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Vediamo ancora una volta che si arriva agli stessi risultati, ma non è un caso perché ogni euro di
ricavo deve essere distribuito o all’azienda o ai dipendenti. Dunque, la relazione tra produzione, spesa
e reddito viene definita identità, dato che sono uguali. È il principio alla base della macroeconomia.
Produzione = Spesa = Reddito
- Flussi circolari
I fattori di produzione sono gli input di tutto il processo e si dividono in due categorie fondamentali:
capitale e lavoro. Il capitale è composito, ma assumiamo ora che sia solo fisico. Dunque, a pensarci
bene, sia il capitale fisico che il lavoro hanno lo stesso proprietario: le famiglie. In effetti, in ultima
istanza sono le famiglie (o gli azionisti, che comunque hanno delle famiglie) che possiedono le
aziende e il loro capitale fisico. Il rapporto famiglie-imprese è la chiave per comprendere l’identità
tra produzione, spesa e reddito. Le imprese generano una domanda di capitale fisico e lavoro e
producono anche un’offerta di beni e servizi; a loro volta, le famiglie acquistano beni e servizi e
offrono i fattori di produzione. Abbiamo quindi un flusso circolare, che non approssima
perfettamente la realtà (non prevede governi, mercati, banche e paesi stranieri) ma che è piuttosto
utile per comprendere la struttura di base di un economia moderna. Il diagramma ci mostra 4
transazioni:
(1) Produzione, (2) Spesa, (3) Reddito, (4) Fattori di produzione.
La loro caratteristica fondamentale è il
fatto che devono avere tutti lo stesso
valore di mercato: è qui che entra in
gioco il sistema di contabilità
nazionale, il valore deve essere
esattamente uguale. Infine, anche se il
diagramma mostra 4 flussi, noi
torneremo alla tripartizione basata su
produzione, reddito e spesa, perché
sono queste le tre variabili che poi
vengono effettivamente misurate.
- Contabilità economica nazionale: produzione
Fin qui abbiamo visto produzione, spesa e reddito molto approssimativamente (flusso circolare), cioè
considerando un’economia moderna di base, con soli due agenti (imprese nazionali e famiglie).
Adesso estendiamo l’analisi per vedere cosa accade nella realtà, dove ci sono anche altri agenti, come
i paesi stranieri e le loro imprese. Cominciamo con la produzione. Realmente la contabilità basata
sulla produzione misura il valore aggiunto prodotto da ciascuna impresa, ovvero la differenza tra
ciò che l’impresa incassa e la spesa complessiva per l’acquisto di beni intermedi dalle altre imprese.
Prendiamo per esempio la Dell, una multinazionale che fa computer. Dell compra i pezzi da altre
aziende spendendo, poniamo, 600€, poi li assembla e vende i computer sul mercato a 1.000€. Il valore
aggiunto creato da Dell è 400€ (1.000 – 600). La catena può anche funzionare diversamente e passare
da un rivenditore, MediaWorld. In questo caso, Dell vende i computer a MediaWorld per 900€ e
genera un valore aggiunto di 300€, il rivenditore poi a sua volta rivenderà a 1.000€ e genererà 100€.
Dunque, con questo esempio capiamo che i beni importati dall’estero e venduti in patria allo stesso
prezzo di importazione non valgono nel PIL (0 valore aggiunto). D’altra parte, sommando tutti i
valori aggiunti delle imprese nazionali avremo il PIL nazionale.
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2. Produzione domestica: i lavori di casa non vengono contati nel PIL. Può sembrare una scemenza
ma in realtà il lavoro tra le mura di casa è tantissimo e come tale ha valore.
3. Economia sommersa: si tratta di tutte quelle attività che sfuggono ai radar di chi fa le statistiche,
cioè lavoro nero e attività illegali, come il traffico di droga e la prostituzione. In alcuni paesi,
come l’Italia, incorporarli significherebbe aumentare del 20% il PIL.
4. Esternalità negative.
5. Prodotto nazionale lordo: il PIL conta solo il valore complessivo delle attività svolte entro i
confini nazionali, quindi se un cittadino di quella nazionalità va all’estero a lavorare la ricchezza
che produce non figurerà nel PIL del paese d’origine. Siccome è un caso frequentissimo,
l’economia si è inventata il PNL, che fa riferimento a tutte le attività svolte dai cittadini di un
certo paese, nelle economie sviluppate di solito non differisce di netto dal PIL.
6. Svago e tempo libero: il PIL ignora completamente questa dimensione della vita umana, ci dice
il valore di un’economia, ma non dove questo vada a finire o tantomeno se ottimizzi la felicità.
Nonostante l’ultima pecca, il PIL viene spesso usato anche come misura approssimativa del
benessere sociale. Molti hanno criticato l’adozione di questo indicatore per tastare la felicità
nazionale, ma se ne incrociamo i valori con quelli dell’indice di felicità (per quello che possa
significare) notiamo che la crescita del PIL e della felicità sono direttamente proporzionali.
Inoltre, può essere riscontrata la stessa correlazione anche all’interno dei singoli paesi.
19.4 PIL reale e PIL nominale
Siccome il PIL fa affidamento su quantità e prezzi, nell’analizzare la crescita e la recessione è
opportuno tenere separate le due variabili, dato che una può influenzare l’altra. A noi interessa solo
la variazione della quantità prodotta: se il prezzo sale e la quantità rimane la stessa la crescita è falsa.
Ciò equivale a distinguere tra PIL nominale e PIL reale:
• PIL nominale: è il valore di mercato totale della produzione, misurato a prezzi correnti.
• PIL reale: è il valore totale della produzione calcolato utilizzando i prezzi di un anno specifico,
chiamato “anno base”.
Nel linguaggio quotidiano quando si parla di PIL si fa sempre riferimento a quello reale.
Ford Chevrolet
Quantità Prezzo Quantità Prezzo PIL PIL reale prezzi 2019
nominale (anno base)
2019 10 €30.000 5 €20.000 €400.000 €400.000
2020 10 €40.000 20 €25.000 €900.000 €700.000
Si verifica anno per anno la variazione percentuale del deflatore del PIL, che è una misura della
variazione generale del livello dei prezzi.
(128,6−100) 28,6
Variazione percentuale deflatore del PIL2019 = = = 28,6%
100 100
Le due misure sono molto simili, senonché l’IPC misura la variazione di prezzo di un determinato
paniere, che viene composto ad hoc per una famiglia tipo, mentre il deflatore si riferisce alla
variazione di prezzo dell’intera economia. Insomma, dicono la stessa cosa ma da angolature diverse.
- L’inflazione
La variazione dei prezzi è il tasso di inflazione, per trovarlo si usa l’indice dei prezzi al consumo:
(𝑰𝒏𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒛𝒛𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝟐𝟎𝟐𝟎)−(𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒛𝒛𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝟐𝟎𝟏𝟗)
Tasso di inflazione (2020) =
(𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒛𝒛𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝟐𝟎𝟏𝟗)
È dunque l’IPC a misurare il tasso di inflazione delle famiglie, che è quello che conta veramente.
CAPITOLO 20, IL REDDITO AGGREGATO
20.1 Le disuguaglianze nel mondo
Il primo passo per poter comprendere le disuguaglianze di reddito nel mondo consiste nel mettersi
in grado di misurarle. Come possiamo quantificare le differenze tra gli standard di vita e le condizioni
economiche da Paese a Paese? Il reddito pro capite è una misura solida.
- Misurare le disuguaglianze di reddito pro capite
Se dividiamo il PIL per il totale della popolazione di un Paese otteniamo il reddito pro capite, o PIL
pro capite. La formula rigorosa è questa:
𝑃𝐼𝐿
𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 = 𝑃𝐼𝐿 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 =
𝑃𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
Per esempio, il PIL americano del 2014 era di 17.350 miliardi di dollari che, divisi per la popolazione
totale facevano qualcosa come 53.306 dollari. Cominciamo ora a fare dei confronti, per esempio con
il Messico. Il reddito pro capite messicano dello stesso anno era di 140.101 pesos, che devono essere
convertire in dollari attraverso il tasso di cambio. Il tasso di cambio diceva che 1 peso valeva come
0,076 dollari, quindi moltiplicando questo valore per il reddito pro capite abbiamo: $10.648.
Utilizzando il metodo del tasso di cambio possiamo confrontare il reddito pro capite di tutti i paesi e
veniamo a conoscenza delle grandi disuguaglianze che ci sono nel mondo. Questo non è però il
confronto migliore, perché così facendo non si tiene conto del costo della vita in ogni paese. Per
ovviare a questo problema si usa un’altra strategia, il concetto di parità di potere d’acquisto (PPA
in italiano, PPP in inglese). La stessa operazione che abbiamo fatto per trasformare il PIL nominale
in PIL reale viene eseguita qui. Si stabilisce un paniere di beni essenziali e se ne confronta il prezzo
in diversi paesi: il frutto di quel rapporto è il peso ponderato per cui poi si moltiplica il reddito pro
capite di ogni paese. Così per il Messico abbiamo che, mentre prima il reddito era di $10.648, ora:
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𝑃𝑃𝐴$
𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 𝑖𝑛 𝑃𝑃𝐴$ = 𝑟𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 × = 140.101 × 0,11 = $15.411
𝑝𝑒𝑠𝑜
Una differenza netta, del tutto ignorata se si procede con i confronti basati sul tasso di cambio.
- La disuguaglianza e il reddito pro capite
Anche se misurate in termini di parità di potere d’acquisto, le disuguaglianze ci sono e permangono.
Se guardiamo ad un ipotetico mappamondo, notiamo come quasi tutti i paesi africani sono poveri,
molte aree dell’Asia meridionale e dell’America latina sono anch’esse relativamente povere. Le zone
ricche nel mondo sono il Nord America, l’Europa occidentale, alcune parti dell’Asia e dell’Oceania.
- Il reddito per lavoratore
Fin qui abbiamo sempre parlato di reddito pro capite, ma questa misura include anche tutte le
persone che, per un motivo o per un altro, non prendono parte al processo produttivo. Questo fa sì
che le differenze di reddito tra nazioni siano almeno in parte da attribuirsi alla maggiore o minore
quota della popolazione che è effettivamente nella produzione. Un modo molto per eliminare questo
problema consiste nel calcolare il reddito per lavoratore:
𝑃𝐼𝐿
𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 =
𝐿𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑒𝑠𝑒
- Produttività
La ragione principale per cui il reddito medio per lavoratore cambia da un Paese all’altro è la diversa
produttività del lavoro. Per produttività intendiamo la quantità di beni e servizi che un lavoratore è
in grado di produrre con un’ora di lavoro. Il reddito per lavoratore e la produttività sono legati tra
loro e tendono a variare per le stesse cause. Quindi, così si capisce che per studiare le disuguaglianze
bisogna guardare al lato della produzione e in particolare a quei fattori di produzione che rendono
il lavoro più produttivo di altri.
- I redditi e gli standard di vita
A questo punto potrebbe sorgere la domanda se nel
considerare le disuguaglianze sia necessario concentrarsi più
sul reddito pro capite o sul reddito del lavoratore.
Sappiamo come si debba evitare di generalizzare seguendo
l’indicatore del reddito pro capite, ma comunque questo è in
grado di dirci molto sugli standard di vita. Abbiamo visto già
che c’è una correlazione positiva tra reddito pro capite e
felicità, ma il nostro indicatore ci dice molto anche sulla povertà. La soglia di povertà fissata dagli
organismi internazionali è di $1 al giorno e tramite il reddito pro capite siamo in grado di individuare
coloro che vivono sotto questa asticella molto facilmente. La
povertà ci interessa perché ovviamente significa che le
persone in questione conducono una vita difficile, cosa che ci
permette di utilizzare altri indicatori, ancora più selettivi. Ci
accorgiamo che il reddito pro capite è la misura più adatta
per cominciare lo studio delle disuguaglianze incrociando i
suoi valori con quelli di indici come l’aspettativa media di
vita alla nascita e l’HDI stilato dall’ONU. In entrambi i
confronti vediamo l’esistenza di una correlazione tra benessere economico, cioè PIL pro capite, e alta
aspettativa di vita e alto indice di sviluppo umano.
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La Y sta per il PIL, la K è lo stock di capitale fisico, l’H sono le unità di lavoro efficiente, la F indica
che capitale fisico e unità di lavoro efficiente sono una funzione del PIL e la A è un indice del livello
tecnologico. La funzione aggregata di produzione è simile a quella la FPP di un’impresa:
1. Il PIL aumenta al crescere del capitale fisico e del lavoro.
2. La funzione soffre la legge dei rendimenti decrescenti.
La seconda conseguenza ci dice che il contributo marginale di un
fattore di produzione al PIL diminuisce quando aumentiamo la
quantità impiegata di questo fattore, tenendo costanti tutti gli
altri. Nell’immagine vediamo la legge in azione per le aggiunte
di capitale fisico, vale lo stesso per le unità di lavoro efficiente.
20.3 L’importanza della tecnologia e i fattori che la determinano
- Tecnologia
La tecnologia è il terzo elemento che determina il
PIL. Se andiamo più a fondo, vediamo come la
relazione tra i fattori di produzione e il PIL dipenda
dalla tecnologia, che si mette nel mezzo. Il processo
tecnologico pondera la combinazione dei fattori di
produzione, determinando così il PIL.
Il termine crescita economica, o semplicemente crescita, indica l’aumento del PIL pro capite di
un’economia. Per quanto vi siano state delle irregolarità, la crescita americana negli ultimi 200 anni
sembra molto marcata. Ci concentreremo qui proprio su questo andamento positivo. Come possiamo
intuire, il risultato di questa crescita travolgente è stato un innalzamento degli standard di vita, che
oggi sono notevolmente migliori rispetto a quelli del 1870. Per l’Italia c’è stata una lentissima crescita
dal 1870 alla Seconda Guerra mondiale: la nostra economia ha spiccato poi il volo solo a partire dal
secondo dopoguerra. Un tasso di crescita è definito come la variazione di una quantità nel tempo. In
questo caso è la variazione del PIL pro capite in un intervallo che va da un anno (t) all’anno
successivo (t +1). Scegliamo quindi due date, che chiameremo t e t + 1, e denotiamo rispettivamente
con i PIL, y e y + 1. La formula allora sarà:
𝑦𝑡+1 − 𝑦𝑡
𝐶𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎𝑡,𝑡+1 =
𝑦𝑡
Prendiamo dunque due anni per fare un esempio. Consideriamo il 2005 e il 2006 per gli Stati Uniti:
$31.004 − $30.481
𝐶𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎2005,2006 = = 0,013 → 1,3%
$30.481
Questo tasso di crescita è positivo e, in effetti, anche se osserviamo sul lungo periodo i tassi di
crescita medi di Stati Uniti e Italia, ci accorgiamo di come questi si mantengano positivi, 1,6% per
gli USA e 1,1% per l’Italia.
- La crescita esponenziale
Un concetto centrale in questo discorso è la crescita esponenziale, cioè quel tipo di crescita che
avviene a un tasso approssimativamente costante. Insomma, è un processo cumulativo in cui ogni
nuovo incremento si innesta su quelli precedenti. Ciò implica che anche se in origine ci fosse una
piccola differenza nei tassi di crescita di due paesi, a lungo andare si otterrebbero grandi differenze
di reddito. La natura esponenziale della crescita economica è una delle ragioni principali delle
disuguaglianze di reddito tra paesi occidentali e Terzo Mondo. Per capire quanto dirompente sia
questo concetto possiamo fare un esempio concreto. Poniamo che due paesi partano in un certo anno
con un determinato PIL pro capite, mettiamo, 1000$. I due paesi crescono con tassi medi diversi: il
primo al 2%, il secondo solo 1%. Che differenza ci sarà tra 200 anni? Beh, il paese che cresceva di
più ha ora un reddito di $52.485, quello che cresceva di meno la miseria di $7.316, una differenza di
sette volte tanto. Capiamo allora perché l’Occidente sia così tanto più ricco del Terzo Mondo.
- Percorsi di crescita
Insomma, le nazioni che sono cresciute secondo un tasso di crescita medio positivo nel tempo si
sono arricchite, quelle che hanno faticato a creare quella condizione sono rimaste povere.
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La tabella riassume questa situazione per alcuni paesi del Mondo. Notiamo che nei paesi occidentali
il PIL è cresciuto di molto e i tassi di crescita ce ne danno conferma. Non solo, anche paesi che
partivano in condizioni di inferiorità, come la
Spagna, la Cina e l’India, hanno aumentato (e
di molto) il loro PIL. La spiegazione risiede
ancora nei loro robusti tassi di crescita. Infine,
la tabella riporta anche paesi che non hanno
avuto la stessa storia: Haiti, per esempio, era
più povera nel 2010 di quanto fosse nel 1960 e
infatti il suo tasso di crescita è addirittura
negativo.
Se andiamo ancora più a ritroso nel tempo,
vediamo come in realtà nell’800 i redditi nel
mondo non fossero poi così tanto diversi, al
netto di qualche paese che stava meglio di altri.
Di lì in poi però si sono manifestate condizioni tali che hanno permesso ad alcuni paesi di crescere a
ritmi prodigiosi, altri, invece, hanno faticato a tenere il passo. Ci sono però anche casi di paesi che
partono poveri, come la Spagna o la Corea del Sud, che si lanciano alla rincorsa di quelli più ricchi
grazie ad una crescita economia sostenuta nel tempo. Si tratta del fenomeno del catching up, cioè
della tendenza a convergere al livello tecnologico, e quindi anche al reddito, della nazione più ricca,
gli USA. Questa corsa si basa sulla crescita del PIL che, come sappiamo, dipende dall’aumento di
unità di lavoro efficiente, di stock di capitale fisico, ma, soprattutto, del livello tecnologico. Dunque,
questa è una conoscenza importante da tener presente, anche se è vero che il catching up non è un
destino scontato. Infine, l’ultima considerazione da fare è che i paesi più ricchi sono quelli che hanno
avuto una crescita sostenuta per secoli, con un tasso di crescita stabile di cinquantennio in
cinquantennio. Dobbiamo capire quindi, come si possa ottenere tale risultato, che è la strada che verso
la ricchezza.
21.2 Come cresce l’economia di una nazione?
Una prima risposta ci viene dalla funzione aggregata della produzione, 𝑌 = 𝐴 × 𝐹(𝐾, 𝐻), che collega
il Pil ai due fattori di produzione, il lavoro e lo stock di capitale fisico. Come sappiamo, l’andamento
della funzione dipende anche dall’indice di tecnologia, una variabile che include nel calcolo le
conoscenze e l’efficienza della produzione di una data economia. Ne consegue che una nazione possa
aumentare la propria ricchezza insistendo su queste tre componenti. Cominciamo dal capitale
fisico (K), sappiamo che l’unico modo per incrementarlo è fare investimenti. In un’economia chiusa
non ci sono né importazioni, né esportazioni e, se togliamo la spesa pubblica, abbiamo tre variabili
uguali a zero: M = X = G = 0. Quindi nell’equazione della composizione del PIL ci rimangono solo
Y = C + I. Il reddito sarebbe così uguale alla somma tra consumi e investimenti. Da questa logica
capiamo che l’investimento derivi dal risparmio: in un’economia chiusa tutto il reddito verrà speso
o risparmiato. Quindi se I = S (Saving in inglese, Risparmio in italiano), allora il reddito è uguale a:
Y=C+S
Di conseguenza, una nazione che vuole aumentare maggiormente il capitale fisico deve anche
risparmiare di più. Solo che, per sapere quanto si risparmia in una data economia, bisogna conoscere
le decisioni e le preferenze delle famiglie rispetto al risparmio.
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povertà. Questo non significa che non ci siano mai stati periodi di crescita economica, ma erano
piuttosto dei saliscendi che non hanno mai fatto spiccare il volo come nell’800. Ci sono due ragioni
per le quali la crescita sostenuta è rimasta una chimera:
• Il ritmo del cambiamento tecnologico era molto più lento.
• Anche se la produzione totale (il PIL) fosse cresciuta, le persone avrebbero continuato a star male.
Quest’ultimo punto è il perno del modello malthusiano, che spiega l’economia pre-contemporanea.
- I limiti malthusiani alla crescita economica
Thomas Malthus aveva una visione molto cupa del funzionamento dell’economia, ma insomma, da
uno che scriveva nel 1798 quando la gente moriva di fame, che cosa mai ci si poteva aspettare?
Malthus incentrava il suo modello su un indicatore ben preciso: la fertilità. Questa si doveva adattare
sempre in modo da mantenere il reddito al livello di sussistenza, cioè al minimo che necessario per
vivere. Insomma, per farla breve, quello di Malthus era un ciclo, non a caso definito malthusiano:
Aumento del PIL → aumento del PIL pro capite → aumento della popolazione → incapacità di
sfamare tutti → crollo del PIL pro capite → morte, distruzione, guerre e carestie
Questa spirale della morte è tanto cruenta quanto esemplificatrice del modello di economia che vigeva
prima dell’Ottocento: il reddito non poteva aumentare più velocemente della popolazione. Non è
un caso che poco prima del diciannovesimo secolo la fertilità diminuì, dando inizio alla transizione
demografica, un fenomeno a cui gli economisti guardano come il preludio della crescita economica.
Il calo della fertilità fu causato dai cambiamenti di quei tempi: l’urbanizzazione e il nuovo lavoro in
fabbrica rese inutile il bisogno di braccia giovani per i campi e il costo della scolarizzazione, che
cominciava a diventare obbligatoria, fece il resto. La transizione demografica fece quindi uscire dalla
trappola di Malthus, facendo finalmente crescere il reddito più velocemente della popolazione.
- La rivoluzione industriale
La transizione demografica da sola non sarebbe bastata ad innescare una crescita sostenuta, essa è
piuttosto la precondizione affinché questa potesse avvenire. La Rivoluzione Industriale è stato il
vero turning point, dato che ha permesso di apportare effettivamente il cambiamento tecnologico ai
processi produttivi. Il fatto singolare è che, guarda caso, le nazioni oggi più ricche, o che quantomeno
hanno una lunga storia di prosperità alle spalle, sono le stesse che hanno preso parte alle due
rivoluzioni industriali nell’Ottocento, a dimostrazione di quanto siano state influenti.
21.4 Crescita, disuguaglianza e povertà
- Crescita e disuguaglianza
Ci sono diverse ragioni pratiche per cui ci si dovrebbe preoccupare della disuguaglianza di reddito.
Infatti, essendo la disuguaglianza un volano per la polarizzazione della società, si crea lo spazio per
un’intensificazione dei fenomeni criminali e in generale della violenza, che può portare anche
all’instabilità politica. Del resto, il reddito pro capite è soltanto una misura media.
- Crescita e povertà
Potremmo chiederci che relazione ci sia tra crescita e povertà. Ebbene, in media una crescita del
reddito pro capite si associa ad una diminuzione della povertà. Vediamo come nel quadrante in basso
a destra, cioè quello caratterizzato da crescita economica e riduzione della povertà, ci siano molti
paesi. Ci sono anche alcuni paesi dove la crescita economica ha corrisposto ad un aumento della
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un’economia perdente in una vincente. Il fatto è che la distruzione creativa è anche e soprattutto di
matrice politica: la crescita economica crea tutte le condizioni perché si mettano in questioni i regimi
autoritari. Questo è sostanzialmente quello che succede in Corea del Nord dove Kim e i suoi compari
hanno anteposto gli interessi personali a quelli della loro gente, arricchendosi alle loro spalle. Una
crescita economica li farebbe cascare dalla sedia e pertanto non è nei loro piani, anche se questo
significa far morire di fame la propria gente.
- Democrazia e crescita
Detto ciò, sembra che le istituzioni inclusive, responsabili del
successo economico, possano risiedere solo e soltanto in una
democrazia, è questo il modo migliore per migliorare il
benessere di un paese? La Cina, che tutto è tranne che
democratica, è forse l’esempio che fa saltare in aria questa
convinzione? La realtà non dà affatto ragione alla Cina,
mediamente la democrazia ha veramente un effetto positivo
sul PIL pro capite. Infatti, studi mostra che i paesi di recente
instaurazione democratica, tendono a crescere più velocemente dopo i primi 20 anni.
- Come spiegare il rovesciamento delle sorti economiche
Nel nostro discorso abbiamo toccato tanti punti, ma non abbiamo mai pensato a perché alcuni paesi
che in passato erano ricchi ora sono poveri, o viceversa. Diciamo che in questo processo noi
occidentali siamo in gran parte responsabili, infatti, il casus belli è da far risalire alla colonizzazione
europea, specie quella avvenuta durante l’epoca moderna. Specie ai suoi albori, la colonizzazione
era guidata dal profitto, questo significò che i paesi ricchi su cui la forza delle armi diede il controllo
agli Occidentali furono depredati di ogni bene. All’epoca, America latina, Sud-Est asiatico e alcune
zone dell’Africa erano fiorenti civiltà, quindi gli europei ritennero più opportuno spolparle fino al
midollo introducendo istituzioni economiche fortemente estrattive. Viceversa, quando le navi del
Vecchio continente arrivarono in Nord America, in Australia e in Nuova Zelanda, si resero conto che
lì c’era ben poco, pertanto decisero di ricostruire un microhabitat europeo, dove loro stessi avrebbero
desiderato vivere. Ovviamente, vennero stabilite istituzioni economiche inclusive e il risultato oggi
è sotto gli occhi di tutti. La colonizzazione ha quindi pregiudicato lo sviluppo economico di molte
aree nel mondo a favore di altre.
22.3 È possibile eliminare la povertà nel mondo attraverso aiuti internazionali?
Già prima avevamo parlato delle strade per aiutare i paesi ad uscire dalla povertà (commercio
internazionale, progresso tecnologico), non abbiamo però considerato il tema degli aiuti
internazionali. Molti ripongono fiducia nei piani di aiuti, dai maggiori paesi occidentali alla Banca
Mondiale, ma, al netto di qualsiasi afflato altruistico, queste misure non hanno risolto nulla. Perché?
1. Per l’aumento del PIL bisogna lavorare sul capitale (fisico e umano), oltre che sulla tecnologia.
2. Una piccola percentuale degli aiuti viene investita nel sistema educativo e nel progresso
tecnologico, perché il resto se lo intascano i corrotti di quel Paese.
3. Se la causa profonda della povertà risiede nelle istituzioni economiche estrattive che fanno capo
ad un regime che non vuole la crescita economica, come si può pensare che un semplice aiuto
economico possa risolvere la situazione?
Certo, questo non significa che gli aiuti internazionali non servano a nulla, ma non sono affatto la
panacea di tutti i mali per i paesi poveri.
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A dire il vero, esiste anche una “zona grigia” nella definizione di inattivi, che riguarda soprattutto i
“lavoratori scoraggiati”. Questa categoria è formata da coloro che, pur volendo lavorare, non hanno
più cercato attivamente un mestiere (e in Italia sono tanti). Negli USA la classificazione è simile ma
include un’altra categoria ancora: i lavoratori potenziali, cioè tutti coloro che per legge potrebbero
lavorare. La forza lavoro è la somma tra occupati e disoccupati.
- Il calcolo del tasso di disoccupazione
Il tasso di disoccupazione è definito come la percentuale della forza lavoro che è disoccupata:
𝐷𝑖𝑠𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑡𝑖
𝑇𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 100% ×
𝐹𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜
Allo stesso modo, si può ricavare il tasso di partecipazione alla forza lavoro mettendo in rapporto
la forza lavoro con il totale dei lavoratori potenziali. Questi calcoli sono utili nel trattare la
disoccupazione, ma perdono dettagli importanti. In particolare, il tasso di disoccupazione omette i
lavoratori scoraggiati e quelli sotto-occupati: dei primi abbiamo già parlato, i secondi sono coloro che
hanno già un’occupazione ma che per qualsiasi motivo vorrebbero lavorare di più.
- L’andamento del tasso di disoccupazione
Anche il tasso di disoccupazione è sottoposto ad oscillazioni importanti, per esempio, quando
l’economia è in una fase di recessione il tasso di disoccupazione tende ad aumentare. In Europa,
generalmente, i tassi di disoccupazione stanno intorno al 6-7% nei periodi di crescita, vanno oltre il
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10% nei periodi di crisi. Un altro aspetto tipico del tasso di disoccupazione è il fatto che non si
avvicina mai allo 0%.
- Chi è disoccupato?
L’incidenza della disoccupazione varia sensibilmente lungo i diversi segmenti della forza lavoro. Per
esempio, le persone con minore istruzione tendono ad avere un tasso di disoccupazione maggiore
rispetto alle persone istruite. Un'altra disparità significativa è quella tra giovani e lavoratori di mezza
età: i secondi sono più esperti e dunque tendono a trovare e a mantenere il lavoro più facilmente.
23.2 L’equilibrio nel mercato del lavoro
Per capire come si determinano i livelli di occupazione e disoccupazione dobbiamo prima capire il
funzionamento del mercato del lavoro. Vedremo le curve di offerta, di domanda e l’equilibrio.
- La domanda di lavoro
Nel mercato del lavoro la domanda è rappresentata dalle imprese, mentre l’offerta la detengono le
famiglie. Le imprese decidono le assunzioni in base al principio di ottimizzazione, dunque
confrontano il ricavo che ottengono da un lavoratore con quanto gli costa mantenerlo. Ci sono due
importanti caratteristiche del mercato del lavoro:
• Il prodotto marginale delle imprese è decrescente: se assumi troppo produci meno.
• L’impresa continua ad assumere finché è possibile aumentare i profitti, poi si ferma.
Dunque, vista la prima caratteristica, la curva di domanda del mercato del lavoro è decrescente, la
seconda condizione, invece, ci dice che un’impresa ottimizzante assumerà la quantità di lavoratori
per cui il valore del prodotto marginale è uguale al salario di mercato (Salario = VPML). Di volta in
volta, l’impresa cambia il numero di lavoratori in modo da far quadrare questa equazione. La curva
del VPLM è quindi quella della domanda di lavoro, perché mostra la relazione tra quantità e prezzo.
- Spostamenti della curva di domanda di lavoro
Qualsiasi cambiamento che riguardi la relazione tra quantità di lavoro e valore del prodotto marginale
avrà come effetto uno spostamento della curva di domanda di lavoro. Essa si sposta per 4 cause:
• Variazione dei prezzi dell’output. Quando il prezzo del bene prodotto dall’azienda diminuisce,
succede la stessa cosa al valore del prodotto marginale del lavoro, per cui un’impresa diminuirà
la forza lavoro. Ovviamente, vale anche il contrario.
• Variazione della domanda del bene o del servizio prodotto. Se diminuisce la domanda del
bene prodotto, lo stesso accadrà con la produttività dei lavoratori, che rischiano di stare con le
mani in mano. Questo porta a tagli del personale.
• Cambiamento tecnologico. Introducendo una nuova tecnologia i lavoratori diventano più
produttivi, facendo spostare verso destra la curva. In qualche caso succede anche il contrario, cioè
quando le macchine sostituiscono i lavoratori.
• Variazione dei prezzi degli input. Se i prezzi degli input usati aumentano, sarà più difficile per
l’impresa mantenere lo stesso livello di lavoratori, dato che saranno meno produttivi.
Detto questo, a noi non servono le curve di domanda di lavoro dei singoli settori, dobbiamo sommarle
tutte per avere cognizione della curva di domanda di lavoro dell’economia nel suo complesso. In
realtà, non si tratta di un’operazione così immediata ma a noi conviene fare in questo modo per
semplificare il modello. A breve vedremo che vale la pena di introdurre questa assunzione
semplificatrice perché potremo intuire meglio come si sviluppa il sistema economico.
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- L’offerta di lavoro
La curva dell’offerta di lavoro rappresenta la relazione tra la quantità di lavoro offerta e il salario.
Come la curva di domanda, anche la curva di offerta è regolata dal principio di ottimizzazione. In
questo caso, i lavoratori dovranno decidere se vale la pena di lavorare per il salario offerto:
ovviamente, più è alto il salario più si è disposti a lavorare. Quest’ultima frase ci permette di costruire
una curva di domanda inclinata positivamente.
- Spostamenti della curva di offerta di lavoro
In generale, qualsiasi cambiamento tra la quantità di lavoro offerta e il salario si tradurrà in uno
spostamento della curva di offerta di lavoro. Queste sono le 3 potenziali ragioni di ciò:
• Un cambiamento nei gusti. Per fare un esempio, prima le donne non lavoravano, ora si, dunque
l’offerta di lavoro è cresciuta di molto.
• Variazione del costo opportunità del tempo. Gli elettrodomestici hanno reso la nostra vita
casalinga molto più semplice: liberatici dall’affanno dei lavori di casa, ora siamo più motivati ad
impiegare il nostro tempo nel lavoro retribuito.
• Cambiamenti demografici. Un incremento della popolazione si associa ad un’analoga crescita
dei lavoratori potenziali, dunque ha l’effetto di accrescere la forza lavoro.
Anche la curva dell’offerta di lavoro complessiva può essere derivata sommando quelle dei settori.
- L’equilibrio nel mercato del lavoro concorrenziale
Qui, l’equilibrio è chiamato market-clearing wage, per indicare
che in quel punto qualsiasi lavoratore che cerca lavoro lo trova,
per la quantità associata al salario “sgombra” il mercato. Al
contrario, un salario che non sgombra il mercato è il risultato di
una rigidità causata da attriti che hanno impedito questo
aggiustamento. Questo mercato del lavoro è un caso ideale: così
le imprese possono assumere e licenziare in maniera istantanea,
ma soprattutto sia lavoratori che imprese godono di una perfetta
informazione e il salario si adatta, è mobile.
23.3 Da cosa dipende la disoccupazione
Assumendo un mercato del lavoro ideale, ogni persona in cerca di lavoro otterrebbe un’occupazione.
In questo modello i disoccupati sono coloro situati sopra l’equilibrio lungo la curva d’offerta, ma
sono coloro che non lavorano perché non gli va bene il salario. Del resto, mancano completamente
tutti coloro che cercano lavoro per uno stipendio anche inferiore a quello di equilibrio. Nel modello
c’è qualcosa che non funziona: abbiamo assunto che tutti abbiano perfette informazioni ma sappiamo
benissimo che nella realtà non è affatto così. Tale asimmetria informativa è la causa della
disoccupazione frizionale, che però non è l’unica causa della disoccupazione, come vedremo.
23.4 La ricerca del posto di lavoro e la disoccupazione frizionale
In un mercato del lavoro ideale, qualsiasi persona disposta a lavorare per il salario di equilibrio troverà
sempre un lavoro. Questo accade perché abbiamo assunto che non ci sia alcun attrito a complicare la
ricerca. Tuttavia, chi ha lavorato veramente sa bene quanto sia complicato trovarsi un impiego,
cosicché di attriti ce ne sono davvero tanti. La complessità della ricerca del lavoro deriva da limiti
oggettivi. La disfunzione che ne emerge è la disoccupazione frizionale.
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- Le decisioni di risparmio
Ma da dove vengono i soldi che le banche poi prestano? Le banche racimolano fondi attraverso i
depositi che gli agenti economici fanno presso di loro. Le banche fanno quindi da intermediari tra
risparmio e investimento, anche se, come detto non sono le uniche a svolgere tale compito.
Concentriamoci però adesso sui depositanti, cioè sui risparmiatori, che sono la fonte iniziale da cui
vengono i prestiti. Ma perché le persone risparmiano? Sostanzialmente, perché credono sia meglio
mettere da parte una somma di denaro per spenderla in futuro, inoltre, scelgono di depositare i loro
risparmi in banca perché lì hanno la garanzia che questi soldi aumentino secondo un tasso di
interesse, cosa che nascondendo i soldi sotto il materasso non hanno, anzi.
- La curva dell’offerta del credito
La motivazione per la quale esiste un tasso di interesse
sui depositi è semplice: dal momento che risparmiare
implica la rinuncia a spendere quel denaro adesso, lo si
fa solo se in cambio si ottiene qualcosa. Questo
qualcosa è proprio il tasso di interesse, che funge anche
da termometro per i depositi. Infatti, un tasso alto
incoraggerà la scelta del risparmio e viceversa. Tutto
questo ci porta alla convinzione che la curva di offerta
di credito, ossia la relazione tra quantità di credito
offerto e tasso di interesse reale, sia inclinata
positivamente. Come al solito anche qui è necessario
distinguere i movimenti lungo la curva dagli spostamenti della curva, che dipendono da:
1. Cambiamenti nelle decisioni di risparmio delle famiglie.
2. Cambiamenti nelle decisioni di risparmio delle imprese.
- L’equilibrio nel mercato del credito
Il mercato del credito è il luogo in cui coloro che prendono in prestito possono ottenere fondi dai
risparmiatori. Questa è una rappresentazione semplificata, perché assume che i debitori abbiano tutti
la stessa affidabilità nel ripagare il prestito, nella realtà il tasso di interesse cresce con il rischio che
si ha di non vedersi ripagato il debito. Anche in questo mercato, ovviamente, c’è un equilibrio.
- I mercati del credito e l’allocazione efficiente delle risorse
I mercati del credito svolgono una funzione sociale molto importante, dando ai risparmiatori la
possibilità di cedere le loro disponibilità in eccesso a coloro che invece hanno bisogno di prendere
fondi in prestito, portando quindi ad una migliore allocazione delle risorse. Del resto, perché non
dovresti mettere i soldi in banca? Se li metti sotto il materasso sarai sicuro al 100% di ritrovarceli,
ma quando ne usufruirai quei soldi, che sono sempre gli stessi, avranno perso potere d’acquisto per
via dell’inflazione, dunque anche se nominalmente avrai ancora X, realmente ne hai di meno. I
mercati del credito non solo evitano questa conseguenza (perché matura un interesse) ma permettono
nel frattempo a chi ne ha bisogno di usufruirne.
24.2 Le banche e l’intermediazione finanziaria
Le banche fanno da intermediari nel senso che quando depositiamo i soldi sul conto non sappiamo
che cosa ci fanno. Le banche mettono insieme quei soldi e ne fanno vari usi, incluso farsi prestiti tra
di loro. Gestire una banca, fare insomma da intermediario finanziario, è una cosa molto difficile: il
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risparmio può prendere forme diverse, può essere sotto forma di credito o anche sotto forma di quote
societarie. Abbiamo detto fin qui che oltre alle banche esistono anche intermediari finanziari altro
tipo, ora è il momento di richiamarli brevemente. Hedge funds, Private equity funds e Venture capital
funds sono parte di quello che viene chiamato “sistema bancario ombra”. Si tratta di aziende che
permettono di utilizzare il risparmio per l’acquisto di titoli finanziari come le azioni e le obbligazioni.
Insomma, sono una miriade di istituzioni che non sono propriamente banche, perché non accettano
depositi, ma ciò nonostante agiscono come banche per concedere prestiti. La Lehman Brothers che
ha fatto crack nel 2008 era un’istituzione di questo tipo.
- Attività e passività nel bilancio di una banca
Un modo per capire cosa fa una banca è leggere il suo bilancio, guardando attività e passività:
• Attività: sono gli investimenti compiuti, i titoli di Stato posseduti e le somme di denaro che sono
state prese in prestito presso la banca (dalle famiglie e dalle imprese).
• Passività: ne fanno parte i depositi dei clienti della banca e tutti i crediti che questa ha richiesto.
Nel bilancio, come in tutte le imprese, le entrate della banca devono compensare le sue uscite. Usiamo
il bilancio della Citibank per capirci qualcosa:
BILANCIO DI CITIBANK
ATTIVITÀ PASSIVITÀ
Riserve $294 mld Depositi a vista $938 mld
Disponibilità liquide $192 mld Prestiti a breve termine $527 mld
Investimenti a lungo termine $1.398 mld Debito a lungo termine $221 mld
Questo esempio mostra come gli azionisti si prendano carico di tutti i rischi cui la banca è esposta,
perché il valore delle loro azioni, esemplificato dal patrimonio netto, diminuisce. In sostanza, se
l’investimento si rivela infruttuoso, gli azionisti aprono il portafoglio fino a quando c’è dentro
denaro. Tuttavia, se anche gli azionisti non hanno più una lira per piangere, perché il patrimonio
netto è negativo, beh allora è necessario l’intervento dello stato per salvare i risparmi dei clienti della
banca. L’intervento pubblico è diverso da paese a paese, negli USA interviene la Federal District
Insurance Corporation (FDIC) che assume il controllo della banca e decide se chiudere
definitivamente o se girarla ad una nuova proprietà. Nel primo caso, lo Stato restituisce le somme
ai risparmiatori (fino a $250.000 in America, fino a €100.000 in Italia) mentre azionisti e creditori
della banca rimangono a bocca asciutta. Nel secondo caso, che è il più frequente, lo Stato facilità
l’acquisizione della banca in dissesto finanziario verso una banca sana: anche in questo caso gli
azionisti e i creditori non prendono nulla, mentre vengono garantiti tutti i risparmi. Sostanzialmente,
si tratta di un passaggio di una banca insolvente ad una che invece è solvente, ma affinché questo
accade bisogna che quest’ultima ci guadagni qualcosa. Questo significa che lo Stato – e quindi tutti i
cittadini, pagano fior di quattrini affinché la banca solida si accolli quella insolvente.
- La corsa agli sportelli
Per quanto socialmente utile, la funzione delle banche di trasformare le scadenze è molto rischiosa,
come abbiamo visto. Il fatto stesso di trasformare passività a breve termini in attività a lungo termine
significa immobilizzare somme di denaro che la banca potrebbe trovarsi a restituire in ogni momento.
Questo è esattamente quello che succede durante un panico bancario, quando si verifica la cosiddetta
corsa agli sportelli per ritirare i propri risparmi. In pratica, le persone temono che la banca non sia
in grado di restituire i loro soldi e quindi si precipita a ritirarli in massa per ritirarli finché ci sono. La
corsa agli sportelli genera dei costi importanti, che bloccano il mercato finanziario ogni volta. Casi
famosi sono quelli della crisi del 2008 o della crisi greca del 2015, quando vennero ritirati in pochi
mesi 45 miliardi di euro. Il collasso del sistema fu evitato con riserve di liquidità concesse dalla BCE.
- La regolamentazione bancaria e la solvibilità delle banche
Se le corse agli sportelli fossero un evento frequente, il sistema bancario sarebbe alquanto instabile.
Ma fortunatamente, grazie all’assicurazione sui depositi questi eventi sono abbastanza rari dagli
anni ’30 in poi. La coscienza di essere in qualche modo tutelati, fa sì che si verifichino di rado.
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- Le conseguenze dell’inflazione
Se lo stipendio aumenta tanto quanto i prezzi dei beni di consumo, tanto da mantenere sempre uguale
il potere d’acquisto, una moderata inflazione non è poi così problematica. Tuttavia, questo scenario
non si verifica molto di frequente e spesso, specie nel breve periodo, l’inflazione genera perdite o
guadagni inattesi. Infatti, se consideriamo il fatto che il nostro stipendio nominale è sempre quello,
qualsiasi aumento dell’inflazione ci danneggia, dato che diminuisce il nostro potere d’acquisto. Per
contro, l’azienda ci guadagna, perché pur pagando la stessa cifra, allo stesso tempo guadagna di più.
Il consumatore ci può anche vincere: per esempio, se si fa un mutuo a tasso fisso e l’inflazione cresce
pagare la rata inciderà relativamente meno rispetto alla sottoscrizione del prestito. In generale,
funziona così: quando i pagamenti e le spese non sono indicizzati all’inflazione, un aumento di
quest’ultima favorisce alcuni agenti economici e ne danneggia altri. Queste sono grossomodo le
conseguenze a livello individuale, ma ce ne sono altre anche a livello collettivo.
- I costi sociali dell’inflazione
L’inflazione fa i danni anche a livello collettivo principalmente per tre ragioni:
1. Un alto tasso di inflazione provoca un aumento dei “costi di menu”. Quando si parla di “costi
di menu” si fa riferimento al fatto che i commercianti devono continuamente stare a cambiare i
loro prezzi in caso di aumenti galoppanti del tasso di inflazione. Per esempio, quando ci fu
l’iperinflazione tedesca del 1922-23 i negozi avrebbero dovuto cambiare i prezzi ogni giorno.
2. Un’inflazione molto alta ha effetti distorsivi sui prezzi relativi. Quando l’inflazione è troppo
alta i prezzi non aumentano in modo sincronizzato, cosicché, mentre lo stipendio è fermo al palo,
i beni essenziali diventano più costosi. Si genera dunque inefficienza economica.
3. L’inflazione talvolta conduce a politiche deleterie per l’economia come il controllo dei
prezzi. L’inflazione fa arrabbiare le persone, pertanto, i politici devono prendere provvedimenti
popolari come il controllo dei prezzi che, come abbiamo visto, fa più danni della grandine.
- I benefici sociali dell’inflazione
L’inflazione può anche avere qualche effetto positivo:
1. Stampando moneta lo Stato può aumentare le proprie entrate. Se lo Stato stampa e spende
subito un’enorme quantità di moneta, ci sarà sicuramente iperinflazione. Ma se al contrario
stampa e non spende tutto subito, beh allora l’inflazione sarà moderata e in compenso lo Stato
avrà liquidità. Rimane comunque un’arma a doppio taglio che, tra l’altro, per l’Italia e gli altri
paesi dell’Eurozona, non è più possibile stampare moneta, dato che la BCE lo vieta per tenere
sotto controllo il livello dei prezzi del mercato unico. Ne consegue che nell’Eurozona il potere di
stampare moneta per finanziare il debito lo detiene la BCE. Questa pratica, detta signoraggio, va
in base alle quote con cui le banche centrali nazionali partecipano al capitale della BCE, per la
Banca d’Italia è il 12,49% (la più alta è la quota della Bundesbank, 18,93%).
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2. In alcuni casi l’inflazione può stimolare l’attività economica. In un certo senso, la diminuzione
del salario reale da corrispondere ai dipendenti dovrebbe essere un incentivo per le imprese ad
assumere maggiormente, stimolato anche dai ricavi crescenti (d’altronde, se i prezzi crescono!).
Come abbiamo visto prima, l’inflazione fa anche diminuire il tasso di interesse reale, che sarebbe
il tasso di interesse reale corretto per l’inflazione. Dal momento che le aziende e i comuni cittadini
traggono la liquidità per investire dalle banche, l’inflazione sarebbe indirettamente anche un
incentivo ad investire e dunque una molla per l’aumento del PIL.
25.4 La banca centrale
In ciascun paese il sistema monetario è gestito dalla Banca Centrale. Qui elencheremo solo le
funzioni principali delle banche centrali e gli strumenti con cui le assolvono.
FEDERAL RESERVE BANK (FED)
Negli USA la banca centrale si chiama Federal Reserve Bank o più semplicemente FED. È
composta da un comitato esecutivo di 7 membri nominati dal Presidente USA, tra questi viene scelto
anche il Governatore della banca. Gli obbiettivi principali della FED sono:
• Condurre una politica monetaria che porti alla massimizzazione dell’occupazione, al
mantenimento di uno stabile livello dei prezzi e a moderati tassi di interesse.
• Regolare e controllare le istituzioni finanziarie (bancarie e non) degli Stati Uniti.
• Mantenere la stabilità del sistema finanziario e contenerne il rischio.
• Servizio di tesoreria a istituzioni finanziarie nazionali, estere e al governo (conservano le riserve).
BANCA CENTRALE EUROPEA (BCE)
La Banca Centrale Europea (BCE) è figlia del Trattato di Maastricht del 1992, è diventata operativa
nel 1998 con la nascita dell’Eurozona. Il trattato ha istituito anche il SEBC, cioè il sistema europeo
delle banche centrali, di cui fanno parte tutti i paesi dell’UE, anche quelli fuori dall’Eurozona. La
BCE si articola in un Consiglio Direttivo e un Comitato Esecutivo: nel primo siedono i governatori
delle banche centrali nazionali, il secondo è composto da tecnici di comprovata bravura. Questi
vengono nominati nel Consiglio Europeo a maggioranza qualificata. Gli obbiettivi della BCE sono:
• Innanzitutto, un basso e stabile livello di inflazione, per salvaguardare il valore dell’euro.
• Una crescita sostenibile, non inflazionistica, che rispetti l’ambiente e che promuova la
convergenza degli standard di vita dei paesi membri.
• Elevato livello di occupazione e miglioramento di tutti una serie di parametri a livello europeo.
• Supervisione delle istituzioni finanziarie dell’Eurozona
- La banca centrale e gli obiettivi di politica monetaria
Possiamo dire che, in generale, la banca centrale è l’istituzione pubblica che manovra alcuni tassi
di interesse di riferimento, controlla in modo indiretto l’offerta di moneta ed esercita una funzione di
monitoraggio delle istituzioni finanziarie. L’attività della banca centrale è riconducibile alla
cosiddetta politica monetaria. Al netto di particolarismi vari, le banche centrali puntano a due cose:
1. Livelli bassi e prevedibili del tasso di inflazione;
2. Livello massimo (sostenibile) dell’occupazione.
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chiederà quindi aiuto alle altre banche (quelle dei dipendenti?) cariche di soldi. Questo è il campo
d’azione del cosiddetto mercato interbancario, che in America si chiama federal funds market. Su
questo mercato le banche si fanno prestiti a vicenda, che scadono solitamente in 24h, ecco perché
si chiama mercato overnight. Per lo stesso motivo, il tasso di interesse su questi prestiti si chiama
tasso overnight o interbancario. Può sembrare strano, ma le banche vivono di questi prestiti e li
conducono quotidianamente in maniera efficiente.
- La domanda del mercato interbancario
La curva di domanda delle riserve riguarda le riserve che
sono detenute dalle banche private presso la BC (non ne
fanno parte quelle nei singoli caveau). Questa curva
rappresenta sempre il totale delle riserve delle banche,
non solo quelle prese in prestito. In sostanza, la curva di
domanda delle riserve rappresenta la relazione tra quantità
domandata e tasso interbancario: le riserve sono la rete di
sicurezza delle banche che preferiscono averne in quantità
se costano poco, questo è il motivo per cui la curva è
inclinata negativamente. Occorre soffermarsi anche su cosa può indurre la curva a spostarsi: ci sono
5 motivi principali per cui questo può accadere e gli ultimi 2 li detiene la BC:
1. Espansione o contrazione dell’economia. Durante i boom economici le banche hanno bisogno
di liquidità per concedere prestiti e le riserve sono una fonte di liquidità.
2. Cambiamento del fabbisogno di liquidità. Se le banche si aspettano una corsa agli sportelli,
aumentano comprensibilmente il loro bisogno di liquidità per pagare i risparmiatori.
3. Cambiamento del volume dei depositi. Se aumenta la quantità di depositi, le riserve dovranno
aumentare proporzionalmente, dato che la percentuale obbligatoria è fissata per legge.
4. Cambiamento degli obblighi di riserva. La banca centrale può aumentare o diminuire la quota
legale di riserve che le banche private devono mantenere.
5. Cambiamento del tasso di interesse pagato sulle riserve in deposito presso la banca centrale.
La BC è la banca delle banche: fa maturare un interesse sui depositi delle banche private, dunque
se questo sale, i privati saranno motivati a depositare presso la BC.
- Il lato dell’offerta e l’equilibrio sul mercato interbancario
Vediamo adesso l’offerta del mercato interbancario, considerando il caso della banca centrale sul
mercato overnight. Il modello è semplice, l’offerta di riserve è una linea verticale fissata ogni mattina
dalla banca centrale. Per comodità, cominciano a vedere il caso in cui la linea rimane immobile e non
si sposta. Il punto in cui domanda e offerta si incontrano è l’equilibrio sul mercato overnight, in cui
i due valori si equivalgono. In molti casi le attività scambiate sono titoli di stato, emessi direttamente
dallo stato o da esso patrocinati. Quando vuole aumentare le sue riserve, la BC compra titoli di stato
dalle banche private in cambio di riserve elettroniche. Queste mosse si chiamano “operazioni di
mercato aperto” e riescono a spostare la curva d’offerta delle riserve. Insomma, la BC può condurre
la politica monetaria in due modi: può tenere la curva d’offerta fissa, lasciando che gli scambi
siano dettati dalla domanda o può essa stessa determinare il tasso di interesse, attraverso gli
spostamenti della curva d’offerta delle riserve. Per questa seconda opzione, la BC prima sceglie il
tasso e poi cerca di far incastrare domanda e offerta proprio in quel punto: è così che il tasso si può
mantenere fisso nel tempo, perché l’offerta si adegua automaticamente alla domanda, ovunque le
vada.
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La politica monetaria delle banche centrali dagli anni ’80 in poi preferisce mantenere stabile il tasso
di interesse interbancario, cambiandolo soltanto quando si rende necessario stimolare l’economia.
- L’influenza della BC sull’offerta di moneta e sul tasso di inflazione
I movimenti dei tassi d’interesse overnight non sono che una delle conseguenze della gestione delle
riserve da parte delle banche centrali. La BC non può controllare direttamente né l’inflazione né
l’offerta di moneta, perché le riserve non ne fanno parte. Tuttavia, tramite quest’ultime è possibile
pilotare il livello dei prezzi che finché rimane su dei livelli stabili non desterà particolare attenzione.
Come abbiamo visto con la teoria quantitativa della moneta:
Tasso d’inflazione = Tasso di crescita dell’offerta di moneta – Tasso di crescita PIL reale
Dunque, ogni qualvolta l’inflazione supererà un livello critico, la BC cercherà di ridurre il tasso di
crescita dell’offerta di moneta, su cui ha un controllo indiretto. Questo tipo di controllo dipende dal
fatto che l’offerta di moneta cresce quando le banche concedono prestiti, quindi se la banca centrale
scoraggia i prestiti alzando il tasso interbancario, allora la quantità di offerta di moneta diminuirà. Lo
stesso succede nel caso opposto, in cui la BC taglia i tassi per agevolare prestiti e investimenti.
- La relazione tra i tassi di interesse a breve e lungo termine
L’ultima conseguenza della gestione delle riserve bancarie da parte della BC è l’influenza dei tassi
di interesse reali a lungo termine tramite quelli a breve termine (quelli overnight). Abbiamo visto
che il tasso di interesse reale è la differenza tra il tasso di interesse nominale e l’inflazione. La
decisione o meno di fare un investimento viene presa prestando attenzione al tasso di interesse reale
di lungo periodo e quando diciamo “lungo periodo” ci riferiamo almeno a 10 anni, che è la scadenza
a cui solito si fa riferimento. Ma come può un tasso overnight, che dura 24h, influenzare un altro tasso
che scade di qui a dieci anni? Per capirlo dobbiamo ragionare in termini di aspettativa sul tasso di
interesse reale effettivo, cioè quanto pensiamo che l’inflazione distorcerà il tasso nominale che
accettiamo al momento di richiedere il prestito. Il tasso di interesse reale effettivo è:
Tasso di interesse reale effettivo = tasso di interesse nominale – tasso di inflazione effettivo
Insomma, è quello che si pagherà effettivamente. Quando si prende denaro in prestito non si può
sapere quale sarà l’andamento dei prezzi, quindi si cerca di fare una media utilizzando il tasso di
interesse reale atteso (il valore atteso), sottraendo l’inflazione che ci si attende. Su cosa si basano
queste previsioni? Di solito si tende a fare previsioni basandosi sul presente: in base a quanto varia
l’inflazione quell’anno si considera l’intero periodo. Il potere della BC risiede nel fatto che, siccome
è una media, se il primo valore (quello presente) è basso, allora si abbasserà anche la media.