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PARTE PRIMA
ELEMENTI DI ECONOMIA DELL’IMPRESA
Sulla base dei requisiti comuni a tutte le imprese sopra elencati, si può definire l’impresa come
l’organizzazione economica che, mediante l’impiego di un complesso differenziato di risorse,
svolge processi di acquisizione e di produzione di beni o servizi, da scambiare con entità
esterne al fine di conseguire un reddito e soddisfare i bisogni umani.
Detto ciò, un sistema si può definire come un complesso interrelato di parti per il
raggiungimento di un fine comune che opera in relazione con un ambiente esterno ed è quindi
dinamico.
Concezioni d’impresa
Il concetto economico d’impresa non può essere separato da quello sociale, le imprese, infatti,
sono rette da uomini che operano per soddisfare i bisogni umani e partecipano in senso lato alla
vita dell’ambiente circostante. La sua funzione non può limitarsi a produrre bene e servizi utili per
una certa collettività di consumatori, ma deve necessariamente estendersi al miglioramento della
qualità della vita nel contesto in cui opera. In ciò si traduce il concetto di responsabilità sociale
aziendale (corporate social responsabilità). In altri termini, un’impresa, per le funzioni che è
chiamata a svolgere, per le risorse che attinge dall’ambiente, per l’impatto che può esercitare sul
clima sociale della comunità, non può essere vista come un’iniziativa esclusivamente
imprenditoriale rivolta soltanto alle finalità economiche dell’investitore proprietario. Essa deve
essere più appropriatamente considerata come un sistema economico e sociale, cui prende parte
una pluralità di attori, che dev’essere guidato in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi
economici e responsabilità sociali. In conformità a queste considerazioni, l’impresa va
correttamente considerata come un’istituzione a finalità plurime, il cui compito è di creare valore
in senso ampio, ossia non solo valore economico, ma anche valore sociale.
L’impresa rappresenta una realtà complessa introno alla quale si sviluppa una rete di rapporti non
solo di scambio, ma anche di collaborazione, d’informazioni, d’interessi. Essa, infatti, svolge una
varietà di ruoli nei confronti di chi vi partecipa, del mercato e dell’ambiente socio-economico e
costituisce allo stesso tempo una realtà sociale, giuridica, economica e organizzativa. In sintesi,
l’impresa presenta tre profili di maggiore rilievo, a ciascuno dei quali si collega un diverso ruolo:
- In quanto sistema sociale, adempie la funzione sociale, più limitata rispetto alla funzione
economico-generale ma altrettanto importante. L’impresa va vista come distributrice della
ricchezza creata, rappresentando uno strumento per il soddisfacimento delle necessità
soprattutto di chi opera al suo interno.
- In quanto struttura patrimoniale, ossia quale complesso di beni organizzato e retto per lo
svolgimento di processi produttivi, svolge la funzione di produzione di reddito.
Si può dunque affermare che l’impresa svolge una molteplicità di funzioni in rapporto ai differenti
ruoli da essa assunti nel sistema economico-sociale. É importante considerare la
complementarità esistente tra le funzioni, ciascuna delle quali è essenziale per la realizzazione
delle altre.
L’impresa, quale cellula fondamentale del sistema economico e produttivo, vive all’interno di un
ambiente più vasto con il quale scambia risorse e, sopratutto, crea ricchezza. Quest’ambiente può
convenzionalmente scomporsi in:
- Micro-ambiente: definito dai mercati con cui l’impresa attiva lo scambio delle risorse.
- Macro-ambiente: dal quale derivano vincoli e condizioni entro cui si possono verificare gli
scambi.
É opportuno precisare che non si considera l’ambiente in senso biologico o naturale, ma sotto il
profilo economico-sociale. In tal senso, l’ambiente può essere inteso come il contesto socio-
economico all’interno del quale l’impresa è chiamata a svolgere le sue funzioni.
Tale contesto è regolato da una serie di condizioni politiche, legislative, sociali, culturali ed
economiche, che determinano il sistema di vincoli-opportunità entro il quale dovrà trovare sviluppo
l’attività aziendale. L’ambiente può essere scomposto in quattro sub-sistemi generali:
Per quanto concerne il micro-ambiente, in funzione delle firmeresti transazioni attivate, può
essere a sua volta suddiviso in:
L’impresa per attingere alle risorse e per cedere i beni prodotti dovrà interagire con una pluralità di
stakeholder, che si raggrupperanno in categorie originando distinti mercati. In termini economici si
ha un mercato in tutti i casi vi siano due o più contraenti disposti a scambiare fra di loro i beni
rispettivamente posseduti.
Internazionalizzazione e globalizzazione
Imprenditore e Manager
Nell’impresa la figura centrale è quella dell’iImprenditore, che può essere definito come il soggetto
economico che decide di rischiare i propri capitali e di dedicare le sue capacità professionali alla
produzione di beni o servizi da cedere a terzi.
Schumpeter, nella “Teoria dello sviluppo economico”, individua le qualità che l’imprenditore deve
possedere in modo superiore:
- La capacità di previsione (vision), razionalità consapevole, intuito.
- Lo spirito d’iniziativa, forte volontà, libertà intellettuale.
- L’autorevolezza e capacità di leadership nei confronti dei collaboratori.
Si differenzia dal Manager, che non si assume il rischio d’impresa, ma pone in essere le decisioni
prese dall’imprenditore ed è definito come il soggetto che organizza e disciplina l’uso delle risorse
aziendali dando attuazione alle decisioni imprenditoriali.
La complementarietà di questi ruoli, che spesso si combinano nello stesso soggetto, appare
evidente, perchè il successo di un’impresa è sempre il risultato della combinazione di efficacia
(bontà delle decisioni) ed efficienza (rendimento dell’uso delle risorse). Da ciò deriva che:
- L’efficacia è il valore proprio dell’imprenditorialità, intesa quale intuizione decisionale di chi
governa a livello più elevato il sistema aziendale.
- L’efficienza è il valore proprio della managerialità, intesa quale attitudine a realizzare il massimo
rendimento nell’attuazione delle scelte aziendali.
L’attività decisoria è posta in essere nell’azienda con il concorso di tutti i componenti dell’organo
personale. Gli organi aziendali possono essere classificati considerando la predominanza delle
funzioni e degli atti esercitati nel corso dell’attività esplicata. In tal senso si possono suddividere gli
organi d’impresa in:
- Organi deliberantI: si differenziano dagli organi operativi non soltanto per il predominare degli
atti di decisione rispetto agli atti di esecuzione nello svolgimento delle loro funzioni, ma anche e
soprattutto per il più ampio potere discrezionale esercitato nel compimento di tali atti. In una
struttura societaria di grandi dimensioni si può suddividere in: organi di proprietà (azionisti),
organi di amministrazione e organi di direzione. Azionisti, amministratori e dirigenti partecipano
infatti congiuntamente all’attuazione del processo decisorio aziendale. L’esercizio dei poteri di
governo dell’impresa richiede la compresenza di più requisiti. Seppur necessaria, non è
sufficiente solo l’autorità, intesa come il potere riconosciuto nell’ambito della struttura, ma è
fondamentale che ad essa si accompagnino altre tre elementi: l’abilità professionale, la
disponibilità delle informazioni e la capacità di controllo delle decisioni assunte.
- Organi di controllo: spesso coincidono con gli organi deliberanti, sono coloro che hanno il
compito di verificare l’effettiva realizzazione delle direttive degli organi deliberanti.
- Organi esecutivi: sono tutte quelle persone (operai, impiegati) che svolgono nell’azienda
un’attività materiale o intellettuale, obbedendo a ordini che ricevono da organismi superiori.
Esercitano prevalentemente compiti esecutivi ed hanno un potere discrezionale limitato
all’attuazione di specifici compiti.
L’individuazione dei protagonisti della vita dell’impresa può essere estesa dagli organi facenti parte
della sua struttura a quelli esterni nei confronti dei quali, durante la gestione, si sviluppano relazioni
d’interesse e d’influenza. L’impresa si pone al centro di una serie di rapporti bilaterali con differenti
gruppi sociali, rispetto ai quali attiva relazioni di scambio d’informazione e di rappresentanza.
Questi gruppi finiscono per costituire dei veri e propri interlocutori dell’impresa stessa. Il concetto di
stakeholder, originariamente ristretto solo a coloro che avevano interessi diretti nella vita
dell’impresa, si è ampliato per ricomprendere anche coloro che sono in grado di esercitare
un’influenza sulle decisioni aziendali o, che pur non partecipando alla sua vita possono essere
influenzati da esse.
- Stakeholder primari: destinati ad esercitare una pressione più diretta e immediata sulla
gestione aziendale. Nello specifico sono coloro che si collegano con l’impresa mediante contratti
e che, quindi sono interessati alla conclusione e al rispetto dei contratti stessi, dai quali deriva
ovviamente il raggiungimento di un loro specifico interesse (es. lavoratori, fornitori, finanziatori).
Il governo dei rapporti con tutti gli stakeholder rappresenta una responsabilità primaria per
l’imprenditore perchè influenza direttamente i risultati della gestione aziendale.
- La forza: ovvero il potere da essi detenuto in virtù del ruolo ricoperto nella società (es. il peso
esercitato dagli ambientalisti sulle condizioni di svolgimento dell’attività industriale).
- Stakeholder amichevoli (supportive): dai quali si può ottenere un sostegno decisivo per
l’attività d’impresa e verso i quali s’intraprende una strategia di coinvolgimento.
- Stakeholder avversari (non supportive): dai quali potrebbero generarsi difficoltà sostanziali per
l’attività aziendale e verso i quali si adotta una strategia di difesa.
- Stakeholder non orientati (mixed blessing): da cui si potrà avere, a seconda delle circostanze,
un sostegno o un atteggiamento negativo e verso i quali si persegue una strategia di
collaborazione.
- Stakeholder marginali: il sui peso nei confronti dell’impresa nel particolare momento risulterà
del tutto modesto e che comporterà una strategia di monitoraggio.
Nella teoria degli stakeholder, il ruolo della proprietà rappresenta un punto problematico.
Sostanzialmente e in modo sintetico, si delineano sue principali casi:
- Coincidenza tra proprietà e governo dell’impresa: la proprietà in questo caso non figura tra
gli stakeholder dato che è la stessa proprietà/governo (imprenditore) a curare i rapporti con gli
stakeholder.
- Dissociazione tra proprietà e governo: in questo caso invece la proprietà è ricompera tra gli
stakeholder perchè costituisce uno degli interlocutori primari del management stesso.
Teoria dell’agenzia
Con la dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa, prende forma la cosiddetta Teoria
dell’agenzia. Tale teoria si riferisce alla situazione in cui il potere di amministrazione è esercitato
da un Manager (agent) su mandato ricevuto dalla proprietà (principal). Per effetto del mandato
fiduciario, in base al quale un delegato amministra per conto del delegante, si viene così a creare
una relazione singolare che tende a ridurre se non annullare il carattere residuale (e, quindi, in un
certo senso il rischio) della remunerazione della proprietà. Quest’ultima, infatti, incentiverà lagne a
massimizzare la ricompensa per la proprietà sotto forma di dividendi azionari e valorizzazione della
quotazione delle azioni, pena l’uscita dalla società (disinvestimento) o la rimozione dell’agente dal
suo incarico (risoluzione del mandato fiduciario).
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L’impresa, quale entità economica e sociale, non ha delle finalità da raggiungere, ma delle
funzioni da svolgere. Tale precisazione è opportuna per ribadire una distinzione fondamentale tra
l’azienda come fatto oggettivo, cioè come una realtà costituita da un coacervo di risorse o di
potenziali, e la stessa azienda vista come fatto soggettivo, ossia quale emanazione e strumento di
una capacità imprenditoriale finalizzata verso certi risultati. Il problema dei fini, investe, in
sostanza, gli individui che agiscono nell’impresa e, in prima linea, coloro che ne detengono la
proprietà e il governo.
Il concetto di profitto
Queste quattro visioni, più che alternative risultato complementari, infatti: il profitto è un’entità
composita, in cui rientrano il compenso per il lavoro imprenditoriale, il premio per il rischio, la
contropartita dell’innovazione e la rendita connessa con la posizione monopolistica.
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Intende puntare al massimo profitto, sostenendo altresì il rischio più elevato circa il risultato
dell’attività dell’impresa? Da ciò deriva che, per conferire un valore operativo alla teoria e poter
spiegare, alla luce di essa, le motivazioni del comportamento imprenditoriale, è necessario
introdurre il fattore tempo (time-preference) e il fattore rischiosità (uncertainty conditions).
- Fattore tempo: l’imprenditore tende a massimizzare il risultato nel lungo termine, non il risultato
di una certa operazione o delle operazioni condotte in un determinato periodo di tempo. Tale
obiettivo può essere anche sacrificato nel breve periodo, con l’intento però di pervenirvi già
agevolmente nel lungo periodo. Sotto questo profilo si può, ad esempio, giustificare una politica
di vendita dei beni o servizi prodotti a prezzo di costo o inferiori al costo, intesa a far conquistare
un’ampia porzione di mercato e far recuperare successivamente le quote di reddito sacrificate.
Secondo la teoria della sopravvivenza, il fine del gruppo imprenditoriale è quello di garantire la
continuità dell’organismo aziendale. Ciò si traduce, da un lato, nel puntare al profitto come mezzo
per irrobustire la struttura patrimoniale dell’impresa e, dall’altro, nel rifiutare attività gestionale i con
coefficienti di rischio che possano porre in pericolo la vita dell’organizzazione. Questa teoria ha
trovato uno dei principali sostenitori in Drucker, il quale ha proposto di misurare il raggiungimento
della finalità suindicata sulla base di obiettivi legati a quattro aspetti necessari:
- Innovazioni.
- Redditività dell’impresa.
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Con la formulazione della teoria del valore si compie un salto sostanziale nella teoria dell’impresa
perchè la finalità della creazione del valore risponde agli obiettivi di tutti i partecipanti all’impresa
e non soltanto a quelli dell’imprenditore proprietario e/o del manager. Tale teoria sostiene, difatti,
che la finalità da assegnare alla gestione è quella di far crescere il valore economico dell’impresa.
Con essa la visione dei risultati aziendali è orientata al futuro, perchè ciò che conta non è il profitto
ma le potenzialità di produrre risultati sempre migliori Il concetto del valore si sposa con quello di
diffusione del valore stesso al mercato.
Nella pratica nordamericana si da un indirizzo diverso a tale teoria, che si può definire di
creazione del valore azionario. La teoria del valore azionario si collega, difatti, al concetto
patrimoniale dell’impresa, vista, quest’ultima, come un valore reale (rappresentato dalla
capitalizzazione n base al corso dell’azione) piuttosto che come fonte di un futuro valore
reddituale. In altri termini, la strategia del valore tenderebbe a guidare l’opera dell’imprenditore e/o
del manager, inducendolo a preferire le scelte tese a massimizzare il valore del capitale
azionario, perché in tal modo l’impresa diventerebbe più appetibile, più affidabile e assicurerebbe
migliori retribuzioni.
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Secondo tale teoria, i manager sono più interessati all’espansione dell’impresa perchè quest’ultima
si traduce quasi sempre in:
- Un irrobustimento dell’organizzazione (garanzia di sopravvivenza).
- Nell’assunzione di una maggiore forza nei confronti della concorrenza (garanzia di redditività
aziendale).
- Nell’incremento delle retribuzioni ai livelli più elevati di direzione.
Secondo la tesi di Baumol, i comportamenti imprenditoriali sono tesi all’ampliamento del volume
d’affari rispetto a quello dei profitti globali, e di conseguenza al posto della crescita del profitto si
sarebbe sostituita quella del fatturato quale obiettivo primario della conduzione aziendale.
L’ipotesi di questo economista è che gli oligopolisti cercano di massimizzare il volume di vendita
dei loro prodotti con il vincolo di un livello minimo di profitto. In sostanza, le imprese mirano a
realizzare il flusso di profitti che consente di finanziare il massimo sviluppo delle vendite nel lungo
periodo. Secondo Baumol, massimizzare le vendite significa massimizzare il fatturato e non
necessariamente la quantità fisica del venduto. Ciò significa che l’obiettivo da raggiungere si
concreta nella ricerca della combinazione, tra quantità da vendere e prezzi di vendita, che
massimizzi il volume d’affari dell’impresa. É una teoria compatibile con quella del massimo
profitto, in quanto nel lungo periodo non dovrebbe esservi antinomia fra la teoria della
massimizzazione del profitto e quella della massimizzazione delle vendite. Nel corso della gestione
si potranno perseguire, infatti, obiettivi di breve e di lungo periodo per cui, a seconda del periodo
osservato, sarà possibile riscontrare la preminenza dell’uno o dell’altro.
Teoria dei limiti sociali della massimizzazione del profitto (o teoria comportamentistica)
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Fra i due tipi di conflitti sussistono delle differenze non solo in ordine alla loro origine, ma anche
alle effettive possibilità di risoluzione esercitabili dall’impresa.
- I conflitti esterni: nel caso in cui non si riescano a stabilire legami durevoli di collaborazione,
sono risolvibili sulla base del rapporto di forza esistente tra l’impresa e le altre organizzazioni
economico-sociali con cui entra in contatto. Laddove l’impresa non ha la forza di imporre
totalmente le proprie condizioni all’opponente, le opportunità di risoluzione sono sovente
molteplici. (es: conflitto con il fornitore, si può decidere di stabilire un nuovo accordo, oppure di
cambiare fornitore, oppure produrre il bene).
- I conflitti interni: lasciano limitate possibilità di manovra all’imprenditore, nonostante egli abbia
il potere, almeno in teoria, di risolvere il conflitto escludendo l’opponente dell’organizzazione.
L’esempio classico è quello dei conflitti di lavoro, in cui la maggior forza imprenditoriale non può
esercitarsi a cagione della tutela sindacale del lavoratore.
Per aumentare i ricavi ha due possibilità: aumentare il prezzo o la quantità venduta dei beni.
Tuttavia un rialzo del prezzo, quasi sicuramente non verrà positivamente accettato dai compratori,
i quali potrebbero decidere, per evitare di pagare un prezzo più alto, di rivolgersi ad un altro
fornitore. Pertanto, l’effettiva possibilità dell’imprenditore di far leva sulla variabile prezzo per
massimizzare i suoi profitti appare difficilmente applicabile e potrebbe, addirittura, rivelarsi
controproducente. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda l’aumento della
domanda. Se l’impresa si trova ad operare in un mercato dove la domanda è più o meno stabile,
per poter raggiungere l’obiettivo di ampliamento della domanda l’impresa dovrà necessariamente
erodere la quota di mercato dei concorrenti. Questi ultimi chiaramente porranno in essere delle
azioni che contrastino la strategia del rivale. L’impresa potrebbe a questo punto decidere di
operare sul versante dei costi.
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In una situazione di sostanziale impossibilità di incremento del profitto senza suscitare conflitti
pericolosi per la stessa sopravvivenza dell’impresa quali opportunità da l’impresa per raggiungere
la sua finalità?
Solo mediante l’innovazione l’imprenditore può aspirare a migliorare o almeno difendere la propria
posizione reddituale. I costi dell’innovazione, ovvero i costi di ricerca e sviluppo, sono relativi
all’individuazione di nuove opportunità tecnologiche o di mercato, alla creazione dell’immagine,
all’avviamento commerciale. In corrispondenza di questi costi generalmente non vi è un particolare
e forte gruppo sociale, per questo motivo sono comprimibili con minore difficoltà da parte
dell’impresa. Perciò accade che nei periodi di crisi sono gli unici costi (insieme forse con quelli di
pubblicità) ad essere tagliati, in quanto ritenuti non strettamente necessari. In altri termini, il
ragionamento precedente conduce a tre conclusioni:
- L’equilibrio tra costi e ricavi aziendali è difficilmente modificabile in assenza di innovazioni nella
gestione.
- Le innovazioni nell’organizzazione e nel mercato richiedono il sostenimento di costi che,
invece, sono solitamente tagliati in periodi di crisi aziendale.
- Il profitto è una quantità residuale che risente delle situazioni di crisi, data la rigidità delle altre
grandezze economiche e l’assenza di processi innovativi.
È possibile concludere osservando che: il reddito è un risultato che deriva da accordi di copertine o
dalla composizione di conflitti interni ed esterni e che la sua misura non è mai liberamente
determinabile dall’imprenditore. Il fine del massimo profitto diviene, così, il fine del massimo profilo
condizionato.
* La teoria dei limiti sociali al massimo profitto pone in rilievo come la massimizzazione del profitto
incontra due serie di vincoli: i primi sono quelli sociali, i secondi sono i limiti di conoscenze in
ordine all’evoluzione dell’ambiente e dei mercati. Su questa limitazione s’incentra la teoria del
Simon, secondo la quale l’imprenditore tenderebbe a un profitto soddisfacente più che massimo.
Un’eventuale massimizzazione del profitto incontrerebbe, cioè, dei limiti insuperabili nelle
condizioni di ridotta conoscenza in cui sono costretti ad operare gli amministratori aziendali. Per
questo motivo, l’obiettivo delle singole scelte, e quindi in senso più lato dell’intera gestione,
sarebbe quello di individuare, per ciascun problema, le alternative soddisfacenti piuttosto che
quelle ottimali.*
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Le motivazioni o meglio le finalità che spingono un individuo, da solo o insieme con altri soggetti, a
promuovere la costruzione di un’impresa e a svilupparne nel tempo l’attività possono essere
comprese, con qualche necessario adattamento, richiamando la famosa scala dei bisogni di
Maslow. Seconda questa impostazione, le finalità dell’imprenditore appaiono, in ordine crescente
d’importanza, quelle di assicurare la sopravvivenza dell’impresa (mediante il perseguimento del
fondamentale equilibrio economico tra costi e ricavi), di affermarsi nell’ambito della classe sociale
di appartenenza e di assumere posizioni di preminenza nella comunità.
In altre parole lo stimolo economico non rappresenta, o non dovrebbe rappresentare sempre né il
solo né il richiamo più importante della funzione imprenditoriale, il fine economico, può e deve
divenire anche un mezzo per il raggiungimento di obiettivi morali e sociali. È ipotizzabile, infatti,
che l’imprenditore (inteso quale proprietario e gestore) trasponga grand parte di sé nell’impresa e
che il suo obiettivo fondamentale sia quello di avere un’impresa forte, in grado di svilupparsi e di
assicurargli rispetto a ammirazione nella cerchia competitiva più ristretta in cui opera e in quella più
ampia della collettività. Partendo da questa ipotesi, si possono allora individuare e ordinare le
finalità imprenditoriali in funzione di una combinazione o “mix” costituita dal conseguimento del
profitto, del potere e del prestigio.
In quest’ottica:
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Il concetto di strategia
La strategia definisce i rapporti con l’ambiente, cioè con il contesto generale entro cui opera
l’impresa, ma soprattuto risponde all’obiettivo più specifico di scegliere l’ambiente competitivo e
transnazionale di riferimento dell’impresa.
Gestire l’impresa significa amministrare i vari fattori di produrne impiegati per il suo funzionamento
e significa assicurarle la sopravvivenza e lo sviluppo mediante la creazione di equilibri economici,
patrimoniali e finanziari.
Il termine gestione indica il complesso di decisioni e di attività svolte dall’impresa per raggiungere
le finalità dei soggetti coinvolti nella sua operatività.
Al vertice del sistema vi sono le scelte di lungo periodo, che richiedono un grande uso di risorse,
difficilmente possono essere modificate e si collegano direttamente al raggiungimento degli
obiettivi imprenditoriali. Queste scelte possono essere definite strategiche, per distinguerle da
quelle tattiche, che concernano le modalità d’impiego delle risorse, e da quelle operative, che sono
necessarie per procedere materialmente alla loro attuazione. Si delinea così una gerarchia di
scelte.
La gestione strategica
Non sempre la decisioni assunte a livello imprenditoriale danno corpo ad una strategia, intesa
quale comportamento innovativo rivolto al raggiungimento di obiettivi di tempo lungo. In altri
termini, le decisioni imprenditoriali potrebbero confermare il tipo di obiettivi e le politiche attuate in
passato, rispondendo quindi a una logica di ripetizione e di tempo breve. D’altro canto, durante la
vita dell’impresa non sempre viene definito un quadro di sviluppo a lungo termine.
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Le strategie aziendali si ordinano secondo una scala gerarchica, che vede al vertice le strategie
complessive (o corporate), al centro quelle competitive e alla base quelle funzionali.
Gli organi di governo devono scegliere i campi o le aree di affari in cui operare secondo una
strategia complessiva, che può essere di sviluppo o di mantenimento delle posizioni già
conquistate, ma debbono anche stabilire i comportamenti da assumere nei confronti della
concorrenza in ciascuna delle aree di affari prescelte. Le strategie competitive definiscono gli
obiettivi e le politiche da adottare per fronteggiare la concorrenza e acquisire la clientela, puntando
sui vantaggi competitivi conseguibili. A livello sottostante si pongono, poi, le strategie funzionali
(strategie di produzione, di vendita, di finanza, …), che debbono essere strumentali rispetto alle
strategie competitive prescelte. Per esse si potrebbe parlare di strategie operative, visto che
riguardano le modalità di attuazione delle funzioni di gestione.
Questo inquadramento gerarchico non deve far perdere di vista la stretta interrelazione tra i vari
piani strategici perchè, in realtà, le scelte più generali possono essere legate a una particolare
strategia funzionale, che influenza la strategia competitiva e che induce ad entrare in quel certo
mercato.
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Le scelte strategiche dell’impresa sono sempre guidate dalla preventiva valutazione delle
possibilità a livello di mercato. É cioè chiaro che la strategia complessiva deriverà, innanzi tutto,
dalle decisioni di mercato che l’imprenditore prenderà in base agli obiettivi di lungo termine da
perseguire. Pur essendoci un rapporto gerarchico tra le strategie complessive e quelle competitive,
saranno sempre queste ultime che influenzeranno le prime. In altre parole, la decisione di essere
presenti in più mercati o aree d’affari non potrà essere sempre fondata sulle probabilità di
competere efficacemente in quei mercati o in quelle aree d’affari.
La decisione d’ingresso in un mercato è dunque, legata allo studio delle sue caratteristiche e alla
possibilità non solo di entrarvi, ma si rimanervi e, con le risorse disponibili, poter competere
efficacemente. In effetti, nella determinazione delle scelte strategiche peseranno congiuntamente
fattori legati all’ambiente esterno (fattori esogeni) e fattori collegati alle risorse che l’impresa già
possiede o può acquisire senza particolari ostacoli (fattori endogeni). Il rapporto tra fattori
esogeni e fattori endogeni nello sviluppo dell’impresa può esplicarsi nell’evoluzione dei paradigmi:
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A conclusione di quest’analisi sui paradigmi affermatisi in dottrina, si può quindi sostenere che
sulle scelte dell’impresa pesano sia fattori esogeni (legati al mercato) sia fattori endogeni (legati
alle risorse) e che, in realtà, il rapporto è in ogni caso d’interdipendenza. Da ciò si deduce
l’importanza dello studio del mercato prima di assumere qualsiasi scelta strategica poiché sarà la
condizione strutturale del mercato o area di affari, cui si rivolge l’attenzione dell’imprenditore, a
consentire la migliore valutazione delle risorse su cui basare la strategia competitiva. È cioè
intuibile che analizzare il settore o lo specifico spazio di mercato in cui competere in rapporto al
grado di concentrazione dei concorrenti già presenti, alle barrire all’entrata e all’uscita, all’elasticità
della domanda, costituisce un presupposto essenziale per immaginare come competere con le
risorse e le capacità disponibili o acquisibili.
Uno dei più noti (e anche più critici) schemi di analisi di settore è quello comunemente noto come
schema delle cinque forze o della concorrenza allargata, dovuto a Porter. Tale modello fa
riferimento al paradigma Struttura-Condotta-Performance perchè parte dall’analisi della struttura
per delineare la strategia competitiva mirata al più appropriato posizionamento di mercato.
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L’attrattività di un settore deve essere valutata analizzando le cinque forze che interagiscono e
determinano, in generale, condizioni di minore o maggiore attrattività. Le cinque forze determinano
il livello di intensità competitiva e condizionano le possibilità di profitto, che in un’ottica di medio
lungo termine, le imprese del settore possono conseguire. Si tratta delle cinque forze competitive,
che sono: la rivalità tra i concorrenti presenti (concorrenza reale), l’entrata di nuovi concorrenti
(concorrenza potenziale diretta), la minaccia di sostituti dei prodotti (concorrenza potenziale
indiretta), il potere contrattuale dei clienti e il potere contrattuale dei fornitori.
Per valutare l’intensità della concorrenza in un determinato settore (e, dunque, il suo grado di
attrattività) non basta considerare i concorrenti attualmente presenti, ma occorre estendere l’analisi
anche alla concorrenza potenziale (diretta e indiretta) e valutare il potere contrattuale di fornitori e
clienti.
Fenomeno tipico dei mercati in regime di oligopolio, le barriere all’entrata si sostanziano in difficoltà
di accesso di nuove imprese ad un mercato. Si differenziano in esterne o interne: esterne quando
impediscono l’ingresso di nuovi competitori; interne quando tutelano la posizione di ciascun
produttore nei confronti delle azioni espansive degli altri produttori presenti nel mercato. Tali
barriere si collegano:
- Economie di scala.
- Economie di apprendimento.
- Economie di relazioni.
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Le economie di interrelazione (o di scopo), ovvero interne all’impresa, si dilatano anche sul piano
esterno per effetto dell’inserimento dell’azienda in reti pluriaziendali. L’espressione “economie di
scopo” deriva dalla tradizione letterale di “economies of scope”, il cui concetto è quello dei risparmi
ottenibili dalle sinergie ovvero dallo svolgimento in comune di più attività.
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La differenziazione dei prodotti, rappresenta un tipo di barriera più interno che esterno. Il fattore
differenziazione può trovarsi congiunto con quello della concentrazione e generare, così, degli
ostacoli maggiori all’ingresso nel mercato. La differenziazione gioca prevalentemente un ruolo
interno, in quanto consente a ciascun produttore di isolarsi rispetto a altri concorrenti (barriere di
mobilità): più spinta sarà la differenziazione del prodotto, più profondo e meno accessibile risulterà
il fossato entro cui si sarà protetti dalla concorrenza. Tale fattore svolge, però, anche un ruolo
esterno, nel senso che l’acquisizione di un vantaggio competitivo nei confronti di imprese già
presenti nel mercato richiede un rilevante sforzo promozionale e l’impegno immediato di notevoli
capacità finanziarie ed organizzative. Per poter sottrarre delle quote di affari alla concorrenza, sarà
infatti necessario accentuare il carattere di distinzione della propria offerta, che dovrà essere
adeguatamente pubblicizzata, dato l’aspetto di novità che essa presenterà agli acquirenti
potenziali.
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- La funzione d’uso: vale a dire i bisogni del cliente che l’impresa intende soddisfare.
- I gruppi di clienti: vale a dire i portatori dei bisogni a cui l’impresa intende rivolgersi.
- Le tecnologie: vale a dire le modalità tecniche attraverso cui l’impresa intende soddisfare i
bisogni dei suoi clienti.
La formulazione della strategia competitiva, può fondarsi, secondo Porter, sulla catena del valore.
Lo studioso sostiene, infatti, che l’azienda, con la sua attività, crea un valore per il cliente, valore
che è misurato dal presso che questi paga o sarebbe disposto a pagare per il prodotto. Il valore
creato si distingue in due parti: i costi sopportati per le attività necessarie alla realizzazione e
all’assistenza, e il margine che rimane all’azienda. Il maggior valore, e quindi la più ampia
differenza tra prezzo e costi, deriverebbe così dalla maggiore efficenza nella prestazione delle
attività. Il concetto di catena del valore aiuta, in pratica, a comprendere quali sono le fonti del
vantaggio competitivo, pervenendo ad una distinzione delle funzioni di gestione in due gruppi:
- Attività di supporto: sono classificate con criteri di maggiore elasticità e vengono chiamate
così perchè intese a fornire le basi per la concreta realizzazione delle attività primarie. Sono
costituite dall’approvvigionamento, dallo sviluppo delle tecnologie, dalla gestione delle
risorse umane e dalle attività infrastrutturali dell’impresa.
In altri termini, il concetto teorico di catena del valore consente di identificare specificamente le
cause del vantaggio competitivo, che, a seconda dei casi, possono essere rinvenute nella
progettazione (differenziazione) del prodotto, nell’efficenza del sistema di produzione,
nell’economicità delle funzioni di approvvigionamento e nell’efficacia del marketing.
Naturalmente, ogni impresa può riuscire a sfruttare anche più vantaggi (ad esempio una buona
progettazione e un buon marketing), massimizzando così la sua “dominanza competitiva”.
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L’impresa, dunque, può costruire il suo vantaggio competitivo o perché è in grado di realizzare con
maggiore efficenza le attività inserite nella catena del valore o perchè riesce a differenziarsi dalla
concorrenza. Nell’analisi della competizione è obbligatorio avere come punto di partenza il
concetto di differenziazione produttiva, che dagli anni ’30 è alla base delle teorie di mercato. Il
concetto di differenziazione dei prodotti ha assunto un ruolo centrale, in quanto con la sua
affermazione è caduto uno dei presupposti essenziali della concorrenza perfetta.
Questa, com è noto, è legata alla condizione dell’omogeneità dei prodotti offerti sul mercato, cioè
all’impossibilità di differenziarli e individuarli a seconda del produttore, della zona, dell’epoca di
produzione e di altri caratteri distintivi della qualità. La differenziazione dei prodotti, però, richiama
la disomogeneità dei prodotti offerti sul mercato e l’esistenza di prodotti differenziati comporta il
frazionamento del mercato in tanti sub-mercati, ciascuno dei quali è entro certi limiti separato dagli
altri e costituito da una particolare clientela. Il concetto di sub-mercato è caratterizzato, in effetti,
dall’esistenza di una domanda che, essendo attratta da certi elementi distintivi del prodotto, si
rivolgerà preferibilmente all’offerta di alcune imprese, le quali godranno di un vantaggio rispetto
alle altre nella misura in cui riusciranno a creare e a rafforzare tali preferenze.
L’obiettivo sarà, pertanto, quello di disporre di un proprio spazio di mercato nel quale potersi
muovere in posizione quasi monopolistica. Proprio tale concetto ha indotti gli economisti ad
utilizzare sovente la direzione di “concorrenza monopolistica”, che tende, infatti, a porre in
rilievo che in uno stesso mercato sono compresenti elementi concorrenziali e di monopolio: i primi
connessi con il frazionamento dell’offerta tra una pluralità di produttori e i secondi connessi con la
formazione di tanti sub-mercati distinti, in ciascuno dei quali uno dei produttori può acquisire di
fatto una posizione monopolistica. Tuttavia, tale posizione presenta due importanti limiti:
- L’imitazione da parte di concorrenti può annullare i migliori requisiti di qualità o di prestazioni del
prodotto.
In pratica, dunque, il vantaggio competitivo potrà essere conseguito puntando sulla leadership di
costo, cioè sull’opportunità di sfruttare il minore costo di produzione come fattore di vantaggio
sulla differenziazione dl prodotto, ossia sulla possibilità di conferire al prodotto caratteristiche e
qualità tali da renderlo “differente” e, quindi, preferibile rispetto a prodotti della concorrenza, anche
in segmenti meno ampi di mercato (focalizzazione).
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La resource-based theory
Tale teoria, pone al centro l’analisi competitiva, le specificità di ciascuna impresa in termini di
risorse, capacità e competenze anziché partire dall’analisi classica agganciata alla struttura del
settore. Le risorse aziendali sono definite come tutte le attività, le capacità, le competenze, i
processi organizzativi, le caratteristiche aziendali, le informazioni, le conoscenze e così via, che
sono controllate dall’azienda e che le permettono di formulare e implementare strategie che ne
migliorano l’efficacia e l’efficenza.
In base al patrimonio di risorse posseduto ogni impresa può dunque tentare di conquistare un
vantaggio competitivo durevole e assumere una posizione vincente nel mercato.
Naturalmente, la sua forza sarà tanto maggiore quanto più potrà mettere in campo delle
“competenze distintive”, ovvero attributi e condizioni non in possesso delle altre imprese
concorrenti. Sotto questo aspetto appare molto utile il modello VRIO, messo a punto da Jay
Barney, che individua le caratteristiche che possono conferire significatività e importanza alle
risorse possedute dall’impresa. É proprio in funzione della qualità delle risorse di cui dispone
un’impresa che si determina, infatti, la sua posizione competitiva nel mercato.
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- Al loro valore, ossia al contributo vincente che sono in grado di conferire all’azione competitiva
(attributo di Valore).
- Alla loro unicità o rarità, ossia alla situazione di scarsa diffusione presso le altre imprese
concorrenti (attributo di Rarità).
- Alla loro durevolezza, ossia al persistere del loro valore nell’ambito dell’organizzazione
(attributo dell’Organicità).
Sviluppando questo tipo di analisi, l’impresa sarà in grado di pervenire efficacemente alla
formulazione della propria strategia competitiva. Con essa si realizza una sintesi dei rapporti tra
l’impresa, la clientela e la concorrenza.
L’analisi fondamentale per la formulazione della strategia competitiva è ricorrentemente basata sul
cosiddetto modello “SWOT” (strenght, weakness, opportunity, threat), che suggerisce di prendere
in considerazione i punti di forza e di debolezza dell’impresa in rapporto alla possibile evoluzione
del mercato e dell’ambiente, da cui potranno derivare opportunità favorevoli o minacce. Sarà
proprio tale evoluzione che, se correttamente prevista, consentirà di valorizzare i punti di forza
(risorse e competenze possedute) e di attenuare l’impatto negativo dei punti di debolezza. Così
operando, l’impresa riuscirà a formulare quella strategia competitiva che le permetterà di trarre
vantaggio dalla dinamica del mercato servito o di quello in cui vorrà inserirsi e, allo stesso tempo,
ridurre i rischi di fallimento o di uscita dal mercato di riferimento.
In altri termini, sul filo d’analisi di tale prospettiva teorica, l’analisi interna dei punti di forza e di
debolezza conduce all’identificazione delle competenze distintive dell’impresa, mentre l’analisi
dell’ambiente esterno (opportunità o minacce) guida all’identificazione dei fattori potenziali di
successo. Queste due fasi - analisi interna e analisi esterna - sono alla base della tecnica della
SWOT analysis.
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Per comprendere il funzionamento di un dato mercato e le politiche adottata dalle imprese che in
esso operano, non è sufficiente analizzare separatamente la situazione della domanda e
dell’offerta, ma è indispensabile valutare congiuntamente queste due componenti, allo scopo di
desumere la posizione relativa di forza dei produttori e dei consumatori. Il grado di controllo del
mercato è legato non solo al peso da ciascuno di essi esercitato, ma anche alla situazione di
equilibrio, o meglio di equilibrio, che può crearsi fra la domanda e l’offerta in un certo ambito
territoriale e in una data epoca. É difficile ipotizzare il caso in cui fra domanda e offerta si abbia un
perfetto equilibrio, nel senso che la prima sia in grado di assorbire completamente la seconda o
che quest’ultima sia idonea a soddisfare del tutto le richieste degli acquirenti.
É importante, però, osservare che ai fini del funzionamento di mercato, è fondamentale l’equilibrio
in termini di potenzialità di produzione e capacità di assorbirete, e non equilibrio in termini di
risultati tra domanda e offerta. Infatti, se la domanda tenderà a superare la capacità di produzione
esistente nel mercato, i produttori assumeranno una chiara posizione di vantaggio, in quanto non
solo non sopporteranno rischi di vendita dei loro prodotti, ma potranno avvantaggiarsi di una
situazione di concorrenza fra gli acquirenti, che dovranno competere l’un contro l’altro per entrare
in possesso della limitata quantità di beni disponibili. In tal caso, assai raro, il venditore avrà in
pugno il mercato e potrà stabilire le condizioni di contrattazione dei beni e ci si troverà, dunque, in
quello che viene definito mercato del venditore.
Situazione del tutto opposta si avrà, invece, nel caso di un’eccedenza dell’offerta, in quanto i
produttori dovranno competere fra di loro per acquisire la domanda disponibile. In un’ipotesi del
genere, arbitri del mercato diventeranno i compratori, le cui opzioni di acquisto decreteranno il
successo o l’insuccesso delle singole aziende produttrici. Si parla pertanto di mercato del
compratore.
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Le opzioni strategiche
Tenendo presente che le risorse sono limitate, appare intuibile che la gestione aziendale debba
forzatamente svolgersi secondo un continuo sistema di arbitraggi o di possibili opzioni. Gli
arbitraggi sono necessari a causa sia dev’ammontare di risorse disponibili (che, se investite in un
progetto, non consentono di realizzarne altri), sia dell’incompatibilità tra progetti (l’arbitraggio, in
questo caso, riguarda sia la convenienza ad attuare il progetto in corso di valutazione, ma anche il
costo della rinuncia al progetto incompatibile). Le opzioni (strategiche) riguardano
sostanzialmente l’uso delle risorse, che comporta la prefigurazione di vantaggi/svantaggi per
ciascuna scelta e rende necessario stabilirne la convenienza e il tempo di attuazione.
É stato anche osservato che le risorse fondamentali dell’impresa sono sempre più spesso
rappresentate dalle risorse immateriali (intangibili). Queste ultime, schematicamente, si
individuano nella fiducia, ovvero nell’immagine favorevole che l’azienda è riuscita a crearsi
nell’ambiente in cui opera, e nelle competenze, intese come conoscenze accumulatesi nel corso
della vita aziendale.
La strategia complessiva dipende, dunque, dagli obiettivi che l’impresa si pone in funzione della
situazione in cui si trova e delle opzioni strategiche effettivamente disponibili. L’indirizzo strategico
non discende, dunque, essenzialmente dall’andamento del mercato o dei mercati in cui l’impresa
opera, ma sarà più decisamente condizionato dalle risorse interne a disposizione. In linea teorica,
si può ipotizzare una serie di combinazioni tra l’andamento del mercato e lo stato di equilibrio o di
squilibrio aziendale, rispetto al quale si verranno a formare distinti obiettivi di carattere strategico
complessivo. Semplificando la casistica possibile, si è in grado di distinguere tra le strategie
complessive, tre percorsi:
- Percorso di sviluppo dimensionale: che in teoria dovrebbe essere comune a tutte le imprese
perchè caratteristico di una gestione fisiologica protesa all’espansione delle attività aziendali.
- Percorso di risanamento: tipico di organismi caratterizzati da squilibri strutturali su cui
intervenire con rapidità ed efficacia.
- Percorso di rafforzamento e assestamento: improntato a maggiore prudenza nella gestione
delle risorse e alla difesa, in periodi non favorevoli, delle posizioni occupate.
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Parlare di strategie di sviluppo richiede una necessaria precisazione concettuale. Una conclusione,
che generalmente si da per scontata, è la coincidenza tra i concetti di sviluppo e di crescita del
sistema aziendale. Molto spesso, infatti, per sviluppo s’intende lo sviluppo dimensionale, cioè un
fatto prevalentemente quantitativo o di variazione del volume corrente di attività. In realtà, esso
può essere definito (nella sua accezione filosofica di “movimento verso il meglio”) come un
processo soprattutto qualitativo ovvero di evoluzione dei rapporti tra l’impresa e l’ambiente, a cui di
solito (ma non automaticamente) si accompagna un ampliamento della struttura organizzativa.
Non è detto, infatti, che tutte le imprese perseguano la finalità della crescita, in quanto un aumento
significativo della dimensione operativa genera una serie di problemi di ordine gestionale e
organizzativo. Dunque, in conclusione, si può affermare che la crescita dovrebbe comportare lo
sviluppo, ma non è sempre vero il contrario. Ciò vale soprattutto per le imprese di non piccola
dimensione, nelle quali il realizzarsi di un processo del genere rappresenta, spesso, una
condizione di garanzia della sopravvivenza dell’organizzazione nel lungo periodo. Il continuo
dilatarsi dei mercato e l’accentuarsi della lotta concorrenziale possono portare, infatti, ad una
perdita di forza e, solitamente ad un peggioramento della redditività gestionale. Lo sviluppo
dimensionale appare, perciò, un connotato fisiologico degli organismi più sani, in quanto consente
di adeguare il volume dell’attività biennale alle potenzialità della struttura, all’evoluzione
dell’ambiente esterno, con il fine di migliorare, nel tempo, l’equilibrio nei confronti del mercato.
Obiettivi di fondo dello sviluppo dimensionale sono, pertanto, l’ottimizzazione dell’uso delle risorse
aziendali e l’acquisizione di un peso contrattuale crescente nei confronti dei consumatori, dei
concorrenti, dei fornitori, dei distributori, …
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Lo sviluppo orizzontale
I primi si collegano ad una matrice produttiva comune, che può essere rappresentata dalla
medesima concezione dei cicli di produzione, dalla presenza di fasi comuni di lavorazione,
dall’utilizzazione di tecnologie (know-how) similari, …; mentre i secondi derivano da una comune
impostazione dei problemi e delle politiche di mercato (distribuzione, promozione, …).
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Lo sviluppo verticale si caratterizza perchè ha per oggetto mercati legati da rapporti di fornitura o di
collocamento, in quanto all’aspetto qualificante di questa strategia è l’integrazione, nell’ambito
della stessa organizzazione economica, di attività non simili ma strettamente collegate (es.
industria automobilistica che acquista una fonderia). In sostanza l’integrazione verticale si traduce
in uno “spostamento” a monte o a valle del mercato di acquisto o di vendita di certi prodotti
aziendali. Con la verticalizzazione ascendente l’azienda inserisce nel suo ciclo di produzioni di
base o intermedie rispetto al processo terminale; con quella discendente cambia il suo mercato di
sbocco, rivolgendosi ad uno stadio più vicino alla fabbricazione dei prodotti finali. Per questo
motivo l’integrazione discendente è a volte considerata una forma di diversificazione piuttosto che
di concentrazione monosettoriale. Al riguardano, si deve però osservare che il suo obiettivo non è
di accrescere il numero di settori in cui l’impresa opera, ma di ampliare la gamma di produzioni
intermedie comprese nello stesso ciclo tecnico-economico.
Ciò significa che, per effetto dell’ampliamento del processo di trasformazione, si creerà un più alto
valore aggiunto che consentirà un maggiore controllo sui costi di gestione. Oltre a questo
importante effetto comune alle due modalità d’integrazione verticale, si porrà, nel caso dello
sviluppo ascendente, quello di assicurarsi la continuità di approvvigionamento di risorse
necessarie per il processo produttivo di base e, nel caso di sviluppo discendente, quello di
avvantaggiarsi di un maggiore controllo del mercato finale di sbocco per ridurre i rischi di vendita.
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Nello stesso settore produttivo si ritrovano imprese più integrate, ovvero che hanno maggiormente
internalizzato la produzione di beni e servizi da impiegare nel ciclo produttivo fondamentale, e
imprese che invece hanno preferito concentrarsi sul processo base per ricorrere poi al mercato per
procurarsi le altre risorse di cui hanno bisogno. La dottrina economica ha tentato d fornire una
spiegazione per questo differente comportamento imprenditoriale, formulando la teoria dei costi
di transazione. Il concetto di fondo è che l’impresa, per decidere se produrre o acquistare i beni e
servizi di cui necessità, proverà a comparare il costo di transizione, collegato al processo esterno
di approvvigionamento, a quello di produzione da sostenere per produrre al suo interno gli stessi
beni e servizi. Occorre chiarire il concetto di costo di transazione nel quale si ricomprendono, oltre
al costo di acquisto del bene o servizio, tutti gli oneri da sopportare per ricercare le informazioni,
reperire il fornitore, procedere alla contrattazione e controllarne l’attuazione.
Il costo di transizione rappresenta in questo modo il “costo d’uso del mercato” da porre a
confronto con quello di produzione da sostenere all’interno dell’organizzazione dell’impresa.
Secondo la teoria, dunque, l’imprenditore o manager percorrendo questa strada giungerebbe alla
definizione del “confine efficiente” dell’organizzazione. Con questa espressione si vuole
intendere la definizione dell’insieme dei compiti (attività) da svolgere all’interno dell’impresa per
assicurarsi il massimo livello di efficenza operativa. Quest’ultimo verrà ottenuto decidendo appunto
quali operazioni fare svolgere all’interno della struttura e quali transazioni stipulare rivolgendosi al
mercato. In altri termini, il criterio discriminante sarà quello dell’economicità, ovvero fare realizzare
dall’organizzazione tutte le attività che costerebbe di più delegare al mercato.
Il ragionamento precedente, però, prescinde dalla considerazione del rischio insito nella
finalizzazione dello scambio, per il quale si deve trovare il fornitore sempre disponibile, fare
affidamento sulla precisione della consegna (qualità e tempi), sull’efficenza dei sistemi di trasporto,
… In teoria, proprio per tenere conto di questo doppio aspetto (economicità e rischiosità della
transazione) si è quindi ipotizzato che il ricorso al mercato divenga meno conveniente al crescere
della complessità della transazione e che su quest’ultima influiscano la ricorrenza, l’incertezza e la
specificità degli atti di acquisizione da compiere all’esterno.
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L’impresa può allontanarsi simultaneamente dai mercati e dai prodotti che le sono familiari,
rivolgendosi a settori diversi, cioè attuando un processo di diversificazione produttiva. Quest'ultima
si contrappone alle strategie d’integrazione perché, invece di puntare verso obiettivi di
concentrazione e di rafforzamento del preesistente rapporto impresa/mercato, porta l'azienda ad
occupare posizioni i mercati nuovi, compresi in settori no comparti produttivi differenti da quelli in
cui già opera. In altri termini, è il principio della multisettorialità dell'espansione che si
contrappone a quello della monosettorialità, tipico delle imprese considerate “integrate”. Per
definire meglio la diversificazione produttiva, bisogna chiarire che essa si realizza in modo pieno
quando le nuove produzioni non presentano affinità con quelle precedenti sia in termini tecnologici
sia in termini di marketing. Tenendo presente la possibilità del verificarsi di una o di entrambe di
queste affinità, si distinguono strategie di sviluppo diversificato. La prima, denominata
diversificazione laterale, basata sull'esistenza di un collegamento, in termini tecnologici o di
marketing, tra produzioni vecchie e nuove; la seconda, definita diversificazione conglomerale,
caratterizzata dall'inesistenza di qualsiasi legame tra attività preesistenti e nuove. A ragione delle
difficoltà insite nella valutazione del grado di affinità tra le produzioni poste in essere, in teoria è
stato ritenuto opportuno collegare il concetto di conglomerazione non all'esistenza di legami fra le
produzioni attuate, ma all'essenza di una produzione dominante.
I motivi della scelta di una strategia di diversificazione possono essere molteplici e non sempre si
collegano al desiderio di assicurarsi una rapida crescita dei profitti. La giustificazione, più di
frequente adottata per questa decisione, è l'impossibilità di espandersi soddisfacemente in un
settore ormai ritenuto saturo e la ricerca, dunque, in altri mercati di occasioni più favorevoli di
aumento del volume d'affari. Anche se queste motivazioni possono giocare un ruolo importante,
non bisogna sottovalutare vantaggi ritraibili dall'adozione di una strategia del genere in termini di
stabilizzazione dei redditi e di riduzione del rischio globale di gestione. Alla diversificazione
dell'attività s'accompagna una diversificazione dei rischi di mercato, in quanto ciascuna produzione
sarà assoggettata alle alee (incognite) correnti nel particolare mercato cui sarà destinata. Con
questa strategia, cioè, si possono attenuare le conseguenze di eventi dannosi mediante la
compensazione degli andamenti più o meno favorevoli, che potrebbero presentarsi nei vari mercati
serviti.
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Volendo definire le tappe indicate, si potrebbe osservare che sovente lo sviluppo dell'attività
internazionale segue un ciclo che comprende l'esportazione, la produzione indiretta, la vendita
diretta, la produzione e la vendita diretta, l'organizzazione di unità aziendali integrate.
Quando un’impresa considera l’ingresso in un dato Paese non come un fatto isolato ma come un
fatto permanente, si parla di espansione multinazionale (epilogo di una strategia sistematica di
espansione internazionale).
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Il processo e il significato di direzione aziendale ha subito nel tempo profondi cambiamenti. In una
concezione tradizionale la direzione aziendale consisteva: nella segmentazione del lavoro in atti e
operazioni elementari; nella loro assegnazione al personale; nel controllo del risultato ottenuto. Il
crescere delle dimensioni delle imprese, la progressiva diversificazione produttiva, l’ampliamento
della base geografica di riferimento, così come la crescente complessità dell’ambiente e delle
attività e dei processi aziendali hanno portato al superamento della concezione tradizionale di
direzione. Nella concezione moderna di direzione aziendale la funzione del dirigente si caratterizza
per un articolato sistema di attività (funzioni) interdipendenti, costituite dalla programmazione
(atti di decisione), organizzazione (atti di disposizione), conduzione del personale (atti di guida) e
controllo (atti di valutazione) che costituiscono quello che viene più propriamente definito il ciclo
di direzione aziendale.
La funzione di controllo chiude un ciclo ma ne innesca uno nuovo perchè i dati concorrono a fare
assumere nuove decisioni nell’ambito della funzione di programmazione. Si avvia così un ciclo
informativo perchè il controllo produce informazioni; la programmazione richiede l’integrazione dei
dati interni con quelli relativi al contesto esterno; la conduzione comporta il trasferimento di
informazioni da chi dirige a chi esegue e; chi esegue deve trasmettere i risultati dalla propria
attività agli organi di controllo.
La funzione organizzativa
Organizzare significa ordinare un sistema in parti interdipendenti e correlate, ciascuna avente una
specifica funzione o rapporto rispetto al complesso. Le parti, nel caso dell’impresa, sono gli organi
della stessa e l’organizzazione si rivolge in primo luogo a disciplinare i compiti, i poteri e le
responsabilità che ciascuno dovrà assumere nel corso della gestione.
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Le scelte organizzative
Il problema organizzativo si pone con modalità diverse a seconda che si tratti di organizzare una
nuova azienda o se bisogna riorganizzare un’azienda già funzionante.
É opportuno sottolineare che per la progettazione organizzativa è necessario tenere conto del
complesso di vincoli che caratterizzano l’operare dell’impresa e che possono fare rinunciare a
scelte teoricamente ottimali. I vincoli sono rappresentati da:
- Le capacità professionali disponibili ed acquisibili nel mercato del lavoro.
- L’investimento in costi fissi, che si è disposti a sostenere per la creazione della struttura.
- I costi di lavoro sostenibili dalla gestione.
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Accanto alle strutture organizzative, di cui si è fin qui discusso, si pongono, poi i modelli cosiddetti
a struttura “elastica”, in grado cioè di adattarsi più prontamente ad esigenze contingenti e
rapidamente mutevoli di gestione. Tali modelli sono il modello per progetto e quello per matrice.
Il modello per progetto rappresenta un’ulteriore articolazione del modello funzionale, in quanto è
all’interno di questo che vengono costruiti dei gruppi di lavoro incaricati di elaborare e porre in
attuazione determinati progetti.
La costruzione della struttura organizzativa deve essere poi completata mediante la definizione
dell’ampiezza e dei limiti della delega dei poteri direzionali. L’ampiezza del controllo direttivo
consiste nel definire le dimensioni del gruppo che può essere guidato da un unico dirigente,
mediante la considerazione di un insieme do fattori specifici e generali.
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La progettazione della struttura non esaurisce i compiti attribuiti alla funzione organizzativa, in
quanto il funzionamento del sistema d’impresa richiede necessariamente la definizione di
procedure di lavoro o “routine organizzative”. Queste possono essere programmate in fase di
avviamento dell’impresa, ma si arricchiscono per effetto dell’accumulazione di conoscenze
nell’organizzazione.
Le procedure stabiliscono delle norme di comportamento adottabili in modo ripetitivo nel tempo
per la soluzione di problemi similari o analoghi. Le procedure possono essere rappresentate
graficamente mediante i diagrammi a flusso (o flow-chart). Il flow-chart è una rappresentazione
grafica che riproduce le fasi di una data procedura utilizzando e collegando tra loro simboli
standard. Tale strumento aiuta a comprender lo sviluppo del processo (l’iter) in quanto descrive la
sequenza logica delle fasi di attività così come dovrebbero essere realizzate. La scomposizione in
fasi del processo può essere utile per identificare le cause di una particolare problema e trovarne
le soluzioni.
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L’attività di programmazione non deve essere confusa con il termine previsione, che significa
anticipazione dei futuri andamenti di alcune variabili (economiche, sociali, …) da cui trarre
informazioni per orientare i comportamenti e le scelte aziendali. In questo caso, non vi è un
processo decisorio, ma solo la valutazione anticipata di fenomeni interessanti l’impresa.
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Il piano strategico è un piano a lungo termine di carattere innovativo, che si riferisce alla strategia
globale. In altri termini, rappresenta l’elemento di riferimento di tutto il sistema, in quanto sia il
piano operativo, sia i singoli piani di esercizio dovranno essere elaborati in funzione del
perseguimento degli obiettivi di lungo termine. Il conseguimento di questi ultimi richiederà la
formulazione di piano di sviluppo strategico (le cui alternative principali di crescita potranno
essere la concentrazione oppure la diversificazione), la predisposizione di un piano
d’investimenti da compiere per realizzare la strategia prescelta e, infine, la messa a punto di un
piano organizzativo per creare le strutture più idonee a dare attuazione alla strategia di sviluppo.
Il piano strategico può, quindi, essere idealmente scomposto nel piano di sviluppo, nel piano degli
investimenti e nel piano organizzativo.
Esempio. Supponendo che il piano si riferisca al triennio 2014-2016, al termine dell’anno 2014 si
correggeranno, se necessario, i programmi già fissati per il 2015 e 2016 e poi si aggiungerà quello
concernente il 2017.
Dalle considerazioni fino ad ora riportate appare evidente che la funzione di programmazione
necessita di alcune caratteristiche essenziali: formalizzazione, integrazione, quantificazione e
pluriennalità. Essa, difatti, deve concentrarsi nella redazione di programmi scritti, con la
quantificazione delle risorse da impiegare e degli obiettivi da raggiungere relativamente all’intera
gestione e ad un arco ampio di tempo.
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La determinazione dei traguardi di crescita o anche di mantenimento delle posizioni di mercato non
potrà certamente prescindere, da un lato, dalla previsione delle tendenze di mercato e, dall’altro,
dalle risorse che si potranno e si vorranno impegnare nella gestione. L’ottenimento di tali traguardi
sarà dunque subordinato alla possibilità di adottare opportune politiche gestionali (politiche di
marketing, finanziarie, …), possibilità a sua volta limitata dall’esistenza di un determinato stock di
risorse disponibili. In altre parole, l’impresa è naturalmente protesa a massimizzare i risultati di
gestione entro i limiti posti dall’ambiente esterno e dalla struttura interna. Per far ciò stabilisce un
insieme di politiche che, tenuto conto dei vincoli, le consentano di ottenere gli obiettivi.
Per quanto riguarda la valutazione degli effetti economici delle azioni pianificate, acquista
particolare importanza un documento che scaturisce dal processo di programmazione, ovvero il
budget economico o bilancio preventivo. Questo è un documento contabile che traduce, in
termini di costi e ricavi, le scelte e le operazioni stabilite nel piano. La sua utilità è rilevante sotto il
duplice profilo decisionale e di controllo, con esso, infatti, si riescono a quantificare
economicamente le decisioni programmate e valutate, quindi, l’opportunità di attuarle o di
modificarle prima di tradurle in operazioni di gestione. Al budget economico si collega
necessariamente un budget finanziario, che considera gli usi e le fonti di capitale, in modo da
predeterminare il saldo finanziario dell’esercizio. In altri termini, individua in relazione ai programmi
operativi e agli investimenti programmati, il fabbisogno finanziario di periodo e le fonti e forme
possibili di finanziamento.
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Soprattutto per effetto delle innovazioni avutesi nel processi di conduzione del personale, il
controllo ha subito una marcata evoluzione. Si è, dunque, sostituita ad una visione tradizionale,
dove era inteso come strumento di costrizione la cui attuazione doveva servire a valutare
l’efficienza, l’onestà e la diligenza dei dipendenti, una visione avanzata, che concepisce la
funzione di controllo direzionale come strumento d’indirizzo e come il mezzo per individuare le
eventuali insufficienza dell’azione, allo scopo di stimolare automaticamente gli interventi di
correzione e favorire lo spirito d’iniziativa del personale.
L’ampliamento dei contenuti del processo di controllo è stato originato specie dallo sviluppo della
programmazione aziendale, che ha permesso di effettuare un riscontro preventivo e concomitante
delle decisioni e delle prestazioni da realizzare nell’organizzazione. Tale processo può pertanto
svolgersi in quattro momenti successivi e complementari:
- In via antecedente rispetto all’azione, (es. analisi di mercato) serve a valutare preventivamene
la bontà di determinate scelte ed è strettamente collegato con la funzione di programmazione, in
quanto può essere considerato una forma di controllo anticipato delle future linee di gestione.
- In via prospettica, (mediante il controllo strategico) verifica la persistenza della validità delle
scelte strategiche e organizzative.
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- Determinazione degli obiettivi: per ogni attività da compiere si stabiliscono degli obiettivi da
sottoporre a controllo. Gli obiettivi possono essere desunti dalla programmazione formulata o
essere fissati in fase di attuazione di specifiche politiche o azioni.
- Rilevazione periodica dei risultati: richiede di un’organizzazione efficiente, infatti, sarà
necessario ottenere tempestivamente i dati sulle prestazioni, raccogliendoli dove si generano e
sottoponendoli all’indispensabile processo di elaborazione. In ogni azienda è, del resto, buona
norma stabilire un sistema di reporting, in grado di far giungere con regolarità i dati sui risultati di
gestione ai dirigenti interessati.
- Analisi causale scostamenti: il confronto tra gli obiettivi programmati ed i risultati conseguiti,
potrà far emergere degli scostamenti non accettabili e indurre ad analizzare le cause scatenanti.
L’analisi causale è momento di grande importanza perché fornisce gli elementi necessari a
comprendere i fattori che hanno determinato le deviazioni. Un’analisi non corretta può,
ovviamente, orientare in modo sbagliato gli interventi di gestione.
- Interventi correttivi: possono avere per oggetto il livello delle prestazioni ottenibili
nell’organizzazione o direttamente i piani. I primi tendono a riportare l’attività in linea con la
programmazione; i secondi hanno invece come scopo il riadeguamento della programmazione
alle mutate condizioni interne ed esterne di svolgimento della gestione.
Nell’ipotesi di scarti che richiedono delle misure di correzioni, gli interventi potranno essere di tre
tipi: di natura organizzativa, promozionale o di modifica degli obiettivi programmativi. Gli organi
interessati saranno: il reparto vendite, reparto promozione e il reparto controllo e budget. Dalla
direzione commerciale partirà un flusso di informazioni di ritorno (feedback) inteso a riportare il
sistema in equilibrio. Questo meccanismo assicurerà il regolare funzionamento dei vari subsistemi
aziendali. L’attuazione della programmazione del controllo operativo consente di realizzare il tipo
più moderno di conduzione dell’attività aziendale: la direzione per obiettivi e il controllo per risultati,
più con la sigla MBO (Management by Objectives).
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- Difficoltà di ampliare le analisi sul piano dell’intera struttura organizzativa aziendale. Il controllo
gestionale, di norma, tende a verificare le disfunzioni che si verificano in specifiche aree
funzionali, ma non offre la possibilità di realizzare una valutazione più ampia sul modello di
organizzazione utilizzato e sulle modalità di impiego delle risorse umane all’interno dell’impresa
considerata.
Il controllo strategico aziendale si pone come obiettivo globale della gestione aziendale e si rivolge
alla verifica della:
- Conseguenza esterna del comportamento strategico dell’impresa.
- Conseguenza organizzativa tra strategia e struttura dell’impresa.
- Efficienza del sistema e qualità dei responsabili di direzione.
Il controllo strategico, essendo proiettato nel futuro, deve permettere di verificare se le scelte di
tempo lungo conservano la loro validità, tenendo presente che nell’ambiente e nei mercati si
possono presentare fenomeni imprevisti.
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La verifica del grado di avanzamento della tecnologia direzionale e della sua compatibilità con gli
uomini inseriti nell’impresa completa l’iter del controllo strategico d’azienda. L’inserimento di tale
obiettivo richiede non solo un ampliamento delle analisi da condurre, ma anche una modificazione
del controllo strategico da procedura interna attuata dalla stessa dirigenza aziendale a procedura
esterna realizzata da organizzazioni di consulenza.
Una valutazione del sistema di direzione comporta necessariamente l’esame delle caratteristiche
di professionalità del management ed è inopportuno che questa verifica sia compiuta mediante un
processo di auto-analisi. Si tratta dunque di un controllo eccezionale ed esterno. In questo senso
esso si traduce in un cero e proprio check-up aziendale, intendendo un controllo approfondito e
sistematico delle condizioni di struttura e di funzionamento dell’organismo aziendale.
Solo attraverso un efficiente organizzazione del controllo direzionale è possibile adottare forme più
avanzate di governo del sistema aziendale. Proprio ai fini di tale organizzazione, assumono
particolare rilievo alcuni problemi che devono essere attentamente valutati dall’alta direzione.
- Assicurare un giusto equilibrio tra creatività e conformità: il controllo, infatti, può essere
inteso come standardizzazione di certe decisioni ed operazioni, in maniera da far svolgere le
attività secondo norme rigidamente prestabilite, oppure come una guida del fattore umani in cui
sia lasciato spazio sufficiente alla creatività e allo spirito d’iniziativa individuale.
- Impiegare tecniche e strumenti adeguati alle esigenze aziendali: per evitare un inutile
spreco di risorse, è opportuno che le procedure e i mezzi adoperati per l’attuazione del piano di
controllo rispondano all caratteristiche di gestione dell’impresa, Non sempre le tecniche più
raffinate di valutazione dei risultati si rivelano come le più adatte agli scopi da raggiungere.
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Fondamentale ai fini del processo di conduzione del personale è il concetto di uomo assunto a
base della costruzione dell’organizzazione. Tre possono essere considerate le principali teorie
organizzative che hanno studiato il rapporto tra uomo e lavoro all’interno dell’organizzazione:
l’organizzazione scientifica del lavoro, la scuola delle relazioni umane, la visione sistemica.
Le differenti concezioni che hanno preso in considerazione il rapporto tra uomo e l’organizzazione
hanno, chiaramente, alla loro base un differente stile di direzione, cioè un differente modello di
governo dei rapporti di lavoro nell’organizzazione. É evidente che dal modello adottato dipende il
“clima “ umano che caratterizza le relazioni di potere. Sotto quest’aspetto si passa, infatti, da una
direzione tradizionale di tipo autocratico, fondata sul principio dell’autorità, ad una direzione
partecipativa, basata sul consenso. La prima viene attuata prevalentemente mediante la
gerarchia del comando, la seconda mediante la creazione della motivazione. Nella realtà, è
opportuno osservare che non appare applicato integralmente né l’uno né l’altro tipo di direzione
perché il funzionamento di qualsiasi organizzazione richiede, comunque, l’esistenza di una
gerarchia intorno a cui costruire, mediante la motivazione, dei rapporti di consenso e di
collaborazione.
Per ottenere il più elevato rendimento del fattore lavoro, appare dunque necessario risolvere il
problema dell’integrazione tra gli obiettivi individuali e quelli aziendali: quando si realizzerà questo
processo di fusione non si avrà più un “problema” di conduzione degli uomini, i quali saranno
naturalmente motivati a fornire il loro migliore contributo.
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I due tipi di motivazione rispondono a stimoli diversi e richiedono, quindi, l’adozione di distinte
tecniche e incentivi. I problemi della motivazione presentano soprattutto aspetti psico-sociologici,
pertanto risulta particolarmente opportuno fare riferimento alla teoria elaborate da Abraham
Maslow, che assume un ruolo centrale nella comprensione delle tecniche motivazionali. Tale teoria
propone cinque categorie di bisogni che è possibile collocare lungo una scala gerarchica, che
differiscono tra di loro per natura e per grado di complessità e che possono essere così classificati:
- Bisogni primari o di sussistenza: riguardano la sopravvivenza immediata. Rientrano in questo
livello: il mangiare, il dormire, il bere, il ripararsi dal freddo, …
- Bisogni di sicurezza: riguardano la sopravvivenza nel lungo periodo. In tale categoria si può
ricomprendere la sicurezza del posto di lavoro, della casa, della salute, …
- Bisogni di appartenenza o socialità: riguardano l’esistenza di un ambiente sociale gradevole.
Costituiscono alcuni esempi di tali bisogni: l’identificazione in un gruppo, l’appartenenza ad un
partito, …
- Bisogni dell’ego o di stima: riguardano l’aspirazione ad un riconoscimento sociale del proprio
status, come il prestigio, il rispetto di sé, la stima o il riconoscimento.
- Bisogni di auto-realizzazione: riguardano l’aspirazione ad un lavoro che arricchisca la
dimensione psicologica interiore dell’uomo.
L’ipotesi di Maslow è che l’ordine gerarchico dei bisogni stabilisce anche l’ordine di priorità della
loro soddisfazione: non sarà possibile l’insorgenza di bisogni di ordine superiore se non dopo
l’avvenuta soddisfazione di bisogni di ordine inferiore. Ai primi gradini, infatti, contano di più gli
incentivi economici, mentre a quelli successivi assumono una maggiore importanza gli stimoli
psicologici ovvero le gratificazioni morali. In tale teoria, si possono osservare dei punti critici:
- La scala verso i bisogni superiori non presuppone obbligatoriamente il soddisfacimento al
100% del bisogno inferiore (es. 30% sussistenza e 40% stima).
- La separazione tra le varie categorie di bisogni è un fatto teorico perché nella realtà tra di essi
vi sono rapporti di interdipendenza e ciò significa che scelte diverse dell’individuo possono
riflettersi contemporaneamente su più tipi di bisogni.
- L’ordinamento dei bisogni lungo la scala non può essere sempre lo stesso per tutti gli individui
e le eccezioni possono essere frequenti. Infatti, tutti i bisogni sono presenti per qualsiasi
individuo, quella che varia è la loro importanza relativa.
- La scala dei bisogni risente anche delle condizioni ambientali.
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- I bisogni soddisfattivi: cioè quelli che, una volta appagati, producono gratificazione e, quindi,
stimolano all’azione. Tra questi sono inclusi tutti i fattori “motivazionali” quali il successo e il suo
riconoscimento, l’interesse verso il lavoro svolto e le responsabilità assunte, le occasioni di
crescita professionale presenti nei compiti assegnati, la possibilità di promozione e di
avanzamento.
- I bisogni insoddisfatti: cioè quelli che, se non soddisfatti, generano frustrazione e determinano
l’inazione. Sono compresi i cosiddetti fattori “igienici”, legati alla politica dell’azienda e alla sua
organizzazione, alla supervisione, alle relazioni interpersonali, alle condizioni di lavoro, alla
retribuzione, allo status e alla sicurezza.
Per quanto concerne l’incentivazione economica, va rilevato che oggi, piuttosto che il ricorso a
forme di gratificazione individuale, tendono ad essere preferite quelle che concorrono a creare
spirito di gruppo all’interno dell’organizzazione. L’incentivazione può assumere diverse forme e
produrre risultati differenti in funzione dell’orientamento all’individuo o al gruppo e della
proiezione nel breve o lungo periodo. In base a questi due fattori si può costruire una matrice, i cui
quadranti sono rappresentati da aumenti salariali, gratifiche, piano di incentivi e stock option.
Lo stile di direzione può essere definito come il “modello di governo dei rapporti di lavoro
nell’organizzazione”. Esso tende ad assumere caratteristiche molto differenti da impresa a
impresa, in funzione non solo della struttura organizzativa adottata, ma anche della qualità degli
organi direttivi impegnati. Si possono individuare i due casi limite della direzione aziendale:
- Lo stile autoritario di direzione: legato ad una struttura fortemente accentrata del processo
decisorio e si esercita mediante il comando ed il controllo. Il principio di fondo è l’esistenza di un
rapporto gerarchico, in base al quale il superiore può imporre al subordinato le sue decisioni, il
cui rispetto sarà assicurato mediante il controllo e la minaccia di sanzioni nei confronti del
dipendente inadempiente.
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Secondo Mac Gregor, alla base di questi due stili di direzione vi sono delle differenti visioni circa la
natura ed il comportamento individuale, che configurano appunto due opposte teorie direzionali.
La teoria della direzione mediante il comando ed il controllo (denominata teoria X) parte, infatti, da
tre premesse:
- L’uomo in generale detesta il lavoro.
- Gli unici mezzi per ottenere che egli lavori sono i controlli e le minacce di punizioni.
- Gli obiettivi del lavoratore è quello della sicurezza, per cui evita rischi e responsabilità e
preferisce essere diretto piuttosto che assumere ruoli di leadership.
Di fronte a una teoria del genere, imperniata su un concetto fortemente riduttivo della personalità
del lavoratore, si pone quella della direzione mediante l’integrazione fra obiettivi individuali ed
organizzativi (teoria Y), secondo la quale:
- Il lavoro è accettato dall’uomo come un fatto naturale quanto lo svago o il riposo.
- L’uomo può esercitare l’autodisciplina e, quindi, per lavorare non deve essere né controllato né
minacciato di sanzioni.
- L’uomo è disposto ad accattare le responsabilità per avanzare nella scala dei bisogni.
- La capacità innovativa, l’immaginazione, la creatività sono ampiamente diffuse tra i
lavoratori e possono essere utilmente sfruttate per risolvere problemi organizzativi.
- Le potenzialità medie dei lavoratori sono solo parzialmente messe a frutto nelle attuali
condizioni della vita aziendale.
Dunque, lo sforzo dei dirigenti dovrebbe essere teso all’applicazione della teoria partecipativa, in
modo da sfruttare le motivazioni individuali a vantaggio anche dell’organizzazione. Ciò non è
sempre semplice, perché la partecipazione richiede un’elevata professionalità a tutti i livelli e
l’instaurazione di un clima consolidato all’interno dell’organizzazione. A tale proposito, bisogno
sottolineare l’importanza della creazione di stretti legami di gruppo nel contesto aziendale. Il
principio del “clan” si pone, infatti, in alternativa a quello della gerarchia. Questo perchè, se tra i
componenti del gruppo (clan) si affermano valori comuni d’impegno nei confronti degli obiettivi
assegnati al gruppo stesso dal superiore gerarchico, diventa superflua l’attivazione del rapporto
gerarchico per ottenere il rispetto degli obiettivi. In altre parole, il principio del clan consente di far
leva sul rapporto comune di lealtà verso l’azienda, affinché la supervisione del comportamento e
delle prestazioni sia assicurata, in modo pressoché automatico, da forme di controllo sociale.
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I due tipi di motivazione rispondono a stimoli diversi e richiedono, quindi, l’adozione di distinte
tecniche e incentivi.
Per quanto concerne, invece, l’analisi delle mansioni (o job evaluation), si fa riferimento allo studio
sistematico e approfondito delle singole posizioni organizzative. Tale attività è diretta a:
- Valutare le caratteristiche delle operazioni e dei compiti connesse alle singole posizioni.
- Stimare le conoscenze e le capacità richieste all’esecutore.
- Definire le responsabilità nei confronti delle altre unità.
Il sistema premiante è dato dalla possibilità offerta in termini di sviluppo di carriera a chi dimostri di
avere più capacità professionale e maggiore volontà di impegnarsi.
Gli strumenti per la ristrutturazione del lavoro, invece, possono essere così sintetizzati:
- Job rotation (rotazione delle mansioni): consiste nella possibilità offerta ai dipendenti di poter
svolgere periodicamente compiti diversi all’interno di uno stesso livello al fine di evitare la
monotonia derivante dalla ripetitività del lavoro svolto.
- Job enrichment (arricchimento delle mansioni): consiste nel miglioramento della qualificazione
professionale ed in un maggior controllo sulla situazione di lavoro e sulla conseguente
responsabilizzazione. Il ricorso a tali strumenti può favorire la motivazione a produrre da parte
dei dipendenti.
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Il sistema informativo aziendale può essere scomposto nel sistema informativo direzionale (SID) e
in quello operativo. Il primo elabora le informazioni che sostengono il management aziendale
nell’assunzione di decisioni più o meno complesse e nel controllo della relativa attuazione; il
secondo identifica una serie di sottoinsiemi eterogenei che forniscono il supporto informativo per
programmare lo svolgimento delle attività esecutive e per il loro controllo operativo.
Un efficace sistema informativo dovrebbe rispettare il principio della selettività che può essere
espressa dal rapporto tra i dai qualitativamente rilevanti per ogni centro decisionale e la massa
totale dei dati forniti, esprime la capacità del SI di fornire a ciascuna tipologia di utilizzatori soltanto
le informazioni rilevanti ai fini decisionali. Un pericolo può essere l’information overload e per
scongiurarlo, il SI va progettato a partire dalla valutazione del fabbisogno informativo specifico
delle differenti categorie di utilizzatori.
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I dati costituiscono la base di partenza, l’input del processo di produzione del sistema di
informazione. Un dato è la rappresentazione - non soggetta ad interpretazione - dello stato di un
fenomeno; l’informazione, invece, è un dato a cui viene attribuita una forma, a cui viene quindi
associato un significato utile dal punto di vista del soggetto. L’impresa deve porre molta cura nel
predisporre i processi di acquisizione dei dati elementari, decidendo in basse al fabbisogno
informativo da soddisfare, quali dati rilevare/archiviare, presso quali fonti reperirli e con quale
frequenza aggiornarli. La buona qualità dei dati elementari è essenziale per la correttezza dei
successivi processi elaborativi e delle informazioni che ne conseguono (Garbage In, Garbage out).
Per costruire una buona base di dati, i dati interni provenienti dai sistemi contabili ed extracontabili,
devono essere integrati con i dati esterni relativi all’ambiente competitivo e transnazionale e al
macro-ambiente in cui l’impresa opera.
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Le persone: nelle prime fasi dell’informazione aziendale la raccolta e l’elaborazione dati venivano
eseguite da personale specialistico e si realizzavano nei centri EDP (Electronic Data Processing),
oggi tutto il personale aziendale è attivo nell’utilizzo delle tecnologie informatiche e i dati possono
essere acquisiti direttamente alla fonte. Però la componente umane del SI è particolarmente critica
nel processo di elaborazione dei dati perché la stessa informazione può essere recepita in modo
anche molto diverso da due individui.
Il SI può essere scomposto il SID e in quello operativo. Questi due sistemi sono strettamente
interagenti: il SID elabora informazioni che supportano il processo decisionale e la fissazione degli
obiettivi; dalla decisione, attraverso la comunicazione delle scelte, si passa all’esecuzione; si basa
poi al controllo che potrà fornire nuove informazioni quali-quantitative utili per attivare e/o
sostenere le successive decisioni.
Le informazioni che interessano la direzione strategica possono essere generate proprio mediante
l’elaborazione del patrimonio di dati, che hanno origine interna o esterna. I primi sono ottenuti dai
sistemi informativi operativi - che sono generalmente sistemi integrati (ERP) - ma anche dai
sistemi dedicati alla gestione della relazione con il cliente, come i sistemi di CRM o da varie
applicazioni delle tecnologie Web.
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I dati elementari sono estratti da tali sistemi di origine, sono ripuliti e caricati nel data warehouse
una sorta di magazzino dei dati di interesse direzionale da dove possono essere trattati con una
vasta gamma di software e applicazioni.
L’ultimo livello dell’architettura del SID corrisponde a quello dei sistemi di Business Intelligence
intesi come insieme di processi, applicazioni e sistemi tecnologici mediante i quali si producono e
analizzano informazioni relative al business aziendale, riuscendo sia a valutare il passato e a
capirne i fenomeni che a predire i valori futuri di alcune variabili. Tali sistemi supportano i processi
di produzione e analisi di informazioni operando sia in modalità push che pull. Sono sistemi
specializzati nell’elaborazione ed analisi di ampie basi di dati che consentono di individuare
potenziali correlati utili per spiegare i termini di un problema o individuare opportunità emergenti.
Tali sistemi supportano il management nella ricerca dell’informazione utile ad interpretare le cause
che determinano i fenomeni di interesse dell’impresa.
L’informazione deriva dall’interpretazione dei dati, cui viene associato un significato dal punto di
vista del soggetto. La conoscenza può invece essere generata dall’assimilazione
dell’informazione, ossia dall’integrazione dell’informazione con le informazioni precedentemente
ottenute dal soggetto e costituite in un sistema. Alla generazione di nuova conoscenza si giunge
attraverso il coinvolgimento attivo di un individuo che realizza uno sforzo cognitivo, basato sulla
capacità di pensare, di mettere a frutto le esperienze pregresse e di comprendere il senso di ogni
esperienza vissuta: la conoscenza è informazione combinata con l’esperienza, il contesto,
l’interpretazione e la riflessione.
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Il problema più grande per le imprese è riuscire ad accedere alle conoscenze tacite e riuscire a
farle emergere con quelle esplicite, così da arricchire il patrimonio cognitivo dell’organizzazione. La
creazione della conoscenza richiede un processo dinamico di conversione che deve realizzarsi su
due livelli: dall’individuo all’organizzazione; dal sapere tacito a quello esplicito e viceversa. Tale
processo è conosciuto come modello della spirale della conoscenza che afferma quattro
differenti modalità di conversione della conoscenza:
1) Da implicita a implicita (socializzazione).
2) Da implicita ad esplicita (esteriorizzazione).
3) Da esplicita ad esplicita (combinazione).
4) Da esplicita ad implicita (interiorizzazione).
La conoscenza tacita non può essere trasferita tramite le parole, ma può essere acquisita tramite
l’osservazione del comportamento.
Per esempio, un apprendista artigiano che lavora accanto al suo maestro ne acquisisce la capacità
attraverso l’osservazione. Questa è una modalità di conversione della conoscenza da tacita a
tacita che può essere incentivata dall’impresa tramite interventi alla struttura organizzativa tesi a
facilitare la creazione di interactional fields. In questo modo la conoscenza, pur rimanendo tacita,
passa da individuo a individuo (socializzazione). Questa conoscenza può essere esplicitata
attraverso il processo di esteriorizzazione con cui si cerca di dare un’espressione linguistico-
comunicativa alla base di conoscenze comuni che gli individui hanno sviluppato. Il passaggio
successivo è quello della combinazione in cui si realizza il passaggio da conoscenza esplicita a
esplicita: la comunicazione interpersonale, il confronto di idee e lo scambio di conoscenze
consentono di accrescere la base di conoscenze pregresse. La conoscenza prodotta in questo
modo di cristallizza a livello organizzativo assumendo la forma di routines e può essere
trasformata nuovamente in conoscenza tacita grazie al processo con cui l’individuo la sperimenta e
la mette in pratica, per prove ed errori (interiorizzazione).
L’interazione tra conoscenza tacita e esplicita è alla base dei processi di generazione di nuova
conoscenza.
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I Knowledge Management System (KMS) sono sistemi basati sulle tecnologie di informazione e
della comunicazione che supportano i processi di organizzazione, generazione, e codifica della
conoscenza. Tali sistemi non si limitano a creare semplici archivi delle conoscenze organizzative
ma possono anche essere strutturati per sostenere:
L’ostacolo principale alla corretta implementazione del KM nella realtà aziendale non è di tipo
tecnologico ma di natura culturale: l’investimento in nuove soluzioni tecnologiche non produce
risultati se l’organizzazione non realizza azioni volte a diffondere al proprio interno una cultura
partecipativa, orientata al knowledge sharing. Per scongiurare questo rischioso la cultura aziendale
che deve essere modificata e indirizzata a sostegno del KM.
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- Funzioni primarie od organiche: sono comuni a tutti i tipi d’azienda, ma anche normalmente
separate all’interno dell’organizzazione (produzione, vendita, finanza).
- Funzioni di supporto: hanno un grado di importanza minore e spesso sono affidate a centri
esterni di sevizio (logistica, personale, R&S, contabilità).
- Funzioni ausiliarie: molto spesso, anche parzialmente, delegate all’esterno per ragioni di
economicità o per mancanza di competenze idonee nell’organizzazione (trasporti, distribuzione,
manutenzione impianti, pubblicità, …).
In passato si tendeva a distinguere due tipi di comportamento dell’impresa nei confronti del
mercato:
- L’orientamento al prodotto: rappresentato dalla cura soprattutto dei problemi attinenti al ciclo
di produzione dei beni, per i quali la successiva vendita finiva per costituire un’attività
complementare e pressoché automatica.
Il punto centrale della differenza tra orientamento “al mercato” e “al business” è dato dall’ampiezza
dell’area di osservazione da parte dell’impresa: nella prima ipotesi, infatti, le opportunità vanno
ricercate sostanzialmente nel mercato in cui si è giù presenti; mentre nella seconda ipotesi la
ricerca si estende a tutti i mercati (campi di attività) in cui le risorse aziendali possono essere
impiegate con successo.
Quest’orientamento al business è fondato sul concetto di marketing, posto al centro della gestione
aziendale. In tal senso, il termine marketing, che appare intraducibile nella nostra lingua, indica,
infatti, il processo mediante cui:
- L’azienda studia il mercato o i mercati che ritiene interessanti.
- Analizza le tendenze dalla domanda e la situazione della concorrenza.
- Individua l’esistenza di opportunità di business.
- Orienta la produzione in funzione di potenziali acquirenti da conquistare.
- Crea la domanda per i nuovi prodotti.
- Colloca i prodotti preso gli sbocchi prescelti.
Il marketing, dunque, si pone come una particolare “filosofia” di gestione, incentrata sul mercato e
protesa a trovare il migliore equilibrio tra le potenzialità di offerta aziendale e le esigenze attuali e
prospettive della domanda. La realizzazione di quest’obiettivo comporta lo svolgimento di attività di
previsione, programmazione, promozione e distribuzione dei prodotti, per cui il marketing
costituisce anche una funzione fondamentale nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Tale
funzione richiede la creazione di strutture idonee e la disponibilità di competenze professionali
adeguate, con un allargamento sostanziale della tradizionale area di vendita. In tal senso, infatti,
nell’ambito della funzione commerciale si possono individuare due gruppi di compiti che, per la loro
importanza, tendono ad originare delle distinte sub-funzioni. Si tratta del servizio marketing, a cui
è legato un complesso di attività di programmazione e gestione produttiva e finanziaria, e del
servizio vendita, a cui è riconducibile un complesso di attività operative legate al momento della
vendita.
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Le politiche di marketing, nel loro insieme, compongono la combinazione o mix di marketing, cioè
la miscela degli strumenti rivolti all’ottenimento degli obiettivi di mercato fissati di periodo in
periodo. Nell’ambito di tale combinazione sono solitamente comprese le scelte inerenti ai prodotti,
ai prezzi, alla promozione, ai canali di distribuzione, alle zone, ai metodi e ai tempi di vendita.
Queste scelte possono essere raggruppare in quattro politiche fondamentali, prodotti, prezzi,
promozione e canali, anche note come le quattro P, dall’inglese, infatti, “product, price,
promotion, place”.
Da tempo, le imprese produttrici di beni di consumo sono sempre più decisamente orientate a
migliorare il servizio al consumatore e a ridurre i tempi di messa a punto dei nuovi prodotti (time
based competition) e delle nuove offerte di mercato. La crescita della componente “servizio” è un
tratto comune per le aziende che operano in questo settore perchè è rivolta sia a “differenziarsi”
meglio dalla concorrenza sia a fidelizzare il più possibile la propria clientela. La difficoltà e,
soprattutto, i costi promozionali necessari per acquisire nuovi clienti fanno appunto si che la
customer satisfaction e la customer retention (mantenimento o fidelizzazione della clientela)
diventino obiettivi prioritari dell’azione di marketing.
Le scelte del consumatore sono tanto più ampie e diversificate quanto maggiore è la
discrezionalità nella destinazione del reddito disponibile. Idealmente, infatti, il reddito netto si
frazione in due unità: unità impegnata per il soddisfacimento dei bisogni essenziali e unità
disponibile per il risparmio o per l’appagamento di bisogni non essenziali (cosiddetti voluttuari). Di
conseguenza, in processo di decisione, nel caso del reddito impegnato, si limita alla scelta dei beni
diretti a soddisfare i bisogni essenziali; mentre nell’ipotesi di reddito discrezionale, destinato alla
spedita e non al risparmio, comprende prima la selezione dei bisogni da soddisfare e, poi, quella
dei bisogni idonei a procurare tale soddisfacimento. Questo schema decisionale, in presenza in più
marche degli stessi prodotti, si estende, in entrambi i casi, anche alla selezione di una particolare
marca, tra quelle presenti sul mercato. Ciò significa che, per la spendita del reddito discrezionale, il
consumatore attua in effetti un processo di scelta a tre stadi (bisogni, beni e marca) e che, di
conseguenza, il produttore si trova a fronteggiare una concorrenza indiretta o tra bisogni, una
concorrenza allargata o tra beni alternativi ed una concorrenza diretta o tra marche.
- Motivazioni razionali: incentrate sul calcolo economico e orientate dalla valutazione del
rapporto qualità/prezzo dei beni da acquistare.
- Motivazioni emotive: collegate alla sfera dei sentimenti e derivanti da fattori di gusto, estetica e
personalità del consumatore.
- Motivazioni di patrocinio: correlate alla fiducia nel produttore o nel distributore e alla creazione
di un rapporto d’integrazione tra il consumatore e la marca (o il negozio), tale che il primo diventi
non solo un acquirente stabile e fedele, ma anche un “patrocinatore” della marca o del punto
vendita nei confronti di altri consumatori.
É il rapporto tra prezzo del bene e reddito disponibile che influenza le modalità e le motivazioni
dell’acquisto.
A causa dell’eterogeneità dei comportamenti dei consumatori, ogni mercato si può frazionare in più
sub-mercati e segmenti di mercato, ciascuno comprendente una particolare categoria di
acquirenti. La segmentazione può, ovviamente, essere più o meno spinta a seconda della
variabilità di tali comportamenti di acquisto e anche dalla consistenza dei segmenti così
individuabili. Ogni mercato potrebbe infatti essere costituito da un’infinità di segmenti, ma
all’impresa interessa cogliere le principali uniformità di comportamento ed isolare le classi di
clientela che, per omogeneità e dimensione, si prestino ad essere considerate come un solo sub-
mercato, meritevole di essere gestito in modo indipendente.
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Il processo di segmentazione comporta non solo la scelta dei criteri di suddivisione dei
consumatori, ma anche la separazione dei vari segmenti di mercato e la misurazione della loro
consistenza, che consente di valutare se l’ampiezza degli strati individuati permette di predisporre
un’apposita azione di marketing. É intuibile, infatti, che il concetto di semento o sub-mercato è
valido nei termini in cui per esso risulti possibile e conveniente uno specifico sforzo di marketing.
Nel primo caso l’impresa si rivolge ad un ampio numero di potenziali acquirenti sulla base di un
programma standard di marketing che prevede l’unicità di modelli, prezzi, condizioni di vendita, …;
nel secondo caso, i programmi di marketing si differenziano per i diversi segmenti; nel terzo caso
il programma è sempre uno, ma la sua formulazione è mirata ad uno specifico segmento o strato
di mercato.
La politica di prodotto
Il successo di un’impresa dipende dal favore che riscuote la sua offerta sul mercato e, “in primis”,
del grado di accettazione dei beni che pone sul mercato. Nell’impresa il legame tra competenze
distintive e gamma di prodotti da collocare è diretto perchè la scelta di certe produzioni è,
ovviamente, legata alla capacità di produrre un’offerta vincere rispetto al gruppo di potenziali
acquirenti da soddisfare. La politica del prodotto appare caratterizzata da un alto tasso di
strategicità perchè richiede l’allestimento di struttura molto impegnative sotto il duplice profilo
delle risorse finanziarie da immobilizzare e dalla rigidità delle scelte di fondo formulate. Si tratta,
infatti, di decisioni che vincolano l’impresa per tempi lunghi, necessari per ammortizzare gli
investimenti, e che s’incentrano nel determinare:
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In aggiunta a questi motivi di carattere generale, bisogna tenere conto anche dei rapporti di
complementarietà e sostituibilità tra prodotti diversi, che possono suggerire o addirittura imporre
l’allargamento della tipologia produttiva. In tal senso si distinguono:
- Prodotti strategici: la cui presenza è essenziale per poter collocare i prodotti da reddito.
- Prodotti da richiamo: la cui particolare convenienza d’acquisto può “richiamare” l’attenzione
dell’acquirente sull’intera gamma e contribuire alla vendita dei prodotti da reddito.
- Prodotti da reddito: quelli destinati a generare i maggiori flussi di cassa per l’impresa.
Posizionamento dell’offerta
Le ragioni di marketing degli assortimenti si legano soprattutto alla strategia di differenziazione con
la quale l’impresa intende servire più segmenti e nicchie di mercato. A tale proposito, la decisione
fondamentale concerne il posizionamento dell’offerta (marca) nei confronti della concorrenza,
“posizionamento” che spesso dipende in larga misura dalla caratteristiche attribuite ai prodotti posti
sul mercato. Per posizionamento si intende l’insieme di iniziative volte a definire le caratteristiche
del prodotto dell’impresa e ad impostare il marketing-mix più adatto per attribuire una certa
posizione al prodotto nella mente del consumatore.
L’esigenza di una pluralità di modelli e tipi di prodotto deriva anche dal naturale invecchiamento
della gamma e dalla necessità, quindi, di procedere in modo sistematico e continuativo al suo
rinnovamento. Questo non solo perchè l’anzianità dei prodotti influisce sui volumi della domanda,
ma anche perchè, a seconda della stadio di vita, ogni prodotto può partecipare in misura differenza
al reddito complessivo dell’impresa. Sotto tale profilo assume particolare rilevanza il concetto del
ciclo di vita del prodotto.
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Ogni prodotto, dal momento della sua immissione nel mercato a quello della sua eliminazione dalla
gamma di vendita dell’impresa, attraversa quattro fasi:
- Introduzione: nella quale inizia a diffondersi con una crescita molto lenta delle vendite.
- Sviluppo: nella quale l’espansione delle vendite ha luogo ad un ritmo molto rapido, a seguito
dell’affermazione del prodotto nel mercato.
- Maturità: nella quale le vendite continuano a svilupparsi, ma ad un tasso meno elevato.
- Declino: nella quale il volume delle vendite comincia a ridursi più meno rapidamente per
l’obsolescenza del prodotto, per l’immissione di un prodotto sostitutivo o per la saturazione della
domanda.
Il ciclo di vita del prodotto non ha sempre lo stesso andamento, perché a seconda dei casi, si può
presentare a balzi, con tempi di crescita e di declino, con picchi elevatissimi e cadute altrettanto
rapide.
La curva del ciclo di vita ha naturalmente un andamento diverso in relazione non solo alla natura
del prodotto, ma anche alle politiche di mercato. Sull’ampiezza temporale delle varie fasi e, quindi,
sulla vita utile del prodotto influiscono, infatti, le particolari condizioni concorrenziali e le scelte
assunte dalla stessa impresa venditrice. Questa può abbreviare o allungare il ciclo di vita mediante
politiche d’invecchiamento precoce o di ringiovanimento del prodotto (differenziazione nel ciclo
di vita del prodotto): con le prime, mediante l’immissione ne mercato di modelli nuovi, accentua la
fase di declino (questa politica è definita come “obsolescenza programmata” del prodotto), mentre
con le seconde può anche far iniziare un secondo ciclo di vita.
Questa differente partecipazione al reddito aziendale è alla base della nota “matrice del
portafoglio prodotti”, costituita dal Boston Consulting Group. Essa suddivide i prodotti offerti
dall’impresa in quattro gruppi, in funzione del divario tra investimenti e ritorni relativi a ciascun
prodotto (cash-flow = divario tra investimenti e ritorni relativi a ciascun tipo di prodotto). Per
ciascun prodotto la situazione favorevole o sfavorevole sotto il profilo del cash-flow dipende dalla
quota di mercato relativa detenuta dall’impresa e dal tasso di variazione della domanda globale.
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Il concetto base dalla classificazione è dunque quello del cash-flow di prodotto: il “prodotto
marginale” presenta un flusso di cassa insoddisfacente se non addirittura negativo, a causa del
costo elevato da sostenere per mantenere una posizione competitiva debole. In un mercato che
non cresce e in cui l’azienda detiene una quota modesta, vendere sarà difficile e costoso, nel
tempo quindi questo prodotto finirà per assorbire reddito. Il “prodotto rischioso” genera il cash-
flow peggiore perchè richiede elevati investimenti per fronteggiare un mercato in rapido sviluppo,
nel quale però la quota detenuta, e quindi i ricavi lucrati, sono limitati. Il “prodotto di successo”
dovrebbe presentare un cash-flow positivo, anche se per battere la concorrenza sarà necessario
continuare ad investire risorse. Il “prodotto da reddito” è quello che da i ritorni più soddisfacenti
perchè l’azienda potrà sfruttare, senza grandi sacrifici reddituali, la sua posizione di forza in un
mercato poco interessante per la concorrenza.
Anche se con certi limiti, la matrice del portafoglio prodotti può in sostanza aiutare la direzione
aziendale a valutare la potenzialità economico-finanziaria dei prodotti compresi nella gamma di
vendita.
Rispetto alla matrice del portafoglio prodotti del BCG, più completa appare quella messa a punto
dalla General Electric e dalla Mc Kinsey, fondata sull’attrattività del mercato e sulla posizione
competitiva.
In realtà, infatti, queste due variabili ampliano gli elementi della matrice del BCG e ipotizzano nove
possibili soluzioni per ciascun’impresa. L’attrattività di un settore è, infatti, funzione del tasso di
sviluppo della domanda, ma è anche da rapportare ai margini di profitto conseguibili, alla
dimensione totale del mercato e ad altri fattori che possono essere importanti a seconda dei casi.
Così la posizione competitiva, oltre ad essere correlata alla quota di mercato, può rapportarsi alla
velocità della sua crescita, al grado di innovatività dei prodotti, …
Da ciò deriva che la costruzione di questo schema multifattoriale richiede una preventiva analisi
dei fattori tipici di ciascun settore e può indurre a valutazioni che si adattano meglio ai singoli casi.
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Un prodotto non può essere visto soltanto come un mezzo per appagare un bisogno chiaramente
delimitato, ma va considerato come un “fascio di utilità”, un insieme di attributi tangibili e
intangibili, che risponde ad esigenze di vario ordine. Le imprese in effetti definiscono una “proposta
di valore” che risponda ai bisogni dei potenziali acquirenti.
Nella politica del prodotto s’inserisce una specifica componente promozione, che si estrinseca
nella costruzione dell’”immagine” della marca, Quest’ultima, infatti, rappresenta la via per
differenziare le produzioni aziendali e per completare, attraverso gli strumenti promozionali, il
messaggio rivolto dall’impresa alla sua clientela.
A tale scopo, la politica della marca, insieme con quelle di confezionamento del prodotto e
dell’assistenza post-vendita, finisce per rappresentare un ulteriore ed importante aspetto della
politica di prodotto. L’impresa può scegliere fra:
- L’adozione di una marca industriale (del produttore) o commerciale (del distributore).
- L’adozione di una marca unica per l’intera famiglia di prodotti (family brand).
- L’adozione di marche distinte per ciascun prodotto venduto (product brand).
- La cessione “in bianco” al distributore.
La rinuncia ad una politica della marca (cessione in bianco) è frequente da parte delle piccole unità
industriali, che non hanno i mezzo finanziari e le capacità di conferire la necessaria spinta
all’azione di vendita da sviluppare nel mercato. Nel caso di cessione in bianco, l’azione
promozionale ricade sull’azienda acquirente, che può sfruttare il proprio marchio e i propri punti
vendita per collocare il prodotto presso i consumatori.
Relativamente alla confezione, c’è a rilevare che, per certi tipi di beni, assume un’importanza
considerevole sotto il profilo promozionale oltre che sotto quello della migliore conservazione del
prodotto. Il tipo di confezione è spesso sfruttato per acquisire un vantaggio differenziale, inducendo
il consumatore a preferire quel tipo di marca rispetto alle altre poste sul mercato della concorrenza.
L’industrial packaging per molti prodotti alimentari è divenuto un fattore competitivo fondamentale,
anche per le sinergie che si possono sfruttare con la funzione di trasporto, i cui costi si riducono
proporzionalmente all’utilizzo di confezioni che, per propria struttura e praticità, ne agevolano il
servizio, velocizzandolo e rendendolo più efficiente.
Infine, nell’ambito della politica del prodotto s’inquadra il problema delle garanzie da fornire a
compratori e dell’assistenza post-vendita. La garanzia di qualità può essere implicita nel nome
del produttore oppure essere esplicitazione riconosciuta mediante l’apposizione di marchi di
qualità. La garanzia di funzionamento si concreta nell’assicurare assistenza gratuita entro un certo
periodo.
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Occorre precisare che, per certe produzioni, è lo Stato (o altri enti pubblici) a fissare i prezzi
massimi di offerta (prezzi politici o amministrati) e che, in certe circostanze (gare d’appalto), può
essere lo stesso commettete (compratore) a stabilire il prezzo di aggiudicazione del bene o
servizio. A prescindere dai vincoli esterni esistenti nel particolare mercato, la fissazione del prezzo
assume un rilievo diverso a seconda del mercato servito e del grado di concorrenza tra i produttori.
Essa è certamente più importante se l’impresa vende direttamente al consumatore o all’utilizzatore
perchè, in questo caso, determina e impone il prezzo finale di vendita del bene o servizio.
Obiettivo, quest’ultimo, che può invece raggiungere con maggiore difficoltà se vende al
distributore, il quale generalmente esige dei gradi di autonomia nella determinazione del prezzo al
consumo.
La determinazione del prezzo di vendita avviene, di solito, sulla base delle seguenti premesse:
- Funzione del prezzo: in relazione ala segmentazione del mercato e al posizionamento della
marca.
- Equilibrio volumi-margini da conseguire.
- Ruolo del particolare prodotto (modello) all’interno della gamma di vendita.
- Peso della politica del prezzo nel marketing-mix.
L’area di manovra risulta definita soprattutto da tre elementi: Il costo del prodotto, l’elasticità
della domanda e la pressione della concorrenza.
Si osserva, dunque, che sulla base di elementi interni (costi) ed esterni (domanda e
concorrenza) si dovrebbero determinare i limiti di manovra del prezzo, anche se in certi casi questi
limiti potrebbero non essere rispettati.
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In senso generale, la fissazione dei prezzi di vendita è orientata dagli obiettivi e dalle politiche che
l’azienda intende perseguire nel tempo breve e nel lungo termine. Lasciando da parte le decisioni
breve periodo, che possono rispondere a finalità occasionali, gli orientamento della politica di
prezzo possono essere verso la penetrazione o la scrematura del mercato. Nel primo caso
l’impresa mira a raggiungere il numero più ampio di acquirenti mediante la fissazione di un prezzo
minimo (compatibili, d’intende, con la soglia di redditività fissata per l’investimento) che le consenta
di acquisire immediatamente una larga fascia di clientela e di recuperare, in termini di profitto
globale, il minor margine unitario. Quest’orientamento è consigliabile quando è possibile ottenere
economie di scala e quando la differenziazione del prodotto è annullabile in tempi brevi. Nel
secondo caso, invece, si prefigge la conquista successiva di segmenti di mercato sempre meno
ricchi o, per meglio dire, di classi di consumatori disposte a spendere sempre meno per acquistare
il particolare prodotto. L’orientamento alla scrematura si collega ad una politica di prezzi
inizialmente elevati e decrescenti nel tempo, il cui fine è la massimizzarono del profitto unitario
come via per massimizzare il profitto globale. I prezzi, infatti, saranno progressivamente ridotti per
avvantaggiarsi al meglio delle differenti capacità contributiva dei consumatori ed allargare
gradualmente il mercato di sbocco del prodotto.
Tale politica è preferibile quando il prodotto gode di una protezione diffusa nel tempo, non si presta
ad essere accolto immediatamente da larghe fasce di clientela e consente, a causa della differente
elasticità della domanda rispetto al prezzo, di segmentare redditiziamente il mercato.
70
La determinazione della politica di prezzo fissa i limiti entro cui vanno assunte le scelte relative ai
singoli prodotti. Queste devono tener conto, oltre che dei criteri generali stabiliti a livello aziendale,
del ruolo che ciascun prodotto o modello è chiamato a svolgere all’interno della gamma di vendita.
Si tratta, cioè, di valutare se, tra i prodotti posti in vendita, esistano delle relazioni
d’interdipendenza e di stabilire, in caso affermativo, in qual modo esse debbano essere regolate.
Per valutare l’interpretazione fra i prezzo dei prodotti venduti, si può calcolare l’indice di elasticità
incrociata, cioè - nell’ipotesi di due beni A e B - il rapporto fra la variazione percentuale della
domanda del bene A rispetto a quella del prezzo del bene B.
- Se l’elasticità avesse risultare positiva (ad un aumento del prezzo di B corrisponde un aumento
delle vendite di A) i beni saranno considerati intersostituibili.
Nell’amministrazione dei prezzi di vendita, un primo problema è quello della definizione dei
margini commerciali, cioè delle detrazioni sul prezzo finale di vendita da praticare agli
intermediari mercantili. Questo problema si pone allorché l’impresa ha interesse a fissare un
prezzo al pubblico e deve quindi scontare tale prezzo in funzione del livello commerciale
dell’intermediario.
Una discriminazione dei prezzi finali può essere compiuta anche in rapporto a particolari clienti
nell’ambito di margini di discrezionalità attribuiti agli organi di vendita.
I prezzi base possono variare in funzione delle condizioni contrattuali, tra le quali assumono una
maggiore importanza i volumi d’acquisto, le modalità di pagamento e il tempo di consegna.
Altro elemento rilevante di questa politica è rappresentato dal modo di fissazione del prezzo, cui
si collega il grado di controllo che l’impresa desidera esercitare nei confronti del sistema dei prezzi
praticato nel mercato. Sotto tale profilo, i prezzi possono essere imposti, suggeriti e liberi.
La politica comunicazione
La politica di comunicazione si concreta nello stabilire gli obiettivi, le modalità ed i mezzi di contatto
con i vari pubblici, in quanto soprattutto ad essa è confidato il compito d’inviare informazioni agli
interlocutori con cui l’impresa è in relazione.
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L’impresa, dunque, partendo dalla conoscenza dei meccanismi di formulazione della volontà del
consumatore, orienta la sua attività promozionale e invia una serie di messaggi e di stimoli che
dorino spingere a preferire il proprio prodotto. Infatti, le scelte dei beni di consumo non sono
effettuate fra tutte le marche presenti nel mercato, ma soltanto fra quelle conosciute o meglio
ricordate al momento dell’acquisto. Scopo della promozione, dunque, è quello di far conoscere e
soprattutto ricordare favorevolmente il nome del prodotto, in modo da ottenere il suo inserimento
fra le alternative di acquisto.
La pubblicità
La pubblicità è senz’altro l’attività più tradizionale di comunicazione, per cui è talvolta confusa con
la funzione promozionale nel suo complesso. Secondo una definizione molto diffusa, s’intende:
qualsiasi forma di messaggio impersonale inviato a pagamento da un promotore individuata a
coloro che sono o possono essere interessati al prodotto.
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La promozione in senso stretto, invece, si differenzia dalle altre forme perchè si concreta nel
creare, di solito per periodi limitati di tempo, particolari incentivi per l’acquisto dei prodotti
aziendali. Il concetto di promozione si lega, soprattutto, a quello delle campagne speciali di
vendita, cioè alle iniziative prese con sempre maggiore frequenza per facilitare l’affermazione di un
prodotto nuovo o per rivitalizzare un prodotto in declino, per vivacizzare la domanda in periodi di
bassa richiesta, per smaltire scorte esuberanti, …
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In altri termini, le scelte distributive riguardano la tipologia degli sbocchi attraverso cui far defluire i
beni posti in vendita, il loro numero e il modo di collegamento. Per stabilire le vie di deflusso delle
produzioni è necessario conoscere la struttura della distribuzione prevalente nel mercato (cioè le
modalità secondo cui i tipi di beni trattati sono posti a disposizione dei consumatori). Appare
opportuno, accertare se gli acquirenti prediligano una forma di vendita diretta o se propendono per
l’acquisto presso unità dettaglianti di piccole dimensioni o di grani dimensioni, e in questo secondo
caso se preferiscano trovare il prodotto nei centri commerciali.
Il secondo momento, concerne la scelta del numero di sbocchi attraverso cui avviare i prodotti sul
mercato. Quest’opzione riguarda, in effetti, la decisione fra una vendita estensiva, con la massima
copertura dei punti finali di vendita, o selettiva attraverso un numero limitato e selezionato di
sbocchi. La scelta viene orientata, in primo luogo, dalle abitudini di acquisto dei compratori e, in
secondo luogo, da fattori di politica aziendale, tra cui pesano soprattutto gli obiettivi e le
caratteristiche da conferire a tutta l’azione commerciale. Per puntare ad una massimizzazione del
volume d’affari, cosa che esige ovviamente un’elevata “esposizione” dei prodotti, si presenta più
idonea a una forma di distribuzione estensiva, laddove fini di massimo profitto e di più spinta e
vigorosa attività di vendita si presentano ad essere meglio conseguiti mediante forme di
distribuzione selettiva, che nel caso limite può assumere il carattere di distribuzione in
“esclusiva”.
La determinazione qualitativa del tipo di sbocchi attraverso cui far defluire il prodotto al
consumo e la definizione del loro numero rappresentano le fondamento sulle quali poggia la scelta
vera e propria del canale, cioè la decisione circa il modo di collegamento tra l’azienda e gli sbocchi
prescelti. Il problema, quindi, si presenta sotto un duplice aspetto, ovvero la determinazione della
lunghezza del circuito (aspetto verticale) e la fissazione dell’intensità della distribuzione
(aspetto orizzontale). Il primo aspetto concerne il grado di controllo che si desidera conservare
sulla domanda finale, mentre il secondo si collega al grado di copertura del mercato.
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Considerando gli stadi per cui passa il prodotto per giungere al mercato ultimo di deflusso, la
scelta è tra l’uso di canali diretti (produttore-consumatore), canali brevi (produttore-dettagliante-
consumatore) o canali lunghi (produttore-grossista-dettagliante-consumatore).
Per quanto riguarda il canale diretto, si può senz’altro affermare che nel settore dei beni di
consumo esso è assai rara nel ruolo di canale principale di vendita, rappresentando più spesso un
circuito particolarmente adatto a raggiungere una determinata fascia di clienti (grandi clienti come
enti pubblici, comunità, …) o a perseguire finalità di ordine promozionale. Tranne nel caso di
prodotti d’uso durevole, che per complessità tecnica e per valore unitario s’avvicinano più ai beni
industriali, per i quali invece la vendita diretta è piuttosto frequente, è invece desueto ritrovare, per
tutti i beni di consumo, modalità dirette di collegamento con il mercato mediante venditori, propri
negozi al dettaglio, outlet presso la fabbrica, per corrispondenza.
Il piano di marketing dev’essere attuato con un’efficace gestione dei rapporti con tutti gli
stakeholder e, principalmente, con la clientela. Il Costumer Relationship Management deve
infatti consentire di mantenere un elevato grado di fedeltà dei clienti, in modo da conferire
stabilità del portafoglio detenuto.
L’incremento della cosiddetta customer retention (attitudine a “mantenere” i clienti) genera difatti
significativi effetti sulla profittabilità dell’impresa perchè:
- Acquisire un nuovo cliente è un’attività che ha un costo che potrebbe non essere ammortizzato
sulla singola transazione, per cui i profitti derivanti dal singolo cliente aumentano dopo che i
costi di acquisizione sono stati totalmente coperti.
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- I consumatori fidelizzati diventano meno sensibili nei confronti di offerte alternative, anche se
economicamente più vantaggiose (poiché percepiscono elevati switching cost nel passaggio
verso un nuovo fornitore).
L’obiettivo finale del marketing relazionale è il migliorante della profittabilità della clientela nel
lungo termine e la massimizzarono del Customer Lifetime Value. Il CLV definisce il valore che un
cliente può generare per una determinata impresa. In termini di ricavi, può essere calcolato
moltiplicando il valore medio della transazione per la frequenza d’acquisto e per il ciclo di vita
atteso del cliente.
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La funzione di produzione
I problemi della produzione assumono un ruolo prioritario sia per i più diretti riflessi sulla strategia
competitiva sia per la maggiore incidenza dei costi di produzione nel conto economico aziendale.
Per poter produrre dei beni occorre disporre di una tecnologia appropriata, allestire uno
stabilimento, assumere e organizzare le maestranze, predisporre le procedure di programmazione
dei cicli di produzione e di controllo dei prodotti semilavorati e finiti, creare i servizi a supporto della
fabbrica: tutto ciò comporta cospicui investimenti finanziari ed organizzativi. La funzione di
programmazione riguarda il processo di trasformazione dei beni, ossia l’insieme di operazioni
mediante il quale le risorse acquistate dell’impresa (materie prime, ausiliarie, semilavorati, …) sono
tramutate in prodotti finiti da collocare nel mercato. Il ciclo produttivo si pone, pertanto, al centro
del processo di gestione, dovendo essere preceduto dalla fase degli approvvigionamenti e seguito
da quella delle vendite.
La funzione di produzione è, del resto, strettamente collegata alle funzioni aziendali. Il rapporto con
la funzione di approvvigionamento è necessario per la corretta e tempestiva alimentazione delle
linee di lavorazione; quello con la funzione commerciale è di duplice ordine, sia per la necessità
di indirizzare la produzione secondo le tendenze di mercato sia per porre in fase il ciclo di
produzione con quello di vendita; il rapporto con la funzione finanziaria è molto stretto sotto il
profilo della programmazione del fabbisogno di capitale fisso e circolante; e così il discorso
potrebbe proseguire accennando alle relazione con la funzione di ricerca e sviluppo, del personale.
Le scelte di produzione si colorano al centro delle strategie aziendali perchè impegnano, per
tempi non brevi e in misura rilevante, le risorse finanziarie e umane disponibili. Accanto al profilo
strategico va, tuttavia, attentamente considerato quello più puramente operativo, incentrato in
prevalenza sui problemi di logistica industriale.
- Scelte strategiche: il cui obiettivo è di concorrere alla creazione del vantaggio competitivo.
- Scelte strutturali: il cui scopo è di costituire il sistema operativo, necessario per coordinare
l’impiego delle risorse disponibili.
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La strategia di produzione dev’essere centrata sugli aspetti prioritari della strategia competitiva,
ovvero deve assicurare il migliore contributo alla creazione del vantaggio competitivo. É
comprensibile che, a seconda dei settori in cui opera l’impresa e delle competenze distintive
possedute, la produzione può assumere un grado differente di rilevanza strategica nella conquista
del vantaggio competitivo. Alla produzione può essere difatti confidato un ruolo di neutralità
rispetto alla concorrenza, ovverosia deve risultare allineata al progresso dei competitori per non
generare effetti sfavorevoli sotto il profilo della formula aziendale, oppure può esserle attribuito un
vero e proprio ruolo attivo nel senso che, tramite essa, l’impresa deve conseguire un vantaggio
rispetto alle altre aziende.
Questi tipi di produzione si ordinando secondo il grado di ripetitività e di uniformità dei prodotti: si
passa, infatti, da prodotti unici eseguiti su commessa, a prodotti distinti per lotti o posti in essere in
serie oppure lavorati secondo processi continui.
Il primo caso è quello di produzioni che si differenziano, di volta, per caratteristiche sostanziali in
rapporto ad indicazioni specifiche del committente. La produzione su commessa comporta
un’elevata capacità di adattamento alle richieste della clientela, attrezzature meno complesse e
personali più versatile. Una commessa può essere singola (progetto) o ripetitiva (job).
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In posizione intermedia si situa, invece, la produzione di massa, che può assumere, degli
orientamenti diversi in funzione delle esigenze di mercato. L’organizzazione di una produzione di
massa standardizzata (ripetitiva) è comune nelle situazioni in cui è possibile sfruttare a fondo il
principio delle economie di scala. Questo quando l’omogeneità del mercato consente di fornire agli
acquirenti il medesimo tipo di prodotto.
Imprese multiplant
Le imprese, e non solo quelle di grandissime dimensioni, possono suddividere la loro produzione
tra più stabilimenti. In queste aziende multipla, pertanto, l’organizzazione dei cicli produttivi si
amplia fino a comprendere un modello di rete di impianti, differentemente articolato da caso a
caso. Quando, infatti, un’azienda dispone di più unità produttive, oltre al problema del
dimensionamento di ciascuna di esse, si presenta l’esigenza di scegliere un determinato modello
di suddivisione dei cicli o delle linee di produzione. Le situazioni adottabili sono, in sostanza, tre:
- Un modello di ripetizione degli impianti, quando ogni centro produttivo lavora
fondamentalmente gli stessi prodotti.
- Un modello di parcellizzazione del ciclo di produzione, allorché ciascun impianto svolge una
certa parte del processo di fabbricazione, producendo parti o semilavorati da avviare ad alcuni
stabilimenti centrali di monitoraggio.
- Un modello di specializzazione quando ogni impianto produce un particolare tipo o modello di
prodotto inserito nella gamma aziendale.
La progettazione dell’impianto
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In relazione alle modalità di svolgimento dei cicli di lavorazione, bisogna osservare che l’impresa a
volte è libera di scegliere tra più alternative, altre, invece, è costretta ad adottare una particolare
forma di organizzazione. Quest’ultima è legata soprattutto alla tecnologia utilizzata, che può
imporre o rendere più conveniente processi di lavorazione a ciclo continuo, intermittente o misto.
Il terzo tipo di ciclo è quello misto, organizzato in parte in modo continuo ed in parte in modo
intermittente. Esso è adottabile allorché certe fasi di lavorazione si prestano ad essere totalmente
automatizzare, mentre altre richiedono operazioni più complesse da affidare ad appositi reparti.
L’esigenza di fondo diviene quella di assicurare flessibilità al sistema di produzione senza, peraltro,
rinunciare ai principi essenziali della produttività e dell’economicità di funzionamento del sistema
stesso. A tale proposito bisogna in realtà distinguere:
In altri termini il concetto di flessibilità dell’impianto può essere considerato sotto il profilo tecnico
(opportunità di variare il mix produttivo) e sotto quello economico (capacità di assorbire le
riduzioni del volume di produzione).
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Uno dei problemi più importanti nell’organizzazione della produzione è rappresentato dal
dimensionamento da conferire all’impianto. Il problema deriva dalla contrapposizione tra la scelta
di sovradimensionamento iniziale (intesa a rispondere a un presumibile maggiore sviluppo futuro
delle vendite) e quella di contenimento della capacità inutilizzata (fino all’auspicato incremento dei
volumi di vendita). L’obiettivo è quello d’individuare la dimensione ottimale, definibile teoricamente
come quella idonea a minimizzare il costo unitario di prodotto. Sotto il profilo dimensionale è
opportuno tenere distinte due scelte: la determinazione della capacità produttiva massima
dell’impresa e quella della potenzialità ottimale degli impianti. Si tratta, infatti, di problemi
interdipendenti, ma che debbono essere impostati e risolti secondo criteri diversi.
La decisione circa il volume globale della produzione deriva essenzialmente dalla considerazione
di fattori di mercato, cioè dalla previsione delle quote di vendita ottenibili nei mercati in cui opera
l’impresa. Questa previsione dovrà essere proiettata ad un certo periodo di tempo, in modo da
consentire un progressivo adeguamento degli impianti e delle procedure tecnologiche. Nel caso
del ricorso alle scorte, il problema si concreta nel dimensionare la capacità di produzione intorno al
livello medio della domanda, in modo da poter soddisfare, mediante la manovra delle giacenze, le
esigenze attuali e prospettiche del mercato, continuando a produrre un quantitativo costante di
output. Poiché lo stock di prodotti dovrebbe consentire il soddisfacimento continuo della clientela, il
regime di produzione andrebbe regolato in funzione dell’entità e del periodo in cui presumibilmente
potrebbero verificarsi le maggiori richieste del mercato.
Posto che in ogni caso la potenzialità di un impianto è definita dalla potenzialità della fase
terminale del processo, il problema della dimensione sarà risolvibile globalmente nell’ipotesi di
impianti omogenei continui (ad es. impianti di raffinazione del petrolio), mentre dovrà essere
scomposto per le singole linee di lavorazione del caso di impianti con più linee di produzione,
oppure per reparti nell’ipotesi di organizzazione del ciclo per fasi.
Il dimensionamento dell’impianto deve rispondere anche alla minimizzazione del rischio e non
solo a quella del costo unitario di produzione. Ai fini del rischio assume un’importanza
fondamentale il concetto del “margine di sicurezza”.
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Al concetto di punto di pareggio si lega quello del margine di sicurezza rappresentato dalla
differenza (espressa solitamente in percentuale della capacità massima di produzione) tra il
previsto volume di utilizzo dell’impianto e quello a cui corrisponde il punto di pareggio.
Definire il programma di produzione significa ricercare la soluzione più economica di impiego delle
risorse per raggiungere il livello e la composizione del mix produttivo fissato nel programma
annuale di gestione.
- Nel medio-lungo termine per precostituire la capacità produttiva necessaria in rapporto agli
obiettivi strategici dell’impresa.
- Nel breve termine per allocare le risorse disponibili, in modo da raggiungere i traguardi di
produzione posti dal programma annuale di vendita.
- Nel brevissimo termine per organizzare il lavoro dei centri di produzione in funzione delle quote
settimanali, quindicinali o mensili da realizzare.
Il controllo di produzione riguarda sia il regolare svolgimento delle operazioni produttive sia la
qualità dei prodotti finiti da destinare al mercato. Il suo obiettivo è quello di prevenire anomalie nel
ciclo operativo e nei prodotti, al duplice scopo di evitare si sopportare costi a vuoto e di garantire la
qualità al consumatore. Nell’area della produzione il controllo dovrebbe articolarsi nel:
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Un indice sintetico per valutare il grado complessivo di sfruttamento delle risorse disponibili è dato
dal rapporto tra le ore produttive (impegnate) e quelle teoricamente impegnabili.
Altro obiettivo di fondo dell’organizzazione della produzione è costituito dalla riduzione degli scarti.
Nel caso si tratti di materie prime o semilavorati il dato consiste nello spreco di materiali e di ore di
lavoro con la conseguente riduzione dell’output produttivo; se si tratta di prodotti finiti e la
difettosità viene accertata in fabbrica, essa può essere associata ai costi di lavorazione; se la
difettosità viene accertata dopo l’invio del prodotto, oltre ai danni economici ci sono anche i danni
d’immagine.
Diventa quindi essenziale il controllo qualità, il particolare il total quality management si pone
come la garanzia del servizio ottimale al cliente, non solo per quanto riguarda la validità del
prodotto ma anche per le modalità e i tempi di consegna, l’assistenza prima, durante e dopo
l’acquisto, la gestione corretta di tutti i termini contrattuali. Si tratta di un approccio orientato al
miglioramento continuo ed alla responsabilizzarono di tutti i livelli gerarchici. Sotto tale profilo il
TQM richiede, dapprima, la costruzione di valori aziendali condivisi congruenti con le finalità da
raggiungere e, poi, l’applicazione di procedure molto rigorose e precise. L’impresa, dunque, deve
impegnare considerevoli sforzi e mezzi finanziari per curare la formazione del personale e per
procedere alla corretta progettazione di sistemi, che debbono risultare efficaci ed economicamente
sostenibili. A tale scopo è ormai significativamente diffusa la certificazione della qualità rilasciata
da istituzioni qualificate.
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La gestione finanziaria
La gestione finanziaria dev’essere inquadrata non solo sotto il profilo strategico, ma anche sotto
quello tattico ed operativo. Mentre nel primo si considerano le decisioni finanziarie di lungo
periodo, intese ad ottimizzare l’impiego e la raccolta dei fondi, nel secondo s’includono i compiti di
attuazione e di controllo delle decisioni prese. La gestione del piano finanziario richiede, infatti, la
creazione e il mantenimento dell’equilibrio tra fonti e impieghi nel lungo, nel breve e nel brevissimo
termine.
In generale, la gestione deve rispettare i tre tipi di equilibri fondamentali, diversi ma interdipendenti
tra loro. Innanzi tutto, deve puntare all’equilibrio economico tra ricavi e costi; equilibrio da
tradursi in un divario positivo per la formazione del profitto. In secondo luogo, deve mirare
all’equilibrio finanziario, vale a dire al bilanciamento tra impieghi di capitale e fonti di provvista
dello stesso; e, in terzo luogo, nel tempo breve deve preservare la liquidità, cioè l’equilibrio
monetario tra entrate e uscite di cassa.
I problemi di fondo della gestione finanziaria sono quelli di programmazione degli investimenti e
delle fonti di copertura. Nel processo decisionale l’individuazione degli investimenti dovrebbe
logicamente precedere la ricognizione delle fonti di finanziamento disponibili, anche se è intuibile
che queste ultime porranno un limite ineludibile al volume dei primi.
Nella vita dell’impresa gli investimenti possono legarsi alle grandi opzioni strategiche, che guidano
lo sviluppo aziendale, o correlarsi a progetti specifici riguardanti singole operazioni di immobilizzo.
Dal punto di vista dell’analisi degli investimenti può essere utile distinguere gli investimenti di
natura strategica, per i quali l’impresa è chiamata a decidere su “se” intraprendere determinati
progetti che modificano la sua posizione competitiva, rispetto ad investimenti di tipo operativo, per
i quali l’impresa valuta soluzioni alternative per decisioni che non modificano le proprie scelte
strategiche. Nel primo caso, si tratta di valutazioni complesse che devono tener conto di numerose
variabili, spesso di difficile determinazione, come ad esempio la decisione sul lancio di un nuovo
prodotto, sull’ingresso in una diversa area strategica d’affari o sulla costruzione di un nuovo
stabilimento industriale. Nel secondo caso, si tratta di decisioni di minore rilevanza, quale potrebbe
essere la scelta tra due modelli alternativi di macchine operatrici con caratteristiche analoghe e,
più in generale, di decisioni che non alterano significativamente la composizione quali-quantitativa
dei ricavi.
L’intensità con cui si presenta il problema degli investimenti varia in relazione alle diverse epoche
di vita dell’impresa e all’impatto del progresso tecnologico sulle vicende aziendali. É intuibile,
infatti, che essa assumerà punte massime al momento della creazione dell’impresa e in occasione
di ampliamenti consistenti della sua sfera operativa, mentre sarà minore per esigenze periodiche di
rinnovo di macchine, attrezzature, utensili. Il rinnovo avverrà, poi, con un diverso ritmo a seconda
dei fenomeni di obsolescenza, prodotti dallo sviluppo della tecnologia.
L’impresa ha bisogno di capitali per finanziare i processi di investimento e per far fronte alla
gestione corrente. Il fabbisogno finanziario aziendale è infatti uguale alla somma del capitale
fisso, necessario per acquisire le immobilizzazioni materiali e immateriali, e del capitale circolante,
occorrente per alimentare il ciclo acquisti-produzione-vendite.
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In realtà ogni azienda esige un differente rapporto di composizione tra capitale fisso e circolante, in
relazione sia alle caratteristiche del settore sia alle peculiarità gestionali.
Il fabbisogno di capitale fisso è legato al grado di capitalizzazione dei processi operativi, cioè
all’esigenza di disporre di maggiori immobilizzazioni per lo svolgimento delle funzioni di
produzione, di commercializzazione, di amministrazione, … più cresce la presenza degli impianti e
delle attrezzature più aumenta il fabbisogno di capitale fisso.
Il fabbisogno di capitale circolante, ossia di mezzi finanziari che si rigenerano al massimo nei 12
mesi dell’esercizio gestionale, è correlato, invece, al ciclo di reintegro dei ricavi, detto anche ciclo
di reintegro del circolante. A parità di volume di attività, esso sarà tanto muore quanto più breve è
questo ciclo, vale a dire quanto più rapidi sono i processi di acquisto-produzione-vendita e,
soprattutto quanto più veloce è il corrispondente ciclo monetario che intercorre tra il sostenimento
dei costi e il correlativo incasso dei ricavi. Quest’ultimo dipende dalle condizioni di riscossione dai
clienti e di pagamenti ai fornitori.
Il capitale circolane netto è pari alla differenze tra queste attività e passività correnti. Il capitale
circolante commerciale rappresenta invece la somma algebrica del valore delle scorte di
magazzino, dei crediti verso i clienti e due debiti verso i fornitori.
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La struttura finanziaria è rappresentata dal complesso delle fonti di copertura del fabbisogno
aziendale. Da impresa ad impresa e di tempo in tempo, essa può assumere caratteristiche molto
differenti in funzione della partecipazione dei soci e delle condizioni del mercato dei capitali.
Le variabili che più direttamente incidono sul fabbisogno finanziario dell’impresa sono:
- Le operazioni d’investimento e di alienazione dei beni impiegati nella gestione corrente e
patrimoniale.
- Il livello delle scorte di magazzino.
- Le condizioni di pagamento applicate ai clienti.
- Le condizioni di pagamento ottenute dai fornitori.
- Il livello di liquidità.
Una delle prime regole, peraltro sovente disattese, della gestione finanziaria suggerisce di
impiegare capitali omogenei rispetto al tipo di fabbisogno da coprire: ciò vuol dire che, nell’ipotesi
del finanziamento di immobilizzazioni, dovrebbero essere attinti mezzi finanziari a lungo termine,
mentre nel caso di fabbisogno di esercizio sarebbe opportuno farvi fronte con mezzi a breve.
Questo allo scopo di assicurare una maggiore corrispondenza tra i due fenomeni (fabbisogno e
copertura), evitando di finanziare i processi di investimento con risorse adatte, per la loro natura, a
permanere nell’azienda solo per la durate di un esercizio, oppure evitando di finanziare il circolare
con fondi a lungo termine.
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La caratteristica dell’omogeneità si lega a quella della flessibilità, cioè alla possibilità di modificare
la struttura finanziaria in rapporto all’evoluzione del fabbisogno. Ciò vale sia per il livello globale sia
per la composizione delle risorse finanziarie aziendali, che dovrebbero poter variare a seconda dei
programmi e della redditività di gestione.
Anche l’attributo dell’elasticità si lega ai primi due e in particolare a quello della flessibilità,
concretandosi nell’opportunità di dilatare l’area di manovra delle scelte finanziarie. Una struttura
finanziaria, infatti, è tanto più elastica quanto maggiori sono le possibilità quali-quantitative di
espanderla. Ciò significa che i responsabili avranno più scelte disponibili per incrementare i fondi
aziendali e potranno ottimizzare il processo di copertura del fabbisogno mediante l’utilizzo della
cosiddetta “riserva finanziaria”.
Gli attributi della flessibilità e dell’elasticità potrebbero apparire simili, ma in effetti non lo sono
perchè il primo pertiene alla capacità di riprodurre un costante equilibrio tra le fonti e gli impieghi di
capitale, mentre il secondo si riferisce alla possibilità d’incremento delle risorse finanziarie.
La gestione finanziaria dovrebbe essere orientata alla minimizzazione degli oneri finanziari. Il
fatto che gli oneri finanziari siano parzialmente o totalmente deducibili nell’economia d’impresa e
non deducibili nell’economia individuale crea un differenziale di convenienza per l’indebitamento
aziendale rispetto a quello individuale. Inoltre, la possibilità, in determinate condizioni di mercato
finanziario di redditività aziendale, di ricavare un rendimento maggiore dagli investimenti all’esterno
dell’impresa, può far crescere ulteriormente la convenienza dell’indebitamento bancario aziendale
rispetto all’alimentazione dell’impresa con mezzi propri.
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Il processo di scelta delle fonti di finanziamento deve postare sull’analisi del fabbisogno di capitali
e sulla conoscenza del mercato dell’offerta dei capitali stessi. Il passo di maggiore importanza è
rappresentato dalla previsione del fabbisogno e dall’individuazione delle sue caratteristiche.
Volendo, dunque, analizzare il fabbisogno di capitali, si potrebbe osservare che nella realtà
aziendale esso è la risultante di quattro tipi differenti di esigenze:
- Un fabbisogno strutturale, permanente nel tempo perchè legato alle dimensioni della struttura
dell’impresa.
- Un fabbisogno corrente, permane nel tempo perchè correlato al volume di attività della gestione
corrente.
Una delle scelte fondamentali da assumere riguarda il livello di indebitamento da accettare per
l’impresa. Quest’opzione, oltre che da fattori qualitativi concernenti la rischiosità e la rigidità
connesse con un appesantimento della situazione debitoria, dev’essere orientata dal presumibile
effetto del fattore leva finanziaria. La redditività del capitale proprio, investito nell’attività aziendale,
può essere difatti migliorata o peggiorare dal “fattore leva” o “effetto leva”: sarà migliorata se la
redditività del capitale investito risulterà superiore al costo dell’indebitamento; sarà peggiorata se
gli oneri finanziari da sopportare per ottenere in prestito dei capitali supereranno la redditività
d’investimento. Si parla, infatti, di “leva finanziaria” per sottolineare la capacità dell’indebitamento
di ampliare la redditività aziendale.
L’effetto del fattore leva dipende dal divario tra il rendimento netto del capitale investito (risultato
economico meno imposte) e il costo reale del capitale preso a prestito. Quest’ultimo va
determinato sottraendo degli interessi corrisposti al finanziatore l’ammontare dell’imposizione
risparmiata per effetto del caricamento degli oneri finanziari nel conto economico. Per valutare il
costo effettivo dell’indebitamento e, quindi, per per comparare la convenienza delle varie fonti di
provvista occorre determinare il Taeg (tasso annuo effettivo globale), che ricomprende, oltre al
tasso annuo nominare (cosiddetto tasso base), gli oneri accessori (commissioni e spese).
Naturalmente, il Team dev’esser valutato anche in rapporto ai possibili risparmi fiscali correlati alla
riduzione, per effetto degli oneri finanziari sostenuti, della base imponibile.
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L’investimento di capitale proprio rappresenta una fonte di finanziamento a lungo termine perché i
mezzi così immessi nella gestione sono destinati a permanervi durevolmente. Assimilabile a tale
fonte è l’autofinanziamento, cioè il reinvestimento dei profitti nell’attività aziendale. In condizioni di
normalità, vale a dire in presenza di una gestione economica e finanziare equilibrata, parte
cospicua dei nuovi investimenti dovrebbe essere coperta proprio mediante l’autofinanziamento, il
cui scopo è quello di immobilizzare nell’azienda un’aliquota dei redditi d’esercizio precedentemente
lucrati.
Di fronte al ricorso ai mezzi propri, nella triplice forma dell’aumento del capitale,
dell’autofinanziamento e del finanziamento diretto, si pongono le fonti esterne, tra cui il maggiore
rilievo è frequentemente assunto dal credito bancario. Tra le fonti creditizie bisogna inerire anche
i risparmiatori o gli investitori istituzionali, i fornitori e gli stessi dipendenti dell’impresa. Come detto,
più frequente è il ricorso al credito bancario, che può assumere una differente estensione
temporale e concretarsi in forme tecniche diverse. Il finanziamento può essere, infatti, ottenuto per
tempi lunghi (mutuo) o per tempi brevi (sconti effetti, aperture, …).
Accanto alle forme tradizionali di finanziamento esterno, bancario e non bancario, già da lungo
tempo si sono affiancare forme atipiche, quali il leasing e il factoring. Soprattutto il primo si è
diffuso perché presentava dei vantaggi, a volte rilevanti, rispetto alle forme più note di
finanziamento. Con il leasing, che può essere finanziario od operativo, l’impresa non è costata a
sopportare immediatamente il peso dell’investimento perché ottiene il bene di cui bisogna
mediante un contratto di locazione con diritto di riscatto del bene dopo un certo numero di anni e
ad un prezzo prefissato (di solito molto basso). In tal modo, può utilizzare immediatamente il bene,
pagando un canone periodico e riservandosi alla fine del contratto di assumere una decisione circa
l’acquisto dell’oggetto dell’operazione di leasing.
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Un’altra forma piuttosto sofisticata di finanziamento a breve è il forfaiting, cioè la vendita pro-
soluto di effetti cambiari che, in rapporto alla loro scadenza e al grado di rischio di incasso,
vengono ceduti in base al loro valore facciale decurtato in ragione di un tasso di sconto a forfait (da
qui il nome forfait financing). Solitamente, i titoli di credito sono tratte emesse da esportatori e
accettate dagli imprenditori esteri o pagherò eressi direttamente da questi ultimi.
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L’obiettivo da raggiungere è rappresentato dal migliore equilibrio tra costo della logistica e standard
di servizio reso ai clienti interni (organi di produzione) ed esterni (consumatori). Esso si può
tradurre, in termini più concreti, nel minimizzare il livello delle scorte e massimizzare il livello di
servizio alla clientela. L’efficienza della logistica si pone quale elemento non secondario della
strategia competitiva sia perché riesce a contenere i costi sia perché contribuisce ad elevare la
qualità del servizio.
L’aspetto strategico si lega a scegliere più ampie e commesse (integrazione verticale o quasi-
integrazione) e, in particolare, dipende dalle caratteristiche dei cicli di produzione e dei mercati di
rifornimento.
Sulle decisioni da assumere peseranno non solo le caratteristiche dell’impresa, ma anche quelle
del mercato di fornitura. Se quest’ultimo è difatti soggetto a forti oscillazioni di prezzo, a crisi di
produzione imprevedibili e incontrollabili, cresce per l’azienda l’interessa ad assicurarsi il governo
di fonti proprie di produzione mediante operazioni d’integrazione verticale.
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Il ruolo della funzioni approvvigionamenti assume in realtà contenuti che potremmo definire
strategici sia per l’incidenza sul conto economico aziendale sia per i riflessi generati sulla qualità.
In teoria, incrociando due elementi, è stata costruita una matrice, che consente di distinguere i vari
tipi di acquisti e, di conseguenza, suggerisce i modelli organizzativi per gestire il relativo processo
di approvvigionamento.
I comportamenti e le decisioni d’acquisto devono difatti essere congrui con la complessità di tale
processo, la criticità dei materiali da acquistare e l’impatto economico del relativo acquisto. Sotto
tale profilo, i materiali si possono suddividere in:
- Materiali leva o chiave, il cui peso economico, dati gli elevati costi d’acquisto e di
magazzinaggio, incide significativamente sul profitto finale dell’impresa, ma che presentano un
basso rischio di reperimento nel mercato.
- Materiali strategici, il cui ruolo, nell’allestimento del bene oggetto di produzione, è critico
perchè sono di difficile reperimento e di elevato impatto sulla redditività.
- Materiali “non critici” o di routine, facilmente reperibili nel mercato e di incidenza modesta in
rapporto al valore del bene da produrre.
Questa classificazione appare utile per comprendere la differente gestione delle varie tipologie di
materiali, per alcuni dei quali (prodotti leva e critici) sarà opportuno stringere accordi durevoli con i
fornitori assicurandosi, in anticipi, le migliori condizioni d’acquisto (prezzo e celerità della
consegna); per altri (“colli di bottiglia”) sarà soprattutto necessario garantirsi la tempestività e la
precisione dell’esecuzione degli ordini, selezionando più fornitori ad alta affidabilità; per altri ancora
(prodotti non critici), infine, converrà disporre di un nutrito albo di fornitori, in modo da poter
usufruire di una pluralità di forte tra cui operare le scelte più vantaggiose.
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La gestione della funzione di acquisto comporta la definizione di politiche commerciali nei confronti
di fornitori e di “piazze” diverse, di quantità e tempi di rifornimento, di condizioni di pagamento e di
ricevimento dei beni acquistati.
L’attuazione del processo risulta molto diversa in rapporto sia all’area di mercato di riferimento sia
al grado di standardizzazione dei materiali e comporta, quindi, un’organizzazione più o meno
articolata. Anche se la procedura di acquisto è sempre la stessa (ricerca di mercato, individuazione
dei fornitori, selezione delle offerte, attuazione del processo di ordinazione e di ricevimento,
stoccaggio dei materiali), a seconda dei casi mutueranno l’area territoriale di riferimento e i rapporti
di collaborazione con i fornitori.
Al vertice della funzione è utile che ci siano uno o più approvvigionati (buyer), che conoscano
profondamente i mercati di acquisto e che siano in grado di prendere le decisioni più convenienti
nel momento più opportuno. É evidente che, a prescindere dal tipo di organizzazione considerata,
un approvvigionatore deve essere in grado di:
- Crearsi una rete ampia e differenziata di fornitori.
- Prevedere l’andamento congiunturale del mercato per quanto attiene alle quantità disponibili e ai
relativi prezzi d’acquisto.
- Ricorrere a formule contrattuale che riducano i rischi di acquisto.
- Sapere applicare l’analisi del valore per tutti i materiali che acquista (cioè essere in grado di
compiere una revisione critica della tipologia delle forniture.
- Partecipare alla gestione attiva degli stock.
La ricerca e successiva selezione dei fornitori deve essere la risultante di un processo complesso
di valutazioni nel qual devono essere pesate l’affidabilità e l’economicità di ciascuna possibile fonte
di acquisto. I criteri di scelta che formeranno l’albo dei fornitori, sono rappresentati dal costo, dalla
qualità e dalla puntualità dei fornitori.
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Le scorte di materie prime e prodotti sono indispensabili per bilanciare i diversi ritmi secondo cui si
svolgono i cicli fondamentale di gestione (acquisto, produzione e vendita). Le principali difficoltà si
collegano con la necessità di conciliare le esigenze di natura logistica con quelle di natura
commerciale.
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L’innovazione
Nel primo caso potremmo parlare di un “processo o un insieme di processi che consentono di
applicare un complesso di tecniche, di competenze ingegneristiche e conoscenze scettiche alla
produzione industriale”.
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L’altro aspetto molto importante perchè si collega all’economicità del processo innovativo è quello
del grado di protezione o salvaguardia dell’innovazione prodotta. Pertanto, le innovazioni possono
essere classificate in protette (brevetto), proteggibili (quando la protezione si lega al
sostenimento di investimenti promozionali e/o tecnici in grado di scoraggiare il processo imitativo)
e non protette (nei casi in cui l’imitazione appare semplice ed accessibile).
Per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche, la classificazione più comune è quella tra
innovazioni di prodotto (apportare variazioni alla gamma di vendita), di processo (migliorare
l’efficienza dei cicli di lavorazione) e di impianto (messa a punto di mezzi tecnici con più elevati
coefficienti di rendimento). Sempre riguardo alle innovazione tecnologiche, è necessaria un’altra
distinzione tra innovazioni autonome e innovazioni sistemiche: le prime sono innovazioni che
possono esser perseguite indipendentemente da altre innovazioni; le seconde devono inserirsi in
un sistema di innovazioni e producono vantaggi solo se accompagnate da altre innovazioni
completamente accessorie.
Lo sviluppo di una innovazione comporta quasi sempre rilevanti investimenti e grandi rischi. Da ciò
il ruolo di speciali finanziatori disponibili ad accollarsi il rischio del progetto innovativo. Sono
soggetti in grado di apprezzare meglio l’aspetto della rischiosità e interessati a dividere i futuri
profitti dell’iniziativa.
Nel lancio di un’innovazione appare decisiva la strategia dei tempi d’immissione nel mercato. Si
vuole creare un innovatore nel verso senso del termine, ovvero proporsi per primo con il nuovo
prodotto o la nuova offerta, oppure si preferisce attendere che l’innovazione, promossa da altri, si
affermi nel mercato? Da tale comportamento, derivano due posizioni differenti:
- First mover (pionieri): i primi ad offrire una nuova categoria di prodotti e servizi.
- Follower: entrano nel mercato quando il prodotto comincia a penetrare il mercato.
FIRST MOVER
VANTAGGI SVANTAGGI
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I sistemi economici più avanzati si caratterizzano per la maggiore intensità degli investimenti in
attività di Ricerca & Sviluppo, sostenuti direttamente dall’impresa e/o attuai con la
compartecipazione di risorse pubbliche.
L’innovazione è un processo costoso sia nella produzione sia sotto l’aspetto attuativo, perchè oltre
all’allestimento delle risorse si devono superare barriere psicologiche.
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La gestione del personale segue un iter che prevede una serie di fasi:
- Reclutamento: ricerca e primo contatto con le persone da assumere.
- Selezione: scelta delle persone ritenute più idonee.
- Inquadramento contrattuale: ammontare e struttura della retribuzione, incentivazione da
riconoscere e prospettive di avanzamento.
- Addestramento: finalizzato all’avviamento al posto di lavoro.
- Formazione: promozione di programmi di miglioramento delle competenze personali.
- Valutazione del rendimento per la programmazione degli sviluppi di carriera.
La scelta del personale da assumere rappresenta un atto complesso poiché la selezione si fonda
sulla valutazione congiunta delle competenze possedute, delle potenzialità sviluppabili e sulle doti
caratteriali dei candidati.
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L’aspetto retributivo è molto importante nella costruzione e nella gestione del rapporto di lavoro. La
motivazione economica influenza la produttività del lavoro. I fattori di maggiore importanza che
incidono sulla retribuzione sono rappresentati dalla tipologia del rapporto di lavoro e
dall’inquadramento contrattuale.
La retribuzione, che sostanzialmente può essere fissa o variabile, di norma si traduce in una
regolamentazione più complessa in cui, oltre ad elementi fissi (retribuzione base) e variabili
(incentivi), giocano i cosiddetti fringe benefits, vale a dire servizi concessi ai dipendenti in aggiunta
al salario o allo stipendio.
Le imprese che ricorrono alla retribuzione in forma mista mirano ad ottimizzare l’impiego delle
risorse umane e tecniche, migliorando la produttività interna e la prestazione individuale.
Accanto alla gestione direzionale del personale, occorre curare anche la parte più strettamente
amministrativa dei rapporti di lavoro. Quest’ultima è quasi sempre attribuita alla struttura che si
occupa più in generale del processo amministrativo-contabile. La normativa in materia richiede il
rispetto di un complesso di obblighi verso i lavoratori, inoltre l’amministrazione corrente prevede
compiti come l’elaborazione delle paghe, il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, la
tenuta dei libri obbligatori, le pratiche relative a ferie, permessi, malattie, …
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Il prospetto delle fonti e degli impieghi, costituito solitamente per periodi biennali o triennali,
riporta l’andamento dei flussi finanziari con l’indicazione specifica degli usi e delle fonti di capitale.
Esso serve a controllare l’applicazione del principio dell’omogeneità tra usi e fonti di capitale.
Il prospetto si suddivide due parti: la superiore rivolta a valutare l’equilibrio e l’omogeneità tra le
fonti e gli usi non correnti; e l’inferiore destinata a stimare le stesse caratteristiche per le fonti e gli
usi correnti.
La situazione ottimale si ha quando i tre saldi tendono a zero: in tal caso, oltre a non esservi
risorse in eccesso o deficit finanziari da coprire (saldo complessivo tendente a zero), vi è equilibrio
tra fonti ed usi correnti (saldo corrente tendente a zero) e tra fonti ed usi non correnti (saldo
finanziario tendente a zero), con il conseguente rispetto del principio dell’omogeneità.
102
Per quanto riguarda il prospetto dei flussi monetari delle operazioni di esercizio, per ogni partita
l’entrata o l’uscita effettiva è data dalla somma algebrica tra l’ammontare dei crediti/debiti all’inizio
dell’esercizio, gli incassi e le uscite durante l’esercizio e l’ammontare dei crediti/debiti alla fine
dell’esercizio. Il prospetto può chiudere con un saldo negativo, vale a dire un fabbisogno di
esercizio per il quale occorrerà trovare adeguata copertura, oppure con un saldo positivo, ossia
delle disponibilità della gestione. Questo saldo sarà successivamente riportato nel quadro generale
dei movimenti monetari.
103
Il piano delle fonti e degli impieghi e il piano di cassa costituiranno, in sostanza, gli strumenti
indispensabili per tenere sotto controllo la gestione finanziaria.
Nell’ambito della programmazione finanziaria centrale è il problema della valutazione dei progetti
d’investimento.
Per condurre queste valutazioni si possono utilizzare delle apposite tecniche di carattere
economico-finanziario atte a:
- Stabilire l’accettabilità di un progetto rispetto a valori standard prefissati.
- Comparare progetti alternativi, cioè determinare una lista di priorità tra più iniziative
d’investimento.
104
Il metodo del tasso di redditività attualizzato inserisce nelle misurazioni il “valore” del denaro.
Quest’ultimo è stabilito oggettivamente del mercato, sotto forma del tasso corrente d’interesse, e
soggettivamente dall’investitore in rapporto alla sua preferenza verso disponibilità liquide. Il valore
del denaro è tanto minore quanto più la sua disponibilità si allontana nel tempo (un euro disponibile
oggi vale certo di più di un euro disponibile tra un anno). Con questo momento si attualizzano (cioè
si riducono ad un unico momento temporale) i flussi di cassa futuri derivanti dall’investimento, in
modo da permetter una migliore comparazione di progetti alternativi. Con esso si può valutare
anche l’accettabilità di ciascun progetto, cioè stabilire se la sua redditività attualizzata sia superiore
al costo del capitale. Una volta determinati i flussi di cassa in uscita e in entrata attualizzati
generati dal progetto, i metodi a cui si fa generalmente ricorso per l’analisi della redditività
attualizzata sono due: il tasso interno di rendimento TIR e il valore attuale netto VAN.
Con il TIR si individua il tasso di attualizzazione che rende uguali il flusso di introiti e di esborsi.
Una volta trovato questo tasso, la convenienza dell’investimento potrà essere valutata in funzione
della differenza tra questo tasso e quello da corrispondere per il reperimento dei fondi necessari.
Per l’applicazione del metodo Van, si opera assumendo un tasso di attualizzazione pari a quello
del costo del capitale (c), in modo da determinare il valore attuale del progetto. Il progetto risulterà
tanto più conveniente quanto più elevato sarà il suo valore attuale netto.
Tuttavia, questi parametri anno dei grossi limiti. Essi, infatti, non tengono conto della flessibilità
strategica dell’investimento da valutare. Ogni investimento dovrebbe infatti essere valutato in
funzione delle opzioni reale disponibili in ordine a possibili cambiamenti o differimenti in fase
realizzativa. Le opzioni strategiche individuate in teoria sono:
- Opzioni di sviluppo: opportunità di crescita aziendale offerte dall’attuazione dell’investimento.
- Opzioni di abbandono: legate alla possibilità di interrompere il progetto d’investimento allorché
ci si renda conto che il ritorno non è né potrà essere conveniente rispetto all’immobilizzo di
risorse (esempio classico è il lancio di un nuovo prodotto su un mercato di prova).
- Opzioni di differimento: correlate alla possibilità di scelta del tempo dell’investimento, i cui
effetti non possono essere influenzati da comportamenti più tempestivi della concorrenza (es.
sfruttamento di un brevetto o di una licenza di fabbricazione).
- Opzioni di flessibilità: legate alla possibilità di modificare l’investimento intrapreso a seguito
del modificarsi dell’ambiente esterno.
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Per comporre il grafico è necessario rilevare o stimare (a seconda dello scopo di controllo
consuntivo o preventivo che sia) l’altezza dei ricavi e dei costi fissi e variabili al livello massimo
della potenzialità produttiva o di vendita dell’azienda. Per far ciò risulta indispensabile analizzare il
loro comportamento durante un periodo non breve di tempo (cinque anni). La costruzione del
grafico avviene poi in modo tradizionale, su di un diagramma cartesiano, ponendo sull’asse delle
ordinate i costi e i ricavi, espressi in termini monetari o in percentuale del volume massimo del
fatturato; e sull’asse delle ascisse la base di riferimento di tali costi, che può essere in grado di
utilizzazione degli impianti o, come accade più frequentemente, il volume di produzione o di
vendita espresso in termini monetari o di quantità fisiche di prodotti (volume di attività).
- I costi fissi vendono rappresentati come una linea parallela all’asse delle ascisse, posta ad una
distanza dalla stessa pari all’ammontare complessivo di tali costi.
- I costi variabili che essendo considerati proporzionali al variare del volume produttivo o di
vendita, si rappresentano con una retta avente una certa inclinazione a seconda del coefficiente
di proporzionalità di questi costi rispetto al volume.
- Se la linea dei costi variabili complessivi si fa partire dall’altezza dei costi fissi complessivi, si ha
direttamente la linea dei costi totali.
- I ricavi infine si rappresentano con una linea che esce dall’origine degli assi, anch’essa con una
certa inclinazione, variando i ricavi proporzionalmente al variare del volume di vendita.
Le linee dei ricavi complessivi e dei costi complessivi si incontrano in un punto: il punto di pareggio
che segnala la grandezza del volume produttivo e di vendita per la quale costi e ricavi aziendali si
eguagliano, cioè il profitto risulta pari a zero.
Il punto P definisce due triangoli che rappresentano rispettivamente l’area delle perdite, cioè
l’insieme dei volumi produttivi e di vendita per i quali si sostengono dei costi superiori ai ricavi, e
l’area dei profitti cioè l’insieme dei volumi produttivi e di vendita per i quali si conseguono dei
ricavi superiori ai costi complessivi. La differenza tra il volume realmente prodotto e venduto ed il
volume necessario ad ottenere il pareggio economico si definisce:
- Margine di sicurezza, qualora positivo (contrazione massima che può subire il volume di
produzione/vendita prima di entrare nell’area delle perdite).
- Margine di deficit, nel caso in cui assuma valore negativo (espansione del fatturato necessaria
per ottenere il pareggio tra ricavi e costi complessivi).
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Equazione di pareggio (nel caso di produzioni omogenee): si ottiene ponendo i ricavi complessivi
pari ai costi fissi complessivi, più i l profitto lucrato.
La consapevolezza dei limiti che tali ipotesi implicano permette un uso più corretta di una
procedura valutativa utile.
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La gestione delle scorte può essere attuata secondo due impostazioni differenti:
- Stock control: secondo cui l’altezza delle scorte da tenere in magazzino dipende dai tempi di
assorbimento dei materiali e dai tempi di riapprovvigionamento degli stessi. In questo caso si
controlla il livello della scorta senza tener conto dell’andamento dei processi di produzione e di
vendita.
- Flow control: legata all’andamento della domanda, da cui deriva l’entità e la cadenza
dell’approvvigionamento e dell’accumulo in magazzino. In questo caso le scorte sono
determinate in funzione del flusso di ordini di vendita da evadere.
- Material Requirements Planning (MRP): questa tecnica si basa sul concetto di far coincidere
le scorte con i fabbisogni di breve periodo, in modo da ridurre al minimo l’accumulo di
giacenze.Questo diviene possibile perchè si pate dagli ordinativi di vendita o dai lanci di
produzione e, in funzione dei tempi di produzione del mix di prodotti (nelle quantità ordinate) e
dei consumi di materie ad essi associati, si provvede all’acquisto dei materiali. L’individuazione
di questi ultimi deriva dalla costruzione della cosiddetta distinta base, all’interno della quale è
esposto il fabbisogno di materie, parti e componenti necessari a pervenire all’allestimento del
prodotto finito, è da questo documento che si desumono le informazioni sul tasso di consumo
dei diversi materiali necessari per produrre un’unità di output.
- Just In Time (JIT): pro prone sostanzialmente la minimizzazione dei livelli di giacenza del ciclo
produttivo, per generare vantaggi economici (risparmi di costo) ed eliminare il rischio connesso
all’immobilizzo (deterioramento ed obsolescenza dei materiali in scorta). Tuttavia non facile è
l’attuazione perchè la gestione con scorta zero comporta un’organizzazione ottimale dell’intero
ciclo di gestione. Per poter attuale il just in time è necessario difatti collegarsi in modo altamente
efficiente con la rete dei fornitori. La possibilità di costituire il magazzino presso il fornitore
dipende dalla rapidità e dalla continuità dei rifornimenti. Una soluzione del problema può essere
quella dell’insediamento dei fornitori nella stessa area della stabilimento cliente.
- Scorte Separate (Two Bin System): è una tecnica a quantità fissa. Con questa tecnica si
determina in quanto ordinare e si ottiene di conseguenza il quando. Essa si fonda, infatti, sul
riapprovvigionamento per quantità costanti allorché la scorta raggiunge un predeterminato
valore minimo (livello di riordino). Il prima problema da risolvere, dunque, è proprio la
determinazione del livello di riordino, cioè della quantità al raggiungimento della quale bisogna
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La carenza di scorte può far perdere l’occasione di vendita e riflettersi direttamente sul volume
d’affari dell’impresa. Questo accade tutte le volte che il cliente non è disposto ad attendere per
ricevere il prodotto e, a causa della non radicata preferenza per la specifica marca (scarsa brand-
loyality), si rivolge a prodotti della concorrenza. I rischi correlati all’accumulo in magazzino di scorte
prodotti derivano invece, dalla possibile deperibilità fisica (senescenza) o tecnica (obsolescenza)
del prodotto. Lo sforzo delle imprese sarà allora di lavorare quanto più possibile su commessa.
L’indice che consente di operare delle valutazioni di efficienza sule scorte è il tasso di rotazione.
Questo è dato dal rapporto fra il materiale uscito dal magazzino in una certa unità di tempo e la
giacenza media presente in magazzino nella stessa unità di tempo. Naturalmente più è elevato
questo indice, maggiore è l’efficacia di gestione delle scorte, perché ‘aumento del rapporto è
dovuto ad un più vantaggioso equilibrio fra ciclo di uscita dei materiali dal magazzino e ciclo di
permanenza degli stessi in deposito. Un più alto tasso può essere dovuto infatti o ad un aumento
del numeratore (maggiore uscita di materiali durante l’anno) oppure ad una diminuzione del
denominatore (giacenza media). In entrambi i casi l’investimento in scorta è diminuito.
Nell’ipotesi di scorte prodotti il tasso di rotazione sarà uguale al rapporto tra il volume delle vendite
e la giacenza media. In questo caso tuttavia bisognerà rendere omogenei i due termini del
rapporto, in quanto il numeratore è espresso in prezzi di vendita e il denominatore in prezzi di
acquisto. Conoscendo il ricarico applicato ai prodotti posti in vendita, bisognerà pertanto o
aggiungerlo al valore della giacenza media (mark-up) o sottrarlo a quello delle vendite (mark-
down).
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Il piano d’impresa dovrebbe prima di tutto presentare i connotati distintivi della business idea e
valutarne la validità e fattibilità operativa e finanziaria. Una business idea è composta da:
- Il sistema di prodotto, che identifica l’offerta rivolta al mercato.
- Il segmento di mercato, ossia la tipologia di clienti cui l’impresa si rivolge.
- Le risorse interne attraverso le quali si confida di poter realizzare l’idea imprenditoriale.
Una prima metà del business plan ruota attorno alla definizione di una chiara mission e di una
solida strategia aziendale. Il piano d’impresa si apre con un sommario che è un documento di
riepilogo in cui si presentano brevemente natura e finalità del progetto, evidenziano la mission
aziendale e l’essenza della business idea. Si indicano i prodotti che si intendono offrire,
sottolinenando i vantaggi per la clientela e i punti di forza rispetto ai concorrenti; le opportunità di
mercato che si ritiene di poter cogliere; si valuta la dimensione del mercato, indicando le strategie
da adottare, nonché i risultati economico-finanziari attesi.
La seconda metà del business plan definisce una serie i piani operativi: piano di marketing e delle
vendite, piano di produzione, piano degli approvvigionamenti, piano degli investimenti, piano
economico-finanziario che devono essere coerenti tra di loro e rispetto alle scelte strategiche
effettuate.
Il business plan risulterà coerente quando siano presi nella giusta considerazione i collegamenti fra
strategie, scelte operative, ipotesi di partenza e dati economico-finanziari e venga parallelamente
garantito il rispetto dele connessioni logiche che sussistono tra insieme di scelte diverse e tra i
differenti prospetti economico-finanziari.
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- È uno strumento di pianificazione e controllo che fornisce un’utile base di raffronto per
valutare la bontà dei risultati conseguiti.
- É uno frumento di comunicazione esterna con cui l’imprenditore può presentare la sua idea
imprenditoriale a diverse categorie di interlocutori e persuaderli della bontà del progetto per
ottenerne il coinvolgimento e le risorse.
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Il cash flow (o flusso di cassa) rappresenta una misura dell’autofinanziamento in quanto esprime
l’ammontare delle risorse finanziarie generate dalla gestione aziendale e, in quanto tale, è
considerato espressivo, al meglio, del risultato di gestione.
Anche la misura del cash flow sconta due effetti che vanno posti in rilievo: il primo è dato dai criteri
di valutazione applicati nella formazione del bilancio d’esercizi e il secondo è causato
dall’incidenza di componenti estranei alla gestione tipica o caratteristica. In ogni impresa si
possono, infatti, separare quattro tipi di attività o fenomeni di differente matrice gestionale:
4) La gestione straordinaria: composta dagli eventi imprevedibili, nel loro verificarsi o nella
misura degli effetti prodotti, destinati ad alterare la situazione reddituale e patrimoniale
dell’impresa.
Ciascun tipo di gestione è destinato a produrre dei risultati a questi ultimi andranno a comporre il
risultato globale dell’attività aziendale. Naturalmente l’indice più significativo è appunto il risultato
collegato alla gestione operativa, cioè quello relativo all’attività tipica o propria dell’impresa. É
quindi molto importante determinare quanta parte del risultato di esercizio scaturisca dalla gestione
caratteristica e quant’altra da quella finanziaria, straordinaria e accessoria.
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La conoscenza del reddito operativo può avvenire a livello di margine operativo lordo o MOL
(anche definito EBITDA), che non tiene conto degli ammortamenti e di eventuali svalutazioni,
oppure di margine operativo netto (anche definito EBIT), che tiene conto di ammortamenti e
svalutazioni.
- Efficienza organizzativa: deriva dal livello di produttività del lavoro aziendale, dato che
un’organizzazione efficiente contribuisce a migliorare l’apporto di tutti coloro che operano al suo
interno e ad elevare gli standard di prestazione per le varie funzioni realizzate.
- Efficienza di mercato: si concreta nel miglioramento della posizione dell’azienda nei confronti
della concorrenza e nell’ampliamento della opportunità di ricavo.
L’efficienza organizzativa riguarda la struttura, le procedure e gli uomini impegnati nel sistema
aziendale. La valutazione di questo tipo di efficienza va dunque condotta sia mediante la
misurazione del rendimento del personale, sia per mezzo di appropriate analisi organizzative:
- Il rendimento del personale è generalmente valutato sulla base di indici quantitativi e quantitativi,
di cui il più importante è senza dubbio l’indice di produttività, che si costruisce ponendo a
raffronto il risultato conseguito e lo sforzo sostenuto e che serve a misurare l’efficienza del
lavoro sia umano sia meccanico. Ad esempio, per un operaio addetto allo stampaggio di pezzi di
lamiera, il rapporto può essere impostato ponendo a raffronto il numero dei pezzi stampati
(risultato) con il tempo impiegato (sforzo). La produttività, tuttavia, è un indice quantitativo di
rendimento, che non rivela nulla sulla qualità delle prestazioni rese. É importante quindi
affiancare a quest’indice valutazioni degli aspetti qualitativi del lavoro (ad es. quantità di materie
impiegate, costi sostenuti per ottenere il risultato, corretto impiego di macchine e utensili, …).
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L’efficienza economica può essere misurata con riferimento a tre parametri fondamentali: costi,
ricavi e reddito. Due sono i tipi di indici quantitativi più frequentemente utilizzati:
- Gli indici di economicità, costruiti ponendo al numeratore i costi relativi a singole funzioni o
all’intera attività dell’azienda e al denominatore i ricavi della gestione. Esprimono il rapporto tra
costi e ricavi aziendali e consentono di valutare la situazione di equilibrio o di squilibrio esistente
nel conto economico dell’azienda.
- Gli indici di redditività: costruiti ponendo al numeratore grandezze espressive del reddito lucrato
dall’impresa nelle sue varie configurazioni (reddito operativo, reddito ante imposte, reddito netto)
e al denominatore valori rappresentativi del capitale a vario titolo impiegato nell’impresa
(capitale investito, capitale proprio, …)
Considerando l’efficienza di mercato, l’indice che più di ogni altro si presta a fornire delle
valutazioni relative all’efficienza esterna o di mercato è rappresentato dalla quota di mercato, cioè
dal rapporto tra le vendite aziendali e le vendite complessivamente effettuate nel particolare
mercato. Per aver, infatti, degli elementi di giudizio sulla minore o maggiore forza dell’azienda nel
mercato in cui opera non è sufficiente perdere a base il tasso di sviluppo delle vendite aziendali, in
quanto questo non dice nulla circa il mutamento di posizione rispetto ai diretti concorrenti.
Mediante l’analisi del bilancio di esercizio è possibile costruire vari rapporti tra le poste dello stato
patrimoniale e/o del conto economico (che prendono la denominazione di ratio) adatti a rivelare
situazioni ed andamenti della gestione nel tempo. In pratica i ratio sono uno strumento di
interpretazione del bilancio di esercizio e costituiscono una base per le valutazioni prospettiche
della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica di un’azienda.
La redditività si calcola rapportando valori espressivi del reddito aziendale a misure del capitale
impiegato.
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Attraverso il ROS è possibile scomporre il ROI nel prodotto tra il ROS stesso e il tasso di rigiro del
capitale (ricavi di vendita su capitale investito). Quest’ultimo rappresenta un importante indicatore
di efficienza in quanto esprime la capacità del capitale investito di “convertirsi” in ricavi di vendita.
La scomposizione del ROI nelle sue determinati fondamentali, consente di valutare se le variazioni
di tale indice sono dovute ad una modificazione del tasso di redditività sul venduto oppure ad un
mutamento del tasso di rigiro (turnover) del capitale e lega le due grandezze fondamentali di questi
rapporti alla relative voci di bilancio.
Il valore minimo soddisfacente dovrebbe essere pari al costo medio del denaro.
Il ROE (return on equity) esprime la redditività dei mezzi propri e si calcola rapportando l’utile netto
d’esercizio al capitale netto dell’impresa.
Il ROE dovrebbe essere almeno pari al tasso free risk (tasso di rendimento dei titoli di debito
pubblico a breve scadenza) maggiorato per il premio del rischio, in considerazione del livello di
rischio operativo e finanziario che si assume l’imprenditore. Il ROE si lega al concetto di costo
opportunità del capitale, ovvero del rendimento massimo ottenibile da un altro investimento
contrassegnato dal medesimo profilo di rischio e al quale l’imprenditore rinuncia per investire
nell’impresa.
Un secondo gruppo di ratio è quello che misura l’economicità della gestione, cioè il rapporto tra i
ricavi e i costi di gestione. L’indice di economicità in senso tradizionale (costi su ricavi) va
naturalmente costruito per l’intera impresa ed esprime l’andamento dell’economicità della gestione
nel suo complesso. É chiaro che questi ratio denotano valori sempre più positivi al loro decrescere,
dato che un’eventuale diminuzione testimonia una minore incidenza del costo rispetto ai ricavi.
I principali indici parziali di economicità pongono a raffronto i costi di lavoro, delle materie
impiegate, di ammortamento e gli oneri finanziari rispetto ai ricavi o ai costi totali. In un’impresa
industriale è necessario, infatti, tenere sotto stretto controllo l’incidenza del costo del lavoro, degli
approvvigionamenti, degli ammortamenti e della gestione finanziaria.
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L’ultimo gruppo di indici comprende gli indici che consentono di valutare la situazione finanziaria
dell’impresa. Gli aspetti da misurare riguardo la solvibilità, la solidità patrimoniale e la liquidità.
Un indicatore di particolare valore, che non è un ratio, è il margine di struttura. Questo infatti è un
valore differenziale, perché è dato dalla differenza tra i mezzi propri aziendali e gli impieghi (o
immobilizzazioni) fissi.
Quest’indice rivela, se positivo, un’eccedenza delle fonti di finanziamento non soggette ad obblighi
di rimborso, nei confronti del capitale investito in impieghi fissi (cioè misura in effetti il grado di
solvibilità aziendale), se negativo, invece, indica una ridotta attitudine dell’impresa a modificare e
riconvertire l’appartato produttivo per carenza di fonti finanziarie specifiche.
Altri indici son quelli che consentono di valutare la solidità patrimoniale e la liquidità. Il rapporto tra
il capitale netto e il totale dei debiti a breve, medio e lungo termine, esprime il grado di solidità
patrimoniale dell’azienda.
Il quoziente tra il totale dei debiti ed il capitale investito, esprimendo il rapporto tra mezzi di terzi ed
il totale delle risorse investite nell’impresa, misura poi il grado di indebitamento aziendale.
Indicativo è il rapporto tra il totale dei debiti a lungo termine ed il totale dei debiti aziendali, che
esprime il grado di consolidamento della situazione debitoria dell’impresa. Su questo indice
bisogna osservare che, a parità dell’indebitamento globale, una maggiore indecenza dei debiti a
medio-lungo termine dovrebbe essere vantaggiosa sotto due profili:
- Costo più basso di capitali presi a prestito per scadenze medio-lunghe.
- Possibilità di programmare il rimborso secondo prestabiliti piani di ammortamento.
Ai fini della valutazione dell’equilibrio finanziario assume, poi, una particolare rilevanza la
determinazione del grado di liquidità.
Il margine di liquidità si costruisce sottraendo dalle attività correnti le passività correnti, intese
come valori da cui potranno avere origine entrate ed uscite monetarie nell’esercizio. Bisogna
tuttavia tener presente che a le attività correnti si rinvengono tra tipi di valori, caratterizzati da un
diverso grado di liquidità (trasformabilità in denaro):
- Attività liquide (cassa, banche e titoli)
- Attività a liquidità differita (crediti a breve)
- Attività liquidabili (scorte di magazzino)
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Indice di liquidità differita = Cassa + attività finanziarie facilmente liquid. + crediti commerciali/
Passività correnti.
Sempre ai fini del controllo della liquidità è particolarmente importante sorvegliare costantemente il
margine di tesoreria, uguale alla differenza tra la somma delle attività liquide e a liquidità differita
e le passività correnti.
L’efficienza è un attributo he i presta ad essere valutato in senso relativo, cioè mediante raffronti
nel tempo e nello spazio.
L’analisi dei costi di distribuzione serve soprattutto a stimare i margini di contribuzione o i tassi
di redditività dei prodotti, sone di vendita, canali di distribuzione, gruppi di clienti.
L’analisi dei costi di distribuzione intende rispondere a questo scopo, consentendo di conoscere i
margini attribuibili a ciascun segmento di vendita.
- Analisi oggettiva o per oggetto di spesa (fitti, stipendi, oneri finanziari, …).
L’analisi soggettiva è quella più frequentemente attuata perchè consente di rilevare la redditività
dei vari prodotti, delle diverse zone o dei differenti canali adottati dall’impresa. Se si riesce a
stabilire quale quota del costo di distribuzione appartiene ad ogni segmento di vendita, si può ache
determinare (sottraendo la quota dal margine lordo) il relativo tasso di redditività e valutarne di
conseguenza l’efficienza comparativa.
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1) La ricerca, tra le schede di mastro, di tutti i conti accesi a costi che rientrano nel processo
distributivo.
2) La riclassificazione di tali costi per funzioni, in modo di determinare le spese sostenute per
l’esecuzione delle vendite, la promozione, il magazzinaggio dei prodotti, …
7) L’analisi comparativa della composizione percentuale del costo di distribuzione (per funzioni e
per voci specifiche di spesa).
L’analisi dei rendimenti della rete di vendita serve a misurare l’efficienza della rete di vendita (filiali,
agenzie, …) e dei singoli venditori. Si basa sulla costruzione di indici di produttività. Il rendimento
viene comunemente valutato sulla base delle quote di vendita ovvero del potenziale assegnato al
singolo segmento organizzativo. Esso è misurato dal rapporto tra il volume d’affari prodotto (quota
effettiva) e quello attribuito in sede di programmazione dell’attività di vendita (quota assegnata). Il
rendimento dell’attività di vendita non si valuta solo in base ad indici standard ma può essere
misurato da altri rapporti:
5) Numero di visite effettuate alla clientela e numero di visite programmate (indice di regolarità
del venditore)
6) Numero di contratti stipulati e numeri di visite effettuate (indice di persuasione delle vendite)
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Si tratta di un insieme bilanciato di indicatori, quantitativi e non quantitativi, legati a fattori critici di
successo della strategia aziendale che, in un sistema integrato, si rinforzano l’un l’altro,
nell’obiettivo comune di indicare le prospettive future dell’azienda. Il termine balanced suggerisce
la necessità di trovare un equilibrio tra i vari fattori di misurazione della performance aziendale e di
fare in modo che essi siano opportunamente ponderati al fine di pervenire alla valutazione
dell’efficienza aziendale nell’ottica del perseguimento di obiettivi di lungo periodo.
Oltre a riunire in un unico documento indicatori di tipo diverso, la balanced scorecard li raggruppa
solitamente in quattro “prospettive”, che rappresentano le dimensioni principali rispetto alle quali
viene creato valore in azienda e che sono destinate a comporre la performance d’impresa:
- La prospettiva economico-finanziaria
- La prospettiva della soddisfazione del cliente
- La prospettiva dei processi aziendali
- La prospettiva dell’apprendimento
I problemi da risolvere nella costruzione della balanced scorecard sono quelli sia di scelta dei
parametri di misurazione sia di determinazione degli indici di perequazione, ossia del peso relativo
da attribuire ai differenti tipi di parametri.
Con il termine benchmarking si vuole definire l’attività sistematica di controllo della concorrenza
mediante il confronto delle performance realizzate. Lo scopo è di individuare le cause del
vantaggio competitivo soprattuto delle imprese eccellenti, con l’obiettivo di ridurre le distanze e
cercare, quindi, di conseguire gli stessi vantaggi. In effetti con il benchmarking si estende il
controllo dell’efficienza dall’interno all’esterno, in modo da porre sotto osservazione le principali
differenze tra i competitori. Naturalmente, l’aspetto più delicato delle procedure di benchmarking è
rappresentato dalla scelta delle imprese di riferimento.
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