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LUCA DEZI – L’IMPRESA

Capitolo 1

1.1 L’impresa come fenomeno

L’impresa è un evento:
1. Soggettivo: tende a valorizzare le specificità individuali. Si da importanza alla componente umana e
relazionale -> si crea un’interdipendenza tra obiettivi dell’organizzazione e quelli dei soggetti che la
compongono.
2. Oggettivo: l’impresa viene resa quantificabile, trascura le componenti culturali, sociali, psicologiche che
possono interferire con la massimizzazione del risultato. È un fenomeno razionale che tende a rendere
minimo l’impatto delle specificità individuali, aspirando a ridurre l’arbitrarietà e la variabilità delle
componenti rendendole prevedibili, programmabili e controllabili nel tempo.
3. Interattivo: l’organizzazione è sia soggettiva che oggettiva. Una parte è sottoposta al calcolo razionale,
l’altra è definita dalla soggettività di individui e gruppi scarsamente controllabile. Opera in sistemi più vasti
da cui può farsi influenzare e che può influenzare.

Il Codice Civile non contiene la definizione di impresa ma la nozione di imprenditore e di azienda.


L’imprenditore è colui che è preposto allo svolgimento dell’attività d’impresa. Chi “…esercita
professionalmente e sistematicamente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione e/o
allo scambio di beni e servizi”.
Il termine azienda è qualificabile come “il complesso di beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa.” L’ impresa costituisce il centro motore dell’intero sistema e non è un oggetto consistente in un
complesso differenziato di risorse come può essere l’azienda ma è qualcosa di connaturato ai soggetti che la
governano.
L’attività di impresa rappresenta il raccordo tra capitale, lavoro e sistema di consumo.

Quindi l’impresa è:
- un’”attività economica” -> un fenomeno che, attraverso l’eccedenza dei flussi in uscita (output) sui flussi
in entrata (input) si autoalimenta;
- un insieme di fattori “organizzati” -> il governo e la gestione dei fattori organizzati sono orientati alla
soddisfazione degli interessi e/o alla soddisfazione dei bisogni dei soggetti;
- l’espressione “al fine della produzione e/o lo scambio di beni e servizi” rappresenta la finalità dell’impresa.
In realtà questo punto merita una precisazione in quanto l’impresa va considerata come un sistema
organico composto da più parti che interagiscono tra loro, caratterizzato da un ciclo di vita, da una
dipendenza dalle risorse esterne, da una sua forma e da una struttura organizzativa capace di adattarsi
all’evolversi dell’ambiente, di apprendere, memorizzare e replicare e soluzioni a situazioni verificatesi in
passato. La produzione di beni e servizi è solo un mezzo per raggiungere il vero fine ultimo che è
rappresentato dalla sopravvivenza (inoltre il macro-obiettivo sopravvivenza racchiude in sé il
conseguimento di obiettivi secondari).

Impresa come sistema:


(a) di trasformazione efficiente, al fine della produzione di valore
(b) vitale, che tende a permanere in vita ricercando condizioni di economicità durevole
(c) sottoposto alle pressioni di numerosi stakeholders
(d) manageriale, aperto all’ambiente e in grado di sviluppare una gestione secondo principi etici ed eco-
compatibili
(e) autopoietico, che rigenera i propri processi interagendo con l’ambiente
(f) cognitivo, che genera conoscenza e fa della conoscenza uno dei principali fattori da dominare

Governo: organo individuato nel top-management il cui compito è di indirizzare e guidare il sistema,
attraverso una serie di scelte strategiche, verso le finalità dell’impresa.
Gestione: apparato che realizza le intenzioni dell’organo di governo.

1.2 I Vari approcci allo studio dell’impresa

1. Approccio riduzionistico-analitico: appartiene alle teorie classiche dell’organizzazione. Deve la sua


nascita alle idee di Taylor, è la c.d “organizzazione scientifica del lavoro”. I principi di questa impostazione
sono rilevabili nel determinismo (il convincimento che ogni fenomeno reale è funzione di determinati
fattori), nella scomponibilità (dei problemi in parti), sperimentazione (individuazione delle funzioni
attraverso prove e osservazioni). Il pensiero di Taylor è stato poi assunto, applicato ed elaborato
ulteriormente da Fayol (teoria della direzione amministrativa) e da Weber (teoria burocratica).

2. Approccio sistemico: è una metodologia di analisi orientata alla comprensione dei fenomeni nella loro
dimensione complessiva (olismo) tesa al superamento dell’approccio analitico. L’impresa è un sistema
orientato di tipo socio-economico-tecnico-aperto costituito da elementi interagenti per perseguire una
finalità.

3. Approccio evolutivo: è basato sull’evoluzione delle organizzazioni in funzione del tempo. Le teorie
evolutive possono essere suddivise in due macro categorie: analogia biologica (evoluzione in ambito
biologico) e analogia sociale (evoluzione in ambito sociale).

1.3 L’ambiente di riferimento

L’ambiente d’impresa: tutto ciò che può direttamente influire sulla sua sopravvivenza o sulla sua crescita.
L’ambiente può essere percepito dall’impresa come:
- matrice o griglia delle regole del gioco: l’azienda deve attenersi a determinare regole e vincoli. Può, in
parte, modificarle attraverso l’elaborazione di valide ed opportune strategie.
- matrice delle convenienze ed opportunità: le convenienze si delineano di giorno in giorno per ciascuna
impresa a seconda del suo ambiente specifico.
Vi sono: convenienze dirette (mercato dei fornitori ecc.) e convenienze indirette (di hardware –
infrastrutture – e di software – servizi - )

Ambiente di primo riferimento: determinata area geografico-politica


Ambiente specifico: influenzabile da parte dell’impresa
Ambiente generale: coincide con lo stato cui l’impresa appartiene

Inoltre l’impresa può percepire l’ambiente che la circonda come:


- un ambiente competitivo, se si fa riferimento all’insieme di imprese con cui intrattiene relazioni di tipo
concorrenziale e/o competitivo;
- un ambiente socio-culturale, se fa riferimento non solo alla cultura ma anche ad una serie di istituzioni
diverse dalle imprese;
- un ambiente fisico-naturale (o ecosistema), inteso con “un complesso di risorse finite”, costituite sia
dall’ambiente fisico (aia, acqua, suolo) sia dalle risorse naturali (materie prime, fonti di energia ecc.)
In passato il rapporto impresa-ambiente si fondava sul paradigma struttura-condotta-prestazione secondo
il quale la struttura del mercato e quindi dell’ambiente di riferimento, determina la condotta aziendale, la
quale, a sua volta, influenza il risultato di gestione.
Questo paradigma dà una visione “passiva” dell’impresa, vista come soggetto economico che adegua il
proprio atteggiamento alle condizioni ambientali. Oggi invece le aziende svolgono un ruolo sempre più
attivo volto a fronteggiare l’ambiente con strategie aggressive anticipando alcuni fenomeni ambientali.

Oggi si parla di impresa proattiva, perché deve essere in grado di gestire le conseguenze di eventi che non
si sono ancora verificati, e di ambiente di riferimento attivato, definibile come l’insieme dei soggetti, dei
sistemi e dei mercati riconosciuti come portatori di risorse rilevanti per i suoi scopi.

Quindi l’ambiente non va considerato come elemento esterno all’impresa ma racchiude in sé l’impresa che
ne interiorizza la cultura, i valori e gli interessi attraverso azionisti, fornitori, consumatori, sindacati e le
relazioni con il mondo.
Se dunque esiste una relazione impresa/ambiente, essa è sicuro di tipo biunivoco, in quanto l’impresa è allo
stesso modo destinataria e artefice delle dinamiche ambientali.
Nell’acquisire e trasformare gli input, e nell’offrire e distribuire gli output, l’impresa manifesta il proprio
comportamento organizzativo di interazione con l’ambiente esterno. L’interazione con l’ambiente esterno
comporta dei flussi di ritorno (feedback) inerenti all’impatto degli output sull’ambiente esterno, che
vengono interiorizzai dall’impresa e possono modificarne il comportamento.
Il rapporto impresa-ambiente si sviluppa in due direzioni: dall’ambiente verso l’impresa e viceversa.
Concludendo, oggi si parla di sincronismo adattivo tra produzione e mercato, basato sulla capacità tecnica
e sociale dell’impresa di offrire una risposta flessibile alla variabilità del mercato. Emerge quindi la
necessità di formulare strategie che consentano di attuare processi dinamici di adattamento in cui le
aziende interagiscono attivamente con l’ambiente rispondendo in modo attivo alle sue modificazioni.

1.3.1 Le attuali tendenze ambientali

Data la dinamicità dell’ambiente esterno, non è possibile elaborare previsioni sufficientemente stabili ed
affidabili sugli accadimenti futuri, in particolare sull’evoluzione dei mercati e dell’ambiente esterno. Per
questo motivo le scelte strategiche delle imprese relative ai mercati su cui competere sono caratterizzate
da un alto grado di rischio. Risulta importante l’elasticità operativa e quella strategica (flessibilità), definita
come la capacità dell’impresa di adattarsi in modo tempestivo ai mutamenti ambientali.
Alcuni elementi notevolmente dinamici, quali la globalizzazione, i fattori demografici e il progresso
tecnologico, stanno trasformando il panorama competitivo mondiale, il quale arriva a comprendere mercati
sempre più distati non solo dal punto di vista spaziale ma anche e soprattutto da quello merceologico.
Alla luce della crescente complessità ambientale, diviene centrale la capacità dell’impresa di relazionarsi
con l’esterno.
La complessità (ovvero l’incapacità di governare con meccanismi semplici) si risolve nel binomio varietà-
variabilità – varietà nello spazio (varianza sincronica) e variabilità nel tempo (varianza diacronica) – con
cui si manifestano le situazioni e le opportunità organizzative e tecnologiche che caratterizzano il contesto
di riferimento dell’impresa.

Complesso: “ogni ambiente imprevedibile, rispetto al quale l’unica reazione che possa garantire la
sopravvivenza è di mantenere un alto tasso di esplorazione e la capacità di sviluppare rapidamente
strutture temporanee atte a valutare e sfruttare ogni occasione favorevole che può nascere”.
Va da sé che per sopravvivere nel lungo periodo e per conseguire un soddisfacente livello di redditività,
occorre che l’impresa si mantenga in uno stato di equilibrio dinamico. Quest’equilibrio non è quello
ottimale perché il sistema resta aperto alle influenze esterne, fonte di potenziale disturbo.

L’equilibrio di stato stazionario (o assoluto) è solo di brevissimo periodo perché presuppone la completa
staticità del sistema, condizione non riscontrabile per le aziende nel medio-lungo periodo.

Il costante cambiamento che si verifica in azienda genera un processo continuo di adattamento e


modificazione delle circostanze del mercato esprimendo così la capacità dell’impresa di autogenerare le
proprie forme, adattandosi al mercato. (Morfogenesi autonoma) si stabilisce così un’interdipendenza
evolutiva tra impresa e ambiente in quanto le loro evoluzioni forniscono impulso ai processi di
trasformazione economico-produttivo aziendale e ambientale.

Quindi la struttura aziendale è considerata costante, ma solo protempore e in relazione al mutamento


dell’ambiente.

I fattori che hanno determinato l’incremento della complessità sono:


- la crescente internazionalizzazione dei settori e delle imprese: che ha portato ad un allargamento
dell’orizzonte competitivo. Si riscontra una diffusa tendenza a svolgere le attività in contesti sempre più
ampi ed ad una costante ricerca di nuovi mercati in cui collocare beni/servizi;
- lo sviluppo tecnologico sempre più spinto e differenziato;
- i cambiamenti intervenuti nel rapporto tra domanda ed offerta: caratterizzato oggi dalla crescente
centralità del ruolo degli intermediari;
- le esigenze di ammodernamento e razionalizzazione dei “sistemi paese”.

Internazionalizzazione e globalizzazione hanno contribuito ad incrementare il livello di complessità


ambientale.

Box – internazionalizzazione/globalizzazione geografica e sistemica


Entrambi i termini individuano un ampliamento degli orizzonti di riferimento dell’impresa e fanno
riferimento ad una logica di mercato che prescinde sempre più dai confini nazionali.
Internazionalizzazione: crescita dell’impresa su mercati esteri secondo diverse modalità:
- mercantile: esportazioni (dirette e indirette)
- produttiva: trasferimento, implementazione di risorse produttive all’estero.
Globalizzazione:
- geografica: allargamento del mercato senza confini, ma non ad un mercato mondiale
- sistemica: individua il comportamento di un’impresa che passa dalla soddisfazione di un bisogno
elementare del cliente, al soddisfacimento completo di una certa area di bisogni. Dalla produzione di un
prodotto a un pacchetto di prodotti.

Box – diverse qualificazioni dell’organizzazione


L’impresa ha risposto alle esigenze socioeconomiche organizzandosi in modo appropriato alle situazioni
storiche. Diversi sono i modelli organizzativi adottati:
- Organizzazione nazionale: le barriere al commercio internazionale sono molto alte, quindi occorrono
strutture nazionali autosufficienti e sensibili alle esigenze ed occasioni locali;
- Organizzazione multinazionale: quando le imprese decentrano in diversi paesi le proprie filiali che
agiscono in modo autonomo in base al proprio ambiente operativo;
- Organizzazione internazionale: attività decentrate ma controllate dalla sede centrale. Federazioni di
imprese coordinate.
- Organizzazione globale: il concetto base è quello di fabbricare prodotti standard, distribuendoli sui
mercati di tutto il mondo;
- Organizzazione transnazionale: flessibilità multinazionale nel rispondere alle attese del mercato locale;
competitività globale per arrivare ad efficienza di scala, innovazioni su scala mondiale.

L’internazionalizzazione (crescita dell’impresa su mercati esteri) può manifestarsi in due modi:


- Internazionalizzazione attiva: capacità di un’impresa di operare all’esterno del proprio ambiente di
riferimento;
- Internazionalizzazione passiva: si realizza nel caso in cui un’impresa subisce, nell’ambito del proprio
ambiente di riferimento, la concorrenza di imprese esterne senza riuscire ad estendere le proprie vendite
nei mercati di questi.

L’internazionalizzazione un tempo vista come opportunità/convenienza oggi è una scelta obbligata per
mantenere determinati livelli di competitività e redditività.

Nasce una tendenza all’esternalizzazione: si rinuncia alle attività secondarie e di supporto che non sono
competenze di base dell’azienda e per questo vengono affidate a partner qualificati. Le imprese sono
consapevoli che non è possibile fronteggiare la complessità ambientale affidandosi solo alle proprie forze.

Emerge che le caratteristiche principali che le nuove forme d’organizzazione devono possedere sono la
flessibilità e la capacità di integrare le proprie competenze e attività con quelle di imprese terze.
Nascono, in tal modo, il modello di impresa-rete e le reti d’impresa.

1.4 Il sistema impresa ed i subsistemi aziendali

L’impresa è un’entità aperta agli scambi con l’ambiente esterno, un sistema in continua interazione con il
contesto socioeconomico di riferimento. Lo studio dell’impresa rientra nella teoria generale dei sistemi.
Il concetto di sistema aperto richiama l’attenzione sul fatto che al crescere della complessità, diviene
sempre più difficoltoso parlare di confini aziendali definiti. Oggi il concetto di dimesione aziendale è
mutato: l’impresa si pone come riferimento principale per una serie di relazioni tra soggetti situati anche al
di fuori della sua sfera di competenza.
In linea generale un sistema è un raggruppamento di elementi tra i quali concorrono relazioni, collegamenti
logici, connessione. Inoltre gli elementi, oltre ad essere relazionabili, devono anche essere interagenti e
finalizzati al perseguimento di una finalità. Gli elementi di un sistema possono essere raggruppati in due
categorie: input e output. Riassumendo: un sistema è un’entità concettuale o concreta costituita da parti in
interazione dinamica organizzata in vista del raggiungimento di un complesso di fini.
La teoria dei sistemi ha il suo cardine in alcuni postulati fondamentali:
- ogni sistema fa parte di un sistema più vasto che lo comprende;
- ogni sistema comprende in sé altri sistemi che gli appartengono;
- il valore di un sistema considerato nel suo complesso è maggiore della somma dei valori delle singole parti
che lo compongono, e la differenza è la sinergia intrinseca del sistema.
I sistemi, in base al rapporto con l’ambiente esterno, si qualificano in aperti, chiusi ed isolati:
- aperti: nel caso in cui si riscontri una tendenza all’interscambio con tutto ciò che è loro esterno;
- chiusi: se l’interscambio è di modesta entità ed i risultati delle azioni ricadono al loro interno;
- isolati: nel caso di assenza totale di interscambi.
In definitiva l’impresa si configura come un sistema:
- aperto agli scambi con l’ambiente esterno;
- orientato al perseguimento di una finalità;
- autopoietico, capacità di rigenerare le sue componenti e le relazioni tra le stesse, senza perdere la propria
identità;
- relazionale, per la sua attitudine a sviluppare relazioni con soggetti esterni;
- cognitivo, che ha la capacità di produrre conoscenze al proprio interno e che utilizza tale conoscenza per
produrre un valore economico.

Con riferimento ai sistemi aperti, la teoria ha evidenziato alcune proprietà:


- Trasformazione. Gli elementi provenienti dall’ambiente (input) vengono trasformati e rinviati all’esterno
(output).
- Omeostasi. Con questo termine si fa riferimento ad un meccanismo di regolazione del sistema: un sistema
può dirsi omeostatico se è in grado di assicurare l’equilibrio tra le componenti che cambiano nel tempo.
- Entropia negativa. Capacità del sistema di evolvere verso stati di ordine, di distribuzione non casuale degli
elementi che li compongono. I sistemi aperti devono assicurarsi entropia negativi – o neg-entropia –
attraverso informazione ed energia. Ciò comporta la formazione di scorte di vario genere.
- Equifinalità. Nei sistemi aperti, uno stesso stato finale può essere raggiunto seguendo percorsi differenti.
Viene negata l’esistenza di una one best way, cioè di un percorso da ritenere a priori come migliore per
raggiungere un obiettivo.
- Differenziazione. Fa riferimento alla necessità di passare attraverso sistemi parziali subordinati per
giungere a stati d’ordine superiore.
- Integrazione. Deriva dalla necessità di indirizzare in modo unitario, la relativa indipendenza acquisita dai
sub-sistemi.

1.5 Il concetto di entropia nei sistemi aperti

Si fa riferimento all’esistenza di norme , routine, processi standardizzati in cui le procedure sono previste e
stabilite ex-ante, di un ambiente in cui tutto è prevedibile e posto sotto il controllo del management
aziendale. Nei sistemi chiusi l’entropia tende a massimizzarsi per raggiungere uno stato di equilibrio
assoluto. Nei sistemi aperti il degrado di entropia deve essere contrastato tramite importazione di energia
dal’esterno. Le relazioni con l’ambiente esterno quindi costituiscono il canale attraverso cui è possibile
attivare i processi di scambio necessari per acquisire l’energia indispensabile alla produzione di risorse.

In passato il periodo fordista fu caratterizzato da una standardizzazione che investiva tutto il processo
produttivo ed organizzativo: l’impresa era inserita in un contesto ambientale semplice, stabile e prevedibile
ed era tesa alla realizzazione di routine organizzative. Ma una struttura così rigida risultava inadeguata e si
diffuse l’esigenza di strutture più flessibili. Tale evoluzione ha condotto alle attuali imprese.

L’entropia, intesa come variazione costante dei collegamenti esistenti tra i vari elementi aziendali, come
tendenza alla flessibilità, alla variabilità operativa e strategica, all’interazione con l’ambiente di riferimento,
si configura quale condicio sine qua non per il mantenimento di adeguati livelli di competitività e per la
realizzazione degli obiettivi aziendali di sopravvivenza, profitto, sviluppo e valore.

1.6 Le risorse d’impresa: la crescente importanza dell’immaterialità

Il patrimonio d’impresa è costituito da elementi materiali ed immateriali.


Le risorse materiali, o tangibili, sono le risorse fisiche (terreni, fabbricati, impianti, macchinari, scorte) e
quelle finanziarie (risorse liquide, crediti, titoli azionari ed obbligazionari).
Le risorse immateriali, o intangibili, sono sia fattori immateriali specifici (marchi e brevetti) sia elementi
immateriali che favoriscono il funzionamento dell’impresa (avviamento). Sono riconducibili a diversi
caratteri dell’impresa: capacità innovativa, comunicativa, immagine, posizione sul mercato.
In generale, le risorse immateriali possono essere rappresentate da risorse intangibili di mercato e da
risorse specifiche d’impresa.
Le risorse di mercato sono definite come fattori utilizzati nella produzione, separabili dal contesto
aziendale, trasferibili ad altre aziende, temporaneamente controllate dall’impresa che può decidere circa il
loro utilizzo (es. terreni, fabbricati, diritti di brevetto, concessioni, licenze ecc.)
Le risorse immateriali specifiche sono assimilabili al concetto di capacità organizzative, intese come
prodotti generati dall’impresa per accrescere la produttività delle risorse e conferire flessibilità al sistema
prodotto/servizio ottenuto.
In base alle risorse immateriali, vi sono due categorie generali:
1. Le risorse conoscitive: forniscono soluzioni a specifici problemi operativi. Possono essere di tipo statico
se permettono la replicazione di compiti svolti precedentemente, o di tipo dinamico se favoriscono
l’apprendimento e l’innovazione di prodotto e di processo.
2. Le risorse relazionali, comprendenti:
- risorse reputazionali, identificate nel livello di fiducia che si instaura tra l’impresa ed i soggetti esterni.
Sono, ad esempio, l’immagine di marca, la fedeltà della clientela, la fiducia nei vari stakeholders ecc.
- risorse relazionali in senso stretto, che indicano la capacità dell’impresa di sviluppare e gestire relazioni di
varia natura.

Di recente l’importanza delle risorse intangibili si è fatta più consistente sia grazie all’evoluzione tecnologica
sia grazie al trattamento automatico delle informazioni. Conseguenza della crescente importanza delle
risorse immateriali è l’importanza delle relazioni tra le parti e dei processi di conoscenza, in quanto
l’impresa individua grazie ad essi opportunità concorrenziali potenzialmente convertibili in profitti.
Si manifesta, nell’ambito di tutta l’organizzazione, un continuo ed elevato fabbisogno di informazioni e
conoscenza: ciò porta all’abbandono della tradizionale concezione di organizzazione che usa le informazioni
provenienti dall’ambiente esterno per risolvere i problemi in modo passivo e all’accoglimento di una
concezione dinamica secondo la quale l’azienda interagisce con i cambiamenti dell’ambiente creando una
nuova conoscenza per la risoluzione dei problemi.
Informazione: qualcosa di transitorio, un flusso di messaggi, un insieme di dati.
Conoscenza: possibilità di rielaborare e di utilizzare tale flusso per fino pratici ed economici.

La fonte del valore dell’impresa deve essere ricercata non solo tra le risorse materiali ma anche tra quelle
immateriali e soprattutto nelle conoscenze. È la loro caratteristica di immaterialità che le rende soggette a
minori imitazioni da parte della concorrenza.

Box – sistema e sottosistemi informativi


L’organizzazione dei flussi informativi si configura come un sistema informativo in grado di mantenere in
vita le relazioni tra le varie aree dell’organizzazione e il suo ambiente esterno. Tale sistema comprende:
1. Il sottosistema per la raccolta dei dati capace di convertire in dati tutto ciò che viene osservato;
2. Il sottosistema per l’elaborazione dei dati che ha il compito di tenere aggiornate le banche dati;
3. Il sottosistema per l’analisi e le decisioni manageriali.

Capitolo 2.
2.1 – Complessità settoriale e relativa evoluzione

Per circoscrivere un settore si adottano criteri firm centered, finalizzati a circoscrivere il settore in funzione
di caratteristiche ritenute più valide dalla singola impresa e in grado di restringere il campo all’ambito di più
immediato riferimento. Il motivo per cui i criteri firm centered riescono ad adattarsi alla dinamica settoriale
sono che è l’impresa a stabilire, in funzione dei cambiamenti tecnologici e produttivi e dei cambiamenti nei
bisogni della domanda, i fattori di omogeneità da adottare, rinunciando a ricorrere a denominatori comuni
prestabiliti e dotati di scarsa flessibilità. Per l’impresa operante in un ambiente fortemente destabilizzato
dall’influsso di variabili impazzite risulta vitale prevedere in anticipo i segnali deboli provenienti
dall’ambiente, dai quali dipende il processo evolutivo settoriale, ed individuare i nuovi poli che vanno
assumendo una valenza strategica nella filiera di produzione. Infine un fenomeno che sta diventando
sempre più importante è quello del crossing border settoriale: alcune aree di mercato, pur trovandosi in
settori diversi, appartengono ad aree convergenti, caratterizzate da un elevato grado di dinamismo e nelle
quali le fonti del vantaggio competitivo non sono più le scelte in termini di progetto e investimento ma
quelle in termini di alleanze, di progetti di acquisizione e dismissione, di priorità di sviluppo tecnologico.

2.2 – il complesso rapporto tra impresa e settore

In passato l'analisi di settore seguiva un approccio logico del tutto indipendente da quello adottato dagli
studiosi della dinamica imprenditoriale: i primi, nell'analizzare il settore trascura vano di considerare il
comportamento delle singole imprese. I secondi, nello studio delle imprese presuppone vano una realtà
settoriale data. Una simile impostazione si basava sulla convinzione che le forze concorrenziali fossero in
grado di determinare la combinazione produttiva più valida e di imporla sul mercato e, il quale, attraverso
un processo selettivo, avrebbe svolto la funzione di rendere omogenee le strutture delle varie imprese. in
tal modo, venivano messi in discussione il significato stesso di strategia aziendale e la possibilità per
l'impresa di rivendicare un ruolo che va ben al di là del semplice adattamento all'ambiente esterno.
Tradizionalmente la teoria aziendalistica si sofferma sulle problematiche relative alla conduzione della
singola impresa, dando vita ad un approccio certamente riduttivo, perché privo di una visione dell'industria
nel suo complesso. Tuttavia un'analisi aziendalistica, per potersi ritenere conforme all'attuale stadio di
evoluzione del sistema industriale, dovrebbe quantomeno richiedere l'ammissione di differenze all'interno
delle imprese appartenenti allo stesso settore, differenze che assumono carattere strutturale. Impresa e
sistema industriale sono specificazioni dello stesso fenomeno, la prima è il fattore dinamico che con il suo
agire crea continui squilibri nel secondo. E' quindi opportuno orientarsi a leggere in senso dinamico il
rapporto tra impresa e settore, dinamicità che non è il frutto esclusivo di influenze ambientali esterne ma
risulta in larga misura dal comportamento delle imprese stesse. Il mutamento costituisce un aspetto
caratteristico della nuova realtà industriale la cui analisi richiede il passaggio da modelli settoriali altamente
omogenei, nei quali l'impresa assume il ruolo di componente meramente adattiva, a modelli settoriali,
articolati, complessi ed immersi in un'ottica di profonda dinamica evolutiva.

2.3 – Definizioni di settore ed evoluzione del concetto

Il concetto di settore si è evoluto nel tempo. Il concetto di settore è funzionale all’individuazione di un


nucleo di operatori che, pur mantenendo una propria individualità, presentano caratteristiche comuni che li
differenziano rispetto ad altri.

Criteri per la definizione di settore:


1. Un primo criterio è fondato sulla domanda: esso tende a riunione in un unico settore tutte le imprese
che producono una stessa merce, almeno secondo quanto percepito dai consumatori.
Critica: nella società odierna, i singoli bisogni non sono autonomi ma fortemente interrelati fra loro: si corre
il rischio di focalizzare un insieme di unità produttive eccessivamente numeroso e scarsamente
significativo.

2. Un secondo criterio è centrato sull’offerta: delimita i confini settoriali in base alla similarità tecnologica
dei processi produttivi. Si considerano appartenenti ad uno stesso settore produttivo tutte quelle imprese
che utilizzano una tecnologia, un processo produttivo o una materia prima simili, se non addirittura identici.
Critiche:
- il forte dinamismo tecnologico potrebbe portare un gruppo di imprese già inserite in un settore
tecnologicamente ben definito a far parte di un altro settore;
- ciascun prodotto risulta difficilmente riconducibile ad un unico settore;
- infine questo criterio, se da una parte tende a collocare in differenti settori imprese che, pur producendo
beni sostituibili, utilizzano diverse tecnologie, dall’altra inserisce nel medesimo settore imprese che, seppur
legate da una similarità tecnologica, servono mercati assolutamente distanti.
Esempi di settori che fanno ricorso a questi due criteri sono il settore manifatturiero merceologico (criterio
dell’offerta) e il settore economico manifatturiero (sia criterio dell’offerta che della domanda).

3. Un altro genere di criteri, che racchiude in sé diversi modelli, è quello firm-centered (lett. Centrato
sull’impresa) per il quale il settore rappresenta l’insieme delle imprese che una determinata azienda
considera sue concorrenti.

4. Guerci invece, ricomprende in un’unica lista sia i fattori da prendere in considerazione in alternativa alle
affinità di carattere tecnologico, sia i bisogni soddisfatti. Dall’intersezione di questi elementi è possibile
individuare dei raggruppamenti di prodotti appartenenti ai più differenti rami d’industria in aree
competitive caratterizzate dalla similitudine dei fattori.
Il vantaggio di questa impostazione consiste nella sua estrema flessibilità, che permette di considerare, di
volta in volta, fattori diversi, privilegiando gli aspetti che risultano più significativi.

5. Il Modello Volpato propone di definire il settore come “il luogo economico dato dall’intersezione di
alcuni fondamentali fattori di omogeneità:
- omogeneità nel tipo di bisogno soddisfatto dai prodotti;
- omogeneità nel tipo di tecnologia utilizzata nella produzione;
- omogeneità nel tipo di materiali impiegati;
- omogeneità nel tipo di struttura commerciale.
Le imprese che presentano un’elevata omogeneità nei fattori sopra evidenziati sarebbero da considerarsi
come appartenenti allo stesso settore. Appartengono allo stesso settore le imprese che presentano tutti e 4
i fattori di omogeneità mentre quelle che ne presentano solo 3 sono concorrenti potenziali.

Sia il modello di Guerci che quello di Volpato sono un passo avanti rispetto all’impostazione tradizionale
perché suggeriscono una definizione che tende a far coincidere l’ambito del settore con l’ambiente
competitivo di immediato riferimento dell’impresa che vi opera (task environment).

6. Porter introduce il concetto di arena competitiva (ovvero il luogo economico in cui si scontrano più forze
concorrenziali di natura diversa, ma l’una con l’altra interagenti).
Porter ha abbattuto i confini settoriali ed ha individuato 5 fattori concorrenziali (minacce di nuove entrate,
minacce di prodotti o servizi sostitutivi, potere contrattuale dei fornitori, potere contrattuale dei clienti e
concorrenti) dimostrando che la concorrenza in un settore va ben oltre il comportamento degli attori
consolidati: il termine “concorrenza allargata” sottrae importanza alle delimitazioni dei confini settoriali e
focalizza l’attenzione su un ambito concorrenziale più ristretto e più denso di significati strategici.

7. Abell, per definire il settore, ha proposto la combinazione “clienti-funzioni-tecnologie” ricorrendo al


concetto di Area Strategica di Affari (ASA), precisando che tale concetto non va confuso con quello classico
di settore in quanto il primo rappresenta un aggregato basato su una sola tecnologia principale mentre il
secondo è l’insieme di “più business basati generalmente su una sola tecnologia”. L’ ASA è un sottoinsieme
del settore. ASA e settore sono concetti complementari nell’analisi strategica.

2.4 – La mobilità dei confini settoriali

L’innovazione tecnologica incide sulla mobilità dei confini dei settori insieme alla globalizzazione. I
parametri per delineare i confini dei settori perdono efficacia e circoscrivere le imprese diventa sempre più
difficile. I modelli di delimitazione dei confini settoriali più convincenti sono quelli firm centered perché in
grado di tener conto del dinamismo dei confini.

2.5 – I modelli di analisi settoriale

2.5.1. Il paradigma struttura-condotta-prestazioni (SCP)

è il meno indicato ad interpretare il dinamismo settoriale. Proposto negli anni ’50 da Bain può essere così
schematizzato (vedi fig. II.4 p. 60)

La struttura del settore incide sulla condotta dell’impresa con un’intensità tale da rendere possibile la
realizzazione di un collegamento diretto tra struttura e prestazioni. La staticità di questo modello fa essere
più appropriato un approccio strutturale debole (fig. II.5 p.61) in cui le performance dipendono dalle
condotte che, a loro volta, sono determinate in gran parte dalle strutture. Le performance retroagiscono sia
sulla condotta che sulla struttura.
2.5.2. Il ciclo di vita del settore

E’ un modello di rappresentazione quantitativa della dinamica delle vendite di una specifica categoria di
prodotti. Graficamente si rappresenta con una curva a forma di “S allungata” che descrive l’andamento
delle vendite in funzione del tempo e consente di distinguere quattro ideali fasi di vita di un prodotto:
introduzione, sviluppo, maturità e declino.
Il modello presenta una duplice natura: è sia un importante strumento per assumere decisioni in materia di
marketing e/o in via previsionale. Permettendo di distinguere le varie fasi infatti è utile per legare a ognuna
di esse una manovra di marketing ma anche una funzione matematica per prevedere il livello che la
domanda del prodotto raggiungerà in futuro.
per quanto riguarda il concetto di settore è corretto parlare di ciclo di vita del prodotto in quanto “giunge a
fine vita quella tecnologia che utilizza quel materiale, ma non necessariamente tutto il settore”. Ne
consegue che il ciclo di vita non riesce a descrivere efficacemente l’evoluzione del settore a meno che
questo non venga a coincidere con il prodotto.

A ciò colleghiamo il concetto di “evoluzione del mercato” proposto da Kotler, il quale individua 5 fasi
attraverso le quali un settore si evolve: cristallizzazione, espansione, frammentazione, riconsolidamento ed
estinzione. Il motore dell’evoluzione è costituito dalla concorrenza e dall’innovazione, tra loro strettamente
interdipendenti, in quanto l’ingresso di nuovi concorrenti stimola la ricerca di ulteriori attribuiti, generando
quindi un’innovazione continua.

Tornando alle fasi del CVS vediamo che:


1. La fase dell’introduzione rappresenta la nascita del settore, associata solitamente ala comparsa di un
nuovo prodotto. In questa prima fase il settore è popolato da poche imprese, talvolta una sola, che per
prime hanno individuato la possibilità di sviluppare una tecnologia innovativa, oppure di soddisfare nuovi
bisogni. Le imprese che si trovano in un settore emergente sostengono rischi assai elevati a causa delle
numerose incertezze relative alla domanda (non si conosce la dimensione o volume) e all’area tecnologica
(della quale non è possibile prevedere l’evoluzione).
Inoltre in fase di introduzione vi è un alto livello di costi di produzione e una mancanza di economie di scala
per la ridotta dimensione degli impianti e per lo scarso sfruttamento della capacità produttiva. Inoltre c’è
scarsa diffusione di capacità tecnologiche.

2. Man mano che le incertezze diminuiscono, il settore entra nella fase di sviluppo (o crescita).
Vi è un aumento dei volumi di vendita che comporta un aumento della capacità produttiva e
l’implementazione di strategie commerciali, distributive e di comunicazione.
In merito al prodotto si tende a standardizzare l’offerta in alcune sue componenti ed ad attuare anche
politiche di differenziazione del prodotto per andar incontro alle diverse esigenze della domanda.
La fase di sviluppo va ad esaurirsi solitamente a causa della saturazione della domanda e/o a causa della
concorrenza proveniente da altri settori.

3. Alla fase dello sviluppo segue quella della maturità, nella quale il settore si assesta su valori di crescita
zero o su tassi d’espansione ridotti. Il mercato, pur essendo, stagnato, è possibile rilevare opportunità di
sviluppo sia grazie ai cambiamenti apportati al prodotto e/o alle condizioni di offerta sia a seguito
dell’uscita dal mercato di imprese meno efficienti.
Inoltre per superare le difficoltà è possibile rivolgersi anche ai mercati esteri, intraprendendo così ima delle
forme di sviluppo internazionale.

4. L’ultima fase è quella del declino, caratterizzata da una riduzione del livello delle vendite globali che può
condurre il settore all’estinzione. Le cause sono ascrivibili a mutamenti nella domanda o nelle condizioni
d’offerta soprattutto da parte di nuovi settori o settori contigui.
La fase del declino può avere una durata variabile (lenta o repentina).

2.5.3. Il ciclo di trasformazione del settore

Il modello di Volpato è una teoria per l’interpretazione del rapporto impresa- ambiente. si compone di tre
fasi distinte:
1. La prima consiste in un’analisi dell’evoluzione storica del settore.

2. Nella seconda si cerca di individuare quali sono le variabili che generano il passaggio tra i vari strati, i
quali risultano legati ad una ben precisa combinazione domanda-offerta (quali sono le variabili su cui
poggia la dinamica del settore).
Le variabili più significative sono: il grado di diffusione del consumo relativamente alla domanda
complessiva potenziale e il grado di segmentazione della domanda.
Intersecando tra loro le due variabili si ottengono i seguenti stati caratteristici della domanda:
- consumo elitario omogeneo: il prodotto si rivolge ad una porzione assai ristretta della domanda
potenziale complessiva;
- consumo di massa omogeneo: il prodotto non presenta particolari caratterizzazioni ed è offerto ad un
prezzo che, tenuto conto dell’utilità che i consumatori attribuiscono al bene (o servizio), assicura un
consumo decisamente allargato;
- consumo elitario segmentato: il prodotto si presenta caratterizzato in funzione di una pluralità di
esigenze diverse, ma il rapporto prezzo/utilità è tale da consentire un consumo limitato;
- consumo di massa segmentato: è definibile come uno stato di maturità del consumo del bene, dal
momento che l’offerta ha esperito le possibili forme di differenziazione del prodotto e le potenzialità della
domanda appaiono saturate.
In base a questa teoria, l’offerta tende a seguire le varie tappe della domanda.
Risulta più complicato individuare gli stati caratteristici dell’offerta, per due motivi:
- perché il numero di variabili da cui dipendono è molto numeroso;
- perché ciascuna di queste strutture può presentare una variabilità interna molto elevata, di conseguenza
gli stati caratteristici dell’offerta andranno individuati di volta in volta, in funzione delle caratteristiche
specifiche del settore considerato.

3. Nella terza fase, si tratta di operare una composizione, in forma matriciale, delle successioni dei vari stati
di domanda e di offerta, all’interno della quale inserire le strategie delle imprese appartenenti al settore.
Questa fase consente di effettuare un’analisi di tipo previsionale.
Precisazioni:
- il settore non può essere letto in un’ottica statica quindi non è soggetto a fenomeni di cristallizzazione.
- il settore può coincidere con il prodotto se l’analisi strategica è limitata al BP, mentre può assumere una
connotazione molto più indefinita e variabile con l’estendersi del periodo considerato.
- il modello può essere applicato anche ad imprese diversificate.

Per concludere il modello del ciclo di trasformazione del settore è applicabile soltanto nel caso in cui la
nozione di settore sia inscindibilmente legata all’insieme di binomi materiali-tecnologie che compongono il
ciclo di vita del settore.

II.6 – Evoluzione degli strumenti di analisi settoriale

Il termine “settore” è un termine di per sé astratto che necessita dell’individuazione di un denominatore


comune per raggruppare una serie di unità altrimenti distinte tra loro.
Concetti quali processo terminale settoriale, sistema settoriale e filiera, non costituiscono forme alternative
di definizione del settore ma strumenti di approfondimento del settore individuato.

Processo terminale settoriale: strumento di analisi settoriale che indaga l’aspetto tecnico-produttivo della
configurazione settoriale prescelta. Prevede una configurazione di settore che adotta come denominatore
comune l’omogeneità dei prodotti in funzione del loro utilizzo finale e dei materiali utilizzati. Questa
configurazione prende il nome di settore manifatturiero merceologico e individua delle unità che
producono stessi beni o beni sostituibili che usano gli stessi materiali. Con questa configurazione di settore
è possibile ricostruire tutte le fasi del processo produttivo che intercorre tra la materia prima ed il prodotto
finito (con un approccio bottom-up) in corrispondenza di quello specifico settore manifatturiero
merceologico. Problema: non permette di indagare sui legami con operatori esterni al settore
manifatturiero e quindi non evidenzia tutti i fattori strategici in gioco. Per questo motivo si ricorre al
sistema settoriale.
Sistema settoriale: strumento di analisi settoriale che permette di indagare sulla natura e sull’esistenza di
legami con operatori esterni al settore manifatturiero oggetto di analisi spostando quindi il focus
dall’aspetto tecnico a quello strategico. (fornitori di materie prime, di semilavorati e componenti, di
impianti e macchine, commercianti ecc.). Il sistema settoriale ingloba al suo interno il processo terminale.
Filiera di produzione: strumento di analisi settoriale che può coincidere con entrambi i processi precedenti
in funzione delle finalità tecnologiche o strategiche. Si può definire come “l’insieme degli stati che
separano una materia prima o un semilavorato da un prodotto finito, potendo quest’ultimo essere oggetto
di consumo intermedio o finale”.

Differenza tra filiera e settore: la filiera comprende imprese appartenenti a più settori, non considera
determinanti le forme di mercato (come invece fa il settore), in contrapposizione con la natura statica delle
analisi di settore la filiera individua i poli d’attrazione, le azioni dei decisori, sottolineando come i processi
tecnologici, le interazione tra mercati e le azioni dei soggetti economici costituiscano meccanismi di
trasformazione strutturale.
II.7 – L’analisi dinamica di settore e le scelte manageriali

Nel tentativo di modificare a proprio vantaggio l’ambiente che la circonda, l’impresa conduce un’intensa
attività di pianificazione strategica. La formulazione di una strategia si compone di due momenti: uno
interno e l’altro esterno all’impresa.
L’analisi interna riguarda la struttura organizzative e le relative forme da utilizzare per aggredire l’ambiente
(o difendersi).
L’analisi esterna mira ad individuare i fattori critici ambientali che creano minacce ed opportunità e a
descrivere, in ottica previsionale, i possibili scenari futuri (le imprese utilizzano gli scenari e metodologie di
simulazione per fronteggiare i rischi derivanti dall’aumento della complessità).

Per la determinazione dei possibili scenari futuri si parte dall’analisi della struttura attuale del settore. Gli
elementi della struttura del settore, una volta esaminati a fondo, possono essere classificato come:
- costanti, se la probabilità di un loro cambiamento è notevolmente ridotta;
- predeterminati, se i cambiamenti risultano prevedibili;
- incerti, se gli eventuali cambiamenti dipendono da contingenze imprevedibili. (es: Porter con l’analisi del
settore di produzione di utensili motorizzati per il taglio (motoseghe) negli stati uniti)

II.8 – La convergenza settoriale ed imprenditoriale

Crossing border -> è un fenomeno che sta acquisendo sempre più rilevanza nell’ambito della convergenza
settoriale. È un fenomeno che investe alcune aree di mercato che pur trovandosi in settori distinti
appartengono ad aree di filiera convergenti. Il termine cross-border indica un insieme di relazioni di tipo
imprenditoriale e settoriale con specifico riferimento ai settori più dinamici (es. bancario, assicurativo, della
distribuzione al dettaglio e delle telecomunicazioni). In questi settori le fonti del vantaggio competitivo non
sono più traducibili in termini di scelte di progetto o investimento, ma risultano rilevanti le alleanze, i
progetti di acquisizione e dismissione, le priorità di sviluppo tecnologico. Le strategie di crossingborder
vengono adottate per soddisfare bisogni sempre più complessi e articolati. L’imprenditore cross-border
deve essere in grado di stipulare alleanze con altre imprese, di relazionarsi con altri imprenditori, in modo
da acquisire il know-how necessario all’ingresso in altri business e ad interpretare la nuova attività e
ricercare la soddisfazione di un cliente sempre più esigente.

Glossario
Mercato: luogo di incontro tra domanda ed offerta
Settore: luogo economico in cui si realizza il confronto concorrenziale (def. Volpato)
Settore manifatturiero merceologico: insieme di unità che producono gli stessi beni o beni altamente
sostituibili fra loro, accomunati dall’impiego degli stessi materiali o componenti.
Settore economico manifatturiero: insieme di unità che producono beni caratterizzati dall’omogeneità
dell’utilizzo finale o intermedio, utilizzando i medesimi materiali.

Capitolo 3

3. 1 – Il paradigma

Paradigma: si riferisce alla ricerca di modelli, orientamenti di riferimento, caratterizzati da una


costellazione di conclusioni, condivise da una comunità scientifica e usate per definire problemi e soluzioni.
È un “metamodello” che consiste in un complesso coerente di criteri e logiche interdipendenti nelle sfere
dell’organizzazione, del management, della motivazione e dell’impiego della tecnologia.

Il passaggio da un paradigma ad un altro avviene grazie ad un processo lento e complesso, nel quale il
punto di arrivo, ossia la macro-innovazione, è il frutto di un disegno complessivo che collega nel tempo le
innumerevoli micro-innovazioni modificatrici di prodotti e processi. Problema primario diviene individuare
la linea di demarcazione tra il paradigma in declino e quello nascente. Un compito reso ancora più arduo
dalla naturale asincronia nei tempi di maturazione dei settori e delle imprese.
Lo studio per paradigmi ruota intorno a tre concetti accomunati dalla parola fordismo: la storia del sistema
industriale quindi si sviluppa su 3 paradigmi:
- pre-fordismo: “l’antico” sistema;
- fordismo: il sistema in declino;
- post-fordismo: il sistema nascente.

3.2 – Il periodo pre-fordista: l’impresa manifatturiera

Il periodo pre-fordista equivale alla prima e più semplice forma di organizzazione della produzione, vale a
dire al modello dell’impresa artigiana. È il periodo del primo capitalismo, definito mercantile, situato tra il
declino del sistema feudale e l’avvento della prima rivoluzione industriale. La diffusione delle botteghe
artigianali pone le premesse per l’avvio dell’attività commerciale e per la nascita della figura del mercante
capitalista.
A partire dal ‘700, significativi mutamenti nei sistemi produttivi cominceranno a manifestarsi con frequenza
crescente fino ad arrivare alla nascita della fabbrica. Alcuni situano l’inizio del paradigma nel momento
della nascita del cosiddetto “modello inglese”, ovvero il modello di impresa e di capitalismo industriale che
si afferma in GB. Il modello inglese però da solo non basta a caratterizzare il primo paradigma.
Il modello di impresa di questa prima fase dello sviluppo industriale è caratterizzato da un’elevata
semplicità: la struttura organizzativa è ridotta ai minimi termini ed è praticamente impossibile parlare di
funzioni aziendali visto che è lo stesso imprenditore ad avere il controllo di tutta, o quasi, l’impresa.
dal punto di vista tecnologico ci sono macchine isolate. È un modello elementare di impresa basato sulla
connessione macchina-imprenditore-mercato. La produzione economica era concepita essenzialmente
come manifattura, basata sulla trasformazione fisica delle risorse materiali attraverso il lavoro
manipolativo: la ,manifattura arricchiva di valore i prodotti. C’era infatti corrispondenza biunivoca tra beni
fisici e valore economico. Oltre ad essere portatori di valore, i beni prodotti in questo periodo, incorporano
a loro volta “conoscenza” ed “informazione”.

3.3 – Il periodo fordista: la produzione di massa

il periodo pre-fordista cessa di esistere dal momento in cui viene ad esistere l’impresa moderna e si
affermano le tecniche di produzione ispirate da Taylor e Ford. Elemento centrale del nuovo paradigma è il
progresso tecnico.
Grazie all’energia elettrica le macchine della prima fase si trasformano in sistemi di macchine molto
articolati e differenziati con la possibilità di organizzare il ciclo produttivo su una pluralità di macchine
collegate tra loro.
Elemento dominante è il principio di standardizzazione attraverso il quale, nella ripetitività delle azioni, si
facilità il processo di produzione che diventa più semplice, regolare e veloce (minore preparazione del
lavoratore, maggiore utilizzo delle macchine).
Si parla di produzione capital-intensive, contrapposta al metodo artigianale definito labour-intensive per
l’alta intensità di lavoro. Tutto ciò ha portato all’affermarsi dell’impresa di grandi dimensioni e di modelli
produttivi basati sull’organizzazione, il coordinamento. Si entra nella fase del capitalismo organizzato.
Il modello d’impresa che il paradigma fordista richiama è quello della large corporation, ovvero della
grande fabbrica, delle catene di montaggio e del sistema di produzione di massa. Prevede un ambiente
semplice, stabile e prevedibile data la rigidità dei cicli produttivi.
la progettazione dei cicli di lavoro richiede un grande sapere informativo fatto di esperienza e capacità
organizzativa. Nell’impresa si realizza una divisione del lavoro interna (specializzazioni interne, routine
organizzative) e si sviluppano conoscenze e saperi specialistici. Si forma un nucleo di sapere “firmspecific”
che diviene il cuore della produzione di valore, non trasferibile ad altri contesti e ad altre imprese.
La rigidità della fabbrica tayloristica corrisponde alla struttura di un sistema in cui la conoscenza è
centralizzata ed irreversibile.
Centralizzata perché tutte le informazioni sono trasferite ad una élite tecnocratica che ha il compito di
progettare e gestire l’interdipendenza tra le molte persone e i molti reparti costituenti l’impresa, nonché le
relazioni con l’ambiente.
Irreversibile perché gli investimenti in conoscenza spingono verso comportamenti inerziali.
In questo contesto l’impresa cessa di identificarsi con un soggetto (imprenditore) e diventa “sistema”. Il
dominio dell’imprenditore infatti viene attenuato dall’entrata in scena di altri soggetti: gli stakeholders.
Inoltre l’organizzazione non si basa più solo su un soggetto ma su una molteplicità di soggetti che
cooperano. L’impresa diventa sistema cognitivo, ossia basa la sua sopravvivenza sulla capacità di produrre
conoscenze al proprio interno e utilizza la conoscenza prodotta per produrre valore economico. L’impresa
intesa come sistema cognitivo è ciò che distingue l’impresa di Taylor e Ford da quella manifatturiera
dell’epoca precedente.

3.4 – La crisi del fordismo

A partire dagli anni ’80 si è posta la questione del superamento del modello fordista in relazione a due
tipologie di eventi:
- il succedersi di una serie di shocks che hanno investito le economie capitalistiche a partire dalla crisi
petrolifera del 1973. Questi shocks hanno determinato l’interruzione dell’età dell’oro del fordismo e il
complicarsi dello sviluppo: instabilità dei mercati, nuove forme di competizione su scala globale.
- la crisi della grande impresa (principale soggetto del fordismo) a causa di un’eccessiva burocratizzazione,
costi elevati di organizzazione ed a causa della lentezza del processo decisionale.

Altre tendenze che influirono sull’assetto imprenditoriale furono le forti variazioni della domanda, il ciclo di
vita dei prodotti che si era notevolmente accorciato. Le grandi imprese fordiste non riescono più a gestire
tutta questa rapida varietà e variabilità perché i tempi di reazione sono troppo lenti.

Le leve di miglioramento della performance aziendale sono individuate nella snellezza, nell’agilità
organizzativa oltre che nella flessibilità produttiva e gestionale, caratteristiche proprie della piccola
impresa, in grado di produrre beni più sofisticati ed innovativi rispetto alle grandi imprese vincolate da
enormi volumi produttivi. Inoltre il lavoro è più qualificato che nelle imprese fordiste dove la catena di
montaggio sottrae al lavoratore gran parte del suo intervento creativo.
Emerge la cosiddetta economia della flessibilità che influisce sui criteri di gestione, primo fra tutti quello
dell’efficacia e dell’efficienza.
Il criterio dell’efficacia si esplica in termini di adeguamento della risposta al mercato. È sempre più
importante produrre beni appropriati alla richiesta del mercato.
Il criterio dell’efficienza, inteso come il periodo che intercorre tra il manifestarsi di un bisogno e il
soddisfacimento di esso, viene interpretato come un’esigenza di consegna a costi bassi, obiettivi
raggiungibile solo combinando in modo ottimale diverse variabili.
Questo criterio negli ultimi anni è stato molto enfatizzato, data l’importanza che viene data alla
customersatisfactioned alla centralità del cliente nelle decisioni aziendali.

A partire dalla seconda metà degli anni ’80 e dagli anni ’90, si registra un’inversione di tendenza. Il rientro
dell’inflazione e la stabilizzazione del ciclo economico ricostruiscono un quadro di certezza e stabilità.
Si assiste ad un ritorno alla grande impresa accompagnato da una profonda ristrutturazione dei modelli
organizzativi preesistenti. Non si tratta di un ritorno alla fabbrica fordista ma un approccio del tutto nuovo.
Questo periodo storico è caratterizzato dal polimorfismo delle organizzazioni aziendali: accanto alle grandi
e piccole imprese, si registra la presenza di nuovi modelli organizzativi – le strutture a rete.
E’ da questo momento che si comincia ad attraversare la soglia del cosiddetto capitalismo evolutivo, ovvero
ad entrare nel contesto che viene definito post-fordista.

3. 5 – Il post-fordismo

Dopo un’epoca in cui ha prevalso il mercato (primo capitalismo) e una seconda in cui ha prevalso la
gerarchia (produzione di massa, modello fordista) ci si incammina verso una sintesi fra le due.
L’individuazione dei tratti essenziali del nuovo paradigma è un’operazione difficile ed incerta, è possibile
evidenziare tre punti principali:
- l’essenza del post-fordismo non si trova nell’innovazione tecnologica bensì in quella organizzativa e nel
coinvolgimento del lavoro umano intelligente e responsabile;
- il paradigma fordista voleva semplificare l’ambiente per controllare e pianificare gli eventi. Oggi invece vi è
una sorta di “sincronismo adattivo” basato sulla capacità tecnica e sociale di offrire una risposta flessibile
alla variabilità del mercato. Non si punta più sulla ridondanza delle risorse materiali ma sul controllo
ambientale del sistema logistico e delle risorse umane;
- c’è un’evoluzione del sistema cognitivo. Nel paradigma fordista vi era la completa separazione del lavoro
operativo e di quello cognitivo poiché tutta la conoscenza necessaria alla produzione era concentrata nelle
meni di una tecnostruttura mentre nel nuovo paradigma abbiamo l’intensificazione e estensione della
divisione del lavoro cognitivo.

Concludendo, in un ambiente dinamico, il cambiamento è la linfa vitale dell’impresa: essa non può perdere
di vista il dinamismo concorrenziale, l’evoluzione tecnologica o le opportunità di crescita e di cooperazione
con altre imprese. Non può isolarsi dall’ambiente in continuo mutamento.
L’azienda deve evolversi in relazione all’ambiente in cui opera, in caso contrario rischierebbe di disgregarsi.

3.6 – L’esigenza di un fordismo flessibile. Dall’impresa snella alle imprese virtuali

Il tessuto imprenditoriale oggi cerca di realizzare una sorta di fordismo flessibile basato su prodotti semi-
standardizzai, idonei per la domanda dei mercati mondiali.
Le esigenze di una modificazione nelle strategie derivano da fattori che hanno scosso l’ambiente economico
negli ultimi anni:
- l’introduzione continua di innovazioni di prodotto;
- la riduzione delle variabili spazio-temporali connesse con le evoluzioni nelle tecniche informatiche e nelle
telecomunicazioni;
- la riduzione del ciclo di vita dei prodotti;
- la globalizzazione dei mercati.
Le richieste dei mercati oggi sono indirizzate verso:
- l’orientamento al cliente;
- la qualità dell’intero processo produttivo;
- un prodotto che incorpori sempre più servizi;
- un’offerta che sappia distinguersi agendo sulle variabili immateriali, sul livello di servizio offerto e sui
tempi di consegna e produzione.

Per conseguire tali risultati, l’impresa deve alleggerire i costi di struttura, deve accedere a più mercati
possibili e sviluppare capacità distintive.
Gli strumenti che possono facilitare tali obiettivi sono: il decentramento, i rapporti inter-imprenditoriali
formalizzati e lo sviluppo dei mezzi “invisibili”.
1) Il decentramento permette di ridurre i costi fissi in immobilizzazioni e snellisce la struttura fisica e
finanziaria di un’azienda.
Affidando le produzioni a terzi si ottiene la flessibilità dei livelli produttivi, esternalizzando intere fasi del
processo si giunge ad una struttura focalizzata solo sul core business(espressione con la quale si identificano
le attività principali dell’azienda), liberi da ingenti costi in impianti e da politiche restrittive. Si concentra
l’attenzione su una determinata fase del processo decentrando e affidando all’esterno, sia ad imprese terze
sia a distributori e fornitori abituali, attività non cruciali. Le capacità dell’impresa possono così concentrarsi
su una determinata attività ottenendo risultati migliori.
2) Rapporti inter-imprenditoriali formalizzati. Nell’era della globalizzazione, un’impresa che non è
presente sui mercati mondiali è automaticamente tagliata fuori. La possibilità di agire su più mercati,
garantisce il conseguimento di economie di scala e offre valide possibilità di diversificazione del rischio. Più
l’investimento è diversificato minore sarà il rischio di perdite in quanto guadagni e perdite tendono a
bilanciarsi.
Le forme che si prospettano all’impresa per introdursi in nuovi mercati possono essere di tre tipi: alleanze,
acquisizioni e joint ventures.
- Le acquisizioni sono intraprese da imprese di medie e grandi dimensioni al fine di sfruttare o la
localizzazione geografica o le capacità e le conoscenze specifiche in determinate attività di imprese locali.
- Le alleanze consentono l’ampliamento dei confini e delle opportunità a imprese anche di piccole
dimensioni. Sono di durata limitata data la difficoltà d gestire i rapporti senza perdere la propria
autonomia.
- Le joint ventures sono accordi di natura tecnologica riferiti a singoli progetti, attraverso i quali le imprese
scambiano knowhow.
3) Sviluppo dei mezzi invisibili. L’attenzione per le risorse definite immateriali o invisibili possono essere
fonte di vantaggi competitivi in quanto aggiungono valore alla catena delle attività e di conseguenza al
/prodotto atteso dal cliente.

Due modelli organizzativi tentano di utilizzare questi strumenti: l’impresa snella e l’impresa virtuale.
L’impresa snella è un modello organizzativo, di origine giapponese, improntato sulla flessibilità. Persegue la
dinamicità delle azioni concentrandosi sul core business e sull’appiattimento dell’ossatura organizzativa.
Focalizza i propri obiettivi sulla riduzione dei tempi del processo produttivo.
I giapponesi individuano nella time based competition la fonte primaria del vantaggio competitivo.
Importanti anche la comakership (integrazione con i fornitori) e il concurrent engineering (gestione comune
della progettazione in base a esigenze, vincoli e capacità specifiche di entrambi le parti). Si abbandonano le
forme piramidali con poteri accentrati nelle mani dell’alta direzione a favore di una struttura appiattita
dove lo sviluppo delle competenze arriva al livello più basso.
E’ possibile parlare anche di lean management ovvero un’impostazione che si basa su innovazioni non di
natura tecnologica, ma che riguardano la sfera organizzativa e gestionale, volte a sincronizzare l’andamento
del mercato con quello produttivo.
I principi base che caratterizzano il paradigma emergente della produzione flessibile sono:
- multi-focalizzazione e flessibilità strategica (si perseguono una pluralità di obiettivi unitamente alla
capacità di modificare nel breve tempo le priorità strategiche);
- integrazione per processi sia all’interno sia all’esterno dei confini aziendali;
- coinvolgimento del personale.

Il modello flessibile, in definitiva consente di:


- ottenere alte performance in aree differenti;
- utilizzare in modo efficiente le risorse;
- superare il trade off esistente tra differenti prestazioni, quale ad es. quello tra costi e differenziazione;
- infine il modello lean tiene particolarmente conto dei soggetti coinvolti lungo l’intera catena di
produzione , con particolare attenzione alle relazioni con clienti e fornitori. Il cambiamento delle relazioni
consente di snellire il flusso operativo e migliorare le prestazioni di costo, qualità e tempo e di coinvolgere i
clienti nella fase di progettazione, conoscere anticipatamente le loro esigenze.

Tuttavia il modello lean resta prigioniero di un problema che caratterizza il periodo fordista: il costo elevato
della varietà-variabilità dei prodotti e dei processi. Occorre trovare metodi relazionali che permettano la
riduzione dei costi e l’estensione della divisione del lavoro per mezzo di rapporti di interazione a distanza
mediati dall’uso di linguaggi condivisi.

Impresa cross-border: si affievoliscono le linee di confine tra i vari business. impresa le cui attività
comprendono settori fino a poco tempo fa distinti e in cui operavano soggetti differenti.

Glossario
Economie di scala: si intende ogni riduzione del costo medio unitario (di lungo periodo) che si determina
allorquando l’incremento della produzione, che deriva dall’aumento delle dimensioni aziendali, risulta più
che proporzionale rispetto all’incremento dei costi determinati da siffatto ampliamento.

Capitolo 4

4.1 –Evoluzione ambientale e divenire delle funzioni aziendali

L’impresa è definibile come un sistema socio-economico-tecnico aperto. È un sistema perché costituito da


un insieme di elementi quali-quantitativi e da fitte relazioni ed è scomponibile in più sub-sistemi.
Il carattere socio-economico e tecnico rivela la vocazione del sistema verso obiettivi specifici di tipo
economico con attenzione alla componente umana e tecnica.
Si definisce aperto per la sua propensione e per la sua necessità di relazionarsi con l’esterno nello
svolgimento delle sue attività.

Molti sono i fattori che hanno provocato e che continuano ad accentuare la crescita della complessità
ambientale. L’effetto principale si sostanzia nella ricerca della flessibilità organizzativa e gestionale allo
scopo di gestire i cambiamenti sempre più repentini e sempre meno prevedibili.

4. 1.1 – Le scelte strategiche emergenti


Le imprese, fin dagli anni ’70, in risposta all’accrescersi della competitività, si sono concentrate sulle attività
principali, il cosiddetto core business, e hanno affidato ad imprese esterne (“decentrate”) fasi del proprio
ciclo di lavorazione quando ciò risulti più economico. La scelta del ricorso a strutture esterne (produttive
e/o distributive) può essere adatta sia alle grandi imprese sia alle piccole unità.
Nasce una nuova forma di organizzazione: organizzazione a “rete” in cui le singole imprese instaurano
meccanismi di collaborazione e di integrazione flessibile reciproca.
Che cosa ha spinto le imprese verso questa particolare forma di cooperazione?
- l’esigenza di comportamenti innovativi e flessibili;
- la riscoperta della “qualità” e quindi della ricerca di un continuo miglioramento del valore del prodotto;
- la necessità di essere presenti sui mercati internazionali per non essere estromessi dal quadro competitivo
globale.

Sono esigenze che richiedono informazioni, investimenti e risorse intangibili in genere difficilmente
reperibili e governabili entro i confini aziendali.

4. 1.2 – L’unità dell’impresa e le funzioni aziendali

E’ facile intuire che tutte le aree funzionali che caratterizzano un’impresa vengano ad essere coinvolte, pur
in misura differente, dalla nuova impostazione imprenditoriale.

4.2 – Le attività economiche aziendali

La produzione di beni o servizi destinati al consumo è la ragione per cui l’impresa esiste. L’impresa esplica la
sua funzione strumentale attraverso la trasformazione di inputs (materiali di partenza, fattori produttivi e
informazioni) in outputs (beni e servizi diretti ai mercati di sbocco).
Il processo di produzione rappresenta il nucleo su cui è incentrato il sistema d’impresa. Tuttavia l’attività
aziendale non si esaurisce in tal processo ma comprende numerose attività.

Partendo dall’attività di produzione, possiamo suddividere l’intero complesso aziendale in due macroaree:
a monte e a valle.
A monte: comprende tutte le operazioni che riguardano l’apprestamento della capacità produttiva, la
ricerca dei fornitori di materiali di lavoro, l’approvvigionamento, il design e la progettazione dei prodotti o
la predisposizione della struttura dei servizi, le attività di ricerca e sviluppo.
A valle: tutte quelle attività responsabili del raccordo tra impresa e mercato sia in termini di distribuzione e
collocamento dei prodotti/servizi, sia in termini di rapporti con i clienti, le istituzioni, l’ambiente
economico, servizio che viene reso possibile dalle azioni di mrk e dalle attività di promozione e vendita.

Le funzioni finanziarie, organizzative, strategiche ed amministrative, hanno una diversa natura rispetto le
altre. Pur facendo parte delle attività economiche del sistema aziendale, presentano delle peculiarità che le
differenziano dalle altre: abbiamo le funzioni di tipo verticale (le attività a monte e a valle) e quelle
orizzontali.
Le funzioni orizzontali attraversano l’intera attività aziendale e fanno da supporto ad ogni singola funzione.
Hanno la capacità di operare in tutte le funzioni aziendali.

4. 3 – L’approccio funzionale e la catena di valore

Cosa si intende per funzione aziendale?


“Un gruppo di compiti o mansioni collegate ed interdipendenti rispetto ad un fine”. L’aggregazione di più
operazioni interrelate tra loro per il raggiungimento di uno scopo assegnato a quella specifica area.
Compito di ogni funzione aziendale è quello di gestire, con uomini e mezzi, una delle molteplici attività in
cui si sostanzia l’esistenza stessa dell’impresa, dal momento in cui viene ideato un prodotto/servizio, a
quando viene acquistato sino al “dopo-acquisto”.
Una delle suddivisioni più tipiche per classificare le funzioni aziendali, individua 3 classi di funzioni:
- caratteristiche (produzione, marketing, ricerca e sviluppo) – rivolte al raggiungimento degli obiettivi
aziendali
- integrative (finanza, amministrazione, controllo) – agiscono da supporto
- organizzative (organizzazione e personale) – fungono da collegamento del tutto gestendo l’organizzazione
del sistema aziendale ed il fattore umano.

Questa classificazione dipende dal tipo di azienda e le stesse funzioni possono variare da azienda ad
azienda.

Un’ottica diversa è offerta da Porter che introduce il concetto di “attività generatrici di valore”, che
nell’insieme formano la cosiddetta catena del valore di un’azienda e che rappresentano gli elementi
costitutivi del vantaggio competitivo che viene determinato in base al soddisfacimento dei compratori e in
base all’andamento dei costi.
Una catena di valore si compone di due grandi gruppi di attività:
- attività primarie (impiegate nella creazione fisica del prodotto, nella sua vendita, nel suo trasferimento al
compratore ed infine nell’assistenza post-vendita);
- attività di supporto (a sostegno delle attività primarie, impegnate nella fornitura degli input acquistati,
delle tecnologie, delle risorse umane ecc.)

A sua volta ogni categoria si suddivide in ulteriori attività distinte che dipendono dal settore e dalla
strategia dell’impresa e, possono essere suddivise in 3 tipologie:
a) sub-attività direttamente impegnare a creare valore per il cliente (es. attività della forza vendita ecc.)
b) sub-attività che permettono lo svolgimento continuativo delle prime (es. manutenzione ecc.)
c) sub-attività che garantiscono la qualità di altre attività (es. ispezione, collaudo ecc.)

Due sono i meriti principali da attribuire a Porter:


1. Pur partendo da uno schema generico, la catena di valore viene costruita di volta in volta al fine di
individuare il vantaggio competitivo.
2. Nella catena di valore le attività non vanno viste come indipendenti e chiuse in se stesse ma, al contrario,
essere interagiscono fra loro grazie a dei collegamenti che se ottimizzati e coordinati consentono il
raggiungimento del vantaggio competitivo.

4. 4 – L’evoluzione nella gestione e nello svolgimento delle attività. La convergenza funzionale.

L’odierna struttura di valore di un’azienda non sempre è uguale a quella fornita da Porter.
nella classificazione canonica le attività di supporto e quelle primarie si caratterizzano per il fatto di essere
svolte all’interno dell’impresa rientrando nelle cosiddette funzioni caratteristiche dell’impresa.
Attualmente, con lo sviluppo dei fenomeni di esternalizzazione di outsourcing (approvvigionamento
esterno), assistiamo ad una modificazione dei ruoli di ogni singola attività, e le attività che non
appartengono al core business vengono portate all’esterno. In questo modo assistiamo alla condivisione da
parte di più aziende alla stessa catena di valore. Il processo di crescita all’esterno consente di collegare le
catene del valore di imprese diverse e quindi di usufruire, nello svolgimento di attività di impresa, dei
rispettivi punti di forza.
La catena del valore può essere utilizzata come strumento per esaminare le attività d’impresa e le relative
modalità di interazione al loro interno e verso l’esterno. Il vantaggio competitivo rappresenta il surplus che
l’azienda riesce a creare e diviene quello che più aziende riescono a valorizzare, insieme, ognuna
partecipando alla catena.
Quindi si configura una nuova tendenza, quella della convergenza: l’azienda viene intesa come un insieme
di processi trasversali, che attraversano i confini organizzativi sia interni che esterni ed hanno come fine il
perseguimento di un vantaggio competitivo.

4. 5 – I limiti delle strategie di crescita interna

Come già detto la “divisione del lavoro” non si attua più nell’universo limitato della singola impresa ma
dall’azienda che proietta all’esterno le proprie capacità e strategie organizzative instaurando una serie di
relazioni non necessariamente di tipo gerarchico. Si parla di strategie opportunità driven, ossia basate sullo
sviluppo, da parte dell’impresa, di una specifica abilità e capacità di accedere e di usare efficacemente le
risorse-competenze esterne per il perseguimento delle migliori opportunità.

Glossario
Core Business: espressione con la quale si identificano le attività principali delle aziende.

Capitolo 5

5.1 – La funzione organizzativa


La funzione organizzativa è a carattere orizzontale perché investe la totalità delle altre funzioni.
Si rivolge, in primo luogo, a disciplinare i compiti, i poteri e le responsabilità che ciascuna di queste dovrà
assumere nel corso della gestione.

5.2 La struttura organizzativa


La struttura organizzativa corrisponde a tutto ciò che nell’organizzazione appartiene alla rete di relazioni
interne tra le sue singole componenti. Riguarda: le relazioni strutturali tra la componente personale e
quella materiale dell’organizzazione; il sistema dei ruoli e dei livelli decisionali; la distribuzione delle
autorità e delle responsabilità.
La struttura organizzativa deve essere adattata alla concreta realtà nella quale l’azienda opera, tenendo
conto dei meccanismi operativi esistenti, delle persone e dello stile direzionale.
Nell’ambito della struttura organizzativa è possibile distinguere:
- elementi di hardware o di struttura
- elementi di software decisionali

La struttura organizzativa può essere formale o informale.


Formale: la divisione in mansioni è esplicitamente riconosciuta e sancita e può essere rappresentata
attraverso gli organigrammi (si parla anche di “struttura di piano”)
Informale o spontanea: si riferisce a rapporti informali ed ai fattori di influenza e potere che possono
differire da quelli dell’autorità formale e non vengono rappresentati dagli organigrammi.

Nell’elaborare la configurazione strutturale dell’impresa, un peso rilevante viene assunto dalle


caratteristiche dell’ambiente nel quale, l’impresa, dovrà operare.
fondamentale ai fini del conseguimento degli obiettivi aziendali è l’attività di progettazione della struttura
stessa. Il risultato di tale attività è costituito dalla struttura organizzativa la quale viene rappresentata
attraverso organigrammi.
5.3 – Le rappresentazioni grafiche delle strutture organizzative: gli organigrammi
Gli organigrammi sono rappresentazioni grafiche della struttura organizzativa formale dell’azienda. Lo
scopo è quello di evidenziare gli aspetti fondamentali del funzionamento dell’organizzazione, le posizioni
strutturali e i collegamenti fra le diverse funzioni aziendali.
Limiti:
- mancanza di informazioni sull’importanza delle posizioni rappresentate;
- mancanza di informazioni sui rapporti non gerarchici e informali;
- difficoltà nell’estrapolare informazioni sull’ambiente in cui opera l’azienda.
Inoltre a seconda della tipologia di organigramma adottato, è possibile dedurre alcune caratteristiche
dell’ambiente:
_ un ambiente stabile suggerisce l’adozione di strutture monofunzionali o gerarchico-funzionali;
_ un ambiente turbolento, spinge l’impresa a ricorrere a forme più elastiche e flessibili.

Per superare tali limiti vengono redatti altri documenti che forniscono informazioni aggiuntive:
- i mansionari, che evidenziano “che cosa” fanno gli organi aziendali, descrivendo i compiti assegnati;
- le norme procedurali, che specificano “come” svolgere singoli compiti; si tratta di regole operative che
possono avere una forma discorsiva o grafica (flow chart, diagrammi di flusso ecc.)

Affinché l’organigramma non perda di validità, deve essere costantemente aggiornato in relazione ai
mutamenti interni dell’azienda.

Un’impresa nasce con una configurazione di tipo gerarchica-pura, poi al cresce di dimensione diventa
gerarchica-funzionale e con la diversificazione produttiva viene spinta ad adottare una struttura divisionale.
Ma non tutte le imprese seguono lo stesso percorso.

5.4 – Il modello gerarchico: gerarchico-puro e gerarchico-funzionale


la struttura gerarchica si è sviluppata secondo 3 diverse tipologie:
1. gerarchica pura (pre-fordismo)
2. gerarchica funzionale (fordismo – post-fordismo)
3. Line-staff (fordismo – post-fordismo)
1. gerarchica pura (pre-fordismo) -> organizzazione come sistema chiuso, operante in un regime di stabilità,
in cui la velocità di cambiamento del mercato è inferiore alla velocità di adattamento dell’azienda, cosicchè
è sufficiente gestire poche linee di prodotti per far sopravvivere l’impresa. Tale modello è caratterizzato da
semplicità operativa e dall’assenza di forti mutamenti nelle tecnologie (vd figura V.2). graficamente è
rappresentato da una piramide in cui i livelli superiori attribuiscono a quelli inferiori funzioni meno
complesse.
la struttura interna è caratterizzata da: processo decisionale accentrato, comunicazione verso il basso,
coordinamento per gerarchia, controllo totale. È una struttura monofunzionale caratterizzata dall’unicità di
comando: è l’imprenditore che cura tutte le funzioni aziendali.
I principi su cui si basa tale modello sono:
- principio di gerarchia: l’autorità, la responsabilità e le competenze sono massime al vertice
dell’organizzazione
- principio di delega: le funzioni vengono delegate verso il basso;
- principio di eccezione: in caso di difficoltà imprevisto, il problema deve tornare al vertice per la
risoluzione
- principio dell’unità di direzione: ciascuno deve sapere da chi prendere ordini e a chi rivolgersi quando non
è in grado di decidere da solo.

Tale struttura presenta i suoi maggiori limiti con l’aumento del grado di complessità ambientale.

2. gerarchica funzionale (fordismo – post-fordismo)


La struttura gerarchica-funzionale si articola in:
- direzione generale. Si occupa delle scelte strategiche, coordinamento, allocazione risorse;
- aree o dipartimenti funzionali. Svolgono le funzioni fondamentali relative ai vari settori. Hanno il compito
di fare un uso efficiente delle risorse a loro affidate;
- unità di base. Corrispondono alle unità di produzione, di vendita ecc.

Il livello delle aree funzionali è differenziato sulla base delle principali funzioni aziendali. In tali modelli,
oltre al principio gerarchico, viene applicato il principio della competenza (controllata e coordinata
mediante il principio di eccezione – vd fig. V.3)
L’organizzazione funzionale esalta il principio della specializzazione delle singole aree e questo facilita la
conoscenza tra gli appartenenti ad una stessa funzione, di contro determina una separazione fra i diversi
dipartimenti funzionali.

In questo modello il processo decisionale è accentrato, quello di delega ridotto, la comunicazione avviene
solo verso il basso, il coordinamento si ottiene solo per gerarchia, il controllo è totale e l’organizzazione è
standardizzata.
Queste caratteristiche fanno si che tale struttura non sia in grado di rispondere alle esigenze di aziende
diversificate. L’alta direzione risulta essere sempre più assorbita dalla risoluzione di problemi interni
sottraendo così tempo all’osservazione dell’ambiente esterno.
La struttura gerarchica-funzionale è adatta per lo più ad imprese, anche di notevoli dimensioni, che però
operano in contesti relativamente stabili.

Strutture funzionali modificate: queste strutture pur mantenendo le caratteristiche tipiche di una struttura
funzionale, permettono la gestione di altre dimensioni rilevanti attraverso la creazione di appositi organi
che si affiancano alla configurazione tradizionale. Nel caso di diversificazione produttiva, l’organo di
coordinamento si identifica nella figura di responsabile di prodotto (o product manager) collocato alle
dipendenze dell’alta direzione con il compito di coordinare le attività di tutte le funzione in relazione alle
esigenze di una determinata linea produttiva. Si tratta quindi di una figura che garantisce maggior
coordinamento e mantenere una visione unitaria del processo produttivo in relazione ai bisogni espressi da
un particolare segmento di clientela che è possibile soddisfare offrendo prodotti differenti.

Una logica analoga è quella delle strutture per progetti (o project leader).
In questo caso alla tradizionale struttura funzionale vengono affiancati organi ai quali viene affidata
temporaneamente la responsabilità di un determinato progetto.
Product manager e project leader non sono organi dotati di autorità gerarchica ma devono possedere
conoscenze, abilità relazionale e di group management.

La crisi di questo modello fu determinata dal crescente dinamismo ambientale.

5.5 – Il modello divisionale


L’organigramma divisione è diffuso nelle aziende che operano in un ambiente instabile ed ha una struttura
caratterizzata da ampia delega nei riguardi delle divisioni operative.
Introdotto nel 1920, rispetto al modello precedente presenta una rilevante innovazione perché al di sotto
del top management viene posto un manager per ogni attività raggruppata per prodotto/progetto/area
geografica e non più in base alle funzioni aziendali (vd figura V.4). i dirigenti aziendali della seconda linea
assumono la piena responsabilità delle decisioni strategiche, amministrative, operative riguardanti la loro
area anche se l’organigramma mantiene la struttura gerarchica-funionale.

La configurazione di questo modello è così divisa:


1. Alta direzione. Funzione di decisione strategica ed imprenditoriale, pianificazione degli obiettivi ed
allocazione delle risorse tra le diverse divisioni operative;
2. Staff della direzione generale. Fornisce consulenza all’alta direzione ed anche alle divisioni operative;
3. Direzione centrale delle divisioni operative. Ha il compito di coordinare le varie divisione e prende
divisioni e prende decisioni di tipo tattico;
4. Le unità di base. Svolgono la loro attività nell’area operativa di un dipartimento funzionale.

Con la struttura divisionale sono stati introdotti due nuovi criteri, separazione tra attività strategica ed
amministrativa e differenziazione interna dell’impresa in base ai criteri di prodotto/progetto/area
geografica.
Inoltre in tale struttura si sviluppano forme di controllo e di comunicazione interna più efficienti: questo a
motivo del fatto che il processo di comunicazione tra divisioni e direzione funziona sia verso l’alto che verso
il basso, il coordinamento è “per comitati” e il processo di controllo “per eccezione”.

La direzione generale controlla le divisioni che si occupano di un particolare ciclo di lavoro. Esse in quanto
capaci di gestire l’intero ciclo sono dette quasi.-imprese.

L’organizzazione divisionale presenta limiti e vantaggi.


I pregi sono dati dalla possibilità che tale struttura offre all’impresa in termini di crescita dimensionale,
diversificazione produttiva e/o geografica, capacità di rispondere in modo differenziato a seconda del
diverso grado di incertezza e di instabilità ambientale.
I difetti si presentano nei casi di accentuata diversificazione, di elevato sviluppo tecnologico, di accentuate
influenze esercitate dall’ambiente esterno.

5.6 – Il modello a matrice


Questo modello, sviluppatosi nel secondo dopoguerra soprattutto nelle aziende ad alto tasso di
innovazione, è indicativo di una concezione aperta del sistema d’impresa, di un ambiente dinamico, di una
struttura interna elastica. Cerca di combinare i vantaggi dell’organizzazione per funzioni e quella per
prodotti o progetti. Infatti la stessa unità organizzativa può rispondere a due diverse strutture di autorità,
una funzionale e l’altra che controlla i raggruppamenti di attività definiti per progetti.
Il principale elemento caratteristico di questa struttura è la dipendenza dal vertice di due categorie di
manager, l’una di prodotto o di progetto, l’altra di funzione.
I manager utilizzano le medesime risorse umane e materiali, per cui il personale dipende sia dal
responsabile di funzionale che da quello di prodotto/progetto. Tale dipendenza dalle due categorie di
manager può essere permanente nella matrice per prodotto o temporanea nella matrice per progetto. La
struttura matriciale può essere permanente, nel caso in cui vengono seguite più linee di prodotto che
utilizzano medesime conoscenze, o rotante, nell’ipotesi in cui sono seguiti più progetti. Il coordinamento
avviene verticalmente per mezzo del capo funzionale e orizzontalmente per mezzo del project manager.
La vera originalità dell’organizzazione matriciale è che l’autorità derivante dalla conoscenza professionale
viene separata dalla responsabilità di dirigere le risorse.
Punti di forza:
- equilibrio ed evidenza degli obiettivi;
- coordinamento delle funzioni;
- rapidità di risposta ai cambiamenti di mercato;
- controllo del progetto da parte del project manager mediante il controllo di tutte le risorse;
- maggiore possibilità di utilizzo del personale tra progetto e funzione conseguendo economie dei costi.

Punti di debolezza:
- possono sorgere conflitti tra manager funzionali e di progetto, che entrano in competizione per il
controllo e la gestione delle risorse condivise;
- un’organizzazione dei progetti separata rende possibile una duplicazione degli sforzi;
- i tempi per la definizione di politiche e procedure all’inizio dei progetti possono risultare lunghi;
- per evitare l’anarchia, la struttura a matrice deve essere mantenuta flessibile ed aperta;
- uno specialista può dover rispondere a numerosi capi;
- le specializzazioni devono essere integrate per giungere alla soluzione integrata dei problemi.

5.7 – L’organizzazione a fiore


Struttura organizzativa utilizzata per gestire processi di cambiamento che si ispirano alla filosofia della
formazione-intervento o dello sviluppo organizzativo. Si caratterizza per l’esistenza di un clima
organizzativo, una cultura, condizioni di fondo che consentono di accordarsi sulle modalità e le soluzioni.
Non lavora solo dal centro alla periferia ma anche viceversa. È fondata sulla valorizzazione del contributo
progettuale apportato da chiunque operi in seno all’organizzazione.
Questo modello è chiamato “a fiore” perché si sviluppa un po’ come fanno i fiori in natura: “la pianta
rappresenta il progetto, essa ha dei fiori che si aprono e si chiudono, che nascono e muoiono (i gruppi di
progetto), ha un terreno più o meno fertile che l’accoglie (l’organizzazione e la sua cultura), un contesto
circostante con cui interagisce e scambia risorse (l’ambiente) e un’umanità che l’aiuta a crescere
annaffiandola e concimandola o che la può distruggere o sradicare (il management)”.

Struttura:
- il comitato guida: i comitati che vengono abitualmente istituiti nelle organizzazioni mediano i poteri e
servono per controllare la rotta strategica;
- lo sponsor: è colui che imprime una direzione “partecipata” alla gestione del cambiamento; di solito è un
uomo del vertice che può mobilitare un insieme di risorse;
- il coordinatore di progetto: è quello che si occupa di alimentare la struttura a fiore, curandosi della sua
sopravvivenza e del suo sviluppo; è un leadership che si occupa di suddividere il progetto di cambiamento
in sotto-progetti e questi in altrettante sub-unità;
- i gruppi di progetto e di miglioramento (“i fiori”): nell’organizzazione a fiore vengono predisposti nuclei
strategici e nuclei che gestiscono la routine.

La struttura a fiore prevede alcune strutture e ruoli di supporto:


- lo staff: è una persona o un’unità di supporto dedicata che aiuta il coordinatore di progetto a ricordare gli
impegni presi e gli obiettivi stabiliti;
- gli informatori: monitorano il clima dei contesti periferici dove si promuove il cambiamento ma dove non
si può controllare direttamente l’evolvere degli eventi e delle posizioni che le persone e i gruppi prendono;
- la consulenza: viene utilizzata dalla struttura interna come supporto.

5.7.1 – Una particolare organizzazione a fiore: la struttura per piattaforme


con il termine piattaforma viene individuata una serie di prodotti con elevato livello di coerenza e
contraddistinti dalla comune origine tecnica. È strutturata su più livelli in ciascuno dei quali viene
mantenuta l’interdisciplinarietà funzionale attraverso la costituzione di specifici gruppi di lavoro con a capo
un team leader. I compiti di una piattaforma possono essere così ripartiti:
- il livello inferiore, team di sviluppo: ha il compito di seguire tutte le fasi per la definizione di un
determinato componente del nuovo prodotto;
- il livello intermedio, team di prodotto: coordina e armonizza l’attività dei team di sviluppo sottostanti e
definisce l’impostazione progettuale complessiva;
- il livello superiore, core team: persegue le ottimizzazioni tra prodotti simili, pianifica l’insieme delle
attività, gestisce le risorse e riporta direttamente alla direzione generale.

La formulazione di piattaforme rappresenta il tentativo di rimediare alle carenze delle modalità


organizzative funzionali rendendo permanenti le strutture a progetti.

5.8 – Le strutture reticolari


Si fa riferimento ad un’entità flessibile, ramificata, adatta ad interagire con l’innovazione e con il
cambiamento. Tale concetto è utilizzato per indicare fenomeni anche molto diversi tra loro.
I due elementi che devono possedere sono la flessibilità (capacità dell’azienda di adattarsi velocemente ed
a costi sostenibili alle modificazioni del contesto ambientale) e l’integrazione (delle proprie competenze ed
attività con quelle di altre imprese).
Si parla di “piattaforma inter-impresa” termine che designa le basi relazionali in grado di generare
conoscenza da trasferire ai partner. Nell’attuale ambiente competitivo saper apprendere più rapidamente
dei concorrenti rappresenta un grande vantaggio competitivo. Le interrelazioni con altre unità
imprenditoriali consentono di ridurre il rischio imprenditoriale grazie ad una maggiore diversificazione dei
mercati in cui si opera.
In ambienti competitivi che richiedono flessibilità, innovazione e focus strategico, essere autosufficienti può
risultare una pratica irrealizzabile.

Capitolo 6.

6. 1 – La funzione di produzione
Per attività produttiva (funzione di produzione o processo produttivo) si intende la trasformazione
economica di input (materiali grezzi) in output (prodotti finiti e servizi) destinati all’uso.
Sebbene questa sia la definizione più comunemente accettata, esistono diversi aspetti sotto i quali è
possibile analizzare e classificare la funzione di produzione:

- approccio tecnico-fisico: l’insieme delle tecniche efficienti per produrre un dato livello di output,
determinate le quantità dei fattori produttivi (terra, capitale, lavoro).
Si ha:
Y= f(K, L, T,…)

Si stabilisce una relazione definita tra i fattori (K,L…) e il risultato Y dato un livello di tecnologia.
l’impresa persegue gli obiettivi in termini di efficienza ed economicità. Una produzione è efficiente se
massimizza il rapporto input/output, ossia se, a parità di risorse impiegate, ricerca una soluzione che,
tramite il miglior sfruttamento delle tecniche a disposizione o l’uso di una particolare tecnologia, garantisce
il più alto livello di prodotto. Per economicità si intende la capacità di minimizzare i costi.
- produzione in senso economico: si sottolinea la visione dell’impresa come strumento di creazione di
valore. Il processo produttivo genera valore aggiuntivo per l’azienda in quanto l’output trasformato ha una
portata economica maggiore rispetto ai materiali di partenza;

- visione manageriale: si considera tutto il sistema manageriale. La produzione è l’insieme delle operazioni
e delle attività attraverso le quali l’impresa trasforma gli input acquisiti in prodotti finiti da immettere sul
mercato; essa viene considerata attività fondamentale all’interno del complesso processo di creazione del
valore operato dall’impresa.

In generale sia per i servizi che per i beni materiali, l’obiettivo della funzione produttiva è l’adattamento
delle risorse per la soddisfazione della domanda.

Oggi il mercato influenza molto le caratteristiche dei prodotti soprattutto per quanto riguarda:
- La complessità di prodotto: le varianti con le quali un prodotto può essere richiesto
- Grado di standardizzazione: ripetitività con cui il prodotto viene richiesto
- Intensità delle relazioni intercorrenti tra domanda di mercato e offerta del produttore
Negli ultimi anni, inoltre, la differenza tra beni e servizi sta scomparendo. Tale fenomeno è causato sia dalle
politiche di differenziazione che richiedono elementi distintivi di tipo immateriale, sia dall’evoluzione dei
bisogni di consumatori che richiedono un “prodotto” sempre più personalizzato.

La funzione produttiva rappresenta per l’impresa un nodo strategico. Trovandosi al centro di una serie di
interrelazioni che la collegano con tutte le altre attività, ogni scelta effettuata a livello strategico si
ripercuote sull’impostazione che viene data al processo produttivo.
Il sistema di produzione viene anche detto ciclo produttivo. Le fasi che compongono il ciclo, dette anche
sub-funzioni, possono essere gestite tutte insieme o separatamente.
E’ possibile individuare un ciclo tipico che si compone di due distinte macro-fasi:
- fase di progettazione (scelte di dimensionamento, layout, quantità, automatizzazione, organizzazione
delle risorse umane), che comprende la progettazione del prodotto e la realizzazione delle “idee creative”
tramite un’analisi di fattibilità economica e tecnica, lo studio sulla disponibilità dei materiali, la scelta degli
impianti e delle macchine. Inoltre si procede con la disposizione delle macchine (il layout), attraverso la
quale si razionalizza il flusso dei materiali e l’ordine delle lavorazioni.
- Nella fase operativa (programmazione delle operazioni, controllo dei processi, logistica in entrata e in
uscita, gestione della qualità, gestione delle scorte) occorre rendere coerenti le esigenze di varietà e
variabilità delle risorse con il coordinamento e l’efficienza dei processi.

La programmazione della produzione e delle operazioni si basa sul bilanciamento dei tempi e delle risorse
minimizzando i costi e massimizzando la soddisfazione del cliente.

6. 1.1 – I fattori di competitività dell’area di produzione


un fattore produttivo è una risorsa disponibile in quantità limitata, che usata nel processo produttivo viene
modificata per raggiungere il prodotto finito. Lo stesso prodotto finito può essere realizzato attraverso
infinite combinazioni produttive. Una prima problematica riguarda la scelta “economica” della
combinazione più “conveniente”ossia la combinazione che massimizzi il valore del prodotto o minimizzi il
costo.
La scelta delle combinazioni produttive concerne tre “grandezze” fondamentali:
1. Le quantità dei fattori impiegati a parità di tecniche e tecnologie impiegate;
2. Le tecniche utilizzate nella produzione, le modalità organizzative e la tipologia di fattori impiegati;
3. Le tecnologie adottate.

In generale la scelta tra le alternative, configura due possibili vie:


1. Scelte di breve periodo, riguardanti la programmazione ed il controllo del sistema produttivo
2. Scelte di lungo periodo, riguardanti la scelta di varie tecnologie.

La scelta delle combinazioni di fattori deve aver riguardo per l’aumento del valore del prodotto e per la
minimizzazione dei costi di trasformazione. Solo così è possibile migliorare la produttività.
A tal miglioramento concorrono tre grandi gruppi di fattori di competitività:
1. La riduzione dei costi di trasformazione. Le leve su cui operare sono: alta specializzazione dei fattori,
standardizzazione dei prodotti e alti volumi di produzione.
2. La flessibilità del sistema produttivo: tale approccio pone l’accento sul miglioramento del valore del
prodotto nei confronti della domanda e della concorrenza. Le leve sono: miglioramento delle prestazioni
del prodotto, qualità dei materiali utilizzati, affidabilità del prodotto finito, personalizzazione del prodotto,
rapida ed efficienza nell’introduzione di nuovi prodotti.
3. Elasticità del sistema produttivo. Per poter percorrere questa via occorre avere capacità nel variare il
mix dei prodotti esistenti per rispondere alle modificazioni della domanda, soddisfacendo le esigenze dei
consumatori.

La storia dell’industria in passato si è sempre focalizzata sul soddisfacimento del primo fattore, la riduzione
dei costi.

6.1.2 – Tipologia dei processi produttivi


Possiamo effettuare una distinzione delle varie tipologie di processi produttivi attraverso una matrice
basata su due variabili:
grado di standardizzazione del prodotto (ripetitività) e complessità dello stesso (semplice o complesso).
Così come il prodotto è caratterizzato da un ciclo di vita anche le tecnologie e le tecniche di produzione
subiscono un’evoluzione. Questa schematica è rappresentata dalla matrice mercato-prodotto-processo in
cui vengono indicati i processi di produzione che si combinano con le caratteristiche dei prodotti.

6.1.3 – La pianificazione e la programmazione della produzione


A prescindere dal tipo di impresa e dal regime produttivo adottato, per convertire gli obiettivi prefissati in
termini concreti, è necessario un piano di gestione della produzione che rappresenta la cerniera tra
l’aspetto strategico e quello operativo.
La programmazione della produzione ha il compito di gestire l’incontro tra i mezzi e i fattori interni e le
esigenze e i tempi del mercato.

A monte di ogni programmazione va individuata la fase della pianificazione dove si definiscono i livelli di
qualità/servizio da garantire al cliente, le politiche da adottare nei confronti di fornitori e distributori, la
localizzazione della produzione, le tecnologie da adottare.
Vanno selezionati gli obiettivi, le strategie, le politiche ed i programmi.

La programmazione, inoltre, può essere di lungo o breve periodo.


La programmazione di lungo periodo procede alla definizione delle capacità produttive e del futuro
fabbisogno di risorse. Si decide la disposizione degli impianti, dove reperire le risorse e si studia la domanda
attesa.
La programmazione di breve periodo, si focalizza sulla gestione operativa, propria delle attività di
trasformazione. Si scompone il flusso produttivo in sub sistemi e il programma di lavorazione non riguarda
più il prodotto finito ma le sue varie componenti.

L’operatività propria si avrà infine con lo Scheduling cioè la definizione del reale svolgersi delle attività
secondo la sequenza delle operazioni (la traduzione delle attività in una sequenza temporale di operazioni).
Ha il compito di gestire e razionalizzare la distribuzione del lavoro nello svolgimento delle varie attività.
I problemi in cui si incorre nella gestione operativa riguardano due ordini di grandezze:
a) i parametri quantitativi (es. quantità di produzione giornaliera)
b) il fattore tempo (quanto produrre, come bilanciare i tempi ecc.)

La criticità di tali operazioni deriva dal fatto che i fattori competitivi di business su cui gioca l’impresa
dipendono in gran parte dall’area della produzione.

Per quanto i fini e gli obiettivi della programmazione produttiva siano gli stessi per tutte le imprese,
esistono diversi metodi e strumenti di gestione. Un esempio è il Manufacturing Resources Planning MRP-II,
che è un sistema per la pianificazione delle risorse che consente la gestione dei flussi informativi e
l’esecuzione in automatizzazione dei processi. Inoltre svolge la pianificazione dei fabbisogni materiali al fine
di ottimizzare e ridurre le scorte e giacenze di magazzino.

6.1. 4 – Il metodo di produzione giapponese e il Just in Time


Il modello giapponese o meglio la “filosofia di produzione” giapponese, è completamente diversa rispetto
quella occidentale. Con lo scopo di riabilitare l’immagine dei loro prodotti i giapponesi rielaborano le loro
scelte produttive con l’obiettivo primario di soddisfare le esigenze del cliente e un alto livello qualitativo.
Viene sovvertito il principio cardine dell’impresa occidentale: la produzione non risulta definita all’interno
dell’azienda sulla base della disponibilità e dei costi delle risorse ma entra in gioco una programmazione
tirata dal mercato.
Inoltre viene adottata una politica di produzione push/pull.
Nella push la produzione spinge la domanda imponendo i suoi prodotti; si gioca d’anticipo rispetto alle
manifestazioni dei bisogni sul mercato, rispondendo con adeguamenti agli eventuali scostamenti dai livelli
previsti.
Nella pull si basa su una produzione “tirata”: viene prodotto solo quanto richiesto e nel momento stesso in
cui viene richiesto.

Il modello di programmazione che si inserisce in questa strategia è il Just in Time, implementato dalla
Toyota negli anni ’60 allo scopo di produrre numerosi modelli di auto in piccola quantità e economicità.
Il termine significa “appena in tempo” ed indica la produzione di prodotti finiti appena in tempo per
consegnarli, di semilavorati e di sottosistemi appena in tempo per l’assemblaggio, il rifornimento dei
materiali di acquisto appena in tempo per utilizzarli.
Questo processo segue un flusso differente rispetto quello tradizionale: le fasi a valle dettano i regimi di
produzione ed i quantitativi alle fasi a monte.
Tale sistema è reso possibile dall’utilizzo del cartellino (kanban) che indica tutte le caratteristiche del
semilavorato o materiale da utilizzare che viene diviso in piccoli quantitativi trasferibili su carrelli. Nel
momento in cui la fase a valle esaurisce un carrello, il kanban relativo viene inviato alla stazione precedente
che attacca il cartellino ad un nuovo carrello pieno e, a sua volta, invia l’ordine di un nuovo stock di
materiali alla fase precedente. In questo modo si assicura la produzione della sola quantità necessaria.
I colli di bottiglia e le eventuali mancanze ed errori si ripercuoteranno nelle fasi inziali, al contrario di
quanto succede in una fabbrica tradizionale.
Ogni volta che si verifica un intoppo nella lavorazione (mancanza di materiali, guasto dei macchinari ecc.), il
sistema reagisce autonomamente ed immediatamente senza ricevere gli ordini dei livelli superiori e della
direzione.
Il fine ultimo di tale organizzazione è l’eliminazione delle giacenze di semilavorati perché considerati costi
inutili e sprechi di risorse. La visione del JIT ruota intorno questa visione: qualità (zero difetti), lotta agli
sprechi (zero scorte) e miglioramento continuo.

6.1.5 – Il ruolo e la gestione delle scorte


Vediamo che le scorte sono considerate, nell’ottima tradizione e in quella giapponese, in modo
completamente opposto. La prima le elogia, la seconda le considera un male. Nessuno dei due modelli può
dirsi migliore dell’altro in assoluto. Si tratta di due logiche adatte a contesti diversi, che hanno ragion
d’essere in situazioni di mercato differenti.
L’approccio tradizionale (europeo-americano) ha senso in mercati crescenti, espansivi; quello giapponese in
mercati stabili.

Esistono tre tipi di scorte:


- di materie prime, necessarie per evitare eventuali ritardi di consegne;
- di semilavorati, per facilitare la fluidità, tra i vari reparti, del processo produttivo;
- di prodotti finiti o giacenze, per ovviare ad oscillazioni della domanda e per evitare che un ordine rimanga
insoddisfatto.

Le problematiche nascono in relazione al coordinamento tra flussi produttivi e flussi commerciali.


Riguardano quindi il tempo (quando ordinare) e la quantità (quanto ordinare e quale livello/stock di scorte
decidere di mantenere).
La gestione dei materiali può essere effettuata in due modi, a seconda che si operi secondo criteri push o
pull.
Push-> si utilizzano delle tecniche tradizionali a tempo o a quantità fisse di riordino quali il lotto economico
di acquisto o equivalente ->EOQ (economic order quantity)
Pull -> ci si serve di tecniche innovative ->MRP-I (è una tecnica di ordinazione dei materiali in quantità
ottimale e in tempi variabili. In questo modo ci si cautela nei riguardi di eventuali sbalzi imprevedibili della
domanda.).
I punti cardine del modello sono le valutazione dei costi da associare alle scorte. Ce ne sono due tipi:
1. Costi di mantenimento delle scorte in magazzino, crescenti al crescere delle dimensioni del lotto;
2. Costi di riordino, ricezione ed apprestamento delle scorte, decrescenti all’aumentare del lotto (si pensi
agli sconti ottenibili ordinando grandi quantità).

Potremmo considerare anche una terza categoria, quella dei “costi associati all’esaurimento o al non
mantenimento delle scorte”, derivanti da eventuali interruzioni della produzione per insufficienza di
materie prime o di semilavorati, dalla perdita della clientela e così via..

p. 195-196 ???

Con il Material Requirement Planning si decide il piano di produzione del prodotto finale, frutto di un
assemblaggio e, solo in seguito, si stabilisce la produzione o l’acquisto dei componenti elencati.

6.2 – Integrazione e decentramento nel ciclo produttivo


la scelta dell’ampiezza del processo produttivo ha ripercussioni sulla strategia interna dell’organizzazione
sia sulla struttura dei mercati. Le imprese possono decidere se estendere il ciclo produttivo ad una o più
fasi/attività adiacenti fra loro in modo che l’output di una rappresenti il materiale primo della successiva
(integrazione verticale) oppure se scorporare dal proprio ciclo di produzione fasi intere o singole lavorazioni
affidandole all’esterno dell’unità decisionale (decentramento economico, esternalizzazione e
terziarizzazione).

Mediante la strategia di integrazione verticale si internalizzano fasi o attività generalmente acquisibili


all’esterno al fine di superare i relativi costi e vincoli sostituendo la contrattazione d’impresa a quella libera
del mercato. Il processo integrativo può essere rivolto sia alle fasi a monte (integrazione verso l’alto o
industriale) che alle fasi a valle (integrazione verso il basso o commerciale).

Williamson spiega il ricorso all’integrazione attraverso l’utilizzo del concetto di “costi di transizione”:
l’impresa sostiene dei costi che derivano dalle asimmetrie informative, dalle diverse posizioni di forza, dai
fenomeni di "moral hazard” e quindi la decisione di acquisire all’esterno o produrre all’interno deriva da
criteri di convenienza economica, ossia dal confronto fra costo di produzione e costo di acquisto cui va
sommato il costo di mercato.
La teoria dei costi di transizione spiega solo un aspetto della convenienza dell’impresa integrata. Numerosi
sono i fattori che possono giustificarne la convenienza:
a) fattore tecnologico
b) difesa dalla concorrenza
c) inesistenza del mercato
d) stimolo del cliente

L’integrazione orizzontale è l’ accorpamento, in una stessa impresa, di più produzioni dello stesso tipo al
fine di prevenire allo sfruttamento di economie di scala; disponendo già di alcuni impianti, infatti, il costo
aggiuntivo per unità prodotto risulta decrescente all’aumentare della quantità prodotta.
Maggiore è il numero di operazioni svolte dalla stessa impresa, maggiore sarà il grado di integrazione
dell’impresa.
Vi sono diversi indici per valutare il livello di integrazione anche se talvolta mostrano eccessiva o scarsa
sensibilità rispetto a determinati parametri:
- Rapporto valore aggiunto/fatturato (indice di Adelmann). Si presuppone che al crescere delle fasi svolte
all’interno dell’impresa, il VA aumenti proporzionalmente. L’indice è tuttavia sensibile rispetto alle
variazioni dei prezzi e dei profitti dell’azienda.
- Rapporto scorte/fatturato. Più un sistema è integrato, maggiori saranno i livelli di scorte.
- Rapporto inputs prodotti all’interno/inputs acquisti sul mercato. (grado di dependenza dal mercato
nell’ottenimento degli inputs in ciascuna fase) Questo sembra essere l’unico indicatore che presenta
omogeneità tra numeratore e denominatore e che quindi è insensibile alle variazioni dei prezzi e delle
variabili nominali.

L’integrazione ha visto un forte sviluppo dal dopoguerra fino agli anni ’70, oggi la tendenza è verso il
decentramento per guadagnare in termini di elasticità e flessibilità.
Il decentramento produttivo può manifestarsi in varie forme:
- decentramento tecnico. Consente un alleggerimento delle strutture attraverso un trasferimento di una
parte dei processi produttivi, non determina diminuzione dei costi ma garantisce una migliore gestione in
termini di controllo dei processi;
- decentramento economico. Quando si ha la parcellizzazione della produzione tra un numero di imprese.
Questo assume diverse configurazioni:
1. Terziarizzazione, che fa riferimento alle scelte di “make or buy” ed investe l’attività finalizzata a
realizzare un decentramento geografico o di forza lavoro. Terziarizzare significa eliminare diseconomie
interne affidando a soggetti esterni, una o più fasi del processo produttivo;
2. Esternalizzazione. Significa “far uscire” una qualsiasi attività dai confini del controllo delle risorse
esercitato con le modalità tipiche della proprietà, della gerarchia. Inoltre l’esternalizzazione può investire
tutte quelle attività relativamente “lontane” dal core business;
3. Outsourcing, si sostanzia in processo mediante il quale un’impresa attribuisce, in maniera continuativa a
stakeholders esterni, lo svolgimento di servizi o attività aziendali secondo modalità di tipo contrattuale e
non gerarchiche. Solitamente questi contratti riguardano attività tecnologiche o informatiche ed hanno una
durata media di una decina d’anni.

I vantaggi del decentramento vengono individuati principalmente nella trasformazione dei Costi fissi in
Costi variabili in modo tale che il costo totale sia funzione della quantità prodotta, permettendo così di
raggiungere il Break Even Point a livello più bassi.
Infatti nel momento in cui si affida all’esterno parte della produzione, si eliminano i costi immobilizzati nelle
strutture e si può gestire più liberamente la capacità produttiva.

6. 3 – Tecnologia e innovazione nell’impresa


La tecnologia come elemento della funzione di produzione è la base strutturale del processo, l’insieme delle
regole su cui si fonda la trasformazione fisica degli input in prodotti finiti. Svolge un ruolo critico in quanto è
portatrice di quelle conoscenze, metodi e mezzi in grado di poter aumentare l’efficienza di un processo.
Nell’impresa, l’elemento tecnologico assume fondamentale valenza economica. Il progresso tecnico
comporta riduzioni del livello dei costi o aumenti della produttività dei fattori tramite interventi sul
processo, sul prodotto o sulla struttura.
Il mutamento tecnologico (inteso come progresso) può presentarsi secondo due forme:
- incorporato nei beni capitali;
- diffuso perché non è imputabile a singole innovazioni ne si riscontra in una determinata macchina o
prodotto.

Le innovazioni, utili ai fini del risultato di impresa, possono essere distinte in tre categorie;
1. Di prodotto (un prodotto innovativo o con miglioramenti nelle prestazioni);
2. Di processo (un nuovo metodo di produzione);
3. Di riorganizzazione (una semplice razionalizzazione della struttura organizzativa).

Combinando le innovazioni di prodotto e processo nella strategia d’impresa, è stato creato, ad opera di
Abernathy e Utterback un modello che individua l’andamento e gli effetti nel tempo del processo
produttivo (Fig. VI.9 e spiegazione)

6.3.1 – Il ruolo della funzione di Ricerca&Sviluppo


Viene definita come l’attività finalizzata alla creazione della conoscenza. Ciò comporta per l’impresa
l’esigenza di inserire al proprio interno una funzione di ricerca dell’innovazione, al fine di controllare
organicamente la variabile tecnologica.
Occorre distinguere le potenziali fonti d’innovazione: il mercato o la ricerca.
Nel caso di innovazioni spinte dal mercato, si parla di tecnologia demand pulled ossia determinata
dall’evoluzione dei bisogni della società che impongono all’impresa modificazioni adattive.
Nel caso di innovazioni spinte da autonome attività di ricerca, si parla invece di innovazioni technology
pushed cioè la produzione di nuove soluzioni che stimolino la nascita di nuove necessità.
6.4 – La gestione della qualità
La qualità nella dimensione d’impresa, ha un significato prettamente manageriale e relativo ai prodotti, ai
processi e a tutte quelle attività che concorrono alla produzione di un bene o di un servizio per il mercato.
Se il concetto di qualità ha trovato una propria definizione a partire dagli anni ’50, la sua gestione ha subito
delle evoluzioni nel tempo. Possiamo ricostruire 5 fasi:
1. La qualità ha rilievo nel processo di controllo delle lavorazioni e del prodotto finale;
2. Qualità del prodotto: il controllo della qualità viene sistemizzato secondo procedure di campionamento e
collaudo;
3. Qualità del processo: viene riconosciuta l’importanza di una gestione che investa tutto il processo
produttivo in una logica di prevenzione dei difetti rispetto al controllo ex post.
4. Qualità totale: si ottiene attraverso il monitoraggio di tutte le attività comprese nella catena del valore.
5. Qualità Globale o Total Quality Management: la gestione è di tipo integrato e presuppone il
coinvolgimento di tutte le aree funzionali.

Possiamo individuare i costi connessi alla gestione della qualità in due tipologie:
1. Costi connessi con il controllo di qualità (costo di rilevazione dei difetti, costo di prevenzione dei difetti);
2. Costi connessi alla mancanza di un sistema di qualità (costo del pezzo difettoso in relazione alla sua
eliminazione, costo del pezzo difettoso in termini di delusione delle aspettative del cliente).

p. 209 fig. VI.10 approccio tradizionale e approccio giapponese

6.5 – La logistica
Nell’analisi della catena di valore di Porter, tra le attività caratteristiche del margine d’impresa, troviamo la
funzione logistica che l’autore suddivide in: logistica in entrata e in uscita.
Con l’espressione logistica si intende “l’attività di organizzazione ed attuazione del flusso di materiali e di
prodotti dai luoghi di origine a quelli di utilizzazione. Tale funzione, raggruppa tutte le operazioni di
movimentazione dei materiali, dal loro ingresso in fabbrica fino alla distribuzione sul mercato.”
La logistica in entrata fa riferimento al flusso degli approvvigionamenti e dei contatti con i fornitori, alla
tenuta degli ordini e delle consegne, alla razionalizzazione dei tempi e delle condizioni di trasporto.
La fase d’uscita ha il compito di rendere agevoli ed economici i percorsi e i tempi di distribuzione.
Rientra nella funzione logistica la gestione dei magazzini.
La nozione di logistica è piuttosto recente e risale agli anni ’60. Nel corso del tempo ha subito un’intensa
evoluzione che ha condotto ad una visione secondo la quale l’attività logistica va sfruttata come leva per il
conseguimento dell’eccellenza aziendale. Essa consente all’impresa di perseguire la massimizzazione del
valore dei prodotti e dei materiali, mettendoli a disposizione lì dove sono richiesti, al momento giusto e ad
un costo ragionevole.

La logistica commerciale, consistente nella gestione del flusso fisico di prodotti dal fornitore al punto
vendita dell’acquirente, configura il supply chain management.
Approccio funzionale -> approccio integrato -> approccio strategico ->supply chain management.

Oggi è possibile parlare della funzione logistica in maniera unica ed integrata: si è passati da una logica di
stock ad una di flusso (carattere dell’orizzontalità).

Capitolo 7.
7.1.1 – Definizione di marketing proposta dall’American Marketing Association
“Il marketing è il processo di pianificazione ed esecuzione delle attività di ideazione, attribuzione di prezzo,
promozione e distribuzione di idee, prodotti e servizi, allo scopo di generare scambi che soddisfino gli
obiettivi di individui ed organizzazioni.”

I tre aspetti fondamentali sono:


1. L’oggetto. La definizione evidenzia come il concetto di mkt possa essere applicato a idee, prodotti e
servizi. Di solito si associa il marketing alla vendita di prodotti o beni materiali ma esso può trovare
applicazione anche nell’ambito di promozione di idee (leader partiti politici). Inoltre è un’attività
estremamente importante anche nell’ambito dei servizi.
2. L’obiettivo. Dalla definizione emerge che il fine del mkt è quello di sviluppare scambi soddisfacenti,
ovvero quelli che determinano un soddisfacimento reciproco delle parti coinvolte.
3. Il come. “Gli scambi che soddisfano i bisogni vengono realizzati attraverso l’individuazione di bisogni non
soddisfatti, la progettazione di prodotti e servizi in grado di soddisfare questi bisogni, la definizione di un
prezzo e di un’offerta ottimale, la comunicazione dei termini dello scambio e infine facendo giungere
l’offerta ai consumatori nei tempi e nei luoghi in cui essi manifestano il bisogno (distribuzione).”

7.2 – Percorso storico-evolutivo tracciato dal marketing alla luce degli orientamenti
Il mkt si configura come una vera e propria filosofia di gestione che pone il cliente al centro delle scelte
aziendali e volta a trovare il miglior equilibrio tra domanda e offerta. Questa impostazione concettuale
viene definita marketing concept cui si accompagna il marketing management, ovvero principi,
metodologie e tecniche sviluppate per dare attuazione al concept.

Al fine di comprendere il ruolo attuale rivestito dal mkt, può risultare utile ripercorrere brevemente l’iter
storico-evolutivo tracciato dallo stesso, che riflette le differenti modalità adottate dalle imprese per gestire
i propri rapporti con il mercato, definite orientamenti.

Orientamento alla produzione


E’ una modalità di comportamento dell’impresa nei confronti del mercato nei periodi storici in cui il
mercato era potenzialmente importante ma in cui sussisteva una scarsità di offerta, essendo le capacità di
produzioni insufficienti per soddisfare i bisogni del mercato.
La domanda, quindi, era quantitativamente superiore all’offerta e aveva bisogni omogenei.
In un simile contesto economico, le imprese trovano conveniente adottare una prospettiva orientata
all’interno, che incentra l’attenzione sulle problematiche attinenti al ciclo di produzione dei beni per i quali
la successiva vendita costituisce un’attività automatica. Il marketing management non ha ragione di
esistere se la domanda non costituisce un problema. La pratica del mkt in tali condizioni non può che
assumere un ruolo limitato e passivo riducendosi all’organizzazione dello smercio dei prodotti fabbricati.

Orientamento alla vendita


E’ stato adottato nel corso degli anni ’50 da parte delle imprese produttrici di beni di consumo, quando la
domanda era in forte aumento e le capacità di produzione erano in grado di assecondarla.
caratteristiche dell’ambiente dell’epoca: mercato in espansione, prodotti poco differenziati e consumatori
meno esperti.
Inoltre parte dal presupposto che i consumatori lasciati liberi di decidere non acquisteranno prodotti in
misura adeguata. L’impresa deve quindi realizzare un’azione di promozione e di vendita aggressiva in modo
da influenzare gli acquirenti attuali e potenziali. (piuttosto che sforzarsi di capire le esigenze del mercato).
Si investono perciò risorse sull’attività di “spinta” dei prodotti sul mercato.
Orientamento al mercato: orientamento al marketing ed orientamento al business
L’orientamento al mkt è la modalità di gestione dei rapporti con il mercato adottato da quelle imprese che
ritengono che, per il perseguimento dei propri obiettivi, occorre accertare la “vendibilità” dei prodotti da
realizzare. Occorrerà prima scoprire quali siano i bisogni ed i desideri del mercato, per poi progettare ed
implementare un’offerta in grado di soddisfarli.
E’ un orientamento diffuso in ambienti complessi e turbolenti, dove l’intensità concorrenziale raggiunge i
più alti livelli.
l’offerta dell’impresa viene modellata sulle esigenze della domanda. L’adozione di tale orientamento
porterà le imprese ad indirizzare i propri sforzi sul cliente, cercando di soddisfare i suoi bisogni, le sue
aspettative e di realizzare, tramite la sua fidelizzazione, i ritorni reddituali voluti. Nella sua versione più
evoluta l’orientamento al mercato assume la configurazione di orientamento al business (considerare
un’area sempre più ampia).

7.3 – Il marketing come processo


L’intera attività di mkt viene ad assumere la configurazione di un vero e proprio processo manageriale che
si articola in una sequenza articolata di attività che vedono nel cliente il loro fulcro. Si tratta di un processo
che origina dal mercato, dal quale vengono esaminati i bisogni ed i comportamenti, per poi ritornare al
mercato, dopo che il prodotto è stato concepito, realizzato in produzione e deve essere gestito nel mercato
stesso.
Attraverso questo circuito (esterno-interno-esterno) l’impresa, viene ad adattare la propria offerta alle
caratteristiche della domanda.
Il mkt diventa un’attività pianificata: i vari step in cui si articola il processo manageriale di mkt costituiscono
parte integrante del cosiddetto piano di mkt, documento nel quale trova formalizzazione l’intera attività di
mkt.

Ciascuna funzione di marketing fornisce input in termini di informazioni e proposte (fase 1) al servizio di
pianificazione strategica il quale procede a effettuare un’analisi e una valutazione (fase 2). Il servizio di
pianificazione strategica stabilisce quindi le finalità generali da assegnare alle singole unità (fase 3). La
funzione di marketing formula i piani di marketing (fase 4) procedendo poi alla loro realizzazione (fase 5). I
risultati sono valutati dal servizio di pianificazione strategica (fase 6) e il processo riprende il suo
svolgimento da capo.

(vedi p. 225 Fig. VII.1)

Il piano di marketing è il documento formale che recepisce le scelte e i programmi che scaturiscono dalle
attività a monte e formalizza i contenuti del processo di marketing management ordinando la sequenza
delle attività di mercato. Il marketing management consiste nell’analizzare le opportunità di mercato,
selezionare i mercati obiettivo, sviluppare le strategie di marketing. Le attività principali di un ideale
processo di mkt, che trovano collocazione formale nel piano, sono cinque:

analisi delle opportunità di mercato: Marketing strategico: ANALISI


analisi ambientale
Ricerca e selezione dei mercati obiettivo: Marketing strategico: ANALISI
analisi di business (macro e micro segmentazione –
strategie di copertura del mercato)
Sviluppo delle strategie di marketing Marketing strategico: ANALISI
(fissazioni obiettivi e strategie di mkt)
Pianificazione delle azioni di marketing Marketing operativo: AZIONE
(scelta del proprio posizionamento e progettazione del
mkt mix: prodotto, prezzo, distribuzione, comunicazione)
Organizzazione, attuazione e controllo delle azioni di Marketing operativo: AZIONE
marketing

7.4. – Analisi delle fasi in cui si articola il processo manageriale di marketing


7.4.1 – Analisi ambientale
La lettura del contesto ambientale esterno effettuata dal marketing management dovrà essere finalizzata
alla determinazione del grado di attrattività del mercato studiato. Per attrattività si intendono le
opportunità/minacce dovute a fattori non controllabili dall’impresa.
Poiché i cambiamenti verificabili in questi fattori possono influire sulla posizione dell’impresa e sulla
realizzazione dei suoi obiettivi, essa dovrà cercare di anticiparli attraverso un sistema di sorveglianza e di
monitoraggio dell’ambiente.
Per quel che riguarda lo studio del contesto ambientale interno, vengono analizzati i punti di
forza/debolezza dell’azienda. Esse vengono valutate al presente. Mentre le variabili relative all’ambiente
esterno sono opportunità e minacce. Queste invece vengono proiettate al futuro.
Quest’analisi viene fatta mediante l’analisi SWOT.

7.4.2 – Ricerca e selezione dei mercati obiettivo


L’analisi ambientale dovrebbe fornire all’operatore manageriale di mkt le coordinate informative per
svolgere al meglio tutte le attività successive. A questo punto lo step successivo per l’impresa è identificare
il mercato obiettivo (o mercato target).
Per determinare il mercato obiettivo, l’analisi del mercato viene suddivisa in due momenti: una iniziale
macro-segmentazione, che mira ad identificare i confini in senso ampio dello spazio di offerta del prodotto
tra tutti quelli alla portata dell’impresa e una micro-segmentazione che perviene a definire i cluster (o
segmenti) di individui (potenziali clienti) aventi caratteristiche omogenee. Individuati i segmenti, l’impresa
selezionerà il proprio mercato target.

Macro-segmentazione: individuazione del business


Definire il mercato di riferimento è un compito assai impegnativo per il management. L’orientamento al
marketing vuole che il mercato di riferimento sia correttamente definito dal punto di vista del cliente e non
del produttore. Lo schema che meglio si presta a definire il business ci viene proposto da Abell.
Secondo l’autore un mercato di riferimento è definito dalla considerazione di tre dimensioni:
1. I gruppi di clienti (chi occorrerà soddisfare?)
2. I bisogni da soddisfare
3. Le tecnologie per soddisfare i bisogni

L’area prescelta è data dall’intersezione delle tre coordinate.

Micro-segmentazione (cioè l’analisi delle diversità caratterizzanti il mercato di riferimento)


I vari spazi di mercato (o macro-segmenti) individuati risultano popolati da acquirenti che differiscono tra
loro sotto molteplici aspetti: ogni elemento di diversità può rappresentare una variabile da utilizzare,
singolarmente o in combinazione con le altre, per scomporre/segmentare ulteriormente il mercato.
La micro-segmentazione si propone di individuare gruppi di clienti che condividono gusti, preferenze,
bisogni, atteggiamenti e che potranno essere soddisfatti da una medesima offerta.

Targeting e definizione del proprio mercato target


Dopo aver individuato i diversi segmenti, l’impresa deve procedere ad una valutazione degli stessi per poi
decidere quali e quanti servire, ossia quale sarà il suo mercato target.
In genere la valutazione è condotta dall’azienda concentrando l’attenzione su tre fattori: la dimensione ed il
tasso di sviluppo del segmento, l’attrattività del segmento e gli obiettivi e le risorse dell’azienda.
La valutazione dei segmenti in cui è stato scomposto il mercato porterà l’impresa a definire la strategia di
copertura da adottare, ossia il numero di segmenti a cui rivolgersi.
L’impresa può scegliere 3 diverse strategie di copertura del mercato: mkt indifferenziato, mkt differenziato
e mkt concentrato.

Marketing indifferenziato -> quando l’impresa decide di presentare su tutto il mercato una sola offerta
ignorando le eventuali differenze rilevate tra i vari segmenti. L’impresa si concentrerà sui punti in comune
nei bisogni dei clienti, tralasciandone le differenze. È una strategia adottata in condizioni di monopolio o
quando la domanda è particolarmente omogenea o nel caso in cui esistano barriere all’ingesso scoraggianti.
Il principale vantaggio è individuabile nelle grandi economie di costo.
Lo svantaggio è individuabile nella necessità di mantenere una posizione di leadership in grado di assorbire
senza danni eventuali tensioni sui prezzi.

Marketing differenziato -> quando l’impresa decide di operare in diversi segmenti de mercato ma con
un’offerta studiata appositamente per ognuno di essi. L’impresa così spera di aumentare le vendite e
rafforzare la propria posizione nei diversi segmenti. Una simile strategia, se da un lato comporta la legittima
aspettativa di raggiungere una forte quota di mercato all’interno di ciascun segmento, dall’altro implica
maggiori costi a causa dell’offerta diversificata e dato che l’impresa non gode dei benefici delle economie di
scala. Di solito si usa questa strategia quando aumentano i concorrenti e occorre differenziarsi.

Marketing concentrato -> quando l’impresa concentra tutti gli sforzi di mkt su un unico segmento,
puntando tutto sulla specializzazione. L’impresa potrebbe conseguire una rilevante posizione nel segmento
prescelto.
Vantaggi: può conseguire notevoli economie di scala
Rischi: il segmento può dissolversi da un momento all’altro oppure, nel mercato, può entrare un altro
concorrente.

7.4.3 – Sviluppo delle strategie di marketing: scelta della propria linea strategica
A questo punto l’impresa dovrà definire quella che sarà la propria volontà strategica, la quale si espliciterà
nella formulazione degli obiettivi di marketing.
Gli obiettivi di marketing devono risultare coerenti con gli obiettivi aziendali, vengono solitamente espressi
o in termini di vendite o in riferimento ai clienti oppure in termini di profitto.
Per risultare ben formulati è necessario che rispettino i seguenti requisiti:
- siano specifici;
-siano misurabili (devono essere espressi ricorrendo all’utilizzo di parametri quantitativi)
- siano conosciuti, conoscibili e stimolanti.

Definiti gli obiettivi, l’azienda deve stabilire come raggiungerli: deve definire la propria strategia.
Con la scelta della strategia, si conclude la parte del marketing strategico per dare avvio a quella di
pianificazione.

(Vedi pag. 239 Fig. VII.5)

7.4.4.1 – Posizionamento
è lo studio del mercato,condotto dal lato dell’offerta, rivolto ad individuare gli spazi per creare ulteriori
differenziazioni rispetto alle offerte dei concorrenti, al fine di soddisfare meglio le esigenze della domanda
rispetto ai competitors. Consiste nella realizzazione e nella costruzione di una “geografia dell’offerta”
collocando il proprio prodotto in una mappa che il consumatore forma all’interno della propria mente.
In questo modo viene identificato lo “spazio” che il prodotto o la marca occupa in un dato mercato nella
mente del consumatore, nei confronti degli spazi occupati dagli altri prodotti che sono percepiti in quel
“luogo” da un definito gruppo di consumatori e dal suo prodotto ideale.

7.4.2 – Marketing Mix: le politiche di prodotto, di prezzo, di distribuzione e di comunicazione


Marketing Mix: prodotto, prezzo, distribuzione e comunicazione.

La politica di prodotto
Il prodotto può essere considerato come “un insieme (o paniere) di attributi tangibili ed intangibili che
caratterizzano l’offerta di un venditore ad un mercato obiettivo, il cui combinarsi fornisce una seri di
benefici all’utilizzatore (o consumatore)”.
Gli attributi tangibili consistono nelle caratteristiche fisiche (dimensione, peso, forma ecc.).
Gli attributi intangibili attengono alle caratteristiche immateriali.
Entrambi sono strettamente legati fra loro e si influenzano reciprocamente, dando origine al concetto di
prodotto.
I principali attributi che compongono i prodotti sono: funzioni del prodotto, qualità e valore del prodotto,
dimensione, peso, ingombro, colore e design, packaging, marca, garanzia e servizi.
Tra le componenti, la marca, attributo intangibile per eccellenza, ha assunto un ruolo rilevante sia per il
consumatore che per il produttore, diventando una risorsa strategica nei beni di largo consumo.

Difficilmente oggi le imprese realizzano e vendono un solo prodotto. Per questo parliamo di portafoglio
prodotti (o gamma di prodotti o mix prodotti) e linee di prodotti.
Il portafoglio prodotti è costituito dall’insieme dei prodotti che l’azienda colloca sul mercato.
Esso può comporsi di diverse linee di prodotti, cioè diversi gruppi di prodotti aventi determinate
caratteristiche comuni.
Il portafoglio prodotti è definito da 3 dimensioni primarie:
- ampiezza: numero di linee di prodotto gestite dall’azienda
- profondità: numero medio di prodotti per ogni linea
- consistenza: somiglianza fra le varie linee di prodotto

Ciclo di vita del prodotto


Ciascun prodotto subisce il fenomeno dell’invecchiamento, deve essere modificato, aggiornato, reso idoneo
ad incontrare le tendenze evolutive della domanda. Ciascun prodotto ha, pertanto, un suo ciclo di vita che
si articola in quattro fasi:
1. Introduzione: in cui il prodotto inizia ad affermarsi con una crescita piuttosto lenta delle vendite;
2. Sviluppo: in cui l’espansione delle vendite ha luogo ad un ritmo molto rapido, a seguito dell’affermazione
del prodotto nel mercato;
3. Maturità: in cui le vendite continuano a svilupparsi, ma ad un tasso meno elevato;
4. Declino: in cui il volume delle vendite comincia a ridursi più o meno rapidamente per l’obsolescenza del
prodotto, per l’immissione di un prodotto sostitutivo o per la saturazione della domanda.

In generale la curva del ciclo di vita viene rappresentata da una curva ad esse (curva logistica) inizialmente
crescente fino alla fase di stabilizzazione del prodotto sul mercato, seguita da un tratto più o meno
rapidamente decrescente (fase di declino).
Questa curva assumerà naturalmente un andamento diverso in funzione non solo della natura del prodotto
ma anche delle politiche adottate di volta in volta dell’impresa. Infatti l’ampiezza temporale delle varie fasi
e, quindi, la vita utile del prodotto dipendono dalle particolari condizioni concorrenziali e dalle decisioni
assunte dalla stessa impresa offerente.
Ogni singola fase è contraddistinta da una diversa redditività e da un differente peso assunto dalle politiche
di marketing. Nella fase di introduzione il prodotto, anche se venduto ad un prezzo elevato, è in perdita a
causa degli alti costi distributivi e promozionali da sostenere per il suo inserimento nel mercato; nel periodo
di sviluppo, il rapido incremento del volume delle vendite permette di ottenere margini crescenti; durante il
periodo di maturità il prodotto continua a generare profitti elevati per effetto dell’allargamento del
mercato, ma la situazione competitiva diventa più difficile da gestire a causa di una maggiore tensione
competitiva e a causa della stazionarietà della domanda: il volume delle vendite si stabilizza e cominci ad
avere delle lievi flessioni. Infine nella fase di declino i consumatori manifestano una perdita di interesse per
il prodotto fino all’eliminazione del prodotto dal portafoglio.

Nel periodo di introduzione assume maggiore importanza la qualità, durante lo sviluppo il prezzo, la
distribuzione e la pubblicità, durante la fase di maturità l’arricchimento delle versioni, il prezzo e le
modalità di presentazione del prodotto e nella fase di declino l’attenzione è rivolta alla riduzione del prezzo

La politica di prezzo
Il prezzo è definibile nell’ottica del marketing “l’espressione monetaria del valore”. Dunque la parola chiave
del marketing contemporaneo non è “prezzo” bensì “valore”.
Il prezzo è una grandezza quantitativa, oggettiva e determinabile in maniera certa, indipendente dalle
condizioni soggettive della persona che esprime la valutazione.
Il valore è una grandezza squisitamente soggettiva, è una variabile-risultato che emerge nella mente del
consumatore dalla considerazione di una serie di elementi , funzionali e psicologici. Il valore è la misura
dell’utilità del prodotto per il consumatore.

Secondo il modello teorico di riferimento per la determinazione del prezzo di vendita di un prodotto
l’impresa per riuscire a fissare un prezzo valido, deve considerare 3 fattori: la domanda, l’offerta e
l’ambiente di riferimento.
Le influenze della domanda sulla determinazione del prezzo riguardano la natura del mercato target e la
previsione delle reazioni dei consumatori alla fissazione di un certo livello di prezzo. I principali elementi di
valutazione sono: i fattori demografici, i fattori psicologici e l’elasticità della domanda in rapporto al prezzo.

Sia i fattori demografici che quelli psicologici influenzano l’elasticità della domanda rispetto al prezzo che
indica quanto i consumatori sono sensibili al prezzo e alle sue variazioni e si misura con il rapporto:

e = variazione % della quantità domandata / variazione % del prezzo

le influenze dell’offerta sulla determinazione del prezzo sono individuabili negli obiettivi che il management
intende perseguire, nei costi sostenuti per la realizzazione del prodotto. I costi sono il fattore più usato per
determinare il prezzo del prodotto.

Le influenze ambientali sulla determinazione del prezzo riguardano tutte le variabili che sfuggono all’azione
diretta da parte del management. Le più importanti sono le leggi dello stato che impongono determianti
prezzi e la concorrenza.

La politica di distribuzione
A volte la lontananza tra produttore e consumatori è tale da rendere necessaria la presenza di intermediari
i quali compongono il Canale di distribuzione -> l’insieme di organizzazioni interdipendenti attraverso le
quali il prodotto passa dal produttore all’utilizzatore o consumatore finale in determinate condizioni di
tempo e di spazio.
Gli intermediari forniscono utilità di tempo e di luogo: forniscono utilità di tempo rendendo disponibili i
prodotti o i servizi quando il consumatore li desidera; forniscono utilità di luogo rendendo i prodotti e i
servizi disponibili dove il consumatore li desidera.

Il canale di distribuzione si configura come un sistema a struttura verticale dal produttore al consumatore.
I canali utilizzati per la distribuzione dei beni sono:
- Canale diretto (produttore-consumatore)
- Canale indiretto (produttore-dettagliante-consumatore)
- Canale indiretto a due stadi (produttore-grossista-dettagliante-consumatore)
- Canale indiretto a tre o più stadi (produttore-agente-grossista-dettagliante-consumatore)

Viene definito lungo il canale che prevede anche la figura del grossista/agente, breve il canale che si avvale
unicamente di dettaglianti.

Tipologie di intermediari:
- Grossisti: aziende commerciali che acquistano prodotti assumendone la proprietà, li depositano nei propri
magazzini, gestiscono fisicamente grandi quantità di merci rivendendole a dettaglianti oppure ad altre
imprese.
- Dettaglianti: intermediari commerciali che si occupano essenzialmente della vendita al consumatore
finale
- Agenti: operatore che effettua attività di vendita, di acquisto o che le svolge entrambe ma non acquisisce
la proprietà dei prodotti commercializzati.

La scelta del canale può essere ulteriormente raffinata considerando i seguenti aspetti:
1. La copertura distributiva di mercato desiderata: a tal riguardo è possibile distinguere tra distribuzione
intensiva, selettiva e esclusiva.
Intensiva: il produttore cerca di ottenere il max livello di copertura avvalendosi del maggior numero
possibile di grossisti e dettaglianti;
Selettiva: il produttore si limita ad utilizzare gli intermediari che considera i migliori fra quelli disponibili;
Esclusiva: il produttore conferisce ad un solo distributore il diritto esclusivo di vendere la marca;
2. Il livello di controllo di vendita e di marketing desiderato: maggiore è la lunghezza del canale, minore
sarà il livello di controllo che il produttore esercita sul mercato finale dei beni;
3. I costi di distribuzione e i livelli di vendita: ogni alternativa di canale (diretto/indiretto) produrrà un
differente livello di vendite e costi;
4. La flessibilità del canale: occorre prendere in considerazione le capacità di adattamento del produttore
al cambiamento delle condizioni esterne.

Vi è un’ulteriore distinzione in base al grado di interdipendenza tra i membri del canale: canali di
distribuzione convenzionali (tradizionali) e sistemi verticali di marketing (diffusi negli ultimi anni).
Convenzionali: non denotano alcuna forma di organizzazione, sono costituiti da aziende più o meno
indipendenti l’un l’altra, con un livello di cooperazione quasi inesistente o assai limitato.
Sistemi verticali. Includono tutti quei canali i cui membri sono legati da una forte interdipendenza di varia
natura. Possono essere così classificati: sistemi amministrati, sistemi contrattuali e sistemi integrati, in
relazione al grado di controllo più o meno intenso che vi esercitano alcuni partecipanti.
Trade marketing: attività di marketing rivolta agli intermediari. In quest’ottica, i distributori sono visti non
come semplici intermediari ma come partner o come clienti veri e propri. Si tratta di gestire la propria
offerta avendo come cliente un’altra impresa, il trade.
Tale impostazione dell’attività di marketing viene associata al concetto di push strategy secondo il quale
l’impresa può cercare di raggiungere i propri obiettivi concentrando gli sforzi di comunicazione e di
promozione sugli intermediari in modo da stimolarli ad inserire il prodotto nei loro campionari,
immagazzinarlo in quantità consistenti, garantire lo spazio adeguato a stimolare i consumatori all’acquisto.
Obiettivo: suscitare la collaborazione volontaria dei distributori.

Parallelamente il produttore porta aventi anche il cosiddetto consumer marketing, ossia la gestione
manageriale della propria offerta avendo come cliente il consumatore finale anziché il trade. Questa
impostazione viene associata al concetto di pull strategy e concentra i propri sforzi di comunicazione e
promozione sulla domanda finale cercando di limitare l’importanza degli intermediari.
L’obiettivo è quello di creare nella domanda finale atteggiamenti positivi nei confronti della marca, facendo
in modo che l’acquirente richieda quella marca in particolare al distributore che sarà costretto quindi a
inserirla nell’assortimento.

La politica di comunicazione
Per vendere non occorre solo fornire ai clienti un prodotto a un prezzo interessante tramite dei distributori
ma bisogna anche far conoscere l’offerta, metterne in evidenza le qualità distintive agli occhi del segmento
target e stimolare la domanda con azioni promozionali e di vendita appropriate.
Una strategia di mkt per essere efficace deve sviluppare un programma di comunicazione, far conoscere i
prodotti/servizi ai potenziali clienti e persuaderli ad acquistarli.

La comunicazione di marketing è definita come il complesso di azioni svolte dall’impresa per indurre o
modificare i modelli di comportamento di consumatori, intermediari, finanziatori, allo scopo di ricavare un
vantaggio competitivo. L’ obiettivo non è unicamente aumentare le vendite, ma creare un’immagine. Per
perseguire i propri obiettivi l’azienda si avvale di una serie di strumenti della comunicazione definiti
“communication mix” che comprendono: pubblicità, promozione delle vendite, forza di vendita, le
relazioni pubbliche ed il marketing diretto.

Capitolo 8

8.1 - Sistema impresa e sistema finanziario


Il sistema finanziario ha diversi compiti, fra cui:
- La regolazione degli scambi;
- l’accumulazione del risparmio e il finanziamento degli investimenti mediante la veicolazione di risorse
finanziarie dalle unità in surplus alle unità in deficit, sulla base del ponte rischio-rendimento;
- la gestione dei rischi.

Il sistema finanziario è contraddistinto da un organo di governo, articolato e complesso, formato da un


insieme di istituzioni ed organizzazioni operanti a vari livelli.

A livello internazionale l’attività finanziaria è disciplinata da organismi quali: forum per la stabilità
finanziaria, comitato di basilea per le banche centrali, organizzazione mondiale delle autorità di vigilanza sui
mercati finanziari, banca mondiale, fondo monetario internazionale.
A livello comunitario: banca centrale europea, sistema europeo delle banche centrali, comitato europeo dei
supervisori delle compagnie assicurative e dei fondi pensione.

A livello nazionale: banca d’italia, istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo,
commissione nazionale per le società e la borsa, autorità garante per la concorrenza e il mercato.

Per ciò che concerne la struttura operativa del sistema finanziario, essa può essere suddivisa in due aree:
- l’area dell’intermediazione finanziaria tradizionale in cui l’azione di un operatore finanziario specializzato
si frappone tra le unità in surplus e quelle in deficit regolando il trasferimento delle risorse (c.d.
trasferimento indiretto)
- l’area dei mercati finanziari regolamentati e non in cui i soggetti si scambiano tra di loro le risorse a
seguito dell’incontro dell’offerta e della domanda delle stesse (c.d. trasferimento diretto)

Gli intermediari finanziari svolgono numerose attività , fra cui le principali sono:
- la produzione di strumenti finanziari;
- la negoziazione di strumenti finanziari per conto proprio o per conto terzi;
- l’offerta di servizi di consulenza.

Essi possono essere classificati in diverse categorie, quali:


- gli intermediari creditizi che svolgono una funzione creditizia dal lato dell’attivo e dal lato del passivo c.d.
nominalistico;
- gli intermediari mobiliari;
- gli investitori istituzionali;
- le compagnie di assicurazione.

Le entità con cui il sistema finanziario si rapporta, per realizzare il proprio obiettivo di trasferimento, sono:
- i risparmiatori o unità in surplus (famiglie);
- i prenditori di fondi o unità in deficit (imprese e settore pubblico) che necessitano di finanziamenti per
realizzare i propri obiettivi.

L’attività di intermediazione finanziaria è definita come trasferimento alle unità in deficit (le imprese) di
risorse finanziarie rivenienti dall’eccesso di liquidità detenuta dalle unità in surplus (le famiglie) e si realizza
mediante l’utilizzo degli strumenti finanziari, ossia rapporti di debito e credito tra le parti in causa,
disciplinati da contratti che definiscono gli impegni e i diritti reciproci.

8.2 – I diversi modelli di sistemi finanziari


L’evoluzione storica dei vari capitalismi industriali ha generato sistemi finanziari che realizzano gli stessi
obiettivi utilizzando differenti “strutture operative”. Essi sono i sistemi finanziari orientati agli intermediari
(bank based, propriamente il modello europeo continentale) ed i sistemi finanziari orientati ai mercati
(market based, propriamente il modello anglosassone, adottato anche da Inghilterra e USA).
Nei sistemi bank based, il tessuto imprenditoriale è contraddistinto da imprese la cui proprietà è molto
concentrata (con questo termine ci si riferisce al numero limitato di proprietari delle imprese), il numero
delle imprese quotate in borsa è modesto e le relazioni fra banche ed imprese si dispiegano in un’ottica di
lungo periodo. A questo modello è ascrivibile una maggiore attenzione nell’erogare finanziamenti per i
progetti di investimento. È un sistema solido e disposto a sostenere maggiormente le imprese nei momenti
di crisi.
La fonte di finanziamento principale a medio e lungo termine per gli investimenti dell’impresa è la banca.
Nei sistemi market based, al contrario, la proprietà delle imprese è polverizzata in un azionariato diffuso, il
numero delle imprese quotate in borsa è rilevante e le relazioni fra banche ed imprese si concludono nel
breve periodo. È un modello più funzionale a consentire la raccolta di mezzi finanziari delle imprese ma è
più soggetto a shock e irregolarità.

8.3 – Il binomio rischio-rendimento


Il trasferimento delle risorse finanziarie avviene tra le unità in surplus e quelle in deficit avviene tramite
l’anello di congiunzione “rischio-rendimento atteso”.
Ogni rapporto fra il sistema d’impresa e il sistema finanziario viene ricondotto all’analisi di queste due
grandezze fondamentali , ossia il rischio associato all’operazione e il rendimento atteso dalla stessa.
Nell’ottica dell’investitore, egli chiederà rendimenti maggiori al crescere del rischio, dall’altro l’impresa
effettuerà investimenti rischiosi laddove si aspetti ritorni elevati.
Nell’ottica del finanziatore, la relazione rischio-rendimento coincide con una curva di indifferenza a cui
sono associati, per ogni livello di rischio, un determinato rendimento atteso.
Nell’ottica dell’impresa, l’organo di governo deve considerare che il rapporto con il sistema finanziario si
baserà su tali equilibri, quindi potranno essere proposti anche progetti con elevati gradi di rischio, purché i
rendimenti attesi, siano adeguati (vedi pag 279 fig. VIII.1)

La pendenza della curva rischio-rendimento è crescente perché per l’investitore il maggior rendimento
richiesto è più che proporzionale rispetto al maggior rischio accettabile. L’asintoto verticale sta a significare
che ci sono rischi insuperabili ai quali non può essere associato un rendimento valido. Quindi la relazione
tra sistema finanziario e sistema impresa è governata fino a un certo limite oltre il quale non può più essere
rappresentata dal binomio rischio-rendimento.

8.4 – La funzione finanziaria


Il ciclo di vita di un’impresa inizia con un apporto di mezzi finanziari impiegati per il raggiungimento di un
fine e termina mediante un “ritorno” finanziario sull’investimento effettuato che consente la prosecuzione
della vita dell’impresa.

8.4.1 – Evoluzione storica della funzione finanziaria


La prima fase di sviluppo industriale, caratterizzata dall’impiego di macchine, lavoro e materiali
standardizzati presentava un rischio industriale limitato.
Il ruolo della funzione finanziaria riguardava, per lo più, il finanziamento dell’industria, inteso quale
anticipazione del valore, ricavabile dalle attività patrimoniali.

Il fattore di discontinuità si presenta nella II fase di industrializzazione, quella della produzione di massa. Le
imprese si configurano come grandi sistemi organizzati e si trovano nella necessità di crescere
dimensionalmente aumentano il loro fabbisogno finanziario, ed anche il rischio connesso alla loro attività.
Sotto il profilo finanziario risultava necessario il ricorso alla finanza esterna rispetto al capitale
dell’imprenditore e all’autofinanziamento.

Il II fattore di discontinuità è rappresentato dalla situazione economica critica degli anni (’73-’85) dovuto ad
un innalzamento del costo delle materie prime e del fattore lavoro oltre che alla caduta dei tassi di crescita
delle economie occidentali.

Il III fattore di discontinuità è dato:


- dalla globalizzazione dell’economia e l’integrazione dei mercati;
- l’innovazione tecnologica e rapida obsolescenza tecnica dei prodotti;
- l’intensificazione della concorrenza affiancata ad una caducità dei vantaggi competitivi;
- la necessità di sviluppo di competenze utili a prevedere gli scenari futuri;
- la massimizzazione del valore azionario per l’azionista;
- la diffusione della cultura del governo del rischio.

8.4.2 – La finanza subordinata (1920-1973)


In questi anni la finanza in azienda occupa un ruolo marginale con compiti molto limitati.
Gli obiettivi che si propone hanno a che fare con la struttura finanziaria, in particolare sono volti
all’ottimizzazione nel reperimento delle risorse finanziarie.
L’attenzione è focalizzata sul passivo dello stato patrimoniale, le analisi svolte dai manager finanziari
riguardano l’individuazione della convenienza fra le limitate scelte possibili.

8.4.3 – La finanza integrata (1973-1975)


In azienda aumentano i costi del fattore lavoro, salgono i prezzi delle materie prime, di conseguenza i
redditi operativi diventano più incerti e variabili, l’inflazione aumenta e aumentano gli oneri e i debiti
finanziari mentre si riducono i profitti e l’autofinanziamento.
L’approccio finanziario deve automaticamente adattarsi ai nuovi ambiti allineandosi alla maggiore
dinamicità generale. Si passa dal modello della finanza fondata sull’indebitamento allo sviluppo
finanziariamente sostenibile.
Gli obiettivi della finanza possono essere così riassunti in:
- ottimizzazione non solo del reperimento ma anche dell’impiego delle risorse finanziarie;
- garanzia di solidità patrimoniale: occorre garantire di far fronte alle obbligazioni assunte.

A questo obiettivi se ne affiancano di altri:


- la razionalizzazione del circolante;
- la gestione del processo di preventivazione finanziaria;
- miglioramento del rapporto tra finanziamenti a breve e finanziamenti consolidati.

È in questo momento che inizia il periodo di “finanziarizzazione” delle imprese industriali. La logica
finanziaria inizia ad imporsi quale logica generale delle scelte d’impresa. Tale periodo è denominato fase
della finanza integrata.

8.4.4 – La finanza strategica


I fattori di contesto cambiano ancora: diviene centrale la potenzialità di sviluppo dell’impresa, la
propensione alla crescita nel lungo periodo e l’aumento di valore per l’azionista.
L’integrazione dei mercati e la globalizzazione importano nuovi rapporti collaborativi, dalla semplice
alleanza alle operazioni di fusione ed acquisizione. La finanza si integra con la strategia. Si passa dal modello
dello sviluppo finanziariamente sostenibile al modello dello sviluppo centrato sulla finanza e sulla creazione
di valore (di profitti).
I nuovi obiettivi riguardano:
- mantenere un equilibrio coerente con lo sviluppo strategico;
- la gestione del rischio complessivo;
- la realizzazione di operazioni ordinarie e straordinarie destinate alla creazione di valore.

Questa fase prende il nome di finanza strategica.

8.5 – Il nuovo ruolo della funzione finanziaria


L’evoluzione dei rapporti tra impresa e sistema finanziario ha comportato modificazioni nel modo di gestire
ed organizzare la funzione finanziaria. Il cambiamento dei rapporti incide sugli altri aspetti aziendali:
vengono ridefiniti gli obiettivi, le strategie e il livello organizzativo. La finanza assume in modo sempre più
decisivo la funzione di supporto alle decisioni di investimento ed estende le sue relazioni con le altre
funzioni aziendali.

8.6 – Il concetto di fabbisogno finanziario


Il fabbisogno finanziario lordo di un’impresa è definito, per dimensione e per durata, dall’ammontare delle
risorse monetarie ad utilizzo immediato e dalle modalità negoziali di trasformazione dei risultati in rientri
monetari.
Il problema della “copertura” del fabbisogno finanziario, attiene a quella parte temporanea non soddisfatta
delle risorse monetarie, derivanti dai precedenti risultati di gestione.
La grandezza a cui far riferimento è il c.d. fabbisogno finanziario netto, definito come differenziale fra le
risorse monetarie impiegate negli investimenti in essere e quelle disponibili a seguiti degli investimenti
precedenti.

Il fabbisogno assume dimensione variabile a seconda dell’andamento dei flussi monetari di investimento-
disinvestimento.

Per indagare efficacemente il Fabbisogno, occorre esaminare, in chiave finanziaria, la situazione


patrimoniale (o di stock) mediante l’analisi della Struttura Finanziaria e in un secondo momento la
situazione dinamica dell’impresa (o di flusso) mediante l’analisi della Dinamica Finanziaria.
La struttura finanziaria coglie, in un determinato momento temporale (t=0) la dimensione e la
composizione degli investimenti in corso.
La dinamica finanziaria è riferibile ad un intervallo di tempo (t=0<DF<t=1) intercorrente fra due situazioni di
struttura.
Entrambe le analisi sono finalizzate allo studio:
- della dimensione e composizione strutturale del patrimonio d’impresa
- delle condizioni di equilibrio della gestione
- della modalità di manifestazione dei flussi finanziari

8.7 – Fonti e forme di finanziamento


Le fonti di finanziamento possibili e le risorse finanziarie effettivamente disponibili sono strumenti della
gestione caratteristica e talvolta elementi base della gestione extra-caratteristica.
Le fonti di finanziamento possono essere così classificate:
- in relazione alla natura del finanziamento si distingue in capitale di rischio e capitale di credito;
- a seconda della provenienza, distinguiamo le fonti interne e le fonti esterne.

Le fonti di finanziamento sono rappresentate da :


- capitale proprio, a sua volta classificabile in intero ed esterno a seconda che venga generato
internamente, o meno, al processo produttivo. Il capitale generale all’interno è detto autofinanziamento.
- capitale di terzi.

Distinguiamo ancora tra:


- finanziamento a breve: rimborso entro un anno. Comprende credito commerciale fra aziende, prestiti da
banche commerciali e la “carta commerciale”.
- finanziamento a medio: rimborso in un periodo superiore ad un anno, ma inferiore a cinque. Comprende i
prestiti a scadenza protratta, i contratti di vendita condizionata e il finanziamento mediante leasing.
- finanziamento a lungo termine: rappresentato da titoli a Lungo termine (azioni, obbligazioni ecc.) emessi
e negoziati sui mercati finanziari.
Il capitale proprio può essere distinto in esterno (se conferito dai soci che ne rimangono legittimi
proprietari) e interno (se generato dallo stesso processo di produzione e distribuzione della ricchezza).
All’interno di esso si distinguono fonti con vincolo di capitale (se restano permanentemente proprie) e fonti
con vincolo di credito (giuridicamente appartengono a terzi finanziatori).

Il capitale della SPA, la più importante fra le società di capitali, viene raccolto mediante l’emissione di titoli
chiamati azioni. Le azioni possono essere distinte in varie categorie:
- azioni ordinarie, che attribuiscono agli azionisti diritti amministrativi e patrimoniali;
- azioni privilegiate, che attribuiscono ai loro titolari la distribuzione degli utili e/o il rimborso del capitale al
momento dello scioglimento della società;
- azioni a voto limitato, ripartizione degli utili e rimborso del capitale. Diritto al voto solo nelle assemblee
straordinarie;
- azioni di risparmio, del tutto prive di voto;
- azioni di godimento, riservate ai possessori di azioni già rimborsate. Limitazioni dei diritti amministrativi e
patrimoniali;
- azioni di lavoro, assegnate ai dipendenti ma limitate nei diritti amministrativi e patrimoniali.

Con le azioni ordinarie, privilegiate, a voto limitato e di risparmio si possono raccogliere nuovi mezzi
finanziari, mentre con le azioni di godimento si attua un rimborso di capitale (disinvestimento) e con le
azioni di lavoro si procede a un reinvestimento di profitti già conseguiti.

Autofinanziamento: somma dei fondi generati internamente dall’impresa. È il finanziamento ottenuto


mediante fonti interne del fabbisogno dell’impresa per l’espansione o meno degli investimenti. È chiaro che
si tratta di una componente individuabile solo in un’impresa funzionante; nel caso di impresa allo stato
nascente, l’autofinanziamento è pari a zero.
L’autofinanziamento può essere considerato una fonte a breve.
Le componenti dell’autofinanziamento sono:
- utili conseguiti e non distribuiti;
- eccedenza del capitale -> ovvero ricavi straordinari non dipendenti dalla gestione tipica;
- eccedenza delle quote attribuite ai fondi spesa;
- credito mercantile netto: riguarda “credito e debiti di funzionamento”.

Due sono i flussi finanziari che compongono l’autofinanziamento:


1. Monetario -> la componente monetaria dell’autofinanziamento, il cash flow operazionale, si determina
nel seguente modo: dalla differenza tra i ricavi ottenuti nell’esercizio considerato e crediti di
funzionamento verso i clienti otteniamo il flusso monetario attivo; dalla differenza tra costi sostenuti
nell’esercizio considerato e debiti di funzionamento verso i fornitori e/o verso altri enti, in relazione ai costi
d’esercizio che non sono stati ancora pagati, otteniamo il flusso monetario passivo.
La differenza algebrica tra i due flussi determina il flusso di cassa netto operazionale.
2. Finanziario. Questo è costituito da due categorie di flussi:
- interni (crediti di funzionamento verso i clienti, rimanenze di magazzino, risconti attivi ecc.);
- esterni (debiti di funzionamento verso fornitori, risconti passivi, costi futuri presunti ecc.)

Le fonti di finanziamento esterno possono essere distinte in due categorie:


1. Le fonti di finanziamento dirette-> finalizzate all’ottenimento del capitale necessario. Possono essere
ulteriormente distinte in: debiti di finanziamento e in capitale di rischio.
- debiti di finanziamento: sono detti consolidati quando sono atti a coprire fabbisogni finanziari connessi a
investimenti durevoli. Sono detti elastici se, essendo stati acquisiti con un vincolo temporale a breve, sono
atti alla copertura di fabbisogni finanziari correnti.
- il capitale di rischio: è costituito da qualsiasi capitale immesso nell’azienda da soggetti che possono essere
definiti proprietari o comproprietari dell’azienda; si tratta di capitale che permane nella disponibilità
dell’impresa non essendovi possibilità di restituirlo ai soci.

Tra le fonti di finanziamento dirette vi sono i prestiti obbligazionari (ricorrere al risparmio senza passare
per l’intermediazione creditizia). In Italia solo le SPA possono emetterli.

2. le fonti di finanziamento indirette: non sono finalizzate all’ottenimento di prestiti, bensì di forniture.
Si tratta dei cosiddetti debiti di funzionamento.

Tra le fonti esterne di finanziamento vi è anche il leasing (def. “locazione finanziaria”) -> è considerato
come un’alternativa al prestito bancario, più costosa ma più flessibile.
Due tipi di leasing:
-operativo -> noleggio
-finanziario -> qui il finanziatore-locatore non è il costruttore del bene locato, ma un terzo finanziatore che
acquista il bene da locare dal produttore e lo concede, in locazione, all’impresa utilizzatrice (locataria).

8.8 – Il costo del capitale


L’impresa deve affrontare non tanto il problema di scegliere la fonte finanziaria con minore costo e rischio
quanto quello di scegliere una combinazione di fonti che renda minimo il costo medio ponderato dei
finanziamenti o una combinazione che minimizzi il rischio finanziario. Per la determinazione del costo
medio occorre conoscere il costo di ogni singola fonte. A tal proposito possiamo distinguere tra fonti di
finanziamento che hanno un costo indeterminato (come il capitale proprio) e fonti di finanziamento che
hanno un costo determinato.

Le varie fonti possono essere classificate in base al binomio variabilità-determinatezza del costo in:
- fonti a costo determinato e costante;
- fonti a costo determinato e variabile, come le obbligazioni indicizzate;
- fonti a costo indeterminato e variabile, come le azioni ordinarie;
- fonti senza costo apparente, come in fondi interni di autofinanziamento.

Il costo del capitale, dipende anche dalla politica finanziaria e dagli obiettivi dell’impresa, nonché
dall’inflazione o dall’attesa di inflazione.

Formula del costo medio ponderato del capitale:

𝑋 𝑆 𝐷
𝑐𝑐 = = 𝑐𝑐𝑝 [ ] + 𝑐𝑐𝑐 [ ]
𝑉 (𝑆 + 𝐷) (𝑆 + 𝐷)

Dove:
cc= costo medio ponderato del capitale
X= utile annuo dell’impresa al lordo degli interessi sui debiti a medio e lungo termine
S= valore di mercato del capitale proprio o delle azioni
D= valore di mercato dell’indebitamento
S+D=V = valore tot dell’impresa
Ccp= costo medio capitale proprio
Ccc= costo medio capitale di credito
S/S+D = coefficiente di indebitamento dell’impresa
8.9 – La struttura finanziaria
Gli strumenti utili a rappresentare la struttura finanziaria di un’impresa sono numerosi.
Gli indicatori semplici servono per rappresentare le categorie di fonti dalle quali arrivano le fonti finanziarie
e le categorie di impieghi nelle quali l’impresa le ha destinate.
Tra gli indicatori semplici maggiormente utilizzati vi sono:

ATTIVO PATRIMONIALE
- liquidità immediate (denaro ecc.)
- liquidità differite
- rimanenze d’esercizio (scorte, risconti, costi anticipati)
- debiti correnti (debiti per dilazionato acquisto di beni e servizi; debiti per oneri previdenziali, tributari;
debiti per rimborsi di finanziamenti a breve o scadenze a lungo termine; anticipi di clienti e risconti passivi;
debiti consolidati; mezzi propri o capitale di rischio).

L’utilizzazione degli indicatori semplici è utile alla composizione del c.d. Conto Patrimoniale Condensato
che indica il combinarsi degli investimenti in essere con quello delle fonti di provenienza delle risorse
impiegate. (vedi fig. p. 300) con questa rappresentazione si coglie la segmentazione degli impieghi e delle
fonti ed è utile per monitorare il modificarsi della situazione dell’impresa nel tempo.

Financial ratios: attengono al soddisfacimento di obiettivi di conoscenza sull’andamento gestionale


dell’impresa. Si ottengono usando indicatori semplici.

INDICI DELLA POSIZIONE DI LIQUIDITA’

Bisogna guardare il rapporto tra impieghi circolanti e debiti correnti che esprime appunto l’indice di
liquidità.

Indice di liquidità = impieghi correnti/debiti correnti


Capitale circolante netto (CCN) = impeghi circolanti-debiti correnti
Indice di liquidità primario = impieghi liquidi/debiti correnti
Margine di tesoriera = impieghi liquidi-debiti correnti

INDICI DI DURATA
scadenza media dei crediti = (crediti vs clienti * 365)/fatturato annuo a credito
fornisce il periodo medio di riscossione del fatturato concesso a credito.
scadenza media dei debiti = (debiti vs fornitori * 365)/acquisti a credito
fornisce il periodo medio di scadenza dei debiti.
permanenza media delle scorte = (rimanenze * 365)/costo del venduto
indica la permanenza media delle scorte in magazzino.

GLI INDICI DELLA POSIZIONE PATRIMONIALE


Quoziente di indebitamento= Rappresenta il peso dei debiti sul totale del capitale investito.
Indice di indebitamento = mezzi propri/mezzi di terzi
Indice di dipendenza finanziaria= mezzi propri/totale degli impieghi
Indice di copertura dagli impieghi fissi = mezzi propri/impieghi fissi
Margine di struttura= mezzi propri – impieghi fissi
8.10 – Il project finance
Il project financing è “un’operazione di finanziamento di una particolare unità economica nella quale un
finanziatore è soddisfatto di considerare il flusso di cassa e gli utili dell’unità economica in oggetto come la
sorgente di fondi che consentirà il rimborso del prestito e le attività dell’unità economica come garanzia
collaterale del prestito”.

Caratteristica essenziale è che la copertura finanziaria di un progetto di investimento si basa sulla


valutazione dell’equilibrio economico-finanziario del progetto stesso, separato dalle imprese che
vorrebbero realizzarlo. Si nota la differenza con la forma tradizionale del finanziamento d’impresa che
invece ha per oggetto la valutazione dell’equilibrio economico-finanziario dell’impresa e degli effetti su tale
equilibrio.

In un’operazione di project financing vi sono diversi partecipanti:


- i promotori/sponsor: imprese interessate alla gestione commerciale dell’opera;
- la società di progetto (o project company): svolgerà una funzione di coordinamento delle diverse attività;
- le autorità pubbliche: in grado di condizionare in modo rilevante la fattibilità del progetto;
- le banche;
- le istituzioni finanziarie internazionali;
- i costruttori;
- i consulenti;
- le controparti commerciali.

Un’operazione di PF può essere scomposta in 3 fasi:


1. Pianificazione dell’iniziativa: con l’aiuto di un consulente finanziario
2. Realizzazione e collaudo: accordi commerciali e finanziari
3. Avvio e gestione delle opere realizzate: accettazione degli impianti e delle opere realizzate, produzione
dei beni e servizi

I rischi presenti in un PF sono:


- rischi generali o strutturali del progetto
- rischi della fase di pianificazione, costruzione e collaudo
- rischi della fase di operatività

La gestione dei rischi (risk management process) si basa su due strategie:


- copertura tramite contratti di assicurazione
- accollo dei rischi ai vari partecipanti all’operazione

Capitolo 9

9.1 – I differenti approccio al governo strategico dell’impresa


Il governo dell’impresa è inteso come quel complesso di decisioni che l’alta direzione deve assumere per
coordinare gli elementi operativi e raggiungere gli obiettivi stabiliti dal gruppo imprenditoriale.
L’insieme delle scelte prese dall’alta direzione per raggiungere le finalità imprenditoriali, appartiene alla
strategia e alla pianificazione strategica. Esse sono necessarie per il raggiungimento degli scopi dell’impresa
e per la sua sopravvivenza.
La strategia è “un percorso di problem solving in situazioni complesse” e consiste in una “linea di azione più
o meno specificata, intesa a creare un vantaggio nella posizione competitiva rispetto ai concorrenti e, in
generale, rispetto all’intero ambiente in cui opera l’impresa”.

Esistono due diversi approcci che hanno contraddistinto l’evoluzione del pensiero strategico:
- approccio razionalistico: da cui ha origine il pensiero strategico, risale ai primi anni ’70 e pone l’accento
sugli aspetti del contenuto, ossia sulla definizione, da parte dell’impresa, di obiettivi ed attività che le
consentano di essere in “sintonia” con le differenti condizioni ambientali e di mercato -> coincide con
l’impostazione tradizionale ed è legato al ciclo di pianificazione strategica, programmazione e controllo.
Segue un ciclo sequenziale. Stabilità ambientale.
- approccio organizzativo: che intende la strategia come un comportamento o processo continuo,
focalizzato sugli aspetti dinamici di formazione della stessa, scaturenti dal rapporto fra l’Organo di Governo
e la Struttura Operativa -> concentra la sua attenzione sulla dinamica strategica, intesa come risultante
dell’unione tra più momenti logici e non più consequenziali, sintetizzabili nell’ideazione della strategia, la
definizione (momento in cui le idee si trasformano in progetti), l’azione e la sorveglianza (in cui l’Organo di
Governo valuta gli obiettivi conseguiti o gli eventuali scostamenti).

Le sfide provenienti dall’ambiente hanno causato il passaggio da un orientamento deterministico ad una


visione strategica dell’impresa.

9.2 – La pianificazione strategica


L’evoluzione della pianificazione strategica è avvenuta tra gli anni ‘50 e ’80 in contesti di relativa stabilità
ambientale. In tale situazione, il naturale obiettivo delle imprese era rappresentato dallo sviluppo
dimensionale.
Nel corso degli anni il concetto di strategia è stato affrontato da diversi filoni di studio:
1. Design school (Chandler ‘62 e Andrews‘71): gli obiettivi strategici sono individuati in modo chiaro
mediante l’adattamento fra i punti di forza e debolezza con le minacce/opportunità.
2. Planning school (Ansoff ’65). > formalizzazione del processo strategico rispetto la precedente. Si devono
a quest’approccio lo sviluppo di strumenti come i piani, i programmi operativi, i budget, le posizioni
organizzative di staff addette alla formulazione delle strategie delle grandi imprese.
3. Positioningschool (Porter ’80). La strategia deriva dal posizionamento dell’impresa.
4. Entrepreneurialschool (Druker ’86)
5. Cognitive school.

Indipendente dall’approccio adottato, la strategia è composta dai seguenti elementi:


1. Il soggetto decisionale della strategia, dal quale promanano le scelte strategiche;
2. Una finalità del soggetto strategico, la quale diventa missione della strategia;
3. Gli oggetti della strategia, rappresentati dalle rispose, dai mezzi dell’impresa;
4. Un ambito di riferimento, cioè lo spazio nel quale si muovono i soggetti strategici concorrenti e oggetti
competitivi o missioni conflittuali.

9.2.2 – la pianificazione sulla base delle previsioni


iniziano a diffondersi alcuni strumenti per supportare le scelte dei mercati nei quali operare e l’allocazione
delle risorse, tra questi è la Matrice BCG che è stata ideata dal Boston Consulting Group ed è detta anche
matrice sviluppo/quota di mercato. La matrice BCG si costruisce in base a due criteri: il tasso di crescita
del mercato di riferimento che funge da indicatore di attrattività e la quota di mercato relativa al
concorrente più pericoloso, usato come indicatore della competitività dell’impresa. (Vedi Fig. IX.2)
La matrice si basa sul concetto di quota di mercato relativa che confronta la quota di mercato detenuta
dall’impresa con quella del suo concorrente più pericoloso. È suddivisa in 4 quadranti:
- Enigmi (question marks): sono attività dell’impresa collocate in mercati ad alto tasso di espansione, ma
con bassa quota di mercato. Molte attività nella fase iniziale della loro esistenza sono di questo tipo; si
tratta di attività che presentano un elevato fabbisogno finanziario, in quanto l’imprese deve adeguare la
propria capacità produttiva sia ai ritmi di sviluppo del mercato, sia all’obiettivo di incrementare la quota
dello stesso.
- Stelle (star): se un enigma ha successo allora questo viene definito “stella”. Ciò significa che l’impresa ha,
nell’attrattività considerata, una posizione leader in un mercato caratterizzato da un elevato tasso di
sviluppo. Al contrario di quanto si potrebbe credere, queste tendono ad assorbire liquidità, piuttosto che
generarne, per essa l’impresa deve utilizzare ingenti mezzi finanziari per far fronte allo sviluppo del mercato
e per opporsi alle azioni della concorrenza.
- Mucche cassiere (cash cows): queste attività sono generatrici per l’impresa di apprezzabili volumi di
liquidità. L’impresa non deve effettuare investimenti in quanto il tasso di sviluppo del mercato è modesto
ed inoltre, essendo leader, gode di economie di scala e di più elevati margini di profitto.
L’impresa utilizza la liquidità ottenuta per far fronte al proprio fabbisogno e per sostenere le restanti
attività.
- Cani (dogs): si tratta di attività a bassa quota di mercato in contesti caratterizzati da un tasso di sviluppo
contenuto. In genere attività di questo tipo generano profitti ridotti o perdite, anche se talvolta danno
origine a una certa liquidità.

Una volta collocate le proprie attività nella matrice, l’impresa potrà determinare se il proprio portafoglio è
valido o meno.

Valutare la situazione e le prospettive di un’attività solo sulla base di queste due variabili risulta
inadeguato, perché la quota di mercato non esprime la posizione competitiva globale dell’attività e il tasso
di sviluppo della domanda non è l’unico fattore ad esprimere l’attrattività globale di un mercato.

9.2.3 – La pianificazione rivolta all’esterno


Per analizzare l’ambiente esterno, viene effettuato uno studio delle Minacce/Opportunità derivanti
dall’ambiente, coniugato alla definizione dei punti di Forza/Debolezza dell’impresa.
L’obiettivo del processo riguarda la possibilità di prevedere le evoluzioni ambientali per definire in modo
coerente le azioni che l’impresa dovrà intraprendere per rafforzare le eventuali debolezze, per cogliere le
opportunità che gli scenari futuri possono riservarle, per sfuggire alle probabili minacce. Una minaccia
ambientale è una sfida posta da una sfavorevole tendenza dell’ambiente tale da poter determinare, in
assenza di una specifica azione di marketing, l’erosione della posizione dell’impresa.
Ai dirigenti di mkt si dovrebbe chiedere di indicare, nei piani da essi predisposti, i pericoli che minacciano
l’impresa. Questi pericoli vanno classificati secondo la loro gravità e probabilità di manifestarsi (Fig. IX.3)
(analisi dell’ambiente esterno)

Quadrante 1. Le minacce sono particolarmente gravi e hanno notevole capacità di manifestarsi.


L’impresa deve predisporre un piano di emergenza per ciascuna di queste minacce.
Quadrante 2. Le minacce sono di scarsa rilevanza, quindi possono essere ignorate.
Quadrante 3/4. Le minacce non richiedono la predisposizione di piani di emergenza ma devono essere
tenute sotto controllo.

Allo stesso modo i dirigenti di mkt dovrebbero procedere ad identificare le opportunità dell’evoluzione
ambientale. Le opportunità sono classificate in relazione all’attrattività e probabilità di successo. (Fig. IX.4)
Per cogliere le opportunità, occorre effettuare un’analisi periodica dei punti di forza/debolezza. (analisi
dell’ambiente interno)

L’analisi dei fattori interni ed esterni è chiamata SWOT. Strumento utilizzato è la matrice multifattoriale in
cui ogni attività viene classificata secondo due variabili: attrattività del mercato e posizione competitiva.

Dopo aver valutato le varie attività in cui l’impegnata, l’impresa può riscontrare un divario tra il volume
delle vendite previsto e quello che il management assume come obiettivo da conseguire.
Esistono tre modi per colmare il divario:
1. Sviluppo intensivo: Ansoffper l’individuazione delle opportunità di sviluppo intensivo ha sviluppo la
matrice prodotto/mercato (fig. IX.7).
In primis l’impresa prende in esame la possibilità di allargare la propria quota di mercato con i prodotti
attuali (strategia di penetrazione del mercato); in un secondo momento, considera se è possibile
sviluppare nuovi mercati per i prodotti esistenti (strategia di sviluppo di mercato); quindi valuta se è
possibile sviluppare nuovi prodotti per i mercati in cui già opera (strategia di sviluppo del prodotto); infine
l’impresa può sviluppare nuovi prodotti per nuovi mercati (strategia di diversificazione).
2. Sviluppo integrativo: consiste nell’acquisire uno o più fornitori (integrazione a monte); una o più imprese
distributrici (integrazione a valle); una o più imprese concorrenti (integrazione orizzontale).
3. Sviluppo diversificativo:
- diversificazione concetrica: quando l’impresa riceve nuovi prodotti che presenta sinergie
tecnico/produttive e/o di marketing rispetto ai prodotti esistenti, anche se i nuovi prodotti si rivolgono a
nuovi segmenti.
-diversificazione orizzontale: consiste nella ricerca di prodotti da offrire alla clientela tradizionale, sebbene
privi di collegamenti con i prodotti attuali.
- diversificazione conglomerativa: l’impresa riceve nuove attività che non hanno alcun rapporto con le
tecnologie, i prodotti o i mercati abituali.

9.2.4 – La gestione strategica


Gestione strategica: visione del processo strategico composto da due sotto-processi: la formulazione delle
strategie e l’implementazione delle stesse.
Rappresenta il passaggio da un approccio meccanicistico/razionale ad un approccio maggiormente
dinamico/intuitivo dovuto da:
-una crescente diversità interna ed esterna all’impresa -> diversificazione di prodotti, mercati e tecnologie;
-crescente globalizzazione dei mercati e della competizione in quasi tutti i settori industriali.

9.2.4.1 – Significato e ruolo della struttura strategica


Riguardo al significato e ruolo della struttura strategica, possono essere individuati due filoni di pensiero:
1. Un primo filone – riconducibile ai contributi di Hofer, Schhendel e Lorange–articola in più livelli il
processo formale di formulazione della strategia:
- il livello corporate, che si pone al vertice dell’impresa, dove la responsabilità strategica consiste
nell’analisi/composizione del portafoglio delle attività che meglio consenta il raggiungimento degli obiettivi
aziendali e nell’acquisizione/allocazione selettiva delle risorse nei diversi settori di attività;
- il livello “business”, cioè di SBA, in cui viene formulata la strategia relativa.

Hofer e Schendel propongono, per l’individuazione delle SBA, i criteri di omogeneità e indipendenza.
Nell’ambito delle SBA può essere individuato un ulteriore livello di pianificazione strategica: il livello
funzionale. Ogni funzione ha il compito di formulare una strategia compatibile con quella delle altre
funzioni raggruppate sotto lo stesso business.
Lorange, parte dal livello più basso individuando i business elements, unità elementari di pianificazione, cioè
il livello minimo al quale ha senso formulare obiettivi e strategie di adattamento all’ambiente.

Collocabile in questo filone è la posizione di Omahe, il quale definisce l’unità di pianificazione strategica
(SPU), cioè il livello elementare al quale è conveniente formulare una strategia, in termini di omogeneità e
indipendenza rispetto alle dimensioni del “triangolo strategico”: cliente, concorrenza, impresa.
Essendo un’impresa composta da più business rivolti a segmenti diversi, esistono più triangoli strategici
quindi occorre formulare più strategie.
Molto importante è l’individuazione del livello organizzativo in cui collocare la SPU. I livelli sono:
- corporate, con il ruolo di stabilire gli obiettivi globali, promuovere lo sfruttamento di sinergie, ripartire e
risorse strategiche tra i diversi business;
- settore strategico, che raggruppa SBU omogenee. Esso pianifica nel lungo termine (5/10 anni);
- SPU, che comprende rapporti di prodotto-mercato correlati;
- SBU, che ha il compito di realizzare la strategia di breve-medio termine e di sfruttare le sinergie funzionali.

2. un secondo filone, di cui fanno parte Abell, Ansoff e Faccipieri, assegna all’architettura strategica un
significato di vera e propria struttura, con compiti e responsabilità non solo di pianificazione ma anche di
attuazione e controllo della strategia.
Abell individua la SBU come un centro di profitto strategico con le seguenti caratteristiche: autonomia,
proprie risorse funzionali, propri obiettivi di mercato, gruppo ben definito di clienti, propria strategia,
responsabilità finanziaria di profitto.
Esiste una corrispondenza biunivoca tra SBU e SBA quindi l’articolazione organizzativa segue il criterio della
specificità strategica. Questo criterio, nel modello di Abell, si basa sul trinomio cliente, funzione, tecnologia:
- i clienti sono classificabili in basa alla loro diversa omogeneità potenziale di comportamento e omogeneità
di bisogni;
- le funzioni rappresentano i bisogni o gli attributi dei bisogni da soddisfare;
- le tecnologie identificano le modalità con cui i prodotti/servizi svolgono le funzioni.

Ad un livello inferiore a quello di business, Abell individua l’unità di programma che rappresenta l’unità
elementare della struttura strategica, responsabile della formulazione del piano strategico e del budget
annuale.

Faccipieri attribuisce rilevanza alle CSE (componenti strategiche elementari), che rappresentano un livello
intermedio tra quello di business e quello di segmento prodotto mercato: sono date da insiemi di segmenti
prodotto-mercato tra loro correlati.
La SBU è costituita da più CSE che si dividono le risorse funzionali delle SBU.

Per Ansoff l’architettura strategica si sviluppa su due livelli: corporate e SBA/SBU.

Da continuare…

9.3.1 Il ruolo dell’organo di governo


L’Organo di governo è il soggetto delegato all’assunzione delle più rilevanti e complesse decisioni che
indirizzano la gestione aziendale per il raggiungimento dei suoi scopi.
Il fine dell’individuazione dei percorsi strategici, obbliga l’Odg ad un’attività preventiva di ascolto del
contesto operativo.
L’Odg include in sede di definizione delle strategie, i soggetti coinvolti nel processo di creazione del valore.
L’altro interlocutore è la struttura operativa, rappresentata dai sub sistemi che compongono l’impresa. Il
ruolo dell’Odg verso l’interno è volto allo stimolo e al coinvolgimento verso una partecipazione attiva.

9.3.2 – Il processo di definizione delle strategie


Le fasi del processo di definizione della strategia sono:
1. L’ideazione: l’Odg assume informazioni da veri e propri sovra-sistemi col fine di individuare le azioni da
intraprendere. In questa fase il grado di apertura dell’Odg verso l’esterno è massimo.
2. Definizione: in questa fase l’Odg verifica la fattibilità economico-finanziaria del progetto, selezionando le
“vie” percorribili.
3. Azione o attuazione: questa fase è caratterizzata da diversi aspetti che sono funzionali alla realizzazione
dei progetti:
- l’approccio per processi
-l’apprendimento organizzativo
- il coinvolgimento ed il commitment
4. La sorveglianza: per controllo si intende l’attività che riguarda il riscontro tra obiettivi e risultati.

Il valore che l’impresa deve creare mediante l’interpretazione della dinamica strategica è composto da una
dimensione economica e da una relazionale.

CAPITOLO 10

10.1 – Dinamiche di contesto e collaborazione inter-aziendale


La concorrenza, la competitività ambientale esige innovazione nei prodotti e nelle tecniche, nuovi modelli
gestionali. La ricerca fa nascere settori high tech che sono le vie principali di espansione economica,
ridisegnando gli equilibri. In questo scenario la rapidità di reazione dell'impresa diventa essenziale.
Le imprese rispondono con la cooperazione interaziendale (accordi, alleanze, fusioni).
Quindi in questo contesto, la competizione si palesa sempre più come una concorrenza tra progetti, tra
offerte, prima che tra imprese. Queste offerte sono il risultato di logiche di coproduzione e cioè della
collaborazione tra soggetti diversi per la creazione di valore. Quali sono le cause di questo sviluppo
relazionale?
- Cambiamenti strutturali di mercato e della domanda;
- Evoluzione tecnologica;
- Crescita della competizione;
- Intervento dello Stato nell’economia.

I cicli di vita dei prodotti inoltre si riducono cioè questi divengono rapidamente obsoleti, quindi ci si
concentra sull'ampliamento dell'orizzonte geografico.

Cooperando tra soggetti di diverse aree si riducono poi i rischi dell'appartenenza ad un solo mercato e si
sfruttano così mercati altrimenti irraggiungibili (fenomeno del crossingborder).

Strategie di sviluppo interno, strategie di cooperazione, strategie relazionali vanno bilanciate per garantire
la crescita nel medio/lungo periodo.

10.2 – Le relazioni tra imprese


Gli elementi che ci aiutano ad identificare il concetto di relazione sono due:
1. La complementarità
2. La dipendenza reciproca

Nb: “cooperazione” (le imprese in accordo svolgono attività tecnicamente complementari = maggiore
durata) non è sinonimo di “collaborazione” (le imprese in accordo NON svolgono attività tecnicamente
complementari).

Quando due imprese collaborano, il coordinamento passa attraverso la creazione di più legami (non
vengono scambiati solo beni e servizi ma anche conoscenza e informazioni), l'aggiustamento reciproco
(mutuo sforzo di adattamento delle risorse in comune, nella quantità e nella qualità dei beni e servizi
scambiati, nei tempi), la fiducia (non può esserci senza esperienza, in quel caso ci si basa sulla reputazione),
la garanzia di reciprocità (equa suddivisione di rischi e vantaggi).

Le relazioni sono presenti in qualunque processo di mercato (acquirente/venditore per esempio).


Nel caso degli accordi ci sono però limiti di tempo, di oggetto, di spazio per il raggiungimento di obiettivi.
L'assunto di base è che i contraenti da soli non riuscirebbero ad ottenere la stessa efficacia ed efficienza.
Le alleanze rientrano nel concetto di accordi, prevedendo però una finalità competitiva e sono stabili nel
tempo.

10.3 – Gli accordi


L'impresa rete è il risultato di accordi. Una definizione di accordi fra imprese è: “insieme di aziende,
giuridicamente autonome, che attraverso reciproci impegni di cooperazione realizzano consapevolmente
una finalizzata coordinazione produttiva, sfruttando la complementarità tecnica ed economica per
conseguire obiettivi economici congiunti da cui trarre vantaggi individuali.”

10.3.1 – Gli elementi distintivi degli accordi


Gli elementi distintivi degli accordi:
- Esistenza di una pluralità di aziende, ognuna con la propria individualità giuridica (separazione dei
patrimoni, delle responsabilità, relativa indipendenza di gestione);
- Congiunzione almeno parziale delle aziende partner;
- Eventualità di sviluppare rapporti non competitivi (di collaborazione o cooperazione) con possibilità di
vantaggio;
- Presenza di condizioni di reciprocità fra le parti della coalizione tali da infondere fiducia e rafforzare il
rapporto di collaborazione;
- Continuità operativa della gestione dell'oggetto dell'accordo (la stabilità è fondamentale);
- Convenienza economica degli accordi.

Il fondamento economico della cooperazione è che esistono imprese che si specializzano in base alle
conoscenze e alle esperienze accumulate nel tempo per acquisire vantaggio competitivo, e che le attività
intorno alle quali basano la loro specializzazione si coordinano in un processo di produzione e scambio.

10.3.2 – La relazione esistente tra ciclo di vita del settore e andamento degli accordi tra le imprese
Questa interpretazione è legata ai modelli teorici di Abernathy e Utterback che considerano i settori
industriali come il risultato del cambiamento tecnologico, delle strutture di mercato e delle condotte delle
imprese. Si sostiene che esistono relazioni tra propensione a stipulare accordi, la loro tipologia e la
dinamica di crescita del mercato, l'evoluzione tecnologica e le condotte strategiche del settore.

Questi legami possono essere rappresentati per mezzo del modello del ciclo di vita tecnologico del settore.
Prima però distinguiamo due tipi di accordi:
1. Equity ->comportano una modifica nella struttura proprietaria delle imprese o la creazione di una nuova
società posseduta insieme dai partner (joint venture);
2. Non equity ->assume varie forme contrattuali: licenze, accordi di franchising, di fornitura, d'assistenza
tecnica e post-vendita, di R&S, di produzione congiunta ecc.

Il modello del ciclo di vita del settore è articolato in 5 fasi, determinate dal tasso di crescita della domanda
di mercato e dalla sua variazione nel tempo:
1. Introduzione (in questa fase si ha l’introduzione sul mercato delle prime applicazioni; essa è
caratterizzata da incertezza relativamente a mercato, tecnologia e produzione.
Tutto ciò spinge le aziende a limitare gli investimenti in capacità produttiva ecc. perciò gli accordi sono utili
a garantire una rapida capacità di reazione; in questo stadio avremo accordi equity in R&S, accordi per la
definizione di standard ecc.);
2. Primo sviluppo (in tale periodo la crescita del mercato è molto sostenuta; inoltre si verifica l’entrata dei
primi imitatori nel settore; massima propensione a ricorrere ad azioni di cooperazione.
Gli accordi sono sempre più orientati allo sviluppo di prodotti e processi e allo sfruttamento di economie di
scala. Aumentano gli accordi commerciali e produttivi con incremento delle forme non equity);
3. Pieno sviluppo (espansione elevata del mercato ma non più crescente; traiettorie tecnologiche più
prevedibili; innovazioni di processo prevalgono su quelle di prodotto; entrata massiccia di imitatori grazie
alla diffusione di conoscenze tecniche; la competizione si sposta su fattori di prezzo e sul marketing, sulla
distribuzione, sui servizi e l'assistenza post-vendita; le imprese privilegiano forme di crescita interna quindi
riducono gli accordi);
4. Maturità (il mercato cresce ancora ma a ritmi ridotti; incremento delle strategie collaborative grazie ad
un processo di rivitalizzazione delle tecnologie; sfruttamento del know-how di prodotto e di processo
trasferendolo in nicchie di mercato; aumentano gli accordi non equity);
5. Declino (contrazione del mercato; le imprese che non hanno retto la competizione escono con scorpori e
cessioni societarie; non si ha più l’entrata di nuovi produttori).

10.3.3 Il processo decisionale nel caso di accordi strategici


Un accordo è strategico quando ha costi e rischi elevati, quando riguarda attività critiche per il successo
dell’impresa e quando è finalizzato a competizione o a crescita.

Sono così importanti che vengono gestiti dagli organi alto-manageriali. Il processo decisionale è complesso,
scandito da due processi: uno dei singoli partner, l'altro derivante dall'interazione delle imprese coinvolte.
Le fasi sono variabili:
1. Analisi strategica delle trasformazioni ambientali, del sistema competitivo per trarre deduzioni sui punti
di debolezza/forza dell'impresa stessa e rispetto ai concorrenti. Da ciò si possono trarre delle conclusioni
circa gli obiettivi da raggiungere e le alternative da seguire per realizzarli;
2. Definizione del profilo ideale del partner e della tipologia dell’accordo, stabilendo i criteri in base ai quali
cercare e selezionare i possibili alleati;
3. Individuazione delle possibili alternative;
4. Selezione potenziali partner;

Effettuata la scelta del partner si entra nella fase negoziale durante la quale si definiscono i termini
dell'accordo. Qui distinguiamo l'analisi in 2 piani decisionali:
1. il piano di valutazione del singolo partner ->la valutazione economica è basato sul volume di fatturato,
sui costi di gestione, dai dividendi in caso di accordi equity; nell'analisi di fattibilità e coerenza invece si
guarda alla compatibilità del progetto con altre iniziative dell'impresa e se risponde in modo adeguato ai
cambiamenti ambientali;
2. il piano di decisione comune cioè la fase delle trattative, costituisce un presupposto per il successo della
collaborazione. Attraverso la collaborazione si arriva a definire il piano strategico, la struttura organizzativa
e i meccanismi operativi nonché la forma giuridica necessaria alla gestione dell’attività.

10.4 – La valutazione economica nel caso di accordi tra imprese


La cooperazione può consentire di aumentare il valore azionario dell'azienda.

I principali indicatori di redditività aziendale sono il ROE e il ROI (aiutano a misurare il valore dell'impresa,
che indicheremo con W).

W = R/r

W/CN = R/CN * 1/r

dove

W = valore dell’impresa
CN = valore contabile del capitale
r = tasso di attualizzazione (per semplicità diciamo d'interesse o rendimento)
R = reddito netto d'esercizio

Siccome R/CN = ROE, avremo che W = ROE/r * CN

Ciò implica una relazione tra W e CN secondo cui:

− W > CN quando ROE > r (è in questo caso che il valore azionario aumenta)
− W = CN quando ROE = r
− W < CN quando ROE < r

I parametri contabili:
- non sempre esprimono quantità univoche perché il reddito può risentire degli effetti delle politiche di
bilancio;
- non considerano i rischi associati alle strategie;
- non tengono conto delle pressioni degli azionisti.

I limiti esposti inducono ad impiegare i parametri contabili per valutazioni consuntive e di BP. Appare più
opportuno adottare altri metodi.
Per la valutazione degli accordi assumiamo il Criterio del valore azionario che implica una valutazione del
capitale economico dell'impresa espresso come:

W = Ʃ (Fcdt/1+k) al tempo t

dove

W = valore del capitale proprio dell'impresa senza strategia cooperativa;


FCt = flussi di cassa disponibili per gli azionisti al tempo t;
K = costo del capitale;
quindi il contributo di un accordo di collaborazione può essere valutato come differenza tra il valore del
capitale economico alla fine della collaborazione e il valore del capitale economico prima dell'alleanza.

Il valore di una strategia può essere misurato anche tramite il VAN (valore attuale netto) dei flussi di cassa
differenziali che l'accordo è in grado di generare, cioè:

VAN = Ʃ (FCdt/1+k) al tempo t

Dove

VAN=valore attuale netto dei flussi di cassa dal tempo 0 ad n attualizzati al costo del capitale;
FCdt = flussi di cassa differenziali indotti dalla strategia cooperativa.

Distinguiamo 2 configurazioni di flussi di cassa:


1.levered cash flow, ossia flussi di cassa al netto degli oneri finanziari connessi alle politiche di
indebitamento seguite;
2. unlevered cash flow , sono flussi di cassa al lordo degli oneri finanziari.

Il metodo del VAN è di difficile applicazione pratica perché ci sono problemi con la stima dei flussi di cassa
connessi alla cooperazione. Inoltre non tiene conto delle future e potenziali decisioni strategiche.
Per superare questi limiti è stato inserito anche il valore delle opzioni reali (creando il valore economico
allargato), classificate in 5 categorie:
1. Opzioni di sviluppo (l'impresa può cogliere opportunità che si manifestano post strategia);
2. Opzioni di differimento (l'impresa può rinviare lo sfruttamento di attività già possedute);
3. Opzioni di riorientamento (l'impresa può modificare la destinazione attuale delle risorse);
4. Opzioni di ridimensionamento (l'azienda può ridurre la dimensione della struttura);
5. Opzioni di abbandono (l'impresa può cedere/eliminare attività se l'ambiente lo permette).

Grazie agli accordi le imprese impiegano una quantità minore di risorse, quindi un'impresa che ha diversi
accordi può cogliere le opportunità appena elencate.

Il valore economico allargato creato da un accordo di cooperazione sarà dato dal valore del capitale
economico dell'impresa alla fine della strategia collaborativa e dal valore delle opzioni reali depurato dal
valore del capitale economico dell'impresa senza intraprendere alleanze strategiche.

10.5 – Tipologie di accordi tra imprese


La realizzazione e la difesa del vantaggio competitivo spingono sempre più imprese a crearsi una fitta rete
di relazioni con fornitori, clienti, soggetti esterni alla filiera verticale e persino concorrenti.

10.5.1 - Gli accordi a monte e a valle


I settori industriali più adeguati per le politiche di decentramento produttivo sono quelli dell'abbigliamento,
della costruzione di mezzi di trasporto, l'elettronico e il meccanico. Dagli anni '70 sono in atto politiche di
deverticalizzazione che hanno mutato il panorama industriale.
In alcune situazioni ormai l'impresa acquista direttamente lo stesso prodotto finale.

Il ricorso a rapporti esterni non si è limitato agli accordi a monte (con i fornitori), ma si è esteso anche a
valle del processo produttivo (intermediari commerciali).

10.5.2 - Gli accordi con i concorrenti


Anche la collaborazione con i propri concorrenti, soprattutto a livello internazionale, ormai è un imperativo
della competizione “senza confini”. Tuttavia nel 50% le collaborazioni falliscono generando un impatto
devastante per l'azienda. Bisogna che la strategia sia chiara per evitarlo. (Si vuole crescere nel core business
o si vuole diversificare? L'obiettivo finale è cedere il business o acquisire partner? Ecc.)

Alla luce delle considerazioni svolte, una definizione moderna degli accordi di collaborazione tra imprese è:
“relazioni cooperative organizzate di tipo non collusivo, funzionali all'inter-azione tra imprese, autonome
sul piano competitivo, per la valorizzazione delle complementarità e delle competenze specifiche e per
l'accesso a opportunità esterne offerte dalla complessa evoluzione ambientale”.

Gli elementi fondamentali degli accordi di cooperazione sono:


1. il contenuto organizzativo;
2. il processo comunicativo;
3. la complementarità.

10.6 – Le strutture reticolari


Si è quindi assistito, da un lato, alla riduzione delle dimensioni aziendali per soddisfare l'esigenza di
flessibilità, dall'altro, alla nascita d'imprese sempre più specializzate.

Negli anni ‘60 e ‘70 il rapporto tra imprese era monodirezionale, basato cioè su rapporti di sub-fornitura
(fig.X.3); oggi si tratta invece di strutture reticolari, caratterizzate da unità autonome dal punto di vista
gestionale e orientate a collaborare in una fitta rete di collegamenti pluridirezionali.
Questo fenomeno discende dalla convergenza imprenditoriale.

Il concetto di struttura reticolare viene utilizzato per indicare fenomeni diversi tra loro e cioè:
- imprese che adottano una marcata politica di decentramento d'attività manifatturiere e servizi
avvalendosi di imprese subfornitrici;
- sistemi territoriali di imprese;
- imprese giuridicamente autonome, ma con forti legami di cooperazione;
- grandi imprese articolate in unità organizzative.

Flessibilità e adattamento sono fondamentali, in quanto un'impresa può costruire in modo flessibile un
insieme di legami interni ed esterni per ogni progetto modellandosi su ogni problema che emerge. Ci si
riferisce ad entità flessibili (sia a livello organizzativo che manageriale) e ramificate adatte ad interagire col
cambiamento e l'innovazione. Ogni impresa, con la rete, può divenire specialista in un certo campo, usando
altri specialisti.

I caratteri tipicidelle reti interaziendali sono:

− gli attori (imprese) quindi unità centrali e nodali;


− relazioni interaziendali verticali (rapporti con fornitori e clienti), orizzontali (tra concorrenti o punti
vendita della stessa rete) o laterali;
− relazioni ripetute nel tempo;
− autonomia delle unità nodali (le meta-decisioni strategiche competono all'impresa centrale,
mentre le decisioni operative alle unità periferiche);
− coordinamento e aggiustamento reciproco centro-periferia.

In generale si può osservare che le forme di organizzazione reticolare nascono ex novo, oppure per effetto
di un processo di trasformazione di strutture già esistenti.
Inoltre nelle reti si sviluppa un processo di apprendimento relazionale. Si parla a tal proposito di
“piattaforma inter-impresa”, una base relazionale per generare conoscenza e trasferirla ai partner
aumentando le competenze dell'organizzazione, nonostante la mantenuta autonomia delle varie imprese
coinvolte.
I gradi maggiori di flessibilità presentati dalle imprese reticolari si traducono in costi minori di struttura.
Mentre prima della relazione produrre era un costo fisso, ora diventa variabile (la retta dei costi variabili
subisce un incremento).

L'impresa reticolare quindi ha il proprio BEP in corrispondenza di una quantità di ricavi d'equilibrio minore;
ciò significa che questa opera con una struttura che facilita il raggiungimento del profitto a livelli inferiori
d'attività. La leva operativa così subisce un decremento, fatto che sembra negativo ma non lo è se
pensiamo ai mercati fluttuanti di oggi: una bassa leva operativa permette di ottenere un equilibrio a livelli
di attività minori pur non permettendo grandi incrementi di profitto, ciò significa che anche in periodi di
contrazione dei volumi venduti il rischio operativo è ridotto.

10.7 – Impresa rete e reti d’impresa


Questa distinzione è basata sulla diversa dimensione delle imprese coinvolte.
Il concetto di impresa rete indica aziende di grande dimensione che decentrano parte dell'attività a
subfornitori deverticalizzando la propria struttura. La rete d'impresa invece si riferisce ad unità
(solitamente PMI) che tendono ad aggregarsi tra loro.

Le reti d'imprese: forme di cooperazione attuate da imprese giuridicamente ed economicamente


autonome, solitamente di piccole e medie dimensioni. Tali aziende tendono ad integrarsi svolgendo
compiti specifici della catena del valore.
Con la rete una pluralità d’imprese o di unità specialistiche vendono coordinate con meccanismi di mercato.
È la forma più adatta alla cooperazione tra aziende.
Possono essere considerate degli aggregati che operano su vari mercati, con vari prodotti e tecnologie.

La rete è un sistema d'imprese che si caratterizza per 2 elementi:

1) il pluralismo strategico (ognuno persegue obiettivi propri = autonomia);


2) la formazione di un linguaggio condiviso tra le unità.
Le imprese rete: grandi imprese che modificano la propria strategia fondata sull'integrazione per favore
deverticalizzazioni attuate mediante l’affidamento di alcune fasi produttive ad entità autonome sia dal
punto vista giuridico che dal punto di vista economico-aziendale.
La grande impresa mantiene un certo grado di coordinamento sulle unità satelliti diminuendo gli
investimenti diretti e di conseguenza, i costi e i rischi che ne derivano.

L'impresa rete è un sistema che integra, in un’unica rete, strutture interne/esterne. Tali strutture sono
organizzate in nodi fornitori di risorse, tecnologie, prodotti, servizi.
Tali nodi sono collegati e coordinati tra loro, infatti obiettivo del sistema rete è di collocarsi sul mercato con
il massimo potenziale competitivo.

La progettazione di un sistema rete: per ogni impresa che crea o fa parte di una rete, nasce l'esigenza di
adattare la propria strategia. Tale sistema dovrà essere flessibile e aperto, al punto di associarsi a nuove
imprese per convenienza ed in funzione dei cambiamenti di esigenze del mercato servito).

L'impresa costruttrice della rete dovrà tenere in conto poi che i nodi possono appartenere anche ad altre
reti, forse competitive.

Le fasi dello sviluppo di una strategia di rete sono:


− definire obiettivi di business;
− individuare le giuste leve per il core business (possono essere tecnologiche, di conoscenza dei
clienti e del mercato, ecc);
− progettazione del sistema-rete fornendo una ragione strategica alle potenziali imprese-nodo
individuate per entrare a far parte del sistema;
− scelta della forma di associazione più adatta (joint venture, acquisizione, accordo di scambio o
cessione di knowhow, semplice accordo commerciale) → ci si basa sull'entità del legame che si
vuole instaurare (stretto e durevole oppure lento e flessibile).

Con riferimento alle imprese reti si parla di rete esterna, una forma organizzativa caratterizzata dalla
presenza di un'impresa guida (focale) che costruisce una serie di legami e di relazioni con altre imprese o
enti esterni. L’impresa focale trasferisce parte della propria attività alle aziende della rete, attuando una
divisione del lavoro e valorizzando la complementarità tra le imprese.
Al concetto di rete esterna si richiamano diverse espressioni:

− distretto industriale (forte concentrazione territoriale di imprese della stessa filiera produttiva,
ognuna specializzata per massimizzare efficacia e efficienza dello scambio con le altre);
− costellazione d'imprese (insieme d'imprese che convergono verso obiettivi comuni. Di solito si
tratta di: un numero limitato d'imprese, guidate da una sola, interdipendenti,che
condividonorisorse);
− hollow corporation (impresa che attua un decentramento spinto, limitandosi a compiti di “regia
industriale”. Troviamo molti esempi nel cinema, nella moda e nel design, in cui molti marchi di
successo si occupano solo della parte creativa e della commercializzazione delegando la parte
manifatturiera).
L'impresa comunque si relaziona con tantissimi soggetti nella filiera tramite logiche comportamentali
diverse. Queste tipologie comportamentali si possono classificare in base ad un duplice ordine di variabili:

− obiettivi di controllo sulle risorse esistenti nell'ambiente esterno (se si vogliono perseguire obiettivi
condivisi o in contrasto con quelli degli altri);
− modalità di controllo delle risorse esterne (se il controllo si realizza tra le aziende implicate o se il
controllo è demandato ad un organismo “super partes”).
Ne scaturiscono 4 tipi di rapporti tra imprese:

1) competizione (due o più aziende si pongono in modo asimmetrico fra loro, cioè ciascuna, nella
propria autonomia);
2) dominazione(un’impresa che predomina sulle altre);
3) collusione (quando le imprese si accordano per sostituire al meccanismo del libero mercato quello
dell’oligopolio collusivo tramite la costituzione di cartelli anche occulti con regole stabilite);
4) cooperazione.
Il concetto di organization-set (Aldrich e Whetten) fa riferimento all'insieme di rapporti che l'impresa
intrattiene con l'ambiente esterno, sia diretti che indiretti, sia di semplice scambio che di collaborazione
organica.

La rete interna invece fa capo alle reti d'imprese. Col termine rete interna si fa riferimento
all'organizzazione interna di un'impresa, alla sua articolazione in reparti, divisioni, unità erogatrici di servizi
ecc. Il personale di queste unità ha dei rapporti interpersonali. Le reti interpersonali possono essere formali
(gerarchia; sviluppo verticale) o informali (sviluppo orizzontale; possono interessare anche altri individui ad
esempio consulenti).

10.8 – Le tipologie di strutture a rete


Le varie classificazioni della struttura a rete si basano su:

− esistenza o meno di un'impresa guida ->1. si tratta di una rete che fa capo ad un “maincontractor”,
cioè un’impresa-guida che coordina la progettazione e la creazione di un’opera, la cui realizzazione
viene affidata ad una molteplicità di imprese specializzate (sub-contractors); temporanea; 2. rete di
coproduttori altamente specializzati, stabile; 3. accordi tra imprese, dinamicità; 4. sistemi a base
territoriale come distretti, elevato livello d'integrazione;
− iniziativa di progettazione del sistema impresa ->1. impresa rete naturale in cui operano nodi ad
alto livello di autoregolazione; 2. reti governate in cui soggetti individuali o collettivi provvedono a
progettare, gestire, mantenere un sistema rete in tutti i suoi nodi, strutture, connessioni e
proprietà;
− stabilità delle relazionitra imprese partner ->1. rete stabile, con un'azienda focale che sta passando
dall'essere integrata verticalmente ad una a rete, i legami sono duraturi anche se pochi; 2. rete
dinamica, in cui l'azienda centrale concentra la sua attività solo in alcuni campi come R&S, design o
assemblaggio, infatti si tratta solitamente di alleanze temporanee e di un numero elevati di
potenziali partner quindi ideale per settori maturi o ad alta tecnologia.

Le reti d'imprese possono essere strutturate sia stabilmente (distretti) sia in senso dinamico (aggregazioni
per progetto). Le imprese rete però presentano maggiore stabilità.

Cause di insuccesso delle reti stabili e dinamiche: le aziende coinvolte possono divergere sulla qualità.
Nel caso della rete stabile si può venire a creare un'eccessiva dipendenza dei satelliti dall'impresa centrale,
mentre invece bisogna continuare a partecipare al mercato, fonte di innovazione e suggerimenti.

Nel caso della forma dinamica a volte si tende a specializzarsi troppo, diventando poco utile al mercato e
quindi a se stessa (rischio di uscita e di sostituzione da parte dei concorrenti). Bisogna occupare un
segmento ampio della catena del valore del bene considerato ed investire nello sviluppo di capacità e
tecnologia.

10.9 – Le componenti delle strutture reticolari


Gli elementi nevralgici della rete sono:

− nodi (entità piccole o grandi orientate ai risultati, costituite da centri produttivi capaci di cooperare
tra loro e autonomi anche se non per forza giuridicamente. Possono essere nodi imprese, reparti o
divisioni ed i nodi che si creano con altri nodi possono essere di tipo gerarchico, economico o
culturale. Hanno la funzione di proporre strategie alla direzione che ne valuterà la coerenza e
allocherà le finanze necessarie a perseguirle, dopodichè il nodo se ne assumerà la responsabilità
espletando la sua autoregolazione e capacità manageriale pur essendo sottoposto a controllo
dell'agenzia strategica);
− legami (le connessioni tra i vari nodi possono essere di varia natura: burocratiche quindi norme e
procedure, transazioni economiche, info e comunicazioni derivanti dalle riunioni);
− struttura (può essere gerarchica/ad organigramma, operativa, informativa, o può essere un
mercato);
− caratteristiche operative (regole legate al linguaggio condiviso nella rete, alla progettazione e alla
pianificazione della rete stessa).

10.10 – Le condizioni per il successo della rete

Di vitale importanza è la capacità dell'impresa di portarla al raggiungimento degli obiettivi.


Condizione primaria è la compatibilità strategica tra i nodi, ossia la chiara dimostrazione dei vari benefinci
derivanti dalla partecipazione a rete. Altri elementi: l'efficienza di una rete dipende anche dal grado di
integrazione dei processi che collegano i nodi (ci vogliono linguaggi comuni, sistemi informativi adeguati e
norme semplici per far si che i costi siano ridotti).
Molto importante è il coordinamento per ridurre le “forze centrifughe e opportunistiche” nonché le
competizioni all’interno della rete. interna è necessario il coordinamento tra i nodi che devono quindi
essere specializzati in cose diverse. Occorre infine che il management dei nodi non abbia interesse a
sostituirsi all’impresa referente strategica nel suo mercato.

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