.


Dirigere un’azienda, in tempi moderni, non consiste più, come nella visione trdizionale,
semplicemente nel fornire ordini e fare in modo che vengano rispettati. La funzione di direzione
deve preoccuparsi bensì di programmare, ovvero stabilire gli obiettivi da raggiungere, di
organizzare, quindi scegliere chi e con quale grado di responsabilità dovrà fare in modo che gli
obiettivi vengano raggiunti, guidare, ovvero stabilire quali saranno le modalità e le attività grazie
alle quali gli obiettivi dovranno essere raggiunti, ed infine controllare che i risultati ottenuti, al
termine dell’esercizio, siano pari, maggiori o minori rispetto a quelli stabiliti in fase di
programmazione.

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Si crea così un vero e proprio “ciclo di direzione” che il management deve mettere in atto,
costituito appunto di quattro fasi, che abbiamo appena descritto: programmazione, organizzazione,
conduzione e controllo.
Il controllo dei risultati raggiunti rappresenta ovviamente la fine del ciclo di direzione, nonché
sancisce l’inizio di un ciclo nuovo: grazie al controllo, si avranno informazioni al riguardo dei
risultati raggiunti, e quindi anche relativi ad efficacia ed efficienza dell’impresa. Queste importanti
informazioni saranno le fondamenta della nuova fase di programmazione, che stabilità gli obiettivi
del nuovo esercizio proprio in base alla “forza” che l’impresa ha dimostrato di avere nell’esercizio
precedente.

• La funzione organizzativa.
Soffermiamoci sulla terza fase del ciclo direzionale, quella dell’organizzazione. La funzione
organizzativa , in senso aziendale, si occupa di disciplinare i compiti da svolgere ed assegnare i
ruoli le responsabilità a chi li compirà. Tuttavia, in dottrina, è stato fornito un duplice significato
alla fase dell’organizzazione. Seguendo il concetto “lato” o “marshalliano”, è organizzazione la
disposizione l’ordinamento di tutte le risorse, umane e strutturali, nonché delle strutture finanziarie
e patrimoniali dell’impresa. Sotto questo punto di vista il concetto di organizzazione sembra quasi
andare a coincidere con quello della direzione, che sta invece un gradino più in alto, e sembra
fuoriuscire dal ciclo di direzione. E’ per questo motivo che preferiremo intendere la funzione
organizzativa nel senso “ristretto” del termine, secondo cui ha lo scopo di ordinare i compiti, le
responsabilità e le relazioni tra le forze aziendali che svolgeranno le attività necessarie a
raggiungere gli obiettivi stabiliti in fase di programmazione. Sotto questo punto di vista,
l’organizzazione ha lo scopo di:
1. Definire i centri decisionali, di controllo e di esecuzione, scegliendo il personale
necessario a comporre queste unità organizzative.
2. Assegnare a ciascuna di queste unità organizzative le proprie responsabilità e i propri
compiti.
3. Stabilire le relazioni che intercorreranno tra i vari centri organizzativi.
4. Stabilire le procedure di decisione, controllo ed esecuzione che andranno attuate nei
centri.
Possiamo quindi affermare che:
Lo scopo ultimo della funzione organizzativa è il raggiungimento della massima efficienza
operativa, ottenibile attraverso la corretta suddivisione dei compiti tra i vari centri organizzativi e
soprattutto attraverso la loro coordinazione. Lo scopo prioritario è quindi l’aumento della
produttività del lavoro, ovvero raggiungere migliori risultati, a parità di sforzi sostenuti, oppure
raggiungere gli stessi risultati ma con sforzi minori. Per raggiungere questo obiettivo,
naturalmente, non basta solo suddividere i compiti, assegnare le responsabilità ed aspettare che
ciascuno svolga il suo lavoro: è assolutamente necessaria una cooperazione di gruppo, un team
work. La collaborazione fra le varie parti del sistema aziendale produce infatti il cosiddetto
“effetto sinergico”: si ottengono risultati maggiori se si lavora in gruppo rispetto a quelli che si
raggiungerebbero se ciascuno lavorasse separatamente, in maniera isolata.
Sotto questo punto di vista, i problemi dell’organizzazione, sui quali andare a lavorare per
migliorarla, possono scaturire da un aspetto strutturale dell’organizzazione, ovvero sugli sbagli che
sono stati fatti nello stabilire i compiti, le responsabilità e le relazioni fra forze in gioco; oppure
problemi possono nascere dall’aspetto comportamentale del sistema organizzativo, il quale risulta
molto più difficile da sanare: qui sono in gioco, infatti, problemi di tipo psico-sociologico che
riguardano la situazione di conflittualità\collaborazione presente tra le persone di qualsiasi impresa.

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• La funzione organizzativa per imprese nuove o già esistenti, e l’importanza,
nelle scelte organizzative, delle potenzialità, dell’elasticità, dell’economicità
dell’impresa.
Una volta definiti gli obiettivi da raggiungere, la prima azione strategica, assolutamente necessaria a
compiere una scelta organizzativa, è definire con chiarezza il “confine efficiente” dell’azienda,
ovvero comprendere quali funzioni è conveniente attuare all’interno, quali affidare al mercato
esterno.
L’impresa, che deve essere organizzata, può inoltre essere nuova e appena costituita, oppure già
funzionante. L’organizzazione di un’impresa nuova sarà di sicuro differente dalla riorganizzazione
di un’impresa già funzionante. Nel caso di una nuova impresa, l’organizzazione andrà attuata in
base a tre valutazioni o vincoli fondamentali:
1. La natura e gli obiettivi che la nuova impresa di pone di raggiungere.
2. L’investimento organizzativo, ovvero i costi, necessari alla organizzazione, sopportabili
dal bilancio aziendale.
3. Le risorse umane disponibili nel mercato ed acquisibili dall’azienda per affidare loro i
vari compiti dell’organizzazione.
E’ in base a questi tre vincoli che viene inoltre individuato il “confine efficiente”, specie in base al
vincolo dell’economicità, ovvero in base ai costi sopportabili dal bilancio azinedale. Si capirà così
cosa acquisire dall’esterno e cosa produrre dall’interno,
Nel caso invece di un’impresa già funzionante, la sua riorganizzazione andrà anche qui eseguita
sulla base di tre vincoli o valutazioni fondamentali:
1. Dalle capacità professionali acquisibili dal mercato del lavoro, e inseribili all’interno
dell’impresa.
2. Dall’investimento che l’azienda è disposta a fare per la riorganizzazione.
3. Dai costi fissi dell’azienda, ovvero dalla sua economicità, che ne definiscono una
struttura rigida od elastica.
In entrambi i casi, dunque, i vincoli principali dell’impresa sono tre e sono le potenzialità
operative, l’elasticità strutturale, e l’economicità di funzionamento. Per “potenzialità operative”
si intendono le potenzialità presenti nel mercato, che eventualmente l’impresa potrebbe acquisire
mediante una strategia. Per “elasticità strutturale”, invece, si intendono i costi fissi relativi alla
gestione ed alla produzione, costi che rendono più o meno plausibile un’organizzazione, che
rendono cioè più o meno rigida la struttura di un’azienda. Più la sua struttura sarà rigida, meno
sarà modificabile. Per “economicità di funzionamento” si intende invece il rendimento degli
investimenti: quanto cioè un’azienda è disposta a investire, programmando i rendimenti che
potrebbe beneficiare dall’investimento.
Questi tre vincoli, potenzialità, elasticità ed economicità, sono pertanto la base di qualsiasi
intenzione strategica dell’impresa, la quale, prima di intraprendere una strategia innovativa, dovrà
interrogarsi su quanto la sua struttura sia elastica, su quanto potranno rendere gli investimenti, su
quali potenzialità ci sono nel mercato.

• I modelli di struttura organizzativa.


La ripartizione di ruoli, compiti, responsabilità, viene naturalmente attuata mediante la creazione di
una struttura organizzativa. Esistono 4 tipologie di struttura organizzativa:
1. Una struttura organizzativa semplice, tipica di imprese di piccole dimensioni,
caratterizzata da un forte accentramento del governo aziendale nelle mani di una sola
persona, dalla suddivisione dei compiti per aree funzionale, e dalla scarsa formalizzazione
dell’organizzazione.
2. Una struttura organizzativa funzionale o “modello funzionale”, fondata sulla
suddivisione dei compiti in base alle funzioni da svolgere, affidate a responsabili direttivi
( ci sarà così il direttore della funzione produzione, quello della funzione vendita,
marketing, etc…)

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Per “funzione” deve intendersi “insieme di compiti o mansioni finalizzate ad uno scopo”.
Tuttavia, occorre ricordare il legame di interdipendenza che c’è tra le varie funzioni, che le rende
finalizzate ad uno scopo unico e condiviso che è l’innalzamento della produttività dell’impresa.
Le funzioni, poi, non sono tutte uguali ma si differenziano gerarchicamente in base a gradi di
importanza. Le funzioni prioritarie sono quelle organiche, ovvero le funzioni che assicurano
l’operatività del sistema, e che si caratterizzano di 4 qualità:
- Universalità, ovvero sono funzioni universali, presenti in ogni sistema dello stessi tipo.
- Essenzialità, sono indispensabili allo svolgimento delle mansioni della funzione a cui
appartengono.
- Possibilità di suddivisione in linee gerarchiche, ovvero sono suddivisibili in sottogruppi disposti
per importanza gerarchica.
- Impossibilità di aggregazione, ovvero sono impossibili da inserire in funzioni differenti.

Tra i punti di forza del modello “funzionale”, c’è sicuramente un alto livello di specializzazione,
ovvero ogni mansione è diretta e controllata da un dirigente specializzato (la produzione da
un’ingegnere, l’amministrazione da un contabile). Tra i punti di debolezza, spicca la bassa
possibilità di coordinamento tra le varie funzioni, che rimangono piuttosto isolate ed agiscono
indipendentemente dalle altre.
3. Una struttura organizzativa multidivisionale o “modello divisionale”, che si concretizza
suddividendo l’organizzazione per gruppi di prodotti ( ad esempio l’organizzazione
relativa al prodotto alfa, quella relativa al prodotto beta), oppure suddividendo
l’organizzazione per aree geografiche in cui l’impresa opera ( opzione che avviene specie
nelle aziende multinazionali). Ogni gruppo di prodotti, od ogni area geografica, ha quindi
il suo centro direzionale d’azienda, che ne amministra le varie funzioni di produzione,
vendita, marketing e così via. Sotto questo punto di vista, i vari centri direzionali
assumono le caratteristiche di vere e proprie imprese autonome: il modello divisionale
permette infatti il frazionamento dell’organizzazione, e la creazione di veri e propri
“centri di profitto autonomi”. Ogni centro di profitto ha l’obiettivo di massimizzare i
risultati, ed è per questo che si crea un clima di conflittualità e competizione tra i vari
centri: ciascuno sarà spinto a portare risultati maggiori del vicino, all’impresa, risultano
come un centro di profitto migliore. Una tale situazione ci fa capire che l’obiettivo
dell’organizzazione multidivisionale è quello di focalizzarsi sui risultati e non sui compiti.
Al contrario che nell’organizzazione funzionale, a ciascun dirigente non è solo richiesto
di svolgere bene il proprio lavoro ma la richiesta è quella di portare i migliori risultati
possibili.
Il modello divisionale prevede, naturalmente, il decentramento, rispetto alla direzione centrale, delle
funzioni più specializzate, e al tempo stesso la centralizzazione di quelle funzioni che riguardano
l’intero sistema aziendale, come la finanza, ad esempio.
4. Struttura-Holding.
Quarto ed ultimo modello di organizzazione è la cosiddetta “struttura-holding”, che risulta più
che altro un’evoluzione del modello divisionale. In tale struttura, i vertici di azienda prima
operano una divisione in centri direzionali di profitto, e poi li rendono direttamente delle imprese
autonome. Naturalmente, tali imprese rimarranno legate all’azienda che le ha generate. La
proprietà originaria diventerà società-madre, ovvero fungerà da capo gruppo ai suoi
distaccamenti, che saranno le società-figlie, cioè fondamentalmente imprese controllate. La
società madre sarà una holding pura se si occuperà di funzioni semplicemente societarie, (come
avviene per l’ENI ad esempio), invece sarà una holding mista che svolgerà anche la funzione di
produzione (come avviene per la FIAT). Il ricorso al frazionamento di un’impresa in una struttura
holding garantisce vari vantaggi. Tra essi, maggiore libertà gestionale da parte delle aziende figlie,
che possono a loro volta controllare ulteriori aziende, accrescendo la dimensione dell’impresa
madre, rispetto alla quale queste diventeranno imprese-nipoti.

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• Le strutture organizzative flessibili: organizzazione per processi, a rete, per
progetti e per matrice.
Oltre ai modelli di strutture organizzative di cui abbiamo parlato, ne esistono altri 4, che risultano
diversi dai precedenti proprio per le loro qualità di estrema flessibilità e capacità di essere più
inclini all’innovazione.
1. Organizzazione per processi.
L’organizzazione per “processi” si basa sull’idea di ottimizzare le funzioni interrelandole tra
loro, al fine di raggiungere un obiettivo comune. Stabilendo un fine comune, uno scopo
condiviso da tutte le unità organizzative, si superano così le barriere funzionali e si ottengono
risultati maggiori in gruppo, piuttosto che lavorando ciascuno separatamente.
2. Organizzazione a rete.
Altro modello di organizzazione flessibile è l’organizzazione a rete, che consiste
nell’instaurazione di forti relazioni in primo luogo tra le varie parti dell’impresa, e poi
soprattutto tra l’impresa e gli stakeholders con cui è a contatto, quindi fornitori, produttori, etc…
L’organizzazione a rete non si basa dunque su una vera e propria struttura, bensì più sulla forza di
legami e rapporti non formalizzati. Data la non formalizzazione della struttura, è fondamentale
per un’organizzazione a rete possedere un buon sistema informativo esterno ed interno, capace di
prevedere ogni problema e assicurare la coordinazione di ogni elemento che costituisce la rete.
3. Organizzazione per progetti.
Si tratta di un’evoluzione dell’organizzazione funzionale, di cui abbiamo parlato nel capitolo
precedente. Nella struttura, già suddivisa in funzioni (produzione, vendita, marketing), viene
inserito un progetto e affidato ad un capo-gruppo, chiamato “capo-progetto”, che verrà
supportato da un team di specialisti. Gli specialisti vengono naturalmente prelevati dalle varie
aree funzionali, così ad esempio verrà scelto un esperto di produzione, uno specialista nelle
vendite e così via. Tutti gli specialisti fanno capo al capo-progetto fino alla realizzazione del
progetto, dopo la quale il gruppo si scioglie.
4. Organizzazione per matrice.
L’Organizzazione per matrice è l’istituzionalizzazione di quella per progetto. Ovvero, da un solo
progetto, si passa a più progetti, che possono essere dei prodotti, ad esempio il prodotto alfa, beta,
gamma. Tali progetti, con relativi direttori, quindi direttore del prodotto alfa, beta, gamma, vengono
incrociati con le funzioni, e quindi con i direttori delle funzioni (direttore produzione, direttore
commerciale, direttore risorse umane). E’ dunque un meccanismo ad incrocio, in cui si
formeranno delle “matrici”, ovvero unità lavorative, in cui ciascun responsabile si troverà alle
dipendenze di due capi: il direttore del progetto, e il direttore della funzione. Per esempio, nel
caso della produzione del progetto “prodotto alfa”, il responsabile farà capo al direttore del
prodotto alfa, e al direttore della produzione, una situazione di duplice dipendenza anomala nel
sistema imprenditoriale. I progetti vengono chiamati “campi di responsabilità orizzontali”, le
funzioni “campi di specializzazione verticali”, è dal loro incrocio che nasce la struttura
dell’organizzazione a matrice.

• I fattori che incidono sull’ampiezza del controllo direttivo .


Data l’estensione e la flessibilità delle imprese, nel caso di organizzazioni come quelle per progetto,
a rete o per matrice, nascerà spontaneo domandarsi come e in che modo governare e controllare il
lavoro da parte della dirigenza. Naturalmente, tanto più il decentramento da una sola direzione
centrale è maggiore, e quindi tanto maggiore è la “dipartimentalizzazione” in più unità
lavorative, tanto più sarà complesso gestire e controllare ciascuna di esse. Si parla così di
“ampiezza del controllo direttivo”, con cui intendiamo fino a dove riesce a controllare ogni singolo
elemento dell’azienda. Posto questo, i fattori che “ostacolano” \ “aiutano” l’ampiezza del
controllo direttivo sono i seguenti:

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1. La scarsa\ buona formazione del personale.
2. La delega non chiara\ adeguata e chiara di compiti.
3. Procedure poco chiare\molto chiare delle attività non ripetitive.
4. Obiettivi e standard non controllabili\ controllabili
5. Cambiamenti repentini\ lenti del contesto esterno ed interno.
6. Utilizzo di tecniche di comunicazione vaghe e inefficaci\precise ed efficaci.
7. Interazione carente\efficace tra superiore e subordinati.
8. Riunioni di lavoro non produttive\produttive.
9. Elevato numero di “responsabilità speciali” ai livelli bassi\alti dell’azienda.
10. Dirigenti poco competenti\molto competenti.
11. Compiti complessi\facili.
12. Riluttanza\propensione dei subordinati ad assumersi responsabilità e rischi del lavoro.
13. Subordinati impreparati\preparati.

• Le procedure o “routine” amministrative.


Per un corretto funzionamento dell’organizzazione d’impresa, è necessario ottenere e stabilire delle
routine o procedure amministrative. Sono il frutto del funzionamento dell’organizzazione, operato
attraverso i singoli interpreti. Ciascun lavoratore subordinato e dirigente, attua le fasi della gestione,
quali programmazione, organizzazione, conduzione e controllo. Se avranno eseguito bene il loro
lavoro, le esperienze e le conoscenze dei singoli verranno “istituzionalizzate” e trasformate dunque
in regole, replicabili più volte nel tempo.
Le procedure o routine amministrative sono quattro e sono le seguenti:
1. Procedure operative, cioè routine relative alla fase esecutiva.
2. Procedure di controllo.
3. Procedure di informazione, che standardizzano le modalità di circolazione delle
informazioni interne ed esterne.
4. Procedure decisionali, che standardizzano i processi di decisione.
Le procedure investono dunque moltissime attività aziendali, eseguite seguendo queste regole. Un
diagramma “flow-chart” può ad esempio sintetizzare le operazioni standardizzate relative ad una
vendita: prima c’’è l’ordine del cliente, poi la sua conferma, il passaggio nella logistica e la
spedizione del prodotto in store, la bolla di consegna, l’attestato del ricevimento merce,
l’ammontare del debito al cliente ed infine la fattura.
Capitolo IX

La fase di programmazione.

• La funzione di programmazione aziendale.


La funzione di programmazione stabilisce il futuro corso della gestione aziendale. Il termine
“programma” proviene dal greco “scrivere prima” e definisce bene il senso di programmazione. La
programmazione aziendale è la fase di messa per iscritto formale degli obiettivi da perseguire, delle
politiche da adottare, dei mezzi da sfruttare e delle operazioni da compiere durante l’esercizio
dell’impresa. La programmazione stabilisce anche il termine dell’esercizio, che può essere un lungo
od un breve termine. Questa fase si fonda pertanto su una precedente fase di “previsione”. La
previsione è il tentativo di anticipare i futuro andamenti del mercato e del comportamento
aziendale; la programmazione è la decisione dei comportamenti aziendali che andranno svolti sulla
base della previsione del futuro d’azienda e di mercato. La programmazione può riguardare le
singole funzioni dell’impresa, oppure l’intero organismo aziendale. La programmazione nel breve
termine viene chiamata “programmazione d’esercizio”, quella nel lungo termine “innovazione”.
La fase di programmazione produce dunque diversi “piani”, che possono essere sommariamente
suddivisi in due grandi categorie: piani strategici, relativi ad un lungo termine, e piani operativi,

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che riguardano le pratiche più imminenti e ripetitive. I “piani strategici” si scompongo a loro
volta in:
1. Piani di sviluppo, che stabiliscono quale strategia di sviluppo dimensionale dovrà adottare
l’impresa, se puntare sulla concentrazione in un mercato, oppure nella diversificazione in
più settori.
2. Piani di investimento, che stabiliscono quali e quanti capitali investire.
3. Piani organizzativi, che stabiliscono le modalità e le strutture con cui andranno attuate le
strategie.
I piani strategici, sotto questo punto di vista, “inglobano” quelli operativi, che risultano una
ripartizione più interna, relativa a tempi più brevi, dei piani strategici. I piani operativi subiscono
suddivisione pluriennale, cioè riguardano tempi brevi di 12 mesi, mentre quelli strategici variano
dai 3 ai 5 anni. Grazie allo “scorrimento” pluriennale, si valutano e riepilogano i risultati e i
comportamenti che l’azienda ha compiuto dopo un anno, e sulla base di queste informazioni, si
inseriscono le giuste modifiche nelle nuove fasi di programmazione.
In sintesi, possiamo dunque affermare che la pianificazione gode di quattro caratteristiche:
1. Gode di formalizzazione, ovvero dovrà essere un documennto scritto e formale.
2. Mette in atto una “quantificazione”, delle risorse e dei capitali che andranno investiti.
3. Gode di integrazione, cioè riguarda l’azienda globalmente, nel suo complesso.
4. Gode di pluriennalità, cioè scandisce tempi lunghi suddividendoli in tempi brevi per
monitorare l’andamento ed il comportamento dell’impresa.

• Il carattere itinerante dei piani: obiettivi, politiche, risorse, operazioni.


Come abbiamo appena detto, la programmazione produce dei piani. Ogni piano riguarda quattro
elementi fondamentali, che sono gli obiettivi da raggiungere, le politiche da attuare, le risorse in
possesso, le operazioni da praticare. Tra questi elementi esiste una forte interrelazione, specie tra i
primi tre. Tra obiettivi, politiche e risorse, infatti, non sussiste solamente una interrelazione ma
esiste un rapporto di dipendenza. La scelta degli obiettivi da perseguire dipende sempre, infatti,
dalle politiche che si vorranno attuare nel mercato; così, allo stesso modo, le politiche risultano
attuabili o meno nel mercato a seconda delle risorse che si hanno a disposizione. In tal senso, le
risorse fungono da vincolo e da opportunità alle politiche, le politiche fungono da vincolo e da
opportunità per gli obiettivi. Politiche e obiettivi sono raggiunti infine attraverso le operazioni, che
sfruttano le risorse a disposizione. Così, la programmazione assume un carattere “itinerante”:
assume cioè l’aspetto di un iter, di un percorso che parte dalle risorse, passa per le politiche, si attua
con le operazioni e giunge agli obiettivi. Sotto il punto di vista “itinerante”, l’azienda è protesa a
raggiungere la massimizzazione dei risultati di gestione, entro i limiti dell’ambiente esterno (limiti
del mercato) ed entro i limiti delle risorse a disposizione all’interno. Sulla base di questi vincoli, si
attuano politiche finalizzate al raggiungimento di obiettivi e traguardi.

• Il budget economico, il budget finanziario e la “gap analysis” .


Per quanto concerne la valutazione e quantificazione economica delle azioni pianificate, grande
importanza assumono i documenti contabili chiamati “budget economico” e “bugdet finanziario”.
Il budget economico riporta, in maniera pregressa, la valutazione economica delle azioni stabilite
dalla programmazione, ovvero ne calcola in anticipo costi e ricavi. In base ad una valutazione di
tipo economico, sarà possibile per la gestione cambiare in tempo, modificandola, la
programmazione ove il budget economico riveli degli errori presenti nel piano precedentemente
stabilito. Il budget economico è fondamentale anche per la funzione di controllo: grazie alla
valutazione economica pregressa del piano, sarà possibile monitorare passo passo l’andamento
dell’azienda e controllare se sta rispettando le tappe stabilite in fase di programmazione. Il “budget
finanziario” predetermina invece gli investimenti che andranno attuati.
Un diverso modello di programmazione è la cosiddetta “Gap Analysis”, di matrice statunitense,
che significa “Analisi del divario”. Di quale divario stiamo parlando? Beh, diciamo che la Gap
Analysis si compone di quattro fasi:

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1. Prima si stabiliscono gli obiettivi che l’impresa dovrà raggiungere entro un determinato
periodo di tempo.
2. Dopodiché si effettua un’importante previsione delle tendenze del mercato, del suo futuro
andamento.
3. Quindi si determina e si calcola il “divario” che c’è tra gli obiettivi dell’azienda e
l’andamento del mercato.
4. Nel caso in cui il mercato non permetta il raggiungimento degli obiettivi, da parte
dell’azienda, ovvero nel caso in cui il divario esista, allora si agisce direttamente sul
mercato stesso. Si attuano innovazioni strategiche, con il fine di modificare l’assetto del
mercato per renderlo idoneo al raggiungimento dei traguardi aziendali.
Come possiamo vedere, la “Gap Analysis” è un modello aggressivo di pianificazione, che interviene
direttamente sul mercato, per plasmarlo e manipolarlo, ad esempio aumentando la pressione sulla
concorrenza, oppure introducendo nuovi prodotti.

• Le premesse previsionali conrollabili, semicontrollabili, non controllabili .


Abbiamo, già in precedenza, parlato di quanto sia necessario rendere “flessibili” i piani ideati in
fase di progettazione. Al variare, al murare, dell’ambiente esterno e delle condizioni di mercato,
potrebbero verificarsi situazioni sconvenienti per un’azienda che ha un programma totalmente
rigido e impossibile da modificare. La programmazione infatti, si basa su delle “premesse
previsionali”, ovvero premesse che riguardano il futuro svolgimento aziendali. Alcune di queste
premesse risultano essere “non controllabili”, ovvero impossibili da cambiare, da parte
dell’azienda, in corso d’opera; altre premesse sono invece “semicontrollabili”, per cui l’azienda
può intervenire e modificarle, una volta che sono già avviate, ma solo in parte; altre invece sono
“premesse controllabili”, poiché riguardano esclusivamente elementi in possesso dell’azienda,
come le sue risorse o i suoi fondi, e che quindi possono essere modificate in corso d’opera. Un
esempio di premessa controllabile è il potenziale inserimento in un mercato nuovo, che l’azienda
può decidere di fare autonomamente senza dover scontrarsi necessariamente con ostacoli esterni.

• La programmazione strategica ed operativa: i vincoli interni ed esterni .


Ogni azienda che avvia la programmazione si imbatte in una serie di vincoli, che vanno valutati
naturalmente prima di ufficializzare e formalizzare la programmazione. Tali vincoli possono essere
interni ed esterni. Tra i vincoli interni ci sono:
1. Le potenzialità produttive, ovvero quante risorse, a livello di impianti produttivi, possiede
l’azienda.
2. La potenzialità organizzativa, cioè il quantitativo di risorse umane disponibili.
3. La potenzialità finanziaria, ovvero l’ammontare dei fondi disponibili.
4. La potenzialità economico-strutturale, ovvero il rapporto tra ricavi, costi fissi e costi
variabili.
• Accanto ai vincoli interni, relativi cioè alle risorse aziendali, ci sono vincoli esterni,
relativi invece al mercato e all’ambiente con cui l’impresa entra in relazione. Tra i vincoli
esterni:
1. La crescita della domanda (la crescita dell’offerta coincide, naturalmente, con la
potenzialità produttiva)
2. La pressione della concorrenza.
3. Lo sviluppo tecnologico del mercato.
4. La regolamentazione pubblica.
E’ proprio in relazione a questi vincoli che si differenziano le programmazioni strategiche, a lungo
termine e quelle operative a breve termine. La programmazione strategica ha l’obiettivo di
prevedere gli imprevisti nel lungo termine e pianificare strategie di innovazione, per poter sedare
tali imprevisti prima che diventino minacce.

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Sotto questo punto di vista, la programmazione strategica a lungo termine modifica i vincoli
interni ed esterni, a cui l’impresa è soggetta.
La programmazione operativa invece, nel breve termine non riesce a modificare i vincoli aziendali
perché il loro cambiamento richiede tempi troppo lunghi. Per tal motivo, la programmazione a
breve termine è un processo di solo “adattamento” ai vincoli interni ed esterni, che si concretizza
mediante il diverso utilizzo delle proprie risorse.
Come possiamo capire, dunque, una programmazione strategica, a lungo termine è finalizzata al
raggiungimento di obiettivi, quella nel breve termine, operativa, è finalizzata all’adattamento, delle
risorse a disposizione, sul mercato.

• Il business plan.
Il business plan è un importante documento che contiene tutte le informazioni sul progetto
imprenditoriale. E’ il riepilogo e la stesura formale di un progetto imprenditoriale ed indica
quindi quali obiettivi perseguire, quale struttura organizzativa sarà allestita, quali saranno
modalità di produzione, di approvvigionamento, quali le risorse da utilizzare e quanti
investimenti andranno attuati.
Per stilare un business plan andranno prima definite la cosiddetta “idea imprenditoriale” o
“business idea” e la “mission imprenditoriale”. La business idea è l’identificazione – del sistema
del prodotto, ovvero quale offerta sarà proposta nel mercato, - del segmento di mercato, ovvero a
quale clientela ci si andrà a rivolgere, -delle risorse interne con le quali sarà concretizzato il
progetto. Una volta identificata la business idea, si passa a determinare la “mission”, la ragion
d’essere dell’impresa, il suo scopo.
Si potrà quindi passare alla stesura formale del business plan, che è costituito da
1. Un sommario o “executive summary”, ovvero, più che un’introduzione, un riepilogo della
business idea, cioè quali prodotti vendere a quali clienti, per mezzo di quali risorse; poi si
riepiloga anche la mission imprenditoriale, cioè qual è lo scopo dell’organizzazione e con
quali strategie innovative metterla in atto.
2. Una prima metà di business plan, in cui si spiega nel dettaglio la “business idea” e si
definisce, soprattutto, la struttura organizzativa: chi sono i fondatori, da chi è composto il
management, quali esperienze e conoscenze hanno, quali posizioni chiave ci saranno
nell’organizzazione e come, eventualmente, saranno disposte gerarchicamente.
3. Una seconda metà di business plan, in cui vengono spiegati i cosiddetti “piani operativi”. I
piani operativi sono il piano marketing e vendita, il piano produzione, il piano
approvvigionamento, il piano degli investimenti e quello economico-finanziario. I piani
operativi si fondano, naturalmente, su dettagliate previsioni. Tali previsioni dovranno
assolutamente basarsi su informazioni certe ed attendibili, visto che la formulazione di piani
sbagliati può comportare gravi conseguenze per l’impresa. Tra i piani più a rischio, spicca di
sicuro il piano delle vendite: una previsione sbagliata riguardo alle potenziali vendite, alla
domanda di mercato, può provocare l’inattendibilità e quindi la futilità del business plan.
Questo perché una previsione sbagliata al riguardo delle vendite, se messa in atto in forma di
piano, può provocare il totale insuccesso e fallimento dell’impresa. Sotto questo punto di
vista, il dato più cruciale è quello che riguarda le vendite: dalla previsione della vendita
dipendono quindi i piani della produzione, dell’approvvigionamento, il piano degli
investimenti e quello economico-finanziario.

• Le funzioni del business plan.


Il business plan svolge tre funzioni fondamentali:
1. Una funzione di pianificazione e controllo, in quanto fornisce al management il senso di
marcia da seguire ed un importante strumento di raffronto tra gli obiettivi stabiliti in fase
di programmazione e i risultati effettivamente raggiunti.

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2. La funzione di “strumento di riflessione per l’imprenditore”, in quanto può servire a
rivelare, anticipatamente, potenziali errori che verranno così evitati. Aiuterà quindi
l’imprenditore a migliorare la sua “prontezza imprenditoriale” (“enterpreneurial
alertness”) , ossia la sua capacità di visione e percezioni di possibili punti deboli, pericoli,
minacce per l’impresa.
3. Una funzione di comunicazione esterna, fungendo da ottimo biglietto da visita, formale e
dettagliato, al riguardo del progetto imprenditoriale, da presentare a potenziali investitori,
finanziatori o partner, persuadendoli così a comprare l’impresa oppure a parteciparne
coinvolgendo le loro risorse.

Capitolo X

Il sistema di controllo aziendale.

• La funzione di controllo direzionale.


La funzione di controllo conclude il ciclo direzionale. Possiamo affermare che il controllo sia
indispensabile per garantire l’ordinato svolgimento dell’attività aziendale, e che si diffonda a
qualsiasi livello e posizione dell’impresa. E’ necessario un controllo al vertice amministrativo, per
gestire l’azienda nel suo complesso, un controllo sull’organizzazione, per monitorare l’andamento
di ogni settore, nonché un controllo supervisorio generale, che monitori i singoli operatori. Il
concetto di controllo ha subito una trasformazione fondamentale, che gli ha fatto perdere dei
connotati tradizionali, inaccettabili nella moderna visione di governance aziendale. La funzione di
controllo si è trasformata infatti una uno strumento “coercitivo” e di costrizione, ad uno
strumento di “indirizzo” dell’attività aziendale. Gli operatori subordinati non vengono più
“costretti” a raggiungere certi risultati, ma vengono resi partecipi degli errori e degli sbagli che
potranno commettere e che sono stati commessi in passato, così da poter essere indirizzati verso i
corretti comportamenti da seguire a lavoro.
Il processo di controllo può svolgersi in 4 diverse modalità, che si differenziano in base ai momenti
in cui il controllo stesso è eseguito:
1. Un controllo antecedente, eseguito cioè fondamentalmente in fase di programmazione,
poiché consiste in una forma di controllo anticipato dei futuri comportamenti aziendali.

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2. Un controllo concomitante od “operativo”, che, come dice il nome, avviene in
concomitanza con l’azione. Consiste nella valutazione dei risultati raggiunti, e nel calcolo
degli scostamenti che sono avvenuti rispetto ai piani stabiliti in fase di programmazione.
3. Un controllo susseguente, che si basa cioè sulla valutazione a priori delle nuove decisioni
sulla base dei risultati raggiunti. E’ la fase in cui si calcola efficienza ed efficacia
dell’azienda, ed una volta ottenuti questi dati, si formulano nuove decisioni.
4. Un controllo prospettico, rivolto cioè alle future strategie. E’ simile al controllo
susseguente, poiché ha lo scopo di prendere decisioni future sulla base delle informazioni
al riguardo dei risultati passato. La differenza è che riguarda non future decisioni
qualsiasi ma direttamente le strategie da attuare in futuro, quindi le decisioni più
importanti e delicate dell’organizzazione.

• Il controllo concomitante ed il modello di gestione imprenditoriale MBO.


Il processo di controllo concomitante si suddivide a sua volta di 4 fasi:
1. La fissazione di obiettivi o standard da raggiungere.
2. La misurazione dei risultati ottenuti, passo passo, dall’organizzazione.
3. L’analisi di eventuali scostamenti tra i risultati ottenuti e i piani programmati in fase di
pianificazione; nonché la ricerca delle cause di questi scostamenti.
4. L’intervento, cioè l’azione retroattiva, di correzione degli scostamenti.
Questi quattro passaggi sono fondamentali e ci sono alcune fasi più delicate di altre. Infatti, si
potranno correggere gli scostamenti dai piani stabiliti, oppure i piani stessi. Sotto questo punto di
vista, la correzione dei piani pone in luce errori commessi nella fase di pianificazione degli
obiettivi, oppure nella pianificazione stessa. Per tal motivo, è estremamente delicata la fase di
decisione degli obiettivi da raggiungere, che dovranno essere scelti con attenzione e in maniera
corretta. Allo stesso tempo, è delicata anche la fase di ricerca delle cause degli scostamenti: trovare
delle cause sbagliate degli scostamenti potrà produrre la correzione di azioni giuste, e il mancato
intervento su operazioni che continueranno a essere svolte nella maniera sbagliata. C’è inoltre da
sottolineare che il centro direzionale potrà intervenire con azioni retroattive di feedback o
feedforward. Il feedabck è la correzione in se per se, atta a riportare in linea i comportamenti
aziendali con il piano; il feed farward control system è invece un sistema di controllo retroattivo
che consiste nella previsione di eventuali scostamenti futuri, proprio sulla base degli scostamenti
che si sono già verificati in passato. Il feed forward control system agisce dunque direttamente in
fase di programmazione.
Nell’ambito del controllo concomitante, è opportuno citare un modello di gestione aziendale
moderno, chiamato “MBO”, “management by objectives”, in cui il management fonda il suo
operato sulla “direzione per obiettivi e sul controllo per risultati”. Questo modello di direzione
moderno si concretizza affidando a ciascun responsabile operativo un obiettivo da raggiungere, e
la libertà di monitorare il suo settore per controllarne l’andamento. Sarà così il responsabile ad
occuparsi del controllo del settore, lasciando minor carico supervisionale alla dirigenza. Il
“management by objectives” attiva così un processo di autoregolamentazione interna, in cui i
vertici direzionali intervengono solamente in vie eccezionali, per sanare scostamenti che hanno
superato di troppo la soglia di tolleranza aziendale.

• Il controllo susseguente.
La funzione di controllo susseguente consiste nella valutazione dell’efficienza e dell’efficacia
aziendale. L’efficienza è la capacità dell’azienda di raggiungere gli obiettivi, l’efficacia indica
invece come questi obiettivi sono stati raggiunti, in quale grado. L’efficienza viene quindi
misurata con il rapporto tra gli obiettivi raggiunti e le risorse impegnate per raggiungerli;
l’efficacia viene misurata invece con il rapporto tra i risultati raggiunti e gli obiettivi che
sarebbero dovuti essere raggiunti, stipulati in fase di programmazione.

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• Il controllo strategico o prospettico.
Il controllo strategico soffre di due limiti rilevanti.
- Il primo è il limite che deriva dal collegamento tra il controllo e la fase di programmazione: se
l’azienda formulerà piani solamente in tempi brevi, il controllo sulle operazione non potrà di sicuro
estendersi oltre il tempo previsto dai piani. In caso di programmazione in tempi lunghi si potrà
effettuare invece un controllo , cioè verificare a priori la compatibilità tra obiettivi e risultati, sul
lungo tempo.
– Il secondo limite consiste nelle potenziali valutazioni errate che possono essere fatte al riguardo
dell’impiego delle risorse umane e strutturali.
Il concetto di controllo strategico nasce proprio dalla necessità di superare questi limiti, e si pone si
monitorare a priori la gestione aziendale in modo globale, ovvero controllandone l’andamento nel
lungo tempo, ed in ogni sfaccettatura dell’organizzazione. Il controllo strategico verifica dunque
tre fondamentali caratteristiche dei piani aziendali:
1. La congruenza esterna, ovvero la compatibilità della strategia rispetto al mercato e
all’ambiente esterno in cui verrà attuata.
2. La congruenza interna, ovvero la compatibilità tra il piano programmato e le strutture
organizzative interne dell’impresa.
3. L’efficienza del sistema di direzione e del management.
Ricapitolando, viene valutata la potenziale validità della strategia nel mercato, la validità delle
risorse umane e strutturali da sfruttare nel piano e la validità del management. Naturalmente si
ritiene inopportuno far valutare il management dal management stesso, cioè non si opererà una
auto-valutazione ma la si affiderà all’esterno.
Si otterrà così un vero e proprio “check-up” aziendale, che approfondirà l’intero sistema e farà
emergere stati patologici da eliminare, scarsa validità delle strategie e potenzialità non sfruttate in
termini di risorse, così da poter portare l’impresa a condizioni di efficienza ed efficacia maggiori
rispetto al passato.

• Potenziali pericoli relativi al controllo e la sua giusta attuazione.


Durante l’attuazione del processo di controllo, il management dovrà assolutamente porsi l’obiettivo
di garantire tre diversi equilibri:
1. Un giusto equilibrio tra le esigenze di creatività e conformità.
E’ un dilemma complesso infatti, per il management quello che vede contrapposte le misure con cui
standardizzare le operazioni, renderle norme rigide da rispettare e le misure con le quali lasciare
libertà creative e spirito d’iniziativa al fattore umano. Il modello di direzione tradizionale è
l’esempio di come un’eccessiva coercizione e pressione operata sul personale non porta altro che
effetti controproducenti. Al tempo stesso, sarà sicuramente dannoso per l’azienda lasciare il
personale privo di vincoli, libero di operare a suo piacimento, senza dover necessariamente seguire
norme e codici di comportamento aziendale. Occorre pertanto trovare un bilanciato equilibrio,
raggiunto, ad esempio, dai fautori dell’M.B.O. :
un management basato, infatti, sulla “direzione per obiettivi e sul controllo per risultati”, affiderà ai
singoli responsabili degli obiettivi ed anche la libertà di poterne controllare l’andamento,
innescando un meccanismo di autoregolamentazione interna, incentrando sulla figura del
responsabile il ruolo del controllore ed al tempo stesso del controllato.
2. Il giusto equilibrio nella proliferazione dei controlli, poiché l’esagerata messa in atto di
sistemi di controllo rallenterà l’attività operativa e quindi anche produttiva dell’impresa.
3. Un equilibrio bilanciato i risultati e le risorse impiegate per il controllo.
Un elevato impiego di strumenti e risorse destinate al controllo migliorerà indubbiamente la qualità
delle stime ottenute, ma al tempo stesso, comporterà di certo anche un aumento dei costi. E’ per
questo motivo che le risorse destinate all’attuazione del controllo vanno “calibrate con parsimonia”,
in funzione dei risultati che si possono raggiungere con il loro utilizzo. Solo un bilanciamento tra
risorse da utilizzare e potenziali risultati da ottenere crea il giusto equilibrio.

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Capitolo XI

La funzione di conduzione del personale:


motivazione, stile di direzione e «leadership»

• Le premesse necessarie per gli stili di direzione: varie concezioni dell’uomo e


la piramide dei bisogni di Maslow.
La conduzione del personale è uno dei nodi più critici della gestione aziendale. Uno dei problemi
maggiori nelle aziende è la gestione del fattore umano: chi meglio gestisce le risorse umane ottiene i
migliori risultati in termini di produttività ed efficienza. Dirigere, in senso tradizionale, significa
“far si che altri realizzino determinate attività”. Naturalmente, tuttavia, la direzione manageriale può
essere effettuata in maniere diverse, in “diversi stili” diremo, che dipendono dalla concezione che il
management ha al riguardo dell’uomo. Secondo la visione più remota e tradizionale, elaborata
da F.W.Taylor, l’uomo è per natura indolente, è poco ambizioso, non crede nel progresso o
nell’avanzamento di posizioni aziendali, si impegna solamente il minimo, e ricerca la
soddisfazione dei propri bisogni al di fuori del lavoro. E’ visto pertanto solo con un ingranaggio
per far funzionare la macchina aziendale. Un progresso del concetto di uomo, inserito
nell’ambito lavorativo, è stato ottenuto con la “scuola delle relazioni umane”, che vede piuttosto
l’uomo come individuo da motivare al fine del raggiungimenti dei suoi obiettivi e di quelli
aziendali. L’evoluzione ultima, si ottiene con al “concezione sistemica” di uomo, che ne valorizza
le potenzialità e sostiene che ad esso si debba affidare anche la possibilità di partecipare alle
scelte, così da sfruttarne le capacità.
Sulla base delle diverse concezioni dell’uomo, si fondano diversi stili di direzione, che possono
essere riassunti in uno stile di direzione autoritario ed in uno sitle di direzione partecipativo. Prima

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di passare alla spiegazione di tali stili, è indispensabile per noi presentare la teoria della
classificazione gerarchica dei bisogni umani, elaborata da Abraham Maslow nel suo “motivation
and personality”. La piramide gerarchica dei bisogni umani, secondo Maslow, è la seguente:
1. Alla base della Piramide Maslow pone i bisogni primari o di sussistenza, ovvero le
necessità indispensabili alla sopravvivenza, come la nutrizione, l’abitazione,
l’abbigliamento.
2. Al secondo gradino si trovano i “bisogni di sicurezza”, ovvero le esigenze di protezione
personale delle persone, dal patrimonio alla necessità di un lavoro.
3. Al terzo gradino, i “bisogni di socialità”, ovvero la necessità degli uomini di far parte di
una comunità, di trovare affetti e stabilire relazioni sociali.
4. Al quarto livello si trovano i “bisogni di stima di se”, che consistono nell’ottenere il
consenso degli altri, ed il proprio successo, ottenendo posizioni preminenti nella classe
sociale di appartenenza.
5. Al vertice della piramide si trovano i “bisogni di autorealizzazione”, ovvero la necessità
profonda dell’uomo di auto-determinarsi, riuscendo nella realizzazione di obiettivi e
sogni, che possono essere lavorativi o personali.
E’ sulla base della scala dei bisogni di Maslow che si interpretano le finalità lavorative. LA
piramide dei bisogni ha influenza naturalmente sul mondo del lavoro, specie su quello delle
imprese. Imprenditori e manager hanno naturalmente la necessità di soddisfare i loro bisogni, che
tendenzialmente coincidono con quelli dell’impresa (nonostante un manager non proprietario possa
preferire bisogni personali). Per i vertici aziendali la necessità sarà pertanto quella di soddisfare i
cosiddetti “bisogni aziendali”, che fanno parte della “dimensione socializzante”, ovvero
l’esigenza di garantire all’impresa sopravvivenza, massimizzazione dei ricavi, efficienza e
sviluppo dimensionale. I lavoratori subordinati lavorano invece per la finalizzazione della
“dimensione personalizzante”, ovvero dei loro bisogni personali, che possono anche allinearsi a
quelli dell’azienda. E’ proprio quando la dimensione socializzante (bisogni di azienda) si allinea con
quella personalizzante (bisogni dei lavoratori) che si ottiene la massima efficienza produttiva.
Naturalmente la scala dei bisogni di Maslow contiene dei punti critici:
1. La scalata dei bisogni si concretizza in questo modo: una volta soddisfatto il bisogno di una
classe, si passa al perseguimento del bisogno della classe successiva. Ed è qui il punto
critico. Per passare alla ricerca di soddisfazione della bisogno successivo, non sarà stato
necessario raggiungere il 100% della soddisfazione del bisogno precedente, ma ne basterà
anche una soddisfazione sufficiente (ad esempio all’80%).
2. La separazione tra i vari bisogni non è netta e rigida, perché tra loro c’è sempre un
rapporto di interdipendenza.
3. L’ordinamento dei bisogni creato da Maslow non è fisso, poiché è sempre plausibile un
riordinamento individuale e personale da parte dei singoli uomini, che preferiscono, ad
esempio, anteporre un bisogno di auto-realizzazione ad uno di stima di se.

• Gli stili di direzione.


E’ proprio sulla base della scala dei Bisogni di Maslow, e sulla base delle varie concezioni
sull’uomo, che sono stati elaborati nel tempo diversi stili di direzione.
In “Leadership e motivazione dell’impresa”, Mc Gregor riassume così i 2 stili opposti ed estremi
con cui le aziende sono state gestite durante tutto il 20’ esimo secolo: “”direzione autocratica” e
“direzione partecipativa”:
1. Stile di direzione autocratico.
E’ lo stile di direzione tradizionale, cosiddetto “Tayloriano”, elaborato da F.W.Taylor, che si fonda,
come abbiamo detto, su una concezione negativa dell’uomo, inteso come individuo indolente, privo
di voglia di lavorare, che non crede nel progresso dell’impresa e che serve solamente come
ingranaggio nel meccanismo aziendale. Questo tipo di idea, ha generato uno stile direzionale
intransigente, che si pone il solo obiettivo di soddisfare i bisogni aziendali (dimensione
socializzante) sacrificando quelli personali (la dimensione personalizzante). Stiamo parlando

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della “Teoria X”, quello stile di direzione che impone, ove manchi collaborazione, le direttive con
la forza.
I dipendenti andranno pertanto controllati indiscriminatamente, domati, resi “docili” e
ubbidienti. L’unico metodo da utilizzare per garantire il controllo sarà quello delle minacce e
delle punizioni. Così, i managers di stampo Tayloriano applicano un controllo sfrenato sui propri
subordinati, che, se da un lato può garantire, solo in un primo momento, un aumento della
produttività, dall’altro comporta sicuramente la frustrazione, lo stress, ’insoddisfazione dei
dipendenti. Così i lavoratori subordinati finiscono per diventare ostili, vedono i propri dirigenti
come dei nemici da cui difendersi. Escogitano meccanismi di autodifesa dai loro stessi
colleghi,distorcono le informazioni che dal basso arrivano ai vertici d’azienda, si impegnano al
minimo, sabotano i meccanismi di controllo. Così, pian piano, anche i bisogni d’azienda che i
manager cercavano di soddisfare, crollano, la produttività cala, gli obiettivi non sono raggiunti.
2. Stile di direzione partecipativo.
Con l’arrivo della modernità, è arrivata la consapevolezza che la Teoria X tayloriana non
funzionasse più. Si è cominciato a capire che l’uomo non è naturalmente predisposto, dalla
nascita, a vedere il lavoro come un peso, ad impegnarsi poco, a fuggire dalle sue responsabilità.
Tutti questi comportamenti risultano essere piuttosto la reazione, non una naturale
predisposizione, una reazione agli stili di direzione che le aziende hanno costruito per tutto
questo tempo, fondate sulla punizione e sul controllo, sul meccanismo del terrore. Fu proprio MC
Gregor in “Leadership e motivazione delle imprese” a sostenere che
“Gran parte delle forme di comportamento dipendono dal modo con cui la gente viene diretta e
organizzata. […] tutte le forme di comportamento che tendono a frustrare i piani dell’azienda non
sono manifestazioni obbligate dalla natura umana, sono il risultato che abbiamo costruito delle
organizzazioni e dei metodi di controllo che suscitano quasi inevitabilmente questo tipo di
reazione.”
Spinto dalla necessità di costruire un nuovo stile direzionale, Mc Gregor elaborò quella che viene
normalmente chiamata “Teoria Y”:
L’uomo è ora visto come una risorsa, non più come un ingranaggio del meccanismo aziendale: i
suoi talenti, le doti naturali, la creatività diventano caratteristiche fondamentali del lavoratore,
che i dirigenti d’azienda devono incentivare così che il subordinato possa ottenere la sua auto-
realizzazione all’interno dell’ambiente lavorativo; obiettivi personali dei dipendenti ed obiettivi
aziendali non devono, nella teoria Y, essere necessariamente concepiti in antitesi tra loro:
possono coincidere e rappresentare il bene comune per azienda e subordinati. Il controllo, il
potere, l’imposizione di un’autorità vigente sui lavoratori è ora vista come una pratica retrograda
e sbagliata, che non funziona. La teoria Y si fonda invece sul concetto che i lavoratori siano
pienamente in grado di auto-controllarsi ed auto-responsabilizzarsi, e bisogna concedergli la
chance di provarlo. Così, si affidano compiti con maggiore serenità ai dipendenti, consci ora dei
vantaggi che possono ottenere a lavoro compiuto: auto-realizzazione, fiducia dei dirigenti,
successo e scalate dei piani gerarchici d’azienda. Si deve ora dare la possibilità, ai dipendenti, di
ottenere il proprio successo senza coercizioni e limitazioni, senza manipolazioni esterne. Per far
si che il subordinato ottenga i propri obiettivi lavorativi personali, soddisfacendo al contempo i
bisogni di azienda, per fare quindi in modo che la dimensione socializzante e quella
personalizzante si “allineino”, c’è bisogno di un grande supporto da parte del manager. Il
manager è chiamato ad un lavoro molto più delicato e complicato rispetto alla prassi della
direzione tradizionale. Dovrà ora costruire l’atmosfera giusta e l’organizzazione delle mansioni
adatta a valorizzare le caratteristiche dei dipendenti. Dovrà avere fiducia in loro, incentivare al
“team work”, rappresentare per loro una fonte d’aiuto e non più una minaccia.

• L’Ouchi e il concetto di “clan”.


Come conseguenza della Teoria Y di Mc Gregor, è stata elaborata da William Ouchi in “Markets,
bureaucracies and clan”, il cosiddetto “principio del clan”. Secondo la teoria di Ouchi, è
importante sottolineare la possibilità che si creino, nella compagine aziendale, strettissimi rapporti

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di fiducia e collaborazione, all’interno dello stesso settore. Condizioni di grande collaborazione e
condivisione di valori comuni, in un settore, permette la creazione dei cosiddetti “clan”, ovvero
gruppi di lavoro che si impegnano insieme per il raggiungimento degli obiettivi del proprio
settore. Ciò crea grandi benefici per l’impresa, e quasi annienta le barriere gerarchiche,
garantendo infatti un controllo interno, essendo i membri del clan stesso i più interessati al
raggiungimento degli obiettivi, e quindi a garantire il controllo affinché essi siano ottenuti.

• La teoria di Herzberg e i fattori motivazionali.


Data la grande evoluzione in dottrina, ottenuta con la Teoria Y, al fine di controllare il personale,
sono stati surclassati i metodi retrogradi di stampo tayloriano, fondati su minacce e punizioni, e si è
passato a incentivi finalizzati a far lavorare meglio i dipendenti. Proprio sulla base della piramide
dei bisogni di Maslow, si è notato come non sempre un l’incentivo giusto per motivare il personale
è rappresentato da una maggiore retribuzione o da un conguaglio in termini di denaro. Specie per
coloro che hanno raggiunto dei soddisfacenti standard di vita, infatti, che hanno raggiunto cioè il
quarto gradino della scalata dei bisogni di Maslow, risultano più efficaci incentivi morali, di
gratificazione, di attestazione di stima. Questo perché, specie per chi gode di buone condizioni di
vita, i bisogni da realizzare saranno per lo più bisogni di auto-realizzazione. Su questo tema ha
elaborato la sua teoria Herzberg, il quale ha distinto tra “bisogni soddisfattivi” e “bisogni
insoddisfattivi”. Come è intuibile, i bisogni soddisfattivi sono quelli che danno soddisfazione a chi
li compie, ed in ambito lavorativo sono rappresentati dai fattori motivazionali, dal raggiungimento
del successo e dalla gratificazione. E’ di questo che hanno bisogno, quindi, tantissimi dipendenti.
Tra i bisogni insoddisfattivi troviamo invece le necessità, dei dipendenti, di svolgere i lavori a loro
assegnatogli, anche se questo può provocare insoddisfazione, noia, frustrazione.
Possono quindi essere fatti due tipi di incentivi, i primi di tipo individuale, concretizzati nel breve
periodo con aumenti salariali, nel lungo, con piani di incentivi; i secondi sono tipi di incentivi di
gruppo, che si concretizzano in motivazioni e gratifiche nel breve termine, mentre nel lungo
termine addirittura con “stock option”. Per “stock option” si intende l’offerta, da parte
dell’impresa e rivolta ad un dirigente, di poter acquistare azioni dell’impresa stessa, ad un prezzo
concordato quando viene proposta l’offerta. Se il dirigente accetterà l’offerta in seguito, e nel lasso
di tempo che sarà trascorso, il prezzo dell’azione sarà salito rispetto a quello concordato, il dirigente
lucrerà su questo scarto.

• La corretta assegnazione delle mansioni e la job analysis .


Ora che abbiamo chiarito quanto sia importante allineare la dimensione personalizzante (bisogni
dei lavoratori) e la dimensione socializzante (bisogni dell’azienda), per ottenere la massima
efficienza, dobbiamo spiegare come questo sia raggiungibile. La soluzione principale consiste nella
creazione di una soddisfacente struttura organizzativa, capace di assegnare a ciascun dipendente la
mansione che ne valorizzi di più le qualità. Per riuscirci, è necessario per il management effettuare
la cosiddetta “job analysis”, cioè l’analisi approfondita delle singole mansioni e posizioni in
azienda, uno strumento che funge da guida preziosa per il processo di recluitement e selezione del
personale.
Per migliorare il rendimento del fattore umano, poi, è possibile anche ricorrere alla modifica delle
mansioni già esistenti. Le mansioni possono essere infatti “ruotate”, “ampliate” ed “estese”. Per
“rotazione” delle mansioni si intende l’iniziativa di far appunto “ruotare” il dipendente in più ruoli
e più mansioni, così da rendergli il lavoro meno monotono e permettergli di apportare maggiore
produttività personale. L’ampliamento o “job enlargment” consiste invece nell’affidamento, ad un
dipendente, non solo della sua mansione ma di un intero ciclo di operazioni. L’estensione, di solito
verticale, si concretizza invece mediante il coinvolgimento del responsabile anche nella fase
decisionale, e non solo in quella operativa, concernente una mansione.

Capitolo XII

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Il sistema informativo e la creazione della conoscenza.

• Il sistema informativo nell’organizzazione aziendale.


Per creare un raccordo efficace tra le varie componenti dell’impresa è indispensabile il ruolo
dell’informazione, che deve generare conoscenza. La conoscenza sono la base su cui si fonda il
processo decisionale ed anche quello operativo: il management, prima di prendere una decisione,
dovrà disporre di un quadro informativo chiaro e completo al riguardo della materia che sta
trattando. E’ quindi fondamentale la presenza di un sistema informativo S.I. che faccia fluire
conoscenza nell’organizzazione, fornendo aggiornamenti su ciò che avviene ad ogni membro
dell’impresa. Il sistema informativo può essere idealmente scomposto in Sistema Informativo
Direzionale S.I.D. e sistema operativo. Il primo elabora le informazioni per il management, il
secondo lo fa per favorire lo svolgimento delle attività operative.
Tutte le informazioni vengono create, elaborate e poi trasmesse. Nella fase di creazione si
ottengono degli “elementi grezzi”, ottenuti con una raccolta di dati, in quella di elaborazione si
trasformano in elementi utili che infine vengono trasmessi al management e ai centri operativi. Le
informazioni dovranno avere cinque caratteristiche: chiarezza, precisione, completezza,
tempestività ed economicità. Dovranno essere cioè chiare, precise, complete, giungere
tempestivamente a chi di dovere, e non dovranno costare più dei risultati che sono in grado di
rendere. Nasce nelle aziende il problema, dunque, della “gestione della conoscenza” o “knowledge
management”, che vedremo ora come si affronta.

• Gli elementi costitutivi del sistema informativo.


Il sistema informativo è costituito da:
1. Un partimonio di dati.
2. Un insieme di procedure.
3. Un insieme di mezzi e strumenti.
4. Un insieme di persone.
Analizziamone ogni componente singolarmente.
1. Il patrimonio dei dati, in possesso di un’impresa, costituisce la “materia grezza” su cui
lavorare al fine di trasformarli in informazioni utili alla gestione. Il dato infatti rappresenta
la sintesi grezza di un fenomeno, e diventerà informazione quando a questo elemento grezzo
verrà associato un significato utile per l’impresa. Ad esempio, i prezzi di ciascun detersivo
di un supermercato sono dati, elementi grezzi, mentre l’elenco delle marche di detersivi più
vendute nell’ultimo mese rappresentano un’informazione utile per l’azienda. I dati
rappresentano quindi l’input iniziale del processo informativo: l’impresa dovrà assicurarsi
con cura, dunque, un patrimonio di dati, presso quali fonti reperirli, con quali mezzi
elaborarli e dovrà bilanciare il costo del reperimento dei dati con le rendite che tali dati
possono offrirle. I dati si suddividono in dati interni ed esterni. I dati interni provengono da
fonti contabili, come il report relativo alle vendite, e da fonti extracontabili, come il
numero di dipendenti che ha timbrato il cartellino; i dati esterni provengono invece dal
mercato e dal macro-ambiente esterno.
2. Le procedure, ovvero le modalità di acquisizione, elaborazione e trasmissione di dati e
informazioni, che vengono standardizzate e rese appunto procedure, regole, norme, da poter
ripetere nel tempo. Occorre conoscere in maniera preventiva quali procedure utilizzare,
poiché, come abbiamo detto, le informazioni devono essere tempestive, ovvero arrivare in
tempo al destinatario, così che possa prevedere i problemi e sanarli in anticipo. Nasce da qui
la necessità di procedure ben chiare, che possano essere utilizzate nel tempo ripetutamente.
3. I mezzi tecnici.
Prima dell’introduzione dei calcolatori elettronici, la fase di reperimento dei dati e di archiviazione
veniva eseguita manualmente. Oggigiorno, invece, l’avvento e l’evoluzione pazzesca delle

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tecnologie ha permesso di utilizzare calcolatori elettronici, mezzi principe della fase di elaborazione
e reperimento delle notizie. Con i mezzi elettronici è infatti possibile razionalizzare e automatizzare
l’archiviazione e il reperimento dei dati.
4. Le persone.
In molte aziende viene affidata una specifica funzione informativa ad un team, ma possiamo dire
che, tendenzialmente, la produzione di informazioni interessa ed investe nella sua totalità l’intera
organizzazione aziendale, sia in veste “attiva”, come reperimento di informazione, che in veste
“passiva”, come ricezione di esse. La componente umana è importante, infatti, specialmente
durante la ricezione: la qualità delle informazioni dipende anche da come esse vengono recepite,
dalla minore o maggiore capacità, tutta propria dell’essere umano e non delle macchine, di
cogliere i giusti significati e di interpretare correttamente.

• Il sistema informativo direzionale (S.I.D.) e il Business intelligence .


Abbiamo visto come il sistema informativo si suddivide in S.I.D. , sistema informativo direzionale
e in sistema operativo. Il primo fornisce e riceve informazione a e da il management ed i singoli
centri decisionali; il secondo fornire e reperisce informazioni e dati che riguardano le singole
procedure operative. Tra il Sistema informativo direzionale e quello operato c’è un continuo
rapporto di interdipendenza. Essi si uniscono in un sistema integrato con il modello “E.R.P.”,
enterprise resource planning, che sta proprio per “sistemi informativi integrati”: è un modello di
sistema informativo che consiste nell’elaborazione di moduli, i quali contengono le informazioni
relative ai singoli settori. Ogni modo potrebbe essere anche autonomo ed indipendente, ma viene
integrato in un sistema unico insieme agli altri, capace di fornire informazioni all’azienda in
maniera globale.
Soffermiamoci ora sul S.I.D., cioè sul Sistema informativo direzionale. Il S.I.D. invece sia il
management che i singoli centri decisionali ed è in grado di produrre informazioni in modalità
“push” ed in modalità “pull”. Le informazioni in modalità “push” assumono questo nome perché
sono richieste in maniera anticipata dal management, che le riceve periodicamente, e sono
indispensabili per un corretto processo decisorio. Le informazioni in modalità “pull” sono invece
inviate al management ed ai centri decisionali direttamente dagli utenti, in maniera spontanea, senza
che ne venisse predeterminata la richiesta.
Il Sistema informativo direzionale si articola poi in 3 fasi o momenti distinti:
1. La prima è il reperimento dei dati.
2. La seconda è l’archiviazione di tali dati nel “datawerehouse”, ovvero nel “magazzino
dati”.
3. La terza è l’elaborazione dei dati e trasformazione in informazioni, operato dal cosiddetto
“Business intelligence”, cioè dal sistema di analisi dei dati.

• Il knowledge management e la spirale della conoscenza.


Una volta elaborate le informazioni, occorre attuare una buona “gestione della conoscenza”, ovvero
una buona fase di “knowledge management”. La knowledge management può essere definita come
l’approccio strategico che identifica la conoscenza come una risorsa, una risorsa con la quale è
possibile raggiungere un miglioramento sia dei singoli individui dell’azienda, sia dell’intera
organizzazione. Tuttavia la conoscenza, per essere utilizzata da tutta l’azienda, deve passare dalle
mani del singolo a quelle dell’intera organizzazione. E’ quando la conoscenza viene resa accessibile
a persone diverse dai suoi creatori, che l’azienda diventa un sistema cognitivo. L’obiettivo, cioè, è
trasformare le conoscenze individuali in conoscenze ambientali, renderle da capitale umano a
capitale strutturale: in altre parole, queste conoscenze devono entrare in possesso di tutta
l’organizzazione, e per riuscirci, è necessario operare una standardizzazione di tali conoscenze in
norme fisse e ripetibili. Esistono, tuttavia, due tipologie di conoscenze: delle conoscenze tacite ed
esplicite.
1. Una conoscenza tacita.

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E’ quella conoscenza che i singoli individui mettono in pratica, ma che non sanno spiegare né
esprimere a parole. Di conseguenza, un problema della conoscenza tacita è la possibilità di
trasmissione agli altri, in quanto non riesce ad essere codificata sotto forma di linguaggio.
2. Una conoscenza esplicita.
La conoscenza esplicita riesce, invece, ad essere spiegata a parole da parte di chi la crea, e
trasmessa agli altri. Una volta codificata sotto forma di linguaggio, la conoscenza viene
formalmente inserita in una norma, in una regola, che diventa replicabile da tutti i membri
dell’azienda.
Sotto questo punto di vista, l’obiettivo di rendere l’azienda un sistema cognitivo, cioè un sistema
che genera conoscenza, essa dovrà riuscire ad appropriarsi delle conoscenze dei singoli. Per farlo,
avvengono due processi contemporaneamente: da un lato il passaggio delle conoscenze dai singoli
individui all’azienda; dall’altro la trasformazione da conoscenze tacite a conoscenze esplicite.
L’insieme di questi due processi ne forma uno più grande, chiamato “Spirale della conoscenza”, che
si articola in quattro step che si ripetono potenzialmente all’infinito, disegnando appunto il
movimento ipnotico e ciclico di una spirale. La spirale della conoscenza si articola in 4 fasi:
1. Socializzazione (passaggio da conoscenza tacita a conoscenza tacita).
2. Esteriorizzazione (passaggio da conoscenza tacita ad esplicita).
3. Combinazione (passaggio da conoscenza esplicita ad esplicita).
4. Interiorizzazione (passaggio da conoscenza esplicita ad implicita).
Analizziamo nel dettaglio ciascun passaggio della spirale della conoscenza.
1. Socializzazione.
E’ la fase in cui una conoscenza tacita viene trasmessa. Come sappiamo, tuttavia, non è possibile
trasmettere una conoscenza tacita a parole, proprio per il suo significato stesso. Può essere
tuttavia acquisita attraverso l’osservazione e l’imitazione, cioè attraverso un processo di mymesis
della pratica. Così, molte aziende creano dei veri e propri “interaction fields”, ovvero campi di
lavoro interattivo, in cui più dipendenti si trovano a lavorare a stretto contatto ed in cui il
processo imitativo è quindi facilitato. In questi interaction fields, spesso le conoscenze tacite
vengono acquisite attraverso l’osservazione e l’imitazione, e quindi passano da individuo a
individuo (per questo la fase è chiamata socializzazione).
2. Esteriorizzazione.
Una volta passate nelle mani di un altro individuo, egli cercherà di fornire un’espressione
linguistico-comunicativa a tale conoscenza, codificandola e rendendola nei fatti esplicita.
3. Combinazione.
Nel tentativo di rendere la conoscenza da un codice ad una pratica, una norma, una routine da
poter mettere in atto in maniera automatica, si attua la combinazione. Ovvero tutti coloro che
hanno acquisito la conoscenza, la spiegano secondo la loro visione della realtà: si passa quindi
ad un confronto tra opinioni, per capire ogni sfaccettatura della conoscenza e racchiudere tutte
queste sfaccettature nella procedura finale, che andrà a costituire un patrimonio strutturale
dell’impresa, e sarà replicabile da tutti i suoi partecipanti.
4. Interiorizzazione.
Naturalmente, una volta codificata in una procedura, la conoscenza potrà essere messa in atto,
presupponiamo, da un individuo che non ne aveva mai sentito parlare prima. Egli entrerà in
possesso dunque di una conoscenza ormai esplicita, ed, a sua volta, la metterà in pratica in
automatico trasformandola, ancora una volta, in una conoscenza tacita. Il ciclo si è concluso, e
la conoscenza, da tacita, è passata a diventare esplicita ed è poi tornata tacita, nel suo vorticoso
movimento a spirale.

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Capitolo XIII

La gestione commerciale ed il marketing.

• Il rapporto tra strategie competitive e funzionali e le tre tipologie di funzioni


operative.
Concentrandoci ora sulle strategie funzionali: occorre anzitutto ricordare lo stretto rapporto di
interdipendenza che esiste tra queste strategie e quelle competitive.
La gestione operativa si concretizzerà, infatti, con modalità dissimili da azienda ad azienda. Sotto
questo punto di vista, le funzioni operative si distinguono in 3 tipologie differenti:
1. Funzioni primarie od organiche, uguali in tutte le aziende, in quanto funzioni svolte
internamente, specializzate. Sono le funzioni di produzione, vendita, finanza e logistica.
2. Funzioni “operative complementari” o “di supporto”, talvolta delegate all’esterno, sono le
funzioni di selezione del personale, ricerca e sviluppo, contabilità e bilancio.
3. Funzioni ausiliarie, molto spesso delegate all’esterno, sono le funzioni di trasporto,
distribuzione, manutenzione e pubblicità.

• L’orientamento al business e il marketing.


Con l’intento di delineare il concetto di marketing, passiamo in rassegna ai vari orientamenti che,
durante la storia, sono stati seguiti dall’azienda nei confronti del mercato.
Seguendo un excursus temporale, l’impresa poteva in passato seguire:
1. Un orientamento verso il prodotto, ovvero l’impresa si concentra soprattutto sulla cura
del ciclo di produzione, al fine di garantire maggiore qualità al prodotto e costi più bassi.
Un tal orientamento funziona solamente nell’ipotesi di un mercato “facile”, come un
mercato del venditore, in cui basta produrre a prezzi competitivi e la vendita è assicurata.
2. Un orientamento verso il mercato, che rappresenta una prima evoluzione dell’orientamento
sul prodotto ed in cui si analizza la domanda del mercato in cui si opera, al fine di scovare
opportunità all’interno di esso. In tempi odierni, tuttavia, si è notato sempre più
evidentemente come per sopravvivere, un’azienda sia necessariamente spinta a spostarsi su
più mercati.
Proprio da questa esigenza, nasce in tempi più recenti il cosiddetto:
3. Orientamento al business, che ha l’obiettivo di trovare opportunità profittevoli e nuove
occasioni non solo nel mercato in cui si opera, ma in tutti i mercati in cui sia possibile
vendere il proprio prodotto. E’ proprio la caratteristica di muoversi su più mercati,
l’elemento che differenzia un orientamento al business da uno sul mercato.
Alla base dell’orientamento al business c’è il concetto di marketing. Il marketing è quel processo
aziendale che si occupa di analizzare i mercati, la clientela, la domanda in ciascun mercato; di
porre in atto le giuste campagne promozionali, atte ad attrarre la clientela; si occupa di
programmare i prodotti che saranno e venduti e di studiare la concorrenza; il processo di
marketing contiene al suo interno anche il processo di vendita. Riguardando attività di
programmazione, produzione, promozione e distribuzione, il marketing, che è una vera e propria
filosofia dell’impresa, non investe solo la gestione ma anche l’organizzazione. Nasce spontaneo,

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infatti, suddividere i vari compiti relativi al marketing nella struttura organizzativa. Si suddividono
così “attività operative”, relative alla fase di vendita, da “attività di marketing”, relative alla
programmazione, alla promozione dei prodotti e all’orientamento della gestione. Le attività
operative richiedono un contatto diretto col cliente, quelle di marketing competenze di studio: per
tal motivo è impensabile un accentramento di entrambe le funzioni al vertice d’azienda, essendo
richieste competenze differenti, e sarà indispensabile un decentramento delle responsabilità.

• Le politiche di marketing, o “4 P”, o “Mix di marketing”, le strategie di


“costumer satisfaction” e di “time-based competition”.
Le politiche di marketing, nel loro insieme, compongono il cosiddetto “mix di marketing” o le
cosiddette “4 P”: sono 4 infatti, le principali politiche di marketing o scelte di marketing e
riguardano le cosiddette 4 P, cioè i prodotti, i prezzi, la promozione e i canali di distribuzione. Il
nome “4 P” proviene dalla traduzione in inglese delle scelte messe in atto con le politiche di
marketing, scelte relative appunto i products, prices, promotions and places. Le strategie di
marketing principali, invece, ovvero le strategie che le aziende mettono in atto al fine di ottenere
maggiori porzioni mercato e di ottenere un vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza
sono due, e si chiamano “costumer satisfaction” e “time-based competition”.
1. La costumer satisfaction è una strategia aziendale volta a differenziarsi dalla
concorrenza e contemporaneamente fidelizzare il cliente. Questi due obiettivi, la
“costumer satisfaction and retention” dei clienti, viene concretizzata attraverso una forte
cura dei servizi pre e post-vendita. Grazie all’elargizione di servizi migliori,
quantitativamente maggiori, rispetto alla concorrenza, è possibile garantire la
soddisfazione (satisfaction) dei clienti e la loro fidelizzazione (retention).
2. La “time-based competition” consiste invece nel migliorare costantemente, nel tempo,
i propri prodotti ed i propri servizi così da poter occupare per sempre preminenti
posizioni concorrenziali.

Prima di passare all’applicazione, nel pratico, delle strategie e delle politiche di marketing, è
assolutamente indispensabile per l’azienda, tuttavia, scegliere il cosiddetto “market-target”, ovvero
il mercato bersaglio. Si tratta della scelta del mercato più idoneo ad attuare politiche e strategie di
marketing, mercato che viene scelto in base ad un approfondito ed accurato studio del
comportamento dei consumatori, della domanda, della concorrenza, delle motivazioni di acquisto.

• Il comportamento del consumatore, le motivazioni d’acquisto e la


segmentazione del mercato.
Poniamoci ora nei panni del consumatore. Il reddito netto di ciascun consumatore si suddivide in
due parti: la prima impegnata per il soddisfacimento di bisogni essenziali (come l’auto-
sussistenza, l’abitazione), la seconda disponibile per bisogni voluttuari, ovvero non essenziali. Il
reddito rappresenta quindi la causa primaria e più importante che spinge o meno un consumatore a
comprare. Nel caso in cui il consumatore possegga un “reddito impegnato”, limiterà le spese ai soli
bisogni primari. Nel caso in cui un consumatore possegga una “reddito discrezionale”, sarà
predisposto a spendere ciò che gli rimane delle spese essenziali in ulteriori spese, finalizzate a
soddisfare bisogni voluttuari.
Focalizzandoci sul processo di selezione e acquisto di un prodotto, un consumatore effettuerà tre
scelte: la scelta di un bisogno, di un prodotto, e di una marca. Tornando dal punto di vista delle
imprese, esse subiscono delle conseguenze per ogni scelta effettuata dal consumatore. Quando il
consumatore sceglie il bisogno da soddisfare, di fatto provoca una “concorrenza indiretta”,
poiché scegliendo ad esempio il bisogno di “svago”, automaticamente esclude un bisogno ad
esempio di “fitness”. In questo modo instaura una concorrenza indiretta tra il mercato del fitness e
quello dello svago. Quando poi il consumatore sceglie un prodotto, provoca una “concorrenza

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allargata”, in quanto dovrà scegliere tra i vari prodotti presenti in un mercato, quello più idoneo a
soddisfare il suo bisogno. Una volta identificato il prodotto, il consumatore dovrà scegliere quale
marca dello stesso prodotto preferire, instaurando così una “concorrenza diretta” e tangibile che
ci sia.
Il consumatore, poi, effettua anche scelte relative al luogo, alla modalità di pagamento, al tempo.
Come ogni persona, anche il consumatore ha delle abitudini, nel nostro caso “abitudini di
acquisto”, che le aziende si impegnano ad identificare così da poter allinearsi a tali abitudini ed
ottenere profitto.
[In tal senso assume, in tempi odierni, grande rilevanza “l’info marketing”, ovvero il processo di
identificazione della clientela e delle sue abitudini attraverso internet. Attraverso social media e
inserzioni pubblicitarie poste in essi, è possibile rintracciare, mediante algoritmi, la clientela più
interessata alla nostra offerta.]
Ma il fattore che l’impresa vuole più di tutti conoscere è il perché, le cause, di un determinato
acquisto da parte del consumatore. Cause, o motivazioni di acquisto, che sono classificabili in tre
diverse tipologie:
1. Motivazioni razionali, ovvero cause dettate dal razionale calcolo economico del rapporto
qualità-prezzo, effettuato dal consumatore.
2. Motivazioni emotive, cioè dettate dal gusto, dalle voglie, dai sentimenti, dalla personalità del
consumatore.
3. Motivazioni di patrocinio, ovvero cause dettate dal rapporto di fiducia e fedeltà che si è
creato tra il consumatore e la marca. Una volta diventato acquirente stabile e fedele, il
consumatore sarà spinto a comprare nuovamente sempre dalla stessa azienda, diventandone
“patrocinatore”.
Naturalmente, poi, le motivazioni si ricollegano alle condizioni di vita di un consumatore. Ciascun
consumatore compra in base al rapporto prezzo del bene-reddito disponibile: naturalmente ci sono
prodotti troppo costosi, che superano il reddito disponibile e non possono essere comprati.
Tornando al punto di vista dell’impresa, occorre dire che, sulla base delle motivazioni di acquisto,
delle condizioni e del reddito del consumatore, delle sue abitudini, per le aziende sarà possibile
effettuare una cosiddetta “segmentazione del mercato”. Significa che le aziende suddividono i
mercati in “segmenti” o “sub-mercati”, nei quali raggruppano tutti quei consumatori che hanno
dimostrato le più simili caratteristiche, i più simili parametri, i redditi più simile, le scelte di
acquisto e le motivazioni più simili, le più simili abitudini di acquisto. Entrando pi nello specifico, il
processo di segmentazione di un mercato viene eseguito sulla base di 6 parametri fondamentali:
1. Parametri demografici, concernenti l’età, il sesso, la famiglia del consumatore.
2. Parametri socio-economici, relativi al reddito, alla professione esercitata dal
consumatore.
3. Parametri culturali, relativi alla razza, all’etnia, al credo religioso.
4. Parametri ubicazionali, che riguardano le zone di appartenenza, urbane, suburbane o
rurali.
5. Parametri psicografici, che analizzano la personalità, l’autonomia decisionale, le
abitudini.
6. Parametri comportamentali, che concernono invece la propensione all’acquisto, il grado
di fedeltà alle aziende, i prodotti più ricercati.

• Philip Kotler e le varie strategie di marketing.


Al riguardo del concetto di segmentazione del mercato, ha fornito un importante contributo Philip
Kotler, uno tra i più grandi teorici delle strategie di marketing della storia. Il Kotler ha innanzitutto
individuato le 5 caratteristiche più importanti dei segmenti di mercato: la misurabilità, la rilevanza,
l’accessibilità, la differenziabilità e la praticabilità. Sulla base di questa analisi, le imprese possono,
secondo il Kotler, adottare tre differenti “strategie di marketing”:
1. Un marketing indifferenziato, ovvero rivolgersi al mercato come se fosse omogeneo, come
se non fosse mai stato frammentato nei vari segmenti. Nel caso del marketing

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indifferenziato, ci si rivolge appunto indifferenziatamente a tutti i potenziali clienti di un
mercato, adottando un solo programma standard di marketing. E’ ciò che ha effettuato, in
passato, la Volksvagen, proponendo il famoso “maggiolino” sul mercato, senza indirizzarlo
ad un sub-mercato rispetto che ad un altro.
2. Un marketing differenziato, basato cioè sulla segmentazione in submercati e sull’adozioni
di differenti programmi di marketing a seconda di ciascun segmento. E’ la strategia
utilizzata dalla fiat, che propone diversi tipi di macchine a seconda dell’utilizzo che
dovranno farne i clienti.
3. Un marketing concentrato, che utilizza cioè un solo programma di marketing e lo indirizza
tuttavia ad un mercato di nicchia, ad un segmento. E’ la strategia utilizzata dalla “Porsche”,
che destina la vendita dei suoi prodotti esclusivamente al submercato delle “macchine
sportive di classe”.

• La politica del prodotto.


La politica del prodotto di una marca consiste nella scelta di importanti finanziamenti, che
implicano strutture rigide, che durano nel tempo, difficili da smantellare una volta messe in atto. Le
politiche del prodotto riguardano 4 importanti aspetti:
1. L’ampiezza, l’assortimento e la coerenza della gamma dei prodotti.
2. La differenziazione del prodotto, ovvero quale nicchia di mercato scegliere in base alla
forza della concorrenza
3. L’innovatività dei prodotti, ovvero la possibilità del loro rinnovamento ed il loro grado di
novità.
4. La riconoscibilità della marca, con annessa scelta della confezione.
Analizziamo ciascuna di queste politiche singolarmente.

• La gamma dei prodotti.


La gamma dei prodotti è caratterizzata da 3 variabili: la sua ampiezza, ovvero l’estensione della
gamma, la sua “profondità”, ovvero l’assortimento dei diversi prodotti in essa contenuti, e la
“coerenza”, ovvero quanto sono interrelati in un quadro unitario i prodotti.
Anticipando che sia molto difficile che un’azienda venda un solo prodotto, introduciamo a tal
proposito 3 tipologie di prodotti che possono essere venduti: i prodotti da reddito, prodotti strategici
o strumentali, e prodotti da richiamo.
1. Prodotti di reddito, sono i prodotti principali della gamma, quelli da cui l’impresa si aspetta
il maggior profitto o “cash flow” (rapporto tra costi e ricavi dell’investimento).
2. Prodotti strategici o strumentali, che sono quei prodotti “necessari” all’azienda,
indispensabili alla vendita dei prodotti da reddito. Per fare un esempio, io sono un venditori
di articoli on-line di prima infanzia. Vendo ciucci dispensatori di frutta. Il prodotto di
reddito, tuttavia, sono le singole tettarelle in silicone, che costituiscono il ricambio con cui
continuare ad usare il ciuccio. Per vendere le tettarelle in silicone, è indispensabile produrre
e vendere anche il ciuccio.
3. Prodotti da richiamo. Si tratta di quei prodotti ausiliari e trasversali al mercato, spesso
composti da gadget e accessori al prodotto da reddito. Servono principalmente ad avvicinare
il consumatore alla gamma completa, e quindi al prodotto da reddito, dato il loro prezzo
contenuto. Per continuare con il mio esempio, vendo anche dei cucchiaini termosensibili con
cui poter inserire la frutta nel ciuccio e misurarne il calore, per non far scottare il bambino
che ne usufruisce. Il cucchiaino termosensibile può essere venduto anche autonomamente,
ma di sicuro attrae il consumatore alla gamma completa.
Naturalmente la gamma è poi assortita, cioè ha diverse variabili di prodotti, variabili che dipendono
dalla segmentazione del mercato e dalla capacità di invecchiamento di ciascun prodotto.

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• La differenziazione dei vari prodotti.
La differenziazione dei prodotti è l’assegnazione di ciascun prodotto al segmento di mercato (od
all’interno mercato, nel caso di una politica di marketing indifferenziata) in cui risulta più
facilmente vendibile. Per concretizzare la differenziazione, è necessario attuare il “posizionamento”
dell’offerta. Per “posizionamento” si intende il processo di studio del mercato e dei suoi segmenti,
delle abitudini e delle scelte dei consumatori all’interno di essi. Una volta scelto l’intero mercato
o solo un segmento, viene appunto “posizionato” il prodotto all’interno di essi, nella nicchia,
dunque dove ci sono i consumatori più predisposti, per caratteristiche, all’acquisito di prodotti
simili a quelli dell’impresa. La scelta della nicchia in cui posizionare il mercato, in cui dunque
“differenziarsi”, dipende naturalmente anche dalla forza della concorrenza. Va scelto il mercato od
il segmento in cui è possibile ottenere, in tempi brevi o lunghi, una posizione di vantaggio
competitivo rispetto alla concorrenza.

• Il ciclo di vita del prodotto e la necessità di ringiovanimento della gamma.


Nel tentativo di trattare il tema dell’invecchiamento e del rinnovamento della gamma dei prodotti,
approfondiamo il concetto di “ciclo di vita del prodotto”.
Ciascun prodotto ha il suo ciclo di vita, che si svolge in questo modo:
1. Introduzione, nel mercato, del prodotto, fase caratterizzata dai primi ricavi, lenti e
graduali. Il prodotto viene venduto a prezzi alti, a causa degli elevati costi aziendali dovuti
al finanziamento delle attività di distribuzione e sponsorizzazione del prodotto.
2. Sviluppo. E’ la fase di maggiore redditività del prodotto: i risultati delle campagne
promozionali cominciano farsi sentire, provocando un grande aumento del volume delle
vendite e una prima fase di “notorietà” del prodotto.
3. Maturità. E’ la fase in cui la domanda si stabilizza, ovvero non c’è più, come nella fase di
sviluppo, una grandissima richiesta del prodotto ma continuano comunque ad esserci i
ricavi.
4. Declino. E’ la fase in cui il volume delle vendite crolla, a causa dell’obsolescenza
(invecchiamento) del prodotto oppure dell’immissione nel mercato di prodotti nuovi da
parte della concorrenza.

La curva del ciclo di vita di un prodotto dipende naturalmente da vendite e profitti, ma anche,
talvolta dalle politiche effettuate dalle stesse imprese produttrici. Alcune aziende praticano infatti
politiche di invecchiamento precoce, o meglio di “obsolescenza programmata”, sul loro stesso
prodotto: fanno in modo che il prodotto risulti obsolescente prima del suo reale invecchiamento
sul mercato, inserendone il nuovo modello e guadagnando ricavi dal pretesto di “novità”; altre
aziende praticano invece politiche di ringiovanimento del prodotto, fornendo ad esso un nuovo
ciclo di vita.

• La matrice del portafoglio prodotti, la versione originale della Boston


Consoulting Group.
Il ciclo di vita di un prodotto può essere filtrato anche secondo una diversa ottica, quella di una
“matrice del portafoglio prodotti”. Si tratta di una teoria, elaborata dalla B.C.G., Boston Consulting
Group, la quale suddivide 4 ideali tipologie di prodotti secondo il criterio del “cash-flow” (flusso di
cassa, significa il bilancio tra ricavi e costo dell’investimento). I parametri, grazie ai quali collocare
ciascun prodotto nella sua area di appartenenza, sono due:
- La quota di mercato ottenuta dall’azienda nel settore.
- Lo sviluppo della domanda nel mercato.

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In base a questi due criteri, la teoria della matrice del portafoglio prodotti classifica 4 diversi tipi di
prodotti:

1. Prodotti marginali o “dogs” , ovvero prodotti caratterizzati da una bassa quota di mercato,
in cui lo sviluppo della domanda è lento. Naturalmente, rappresentano il peggiore dei
prodotti possibili. Un prodotto marginale richiede infatti grandi investimenti, che però, data
la bassa domanda, portano pochi ricavi e tutto ciò, per lo più, per mantenere una posizione
competitiva debole. Il flusso di cassa dei prodotti marginali sarà il più basso di tutti.
2. Prodotti rischiosi o “question marks”. Si tratta di quei prodotti “rischiosi”, proprio perché
appartengono ad un mercato dalla domanda elevata, quindi molto concorrenziale anche, in
cui però la quota di mercato dell’azienda è debole. Ciò significa che tentare di far crescere
la propria posizione in un mercato dalla grande domanda, e quindi dalla grande affluenza di
concorrenti, è molto rischioso, perché l’investimento sarà altissimo. Sarà conveniente farlo?
Non si sa, per questo i prodotti rischiosi vengono chiamati anche enigmi (question marks).
Sarà necessario uno studio del mercato e della concorrenza per rispondere a tale enigma.
3. Prodotti di successo o “stars”. Per la Boston Consulting group le “stelle” sono quei prodotti
con alta quota di mercato e rapido sviluppo della domanda. Rappresentano un cash-flow
positivo, in quanto la buona posizione concorrenziale genera introiti. Al tempo stesso,
tuttavia, il grande sviluppo della domanda attrae la concorrenza, sicura che i prodotti
potranno essere venduti in quel mercato. Così, per battere la concorrenza, sarà necessario
investire e sfruttare le proprie risorse: le “stars” forniscono pertanto un buon cash-flow, ma
al tempo rappresentano grandi costi.
4. Prodotti da reddito o “cash cow”. I cosiddetti prodotti da reddito sono i migliori. Per quanto
riguarda la posizione concorrenziale, quella dell’azienda è preminente: l’impresa si è
assicurata una buona porzione di mercato. Dall’altro lato, la crescita della domanda è
lenta: ciò significa che la concorrenza non è attratta a entrare nel mercato, per paura che i
propri prodotti rimarranno invenduti. Il prodotto da reddito diventa così una “cash cow”,
ovvero letteralmente una mucca da mungere: l’azienda potrà sfruttare l’isolamento in un
mercato quasi completamente suo, e appunto “prosciugarne” quanto più il margine delle
vendite.
Così, il ciclo di vita di un prodotto può essere filtrato sotto l’ottica della matrice del portafoglio
prodotti. Secondo questa visione, un ciclo positivo consiste nel passaggio da prodotto rischioso a
prodotto di successo ed infine da reddito. Un ciclo negativo invece consiste nel decadimento di un
prodotto di successo o addirittura di reddito in uno prima rischioso e poi marginale.

• La revisione della matrice del portafoglio prodotti, operata dalla General


Electric e dalla Mc Kinsey.
Rispetto alla teoria della matrice del portafoglio prodotti, elaborata dalla Boston Consulting Group,
e basata sulla divisione della matrice prodotti in 4 quadranti, risulta più convincente la revisione di
questa teoria operata dalla General Electric, e dalla Mc Kinsey. La seconda versione della matrice
del portafoglio prodotti, si fonda non più solamente sui presupposti della quota di mercato e della
velocità di sviluppo della domanda, bensì anche su quelli di attrattività del mercato e di posizione
competitiva.
Tale teoria scompone infatti la sua matrice in 9 quadranti, determinati orizzontalmente dalla
posizione competitiva (parametro che incorpora al suo interno il concetto di quota di mercato, da
cui è dipendente), e verticalmente dall’attrattività di un settore (parametro che incorpora al suo
interno il concetto di sviluppo della domanda, da cui è dipendente). In base a questi parametri,
all’interno di ciascun quadrante della matrice si andranno a delineare delle aree, che indicano
l’orientamento che l’azienda deve compiere rispetto a quel prodotto. Possono generarsi aree di
investimento, e aree di disinvestimento, che suggeriscono la politica da compiere.

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• La politica della marca e del confezionamento del prodotto.
Un prodotto non è semplicemente un bene necessario al soddisfacimento di un bisogno, ma un
vero e proprio insieme di valori, che possono essere emozioni, simboli di appartenenza a classe
sociali, servizi ed esperienze. Questo è facile intuirlo con l’esempio del mercato automobilistico:
chi compera un’auto non lo fa esclusivamente per soddisfare l’esigenza di trasporto, ma anche per
dare dimostrazione di appartenenza ad un certo stato sociale, per appagare esigenze personali (come
il desiderio di protezione, sicurezza, comfort).
Grazie ai valori intrinsechi di un prodotto, le imprese costruiscono la propria “immagine di marca”,
uno strumento di differenziazione dalla concorrenza.
Entrando ora nel dettaglio della politica del prodotto, essa si concretizza mediante la costruzione
della marca, il packaging o confezionamento del prodotto, e mediante i servizi post-vendita.
1. Adozione della marca.
Per quanto concerne la scelta della propria tipologia di marca, le imprese possono decidere se
costituire una “marca industriale”, una “family brand”, ovvero un’unica marca per tutta la gamma
di prodotti, oppure una “product brand”, ovvero marche distinte a differenza dei prodotti venduti
nella gamma.
Per le grandi imprese, che utilizzano una marca industriale, è ricorrente, negli ultimi tempi, la scelta
di ricorrere al cosiddetto processo di “brand extention”, ovvero l’ampliamento della marca a settori
di nicchia del proprio mercato, od addirittura a mercati del tutto differenti. Un esempio può essere
di sicuro il gioielliere Bulgari, il quale, forte del sinonimo di qualità, insito nello stesso nome del
Brand, si è esteso dal mercato dei gioielli a quello del turismo o della cura della persona, investendo
in villaggi turistici e in una gamma di profumi.
2. Confezionamento del prodotto.
Il cosiddetto “industrial packaging”, oltre a garantire la conservazione del prodotto, risulta essere
un vero e proprio strumento di vantaggio competitivo. Il confezionamento del prodotto è costruito
con l’intento di attrarre la clientela e conferire al prodotto un alone di qualità, di garanzia, attraverso
il design utilizzato (pensiamo ai marchi di qualità come “100% soddisfatto o rimborsato, oppure
“vero kashmir”). Essendo un mezzo per vincere la concorrenza, il confezionamento dei prodotti
non è soltanto, dunque, una pratica necessaria al trasporto dei beni ma una vera e propria fase della
politica del prodotto.
3. Servizi post-vendita.
Stesso discorso si può fare con i servizi post-vendita, che validano la qualità di un’azienda e le
conferiscono un sentore di autorità.

• La politica del prezzo.


Da parte di un’impresa, la politica relativa al prezzo si suddivide in
1. Determinazione del prezzo di vendita.
2. Amministrazione del prezzo di vendita.

• Determinazione del prezzo di vendita.


Concentrandoci sul primo aspetto, la fissazione del prezzo di vendita dipende da tantissimi fattori:
dipende dall’entità della concorrenza, dalla posizione concorrenziale occupata, dal grado della
domanda, dal costo unitario del prodotto. In mercati oligopolistici, cioè mercati in cui solo pochi
produttori detengono il potere nel mercato, di solito i prezzi sono fissati mediante un’intesa comune,
un accordo scritto che risulti vantaggioso per tutti. In altri casi, i prezzi sono fissati dallo Stato,
(come nel caso delle sigarette) oppure possono essere addirittura i consumatori a stabilire il prezzo,
solo in circostanze particolare come nelle gare d’appalto.
Eccetto queste casistiche particolari di determinazione del prezzo, le politiche da adottare possono
essere molteplici.
La fissazione dei prezzi avviene, innanzitutto, prima relativamente al singolo articolo, e poi estesa a
ciascun articolo della gamma. Tra i differenti articoli della gamma di un’impresa, nonché tra quelli

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delle differenti marche, nascono quindi degli “scarti” o differenziali di prezzo, delle differenze in
sostanza.
Per decidere quale sarà il prezzo di un articolo, e dell’intera gamma, bisogna valutare tre
fondamentali parametri: il costo del prodotto, l’elasticità della domanda, e la pressione della
concorrenza. Naturalmente, il metodo più semplice e più utilizzato è quello di limitarsi a stabilire il
prezzo in base al costo del prodotto: si fissa un prezzo più alto del costo del prodotto e da ciascuna
vendita si ottiene un margine. Ma questa pratica non può di sicuro funzionare se non si tiene conto
degli altri due importanti parametri, cioè l’elasticità della domanda e i prezzi adottati dalla
concorrenza. Se la domanda si restringesse drasticamente, i prezzi non dovranno essere di
conseguenza cambiati per attirare la clientela all’acquisto. Allo stesso modo, non si possono
stabilire prezzi senza minimamente tener conto di quelli scelti dalla concorrenza: rispetto ad essi si
può attuare una politica di differenziazione oppure di imitazione. Entrando più nel dettaglio, quindi,
i prezzi andranno stabiliti tenendo conto della:
1. Concorrenza reale, ovvero della presenza nel mercato di concorrenti diretti.
2. Concorrenza potenziale, ovvero della potenziale immissione del mercato di nuovi
concorrenti.
3. Concorrenza indiretta, ovvero la concorrenza che proviene da venditori di prodotti simili,
sostitutivi a quello dell’impresa.
4. Grado di differenziazione del prodotto rispetto alla concorrenza.
5. Qualità del servizio fornito insieme al prodotto.

Vediamo dunque che, nella determinazione del prezzo di vendita, più che il costo del prodotto
concorrono la concorrenza e il rapporto con essa.
Possiamo pertanto affermare che una efficace politica di prezzo si basa proprio sul concetto di
differenziazione. Se si imitano, infatti, i prezzi della concorrenza, il margine positivo potrà essere
ottenuto solo raggiungendo un costo unitario minore del prodotto, cioè esclusivamente lavorando
sul costo. Questa via risulta, tuttavia, molto difficile da praticare. La migliore politica di costo,
quindi, è quella della differenziazione del prodotto. Differenziando il prodotto rispetto alla
concorrenza, infatti, ci si immette in un “sub-mercato”, in un mercato di nicchia, in cui i
competitors diventano di meno e meno forti. Questo perché si vende un prodotto nuovo, che
soddisfa nuovi bisogni, e si potrà stabilirne il prezzo con maggiore libertà, senza rimanere vincolati
ai prezzi della concorrenza. Sappiamo che l’entrata in un sub-mercato è un grande vantaggio
competitivo, in quanto “isola” l’impresa rispetto alla concorrenza e le permette di lavorare con più
autonomia. E’ proprio ciò che avviene con la politica della differenziazione, che rappresenta un
grande vantaggio competitivo.
Una volta concretizzata una differenziazione del prodotto, sta all’azienda scegliere una politica di
“penetrazione” od una di “scrematura”.

1. Per “politica di penetrazione” nel mercato, si intende l’iniziativa, attuata dall’impresa, di


conquistare la quota più elevata del mercato nel minor tempo possibile, imponendosi subito
in una posizione competitiva predominante. Un tale orientamento favorisce l’isolamento
dell’impresa e un vantaggio competitivo non indifferente. Per prendersi subito gran parte del
mercato, la tattica utilizzata è quella di proporre il prodotto a prezzi contenuti, così da
potersi accaparrare gran parte della domanda. La politica di penetrazione è attuata
dall’azienda quando comprende che è possibile attuare un’economia di scala, ovvero
ottenere un vantaggio produttivo rispetto alla concorrenza ed abbassare il costo unitario del
prodotto; oppure la si preferisce quando la differenziabilità, precedentemente ottenuta, si
prevede fallace, ovvero non destinata a durare per molto tempo: questo significa prevedere
che nuovi concorrenti arriveranno nel mercato, e rappresenteranno un problema. L’arrivo
della concorrenza e l’opportunità di sfruttare economie di scala, spingono quindi l’impresa
ad accaparrarsi gran parte del mercato e porsi da subito in posizione competitiva dominante.

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2. Una politica di “scrematura”, invece, consiste nell’immettersi nel mercato proponendo
prezzi inizialmente alti, ed abbassarli gradualmente, per esercitare sia nel breve sia nel lungo
tempo una buona posizione competitiva. Una scelta di scrematura è dettata dalla scarsa
possibilità che la differenziazione sia imitata dalla concorrenza: rimanendo isolati nel sub-
mercato, si potrà dirigere il prezzo con maggiore piacimento, ricavando in una fase iniziale
grandi margini, grazie ad alti prezzi, e pian piano continuare a vendere grazie al graduale
ribasso dei prezzi.

• Il concetto di “elasticità incrociata” della domanda.


La determinazione del prezzo di un prodotto si basa anche sulla valutazione dell’interdipendenza
che esiste tra i diversi prodotti di un mercato. Stiamo parlando del concetto di “elasticità della
domanda”, ovvero del principio per cui la variazione del prezzo di un prodotto incide
positivamente o negativamente sulle vendite di un altro prodotto. A tal fine, è necessario per le
imprese calcolare il cosiddetto “indice di elasticità incrociata”, ovvero l’indice che calcola la
dipendenza di un prodotto ad un altro, e si basa sulla relazione tra la domanda dell’uno ed il prezzo
dell’altro.
Questa la formula dell’indice di elasticità incrociata di due prodotti A e B:

Ea,b = ΔVa = ΔPb


Vb Pb

Ea,b = indice di elasticità incrociata; Va = domanda del bene A; Pb= prezzo del bene B.
Traducendo la formula, la Variazione (Delta) della domanda del bene A, divisa per la domanda del
bene A, è uguale alla Variazione di prezzo del bene B, divisa per il prezzo del bene B. La formula
sta ad indicare se, al variare della domanda di A, varia anche il prezzo di B oppure no; viceversa,
può anche essere letta naturalmente all’opposto, per cui sta ad indicare anche se la variazione del
prezzo del bene B, varia la domanda del bene A.
L’indice di elasticità incrociata della domanda indica pertanto all’azienda se due prodotti sono
intersostituibili, complementari o non correlati.
1. Nel caso in cui due prodotti siano intersostituibili, l’aumento del prezzo del prodotto B
comporta l’aumento delle vendite del prodotto A, e quindi il risultato dell’indice di elasticità
incrociata sarà positivo.
2. Nel caso in cui due prodotti siano complementari, all’aumentare del prezzo di B diminuirà
la domanda del prodotto A, o viceversa, e l’indice sarà negativo.
3. Nel caso di due prodotti non correlati, l’indice di elasticità sarà uguale a zero, ed indicherà
che ogni tipo di variazione del prezzo del bene B non modifica né influisce sulla domanda
del prodotto A.
Per fare un esempio pratico, la progressiva e drastica riduzione del prezzo dei vecchi MP3,
comportò, di conseguenza la diminuzione delle vendite dei CD, considerati prodotti meno
tecnologici i quali, annullata la grande differenza di prezzo che c’era rispetto agli MP3, risultarono
meno convenienti nella scelta tra i due. In questo senso, i CD sono dei “prodotti alternativi” degli
MP3, in quanto all’aumentare del prezzo degli uni cala la domanda degli altri. La domanda delle
memory card invece, al diminuire del prezzo degli MP3, crebbe incredibilmente, ed infatti si
configurò come suo “prodotto complementare”.

• L’attività di comunicazione (Public relations, pubblicità, promozione, atto di


vendita).
L’impresa ha la necessità, naturalmente, di farsi conoscere, di far si che il suo nome sia ricordato e
già fissato nella mente del consumatore rispetto ai nomi degli altri competitori. Per farsi conoscere
l’impresa attua quindi la sua attività promozionale. Per “Promozione” si intende quell’insieme di

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iniziative aziendali volte ad indurre, modificare o preservare i comportamenti dei consumatori ed
anche di altri operatori di mercato (come stakeholders, fornitori). L’obiettivo della promozione è
quindi l’induzione del consumatore al consumo. Per riuscire in una buona promozione, le imprese
fanno leva sulle motivazioni che spingono un cliente a consumare. Il cliente giunge infatti a
comprare, solo dopo aver trascorso tre momenti o “fasi” del processo di acquisto:
1. Un momento “cognitivo” (o stadio conoscitivo), cioè la prima fase, quella in cui il
consumatore assume la consapevolezza della necessità di soddisfare un bisogno, e di
conseguenza comincia ad informarsi al riguardo dei prodotti idonei al soddisfacimento di
tale bisogno.
2. Un momento “emotivo” o “stadio affettivo”, quel momento in cui, cioè, il consumatore nella
sua mente trasforma quell’interesse verso il prodotto in un desiderio, e si convince
definitivamente di comprarlo.
3. Un momento “attivo” o “stadio comportamentale”, ovvero la fase finale e più pratica
dell’acquisto, fase nella quale il consumatore si informa sui prezzi, compara una marca
all’altra e fa la sua scelta nel mercato concorrenziale di prodotti.

E’ sulla base della consapevolezza di come si svolge il processo di acquisto, che le aziende
costruiscono le proprie iniziative comunicative. Tutte le iniziative aziendali rivolte a “farsi
conoscere”, cioè a inviare e ricevere messaggi, rientrano nelle “politiche di comunicazione”.
Ciascuna politica di comunicazione è costituita da:
1. Le relazioni pubbliche.
2. La pubblicità.
3. La promozione.
4. L’attività persuasiva dei venditori.
Tutte queste politiche di comunicazione costituiscono il cosiddetto “imbuto promozionale”, per cui
si intende uno schema ideale, che suddivide, in senso temporale, le fasi della promozione alla
vendita. Ovvero si parte con le attività atte a far conoscere l’impresa al pubblico più vasto, e pian
piano ci si avvicina all’atto di vendita al singolo. L’imbuto promozionale sviluppa due piani distinti:
- Un effetto orizzontale di contatto, ovvero l’obiettivo di farsi conoscere.
- Un effetto verticale di persuasione, ovvero l’obiettivo di vendere in senso vero e proprio. Ciascuna
politica dell’imbuto ha, nel lungo termine, lo scopo di aumentare il volume delle vendite; nel breve
termine, però, ciascuna di esse assume scopi diversi, alcune più in senso “orizzontale”, altre più in
senso “verticale”.
1. Pubbliche relazioni.
Si situano al primo step dell’imbuto promozionale perché naturalmente l’impresa ha ancora la
necessità di farsi conoscere. I clienti ancora non ci sono, e proprio nel tentativo di acquisirli si
attuano politiche di pubblica relazione. Sono, quindi, quelle iniziative che hanno lo scopo di
conferire una buona immagine all’impresa, di farla conoscere a quanta più gente possibile, senza
focalizzarsi subito sulle vendite vere e proprie: E’ una fase che punta più su un effetto orizzontale di
contatto rispetto che su uno verticale di persuasione. Per farsi conoscere, per ottenere attenzioni, nel
pratico, l’azienda organizza stage, conferenze, convegni, beneficenze e opere sociali.
2. Pubblicità.
La pubblicità è la seconda fase dell’imbuto promozionale. E’ sempre un’iniziativa a sviluppo
orizzontale, cioè manda un messaggio, relativo al prodotto, ad un pubblico quanto più vasto
possibile, ma stavolta l’iniziativa è colorata anche di un effetto “persuasivo” o verticale, cioè
l’obiettivo è anche fornire le specifiche di prezzo e qualità del prodotto e quindi indurre al consumo.
La pubblicità viene attuata mediante i “mass-media”, cioè attraverso televisioni, giornali,
quotidiani, radio, cinema e soprattutto, in tempi odieni, siti internet e social media. Specie in tempi
odierni, infatti, ha assunto sempre maggiore importanza la pubblicità via internet: attraverso
algoritmi utilizzati dai social network (facebook, instagram), si rintracciano i consumatori più
idonei all’acquisto del nostro prodotto, e si inviano le nostre inserzioni pubblicitarie direttamente al
loro profilo.

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Le pubblicità si attuano attraverso delle apposite campagne. Possono essere attuate “campagne
pubblicitarie di lancio”, atte a promuovere e far conoscere un nuovo prodotto; “”campagne
pubblicitarie di urto”, ovvero finalizzare a rivitalizzare un prodotto in declino; “campagne
pubblicitarie di prestigio”, atte cioè a valorizzare ancor di più il nome di una marca già conosciuta”
e infine “campagne pubblicitarie di ricordo”, il cui scopo è sottolineare la presenza di una marca già
operante in un mercato.
3. Promozione.
L’attività promozionale si distingue dalle pubbliche relazioni e dalla pubblicità per il suo scopo
marcatamente persuasivo. L’obiettivo della promozione è persuadere il consumatore, indurlo a
comprare. Per questo motivo, rispetto alla pubblicità, l’attività promozionale si differenzia perché
offre “incentivi per l’acquisto”, ovvero “condizioni speciali di acquisto” (che vengono spesso
chiamate “offerte”) oppure talvolta servizi speciali post-vendita per il consumatore.
4. L’attività persuasiva dei venditori.
Sta ai singoli “assistenti alle vendite” poi persuadere il cliente affinché concluda l’acquisto.

Un problema naturalmente concerne la determinazione del “budget pubblicitario”, cioè


dell’individuazione esatta del capitale da investire e delle risorse da immettere nella fase
pubblicitaria. Questo perché la previsione dell’efficacia pubblicitaria è estremamente difficile, un
grande investimento potrebbe portare zero risultati, e quindi molto spesso lo stanziamento è fatto in
maniera empirica e poco razionale.

• Il processo distributivo.
Il processo di distribuzione aziendale viene effettuato attraverso delle politiche e si compone di 3
variabili strettamente interrelate tra loro:
1. L’intensità della distribuzione, ovvero la scelta che differenzia una vendita estensiva, una
vendita selettiva ed una esclusiva.
2. Il numero di operatori di vendita a cui affidarsi, che possono essere venditori aziendali o
commercianti esterni.
3. La tipologia del canale di distribuzione, che può essere un canale diretto, indiretto breve od
indiretto lungo.
Per quanto riguarda l’intensità della distribuzione, è naturale che le imprese attuano differenti
politiche rispetto alla tipologia del prodotto, alla sua qualità, al suo prezzo, al suo costo e
all’immagine della marca. Per tal motivo, alcune aziende preferiscono sviluppare una “vendita
estensiva”, che si rivolga cioè al maggior numero possibile di potenziali clienti e ottenere così la
massimizzazione delle vendite grazie ad una strategia “quantitativa”. Altre imprese possono
scegliere invece, sempre con lo scopo di massimizzare vendite e profitti, una “vendita selettiva” o
addirittura una “vendita esclusiva”. Quando, ad esempio, si vendono prodotti costosi, di alta qualità,
dalla marca molto importante e ben conosciuta nel mercato, talvolta si sceglie di vendere
esclusivamente a una clientela “selezionata”, che continui a garantire il carattere elitario
dell’impresa. L’esasperazione di questa politica è quella di una “vendita esclusiva”, caratterizzata da
una produzione molto ristretta di prodotti, che la clientela deve “riuscire ad acquistare” prima che
vadano sold-out. Questa politica è marcatamente qualitativa, e punta alla massimizzazione grazie
agli alti prezzi e al mantenimento continuo del “mercato del produttore”, ovvero la posizione
preminente di controllo del mercato da parte dell’azienda, grazie ad offerta molto ristretta e una
domanda ampia: i consumatori dovranno combattersi i pochi prodotti a disposizione.
Il numero dei punti vendita a cui distribuire il prodotto dipende, invece, dal grado di controllo che è
possibile applicare sugli stessi punti vendita e dal “grado di copertura” del mercato che i punti
vendita garantiscono. E’ naturale che distribuire il proprio prodotto a punti vendita esterni che lo
venderanno pochissimo è un’iniziativa controproducente. A tal motivo, per “misurare” il grado di
copertura dei punti vendita, è necessario calcolare due indici, chiamati:
- Quota numerica, che corrisponde al rapporto tra i punti di vendita aziendali e i punti vendita totali.

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- Quota ponderata, ovvero il rapporto tra il volume delle vendite raggiunto nei punti vendita
dell’azienda e il volume delle vendite ottenuto invece in tutti i punti vendita.
Grazie a questi due indicatori è possibile, cioè, misurare il grado di “convenienza” della
distribuzione del proprio prodotto a punti vendita esterni.
Infine, si dovrà operare una scelta tra “tipologie di canali di distribuzione”, che possono essere
diretti, indiretti brevi, indiretti lunghi. La scelta del canale di distribuzione determina la scelta tra
consumo diretto, vendita all’ingrosso, vendita al dettaglio. Se si sceglie, infatti, un canale di
distribuzione diretto, dall’azienda il prodotto verrà venduto direttamente al consumatore (consumo
diretto). Se si sceglie un canale indiretto breve, si attuerà un canale al dettaglio, con il passaggio del
prodotto dall’azienda, al dettagliante, al consumatore. Infine un canale indiretto lungo instaura un
commercio all’ingrosso, con il passaggio del prodotto dal produttore, al grossista, al dettagliante e
infine al consumatore.

Capitolo XIV

Il processo produttivo.

• L’importanza della produzione e il Piano Industria 4.0.


Come abbiamo osservato in passato, un punto cardine di ogni impresa è la fase di produzione. La
produzione è il mezzo che permette di ottenere un vantaggio competitivo, sia quando si sceglie la
strategia della differenziazione, sia quando si sceglie quella della leadership di costo. Possedere
impianti produttivi efficienti, che garantiscano una differenziazione del prodotto, così come di
poter, pian piano, ridurre i costi unitari del prodotto stesso, rappresenta un grande vantaggio
competitivo. E’ proprio dalla consapevolezza di quanto la produzione sia fondamentale in ogni
azienda che nacque il cosiddetto “Piano Industria 4.0”: diversi Stati hanno elaborato questo insieme
di misure che permettono il progresso e l’innovazione tecnologica degli impianti produttivi.
Attraverso un sistema di connessione “wireless” e tecnologie digitali all’avanguardia, hanno
permesso alle imprese di investire grandi capitali nella produzione, una fase ora divenuta ancora più
importante.

• Il processo produttivo.
La funzione di produzione riguarda il processo di trasformazione dei beni, ossia è l’insieme di
operazioni mediante le quali le risorse acquistate dall’impresa, come materie prime e semilavorati,
vengono trasformate in prodotti finiti, pronti da collocare nel mercato. La fase produzione si colloca
quindi, come si può intuire, al centro della gestione aziendale, essendo preceduta da quella
dell’approvvigionamento delle risorse, e succeduta dalla fase di vendita.
L’efficienza della produzione dipende proprio dal grado di coordinamento che esiste tra essa e le
due fasi di approvvigionamento e di vendita. Dalla fase di approvvigionamento infatti riceve degli
imput, le risorse prime, gestite dalla logistica interna; la fase di produzione trasforma queste materie
prime in prodotti finiti; di conseguenza la fase di produzione produce degli output, che sarà la fase
di vendita a ricevere e a collocare nel mercato.

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Oltre al coordinamento, tra produzione, approvvigionamento e vendita, serve anche un
“allineamento”. Significa che l’approvvigionamento deve essere puntuale e tempestivo a rifornire la
produzione di materie prime ed al tempo stesso, la produzione dovrà stare al passo delle richieste
che provengono dalla domanda.
Importante è il concetto di “filiera di produzione”, intesa come il complesso delle imprese che
partecipano alla trasformazione di materie prime in un prodotto finito. Stiamo affermando, ovvero,
che nessuna impresa può eseguire l’intero ciclo produttivo autonomamente, da sola. Ad essa servirà
sicuramente l’aiuto di altre imprese, che posseggono impianti che non sono a sua disposizione, o
magari le conoscenze tecniche necessarie. L’organizzazione del processo produttivo, poi, dipende
sostanzialmente dalla “domanda”: più la domanda richiede prodotti differenziati, tanto più
l’impianto produttivo e il processo di produzione sono destinati ad essere modificati nel tempo.
Importante, quindi, sotto questo punto di vista, è il concetto di “flessibilità dell’organizzazione
produttiva”. Tanto più un impianto produttivo e la sua gestione sono “rigidi”, tanto meno potranno
essere effettuate modifiche. Per questo motivo, nascono le imprese a rete, ovvero organizzazioni di
imprese ai comandi di “un’impresa madre”, che funge da regia. Le imprese a rete massimizzano la
produzione ma sono anche molto flessibili nell’organizzazione produttiva.
Le scelte relative alla produzione possono essere 3:
1. Scelte strategiche, il cui obiettivo è migliorare la produzione per ottenere un vantaggio
competitivo (come nell’economia di scala).
2. Scelte operative, che riguardano cioè la costituzione e la revisione del sistema produzione.
3. Scelte di gestione operativa, concernenti invece la razionalizzazione ed il controllo della
funzione produzione, e riguardanti quindi, più che le strutture, direttamente il capitale
umano.

• Scelte strategiche: la correlazione tra produzione e strategia competitiva.


La funzione di produzione è direttamente collegata con la strategia competitiva, in quanto,come
abbiamo già accennato, consente di perseguire o l’obiettivo del “price-competition”, cioè della
leadership di costo e relative economie di scala, dettate dall’ottenimento di una riduzione del costo
unitario del prodotto; oppure consente di perseguire la strategia della differenziazione, puntando
sulla qualità del prodotto e sulla possibilità di cambiarlo rispetto alla concorrenza. Per tal motivo, la
strategia di produzione è sempre in funzione della strategia competitiva: serve a metterla in atto, è il
suo mezzo. Tuttavia occorre differenziare due situazioni in cui la produzione è mezzo della strategia
competitiva: nel primo caso la produzione avrà ruolo neutro rispetto alla concorrenza, il che
significa che si limiterà a pareggiare la mole produttiva della concorrenza, senza surclassarla; nel
secondo caso la produzione avrà un ruolo attivo, ovvero servirà a distaccarsi dalla concorrenza in
una posizione migliore, in cui si otterrà il vantaggio competitivo. In conclusioni, le scelte
strategiche di produzione riguardano:

1. La quantità dei beni prodotti e il loro assortimento in un mix.


2. La progettazione dell’impianto (che dovrà essere più o meno flessibile in base alla
necessità di differenziazione del prodotto)
3. La logistica.

• La tipologia dei sistemi produttivi.


La disposizione fisica delle strutture nell’impianto produttivo è detta “Lay-out”. Il lay-out è il
modo con cui le attrezzature, i fabbricati, le macchine da lavoro, ed anche il personale umano
sono disposti nell’impianto produttivo. Con la scelta del lay-out si determinano le cosiddette “4 M”
che tanto piacciono agli americani, sinonimo di “produttività”, le quali sono proprio “men,
materials, machines, money”. La disposizione in campo degli uomini, dei materiali, delle macchine
e dei soldi, finalizzata alla produzione, è il lay-out. Esistono, secondo V. Schmenner 4 differenti
tipologie di lay-out”:

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1. Produzioni “su commessa” o “per unità distinte”.
E’ il caso delle produzioni a ciclo misto, relative a singole commissioni da parte dei clienti. Si
differenziano, naturalmente, di volta in volta, fornendo i clienti delle specifiche diverse a seconda
del prodotto. Per questo motivo, la produzione “per unità distinte” o “su commissione” è
caratterizzata da impianti e organizzazione di grande flessibilità. Le produzioni per unità distinte
possono essere dei “progetti”, ovvero una singola commissione, oppure dei “jobs”, cioè delle
commissioni ripetitive. Il primo caso, della commessa singola, riguarda di solito prodotti di alto
valore e la cui produzione richiede lunghi tempi di lavorazione. Ne è un esempio la commissione di
una diga o di una nave ad aziende edili e navali. Le commissioni “ripetitive” sono invece richieste
di diversi campioni di una produzione in ogni caso limitata, ed è il caso ad esempio delle “auto
fuori-serie”, di cui vengono prodotti solo pochi esemplari.
2. Produzioni di massa differenziate, o “produzione a lotti”.
Le produzioni in massa differenziate invece sono produzioni “a ciclo intermittente”. Si tratta cioè
di lavorazioni di prodotti che hanno molteplici varianti di gamma. Sono produzioni in massa, di cui
vengono richiesti grandi stock, ma sono anche produzioni “ad impianto”. Ovvero, solitamente, le
componenti fondamentali delle diverse varianti sono sempre le stesse, cioè che cambia sono le parti
strutturali esterne, che ne conferiscono diverse estetiche.
3. Produzioni di massa standardizzate per processi continui.
Le produzioni di massa standardizzate avvengono “a ciclo continuo” e sono la realizzazione di
grandi stock di prodotti tutti uguali. La richiesta di una produzione di massa standardizzata è dettata
dall’appartenenza ad un mercato omogeneo, ovvero un mercato in cui è possibile la vendita di
prodotti tutti uguali, privi di differenziazione. Si svolge per processi continui, ovvero la produzione
può idealmente non fermarsi mai.
4. Produzioni omogenee continue.
Le produzioni omogenee continue sono invece quelle produzioni a ciclo continui, cioè
potenzialmente senza fine, e “per processo”, ovvero non derivano dall’ordine di stock ma
riforniscono senza sosta determinati settori. E’ il caso delle lavorazioni petrolchimiche, che ripetono
la lavorazione di petrolio e metalli senza variazione, in maniera continua.

• La tecnica del “postponement”.


Che cosa è il “postponement”. Beh, diciamo che in tempi recenti è divenuta sempre più diffusa la
richiesta, da parte dei clienti, di una “personalizzazione del prodotto”. Accanto a questa richiesta, i
gusti e le tendenze di mercato risultano sempre più fuggevoli, sempre meno durature nel tempo e
sempre più facilmente sostituibili. La richiesta di personalizzazione del prodotto è stata, in un primo
momento, accolta dall’impresa che ne ha prodotto degli esemplari con le personalizzazioni
richieste. Questo, tuttavia, ha determinato l’aumento dell’invenduto, a causa delle tendenze sempre
più veloci a scomparire. Per tal motivo, la migliore soluzione risulta essere la tecnica del “post-
ponement”, ovvero di far partire la produzione di un bene solo dopo che il cliente l’abbia già
acquistato. In questo modo, il rischio di invenduto si riduce notevolmente. Tra gli aspetti negativi,
tuttavia, compare quello del “lead time” del consumatore, ovvero del tempo che il consumatore è
disposto ad aspettare affinché arrivi il suo bene acquistato.

• Il decentramento della produzione: l’outsourcing e la deintegrazione.


Nella produzione, per qualsiasi tipo di azienda, nasce il problema di ricavare materie prime,
semilavorati e risorse dall’esterno. Come abbiamo detto, nessun prodotto proviene dal ciclo
produttivo di una singola azienda, anzi, ciascuna azienda ricerca all’esterno parti indispensabili per
la sua produzione. Il discorso riguarda da vicino il concetto di “decentramento” della produzione e
di “confine efficiente”, ovvero il confine che delimita cosa sia conveniente produrre all’interno e
cosa reperire dall’esterno. La soluzione del decentramento può essere tuttavia una scelta obbligata
oppure una strategia mirata e programmata. Il primo caso è quello dell’outsourcing, ovvero la
necessità assoluta, ai fini della produzione, di approvvigionarsi di risorse dall’esterno; il secondo

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quello della deintegrazione, cioè una vera e propria scelta strategica, che consiste nel reperire
appositamente dall’esterno prodotti e materie, poiché risulta più conveniente in seguito al calcolo
del “confine efficiente”.

• Prodotti finiti e finali; Le aziende multiplant e i 3 modelli di organizzazione


della rete di impianti.
Sfruttando, per i propri cicli di produzione, le imprese, materie provenienti da altre imprese, nei
fatto acquistano da esse prodotti. Sono prodotti acquistati per produrne di altri. Sotto questo punto
di vista vale pertanto la pena di suddividere tra “prodotti finali” e “prodotti finiti”. I “prodotti
finiti” sono quei beni appena usciti dal ciclo di lavorazione di un’impresa, i quali possono essere
utilizzati in un nuovo ciclo di produzione, da altre aziende, fungendo da “materie prime”. I
“prodotti finali” sono invece quei prodotti destinati esclusivamente al mercato, quindi alla vendita,
ma non utilizzabili per un altro ciclo di produzione.
Cambiando argomento, parliamo ora di quelle aziende che scelgono di disporre di più impianti di
produzione. Si tratta delle cosiddette “Multiplant”, imprese che creano vere e proprie “reti di
impianti”, capaci pertanto di schiacciare la concorrenza che ne sia sprovvista. La “rete di impianti”
può lavorare secondo 3 diversi modelli:
1. Un modello di ripetizione degli impianti, per cui tutti gli impianti produttivi lavorano
contemporaneamente allo stesso prodotto.
2. Un modello di “parcellizzazione” del ciclo di produzione, ovvero ciascun impianto della
rete lavora ad ogni singola fase del ciclo di produzione del bene, costruendolo come in una
catena di montaggio.
3. Un modello di “specializzazione” degli impianti, ovvero una rete in cui ciascun impianto
provvede alla produzione di ciascun modello diverso dello stesso prodotto.

• L’elasticità e l’automazione del lay-out.


Nelle imprese moderne, due sono le caratteristiche ormai indispensabili anche solo per potersi porre
in competizione: l’automazione e la flessibilità del lay-out.
Per “flessibilità” del lay out s’intende la capacità, delle strutture produttive, di sapersi adattare ai
mutamenti dell’ambiente esterno e del mercato. Come può un impianto produttivo essere
“flessibile”? La flessibilità può essere di due tipi:
1. Flessibilità tecnica, ovvero la misura in cui l’impianto riesce a produrre beni differenti da
quelli soliti senza incorrere in sovraccosti.
2. Flessibilità economica, ovvero la capacità dell’impianto a rimanere competitivo anche nel
caso di parziale utilizzazione, ovvero nell’eventualità di un calo del volume di produzione.
Sotto questo aspetto economico, l’elasticità (o flessibilità) dell’impianto dipende dal rapporto tra
costi fissi e variabili di produzione: tanto più i costi saranno fissi, tanto meno l’impianto sarà
flessibile; al contrario, tanto più i costi di produzione saranno variabili tanto più l’impianto sarà
elastico e pronto a rappresentare ancora un fattore competitivo.

Accanto all’esigenza di un impianto “flessibile”, è nata da tempo la necessità di un impianto


“altamente automatizzato”. Col passaggio dall’industria tradizionale fordista a quella
automatizzata, i vantaggi sono cresciuti a dismisura. Questo grazie allo sfruttamento di
fondamentali tecnologie, quali la robotica e l’informatica. La robotica ha permesso di affidare a
macchine i lavori che prima erano destinati agli uomini, riducendo le possibilità di infortuni sul
lavoro ed aumentando la precisione esecutiva della produzione. Lo sviluppo dell’informatica
all’interno delle industrie, invece, ha permesso di svolgere importanti compiti con i cosiddetti
“sistemi computerizzati”, con cui si organizza, ad oggi, l’intera pianificazione e progettazione dei
cicli produttivi. Ne sono un esempio i cosiddetti “CAD” (computer aided design), “CAE”
(computer aided engineering), “CAM” (computer assisted manufacturing) e l’FMS (Flexible
manufacturing system).

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• Il dimensionamento dell’impianto ed il break even point.
Uno dei problemi principali, relativi alla scelta del “lay-out”, è rappresentato dal dimensionamento
dell’impianto e della produzione. Quanto deve essere grande l’impianto? Quanto cioè deve produrre
per poter mantenere una quota di mercato?
Il dimensionamento dell’impianto dipende da due fattori, i quali, se pur interrelati tra loro,
analizzeremo singolarmente:
1. La determinazione della capacità produttiva massima o “volume massimo della
produzione”.
Quanto deve essere il volume globale della produzione, ovvero quanto gli impianti dovranno
produrre, per permettere all’impresa di mantenere la sua quota di mercato? Per rispondere a questa
domanda, il management delle imprese deve operare un’importante previsione dei fattori di
mercato, cioè una previsione delle quote di mercato ottenibili dall’impresa. In base alla forza della
concorrenza e alla forza della domanda, il management otterrà la sua previsione, e sulla base di
questa calcolerà il volume produttivo degli impianti. Naturalmente, però, ciascun mercato è
caratterizzato da grande variabilità e da situazioni di alti e bassi. Ciò riguarda specie la domanda
della clientela, che se in un momento è altissima, nel momento seguente crolla. Per far fronte a
questo problema, le imprese che possono permetterselo (ovvero a cui conviene), punteranno sulla
cosiddetta “strategia di livellamento”. Per “strategia di livellamento” è la strategia che permette di
ottenere l’equilibrio delle vendite attraverso la produzione di scorte in giacenza. Questa “manovra
di giacenze” si attua facendo produrre all’impianto un quantitativo costante di out-put, senza sosta.
Così facendo, durante i periodi di minore richiesta, i beni vengono prodotti in eccesso e rimangono
in giacenza; quando, nel periodo successivo, la domanda cresce, l’impresa sarà in grado di
soddisfarla completamente senza dover sostenere sovraccosti, grazie proprio alle scorte rimaste in
giacenza.

2. La potenzialità ottimale dell’impianto.


Diciamo subito che per potenzialità ottimale di un impianto si intende il rapporto tra le ore di
manodopera impiegate dall’impianto e quelle massime impiegabili.
Ogni impianto è costituito da macchine, attrezzature, fabbricati. Ciascuna “macchina da
produzione” è detta “fattore quanto”, cioè un bene a flusso rigido di servizi. Per “bene a flusso
rigido di servizi” si intende un bene, in possesso dell’azienda (la macchina), che svolge un
determinato numero di operazioni in un determinato periodo di tempo. Il costo della macchina, cioè
il costo del fattore quanto, non varia al variare delle operazioni compiute. Ma è naturale, che, per
esempio in un’ora di tempo, un certo fattore quanto produce sempre lo stesso numero (rigido) di
operazioni. La differenza dunque sta tra macchina e macchina, tra fattore quanto e fattore quanto:
nella medesima unità di tempo, alcune macchina svolgono più operazioni altre di meno, quindi
alcune macchine producono di più, altre di meno. Accanto a questa differenza produttiva, c’è da
dire che raggiunto il massimo livello di operazioni che una macchina può compiere, per innalzare
ancor di più la “potenzialità dell’impianto”, occorre comprarne un’altra o sostituire quella vecchia
con una migliore. Ciò aumenta i costi fissi.
A tal proposito, è fondamentale parlare di “break even point” e di “margine di sicurezza”.
L’obiettivo infatti, è individuare la potenzialità dell’impianto, che naturalmente ha dei limiti. Per
comprendere questi limiti, occorre individuare il “margine di sicurezza”, cioè quel determinato
tasso di produttività dell’impianto, il quale basta a pareggiare i costi ( e quindi a non andare in

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negativo) ma al tempo stesso non supera il previsto utilizzo dell’impianto. Per individuare
graficamente il “margine di sicurezza”, è necessario prima individuare il “break even point”, o
“punto di pareggio”, ovvero quel punto che indica il volume di produzione necessario a far
pareggiare i costi complessivi con i ricavi. Lo chiamiamo “punto” perché viene rappresentato in un
diagramma di redditività, che presenta sull’asse delle y i costi ed i ricavi, su quello delle x la
capacità di produzione. Quel punto in cui la produzione è tale da garantire ricavi che pareggino i
costi complessivi è il break even point. La differenza, graficamente rappresentata da un segmento,
tra il volume produttivo programmato dell’impianto e il volume produttivo necessario ad arrivare al
punto di pareggio è detto “Margine di sicurezza”.

Capitolo XV

La gestione finanziaria.

• Di che cosa si occupa la gestione finanziaria.


Nella funzione finanziaria, si attuano le decisioni e le operazioni volte a pianificare e concretizzare
gli investimenti, ed al tempo stesso di reperire il capitale per poterlo fare.
Nella gestione finanziaria esiste, di norma, un maggiore accentramento al vertice delle decisioni e
delle operazioni, rispetto ad esempio alle funzioni di produzione o di vendita. Questo perché il
finanziamento degli investimenti, e soprattutto la scelta degli investimenti, è ciò che determina
veramente il futuro di un’impresa. Ai responsabili della finanza spetta il compito di curare i rapporti
di credito con la clientela, quelli di debito con i fornitori, di pianificare i progetti di investimento dei
beni mobili ed immobili.
Ma il compito veramente più importante dei responsabili della finanza è garantire il rispetto di tre
equilibri fondamentali:
1. L’equilibrio economico tra costi e ricavi.
2. L’equilibrio finanziario tra investimenti e rendite.
3. L’equilibrio monetario tra entrate ed uscite di cassa, ovvero quello concernente la
liquidità immediata.

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La formulazione del preventivo economico deve precedere quella del preventivo finanziario, che a
sua volta deve precedere la formazione del preventivo monetario. Questo perché, naturalmente,
occorre per prima cosa individuare i costi totali e i potenziali ricavi, dopodiché scegliere se investire
e dove reperire il capitale per farlo, e solo alla fine, nel breve termine, si otterranno dei flussi di
cassa in entrata ed in uscita. E’ ovvio, infatti, che solo nel tempo lungo il totale dei costi
corrisponderà al totale delle uscite dalla cassa (i soldi escono pian piano, attraverso rate
dilazionate); allo stesso modo, solo nel tempo lungo il totale dei ricavi corrisponderà al totale delle
entrate, che verranno pagate in maniera dilazionata dalla clientela.
Per quanto concerne i progetti di investimento, alla gestione finanziaria spetta la loro
pianificazione, ed anche la pianificazione di come reperire il capitale necessario ad investire. La
risorsa finanziaria, cioè il capitale necessario all’investimento, può essere un vincolo assoluto
oppure un vincolo relativo. Sarà un vincolo assoluto quando è impossibile reperire una fonte di
capitale sufficiente ad investire; sarà un vincolo relativo quando, invece, sarà possibile reperire
del capitale, ma il costo di questo capitale (considerati, ad esempio, gli interessi richiesti da una
banca) sarà maggiore della redditività dell’investimento. Naturalmente, essendo svantaggioso il
divario tra redditività ed onerosità dell’investimento, si preferirà annullarlo. Per quanto riguarda
invece investimenti vantaggiosi, di essi possono essere fatti progetti strategici ed operativi.
Distinguiamo infatti i “progetti di investimento strategici” dai “progetti di investimento operativi”;
I primi sono investimenti strategici, cioè a lungo termine, e rappresentano un momento importante
per l’impresa, perché ne segnano il futuro, modificandone la posizione nel mercato: si tratta della
pianificazione di quegli investimenti importanti, come l’entrata in un nuovo mercato o il lancio di
un nuovo prodotto. Gli investimenti operativi invece, non modificano il futuro dell’azienda e sono,
nei fatti, decisioni di minore rilevanza, come ad esempio la scelta tra l’investimento in una o
nell’altra macchina produttiva. Nella scelta del progetto in cui investire, naturalmente, hanno un
peso molto rilevante i concetti di “margini di profitto” e “coefficiente di rischio”. E’ intuibile che,
tra più progetti su cui investire, si sceglierà quello con il più alto margine di profitto e con il
minore coefficiente di rischio. Per scegliere tra vari progetti, si dovrà quindi prima stabilirne
“l’accettabilità” rispetto a valori standard prefissati dall’impresa; e poi compararlo con gli altri
progetti per individuare il più vantaggioso.
• Le relazioni esistenti tra ciclo finanziario, produttivo e monetario .
Naturalmente gli equilibri prima citati, quello finanziario, economico e quello monetario, si possono
ottenere all’interno di un ciclo. Quando parliamo di equilibrio stiamo parlando della condizione
ottimale da raggiungere all’interno di un ciclo, fatto di alti e bassi. Prima degli equilibri, infatti, si
parla di “ciclo finanziario”, “ciclo economico” e “ciclo monetario”. Questo perché, naturalmente,
avviene sempre una “circolazione”, nel primo caso di capitali ed investimenti, nel secondo di costi e
ricavi , nel terzo di entrate ed uscite. Dobbiamo quindi sottolineare la forte connessione che esiste
tra ciclo monetario-economico e ciclo produttivo.
Come si può intuire, prima si preventivano e calcolano i costi ed i potenziali ricavi, e solo poi parte
la produzione vera e propria, intesa come l’incipit della lavorazione delle materie prime. Allo stesso
modo, prima i prodotti vengono completati e solo poi venduti, e quindi i ricavi riscossi. Ne
consegue, logicamente, che i cicli economici e monetari risultano essere molto più ampi di quelli
produttivi, che anzi vengono inglobati all’interno di essi.
Così come il ciclo produttivo è funzionale, per il rapporto tra cicli economico e monetario, allo
stesso modo il ciclo monetario è funzionale al rapporto tra ciclo economico e finanziario. Significa
che i cicli economici e finanziari inglobano quelli monetari: anzi, è proprio il ciclo monetario a
determinare la prevalenza della finanza sull’economia o dell’economia sulla finanza. Le aziende
possono decidere infatti se farsi pagare i crediti dai clienti in formula dilazionata, anticipata o cash;
allo stesso modo possono pagare i debiti ai fornitori in formula anticipata, dilazionata, o cash. Così,
è discrezione delle imprese singole, la decisione di ricevere prima le entrate, e liberare dopo le
uscite dalla cassa, oppure di pagare prima le uscite e ottenere poi le entrate. E’ questa decisione che
determina la prevalenza del ciclo finanziario su quello economico o viceversa. Nel caso in cui
arrivino prima le entrate, e poi si liberino le uscite, avremo un CICLO ECONOMICO > del CICLO

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FINANZIARIO, mentre nel caso in cui prima si liberino le uscite e solo dopo arrivino le entrare
avremo un CICLO FINANZIARIO > del CICLO ECONOMICO.

• Il fabbisogno finanziario: capitali fissi e capitali circolanti.


La progettazione finanziaria, come abbiamo accertato, si attua precedentemente a quella economica
e monetaria. Naturalmente, l’azienda ha bisogno di capitale per poter finanziare i propri
investimenti. A questo proposito, l’impresa dovrà individuare il proprio fabbisogno finanziario, cioè
il capitale necessario ad investire. Il Fabbisogno finanziario è composto dalla somma tra il
capitale ed il capitale circolante. Il capitale fisso è quel capitale necessario ad acquistare le
immobilizzazioni materiali (fabbricati, attrezzature, impianti) e immateriali (risorse umane); il
capitale circolante è invece il capitale necessario ad alimentare il ciclo acquisizione-produzione-
vendita. Analizziamo separatamente questi due componenti del fabbisogno finanziario:
1. Il capitale fisso è necessario per l’investimento sul personale e sull’impianto produttivo. Di
conseguenza, il fabbisogno di capitale fisso dipende dall’esigenza di produzione: se c’è
necessità di una grande mole di produzione, servirà un grande impianto produttivo e quindi
un alto fabbisogno di capitali fissi. L’aumento dei capitali fissi avviene dunque nei casi di
prima costituzione di un’azienda o nella fase di espansione di un’azienda già esistente.
2. Il Capitale circolante, invece, è composto da 5 elementi:
- Le scorte necessarie al processo di produzione, che rimangono in giacenza in magazzino, che
possono essere fabbricati e materie prime
- I crediti commerciali verso i clienti.
- I debiti commerciali verso i fornitori.
- I movimenti finanziari verso e da istituti di credito, banche, finanziatori esterni.
- Le attività e passività correnti, necessarie a mantenere la soglia minima di liquidità.
L’insieme di tutte le somme di denaro necessarie a questi investimenti, costituisce il capitale
circolante, e come si può ben intendere dal nome, può variare nel corso della produzione.
Nel capitale circolante assume una posizione di rilevanza il cosiddetto “capitale commerciale”,
cioè quel capitale circolante costituito solamente da scorte in magazzino, debiti verso fornitori,
crediti verso clienti. Altrettanto importante è il calcolo del cosiddetto “capitale circolante netto”,
ovvero la differenza tra attività e passività correnti, ed inerente quindi all’aspetto monetario, alla
liquidità posseduta dall’impresa.
Al contrario del capitale fisso, quello circolante dipende quindi dal “ciclo di reintegro dei ricavi”,
ovvero dalla velocità con cui il ciclo acquisizione-produzione-vendita riesce a far arrivare le
entrate. Tanto più velocemente arriveranno i ricavi, tanto meno si dovrà ricorrere a nuovi apporti di
capitale dall’esterno, e così sarà più basso il fabbisogno di capitale circolante. A tal proposito, dovrà
essere quanto più breve possibile anche il tempo necessario a rendere i ricavi “liquidi”, ovvero
entrate vere e proprie: il ciclo monetario dovrà riscuotere velocemente i crediti verso clienti e
pagare in maniera dilazionata i crediti verso fornitori.
La soddisfacente copertura del fabbisogno finanziario garantisce la “solvibilità”, ovvero l’equilibrio
finanziario e la “liquidità”, ovvero l’equilibrio monetario.

• La struttura finanziaria e le sue caratteristiche .


La struttura finanziaria è l’insieme delle fonti di copertura del fabbisogno finanziario. Ci sono 4
differenti strutture finanziarie, ovvero 4 modi diversi per “coprire” il fabbisogno finanziario:
1. Capitale proprio.
2. Risultato economico della gestione, ovvero i ricavi stessi dell’organizzazione, secondo un
meccanismo di autofinanziamento.
3. Finanziamenti di soci interni.
4. Finanziamenti di creditori esterni, istituti di credito, banche.
Naturalmente la scelta della struttura finanziaria dipende dal “grado di controllo” che la proprietà
vuole mantenere sull’impresa. Ad esempio, se una proprietà sceglie l’indebitamento esterno,

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manterrà a pieno il controllo sull’impresa, così come se dovesse ricorrere a capitale proprio, senza
richiederlo a soci azionari. Se invece si richiedono investimenti di soci interni, il grado di controllo
sull’impresa diminuisce.
La struttura finanziaria può godere di 4 caratteristiche fondamentali:
1. L’omogeneità.
L’omogeneità dei capitali rispetto all’investimento da attuare. Sembra un una proprietà ovvia, ma
non sempre viene rispettata. Si tratta della semplice omogeneità del finanziamento a soddisfare a
pieno il fabbisogno in questione. Nel caso di investimento in immobilizzazioni, naturalmente, andrà
utilizzato un capitale congruo al pagamento di grandi somme e che si richiederà dunque un
finanziamento a lungo termine. Nel caso invece dell’investimento in un esercizio strutturale, verrà
richiesto un finanziamento a breve termine.
2. La flessibilità.
E’ la possibilità dell’impresa di accrescere o ridurre le risorse finanziarie al variare del fabbisogno.
Se aumenterà il fabbisogno finanziario, una struttura finanziaria elastica riuscirà ad aumentare le
fonti di copertura, se il fabbisogno diminuirà riuscirà a ridurle. Per elasticità si intende quindi la
capacità di mantenere un equilibrio tra fabbisogno ed impiego di capitale.
3. L’elasticità.
Per elasticità si intende, come sostengono Brealey e Myers, l’accessibilità dell’impresa alla propria
“riserva finanziaria”, ovvero “la capacità di poter accedere rapidamente al finanziamento qualora si
presentassero buone opportunità nell’investimento”. Si tratta della possibilità dell’impresa ad
“espandere” rapidamente e facilmente le proprie fonti di capitale. Ad esempio, un’azienda che
incrementerà i finanziamenti di capitale proprio sarà elastica, perché potrà godere ancora, in futuro,
di eventuali indebitamenti per coprire le spese; un’azienda, invece, che ricorre subito
all’indebitamento, sarà meno elastica perché potrà contare su questa strategia più difficilmente in
futuro.
4. Economicità.
A questi tre attributi deve aggiungersi quello dell’economicità, ovvero la capacità dell’azienda di
massimizzare il rapporto tra rendimento degli investimenti e costosità del capitale. L’obiettivo,
naturalmente, è riuscire a ricorrere a capitali sempre meno costosi (come l’autofinanziamento,
grazie ad ottimi risultati di esercizio) e al tempo stesso a grandi rendimenti degli investimenti (come
può essere l’aumento della produzione e delle vendite).

• I rischi finanziari di insolvenza, di illiquidità e di aumento degli oneri.


In definitiva, una corretta gestione finanziaria dovrebbe minimizzare i rischi. Il rischio finanziario
può essere:
1. Rischio strutturale o “rischio di insolvenza”, cioè il rischio dell’incapacità, da parte
dell’azienda, ad alimentare i futuri investimenti.
2. Rischio congiunturale o “rischio di illiquidità”, ovvero il rischio di un momentaneo
deficit di cassa nel corso della gestione, di una carenza di liquidità.
3. Rischio di aumento degli oneri finanziari.
Per quanto riguarda i rischi di insolvenza ed illiquidità, una corretta soluzione per l’impresa sarebbe
disporre in ogni momento di una riserva finanziaria. Con essa sarà possibile finanziare investimenti
e riequilibrare carenze di cassa. Per quanto riguarda invece il rischio di incremento degli oneri
finanziari, la soluzione è sempre ricorrere a formule di copertura contro eventuali variazioni dei
tassi di interesse.

• Il livello di indebitamento e la leva finanziaria.


Una delle scelte aziendali più importanti da assumere è quella che concerne il livello di
indebitamento. Fino a quanto risulta vantaggioso indebitarsi e quando diventa svantaggioso? Il
livello ottimale di indebitamento di individua calcolando gli effetti della cosiddetta “leva
finanziaria”. La leva finanziaria è il rapporto tra indebitamento totale e il capitale investito. La
redditività del capitale proprio, infatti, può migliore o peggiorare a seconda del “fattore leva”: se,

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attraverso l’indebitamento, la redditività del capitale investito dall’impresa sarà superiore del
costo dell’indebitamento, l’azienda avrà migliorato la redditività del suo capitale proprio. Al
contrario, se i costi e gli oneri da sopportare per l’indebitamento dovessero essere maggiori dei
risultati ottenibili dall’investimento, si avrà ottenuto solamente un peggioramento della
redditività del capitale.
In altre parole, l’indebitamento può rappresentare un trampolino di lancio per l’espansione
dell’impresa, perché può permettere maggiore redditività. Contando sull’indebitamento, si potranno
effettuare investimenti prima impossibili. Ma attenzione, la vantaggiosità o meno
dell’indebitamento dipende dal rapporto tra “rendimento netto del capitale investito” e “costo del
capitale preso a prestito”. Il rendimento del capitale investito si calcola sottraendo, ai ricavi totali
dell’investimento, le imposte. Il costo del capitale preso a prestito, invece, dipende dai tassi di
interesse che i finanziatori, le banche o gli istituti credito impongono. I tassi di interesse vanno a
sommarsi al Tasso Base (tasso Annuo Nominale o TAN) e agli oneri accessori. Per calcolare il
costo totale dell’indebitamento, dunque, è necessario calcolare il cosiddetto “TAEG”, tasso
annuo effettivo globale, un dato preciso su quanto si deve pagare di interessi su un mutuo o su
un finanziamento.
(Risultano – imposte per chi si indebita, + imposte per chi utilizza capitale proprio)
Per comprendere, dunque, se sia vantaggioso o meno ricorrere all’indebitamento piuttosto che al
capitale proprio, occorre conoscere il costo del capitale proprio ed il costo del capitale ottenuto da
terzi. Se il costo del capitale proprio è maggiore di quello ottenuto da terzi, conviene ricorrere
all’indebitamento; se il costo del capitale proprio è minore a quello ottenuto da terzi, conviene
scartare l’opzione dell’indebitamento.
Capitolo XVI

La logistica

• Il processo della logistica.


Nella gestione dell’impresa assumo un ruolo importante la logistica, ovvero il processo di
approvvigionamento dei materiali in entrata, chiamata “logistica interna od in entrata”, ed il
collocamento e immagazzinamento dei materiali in uscita, la “logistica esterna od in uscita”.
Il processo della logistica si attua mediante due flussi: un flusso di materiali, cioè materie prime e
semilavorati necessari ad alimentare il ciclo di produzione, che inizia con l’approvvigionamento dai
fornitori e si conclude con la spedizione della merce al cliente (od allo store che fa da tramite; un
flusso di informazioni, che si muove bilateralmente dal fornitore all’azienda e dalla clientela
all’azienda. L’obiettivo da raggiungere è l’equilibrio tra costo della logistica, cioè il costo di
approvvigionamento dei materiali, immagazzinamento, e spedizione al cliente, e lo standard di
servizio reso ai clienti. Infatti le fasi di acquisto, immagazzinamento e trasporto dei materiali ha un
costo, mentre la consegna e la salvaguardia della sanità del prodotto rappresentano la “qualità del
servizio” che si offre alla clientela. La minimizzazione dei costi della logistica, e la
massimizzazione della “qualità del servizio”, rappresentano gli obiettivi da raggiungere, ovvero
l’economicità del processo logistico e la “costumer satisfaction”, ovvero la soddisfazione del
cliente, che può in questo modo essere fidelizzato all’impresa.

• La fase di approvvigionamento delle materie prime.


La funzione di approvvigionamento è il processo di acquisto delle scorte dei materiali necessarie ad
alimentare il processo di produzione. Gli obiettivi dell’approvvigionamento sono quindi due: il
primo è quello di garantire economicità nell’acquisto delle materie, il secondo è preservare la
continuità dei cicli produttivi.
Infatti, da un lato si devono reperire materie prime il cui costo è vantaggioso rispetto ai ricavi
ottenibili dalla vendita dei prodotti finiti; dall’altro, è assolutamente necessario rifornire

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costantemente l’impianto produttivo di materie prime, così da evitare momenti di ozio della
produzione.
Occorre ora distinguere tra un processo strategico di approvvigionamento ed un processo operativo
o “tattico” di approvvigionamento.
Il processo operativo di approvvigionamento consiste nella semplice esecuzione delle mansioni
relative a questa fase, quali l’acquisto, l’immagazzinamento, il trasporto di materie prime e prodotti.
Un processo strategico di approvvigionamento invece, si lega a scelte più ampie, come quella del
“make or buy”, cioè la scelta se reperire le materie prime dall’esterno o se produrle all’interno
dell’impresa. I processi strategici di approvvigionamento dipendono da due variabili: le
caratteristiche dei cicli di produzione, e quelle dei mercati di rifornimento. La strategia relativa
all’approvvigionamento va decisa, infatti, in primo luogo in base alle caratteristiche interne
dell’impianto di produzione: se abbiamo un impianto che produce stagionalmente, e con grandi
costi fissi, sarà impossibile prendersi il rischio di una fermata dell’impianto, a causa della mancanza
di risorse prime; Quindi un primo aspetto sono le caratteristiche interne dell’impianto. Un altro
aspetto solo le caratteristiche dei fornitori: alcuni sono soggetti a forti oscillazioni di prezzo, a poca
puntualità e mancata precisione nella realizzazione dell’ordine. Così facendo, creano problemi
all’impresa, che dovrà allungare i tempi prima di avere la produzione completa. Occorrerà scegliere
quindi il metodo di approvvigionamento migliore, scegliendo tra vari fornitori.

• Ancora approvvigionamento: la matrice degli acquisti di Kraljic.


Il teorico dell’economia Sloveno Peter Kraljic, ha elaborato, proprio al riguardo del processo di
approvvigionamento, la cosiddetta “matrice degli acquisti”, in cui classifica 4 tipologie differenti di
prodotti acquistabili, sulla base di due criteri fondamentali: La “criticità” dei materiali da
acquistare, cioè la difficoltà di reperimento, ed il loro “impatto economico” sul costo totale del
prodotto, quindi fondamentalmente il loro costo complessivo di acquisto e trasporto. Sulla base di
questi due criteri, Kraljic distingue:
1. Materiali leva o chiave, cioè materiali dall’alto impatto economico, quindi molto costosi
nel trasporto e nell’acquisto, ma con basso rischio di “criticità”, quindi facilmente
reperibili nel mercato.
2. Materiali strategici, preziosi ma rischiosi, in quanto hanno un alto costo, quindi un
grande impatto sul costo totale del prodotto, ed allo stesso tempo sono difficilmente
reperibili nel mercato.
3. Materiali “colli di bottiglia”, caratterizzati da “criticità” elevata, cioè difficile reperibilità,
ma da un peso economico modesto.
4. Materiali “non critici” o di routine, facilmente reperibili e dal costo relativamente basso,
quindi di poco impatto sul costo totale del prodotto.

Kraljic consiglia di stringere accordi durevole e reciprocamente convenienti con i fornitori, nel caso
in cui si vogliamo acquistare materiali critici o strategici. Consiglia poi di assicurarsi tempestività e
velocità nella consegna degli ordini, nel caso di acquisto di materiali “colli di bottiglia”, e di
scegliere l’opzione più conveniente, tra una vasta gamma di fornitori, nel caso in cui si vogliano
acquistare prodotti non critici o di routine.

• Il processo di scelta del fornitore e di acquisto dei materiali .


La procedura di acquisto dei materiali si attua con la ricerca nel mercato dei fornitori,
nell’individuazione dei fornitori migliori, nella selezione dell’offerta migliore, nell’ordinazione,
ricevimento e stoccaggio dei materiali acquistati. Ad occuparsi di ciò, in ogni azienda, sono i
cosiddetti “buyers”, i “compratori”, ovvero responsabili altamente specializzati nel mercato delle
forniture, che siano in grado di scegliere il fornitore più conveniente e che garantisca materiali e
servizi di più alta qualità.
Ciascun Buyers deve essere in grado di:

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1. Crearsi una rete ampia di fornitori per ogni prodotto e scegliere il migliore. E’ infatti
buona norma predisporre di avere almeno 3 fornitori per ciascun prodotto.
2. Prevedere l’andamento del mercato delle forniture, per prevedere variazioni di prezzo e
diversa reperibilità dei materiali.
3. Ricorrere a formule contrattuali anti-rischio, come i “contratti aperti”, contratti di
acquisto contenenti delle clausole sul numero massimo di pezzi ordinabili e su prezzi di
acquisto prefissati.
4. Saper operare l’analisi qualitativa dei materiali.
5. Partecipare attivamente allo stoccaggio dei prodotti.

Il Ruolo del buyers è quindi delicato e centrale, in quanto la scelta del materiale, il suo prezzo e la
sua qualità sono caratteristiche che interessano a tutte le altre funzioni dell’impresa, da quella
produttiva, a quella finanziaria, a quella delle vendite. Per tal motivo, il buyer deve lavorare in
maniera estremamente coordinata con:
1. Il direttore della produzione, perché deve garantire ai cicli produttivi la costante
alimentazione di materie prime, e deve concordare con il direttore della produzione
l’idoneità del materiale al ciclo di lavorazione.
2. Il direttore del marketing e delle vendite, in quanto la qualità del materiale corrisponde
inevitabilmente anche alla qualità del prodotto. Così, in base alla qualità del materiale
scelto dal buyers, il direttore del marketing potrà orientare una maggiore o minore
differenziazione del prodotto e una differente politica di prezzo.
3. Il direttore finanziario, in quanto le modalità di pagamento al fornitore influiscono nel
“capitale circolante”: la scelta di un pagamento in formula anticipata, cash o dilazionata
dev’essere pertanto concordata con il direttore finanziario.
4. Il direttore della ricerca e dello sviluppo, per ricercare insieme, ove sia possibile, il
reperimento di materiali, all’avanguardia, o derivanti da recenti sviluppi della tecnologia.

Per concludere, la scelta del fornitore dipende in definitiva dal costo del materiale che offre,
dalla qualità del materiale che offre e dalla puntualità delle consegne. Maggiore è la richiesta di
immediatezza dell’ordine da parte del buyer, tanto più dovrà essere breve il lead time del
rifornimento.
Un punto di svolta fondamentale, nell’ambito degli acquisti di materiali, è il business to business,
cioè il metodo di acquisto di materiali on-line. In un’epoca in cui l’e-commerce diventa sempre più
importante, gli acquisti on line vengono eseguiti anche dalle imprese, che possono visionare il
prodotto in tempo reale.
Altro aspetto legato alla logistica è quello della “reverse logistic” o logistica del riciclo, legata alle
sempre maggiori esigenze di ambientalismo e sostenibilità, le quali hanno spinto tantissime imprese
a restituire i materiali di scarto per permetterne il riutilizzo.

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Capitolo XVII

Il processo di innovazione della gestione aziendale.

• L’innovazione della gestione aziendale.


La produzione di innovazioni è necessaria per conquistare e mantenere il vantaggio competitivo.
Non si deve però pensare che l’innovazione, essendo “tecnologica”, riguardi esclusivamente gli
aspetti tecnici della produzione. Quello è il significato ristretto di tecnologia; quello ampio, di
significato, è quello che sto intendendo e riguarda ogni aspetto della gestione dell’impresa.
L’innovazione può inoltre essere marginale o radicale. Le innovazioni marginali sono quelle che
richiedono bassi investimenti e che modificano solamente fattori estetici del prodotto, che possono
riguardare quindi il confezionamento. Per innovazioni radicali si deve intendere invece le
modifiche apportate sui piani finanziari, o sulle politiche di vendita, modifiche che incideranno in
maniera appunto radicale sul futuro dell’impresa.

• Tutte le possibili innovazioni.


L’innovazione può dunque riguardare 7 diversi aspetti, ovvero può esserci:
1. L’innovazione e quindi la modifica della direzione.
2. L’innovazione dei macchinari e degli impianti.
3. L’innovazione del processo produttivo o ciclo di produzione.
4. L’innovazione delle routine e dell’organizzazione aziendale.
5. L’innovazione di un prodotto già esistente.
6. L’innovazione radicale nello stesso mercato, cioè l’immissione di un nuovo prodotto nello
stesso mercato.
7. L’innovazione radicale in un nuovo mercato, ovvero l’immissione di un nuovo prodotto in
un nuovo mercato.
Tutto ciò comporta naturalmente maggiori investimenti in risorse umane e materiali, e l’aumento
del rischio, ovvero della possibilità di minare la sopravvivenza dell’impresa. L’entità del rischio

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dipende dalle possibilità di modificare, nel tempo, il progetto innovativo a corso d’opera e dipende
quindi da fattori interni, inerenti all’azienda, ed interni, inerenti al mercato e all’ambiente.

• Le 4 fasi del processo innovativo.


Parliamo ora, nello specifico, dell’innovazione di un prodotto.
A tal proposito, l’innovazione può essere “incrementale” o “radicale”: nel primo caso si tratterà di
rinnovare un prodotto già esistente, nel secondo caso di lanciarne uno nuovo sul mercato.
Riferendoci per lo più sull’innovazione radicale, quindi sul lancio di un nuovo prodotto, dobbiamo
dire che non sempre tale operazione va a buon fine. Infatti, non è detto che l’innovazione di un
nuovo prodotto sia sinonimo di successo commerciale; per far si che lo sia, è necessario valutare le
probabilità di successo attraverso quattro importanti fasi:
1. Verifica commerciale, ovvero la verifica della “vendibilità” del prodotto, quindi la stima
delle quanità da produrre e dei prezzi da assegnargli.
2. Verifica produttiva, cioè la stima dei mezzi tecnici, degli impianti, necessari alla
realizzazione del nuovo prodotto.
3. Verifica finanziaria, ovvero la previsione del budget necessario all’investimento nel nuovo
progetto, e la facilità del suo reperimento.
4. Verifica economica, ovvero la previsione dei potenziali costi e dei potenziali ricavi che il
lancio del prodotto porterebbe.
Solo dopo aver superato queste prove con esito positivo, e dopo che ne venga creato quindi un
business plan, il prodotto sarà pronto ed idoneo ad essere immesso nel mercato.

• L’importanza dell’innovazione “globale” dell’organizzazione aziendale.


Parliamo ora di quanto sia importante produrre “innovazioni” da parte di ogni settore dell’azienda.
Per farlo, ritorniamo sui due significati di tecnologia. Per “tecnologia” in senso stretto intendiamo
“quell’insieme di tecniche, competenze ingegneristiche e conoscenze scientifiche necessarie a
migliorare la produzione”. Per “tecnologia” in senso ampio, invece, intendiamo l’applicazione di
conoscenze tecniche per risolvere problemi di ogni tipo: sociali, organizzativi, di pianificazione,
direzione e controllo. Secondo questa accezione, dunque, l’innovazione deve investire ogni settore
dell’azienda, e deve esserci innovazione tecnologica della direzione, della programmazione, del
controllo, dell’organizzazione. E’ in sostanza fondamentale per l’impresa una propensione al
miglioramento e all’innovazione, che parte da ogni membro dell’organizzazione. Per ottenere tale
propensione, è necessario creare un clima aziendale adatto, fondato sui precetti della teoria Y, che
incentiva la brillantezza dei dipendenti, e su sistemi di controllo che lascino spazio e libertà alle
iniziative creative.

• La classificazione delle innovazioni.


Procedendo alla classificazione delle possibili innovazioni,
1. iniziamo in primo luogo a differenziarle in base al loro scopo strategico, per cui avremo
innovazioni offensive, atte cioè ad occupare nuove posizioni di mercato che prima non si
possedevano; innovazioni neutre, volte a pareggiare l’efficienza produttiva della
concorrenza; e innovazioni difensive, necessarie invece a pareggiare le tecnologie
produttive della concorrenza.
2. Un secondo criterio di classificazione è la portata: come già abbiamo visto, esistono
innovazioni radicali, cioè novità assolute, innovazioni incrementali, cioè cambiamenti di
innovazioni già in atto, e innovazioni marginali, cioè cambiamenti secondari e poco
importanti di innovazioni già in atto.
3. Terzo elemento di differenziazione è il grado di protezione, per cui esistono innovazioni
protette, per esempio da brevetti senza i quali non si possono attuare; innovazioni
“proteggibili”, ovvero innovazione nelle quali l’azienda può investire per limitarne la

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potenziale imitazione della concorrenza; e infine innovazioni non protette, quindi
facilmente replicabili dalla concorrenza.
4. Quarto criterio di classificazione è la velocità del rientro dell’investimento, cioè la velocità
con cui ritornano i frutti dell’investimento. Secondo questo criterio distinguiamo
innovazioni a redditività immediata, diffusa e futura.
5. In relazione alla produzione, distinguiamo l’innovazione di prodotti, cioè l’immissione di
nuovi prodotti nel mercato o la modifica di prodotti in esso già esistenti; l’innovazione dei
processi, cioè il miglioramento dei cicli produttivi; l’innovazione degli impianti, cioè il
miglioramento della tecnologia di produzione attraverso l’acquisizione di macchinari
all’avanguardia.
6. Sesto ed ultimo criterio di distinzione è il grado di autonomia: esistono cioè innovazioni
autonome, attuabili indipendentemente dall’esistenza di altre innovazioni, ed innovazioni
sitemiche, legate cioè ad altre innovazioni senza le quali non sono attuabili.

• Il finanziamento del processo innovativo.


Un progetto di innovazione richiede naturalmente l’investimento di ingenti somme di capitali.
Come ogni investimento, dunque, anche quello relativo all’innovazione è caratterizzato da un
rischio e da un tempo di ritorno economico. Il rischio dipende dall’incertezza del successo del
progetto,il tempo di ritorno dal tipo di prodotto e dal tipo di mercato. Di sicuro, trattandosi di un
nuovo prodotto immesso in un mercato, il ritorno del denaro investito, non avviene prima del
raggiungimento della fase di sviluppo del prodotto. Ovvero, nella prima fase di introduzione, non si
avranno entrate di cassa ed anzi si dovrà sostenere il costo relativo al lancio e alla pubblicità; solo
dopo lo sviluppo nel mercato arriveranno i primi introiti. Non è quindi facile reperire i fondi
necessari all’investimento: le banche non sono una soluzione, visto che richiedono sempre una
garanzia di riscossione del credito, che un progetto innovativo, per il suo stesso significato, non
può dare. Tra i privati, coloro che finanziano solitamente progetti innovativi, quindi, sono i
cosiddetti “business angels” o “venture capitalist”, cioè finanziatori abituati ad addossarsi il
rischio dell’innovazione. Nel pubblico, i finanziamenti provengono da organizzazioni di ricerca
pubblica, come la CNR e dalle Università, e si chiamano fondi governativi o regionali.

• L’organizzazione dell’innovazione.
Ogni progetto di innovazione è frutto di un team, essendo il risultato di ricerche e conoscenze
differenziate. Per elaborare un progetto di innovazione, si susseguono, in scala, operazioni di
allestimento di un osservatorio di mercato, di un team, prima occasionale e poi permanente, e infine
di allestimento di di una rete di ricerca interaziendale.

• La differenza tra “first moover” e “follower”.


Dobbiamo ora specificare che l’azienda innovatrice può essere di duplice natura:
1. Possiamo avere un “first moover”, cioè un pioniere, un innovatore nel senso vero del
termine, il primo ad immettersi in un mercato con un nuovo prodotto.
2. Oppure possiamo avere un “follower”, cioè un “imitatore”, colui che aspetta che arrivi
l’innovazione in un mercato per copiarla e farla sua.
I first moovers e i followers hanno vantaggi e svantaggi. I pionieri, ad esempio, hanno il grande
vantaggio di entrare per primi nel mercato ed occupare quindi la posizione preminente, la quota
di mercato maggiore; il grandissimo vantaggio di imporre la propria “fedeltà di marca”, ovvero
la clientela proverà una certa avversione a scegliere la concorrenza piuttosto che il first moover,
prima garanzia di qualità. Altro vantaggio, imprescindibile, è quello di poter contare sulla
“leadership tecnologica”, cioè sull’essere l’unico, almeno inizialmente, in possesso della formula
tecnologica necessaria a realizzare il prodotto, formula, come sappiamo più o meno
“proteggibile”. Al tempo stesso, tuttavia, i pionieri si troveranno a correre il rischio di investire,
senza avere la certezza di ricavare; accanto a ciò, subiranno anche lo svantaggio degli elevati

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costi tecnologici necessari alla produzione di un bene, che probabilmente in futuro verrà
prodotto a costi più bassi.
Per quanto riguarda il follower, dal canto suo, può contare su una maggiore probabilità di
successo dell’investimento, essendo inerente ad un tentativo proprio di altri, che già funziona. Il
follower non potrà, tuttavia, contare su una posizione preminente di mercato sin dall’inizio, ma
dovrà guadagnarsela dimostrandosi in grado di battere la concorrenza del pioniere.
La scelta se essere dei first moover o dei follower dipende fondamentalmente dalla dimensione
dell’azienda. Solitamente solo le grandi aziende risultano essere dei “first moover”, in quanto solo
esse riescono a sostenere i grandi costi dell’investimento innovativo col rischio di non ottenere i
ricavi. Le piccole imprese riescono, dal lato opposto, al massimo a imitare innovazioni già presenti
nel mercato. Altro fattore di assoluta rilevanza, sotto questo punto di vista, sono gli altissimi costi
relativi alla R&S, cioè alla ricerca e sviluppo: costi sostenibili solo da grandi imprese.

CAPITOLO XIX

Tecniche di programmazione e di controllo.

• La programmazione ed il controllo della gestione finanziaria.


Il processo di programmazione e controllo riguarda soprattutto la gestione finanziaria. Assume
prioritaria importanza, nell’azienda, infatti, misurare i fabbisogni e le disponibilità economiche, gli
investimenti, la liquidità e il tasso di indebitamento. A tal fine, le imprese si servono di due
strumenti, uno di controllo e pianificazione finanziaria, l’altro monetaria:

1. Il prospetto delle fonti e degli impieghi.


E’ il documento che riporta tutti gli impieghi e le fonti di capitale nell’arco di un biennio o di un
triennio. Le fonti sono le modalità di ottenimento del capitale, gli impieghi i possibili investimenti
che si possono fare con quel capitale. Fonti ed impieghi possono essere correnti, cioè relativi
all’esercizio annuale, non correnti, cioè relative al ciclo pluriennale. In base a tal criterio
distinguiamo 3 tipologie di fonti e 2 di impieghi. Tra le prime, abbiamo
- Fonti di gestione, ovvero il cash-flow aziendale, il surplus di capitale che rimane all’azienda a
fine esercizio.
- Fonti correnti, cioè debiti nel breve termine.
- Fonti non correnti, cioè debiti nel medio-lungo termine.
Tra gli impieghi, abbiamo analogamente
- Impieghi correnti, cioè investimenti nel breve termine.
- Impieghi non correnti, cioè investimenti nel medio-lungo termine.
Il prospetto delle fonti e degli impieghi permette di identificare tre saldi:

1.1 Un saldo finanziario, cioè la differenza tra fonti ed impieghi non correnti;
1.2 Un saldo corrente, cioè la differenza tra usi e fonti correnti, ed
1.3 Un saldo complessivo, cioè la somma algebrica dei primi due saldi.
Dal punto di vista puramente teorico l’azienda dovrebbe far tendere a zero i tre saldi, in modo che
sia ottenuto un equilibrio tra fabbisogno finanziario e disponibilità per investimenti. Dal punto di
vista invece pratico, l’obiettivo è far andare i conti in positivo, ovvero raggiungere la condizione per
cui le fonti di capitale siano maggiori del fabbisogno economico, potendolo così coprire
tranquillamente; con i saldi in positivo, si godrà di disponibilità di capitale, che dovrà essere
adeguatamente investita onde evitare che si trasformi in liquidità infruttifera. Al contrario, se i tre

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saldi vanno in negativo, si ha una situazione di fabbisogno finanziario maggiore delle fonti
necessarie a coprirlo. In una situazione pericolosa come questa, bisogna il prima possibile trovare il
modo di coprire il fabbisogno finanziario.

2. Il Piano di cassa, il prospetto dei flussi monetari per operazioni di esercizio, il


quadro generale dei movimenti monetari.
Questi tre indicatori sono necessari alla programmazione ed al controllo monetario, e non più
finanziario, ovvero servono a controllare i flussi di cassa in entrata ed in uscita, così da monitorare
la situazione di “liquidità dell’impresa”, che dev’essere sempre preservata.
Rispettivamente:
2.1 Il prospetto dei flussi monetari per operazioni di esercizio determina il saldo, positivo o
negativo, corrente, cioè l’equilibrio che c’è tra entrate correnti ed uscite correnti.
Nell’immediato, se il saldo è positivo si ha disponibilità di capitali, se è negativo si ha fabbisogno
finanziario.

2.2 Il quadro generale dei movimenti monetari, cioè il quadro che include tutte le entrate e tutte
le uscite (anche quelle non correnti) dell’impresa, e che include pertanto anche il prospetto dei
flussi monetari per operazioni di esercizio.
2.3 Il Piano di cassa o “Budget di Tesoreria”, invece, elenca le entrate e le uscite nel brevissimo
termine, infatti ha spesso scadenze mensili. Nel piano di cassa possono esserci entrate probabili,
molto probabili e sicure, ed uscite fisse, come le rate dei debiti da pagare, uscite periodiche, come
la liquidazione dell’IVA, o uscite straordinarie, come gli indennizzi per i licenziamenti.

• La valutazione degli investimenti.


Parlando specificatamente di impieghi di capitale, nei fatti stiamo parlando di investimenti. Prima di
poterli attuare, gli investimenti devono essere sottoposti ad una valutazione, per comprendere con
esattezza se la loro attuazione risulta conveniente, sconveniente, se può essere differita. La
convenienza o meno dell’attuazione viene valutata attraverso vari metodi, ma diciamo che in linea
generale un investimento risulta conveniente se i ritorni di capitale pareggiano e superano i costi del
capitale stesso, in un periodo di tempo accettabile.
Prima di passare in rassegna alle varie forme di valutazione degli investimenti, diciamo, ancora
molto generalmente, che degli investimenti va valutata:
- L’accettabilità rispetto a standard prefissati dall’azienda, per cui ad esempio un investimento
sarà accettabile dall’azienda X solamente se potrà produrre una redditività prestabilita.
- Una lista prioritaria di investimenti, ovvero gli investimenti vanno comparati e di essi va fatta
una piramide di importanza e convenienza.
Ogni investimento viene inoltre attuato con lo scopo di ottenere dei “ritorni”, che possono essere
ritorni economici diretti, ovvero la differenza tra ricavi e costi, che dovrà essere positiva; ritorni
economici indiretti, che possono essere i vantaggi economici ottenibili, grazie all’investimento, in
mercati diversi da quelli in cui si ha investito; ritorni “non economici” o “qualitativi”, ovvero
ritorni immateriali, non denaro, ma risorse altrettanto importanti come la pubblicità, l’immagine, la
reputazione.

• I 4 metodi di valutazione degli investimenti.


1. Metodo del periodo di recupero.
Il metodo del periodo di recupero valuta la convenienza di un investimento sulla base della sua
“rischiosità”. Per “rischiosità” di un investimento si intende il lasso di tempo che intercorre
dall’uscita del capitale, fino al suo reintegro con i ritorni economici. Pertanto il metodo del
periodo di recupero valuta la convenienza e la rischiosità di un investimento sulla base della rapidità
con cui garantisce i primi rientri economici. Naturalmente, può avere funzione comparativa, cioè
può servire a comparare due potenziali investimenti e può aiutare a scegliere il “più conveniente”,

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cioè il “meno rischioso”, quello che presenta tempo di recupero del capitale minore. Tra un
investimento A che garantisce il recupero del capitale investito entro 3 anni, ed un investimento B
che lo garantisce in 4 anni, sarà dunque da preferire l’evento A.

I due metodi che ora mi accingo a descrivere si basano invece sulla “valutazione del tasso di
redditività”, cioè sulla misurazione dell’economicità di un investimento, ovvero della capacità dei
suoi redditi (introiti) di pareggiare e superare i costi del capitale investito. In questo tipo di
valutazioni, è incorporato anche il valore o il “prezzo” del denaro: infatti, anche il denaro stesso, il
capitale, ha un prezzo, determinato oggettivamente dal mercato e soggettivamente dai singoli
investitori. Per “valore o prezzo” del denaro si intende il fatto per cui un euro, ad esempio,
prestabile oggi stesso ha un prezzo molto più alto (cioè tassi di interesse molto più alti) rispetto ad
un euro prestabile tra un anno.

2. Metodo del “TIR”, “internal rate of return”.


Il primo metodo di valutazione della redditività attualizzata è il cosiddetto “TIR” o “internal rate
of return”, che tradotto significa “tasso interno di rendimento”. Di che cosa si tratta? E’ un
metodo di analisi della redditività attualizzata, cioè della differenza tra introiti e capitale investito,
che tiene conto del fattore tempo, cioè del tasso di attualizzazione X. Nella sua formula, si
indicano con Ei gli introiti, con Ui gli esborsi pagati, e con “x” il TIR, cioè il tasso interno di
rendimento” o “tasso di attualizzazione”. La formula è la seguente:

Per comprendere la convenienza o meno di un investimento, tuttavia, non basta il Tasso di


attualizzazione preso singolarmente. Occorre infatti comparare questo tasso di attualizzazione TIR
con il costo necessario al reperimento del capitale investito. Se il TIR è maggiore del costo di
capitale investito, allora l’investimento è conveniente, altrimenti è da abbandonare o modificare.
Per fare un esempio, un investimento con TIR pari al 9% e con un costo del capitale pari al 6% è un
investimento conveniente.

3. Metodo del “VAN” o “Net present value”.


Per “VAN” o “Net present Value”, si intende il metodo di valutazione di un investimento
chiamato in Italiano “metodo del valore attuale netto”. E’ molto simile al TIR, in quanto Ei ed Ui
rappresentano anche qui, rispettivamente, introiti e capitali investiti; la differenza è che nel
modello VAN si assume l’ipotesi che il TIR, cioè il tasso di attualizzazione “x” pareggi
precisamente il costo dei capitali; così, nella formula del VAN, il tasso di attualizzazione diventa
“c”, che sta per “costo del capitale”. Un progetto risulta tanto più conveniente quanto più risulta
alto il valore del suo VAN.

4. Opzioni reali o strategiche.


Ciascun investimento può essere poi valutato in base alla sua “flessibilità”, ovvero alla possibilità di
modificarlo una volta che già è stato avviato. In base a questo principio, si distinguono 4 opzioni
reali o strategiche:

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4.1) Opzioni di sviluppo, ovvero la possibilità, una volta che sono ritornate le prime entrate
dall’investimento, di utilizzarle per alimentare nuovi investimenti o migliorare quello già esistente.
Si tratta insomma di reinvestire le entrate.
4.2) Opzioni di abbandono; nel caso invece in cui i rientri dell’investimento tardino tornare, o nel
caso in cui non possano coprire tutte le spese sostenute per i costi del capitale, si valuta così
l’abbandono del progetto.
4.3) Opzioni di differimento, è la capacità di un investimento ad essere flessibile sotto il punto di
vista del tempo, cioè flessibile nel modificare i tempi di attuazione, e quindi le opzioni di
differimento consistono nella possibilità di velocizzare o rallentare entrate e ed uscite di un
investimento.
4.3) Opzioni di flessibilità, ovvero la capacità di un investimento di essere flessibile in tempo lato,
per quanto riguarda i tempi di attuazione, i tempi di rientro del capitale investito, gli obiettivi, la
struttura stessa dell’investimento.

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Il diagramma di redditività non deve essere erroneamente immaginato, tuttavia, come un modello
perfetto, perché presenta dei limiti, 4 in particolare:
1. L’ipotesi della costanza dei ricavi unitari di vendita.
Ovvero, il diagramma di redditività si fonda sull’ipotesi che l’azienda assegni a ciascun prodotto
sempre lo stesso prezzo, senza variarlo mai, ma non è così. Molto spesso le imprese variano prezzi e
sconti dei prodotti a corso d’opera, variazioni, che non vengono assorbite dal diagramma di
redditività che quindi diventa obsoleto.
2. L’ipotesi dell’invariabilità della composizione quali-quantitativa della gamma di
vendita.
Cioè il diagramma di redditività si fonda sull’ipotesi che i prodotti che compongono la gamma
siano sempre gli stessi, sia quantitativamente, cioè in numero, sia qualitativamente, cioè composti
sempre dagli stessi materiali. Ma anche questa ipotesi è fallace, visto che molto spesso le aziende
variano sia i materiali con cui assemblano i prodotti sia il loro numero.

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3. L’ipotesi della proporzionalità dei costi variabili.
Nel senso che non tutti i costi variabili sono proporzionali allo stesso modo. Alcuni hanno una
determinata proporzionalità nel variare se relazionati ad un’unità di misura (ad esempioi litri), altri
hanno variabilità diversa se inerenti a unità di misura diverse (ad esempio i Watt).
4. L’ipotesi della staticità della struttura aziendale.
Naturalmente, il limite più ovvio, è la staticità della struttura aziendale, ovvero l’utopica ipotesi che
le grandezze utilizzate dall’azienda, come i costi fissi e i ricavi, rimangano invariate per sempre.

• La gestione delle scorte.


Tra le aree della gestione che hanno assoluta necessità di programmazione e di controllo c’è,
naturalmente, anche la logistica. Ricordiamo, entrando nel merito della questione delle scorte, che
esistono scorte di materie , ovvero scorte necessarie all’alimentazione dei cicli produttivi, e
scorte di prodotti finiti, destinati esclusivamente alle vendite. Riferendoci esclusivamente alle
prime, alle scorte di materie, diciamo che le imprese possono scegliere di gestire le scorte di materie
in due modalità differenti.
1. Attraverso lo “Stock control”, il sistema di gestione tradizionale in cui il numero delle
giacenze da tenere in magazzino dipende dai tempi di utilizzo e ri-approvvigionamento dei
materiali. Per quanto riguarda l’impostazione dello stock control, le tecniche di logistica più
utilizzate sono:

1.1) Il “Two bin Sistem” o anche “tecnica delle scorte separate”.

1.2) “L’ordering cycle sistem”o “ciclo di ordinazione.

2. La seconda impostazione della logistica è il cosiddetto “flow control”, ovvero la


sistemazione delle giacenze in magazzino in base alla richiesta del prodotto dal mercato.
Sotto questo profilo, abbiamo ancora due tecniche,

2.1) Il cosiddetto “MRP”, o “Material Requirements Planning”, che si basa sul concetto di far
coincidere le scorte con il fabbisogno esclusivamente di breve periodo.

2.2) La cosiddetta “Just in Time” o “JIT”, tecnica forse un po’ estrema ma talvolta molto efficace.
Il just in time infatti propone sostanzialmente la minimizzazione delle scorte lasciate in giacenza,
con lo scopo di avere risparmi nei costi, consistenti nell’eliminazione del rischio di deterioramento
ed obsolescenza dei prodotti, nel cui caso coinciderebbero solo ad perdita. Attuare il just in time è
molto difficile e pericoloso, perché è assolutamente indispensabile puntualità del fornitore e qualità
dei suoi materiali, per evitare che i cicli produttivi si blocchino, provocando un deficit nel reddito
aziendale. Per attuare il Just in Time infatti, occorre possedere un collegamento ravvicinato e stretto
con il fornitore, talmente stretto che spesso si trasforma in una cosiddetta “co-location”, ovvero
nell’inserimento dell’impianto produttivo dei materiali, proprio del fornitore, direttamente nello
stabilimento dell’azienda, così da ridurre a zero il tempo di trasporto dei materiali ed aumentare di
parecchio il grado di collaborazione e informazione.

• Il “Two bin system”, la tecnica delle scorte separate.

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