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Capitolo 1
L’impresa è un evento:
1. Soggettivo: tende a valorizzare le specificità individuali. Si da importanza alla componente umana e
relazionale -> si crea un’interdipendenza tra obiettivi dell’organizzazione e quelli dei soggetti che la
compongono.
2. Oggettivo: l’impresa viene resa quantificabile, trascura le componenti culturali, sociali, psicologiche che
possono interferire con la massimizzazione del risultato. È un fenomeno razionale che tende a rendere
minimo l’impatto delle specificità individuali, aspirando a ridurre l’arbitrarietà e la variabilità delle
componenti rendendole prevedibili, programmabili e controllabili nel tempo.
3. Interattivo: l’organizzazione è sia soggettiva che oggettiva. Una parte è sottoposta al calcolo razionale,
l’altra è definita dalla soggettività di individui e gruppi scarsamente controllabile. Opera in sistemi più vasti
da cui può farsi influenzare e che può influenzare.
Quindi l’impresa è:
- un’”attività economica” -> un fenomeno che, attraverso l’eccedenza dei flussi in uscita (output) sui flussi
in entrata (input) si autoalimenta;
- un insieme di fattori “organizzati” -> il governo e la gestione dei fattori organizzati sono orientati alla
soddisfazione degli interessi e/o alla soddisfazione dei bisogni dei soggetti;
- l’espressione “al fine della produzione e/o lo scambio di beni e servizi” rappresenta la finalità dell’impresa.
In realtà questo punto merita una precisazione in quanto l’impresa va considerata come un sistema
organico composto da più parti che interagiscono tra loro, caratterizzato da un ciclo di vita, da una
dipendenza dalle risorse esterne, da una sua forma e da una struttura organizzativa capace di adattarsi
all’evolversi dell’ambiente, di apprendere, memorizzare e replicare e soluzioni a situazioni verificatesi in
passato. La produzione di beni e servizi è solo un mezzo per raggiungere il vero fine ultimo che è
rappresentato dalla sopravvivenza (inoltre il macro-obiettivo sopravvivenza racchiude in sé il
conseguimento di obiettivi secondari).
Governo: organo individuato nel top-management il cui compito è di indirizzare e guidare il sistema,
attraverso una serie di scelte strategiche, verso le finalità dell’impresa.
Gestione: apparato che realizza le intenzioni dell’organo di governo.
2. Approccio sistemico: è una metodologia di analisi orientata alla comprensione dei fenomeni nella loro
dimensione complessiva (olismo) tesa al superamento dell’approccio analitico. L’impresa è un sistema
orientato di tipo socio-economico-tecnico-aperto costituito da elementi interagenti per perseguire una
finalità.
3. Approccio evolutivo: è basato sull’evoluzione delle organizzazioni in funzione del tempo. Le teorie
evolutive possono essere suddivise in due macro categorie: analogia biologica (evoluzione in ambito
biologico) e analogia sociale (evoluzione in ambito sociale).
L’ambiente d’impresa: tutto ciò che può direttamente influire sulla sua sopravvivenza o sulla sua crescita.
L’ambiente può essere percepito dall’impresa come:
- matrice o griglia delle regole del gioco: l’azienda deve attenersi a determinare regole e vincoli. Può, in
parte, modificarle attraverso l’elaborazione di valide ed opportune strategie.
- matrice delle convenienze ed opportunità: le convenienze si delineano di giorno in giorno per ciascuna
impresa a seconda del suo ambiente specifico.
Vi sono: convenienze dirette (mercato dei fornitori ecc.) e convenienze indirette (di hardware –
infrastrutture – e di software – servizi - )
Oggi si parla di impresa proattiva, perché deve essere in grado di gestire le conseguenze di eventi che non
si sono ancora verificati, e di ambiente di riferimento attivato, definibile come l’insieme dei soggetti, dei
sistemi e dei mercati riconosciuti come portatori di risorse rilevanti per i suoi scopi.
Quindi l’ambiente non va considerato come elemento esterno all’impresa ma racchiude in sé l’impresa che
ne interiorizza la cultura, i valori e gli interessi attraverso azionisti, fornitori, consumatori, sindacati e le
relazioni con il mondo.
Se dunque esiste una relazione impresa/ambiente, essa è sicuro di tipo biunivoco, in quanto l’impresa è allo
stesso modo destinataria e artefice delle dinamiche ambientali.
Nell’acquisire e trasformare gli input, e nell’offrire e distribuire gli output, l’impresa manifesta il proprio
comportamento organizzativo di interazione con l’ambiente esterno. L’interazione con l’ambiente esterno
comporta dei flussi di ritorno (feedback) inerenti all’impatto degli output sull’ambiente esterno, che
vengono interiorizzai dall’impresa e possono modificarne il comportamento.
Il rapporto impresa-ambiente si sviluppa in due direzioni: dall’ambiente verso l’impresa e viceversa.
Concludendo, oggi si parla di sincronismo adattivo tra produzione e mercato, basato sulla capacità tecnica
e sociale dell’impresa di offrire una risposta flessibile alla variabilità del mercato. Emerge quindi la
necessità di formulare strategie che consentano di attuare processi dinamici di adattamento in cui le
aziende interagiscono attivamente con l’ambiente rispondendo in modo attivo alle sue modificazioni.
Data la dinamicità dell’ambiente esterno, non è possibile elaborare previsioni sufficientemente stabili ed
affidabili sugli accadimenti futuri, in particolare sull’evoluzione dei mercati e dell’ambiente esterno. Per
questo motivo le scelte strategiche delle imprese relative ai mercati su cui competere sono caratterizzate
da un alto grado di rischio. Risulta importante l’elasticità operativa e quella strategica (flessibilità), definita
come la capacità dell’impresa di adattarsi in modo tempestivo ai mutamenti ambientali.
Alcuni elementi notevolmente dinamici, quali la globalizzazione, i fattori demografici e il progresso
tecnologico, stanno trasformando il panorama competitivo mondiale, il quale arriva a comprendere mercati
sempre più distati non solo dal punto di vista spaziale ma anche e soprattutto da quello merceologico.
Alla luce della crescente complessità ambientale, diviene centrale la capacità dell’impresa di relazionarsi
con l’esterno.
La complessità (ovvero l’incapacità di governare con meccanismi semplici) si risolve nel binomio varietà-
variabilità – varietà nello spazio (varianza sincronica) e variabilità nel tempo (varianza diacronica) – con
cui si manifestano le situazioni e le opportunità organizzative e tecnologiche che caratterizzano il contesto
di riferimento dell’impresa.
Complesso: “ogni ambiente imprevedibile, rispetto al quale l’unica reazione che possa garantire la
sopravvivenza è di mantenere un alto tasso di esplorazione e la capacità di sviluppare rapidamente
strutture temporanee atte a valutare e sfruttare ogni occasione favorevole che può nascere”.
Va da sé che per sopravvivere nel lungo periodo e per conseguire un soddisfacente livello di redditività,
occorre che l’impresa si mantenga in uno stato di equilibrio dinamico. Quest’equilibrio non è quello
ottimale perché il sistema resta aperto alle influenze esterne, fonte di potenziale disturbo.
L’equilibrio di stato stazionario (o assoluto) è solo di brevissimo periodo perché presuppone la completa
staticità del sistema, condizione non riscontrabile per le aziende nel medio-lungo periodo.
L’internazionalizzazione un tempo vista come opportunità/convenienza oggi è una scelta obbligata per
mantenere determinati livelli di competitività e redditività.
Nasce una tendenza all’esternalizzazione: si rinuncia alle attività secondarie e di supporto che non sono
competenze di base dell’azienda e per questo vengono affidate a partner qualificati. Le imprese sono
consapevoli che non è possibile fronteggiare la complessità ambientale affidandosi solo alle proprie forze.
Emerge che le caratteristiche principali che le nuove forme d’organizzazione devono possedere sono la
flessibilità e la capacità di integrare le proprie competenze e attività con quelle di imprese terze.
Nascono, in tal modo, il modello di impresa-rete e le reti d’impresa.
L’impresa è un’entità aperta agli scambi con l’ambiente esterno, un sistema in continua interazione con il
contesto socioeconomico di riferimento. Lo studio dell’impresa rientra nella teoria generale dei sistemi.
Il concetto di sistema aperto richiama l’attenzione sul fatto che al crescere della complessità, diviene
sempre più difficoltoso parlare di confini aziendali definiti. Oggi il concetto di dimesione aziendale è
mutato: l’impresa si pone come riferimento principale per una serie di relazioni tra soggetti situati anche al
di fuori della sua sfera di competenza.
In linea generale un sistema è un raggruppamento di elementi tra i quali concorrono relazioni, collegamenti
logici, connessione. Inoltre gli elementi, oltre ad essere relazionabili, devono anche essere interagenti e
finalizzati al perseguimento di una finalità. Gli elementi di un sistema possono essere raggruppati in due
categorie: input e output. Riassumendo: un sistema è un’entità concettuale o concreta costituita da parti in
interazione dinamica organizzata in vista del raggiungimento di un complesso di fini.
La teoria dei sistemi ha il suo cardine in alcuni postulati fondamentali:
- ogni sistema fa parte di un sistema più vasto che lo comprende;
- ogni sistema comprende in sé altri sistemi che gli appartengono;
- il valore di un sistema considerato nel suo complesso è maggiore della somma dei valori delle singole parti
che lo compongono, e la differenza è la sinergia intrinseca del sistema.
I sistemi, in base al rapporto con l’ambiente esterno, si qualificano in aperti, chiusi ed isolati:
- aperti: nel caso in cui si riscontri una tendenza all’interscambio con tutto ciò che è loro esterno;
- chiusi: se l’interscambio è di modesta entità ed i risultati delle azioni ricadono al loro interno;
- isolati: nel caso di assenza totale di interscambi.
In definitiva l’impresa si configura come un sistema:
- aperto agli scambi con l’ambiente esterno;
- orientato al perseguimento di una finalità;
- autopoietico, capacità di rigenerare le sue componenti e le relazioni tra le stesse, senza perdere la propria
identità;
- relazionale, per la sua attitudine a sviluppare relazioni con soggetti esterni;
- cognitivo, che ha la capacità di produrre conoscenze al proprio interno e che utilizza tale conoscenza per
produrre un valore economico.
Si fa riferimento all’esistenza di norme , routine, processi standardizzati in cui le procedure sono previste e
stabilite ex-ante, di un ambiente in cui tutto è prevedibile e posto sotto il controllo del management
aziendale. Nei sistemi chiusi l’entropia tende a massimizzarsi per raggiungere uno stato di equilibrio
assoluto. Nei sistemi aperti il degrado di entropia deve essere contrastato tramite importazione di energia
dal’esterno. Le relazioni con l’ambiente esterno quindi costituiscono il canale attraverso cui è possibile
attivare i processi di scambio necessari per acquisire l’energia indispensabile alla produzione di risorse.
In passato il periodo fordista fu caratterizzato da una standardizzazione che investiva tutto il processo
produttivo ed organizzativo: l’impresa era inserita in un contesto ambientale semplice, stabile e prevedibile
ed era tesa alla realizzazione di routine organizzative. Ma una struttura così rigida risultava inadeguata e si
diffuse l’esigenza di strutture più flessibili. Tale evoluzione ha condotto alle attuali imprese.
L’entropia, intesa come variazione costante dei collegamenti esistenti tra i vari elementi aziendali, come
tendenza alla flessibilità, alla variabilità operativa e strategica, all’interazione con l’ambiente di riferimento,
si configura quale condicio sine qua non per il mantenimento di adeguati livelli di competitività e per la
realizzazione degli obiettivi aziendali di sopravvivenza, profitto, sviluppo e valore.
Di recente l’importanza delle risorse intangibili si è fatta più consistente sia grazie all’evoluzione tecnologica
sia grazie al trattamento automatico delle informazioni. Conseguenza della crescente importanza delle
risorse immateriali è l’importanza delle relazioni tra le parti e dei processi di conoscenza, in quanto
l’impresa individua grazie ad essi opportunità concorrenziali potenzialmente convertibili in profitti.
Si manifesta, nell’ambito di tutta l’organizzazione, un continuo ed elevato fabbisogno di informazioni e
conoscenza: ciò porta all’abbandono della tradizionale concezione di organizzazione che usa le informazioni
provenienti dall’ambiente esterno per risolvere i problemi in modo passivo e all’accoglimento di una
concezione dinamica secondo la quale l’azienda interagisce con i cambiamenti dell’ambiente creando una
nuova conoscenza per la risoluzione dei problemi.
Informazione: qualcosa di transitorio, un flusso di messaggi, un insieme di dati.
Conoscenza: possibilità di rielaborare e di utilizzare tale flusso per fino pratici ed economici.
La fonte del valore dell’impresa deve essere ricercata non solo tra le risorse materiali ma anche tra quelle
immateriali e soprattutto nelle conoscenze. È la loro caratteristica di immaterialità che le rende soggette a
minori imitazioni da parte della concorrenza.
Capitolo 2.
2.1 – Complessità settoriale e relativa evoluzione
Per circoscrivere un settore si adottano criteri firm centered, finalizzati a circoscrivere il settore in funzione
di caratteristiche ritenute più valide dalla singola impresa e in grado di restringere il campo all’ambito di più
immediato riferimento. Il motivo per cui i criteri firm centered riescono ad adattarsi alla dinamica settoriale
sono che è l’impresa a stabilire, in funzione dei cambiamenti tecnologici e produttivi e dei cambiamenti nei
bisogni della domanda, i fattori di omogeneità da adottare, rinunciando a ricorrere a denominatori comuni
prestabiliti e dotati di scarsa flessibilità. Per l’impresa operante in un ambiente fortemente destabilizzato
dall’influsso di variabili impazzite risulta vitale prevedere in anticipo i segnali deboli provenienti
dall’ambiente, dai quali dipende il processo evolutivo settoriale, ed individuare i nuovi poli che vanno
assumendo una valenza strategica nella filiera di produzione. Infine un fenomeno che sta diventando
sempre più importante è quello del crossing border settoriale: alcune aree di mercato, pur trovandosi in
settori diversi, appartengono ad aree convergenti, caratterizzate da un elevato grado di dinamismo e nelle
quali le fonti del vantaggio competitivo non sono più le scelte in termini di progetto e investimento ma
quelle in termini di alleanze, di progetti di acquisizione e dismissione, di priorità di sviluppo tecnologico.
In passato l'analisi di settore seguiva un approccio logico del tutto indipendente da quello adottato dagli
studiosi della dinamica imprenditoriale: i primi, nell'analizzare il settore trascura vano di considerare il
comportamento delle singole imprese. I secondi, nello studio delle imprese presuppone vano una realtà
settoriale data. Una simile impostazione si basava sulla convinzione che le forze concorrenziali fossero in
grado di determinare la combinazione produttiva più valida e di imporla sul mercato e, il quale, attraverso
un processo selettivo, avrebbe svolto la funzione di rendere omogenee le strutture delle varie imprese. in
tal modo, venivano messi in discussione il significato stesso di strategia aziendale e la possibilità per
l'impresa di rivendicare un ruolo che va ben al di là del semplice adattamento all'ambiente esterno.
Tradizionalmente la teoria aziendalistica si sofferma sulle problematiche relative alla conduzione della
singola impresa, dando vita ad un approccio certamente riduttivo, perché privo di una visione dell'industria
nel suo complesso. Tuttavia un'analisi aziendalistica, per potersi ritenere conforme all'attuale stadio di
evoluzione del sistema industriale, dovrebbe quantomeno richiedere l'ammissione di differenze all'interno
delle imprese appartenenti allo stesso settore, differenze che assumono carattere strutturale. Impresa e
sistema industriale sono specificazioni dello stesso fenomeno, la prima è il fattore dinamico che con il suo
agire crea continui squilibri nel secondo. E' quindi opportuno orientarsi a leggere in senso dinamico il
rapporto tra impresa e settore, dinamicità che non è il frutto esclusivo di influenze ambientali esterne ma
risulta in larga misura dal comportamento delle imprese stesse. Il mutamento costituisce un aspetto
caratteristico della nuova realtà industriale la cui analisi richiede il passaggio da modelli settoriali altamente
omogenei, nei quali l'impresa assume il ruolo di componente meramente adattiva, a modelli settoriali,
articolati, complessi ed immersi in un'ottica di profonda dinamica evolutiva.
2. Un secondo criterio è centrato sull’offerta: delimita i confini settoriali in base alla similarità tecnologica
dei processi produttivi. Si considerano appartenenti ad uno stesso settore produttivo tutte quelle imprese
che utilizzano una tecnologia, un processo produttivo o una materia prima simili, se non addirittura identici.
Critiche:
- il forte dinamismo tecnologico potrebbe portare un gruppo di imprese già inserite in un settore
tecnologicamente ben definito a far parte di un altro settore;
- ciascun prodotto risulta difficilmente riconducibile ad un unico settore;
- infine questo criterio, se da una parte tende a collocare in differenti settori imprese che, pur producendo
beni sostituibili, utilizzano diverse tecnologie, dall’altra inserisce nel medesimo settore imprese che, seppur
legate da una similarità tecnologica, servono mercati assolutamente distanti.
Esempi di settori che fanno ricorso a questi due criteri sono il settore manifatturiero merceologico (criterio
dell’offerta) e il settore economico manifatturiero (sia criterio dell’offerta che della domanda).
3. Un altro genere di criteri, che racchiude in sé diversi modelli, è quello firm-centered (lett. Centrato
sull’impresa) per il quale il settore rappresenta l’insieme delle imprese che una determinata azienda
considera sue concorrenti.
4. Guerci invece, ricomprende in un’unica lista sia i fattori da prendere in considerazione in alternativa alle
affinità di carattere tecnologico, sia i bisogni soddisfatti. Dall’intersezione di questi elementi è possibile
individuare dei raggruppamenti di prodotti appartenenti ai più differenti rami d’industria in aree
competitive caratterizzate dalla similitudine dei fattori.
Il vantaggio di questa impostazione consiste nella sua estrema flessibilità, che permette di considerare, di
volta in volta, fattori diversi, privilegiando gli aspetti che risultano più significativi.
5. Il Modello Volpato propone di definire il settore come “il luogo economico dato dall’intersezione di
alcuni fondamentali fattori di omogeneità:
- omogeneità nel tipo di bisogno soddisfatto dai prodotti;
- omogeneità nel tipo di tecnologia utilizzata nella produzione;
- omogeneità nel tipo di materiali impiegati;
- omogeneità nel tipo di struttura commerciale.
Le imprese che presentano un’elevata omogeneità nei fattori sopra evidenziati sarebbero da considerarsi
come appartenenti allo stesso settore. Appartengono allo stesso settore le imprese che presentano tutti e 4
i fattori di omogeneità mentre quelle che ne presentano solo 3 sono concorrenti potenziali.
Sia il modello di Guerci che quello di Volpato sono un passo avanti rispetto all’impostazione tradizionale
perché suggeriscono una definizione che tende a far coincidere l’ambito del settore con l’ambiente
competitivo di immediato riferimento dell’impresa che vi opera (task environment).
6. Porter introduce il concetto di arena competitiva (ovvero il luogo economico in cui si scontrano più forze
concorrenziali di natura diversa, ma l’una con l’altra interagenti).
Porter ha abbattuto i confini settoriali ed ha individuato 5 fattori concorrenziali (minacce di nuove entrate,
minacce di prodotti o servizi sostitutivi, potere contrattuale dei fornitori, potere contrattuale dei clienti e
concorrenti) dimostrando che la concorrenza in un settore va ben oltre il comportamento degli attori
consolidati: il termine “concorrenza allargata” sottrae importanza alle delimitazioni dei confini settoriali e
focalizza l’attenzione su un ambito concorrenziale più ristretto e più denso di significati strategici.
L’innovazione tecnologica incide sulla mobilità dei confini dei settori insieme alla globalizzazione. I
parametri per delineare i confini dei settori perdono efficacia e circoscrivere le imprese diventa sempre più
difficile. I modelli di delimitazione dei confini settoriali più convincenti sono quelli firm centered perché in
grado di tener conto del dinamismo dei confini.
è il meno indicato ad interpretare il dinamismo settoriale. Proposto negli anni ’50 da Bain può essere così
schematizzato (vedi fig. II.4 p. 60)
La struttura del settore incide sulla condotta dell’impresa con un’intensità tale da rendere possibile la
realizzazione di un collegamento diretto tra struttura e prestazioni. La staticità di questo modello fa essere
più appropriato un approccio strutturale debole (fig. II.5 p.61) in cui le performance dipendono dalle
condotte che, a loro volta, sono determinate in gran parte dalle strutture. Le performance retroagiscono sia
sulla condotta che sulla struttura.
2.5.2. Il ciclo di vita del settore
E’ un modello di rappresentazione quantitativa della dinamica delle vendite di una specifica categoria di
prodotti. Graficamente si rappresenta con una curva a forma di “S allungata” che descrive l’andamento
delle vendite in funzione del tempo e consente di distinguere quattro ideali fasi di vita di un prodotto:
introduzione, sviluppo, maturità e declino.
Il modello presenta una duplice natura: è sia un importante strumento per assumere decisioni in materia di
marketing e/o in via previsionale. Permettendo di distinguere le varie fasi infatti è utile per legare a ognuna
di esse una manovra di marketing ma anche una funzione matematica per prevedere il livello che la
domanda del prodotto raggiungerà in futuro.
per quanto riguarda il concetto di settore è corretto parlare di ciclo di vita del prodotto in quanto “giunge a
fine vita quella tecnologia che utilizza quel materiale, ma non necessariamente tutto il settore”. Ne
consegue che il ciclo di vita non riesce a descrivere efficacemente l’evoluzione del settore a meno che
questo non venga a coincidere con il prodotto.
A ciò colleghiamo il concetto di “evoluzione del mercato” proposto da Kotler, il quale individua 5 fasi
attraverso le quali un settore si evolve: cristallizzazione, espansione, frammentazione, riconsolidamento ed
estinzione. Il motore dell’evoluzione è costituito dalla concorrenza e dall’innovazione, tra loro strettamente
interdipendenti, in quanto l’ingresso di nuovi concorrenti stimola la ricerca di ulteriori attribuiti, generando
quindi un’innovazione continua.
2. Man mano che le incertezze diminuiscono, il settore entra nella fase di sviluppo (o crescita).
Vi è un aumento dei volumi di vendita che comporta un aumento della capacità produttiva e
l’implementazione di strategie commerciali, distributive e di comunicazione.
In merito al prodotto si tende a standardizzare l’offerta in alcune sue componenti ed ad attuare anche
politiche di differenziazione del prodotto per andar incontro alle diverse esigenze della domanda.
La fase di sviluppo va ad esaurirsi solitamente a causa della saturazione della domanda e/o a causa della
concorrenza proveniente da altri settori.
3. Alla fase dello sviluppo segue quella della maturità, nella quale il settore si assesta su valori di crescita
zero o su tassi d’espansione ridotti. Il mercato, pur essendo, stagnato, è possibile rilevare opportunità di
sviluppo sia grazie ai cambiamenti apportati al prodotto e/o alle condizioni di offerta sia a seguito
dell’uscita dal mercato di imprese meno efficienti.
Inoltre per superare le difficoltà è possibile rivolgersi anche ai mercati esteri, intraprendendo così ima delle
forme di sviluppo internazionale.
4. L’ultima fase è quella del declino, caratterizzata da una riduzione del livello delle vendite globali che può
condurre il settore all’estinzione. Le cause sono ascrivibili a mutamenti nella domanda o nelle condizioni
d’offerta soprattutto da parte di nuovi settori o settori contigui.
La fase del declino può avere una durata variabile (lenta o repentina).
Il modello di Volpato è una teoria per l’interpretazione del rapporto impresa- ambiente. si compone di tre
fasi distinte:
1. La prima consiste in un’analisi dell’evoluzione storica del settore.
2. Nella seconda si cerca di individuare quali sono le variabili che generano il passaggio tra i vari strati, i
quali risultano legati ad una ben precisa combinazione domanda-offerta (quali sono le variabili su cui
poggia la dinamica del settore).
Le variabili più significative sono: il grado di diffusione del consumo relativamente alla domanda
complessiva potenziale e il grado di segmentazione della domanda.
Intersecando tra loro le due variabili si ottengono i seguenti stati caratteristici della domanda:
- consumo elitario omogeneo: il prodotto si rivolge ad una porzione assai ristretta della domanda
potenziale complessiva;
- consumo di massa omogeneo: il prodotto non presenta particolari caratterizzazioni ed è offerto ad un
prezzo che, tenuto conto dell’utilità che i consumatori attribuiscono al bene (o servizio), assicura un
consumo decisamente allargato;
- consumo elitario segmentato: il prodotto si presenta caratterizzato in funzione di una pluralità di
esigenze diverse, ma il rapporto prezzo/utilità è tale da consentire un consumo limitato;
- consumo di massa segmentato: è definibile come uno stato di maturità del consumo del bene, dal
momento che l’offerta ha esperito le possibili forme di differenziazione del prodotto e le potenzialità della
domanda appaiono saturate.
In base a questa teoria, l’offerta tende a seguire le varie tappe della domanda.
Risulta più complicato individuare gli stati caratteristici dell’offerta, per due motivi:
- perché il numero di variabili da cui dipendono è molto numeroso;
- perché ciascuna di queste strutture può presentare una variabilità interna molto elevata, di conseguenza
gli stati caratteristici dell’offerta andranno individuati di volta in volta, in funzione delle caratteristiche
specifiche del settore considerato.
3. Nella terza fase, si tratta di operare una composizione, in forma matriciale, delle successioni dei vari stati
di domanda e di offerta, all’interno della quale inserire le strategie delle imprese appartenenti al settore.
Questa fase consente di effettuare un’analisi di tipo previsionale.
Precisazioni:
- il settore non può essere letto in un’ottica statica quindi non è soggetto a fenomeni di cristallizzazione.
- il settore può coincidere con il prodotto se l’analisi strategica è limitata al BP, mentre può assumere una
connotazione molto più indefinita e variabile con l’estendersi del periodo considerato.
- il modello può essere applicato anche ad imprese diversificate.
Per concludere il modello del ciclo di trasformazione del settore è applicabile soltanto nel caso in cui la
nozione di settore sia inscindibilmente legata all’insieme di binomi materiali-tecnologie che compongono il
ciclo di vita del settore.
Processo terminale settoriale: strumento di analisi settoriale che indaga l’aspetto tecnico-produttivo della
configurazione settoriale prescelta. Prevede una configurazione di settore che adotta come denominatore
comune l’omogeneità dei prodotti in funzione del loro utilizzo finale e dei materiali utilizzati. Questa
configurazione prende il nome di settore manifatturiero merceologico e individua delle unità che
producono stessi beni o beni sostituibili che usano gli stessi materiali. Con questa configurazione di settore
è possibile ricostruire tutte le fasi del processo produttivo che intercorre tra la materia prima ed il prodotto
finito (con un approccio bottom-up) in corrispondenza di quello specifico settore manifatturiero
merceologico. Problema: non permette di indagare sui legami con operatori esterni al settore
manifatturiero e quindi non evidenzia tutti i fattori strategici in gioco. Per questo motivo si ricorre al
sistema settoriale.
Sistema settoriale: strumento di analisi settoriale che permette di indagare sulla natura e sull’esistenza di
legami con operatori esterni al settore manifatturiero oggetto di analisi spostando quindi il focus
dall’aspetto tecnico a quello strategico. (fornitori di materie prime, di semilavorati e componenti, di
impianti e macchine, commercianti ecc.). Il sistema settoriale ingloba al suo interno il processo terminale.
Filiera di produzione: strumento di analisi settoriale che può coincidere con entrambi i processi precedenti
in funzione delle finalità tecnologiche o strategiche. Si può definire come “l’insieme degli stati che
separano una materia prima o un semilavorato da un prodotto finito, potendo quest’ultimo essere oggetto
di consumo intermedio o finale”.
Differenza tra filiera e settore: la filiera comprende imprese appartenenti a più settori, non considera
determinanti le forme di mercato (come invece fa il settore), in contrapposizione con la natura statica delle
analisi di settore la filiera individua i poli d’attrazione, le azioni dei decisori, sottolineando come i processi
tecnologici, le interazione tra mercati e le azioni dei soggetti economici costituiscano meccanismi di
trasformazione strutturale.
II.7 – L’analisi dinamica di settore e le scelte manageriali
Nel tentativo di modificare a proprio vantaggio l’ambiente che la circonda, l’impresa conduce un’intensa
attività di pianificazione strategica. La formulazione di una strategia si compone di due momenti: uno
interno e l’altro esterno all’impresa.
L’analisi interna riguarda la struttura organizzative e le relative forme da utilizzare per aggredire l’ambiente
(o difendersi).
L’analisi esterna mira ad individuare i fattori critici ambientali che creano minacce ed opportunità e a
descrivere, in ottica previsionale, i possibili scenari futuri (le imprese utilizzano gli scenari e metodologie di
simulazione per fronteggiare i rischi derivanti dall’aumento della complessità).
Per la determinazione dei possibili scenari futuri si parte dall’analisi della struttura attuale del settore. Gli
elementi della struttura del settore, una volta esaminati a fondo, possono essere classificato come:
- costanti, se la probabilità di un loro cambiamento è notevolmente ridotta;
- predeterminati, se i cambiamenti risultano prevedibili;
- incerti, se gli eventuali cambiamenti dipendono da contingenze imprevedibili. (es: Porter con l’analisi del
settore di produzione di utensili motorizzati per il taglio (motoseghe) negli stati uniti)
Crossing border -> è un fenomeno che sta acquisendo sempre più rilevanza nell’ambito della convergenza
settoriale. È un fenomeno che investe alcune aree di mercato che pur trovandosi in settori distinti
appartengono ad aree di filiera convergenti. Il termine cross-border indica un insieme di relazioni di tipo
imprenditoriale e settoriale con specifico riferimento ai settori più dinamici (es. bancario, assicurativo, della
distribuzione al dettaglio e delle telecomunicazioni). In questi settori le fonti del vantaggio competitivo non
sono più traducibili in termini di scelte di progetto o investimento, ma risultano rilevanti le alleanze, i
progetti di acquisizione e dismissione, le priorità di sviluppo tecnologico. Le strategie di crossingborder
vengono adottate per soddisfare bisogni sempre più complessi e articolati. L’imprenditore cross-border
deve essere in grado di stipulare alleanze con altre imprese, di relazionarsi con altri imprenditori, in modo
da acquisire il know-how necessario all’ingresso in altri business e ad interpretare la nuova attività e
ricercare la soddisfazione di un cliente sempre più esigente.
Glossario
Mercato: luogo di incontro tra domanda ed offerta
Settore: luogo economico in cui si realizza il confronto concorrenziale (def. Volpato)
Settore manifatturiero merceologico: insieme di unità che producono gli stessi beni o beni altamente
sostituibili fra loro, accomunati dall’impiego degli stessi materiali o componenti.
Settore economico manifatturiero: insieme di unità che producono beni caratterizzati dall’omogeneità
dell’utilizzo finale o intermedio, utilizzando i medesimi materiali.
Capitolo 3
3. 1 – Il paradigma
Il passaggio da un paradigma ad un altro avviene grazie ad un processo lento e complesso, nel quale il
punto di arrivo, ossia la macro-innovazione, è il frutto di un disegno complessivo che collega nel tempo le
innumerevoli micro-innovazioni modificatrici di prodotti e processi. Problema primario diviene individuare
la linea di demarcazione tra il paradigma in declino e quello nascente. Un compito reso ancora più arduo
dalla naturale asincronia nei tempi di maturazione dei settori e delle imprese.
Lo studio per paradigmi ruota intorno a tre concetti accomunati dalla parola fordismo: la storia del sistema
industriale quindi si sviluppa su 3 paradigmi:
- pre-fordismo: “l’antico” sistema;
- fordismo: il sistema in declino;
- post-fordismo: il sistema nascente.
Il periodo pre-fordista equivale alla prima e più semplice forma di organizzazione della produzione, vale a
dire al modello dell’impresa artigiana. È il periodo del primo capitalismo, definito mercantile, situato tra il
declino del sistema feudale e l’avvento della prima rivoluzione industriale. La diffusione delle botteghe
artigianali pone le premesse per l’avvio dell’attività commerciale e per la nascita della figura del mercante
capitalista.
A partire dal ‘700, significativi mutamenti nei sistemi produttivi cominceranno a manifestarsi con frequenza
crescente fino ad arrivare alla nascita della fabbrica. Alcuni situano l’inizio del paradigma nel momento
della nascita del cosiddetto “modello inglese”, ovvero il modello di impresa e di capitalismo industriale che
si afferma in GB. Il modello inglese però da solo non basta a caratterizzare il primo paradigma.
Il modello di impresa di questa prima fase dello sviluppo industriale è caratterizzato da un’elevata
semplicità: la struttura organizzativa è ridotta ai minimi termini ed è praticamente impossibile parlare di
funzioni aziendali visto che è lo stesso imprenditore ad avere il controllo di tutta, o quasi, l’impresa.
dal punto di vista tecnologico ci sono macchine isolate. È un modello elementare di impresa basato sulla
connessione macchina-imprenditore-mercato. La produzione economica era concepita essenzialmente
come manifattura, basata sulla trasformazione fisica delle risorse materiali attraverso il lavoro
manipolativo: la ,manifattura arricchiva di valore i prodotti. C’era infatti corrispondenza biunivoca tra beni
fisici e valore economico. Oltre ad essere portatori di valore, i beni prodotti in questo periodo, incorporano
a loro volta “conoscenza” ed “informazione”.
il periodo pre-fordista cessa di esistere dal momento in cui viene ad esistere l’impresa moderna e si
affermano le tecniche di produzione ispirate da Taylor e Ford. Elemento centrale del nuovo paradigma è il
progresso tecnico.
Grazie all’energia elettrica le macchine della prima fase si trasformano in sistemi di macchine molto
articolati e differenziati con la possibilità di organizzare il ciclo produttivo su una pluralità di macchine
collegate tra loro.
Elemento dominante è il principio di standardizzazione attraverso il quale, nella ripetitività delle azioni, si
facilità il processo di produzione che diventa più semplice, regolare e veloce (minore preparazione del
lavoratore, maggiore utilizzo delle macchine).
Si parla di produzione capital-intensive, contrapposta al metodo artigianale definito labour-intensive per
l’alta intensità di lavoro. Tutto ciò ha portato all’affermarsi dell’impresa di grandi dimensioni e di modelli
produttivi basati sull’organizzazione, il coordinamento. Si entra nella fase del capitalismo organizzato.
Il modello d’impresa che il paradigma fordista richiama è quello della large corporation, ovvero della
grande fabbrica, delle catene di montaggio e del sistema di produzione di massa. Prevede un ambiente
semplice, stabile e prevedibile data la rigidità dei cicli produttivi.
la progettazione dei cicli di lavoro richiede un grande sapere informativo fatto di esperienza e capacità
organizzativa. Nell’impresa si realizza una divisione del lavoro interna (specializzazioni interne, routine
organizzative) e si sviluppano conoscenze e saperi specialistici. Si forma un nucleo di sapere “firmspecific”
che diviene il cuore della produzione di valore, non trasferibile ad altri contesti e ad altre imprese.
La rigidità della fabbrica tayloristica corrisponde alla struttura di un sistema in cui la conoscenza è
centralizzata ed irreversibile.
Centralizzata perché tutte le informazioni sono trasferite ad una élite tecnocratica che ha il compito di
progettare e gestire l’interdipendenza tra le molte persone e i molti reparti costituenti l’impresa, nonché le
relazioni con l’ambiente.
Irreversibile perché gli investimenti in conoscenza spingono verso comportamenti inerziali.
In questo contesto l’impresa cessa di identificarsi con un soggetto (imprenditore) e diventa “sistema”. Il
dominio dell’imprenditore infatti viene attenuato dall’entrata in scena di altri soggetti: gli stakeholders.
Inoltre l’organizzazione non si basa più solo su un soggetto ma su una molteplicità di soggetti che
cooperano. L’impresa diventa sistema cognitivo, ossia basa la sua sopravvivenza sulla capacità di produrre
conoscenze al proprio interno e utilizza la conoscenza prodotta per produrre valore economico. L’impresa
intesa come sistema cognitivo è ciò che distingue l’impresa di Taylor e Ford da quella manifatturiera
dell’epoca precedente.
A partire dagli anni ’80 si è posta la questione del superamento del modello fordista in relazione a due
tipologie di eventi:
- il succedersi di una serie di shocks che hanno investito le economie capitalistiche a partire dalla crisi
petrolifera del 1973. Questi shocks hanno determinato l’interruzione dell’età dell’oro del fordismo e il
complicarsi dello sviluppo: instabilità dei mercati, nuove forme di competizione su scala globale.
- la crisi della grande impresa (principale soggetto del fordismo) a causa di un’eccessiva burocratizzazione,
costi elevati di organizzazione ed a causa della lentezza del processo decisionale.
Altre tendenze che influirono sull’assetto imprenditoriale furono le forti variazioni della domanda, il ciclo di
vita dei prodotti che si era notevolmente accorciato. Le grandi imprese fordiste non riescono più a gestire
tutta questa rapida varietà e variabilità perché i tempi di reazione sono troppo lenti.
Le leve di miglioramento della performance aziendale sono individuate nella snellezza, nell’agilità
organizzativa oltre che nella flessibilità produttiva e gestionale, caratteristiche proprie della piccola
impresa, in grado di produrre beni più sofisticati ed innovativi rispetto alle grandi imprese vincolate da
enormi volumi produttivi. Inoltre il lavoro è più qualificato che nelle imprese fordiste dove la catena di
montaggio sottrae al lavoratore gran parte del suo intervento creativo.
Emerge la cosiddetta economia della flessibilità che influisce sui criteri di gestione, primo fra tutti quello
dell’efficacia e dell’efficienza.
Il criterio dell’efficacia si esplica in termini di adeguamento della risposta al mercato. È sempre più
importante produrre beni appropriati alla richiesta del mercato.
Il criterio dell’efficienza, inteso come il periodo che intercorre tra il manifestarsi di un bisogno e il
soddisfacimento di esso, viene interpretato come un’esigenza di consegna a costi bassi, obiettivi
raggiungibile solo combinando in modo ottimale diverse variabili.
Questo criterio negli ultimi anni è stato molto enfatizzato, data l’importanza che viene data alla
customersatisfactioned alla centralità del cliente nelle decisioni aziendali.
A partire dalla seconda metà degli anni ’80 e dagli anni ’90, si registra un’inversione di tendenza. Il rientro
dell’inflazione e la stabilizzazione del ciclo economico ricostruiscono un quadro di certezza e stabilità.
Si assiste ad un ritorno alla grande impresa accompagnato da una profonda ristrutturazione dei modelli
organizzativi preesistenti. Non si tratta di un ritorno alla fabbrica fordista ma un approccio del tutto nuovo.
Questo periodo storico è caratterizzato dal polimorfismo delle organizzazioni aziendali: accanto alle grandi
e piccole imprese, si registra la presenza di nuovi modelli organizzativi – le strutture a rete.
E’ da questo momento che si comincia ad attraversare la soglia del cosiddetto capitalismo evolutivo, ovvero
ad entrare nel contesto che viene definito post-fordista.
3. 5 – Il post-fordismo
Dopo un’epoca in cui ha prevalso il mercato (primo capitalismo) e una seconda in cui ha prevalso la
gerarchia (produzione di massa, modello fordista) ci si incammina verso una sintesi fra le due.
L’individuazione dei tratti essenziali del nuovo paradigma è un’operazione difficile ed incerta, è possibile
evidenziare tre punti principali:
- l’essenza del post-fordismo non si trova nell’innovazione tecnologica bensì in quella organizzativa e nel
coinvolgimento del lavoro umano intelligente e responsabile;
- il paradigma fordista voleva semplificare l’ambiente per controllare e pianificare gli eventi. Oggi invece vi è
una sorta di “sincronismo adattivo” basato sulla capacità tecnica e sociale di offrire una risposta flessibile
alla variabilità del mercato. Non si punta più sulla ridondanza delle risorse materiali ma sul controllo
ambientale del sistema logistico e delle risorse umane;
- c’è un’evoluzione del sistema cognitivo. Nel paradigma fordista vi era la completa separazione del lavoro
operativo e di quello cognitivo poiché tutta la conoscenza necessaria alla produzione era concentrata nelle
meni di una tecnostruttura mentre nel nuovo paradigma abbiamo l’intensificazione e estensione della
divisione del lavoro cognitivo.
Concludendo, in un ambiente dinamico, il cambiamento è la linfa vitale dell’impresa: essa non può perdere
di vista il dinamismo concorrenziale, l’evoluzione tecnologica o le opportunità di crescita e di cooperazione
con altre imprese. Non può isolarsi dall’ambiente in continuo mutamento.
L’azienda deve evolversi in relazione all’ambiente in cui opera, in caso contrario rischierebbe di disgregarsi.
Il tessuto imprenditoriale oggi cerca di realizzare una sorta di fordismo flessibile basato su prodotti semi-
standardizzai, idonei per la domanda dei mercati mondiali.
Le esigenze di una modificazione nelle strategie derivano da fattori che hanno scosso l’ambiente economico
negli ultimi anni:
- l’introduzione continua di innovazioni di prodotto;
- la riduzione delle variabili spazio-temporali connesse con le evoluzioni nelle tecniche informatiche e nelle
telecomunicazioni;
- la riduzione del ciclo di vita dei prodotti;
- la globalizzazione dei mercati.
Le richieste dei mercati oggi sono indirizzate verso:
- l’orientamento al cliente;
- la qualità dell’intero processo produttivo;
- un prodotto che incorpori sempre più servizi;
- un’offerta che sappia distinguersi agendo sulle variabili immateriali, sul livello di servizio offerto e sui
tempi di consegna e produzione.
Per conseguire tali risultati, l’impresa deve alleggerire i costi di struttura, deve accedere a più mercati
possibili e sviluppare capacità distintive.
Gli strumenti che possono facilitare tali obiettivi sono: il decentramento, i rapporti inter-imprenditoriali
formalizzati e lo sviluppo dei mezzi “invisibili”.
1) Il decentramento permette di ridurre i costi fissi in immobilizzazioni e snellisce la struttura fisica e
finanziaria di un’azienda.
Affidando le produzioni a terzi si ottiene la flessibilità dei livelli produttivi, esternalizzando intere fasi del
processo si giunge ad una struttura focalizzata solo sul core business(espressione con la quale si identificano
le attività principali dell’azienda), liberi da ingenti costi in impianti e da politiche restrittive. Si concentra
l’attenzione su una determinata fase del processo decentrando e affidando all’esterno, sia ad imprese terze
sia a distributori e fornitori abituali, attività non cruciali. Le capacità dell’impresa possono così concentrarsi
su una determinata attività ottenendo risultati migliori.
2) Rapporti inter-imprenditoriali formalizzati. Nell’era della globalizzazione, un’impresa che non è
presente sui mercati mondiali è automaticamente tagliata fuori. La possibilità di agire su più mercati,
garantisce il conseguimento di economie di scala e offre valide possibilità di diversificazione del rischio. Più
l’investimento è diversificato minore sarà il rischio di perdite in quanto guadagni e perdite tendono a
bilanciarsi.
Le forme che si prospettano all’impresa per introdursi in nuovi mercati possono essere di tre tipi: alleanze,
acquisizioni e joint ventures.
- Le acquisizioni sono intraprese da imprese di medie e grandi dimensioni al fine di sfruttare o la
localizzazione geografica o le capacità e le conoscenze specifiche in determinate attività di imprese locali.
- Le alleanze consentono l’ampliamento dei confini e delle opportunità a imprese anche di piccole
dimensioni. Sono di durata limitata data la difficoltà d gestire i rapporti senza perdere la propria
autonomia.
- Le joint ventures sono accordi di natura tecnologica riferiti a singoli progetti, attraverso i quali le imprese
scambiano knowhow.
3) Sviluppo dei mezzi invisibili. L’attenzione per le risorse definite immateriali o invisibili possono essere
fonte di vantaggi competitivi in quanto aggiungono valore alla catena delle attività e di conseguenza al
/prodotto atteso dal cliente.
Due modelli organizzativi tentano di utilizzare questi strumenti: l’impresa snella e l’impresa virtuale.
L’impresa snella è un modello organizzativo, di origine giapponese, improntato sulla flessibilità. Persegue la
dinamicità delle azioni concentrandosi sul core business e sull’appiattimento dell’ossatura organizzativa.
Focalizza i propri obiettivi sulla riduzione dei tempi del processo produttivo.
I giapponesi individuano nella time based competition la fonte primaria del vantaggio competitivo.
Importanti anche la comakership (integrazione con i fornitori) e il concurrent engineering (gestione comune
della progettazione in base a esigenze, vincoli e capacità specifiche di entrambi le parti). Si abbandonano le
forme piramidali con poteri accentrati nelle mani dell’alta direzione a favore di una struttura appiattita
dove lo sviluppo delle competenze arriva al livello più basso.
E’ possibile parlare anche di lean management ovvero un’impostazione che si basa su innovazioni non di
natura tecnologica, ma che riguardano la sfera organizzativa e gestionale, volte a sincronizzare l’andamento
del mercato con quello produttivo.
I principi base che caratterizzano il paradigma emergente della produzione flessibile sono:
- multi-focalizzazione e flessibilità strategica (si perseguono una pluralità di obiettivi unitamente alla
capacità di modificare nel breve tempo le priorità strategiche);
- integrazione per processi sia all’interno sia all’esterno dei confini aziendali;
- coinvolgimento del personale.
Tuttavia il modello lean resta prigioniero di un problema che caratterizza il periodo fordista: il costo elevato
della varietà-variabilità dei prodotti e dei processi. Occorre trovare metodi relazionali che permettano la
riduzione dei costi e l’estensione della divisione del lavoro per mezzo di rapporti di interazione a distanza
mediati dall’uso di linguaggi condivisi.
Impresa cross-border: si affievoliscono le linee di confine tra i vari business. impresa le cui attività
comprendono settori fino a poco tempo fa distinti e in cui operavano soggetti differenti.
Glossario
Economie di scala: si intende ogni riduzione del costo medio unitario (di lungo periodo) che si determina
allorquando l’incremento della produzione, che deriva dall’aumento delle dimensioni aziendali, risulta più
che proporzionale rispetto all’incremento dei costi determinati da siffatto ampliamento.
Capitolo 4
Molti sono i fattori che hanno provocato e che continuano ad accentuare la crescita della complessità
ambientale. L’effetto principale si sostanzia nella ricerca della flessibilità organizzativa e gestionale allo
scopo di gestire i cambiamenti sempre più repentini e sempre meno prevedibili.
Sono esigenze che richiedono informazioni, investimenti e risorse intangibili in genere difficilmente
reperibili e governabili entro i confini aziendali.
E’ facile intuire che tutte le aree funzionali che caratterizzano un’impresa vengano ad essere coinvolte, pur
in misura differente, dalla nuova impostazione imprenditoriale.
La produzione di beni o servizi destinati al consumo è la ragione per cui l’impresa esiste. L’impresa esplica la
sua funzione strumentale attraverso la trasformazione di inputs (materiali di partenza, fattori produttivi e
informazioni) in outputs (beni e servizi diretti ai mercati di sbocco).
Il processo di produzione rappresenta il nucleo su cui è incentrato il sistema d’impresa. Tuttavia l’attività
aziendale non si esaurisce in tal processo ma comprende numerose attività.
Partendo dall’attività di produzione, possiamo suddividere l’intero complesso aziendale in due macroaree:
a monte e a valle.
A monte: comprende tutte le operazioni che riguardano l’apprestamento della capacità produttiva, la
ricerca dei fornitori di materiali di lavoro, l’approvvigionamento, il design e la progettazione dei prodotti o
la predisposizione della struttura dei servizi, le attività di ricerca e sviluppo.
A valle: tutte quelle attività responsabili del raccordo tra impresa e mercato sia in termini di distribuzione e
collocamento dei prodotti/servizi, sia in termini di rapporti con i clienti, le istituzioni, l’ambiente
economico, servizio che viene reso possibile dalle azioni di mrk e dalle attività di promozione e vendita.
Le funzioni finanziarie, organizzative, strategiche ed amministrative, hanno una diversa natura rispetto le
altre. Pur facendo parte delle attività economiche del sistema aziendale, presentano delle peculiarità che le
differenziano dalle altre: abbiamo le funzioni di tipo verticale (le attività a monte e a valle) e quelle
orizzontali.
Le funzioni orizzontali attraversano l’intera attività aziendale e fanno da supporto ad ogni singola funzione.
Hanno la capacità di operare in tutte le funzioni aziendali.
Questa classificazione dipende dal tipo di azienda e le stesse funzioni possono variare da azienda ad
azienda.
Un’ottica diversa è offerta da Porter che introduce il concetto di “attività generatrici di valore”, che
nell’insieme formano la cosiddetta catena del valore di un’azienda e che rappresentano gli elementi
costitutivi del vantaggio competitivo che viene determinato in base al soddisfacimento dei compratori e in
base all’andamento dei costi.
Una catena di valore si compone di due grandi gruppi di attività:
- attività primarie (impiegate nella creazione fisica del prodotto, nella sua vendita, nel suo trasferimento al
compratore ed infine nell’assistenza post-vendita);
- attività di supporto (a sostegno delle attività primarie, impegnate nella fornitura degli input acquistati,
delle tecnologie, delle risorse umane ecc.)
A sua volta ogni categoria si suddivide in ulteriori attività distinte che dipendono dal settore e dalla
strategia dell’impresa e, possono essere suddivise in 3 tipologie:
a) sub-attività direttamente impegnare a creare valore per il cliente (es. attività della forza vendita ecc.)
b) sub-attività che permettono lo svolgimento continuativo delle prime (es. manutenzione ecc.)
c) sub-attività che garantiscono la qualità di altre attività (es. ispezione, collaudo ecc.)
L’odierna struttura di valore di un’azienda non sempre è uguale a quella fornita da Porter.
nella classificazione canonica le attività di supporto e quelle primarie si caratterizzano per il fatto di essere
svolte all’interno dell’impresa rientrando nelle cosiddette funzioni caratteristiche dell’impresa.
Attualmente, con lo sviluppo dei fenomeni di esternalizzazione di outsourcing (approvvigionamento
esterno), assistiamo ad una modificazione dei ruoli di ogni singola attività, e le attività che non
appartengono al core business vengono portate all’esterno. In questo modo assistiamo alla condivisione da
parte di più aziende alla stessa catena di valore. Il processo di crescita all’esterno consente di collegare le
catene del valore di imprese diverse e quindi di usufruire, nello svolgimento di attività di impresa, dei
rispettivi punti di forza.
La catena del valore può essere utilizzata come strumento per esaminare le attività d’impresa e le relative
modalità di interazione al loro interno e verso l’esterno. Il vantaggio competitivo rappresenta il surplus che
l’azienda riesce a creare e diviene quello che più aziende riescono a valorizzare, insieme, ognuna
partecipando alla catena.
Quindi si configura una nuova tendenza, quella della convergenza: l’azienda viene intesa come un insieme
di processi trasversali, che attraversano i confini organizzativi sia interni che esterni ed hanno come fine il
perseguimento di un vantaggio competitivo.
Come già detto la “divisione del lavoro” non si attua più nell’universo limitato della singola impresa ma
dall’azienda che proietta all’esterno le proprie capacità e strategie organizzative instaurando una serie di
relazioni non necessariamente di tipo gerarchico. Si parla di strategie opportunità driven, ossia basate sullo
sviluppo, da parte dell’impresa, di una specifica abilità e capacità di accedere e di usare efficacemente le
risorse-competenze esterne per il perseguimento delle migliori opportunità.
Glossario
Core Business: espressione con la quale si identificano le attività principali delle aziende.
Capitolo 5
Per superare tali limiti vengono redatti altri documenti che forniscono informazioni aggiuntive:
- i mansionari, che evidenziano “che cosa” fanno gli organi aziendali, descrivendo i compiti assegnati;
- le norme procedurali, che specificano “come” svolgere singoli compiti; si tratta di regole operative che
possono avere una forma discorsiva o grafica (flow chart, diagrammi di flusso ecc.)
Affinché l’organigramma non perda di validità, deve essere costantemente aggiornato in relazione ai
mutamenti interni dell’azienda.
Un’impresa nasce con una configurazione di tipo gerarchica-pura, poi al cresce di dimensione diventa
gerarchica-funzionale e con la diversificazione produttiva viene spinta ad adottare una struttura divisionale.
Ma non tutte le imprese seguono lo stesso percorso.
Tale struttura presenta i suoi maggiori limiti con l’aumento del grado di complessità ambientale.
Il livello delle aree funzionali è differenziato sulla base delle principali funzioni aziendali. In tali modelli,
oltre al principio gerarchico, viene applicato il principio della competenza (controllata e coordinata
mediante il principio di eccezione – vd fig. V.3)
L’organizzazione funzionale esalta il principio della specializzazione delle singole aree e questo facilita la
conoscenza tra gli appartenenti ad una stessa funzione, di contro determina una separazione fra i diversi
dipartimenti funzionali.
In questo modello il processo decisionale è accentrato, quello di delega ridotto, la comunicazione avviene
solo verso il basso, il coordinamento si ottiene solo per gerarchia, il controllo è totale e l’organizzazione è
standardizzata.
Queste caratteristiche fanno si che tale struttura non sia in grado di rispondere alle esigenze di aziende
diversificate. L’alta direzione risulta essere sempre più assorbita dalla risoluzione di problemi interni
sottraendo così tempo all’osservazione dell’ambiente esterno.
La struttura gerarchica-funzionale è adatta per lo più ad imprese, anche di notevoli dimensioni, che però
operano in contesti relativamente stabili.
Strutture funzionali modificate: queste strutture pur mantenendo le caratteristiche tipiche di una struttura
funzionale, permettono la gestione di altre dimensioni rilevanti attraverso la creazione di appositi organi
che si affiancano alla configurazione tradizionale. Nel caso di diversificazione produttiva, l’organo di
coordinamento si identifica nella figura di responsabile di prodotto (o product manager) collocato alle
dipendenze dell’alta direzione con il compito di coordinare le attività di tutte le funzione in relazione alle
esigenze di una determinata linea produttiva. Si tratta quindi di una figura che garantisce maggior
coordinamento e mantenere una visione unitaria del processo produttivo in relazione ai bisogni espressi da
un particolare segmento di clientela che è possibile soddisfare offrendo prodotti differenti.
Una logica analoga è quella delle strutture per progetti (o project leader).
In questo caso alla tradizionale struttura funzionale vengono affiancati organi ai quali viene affidata
temporaneamente la responsabilità di un determinato progetto.
Product manager e project leader non sono organi dotati di autorità gerarchica ma devono possedere
conoscenze, abilità relazionale e di group management.
Con la struttura divisionale sono stati introdotti due nuovi criteri, separazione tra attività strategica ed
amministrativa e differenziazione interna dell’impresa in base ai criteri di prodotto/progetto/area
geografica.
Inoltre in tale struttura si sviluppano forme di controllo e di comunicazione interna più efficienti: questo a
motivo del fatto che il processo di comunicazione tra divisioni e direzione funziona sia verso l’alto che verso
il basso, il coordinamento è “per comitati” e il processo di controllo “per eccezione”.
La direzione generale controlla le divisioni che si occupano di un particolare ciclo di lavoro. Esse in quanto
capaci di gestire l’intero ciclo sono dette quasi.-imprese.
Punti di debolezza:
- possono sorgere conflitti tra manager funzionali e di progetto, che entrano in competizione per il
controllo e la gestione delle risorse condivise;
- un’organizzazione dei progetti separata rende possibile una duplicazione degli sforzi;
- i tempi per la definizione di politiche e procedure all’inizio dei progetti possono risultare lunghi;
- per evitare l’anarchia, la struttura a matrice deve essere mantenuta flessibile ed aperta;
- uno specialista può dover rispondere a numerosi capi;
- le specializzazioni devono essere integrate per giungere alla soluzione integrata dei problemi.
Struttura:
- il comitato guida: i comitati che vengono abitualmente istituiti nelle organizzazioni mediano i poteri e
servono per controllare la rotta strategica;
- lo sponsor: è colui che imprime una direzione “partecipata” alla gestione del cambiamento; di solito è un
uomo del vertice che può mobilitare un insieme di risorse;
- il coordinatore di progetto: è quello che si occupa di alimentare la struttura a fiore, curandosi della sua
sopravvivenza e del suo sviluppo; è un leadership che si occupa di suddividere il progetto di cambiamento
in sotto-progetti e questi in altrettante sub-unità;
- i gruppi di progetto e di miglioramento (“i fiori”): nell’organizzazione a fiore vengono predisposti nuclei
strategici e nuclei che gestiscono la routine.
Capitolo 6.
6. 1 – La funzione di produzione
Per attività produttiva (funzione di produzione o processo produttivo) si intende la trasformazione
economica di input (materiali grezzi) in output (prodotti finiti e servizi) destinati all’uso.
Sebbene questa sia la definizione più comunemente accettata, esistono diversi aspetti sotto i quali è
possibile analizzare e classificare la funzione di produzione:
- approccio tecnico-fisico: l’insieme delle tecniche efficienti per produrre un dato livello di output,
determinate le quantità dei fattori produttivi (terra, capitale, lavoro).
Si ha:
Y= f(K, L, T,…)
Si stabilisce una relazione definita tra i fattori (K,L…) e il risultato Y dato un livello di tecnologia.
l’impresa persegue gli obiettivi in termini di efficienza ed economicità. Una produzione è efficiente se
massimizza il rapporto input/output, ossia se, a parità di risorse impiegate, ricerca una soluzione che,
tramite il miglior sfruttamento delle tecniche a disposizione o l’uso di una particolare tecnologia, garantisce
il più alto livello di prodotto. Per economicità si intende la capacità di minimizzare i costi.
- produzione in senso economico: si sottolinea la visione dell’impresa come strumento di creazione di
valore. Il processo produttivo genera valore aggiuntivo per l’azienda in quanto l’output trasformato ha una
portata economica maggiore rispetto ai materiali di partenza;
- visione manageriale: si considera tutto il sistema manageriale. La produzione è l’insieme delle operazioni
e delle attività attraverso le quali l’impresa trasforma gli input acquisiti in prodotti finiti da immettere sul
mercato; essa viene considerata attività fondamentale all’interno del complesso processo di creazione del
valore operato dall’impresa.
In generale sia per i servizi che per i beni materiali, l’obiettivo della funzione produttiva è l’adattamento
delle risorse per la soddisfazione della domanda.
Oggi il mercato influenza molto le caratteristiche dei prodotti soprattutto per quanto riguarda:
- La complessità di prodotto: le varianti con le quali un prodotto può essere richiesto
- Grado di standardizzazione: ripetitività con cui il prodotto viene richiesto
- Intensità delle relazioni intercorrenti tra domanda di mercato e offerta del produttore
Negli ultimi anni, inoltre, la differenza tra beni e servizi sta scomparendo. Tale fenomeno è causato sia dalle
politiche di differenziazione che richiedono elementi distintivi di tipo immateriale, sia dall’evoluzione dei
bisogni di consumatori che richiedono un “prodotto” sempre più personalizzato.
La funzione produttiva rappresenta per l’impresa un nodo strategico. Trovandosi al centro di una serie di
interrelazioni che la collegano con tutte le altre attività, ogni scelta effettuata a livello strategico si
ripercuote sull’impostazione che viene data al processo produttivo.
Il sistema di produzione viene anche detto ciclo produttivo. Le fasi che compongono il ciclo, dette anche
sub-funzioni, possono essere gestite tutte insieme o separatamente.
E’ possibile individuare un ciclo tipico che si compone di due distinte macro-fasi:
- fase di progettazione (scelte di dimensionamento, layout, quantità, automatizzazione, organizzazione
delle risorse umane), che comprende la progettazione del prodotto e la realizzazione delle “idee creative”
tramite un’analisi di fattibilità economica e tecnica, lo studio sulla disponibilità dei materiali, la scelta degli
impianti e delle macchine. Inoltre si procede con la disposizione delle macchine (il layout), attraverso la
quale si razionalizza il flusso dei materiali e l’ordine delle lavorazioni.
- Nella fase operativa (programmazione delle operazioni, controllo dei processi, logistica in entrata e in
uscita, gestione della qualità, gestione delle scorte) occorre rendere coerenti le esigenze di varietà e
variabilità delle risorse con il coordinamento e l’efficienza dei processi.
La programmazione della produzione e delle operazioni si basa sul bilanciamento dei tempi e delle risorse
minimizzando i costi e massimizzando la soddisfazione del cliente.
La scelta delle combinazioni di fattori deve aver riguardo per l’aumento del valore del prodotto e per la
minimizzazione dei costi di trasformazione. Solo così è possibile migliorare la produttività.
A tal miglioramento concorrono tre grandi gruppi di fattori di competitività:
1. La riduzione dei costi di trasformazione. Le leve su cui operare sono: alta specializzazione dei fattori,
standardizzazione dei prodotti e alti volumi di produzione.
2. La flessibilità del sistema produttivo: tale approccio pone l’accento sul miglioramento del valore del
prodotto nei confronti della domanda e della concorrenza. Le leve sono: miglioramento delle prestazioni
del prodotto, qualità dei materiali utilizzati, affidabilità del prodotto finito, personalizzazione del prodotto,
rapida ed efficienza nell’introduzione di nuovi prodotti.
3. Elasticità del sistema produttivo. Per poter percorrere questa via occorre avere capacità nel variare il
mix dei prodotti esistenti per rispondere alle modificazioni della domanda, soddisfacendo le esigenze dei
consumatori.
La storia dell’industria in passato si è sempre focalizzata sul soddisfacimento del primo fattore, la riduzione
dei costi.
A monte di ogni programmazione va individuata la fase della pianificazione dove si definiscono i livelli di
qualità/servizio da garantire al cliente, le politiche da adottare nei confronti di fornitori e distributori, la
localizzazione della produzione, le tecnologie da adottare.
Vanno selezionati gli obiettivi, le strategie, le politiche ed i programmi.
L’operatività propria si avrà infine con lo Scheduling cioè la definizione del reale svolgersi delle attività
secondo la sequenza delle operazioni (la traduzione delle attività in una sequenza temporale di operazioni).
Ha il compito di gestire e razionalizzare la distribuzione del lavoro nello svolgimento delle varie attività.
I problemi in cui si incorre nella gestione operativa riguardano due ordini di grandezze:
a) i parametri quantitativi (es. quantità di produzione giornaliera)
b) il fattore tempo (quanto produrre, come bilanciare i tempi ecc.)
La criticità di tali operazioni deriva dal fatto che i fattori competitivi di business su cui gioca l’impresa
dipendono in gran parte dall’area della produzione.
Per quanto i fini e gli obiettivi della programmazione produttiva siano gli stessi per tutte le imprese,
esistono diversi metodi e strumenti di gestione. Un esempio è il Manufacturing Resources Planning MRP-II,
che è un sistema per la pianificazione delle risorse che consente la gestione dei flussi informativi e
l’esecuzione in automatizzazione dei processi. Inoltre svolge la pianificazione dei fabbisogni materiali al fine
di ottimizzare e ridurre le scorte e giacenze di magazzino.
Il modello di programmazione che si inserisce in questa strategia è il Just in Time, implementato dalla
Toyota negli anni ’60 allo scopo di produrre numerosi modelli di auto in piccola quantità e economicità.
Il termine significa “appena in tempo” ed indica la produzione di prodotti finiti appena in tempo per
consegnarli, di semilavorati e di sottosistemi appena in tempo per l’assemblaggio, il rifornimento dei
materiali di acquisto appena in tempo per utilizzarli.
Questo processo segue un flusso differente rispetto quello tradizionale: le fasi a valle dettano i regimi di
produzione ed i quantitativi alle fasi a monte.
Tale sistema è reso possibile dall’utilizzo del cartellino (kanban) che indica tutte le caratteristiche del
semilavorato o materiale da utilizzare che viene diviso in piccoli quantitativi trasferibili su carrelli. Nel
momento in cui la fase a valle esaurisce un carrello, il kanban relativo viene inviato alla stazione precedente
che attacca il cartellino ad un nuovo carrello pieno e, a sua volta, invia l’ordine di un nuovo stock di
materiali alla fase precedente. In questo modo si assicura la produzione della sola quantità necessaria.
I colli di bottiglia e le eventuali mancanze ed errori si ripercuoteranno nelle fasi inziali, al contrario di
quanto succede in una fabbrica tradizionale.
Ogni volta che si verifica un intoppo nella lavorazione (mancanza di materiali, guasto dei macchinari ecc.), il
sistema reagisce autonomamente ed immediatamente senza ricevere gli ordini dei livelli superiori e della
direzione.
Il fine ultimo di tale organizzazione è l’eliminazione delle giacenze di semilavorati perché considerati costi
inutili e sprechi di risorse. La visione del JIT ruota intorno questa visione: qualità (zero difetti), lotta agli
sprechi (zero scorte) e miglioramento continuo.
Potremmo considerare anche una terza categoria, quella dei “costi associati all’esaurimento o al non
mantenimento delle scorte”, derivanti da eventuali interruzioni della produzione per insufficienza di
materie prime o di semilavorati, dalla perdita della clientela e così via..
p. 195-196 ???
Con il Material Requirement Planning si decide il piano di produzione del prodotto finale, frutto di un
assemblaggio e, solo in seguito, si stabilisce la produzione o l’acquisto dei componenti elencati.
Williamson spiega il ricorso all’integrazione attraverso l’utilizzo del concetto di “costi di transizione”:
l’impresa sostiene dei costi che derivano dalle asimmetrie informative, dalle diverse posizioni di forza, dai
fenomeni di "moral hazard” e quindi la decisione di acquisire all’esterno o produrre all’interno deriva da
criteri di convenienza economica, ossia dal confronto fra costo di produzione e costo di acquisto cui va
sommato il costo di mercato.
La teoria dei costi di transizione spiega solo un aspetto della convenienza dell’impresa integrata. Numerosi
sono i fattori che possono giustificarne la convenienza:
a) fattore tecnologico
b) difesa dalla concorrenza
c) inesistenza del mercato
d) stimolo del cliente
L’integrazione orizzontale è l’ accorpamento, in una stessa impresa, di più produzioni dello stesso tipo al
fine di prevenire allo sfruttamento di economie di scala; disponendo già di alcuni impianti, infatti, il costo
aggiuntivo per unità prodotto risulta decrescente all’aumentare della quantità prodotta.
Maggiore è il numero di operazioni svolte dalla stessa impresa, maggiore sarà il grado di integrazione
dell’impresa.
Vi sono diversi indici per valutare il livello di integrazione anche se talvolta mostrano eccessiva o scarsa
sensibilità rispetto a determinati parametri:
- Rapporto valore aggiunto/fatturato (indice di Adelmann). Si presuppone che al crescere delle fasi svolte
all’interno dell’impresa, il VA aumenti proporzionalmente. L’indice è tuttavia sensibile rispetto alle
variazioni dei prezzi e dei profitti dell’azienda.
- Rapporto scorte/fatturato. Più un sistema è integrato, maggiori saranno i livelli di scorte.
- Rapporto inputs prodotti all’interno/inputs acquisti sul mercato. (grado di dependenza dal mercato
nell’ottenimento degli inputs in ciascuna fase) Questo sembra essere l’unico indicatore che presenta
omogeneità tra numeratore e denominatore e che quindi è insensibile alle variazioni dei prezzi e delle
variabili nominali.
L’integrazione ha visto un forte sviluppo dal dopoguerra fino agli anni ’70, oggi la tendenza è verso il
decentramento per guadagnare in termini di elasticità e flessibilità.
Il decentramento produttivo può manifestarsi in varie forme:
- decentramento tecnico. Consente un alleggerimento delle strutture attraverso un trasferimento di una
parte dei processi produttivi, non determina diminuzione dei costi ma garantisce una migliore gestione in
termini di controllo dei processi;
- decentramento economico. Quando si ha la parcellizzazione della produzione tra un numero di imprese.
Questo assume diverse configurazioni:
1. Terziarizzazione, che fa riferimento alle scelte di “make or buy” ed investe l’attività finalizzata a
realizzare un decentramento geografico o di forza lavoro. Terziarizzare significa eliminare diseconomie
interne affidando a soggetti esterni, una o più fasi del processo produttivo;
2. Esternalizzazione. Significa “far uscire” una qualsiasi attività dai confini del controllo delle risorse
esercitato con le modalità tipiche della proprietà, della gerarchia. Inoltre l’esternalizzazione può investire
tutte quelle attività relativamente “lontane” dal core business;
3. Outsourcing, si sostanzia in processo mediante il quale un’impresa attribuisce, in maniera continuativa a
stakeholders esterni, lo svolgimento di servizi o attività aziendali secondo modalità di tipo contrattuale e
non gerarchiche. Solitamente questi contratti riguardano attività tecnologiche o informatiche ed hanno una
durata media di una decina d’anni.
I vantaggi del decentramento vengono individuati principalmente nella trasformazione dei Costi fissi in
Costi variabili in modo tale che il costo totale sia funzione della quantità prodotta, permettendo così di
raggiungere il Break Even Point a livello più bassi.
Infatti nel momento in cui si affida all’esterno parte della produzione, si eliminano i costi immobilizzati nelle
strutture e si può gestire più liberamente la capacità produttiva.
Le innovazioni, utili ai fini del risultato di impresa, possono essere distinte in tre categorie;
1. Di prodotto (un prodotto innovativo o con miglioramenti nelle prestazioni);
2. Di processo (un nuovo metodo di produzione);
3. Di riorganizzazione (una semplice razionalizzazione della struttura organizzativa).
Combinando le innovazioni di prodotto e processo nella strategia d’impresa, è stato creato, ad opera di
Abernathy e Utterback un modello che individua l’andamento e gli effetti nel tempo del processo
produttivo (Fig. VI.9 e spiegazione)
Possiamo individuare i costi connessi alla gestione della qualità in due tipologie:
1. Costi connessi con il controllo di qualità (costo di rilevazione dei difetti, costo di prevenzione dei difetti);
2. Costi connessi alla mancanza di un sistema di qualità (costo del pezzo difettoso in relazione alla sua
eliminazione, costo del pezzo difettoso in termini di delusione delle aspettative del cliente).
6.5 – La logistica
Nell’analisi della catena di valore di Porter, tra le attività caratteristiche del margine d’impresa, troviamo la
funzione logistica che l’autore suddivide in: logistica in entrata e in uscita.
Con l’espressione logistica si intende “l’attività di organizzazione ed attuazione del flusso di materiali e di
prodotti dai luoghi di origine a quelli di utilizzazione. Tale funzione, raggruppa tutte le operazioni di
movimentazione dei materiali, dal loro ingresso in fabbrica fino alla distribuzione sul mercato.”
La logistica in entrata fa riferimento al flusso degli approvvigionamenti e dei contatti con i fornitori, alla
tenuta degli ordini e delle consegne, alla razionalizzazione dei tempi e delle condizioni di trasporto.
La fase d’uscita ha il compito di rendere agevoli ed economici i percorsi e i tempi di distribuzione.
Rientra nella funzione logistica la gestione dei magazzini.
La nozione di logistica è piuttosto recente e risale agli anni ’60. Nel corso del tempo ha subito un’intensa
evoluzione che ha condotto ad una visione secondo la quale l’attività logistica va sfruttata come leva per il
conseguimento dell’eccellenza aziendale. Essa consente all’impresa di perseguire la massimizzazione del
valore dei prodotti e dei materiali, mettendoli a disposizione lì dove sono richiesti, al momento giusto e ad
un costo ragionevole.
La logistica commerciale, consistente nella gestione del flusso fisico di prodotti dal fornitore al punto
vendita dell’acquirente, configura il supply chain management.
Approccio funzionale -> approccio integrato -> approccio strategico ->supply chain management.
Oggi è possibile parlare della funzione logistica in maniera unica ed integrata: si è passati da una logica di
stock ad una di flusso (carattere dell’orizzontalità).
Capitolo 7.
7.1.1 – Definizione di marketing proposta dall’American Marketing Association
“Il marketing è il processo di pianificazione ed esecuzione delle attività di ideazione, attribuzione di prezzo,
promozione e distribuzione di idee, prodotti e servizi, allo scopo di generare scambi che soddisfino gli
obiettivi di individui ed organizzazioni.”
7.2 – Percorso storico-evolutivo tracciato dal marketing alla luce degli orientamenti
Il mkt si configura come una vera e propria filosofia di gestione che pone il cliente al centro delle scelte
aziendali e volta a trovare il miglior equilibrio tra domanda e offerta. Questa impostazione concettuale
viene definita marketing concept cui si accompagna il marketing management, ovvero principi,
metodologie e tecniche sviluppate per dare attuazione al concept.
Al fine di comprendere il ruolo attuale rivestito dal mkt, può risultare utile ripercorrere brevemente l’iter
storico-evolutivo tracciato dallo stesso, che riflette le differenti modalità adottate dalle imprese per gestire
i propri rapporti con il mercato, definite orientamenti.
Ciascuna funzione di marketing fornisce input in termini di informazioni e proposte (fase 1) al servizio di
pianificazione strategica il quale procede a effettuare un’analisi e una valutazione (fase 2). Il servizio di
pianificazione strategica stabilisce quindi le finalità generali da assegnare alle singole unità (fase 3). La
funzione di marketing formula i piani di marketing (fase 4) procedendo poi alla loro realizzazione (fase 5). I
risultati sono valutati dal servizio di pianificazione strategica (fase 6) e il processo riprende il suo
svolgimento da capo.
Il piano di marketing è il documento formale che recepisce le scelte e i programmi che scaturiscono dalle
attività a monte e formalizza i contenuti del processo di marketing management ordinando la sequenza
delle attività di mercato. Il marketing management consiste nell’analizzare le opportunità di mercato,
selezionare i mercati obiettivo, sviluppare le strategie di marketing. Le attività principali di un ideale
processo di mkt, che trovano collocazione formale nel piano, sono cinque:
Marketing indifferenziato -> quando l’impresa decide di presentare su tutto il mercato una sola offerta
ignorando le eventuali differenze rilevate tra i vari segmenti. L’impresa si concentrerà sui punti in comune
nei bisogni dei clienti, tralasciandone le differenze. È una strategia adottata in condizioni di monopolio o
quando la domanda è particolarmente omogenea o nel caso in cui esistano barriere all’ingesso scoraggianti.
Il principale vantaggio è individuabile nelle grandi economie di costo.
Lo svantaggio è individuabile nella necessità di mantenere una posizione di leadership in grado di assorbire
senza danni eventuali tensioni sui prezzi.
Marketing differenziato -> quando l’impresa decide di operare in diversi segmenti de mercato ma con
un’offerta studiata appositamente per ognuno di essi. L’impresa così spera di aumentare le vendite e
rafforzare la propria posizione nei diversi segmenti. Una simile strategia, se da un lato comporta la legittima
aspettativa di raggiungere una forte quota di mercato all’interno di ciascun segmento, dall’altro implica
maggiori costi a causa dell’offerta diversificata e dato che l’impresa non gode dei benefici delle economie di
scala. Di solito si usa questa strategia quando aumentano i concorrenti e occorre differenziarsi.
Marketing concentrato -> quando l’impresa concentra tutti gli sforzi di mkt su un unico segmento,
puntando tutto sulla specializzazione. L’impresa potrebbe conseguire una rilevante posizione nel segmento
prescelto.
Vantaggi: può conseguire notevoli economie di scala
Rischi: il segmento può dissolversi da un momento all’altro oppure, nel mercato, può entrare un altro
concorrente.
7.4.3 – Sviluppo delle strategie di marketing: scelta della propria linea strategica
A questo punto l’impresa dovrà definire quella che sarà la propria volontà strategica, la quale si espliciterà
nella formulazione degli obiettivi di marketing.
Gli obiettivi di marketing devono risultare coerenti con gli obiettivi aziendali, vengono solitamente espressi
o in termini di vendite o in riferimento ai clienti oppure in termini di profitto.
Per risultare ben formulati è necessario che rispettino i seguenti requisiti:
- siano specifici;
-siano misurabili (devono essere espressi ricorrendo all’utilizzo di parametri quantitativi)
- siano conosciuti, conoscibili e stimolanti.
Definiti gli obiettivi, l’azienda deve stabilire come raggiungerli: deve definire la propria strategia.
Con la scelta della strategia, si conclude la parte del marketing strategico per dare avvio a quella di
pianificazione.
7.4.4.1 – Posizionamento
è lo studio del mercato,condotto dal lato dell’offerta, rivolto ad individuare gli spazi per creare ulteriori
differenziazioni rispetto alle offerte dei concorrenti, al fine di soddisfare meglio le esigenze della domanda
rispetto ai competitors. Consiste nella realizzazione e nella costruzione di una “geografia dell’offerta”
collocando il proprio prodotto in una mappa che il consumatore forma all’interno della propria mente.
In questo modo viene identificato lo “spazio” che il prodotto o la marca occupa in un dato mercato nella
mente del consumatore, nei confronti degli spazi occupati dagli altri prodotti che sono percepiti in quel
“luogo” da un definito gruppo di consumatori e dal suo prodotto ideale.
La politica di prodotto
Il prodotto può essere considerato come “un insieme (o paniere) di attributi tangibili ed intangibili che
caratterizzano l’offerta di un venditore ad un mercato obiettivo, il cui combinarsi fornisce una seri di
benefici all’utilizzatore (o consumatore)”.
Gli attributi tangibili consistono nelle caratteristiche fisiche (dimensione, peso, forma ecc.).
Gli attributi intangibili attengono alle caratteristiche immateriali.
Entrambi sono strettamente legati fra loro e si influenzano reciprocamente, dando origine al concetto di
prodotto.
I principali attributi che compongono i prodotti sono: funzioni del prodotto, qualità e valore del prodotto,
dimensione, peso, ingombro, colore e design, packaging, marca, garanzia e servizi.
Tra le componenti, la marca, attributo intangibile per eccellenza, ha assunto un ruolo rilevante sia per il
consumatore che per il produttore, diventando una risorsa strategica nei beni di largo consumo.
Difficilmente oggi le imprese realizzano e vendono un solo prodotto. Per questo parliamo di portafoglio
prodotti (o gamma di prodotti o mix prodotti) e linee di prodotti.
Il portafoglio prodotti è costituito dall’insieme dei prodotti che l’azienda colloca sul mercato.
Esso può comporsi di diverse linee di prodotti, cioè diversi gruppi di prodotti aventi determinate
caratteristiche comuni.
Il portafoglio prodotti è definito da 3 dimensioni primarie:
- ampiezza: numero di linee di prodotto gestite dall’azienda
- profondità: numero medio di prodotti per ogni linea
- consistenza: somiglianza fra le varie linee di prodotto
In generale la curva del ciclo di vita viene rappresentata da una curva ad esse (curva logistica) inizialmente
crescente fino alla fase di stabilizzazione del prodotto sul mercato, seguita da un tratto più o meno
rapidamente decrescente (fase di declino).
Questa curva assumerà naturalmente un andamento diverso in funzione non solo della natura del prodotto
ma anche delle politiche adottate di volta in volta dell’impresa. Infatti l’ampiezza temporale delle varie fasi
e, quindi, la vita utile del prodotto dipendono dalle particolari condizioni concorrenziali e dalle decisioni
assunte dalla stessa impresa offerente.
Ogni singola fase è contraddistinta da una diversa redditività e da un differente peso assunto dalle politiche
di marketing. Nella fase di introduzione il prodotto, anche se venduto ad un prezzo elevato, è in perdita a
causa degli alti costi distributivi e promozionali da sostenere per il suo inserimento nel mercato; nel periodo
di sviluppo, il rapido incremento del volume delle vendite permette di ottenere margini crescenti; durante il
periodo di maturità il prodotto continua a generare profitti elevati per effetto dell’allargamento del
mercato, ma la situazione competitiva diventa più difficile da gestire a causa di una maggiore tensione
competitiva e a causa della stazionarietà della domanda: il volume delle vendite si stabilizza e cominci ad
avere delle lievi flessioni. Infine nella fase di declino i consumatori manifestano una perdita di interesse per
il prodotto fino all’eliminazione del prodotto dal portafoglio.
Nel periodo di introduzione assume maggiore importanza la qualità, durante lo sviluppo il prezzo, la
distribuzione e la pubblicità, durante la fase di maturità l’arricchimento delle versioni, il prezzo e le
modalità di presentazione del prodotto e nella fase di declino l’attenzione è rivolta alla riduzione del prezzo
La politica di prezzo
Il prezzo è definibile nell’ottica del marketing “l’espressione monetaria del valore”. Dunque la parola chiave
del marketing contemporaneo non è “prezzo” bensì “valore”.
Il prezzo è una grandezza quantitativa, oggettiva e determinabile in maniera certa, indipendente dalle
condizioni soggettive della persona che esprime la valutazione.
Il valore è una grandezza squisitamente soggettiva, è una variabile-risultato che emerge nella mente del
consumatore dalla considerazione di una serie di elementi , funzionali e psicologici. Il valore è la misura
dell’utilità del prodotto per il consumatore.
Secondo il modello teorico di riferimento per la determinazione del prezzo di vendita di un prodotto
l’impresa per riuscire a fissare un prezzo valido, deve considerare 3 fattori: la domanda, l’offerta e
l’ambiente di riferimento.
Le influenze della domanda sulla determinazione del prezzo riguardano la natura del mercato target e la
previsione delle reazioni dei consumatori alla fissazione di un certo livello di prezzo. I principali elementi di
valutazione sono: i fattori demografici, i fattori psicologici e l’elasticità della domanda in rapporto al prezzo.
Sia i fattori demografici che quelli psicologici influenzano l’elasticità della domanda rispetto al prezzo che
indica quanto i consumatori sono sensibili al prezzo e alle sue variazioni e si misura con il rapporto:
le influenze dell’offerta sulla determinazione del prezzo sono individuabili negli obiettivi che il management
intende perseguire, nei costi sostenuti per la realizzazione del prodotto. I costi sono il fattore più usato per
determinare il prezzo del prodotto.
Le influenze ambientali sulla determinazione del prezzo riguardano tutte le variabili che sfuggono all’azione
diretta da parte del management. Le più importanti sono le leggi dello stato che impongono determianti
prezzi e la concorrenza.
La politica di distribuzione
A volte la lontananza tra produttore e consumatori è tale da rendere necessaria la presenza di intermediari
i quali compongono il Canale di distribuzione -> l’insieme di organizzazioni interdipendenti attraverso le
quali il prodotto passa dal produttore all’utilizzatore o consumatore finale in determinate condizioni di
tempo e di spazio.
Gli intermediari forniscono utilità di tempo e di luogo: forniscono utilità di tempo rendendo disponibili i
prodotti o i servizi quando il consumatore li desidera; forniscono utilità di luogo rendendo i prodotti e i
servizi disponibili dove il consumatore li desidera.
Il canale di distribuzione si configura come un sistema a struttura verticale dal produttore al consumatore.
I canali utilizzati per la distribuzione dei beni sono:
- Canale diretto (produttore-consumatore)
- Canale indiretto (produttore-dettagliante-consumatore)
- Canale indiretto a due stadi (produttore-grossista-dettagliante-consumatore)
- Canale indiretto a tre o più stadi (produttore-agente-grossista-dettagliante-consumatore)
Viene definito lungo il canale che prevede anche la figura del grossista/agente, breve il canale che si avvale
unicamente di dettaglianti.
Tipologie di intermediari:
- Grossisti: aziende commerciali che acquistano prodotti assumendone la proprietà, li depositano nei propri
magazzini, gestiscono fisicamente grandi quantità di merci rivendendole a dettaglianti oppure ad altre
imprese.
- Dettaglianti: intermediari commerciali che si occupano essenzialmente della vendita al consumatore
finale
- Agenti: operatore che effettua attività di vendita, di acquisto o che le svolge entrambe ma non acquisisce
la proprietà dei prodotti commercializzati.
La scelta del canale può essere ulteriormente raffinata considerando i seguenti aspetti:
1. La copertura distributiva di mercato desiderata: a tal riguardo è possibile distinguere tra distribuzione
intensiva, selettiva e esclusiva.
Intensiva: il produttore cerca di ottenere il max livello di copertura avvalendosi del maggior numero
possibile di grossisti e dettaglianti;
Selettiva: il produttore si limita ad utilizzare gli intermediari che considera i migliori fra quelli disponibili;
Esclusiva: il produttore conferisce ad un solo distributore il diritto esclusivo di vendere la marca;
2. Il livello di controllo di vendita e di marketing desiderato: maggiore è la lunghezza del canale, minore
sarà il livello di controllo che il produttore esercita sul mercato finale dei beni;
3. I costi di distribuzione e i livelli di vendita: ogni alternativa di canale (diretto/indiretto) produrrà un
differente livello di vendite e costi;
4. La flessibilità del canale: occorre prendere in considerazione le capacità di adattamento del produttore
al cambiamento delle condizioni esterne.
Vi è un’ulteriore distinzione in base al grado di interdipendenza tra i membri del canale: canali di
distribuzione convenzionali (tradizionali) e sistemi verticali di marketing (diffusi negli ultimi anni).
Convenzionali: non denotano alcuna forma di organizzazione, sono costituiti da aziende più o meno
indipendenti l’un l’altra, con un livello di cooperazione quasi inesistente o assai limitato.
Sistemi verticali. Includono tutti quei canali i cui membri sono legati da una forte interdipendenza di varia
natura. Possono essere così classificati: sistemi amministrati, sistemi contrattuali e sistemi integrati, in
relazione al grado di controllo più o meno intenso che vi esercitano alcuni partecipanti.
Trade marketing: attività di marketing rivolta agli intermediari. In quest’ottica, i distributori sono visti non
come semplici intermediari ma come partner o come clienti veri e propri. Si tratta di gestire la propria
offerta avendo come cliente un’altra impresa, il trade.
Tale impostazione dell’attività di marketing viene associata al concetto di push strategy secondo il quale
l’impresa può cercare di raggiungere i propri obiettivi concentrando gli sforzi di comunicazione e di
promozione sugli intermediari in modo da stimolarli ad inserire il prodotto nei loro campionari,
immagazzinarlo in quantità consistenti, garantire lo spazio adeguato a stimolare i consumatori all’acquisto.
Obiettivo: suscitare la collaborazione volontaria dei distributori.
Parallelamente il produttore porta aventi anche il cosiddetto consumer marketing, ossia la gestione
manageriale della propria offerta avendo come cliente il consumatore finale anziché il trade. Questa
impostazione viene associata al concetto di pull strategy e concentra i propri sforzi di comunicazione e
promozione sulla domanda finale cercando di limitare l’importanza degli intermediari.
L’obiettivo è quello di creare nella domanda finale atteggiamenti positivi nei confronti della marca, facendo
in modo che l’acquirente richieda quella marca in particolare al distributore che sarà costretto quindi a
inserirla nell’assortimento.
La politica di comunicazione
Per vendere non occorre solo fornire ai clienti un prodotto a un prezzo interessante tramite dei distributori
ma bisogna anche far conoscere l’offerta, metterne in evidenza le qualità distintive agli occhi del segmento
target e stimolare la domanda con azioni promozionali e di vendita appropriate.
Una strategia di mkt per essere efficace deve sviluppare un programma di comunicazione, far conoscere i
prodotti/servizi ai potenziali clienti e persuaderli ad acquistarli.
La comunicazione di marketing è definita come il complesso di azioni svolte dall’impresa per indurre o
modificare i modelli di comportamento di consumatori, intermediari, finanziatori, allo scopo di ricavare un
vantaggio competitivo. L’ obiettivo non è unicamente aumentare le vendite, ma creare un’immagine. Per
perseguire i propri obiettivi l’azienda si avvale di una serie di strumenti della comunicazione definiti
“communication mix” che comprendono: pubblicità, promozione delle vendite, forza di vendita, le
relazioni pubbliche ed il marketing diretto.
Capitolo 8
A livello internazionale l’attività finanziaria è disciplinata da organismi quali: forum per la stabilità
finanziaria, comitato di basilea per le banche centrali, organizzazione mondiale delle autorità di vigilanza sui
mercati finanziari, banca mondiale, fondo monetario internazionale.
A livello comunitario: banca centrale europea, sistema europeo delle banche centrali, comitato europeo dei
supervisori delle compagnie assicurative e dei fondi pensione.
A livello nazionale: banca d’italia, istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo,
commissione nazionale per le società e la borsa, autorità garante per la concorrenza e il mercato.
Per ciò che concerne la struttura operativa del sistema finanziario, essa può essere suddivisa in due aree:
- l’area dell’intermediazione finanziaria tradizionale in cui l’azione di un operatore finanziario specializzato
si frappone tra le unità in surplus e quelle in deficit regolando il trasferimento delle risorse (c.d.
trasferimento indiretto)
- l’area dei mercati finanziari regolamentati e non in cui i soggetti si scambiano tra di loro le risorse a
seguito dell’incontro dell’offerta e della domanda delle stesse (c.d. trasferimento diretto)
Gli intermediari finanziari svolgono numerose attività , fra cui le principali sono:
- la produzione di strumenti finanziari;
- la negoziazione di strumenti finanziari per conto proprio o per conto terzi;
- l’offerta di servizi di consulenza.
Le entità con cui il sistema finanziario si rapporta, per realizzare il proprio obiettivo di trasferimento, sono:
- i risparmiatori o unità in surplus (famiglie);
- i prenditori di fondi o unità in deficit (imprese e settore pubblico) che necessitano di finanziamenti per
realizzare i propri obiettivi.
L’attività di intermediazione finanziaria è definita come trasferimento alle unità in deficit (le imprese) di
risorse finanziarie rivenienti dall’eccesso di liquidità detenuta dalle unità in surplus (le famiglie) e si realizza
mediante l’utilizzo degli strumenti finanziari, ossia rapporti di debito e credito tra le parti in causa,
disciplinati da contratti che definiscono gli impegni e i diritti reciproci.
La pendenza della curva rischio-rendimento è crescente perché per l’investitore il maggior rendimento
richiesto è più che proporzionale rispetto al maggior rischio accettabile. L’asintoto verticale sta a significare
che ci sono rischi insuperabili ai quali non può essere associato un rendimento valido. Quindi la relazione
tra sistema finanziario e sistema impresa è governata fino a un certo limite oltre il quale non può più essere
rappresentata dal binomio rischio-rendimento.
Il fattore di discontinuità si presenta nella II fase di industrializzazione, quella della produzione di massa. Le
imprese si configurano come grandi sistemi organizzati e si trovano nella necessità di crescere
dimensionalmente aumentano il loro fabbisogno finanziario, ed anche il rischio connesso alla loro attività.
Sotto il profilo finanziario risultava necessario il ricorso alla finanza esterna rispetto al capitale
dell’imprenditore e all’autofinanziamento.
Il II fattore di discontinuità è rappresentato dalla situazione economica critica degli anni (’73-’85) dovuto ad
un innalzamento del costo delle materie prime e del fattore lavoro oltre che alla caduta dei tassi di crescita
delle economie occidentali.
È in questo momento che inizia il periodo di “finanziarizzazione” delle imprese industriali. La logica
finanziaria inizia ad imporsi quale logica generale delle scelte d’impresa. Tale periodo è denominato fase
della finanza integrata.
Il fabbisogno assume dimensione variabile a seconda dell’andamento dei flussi monetari di investimento-
disinvestimento.
Il capitale della SPA, la più importante fra le società di capitali, viene raccolto mediante l’emissione di titoli
chiamati azioni. Le azioni possono essere distinte in varie categorie:
- azioni ordinarie, che attribuiscono agli azionisti diritti amministrativi e patrimoniali;
- azioni privilegiate, che attribuiscono ai loro titolari la distribuzione degli utili e/o il rimborso del capitale al
momento dello scioglimento della società;
- azioni a voto limitato, ripartizione degli utili e rimborso del capitale. Diritto al voto solo nelle assemblee
straordinarie;
- azioni di risparmio, del tutto prive di voto;
- azioni di godimento, riservate ai possessori di azioni già rimborsate. Limitazioni dei diritti amministrativi e
patrimoniali;
- azioni di lavoro, assegnate ai dipendenti ma limitate nei diritti amministrativi e patrimoniali.
Con le azioni ordinarie, privilegiate, a voto limitato e di risparmio si possono raccogliere nuovi mezzi
finanziari, mentre con le azioni di godimento si attua un rimborso di capitale (disinvestimento) e con le
azioni di lavoro si procede a un reinvestimento di profitti già conseguiti.
Tra le fonti di finanziamento dirette vi sono i prestiti obbligazionari (ricorrere al risparmio senza passare
per l’intermediazione creditizia). In Italia solo le SPA possono emetterli.
2. le fonti di finanziamento indirette: non sono finalizzate all’ottenimento di prestiti, bensì di forniture.
Si tratta dei cosiddetti debiti di funzionamento.
Tra le fonti esterne di finanziamento vi è anche il leasing (def. “locazione finanziaria”) -> è considerato
come un’alternativa al prestito bancario, più costosa ma più flessibile.
Due tipi di leasing:
-operativo -> noleggio
-finanziario -> qui il finanziatore-locatore non è il costruttore del bene locato, ma un terzo finanziatore che
acquista il bene da locare dal produttore e lo concede, in locazione, all’impresa utilizzatrice (locataria).
Le varie fonti possono essere classificate in base al binomio variabilità-determinatezza del costo in:
- fonti a costo determinato e costante;
- fonti a costo determinato e variabile, come le obbligazioni indicizzate;
- fonti a costo indeterminato e variabile, come le azioni ordinarie;
- fonti senza costo apparente, come in fondi interni di autofinanziamento.
Il costo del capitale, dipende anche dalla politica finanziaria e dagli obiettivi dell’impresa, nonché
dall’inflazione o dall’attesa di inflazione.
𝑋 𝑆 𝐷
𝑐𝑐 = = 𝑐𝑐𝑝 [ ] + 𝑐𝑐𝑐 [ ]
𝑉 (𝑆 + 𝐷) (𝑆 + 𝐷)
Dove:
cc= costo medio ponderato del capitale
X= utile annuo dell’impresa al lordo degli interessi sui debiti a medio e lungo termine
S= valore di mercato del capitale proprio o delle azioni
D= valore di mercato dell’indebitamento
S+D=V = valore tot dell’impresa
Ccp= costo medio capitale proprio
Ccc= costo medio capitale di credito
S/S+D = coefficiente di indebitamento dell’impresa
8.9 – La struttura finanziaria
Gli strumenti utili a rappresentare la struttura finanziaria di un’impresa sono numerosi.
Gli indicatori semplici servono per rappresentare le categorie di fonti dalle quali arrivano le fonti finanziarie
e le categorie di impieghi nelle quali l’impresa le ha destinate.
Tra gli indicatori semplici maggiormente utilizzati vi sono:
ATTIVO PATRIMONIALE
- liquidità immediate (denaro ecc.)
- liquidità differite
- rimanenze d’esercizio (scorte, risconti, costi anticipati)
- debiti correnti (debiti per dilazionato acquisto di beni e servizi; debiti per oneri previdenziali, tributari;
debiti per rimborsi di finanziamenti a breve o scadenze a lungo termine; anticipi di clienti e risconti passivi;
debiti consolidati; mezzi propri o capitale di rischio).
L’utilizzazione degli indicatori semplici è utile alla composizione del c.d. Conto Patrimoniale Condensato
che indica il combinarsi degli investimenti in essere con quello delle fonti di provenienza delle risorse
impiegate. (vedi fig. p. 300) con questa rappresentazione si coglie la segmentazione degli impieghi e delle
fonti ed è utile per monitorare il modificarsi della situazione dell’impresa nel tempo.
Bisogna guardare il rapporto tra impieghi circolanti e debiti correnti che esprime appunto l’indice di
liquidità.
INDICI DI DURATA
scadenza media dei crediti = (crediti vs clienti * 365)/fatturato annuo a credito
fornisce il periodo medio di riscossione del fatturato concesso a credito.
scadenza media dei debiti = (debiti vs fornitori * 365)/acquisti a credito
fornisce il periodo medio di scadenza dei debiti.
permanenza media delle scorte = (rimanenze * 365)/costo del venduto
indica la permanenza media delle scorte in magazzino.
Capitolo 9
Esistono due diversi approcci che hanno contraddistinto l’evoluzione del pensiero strategico:
- approccio razionalistico: da cui ha origine il pensiero strategico, risale ai primi anni ’70 e pone l’accento
sugli aspetti del contenuto, ossia sulla definizione, da parte dell’impresa, di obiettivi ed attività che le
consentano di essere in “sintonia” con le differenti condizioni ambientali e di mercato -> coincide con
l’impostazione tradizionale ed è legato al ciclo di pianificazione strategica, programmazione e controllo.
Segue un ciclo sequenziale. Stabilità ambientale.
- approccio organizzativo: che intende la strategia come un comportamento o processo continuo,
focalizzato sugli aspetti dinamici di formazione della stessa, scaturenti dal rapporto fra l’Organo di Governo
e la Struttura Operativa -> concentra la sua attenzione sulla dinamica strategica, intesa come risultante
dell’unione tra più momenti logici e non più consequenziali, sintetizzabili nell’ideazione della strategia, la
definizione (momento in cui le idee si trasformano in progetti), l’azione e la sorveglianza (in cui l’Organo di
Governo valuta gli obiettivi conseguiti o gli eventuali scostamenti).
Una volta collocate le proprie attività nella matrice, l’impresa potrà determinare se il proprio portafoglio è
valido o meno.
Valutare la situazione e le prospettive di un’attività solo sulla base di queste due variabili risulta
inadeguato, perché la quota di mercato non esprime la posizione competitiva globale dell’attività e il tasso
di sviluppo della domanda non è l’unico fattore ad esprimere l’attrattività globale di un mercato.
Allo stesso modo i dirigenti di mkt dovrebbero procedere ad identificare le opportunità dell’evoluzione
ambientale. Le opportunità sono classificate in relazione all’attrattività e probabilità di successo. (Fig. IX.4)
Per cogliere le opportunità, occorre effettuare un’analisi periodica dei punti di forza/debolezza. (analisi
dell’ambiente interno)
L’analisi dei fattori interni ed esterni è chiamata SWOT. Strumento utilizzato è la matrice multifattoriale in
cui ogni attività viene classificata secondo due variabili: attrattività del mercato e posizione competitiva.
Dopo aver valutato le varie attività in cui l’impegnata, l’impresa può riscontrare un divario tra il volume
delle vendite previsto e quello che il management assume come obiettivo da conseguire.
Esistono tre modi per colmare il divario:
1. Sviluppo intensivo: Ansoffper l’individuazione delle opportunità di sviluppo intensivo ha sviluppo la
matrice prodotto/mercato (fig. IX.7).
In primis l’impresa prende in esame la possibilità di allargare la propria quota di mercato con i prodotti
attuali (strategia di penetrazione del mercato); in un secondo momento, considera se è possibile
sviluppare nuovi mercati per i prodotti esistenti (strategia di sviluppo di mercato); quindi valuta se è
possibile sviluppare nuovi prodotti per i mercati in cui già opera (strategia di sviluppo del prodotto); infine
l’impresa può sviluppare nuovi prodotti per nuovi mercati (strategia di diversificazione).
2. Sviluppo integrativo: consiste nell’acquisire uno o più fornitori (integrazione a monte); una o più imprese
distributrici (integrazione a valle); una o più imprese concorrenti (integrazione orizzontale).
3. Sviluppo diversificativo:
- diversificazione concetrica: quando l’impresa riceve nuovi prodotti che presenta sinergie
tecnico/produttive e/o di marketing rispetto ai prodotti esistenti, anche se i nuovi prodotti si rivolgono a
nuovi segmenti.
-diversificazione orizzontale: consiste nella ricerca di prodotti da offrire alla clientela tradizionale, sebbene
privi di collegamenti con i prodotti attuali.
- diversificazione conglomerativa: l’impresa riceve nuove attività che non hanno alcun rapporto con le
tecnologie, i prodotti o i mercati abituali.
Hofer e Schendel propongono, per l’individuazione delle SBA, i criteri di omogeneità e indipendenza.
Nell’ambito delle SBA può essere individuato un ulteriore livello di pianificazione strategica: il livello
funzionale. Ogni funzione ha il compito di formulare una strategia compatibile con quella delle altre
funzioni raggruppate sotto lo stesso business.
Lorange, parte dal livello più basso individuando i business elements, unità elementari di pianificazione, cioè
il livello minimo al quale ha senso formulare obiettivi e strategie di adattamento all’ambiente.
Collocabile in questo filone è la posizione di Omahe, il quale definisce l’unità di pianificazione strategica
(SPU), cioè il livello elementare al quale è conveniente formulare una strategia, in termini di omogeneità e
indipendenza rispetto alle dimensioni del “triangolo strategico”: cliente, concorrenza, impresa.
Essendo un’impresa composta da più business rivolti a segmenti diversi, esistono più triangoli strategici
quindi occorre formulare più strategie.
Molto importante è l’individuazione del livello organizzativo in cui collocare la SPU. I livelli sono:
- corporate, con il ruolo di stabilire gli obiettivi globali, promuovere lo sfruttamento di sinergie, ripartire e
risorse strategiche tra i diversi business;
- settore strategico, che raggruppa SBU omogenee. Esso pianifica nel lungo termine (5/10 anni);
- SPU, che comprende rapporti di prodotto-mercato correlati;
- SBU, che ha il compito di realizzare la strategia di breve-medio termine e di sfruttare le sinergie funzionali.
2. un secondo filone, di cui fanno parte Abell, Ansoff e Faccipieri, assegna all’architettura strategica un
significato di vera e propria struttura, con compiti e responsabilità non solo di pianificazione ma anche di
attuazione e controllo della strategia.
Abell individua la SBU come un centro di profitto strategico con le seguenti caratteristiche: autonomia,
proprie risorse funzionali, propri obiettivi di mercato, gruppo ben definito di clienti, propria strategia,
responsabilità finanziaria di profitto.
Esiste una corrispondenza biunivoca tra SBU e SBA quindi l’articolazione organizzativa segue il criterio della
specificità strategica. Questo criterio, nel modello di Abell, si basa sul trinomio cliente, funzione, tecnologia:
- i clienti sono classificabili in basa alla loro diversa omogeneità potenziale di comportamento e omogeneità
di bisogni;
- le funzioni rappresentano i bisogni o gli attributi dei bisogni da soddisfare;
- le tecnologie identificano le modalità con cui i prodotti/servizi svolgono le funzioni.
Ad un livello inferiore a quello di business, Abell individua l’unità di programma che rappresenta l’unità
elementare della struttura strategica, responsabile della formulazione del piano strategico e del budget
annuale.
Faccipieri attribuisce rilevanza alle CSE (componenti strategiche elementari), che rappresentano un livello
intermedio tra quello di business e quello di segmento prodotto mercato: sono date da insiemi di segmenti
prodotto-mercato tra loro correlati.
La SBU è costituita da più CSE che si dividono le risorse funzionali delle SBU.
Da continuare…
Il valore che l’impresa deve creare mediante l’interpretazione della dinamica strategica è composto da una
dimensione economica e da una relazionale.
CAPITOLO 10
I cicli di vita dei prodotti inoltre si riducono cioè questi divengono rapidamente obsoleti, quindi ci si
concentra sull'ampliamento dell'orizzonte geografico.
Cooperando tra soggetti di diverse aree si riducono poi i rischi dell'appartenenza ad un solo mercato e si
sfruttano così mercati altrimenti irraggiungibili (fenomeno del crossingborder).
Strategie di sviluppo interno, strategie di cooperazione, strategie relazionali vanno bilanciate per garantire
la crescita nel medio/lungo periodo.
Nb: “cooperazione” (le imprese in accordo svolgono attività tecnicamente complementari = maggiore
durata) non è sinonimo di “collaborazione” (le imprese in accordo NON svolgono attività tecnicamente
complementari).
Quando due imprese collaborano, il coordinamento passa attraverso la creazione di più legami (non
vengono scambiati solo beni e servizi ma anche conoscenza e informazioni), l'aggiustamento reciproco
(mutuo sforzo di adattamento delle risorse in comune, nella quantità e nella qualità dei beni e servizi
scambiati, nei tempi), la fiducia (non può esserci senza esperienza, in quel caso ci si basa sulla reputazione),
la garanzia di reciprocità (equa suddivisione di rischi e vantaggi).
Il fondamento economico della cooperazione è che esistono imprese che si specializzano in base alle
conoscenze e alle esperienze accumulate nel tempo per acquisire vantaggio competitivo, e che le attività
intorno alle quali basano la loro specializzazione si coordinano in un processo di produzione e scambio.
10.3.2 – La relazione esistente tra ciclo di vita del settore e andamento degli accordi tra le imprese
Questa interpretazione è legata ai modelli teorici di Abernathy e Utterback che considerano i settori
industriali come il risultato del cambiamento tecnologico, delle strutture di mercato e delle condotte delle
imprese. Si sostiene che esistono relazioni tra propensione a stipulare accordi, la loro tipologia e la
dinamica di crescita del mercato, l'evoluzione tecnologica e le condotte strategiche del settore.
Questi legami possono essere rappresentati per mezzo del modello del ciclo di vita tecnologico del settore.
Prima però distinguiamo due tipi di accordi:
1. Equity ->comportano una modifica nella struttura proprietaria delle imprese o la creazione di una nuova
società posseduta insieme dai partner (joint venture);
2. Non equity ->assume varie forme contrattuali: licenze, accordi di franchising, di fornitura, d'assistenza
tecnica e post-vendita, di R&S, di produzione congiunta ecc.
Il modello del ciclo di vita del settore è articolato in 5 fasi, determinate dal tasso di crescita della domanda
di mercato e dalla sua variazione nel tempo:
1. Introduzione (in questa fase si ha l’introduzione sul mercato delle prime applicazioni; essa è
caratterizzata da incertezza relativamente a mercato, tecnologia e produzione.
Tutto ciò spinge le aziende a limitare gli investimenti in capacità produttiva ecc. perciò gli accordi sono utili
a garantire una rapida capacità di reazione; in questo stadio avremo accordi equity in R&S, accordi per la
definizione di standard ecc.);
2. Primo sviluppo (in tale periodo la crescita del mercato è molto sostenuta; inoltre si verifica l’entrata dei
primi imitatori nel settore; massima propensione a ricorrere ad azioni di cooperazione.
Gli accordi sono sempre più orientati allo sviluppo di prodotti e processi e allo sfruttamento di economie di
scala. Aumentano gli accordi commerciali e produttivi con incremento delle forme non equity);
3. Pieno sviluppo (espansione elevata del mercato ma non più crescente; traiettorie tecnologiche più
prevedibili; innovazioni di processo prevalgono su quelle di prodotto; entrata massiccia di imitatori grazie
alla diffusione di conoscenze tecniche; la competizione si sposta su fattori di prezzo e sul marketing, sulla
distribuzione, sui servizi e l'assistenza post-vendita; le imprese privilegiano forme di crescita interna quindi
riducono gli accordi);
4. Maturità (il mercato cresce ancora ma a ritmi ridotti; incremento delle strategie collaborative grazie ad
un processo di rivitalizzazione delle tecnologie; sfruttamento del know-how di prodotto e di processo
trasferendolo in nicchie di mercato; aumentano gli accordi non equity);
5. Declino (contrazione del mercato; le imprese che non hanno retto la competizione escono con scorpori e
cessioni societarie; non si ha più l’entrata di nuovi produttori).
Sono così importanti che vengono gestiti dagli organi alto-manageriali. Il processo decisionale è complesso,
scandito da due processi: uno dei singoli partner, l'altro derivante dall'interazione delle imprese coinvolte.
Le fasi sono variabili:
1. Analisi strategica delle trasformazioni ambientali, del sistema competitivo per trarre deduzioni sui punti
di debolezza/forza dell'impresa stessa e rispetto ai concorrenti. Da ciò si possono trarre delle conclusioni
circa gli obiettivi da raggiungere e le alternative da seguire per realizzarli;
2. Definizione del profilo ideale del partner e della tipologia dell’accordo, stabilendo i criteri in base ai quali
cercare e selezionare i possibili alleati;
3. Individuazione delle possibili alternative;
4. Selezione potenziali partner;
Effettuata la scelta del partner si entra nella fase negoziale durante la quale si definiscono i termini
dell'accordo. Qui distinguiamo l'analisi in 2 piani decisionali:
1. il piano di valutazione del singolo partner ->la valutazione economica è basato sul volume di fatturato,
sui costi di gestione, dai dividendi in caso di accordi equity; nell'analisi di fattibilità e coerenza invece si
guarda alla compatibilità del progetto con altre iniziative dell'impresa e se risponde in modo adeguato ai
cambiamenti ambientali;
2. il piano di decisione comune cioè la fase delle trattative, costituisce un presupposto per il successo della
collaborazione. Attraverso la collaborazione si arriva a definire il piano strategico, la struttura organizzativa
e i meccanismi operativi nonché la forma giuridica necessaria alla gestione dell’attività.
I principali indicatori di redditività aziendale sono il ROE e il ROI (aiutano a misurare il valore dell'impresa,
che indicheremo con W).
W = R/r
dove
W = valore dell’impresa
CN = valore contabile del capitale
r = tasso di attualizzazione (per semplicità diciamo d'interesse o rendimento)
R = reddito netto d'esercizio
− W > CN quando ROE > r (è in questo caso che il valore azionario aumenta)
− W = CN quando ROE = r
− W < CN quando ROE < r
I parametri contabili:
- non sempre esprimono quantità univoche perché il reddito può risentire degli effetti delle politiche di
bilancio;
- non considerano i rischi associati alle strategie;
- non tengono conto delle pressioni degli azionisti.
I limiti esposti inducono ad impiegare i parametri contabili per valutazioni consuntive e di BP. Appare più
opportuno adottare altri metodi.
Per la valutazione degli accordi assumiamo il Criterio del valore azionario che implica una valutazione del
capitale economico dell'impresa espresso come:
W = Ʃ (Fcdt/1+k) al tempo t
dove
Il valore di una strategia può essere misurato anche tramite il VAN (valore attuale netto) dei flussi di cassa
differenziali che l'accordo è in grado di generare, cioè:
Dove
VAN=valore attuale netto dei flussi di cassa dal tempo 0 ad n attualizzati al costo del capitale;
FCdt = flussi di cassa differenziali indotti dalla strategia cooperativa.
Il metodo del VAN è di difficile applicazione pratica perché ci sono problemi con la stima dei flussi di cassa
connessi alla cooperazione. Inoltre non tiene conto delle future e potenziali decisioni strategiche.
Per superare questi limiti è stato inserito anche il valore delle opzioni reali (creando il valore economico
allargato), classificate in 5 categorie:
1. Opzioni di sviluppo (l'impresa può cogliere opportunità che si manifestano post strategia);
2. Opzioni di differimento (l'impresa può rinviare lo sfruttamento di attività già possedute);
3. Opzioni di riorientamento (l'impresa può modificare la destinazione attuale delle risorse);
4. Opzioni di ridimensionamento (l'azienda può ridurre la dimensione della struttura);
5. Opzioni di abbandono (l'impresa può cedere/eliminare attività se l'ambiente lo permette).
Grazie agli accordi le imprese impiegano una quantità minore di risorse, quindi un'impresa che ha diversi
accordi può cogliere le opportunità appena elencate.
Il valore economico allargato creato da un accordo di cooperazione sarà dato dal valore del capitale
economico dell'impresa alla fine della strategia collaborativa e dal valore delle opzioni reali depurato dal
valore del capitale economico dell'impresa senza intraprendere alleanze strategiche.
Il ricorso a rapporti esterni non si è limitato agli accordi a monte (con i fornitori), ma si è esteso anche a
valle del processo produttivo (intermediari commerciali).
Alla luce delle considerazioni svolte, una definizione moderna degli accordi di collaborazione tra imprese è:
“relazioni cooperative organizzate di tipo non collusivo, funzionali all'inter-azione tra imprese, autonome
sul piano competitivo, per la valorizzazione delle complementarità e delle competenze specifiche e per
l'accesso a opportunità esterne offerte dalla complessa evoluzione ambientale”.
Negli anni ‘60 e ‘70 il rapporto tra imprese era monodirezionale, basato cioè su rapporti di sub-fornitura
(fig.X.3); oggi si tratta invece di strutture reticolari, caratterizzate da unità autonome dal punto di vista
gestionale e orientate a collaborare in una fitta rete di collegamenti pluridirezionali.
Questo fenomeno discende dalla convergenza imprenditoriale.
Il concetto di struttura reticolare viene utilizzato per indicare fenomeni diversi tra loro e cioè:
- imprese che adottano una marcata politica di decentramento d'attività manifatturiere e servizi
avvalendosi di imprese subfornitrici;
- sistemi territoriali di imprese;
- imprese giuridicamente autonome, ma con forti legami di cooperazione;
- grandi imprese articolate in unità organizzative.
Flessibilità e adattamento sono fondamentali, in quanto un'impresa può costruire in modo flessibile un
insieme di legami interni ed esterni per ogni progetto modellandosi su ogni problema che emerge. Ci si
riferisce ad entità flessibili (sia a livello organizzativo che manageriale) e ramificate adatte ad interagire col
cambiamento e l'innovazione. Ogni impresa, con la rete, può divenire specialista in un certo campo, usando
altri specialisti.
In generale si può osservare che le forme di organizzazione reticolare nascono ex novo, oppure per effetto
di un processo di trasformazione di strutture già esistenti.
Inoltre nelle reti si sviluppa un processo di apprendimento relazionale. Si parla a tal proposito di
“piattaforma inter-impresa”, una base relazionale per generare conoscenza e trasferirla ai partner
aumentando le competenze dell'organizzazione, nonostante la mantenuta autonomia delle varie imprese
coinvolte.
I gradi maggiori di flessibilità presentati dalle imprese reticolari si traducono in costi minori di struttura.
Mentre prima della relazione produrre era un costo fisso, ora diventa variabile (la retta dei costi variabili
subisce un incremento).
L'impresa reticolare quindi ha il proprio BEP in corrispondenza di una quantità di ricavi d'equilibrio minore;
ciò significa che questa opera con una struttura che facilita il raggiungimento del profitto a livelli inferiori
d'attività. La leva operativa così subisce un decremento, fatto che sembra negativo ma non lo è se
pensiamo ai mercati fluttuanti di oggi: una bassa leva operativa permette di ottenere un equilibrio a livelli
di attività minori pur non permettendo grandi incrementi di profitto, ciò significa che anche in periodi di
contrazione dei volumi venduti il rischio operativo è ridotto.
L'impresa rete è un sistema che integra, in un’unica rete, strutture interne/esterne. Tali strutture sono
organizzate in nodi fornitori di risorse, tecnologie, prodotti, servizi.
Tali nodi sono collegati e coordinati tra loro, infatti obiettivo del sistema rete è di collocarsi sul mercato con
il massimo potenziale competitivo.
La progettazione di un sistema rete: per ogni impresa che crea o fa parte di una rete, nasce l'esigenza di
adattare la propria strategia. Tale sistema dovrà essere flessibile e aperto, al punto di associarsi a nuove
imprese per convenienza ed in funzione dei cambiamenti di esigenze del mercato servito).
L'impresa costruttrice della rete dovrà tenere in conto poi che i nodi possono appartenere anche ad altre
reti, forse competitive.
Con riferimento alle imprese reti si parla di rete esterna, una forma organizzativa caratterizzata dalla
presenza di un'impresa guida (focale) che costruisce una serie di legami e di relazioni con altre imprese o
enti esterni. L’impresa focale trasferisce parte della propria attività alle aziende della rete, attuando una
divisione del lavoro e valorizzando la complementarità tra le imprese.
Al concetto di rete esterna si richiamano diverse espressioni:
− distretto industriale (forte concentrazione territoriale di imprese della stessa filiera produttiva,
ognuna specializzata per massimizzare efficacia e efficienza dello scambio con le altre);
− costellazione d'imprese (insieme d'imprese che convergono verso obiettivi comuni. Di solito si
tratta di: un numero limitato d'imprese, guidate da una sola, interdipendenti,che
condividonorisorse);
− hollow corporation (impresa che attua un decentramento spinto, limitandosi a compiti di “regia
industriale”. Troviamo molti esempi nel cinema, nella moda e nel design, in cui molti marchi di
successo si occupano solo della parte creativa e della commercializzazione delegando la parte
manifatturiera).
L'impresa comunque si relaziona con tantissimi soggetti nella filiera tramite logiche comportamentali
diverse. Queste tipologie comportamentali si possono classificare in base ad un duplice ordine di variabili:
− obiettivi di controllo sulle risorse esistenti nell'ambiente esterno (se si vogliono perseguire obiettivi
condivisi o in contrasto con quelli degli altri);
− modalità di controllo delle risorse esterne (se il controllo si realizza tra le aziende implicate o se il
controllo è demandato ad un organismo “super partes”).
Ne scaturiscono 4 tipi di rapporti tra imprese:
1) competizione (due o più aziende si pongono in modo asimmetrico fra loro, cioè ciascuna, nella
propria autonomia);
2) dominazione(un’impresa che predomina sulle altre);
3) collusione (quando le imprese si accordano per sostituire al meccanismo del libero mercato quello
dell’oligopolio collusivo tramite la costituzione di cartelli anche occulti con regole stabilite);
4) cooperazione.
Il concetto di organization-set (Aldrich e Whetten) fa riferimento all'insieme di rapporti che l'impresa
intrattiene con l'ambiente esterno, sia diretti che indiretti, sia di semplice scambio che di collaborazione
organica.
La rete interna invece fa capo alle reti d'imprese. Col termine rete interna si fa riferimento
all'organizzazione interna di un'impresa, alla sua articolazione in reparti, divisioni, unità erogatrici di servizi
ecc. Il personale di queste unità ha dei rapporti interpersonali. Le reti interpersonali possono essere formali
(gerarchia; sviluppo verticale) o informali (sviluppo orizzontale; possono interessare anche altri individui ad
esempio consulenti).
− esistenza o meno di un'impresa guida ->1. si tratta di una rete che fa capo ad un “maincontractor”,
cioè un’impresa-guida che coordina la progettazione e la creazione di un’opera, la cui realizzazione
viene affidata ad una molteplicità di imprese specializzate (sub-contractors); temporanea; 2. rete di
coproduttori altamente specializzati, stabile; 3. accordi tra imprese, dinamicità; 4. sistemi a base
territoriale come distretti, elevato livello d'integrazione;
− iniziativa di progettazione del sistema impresa ->1. impresa rete naturale in cui operano nodi ad
alto livello di autoregolazione; 2. reti governate in cui soggetti individuali o collettivi provvedono a
progettare, gestire, mantenere un sistema rete in tutti i suoi nodi, strutture, connessioni e
proprietà;
− stabilità delle relazionitra imprese partner ->1. rete stabile, con un'azienda focale che sta passando
dall'essere integrata verticalmente ad una a rete, i legami sono duraturi anche se pochi; 2. rete
dinamica, in cui l'azienda centrale concentra la sua attività solo in alcuni campi come R&S, design o
assemblaggio, infatti si tratta solitamente di alleanze temporanee e di un numero elevati di
potenziali partner quindi ideale per settori maturi o ad alta tecnologia.
Le reti d'imprese possono essere strutturate sia stabilmente (distretti) sia in senso dinamico (aggregazioni
per progetto). Le imprese rete però presentano maggiore stabilità.
Cause di insuccesso delle reti stabili e dinamiche: le aziende coinvolte possono divergere sulla qualità.
Nel caso della rete stabile si può venire a creare un'eccessiva dipendenza dei satelliti dall'impresa centrale,
mentre invece bisogna continuare a partecipare al mercato, fonte di innovazione e suggerimenti.
Nel caso della forma dinamica a volte si tende a specializzarsi troppo, diventando poco utile al mercato e
quindi a se stessa (rischio di uscita e di sostituzione da parte dei concorrenti). Bisogna occupare un
segmento ampio della catena del valore del bene considerato ed investire nello sviluppo di capacità e
tecnologia.
− nodi (entità piccole o grandi orientate ai risultati, costituite da centri produttivi capaci di cooperare
tra loro e autonomi anche se non per forza giuridicamente. Possono essere nodi imprese, reparti o
divisioni ed i nodi che si creano con altri nodi possono essere di tipo gerarchico, economico o
culturale. Hanno la funzione di proporre strategie alla direzione che ne valuterà la coerenza e
allocherà le finanze necessarie a perseguirle, dopodichè il nodo se ne assumerà la responsabilità
espletando la sua autoregolazione e capacità manageriale pur essendo sottoposto a controllo
dell'agenzia strategica);
− legami (le connessioni tra i vari nodi possono essere di varia natura: burocratiche quindi norme e
procedure, transazioni economiche, info e comunicazioni derivanti dalle riunioni);
− struttura (può essere gerarchica/ad organigramma, operativa, informativa, o può essere un
mercato);
− caratteristiche operative (regole legate al linguaggio condiviso nella rete, alla progettazione e alla
pianificazione della rete stessa).