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Sulla base dei requisiti comuni a tutte le imprese sopra elencati, si può definire l’impresa come:
“Un complesso interrelato di parti per il raggiungimento di un fine comune che opera in relazione
con un ambiente esterno ed è quindi dinamico.”
L’impresa può essere classificata come un sistema sociale, economico, dinamico e aperto:
Sociale perché è costituita da un insieme di parti od organi tra loro legati da relazioni
d’interdipendenza per il raggiungimento di un fine condiviso (economico).
Dinamico perché muta nella dimensione e nella combinazione delle sue risorse.
Aperto perché, per operare, deve intrattenere continue relazioni di scambio (input-output)
con altri sistemi o entità esterne.
Concezioni d’impresa.
Il concetto economico d’impresa non può essere separato da quello sociale, le imprese, infatti,
sono rette da uomini che operano per soddisfare i bisogni umani e partecipano in senso lato alla
vita dell’ambiente circostante. La sua funzione non può limitarsi a produrre beni e servizi utili per
una certa collettività di consumatori, ma deve necessariamente estendersi al miglioramento della
qualità della vita nel contesto in cui opera. In ciò si traduce il concetto di responsabilità sociale
aziendale (corporate social responsibility). In altri termini, un’impresa, per le funzioni che è
chiamata a svolgere, per le risorse che attinge dall’ambiente, per l’impatto che può esercitare sul
clima sociale della comunità, non può essere vista come un’iniziativa esclusivamente
imprenditoriale rivolta soltanto alle finalità economiche dell’investitore proprietario. Essa deve
essere più appropriatamente considerata come un sistema economico e sociale, cui prende parte
una pluralità di attori, che dev’essere guidato in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi
economici e responsabilità sociali. In conformità a queste considerazioni, l’impresa va
correttamente considerata come un’istituzione a finalità plurime, il cui compito è di creare valore
in senso ampio, ossia non solo valore economico, ma anche valore sociale.
Funzioni dell’impresa.
L’impresa rappresenta una realtà complessa intorno alla quale si sviluppa una rete di rapporti non
solo di scambio, ma anche di collaborazione, d’informazioni, d’interessi. Essa, infatti, svolge una
varietà di ruoli nei confronti di chi vi partecipa, del mercato e dell’ambiente socio-economico e
costituisce allo stesso tempo una realtà sociale, giuridica, economica e organizzativa. In sintesi,
l’impresa presenta tre profili di maggiore rilievo, a ciascuno dei quali si collega un diverso ruolo:
Si può dunque affermare che l’impresa svolge una molteplicità di funzioni in rapporto ai
differenti ruoli da essa assunti nel sistema economico sociale. E’ importante considerare la
complementarità esistente tra le funzioni, ciascuna delle quali è essenziale per la realizzazione
delle altre.
L’impresa, quale cellula fondamentale del sistema economico e produttivo, vive all’interno di un
ambiente più vasto con il quale scambia risorse e, soprattutto, crea ricchezza. Quest’ambiente può
convenzionalmente scomporsi in:
Micro-ambiente, definito dai mercati con cui l’impresa attiva lo scambio delle risorse.
Macro-ambiente, dal quale derivano vincoli e condizioni entro cui si possono verificare gli
scambi.
E’ opportuno precisare che non si considera l’ambiente in senso biologico o naturale, ma sotto il
profilo economico-sociale. In tal senso, l’ambiente può essere inteso come:
“Il contesto socio-economico all’interno del quale l’impresa è chiamata a svolgere le sue funzioni.”
Tale contesto è regolato da una serie di condizioni politiche, legislative, sociali, culturali ed
economiche, che determinano il sistema di vincoli-opportunità entro il quale dovrà trovare
sviluppo l’attività aziendale. L’ambiente può essere scomposto in quattro sub-sistemi generali:
Per quanto concerne il Micro-ambiente, in funzione delle differenti transazioni attivate, può
essere a sua volta suddiviso in:
L’impresa per attingere alle risorse e per cedere i beni prodotti dovrà interagire con una
pluralità di stakeholder, che si raggrupperanno in categorie originando distinti mercati. In
termini economici:
“ Si ha un mercato in tutti i casi vi siano due o più contraenti disposti a scambiare fra di loro i
beni rispettivamente posseduti.”
I rapporti impresa-ambiente.
Internazionalizzazione e globalizzazione.
Imprenditore e Manager.
Nell’impresa la figura centrale è quella dell’Imprenditore, che può essere definito come:
“Il soggetto economico che decide di rischiare i propri capitali e di dedicare le sue capacità
professionali alla produzione di beni o servizi da cedere a terzi.”
Joseph Schumpeter, nella “Teoria dello sviluppo economico”, individua le qualità che
l’imprenditore deve possedere in modo superiore:
Si differenzia dal Manager, che non si assume il rischio d’impresa, ma pone in essere le decisioni
prese dall’imprenditore ed è definito come:
“Il soggetto che organizza e disciplina l’uso delle risorse aziendali dando attuazione alle decisioni
imprenditoriali.”
La complementarità di questi ruoli, che spesso si combinano nello stesso soggetto, appare
evidente, perché il successo di un’impresa è sempre il risultato della combinazione di efficacia
(bontà delle decisioni) ed efficienza (rendimento dell’uso delle risorse). Da ciò deriva che:
Organi deliberanti: si differenziano dagli organi operativi non soltanto per il predominare
degli atti di decisione rispetto agli atti di esecuzione nello svolgimento delle loro funzioni,
ma anche e soprattutto per il più ampio potere discrezionale esercitato nel compimento di
tali atti. In una struttura societaria di grandi dimensioni si può suddividere in: organi di
proprietà (azionisti), organi di amministrazione e organi di direzione. L’esercizio dei poteri
di governo dell’impresa richiede la compresenza di più requisiti. Seppur necessaria, non è
sufficiente solo l’autorità, intesa come il potere riconosciuto nell’ambito della struttura, ma
è fondamentale che ad essa si accompagnino altri tre elementi: l’abilità professionale, la
disponibilità delle informazioni e la capacità di controllo delle decisioni assunte.
Organi di controllo: spesso coincidono con gli organi deliberanti, sono coloro che hanno il
compito di verificare l’effettiva realizzazione delle direttive degli organi deliberanti.
Organi esecutivi: sono tutte quelle persone (operai, impiegati) che svolgono nell'azienda
un'attività materiale o intellettuale, obbedendo a ordini che ricevono da organi superiori.
Esercitano prevalentemente compiti esecutivi ed hanno un potere discrezionale limitato
all’attuazione di specifici compiti.
Teoria dell’agenzia.
Con la dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa, prende forma la cosiddetta Teoria
dell’agenzia. Tale teoria si riferisce alla situazione in cui il potere di amministrazione è
esercitato da un Manager (agent) su mandato ricevuto dalla proprietà (principal). Per effetto
del mandato fiduciario, in base al quale un delegato amministra per conto del delegante, si
viene così a creare una relazione singolare che tende a ridurre se non annullare il carattere
residuale (e, quindi, in un certo senso il rischio) della remunerazione della proprietà.
Quest’ultima, infatti, incentiverà l’agente a massimizzare la ricompensa per la proprietà sotto
forma di dividendi azionari e valorizzazione della quotazione delle azioni, pena l’uscita dalla
società (disinvestimento) o la rimozione dell’agente dal suo incarico (risoluzione del mandato
fiduciario).
L’individuazione dei protagonisti della vita dell’impresa può essere estesa dagli organi facenti
parte della sua struttura a quelli esterni nei confronti dei quali, durante la gestione, si
sviluppano relazioni d’interesse e d’influenza. L’impresa si pone al centro di una serie di
rapporti bilaterali con differenti gruppi sociali, rispetto ai quali attiva relazioni di scambio
d’informazione e di rappresentanza. Questi gruppi finiscono per costituire dei veri e propri
interlocutori dell’impresa o portatori d’interessi (detti anche stakeholder), che influenzano e
sono influenzati dall’impresa stessa. Il concetto di stakeholder, originariamente ristretto solo a
coloro che avevano interessi diretti nella vita dell’impresa, si è ampliato per ricomprendere
anche coloro che sono in grado di esercitare un’influenza sulle decisioni aziendali o, che pur
non partecipando alla sua vita possono essere influenzati da esse. Pertanto, si differenziano:
Stakeholder primari: destinati ad esercitare una pressione più diretta e immediata sulla
gestione aziendale. Nello specifico, sono coloro che si collegano con l’impresa mediante
contratti e che, quindi sono interessati alla conclusione e al rispetto dei contratti stessi, dai
quali deriva ovviamente il raggiungimento di un loro specifico interesse (es. lavoratori,
fornitori, finanziatori, ecc.).
Stakeholder secondari: in grado di influenzare i comportamenti di lungo termine potendo
incidere soprattutto sul clima sociale delle relazioni individuali. In sintesi sono coloro che
costituiscono dei centri di pressione di cui chi governa l’impresa non può non tenerne
conto (es. istituzioni, ambientalisti, associazioni di consumatori, ecc.).
Chi sono i gruppi portatori d’interessi con cui l’impresa deve misurarsi?
Quali sono gli interessi in gioco?
Quali opportunità o sfide questi portatori d’interesse creano per l’impresa?
Quali responsabilità l’impresa ha verso di essi?
Quali strategie e politiche adottare?
La forza: ovvero il potere da essi detenuto in virtù del ruolo ricoperto nella società (es. il
peso esercitato dagli ambientalisti sulle condizioni di svolgimento dell’attività industriale);
La legittimazione: ossia il riconoscimento ufficiale della loro funzione di rappresentanza di
particolari interessi o soggetti economici, sociali e politici;
L’attualità dell’interesse difeso: ovvero l’urgenza della risposta da parte dell’impresa e la
criticità che tale risposta assume nel particolare momento di vita dell’impresa.
Stakeholder amichevoli (supportive), dai quali si può ottenere un sostegno decisivo per
l’attività d’impresa e verso i quali s’intraprende una strategia di coinvolgimento.
Stakeholder avversari (non supportive), dai quali potrebbero generarsi difficoltà sostanziali
per l’attività aziendale e verso i quali si adotta una strategia di difesa.
Stakeholder non orientati (mixed blessing), da cui si potrà avere, a seconda delle
circostanze, un sostegno o un atteggiamento negativo e verso i quali si persegue una
strategia di collaborazione.
Stakeholder marginali, il cui peso nei confronti dell’impresa nel particolare momento
risulterà del tutto modesto e che comporterà una strategia di monitoraggio.
Nella teoria degli stakeholder, il ruolo della proprietà rappresenta un punto problematico.
Sostanzialmente e in modo sintetico, si delineano due principali casi:
Coincidenza tra proprietà e governo dell’impresa: la proprietà in questo caso non figura
tra gli stakeholder dato che è la stessa proprietà/governo (imprenditore) a curare i rapporti
con gli stakeholder.
Dissociazione tra proprietà e governo: in questo caso invece la proprietà è ricompresa tra
gli stakeholder perché costituisce uno degli interlocutori primari del management stesso.
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L’impresa, quale entità economica e sociale, non ha delle finalità da raggiungere, ma delle funzioni
da svolgere. Tale precisazione è opportuna per ribadire una distinzione fondamentale tra l’azienda
come fatto oggettivo, cioè come una realtà costituita da un coacervo di risorse o di potenzialità, e
la stessa azienda vista come fatto soggettivo, ossia quale emanazione e strumento di una capacità
imprenditoriale finalizzata verso certi risultati. Il problema dei fini, investe, in sostanza, gli individui
che agiscono nell’impresa e, in prima linea, coloro che ne detengono la proprietà e il governo.
Il concetto di profitto.
“Il profitto è un’entità composita, in cui rientrano il compenso per il lavoro imprenditoriale, il
premio per il rischio, la contropartita dell’innovazione e la rendita connessa con la posizione
monopolistica.”
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Intende puntare al massimo profitto, sostenendo altresì il rischio più elevato circa il risultato
dell’attività dell’impresa? Da ciò deriva che, per conferire un valore operativo alla teoria e poter
spiegare, alla luce di essa, le motivazioni del comportamento imprenditoriale, è necessario
introdurre il fattore tempo (time-preference) e il fattore rischiosità (uncertainty conditions).
Fattore tempo: l’imprenditore tende a massimizzare il risultato nel lungo termine, non il
risultato di una certa operazione o delle operazioni condotte in un determinato periodo di
tempo. Tale obiettivo può essere anche sacrificato nel breve periodo, con l’intento però di
pervenirvi più agevolmente nel lungo periodo. Sotto questo profilo si può, ad esempio,
giustificare una politica di vendita dei beni o servizi prodotti a prezzo di costo o inferiori al
costo, intesa a far conquistare un’ampia porzione di mercato e far recuperare
successivamente le quote di reddito sacrificate.
Fattore rischio: l’imprenditore tende a condizionare le sue aspirazioni reddituali ad un
determinato grado di rischiosità globale della gestione. Sotto questo profilo, l’espansione
in altri settori produttivi o in mercati esteri potrebbe, ad esempio, rispondere non tanto al
fine di massimizzare il profitto, quanto piuttosto a quello di diversificare e compensare
(merceologicamente e geograficamente) i rischi di gestione.
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Secondo la teoria della sopravvivenza, il fine del gruppo imprenditoriale è quello di garantire la
continuità dell’organismo aziendale. Ciò si traduce, da un lato, nel puntare al profitto come mezzo
per irrobustire la struttura patrimoniale dell’impresa e, dall’altro, nel rifiutare attività gestionali
con coefficienti di rischio che possano porre in pericolo la vita dell’organizzazione. Questa teoria
ha trovato uno dei principali sostenitore in Drucker, il quale ha proposto di misurare il
raggiungimento della finalità suindicata sulla base di obiettivi legati a quattro aspetti necessari:
E’, infatti, intuibile che la sopravvivenza dell’impresa è legata alla posizione occupata nel mercato
cioè al rapporto di forza o debolezza nei confronti della concorrenza; alle innovazioni, cioè alla
capacità di adeguare costantemente le tecnologie utilizzate e i prodotti realizzati; alle risorse
umane e finanziarie, ossia alla professionalità del personale e alla disponibilità di mezzi da
impiegare nel finanziamento degli investimenti e del capitale circolante; alla redditività, in quanto
fonte dello sviluppo e dell’incremento di patrimonialità dell’impresa.
Con la formulazione della teoria del valore si compie un salto sostanziale nella teoria dell’impresa
perché la finalità della creazione del valore risponde agli obiettivi di tutti i partecipanti all’impresa
e non soltanto a quelli dell’imprenditore proprietario e/o del manager. Tale teoria sostiene, difatti,
che la finalità da assegnare alla gestione è quella di far crescere il valore economico dell’impresa.
Con essa la visione dei risultati aziendali è orientata al futuro, perché ciò che conta non è il profitto
ma le potenzialità di produrre risultati sempre migliori. Il concetto di creazione del valore si sposa
con quello di diffusione del valore stesso al mercato.
Nella pratica nordamericana si da un indirizzo diverso a tale teoria, che si può definire di creazione
del valore azionario. La teoria del valore azionario si collega, difatti, al concetto patrimoniale
dell’impresa, vista, quest’ultima, come un valore reale (rappresentato dalla capitalizzazione in
base al corso dell’azione) piuttosto che come fonte di un futuro valore reddituale. In altri termini,
la strategia del valore tenderebbe a guidare l’opera dell’imprenditore e/o del manager,
inducendolo a preferire le scelte tese a massimizzare il valore del capitale azionario, perché in tal
modo l’impresa diventerebbe più appetibile, più affidabile e assicurerebbe migliori retribuzioni.
Secondo tale teoria, i manager sono più interessati all’espansione dell’impresa perché
quest’ultima si traduce quasi sempre in:
Secondo la tesi di Baumol, i comportamenti imprenditoriali sono tesi all’ampliamento del volume
d’affari rispetto a quello dei profitti globali, e di conseguenza al posto della crescita del profitto si
sarebbe sostituita quella del fatturato quale obiettivo primario della conduzione aziendale.
L’ipotesi di questo economista è che gli oligopolisti cercano di massimizzare il volume di vendita
dei loro prodotti con il vincolo di un livello minimo di profitto. In sostanza, le imprese mirano a
realizzare il flusso di profitti che consente di finanziare il massimo sviluppo delle vendite nel lungo
periodo. Secondo Baumol, massimizzare le vendite significa massimizzare il fatturato e non
necessariamente la quantità fisica del venduto. Ciò significa che l’obiettivo da raggiungere si
concreta nella ricerca della combinazione, tra quantità da vendere e prezzi di vendita, che
massimizzi il volume d’affari dell’impresa. E’ una teoria compatibile con quella del massimo
profitto, in quanto nel lungo periodo non dovrebbe esservi antinomia fra la teoria della
massimizzazione del profitto e quella della massimizzazione delle vendite. Nel corso della gestione
si potranno perseguire, infatti, obiettivi di breve e di lungo periodo per cui, a seconda del periodo
osservato, sarà possibile riscontrare la preminenza dell’uno o dell’altro.
Teoria dei limiti sociali della massimizzazione del profitto (o teoria comportamentistica).
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Fra i due tipi di conflitti sussistono delle differenze non solo in ordine alla loro origine, ma
anche alle effettive possibilità di risoluzione esercitabili dall’impresa.
I conflitti esterni, nel caso in cui non si riescano a stabilire legami durevoli di
collaborazione, sono risolvibili sulla base del rapporto di forza esistente tra l’impresa e le
altre organizzazioni economico-sociali con cui entra in contatto. Laddove l’impresa non ha
la forza di imporre totalmente le proprie condizioni all’opponente, le opportunità di
risoluzione sono sovente molteplici. (es: conflitto con un fornitore, si può decidere di
stabilire un nuovo accordo, oppure di cambiare fornitore, oppure produrre il bene).
I conflitti interni, lasciano limitate possibilità di manovra all’imprenditore, nonostante egli
abbia il potere, almeno in teoria, di risolvere il conflitto escludendo l’opponente
dall’organizzazione. L’esempio classico è quello dei conflitti di lavoro, in cui la maggiore
forza imprenditoriale non può esercitarsi a cagione della tutela sindacale del lavoratore.
Per aumentare i ricavi ha due possibilità: aumentare il prezzo o la quantità venduta dei beni.
Tuttavia un rialzo del prezzo, quasi sicuramente non verrà positivamente accettato dai
compratori, i quali potrebbero decidere, per evitare di pagare un prezzo più alto, di rivolgersi
ad un altro fornitore. Pertanto, l’effettiva possibilità dell’imprenditore di far leva sulla variabile
prezzo per massimizzare i suoi profitti appare difficilmente applicabile e potrebbe, addirittura,
rivelarsi controproducente. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda l’aumento
della domanda. Se l’impresa si trova ad operare in un mercato dove la domanda è più meno
stabile, per poter raggiungere l’obiettivo di ampliamento della domanda l’impresa dovrà
necessariamente erodere la quota di mercato dei concorrenti. Questi ultimi chiaramente
porranno in essere delle azioni che contrastino la strategia del rivale. L’impresa potrebbe a
questo punto decidere di operare sul versante dei costi.
Per ridurre i costi l’impresa può operare su due fronti: abbassare il costo unitario di
produzione o impiegare una minore quantità di risorse. La riduzione del costo unitario di
produzione troverà la naturale opposizione dei gruppi sociali come i lavoratori, i fornitori, i
distributori ecc. che si vedrebbero rispettivamente ridurre la remunerazione del lavoro, ridurre
i prezzi pagati ai fornitori, i margini di guadagno ecc. Lo stesso ragionamento deve essere fatto
per quanto concerne la riduzione della quantità di risorse.
In una situazione di sostanziale impossibilità di incremento del profitto senza suscitare conflitti
pericolosi per la stessa sopravvivenza dell’impresa quali opportunità ha l’impresa per
raggiungere la sua finalità?
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*La teoria dei limiti sociali al massimo profitto pone in rilievo come la massimizzazione del
profitto incontra due serie di vincoli: i primi sono quelli sociali, i secondi sono i limiti di
conoscenze in ordine all’evoluzione dell’ambiente e dei mercati. Su questa limitazione
s’incentra la teoria del Simon, secondo la quale l’imprenditore tenderebbe a un profitto
soddisfacente più che massimo. Un’eventuale massimizzazione del profitto incontrerebbe,
cioè, dei limiti insuperabili nelle condizioni di ridotta conoscenza in cui sono costretti ad
operare gli amministratori aziendali. Per questo motivo, l’obiettivo delle singole scelte, e
quindi in senso più lato dell’intera gestione, sarebbe quello di individuare, per ciascun
problema, le alternative soddisfacenti piuttosto che quelle ottimali.*
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Le motivazioni o meglio le finalità che spingono un individuo, da solo o insieme con altri
soggetti, a promuovere la costituzione di un’impresa e a svilupparne nel tempo l’attività
possono essere comprese, con qualche necessario adattamento, richiamando la famosa scala
dei bisogni di Maslow. Secondo questa impostazione, le finalità dell’imprenditore appaiono, in
ordine crescente d’importanza, quelle di assicurare la sopravvivenza dell’impresa (mediante il
perseguimento del fondamentale equilibrio economico tra costi e ricavi), di affermarsi
nell’ambito della classe sociale di appartenenza e di assumere posizioni di preminenza nella
comunità. In altre parole lo stimolo economico non rappresenta, o non dovrebbe
rappresentare sempre né il solo né il richiamo più importante della funzione imprenditoriale, il
fine economico, può e deve divenire anche un mezzo per il raggiungimento di obiettivi morali
e sociali. E’ ipotizzabile, infatti, che l’imprenditore (inteso quale proprietario e gestore)
trasponga gran parte di sé nell’impresa e che il suo obiettivo fondamentale sia quello di avere
un’impresa forte, in grado di svilupparsi e di assicurargli rispetto e ammirazione nella cerchia
competitiva più ristretta in cui opera e in quella più ampia della collettività. Partendo da
questa ipotesi, si possono allora individuare e ordinare le finalità imprenditoriali in funzione di
una combinazione o “mix” costituita dal conseguimento del profitto, del potere e del prestigio.
In quest’ottica:
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Il concetto di strategia.
Chandler (1962): “Definizione degli obiettivi di lungo termine, sviluppo delle attività e
allocazione delle risorse necessarie per raggiungere tali obiettivi.”
Rumelt (1980): “Un insieme di politiche e piani che, presi nel loro insieme, definiscono gli
obiettivi di un’impresa e il suo approccio alla sopravvivenza e al successo.”
Andrews (1980): “Il modello di decisioni con il quale un’impresa determina i propri obiettivi,
formula le politiche e i piani per raggiungerli, definisce in quali business operare, quale
organizzazione intende costruire, la natura dei vantaggi economici e non economici che
intende dare ai propri azionisti, ai collaboratori, ai clienti e alle comunità locali.”
La strategia definisce i rapporti con l’ambiente, cioè con il contesto generale entro cui opera
l’impresa, ma soprattutto risponde all’obiettivo più specifico di scegliere l’ambiente
competitivo e transazionale di riferimento dell’impresa.
Alcuni autori, allontanandosi dal concetto di strategia come insieme di decisioni, affermano la
coincidenza tra strategia e azione dell’impresa. Un Autore italiano che segue questa
impostazione è Sergio Sciarelli secondo il quale la strategia rappresenta «un comportamento
imprenditoriale di tempo lungo finalizzato al raggiungimento di obiettivi primari della gestione.
In altri termini, la strategia è il mezzo per conseguire traguardi di tempo non breve, definiti in
funzione dell’evoluzione del rapporto tra l’impresa e l’ambiente nel quale opera».
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La gestione strategica.
Non sempre le decisioni assunte a livello imprenditoriale danno corpo ad una strategia, intesa
quale comportamento innovativo rivolto al raggiungimento di obiettivi di tempo lungo. In altri
termini, le decisioni imprenditoriali potrebbero confermare il tipo di obiettivi e le politiche
attuate in passato, rispondendo quindi a una logica di ripetizione e di tempo breve. D’altro
canto, durante la vita dell’impresa non sempre viene definito un quadro di sviluppo a lungo
termine. Non di rado, infatti, la gestione è orientata su brevi periodi di tempo e si basa più
sulla ripetizione di comportamenti abituali che sull’innovazione. Ad ogni modo, l’impresa si
troverà a dover affrontare l’evoluzione dell’ambiente esterno, il quale potrà generare delle
opportunità ma anche dei problemi che, se non avvertiti in modo tempestivo, potranno
tradursi ni vere e proprie “minacce” per la prosecuzione della gestione. In pratica, nei confronti
dell’ambiente esterno, l’imprenditore o il gruppo imprenditoriale può adottare:
Le strategie aziendali si ordinano secondo una scala gerarchica, che vede al vertice le strategie
complessive (o corporate), al centro quelle competitive e alla base quelle funzionali.
Gli organi di governo devono scegliere i campi o le aree di affari in cui operare secondo una
strategia complessiva, che può essere di sviluppo o di mantenimento delle posizioni già
conquistate, ma debbono anche stabilire i comportamenti da assumere nei confronti della
concorrenza in ciascuna delle aree di affari prescelte. Le strategie competitive definiscono gli
obiettivi e le politiche da adottare per fronteggiare la concorrenza e acquisire la clientela,
puntando sui vantaggi competitivi conseguibili. A livello sottostante si pongono, poi, le strategie
funzionali (strategie di produzione, di vendita, di finanza, ecc.), che debbono essere strumentali
rispetto alle strategie competitive prescelte. Per esse si potrebbe parlare di strategie operative,
visto che riguardano le modalità di attuazione delle funzioni di gestione.
Qual è la situazione attuale dell’impresa? Verso quale direzione deve andare l’impresa? Come fa
ad andare nella direzione indicata?
La risposta dell’impresa alla domanda “come faccio ad andare in quella direzione?” è la strategia.
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Le scelte strategiche dell’impresa sono sempre guidate dalla preventiva valutazione delle
possibilità di successo a livello di mercato. E’ cioè chiaro che la strategia complessiva deriverà,
innanzi tutto, dalle decisioni di mercato che l’imprenditore prenderà in base agli obiettivi di lungo
termine da perseguire. Pur essendoci un rapporto gerarchico tra le strategie complessive e quelle
competitive, saranno sempre queste ultime che influenzeranno le prime. In altre parole, la
decisione di essere presenti in più mercati o aree d’affari non potrà che essere sempre fondata
sulle probabilità di competere efficacemente in quei mercati o in quelle aree d’affari.
La decisione d’ingresso in un mercato è, dunque, legata allo studio delle sue caratteristiche e alla
possibilità non solo di entrarvi, ma di rimanervi e, con le risorse disponibili, poter competere
efficacemente. In effetti, nella determinazione delle scelte strategiche peseranno congiuntamente
fattori legati all’ambiente esterno (fattori esogeni) e fattori collegati alle risorse che l’impresa già
possiede o può acquisire senza particolari ostacoli (fattori endogeni). Il rapporto tra fattori
esogeni e fattori endogeni nello sviluppo dell’impresa può esplicarsi nell’evoluzione dei paradigmi:
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A conclusione di quest’analisi sui paradigmi affermatisi in dottrina, si può quindi sostenere che
sulle scelte dell’impresa pesano sia fattori esogeni (legati al mercato) sia fattori endogeni
(legati alle risorse) e che, in realtà, il rapporto è in ogni caso d’interdipendenza. Da ciò si
deduce l’importanza dello studio del mercato prima di assumere qualsiasi scelta strategica
poiché sarà la condizione strutturale del mercato o area di affari, cui si rivolge l’attenzione
dell’imprenditore, a consentire la migliore valutazione delle risorse su cui basare la strategia
competitiva. E’ cioè intuibile che analizzare il settore o lo specifico spazio di mercato in cui
competere in rapporto al grado di concentrazione dei concorrenti già presenti, alle barriere
all’entrata e all’uscita, all’elasticità della domanda, costituisce un presupposto essenziale per
immaginare come competere con le risorse e le capacità disponibili o acquisibili.
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Uno dei più noti (e anche più criticati) schemi di analisi di settore è quello comunemente noto
come schema delle cinque forze o della concorrenza allargata, dovuto al Porter. Tale modello
fa riferimento al paradigma struttura-condotta-performance perché parte dall’analisi della
struttura per delineare la strategia competitiva mirata al più appropriato posizionamento di
mercato. Secondo Porter, la scelta di un mercato (inteso come mercato servito, ovvero come
quella parte a cui intende rivolgersi l’offerta aziendale) è guidata non solo dalla relativa
attrattività, cioè dalle tendenze espansive della domanda e dai margini lucrativi, ma anche
dalla posizione competitiva che l’azienda potrà assumere. L’attrattività di un settore deve
essere valutata analizzando le cinque forze che interagiscono e determinano, in generale,
condizioni di minore o maggiore attrattività. Si tratta delle cinque forze competitive, che sono:
la potenzialità di nuovi concorrenti (minaccia di nuove entrate), la concorrenza dei prodotti
sostitutivi, il potere di contrattazione degli acquirenti, il potere di contrattazione dei fornitori,
l’intensità della concorrenza fra imprese.
La minaccia di nuovi entranti fa riferimento al fatto che quando una nuova impresa entra in un
settore cambia il quadro competitivo, poiché porta nuova capacità operativa, e contende
quote di mercato alle imprese esistenti. I nuovi entranti sono attratti da margini di profitto
elevati e barriere all’entrata basse. In particolare, quanto più le barriere all’entrata saranno
alte tanto più difficile sarà entrare nel mercato e, nello stesso tempo, tanto più protette
saranno le imprese che sono riuscite ad entrare.
L’altro tipo di minaccia esterna è la possibilità che ci siano prodotti sostitutivi. Ad esempio, le
memorie USB sostituiscono i floppy disk; i videogiochi sono sostituti dei giochi da tavolo ecc. La
minaccia esiste solo se c’è un elevato grado di similitudine tra i prodotti, ed inoltre solo se i
costi di riconversione, ossia i costi che il consumatore dovrà sostenere nel passare da un
prodotto all’altro, siano modesti. I costi di passaggio da un prodotto all’altro si possono
riassumere in quelli dovuti alla poca dimestichezza con il nuovo prodotto, necessità di
adattamento, possibilità che non soddisfi pienamente i bisogni del cliente, ecc.
Per quanto riguarda, invece, il potere contrattuale degli acquirenti, va sottolineato che quanto
più è forte il potere di negoziazione dei compratori, tanto più debole è la posizione
dell’impresa. I compratori hanno un potere di negoziazione elevato alla presenza delle
seguenti condizioni:
Dimensione degli acquisti (volume): pochi compratori acquistano una parte rilevante della
produzione dell’impresa;
Concentrazione della clientela (numero clienti): quanto più basso è il numero di clienti che
l’impresa ha nel proprio portafoglio, tanto maggiore sarà il loro potere contrattuale.
Integrazione verticale a monte: possibilità che ha un cliente di scegliere se comprare un
dato prodotto oppure se produrlo da se.
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Analogamente ai clienti, l’analisi dei fornitori mira a mettere in evidenza chi sono e come possono
influire sulla capacità competitiva dell’impresa i principali fornitori. La forza contrattuale del
fornitore dipende dai seguenti elementi:
L’intensità della concorrenza fra imprese, infine, fa riferimento al fatto che in alcuni settori la
rivalità è molto forte, mentre in altri è bassa, ed è evidente che l’intensità della concorrenza agisce
sui profitti medi di settore, così come sulle scelte strategiche. La rivalità dipende da una serie di
fattori che la rendono più o meno intensa:
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In altri termini, sul filo d’analisi di tale prospettiva teorica, l’analisi interna dei punti di forza e
di debolezza conduce all’identificazione delle competenze distintive dell’impresa, mentre
l’analisi dell’ambiente esterno (opportunità e minacce) guida all’identificazione dei fattori
potenziali di successo. Queste due fasi – analisi interna e analisi esterna – sono alla base della
tecnica della SWOT analysis, un acronimo creato dalla prima lettera di ognuno di questi
elementi: S (per i punti di forza – strenght), W (per i punti di debolezza (weaknesses), O (per le
opportunità – opportunities) e T (per le minacce – threats).
Le barriere all’entrata.
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Le economie di interrelazione (o di scopo), ovvero interne all’impresa, si dilatano anche sul piano
esterno per effetto dell’inserimento dell’azienda in reti pluriaziendali. L’espressione “economie di
scopo” deriva dalla traduzione letterale di “economies of scope”, il cui concetto è quello dei
risparmi ottenibili dalle sinergie ovvero dallo svolgimento in comune di più attività.
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La differenziazione dei prodotti, rappresenta un tipo di barriera più interno che esterno. Il fattore
differenziazione può trovarsi congiunto con quello della concentrazione e generare, così, degli
ostacoli maggiori all'’Ingresso nel mercato. La differenziazione gioca prevalentemente un ruolo
interno, in quanto consente a ciascun produttore di isolarsi rispetto a altri concorrenti (barriere di
mobilità): più spinta sarà la differenziazione del prodotto, più profondo e meno accessibile
risulterà il fossato entro cui si sarà protetti dalla concorrenza. Tale fattore svolge, però, anche un
ruolo esterno, nel senso che l’acquisizione di nu vantaggio competitivo nei confronti di imprese già
presenti nel mercato richiede un rilevante sforzo promozionale e l’impegno immediato di notevoli
capacità finanziarie ed organizzative. Per poter sottrarre delle quote di affari alla concorrenza, sarà
infatti necessario accentuare il carattere di distinzione della propria offerta, che dovrà essere
adeguatamente pubblicizzata, dato l’aspetto di novità che essa presenterà agli acquirenti
potenziali.
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la funzione d'uso, vale a dire i bisogni del cliente che l'impresa intende soddisfare;
i gruppi di clienti, vale a dire i portatori dei bisogni a cui l'impresa intende rivolgersi;
le tecnologie, vale a dire le modalità tecniche attraverso cui l'impresa intende soddisfare i
bisogni dei suoi clienti.
La formulazione della strategia competitiva, può fondarsi, secondo Porter, sulla catena del valore.
Lo studioso sostiene, infatti, che l’azienda, con la sua attività, crea un valore per il cliente, valore
che è misurato dal prezzo che questi paga o sarebbe disposto a pagare per il prodotto. Il valore
cerato si distingue in due parti: i costi sopportati per le attività necessarie alla realizzazione e
all’assistenza, e il margine che rimane all’azienda. Il maggior valore, e quindi la più ampia
differenza tra prezzo e costi, deriverebbe così dalla maggiore efficienza nella prestazione delle
attività. Il concetto di catena del valore aiuta, in pratica, a comprendere quali sono le fonti del
vantaggio competitivo, pervenendo ad una distinzione delle funzioni di gestione in due gruppi:
In altri termini, il concetto teorico di catena del valore consente di identificare specificamente le
cause del vantaggio competitivo, che, a seconda dei casi, possono essere rinvenute nella
progettazione (differenziazione) del prodotto, nell’efficienza del sistema di produzione,
nell’economicità delle funzioni di approvvigionamento e nell’efficacia del marketing.
Naturalmente, ogni impresa può riuscire a sfruttare anche più vantaggi (ad. Es. una buona
progettazione e un buon marketing), massimizzando così la sua “dominanza competitiva”.
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L’impresa, dunque, può costruire il suo vantaggio competitivo o perché è in grado di realizzare con
maggiore efficienza le attività inserite nella catena del valore o perché riesce a differenziarsi dalla
concorrenza. Nell’analisi della competizione è obbligatorio avere come punto di partenza il
concetto di differenziazione produttiva, che dagli anni ’30 è alla base delle teorie di mercato. Il
concetto di differenziazione dei prodotti ha assunti un ruolo centrale, in quanto con la sua
affermazione è caduto uno dei presupposti essenziali della concorrenza perfetta. Questa, com’è
noto, è legata alla condizione dell’omogeneità dei prodotti offerti sul mercato, cioè
all’impossibilità di differenziarli e individuarli a seconda del produttore, della zona, dell’epoca di
produzione e di altri caratteri distintivi della qualità. La differenziazione dei prodotti, però,
richiama la disomogeneità dei prodotti offerti sul mercato e l’esistenza di prodotti differenziati
comporta il frazionamento del mercato in tanti sub-mercati, ciascuno dei quali è entro certi limiti
separato dagli altri e costituito da una particolare clientela. Il concetto di sub-mercato è
caratterizzato, in effetti, dall’esistenza di una domanda che, essendo attratta da certi elementi
distintivi del prodotto, si rivolgerà preferibilmente all’offerta di alcune imprese, le quali godranno
di un vantaggio rispetto alle altre nella misura in cui riusciranno a creare e a rafforzare tali
preferenze. L’obiettivo sarà, pertanto, quello di disporre di un proprio spazio di mercato nel quale
potersi muovere in posizione quasi monopolistica. Proprio tale concetto ha indotti gli economisti
ad utilizzare sovente la dizione di “concorrenza monopolistica”, che tende, infatti, a porre in
rilievo che in uno stesso mercato sono compresenti elementi concorrenziali e di monopolio: i primi
connessi con il frazionamento dell’offerta tra una pluralità di produttori e i secondi connessi con la
formazione di tanti sub-mercati distinti, in ciascuno dei quali uno dei produttori può acquisire di
fatto una posizione monopolistica. Tuttavia, tale posizione presenta due importanti limiti:
In pratica, dunque, il vantaggio competitivo potrà essere conseguito puntando sulla leadership di
costo, cioè sull’opportunità di sfruttare il minore costo di produzione come fattore di vantaggio;
sulla differenziazione del prodotto, ossia sulla possibilità di conferire al prodotto caratteristiche e
qualità tali da renderlo “differente” e, quindi, preferibile rispetto a prodotti della concorrenza,
anche in segmenti meno ampi di mercato (focalizzazione).
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La resource-based theory/view.
Tale teoria, pone al centro dell’analisi competitiva le specificità di ciascuna impresa in termini di
risorse, capacità e competenze anziché partire dall’analisi classica agganciata alla struttura del
settore. Le risorse aziendali sono definite come:
In base al patrimonio di risorse posseduto ogni impresa può dunque tentare di conquistare un
vantaggio competitivo durevole e assumere una posizione vincente nel mercato. Naturalmente, la
sua forza sarà tanto maggiore quanto più potrà mettere in campo delle “competenze distintive”,
ovvero attributi e condizioni non in possesso delle altre imprese concorrenti. Sotto questo aspetto
appare molto utile il modello VRIO, messo a punto da Jay Barney, che individua le caratteristiche
che possono conferire significatività e importanza alle risorse possedute dall’impresa. È proprio in
funzione della qualità delle risorse di cui dispone un’impresa che si determina, infatti, la sua
posizione competitiva nel mercato. Le risorse possono essere classificate in base:
Al loro valore, ossia al contributo vincente che sono in grado di conferire all’azione
competitiva (attributo di valore).
Alla loro unicità o rarità, ossia alla situazione di scarsa diffusione presso le altre imprese
concorrenti (attributo della rarità).
Alla loro insostituibilità da parte dei concorrenti (attributo della inimitabilità).
Alla loro durevolezza, ossia al persistere del loro valore nell’ambito dell’organizzazione
(attributo dell’organicità).
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Modello VRIO:
Per comprendere il funzionamento di un dato mercato e le politiche adottate dalle imprese che in
esso operano, non è sufficiente analizzare separatamente la situazione della domanda e
dell'offerta, ma è indispensabile valutare congiuntamente queste due componenti, allo scopo di
desumere la posizione relativa di forza dei produttori e dei consumatori. Il grado di controllo del
mercato è legato non solo al peso da ciascuno di essi esercitato, ma anche alla situazione di
equilibrio, o meglio di squilibrio, che può crearsi fra la domanda e l'offerta in un certo ambito
territoriale e in una data epoca. E' difficile ipotizzare il caso in cui fra domanda e offerta si abbia un
perfetto equilibrio, nel senso che la prima sia in grado di assorbire completamente la seconda o
che quest'ultima sia idonea a soddisfare del tutto le richieste degli acquirenti. E' importante, però,
osservare che ai fini del funzionamento di mercato, è fondamentale l'equilibrio in termini di
potenzialità di produzione e capacità di assorbimento, e non equilibrio in termini di risultati tra
domanda e offerta. Infatti, se la domanda tenderà a superare la capacità di produzione esistente
nel mercato, i produttori assumeranno una chiara posizione di vantaggio, in quanto non solo non
sopporteranno rischi di vendita dei loro prodotti, ma potranno avvantaggiarsi di una situazione di
concorrenza fra gli acquirenti, che dovranno competere l'un contro l'altro per entrare in possesso
della limitata quantità di beni disponibili. In tal caso, assai raro, il venditore avrà in pugno il
mercato e potrà stabilire le condizioni di contrattazione dei beni e ci si troverà, dunque, in quello
che viene definito mercato del venditore. Situazione del tutto opposta si avrà, invece, nel caso di
un’eccedenza dell'offerta, in quanto i produttori dovranno competere fra di loro per acquisire la
domanda disponibile. In un’ipotesi del genere, arbitri del mercato diventeranno i compratori, le
cui opzioni di acquisto decreteranno il successo o l'insuccesso delle singole aziende produttrici. Si
parla pertanto di mercato del compratore.
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Le opzioni strategiche.
Tenendo presente che le risorse sono limitate, appare intuibile che la gestione aziendale debba
forzatamente svolgersi secondo un continuo sistema di arbitraggi o di possibili opzioni. Gli
arbitraggi sono necessari a causa sia dell'ammontare di risorse disponibili (che, se investite in un
progetto, non consentono di realizzarne altri) sia dell'incompatibilità tra progetti (l'arbitraggio, in
questo caso, riguarda sia la convenienza ad attuare il progetto in corso di valutazione, ma anche il
costo della rinuncia al progetto incompatibile.) Le opzioni (strategiche) riguardano
sostanzialmente l'uso delle risorse, che comporta la prefigurazione di vantaggi/svantaggi per
ciascuna scelta e rende necessario stabilirne la convenienza e il tempo di attuazione.
E' importante considerare le competenze distintive dell'impresa, intese come gli elementi propri
di ciascuna impresa che ne determinano l'eccellenza, e quindi, il successo. Tali competenze
concorrono alla creazione del vantaggio competitivo e diventano determinanti per la scelta della
strategia complessiva da adottare.
È stato anche osservato che le risorse fondamentali dell'impresa sono sempre più spesso
rappresentate dalle risorse immateriali (intangibili). Queste ultime, schematicamente, si
individuano nella fiducia, ovvero nell'immagine favorevole che l'azienda è riuscita a crearsi
nell'ambiente in cui opera, e nelle competenze, intese come conoscenze accumulatesi nel corso
della vita aziendale.
La strategia complessiva dipende, dunque, dagli obiettivi che l'impresa si pone in funzione della
situazione in cui si trova e delle opzioni strategiche effettivamente disponibili. L'indirizzo strategico
non discende, dunque, essenzialmente dall'andamento del mercato o dei mercati in cui l'impresa
opera, ma sarà più decisamente condizionato dalle risorse interne a disposizione. In linea teorica,
si può ipotizzare una serie di combinazioni tra l'andamento del mercato e lo stato di equilibrio o di
squilibrio aziendale, rispetto al quale si verranno a formare distinti obiettivi di carattere strategico
complessivo. Semplificando la casistica possibile, si è in grado di distinguere tra le strategie
complessive, tre percorsi:
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Parlare di strategie di sviluppo richiede una necessaria precisazione concettuale. Una conclusione,
che generalmente si dà per scontata, è la coincidenza tra i concetti di sviluppo e di crescita del
sistema aziendale. Molto spesso, infatti, per sviluppo s'intende lo sviluppo dimensionale, cioè un
fatto prevalentemente quantitativo o di variazione del volume corrente di attività. In realtà, esso
può essere definito (nella sua accezione filosofica di "movimento verso il meglio") come un
processo soprattutto qualitativo ovvero di evoluzione dei rapporti tra l'impresa e l'ambiente, a cui
di solito (ma non automaticamente) si accompagna un ampliamento della struttura organizzativa.
Non è detto, infatti, che tutte le imprese perseguano la finalità della crescita, in quanto un
aumento significativo della dimensione operativa genera una serie di problemi di ordine gestionale
e organizzativo. Dunque, in conclusione, si può affermare che la crescita dovrebbe comportare lo
sviluppo, ma non è sempre vero il contrario. Ciò vale soprattutto per le imprese di non piccola
dimensione, nelle quali il realizzarsi di un processo del genere rappresenta, spesso, una condizione
di garanzia della sopravvivenza dell'organizzazione nel lungo periodo. Il continuo dilatarsi dei
mercati e l'accentuarsi della lotta concorrenziale possono portare, infatti, ad una perdita di forza
e, solitamente ad un peggioramento della redditività gestionale. Lo sviluppo dimensionale appare,
perciò, un connotato fisiologico degli organismi più sani, in quanto consente di adeguare il volume
dell'attività aziendale alle potenzialità della struttura, all'evoluzione dell'ambiente esterno, con il
fine di migliorare, nel tempo, l'equilibrio nei confronti del mercato. Obiettivi di fondo dello
sviluppo dimensionale sono, pertanto, l'ottimizzazione dell'uso delle risorse aziendali e
l'acquisizione di un peso contrattuale crescente nei confronti dei consumatori, dei concorrenti, dei
fornitori, dei distributori, ecc.
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Lo sviluppo orizzontale.
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L'integrazione verticale.
Ciò significa che, per effetto dell’ampliamento del processo di trasformazione, si creerà un più alto
valore aggiunto che consentirà un maggiore controllo sui costi di gestione. Oltre a questo
importante effetto comune alle due modalità d’integrazione verticale, si porrà, nel caso dello
sviluppo ascendente, quello di assicurarsi la continuità di approvvigionamento di risorse
necessarie per il processo produttivo di base e, nel caso di sviluppo discendente, quello di
avvantaggiarsi di un maggiore controllo del mercato finale di sbocco per ridurre i rischi di vendita.
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Nello stesso settore produttivo si ritrovano imprese più integrate, ovvero che hanno
maggiormente internalizzato la produzione di beni e servizi da impiegare nel ciclo produttivo
fondamentale, e imprese che invece hanno preferito concentrarsi sul processo base per ricorrere
poi al mercato per procurarsi le altre risorse di cui hanno bisogno. La dottrina economica ha
tentato di fornire una spiegazione per questo differente comportamento imprenditoriale,
formulando la teoria dei costi di transazione. Il concetto di fondo è che l’impresa, per decidere se
produrre o acquistare i beni e servizi di cui necessita, proverà a comparare il costo di transazione,
collegato al processo esterno di approvvigionamento, a quello di produzione da sostenere per
produrre al suo interno gli stessi beni e servizi. Occorre chiarire il concetto di costo di transazione
nel quale si ricomprendono, oltre al costo di acquisto del bene o servizio, tutti gli oneri da
sopportare per ricercare le informazioni, reperire il fornitore, procedere alla contrattazione e
controllarne l’attuazione. Il costo di transazione rappresenta in questo modo il “costo d’uso del
mercato” da porre a confronto con quello di produzione da sostenere all’interno
dell’organizzazione dell’impresa. Secondo la teoria, dunque, l’imprenditore o manager
percorrendo questa strada giungerebbe alla definizione del “confine efficiente”
dell’organizzazione. Con questa espressione si vuole intendere la definizione dell’insieme dei
compiti (attività) da svolgere all’interno dell’impresa per assicurarsi il massimo livello di efficienza
operativa. Quest’ultimo verrà ottenuto decidendo appunto quali operazioni fare svolgere
all’interno della struttura e quali transazioni stipulare rivolgendosi al mercato. In altri termini, il
criterio discriminante sarà quello dell’economicità, ovvero fare realizzare dall’organizzazione tutte
le attività che costerebbe di più delegare al mercato. Il ragionamento precedente prescinde, però,
dalla considerazione del rischio insito nella finalizzazione dello scambio, per il quale si deve trovare
il fornitore sempre disponibile, fare affidamento sulla precisione della consegna (quantità e
tempi), sull’efficienza dei sistemi di trasporto, ecc. In teoria, proprio per tenere conto di questo
doppio aspetto (economicità e rischiosità della transazione), si è quindi ipotizzato che il ricorso al
mercato divenga meno conveniente al crescere della complessità della transazione e che su
quest’ultima influiscano la ricorrenza, l’incertezza e la specificità degli atti di acquisizione da
compiere all’esterno.
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L’impresa può allontanarsi simultaneamente dai mercati e dai prodotti che le sono familiari,
rivolgendosi a settori diversi, cioè attuando un processo di diversificazione produttiva.
Quest’ultima si contrappone alle strategie d’integrazione perché, invece di puntare verso obiettivi
di concentrazione e di rafforzamento del preesistente rapporto impresa/mercato, porta l’azienda
ad occupare posizioni in mercati nuovi, compresi in settori no comparti produttivi differenti da
quelli in cui già opera. In altri termini, è il principio della multisettorialità dell’espansione che si
contrappone a quello della monosettorialità, tipico delle imprese cosiddette “integrate”. Per
definire meglio la diversificazione produttiva, bisogna chiarire ch’essa si realizza in modo pieno
quando le nuove produzioni non presentano affinità con quelle precedenti sia in termini
tecnologici sia in termini di marketing. Tenendo presente la possibilità del verificarsi di una o di
entrambe di queste affinità, si distinguono strategie di sviluppo diversificato. La prima,
denominata diversificazione laterale, basata sull’esistenza di un collegamento, in termini
tecnologici o di marketing, tra produzioni vecchie e nuove; la seconda, definita diversificazione
conglomerale, caratterizzata dall’inesistenza di qualsiasi legame tra attività preesistenti e nuove.
A ragione delle difficoltà insite nella valutazione del grado di affinità tra le produzioni poste in
essere, in teoria è stato ritenuto opportuno collegare il concetto di conglomerazione non
all’esistenza di legami fra le produzioni attuate, ma all’assenza di una produzione dominante.
Secondo quest’interpretazione, l’attributo della conglomerazione si aggiungerebbe a quello della
diversificazione nell’ipotesi in cui per l’impresa nessuno dei settori produttivi dovesse assumere
una posizione dominante.
I motivi della scelta di una strategia di diversificazione possono essere molteplici e non sempre si
collegano al desiderio di assicurarsi una rapida crescita dei profitti. La giustificazione, più di
frequente adottata per questa decisione, è l’impossibilità di espandersi soddisfacentemente in un
settore ormai ritenuto saturo e la ricerca, dunque, in altri mercati di occasioni più favorevoli di
aumento del volume d’affari. Anche se queste motivazioni possono giocare un ruolo importante,
non bisogna sottovalutare i vantaggi ritraibili dall’adozione di una strategia del genere in termini di
stabilizzazione dei redditi e di riduzione del rischio globale di gestione. Alla diversificazione delle
attività s’accompagna una diversificazione dei rischi di mercato, in quanto ciascuna produzione
sarà assoggettata alle alee (incognite) correnti nel particolare mercato cui sarà destinata. Con
questa strategia, cioè, si possono attenuare le conseguenze di eventi dannosi mediante la
compensazione degli andamenti più o meno favorevoli, che potrebbero presentarsi nei vari
mercati serviti.
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Volendo definire le tappe indicate, si potrebbe osservar che sovente lo sviluppo dell’attività
internazionale segue un ciclo che comprende l’esportazione, la produzione indiretta, la vendita
diretta, la produzione e la vendita diretta, l’organizzazione di unità aziendali integrate.
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Il processo e il significato di direzione aziendale ha subito nel tempo profondi cambiamenti. In una
concezione tradizionale la direzione aziendale consisteva: nella segmentazione del lavoro in atti e
operazioni elementari; nella loro assegnazione al personale; nel controllo del risultato ottenuto. Il
crescere delle dimensioni delle imprese, la progressiva diversificazione produttiva, l’ampliamento
della base geografica di riferimento, così come la crescente complessità dell’ambiente e delle
attività e dei processi aziendali hanno portato al superamento della concezione tradizionale di
direzione. Nella concezione moderna di direzione aziendale la funzione del dirigente si caratterizza
per un articolato sistema di attività (funzioni) interdipendenti, costituite dalla programmazione,
organizzazione, conduzione del personale e controllo che costituiscono quello che viene più
propriamente definito il ciclo di direzione aziendale, che può essere rappresentato così:
La funzione di controllo chiude un ciclo informativo ma ne innesca uno nuovo, come evidenziato
nella figura sottostante.
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Come appare evidente dalla figura il controllo produce informazioni sui risultati conseguiti
all’interno dell’impresa. La programmazione richiede l’integrazione dei dati così ottenuti con quelli
relativi al contesto esterno (informazioni sull’ambiente). Le informazioni sul controllo interno e
sull’ambiente vengono trasferite da chi dirige a chi esegue. Infine, chi esegue deve trasmettere i
risultati della propria attività agli organi di controllo
La funzione organizzativa.
Organizzare significa ordinare un sistema in parti interdipendenti e correlate, ciascuna avente una
specifica funzione o rapporto rispetto al complesso. Le parti, nel caso dell’impresa, sono gli organi
della stessa e l’organizzazione si rivolge in primo luogo a disciplinare i compiti, i poteri e le
responsabilità che ciascuno dovrà assumere nel corso della gestione. Lo scopo della funzione di
organizzazione è duplice:
La progettazione organizzativa.
Ogni impresa opera con una particolare struttura di organi, che nella forma più semplice si basa
sull’accentramento del potere decisionale nelle mani di un unico soggetto, l’imprenditore, e
sull’esistenza di più centri di esecuzione. Nelle forme più complesse si articola in una molteplicità
di unità differenziate di decisione, controllo ed esecuzione. In generale, nelle imprese di piccole
dimensioni non esiste una ripartizione formale di compiti e responsabilità né una definizione dei
circuiti di comunicazione, si parla in questo caso di struttura spontanea. Nelle imprese di grandi
dimensioni, invece, esiste una ripartizione formale dei compiti caratterizzata da una molteplicità di
unità differenziate di decisione, di controllo ed operative definite formalmente dal management
aziendale (struttura di piano). La progettazione della struttura organizzativa consiste nel definire,
per tutte le persone e le unità organizzative, le modalità con cui vengono suddivise e coordinate le
singole attività lavorative. A livello micro, la progettazione della struttura organizzativa si occupa
di dividere e coordinare il lavoro all’interno di singoli gruppi o unità organizzative. In particolare, il
focus è rivolto al livello di specializzazione, alla qualificazione e alla motivazione dei dipendenti. A
livello micro la progettazione si deve preoccupare di definire i compiti, le mansioni ed i ruoli.
A livello macro, le attività dell’organizzazione vengono divise e coordinate tra le diverse unità
organizzative. La progettazione macro si occupa di determinare i meccanismi di coordinamento tra
unità organizzative, le modalità di aggregazione delle posizioni e i livelli gerarchici
dell’organizzazione. La prima scelta che l’impresa deve porre in essere per la costruzione della
struttura organizzativa a livello macro è relativa alla determinazione del confine efficiente
dell’organizzazione. Il confine sarà influenzato dalla scelta di quali funzioni attuare all’interno
dell’impresa (make) e quali altre funzioni delegare all’esterno, facendo ricorso a fornitori esterni di
prodotti e servizi (buy). Nella definizione della struttura organizzativa influiranno notevolmente
anche le caratteristiche dell’ambiente di primo riferimento e di riferimento generale in cui
l’impresa si trova ad operare. Più il contesto esterno risulterà caratterizzato da condizioni di
instabilità e di dinamismo, maggiore dovrà essere la flessibilità dell’organizzazione. E’ opportuno,
infine, sottolineare che per la progettazione organizzativa è necessario tenere conto del
complesso di vincoli che caratterizzano l’operare dell’impresa e che possono fare rinunciare a
scelte teoricamente ottimali. I vincoli sono rappresentati da:
Il modello funzionale si caratterizza per la suddivisione delle aree di responsabilità per gruppi di
compiti, cioè per la ripartizione delle competenze alto-direzionali in termini di funzioni primarie
della gestione. Con l’applicazione del modello funzionale si persegue la specializzazione del lavoro
tra responsabili di funzioni, a cui è attribuita la direzione di un complesso di attività omogenee e
interdipendenti tra di loro. Il coordinamento di queste attività, sul piano interfunzionale spetta alla
direzione generale. L’inconveniente del modello funzionale è dato dal modesto coordinamento tra
le diverse aree di responsabilità.
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Modello funzionale:
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Accanto alle strutture organizzative, di cui si è fin qui discusso, si pongono, poi i modelli cosiddetti
a struttura “elastica”, in grado cioè di adattarsi più prontamente ad esigenze contingenti e
rapidamente mutevoli di gestione. Tali modelli sono il modello per progetto e quello per matrice.
Il modello per progetto rappresenta un’ulteriore articolazione del modello funzionale, in quanto è
all’interno di questo che vengono costituiti dei gruppi di lavoro incaricati di elaborare e porre in
attuazione determinati progetti.
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La progettazione della struttura non esaurisce i compiti attribuiti alla funzione organizzativa, in
quanto il funzionamento del sistema d’impresa richiede necessariamente la definizione di
procedure di lavoro e informative. Le procedure stabiliscono delle norme di comportamento
adottabili in modo ripetitivo nel tempo per la soluzione di problemi similari o analoghi. Le
procedure possono essere rappresentate graficamente mediante i diagrammi a flusso ( o flow-
chart). Il flow-chart è una rappresentazione grafica che riproduce le fasi di una data procedura
utilizzando e collegando tra loro simboli standard. Tale strumento aiuta a comprendere lo sviluppo
del processo in quanto descrive la sequenza logica delle fasi di attività così come dovrebbero
essere realizzate. La scomposizione in fasi del processo può essere utile per identificare le cause di
un particolare problema e trovarne le soluzioni. Il flow chart può avere una struttura ad albero o a
rete, oppure combinare le due strutture. Esso si compone di simboli (solitamente figure
geometriche) e linee. Nella stesura del diagramma di flusso devono essere osservate inoltre alcune
regole:
La realizzazione del diagramma di flusso, rispettando le fasi sopra indicate, consente di verificare,
rispondendo ad alcuni interrogativi, se la sequenza delle attività formulata sia quella più idonea
per la realizzazione di una determinata procedura o se sia possibile individuarne una più adatta
all’organizzazione considerata. I quesiti su cui è necessario interrogarsi con riferimento alle singole
operazioni sono essenzialmente tre: «cosa» si deve fare? «perché» si deve fare? Quali sono i
soggetti implicati nelle diverse operazioni ?, Rispondendo con attenzione ai precedenti quesiti è
possibile rappresentare una data situazione nelle sue componenti elementari e quindi definire in
quale misura esse concorrono alla realizzazione di una procedura. In questo modo si predispone
una base di analisi che consente una razionalizzazione delle procedure e pertanto favorisce
l'eliminazione di tutte le fasi che sono ridondanti, poco utili e che anzi appesantiscono la
realizzazione dell'attività.
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Linea di flusso
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