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Riassunto Sciarelli la gestione dell impresa tra teoria e pratica


aziendale parte 1
Economia e Gestione delle Imprese (Università degli Studi di Salerno)

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Riassunti di Economia e Gestione delle Imprese (S. Sciarelli 2014)

Capitolo Primo – L’IMPRESA E IL SUO RUOLO ECONOMICO E SOCIALE

Requisiti comuni a tutte le imprese e definizione d’impresa.

Un’impresa, anche se caratterizzata da strutture e comportamenti differenti in funzione degli


obiettivi da raggiungere e delle attività produttive da realizzare, è contraddistinta sempre da alcuni
requisiti comuni a tutte le imprese. Tali requisiti sono:

 Il contenuto economico dell’attività e degli obiettivi prefissati. L’impresa, infatti, ha lo


scopo di ottenere profitto utilizzando risorse scarse.
 Lo svolgimento dei processi di produzione mediante l’impiego di un complesso
differenziato di risorse (uomini, capitali, impianti, materiali, ecc.) dal quale crea ricchezza.
 Le relazioni di scambio con entità esterne (utilizzatori o consumatori), con lo scopo di far
scaturire dallo scambio un utile o un reddito.
 Conseguimento di un reddito, ossia un divario positivo tra il ricavo ottenuto dai beni ceduti
e il costo delle risorse impiegate nella produzione.

Sulla base dei requisiti comuni a tutte le imprese sopra elencati, si può definire l’impresa come:

“L’organizzazione economica che, mediante l’impiego di un complesso differenziato di risorse,


svolge processi di acquisizione e di produzione di beni e servizi, da scambiare con entità esterne al
fine di conseguire un reddito e soddisfare i bisogni umani.”

L’impresa come sistema.

L’impresa possiede un carattere sistemico, la cui caratteristica principale è quella di essere


costituito da un complesso interrelato di parti, interrelato perché le singole parti sono
interdipendenti rispetto a un obiettivo comune da raggiungere. Inoltre i sistemi di carattere
economico e sociale operano in relazione con un ambiente esterno e proprio da questa relazione
deriva la caratteristica di dinamismo causata dal rapporto con una realtà in continuo
cambiamento. Riepilogando, un sistema si può definire come:

“Un complesso interrelato di parti per il raggiungimento di un fine comune che opera in relazione
con un ambiente esterno ed è quindi dinamico.”

L’impresa può essere classificata come un sistema sociale, economico, dinamico e aperto:

 Sociale perché è costituita da un insieme di parti od organi tra loro legati da relazioni
d’interdipendenza per il raggiungimento di un fine condiviso (economico).
 Dinamico perché muta nella dimensione e nella combinazione delle sue risorse.
 Aperto perché, per operare, deve intrattenere continue relazioni di scambio (input-output)
con altri sistemi o entità esterne.

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Concezioni d’impresa.

L’impresa come sistema non è assimilabile ad altri tipi di sistemi. Infatti:

 L’impresa quale sistema meccanico, caratterizzata da un automatismo di funzionamento,


non corrisponde alla concezione di organismo operante in relazione con tutta una serie di
altri sistemi esterni.
 L’impresa quale sistema biologico, paragonabile ad un organismo vivente, per quanto
possa essere attraente sotto certi profili, è inaccettabile per via delle molte limitazioni che
incontra. Ad esempio, a differenza degli esseri viventi, l’impresa è destinata a perdurare nel
tempo, anche oltre la vita del suo fondatore.
 L’impresa quale sistema cognitivo, intesa come sistema di conoscenze atto a produrre
nuove conoscenze, non deve essere “estremizzata”, nel senso di poter sostenere il
concetto d’impresa virtuale, priva di qualsiasi materialità. L’impresa, infatti, è definibile
come un sistema complesso in cui s’intrecciano elementi tangibili e intangibili, mezzi tecnici
e intelligenze secondo un disegno finalizzato alla produzione e diffusione di valore.

La visione sociale dell’impresa.

Il concetto economico d’impresa non può essere separato da quello sociale, le imprese, infatti,
sono rette da uomini che operano per soddisfare i bisogni umani e partecipano in senso lato alla
vita dell’ambiente circostante. La sua funzione non può limitarsi a produrre beni e servizi utili per
una certa collettività di consumatori, ma deve necessariamente estendersi al miglioramento della
qualità della vita nel contesto in cui opera. In ciò si traduce il concetto di responsabilità sociale
aziendale (corporate social responsibility). In altri termini, un’impresa, per le funzioni che è
chiamata a svolgere, per le risorse che attinge dall’ambiente, per l’impatto che può esercitare sul
clima sociale della comunità, non può essere vista come un’iniziativa esclusivamente
imprenditoriale rivolta soltanto alle finalità economiche dell’investitore proprietario. Essa deve
essere più appropriatamente considerata come un sistema economico e sociale, cui prende parte
una pluralità di attori, che dev’essere guidato in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi
economici e responsabilità sociali. In conformità a queste considerazioni, l’impresa va
correttamente considerata come un’istituzione a finalità plurime, il cui compito è di creare valore
in senso ampio, ossia non solo valore economico, ma anche valore sociale.

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Funzioni dell’impresa.

L’impresa rappresenta una realtà complessa intorno alla quale si sviluppa una rete di rapporti non
solo di scambio, ma anche di collaborazione, d’informazioni, d’interessi. Essa, infatti, svolge una
varietà di ruoli nei confronti di chi vi partecipa, del mercato e dell’ambiente socio-economico e
costituisce allo stesso tempo una realtà sociale, giuridica, economica e organizzativa. In sintesi,
l’impresa presenta tre profili di maggiore rilievo, a ciascuno dei quali si collega un diverso ruolo:

 In quanto organizzazione economica, svolge la funzione economico-generale che si


concretizza nel soddisfacimento di bisogni umani mediante la messa a frutto di risorse
scarse o presenti in natura in modo non idoneo per essere utilizzate tal quali e
nell’apportare maggiori utilità per la collettività nel suo complesso, in virtù del principio di
divisione e di specializzazione del lavoro. Infatti, ogni impresa non opera solo a vantaggio
della schiera, più o meno ampia, di clienti che serve, ma contribuisce a far sì che altre
aziende possano dedicarsi a soddisfare altri bisogni e dovrebbe contribuire anche al
miglioramento delle condizioni dell’ambiente socio-economico.
 In quanto sistema sociale, adempie la funzione sociale, più limitata rispetto alla funzione
economico-generale ma altrettanto importante. L’impresa va vista anche come
distributrice della ricchezza creata, rappresentando uno strumento per il soddisfacimento
delle necessità soprattutto di chi opera al suo interno.
 In quanto struttura patrimoniale, ossia quale complesso di beni organizzato e retto per lo
svolgimento di processi produttivi, svolge la funzione di produzione di reddito.

Si può dunque affermare che l’impresa svolge una molteplicità di funzioni in rapporto ai
differenti ruoli da essa assunti nel sistema economico sociale. E’ importante considerare la
complementarità esistente tra le funzioni, ciascuna delle quali è essenziale per la realizzazione
delle altre.

La priorità tra le funzioni è legata al punto di osservazione del fenomeno, infatti:

 Considerando l’interesse generale, la funzione primaria è quella economico-generale,


ossia quella di soddisfare nel miglior modo possibile i bisogni della collettività, producendo
beni idonei, per qualità e prezzo, alle esigenze degli utilizzatori e partecipando al
miglioramento del livello di vita della comunità.
 Considerando i partecipanti all’organizzazione, la funzione primaria è quella sociale, ossia
quella di assicurare il giusto corrispettivo soprattutto alla forza lavoro.
 Considerando l’imprenditore, la funzione primaria è quella di produzione del reddito, ossia
un divario tra ricavi di vendita e costi di produzione che risulti soddisfacente.

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Capitolo Secondo – I RAPPORTI TRA L’IMPRESA E L’AMBIENTE SOCIO-ECONOMICO

Ambiente quale contesto generale e la sua scomposizione.

L’impresa, quale cellula fondamentale del sistema economico e produttivo, vive all’interno di un
ambiente più vasto con il quale scambia risorse e, soprattutto, crea ricchezza. Quest’ambiente può
convenzionalmente scomporsi in:

 Micro-ambiente, definito dai mercati con cui l’impresa attiva lo scambio delle risorse.
 Macro-ambiente, dal quale derivano vincoli e condizioni entro cui si possono verificare gli
scambi.

E’ opportuno precisare che non si considera l’ambiente in senso biologico o naturale, ma sotto il
profilo economico-sociale. In tal senso, l’ambiente può essere inteso come:

“Il contesto socio-economico all’interno del quale l’impresa è chiamata a svolgere le sue funzioni.”

Tale contesto è regolato da una serie di condizioni politiche, legislative, sociali, culturali ed
economiche, che determinano il sistema di vincoli-opportunità entro il quale dovrà trovare
sviluppo l’attività aziendale. L’ambiente può essere scomposto in quattro sub-sistemi generali:

 L’ambiente politico-istituzionale, rappresentato dalla forma di governo e dall’ordinamento


legislativo prevalenti nel territorio considerato. Esso esercita influenze notevoli sulla vita
dell’impresa, il cui ruolo e le cui alternative di gestione possono essere più o meno
fortemente vincolate dalle leggi, dagli interventi e dai controlli dei poteri pubblici. La
regolamentazione pubblica determina, attraverso le leggi, l’imposizione fiscale, le norme a
tutela del lavoro, ecc., la cornice entro cui potranno prendere corpo le strategie aziendali.
 L’ambiente culturale-tecnologico, inteso come il contesto in cui si affermano le
manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo. La cultura influenza sia
coloro che operano nell’impresa, sia i gruppi esterni e si riflette sul consumo sotto forma di
beni e servizi prodotti ma anche sull’avanzamento delle conoscenze e sul migliore uso delle
risorse disponibili. Scienza e tecnologia rappresentano, infatti, un prodotto della cultura.
 L’ambiente demografico-sociale, definito dalla struttura della popolazione residente e
dalle relazioni fra gli individui e i gruppi che la compongono. La ripartizione per razza,
religione, classi di età, condizione professionale, la suddivisione per strati sociali e il livello
socio economico costituiscono i principali aspetti socio-demografici dell’ambiente
considerato. La stratificazione sociale assume notevole importanza per l’impresa perché
determina i modelli di riferimento per i singoli, sulle cui scelte incidono l’aspetto
psicologico e l’aspetto sociologico. Spesso, infatti, l’individuo tende a mutuare, dai leader
riconosciuti dal gruppo, i comportamenti, vale a dire sia le abitudini sia le motivazioni
d’acquisto.

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 L’ambiente economico, rappresentato dal complesso delle macrovariabili (produzione


agricola e industriale, prezzi e moneta ecc.) che caratterizzano un certo ambito territoriale.
Può differenziarsi sotto molteplici profili, tra i quali i più importanti sono il meccanismo di
regolazione della vita economica e la proprietà dei mezzi di produzione. In relazione al
primo si distingue fra le forme dell’economia di mercato e di piano; in relazione al secondo
si distingue tra economie liberiste e collettiviste. Nelle economie di mercato prevale il
principio della libera iniziativa e quello della proprietà privata dei mezzi di produzione, per
questo si parla di “economie liberiste”; nelle economie di piano, tutto è regolato dal
piano, anche l’uso dei mezzi di produzione, che sono prevalentemente di proprietà della
collettività, per tale motivo sovente si parla di “economia collettivista”.

Per quanto concerne il Micro-ambiente, in funzione delle differenti transazioni attivate, può
essere a sua volta suddiviso in:

 Ambiente transazionale (scambi in entrata), difatti ogni impresa, a seconda


dell’organizzazione che vorrà darsi, avrà bisogno di attingere certe risorse dall’esterno. La
scelta di ricorrere al mercato per ottenere determinate risorse, dipenderà dalle
comparazioni di convenienza (articolate sotto vari profili) tra il produrre all’interno le
risorse e il procedere al loro acquisto all’esterno. Più tali decisioni saranno orientate per il
Fare (Make), più si amplieranno i confini dell’impresa e la dipendenza dall’ambiente sarà
minore, viceversa, più si ricorrerà al Comprare (Buy), più si amplierà l’ambiente
transazionale e la dipendenza dall’ambiente sarà maggiore.
 Ambiente competitivo (scambi in uscita), che dipenderà dalla scelta dei mercati di
collocamento e delle specifiche porzioni di mercato (segmenti e nicchie) cui cedere i beni e
servizi prodotti.

L’impresa per attingere alle risorse e per cedere i beni prodotti dovrà interagire con una
pluralità di stakeholder, che si raggrupperanno in categorie originando distinti mercati. In
termini economici:

“ Si ha un mercato in tutti i casi vi siano due o più contraenti disposti a scambiare fra di loro i
beni rispettivamente posseduti.”

Ogni impresa, dunque, si collegherà con:

 Il mercato del lavoro, costituito dall’offerta di risorse umane/forza lavoro (manodopera,


quadri direttivi ed impiegatizi ecc.)
 Il mercato della produzione, composto dai produttori di materie prime, semilavorati,
impianti e macchinari, materiali di consumo e servizi utilizzabili per l’attività aziendale.
 Il mercato finanziario, rappresentato dal mercato mobiliare, dagli intermediari finanziari e
da altri prestatori di capitale.
 Il mercato di vendita, costituito dai potenziali acquirenti dei beni o servizi prodotti.

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I rapporti impresa-ambiente.

L’ambiente, in senso generale, determina il sistema di vincoli-opportunità dell’impresa. I


vincoli possono dipendere da leggi e provvedimenti amministrativi, dal modello di cultura
prevalente, dalla composizione e dalla mobilità delle classi sociali, dal tipo di governo
dell’economia e dal grado di benessere della popolazione. Da ciascun sub-sistema discendono,
dunque, dei condizionamenti, che finiscono per restringere l’area di manovra
dell’imprenditore. Nonostante questo prevalente rapporto di dipendenza dell’impresa nei
confronti dell’ambiente, l’impresa attraverso le sue scelte, esercita una notevole influenza
verso l’ambiente in cui opera.

Nell’interpretazione del rapporto impresa-ambiente i principali fili conduttori sono:

 Il progresso tecnologico, che influenza in modo considerevole la struttura di un settore


industriale e la posizione competitiva dell’impresa. È indubbio che dalle scoperte della
scienza, trasfuse in appropriate tecnologie, derivi un maggior benessere economico e
sociale.
 L’equilibrio economico e politico a livello internazionale, che incide notevolmente sulle
condizione e sull’evoluzione recente del mondo della produzione e del consumo. Si può,
infatti, osservare che gli eventi di politica economica internazionale, che hanno
contrassegnato l’ultimo ventennio, hanno radicalmente modificato le caratteristiche
dell’ambiente socio-economico. Per effetto dell’apertura dei mercati, dell’affermarsi di
nuovi importanti competitori (Cina e India), dell’intrecciarsi di lotte sul controllo delle
risorse energetiche mondiali, l’ambiente è divenuto più turbolento, cioè meno prevedibile
e più ostile alle imprese. Turbolenza, ostilità, diversità, complessità e insicurezza appaiono
dunque i connotati ambientali che l’impresa deve imparare a fronteggiare.

Internazionalizzazione e globalizzazione.

Il filo conduttore dell’evoluzione dell’ambiente, negli ultimi anni, è stato senz’altro la


“compressione” del tempo e dello spazio. La diffusione di mezzi sempre più veloci di trasporto
di persone, cose e informazioni ha eliminato il fattore “distanza” e ha consentito di attuare il
processo di comunicazione in tempo reale. Il fatto nuovo di maggior peso, affermatosi
nell’ultimo trentennio, è senz’altro l’internazionalizzazione. Lo sviluppo mondiale degli
scambi, la diffusione sul piano internazionale delle informazioni, l’interdipendenza delle
economie di più Paesi hanno imposto a tutte le imprese un respiro internazionale. Non solo
dunque la grande impresa, ma anche le piccole e medie imprese hanno dovuto imparare a
proteggersi dalla concorrenza sempre più agguerrita delle imprese straniere, per poter
concorrere, su scala internazionale, all’acquisizione delle risorse e al collocamento delle
produzioni realizzate. La globalizzazione, invece, si riferisce ad un mercato senza confini
geografici piuttosto che a un mercato mondiale omogeneo. Si sono sviluppate dunque,
strategie d’internazionalizzazione e strategie di globalizzazione dei prodotti.

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Capitolo Terzo – I PROTAGONISTI NELLA VITA DELL’IMPRESA:


LA TEORIA DEGLI “STAKEHOLDER”

Imprenditore e Manager.

Nell’impresa la figura centrale è quella dell’Imprenditore, che può essere definito come:

“Il soggetto economico che decide di rischiare i propri capitali e di dedicare le sue capacità
professionali alla produzione di beni o servizi da cedere a terzi.”

Joseph Schumpeter, nella “Teoria dello sviluppo economico”, individua le qualità che
l’imprenditore deve possedere in modo superiore:

 La capacità di previsione (“vision”), razionalità consapevole, intuito;


 Lo spirito d’iniziativa, forte volontà, libertà intellettuale;
 L’autorevolezza e capacità di leadership nei confronti dei collaboratori

Si differenzia dal Manager, che non si assume il rischio d’impresa, ma pone in essere le decisioni
prese dall’imprenditore ed è definito come:

“Il soggetto che organizza e disciplina l’uso delle risorse aziendali dando attuazione alle decisioni
imprenditoriali.”

Pertanto, la dottrina anglosassone distingue la funzione imprenditoriale (entrepreneural role) alla


quale è attribuito il fine di creare valore, dalla funzione amministrativa (administrative role) alla
quale è attribuito il fine di razionalizzare l’utilizzo delle risorse ed evitare le inefficienze.

Alle figure d’imprenditore e manager sono riconducibili due definizioni importanti:

“L’imprenditorialità è l’attitudine ad assumere decisioni rischiose finalizzate all’innovazione dei


comportamenti aziendali.”

“La managerialità è la capacità di sviluppare le decisioni imprenditoriali e attuarle in modo


razionale, evitando le inefficienze (perdite).”

La complementarità di questi ruoli, che spesso si combinano nello stesso soggetto, appare
evidente, perché il successo di un’impresa è sempre il risultato della combinazione di efficacia
(bontà delle decisioni) ed efficienza (rendimento dell’uso delle risorse). Da ciò deriva che:

 L’efficacia è il valore proprio dell’imprenditorialità, intesa quale intuizione decisionale di


chi governa a livello più elevato il sistema aziendale.
 L’efficienza è il valore proprio della managerialità, intesa quale attitudine a realizzare il
massimo rendimento nell’attuazione delle scelte aziendali.

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Attività decisoria e organi dell’impresa.

L’attività decisoria è posta in essere nell’azienda con il concorso di tutti i componenti


dell’organismo personale. Gli organi aziendali possono essere classificati considerando la
predominanza delle funzioni e degli atti esercitati nel corso dell’attività esplicata. In tal senso si
possono suddividere gli organi d’impresa in:

 Organi deliberanti: si differenziano dagli organi operativi non soltanto per il predominare
degli atti di decisione rispetto agli atti di esecuzione nello svolgimento delle loro funzioni,
ma anche e soprattutto per il più ampio potere discrezionale esercitato nel compimento di
tali atti. In una struttura societaria di grandi dimensioni si può suddividere in: organi di
proprietà (azionisti), organi di amministrazione e organi di direzione. L’esercizio dei poteri
di governo dell’impresa richiede la compresenza di più requisiti. Seppur necessaria, non è
sufficiente solo l’autorità, intesa come il potere riconosciuto nell’ambito della struttura, ma
è fondamentale che ad essa si accompagnino altri tre elementi: l’abilità professionale, la
disponibilità delle informazioni e la capacità di controllo delle decisioni assunte.
 Organi di controllo: spesso coincidono con gli organi deliberanti, sono coloro che hanno il
compito di verificare l’effettiva realizzazione delle direttive degli organi deliberanti.
 Organi esecutivi: sono tutte quelle persone (operai, impiegati) che svolgono nell'azienda
un'attività materiale o intellettuale, obbedendo a ordini che ricevono da organi superiori.
Esercitano prevalentemente compiti esecutivi ed hanno un potere discrezionale limitato
all’attuazione di specifici compiti.

Teoria dell’agenzia.

Con la dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa, prende forma la cosiddetta Teoria
dell’agenzia. Tale teoria si riferisce alla situazione in cui il potere di amministrazione è
esercitato da un Manager (agent) su mandato ricevuto dalla proprietà (principal). Per effetto
del mandato fiduciario, in base al quale un delegato amministra per conto del delegante, si
viene così a creare una relazione singolare che tende a ridurre se non annullare il carattere
residuale (e, quindi, in un certo senso il rischio) della remunerazione della proprietà.
Quest’ultima, infatti, incentiverà l’agente a massimizzare la ricompensa per la proprietà sotto
forma di dividendi azionari e valorizzazione della quotazione delle azioni, pena l’uscita dalla
società (disinvestimento) o la rimozione dell’agente dal suo incarico (risoluzione del mandato
fiduciario).

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Teoria degli stakeholder.

L’individuazione dei protagonisti della vita dell’impresa può essere estesa dagli organi facenti
parte della sua struttura a quelli esterni nei confronti dei quali, durante la gestione, si
sviluppano relazioni d’interesse e d’influenza. L’impresa si pone al centro di una serie di
rapporti bilaterali con differenti gruppi sociali, rispetto ai quali attiva relazioni di scambio
d’informazione e di rappresentanza. Questi gruppi finiscono per costituire dei veri e propri
interlocutori dell’impresa o portatori d’interessi (detti anche stakeholder), che influenzano e
sono influenzati dall’impresa stessa. Il concetto di stakeholder, originariamente ristretto solo a
coloro che avevano interessi diretti nella vita dell’impresa, si è ampliato per ricomprendere
anche coloro che sono in grado di esercitare un’influenza sulle decisioni aziendali o, che pur
non partecipando alla sua vita possono essere influenzati da esse. Pertanto, si differenziano:

 Stakeholder primari: destinati ad esercitare una pressione più diretta e immediata sulla
gestione aziendale. Nello specifico, sono coloro che si collegano con l’impresa mediante
contratti e che, quindi sono interessati alla conclusione e al rispetto dei contratti stessi, dai
quali deriva ovviamente il raggiungimento di un loro specifico interesse (es. lavoratori,
fornitori, finanziatori, ecc.).
 Stakeholder secondari: in grado di influenzare i comportamenti di lungo termine potendo
incidere soprattutto sul clima sociale delle relazioni individuali. In sintesi sono coloro che
costituiscono dei centri di pressione di cui chi governa l’impresa non può non tenerne
conto (es. istituzioni, ambientalisti, associazioni di consumatori, ecc.).

Individuazione e classificazione degli stakeholders.

Non in tutte le imprese la composizione e il ruolo degli stakeholder assumono identiche


caratteristiche, infatti, in relazione alle caratteristiche dell’impresa alcuni interlocutori possono
rivestire una maggiore o minore rilevanza e richiedere, quindi, una diversa cura da parte degli
organi di governo aziendale. Per individuare correttamene gli stakeholder, è importante
rispondere a cinque quesiti di fondo:

 Chi sono i gruppi portatori d’interessi con cui l’impresa deve misurarsi?
 Quali sono gli interessi in gioco?
 Quali opportunità o sfide questi portatori d’interesse creano per l’impresa?
 Quali responsabilità l’impresa ha verso di essi?
 Quali strategie e politiche adottare?

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L’individuazione degli stakeholder e, soprattutto, la valutazione del grado d’importanza e


d’influenza esercitabile sulla gestione d’impresa può essere guidata da alcuni criteri:

 La forza: ovvero il potere da essi detenuto in virtù del ruolo ricoperto nella società (es. il
peso esercitato dagli ambientalisti sulle condizioni di svolgimento dell’attività industriale);
 La legittimazione: ossia il riconoscimento ufficiale della loro funzione di rappresentanza di
particolari interessi o soggetti economici, sociali e politici;
 L’attualità dell’interesse difeso: ovvero l’urgenza della risposta da parte dell’impresa e la
criticità che tale risposta assume nel particolare momento di vita dell’impresa.

Di fatto la classificazione degli stakeholder è continuamente mutevole perché, di tempo in


tempo, possono variare l’attualità degli interessi, la forza dei singoli interlocutori e il loro grado
di legittimazione. Pertanto l’individuazione degli stakeholder compiuta in origine deve
consentire di stabilire come gestire i relativi rapporti, valutando se da ciascuno di essi potrà
derivare un atteggiamento collaborativo oppure un ostacolo, se non addirittura una minaccia.
Sotto questo profilo gli interlocutori aziendali sono stati classificati in quattro gruppi, nei
confronti dei quali vengono perseguite differenti strategie:

 Stakeholder amichevoli (supportive), dai quali si può ottenere un sostegno decisivo per
l’attività d’impresa e verso i quali s’intraprende una strategia di coinvolgimento.
 Stakeholder avversari (non supportive), dai quali potrebbero generarsi difficoltà sostanziali
per l’attività aziendale e verso i quali si adotta una strategia di difesa.
 Stakeholder non orientati (mixed blessing), da cui si potrà avere, a seconda delle
circostanze, un sostegno o un atteggiamento negativo e verso i quali si persegue una
strategia di collaborazione.
 Stakeholder marginali, il cui peso nei confronti dell’impresa nel particolare momento
risulterà del tutto modesto e che comporterà una strategia di monitoraggio.

Nella teoria degli stakeholder, il ruolo della proprietà rappresenta un punto problematico.
Sostanzialmente e in modo sintetico, si delineano due principali casi:

 Coincidenza tra proprietà e governo dell’impresa: la proprietà in questo caso non figura
tra gli stakeholder dato che è la stessa proprietà/governo (imprenditore) a curare i rapporti
con gli stakeholder.
 Dissociazione tra proprietà e governo: in questo caso invece la proprietà è ricompresa tra
gli stakeholder perché costituisce uno degli interlocutori primari del management stesso.

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Capitolo Quarto – LE FINALITA’ IMPRENDITORIALI: UNA SINTESI TEORICA

Le finalità dei comportamenti aziendali.

L’impresa, quale entità economica e sociale, non ha delle finalità da raggiungere, ma delle funzioni
da svolgere. Tale precisazione è opportuna per ribadire una distinzione fondamentale tra l’azienda
come fatto oggettivo, cioè come una realtà costituita da un coacervo di risorse o di potenzialità, e
la stessa azienda vista come fatto soggettivo, ossia quale emanazione e strumento di una capacità
imprenditoriale finalizzata verso certi risultati. Il problema dei fini, investe, in sostanza, gli individui
che agiscono nell’impresa e, in prima linea, coloro che ne detengono la proprietà e il governo.

Il concetto di profitto.

Per comprendere le modalità di gestione dell’impresa, è necessario capire quale intreccio


d’interessi e di motivazioni si sviluppa all’interno ed intorno ad essa. In una visione schematica, si
può osservare che l’imprenditore dovrebbe essere interessato al profitto, i dirigenti e i lavoratori
alla retribuzioni e alla progressione di carriera, i fornitori a trarre maggiore vantaggio dalle
relazioni commerciali, i finanziatori a tessere rapporti continuativi e lucrativi d’affari. Per quanto
riguarda l’imprenditore, è stato citato il profitto, del quale esistono quattro concezioni:

 Compenso che spetta all’imprenditore per l’organizzazione dei fattori produttivi;


 Quota destinata a ripagare il rischio corso nell’attività aziendale;
 Premio che spetta a colui che promuove l’innovazione (Schumpeter);
 Risultato dell’acquisizione di posizioni monopolistiche rispetto agli altri produttori.

Queste quattro visioni, più che alternative risultano complementari, infatti:

“Il profitto è un’entità composita, in cui rientrano il compenso per il lavoro imprenditoriale, il
premio per il rischio, la contropartita dell’innovazione e la rendita connessa con la posizione
monopolistica.”

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LE TEORIE CLASSICHE SULLE FINALITA’ IMPRENDITORIALI:

La teoria della massimizzazione del profitto.

Secondo la costruzione teorica classica, i comportamenti del gruppo imprenditoriale sarebbero


difatti orientati al conseguimento del maggiore divario positivo tra i ricavi e i costi di gestione. La
logica delle scelte, assunta dagli organi di governo, sarebbe quella di massimizzare il risultato
reddituale ottenibile dall’attività d’impresa, cioè di adottare in ogni caso, tra le alternative
disponibili, quella suscettibile di produrre il maggior reddito. Tale teoria potrebbe apparire
convincente in senso astratto, in quanto in linea con i princìpi che, in generale, guidano le scelte
d’investimento e orientano il comportamento umano. Sul piano pratico però, s’incontrano una
serie di limiti che ne condizionano l’utilità interpretativa dei comportamenti imprenditoriali.
Innanzi tutto, la sua applicazione richiede la precisazione di alcune condizioni di tempo e di rischio.
Ci si può, infatti, chiedere quale profitto l’imprenditore vuole rendere massimo: quello di un
esercizio, di due esercizi, di una specifica operazione o di un complesso di operazioni?

Intende puntare al massimo profitto, sostenendo altresì il rischio più elevato circa il risultato
dell’attività dell’impresa? Da ciò deriva che, per conferire un valore operativo alla teoria e poter
spiegare, alla luce di essa, le motivazioni del comportamento imprenditoriale, è necessario
introdurre il fattore tempo (time-preference) e il fattore rischiosità (uncertainty conditions).

 Fattore tempo: l’imprenditore tende a massimizzare il risultato nel lungo termine, non il
risultato di una certa operazione o delle operazioni condotte in un determinato periodo di
tempo. Tale obiettivo può essere anche sacrificato nel breve periodo, con l’intento però di
pervenirvi più agevolmente nel lungo periodo. Sotto questo profilo si può, ad esempio,
giustificare una politica di vendita dei beni o servizi prodotti a prezzo di costo o inferiori al
costo, intesa a far conquistare un’ampia porzione di mercato e far recuperare
successivamente le quote di reddito sacrificate.
 Fattore rischio: l’imprenditore tende a condizionare le sue aspirazioni reddituali ad un
determinato grado di rischiosità globale della gestione. Sotto questo profilo, l’espansione
in altri settori produttivi o in mercati esteri potrebbe, ad esempio, rispondere non tanto al
fine di massimizzare il profitto, quanto piuttosto a quello di diversificare e compensare
(merceologicamente e geograficamente) i rischi di gestione.

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Teoria della sopravvivenza dell’impresa.

Secondo la teoria della sopravvivenza, il fine del gruppo imprenditoriale è quello di garantire la
continuità dell’organismo aziendale. Ciò si traduce, da un lato, nel puntare al profitto come mezzo
per irrobustire la struttura patrimoniale dell’impresa e, dall’altro, nel rifiutare attività gestionali
con coefficienti di rischio che possano porre in pericolo la vita dell’organizzazione. Questa teoria
ha trovato uno dei principali sostenitore in Drucker, il quale ha proposto di misurare il
raggiungimento della finalità suindicata sulla base di obiettivi legati a quattro aspetti necessari:

 Posizione occupata nel mercato;


 Innovazioni;
 Risorse umane e finanziarie;
 Redditività dell’impresa.

E’, infatti, intuibile che la sopravvivenza dell’impresa è legata alla posizione occupata nel mercato
cioè al rapporto di forza o debolezza nei confronti della concorrenza; alle innovazioni, cioè alla
capacità di adeguare costantemente le tecnologie utilizzate e i prodotti realizzati; alle risorse
umane e finanziarie, ossia alla professionalità del personale e alla disponibilità di mezzi da
impiegare nel finanziamento degli investimenti e del capitale circolante; alla redditività, in quanto
fonte dello sviluppo e dell’incremento di patrimonialità dell’impresa.

Teoria del valore dell’impresa.

Con la formulazione della teoria del valore si compie un salto sostanziale nella teoria dell’impresa
perché la finalità della creazione del valore risponde agli obiettivi di tutti i partecipanti all’impresa
e non soltanto a quelli dell’imprenditore proprietario e/o del manager. Tale teoria sostiene, difatti,
che la finalità da assegnare alla gestione è quella di far crescere il valore economico dell’impresa.
Con essa la visione dei risultati aziendali è orientata al futuro, perché ciò che conta non è il profitto
ma le potenzialità di produrre risultati sempre migliori. Il concetto di creazione del valore si sposa
con quello di diffusione del valore stesso al mercato.

Nella pratica nordamericana si da un indirizzo diverso a tale teoria, che si può definire di creazione
del valore azionario. La teoria del valore azionario si collega, difatti, al concetto patrimoniale
dell’impresa, vista, quest’ultima, come un valore reale (rappresentato dalla capitalizzazione in
base al corso dell’azione) piuttosto che come fonte di un futuro valore reddituale. In altri termini,
la strategia del valore tenderebbe a guidare l’opera dell’imprenditore e/o del manager,
inducendolo a preferire le scelte tese a massimizzare il valore del capitale azionario, perché in tal
modo l’impresa diventerebbe più appetibile, più affidabile e assicurerebbe migliori retribuzioni.

Nel caso invece di imprenditori-proprietari dell’impresa e di imprese non quotate in Borsa,


l’interesse prediletto sarà quello della redditività di lungo termine e non la massimizzazione dei
vantaggi per gli azionisti. L’imprenditore-gestore sceglierà quindi la condotta che consentirà di
massimizzare le potenzialità reddituali dell’impresa.
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Teoria dello sviluppo dimensionale.

Secondo tale teoria, i manager sono più interessati all’espansione dell’impresa perché
quest’ultima si traduce quasi sempre in:

 Un irrobustimento dell’organizzazione (garanzia di sopravvivenza);


 Nell’assunzione di una maggiore forza nei confronti della concorrenza (garanzia di
redditività aziendale);
 Nell’incremento delle retribuzioni ai livelli più elevati di direzione.

Secondo la tesi di Baumol, i comportamenti imprenditoriali sono tesi all’ampliamento del volume
d’affari rispetto a quello dei profitti globali, e di conseguenza al posto della crescita del profitto si
sarebbe sostituita quella del fatturato quale obiettivo primario della conduzione aziendale.
L’ipotesi di questo economista è che gli oligopolisti cercano di massimizzare il volume di vendita
dei loro prodotti con il vincolo di un livello minimo di profitto. In sostanza, le imprese mirano a
realizzare il flusso di profitti che consente di finanziare il massimo sviluppo delle vendite nel lungo
periodo. Secondo Baumol, massimizzare le vendite significa massimizzare il fatturato e non
necessariamente la quantità fisica del venduto. Ciò significa che l’obiettivo da raggiungere si
concreta nella ricerca della combinazione, tra quantità da vendere e prezzi di vendita, che
massimizzi il volume d’affari dell’impresa. E’ una teoria compatibile con quella del massimo
profitto, in quanto nel lungo periodo non dovrebbe esservi antinomia fra la teoria della
massimizzazione del profitto e quella della massimizzazione delle vendite. Nel corso della gestione
si potranno perseguire, infatti, obiettivi di breve e di lungo periodo per cui, a seconda del periodo
osservato, sarà possibile riscontrare la preminenza dell’uno o dell’altro.

Teoria dei limiti sociali della massimizzazione del profitto (o teoria comportamentistica).

Ogni impresa rappresenta un’organizzazione cooperativa, caratterizzata da situazioni di conflitto di


interessi, che possono prodursi nei confronti di forze esterne (compratori di beni e servizi,
produttori di beni e servizi similari, fornitori, distributori commerciali, finanziatori, P.A., ecc.)
oppure nei confronti di forze interne all’impresa (proprietari, dirigenti, maestranze).

 I conflitti esterni, possono sorgere per motivi diversi, cioè riguardare:


 Il prezzo e le modalità di vendita delle produzioni nei rapporti con i clienti;
 Le politiche concorrenziali nei confronti di altri produttori;
 I prezzi e le condizioni d’acquisto rispetto ai fornitori;
 I margini commerciali rispetto ai distributori;
 Il costo del denaro rispetto ai finanziatori;
 La misura del reddito imponibile rispetto alla Pubblica Amministrazione
 I conflitti interni, possono essere generati dalle modalità di distribuzione dei ricavi fra le
varie categorie sociali legate all’impresa e alle modalità di prestazione del lavoro.

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Fra i due tipi di conflitti sussistono delle differenze non solo in ordine alla loro origine, ma
anche alle effettive possibilità di risoluzione esercitabili dall’impresa.

 I conflitti esterni, nel caso in cui non si riescano a stabilire legami durevoli di
collaborazione, sono risolvibili sulla base del rapporto di forza esistente tra l’impresa e le
altre organizzazioni economico-sociali con cui entra in contatto. Laddove l’impresa non ha
la forza di imporre totalmente le proprie condizioni all’opponente, le opportunità di
risoluzione sono sovente molteplici. (es: conflitto con un fornitore, si può decidere di
stabilire un nuovo accordo, oppure di cambiare fornitore, oppure produrre il bene).
 I conflitti interni, lasciano limitate possibilità di manovra all’imprenditore, nonostante egli
abbia il potere, almeno in teoria, di risolvere il conflitto escludendo l’opponente
dall’organizzazione. L’esempio classico è quello dei conflitti di lavoro, in cui la maggiore
forza imprenditoriale non può esercitarsi a cagione della tutela sindacale del lavoratore.

La contrapposizione d’interessi può essere interpretata, seppur in forma estremamente


semplificata, in termini di costi e di ricavi, cioè analizzando l’equazione del profitto e rilevando
quali sono i condizionamenti sociali che si oppongono all’ottenimento, da parte
dell’imprenditore, del massimo reddito. L’imprenditore, infatti, per poter massimizzare il
profitto può cercare di ampliare i ricavi e/o ridurre i costi, in modo da far accrescere il reddito.

Per aumentare i ricavi ha due possibilità: aumentare il prezzo o la quantità venduta dei beni.
Tuttavia un rialzo del prezzo, quasi sicuramente non verrà positivamente accettato dai
compratori, i quali potrebbero decidere, per evitare di pagare un prezzo più alto, di rivolgersi
ad un altro fornitore. Pertanto, l’effettiva possibilità dell’imprenditore di far leva sulla variabile
prezzo per massimizzare i suoi profitti appare difficilmente applicabile e potrebbe, addirittura,
rivelarsi controproducente. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda l’aumento
della domanda. Se l’impresa si trova ad operare in un mercato dove la domanda è più meno
stabile, per poter raggiungere l’obiettivo di ampliamento della domanda l’impresa dovrà
necessariamente erodere la quota di mercato dei concorrenti. Questi ultimi chiaramente
porranno in essere delle azioni che contrastino la strategia del rivale. L’impresa potrebbe a
questo punto decidere di operare sul versante dei costi.

Per ridurre i costi l’impresa può operare su due fronti: abbassare il costo unitario di
produzione o impiegare una minore quantità di risorse. La riduzione del costo unitario di
produzione troverà la naturale opposizione dei gruppi sociali come i lavoratori, i fornitori, i
distributori ecc. che si vedrebbero rispettivamente ridurre la remunerazione del lavoro, ridurre
i prezzi pagati ai fornitori, i margini di guadagno ecc. Lo stesso ragionamento deve essere fatto
per quanto concerne la riduzione della quantità di risorse.

In una situazione di sostanziale impossibilità di incremento del profitto senza suscitare conflitti
pericolosi per la stessa sopravvivenza dell’impresa quali opportunità ha l’impresa per
raggiungere la sua finalità?

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Solo mediante l’innovazione l’imprenditore può aspirare a migliorare o almeno difendere la


propria posizione reddituale. I costi dell’innovazione, ovvero i costi di ricerca e sviluppo, sono
relativi all’individuazione di nuove opportunità tecnologiche o di mercato, alla creazione
dell’immagine, all’avviamento commerciale. In corrispondenza di questi costi generalmente
non vi è un particolare e forte gruppo sociale, per questo motivo sono comprimibili con minore
difficoltà da parte dell’impresa. Perciò accade che nei periodi di crisi sono gli unici costi
(insieme forse con quelli di pubblicità) ad essere tagliati, in quanto ritenuti non strettamente
necessari. In altri termini, il ragionamento precedente conduce a tre conclusioni:

 L’equilibrio tra costi e ricavi aziendali è difficilmente modificabile in assenza di innovazioni


nella gestione:
 Le innovazioni nell’organizzazione e nel mercato richiedono il sostenimento di costi che,
invece, sono solitamente tagliati in periodi di crisi aziendale;
 Il profitto è una quantità residuale che risente delle situazioni di crisi, data la rigidità delle
altre grandezze economiche e l’assenza di processi innovativi.

E’ possibile concludere osservando che:

“ Il reddito è un risultato che deriva da accordi di cooperazione o dalla composizione di conflitti


interni ed esterni e che la sua misura non è mai liberamente determinabile dall’imprenditore. Il
fine del massimo profitto diviene, così, il fine del massimo profilo condizionato.”

*La teoria dei limiti sociali al massimo profitto pone in rilievo come la massimizzazione del
profitto incontra due serie di vincoli: i primi sono quelli sociali, i secondi sono i limiti di
conoscenze in ordine all’evoluzione dell’ambiente e dei mercati. Su questa limitazione
s’incentra la teoria del Simon, secondo la quale l’imprenditore tenderebbe a un profitto
soddisfacente più che massimo. Un’eventuale massimizzazione del profitto incontrerebbe,
cioè, dei limiti insuperabili nelle condizioni di ridotta conoscenza in cui sono costretti ad
operare gli amministratori aziendali. Per questo motivo, l’obiettivo delle singole scelte, e
quindi in senso più lato dell’intera gestione, sarebbe quello di individuare, per ciascun
problema, le alternative soddisfacenti piuttosto che quelle ottimali.*

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La teoria del successo sociale.

Nell’analisi di questa teoria è indispensabile porsi un quesito di fondo: l’imprenditore è mosso


soltanto da interessi economici oppure, come tutti gli altri individui, tende a raggiungere altri
traguardi appartenenti alla sfera sociale? E, se così fosse, come potrebbe giungere ad una
combinazione ottimale tra questi due ordini di finalità?

Le motivazioni o meglio le finalità che spingono un individuo, da solo o insieme con altri
soggetti, a promuovere la costituzione di un’impresa e a svilupparne nel tempo l’attività
possono essere comprese, con qualche necessario adattamento, richiamando la famosa scala
dei bisogni di Maslow. Secondo questa impostazione, le finalità dell’imprenditore appaiono, in
ordine crescente d’importanza, quelle di assicurare la sopravvivenza dell’impresa (mediante il
perseguimento del fondamentale equilibrio economico tra costi e ricavi), di affermarsi
nell’ambito della classe sociale di appartenenza e di assumere posizioni di preminenza nella
comunità. In altre parole lo stimolo economico non rappresenta, o non dovrebbe
rappresentare sempre né il solo né il richiamo più importante della funzione imprenditoriale, il
fine economico, può e deve divenire anche un mezzo per il raggiungimento di obiettivi morali
e sociali. E’ ipotizzabile, infatti, che l’imprenditore (inteso quale proprietario e gestore)
trasponga gran parte di sé nell’impresa e che il suo obiettivo fondamentale sia quello di avere
un’impresa forte, in grado di svilupparsi e di assicurargli rispetto e ammirazione nella cerchia
competitiva più ristretta in cui opera e in quella più ampia della collettività. Partendo da
questa ipotesi, si possono allora individuare e ordinare le finalità imprenditoriali in funzione di
una combinazione o “mix” costituita dal conseguimento del profitto, del potere e del prestigio.
In quest’ottica:

 Il prestigio (leadership sociale), ovvero l’assumere posizioni di preminenza nella collettività,


rappresenterebbe il traguardo di più elevato valore, che apparirebbe come il vero punto
d’arrivo dell’attività imprenditoriale.
 Il potere di mercato (leadership competitiva), ovvero l’affermarsi nella classe sociale di
appartenenza, consentirebbe, assieme al profitto, all’impresa di svilupparsi rispetto alla
concorrenza.
 Il profitto, assicurerebbe la sopravvivenza dell’impresa mediante l’equilibrio tra costi e
ricavi.

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Capitolo Quinto – L’ORIENTAMENTO STRATEGICO DELLA GESTIONE

Il concetto di strategia.

Nonostante negli studi economico aziendali e di management si parli esplicitamente di


strategia da una quarantina d’anni, tale concetto non trova ancora condivisione né
un’interpretazione univoca, sia perché il termine strategia rappresenta comunemente
l’espressione del particolare angolo visuale con cui le varie scuole di pensiero analizzano il
problema, sia perché il significato attribuito a tale concetto è stato fortemente influenzato
dall’evoluzione delle condizioni ambientali. Esistono, infatti, diverse concezioni di strategia:

 Chandler (1962): “Definizione degli obiettivi di lungo termine, sviluppo delle attività e
allocazione delle risorse necessarie per raggiungere tali obiettivi.”
 Rumelt (1980): “Un insieme di politiche e piani che, presi nel loro insieme, definiscono gli
obiettivi di un’impresa e il suo approccio alla sopravvivenza e al successo.”
 Andrews (1980): “Il modello di decisioni con il quale un’impresa determina i propri obiettivi,
formula le politiche e i piani per raggiungerli, definisce in quali business operare, quale
organizzazione intende costruire, la natura dei vantaggi economici e non economici che
intende dare ai propri azionisti, ai collaboratori, ai clienti e alle comunità locali.”

Generalmente, si può dire che:

“La strategia è la creazione e il mantenimento di un vantaggio competitivo stabile e duraturo.”

La strategia definisce i rapporti con l’ambiente, cioè con il contesto generale entro cui opera
l’impresa, ma soprattutto risponde all’obiettivo più specifico di scegliere l’ambiente
competitivo e transazionale di riferimento dell’impresa.

Alcuni autori, allontanandosi dal concetto di strategia come insieme di decisioni, affermano la
coincidenza tra strategia e azione dell’impresa. Un Autore italiano che segue questa
impostazione è Sergio Sciarelli secondo il quale la strategia rappresenta «un comportamento
imprenditoriale di tempo lungo finalizzato al raggiungimento di obiettivi primari della gestione.
In altri termini, la strategia è il mezzo per conseguire traguardi di tempo non breve, definiti in
funzione dell’evoluzione del rapporto tra l’impresa e l’ambiente nel quale opera».

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La gestione strategica.

Non sempre le decisioni assunte a livello imprenditoriale danno corpo ad una strategia, intesa
quale comportamento innovativo rivolto al raggiungimento di obiettivi di tempo lungo. In altri
termini, le decisioni imprenditoriali potrebbero confermare il tipo di obiettivi e le politiche
attuate in passato, rispondendo quindi a una logica di ripetizione e di tempo breve. D’altro
canto, durante la vita dell’impresa non sempre viene definito un quadro di sviluppo a lungo
termine. Non di rado, infatti, la gestione è orientata su brevi periodi di tempo e si basa più
sulla ripetizione di comportamenti abituali che sull’innovazione. Ad ogni modo, l’impresa si
troverà a dover affrontare l’evoluzione dell’ambiente esterno, il quale potrà generare delle
opportunità ma anche dei problemi che, se non avvertiti in modo tempestivo, potranno
tradursi ni vere e proprie “minacce” per la prosecuzione della gestione. In pratica, nei confronti
dell’ambiente esterno, l’imprenditore o il gruppo imprenditoriale può adottare:

 Atteggiamento d’attesa, operando in risposta al verificarsi di cambiamenti ambientali e


adottando cambiamenti per adeguarsi. L’impresa opera in modo ripetitivo.
 Atteggiamento anticipatorio, operando in maniera anticipata rispetto ai cambiamenti
previsti, attuando uno sforzo costante di previsione per poter realizzare in modo anticipato
e tempestivo gli opportuni cambiamenti. L’impresa opera in modo difensivo.
 Atteggiamento proattivo, operando in modo da indurre dei cambiamenti nell’ambiente,
promuovendo azioni tese ad influenzare l’ambiente. L’impresa opera in modo innovativo.

Gerarchia delle strategie dell’impresa.

Le strategie aziendali si ordinano secondo una scala gerarchica, che vede al vertice le strategie
complessive (o corporate), al centro quelle competitive e alla base quelle funzionali.

Gli organi di governo devono scegliere i campi o le aree di affari in cui operare secondo una
strategia complessiva, che può essere di sviluppo o di mantenimento delle posizioni già
conquistate, ma debbono anche stabilire i comportamenti da assumere nei confronti della
concorrenza in ciascuna delle aree di affari prescelte. Le strategie competitive definiscono gli
obiettivi e le politiche da adottare per fronteggiare la concorrenza e acquisire la clientela,
puntando sui vantaggi competitivi conseguibili. A livello sottostante si pongono, poi, le strategie
funzionali (strategie di produzione, di vendita, di finanza, ecc.), che debbono essere strumentali
rispetto alle strategie competitive prescelte. Per esse si potrebbe parlare di strategie operative,
visto che riguardano le modalità di attuazione delle funzioni di gestione.

Le tre principali domande della strategia sono:

Qual è la situazione attuale dell’impresa? Verso quale direzione deve andare l’impresa? Come fa
ad andare nella direzione indicata?

La risposta dell’impresa alla domanda “come faccio ad andare in quella direzione?” è la strategia.

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Capitolo Sesto – COME COMPETERE: LE STRATEGIE COMPETITIVE

Le scelte strategiche dell’impresa sono sempre guidate dalla preventiva valutazione delle
possibilità di successo a livello di mercato. E’ cioè chiaro che la strategia complessiva deriverà,
innanzi tutto, dalle decisioni di mercato che l’imprenditore prenderà in base agli obiettivi di lungo
termine da perseguire. Pur essendoci un rapporto gerarchico tra le strategie complessive e quelle
competitive, saranno sempre queste ultime che influenzeranno le prime. In altre parole, la
decisione di essere presenti in più mercati o aree d’affari non potrà che essere sempre fondata
sulle probabilità di competere efficacemente in quei mercati o in quelle aree d’affari.

I paradigmi teorici per la definizione della strategia competitiva.

La decisione d’ingresso in un mercato è, dunque, legata allo studio delle sue caratteristiche e alla
possibilità non solo di entrarvi, ma di rimanervi e, con le risorse disponibili, poter competere
efficacemente. In effetti, nella determinazione delle scelte strategiche peseranno congiuntamente
fattori legati all’ambiente esterno (fattori esogeni) e fattori collegati alle risorse che l’impresa già
possiede o può acquisire senza particolari ostacoli (fattori endogeni). Il rapporto tra fattori
esogeni e fattori endogeni nello sviluppo dell’impresa può esplicarsi nell’evoluzione dei paradigmi:

 Paradigma strutturalista (struttura-condotta-performance): In tale quadro di riferimento il


processo di formazione della strategia è un processo razionale ed esplicito, nel quale
l’analisi delle caratteristiche ambientali assume un ruolo decisivo, così come la struttura del
settore, che determina il comportamento e la performance economica delle imprese che in
esso operano. In tale modello il termine struttura fa riferimento alla struttura del settore,
ed in particolare al numero dei concorrenti, all’eterogeneità dei prodotti ed ai costi di
entrata e di ingresso. La condotta si riferisce a specifiche azioni dell’impresa nel settore (es.
la differenziazione produttiva). La performance, infine, fa riferimento, sia ai risultati
raggiunti dalla singola impresa, sia ai risultati conseguiti dall’economia nel suo complesso.
 Paradigma comportamentista (condotta-struttura-performance): In quest’ottica, l’impresa
è vista, in realtà, come elemento che influenza l’ambiente, che produce degli output che
finiscono per modificare il settore in cui opera, e non come soggetto che devo
semplicemente adattarsi ad esso. Secondo tale modello, sono in effetti le condotte
aziendali che influiscono quindi sulle strutture (ambiente) e producono, anche in base
all’adattamento di queste, i loro risultati. In questa visione il ruolo dell’impresa si
trasforma, pertanto, da passivo in attivo perché non subisce più il condizionamento della
struttura ma, con le proprie condotte, reagisce alla situazione in essere e si propone di
modificarla a proprio vantaggio.

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 Paradigma fondato sulle risorse (risorse-condotta-performance): Tale modello è fondato


sulle capacità (risorse) dell’impresa a influenzare i risultati gestionali. Ponendo in relazione
la performance con la condotta e quest’ultima con le risorse proprie dell’impresa, riduce
quindi l’influenza del settore e accresce il peso dei fattori endogeni nella formulazione
delle scelte strategiche. In altri termini, l’impresa, con i suoi comportamenti innovativi che
è in grado di attuare in virtù delle risorse specifiche possedute, sarebbe in grado di mutare
l’assetto del settore a cui si rivolge riuscendo a modificare le regole del gioco e
migliorando, così, le probabilità di successo competitivo. E’ questa la conclusione in base
alla quale viene considerato superato il paradigma SPC e si guarda con particolare interesse
al modello fondato sulle risorse aziendali (RCP). Occorre precisare che tra i due non esiste
incompatibilità, ma vi sono condizioni di integrazione e complementarità.
 Paradigma fondato sulla conoscenza (conoscenza-capacità-performance): Secondo tale
modello, le conoscenze che si accumulano nell’impresa producono le capacità innovative e
queste determinano i risultati. Questo paradigma trae spunto dalla teoria di Nonaka
sull’impresa che crea e utilizza conoscenza (impresa come sistema cognitivo) e dalla
considerazione che le capacità (intese in senso dinamico) sono in grado di ispirare condotte
atte a generare il successo competitivo.

A conclusione di quest’analisi sui paradigmi affermatisi in dottrina, si può quindi sostenere che
sulle scelte dell’impresa pesano sia fattori esogeni (legati al mercato) sia fattori endogeni
(legati alle risorse) e che, in realtà, il rapporto è in ogni caso d’interdipendenza. Da ciò si
deduce l’importanza dello studio del mercato prima di assumere qualsiasi scelta strategica
poiché sarà la condizione strutturale del mercato o area di affari, cui si rivolge l’attenzione
dell’imprenditore, a consentire la migliore valutazione delle risorse su cui basare la strategia
competitiva. E’ cioè intuibile che analizzare il settore o lo specifico spazio di mercato in cui
competere in rapporto al grado di concentrazione dei concorrenti già presenti, alle barriere
all’entrata e all’uscita, all’elasticità della domanda, costituisce un presupposto essenziale per
immaginare come competere con le risorse e le capacità disponibili o acquisibili.

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L’analisi di settore secondo lo schema della “concorrenza allargata”.

Uno dei più noti (e anche più criticati) schemi di analisi di settore è quello comunemente noto
come schema delle cinque forze o della concorrenza allargata, dovuto al Porter. Tale modello
fa riferimento al paradigma struttura-condotta-performance perché parte dall’analisi della
struttura per delineare la strategia competitiva mirata al più appropriato posizionamento di
mercato. Secondo Porter, la scelta di un mercato (inteso come mercato servito, ovvero come
quella parte a cui intende rivolgersi l’offerta aziendale) è guidata non solo dalla relativa
attrattività, cioè dalle tendenze espansive della domanda e dai margini lucrativi, ma anche
dalla posizione competitiva che l’azienda potrà assumere. L’attrattività di un settore deve
essere valutata analizzando le cinque forze che interagiscono e determinano, in generale,
condizioni di minore o maggiore attrattività. Si tratta delle cinque forze competitive, che sono:
la potenzialità di nuovi concorrenti (minaccia di nuove entrate), la concorrenza dei prodotti
sostitutivi, il potere di contrattazione degli acquirenti, il potere di contrattazione dei fornitori,
l’intensità della concorrenza fra imprese.

La minaccia di nuovi entranti fa riferimento al fatto che quando una nuova impresa entra in un
settore cambia il quadro competitivo, poiché porta nuova capacità operativa, e contende
quote di mercato alle imprese esistenti. I nuovi entranti sono attratti da margini di profitto
elevati e barriere all’entrata basse. In particolare, quanto più le barriere all’entrata saranno
alte tanto più difficile sarà entrare nel mercato e, nello stesso tempo, tanto più protette
saranno le imprese che sono riuscite ad entrare.

L’altro tipo di minaccia esterna è la possibilità che ci siano prodotti sostitutivi. Ad esempio, le
memorie USB sostituiscono i floppy disk; i videogiochi sono sostituti dei giochi da tavolo ecc. La
minaccia esiste solo se c’è un elevato grado di similitudine tra i prodotti, ed inoltre solo se i
costi di riconversione, ossia i costi che il consumatore dovrà sostenere nel passare da un
prodotto all’altro, siano modesti. I costi di passaggio da un prodotto all’altro si possono
riassumere in quelli dovuti alla poca dimestichezza con il nuovo prodotto, necessità di
adattamento, possibilità che non soddisfi pienamente i bisogni del cliente, ecc.

Per quanto riguarda, invece, il potere contrattuale degli acquirenti, va sottolineato che quanto
più è forte il potere di negoziazione dei compratori, tanto più debole è la posizione
dell’impresa. I compratori hanno un potere di negoziazione elevato alla presenza delle
seguenti condizioni:

 Dimensione degli acquisti (volume): pochi compratori acquistano una parte rilevante della
produzione dell’impresa;
 Concentrazione della clientela (numero clienti): quanto più basso è il numero di clienti che
l’impresa ha nel proprio portafoglio, tanto maggiore sarà il loro potere contrattuale.
 Integrazione verticale a monte: possibilità che ha un cliente di scegliere se comprare un
dato prodotto oppure se produrlo da se.

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Analogamente ai clienti, l’analisi dei fornitori mira a mettere in evidenza chi sono e come possono
influire sulla capacità competitiva dell’impresa i principali fornitori. La forza contrattuale del
fornitore dipende dai seguenti elementi:

 Percentuale di acquisti presso un unico fornitore: se l’impresa ha un unico fornitore


quest’ultimo ha un potere elevatissimo, visto che senza di lui l’impresa dovrebbe chiudere;
 Esistenza di prodotti sostitutivi: se il bene che il fornitore procura ha delle caratteristiche
esclusive, allora il potere contrattuale dello stesso sarà elevato. In questo caso l’impresa
non può sostituire il fornitore almeno fino a quando non trova un altro che venda un
prodotto con le stesse caratteristiche;
 Costi di sostituzione del fornitore: quanto maggiori sono le spese (es. risoluzione di
contratti prima del termine, ecc.) in caso di interruzione dei rapporti con il fornitore e
maggiore sarà il suo potere contrattuale. Anche in assenza di clausole contrattuali onerose,
ci possono essere dei costi nel cambiare il fornitore legati al fatto che il nuovo fornitore
può non accordare lo stesso sconto, o lo stesso livello di servizio del precedente.
 Possibilità di integrazione verticale: come visto in precedenza nell’analisi della clientela, in
questo caso un fornitore di filati può decidere di produrre magliette e capi
d’abbigliamento, oppure può integrarsi con la distribuzione creando “a valle” un proprio
canale distributivo.

L’intensità della concorrenza fra imprese, infine, fa riferimento al fatto che in alcuni settori la
rivalità è molto forte, mentre in altri è bassa, ed è evidente che l’intensità della concorrenza agisce
sui profitti medi di settore, così come sulle scelte strategiche. La rivalità dipende da una serie di
fattori che la rendono più o meno intensa:

 La concentrazione: si riferisce al numero di imprese operanti in un dato mercato. la rivalità


è più intensa quando i concorrenti sono molti e hanno capacità e dimensioni molto simili; -
la diversità strutturale: quanto più le imprese si assomigliano per obiettivi, strategie,
strutture di costo, origini, tanto più difficile sarà sottrarsi alla concorrenza basata solo sul
prezzo.
 La differenziazione dell’offerta: quanto più i prodotti offerti alla clientela saranno simili tra
le imprese, tanto più il cliente è disposto a scegliere in base unicamente al prezzo; questo
spinge le imprese a ribassare ulteriormente i prezzi nella speranza di incrementare le
vendite.
 La capacità produttiva: se c’è eccesso di capacità produttiva, le imprese sono incoraggiate
ad abbassare i prezzi per ricevere più ordini e riuscire a distribuire i costi fissi su un volume
di vendite più ampio. Inoltre, è da rilevare che investimenti in capacità produttiva elevati
possono essere difficilmente smobilizzabili in breve tempo, costituendo delle vere
“barriere all’uscita” dal mercato.

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Strategia e analisi SWOT.

L’analisi fondamentale per la formulazione della strategia competitiva è ricorrentemente


basata sul cosiddetto modello “SWOT” (strenght, weakness, opportunity, threat), che
suggerisce di prendere in considerazione i punti di forza e di debolezza dell’impresa in
rapporto alla possibile evoluzione del mercato e dell’ambiente, da cui potranno derivare
opportunità favorevoli o minacce. Sarà proprio tale evoluzione che, se correttamente prevista,
consentirà di valorizzare i punti di forza (risorse e competenze possedute) e di attenuare
l’impatto negativo dei punti di debolezza. Così operando, l’impresa riuscirà a formulare quella
strategia competitiva che le permetterà di trarre vantaggio dalla dinamica del mercato servito
o di quello in cui vorrà inserirsi e , allo stesso tempo, ridurre i rischi di fallimento o di uscita dal
mercato di riferimento.

In altri termini, sul filo d’analisi di tale prospettiva teorica, l’analisi interna dei punti di forza e
di debolezza conduce all’identificazione delle competenze distintive dell’impresa, mentre
l’analisi dell’ambiente esterno (opportunità e minacce) guida all’identificazione dei fattori
potenziali di successo. Queste due fasi – analisi interna e analisi esterna – sono alla base della
tecnica della SWOT analysis, un acronimo creato dalla prima lettera di ognuno di questi
elementi: S (per i punti di forza – strenght), W (per i punti di debolezza (weaknesses), O (per le
opportunità – opportunities) e T (per le minacce – threats).

Le barriere all’entrata.

Fenomeno tipico dei mercati in regime di oligopolio, le barriere all'entrata si sostanziano in


difficoltà di accesso di nuove imprese ad un mercato. Si differenziano in esterne o interne:
esterne quando impediscono l’ingresso di nuovi competitori; interne quando tutelano la
posizione di ciascun produttore nei confronti delle azioni espansive degli altri produttori
presenti nel mercato. Tali barriere si collegano:

 Alle economie ottenibili nelle funzioni di gestione, tra cui:


 Economie di scala;
 Economie di apprendimento;
 Economie di scopo (interrelazione);
 Economie di relazioni.
 Alla disponibilità di brevetti o know-how;
 Alla scarsa disponibilità di fattori produttivi essenziali;
 Alla differenziazione dei prodotti.

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Le economie di scala, cioè il fenomeno di abbassamento dei costi unitari di produzione e di


vendita al raggiungimento di determinati volumi di operazioni (più cresce la produzione più
tendono a ridursi i costi), sono ottenibili non solo nella fase tecnica o di trasformazione dei beni,
ma anche in quella di approvvigionamento delle materie e dei servizi e di commercializzazione
delle produzioni finali. In determinati mercati la dimensione minima necessaria è abbastanza
elevata, perché, se non si raggiungono certi volumi produttivi, non è possibile avere dei costi
competitivi ed assumere la forza indispensabile per acquisire una sufficiente quota di mercato. Il
che significa che un nuovo competitore incontra delle barriere all’ingresso per il fatto di dover
organizzare inizialmente la sua attività a un elevato livello dimensionale e ciò è difficile non solo
per la maggiore consistenza dell’investimento necessario, quanto soprattutto per la difficoltà di
sottrarre ai produttori già presenti il volume di vendita corrispondente all’entità minima delle
produzioni minime da collocare. Per quanto riguarda le economie di scala legate
all’approvvigionamento, nell’ipotesi di un’azienda organizzata con più stabilimenti è possibile
effettuare una distinzione concettuale tra:

 Economie di scala d’impianto, che afferiscono fondamentalmente al processo di


produzione dei beni e sono funzione della dimensione del singolo impianto.
 Economie di scala d’impresa, che discendono, invece, dalla dimensione globale assunta
dall’azienda e riguardano non solo il processo di produzione, ma anche e soprattutto i
processi di commercializzazione (acquisti e vendite) e di amministrazione aziendale.

Le economie di apprendimento, si sviluppano in funzione del processo di apprendimento,


maturato attraverso l’esperienza acquisita. Il produttore, che intende inserirsi in un mercato
nuovo, viene difatti a trovarsi in condizioni di inferiorità rispetto ad altri produttori già presenti da
tempo nel particolare mercato. Questo divario di esperienza rappresenta un ostacolo all’ingresso.

Le economie di interrelazione (o di scopo), ovvero interne all’impresa, si dilatano anche sul piano
esterno per effetto dell’inserimento dell’azienda in reti pluriaziendali. L’espressione “economie di
scopo” deriva dalla traduzione letterale di “economies of scope”, il cui concetto è quello dei
risparmi ottenibili dalle sinergie ovvero dallo svolgimento in comune di più attività.

Le economie di relazione, rappresentano un fattore importante di vantaggio competitivo, in


quanto consentono di instaurare dei rapporti di fiducia con clienti e fornitori, che contribuiscono a
migliorare le posizioni di mercato e il conto economico aziendale. Disporre di buone relazioni nel
mercato di produzione, del lavoro, finanziario e di vendita rende più efficace l’azione dell’impresa
sia nell’ambiente transazionale sia in quello competitivo. In determinati mercati, dunque, la vera
barriera all’ingresso può essere rappresentata proprio dalle sinergie derivanti dalle alleanze
strategiche tra le imprese già presenti.

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La disponibilità di brevetti o know-how, può costituire una barriera all’ingresso laddove il


patrimonio tecnologico si concentri nelle mani di uno o di pochi imprenditori. Il possesso di tali
diritti impedisce l’entrata di concorrenti fino a quando non sia possibile sfruttare tali diritti
intangibili o per lo spirare dei termini di protezione brevettuale o per il ricorso a brevetti e know-
how sostitutivi.

La disponibilità di fattori produttivi essenziali, può costituire un impedimento all’ingresso quando


tali fattori (ad esempio, materie prime o manodopera specializzata) sono stati acquisiti dalle
imprese che operano nel mercato e non resta nessuna disponibilità per coloro che aspirerebbero
ad entrarvi. Il monopolio dei fattori produttivi essenziali da parte dei produttori presenti finisce,
pertanto, per elevare una barriera assoluta all’ingresso nel mercato di nuovi competitori.

La differenziazione dei prodotti, rappresenta un tipo di barriera più interno che esterno. Il fattore
differenziazione può trovarsi congiunto con quello della concentrazione e generare, così, degli
ostacoli maggiori all'’Ingresso nel mercato. La differenziazione gioca prevalentemente un ruolo
interno, in quanto consente a ciascun produttore di isolarsi rispetto a altri concorrenti (barriere di
mobilità): più spinta sarà la differenziazione del prodotto, più profondo e meno accessibile
risulterà il fossato entro cui si sarà protetti dalla concorrenza. Tale fattore svolge, però, anche un
ruolo esterno, nel senso che l’acquisizione di nu vantaggio competitivo nei confronti di imprese già
presenti nel mercato richiede un rilevante sforzo promozionale e l’impegno immediato di notevoli
capacità finanziarie ed organizzative. Per poter sottrarre delle quote di affari alla concorrenza, sarà
infatti necessario accentuare il carattere di distinzione della propria offerta, che dovrà essere
adeguatamente pubblicizzata, dato l’aspetto di novità che essa presenterà agli acquirenti
potenziali.

Le barriere all’uscita influenzano la decisione finale perché, vincolando le imprese a permanere


nel mercato finiscono per irrigidire e, spesso, turbare i comportamenti concorrenziali. E’ intuibile
infatti che, se è impedito o reso difficile alle aziende che vogliono cessare la loro attività in un
certo settore di uscire dal mercato, gli squilibri aziendali finiranno per riflettersi sul funzionamento
del mercato stesso. Le barriere all’uscita, create da vincoli sociali (l’impossibilità di fallire per
salvaguardare l’occupazione) o economici (la difficoltà del disinvestimento), rendono rigide le
situazioni di mercato, penalizzando sovente tutte le imprese presenti. Sotto questo profilo,
dunque, alte barriere all’uscita finiscono per tramutarsi anche in elevate barriere all’entrata
perché possono dissuadere i nuovi entranti ad inserirsi in un mercato dal quale risulterà poi
difficile l’eventuale uscita.

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Lo schema tridimensionale di Abell.

Secondo Abell l’area di business viene definita attraverso tre dimensioni:

 la funzione d'uso, vale a dire i bisogni del cliente che l'impresa intende soddisfare;
 i gruppi di clienti, vale a dire i portatori dei bisogni a cui l'impresa intende rivolgersi;
 le tecnologie, vale a dire le modalità tecniche attraverso cui l'impresa intende soddisfare i
bisogni dei suoi clienti.

Il superamento delle barriere: la catena del valore.

La formulazione della strategia competitiva, può fondarsi, secondo Porter, sulla catena del valore.
Lo studioso sostiene, infatti, che l’azienda, con la sua attività, crea un valore per il cliente, valore
che è misurato dal prezzo che questi paga o sarebbe disposto a pagare per il prodotto. Il valore
cerato si distingue in due parti: i costi sopportati per le attività necessarie alla realizzazione e
all’assistenza, e il margine che rimane all’azienda. Il maggior valore, e quindi la più ampia
differenza tra prezzo e costi, deriverebbe così dalla maggiore efficienza nella prestazione delle
attività. Il concetto di catena del valore aiuta, in pratica, a comprendere quali sono le fonti del
vantaggio competitivo, pervenendo ad una distinzione delle funzioni di gestione in due gruppi:

 Attività primarie: sono rappresentate sostanzialmente dalle funzioni di produzione e di


vendita e si suddividono nella logistica interna (gestione specifica di determinate attività
dell’impresa), nell’attività di trasformazione, nella logistica esterna (tutte le attività
necessarie a portare il prodotto sia all’interno sia all’esterno dell’azienda), nel marketing e
vendite, e nei servizi (soprattutto di assistenza post-vendita). In altri termini, le attività
primarie riguardano il ciclo produzione-vendita con terminali a monte nella logistica in
terna e a valle nei servizi alla clientela.
 Attività di supporto: sono classificate con criteri di maggiore elasticità e vengono chiamate
così perché intese a fornire le basi per la concreta realizzazione delle attività primarie. Sono
costituite dall’approvvigionamento, dallo sviluppo delle tecnologie, dalla gestione delle
risorse umane e dalle attività infrastrutturali dell’impresa.

In altri termini, il concetto teorico di catena del valore consente di identificare specificamente le
cause del vantaggio competitivo, che, a seconda dei casi, possono essere rinvenute nella
progettazione (differenziazione) del prodotto, nell’efficienza del sistema di produzione,
nell’economicità delle funzioni di approvvigionamento e nell’efficacia del marketing.
Naturalmente, ogni impresa può riuscire a sfruttare anche più vantaggi (ad. Es. una buona
progettazione e un buon marketing), massimizzando così la sua “dominanza competitiva”.

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La formulazione della strategia competitiva.

L’impresa, dunque, può costruire il suo vantaggio competitivo o perché è in grado di realizzare con
maggiore efficienza le attività inserite nella catena del valore o perché riesce a differenziarsi dalla
concorrenza. Nell’analisi della competizione è obbligatorio avere come punto di partenza il
concetto di differenziazione produttiva, che dagli anni ’30 è alla base delle teorie di mercato. Il
concetto di differenziazione dei prodotti ha assunti un ruolo centrale, in quanto con la sua
affermazione è caduto uno dei presupposti essenziali della concorrenza perfetta. Questa, com’è
noto, è legata alla condizione dell’omogeneità dei prodotti offerti sul mercato, cioè
all’impossibilità di differenziarli e individuarli a seconda del produttore, della zona, dell’epoca di
produzione e di altri caratteri distintivi della qualità. La differenziazione dei prodotti, però,
richiama la disomogeneità dei prodotti offerti sul mercato e l’esistenza di prodotti differenziati
comporta il frazionamento del mercato in tanti sub-mercati, ciascuno dei quali è entro certi limiti
separato dagli altri e costituito da una particolare clientela. Il concetto di sub-mercato è
caratterizzato, in effetti, dall’esistenza di una domanda che, essendo attratta da certi elementi
distintivi del prodotto, si rivolgerà preferibilmente all’offerta di alcune imprese, le quali godranno
di un vantaggio rispetto alle altre nella misura in cui riusciranno a creare e a rafforzare tali
preferenze. L’obiettivo sarà, pertanto, quello di disporre di un proprio spazio di mercato nel quale
potersi muovere in posizione quasi monopolistica. Proprio tale concetto ha indotti gli economisti
ad utilizzare sovente la dizione di “concorrenza monopolistica”, che tende, infatti, a porre in
rilievo che in uno stesso mercato sono compresenti elementi concorrenziali e di monopolio: i primi
connessi con il frazionamento dell’offerta tra una pluralità di produttori e i secondi connessi con la
formazione di tanti sub-mercati distinti, in ciascuno dei quali uno dei produttori può acquisire di
fatto una posizione monopolistica. Tuttavia, tale posizione presenta due importanti limiti:

 I vantaggi possono essere controbilanciati da altri strumenti concorrenziali (prezzo,


condizioni di pagamento ecc.)
 L’imitazione da parte di concorrenti può annullare i migliori requisiti di qualità o di
prestazioni del prodotto.

In pratica, dunque, il vantaggio competitivo potrà essere conseguito puntando sulla leadership di
costo, cioè sull’opportunità di sfruttare il minore costo di produzione come fattore di vantaggio;
sulla differenziazione del prodotto, ossia sulla possibilità di conferire al prodotto caratteristiche e
qualità tali da renderlo “differente” e, quindi, preferibile rispetto a prodotti della concorrenza,
anche in segmenti meno ampi di mercato (focalizzazione).

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In sintesi, si possono individuare quattro tipi di strategie competitive:

 Leadership di costo: è la strategia competitiva attraverso la quale le imprese tentano di


ottenere un vantaggio competitivo attraverso la riduzione dei costi rispetto ai concorrenti.
La sua finalità è, dunque, la concorrenza basata sul prezzo. (es. IKEA)
 Differenziazione del prodotto: è la strategia attraverso la quale si ricerca il vantaggio
competitivo incrementando il valore percepito dei prodotti o dei servizi offrendo qualcosa
di unico, di diverso da quanto offerto dai rivali. La finalità di questa strategia è la
concorrenza basata sulla marca. (es. BMW)
 Focalizzazione: è la strategia competitiva attraverso la quale le imprese si posizionano in
nicchie di mercato, meno attrattive per altri concorrenti, in cui riescono ad ottenere
vantaggi competitivi. In questa strategia, la finalità è la concorrenza basata sulla
specializzazione di mercato. (es. Rolex)
 Leadership di servizio: è la strategia che si concreta in un’offerta ricca in termini di servizi
al cliente e la cui finalità è la concorrenza basata sulla completezza dell’offerta.

La resource-based theory/view.

Tale teoria, pone al centro dell’analisi competitiva le specificità di ciascuna impresa in termini di
risorse, capacità e competenze anziché partire dall’analisi classica agganciata alla struttura del
settore. Le risorse aziendali sono definite come:

“Tutte le attività, le capacità, le competenze, i processi organizzativi, le caratteristiche aziendali, le


informazioni, le conoscenze e così via, che sono controllate dall’azienda e che le permettono di
formulare e implementare strategie che ne migliorano l’efficacia e l’efficienza.”

In base al patrimonio di risorse posseduto ogni impresa può dunque tentare di conquistare un
vantaggio competitivo durevole e assumere una posizione vincente nel mercato. Naturalmente, la
sua forza sarà tanto maggiore quanto più potrà mettere in campo delle “competenze distintive”,
ovvero attributi e condizioni non in possesso delle altre imprese concorrenti. Sotto questo aspetto
appare molto utile il modello VRIO, messo a punto da Jay Barney, che individua le caratteristiche
che possono conferire significatività e importanza alle risorse possedute dall’impresa. È proprio in
funzione della qualità delle risorse di cui dispone un’impresa che si determina, infatti, la sua
posizione competitiva nel mercato. Le risorse possono essere classificate in base:

 Al loro valore, ossia al contributo vincente che sono in grado di conferire all’azione
competitiva (attributo di valore).
 Alla loro unicità o rarità, ossia alla situazione di scarsa diffusione presso le altre imprese
concorrenti (attributo della rarità).
 Alla loro insostituibilità da parte dei concorrenti (attributo della inimitabilità).
 Alla loro durevolezza, ossia al persistere del loro valore nell’ambito dell’organizzazione
(attributo dell’organicità).

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Modello VRIO:

L'equilibrio fra la domanda e l'offerta.

Per comprendere il funzionamento di un dato mercato e le politiche adottate dalle imprese che in
esso operano, non è sufficiente analizzare separatamente la situazione della domanda e
dell'offerta, ma è indispensabile valutare congiuntamente queste due componenti, allo scopo di
desumere la posizione relativa di forza dei produttori e dei consumatori. Il grado di controllo del
mercato è legato non solo al peso da ciascuno di essi esercitato, ma anche alla situazione di
equilibrio, o meglio di squilibrio, che può crearsi fra la domanda e l'offerta in un certo ambito
territoriale e in una data epoca. E' difficile ipotizzare il caso in cui fra domanda e offerta si abbia un
perfetto equilibrio, nel senso che la prima sia in grado di assorbire completamente la seconda o
che quest'ultima sia idonea a soddisfare del tutto le richieste degli acquirenti. E' importante, però,
osservare che ai fini del funzionamento di mercato, è fondamentale l'equilibrio in termini di
potenzialità di produzione e capacità di assorbimento, e non equilibrio in termini di risultati tra
domanda e offerta. Infatti, se la domanda tenderà a superare la capacità di produzione esistente
nel mercato, i produttori assumeranno una chiara posizione di vantaggio, in quanto non solo non
sopporteranno rischi di vendita dei loro prodotti, ma potranno avvantaggiarsi di una situazione di
concorrenza fra gli acquirenti, che dovranno competere l'un contro l'altro per entrare in possesso
della limitata quantità di beni disponibili. In tal caso, assai raro, il venditore avrà in pugno il
mercato e potrà stabilire le condizioni di contrattazione dei beni e ci si troverà, dunque, in quello
che viene definito mercato del venditore. Situazione del tutto opposta si avrà, invece, nel caso di
un’eccedenza dell'offerta, in quanto i produttori dovranno competere fra di loro per acquisire la
domanda disponibile. In un’ipotesi del genere, arbitri del mercato diventeranno i compratori, le
cui opzioni di acquisto decreteranno il successo o l'insuccesso delle singole aziende produttrici. Si
parla pertanto di mercato del compratore.

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Capitolo Settimo COME CRESCERE: I PERCORSI DI SVILUPPO AZIENDALE

Le opzioni strategiche.

Tenendo presente che le risorse sono limitate, appare intuibile che la gestione aziendale debba
forzatamente svolgersi secondo un continuo sistema di arbitraggi o di possibili opzioni. Gli
arbitraggi sono necessari a causa sia dell'ammontare di risorse disponibili (che, se investite in un
progetto, non consentono di realizzarne altri) sia dell'incompatibilità tra progetti (l'arbitraggio, in
questo caso, riguarda sia la convenienza ad attuare il progetto in corso di valutazione, ma anche il
costo della rinuncia al progetto incompatibile.) Le opzioni (strategiche) riguardano
sostanzialmente l'uso delle risorse, che comporta la prefigurazione di vantaggi/svantaggi per
ciascuna scelta e rende necessario stabilirne la convenienza e il tempo di attuazione.

E' importante considerare le competenze distintive dell'impresa, intese come gli elementi propri
di ciascuna impresa che ne determinano l'eccellenza, e quindi, il successo. Tali competenze
concorrono alla creazione del vantaggio competitivo e diventano determinanti per la scelta della
strategia complessiva da adottare.

È stato anche osservato che le risorse fondamentali dell'impresa sono sempre più spesso
rappresentate dalle risorse immateriali (intangibili). Queste ultime, schematicamente, si
individuano nella fiducia, ovvero nell'immagine favorevole che l'azienda è riuscita a crearsi
nell'ambiente in cui opera, e nelle competenze, intese come conoscenze accumulatesi nel corso
della vita aziendale.

Una tipologia semplificata delle strategie complessive.

La strategia complessiva dipende, dunque, dagli obiettivi che l'impresa si pone in funzione della
situazione in cui si trova e delle opzioni strategiche effettivamente disponibili. L'indirizzo strategico
non discende, dunque, essenzialmente dall'andamento del mercato o dei mercati in cui l'impresa
opera, ma sarà più decisamente condizionato dalle risorse interne a disposizione. In linea teorica,
si può ipotizzare una serie di combinazioni tra l'andamento del mercato e lo stato di equilibrio o di
squilibrio aziendale, rispetto al quale si verranno a formare distinti obiettivi di carattere strategico
complessivo. Semplificando la casistica possibile, si è in grado di distinguere tra le strategie
complessive, tre percorsi:

 Percorso di sviluppo dimensionale, che in teoria dovrebbe essere comune a tutte le


imprese perché caratteristico di una gestione fisiologica protesa all'espansione delle
attività aziendali;
 Percorso di risanamento, tipico di organismi caratterizzati da squilibri strutturali su cui
intervenire con rapidità ed efficacia;
 Percorso di rafforzamento e assestamento, improntato a maggiore prudenza nella
gestione delle risorse e alla difesa, in periodi non favorevoli, delle posizioni occupate.

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Il processo di sviluppo dimensionale.

Parlare di strategie di sviluppo richiede una necessaria precisazione concettuale. Una conclusione,
che generalmente si dà per scontata, è la coincidenza tra i concetti di sviluppo e di crescita del
sistema aziendale. Molto spesso, infatti, per sviluppo s'intende lo sviluppo dimensionale, cioè un
fatto prevalentemente quantitativo o di variazione del volume corrente di attività. In realtà, esso
può essere definito (nella sua accezione filosofica di "movimento verso il meglio") come un
processo soprattutto qualitativo ovvero di evoluzione dei rapporti tra l'impresa e l'ambiente, a cui
di solito (ma non automaticamente) si accompagna un ampliamento della struttura organizzativa.
Non è detto, infatti, che tutte le imprese perseguano la finalità della crescita, in quanto un
aumento significativo della dimensione operativa genera una serie di problemi di ordine gestionale
e organizzativo. Dunque, in conclusione, si può affermare che la crescita dovrebbe comportare lo
sviluppo, ma non è sempre vero il contrario. Ciò vale soprattutto per le imprese di non piccola
dimensione, nelle quali il realizzarsi di un processo del genere rappresenta, spesso, una condizione
di garanzia della sopravvivenza dell'organizzazione nel lungo periodo. Il continuo dilatarsi dei
mercati e l'accentuarsi della lotta concorrenziale possono portare, infatti, ad una perdita di forza
e, solitamente ad un peggioramento della redditività gestionale. Lo sviluppo dimensionale appare,
perciò, un connotato fisiologico degli organismi più sani, in quanto consente di adeguare il volume
dell'attività aziendale alle potenzialità della struttura, all'evoluzione dell'ambiente esterno, con il
fine di migliorare, nel tempo, l'equilibrio nei confronti del mercato. Obiettivi di fondo dello
sviluppo dimensionale sono, pertanto, l'ottimizzazione dell'uso delle risorse aziendali e
l'acquisizione di un peso contrattuale crescente nei confronti dei consumatori, dei concorrenti, dei
fornitori, dei distributori, ecc.

I percorsi di sviluppo: la formulazione della strategia complessiva.

Le strategie di espansione si differenziano soprattutto rispetto al rapporto prodotto/mercato, cioè


alla permanenza, al superamento o all'allargamento delle relazioni fra i prodotti fabbricati e i
mercati serviti. Le alternative di fondo, sono rappresentate dalla concentrazione o diversificazione
delle attività gestite, cioè dalla preferenza per percorsi di sviluppo che aumentino il peso delle
attività già esercitate o che, invece, estendano il portafoglio prodotti/mercati. Nel primo caso
l'espansione nei business esistenti punta a sfruttare al meglio il bagaglio di competenze e di
esperienze già posseduto dall'impresa; nel secondo, la diversificazione in nuovi business mira a
valorizzare positivamente le interrelazioni tra vecchie e nuove aree di affari (diversificazione
correlata) oppure si propone soprattutto di ridurre il rischio globale di gestione (diversificazione
conglomerale). Volendo schematizzare, si possono dunque individuare tre strategie fondamentali
di sviluppo dimensionale, con alcune varianti principali. Dunque, lo sviluppo di tipo
monosettoriale si realizza mediante processi di integrazione orizzontale e verticale, quello di tipo
polisettoriale assume le forme della diversificazione laterale e conglomerale e, infine lo sviluppo di
tipo internazionale si può concretare in un processo di espansione internazionale del mercato o di
espansione internazionale del mercato o di espansione multinazionale della gestione.

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La strategia di sviluppo monosettoriale.

Lo sviluppo monosettoriale ha lo scopo di rafforzare la posizione dell'impresa soprattutto


nell'ambito del mercato in cui opera. Con esso, infatti, la crescita è perseguita nello stesso campo
o settore in cui l'azienda esercita la sua attività principale, allo scopo di creare migliori condizioni
di svolgimento della gestione sotto il duplice profilo del collocamento delle produzioni finali e
dell'approvvigionamento delle risorse di base.

Lo sviluppo orizzontale.

La strategia di sviluppo orizzontale dell'attività aziendale può essere attuata mediante


un'espansione interna dell'organizzazione, cioè ampliando la potenzialità degli impianti o creando
ex-novo altre unità produttive, oppure con un processo esterno di acquisizione di imprese similari.
In questo caso si parla più appropriatamente di integrazione orizzontale, in quanto si ha di fatto il
raggruppamento di più aziende operanti nello stesso mercato. Un punto importante da chiarire
riguarda i concetti di stesso settore o mercato e di aziende o produzioni similari. È infatti
opportuno sottolineare che ci si trova in presenza di uno sviluppo orizzontale quando fra le
produzioni integrate sussistono vincoli tecnologici e vincoli di mercato. I primi si collegano ad una
matrice produttiva comune, che può essere rappresentata dalla medesima concezione dei cicli di
produzione, dalla presenza di fasi comuni di lavorazione, dall' utilizzazione di tecnologie (know-
how) similari, ecc. ; mentre i secondi derivano da una comune impostazione dei problemi e delle
politiche di mercato (distribuzione, promozione, ecc.).

L'integrazione orizzontale ha lo scopo di far crescere la quota di mercato detenuta dall'impresa.


Ciò si ottiene completando la gamma di prodotti trattati, ampliando il numero di segmenti di
mercato serviti o allargando l'area geografica di vendita. La crescita in senso orizzontale si
distingue, rispetto ad altre forme di sviluppo, perché richiede generalmente tempi meno lunghi di
attuazione, consente di sfruttare tutte le risorse disponibili (manageriali, tecnologiche e di
marketing) e implica rischi meglio valutabili da parte degli organi imprenditoriali. Il suo principale
vantaggio si dovrebbe avere sotto il profilo delle economie di costo, che si possono distinguere in
economie di dimensione (o di scala) e di espansione (relative all'onerosità del processo di
espansione).

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L'integrazione verticale.

Lo sviluppo verticale si ha quando un'impresa assume il controllo di uno stadio di produzione o di


distribuzione immediatamente collegato a quello in cui già opera. L'espansione riguarda, dunque,
uno stadio diverso ma adiacente al preesistente campo di attività. Essa può indirizzarsi a monte
dello stadio occupato (integrazione verticale ascendente) con un avvicinamento ai clienti, oppure
a valle (integrazione verticale discendente). Lo sviluppo verticale si caratterizza perché ha per
oggetto mercati legati da rapporti di fornitura o di collocamento, in quanto l’aspetto qualificante
di questa strategia è l’integrazione, nell’ambito della stessa organizzazione economica, di attività
non simili ma strettamente collegate (es. industria automobilistica che acquista una fonderia). In
sostanza, l’integrazione verticale si traduce in uno “spostamento” a monte o a valle del mercato di
acquisto o di vendita di certi prodotti aziendali. Con la verticalizzazione ascendente l’azienda
inserisce nel suo ciclo di produzioni di base o intermedie rispetto al processo terminale; con quella
discendente cambia il suo mercato di sbocco, rivolgendosi ad uno stadio più vicino alla
fabbricazione dei prodotti finali. Per questo motivo, l’integrazione discendente è a volte
considerata una forma di diversificazione piuttosto che di concentrazione monosettoriale. Al
riguardo, si deve però osservare che il suo obiettivo non è di accrescere il numero di settori in cui
opera l’impresa, ma di ampliare la gamma di produzioni intermedie comprese nello stesso ciclo
tecnico-economico.

L’integrazione verticale è attuata più frequentemente mediante l’acquisizione di complessi


produttivi già funzionanti, dato che la via dell’espansione diretta dell’organizzazione richiede
tempi più lunghi e l’impiego di capacità tecniche e manageriali raramente disponibili subito
all’interno dell’impresa. I sub-obiettivi, che mediante essa si intendono raggiungere, si
differenziano a seconda della direzione assunta dal processo di verticalizzazione. Con questo si ha
in ogni caso un aumento del valore aggiunto realizzato perché cresce la differenza tra il valore dei
prodotti finiti ed il costo delle materie e dei servizi acquisiti: infatti, nell’ipotesi del processo
ascendente il ciclo produttivo partirà da beni di minore prezzo (es. la ghisa e l’acciaio anziché il
pezzo fuso per l’industria automobilistica), mentre in quella discendente il ciclo darà come
risultato prodotti di maggiore pregio (es. abito confezionato anziché tessuto per un industria
tessile).

Ciò significa che, per effetto dell’ampliamento del processo di trasformazione, si creerà un più alto
valore aggiunto che consentirà un maggiore controllo sui costi di gestione. Oltre a questo
importante effetto comune alle due modalità d’integrazione verticale, si porrà, nel caso dello
sviluppo ascendente, quello di assicurarsi la continuità di approvvigionamento di risorse
necessarie per il processo produttivo di base e, nel caso di sviluppo discendente, quello di
avvantaggiarsi di un maggiore controllo del mercato finale di sbocco per ridurre i rischi di vendita.

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La teoria dei costi di transazione.

Nello stesso settore produttivo si ritrovano imprese più integrate, ovvero che hanno
maggiormente internalizzato la produzione di beni e servizi da impiegare nel ciclo produttivo
fondamentale, e imprese che invece hanno preferito concentrarsi sul processo base per ricorrere
poi al mercato per procurarsi le altre risorse di cui hanno bisogno. La dottrina economica ha
tentato di fornire una spiegazione per questo differente comportamento imprenditoriale,
formulando la teoria dei costi di transazione. Il concetto di fondo è che l’impresa, per decidere se
produrre o acquistare i beni e servizi di cui necessita, proverà a comparare il costo di transazione,
collegato al processo esterno di approvvigionamento, a quello di produzione da sostenere per
produrre al suo interno gli stessi beni e servizi. Occorre chiarire il concetto di costo di transazione
nel quale si ricomprendono, oltre al costo di acquisto del bene o servizio, tutti gli oneri da
sopportare per ricercare le informazioni, reperire il fornitore, procedere alla contrattazione e
controllarne l’attuazione. Il costo di transazione rappresenta in questo modo il “costo d’uso del
mercato” da porre a confronto con quello di produzione da sostenere all’interno
dell’organizzazione dell’impresa. Secondo la teoria, dunque, l’imprenditore o manager
percorrendo questa strada giungerebbe alla definizione del “confine efficiente”
dell’organizzazione. Con questa espressione si vuole intendere la definizione dell’insieme dei
compiti (attività) da svolgere all’interno dell’impresa per assicurarsi il massimo livello di efficienza
operativa. Quest’ultimo verrà ottenuto decidendo appunto quali operazioni fare svolgere
all’interno della struttura e quali transazioni stipulare rivolgendosi al mercato. In altri termini, il
criterio discriminante sarà quello dell’economicità, ovvero fare realizzare dall’organizzazione tutte
le attività che costerebbe di più delegare al mercato. Il ragionamento precedente prescinde, però,
dalla considerazione del rischio insito nella finalizzazione dello scambio, per il quale si deve trovare
il fornitore sempre disponibile, fare affidamento sulla precisione della consegna (quantità e
tempi), sull’efficienza dei sistemi di trasporto, ecc. In teoria, proprio per tenere conto di questo
doppio aspetto (economicità e rischiosità della transazione), si è quindi ipotizzato che il ricorso al
mercato divenga meno conveniente al crescere della complessità della transazione e che su
quest’ultima influiscano la ricorrenza, l’incertezza e la specificità degli atti di acquisizione da
compiere all’esterno.

Più in particolare, la specificità ovvero l’allestimento di risorse speciali da parte di un fornitore


potrebbe far ridurre la convenienza di costo e aumenterebbe il rischio dell’imprenditore di legarsi
ad uno, o comunque , a pochi fornitori. In conclusione, la teoria dei costi di transazione, pur
aiutando a comprendere la logica dei comportamenti imprenditoriali, non riesce, da sola, a fornire
tutti gli elementi interpretativi per le decisioni di internalizzazione o esternalizzazione delle attività
aziendali.

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La strategia di diversificazione produttiva.

L’impresa può allontanarsi simultaneamente dai mercati e dai prodotti che le sono familiari,
rivolgendosi a settori diversi, cioè attuando un processo di diversificazione produttiva.
Quest’ultima si contrappone alle strategie d’integrazione perché, invece di puntare verso obiettivi
di concentrazione e di rafforzamento del preesistente rapporto impresa/mercato, porta l’azienda
ad occupare posizioni in mercati nuovi, compresi in settori no comparti produttivi differenti da
quelli in cui già opera. In altri termini, è il principio della multisettorialità dell’espansione che si
contrappone a quello della monosettorialità, tipico delle imprese cosiddette “integrate”. Per
definire meglio la diversificazione produttiva, bisogna chiarire ch’essa si realizza in modo pieno
quando le nuove produzioni non presentano affinità con quelle precedenti sia in termini
tecnologici sia in termini di marketing. Tenendo presente la possibilità del verificarsi di una o di
entrambe di queste affinità, si distinguono strategie di sviluppo diversificato. La prima,
denominata diversificazione laterale, basata sull’esistenza di un collegamento, in termini
tecnologici o di marketing, tra produzioni vecchie e nuove; la seconda, definita diversificazione
conglomerale, caratterizzata dall’inesistenza di qualsiasi legame tra attività preesistenti e nuove.
A ragione delle difficoltà insite nella valutazione del grado di affinità tra le produzioni poste in
essere, in teoria è stato ritenuto opportuno collegare il concetto di conglomerazione non
all’esistenza di legami fra le produzioni attuate, ma all’assenza di una produzione dominante.
Secondo quest’interpretazione, l’attributo della conglomerazione si aggiungerebbe a quello della
diversificazione nell’ipotesi in cui per l’impresa nessuno dei settori produttivi dovesse assumere
una posizione dominante.

I motivi della scelta di una strategia di diversificazione possono essere molteplici e non sempre si
collegano al desiderio di assicurarsi una rapida crescita dei profitti. La giustificazione, più di
frequente adottata per questa decisione, è l’impossibilità di espandersi soddisfacentemente in un
settore ormai ritenuto saturo e la ricerca, dunque, in altri mercati di occasioni più favorevoli di
aumento del volume d’affari. Anche se queste motivazioni possono giocare un ruolo importante,
non bisogna sottovalutare i vantaggi ritraibili dall’adozione di una strategia del genere in termini di
stabilizzazione dei redditi e di riduzione del rischio globale di gestione. Alla diversificazione delle
attività s’accompagna una diversificazione dei rischi di mercato, in quanto ciascuna produzione
sarà assoggettata alle alee (incognite) correnti nel particolare mercato cui sarà destinata. Con
questa strategia, cioè, si possono attenuare le conseguenze di eventi dannosi mediante la
compensazione degli andamenti più o meno favorevoli, che potrebbero presentarsi nei vari
mercati serviti.

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La strategia di espansione internazionale.

Da tempo la strategia di espansione internazionale, più che essere considerata un’alternativa


rispetto ai tipi di strategie esaminate in precedenza, è divenuta un’esigenza sia per l’ampliamento
dei mercati di sbocco sia per le opportunità di delocalizzazione produttiva. Per perseguire una
crescita equilibrata è spesso necessario puntare ad una politica di compensazione dei risultati
attraverso un processo di diversificazione delle attività aziendali. Sotto tale aspetto sia la
diversificazione delle produzioni che l’espansione internazionale rappresentano delle strategie
fondamentali per tentare di stabilizzare in senso dinamico i risultati di gestione, cioè per ottenere
profitti in grado di assicurare la prosecuzione dello sviluppo dimensionale. La prima consente ,
infatti, di diversificare merceologicamente i rischi d’impresa, legando le sorti di quest’ultima alle
vicende di una molteplicità di settori di attività. Ma anche l’espansione internazionale permette di
bilanciare i contrapposti fenomeni che dovessero verificarsi, di periodo in periodo, nei vari
contesti, in modo da conferire una maggiore costanza ai risultati gestionali. La differenza si ha nel
fatto che la compensazione avverrebbe, nel primo caso, fra produzioni diverse e, nel secondo, fra
Paesi diversi. La politica di penetrazione commerciale nei mercati esteri segue solitamente delle
tappe, che presentano gradi d’impegno e di rischiosità crescenti. La difficoltà di muoversi in un
ambiente non familiare, la minore capacità in molti casi di prevedere il ritmo di sviluppo delle
vendite, la necessità di cominciare a fare esperienza nel modo meno rischioso, sono tutti elementi
che spingono ad attuare inizialmente un’attività di esportazione, per poi passare a forme più
stabili di presenza all’esterno. In teoria, le fasi del processo di espansione internazionale sono:

1) Esportazione di prodotti fabbricati esclusivamente in patria;


2) Stipula di accordi di licenza con produttori stranieri per la cessione di brevetti ecc.;
3) Attuazione d’investimenti diretti per la creazione all’estero di proprie strutture distributive;
4) Avviamento in altri Paesi d’impianti di montaggio e di stabilimenti di produzione;
5) Organizzazione, al di fuori dei confini nazionali, di strutture aziendali autosufficienti
(consociate o affiliate), dotate di centri direzionali e di ricerca.

Volendo definire le tappe indicate, si potrebbe osservar che sovente lo sviluppo dell’attività
internazionale segue un ciclo che comprende l’esportazione, la produzione indiretta, la vendita
diretta, la produzione e la vendita diretta, l’organizzazione di unità aziendali integrate.
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Capitolo Ottavo IL PROCESSO DI DIREZIONE E I PROBLEMI ORGANIZZATIVI

Il processo di direzione aziendale.

Il processo e il significato di direzione aziendale ha subito nel tempo profondi cambiamenti. In una
concezione tradizionale la direzione aziendale consisteva: nella segmentazione del lavoro in atti e
operazioni elementari; nella loro assegnazione al personale; nel controllo del risultato ottenuto. Il
crescere delle dimensioni delle imprese, la progressiva diversificazione produttiva, l’ampliamento
della base geografica di riferimento, così come la crescente complessità dell’ambiente e delle
attività e dei processi aziendali hanno portato al superamento della concezione tradizionale di
direzione. Nella concezione moderna di direzione aziendale la funzione del dirigente si caratterizza
per un articolato sistema di attività (funzioni) interdipendenti, costituite dalla programmazione,
organizzazione, conduzione del personale e controllo che costituiscono quello che viene più
propriamente definito il ciclo di direzione aziendale, che può essere rappresentato così:

Nel ciclo di direzione aziendale ogni attività deve essere:

 Programmata, stabilendo in anticipo obiettivi, decisioni, modalità e risorse da impiegare;


 Organizzata, individuando chi e con quali responsabilità dovrà curarne la realizzazione;
 Guidata, fornendo le direttive e motivando gli organi operativi;
 Controllata, valutando i risultati raggiunti rispetto a quelli programmati.

La funzione di controllo chiude un ciclo informativo ma ne innesca uno nuovo, come evidenziato
nella figura sottostante.

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Come appare evidente dalla figura il controllo produce informazioni sui risultati conseguiti
all’interno dell’impresa. La programmazione richiede l’integrazione dei dati così ottenuti con quelli
relativi al contesto esterno (informazioni sull’ambiente). Le informazioni sul controllo interno e
sull’ambiente vengono trasferite da chi dirige a chi esegue. Infine, chi esegue deve trasmettere i
risultati della propria attività agli organi di controllo

La funzione organizzativa.

Organizzare significa ordinare un sistema in parti interdipendenti e correlate, ciascuna avente una
specifica funzione o rapporto rispetto al complesso. Le parti, nel caso dell’impresa, sono gli organi
della stessa e l’organizzazione si rivolge in primo luogo a disciplinare i compiti, i poteri e le
responsabilità che ciascuno dovrà assumere nel corso della gestione. Lo scopo della funzione di
organizzazione è duplice:

 Ottenere condizioni di massima efficienza operativa mediante la suddivisione e la


specializzazione delle attività e il loro opportuno coordinamento. In altri termini, il suo
contributo si estrinseca nel conseguimento di una maggiore produttività del lavoro;
 Soddisfare le attese di coloro che lavorano nell’impresa (motivazione) e migliorare il
rendimento globale dell’organizzazione (comportamento organizzativo).

La funzione di organizzazione si pone lo scopo di definire la struttura organizzativa.

La progettazione organizzativa.

Ogni impresa opera con una particolare struttura di organi, che nella forma più semplice si basa
sull’accentramento del potere decisionale nelle mani di un unico soggetto, l’imprenditore, e
sull’esistenza di più centri di esecuzione. Nelle forme più complesse si articola in una molteplicità
di unità differenziate di decisione, controllo ed esecuzione. In generale, nelle imprese di piccole
dimensioni non esiste una ripartizione formale di compiti e responsabilità né una definizione dei
circuiti di comunicazione, si parla in questo caso di struttura spontanea. Nelle imprese di grandi
dimensioni, invece, esiste una ripartizione formale dei compiti caratterizzata da una molteplicità di
unità differenziate di decisione, di controllo ed operative definite formalmente dal management
aziendale (struttura di piano). La progettazione della struttura organizzativa consiste nel definire,
per tutte le persone e le unità organizzative, le modalità con cui vengono suddivise e coordinate le
singole attività lavorative. A livello micro, la progettazione della struttura organizzativa si occupa
di dividere e coordinare il lavoro all’interno di singoli gruppi o unità organizzative. In particolare, il
focus è rivolto al livello di specializzazione, alla qualificazione e alla motivazione dei dipendenti. A
livello micro la progettazione si deve preoccupare di definire i compiti, le mansioni ed i ruoli.

Compito: Insieme di attività elementari necessariamente collegate in funzione di proprietà/capacità del


lavoro umano e tecnica impiegata.
Mansione: Insieme di compiti che possono essere assegnati ad una posizione.
Ruolo: Aspettative sul comportamento di una persona in riferimento agli obiettivi dell’organizzazione che
devono orientare le sue azioni.
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A livello macro, le attività dell’organizzazione vengono divise e coordinate tra le diverse unità
organizzative. La progettazione macro si occupa di determinare i meccanismi di coordinamento tra
unità organizzative, le modalità di aggregazione delle posizioni e i livelli gerarchici
dell’organizzazione. La prima scelta che l’impresa deve porre in essere per la costruzione della
struttura organizzativa a livello macro è relativa alla determinazione del confine efficiente
dell’organizzazione. Il confine sarà influenzato dalla scelta di quali funzioni attuare all’interno
dell’impresa (make) e quali altre funzioni delegare all’esterno, facendo ricorso a fornitori esterni di
prodotti e servizi (buy). Nella definizione della struttura organizzativa influiranno notevolmente
anche le caratteristiche dell’ambiente di primo riferimento e di riferimento generale in cui
l’impresa si trova ad operare. Più il contesto esterno risulterà caratterizzato da condizioni di
instabilità e di dinamismo, maggiore dovrà essere la flessibilità dell’organizzazione. E’ opportuno,
infine, sottolineare che per la progettazione organizzativa è necessario tenere conto del
complesso di vincoli che caratterizzano l’operare dell’impresa e che possono fare rinunciare a
scelte teoricamente ottimali. I vincoli sono rappresentati da:

 Le capacità professionali disponibili ed acquisibili nel mercato del lavoro;


 L’investimento in costi fissi, che si è disposti a sostenere per la creazione della struttura;
 I costi di lavoro sostenibili dalla gestione.

I modelli di struttura organizzativa.

Nella progettazione organizzativa momento particolarmente delicato è rappresentato dalla scelta


del modello strutturale. Tra i modelli organizzativi adottati nelle piccole imprese è molto comune
la cosiddetta struttura semplice, caratterizzata dall’accentramento del governo in una sola
persona o in un ristretto gruppo di persone, dalla divisione di responsabilità prevalentemente
operative per aree funzionali fondamentali (ad es. produzione e vendita) e dalla ridotta
formalizzazione sia dell’assetto organizzativo, sia delle procedure informative e operative. Al
crescere delle dimensioni dell’impresa il modello più ricorrente è caratterizzato da una struttura
formale che stabilisce in modo ufficiale l’assetto delle funzioni, dei poteri e delle responsabilità
all’interno dell’impresa. I tipi di struttura più frequentemente adottati dalle imprese industriali
sono i seguenti: modello funzionale, modello divisionale, modello per progetto e per matrice.

Il modello funzionale si caratterizza per la suddivisione delle aree di responsabilità per gruppi di
compiti, cioè per la ripartizione delle competenze alto-direzionali in termini di funzioni primarie
della gestione. Con l’applicazione del modello funzionale si persegue la specializzazione del lavoro
tra responsabili di funzioni, a cui è attribuita la direzione di un complesso di attività omogenee e
interdipendenti tra di loro. Il coordinamento di queste attività, sul piano interfunzionale spetta alla
direzione generale. L’inconveniente del modello funzionale è dato dal modesto coordinamento tra
le diverse aree di responsabilità.

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Modello funzionale:

Il modello divisionale solitamente viene adottato dalle imprese maggiormente diversificate.


Questo modello è caratterizzato dalla ripartizione delle responsabilità di direzione per gruppi o
famiglie di prodotti ciascuna affidata ad un direttore divisionale responsabile dei risultati
economici ed operativi della divisione diretta. In altri termini, tale modello comporta il
frazionamento dell’impresa in più parti (divisioni) ciascuna delle quali potrebbe rappresentare
un’impresa a se stante e costituire un centro di profitto. Alcune funzioni vengono decentrate al
livello di divisione, altre vengono accentrate. Il criterio generale è quello di decentrare le funzioni
che possono ottenere i maggiori benefici dalla specializzazione (es. produzione e vendita) e di
accentrare quelle che richiedono un più elevato coordinamento sul piano aziendale (es. finanza, il
personale, approvvigionamento ecc.).

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Accanto alle strutture organizzative, di cui si è fin qui discusso, si pongono, poi i modelli cosiddetti
a struttura “elastica”, in grado cioè di adattarsi più prontamente ad esigenze contingenti e
rapidamente mutevoli di gestione. Tali modelli sono il modello per progetto e quello per matrice.

Il modello per progetto rappresenta un’ulteriore articolazione del modello funzionale, in quanto è
all’interno di questo che vengono costituiti dei gruppi di lavoro incaricati di elaborare e porre in
attuazione determinati progetti.

Il modello a matrice rappresenta l’istituzionalizzazione di quella per progetto (che ha natura


temporanea), in quanto la struttura aziendale assume un carattere reticolare con un intreccio di
competenze funzionali e per progetto. Ogni responsabile si troverà alle dipendenze di due
superiori: il direttore di linea (es. produzione) e il direttore di prodotto. In effetti,
nell’organizzazione per matrice si hanno tre tipi di ruoli:

 La direzione generale, responsabile dell’intera struttura organizzativa;


 Le direzioni divisionali e funzionali, responsabili delle funzioni sotto-stanti al livello
precedente;
 Le responsabilità congiunte divisionali/funzionali dei gruppi operativi inseriti nella
struttura.

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La definizione delle procedure decisionali e operative.

La progettazione della struttura non esaurisce i compiti attribuiti alla funzione organizzativa, in
quanto il funzionamento del sistema d’impresa richiede necessariamente la definizione di
procedure di lavoro e informative. Le procedure stabiliscono delle norme di comportamento
adottabili in modo ripetitivo nel tempo per la soluzione di problemi similari o analoghi. Le
procedure possono essere rappresentate graficamente mediante i diagrammi a flusso ( o flow-
chart). Il flow-chart è una rappresentazione grafica che riproduce le fasi di una data procedura
utilizzando e collegando tra loro simboli standard. Tale strumento aiuta a comprendere lo sviluppo
del processo in quanto descrive la sequenza logica delle fasi di attività così come dovrebbero
essere realizzate. La scomposizione in fasi del processo può essere utile per identificare le cause di
un particolare problema e trovarne le soluzioni. Il flow chart può avere una struttura ad albero o a
rete, oppure combinare le due strutture. Esso si compone di simboli (solitamente figure
geometriche) e linee. Nella stesura del diagramma di flusso devono essere osservate inoltre alcune
regole:

 Scrivere le fasi principali del processo;


 Sviluppare il diagramma verticalmente e/o lateralmente disegnando linee continue
congiungenti i simboli che rappresentano le operazioni da compiere;
 Disegnare le fasi nella sequenza in cui avvengono gli eventi, ricordando che l’ordine di
lettura del diagramma è dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra, quando non
specificato diversamente. Per rendere più chiaro il significato di un’operazione, quando il
simbolo non esaurisce quello che si voleva esplicitare è necessario fare uso di note
esplicative o rinvii;
 Ricordare che tutte le figure, escluse la prima e l’ultima, devono avere un input e un
output. Tenere inoltre presente che, alcune figure possono avere più input o più output e
che i “nodi decisionali” fanno sviluppare il diagramma in direzioni diverse;
 Cercare di strutturare le domande in modo da ottenere risposte del tipo SI/NO.

La realizzazione del diagramma di flusso, rispettando le fasi sopra indicate, consente di verificare,
rispondendo ad alcuni interrogativi, se la sequenza delle attività formulata sia quella più idonea
per la realizzazione di una determinata procedura o se sia possibile individuarne una più adatta
all’organizzazione considerata. I quesiti su cui è necessario interrogarsi con riferimento alle singole
operazioni sono essenzialmente tre: «cosa» si deve fare? «perché» si deve fare? Quali sono i
soggetti implicati nelle diverse operazioni ?, Rispondendo con attenzione ai precedenti quesiti è
possibile rappresentare una data situazione nelle sue componenti elementari e quindi definire in
quale misura esse concorrono alla realizzazione di una procedura. In questo modo si predispone
una base di analisi che consente una razionalizzazione delle procedure e pertanto favorisce
l'eliminazione di tutte le fasi che sono ridondanti, poco utili e che anzi appesantiscono la
realizzazione dell'attività.

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Linea di flusso

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