Sei sulla pagina 1di 27

Fondamenti di management

L’impresa e le sue principali caratteristiche

Il management è la gestione dell’impresa attraverso professionisti – ossia i manager – specializzati in ruoli di


connessione e governo, atta ad integrare le attività di controllo e direzione da parte dell’imprenditore. Il
management è un’arte in quanto non è riproducibile dato che ci sono troppe variabili che si modificano e
ogni volta bisogna adattare le proprie conoscenze al contesto in cui ci si trova, talvolta anche in maniera
creativa. Esso non è una scienza esatta come la matematica, ma è una scienza sociale, dunque dipende dalla
società – ossia dall’uomo – e di volta in volta è adattabile, modificabile, da studiare, non può essere
inventata. Il soggetto primo a cui si fa riferimento è l’impresa, la quale è un istituto volto principalmente alla
produzione di beni e servizi per soddisfare i bisogni della società; infatti, le persone – che creano la società –
perseguono dei fini, i quali suscitano dei bisogni per cui vengono svolte delle attività economiche per mezzo
di istituti quali:
▹ La famiglia, la quale ha molto a che fare con l’impresa e talvolta è persino un suo concorrente
▹ L’impresa e l’amministrazione pubblica, che sono organizzazioni, dunque istituti o enti che
sviluppano un processo produttivo di beni e/o servizi.
Queste organizzazioni possono anche essere aziende, le quali si distinguono in private, pubbliche o miste a
seconda della natura del soggetto proprietario. L’azienda poi si suddivide in for profit, la quale dunque
ricerca un profitto ed è l’impresa, e non profit, che dunque non lo fa.
L’impresa è sempre stata considerata un’impresa soggetto, ossia quell’organizzazione che fa corrispondere
l’impresa stessa al soggetto imprenditore – colui che fa nascere l’organizzazione – infatti c’è una stretta
relazione tra soggetto primo e l’impresa stessa. La finalità dell’impresa è la finalità del soggetto primo; nel
momento in cui l’impresa viene divisa dalla figura imprenditoriale, si passa da un’idea di razionalità
soggettiva – legata ad un solo soggetto – ad una razionalità intersoggettiva – legata a più soggetti.
Questi soggetti vengono definiti stakeholder (portatori di interesse), che possono essere sia interni che
esterni, e condizionano la vita e le decisioni dell’impresa in quanto hanno interesse in essa; possono essere
creditori (i quali hanno interesse che l’impresa non fallisca), soci (i quali cedono un capitale nell’impresa ed
hanno interesse nel margine di guadagno dell’impresa affinché possano ottenere indietro il capitale iniziale
rivalutato), banche (le quali prestano denaro ed erogano servizi finanziari ed hanno interesse nell’ottenere
indietro il prestito erogato con tanto di interessi), dipendenti (i quali rappresentano uno stakeholder interno
importantissimo il cui obiettivo è quello di poter lavorare nel tempo e crescere a livello lavorativo),
amministrazione pubblica (il cui obiettivo è quello di poter migliorare il benessere del paese ma anche
quello di poter ottenere determinate entrate che permettono di pagare i servizi pubblici che vengono
erogati) e comunità locale. Di conseguenza, l’idea di impresa soggetto secondo la razionalità soggettiva non
esiste più, perché vi è una razionalità limitata in quanto non si hanno le capacità necessarie per poter
compiere la migliore scelta, infatti bisogna considerare i soggetti che sono intorno a noi ma anche le
variabili affinché si possa compiere la scelta adatta al contesto in cui ci si trova. Perciò si arriva a parlare di
impresa sistema, la quale è:
▹ Cognitiva, ossia che apprende e matura complessivamente
▹ Complessa, ossia che è composta da un numero molto ampio di parti che interagiscono in modo
non sempre semplice in quanto ognuna ha finalità diverse
▹ Gerarchica, ossia che funziona per fasi, per serie successive di sottoinsiemi applicati in vari ambiti e
in diverso modo
▹ Autopoietica, ossia che evolve a partire da se stessa, dunque il processo di sviluppo e di crescita
dell’impresa ha origine da se stessa.
Allora la finalità dell’impresa può essere ancora considerata la massimizzazione del profitto? Dipende,
perché in effetti rimane certamente come obiettivo dell’impresa che altrimenti non lo sarebbe più.
Chiariamo che il profitto NON è il guadagno, ma una parte di esso che l’imprenditore o colui che ha messo il
capitale nell’impresa trattiene per sé, mentre il guadagno – detto anche utile – è la differenza tra costi e
ricavi, i quali devono essere superiori ai costi affinché si possa parlare di guadagno. Il profitto allora è:
▹ La quota destinata a ripagare il rischio corso nell’attività aziendale, ossia il rischio che l’imprenditore
ha corso nel creare l’impresa
▹ Il premio che spetta a colui che promuove l’innovazione, ossia la creazione di qualcosa di nuovo –
processo non facile né banale – mediante l’impresa che porta qualcosa di buono alla società
▹ Il compenso che spetta all’imprenditore per l’organizzazione dei fattori produttivi, dunque di come
l’ha creata e messa in piedi
▹ Il risultato dell’imperfezione del mercato (per cui la distribuzione delle informazioni all’interno del
mercato non è equamente distribuita, ossia non tutti possiedono le stesse informazioni) da cui si
origina l’acquisizione di posizioni monopolistiche (situazione in cui una sola impresa produce un
determinato prodotto o eroga un determinato servizio creando così un monopolio, nonostante al
giorno d’oggi vi è concorrenza e dunque non vi è monopolio di alcuna impresa); l’imprenditore che
conosce di più, che all’interno dell’imperfezione del mercato riesce a muoversi meglio e che arriva
tra i primi nella produzione/erogazione di un prodotto/servizio deve giustamente ottenere un
profitto.
Vi sono allora dei limiti alla massimizzazione del profitto, uno legato all’orizzonte temporale – ossia di
restare nel mercato e poter sopravvivere domani – e uno legato al rischio; dunque, la finalità dell’impresa è
la crescita – determinata dal raggiungimento dell’equilibrio, dall’arricchimento delle risorse e dal
rafforzamento delle nostre capacità – intesa come sviluppo dimensionale che permette all’impresa di
diventare più grande con una anche lenta massimizzazione del profitto; però questo non vuol dire che il
profitto non venga più preso in considerazione, solo che non è la finalità dell’impresa perché se perseguisse
soltanto il profitto allora non riuscirebbe a sopravvivere a lungo termine.
La dimensione dell’impresa si misura secondo alcuni parametri che sono:
▹ Economici, ossia che hanno a che fare con qualcosa di tipo economico nella nostra impresa e sono
1) Fatturato, ossia ciò che si ricava con le vendite, il prezzo per la quantità; è uno dei più gettonati
perché è semplice e molto comprensibile e può essere ricavato con facilità, però comporta
alcuni problemi come non poter sempre confrontare vari fatturati per la variazione dell’asse
temporale (ma ciò è facilmente ovviabile) oppure per la differenza di prodotti (es. petti di pollo
di Aia e Golf della Volkswagen); bisognerebbe andare oltre il fatturato e in ciò ci aiuta il secondo
parametro economico che è ↓
2) Valore aggiunto, che è la differenza tra output della produzione (ossia i ricavi) e i fattori di input
acquisiti dall’esterno (ossia i prodotti che servono nel processo di produzione dell’impresa tra
cui non rientra l’assunzione del personale); il valore aggiunto è un indicatore qualitativamente
migliore rispetto al fatturato perché più valore crea un’impresa e aggiunge al sistema
economico, più grande è questa; le imprese sono molto riluttanti nel dire il proprio valore
aggiunto anche perché talvolta neanche lo conoscono
▹ Tecnici, suddivisi in
1) Produzione realizzata, ossia la quantità prodotta e venduta ed è semplice da trovare così come il
fatturato anche se presenta lo stesso problema quando bisogna confrontare le imprese di
settori diversi; un altro limite di questo parametro lo si trova nel momento in cui viene utilizzato
per confrontare imprese che erogano servizi nonostante si trovino magari nello stesso settore;
anche il confronto tra due punti vendita di una stessa impresa è difficile perché si tratta di due
realtà diverse (es. McDonald’s nella zona industriale e McDonald’s nel centro commerciale). Per
tutte queste ragioni si arriva ad utilizzare un secondo parametro che è ↓
2) Capacità produttiva, ossia quello che l’impresa è in grado di produrre, il suo potenziale
produttivo; questo parametro va ad analizzare qual è il potenziale di una data impresa, dunque
la sua dimensione in un lungo periodo e la sua possibile evoluzione (sempre facendo
riferimento alla finalità dell’impresa). Questa capacità si divide a sua volta in teorica/nominale,
ossia quello che teoricamente, con l’ottimo di tutte le condizioni possibili e immaginabili,
l’impresa è in grado di produrre, ed effettiva, ossia quello che l’impresa produce effettivamente
secondo molte variabili e condizioni; quest’ultima è la capacità produttiva che ci interessa di più
▹ Patrimoniali, tra cui l’unico degno di menzione è il capitale sociale, ossia quel capitale, patrimonio
dell’impresa così come è stato versato; è quella somma che l’impresa deve vincolare in qualche
modo affinché possa restituire quanto dovuto ai creditori nel caso in cui qualcosa dovesse andare
male; le agenzie assicurative e le imprese legate al mondo della finanza sono le uniche imprese
obbligate per legge a rendere pubblico il capitale sociale di modo che possa essere una garanzia per
il cliente finale; di tutti gli indicatori, il capitale sociale è il meno utile tra tutti
▹ Organizzativi, tra cui spicca il numero degli addetti, infatti ci dice qualcosa in merito
all’organizzazione dell’impresa (che si suddivide in micro, piccola, media e grande impresa) e dei
suoi dipendenti ed è quello maggiormente usato dalle imprese insieme al fatturato perché semplice
da trovare; anche questo parametro però presenta dei limiti perché ad esempio gli addetti, fino a
poco tempo fa, erano considerati soltanto come dipendenti con un contratto a tempo
indeterminato, dunque venivano lasciati e tagliati fuori molti dipendenti effettivi – infatti l’ISTAT
oggigiorno arriva a contare numerose tipologie contrattuali, tra cui anche quelle atipiche; un altro
problema si riscontra quando si confrontano imprese di settori diversi (es. impresa specializzata nel
settore dell’abbigliamento a confronto con un’impresa specializzata nel settore della ristorazione
oppure con un’impresa specializzata nel settore automobilistico); un altro limite ancora è legato alla
scelta riguardante i processi produttivi, quindi tra una scelta labor intensive – con la quale si punta
sul lavoro dei dipendenti – e tra una scelta capital intensive – con la quale si punta sull’investimento
di macchinari automatizzati – anche se ciò non dice assolutamente nulla su una data impresa.
Allora qual è il parametro migliore per misurare la dimensione di un’impresa? Dipende dalla finalità
dell’impresa. Finora però abbiamo misurato soltanto le risorse TANGIBILI e abbiamo tralasciato quelle
INTANGIBILI, che determinano realmente la differenza tra le varie imprese e che permettono di acquisire un
vantaggio competitivo tra tutte, dando così molto valore all’impresa. Esse inoltre sono tantissime e la
condizione sine qua non per l’esistenza dell’impresa.
Le risorse intangibili sono:
▹ Sedimentabili, ossia che si accumulano poco alla volta, passo dopo passo come ad esempio la
fiducia del cliente
▹ Incrementabili, ossia che si sviluppano attraverso il loro utilizzo, quindi più vengono usate (in senso
ampio) più vengono sviluppate, come ad esempio la routine, dunque sapere cosa fare e quando
farlo
▹ Uniche, nel senso che non sono uguali per ogni impresa, perché vengono create e sviluppate
all’interno dell’impresa
▹ Difficilmente acquisibili e copiabili (si chiama imperfetta trasferibilità), ossia che difficilmente si
possono acquistare o copiare risorse intangibili dall’esterno, infatti il risultato non sarà mai lo stesso
▹ Flessibili (si chiama molteplicità d’uso o trasferibilità), nel senso che una risorsa intangibile può
essere sfruttata, plasmata in usi differenti con conseguente lato positivo e negativo
▹ Deperibili, nel senso che se non c’è un continuo investimento sulle risorse intangibili, allora queste
prima o poi andranno a morire e perderanno valore
Le risorse intangibili all’interno dell’impresa si trovano in due soggetti/persone molto importanti:
▹ L’imprenditore, ossia colui che ha creato l’impresa ed è un soggetto che continua a distruggere ciò
che c’è per creare qualcosa di nuovo, guardando sempre oltre
▹ Il manager, ossia colui che gestisce l’impresa, razionalizza i processi aziendali ed è più razionale
rispetto all’imprenditore. Esiste un tipo particolare di manager detto temporary manager, ossia
colui che viene assunto temporaneamente per aiutare l’imprenditore nel passaggio di affidamento
di gestione dell’impresa a terzi
Queste due figure sono molto essenziali all’interno dell’impresa, la quale si basa su due principi essenziali di
gestione, che sono:
▹ Efficacia, ossia la capacità di raggiungere un determinato obiettivo
▹ Efficienza, ossia il rapporto tra i risultati ottenuti e i mezzi impiegati per ottenerli (dunque al
numeratore abbiamo l’output e al denominatore l’input); può essere misurata in due termini, o di
tipo tecnico – ed è detta produttività – ossia, ad esempio, il valore dei prodotti ottenuti e le ore di
lavoro, oppure di tipo economico – ed è detta economicità – ossia, ad esempio, il valore dei prodotti
ottenuti e il costo delle ore di lavoro impiegate.
L’imprenditore ha la responsabilità dell’efficacia, mentre il manager dell’efficienza; talvolta è possibile che le
figure di imprenditore e manager coincidano nella stessa persona come nel caso di micro o piccole imprese,
anche se l’ideale sarebbe che ci fossero due figure all’interno dell’impresa che svolgano il proprio compito
in maniera parallela senza influire sull’altro.
Allora, dopo tutte queste considerazioni, qual è il parametro migliore per misurare la dimensione
dell’impresa? Non c’è, perché dipende dal motivo, dall’obiettivo per cui vogliamo misurare la nostra
impresa. Abbiamo misurato tutto quanto usando i parametri? No, mancavano le risorse intangibili, le quali
però sono difficili da analizzare e misurare nonostante siano più importanti delle risorse tangibili.

Ambiente, globalizzazione e sostenibilità delle imprese

L’ambiente per l’impresa è il contesto generale all’interno del quale questa è chiamata a svolgere le sue
funzioni; inoltre, rappresenta l’insieme di attori e condizioni (ossia vincoli e opportunità) e si suddivide in:
▹ Ambiente interno, ossia l’insieme di tutti gli attori che si trovano all’interno dell’impresa
▹ Ambiente esterno, ossia l’insieme di tutti quegli attori che si trovano all’esterno di essa come ad
esempio lo Stato, i clienti, i fornitori, le imprese concorrenti ecc.
Uno strumento importantissimo per lo studio dell’ambiente sia esterno che interno è l’analisi SWOT, grazie
alla quale si possono conoscere i punti di forza e di debolezza dell’impresa, e le minacce e le opportunità
provenienti dall’ambiente esterno. Quest’analisi rappresenta dunque la base di studio per le strategie:
▹ Punti di forza: bisogna capire quali siano i punti di forza e le risorse migliori dell’impresa affinché
possano essere sfruttati al meglio e a pieno; ad esempio, facendo un’analisi interna del personale si
potrebbe scoprire che una notevole parte di questo conosce molte lingue straniere e ciò, quindi,
potrebbe essere sfruttato per portare l’azienda nel contesto del commercio internazionale
▹ Punti di debolezza: bisogna capire quali siano i punti di debolezza all’interno dell’impresa; è molto
importante che si conoscano prima di tutto, poi si dovrebbero evitare quelle scelte aziendali che
possano andare ad intaccare lo sviluppo dell’impresa oppure si dovrebbe investire su delle attività
che riducano queste debolezze, dato che non consentono di sfruttare le opportunità e di far fronte
adeguatamente alle minacce
▹ Opportunità: leggendo l’ambiente esterno, si potrebbero riconoscere delle opportunità per
l’impresa ad esempio di business, come ad esempio la ristrutturazione degli edifici messa a
disposizione dallo Stato per cui un’impresa edile potrebbe fungere da fornitore
▹ Minacce: studiando l’ambiente esterno, ci si potrebbe rendere conto che esistono delle minacce per
lo sviluppo e il successo aziendale dell’impresa, come ad esempio minacce dal punto di vista
legislativo – alcune nuove disposizioni che impongono degli ostacoli – oppure di tipo competitivo –
una nuova impresa che entra in maniera dirompente nello stesso settore di un’impresa e le porta
via molti clienti; bisognerebbe dunque cercare di trasformare queste minacce in opportunità; ad
esempio, un piccolo negozio di abbigliamento cui accanto viene costruito un centro commerciale
deve trasformare questa minaccia in opportunità cercando magari di far arrivare una percentuale di
clienti del centro commerciale nel suo negozio tramite una propaganda o una pubblicità che metta
in risalto il suo negozio, tenendo anche conto che la clientela potrebbe essere diversa da quella
abituale, dunque deve anche far sì che la nuova clientela sia attratta dai prodotti che l’imprenditore
vende nel suo negozio.
L’analisi SWOT va condotta agli inizi dell’impresa affinché si possano conoscere tutti i dettagli di essa, anche
se andrebbe reiterata costantemente per sapere sempre tutti i fattori dei due ambienti.
L’ambiente esterno si divide in ambiti sempre più stretti, a partire da un macroambiente di riferimento al cui
interno si trova un ambiente settoriale che a sua volta contiene un ambiente competitivo:
▹ Il macroambiente è il contesto generale all’interno del quale vi sono imprese di qualsiasi settore; è
un contesto molto più ampio che però condiziona tanto le decisioni di un’impresa e, in aggiunta, più
grande è l’impresa, più questa riesce a relazionarsi e a modificare il macroambiente
▹ L’ambiente settoriale è quell’ambiente in cui si trovano tutte le imprese appartenenti ad un
determinato settore, ed il tipo di influenza dell’impresa nei confronti delle altre e viceversa è molto
diverso, perché le relazioni tra queste hanno molto più impatto dato che potrebbero essere
collaborative, competitive ecc.
▹ L’ambiente competitivo è composto da un certo numero di imprese che fanno parte di un
determinato settore, ma non necessariamente un’impresa è in competizione con ognuna di queste,
ad esempio un’impresa che eroga un servizio di consegne a domicilio è in competizione con un’altra
impresa dello stesso settore nella stessa area, non in scala nazionale; in un contesto competitivo
poi, la collaborazione è una strategia che potrebbe portare ad un migliore risultato.
L’ambiente esterno è composto da acquirenti, concorrenti, fornitori, distributori, investitori, autorità
pubbliche, forze sociali e organismi rilevanti, con cui l’interazione può essere:
▹ Passiva, per cui ad esempio l’impresa riceve nuove disposizioni dalle autorità pubbliche e
necessariamente si adegua ad esse, come nel caso delle disposizioni per il COVID-19
▹ Attiva, per cui vi è un’interazione reale tra l’impresa e questi soggetti che comporta un’influenza
reciproca dipendente da molti fattori come la dimensione dell’impresa, le varie conoscenze ecc.
Dunque, l’ambiente esterno è soggettivo o oggettivo? Inizialmente è certamente oggettivo, ma diventa
assolutamente soggettivo attraverso la propria capacità di leggere l’ambiente; ad esempio, un uomo decide
di dividere la propria impresa a metà per darla ai suoi figli e queste due nuove imprese all’inizio partono
uguali, ma poi dopo una certa quantità di tempo non lo sono più perché, tramite l’analisi SWOT, tutti e due i
figli notano questa opportunità di business; uno è più meditabondo, ragiona su tutti i vantaggi e gli
svantaggi e di seguito rifiuta, mentre l’altro – che è più atto a correre rischi – accetta, quindi inevitabilmente
le imprese sono diverse. Un’altra cosa che si può dire sull’ambiente esterno è che senza dubbio è molto
complesso, dunque innanzitutto bisogna percepire questa complessità affinché ci si possa rendere conto
che ci si trova all’interno di un sistema eterogeneo, poi bisogna affrontare questa complessità, cercando di
capire i suoi aspetti minacciosi e negativi per poterli trasformare in qualcosa di positivo. Di conseguenza,
all’interno della propria impresa bisogna produrre le condizioni necessarie per incrementare il patrimonio di
conoscenze (risorsa intangibile essenziale), dunque ciò che si conosce e come agire per fare le scelte
aziendali giuste.
La complessità dell’ambiente esterno è data da vari fattori:
▹ Varietà e variabilità della domanda: la domanda è l’insieme delle richieste di un determinato
prodotto o servizio da parte del mercato, ossia i clienti reali o potenziali che chiedono un
determinato prodotto o servizio. Varietà significa che i clienti possono fare richiesta di prodotti
diversi – come, ad esempio, maglioncini di colore diverso – nello stesso momento mentre variabilità
significa che un cliente chiede lo stesso prodotto in maniera diversa nel corso del tempo – ad
esempio, oggi vuole un maglioncino rosso, domani lo vuole verde e dopodomani blu.
▹ Autopropulsività della domanda: un cliente non solo ha gusti diversi che cambia continuamente, ma
inventa anche le cose, per cui la domanda si crea da sola; le imprese infatti devono riconoscere e
rincorrere le idee dei potenziali clienti che talvolta possono anche essere tacite. I clienti inventano
ciò che desiderano e lo chiedono all’impresa, la quale non può permettersi di rifiutare, perché
possiede la capacità di trovare chi può effettivamente rispondere a questa nuova domanda; ad
esempio, il negozio Calzedonia crea una nuova linea estate, un cliente entra nel negozio e chiede un
costume con stampa mimetica che però questo non ha, allora gli chiedono di aspettare due
settimane e glielo procurano al fine di non perdere un cliente.
▹ Inappropriabilità della ricerca scientifica: non ha senso per le imprese andare a proteggere e
brevettare prodotti dato il cambio repentino della domanda, ma anzi è l’impresa stessa che informa
la concorrenza su come poter imitare e creare quel prodotto, aumentando così il valore di quello
originale (un esempio può essere un capo d’abbigliamento che permane per una stagione).
Quando un prodotto viene imitato, il valore di quello originale aumenta e talvolta dietro queste
imitazioni vi sono proprio i produttori stessi, i quali aumentano il mercato dei prodotti contraffatti
creando una concorrenza che però non ha effetto diretto sul mercato dell’impresa originale.
Un altro aspetto importante è la globalizzazione, ossia la tendenza dell’economia ad assumere una
dimensione sovranazionale (che dunque va oltre i confini del singolo paese); è anche un processo di
integrazione crescente delle economie delle diverse aree del mondo che può essere analizzato su tre aspetti
diversi:
▹ Globalizzazione del mercato e delle merci: a partire dall’abbattimento delle barriere doganali – ossia
quell’ostacolo che non permette la libera circolazione delle merci tra i vari paesi – attuato nel 1945,
anche se ancora oggigiorno esistono delle barriere doganali per alcuni prodotti o persino totali. Le
barriere doganali talvolta vengono utilizzate a livello politico tra un paese e un altro per esprimere
ad esempio il dissenso su determinate attuazioni politiche con l’obiettivo di eliminarle del tutto.
Questo tipo di globalizzazione è sostenuta dal World Trade Organization (WTO), un organismo
internazionale (di cui fanno parte 150 paesi i quali sono obbligati a sottostare alle disposizioni del
WTO) istituito nel 1995 che di fatto definisce le regole del commercio mondiale secondo una logica
liberista (ossia più merce circola e meglio è). Alcune persone muovono delle accuse nei confronti di
questo organismo in quanto sostengono che determinati regolamenti del WTO vadano a tutelare
soltanto le grandi imprese e le multinazionali, dunque a discapito delle piccole imprese le quali
faticano di più ad usufruire di questa libertà o sono colpite principalmente da essa
▹ Mondializzazione delle imprese, dei processi di lavoro e dei processi produttivi: si parla di
delocalizzazione del lavoro, dunque l’organizzazione della produzione dislocata in varie parti del
mondo
▹ Mondializzazione finanziaria: per cui possono essere spostati ingenti capitali dove più si vuole; vi
sono due organismi che dettano le regole di questa mondializzazione, ossia la Banca Mondiale e il
Fondo Monetario Internazionale, e il principio che sta alla base di questa è la cosiddetta teoria dello
sgocciolamento, secondo la quale inizialmente questo processo di spostamento di capitale genera
enormi iniquità (perché è certamente più facile per chi ha tanto denaro investire anche nei paesi più
poveri), ma poi produrrà una ricchezza e una crescita talmente elevate che per forza di cose porterà
beneficio anche nei paesi poveri, come se ci fosse un limite massimo di ricchezza che può essere
trattenuta per se stessi – bisogna vederlo come se fosse una pentola piena di ricchezza che si trova
al di sopra del paese povero in cui è stato fatto l’investimento; la ricchezza continuerà a crescere
fino a straripare e ricadere anche nel territorio sottostante.
Il livello di globalizzazione di un paese si misura tramite tre variabili:
▹ I flussi migratori, per cui più persone migrano verso un paese più questo è globalizzato
▹ Il commercio estero, ossia la somma di import (merci importate) e export (merci esportate) in
rapporto al PIL (Prodotto Interno Lordo), ossia quel valore complessivo economico di beni e servizi
prodotti all’interno di un paese in un certo intervallo di tempo – generalmente annuale – e destinati
ad usi finali, per cui ad esempio si va a contare il pane venduto e non la farina venduta ai panifici
per produrlo, perché infatti questa è già compresa nel valore finale del pane insieme a tutti gli altri
prodotti intermedi.
▹ Gli investimenti diretti esteri (IDE), ossia gli investimenti effettuati all’estero da un’impresa residente
in un certo paese
Detto ciò, la globalizzazione include un elemento di crescita, un aumento di indicatori di ricchezza quali il
PIL; c’è però anche una crescita, una trasformazione qualitativa della società e della qualità di vita (es.
numero di medici per abitante, educazione, alfabetizzazione). Tenendo conto anche di quest’ultimo tipo di
crescita, ci sono alcuni indicatori che devono essere creati per poter misurare la globalizzazione ed uno di
questi è l’Indice di Sviluppo Umano (ISU o HDI in inglese che sta per Human Development Index) composto
da:
▹ L’indice di aspettativa di vita, la quale se aumenta significa che la qualità di vita sta cambiando e che
inevitabilmente sta migliorando
▹ L’indice di educazione, composto dal livello di istruzione degli adulti e dall’indice lordo di iscrizioni
scolastiche, dunque più alto questo indice è, più le persone sono formate e potranno apportare
cambiamenti significativi nel futuro
▹ L’indice di PIL pro-capite, dunque questo indicatore non viene eliminato, ne fa parte perché se si
prendesse in considerazione soltanto questo non si avrebbe una situazione omogenea; ad esempio,
nel caso dell’Italia nel 2011, essa presenta un PIL bassissimo (inferiore al 2%), però l’ISU è molto alto
al contrario
Prendiamo ora in considerazione la variabile degli investimenti diretti esteri, i paesi di origine (ossia che
promuovono gli investimenti) e i paesi di destinazione (ossia che ricevono questi investimenti) in due date
temporali distanti, pre e post-globalizzazione. Nel periodo pre-globalizzazione gli investimenti vengono
promossi totalmente da paesi avanzati e ricevuti maggiormente da quelli in via di sviluppo; nel periodo
post-globalizzazione invece, gli investimenti vengono al 90% promossi da paesi avanzati e poi ricevuti
maggiormente da altri paesi avanzati, con una conseguente inversione dei dati.

Ciò è accaduto per vari motivi:


- Investire in paesi in via di sviluppo è molto rischioso, mentre la collaborazione con stakeholder
provenienti da paesi avanzati come quello di origine potrebbe essere più proficua e semplice
- Investire in paesi avanzati potrebbe essere una sicurezza essendo il mercato già sviluppato, mentre
in paesi in via di sviluppo il mercato potrebbe non esserlo però potrebbe svilupparlo chi investe
anche se c’è il rischio che non porti alcun profitto
- Investire in paesi avanzati è un tentativo di rallentamento di investimenti in paesi in via di sviluppo
affinché questi ultimi non arrivino a sovrastare quelli avanzati, continuando così a mantenere il
divario
- Investire in paesi in via di sviluppo potrebbe essere rischioso anche perché potrebbe esserci
concorrenza pure locale
Andiamo allora a vedere i benefici che l’apertura dei mercati (ossia l’abolizione delle barriere doganali) ha
portato secondo i tassi di crescita del PIL nel periodo tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta; si può notare
come, con l’avanzare degli anni, i paesi più globalizzati – ossia quei paesi emergenti che, dopo il 1980, hanno
adottato politiche di apertura – registrano un aumento progressivo del PIL, mentre nei paesi meno
globalizzati – ossia quei paesi in via di sviluppo che non hanno adottato politiche di apertura – questo valore
è diminuito in modo altalenante.
Da questi dati emerge che un paese che si apre al mondo rileva un tasso di PIL maggiore rispetto ai paesi
che si chiudono ad esso, dunque questo è un punto a favore della globalizzazione. Bisogna però considerare
anche il concetto di diversità all’interno di questi paesi, guardando il rapporto tra globalizzazione e povertà:
- Nel 1820 le persone povere corrispondevano all’84%
- Nel 2000 la povertà del pianeta si era drasticamente abbassata al 24%
Attenzione però ai valori assoluti! Infatti, nel 1820 la popolazione era di circa 1 miliardo, mentre nel 2000
era di quasi 7 miliardi! Dunque, in termini di percentuale la povertà è sicuramente diminuita, ma in termini
di valore assoluto è aumentata considerevolmente (perché nel 1820 le persone povere erano 840 milioni,
nel 2000 erano 1 miliardo 680 milioni). È da considerare anche la diseguaglianza che presenta la
globalizzazione, perché il 60% degli IDE rimane nel triangolo Stati Uniti, Europa, Giappone mentre il resto è
distribuito in modo diseguale (es. solo l’1,4% di IDE viene promosso verso l’Africa). In aggiunta, il divario di
reddito tra il quinto più ricco e il quinto più povero è cresciuto considerevolmente e il reddito annuale delle
225 persone più ricche del pianeta supera il reddito del 47% della popolazione mondiale.
Nel caso dell’Italia, secondo la Banca d’Italia, nel 2010 il 50% delle persone deteneva il 10% della ricchezza
(pari a 860 miliardi di euro), mentre soltanto il 10% delle persone deteneva il 45% della ricchezza del paese
in totale (pari a 3.800 miliardi di euro). Di fronte a tutti questi dati, vengono mosse molte voci contro l’idea
di globalizzazione, per cui bisognerebbe tornare ad un’economia locale – cosa favorevole da un punto di
vista prettamente ambientale. Nell’economia globale ci siamo già, e prima di tornare ad un’economia locale
(per cui bisognerebbe iniziare a produrre internamente e inserire dei dazi di ingresso proporzionali alla
distanza da cui proviene la merce che arriva da lontano) dovremmo lavorare sulle economie locali di ogni
paese per far sì che tutti siano autonomi; questo perché alcuni paesi meno sviluppati dipendono dalle
esportazioni di alcuni beni – ad esempio Mali dipende per il 78% dall’esportazione di cotone e l’Etiopia
dipende per il 56% dall’esportazione di caffè.
Per rispondere a tutto ciò si è ricorsi alla sostenibilità delle imprese che si regge su tre pilastri:
▹ Creazione di un valore economico adeguato al livello di rischio che le singole imprese corrono,
dunque non un valore economico sconsiderato
▹ Ottimizzazione dell’impatto ecologico, mirando perciò ad una difesa dell’ambiente naturale di
riferimento dell’impresa
▹ Soddisfazione degli attori sociali, per cui un’impresa deve essere in grado di soddisfare le loro
diverse esigenze; attenzione, non si sta dicendo che l’impresa deve diventare caritatevole e non
perseguire il profitto, ma deve rimanere tale con l’obiettivo di crescita a lungo termine prendendo
misure per diventare sostenibile
Se le imprese sono uno degli strumenti più importanti per lo sviluppo della società, allora il valore
economico che creano non è negativo ma positivo, perché poi viene utilizzato per lo sviluppo delle imprese
nel futuro. Per funzionare bene però, le imprese, nel creare ricchezza per se stesse e per la società, devono
sottostare a questi tre pilastri, poiché se viene a mancare uno dei tre tutto il sistema crolla. Pertanto, se le
imprese ad un certo punto fossero tutte sostenibili, la globalizzazione avrebbe ancora effetti negativi? Il
problema, infatti, è come le imprese si muovono all’interno di essa, e non la globalizzazione stessa.

Analisi strategica

Le strategie d’impresa sono tante e seguono una specie di ordine gerarchico che parte da:
▹ L’analisi dell’orientamento strategico di fondo, ossia l’idea di base strategica che definisce l’impresa
▹ L’analisi delle strategie complessive (o di corporate), ossia le strategie che definiscono il modo in cui
l’impresa vuole crescere
▹ L’analisi delle strategie competitive (o di business), ossia le strategie attraverso cui poter affrontare i
competitors che l’impresa incontra nel percorso di crescita, dunque sono le strategie utili per
competere con le altre imprese concorrenti e che utilizzano principalmente l’analisi SWOT
▹ L’analisi delle strategie funzionali, ossia le singole strategie per singola funzione d’impresa che
consentono di raggiungere l’obiettivo basato sulle strategie precedenti
L’orientamento strategico di fondo sta alla base della nascita e dello sviluppo dell’impresa in cui si ritrovano i
concetti di visione, missione e valori:
▹ Visione: è ciò che l’impresa si propone di divenire entro un determinato tempo futuro e rappresenta
il fondamentale fattore di coesione, dunque è importante capire chi si è per potersi circondare delle
persone che hanno lo stesso obiettivo; infatti, evita anche il rischio di scelte casuali od
opportunistiche che potrebbero allontanarci dalla strada che vogliamo percorrere per raggiungere
l’obiettivo prefissato – ad esempio, IKEA ha la visione di creare una vita quotidiana migliore per la
maggior parte delle persone
▹ Missione: scaturisce dalla visione dell’impresa, infatti rappresenta le finalità fondamentali che
l’impresa intende perseguire nel lungo termine e che ne giustificano l’esistenza; dunque, la missione
rappresenta che cosa l’impresa deve compiere per diventare ciò che ha stabilito con la visione; il
percorso da visione a missione risponde a tre domande: DOVE (ossia il campo di attività), PERCHÉ
(ossia le finalità e gli obiettivi di fondo), e COME (ossia la filosofia gestionale ed organizzativa) – ad
esempio, la missione di IKEA è “offrire un vasto assortimento di articoli d’arredamento di buon
design e funzionali a prezzi così vantaggiosi da permettere al maggior numero possibile di persone
di acquistarli”
▹ Valori: o anche principi guida che si vuole siano alla base delle scelte strategiche come
comportamenti operativi posti in essere da tutti i componenti del sistema aziendale, e se questi
valori sono condivisi da tutti all’interno dell’impresa allora quest’ultima potrebbe crescere molto
nel lungo termine; pertanto, si potrebbe anche parlare di “business idea” – o idea imprenditoriale,
la quale richiama i fattori imprenditoriali sottostanti l’origine di un’impresa ed è una componente
strategica di origine soggettiva; è giusto che si parli di business idea perché è dall’imprenditore che
hanno origine i principi guida di un’impresa – ad esempio, la business idea del fondatore di IKEA si
basa sulla domanda sul perché i bei prodotti sono accessibili solo a pochi privilegiati
L’orientamento strategico di fondo, dunque, è essenziale affinché si possa partire con una buona analisi di
strategie d’impresa.
Le strategie complessive definiscono di fatto la via di crescita dell’impresa, in quali e in quanti settori o
ambiti di business operare, e a tal fine ci viene in aiuto lo studio di una matrice, la matrice di Ansoff, la quale
permette di vedere quali possono essere le alternative strategiche.
Questo grafico presenta due assi, quello verticale rappresenta il prodotto e quello orizzontale il mercato, i

quali possono entrambi essere attuali o diversi; ciò significa che si può mantenere un prodotto/mercato
attuale oppure cambiarlo. Le diverse combinazioni tra gli assi danno origine a quattro alternative
strategiche, che vengono scelte secondo la situazione di base dell’impresa e l’obiettivo che si vuole
raggiungere. Tutte queste alternative portano ad una potenziale crescita; non c’è un preciso ordine da
seguire, dipende dalla situazione dell’impresa. Le alternative sono:
▹ Penetrazione del mercato, basata su un mercato ed un prodotto attuali
▹ Sviluppo del mercato, basata su un mercato diverso ed un prodotto attuale
▹ Sviluppo del prodotto, basata su un mercato attuale ed un prodotto diverso
▹ Diversificazione, basata su un mercato ed un prodotto diversi
Nel caso dell’azienda storica Barilla – leader sul mercato nazionale del settore della pasta – questa ha
attraversato un periodo di rallentamento dei tassi di crescita rispetto agli anni precedenti a partire dagli anni
70 (quando già era un importante produttore di pasta), per cui è partita dallo studio dell’ambiente e,
tramite una ricerca di mercato, ha scoperto alcune motivazioni per questo rallentamento, come il
miglioramento del benessere delle persone – e quindi delle famiglie. Infatti, quando le persone si trovano in
benessere, acquistano più alimenti pregiati rispetto a quelli di base; inoltre, erano anche gli anni in cui si
stavano abbandonando i canoni di bellezza caratterizzati da curve morbide per arrivare ad un canone di
bellezza caratterizzato da una figura magra, snella, perciò le persone iniziavano a mettersi a dieta cercando
di mangiare sano. Barilla allora decise di provare la sua prima strategia di crescita, rendendosi conto che
l’azienda era molto meno presente nel sud Italia rispetto al nord in quanto prevalevano fortemente
botteghe artigianali in un contesto locale ristretto. Pertanto, doveva riuscire a vendere pasta anche al sud e
per farlo attuò la strategia di penetrazione del mercato; ciò significa che un’impresa penetra più
intensamente nel mercato attuale (ossia quello nazionale) con il prodotto attuale. Barilla quindi, grazie alla
risorsa tangibile del capitale, decise di acquistare dei laboratori nel sud in vari comuni (al fine di mantenere
la fiducia dei clienti). Però Barilla era entrata solo in alcuni comuni e non in tutto il sud Italia; di
conseguenza, essa registrò il suo primo fallimento perché non aveva raggiunto l’obiettivo iniziale. Attuò poi
la strategia di sviluppo del prodotto, per cui rimase sempre nel mercato attuale ma sviluppando un prodotto
diverso; pensando che le persone avessero una disponibilità economica maggiore e tendenzialmente
volessero dimagrire, propose delle varianti del proprio prodotto per andare incontro a queste esigenze
come la pasta rustica (simile a quella artigianale) e la pasta integrale, cercando di accontentare sia i clienti
del sud che del nord Italia. Inizialmente i clienti accolsero questi nuovi prodotti, però sostituirono la pasta
normale con le sue varianti, e dunque Barilla registrò il secondo fallimento dovuto sia ai costi di produzione
più alti, sia alla mancata crescita dell’impresa. Decise dunque di espandersi nel mercato estero, attuando la
strategia di sviluppo del mercato, per cui mantenne il prodotto attuale ma lo propose in un mercato diverso.
Analizzando i vari mercati nei quali poter vendere, individuò quello statunitense come possibilità di sbocco;
questo perché negli USA non c’erano particolari competitors e Barilla poteva esportare un prodotto made in
Italy – dunque di qualità e tradizionale – in un paese in cui la cultura della pasta neanche c’era. Prima di fare
grandi investimenti in un paese estero, decise di mantenere la produzione in Italia e di esportare il prodotto
finito, che sul mercato statunitense costava molto di più dato che si dovevano coprire anche le spese
logistiche. Il prodotto attuale però agli americani non piaceva e inoltre i costi di logistica erano molto alti,
perciò Barilla non raggiunse un'altra volta l’obiettivo prefissato (uno dei vari motivi era anche perché ha
cercato di cambiare la cultura americana in tempi ristretti) e registrò il terzo fallimento. Alla fine, attuò
l’ultima strategia, ossia quella di diversificazione, inventando così un prodotto completamente nuovo e
diverso (non necessariamente per la società ma per l’impresa). Attraverso un’analisi di mercato e lo
sfruttamento delle risorse intangibili, Barilla crea la Mulino Bianco, iniziando la vendita dei biscotti. Questo
prodotto è stato scelto perché, grazie alle risorse intangibili, essa sapeva come crearli; bisognava capire
soltanto quale tipo di biscotti creare, che al tempo si suddividevano in biscotti simil-pasticceria, biscotti
secchi e biscotti frollini. Nel mercato di questi ultimi, non c’era un leader particolare, semplicemente chi li
produceva li vendeva anonimamente, infatti non c’era un brand a cui i clienti erano particolarmente
affezionati; il problema principale era che i clienti comunque desideravano dimagrire, così i manager, a
seguito di una campagna, decisero di produrre i biscotti frollini cercando però di farli assomigliare al pane. Il
sacchetto dei biscotti era simile a quello del pane di colore marroncino, inoltre c’è stato un cambiamento di
nome per paura di poter rovinare il suo core business (ossia l’attività principale dell’impresa). Ha deciso
perciò di lanciare il prodotto senza far sapere chi ci fosse dietro e, sempre per paura di ottenere un risultato
negativo, ha deciso inizialmente di far produrre biscotti a terzi – aspetto negativo perché una volta che il
prodotto ottenne successo, Barilla decise di aprire i propri stabilimenti di produzione lasciando così quei
produttori senza mercato che poi hanno chiuso i battenti. Dunque, questa strategia portò Barilla ad una
crescita significativa, però ciò non vuol dire che è la strategia migliore perché per altre imprese hanno
funzionato altre strategie.
La strategia di sviluppo del mercato poi, non sempre fa riferimento ad un punto di vista geografico, perché,
ad esempio, l’azienda che produce gli zaini Invicta non è nata per produrre zaini da spalla, ma anzi all’inizio
produceva zaini da montagna, da trekking, quindi c’è stato un cambiamento di mercato ma a livello di
tipologia di soggetto che acquista un prodotto.
La strategia di diversificazione può essere:
▹ Correlata, per cui ci si muove in un nuovo business mantenendo però un legame con il business
precedente; questo legame può riguardare la domanda, il canale distributivo, i processi produttivi
ecc. I vantaggi di una diversificazione correlata riguardano le economie di scala e di scopo.
▹ Conglomerale (o non correlata), per cui si sceglie un business diverso che si stacca completamente
dal business precedente (es. un panificio che diventa un’oreficeria). Questo perché talvolta,
attraverso l’analisi SWOT, si scorge un’occasione di business in un settore di cui non si ha conoscenza
che però potrebbe essere più redditizia, ma ciò non significa che si abbandona il business
precedente. La diversificazione conglomerale è utile per ottimizzare il rischio finanziario
complessivo del proprio portafoglio business per cui si fa riferimento al settore anticiclico, ossia quel
settore in cui ci sono business che non sono influenzati dal ciclo economico.
I motivi per cui scegliere una strategia di diversificazione sono:
- Mancanza di opportunità di crescita nel settore di origine
- Sfruttamento di risorse e competenze eccellenti al di fuori del settore di origine
- Utilizzazione di capacità in eccesso e ricerca di nuove opportunità (per cui potenzialmente si può
produrre di più rispetto alla normalità, quindi c’è una capacità produttiva in eccesso che poi viene
sfruttata in altro modo)
- Sfruttamento di economie di scopo
- Sviluppo di un mercato interno (per cui l’impresa pensa di produrre qualcosa che attualmente, per il
business originario, viene acquistato dall’esterno)
- Riduzione del rischio
- Aumento del potere di mercato dell’impresa
- Riconversione industriale (ad esempio, FIAT doveva dismettere uno stabilimento che produceva
motori per un’automobile uscita fuori produzione e allora ha modificato alcuni dettagli di questi
motori e li ha iniziati a vendere per delle specifiche caldaie)
Per quanto riguarda l’analisi dell’equilibrio finanziario del portafoglio prodotti viene utilizzata un’altra
matrice, la matrice BCG.

Questa matrice presenta due assi la cui combinazione forma quattro quadranti; l’asse verticale rappresenta
il tasso di crescita del mercato (ossia la tendenza di crescita di un dato mercato che si sta registrando),
mentre l’asse orizzontale rappresenta la quota di mercato relativa (ossia la quota di mercato di un’impresa
in relazione all’impresa concorrente più grande); entrambi possono essere alti o bassi. All’interno dei
quattro quadranti che vengono fuori, si creano questi contenitori di tipologie di prodotto dentro cui le
imprese devono inserire i propri prodotti. Per arrivare alla lettura complessiva di questa matrice bisogna
prima studiare singolarmente i quadranti che, a differenza della matrice di Ansoff, seguono un certo ordine:
▹ Prodotti QUESTION MARK: sono prodotti per i quali si ha una quota di mercato relativa bassa
(dunque l’impresa che offre questo prodotto è di piccole dimensioni), però si opera in un mercato
con tasso di crescita alto; l’interrogativo che ci si pone è se vale la pena investire in questo prodotto
con l’obiettivo di crescita, perché il mercato presenta più clienti però l’impresa rimane comunque
piccola, perciò si dovrebbero compiere degli investimenti notevoli. Da un punto di vista
economico-finanziario, i prodotti question mark hanno più uscite che entrate ed infatti generano un
disavanzo
▹ Prodotti STAR: sono prodotti per i quali un’impresa ha una quota di mercato relativa alta in un
mercato con grandi prospettive di crescita, dunque la situazione ideale per un’impresa. Da un punto
di vista economico-finanziario, i prodotti star registrano tante entrate, ma comunque si avranno
grandi investimenti continui visto che il mercato è in continua espansione, non si può rimanere
fermi altrimenti si avrebbe una perdita (se il mercato invece è fermo allora un’impresa può
permettersi di non fare nulla). I prodotti star sono quei prodotti che generano un futuro per
l’impresa perché portano grandissimi risultati, per cui non ci si pone la domanda se vale la pena
investire, lo si fa e basta. In aggiunta, i prodotti star sono prodotti che stanno tendenzialmente in
equilibrio, portando in pareggio le entrate e le uscite
▹ Prodotti CASH COW: sono i prodotti che fanno cassa, infatti si ha una quota di mercato relativa alta
in un mercato che si è assestato, nonostante stia leggermente diminuendo. Dato l’assestamento e la
continua vendita, le perdite diminuiscono in modo significativo, pertanto è sufficiente fare degli
investimenti soltanto per il mantenimento della posizione nel mercato. Le entrate così superano di
gran lunga le perdite e permettono di effettuare investimenti in prodotti question mark perché si è
creato un avanzo di ricchezza
▹ Prodotti DOG: sono prodotti per i quali si ha una quota di mercato relativa bassa in un mercato
fermo, che probabilmente potrebbe morire. L’impresa, di fronte ai prodotti dog, deve compiere una
strategia di exit, eliminando dunque quel prodotto dal proprio catalogo perché non ha senso tenere
un prodotto dog nella propria impresa. Da un punto di vista economico-finanziario le entrate e le
uscite sono veramente poche, ma dal punto di vista strategico non vale la pena continuarlo a tenere
nel proprio portafoglio prodotti
Prima riflessione sulla matrice nel suo insieme: da un punto di vista di impresa, è sano vedere almeno un
prodotto all’interno di ogni quadrante, perché con il primo l’impresa si mette in discussione, pensa ad un
futuro più lontano, con il secondo l’impresa si promuove sul mercato, si fa distinguere, il terzo rappresenta il
cuore pulsante di un’impresa, lo storico di se stessa, ciò che la fa stare in piedi. Se un’impresa poi non
possiede un prodotto dog, com’è possibile ciò? C’è sempre un ciclo, non si possono avere soltanto prodotti
star, com’è possibile che un’impresa non abbia prodotti che non vengono più venduti sul mercato? Deve
esserci, infatti l’impresa che inserisce un prodotto nel quarto quadrante, significa che si sta innovando,
accetta la presenza di questo. Nel momento in cui non decide di eliminare un prodotto dog, c’è la possibilità
che non ci sia un prodotto che sta entrando.
Seconda riflessione sulla matrice nel suo insieme: da un punto di vista economico-finanziario è necessario
che si abbia almeno un prodotto in ogni quadrante (anche se si può fare a meno dei prodotti dog), perché si
genera un equilibrio sia nel breve che nel medio-lungo periodo grazie ai prodotti star.
Terza riflessione sulla matrice nel suo insieme: tendenzialmente, un prodotto nasce question mark, se tutto
va bene passa a star, poi a cash cow ed infine, per forza di cose, passa ad essere dog. Potrebbe anche
verificarsi che un prodotto nasca question mark e che poi, secondo l’interrogativo che l’impresa si pone,
diventi direttamente dog perché decide di non investirci su.
Affinché un prodotto dog torni ad essere un prodotto star, devono presentarsi due eventi che combaciano:
- Il primo è che il mercato con un tasso di crescita basso improvvisamente si rianimi e quindi torni
una richiesta da parte dei clienti di quel prodotto (è molto raro però che ciò accada, di solito
avviene soltanto se il prodotto dog venga modificato sotto alcuni aspetti oppure si abbia necessità
di tornare ad utilizzare un dato prodotto per problemi che coinvolgono tutti)
- Il secondo è che l’impresa con una quota di mercato relativa bassa improvvisamente ne acquisisca
una alta (ad esempio, il principale concorrente chiude l’impresa e quindi si riesce ad acquisire una
quota di mercato relativa alta)
Prima di analizzare la strategia di integrazione, bisogna spiegare cosa sono la filiera produttiva e i costi
transazionali; la filiera produttiva è la sequenza di fasi che ci permette di arrivare al prodotto finale,
partendo dall’acquisizione della materia prima fino ad arrivare alla vendita del prodotto al cliente, mentre i
costi transazionali sono quei costi di uso del mercato, ossia le spese che l’impresa deve sostenere nel
momento in cui decide di realizzare una transazione con il mercato (es. i costi di fornitura dall’esterno del
prodotto o del semilavorato).
Dunque, l’integrazione è un’ulteriore strategia di corporate, la quale può essere sia verticale che orizzontale;
l’integrazione verticale può essere a monte o a valle, mentre l’integrazione orizzontale può essere per via
interna o esterna.
L’integrazione verticale consiste nel processo di internalizzazione sequenziale o verticale delle fasi della
filiera produttiva immediatamente collegate a quelle in cui già opera l’impresa – ad esempio, un’azienda che
si occupa della lavorazione di lastre in marmo potrebbe decidere di acquistare direttamente il blocco di
marmo senza dover acquistare le lastre da dei fornitori oppure potrebbe continuare a lavorare lastre in
marmo però, al posto di venderle ai negozi che fanno da intermediari, potrebbe aprire uno showroom
interno e venderle al cliente finale. Un’impresa che arriva a occuparsi di tutte le fasi della filiera produttiva
avrà un livello di integrazione massimo, mentre se si occupasse solamente di una fase della filiera allora
avrebbe un livello di integrazione minimo.
Con l’integrazione verticale a monte l’impresa inserisce nella propria catena produttiva una fase precedente
a quella attuale, dunque procedendo verso il mercato della fornitura; con l’integrazione verticale a valle
l’impresa inserisce nella propria catena produttiva una fase successiva a quella attuale, dunque procedendo
verso il mercato di sbocco.
L’integrazione orizzontale è l’espansione dell’attività dell’impresa con altre attività relative alla filiera
produttiva già esistente, dunque ci si occupa della stessa attività ma in scala più grande, non viene integrata
un’altra fase della filiera produttiva. Pertanto, non c’è una direzione (tipo a monte o a valle), ma ci sono due
modi attraverso cui intraprendere questa strategia, per via interna ed esterna.
L’integrazione orizzontale per via interna si basa sulla costituzione di nuovi impianti e nuove unità operative,
utilizzando risorse già presenti all’interno dell’impresa (ad esempio, l’impresa che si occupa di lavorazione
delle lastre in marmo decide di espandersi e acquista un capannone vuoto vicino a quello che già possiede,
investendo in nuovi macchinari e impianti affinché possa essere operativo e possa crescere internamente).
L’espansione per via interna permette anche di valorizzare il personale, dandogli così la possibilità di
svilupparsi e far crescere le proprie risorse intangibili. Inoltre, a livello di capacità produttiva, cresce il
quantitativo di prodotti che viene messo sul mercato; il rischio di mercato dunque è maggiore, perché se ci
si muove in un mercato con un tasso di crescita basso, allora potrebbero sorgere problemi come
un’eccessiva capacità produttiva per cui l’impresa deve eliminare qualche concorrente nel settore (ad
esempio, i clienti nel settore sono 100, l’impresa passa da produrre 20 a produrre 30, dunque deve togliere
quei 10 clienti ad un concorrente), mentre se il tasso di crescita del mercato è alto, il problema non si pone
(es. se l’impresa comunque passa da 20 a 30 mentre i clienti da 100 aumentano a 150, allora l’impresa non
deve preoccuparsi di togliere clienti a qualcun altro). Questo rischio, dunque, sta nell’accoglimento del
mercato di questa capacità produttiva in più.
Con l’integrazione orizzontale per via esterna invece, l’impresa può realizzare i propri obiettivi tramite
iniziative di fusione/acquisizione di altre imprese che si occupano della medesima attività (ad esempio,
l’impresa lapidea si fonde con o acquista un’altra impresa lapidea già esistente sul mercato). La via esterna
talvolta potrebbe causare attrito durante il processo di unione delle imprese tra il personale attuale e quello
che viene integrato; inoltre, durante il processo di integrazione, bisogna stare attenti a non far deperire le
risorse intangibili. A livello di capacità produttiva, a differenza della via interna, il quantitativo di prodotti
messo sul mercato non cambia, perché cambia soltanto il nome sotto il quale i prodotti vengono venduti, in
quanto l’impresa acquisita già li vendeva.
La via interna non necessariamente è la più costosa, perché ad esempio un’impresa che vorrebbe essere
acquisita da un’altra non sempre ha immediato bisogno di liquidità, dunque potrebbe chiedere più denaro.
Secondo una questione di tempistica, ad esempio, l’integrazione orizzontale è più breve rispetto a quella
verticale perché ci si trova in un contesto familiare, e non sconosciuto, però non esiste una strategia
migliore di un’altra perché ci sono molti fattori da considerare (es. non si riesce a trovare un’azienda da
acquisire esternamente). L’integrazione orizzontale rispetto a quella verticale corre un rischio minore perché
si possiedono già le risorse intangibili; comunque, tutti e due i tipi di integrazione hanno come beneficio la
crescita dell’impresa, la differenza sta, per esempio, in termini di quota di mercato (se ci si integra
orizzontalmente questa aumenta, mentre se ci si integra verticalmente c’è la possibilità che questa rimanga
la stessa, ciò che cresce è la dimensione interna, cosa che all’interno del settore potrebbe avere un impatto
maggiore).
Con l’integrazione verticale cresce il valore aggiunto – la differenza tra valori di input e output – dunque la
ricchezza prodotta dall’impresa, mentre con l’integrazione orizzontale aumentano le economie di scala, le
quali permettono una riduzione dei costi. Con l’adozione di una strategia di integrazione (principalmente
verticale ma anche orizzontale), si riescono ad alzare barriere all’entrata, ossia quegli ostacoli che l’impresa
che si trova in un determinato settore crea affinché non si crei nuova concorrenza. Inoltre, un processo di
integrazione – specialmente orizzontale – fa leva sulle economie di scala, infatti rappresentano un grosso
vantaggio di questo tipo di integrazione.
Pertanto, le economie di scala spiegano la crescita dell’impresa da un punto di vista economico e consistono
nella diminuzione del costo medio unitario all’aumentare della quantità prodotta.

Ad esempio, una piccola impresa che produce 2 ed ha un prezzo di vendita pari a 50 con costi medi unitari
pari a 40, ottiene un guadagno di 10 (50 – 40 = 10), mentre una grande impresa che produce 8 ed ha lo
stesso prezzo di vendita però con costi medi unitari pari a 15, ottiene un guadagno di 35 (50 – 15 = 35). Il
fenomeno delle economie di scala, dunque, ha un impatto incredibile sulle imprese perché, ad esempio, se
le imprese di cui sopra decidessero di fare una promozione mettendo il loro prodotto in sconto, quella
grande potrebbe farlo perché avrebbe comunque un guadagno, mentre quella piccola no perché andrebbe
in perdita.
Le economie di scala si dividono in interne ed esterne, e le prime possono essere tecniche o gestionali. Le
economie di scala esterne hanno origine da fattori esterni che si muovono all’infuori dell’impresa o anche
con i vari stakeholder, mentre quelle interne hanno origine da fattori interni all’impresa. Le economie di
scala interne di tipo gestionale hanno a che vedere con aspetti organizzativi/gestionali, fanno riferimento
alla diminuzione del costo medio unitario nel momento in cui, grazie all’aumento della dimensione di
impresa, si può godere di personale specializzato (significa più competenze, meno sbagli, più valore
all’impresa), mentre le economie di scala interne di tipo tecnico hanno a che fare con fattori legati alla
produzione in senso fisico/tecnico.
Le economie di scala interne possono essere ottenute da diversi fattori:
▹ Imperfetta divisibilità dei fattori – detta anche soglia minima di impiego – per cui al di sotto di una
soglia minima di impiego non si può andare; ad esempio, comparando due imprese (una grande e
una piccola), quella grande ha una segretaria che lavora 8 ore al giorno utilizzando a pieno il
computer, mentre quella piccola ha una segretaria che lavora 4 ore al giorno e che, dunque, non
utilizza il computer per metà del suo potenziale, però non si può comprare metà computer, perciò
c’è una soglia minima di acquisto sotto la quale non si può andare
▹ Relazione area-volume, per cui i costi crescono in relazione all’area mentre i benefici in relazione al
volume, ossia quando un’impresa cresce ovviamente i costi aumentano però lo fanno anche i
benefici, i ricavi; ad esempio, considerando la costruzione di una cisterna, si può notare come il
costo di fabbricazione di tale impianto dipenda dalla materia prima utilizzata che viene espressa in
euro al metro quadrato, mentre il suo rendimento dipende dal suo volume che viene espresso in
termini di euro al metro cubo
▹ Uso ripetitivo di una risorsa intangibile, per cui una determinata risorsa viene utilizzata
ripetutamente e senza limiti con una diminuzione dei costi aggiuntivi; è il caso, ad esempio, di un
brevetto o un marchio che comportano elevati costi di acquisizione o sviluppo ma che poi, con il
loro utilizzo, non comportano ulteriori costi di sfruttamento
▹ Sfruttamento del livello di impiego ottimale – in particolare della capacità produttiva – per cui, ad
esempio, c’è un determinato processo produttivo che necessita l’utilizzo di più macchinari disposti
in linea e aventi una capacità produttiva diversa; il macchinario A ha una capacità produttiva pari a
10, quello B pari a 20 e quello C pari a 50, se dunque la quantità massima per ottenere uno
sfruttamento ottimale di tutti e tre i macchinari fosse pari a 100, si avrebbe bisogno di 10
macchinari A, 5 macchinari B e 2 macchinari C; se però si dovessero produrre soltanto 80 prodotti
nasce un problema con il macchinario C dato che un macchinario soltanto produrrebbe troppo
poco, mentre due macchinari produrrebbero una quantità in eccesso; però bisogna dotarsi di due
macchinari nonostante l’eccesso di capacità produttiva (dato che il macchinario C produrrà 30
invece di 50). Per questo motivo un’impresa più grande riesce a sfruttare al meglio tutte le risorse
▹ Legge dei grandi numeri – o anche forme di autoassicurazione – per cui più un’impresa è grande,
più aumenta la quantità prodotta e di conseguenza più diminuiscono i costi medi unitari, riuscendo
ad attutire tutti i rischi. Ad esempio, prendiamo in considerazione due imprese vitivinicole di diverse
dimensioni; quella più grande ha vigne su più versanti di varie colline, mentre quella più piccola ha
più ettari sul versante di una sola collina; arriva un improvviso evento atmosferico che colpisce
soltanto una delle colline, l’impresa più piccola si trova in maggiore difficoltà rispetto a quella più
grande, la quale riesce ad attutire i danni causati da questo evento grazie alla capacità produttiva
delle altre vigne
Ad un certo punto però, le economie di scala non registrano più un trend di ribasso ma diventano quasi
parallele all’asse X – quindi della quantità prodotta – fino a risalire; questo fenomeno rappresenta le
diseconomie di scala, ossia l’aumento del costo medio unitario all’aumentare della quantità prodotta. Ciò
può accadere per moltissimi motivi, come, ad esempio, il raggiungimento di una dimensione d’impresa tale
che per il funzionamento di questa i processi siano diventati molto lenti e burocratizzati, oppure la
dimensione dell’impresa ha generato molteplici livelli gerarchici che hanno appesantito i processi del
funzionamento dell’impresa, o ancora un’eccessiva specializzazione del personale che porta all’aumento del
costo medio unitario dato che, nel lungo termine, il processo è diventato monotono. Di fronte alle
diseconomie di scala – che rappresentano un campanello d’allarme – le imprese devono capire che c’è
qualcosa deve essere modificato; ciò non significa che bisogna tornare a produrre una quantità minore,
bisogna soltanto pensare ad una riorganizzazione dell’impresa – ad esempio, passando ad un magazzino più
automatizzato oppure più grande. Le economie di scala sono un fenomeno assolutamente positivo a cui
però si deve fare molta attenzione perché si potrebbe arrivare alle diseconomie di scala. L’impresa, se ci
arriva, dovrebbe fermarsi e riflettere sul motivo per il quale si siano generate queste diseconomie andando
a risolvere oppure eliminare ciò che la ha causate.
Ci vengono allora in aiuto la DEM e la DOM.
La DEM, ossia la Dimensione Efficiente Minima, rappresenta la quantità minima ideale da raggiungere per

essere più efficienti possibili a livello di ottimizzazione delle economie di scala, raggiungendo i costi più bassi
in assoluto.
La DOM, ossia la Dimensione Ottima Minima, rappresenta la quantità massima che conviene produrre per
avere un utilizzo ottimale da un punto di vista di sfruttamento dei costi medi unitari.
Tra la DEM e la DOM c’è un tratto parallelo all’asse X in cui i costi medi unitari si mantengono il più basso in
assoluto, infatti in questo tratto si trova la quantità produttiva ideale per un’impresa tale da poter sfruttare
al massimo le economie di scala. L’ideale sarebbe conoscere questi due punti affinché si possano evitare
quei fattori che originano le diseconomie di scala. Da un punto di analisi dei costi, le economie di scala
funzionano nel momento in cui si mantiene lo stesso procedimento produttivo; nel caso delle imitazioni
invece, non si ottiene un beneficio nei costi di produzione, ma si tratta soltanto di un’operazione di
marketing per valorizzare il brand e non per sfruttare le economie di scala.
Le strategie competitive sono le strategie formulate con riferimento ai singoli ambiti di business in cui
l’impresa opera; in altre parole, le strategie competitive consistono nell’insieme di decisioni e azioni volte a
creare un vantaggio competitivo in uno specifico settore. Il vantaggio competitivo, dunque, è il risultato che
conduce l’impresa a occupare e mantenere una posizione favorevole nel mercato in cui si opera, e che
comporta una redditività stabilmente maggiore rispetto a quella degli altri competitors. Le risorse e le
competenze distintive di un’impresa sono da un lato il riferimento di base della strategia, l’orientamento
strategico di base, dall’altro sono l’oggetto primario della strategia. Le strategie competitive vanno alla
ricerca del vantaggio competitivo, che si traduce in un rafforzamento delle risorse e delle competenze;
questa ricerca avviene attraverso le strategie di leadership di costo, differenziazione, focalizzazione – che
sono quelle di base – più varie strategie di collaborazione. In prima battuta si potrebbe dire che sono una
indipendente dall’altra, ma invece alcune possono essere abbinate tra loro secondo determinate condizioni:
▹ Leadership di costo: con questa strategia, l’impresa dispone di un vantaggio competitivo in quanto
riesce ad operare a condizioni di costo tali da poter applicare prezzi inferiori a quelli della
concorrenza, per cui i clienti sceglieranno quel prodotto dato il costo minore degli altri. Lo
strumento più efficace è quello di utilizzare al meglio le economie di scala. Questa strategia poi è
strettamente correlata alla dimensione dell’impresa, infatti una piccola impresa difficilmente riesce
ad attuarla perché dovrebbe ridurre dei costi come, ad esempio, lo stipendio del personale oppure
la qualità della materia prima del prodotto. Di conseguenza, questa strategia è tipica delle grandi
imprese (ad esempio, i prodotti del fast fashion oppure quelli a marchio commerciale fanno leva
sulla dimensione dell’impresa)
▹ Differenziazione: è un po’ il contrario della prima strategia, perché l’impresa compete sul mercato
realizzando un’offerta con una o più caratteristiche di unicità o superiorità secondo il cliente,
dunque si rende il proprio prodotto più attraente rispetto a quelli dei concorrenti da un punto di
vista tangibile (es. colore del prodotto, forma) oppure intangibile (es. brand). Questa strategia può
essere adottata sia da grandi che da piccole imprese; inoltre, non è prettamente alternativa così
come la prima strategia, infatti possono essere affiancate (ad esempio, un’impresa adotta una
strategia di leadership di costo affiancandone una di differenziazione); un esempio di
differenziazione può essere la classificazione regionale “a stelle” delle imprese alberghiere
▹ Focalizzazione: con questa strategia l’impresa ricerca il vantaggio competitivo – di costo o di
differenziazione – in uno specifico segmento di mercato, per cui si può servire una specifica
categoria di clienti, oppure ci si può concentrare su uno o pochi prodotti, o ancora si possono
distribuire i prodotti su un’area molto limitata ecc. Se ci si rivolge ad una specifica categoria di
clienti, allora si potrebbe parlare di strategie di nicchia – quel mercato particolarmente piccolo –
intese come strategie di focalizzazione con differenziazione, perché l’impresa si rivolge ad una
nicchia di mercato con un’offerta che si differenzia significativamente dalle altre. Pertanto, l’impresa
deve far di tutto per mantenere la sua posizione nella nicchia di mercato poiché una perdita di
alcuni clienti equivale invece ad una grande perdita in quanto questi sono già pochi
▹ Strategie di collaborazione: esse non sono da ricercare al di fuori dell’arena competitiva, perché
infatti un’impresa potrebbe collaborare con alcune imprese concorrenti per raggiungere un
determinato scopo (es. collaborazione tra imprese concorrenti per acquistare la materia prima ad
un determinato prezzo con agevolazioni). Dall’altro lato possono anche essere utili per la
comunicazione con l’esterno, ad esempio un singolo albergo, per farsi conoscere e promuovere se
stesso, vorrebbe partecipare alle varie fiere turistiche che vengono organizzate anche in altri Paesi;
questo però non ha abbastanza risorse da poterlo fare e allora partecipa ad un gruppo che, potendo
recarsi alle fiere, promuove l’albergo come destinazione turistica.
Per poter studiare l’ambiente competitivo – e, dunque, il settore – si utilizza il Modello delle cinque forze
competitive di Porter, attraverso il quale si arriva a comprendere meglio il settore al quale si appartiene.
1) Intensità della concorrenza nel settore: uno degli strumenti più utilizzati per studiarla è la curva di
Lorenz, la quale studia il grado di concentrazione delle imprese all’interno del settore e ci dice se
magari c’è un’impresa che concentra in sé la più grande parte di mercato. Sull’asse delle ascisse
troviamo le imprese del settore – partendo da quelle più piccole a quelle più grandi, mentre su
quello delle ordinate troviamo il fatturato. Innanzitutto, si disegna la bisettrice (che rappresenta la
retta di equidistribuzione) che sta a significare che tutte le imprese hanno la stessa fetta di mercato.
La curva di Lorenz viene poi costruita a seconda del fatturato di ogni impresa fino ad arrivare a
quella più grande; più questa è distante dalla retta di equidistribuzione, più il settore, dunque il
mercato, è particolarmente concentrato in un’impresa, mentre più è vicina alla retta, più la
competizione è fluida e libera. Un altro modo per studiare l’intensità della concorrenza nel settore è
l’analisi delle barriere all’uscita, ossia quegli ostacoli che rendono difficile ad un’impresa
attualmente presente nel settore di uscire dal mercato, dunque di chiudere la propria attività.
Un’impresa che vuole uscire dal settore ma non ci riesce crea di fatto delle distorsioni nel mercato,
andando ad intaccare le normali e sane dinamiche competitive; questo accade perché l’impresa che
vuole uscire non persegue più la finalità di crescita come le altre imprese, perciò metterà in atto
strategie completamente diverse da quelle delle altre imprese (ad esempio, l’impresa decide di
vendere tutte le rimanenze di magazzino ad un prezzo altamente ribassato o addirittura sottocosto,
provocando così una maggiore difficoltà per le altre imprese perché vorrebbero vendere e
continuare a vendere nel futuro quel prodotto al normale prezzo di vendita). I fattori d’origine di
questa difficoltà ad uscire sono l’idiosincraticità degli impianti (ossia la difficoltà nel
dismettere/vendere i propri impianti, e ciò causa distorsione perché l’impresa aspetta che qualcuno
compri questi impianti o il loro smantellamento), le interrelazioni con altri business dell’impresa
stessa (ossia un’impresa che opera su più business vorrebbe chiuderne uno i cui output però sono
fattori di input di uno degli altri business), l’intervento di attori istituzionali (ossia l’intervento da
parte dello Stato o della Regione quando l’impatto della chiusura di un’impresa è rilevante da un
punto di vista socio-economico), oppure la riconversione del soggetto economico (per cui
un’impresa vorrebbe chiudere o riconvertire la sua attività però non lo fa o la ritarda perché il
soggetto economico – ossia l’imprenditore o colui che ha creato l’impresa – non saprebbe cos’altro
fare al di fuori di quella attività, perciò questo crea una distorsione nel mercato dovuta a ragioni
personali e rende anche difficile l’apertura di nuove attività, infatti rappresenta anche una barriera
all’entrata).
2) Minaccia nuovi entranti nel settore: viene studiata tramite l’analisi delle barriere all’entrata, le quali
vengono create dalle imprese già presenti nel settore – mentre le barriere all’uscita sono già
presenti nel settore. Dunque, le barriere all’entrata sono degli ostacoli che rendono più difficile
l’ingresso nel settore e possono essere istituzionali (ossia che derivano e vengono imposte dalla
legge), strutturali (ossia legate alla struttura delle imprese e possono essere dovute alle economie
di scala, di esperienza – riduzione dei costi medi unitari per effetto dell’apprendimento e
dell’accumulo di esperienza – e di scopo – riduzione dei costi medi unitari dovuta ad una
produzione congiunta di più beni nell’ambito dello stesso processo produttivo – oppure a dei
vantaggi di costo assoluto – ossia vantaggi che l’impresa già conosciuta nel settore ottiene dai
fornitori in termini di prezzi – o ancora a delle condizioni di accesso ai canali di distribuzione e
fornitura – ossia un’impresa new entry potrebbe trovare difficoltà nell’entrare in determinati canali)
ed infine strategiche (ossia a seconda delle strategie che un’impresa ha attuato, risultano degli
effetti specifici – ad esempio una strategia di diversificazione permette di affrontare l’entrata di una
nuova impresa anche a livello economico, grazie alla redditività di altri business, oppure una
strategia di differenziazione adottata da molte imprese nel settore rende molto difficile l’entrata di
una nuova impresa, anche se ciò non è impossibile)
3) Competizione indiretta da prodotti o servizi sostitutivi: si va a studiare chi, al di fuori del settore,
potrebbe influenzare la vendita dei prodotti di un’impresa, dunque chi potrebbe produrre un
prodotto sostitutivo a quello che viene prodotto dalla nostra impresa. Infatti, per un’impresa è
limitante pensare che esista soltanto la concorrenza nello stesso settore, può esserci anche in altri
settori ed è il caso di un’impresa lapidea che soffrì un periodo di crisi perché un’impresa di
ceramiche le portò via quote di mercato grazie alla vendita del gres porcellanato, simile al marmo
ma con un prezzo molto ridotto e una manutenzione più facile. L’elasticità incrociata della domanda
è uno strumento di analisi che ci permette di capire se l’impresa è in potenziale concorrenza con il
prodotto di un’impresa di un altro settore facendo il rapporto tra variazione della quantità venduta
e variazioni sul prezzo del prodotto concorrente; se il risultato è positivo allora quel prodotto o
servizio potrebbero essere sostitutivi. Perciò, si allargano i confini del settore in quanto vengono
incluse nell’arena competitiva tutte quelle imprese che potrebbero fare concorrenza indiretta. Un
secondo strumento di analisi è un modello di mappatura dei raggruppamenti strategici, attraverso
l’individuazione dei fattori di omogeneità proposto da Abell, il quale si basa su cinque variabili:
gruppi di clienti (ossia l’impresa potenziale concorrente indiretto serve i nostri stessi clienti?),
funzioni d’uso (ossia ciò che produce l’impresa potenziale concorrente indiretto risponde alla nostra
stessa funzione d’uso?), tecnologie utilizzate (ossia l’impresa potenziale competitor utilizza la nostra
stessa tecnologia?), estensione geografica (ossia l’impresa potenziale concorrente si rivolge al
nostro stesso mercato da un punto di vista geografico?) ed infine ampiezza verticale delle attività
svolte (ossia l’impresa potenziale competitor ha adottato una strategia di integrazione verticale a
monte o a valle?)
4) Potere contrattuale dei fornitori: si va a studiare la concorrenza attraverso il potere contrattuale
detenuto dai fornitori
5) Potere contrattuale degli acquirenti: si va a studiare la concorrenza attraverso il potere contrattuale
detenuto dagli acquirenti
Il potere contrattuale viene influenzato da molti fattori come, ad esempio, la concentrazione dei fornitori e
loro dimensione, il rilievo economico e strategico, la capacità dei fornitori o acquirenti di integrarsi
verticalmente, il livello dei costi di conversione, l’esistenza di prodotti sostitutivi, la trasparenza del mercato
ecc.
Oltre al modello delle cinque forze competitive di Porter, ci sono altre due forze che si aggiungono ossia:
▹ L’intensità dell’azione degli stakeholder esterni, i quali possono influenzare moltissimo la
concorrenza
▹ L’integrazione con imprese complementari rispetto alla domanda (tipica del settore turistico), per
cui la competizione viene modificata sostanzialmente però non si tratta di competizione indiretta
perché le imprese sono complementari e non sostitutive.
Focalizzandoci sull’internazionalizzazione, il suo assetto strategico scaturisce dalla combinazione di due
variabili che andranno a formare le macrocategorie dei processi di internazionalizzazione: la prima variabile
è il grado di concentrazione o dispersione geografica delle attività, la seconda invece è il livello di
coordinamento delle attività. Dunque, l’impresa deve decidere quali attività svolgere in modo concentrato
(ossia in un solo paese che può essere quello di origine o un paese estero) e quali realizzare in modo
disperso (ossia in ogni paese in cui è presente). Inoltre, la complessità del coordinamento di dette attività
può essere elevata o bassa, perché ci sono alcuni processi che necessitano un coordinamento più elevato o
più basso. Prima di vedere i vari processi però, bisogna prima capire cos’è la catena del valore; questa è
l’insieme delle azioni operate da un'organizzazione per la realizzazione di servizi o prodotti con l'obiettivo di
creare valore sia per il mercato che per l'organizzazione stessa.
Dalla combinazione di queste variabili si vengono a formare quattro assetti che seguono un certo ordine:
1) Attività nel paese d’origine e vendita all’estero mediante esportazione: l’intera catena del valore
viene realizzata nel paese d’origine ad eccezione del marketing e delle vendite che si disperdono nei
vari mercati/paesi attraverso l’esportazione. Questo processo rappresenta la classica prima via
d’internazionalizzazione ed è più frequentemente adottato da piccole e medie imprese.
2) Replicazione della catena del valore in ogni paese estero: la catena del valore viene ricostruita in
ogni paese in cui l’impresa è presente, e in questo modo ogni sede estera possiede ampia
autonomia per adattarsi alle condizioni di mercato e ambientali del paese ospite. Maggiore è la
replicazione della catena del valore, minore è l’esigenza di coordinamento a livello internazionale.
3) Delocalizzazione (concentrata) di una o più attività: una o più attività dell’impresa vengono
delocalizzate in un altro paese in modo concentrato, per cui, ad esempio, un’impresa potrebbe
avere sede legale e amministrativa nel paese d’origine e produzione, gestione dei dati e logistica
potrebbero avere sede in paesi esteri. Per questo motivo, il livello di coordinamento è elevato.
4) Network globale con attività concentrate: vengono combinate scelte di concentrazione (per attività
a monte) e scelte di dispersione (per attività a valle), con un necessario forte coordinamento a
livello internazionale. Infatti, questo processo è alla portata solo di grandi imprese.
Dal punto di vista di attività coinvolte, potrebbero nascere alcuni accordi e collaborazioni per rendere
possibile tutto ciò che possono essere:
▹ Accordi di natura tecnologica: hanno come obiettivo i trasferimenti di tecnologia oppure
l’integrazione verticale fra imprese complementari (es. cessione di licenze di brevetti e know how
non brevettato, alleanze di vario tipo ecc.)
▹ Accordi di natura produttiva: hanno come obiettivo la realizzazione di determinati prodotti, la
fornitura di servizi o, soprattutto, la realizzazione di opere complesse (es. coproduzioni e accordi di
subappalto e subfornitura)
▹ Accordi di marketing, distribuzione e assistenza: ossia accordi di tipo diverso (es. cessione di licenze
di marchi, semplici accordi di distribuzione, franchising, piggy back)
Le modalità di entrata nel mercato estero sono ricondotte solitamente a tre alternative di base:
▹ Ingresso in modo indiretto: si ricorre a intermediari – nazionali o esteri – a cui affidare sia le attività
commerciali in senso stretto – la vendita – sia le procedure legate alla gestione amministrativa della
vendita all’estero e alla logistica
▹ Ingresso attraverso accordi con partner esteri: si realizzano collaborazioni con soggetti locali, come
cessioni di licenze, contratti di franchising o altro, per cui ci si basa sulla complementarità fra i
partner; solitamente, infatti, l’impresa locale dispone di maggiore conoscenza del mercato, relazioni
privilegiate con i distributori, mentre l’impresa che vuole entrare nel mercato estero conferisce
prodotti, tecnologie ecc.
▹ Ingresso in modo diretto: l’impresa si impegna direttamente nelle attività commerciali con gradi
diversi di coinvolgimento che corrispondono al diverso controllo sul mercato
Quando si va a scegliere il paese estero in cui internazionalizzarsi, è molto importante analizzare i fattori di
attrattività di un territorio:
▹ Mercato: ad esempio, il tasso di crescita della domanda, oppure la dimensione qualitativa della
domanda, o ancora la prossimità di altri mercati
▹ Risorse umane: ad esempio, la dimensione e la qualità della forza lavoro, oppure la flessibilità sul
contratto di lavoro o sugli orari
▹ Infrastrutture: ci si chiede se c’è una connessione infrastrutturale sufficiente per portare avanti il
business, e bisogna considerare anche le reti di informazione e di ricerca, chiedendosi se sono
valide
▹ Tessuto economico: ci interessa sapere qual è l’economia di un dato paese estero, se questa è
florida, se si lavora bene, se le persone vivono bene affinché si possa portare l’impresa allo sviluppo
▹ Istituzioni politiche e pubbliche: ci si chiede se in quel paese la pubblica amministrazione colleghi le
imprese a livello pubblico, crei istanze
▹ Sistema normativo: ci si chiede se in quel paese sia chiaro, leggibile, stabile, perché magari si scorge
una possibilità di sviluppo in una determinata legge
▹ Qualità sociale e ambientale: ci si chiede se il paese estero abbia un buon tessuto socio-ambientale,
per potersi muovere liberamente e in sicurezza, godere di buona salute, stimolare la qualità del
benessere
▹ Immagine e reputazione: ci sono paesi che hanno una certa reputazione ed immagine
Questi fattori, dunque, influenzano molto il processo di internazionalizzazione, ma dipendono anche da
quale processo viene messo in atto.
Per quanto riguarda la distribuzione commerciale, essa ha diverse vie al cui interno ci si può muovere
differentemente. Queste vie sono dette canali, i quali possono essere diretti o indiretti:
▹ Canale diretto: si passa dall’impresa industriale direttamente al consumatore finale, dunque da chi
produce a che consuma. Il prodotto è finale quando è pronto per il consumo, mentre è finito
quando esce dall’impresa (ad esempio, il prodotto finale è la pasta che esce dalla Barilla ed è pronta
per l’uso, mentre prodotto finito è la farina venduta per produrre la pasta; se però la farina viene
venduta nei supermercati allora è anche prodotto finale)
▹ Canale indiretto breve: tra l’impresa industriale e il consumatore finale c’è un intermediario, ossia
l’impresa al dettaglio, ossia il negozio
▹ Canale indiretto lungo: tra l’impresa industriale e l’impresa al dettaglio c’è l’impresa all’ingrosso, che
dunque acquista dalla prima per rivendere alla seconda
Le imprese mirano all’accorciamento del canale in quanto più questo si allunga, più l’informazione viene
trasmessa lentamente e in modo diverso, venendo storpiata o per volontà o per difetto naturale
dell’informazione. Inoltre, più lungo è il canale, più margine si deve agli intermediari.
Per quanto riguarda gli intermediari, questi si suddividono in
Intermediari all’ingrosso:
▹ Grossisti tradizionali: si tratta di distributori all’ingrosso di piccola dimensione, i quali ricevono
l’ordine dall’impresa al dettaglio e organizzano la consegna dei prodotti presso i loro punti vendita o
magazzini, perciò vengono anche definiti grossisti a consegna – però questo tipo di grossista è
abbastanza in via d’estinzione
▹ Grossisti cash & carry: nascono diciamo come evoluzione di quello tradizionale, e si tratta di attori
che operano all’ingrosso attraverso punti vendita in cui possono accedere soltanto altri rivenditori.
La caratteristica peculiare di questa forma all’ingrosso è l’utilizzo della forma self-service, dunque
come se si trattasse di un’impresa al dettaglio (un esempio eclatante è il caso Metro Italia Cash and
Carry)
Intermediari al dettaglio:
▹ Dettaglio indipendente: si tratta di operatori che hanno la proprietà di un numero ridotto di punti
vendita, di piccola dimensione e solitamente a gestione familiare
▹ Dettaglio associato o Distribuzione Organizzata (DO): si tratta di associazioni attraverso le quali più
attori, che rimangono comunque indipendenti, decidono di gestire insieme alcune attività.
All’interno di questa categoria di operatori al dettaglio si distinguono le unioni volontarie, ossia
forme di dettaglio associato in cui l’iniziativa di gestione in comune è attribuibile ad un operatore
all’ingrosso che decide di coinvolgere più dettaglianti indipendenti (es. l’insegna distributiva
Despar), e gruppi d’acquisto, ossia forme aggregative che riguardano soltanto intermediari al
dettaglio, dai quali parte l’iniziativa imprenditoriale, e che decidono di cooperare tra di loro (es.
l’insegna distributiva Conad)
▹ Grande Distribuzione (GD): si tratta di imprese che gestiscono un numero elevato di punti vendita,
tutti riconducibili ad un unico soggetto proprietario (es. insegne distributive Esselunga, Carrefour,
Auchan)
▹ Distribuzione cooperativa: si tratta di operatori al dettaglio organizzati secondo le logiche della
cooperazione di consumo (es. insegna distributiva Coop)
Dettaglio organizzato, grande distribuzione e distribuzione cooperativa vengono identificati con l’acronimo
GDO, ossia Grande Distribuzione Organizzata.

Analisi economica

Quando si parla di analisi economica, molto importanti sono i ricavi – ossia le entrate, le quali sono
strettamente legate alla vendita – e i costi – ossia le spese, dunque le uscite, per svolgere l’attività aziendale
– e la loro differenza produce l’utile – quando i ricavi sono superiori ai costi – o le perdite – quando i costi
sono superiori ai ricavi.
I ricavi R (dunque quelli totali dell’impresa, mentre r se sono quelli unitari) sono dati da prezzo di vendita p
per quantità venduta q → R = p x q
Questo grafico presenta sull’asse delle ascisse la quantità – la dimensione quantitativa – mentre su quello
delle ordinate ci sono i ricavi – la dimensione economica. La retta che si viene a creare cresce in maniera
costante, dunque è direttamente proporzionale, e l’inclinazione, ossia il coefficiente angolare, dipende dal
prezzo di vendita. La retta è più vicina all’asse X se il prezzo di vendita è molto basso, mentre si avvicina
all’asse Y se è molto alto. Ad un certo punto però c’è una flessione della retta, perché i ricavi non continuano
a salire, in quanto vi sono molti fattori che li influenzano (un esempio sono i prodotti stagionali).
I costi invece sono da suddividere in due macrocategorie:
▹ Costi fissi: non variano al variare della quantità prodotta (es. affitto del capannone dove si svolge
l’attività)
▹ Costi variabili: variano al variare della quantità prodotta (es. il costo della materia prima)
La somma tra costi fissi e variabili costituisce i costi totali. Ci sono poi dei costi ibridi, con una componente
fissa e una variabile come, ad esempio, l’energia; questi costi ibridi si chiamano costi semifissi quando è
preponderante la variabile fissa, mentre si chiamano costi semivariabili quando accade il contrario. In
questo caso allora si riconducono i costi semifissi a quelli fissi e quelli semivariabili a quelli variabili,
spezzando così il costo e riconducendo le componenti alle due categorie principali.
I costi fissi sono uguali ai costi fissi → CF = CF

Questo grafico presenta la quantità sull’asse delle ascisse, mentre sull’asse delle ordinate i costi. I costi fissi
partono da quell’ammontare che equivale ai costi fissi e continuano così, infatti la retta è parallela all’asse X.
I costi fissi però variano, aumentano, e ciò dipende dalla capacità produttiva, non dalla quantità prodotta
(ad esempio, un uomo che possiede un chiosco decide di fare un investimento e ampliare la sua attività,
perciò i costi fissi aumentano così come la capacità produttiva, e i costi sono quelli indipendentemente dal
fatto che egli venda 0 oppure 100).
I costi variabili, invece, sono uguali ai costi variabili unitari per la quantità prodotta → CV = cvu x q

Questo grafico presenta sull’asse delle ascisse la quantità prodotta, mentre su quello delle ordinate
presenta i costi; la retta parte dall’origine – in quanto i costi variano al variare della quantità prodotta – e il
coefficiente angolare dei costi variabili unitari determina l’inclinazione di questa retta. Nella realtà, però,
non si tratta di una retta ma di una curva (doppia o tripla) che aumenta o diminuisce in alcuni intervalli a
seconda di tutti quei fenomeni come le economie o diseconomie di scala.
Invece, il break even point (punto di pareggio) è la quantità prodotta dall’impresa che permette di avere un
pareggio tra ricavi e costi.

Questo grafico presenta sull’asse delle ascisse la quantità, mentre su quello delle ordinate sia i ricavi che i
costi. Bisogna, dunque, inserire le rette di ricavi e costi fissi e variabili (quella dei costi variabili ha un
coefficiente angolare minore di quello dei ricavi perché altrimenti non si avrebbe guadagno); si sommano
poi i costi fissi e variabili, creando così la retta dei costi totali, che corrisponde alla retta dei costi variabili, la
quale però parte dalla retta dei costi fissi. Il punto d’intersezione tra le rette dei ricavi e dei costi totali lo si
porta giù e quello corrisponde al punto d’equilibrio. L’area dei guadagni è quell’area che si apre dal punto
d’equilibrio in poi. Se si apre a destra si tratta di guadagni, mentre se si apre a sinistra si tratta di perdite,
infatti i costi totali starebbero sopra ai ricavi.
Il punto di pareggio, dunque, è R = CT, ossia p x q = CF + CV, dunque p x q = CF + (cvu x q); spostiamo a
destra tutto ciò che contiene la q, e c’è un cambio di segno, infatti (p x q) – (cvu x q) = CF; bisogna isolare la
q, dunque scriviamo q x (p – cvu) = CF e, siccome dobbiamo avere soltanto la q a sinistra, dividiamo i due
membri per (p – cvu) e risulterà che Qe = CF / (p – cvu).
Il modello break even point è il modello di base dell’analisi economica, dunque il primo da fare, ma è anche
uno dei più importanti, nonostante abbia dei limiti che però non causano problemi se li conosciamo.
Innanzitutto, abbiamo considerato le versioni “semplificate” delle rette, senza tener conto delle situazioni
reali; però, costruire un grafico con le giuste variabili, creerebbe problemi perché si troverebbero vari punti
d’equilibrio e non uno soltanto. Un altro limite è la distinzione tra quantità prodotta (se pensiamo ai ricavi) e
quantità venduta (se pensiamo ai costi) quando si parla di prodotti tangibili; si ipotizza allora che queste
quantità siano uguali, mettendo così nel grafico una delle quantità e l’errore (ossia gli avanzi di magazzino)
che produce questa semplificazione viene aggiunto ai costi, infatti è meglio avere un avanzo di magazzino
piuttosto che avere la cosiddetta rottura di stock, ossia la situazione in cui si hanno meno prodotti rispetto
la quantità richiesta.
Dobbiamo allora analizzare il margine di sicurezza, che ci dice qual è la differenza tra capacità produttiva
massima producibile e vendibile e quantità d’equilibrio in termini di percentuale → MS = (Qx – Qe) / Qx

Questo indicatore è molto importante perché ci dice – dal momento in cui si inizia a ragionare sul lato
destro della quantità d’equilibrio – quanto può diminuire la quantità affinché non si vada in perdita. Il
margine di sicurezza è preferibile più alto, ma dipende da cosa si fa per aumentarlo. Quello più in alto in
assoluto è pari al 100%, che è possibile se la quantità d’equilibrio è pari a zero, cosa impossibile nel
momento in cui una persona fa crescere l’impresa perché ci sono dei costi da sostenere e bisogna assumersi
dei rischi, infatti è normale che in alcuni intervalli sia più preferibile un margine di sicurezza basso.
L’impresa è elastica se riesce a sopportare variazioni quantitative della produzione senza avere grandi
ripercussioni sui costi medi unitari; è flessibile se riesce a sopportare variazioni qualitative della produzione
senza avere grandi ripercussioni sui costi medi unitari.
Nel momento in cui un’impresa cresce, fa degli investimenti e, dunque, aumentano i costi fissi per forza di
cose, perciò ci si chiede se vale la pena crescere. In ciò ci viene in aiuto la leva operativa.

Sull’asse delle ascisse abbiamo la quantità prodotta/venduta, sull’asse delle ordinate abbiamo la dimensione
economica – dunque ricavi e costi. Nel piano aggiungiamo le rette dei ricavi, costi fissi, costi variabili e costi
totali, trovando poi il punto d’equilibrio. Nel momento in cui l’impresa decide di crescere, i costi fissi
aumenteranno, dunque nel piano si avrà una nuova retta CF; i costi variabili poi, grazie magari all’elasticità e
flessibilità dell’impresa, diminuiranno e ci sarà una nuova retta CV, dunque anche i costi totali
presenteranno un’altra retta. Si avrà successivamente un nuovo punto di equilibrio, che rispetto a quello
precedente si è spostato più a destra e ciò è un vincolo per l’impresa, generando anche una certa rigidità. Il
vantaggio però sta nell’area dei guadagni che è diventata più ampia, avendo un effetto leva, per cui per la
quantità prodotta/venduta si avrà un margine di guadagno superiore; attenzione però perché anche il
margine di rischio è aumentato, quindi le perdite sarebbero maggiori ma questo è normale in un processo di
crescita aziendale. In questo caso allora, è conveniente per un’impresa l’indebitamento di fronte ad un
maggiore investimento? Secondo la leva finanziaria, è conveniente fino ad un certo punto, ossia quando la
redditività dell’investimento è maggiore al costo di provvista del denaro – dunque gli oneri finanziari, i debiti
– perciò si deve avere uno spread (differenza) positivo, e fintanto che è positivo allora gli investimenti
possono essere fatti. Raddoppiando gli investimenti, il rischio aumenta e allora la banca si protegge alzando
gli interessi. Questo processo non può essere fatto all’infinito, perché ad un certo punto gli oneri finanziari
diventeranno maggiori della redditività, infatti la leva finanziaria ci dice che l’investimento è conveniente
fino a che lo spread sia positivo.
Per quanto riguarda le scelte aziendali di tipo operativo che hanno effetto sul breve periodo troviamo il
margine di contribuzione (se ragioniamo solo sui ricavi) e il confronto operativo (se ragioniamo su ricavi e
costi). Il margine di contribuzione è → MC = R – CV che, se espresso in termini unitari è MC = p – CVu, e ci
dice qual è la quantità economica disponibile dopo aver coperto i costi variabili dato un certo ricavo,
dunque serve per coprire i costi fissi e per vedere se rimane un guadagno. Il margine di contribuzione viene
utilizzato in condizioni straordinarie come, ad esempio, un cliente che chiede uno sconto su un certo
prodotto e, dunque, bisogna capire fino a quale adeguamento del prezzo di vendita si può arrivare. È una
questione molto frequente all’interno delle imprese, e se risulta positivo allora si può accettare, se è
negativo no. Nel caso del confronto operativo invece, ci si occupa di decisioni d’impresa nel breve periodo, i
cui effetti modificano l’impresa dall’oggi al domani, dunque sono immediati. I tipici problemi sono:
▹ Make or buy: è la scelta di produrre un prodotto o effettuare un servizio internamente oppure di
acquistarli dall’esterno
▹ Fare o non fare: è la scelta di continuare a fare oppure no un certo prodotto o servizio
Per quanto riguarda ricavi e costi, si segue una logica differenziale, facendo un elenco di ricavi e costi non
differenziali – che, dunque, non cambiano al variare dell’alternativa che si sceglie e perciò non vengono
presi in considerazione perché non producono né un delta positivo né un delta negativo, dunque non
incidono sulla decisione da prendere – e ricavi e costi differenziali – che, dunque, cambiano a seconda
dell’alternativa che si sceglie e perciò si prendono in considerazione. I ricavi e costi differenziali possono
essere cessanti (che non si hanno più) o sorgenti (che sorgono). Fatto ciò, bisogna raggruppare da una parte
i costi cessanti e i ricavi sorgenti – che hanno un effetto positivo sul reddito – e dall’altra i costi sorgenti e i
ricavi cessanti – che hanno un effetto negativo. Si sommano e, se il risultato è positivo, allora
quell’alternativa è da approvare perché migliora il risultato economico, se è negativo, allora quell’alternativa
è da scartare. L’alternativa alla logica differenziale è la logica a totali, per cui si sommano costi e ricavi totali
delle due alternative e il risultato ci dirà quale è quella migliore; però, con questo tipo di logica, non viene
evidenziato qual è il numero che ha effettuato un cambiamento. Finora però abbiamo preso in
considerazione le variabili quantificabili – ossia con valore economico – ma ci sono anche delle variabili
intangibili che potrebbero incidere sulla scelta come il valore di economicità, la qualità, la tempestività,
elasticità e flessibilità dei sistemi produttivi, o anche le conoscenze e le competenze. Non esiste una
decisione giusta, però esiste la decisione adatta per l’impresa in quel momento e in quel contesto.

Investimenti industriali

Gli investimenti industriali vengono definiti da quattro caratteristiche fondamentali:


▹ Rilevante esborso di denaro: ossia l’investimento da parte dell’impresa di un capitale
necessariamente rilevante per avere un ↓
▹ Ritorno economico nel futuro: in quanto l’investimento non è fine a se stesso
▹ Assunzione di un rischio: il quale c’è per definizione
▹ Ritorno dell’investimento attraverso l’output dell’investimento stesso: dunque, è investimento
industriale quello che ci permette di avere delle risorse che produrranno reddito, ed è una
caratteristica molto importante che lo fa differire da altri tipi di investimento
Esempi di investimento industriale possono essere:
- L’acquisto di nuovi impianti, in quanto ci sono un rilevante esborso di denaro, un futuro ritorno
economico, il rischio che è intrinseco nel lungo periodo, ed infine il ritorno dell’investimento grazie
alla vendita dell’output dell’impianto
- L’acquisto di un pacchetto lezioni per un aggiornamento professionale dei dipendenti (nonostante
sia intangibile) perché ci sono un rilevante esborso di denaro, un ritorno economico futuro – in
quanto, mettendo in pratica le nuove conoscenze, porteranno l’azienda ad un livello maggiore –,
rischi multipli – come, ad esempio, la richiesta di uno stipendio maggiore che, se non viene
esaudita, potrebbe portare alle dimissioni del dipendente – ed infine il ritorno dell’investimento
grazie ad una maggiore produttività
La collocazione delle entrate e delle uscite nel tempo permette di classificare gli investimenti secondo
quattro diversi tipi che sono CIPO, CICO, PIPO, PICO, e la linea centrale è lo spartiacque temporale tra fase di
input e di output:
▹ CIPO, Continuous Input Point Output: è caratterizzato da una successione di uscite finanziarie (input)
ed un’unica entrata finanziaria (output); ad esempio, un investimento CIPO può essere
l’assicurazione sulla vita, per cui si paga una certa somma di denaro per un lungo arco di tempo per
poi ricevere l’intera somma nel futuro. Perciò, non si tratta di investimento industriale
▹ CICO, Continuous Input Continuous Output: è caratterizzato da una successione di uscite ed entrate
finanziarie; ad esempio, un investimento CICO può essere la pensione, per cui paghiamo una certa
somma di denaro nel tempo per ottenerla indietro non in un unico momento, ma per un certo
periodo di tempo. Perciò, non si tratta di investimento industriale
▹ PIPO, Point Input Point Output: è caratterizzato da un’unica uscita finanziaria e un’unica entrata
finanziaria; ad esempio, un investimento PIPO può essere un investimento in borsa, ossia un
investimento finanziario puro. Perciò, non si tratta di investimenti industriali
▹ PICO, Point Input Continuous Output: è caratterizzato da un’unica uscita finanziaria alla quale segue
un flusso di entrate finanziarie per tutta la vita dell’investimento; l’investimento PICO è tipico delle
imprese industriali e può essere, ad esempio, l’acquisto e l’impiego di impianti. Perciò, si tratta di
investimenti industriali
Per quanto riguarda la convenienza degli investimenti industriali, esistono due tipi di modelli di valutazione:
▹ I metodi aritmetici, i quali non tengono conto del fattore tempo e quindi non attribuiscono
importanza al fatto che un flusso in entrata o in uscita venga generato nel primo, secondo, terzo
ecc. anno di vita dell’investimento, infatti non c’è differenza tra oggi e domani, perciò sono
assolutamente riduttivi
▹ I metodi finanziari, i quali, al contrario, tengono conto del fattore tempo, considerando il “costo di
trasporto del denaro nel tempo”, ossia il fatto che il valore del denaro cambia nel tempo (per effetto
dell’inflazione)
Il calcolo della convenienza economica ad investire viene eseguito a partire dal principio di base, attraverso il
quale un investimento si giudica conveniente se il costo dell’investimento è minore della ricchezza che
produrrà, che equivale a dire – costo dell’investimento + ricchezza prodotta > 0.
Bisogna poi individuare le variabili di input, che sono quattro, ossia investimento, vita utile, tasso di
attualizzazione e disponibilità.
La prima variabile di input è l’investimento I, ed è forse la variabile più facile da trovare, perché salta fuori
partendo dal costo base dell’investimento. Per ogni variabile avremo dei valori di rettifica, i quali possono
aumentare o diminuire quel dato. Nel caso di questa variabile, abbiamo quattro principali valori di rettifica
che sono:
▹ - eventuale contributo a fondo perduto erogato contestualmente all’investimento, ossia una certa
somma di denaro che ci viene erogata al momento dell’investimento senza doverla restituire, infatti
è un costo che dobbiamo sottrarre a quello dell’investimento in quanto non dobbiamo sostenerlo
▹ + eventuali costi accessori, ossia quei costi aggiuntivi che arricchiscono l’investimento, infatti
dobbiamo sommarli al costo dell’investimento
▹ - eventuale valore residuo, ossia una certa somma di denaro che ci viene erogata quando
sostituiamo un impianto obsoleto con uno nuovo, infatti questo costo viene sottratto a quello
dell’investimento
▹ + eventuale capitale d’esercizio, ossia una possibile spesa aggiuntiva che l’impresa sostiene per
dotarsi di una risorsa in più che può essere funzionale all’investimento stesso (es. kit di parti di
ricambio per un impianto). Non sono costi accessori – i quali non tornano più indietro – perché ad
un certo punto producono un flusso di cassa positivo, il quale sarebbe negativo se non avessimo
sostenuto questa spesa; come effetto di reddito futuro, infatti, producono un risparmio di costo a
differenza dei costi accessori. Perciò, questo capitale d’esercizio va aggiunto al costo
dell’investimento
La seconda variabile di input è la vita utile t, la quale è la stima degli anni per i quali si prevede l’utilizzo
dell’investimento. Prima di tutto, si stimano tre vite:
▹ Vita fisica, ossia la vita stimata di funzionamento dell’investimento, la quale salta fuori dalle proprie
conoscenze pregresse oppure dal fornitore
▹ Vita tecnologica, ossia la vita stimata di efficacia dell’investimento da un punto di vista tecnologico
prima che diventi obsoleto
▹ Vita mercatistica, ossia la stima degli anni in cui l’output dell’investimento avrà mercato, la quale
salta fuori dagli esperti di mercato e ci interessa perché oltre quegli anni l’investimento non
produrrà ricchezza
Come vita utile si sceglie quella più breve, la quale rappresenterà la durata dell’investimento che si andrà a
considerare.
La terza variabile di input è il tasso di attualizzazione i, il quale rappresenta il costo di trasporto del denaro
nel tempo e porta sullo stesso metro monetario i flussi di cassa per poterli confrontare come se si
verificassero tutti nello stesso momento (ciò si chiama operazione di sconto). Esso è una percentuale che
viene utilizzata per spiegare il valore di denaro che il tempo porta via. Le sue componenti sono:
▹ + costo di provvista del denaro, ossia gli oneri finanziari erogati dalla banca, la quale richiede un
certo tasso di interessi (es. tasso di interessi pari all’8%, significa che l’8% del futuro reddito che
verrà guadagnato dovrà essere restituito alla banca)
▹ + tasso previsto d’inflazione, ossia la perdita del valore d’acquisto del denaro nel tempo, la quale
può essere trovata grazie alle previsioni ufficiali di ISTAT o EUROSTAT
▹ + rischio dell’investimento, ossia la componente più soggettiva in quanto la percezione del rischio
varia da persona a persona e dipende dalle informazioni che si hanno. Vi sono vari metodi per
stimare il rischio; o si dà una percentuale di rischio standard per tutti gli investimenti, o si conosce
molto bene il settore e l’investimento che si sta facendo lo si sta reiterando già da un po’ di tempo,
per cui, in base alle esperienze precedenti, si dà un tasso di rischio, oppure si cerca di entrare in un
nuovo mercato di cui non si hanno conoscenze ma di cui ci si informa, facendosi un’idea del
possibile rischio, arrotondandolo per difetto o per eccesso a seconda della propria predisposizione
al rischio
▹ - eventuale contributo in conto interessi, il quale è un possibile valore di rettifica che corrisponde al
contributo avente impatto sugli interessi e si manifesta solitamente in uno sconto sul costo di
provvista del denaro
Il tasso di attualizzazione viene sottratto a ciascuna ricchezza prodotta in futuro durante la vita utile, e il
risultato viene confrontato con il costo dell’investimento nel tempo 0. Per questa operazione vengono
utilizzate le tavole di attualizzazione; la prima viene utilizzata per attualizzare la disponibilità di ogni singolo
anno di vita utile, la seconda viene utilizzata per attualizzare la disponibilità totale degli anni di vita utile.
La quarta ed ultima variabile di input è la disponibilità D – ossia la ricchezza economica che verrà prodotta –
la quale segue un principio di cassa, secondo il quale bisogna inserire la stima dei ricavi e costi futuri
andando a considerare le effettive entrate e uscite. Essa viene espressa in termini annui a seconda della vita
utile dell’investimento. Dalla disponibilità sono esclusi due costi “anomali”, ossia:
- Ammortamenti: costo dell’investimento che viene distribuito negli anni di vita utile, il quale (da un
punto di vista fiscale) viene inserito nel tempo 0, per questo motivo viene escluso, perché altrimenti
sarebbe come se lo si contasse due volte
- Oneri finanziari: costo di provvista del denaro, il quale viene escluso in quanto è già incluso nel
tasso di attualizzazione, dunque sarebbe come se venisse contato due volte. Nel caso si dovessero
utilizzare i metodi aritmetici, gli oneri finanziari sono da includere perché non c’è il tasso di
attualizzazione
Dunque, la disponibilità D è uguale alla differenza tra ricavi e costi d’esercizio (esclusi ammortamenti ed
oneri finanziari), con valori di rettifica che sono:
▹ + eventuale contributo a fondo perduto erogato in un momento futuro, ossia quel contributo
erogato in un certo anno di vita utile per ovviare problematiche come, ad esempio, contributi
erogati nel primo anno di vita utile di un investimento ad un’impresa che, magari, nel secondo anno
aveva già fallito e chiuso l’attività. Dunque, è da aggiungere alla disponibilità
▹ + eventuale valore residuo dell’investimento (Dn), ossia la stima di un flusso di cassa positivo nel
futuro dovuto magari alla vendita dell’impianto; perciò, è da aggiungere alla disponibilità nell’ultimo
anno di vita utile
▹ + recupero eventuale capitale d’esercizio (Dn), il quale viene recuperato nell’ultimo anno di vita utile
di default perché lo avremo sicuramente usato oppure lo venderemo insieme all’impianto

Modelli di valutazione della convenienza degli investimenti industriali all’interno dei metodi finanziari

I modelli di valutazione all’interno dei metodi finanziari sono tre e ciascuno risponde ad un criterio:
▹ EVA: (più eventuale IP – Indice di Profittabilità), ossia Eccesso di Valore Attualizzato, è il modello
base perché la sua formula è - I + Da (ossia disponibilità futura attualizzata) – così come il principio
di base, infatti ci dice che l’investimento è conveniente se i costi sostenuti per la sua realizzazione
sono inferiori alla ricchezza che questo produrrà; si basa perciò su un criterio di economicità
▹ TIR: ossia Tasso Interno di Redditività, risulta dalla stessa formula dell’EVA posta però uguale a zero,
con l’unica differenza che l’incognita è il tasso di attualizzazione; si basa perciò su un criterio di
redditività; la sua formula è a = I/D
▹ Payback Period: esprime il momento in cui le disponibilità future, generate dall’output
dell’investimento, eguagliano il costo iniziale dell’investimento stesso; si basa perciò su un criterio di
liquidità; si trova tramite una tabella che rappresenti i flussi di cassa e, in seguito, tramite una
proporzione
Non esiste un criterio più importante di un altro, dipende dall’impresa e dalla situazione, dal contesto in cui
si trova. Talvolta accade che vengano utilizzati tutti e tre i modelli, i quali osservano aspetti diversi dello
stesso investimento e, dunque, potrebbero dare risultati diversi. Infatti, questi modelli presentano dei limiti:
▹ Obiettivo dei modelli vs obiettivo delle decisioni aziendali: i modelli non tengono conto di importanti
aspetti dell’impresa e il loro obiettivo non sempre corrisponde a quello delle decisioni aziendali,
anche perché ricercano il miglior risultato economico, perciò ↓
▹ Sfuggono aspetti qualitativi: perché tutto ciò che non è quantificabile non lo si vede in questi
modelli
▹ Trappola dei numeri: in quanto accade una sorta di innamoramento da numeri su cui bene o male ci
cascano un po’ tutti, perché con un numero è facile prendere una decisione, nonostante l’incertezza
delle stime, ossia l’incertezza di cosa ci sia dietro a quel risultato
▹ Possibile circolarità del ragionamento: le alternative da sottoporre alla propria attenzione vengono
preselezionate in base alla ricchezza futura, la quale prima deve essere stimata anche se non se ne
esce perché come si fa a calcolare una ricchezza futura senza dati di base? Allora si selezionano
alcune alternative, si fanno dei calcoli in base ad esse e poi si prende una decisione
Ha senso allora utilizzare questi modelli di valutazione visto che presentano tutti questi limiti? Sì, ma
bisogna anche tener conto del famoso intuito imprenditoriale, il quale prende in considerazione tutti quegli
aspetti inquantificabili che rappresentano anche un limite. L’intuito imprenditoriale infatti farà prendere una
scelta diversa in quanto è più ricco di conoscenze.

Potrebbero piacerti anche