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CAPITOLO 19, RICCHEZZA DELLE NAZIONI: GLI AGGREGATI MACROECONOMICI


19.1 Questioni macroeconomiche
La macroeconomia è lo studio degli aggregati economici e dei fenomeni che riguardano l’economia
nel suo complesso, come il tasso di crescita della produzione complessiva o l’inflazione. Questo tipo
di analisi cerca di spiegare l’andamento passato dell’attività economica aggregata e cerca di fare
previsioni sul futuro. Ad esempio, esamina variabili come il reddito pro capite per comprendere
come si possa ottenere la prosperità economica di lungo periodo. La macroeconomia si concentra
anche sul breve periodo, registrando le variazioni della prestazione economica: prende in
considerazione variabili quali la disoccupazione o scenari come la recessione e la crescita. Per
rispondere a tutti questi quesiti è necessario restringere prima il campo e riuscire a quantificare
l’intera attività economica di una nazione. Oggi però esiste un quadro di riferimento, chiamato
contabilità economica nazionale, che permette di fare quello di cui abbiamo bisogno.
19.2 Contabilità economica nazionale Produzione = Spesa = Reddito
Per misurare l’attività economica dovremo tenere conto sia delle quantità che dei prezzi. Ci sono tre
modi di guardare all’economia nel suo complesso: un approccio basato sulla produzione, uno sulla
spesa e uno sul reddito.
- Produzione
Poniamoci l’obiettivo di misurare il valore totale della produzione annua dell’Italia. Per farlo,
dovremo necessariamente moltiplicare tutta la quantità dei beni prodotti in Italia per i prezzi
correnti in quell’anno. Immaginiamo che la quantità di beni sia 5 milioni e che il prezzo sia 30.000€:
5 milioni ∙ €30.000 = €150 miliardi
Questo sarebbe il valore dell’economia in quel dato anno, in economia questa misura viene chiamata
prodotto interno lordo, cioè PIL. Esso è il valore di mercato dei beni e dei servizi finali prodotti
entro i confini nazionali in un determinato periodo di tempo (un anno o un trimestre). Si parla solo
di beni “finali” perché altrimenti dovremmo conteggiare due volti anche quelli che servono per la
produzione, quindi sono implicitamente inclusi già.
- Spesa
Un altro modo di considerare il livello dell’attività economica aggregata è concentrarsi sulla spesa.
Così facendo si ottengono gli stessi risultati emersi con la produzione, del resto gli agenti economici
prima o poi compreranno tutti i beni prodotti. Quindi se sommiamo il valore di tutti questi acquisti,
otteniamo di nuovo lo stesso numero. Ovviamente, non tutti i beni vengono venduti subito, alcuni
rimangono invenduti: si assume che li “comprino” le aziende, che li accumulano in quanto “scorte”.
€150 miliardi
- Reddito
L’ultimo modo suggerisce di concentrarsi direttamente sui guadagni di imprese e famiglie, cioè sul
loro reddito, che è proprio quello che volevamo. Dunque, le aziende hanno dei ricavi (€150 mld),
esse però devono pagare fornitori e dipendenti, dunque tolgono una cifra X ai ricavi totali, il resto,
ovviamente, sono i profitti che tengono per sé. Così, il reddito totale è:
X + (€150 mld – X) = 150€
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Vediamo ancora una volta che si arriva agli stessi risultati, ma non è un caso perché ogni euro di
ricavo deve essere distribuito o all’azienda o ai dipendenti. Dunque, la relazione tra produzione, spesa
e reddito viene definita identità, dato che sono uguali. È il principio alla base della macroeconomia.
Produzione = Spesa = Reddito
- Flussi circolari
I fattori di produzione sono gli input di tutto il processo e si dividono in due categorie fondamentali:
capitale e lavoro. Il capitale è composito, ma assumiamo ora che sia solo fisico. Dunque, a pensarci
bene, sia il capitale fisico che il lavoro hanno lo stesso proprietario: le famiglie. In effetti, in ultima
istanza sono le famiglie (o gli azionisti, che comunque hanno delle famiglie) che possiedono le
aziende e il loro capitale fisico. Il rapporto famiglie-imprese è la chiave per comprendere l’identità
tra produzione, spesa e reddito. Le imprese generano una domanda di capitale fisico e lavoro e
producono anche un’offerta di beni e servizi; a loro volta, le famiglie acquistano beni e servizi e
offrono i fattori di produzione. Abbiamo quindi un flusso circolare, che non approssima
perfettamente la realtà (non prevede governi, mercati, banche e paesi stranieri) ma che è piuttosto
utile per comprendere la struttura di base di un economia moderna. Il diagramma ci mostra 4
transazioni:
(1) Produzione, (2) Spesa, (3) Reddito, (4) Fattori di produzione.
La loro caratteristica fondamentale è il
fatto che devono avere tutti lo stesso
valore di mercato: è qui che entra in
gioco il sistema di contabilità
nazionale, il valore deve essere
esattamente uguale. Infine, anche se il
diagramma mostra 4 flussi, noi
torneremo alla tripartizione basata su
produzione, reddito e spesa, perché
sono queste le tre variabili che poi
vengono effettivamente misurate.
- Contabilità economica nazionale: produzione
Fin qui abbiamo visto produzione, spesa e reddito molto approssimativamente (flusso circolare), cioè
considerando un’economia moderna di base, con soli due agenti (imprese nazionali e famiglie).
Adesso estendiamo l’analisi per vedere cosa accade nella realtà, dove ci sono anche altri agenti, come
i paesi stranieri e le loro imprese. Cominciamo con la produzione. Realmente la contabilità basata
sulla produzione misura il valore aggiunto prodotto da ciascuna impresa, ovvero la differenza tra
ciò che l’impresa incassa e la spesa complessiva per l’acquisto di beni intermedi dalle altre imprese.
Prendiamo per esempio la Dell, una multinazionale che fa computer. Dell compra i pezzi da altre
aziende spendendo, poniamo, 600€, poi li assembla e vende i computer sul mercato a 1.000€. Il valore
aggiunto creato da Dell è 400€ (1.000 – 600). La catena può anche funzionare diversamente e passare
da un rivenditore, MediaWorld. In questo caso, Dell vende i computer a MediaWorld per 900€ e
genera un valore aggiunto di 300€, il rivenditore poi a sua volta rivenderà a 1.000€ e genererà 100€.
Dunque, con questo esempio capiamo che i beni importati dall’estero e venduti in patria allo stesso
prezzo di importazione non valgono nel PIL (0 valore aggiunto). D’altra parte, sommando tutti i
valori aggiunti delle imprese nazionali avremo il PIL nazionale.
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- Contabilità economica nazionale: spesa


La spesa in beni e servizi all’interno dei confini nazionali si suddivide in 5 categorie:
1. Consumo: è il valore di mercato di beni e servizi di consumo acquistati sul territorio nazionale.
Comprende molti settori di spesa.
2. Investimento: sono i nuovi acquisti di capitale fisico, non un investimento finanziario, come per
azioni o obbligazioni. Comprende l’acquisto di una casa o di un capannone industriale.
3. Spesa pubblica: è il valore di mercato degli acquisti effettuati dallo Stato, esclude i trasferimenti,
come l’accredito delle pensioni.
4. Esportazioni: sono il valore di mercato di tutti i beni e servizi che vengono prodotti sul territorio
nazionale e poi venduti all’estero.
5. Importazioni: sono il valore di tutti i beni e servizi che vengono prodotti all’estero e acquistati
all’interno dei confini nazionali. Talvolta si sovrappongono alle altre categorie.
Sommando le categorie otteniamo il PIL (Y).
Consumo C
Investimenti I
Y=C+I+G+X–M
Spesa pubblica G
(identità contabile del reddito nazionale)
Esportazioni X
Importazioni M
La differenza tra le esportazioni e le importazioni (X – M) è la bilancia commerciale, essa determina
un surplus commerciale quando è positiva e un deficit commerciale quando è negativa. Dunque,
l’equazione dice che il PIL è uguale alla spesa dei soggetti economici interni sommata alla bilancia
commerciale. L’identità contabile del reddito nazionale è molto importante e verrà usata più volte.
- Contabilità economica nazionale: il reddito
I redditi si possono suddividere in due categorie fondamentali:
• Redditi da lavoro → remunerazioni percepite come compenso per il proprio lavoro.
• Redditi da capitale → derivati dal possesso di capitale fisico (una casa) o finanziario (le azioni).
È una divisione puramente analitica, perché in realtà le persone percepiscono un unico reddito, non
due distinti. Inoltre, sono categorie che spesso si sovrappongono, infatti, i profitti di un’impresa vanno
comunque alle famiglie proprietarie o agli azionisti (e le loro famiglie). Inoltre, siccome l’equazione
del PIL ci comunica il reddito delle famiglie, possiamo anche derivarla per ricavare il loro risparmio.
Tramite alcuni passaggi algebrici arriviamo ad un’altra identità macroeconomica:
Risparmio = Investimento
Nell’equazione ci sarebbero anche import ed export, solo che, siccome sono spesso pari nelle
economie avanzate, possiamo eliderli. Ovviamente non è sempre così, ma a noi basta.
19.3 Ciò che il PIL non può misurare
Il PIL e la contabilità economica nazionale sono un buono strumento per misurare il benessere
dell’economia nazionale. Non è certamente perfetto ed infatti lascia da parte molti elementi:
1. Deprezzamento del capitale fisico: il PIL non tiene conto dell’usura e dell’obsolescenza delle
macchine (e forse anche del capitale umano, le conoscenze). È complicato starlo a quantificare
ma si stima che una sua incorporazione provocherebbe una riduzione del 10/15% del PIL.
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2. Produzione domestica: i lavori di casa non vengono contati nel PIL. Può sembrare una scemenza
ma in realtà il lavoro tra le mura di casa è tantissimo e come tale ha valore.
3. Economia sommersa: si tratta di tutte quelle attività che sfuggono ai radar di chi fa le statistiche,
cioè lavoro nero e attività illegali, come il traffico di droga e la prostituzione. In alcuni paesi,
come l’Italia, incorporarli significherebbe aumentare del 20% il PIL.
4. Esternalità negative.
5. Prodotto nazionale lordo: il PIL conta solo il valore complessivo delle attività svolte entro i
confini nazionali, quindi se un cittadino di quella nazionalità va all’estero a lavorare la ricchezza
che produce non figurerà nel PIL del paese d’origine. Siccome è un caso frequentissimo,
l’economia si è inventata il PNL, che fa riferimento a tutte le attività svolte dai cittadini di un
certo paese, nelle economie sviluppate di solito non differisce di netto dal PIL.
6. Svago e tempo libero: il PIL ignora completamente questa dimensione della vita umana, ci dice
il valore di un’economia, ma non dove questo vada a finire o tantomeno se ottimizzi la felicità.
Nonostante l’ultima pecca, il PIL viene spesso usato anche come misura approssimativa del
benessere sociale. Molti hanno criticato l’adozione di questo indicatore per tastare la felicità
nazionale, ma se ne incrociamo i valori con quelli dell’indice di felicità (per quello che possa
significare) notiamo che la crescita del PIL e della felicità sono direttamente proporzionali.
Inoltre, può essere riscontrata la stessa correlazione anche all’interno dei singoli paesi.
19.4 PIL reale e PIL nominale
Siccome il PIL fa affidamento su quantità e prezzi, nell’analizzare la crescita e la recessione è
opportuno tenere separate le due variabili, dato che una può influenzare l’altra. A noi interessa solo
la variazione della quantità prodotta: se il prezzo sale e la quantità rimane la stessa la crescita è falsa.
Ciò equivale a distinguere tra PIL nominale e PIL reale:
• PIL nominale: è il valore di mercato totale della produzione, misurato a prezzi correnti.
• PIL reale: è il valore totale della produzione calcolato utilizzando i prezzi di un anno specifico,
chiamato “anno base”.
Nel linguaggio quotidiano quando si parla di PIL si fa sempre riferimento a quello reale.
Ford Chevrolet
Quantità Prezzo Quantità Prezzo PIL PIL reale prezzi 2019
nominale (anno base)
2019 10 €30.000 5 €20.000 €400.000 €400.000
2020 10 €40.000 20 €25.000 €900.000 €700.000

- Il deflatore del PIL


Il PIL reale può essere usato anche per studiare l’andamento dei prezzi dell’economia nel suo
complesso. Infatti, se dividiamo il PIL nominale per il PIL reale dello stesso anno e moltiplichiamo
per 100 il risultato, possiamo conoscere di quanto sono cresciuti i prezzi dei beni e dei servizi rispetto
all’anno base. Questo rapporto è definito deflatore del PIL:
𝑷𝑰𝑳 𝒏𝒐𝒎𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆
Deflatore del PIL = × 𝟏𝟎𝟎
𝑷𝒊𝒍 𝒓𝒆𝒂𝒍𝒆

10 × 40.000+5 × 25.000 900.000


Deflatore del PIL (2019) = × 100 = × 100 = 128,6
10 × 30.000+5 × 20.000 700.000
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Si verifica anno per anno la variazione percentuale del deflatore del PIL, che è una misura della
variazione generale del livello dei prezzi.
(128,6−100) 28,6
Variazione percentuale deflatore del PIL2019 = = = 28,6%
100 100

- L’indice dei prezzi al consumo


Il deflatore del PIL viene affiancato da una misura simile: l’indice dei prezzi al consumo (IPC):
𝑪𝒐𝒔𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒂𝒄𝒒𝒖𝒊𝒔𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒖𝒏 𝒑𝒂𝒏𝒊𝒆𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒃𝒆𝒏𝒊 (𝟐𝟎𝟐𝟎)
Indice dei prezzi al consumo (2020) = × 𝟏𝟎𝟎
𝑪𝒐𝒔𝒕𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒔𝒕𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒑𝒂𝒏𝒊𝒆𝒓𝒆 (𝟐𝟎𝟏𝟗)

Le due misure sono molto simili, senonché l’IPC misura la variazione di prezzo di un determinato
paniere, che viene composto ad hoc per una famiglia tipo, mentre il deflatore si riferisce alla
variazione di prezzo dell’intera economia. Insomma, dicono la stessa cosa ma da angolature diverse.
- L’inflazione
La variazione dei prezzi è il tasso di inflazione, per trovarlo si usa l’indice dei prezzi al consumo:
(𝑰𝒏𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒛𝒛𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝟐𝟎𝟐𝟎)−(𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒛𝒛𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝟐𝟎𝟏𝟗)
Tasso di inflazione (2020) =
(𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒛𝒛𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝟐𝟎𝟏𝟗)

È dunque l’IPC a misurare il tasso di inflazione delle famiglie, che è quello che conta veramente.
CAPITOLO 20, IL REDDITO AGGREGATO
20.1 Le disuguaglianze nel mondo
Il primo passo per poter comprendere le disuguaglianze di reddito nel mondo consiste nel mettersi
in grado di misurarle. Come possiamo quantificare le differenze tra gli standard di vita e le condizioni
economiche da Paese a Paese? Il reddito pro capite è una misura solida.
- Misurare le disuguaglianze di reddito pro capite
Se dividiamo il PIL per il totale della popolazione di un Paese otteniamo il reddito pro capite, o PIL
pro capite. La formula rigorosa è questa:
𝑃𝐼𝐿
𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 = 𝑃𝐼𝐿 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 =
𝑃𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
Per esempio, il PIL americano del 2014 era di 17.350 miliardi di dollari che, divisi per la popolazione
totale facevano qualcosa come 53.306 dollari. Cominciamo ora a fare dei confronti, per esempio con
il Messico. Il reddito pro capite messicano dello stesso anno era di 140.101 pesos, che devono essere
convertire in dollari attraverso il tasso di cambio. Il tasso di cambio diceva che 1 peso valeva come
0,076 dollari, quindi moltiplicando questo valore per il reddito pro capite abbiamo: $10.648.
Utilizzando il metodo del tasso di cambio possiamo confrontare il reddito pro capite di tutti i paesi e
veniamo a conoscenza delle grandi disuguaglianze che ci sono nel mondo. Questo non è però il
confronto migliore, perché così facendo non si tiene conto del costo della vita in ogni paese. Per
ovviare a questo problema si usa un’altra strategia, il concetto di parità di potere d’acquisto (PPA
in italiano, PPP in inglese). La stessa operazione che abbiamo fatto per trasformare il PIL nominale
in PIL reale viene eseguita qui. Si stabilisce un paniere di beni essenziali e se ne confronta il prezzo
in diversi paesi: il frutto di quel rapporto è il peso ponderato per cui poi si moltiplica il reddito pro
capite di ogni paese. Così per il Messico abbiamo che, mentre prima il reddito era di $10.648, ora:
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𝑃𝑃𝐴$
𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 𝑖𝑛 𝑃𝑃𝐴$ = 𝑟𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑒 × = 140.101 × 0,11 = $15.411
𝑝𝑒𝑠𝑜
Una differenza netta, del tutto ignorata se si procede con i confronti basati sul tasso di cambio.
- La disuguaglianza e il reddito pro capite
Anche se misurate in termini di parità di potere d’acquisto, le disuguaglianze ci sono e permangono.
Se guardiamo ad un ipotetico mappamondo, notiamo come quasi tutti i paesi africani sono poveri,
molte aree dell’Asia meridionale e dell’America latina sono anch’esse relativamente povere. Le zone
ricche nel mondo sono il Nord America, l’Europa occidentale, alcune parti dell’Asia e dell’Oceania.
- Il reddito per lavoratore
Fin qui abbiamo sempre parlato di reddito pro capite, ma questa misura include anche tutte le
persone che, per un motivo o per un altro, non prendono parte al processo produttivo. Questo fa sì
che le differenze di reddito tra nazioni siano almeno in parte da attribuirsi alla maggiore o minore
quota della popolazione che è effettivamente nella produzione. Un modo molto per eliminare questo
problema consiste nel calcolare il reddito per lavoratore:
𝑃𝐼𝐿
𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 =
𝐿𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑒𝑠𝑒
- Produttività
La ragione principale per cui il reddito medio per lavoratore cambia da un Paese all’altro è la diversa
produttività del lavoro. Per produttività intendiamo la quantità di beni e servizi che un lavoratore è
in grado di produrre con un’ora di lavoro. Il reddito per lavoratore e la produttività sono legati tra
loro e tendono a variare per le stesse cause. Quindi, così si capisce che per studiare le disuguaglianze
bisogna guardare al lato della produzione e in particolare a quei fattori di produzione che rendono
il lavoro più produttivo di altri.
- I redditi e gli standard di vita
A questo punto potrebbe sorgere la domanda se nel
considerare le disuguaglianze sia necessario concentrarsi più
sul reddito pro capite o sul reddito del lavoratore.
Sappiamo come si debba evitare di generalizzare seguendo
l’indicatore del reddito pro capite, ma comunque questo è in
grado di dirci molto sugli standard di vita. Abbiamo visto già
che c’è una correlazione positiva tra reddito pro capite e
felicità, ma il nostro indicatore ci dice molto anche sulla povertà. La soglia di povertà fissata dagli
organismi internazionali è di $1 al giorno e tramite il reddito pro capite siamo in grado di individuare
coloro che vivono sotto questa asticella molto facilmente. La
povertà ci interessa perché ovviamente significa che le
persone in questione conducono una vita difficile, cosa che ci
permette di utilizzare altri indicatori, ancora più selettivi. Ci
accorgiamo che il reddito pro capite è la misura più adatta
per cominciare lo studio delle disuguaglianze incrociando i
suoi valori con quelli di indici come l’aspettativa media di
vita alla nascita e l’HDI stilato dall’ONU. In entrambi i
confronti vediamo l’esistenza di una correlazione tra benessere economico, cioè PIL pro capite, e alta
aspettativa di vita e alto indice di sviluppo umano.
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20.2 La produttività e la funzione aggregata di produzione


- Differenze di produttività
Ci sono tre principali ragioni per cui esistono le differenze di produttività:
(1) Capitale umano. È il bagaglio di competenze utili alla produzione di valore.
(2) Capitale fisico. Intendiamo per capitale fisico qualsiasi bene, come le macchine e gli edifici, che
viene impiegato a fini produttivi. Si tratta di input diversi ma possiamo sommarli insieme
considerando il loro valore monetario. La somma viene definita stock di capitale fisico.
(3) Tecnologia. Un’economia la cui tecnologia è più avanzata impiegherà il lavoro e il capitale in
modo più efficiente, raggiungendo in questo modo livelli più alti di produttività.
- La funzione aggregata della produzione
Il capitale umano, il capitale fisico e la tecnologia svolgono ciascuno una parte nel determinare il
livello di produttività dei lavoratori. La funzione aggregata di produzione è lo strumento che
useremo per comprendere il modo in cui questi tre elementi contribuiscono al PIL. Un concetto chiave
del nostro studio della funzione aggregata di produzione è quello dei fattori di produzione. Dunque,
per studiare il PIL di una nazione guarderemo alla funzione di produzione che descrive il modo in cui
fattori di produzione sono combinati per produrre il PIL.
- Lavoro
Il primo e il più importante fattore di produzione è il lavoro. Una nazione può aumentare la propria
produzione aumentando il numero dei lavoratori. Ricordiamo però che non tutti i lavoratori sono
uguali: ognuno avrà un diverso capitale umano. Queste differenze portano a concludere che il
numero di lavoratori non sia un indicatore efficace per rappresentare la capacità produttiva. È per
questa ragione che introduciamo la misura del lavoro efficiente. Il totale delle unità di lavoro
efficiente è dato dal numero dei lavoratori moltiplicato per il capitale umano medio dei lavoratori.
Un’economia con una migliore tecnologia impiega il lavoro e il capitale fisico in modo più efficiente.
𝑯= 𝑳×𝒉
Osservando questa formula capiamo che per aumentare le unità di lavoro efficiente (H) è necessario
aumentare o il numero dei lavoratori, o il capitale umano medio.
- Il capitale fisico e la terra
Il secondo più importante fattore di produzione è il capitale fisico, di solito indicato con la K (kapital
in tedesco). Un’economia che dispone di più capitale fisico è un’economia in cui i lavoratori hanno
a disposizione più macchinari e strutture, potendo così produrre di più. In realtà, esistono anche fattori
di produzione, ma noi considereremo soltanto di capitale fisico e lavoro per semplicità.
- Tecnologia
L’ultima determinante del PIL di un’economia è la tecnologia, che indica quanto efficientemente si
utilizzano gli input produttivi. Ça va sans dire che adottare una nuova tecnologia alza la produttività.
- Come si rappresenta la funzione aggregata di produzione
Scriveremo la funzione aggregata di produzione nel modo seguente:
𝒀 = 𝑨 × 𝑭(𝑲, 𝑯)
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La Y sta per il PIL, la K è lo stock di capitale fisico, l’H sono le unità di lavoro efficiente, la F indica
che capitale fisico e unità di lavoro efficiente sono una funzione del PIL e la A è un indice del livello
tecnologico. La funzione aggregata di produzione è simile a quella la FPP di un’impresa:
1. Il PIL aumenta al crescere del capitale fisico e del lavoro.
2. La funzione soffre la legge dei rendimenti decrescenti.
La seconda conseguenza ci dice che il contributo marginale di un
fattore di produzione al PIL diminuisce quando aumentiamo la
quantità impiegata di questo fattore, tenendo costanti tutti gli
altri. Nell’immagine vediamo la legge in azione per le aggiunte
di capitale fisico, vale lo stesso per le unità di lavoro efficiente.
20.3 L’importanza della tecnologia e i fattori che la determinano
- Tecnologia
La tecnologia è il terzo elemento che determina il
PIL. Se andiamo più a fondo, vediamo come la
relazione tra i fattori di produzione e il PIL dipenda
dalla tecnologia, che si mette nel mezzo. Il processo
tecnologico pondera la combinazione dei fattori di
produzione, determinando così il PIL.

- Le dimensioni della tecnologia


La tecnologia, così come l’abbiamo definita, è un concetto piuttosto ampio. Le sue componenti
principali sono due e la prima è la conoscenza. Una parte di queste conoscenze fa parte del capitale
umano, ma una parte delle stesse sono incorporate nello stock di capitale fisico a disposizione delle
imprese. Il progresso tecnologico qualche volta è casuale, ma il più delle volte è il frutto di una
programmazione consolidata nel tempo. L’attività che si occupa del progresso tecnologico è il settore
ricerca e sviluppo (R&S), che occupa una grande fetta dell’economie dei paesi industrializzati. La
seconda componente del termine “tecnologia” è meno intuitiva e gli economisti vi si riferiscono con
il nome di efficienza della produzione. Questa è la capacità che una società ha di produrre output
con un dato costo o con un dato livello di conoscenze e di risorse produttive.
CAPITOLO 21, LA CRESCITA ECONOMICA
21.1 Il potere della crescita economica
Abbiamo visto che cosa determina il PIL. Ora possiamo usare queste nozioni per capire perché tante
nazioni sono riuscite ad arricchirsi tanto negli ultimi 200 anni, cercando di allargare lo sguardo alle
disuguaglianze che ci sono nel mondo. Nella discussione faremo sempre riferimento al PIL reale.
- Un primo sguardo alla crescita degli Stati Uniti e dell’Italia
Per cominciare, osserviamo la figura qui sotto, vi è rappresentata la crescita economica di USA e
Italia negli ultimi duecento anni. Abbiamo imparato a correggere i redditi per la PPA e anche a
modificare il PIL nominale al fine di ottenere quello reale. Per quest’ultimo si tratta di calcolare il
PIL ai prezzi di un anno base e quindi a dollari costanti. In questo capitolo si fa così, anno base 2005.
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Il termine crescita economica, o semplicemente crescita, indica l’aumento del PIL pro capite di
un’economia. Per quanto vi siano state delle irregolarità, la crescita americana negli ultimi 200 anni
sembra molto marcata. Ci concentreremo qui proprio su questo andamento positivo. Come possiamo
intuire, il risultato di questa crescita travolgente è stato un innalzamento degli standard di vita, che
oggi sono notevolmente migliori rispetto a quelli del 1870. Per l’Italia c’è stata una lentissima crescita
dal 1870 alla Seconda Guerra mondiale: la nostra economia ha spiccato poi il volo solo a partire dal
secondo dopoguerra. Un tasso di crescita è definito come la variazione di una quantità nel tempo. In
questo caso è la variazione del PIL pro capite in un intervallo che va da un anno (t) all’anno
successivo (t +1). Scegliamo quindi due date, che chiameremo t e t + 1, e denotiamo rispettivamente
con i PIL, y e y + 1. La formula allora sarà:
𝑦𝑡+1 − 𝑦𝑡
𝐶𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎𝑡,𝑡+1 =
𝑦𝑡
Prendiamo dunque due anni per fare un esempio. Consideriamo il 2005 e il 2006 per gli Stati Uniti:
$31.004 − $30.481
𝐶𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎2005,2006 = = 0,013 → 1,3%
$30.481
Questo tasso di crescita è positivo e, in effetti, anche se osserviamo sul lungo periodo i tassi di
crescita medi di Stati Uniti e Italia, ci accorgiamo di come questi si mantengano positivi, 1,6% per
gli USA e 1,1% per l’Italia.
- La crescita esponenziale
Un concetto centrale in questo discorso è la crescita esponenziale, cioè quel tipo di crescita che
avviene a un tasso approssimativamente costante. Insomma, è un processo cumulativo in cui ogni
nuovo incremento si innesta su quelli precedenti. Ciò implica che anche se in origine ci fosse una
piccola differenza nei tassi di crescita di due paesi, a lungo andare si otterrebbero grandi differenze
di reddito. La natura esponenziale della crescita economica è una delle ragioni principali delle
disuguaglianze di reddito tra paesi occidentali e Terzo Mondo. Per capire quanto dirompente sia
questo concetto possiamo fare un esempio concreto. Poniamo che due paesi partano in un certo anno
con un determinato PIL pro capite, mettiamo, 1000$. I due paesi crescono con tassi medi diversi: il
primo al 2%, il secondo solo 1%. Che differenza ci sarà tra 200 anni? Beh, il paese che cresceva di
più ha ora un reddito di $52.485, quello che cresceva di meno la miseria di $7.316, una differenza di
sette volte tanto. Capiamo allora perché l’Occidente sia così tanto più ricco del Terzo Mondo.
- Percorsi di crescita
Insomma, le nazioni che sono cresciute secondo un tasso di crescita medio positivo nel tempo si
sono arricchite, quelle che hanno faticato a creare quella condizione sono rimaste povere.
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La tabella riassume questa situazione per alcuni paesi del Mondo. Notiamo che nei paesi occidentali
il PIL è cresciuto di molto e i tassi di crescita ce ne danno conferma. Non solo, anche paesi che
partivano in condizioni di inferiorità, come la
Spagna, la Cina e l’India, hanno aumentato (e
di molto) il loro PIL. La spiegazione risiede
ancora nei loro robusti tassi di crescita. Infine,
la tabella riporta anche paesi che non hanno
avuto la stessa storia: Haiti, per esempio, era
più povera nel 2010 di quanto fosse nel 1960 e
infatti il suo tasso di crescita è addirittura
negativo.
Se andiamo ancora più a ritroso nel tempo,
vediamo come in realtà nell’800 i redditi nel
mondo non fossero poi così tanto diversi, al
netto di qualche paese che stava meglio di altri.
Di lì in poi però si sono manifestate condizioni tali che hanno permesso ad alcuni paesi di crescere a
ritmi prodigiosi, altri, invece, hanno faticato a tenere il passo. Ci sono però anche casi di paesi che
partono poveri, come la Spagna o la Corea del Sud, che si lanciano alla rincorsa di quelli più ricchi
grazie ad una crescita economia sostenuta nel tempo. Si tratta del fenomeno del catching up, cioè
della tendenza a convergere al livello tecnologico, e quindi anche al reddito, della nazione più ricca,
gli USA. Questa corsa si basa sulla crescita del PIL che, come sappiamo, dipende dall’aumento di
unità di lavoro efficiente, di stock di capitale fisico, ma, soprattutto, del livello tecnologico. Dunque,
questa è una conoscenza importante da tener presente, anche se è vero che il catching up non è un
destino scontato. Infine, l’ultima considerazione da fare è che i paesi più ricchi sono quelli che hanno
avuto una crescita sostenuta per secoli, con un tasso di crescita stabile di cinquantennio in
cinquantennio. Dobbiamo capire quindi, come si possa ottenere tale risultato, che è la strada che verso
la ricchezza.
21.2 Come cresce l’economia di una nazione?
Una prima risposta ci viene dalla funzione aggregata della produzione, 𝑌 = 𝐴 × 𝐹(𝐾, 𝐻), che collega
il Pil ai due fattori di produzione, il lavoro e lo stock di capitale fisico. Come sappiamo, l’andamento
della funzione dipende anche dall’indice di tecnologia, una variabile che include nel calcolo le
conoscenze e l’efficienza della produzione di una data economia. Ne consegue che una nazione possa
aumentare la propria ricchezza insistendo su queste tre componenti. Cominciamo dal capitale
fisico (K), sappiamo che l’unico modo per incrementarlo è fare investimenti. In un’economia chiusa
non ci sono né importazioni, né esportazioni e, se togliamo la spesa pubblica, abbiamo tre variabili
uguali a zero: M = X = G = 0. Quindi nell’equazione della composizione del PIL ci rimangono solo
Y = C + I. Il reddito sarebbe così uguale alla somma tra consumi e investimenti. Da questa logica
capiamo che l’investimento derivi dal risparmio: in un’economia chiusa tutto il reddito verrà speso
o risparmiato. Quindi se I = S (Saving in inglese, Risparmio in italiano), allora il reddito è uguale a:
Y=C+S
Di conseguenza, una nazione che vuole aumentare maggiormente il capitale fisico deve anche
risparmiare di più. Solo che, per sapere quanto si risparmia in una data economia, bisogna conoscere
le decisioni e le preferenze delle famiglie rispetto al risparmio.
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- Ottimizzazione: la scelta tra risparmio e consumo


Prendiamo il PIL degli USA nel 2008, uguale a 14.440 miliardi di dollari. Non tutti questi soldi sono
stati spesi in consumi, in effetti, una parte ingente è stata investita nell’accumulazione di capitale
fisico, cioè destinata a costruire strade, ponti, macchinari etc. Le risorse per costruire queste
infrastrutture sono state reperite dal risparmio delle famiglie (in un’economia chiusa, senza spesa
pubblica e interventi delle banche!). Per capire come il PIL di una nazione sia ripartito tra consumi
e investimenti dobbiamo studiare il trade-off consumo immediato-consumo futuro. Per esempio, è
probabile che le famiglie che sperano di mandare i propri figli all’università risparmino. Si tratta di
scelte che dipendono anche dai prezzi, o meglio, dai tassi di interesse, che in questo caso decretano
quanto fruttano i risparmi: se il tasso di interesse è alto, risparmiare è appetibile. La scelta se
risparmiare o meno dipende anche dalla pressione fiscale e dalle aspettative future sul reddito (se
pensi di guadagnare stabilmente, è meno probabile che ti serva risparmiare). Sono queste le
componenti del tasso di risparmio che, in definitiva, si calcola dividendo il risparmio totale per il
PIL.
- Cos’è che porta ad una crescita sostenuta?
Ma basta aumentare lo stock di capitale fisico per produrre una crescita sostenuta? A dire il vero, no
e il motivo risiede nella legge dei rendimenti decrescenti del capitale fisico. Infatti, come abbiamo
visto prima, a lungo andare, più si aumenta il capitale fisico e meno cresce (in rapporto) il PIL.
Dovremmo quindi provare ad aumentare costantemente le unità di lavoro efficiente? Nemmeno
questa! Ancora una volta per la legge dei rendimenti decrescenti, solo, del lavoro. Non è possibile
aumentare stabilmente il PIL incrementando quantitativamente la forza lavoro e non lo si può fare
nemmeno se ne si aumenta la qualità (non è che si può far studiare le persone per tutta la vita, non
lavorerebbero manco). Insomma, fermo restando che gli investimenti nel capitale fisico e nelle unità
di lavoro efficiente sono fondamentali, non sono loro la chiave per assicurarsi una crescita
economica sostenuta nel tempo. Rimane solo la tecnologia, e in particolare le conoscenze
tecnologiche, l’asso nella manica per ogni economia che si vuole prospera nel tempo.
- Conoscenza, cambiamento tecnologico e crescita
Il cambiamento tecnologico è il processo di invenzione, introduzione ed entrata in uso di nuove
tecnologie o prodotti che aumentano il PIL, con capitale fisico e lavoro costanti. È un processo che
potremmo descrivere per qualunque cosa, per dirne una: l’illuminazione elettrica. In passato costava
un occhio della testa illuminare le città, oggi è quasi gratuito, per via delle costanti migliorie
tecnologiche apportate. Insomma, la crescita esponenziale del PIL è in realtà quella della
tecnologia. Infatti, pensiamoci bene, come la ricchezza viene accumulata anno dopo anno senza
rinunciare a quella passata, la conoscenza – in questo caso tecnologica – si costruisce mattone dopo
mattone: del resto, non si può scrivere se prima non si conosce l’alfabeto. Capiamo dunque che il
cambiamento tecnologico è la chiave della crescita sostenuta, dato che non soffre di rendimenti
decrescenti. Ne consegue che le nazioni con i migliori scienziati, lautamente remunerati e sostenuti,
sono anche quelle più ricche, perché dispongono sempre della migliore tecnologia.
21.3 La storia della crescita e della tecnologia
- La crescita prima del 1800
Prima del 1800 ne è passata di acqua sotto i ponti, tutte le conoscenze, tecniche ed artistiche, si sono
evolute in questo lungo periodo: ecco, l’economia no! È tutto vero, l’economia prima del 1800 non
aveva mai avuto una crescita sostenuta, che è il motivo per cui per secoli c’è stata una diffusa
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povertà. Questo non significa che non ci siano mai stati periodi di crescita economica, ma erano
piuttosto dei saliscendi che non hanno mai fatto spiccare il volo come nell’800. Ci sono due ragioni
per le quali la crescita sostenuta è rimasta una chimera:
• Il ritmo del cambiamento tecnologico era molto più lento.
• Anche se la produzione totale (il PIL) fosse cresciuta, le persone avrebbero continuato a star male.
Quest’ultimo punto è il perno del modello malthusiano, che spiega l’economia pre-contemporanea.
- I limiti malthusiani alla crescita economica
Thomas Malthus aveva una visione molto cupa del funzionamento dell’economia, ma insomma, da
uno che scriveva nel 1798 quando la gente moriva di fame, che cosa mai ci si poteva aspettare?
Malthus incentrava il suo modello su un indicatore ben preciso: la fertilità. Questa si doveva adattare
sempre in modo da mantenere il reddito al livello di sussistenza, cioè al minimo che necessario per
vivere. Insomma, per farla breve, quello di Malthus era un ciclo, non a caso definito malthusiano:
Aumento del PIL → aumento del PIL pro capite → aumento della popolazione → incapacità di
sfamare tutti → crollo del PIL pro capite → morte, distruzione, guerre e carestie
Questa spirale della morte è tanto cruenta quanto esemplificatrice del modello di economia che vigeva
prima dell’Ottocento: il reddito non poteva aumentare più velocemente della popolazione. Non è
un caso che poco prima del diciannovesimo secolo la fertilità diminuì, dando inizio alla transizione
demografica, un fenomeno a cui gli economisti guardano come il preludio della crescita economica.
Il calo della fertilità fu causato dai cambiamenti di quei tempi: l’urbanizzazione e il nuovo lavoro in
fabbrica rese inutile il bisogno di braccia giovani per i campi e il costo della scolarizzazione, che
cominciava a diventare obbligatoria, fece il resto. La transizione demografica fece quindi uscire dalla
trappola di Malthus, facendo finalmente crescere il reddito più velocemente della popolazione.
- La rivoluzione industriale
La transizione demografica da sola non sarebbe bastata ad innescare una crescita sostenuta, essa è
piuttosto la precondizione affinché questa potesse avvenire. La Rivoluzione Industriale è stato il
vero turning point, dato che ha permesso di apportare effettivamente il cambiamento tecnologico ai
processi produttivi. Il fatto singolare è che, guarda caso, le nazioni oggi più ricche, o che quantomeno
hanno una lunga storia di prosperità alle spalle, sono le stesse che hanno preso parte alle due
rivoluzioni industriali nell’Ottocento, a dimostrazione di quanto siano state influenti.
21.4 Crescita, disuguaglianza e povertà
- Crescita e disuguaglianza
Ci sono diverse ragioni pratiche per cui ci si dovrebbe preoccupare della disuguaglianza di reddito.
Infatti, essendo la disuguaglianza un volano per la polarizzazione della società, si crea lo spazio per
un’intensificazione dei fenomeni criminali e in generale della violenza, che può portare anche
all’instabilità politica. Del resto, il reddito pro capite è soltanto una misura media.
- Crescita e povertà
Potremmo chiederci che relazione ci sia tra crescita e povertà. Ebbene, in media una crescita del
reddito pro capite si associa ad una diminuzione della povertà. Vediamo come nel quadrante in basso
a destra, cioè quello caratterizzato da crescita economica e riduzione della povertà, ci siano molti
paesi. Ci sono anche alcuni paesi dove la crescita economica ha corrisposto ad un aumento della
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povertà, come la Nigeria, lo Yemen e la Georgia. Certo,


questa ultima considerazione non può essere ignorata,
ma comunque rimane la tendenza che la crescita
economica sia accompagnata dalla riduzione della
povertà.
- Come possiamo ridurre la povertà?
Le strade per cercare di ridurre la povertà sono tante,
ma spesso la loro applicazione non ha dato frutti sperati.
In sostanza, non c’è una soluzione univoca ed infallibile a questo problema, che è molto molto
complesso. Una delle possibili soluzioni è il commercio internazionale che, anche se genera vincenti
e perdenti, nel complesso aumenta il benessere totale della società che vi prende parte. Un’altra strada
percorribile è l’acquisizione di conoscenze tecnologiche più avanzate.
CAPITOLO 22, PERCHÉ ESISTE UNO SVILUPPO DISEGUALE?
22.1 Cause prossime e cause fondamentali della povertà
Nel capitolo precedente abbiamo capito che il PIL cresce in base ai due fattori di produzione più
l’indice tecnologico. Ma ci potremmo chiedere comunque da dove vengano questi stessi tre fattori.
Insomma, l’economia chiama capitale fisico, lavoro e tecnologia le cause prossime della crescita
economica e cause fondamentali quelle che stanno alla base di quelle prossime. Ci sono diversi
ipotesi a tal proposito, vediamo le più importanti.
- L’ipotesi geografica
Un primo approccio, che chiameremo ipotesi geografica, afferma che le cause fondamentali della
maggiore o minore prosperità di una nazione rispetto ad un’altra sono da ricercarsi nelle differenze
legate alla geografia, al clima e all’ecosistema. Si tratta di uno scenario che, se fosse vero,
condannerebbe perennemente al sottosviluppo i paesi che soffrono che di condizioni geografiche
avverse. Nondimeno, si tratta di un’ipotesi che ha raccolto molti sostenitori, anche illustri, come
Montesquieu e Alfred Marshall. Oggi le loro tesi sono considerate obsolete, e anche un po’ razziste,
dato che discriminano le persone che vivono in luoghi caldi. Certo è che l’ipotesi geografica non è
stata abbandonata del tutto, è stata rielaborata, ma generalmente si è andati oltre.
- L’ipotesi culturale
Altri studiosi hanno cercato di spiegare le differenze delle performances economiche facendo ricorso
ai differenti valori culturali che esistono in seno alle società. Secondo questi assunti, società diverse
reagiscono in maniera diversa agli incentivi alla base dell’attività economica. Max Weber è stato
un fervente sostenitore di questa ipotesi con il suo politeismo dei valori. In particolare, secondo il
sociologo tedesco, l’etica protestante, fatta di duro lavoro e di risparmio (che sappiamo essere
investimento) ha dato il là al prodigioso sviluppo economico dei paesi nordeuropei. Per contro, il
cattolicesimo, più lassista, sarebbe in parte responsabile del ritardo accumulato dai paesi dell’Europa
mediterranea. Infine, c’è da dire che la cultura non è immutabile come la geografia: anche se
lentamente, per tutti i popoli del mondo sarebbe possibile mettersi sulla buona strada.
- L’ipotesi istituzionale
La terza ed ultima ipotesi possibile per la spiegazione delle cause fondamentali sul diverso sviluppo
economico gira attorno al concetto di “istituzioni”. Le istituzioni sono le regole formali ed informali
che governano l’organizzazione sociale. Questa definizione coglie tre aspetti importanti:
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1. Le istituzioni sono definite dagli individui in quanto membri della società.


2. Le istituzioni pongono limiti alla condotta delle persone.
3. Le istituzioni stabiliscono gli incentivi e quindi formano il comportamento.
In sostanza, l’ipotesi istituzionale afferma che le differenze nel modo in cui gli essi umani hanno
scelto di organizzare le loro società, e quindi le differenze che riguardano il sistema di incentivi entro
cui individui e imprese si trovano ad agire, sono alla radice delle disuguaglianze in termini di
prosperità relativa. Insomma, se i mercati assegnano ad ognuno la professione in cui si è migliori, se
le leggi e i regolamenti spingono le imprese ad investire e se il sistema educativo incoraggia gli
individui ad investire nel proprio capitale umano, allora il PIL crescerà necessariamente. Questa
ipotesi non è nuova, risale ai tempi di Adam Smith che la espresse ne La ricchezza delle Nazioni.
- La storia come esperimento naturale: il caso delle due Coree
Una notevole conferma dell’ipotesi istituzionale, ma non una conseguente smentita delle altre due
ipotesi, ci arriva dalla storia stessa. Stiamo parlando del caso delle due Coree, che rappresenta un
vero e proprio esperimento naturale perché tiene ferme le ipotesi geografica e culturale e fa variare
solo quella istituzionale. Il risultato è che l’economia della Corea del Nord annaspa, mentre quella
della Corea del Sud vola. I due paesi fino ai primi anni ’50 erano uniti: stessa geografia, stesso accesso
al mare, stesso clima, stessa lingua e stessi valori; con la spartizione tra URSS e USA arrivò però la
divisione. Al nord si aderì all’economia pianificata, al sud all’economia di mercato, le scelte
istituzionali dei leader dei due paesi ne hanno segnato inevitabilmente lo sviluppo economico.
22.2 Le istituzioni e lo sviluppo economico
- Istituzioni economiche inclusive ed estrattive
L’applicazione del diritto di proprietà privata, che è una delle grosse differenze tra le Coree, è uno
degli aspetti a cui ci riferiamo quando parliamo delle istituzioni. In particolare, le istituzioni
economiche sono regole sociali che riguardano le transazioni economiche. Esse sono di due tipi:
• Istituzioni economiche inclusive: tutelano i diritti di proprietà, creano un sistema giuridico
capace di garantire il rispetto della legge e l’efficacia dei contratti. In sostanza, garantiscono la
libertà d’impresa in tutte le sue forme ed implicazioni.
• Istituzioni economiche estrattive: il nome indica che sono create da chi ha il potere per estrarre
la ricchezza dal resto della società.
Queste ultime non esistono solo in Corea del Nord, ma anche in molti altri paesi con regimi
autoritari. Non è un caso se la Corea del Nord abbia istituzioni economiche di questo tipo: se non ci
fosse un controllo capillare della popolazione, anche nei confronti delle sue attività economiche, che
pure potrebbero portare beneficio al paese, il regime non resisterebbe un giorno perché non
riuscirebbe a mascherare la povertà a cui ha condannato i suoi cittadini. Questa unione tra politica ed
economia sottolinea l’importanza delle istituzioni politiche che, di fatto, stanno a monte di quelle
economiche.
- La logica delle istituzioni economiche estrattive
A questo punto, però, potremmo chiederci che senso abbia istituire delle istituzioni economiche
estrattive se non permettono di avere buoni risultati economici. Joseph Schumpeter ci potrebbe
aiutare con il suo concetto di distruzione creatrice, che si riferisce al processo attraverso il quale le
nuove tecnologie soppiantano quelle vecchie, le nuove imprese prendono il posto di quelle vecchie e
le nuove competenze rendono inutili quelle precedenti. È una valanga capace di trasformare
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un’economia perdente in una vincente. Il fatto è che la distruzione creativa è anche e soprattutto di
matrice politica: la crescita economica crea tutte le condizioni perché si mettano in questioni i regimi
autoritari. Questo è sostanzialmente quello che succede in Corea del Nord dove Kim e i suoi compari
hanno anteposto gli interessi personali a quelli della loro gente, arricchendosi alle loro spalle. Una
crescita economica li farebbe cascare dalla sedia e pertanto non è nei loro piani, anche se questo
significa far morire di fame la propria gente.
- Democrazia e crescita
Detto ciò, sembra che le istituzioni inclusive, responsabili del
successo economico, possano risiedere solo e soltanto in una
democrazia, è questo il modo migliore per migliorare il
benessere di un paese? La Cina, che tutto è tranne che
democratica, è forse l’esempio che fa saltare in aria questa
convinzione? La realtà non dà affatto ragione alla Cina,
mediamente la democrazia ha veramente un effetto positivo
sul PIL pro capite. Infatti, studi mostra che i paesi di recente
instaurazione democratica, tendono a crescere più velocemente dopo i primi 20 anni.
- Come spiegare il rovesciamento delle sorti economiche
Nel nostro discorso abbiamo toccato tanti punti, ma non abbiamo mai pensato a perché alcuni paesi
che in passato erano ricchi ora sono poveri, o viceversa. Diciamo che in questo processo noi
occidentali siamo in gran parte responsabili, infatti, il casus belli è da far risalire alla colonizzazione
europea, specie quella avvenuta durante l’epoca moderna. Specie ai suoi albori, la colonizzazione
era guidata dal profitto, questo significò che i paesi ricchi su cui la forza delle armi diede il controllo
agli Occidentali furono depredati di ogni bene. All’epoca, America latina, Sud-Est asiatico e alcune
zone dell’Africa erano fiorenti civiltà, quindi gli europei ritennero più opportuno spolparle fino al
midollo introducendo istituzioni economiche fortemente estrattive. Viceversa, quando le navi del
Vecchio continente arrivarono in Nord America, in Australia e in Nuova Zelanda, si resero conto che
lì c’era ben poco, pertanto decisero di ricostruire un microhabitat europeo, dove loro stessi avrebbero
desiderato vivere. Ovviamente, vennero stabilite istituzioni economiche inclusive e il risultato oggi
è sotto gli occhi di tutti. La colonizzazione ha quindi pregiudicato lo sviluppo economico di molte
aree nel mondo a favore di altre.
22.3 È possibile eliminare la povertà nel mondo attraverso aiuti internazionali?
Già prima avevamo parlato delle strade per aiutare i paesi ad uscire dalla povertà (commercio
internazionale, progresso tecnologico), non abbiamo però considerato il tema degli aiuti
internazionali. Molti ripongono fiducia nei piani di aiuti, dai maggiori paesi occidentali alla Banca
Mondiale, ma, al netto di qualsiasi afflato altruistico, queste misure non hanno risolto nulla. Perché?
1. Per l’aumento del PIL bisogna lavorare sul capitale (fisico e umano), oltre che sulla tecnologia.
2. Una piccola percentuale degli aiuti viene investita nel sistema educativo e nel progresso
tecnologico, perché il resto se lo intascano i corrotti di quel Paese.
3. Se la causa profonda della povertà risiede nelle istituzioni economiche estrattive che fanno capo
ad un regime che non vuole la crescita economica, come si può pensare che un semplice aiuto
economico possa risolvere la situazione?
Certo, questo non significa che gli aiuti internazionali non servano a nulla, ma non sono affatto la
panacea di tutti i mali per i paesi poveri.
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CAPITOLO 23, OCCUPAZIONE E DISOCCUPAZIONE


23.1 La misura delle disoccupazione
La disoccupazione significa per molti dover sopportare una terribile riduzione del proprio benessere,
dovuta alla contemporanea perdita di reddito, capacità produttiva e autostima. A causa di questi
ingenti costi sociali, la politica economica cerca sempre dei modi per far sì che la disoccupazione sia
meno possibile. Il primo passo è individuare un criterio con cui classificare la disoccupazione, e già
questo è una cosa difficile. Per risolvere queste difficoltà gli economisti hanno elaborato un criterio
standard per definire occupazione e disoccupazione.
- La classificazione della forza lavoro
In Italia la condizione lavorativa si fonda su: occupati, disoccupati e inattivi.
OCCUPATI DISOCCUPATI INATTIVI
1. Chi si dichiara in una
condizione diversa da
1. Chi possiede
quella di occupato.
un’occupazione anche
2. Chi non ha fatto ore
se nel periodo di Persone che non
di lavoro nel periodo
riferimento non la possono essere
di riferimento.
COMPOSIZIONE: svolge. classificate né
3. Chi cerca lavoro.
2. Chi non è occupato come occupati né
4. Chi ha cercato lavoro
ma ha effettuato ore di come disoccupati
nei 30 giorni
lavoro nel periodo di
precedenti.
riferimento.
5. Chi è pronto a
lavorare

A dire il vero, esiste anche una “zona grigia” nella definizione di inattivi, che riguarda soprattutto i
“lavoratori scoraggiati”. Questa categoria è formata da coloro che, pur volendo lavorare, non hanno
più cercato attivamente un mestiere (e in Italia sono tanti). Negli USA la classificazione è simile ma
include un’altra categoria ancora: i lavoratori potenziali, cioè tutti coloro che per legge potrebbero
lavorare. La forza lavoro è la somma tra occupati e disoccupati.
- Il calcolo del tasso di disoccupazione
Il tasso di disoccupazione è definito come la percentuale della forza lavoro che è disoccupata:
𝐷𝑖𝑠𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑡𝑖
𝑇𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 100% ×
𝐹𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜
Allo stesso modo, si può ricavare il tasso di partecipazione alla forza lavoro mettendo in rapporto
la forza lavoro con il totale dei lavoratori potenziali. Questi calcoli sono utili nel trattare la
disoccupazione, ma perdono dettagli importanti. In particolare, il tasso di disoccupazione omette i
lavoratori scoraggiati e quelli sotto-occupati: dei primi abbiamo già parlato, i secondi sono coloro che
hanno già un’occupazione ma che per qualsiasi motivo vorrebbero lavorare di più.
- L’andamento del tasso di disoccupazione
Anche il tasso di disoccupazione è sottoposto ad oscillazioni importanti, per esempio, quando
l’economia è in una fase di recessione il tasso di disoccupazione tende ad aumentare. In Europa,
generalmente, i tassi di disoccupazione stanno intorno al 6-7% nei periodi di crescita, vanno oltre il
17

10% nei periodi di crisi. Un altro aspetto tipico del tasso di disoccupazione è il fatto che non si
avvicina mai allo 0%.
- Chi è disoccupato?
L’incidenza della disoccupazione varia sensibilmente lungo i diversi segmenti della forza lavoro. Per
esempio, le persone con minore istruzione tendono ad avere un tasso di disoccupazione maggiore
rispetto alle persone istruite. Un'altra disparità significativa è quella tra giovani e lavoratori di mezza
età: i secondi sono più esperti e dunque tendono a trovare e a mantenere il lavoro più facilmente.
23.2 L’equilibrio nel mercato del lavoro
Per capire come si determinano i livelli di occupazione e disoccupazione dobbiamo prima capire il
funzionamento del mercato del lavoro. Vedremo le curve di offerta, di domanda e l’equilibrio.
- La domanda di lavoro
Nel mercato del lavoro la domanda è rappresentata dalle imprese, mentre l’offerta la detengono le
famiglie. Le imprese decidono le assunzioni in base al principio di ottimizzazione, dunque
confrontano il ricavo che ottengono da un lavoratore con quanto gli costa mantenerlo. Ci sono due
importanti caratteristiche del mercato del lavoro:
• Il prodotto marginale delle imprese è decrescente: se assumi troppo produci meno.
• L’impresa continua ad assumere finché è possibile aumentare i profitti, poi si ferma.
Dunque, vista la prima caratteristica, la curva di domanda del mercato del lavoro è decrescente, la
seconda condizione, invece, ci dice che un’impresa ottimizzante assumerà la quantità di lavoratori
per cui il valore del prodotto marginale è uguale al salario di mercato (Salario = VPML). Di volta in
volta, l’impresa cambia il numero di lavoratori in modo da far quadrare questa equazione. La curva
del VPLM è quindi quella della domanda di lavoro, perché mostra la relazione tra quantità e prezzo.
- Spostamenti della curva di domanda di lavoro
Qualsiasi cambiamento che riguardi la relazione tra quantità di lavoro e valore del prodotto marginale
avrà come effetto uno spostamento della curva di domanda di lavoro. Essa si sposta per 4 cause:
• Variazione dei prezzi dell’output. Quando il prezzo del bene prodotto dall’azienda diminuisce,
succede la stessa cosa al valore del prodotto marginale del lavoro, per cui un’impresa diminuirà
la forza lavoro. Ovviamente, vale anche il contrario.
• Variazione della domanda del bene o del servizio prodotto. Se diminuisce la domanda del
bene prodotto, lo stesso accadrà con la produttività dei lavoratori, che rischiano di stare con le
mani in mano. Questo porta a tagli del personale.
• Cambiamento tecnologico. Introducendo una nuova tecnologia i lavoratori diventano più
produttivi, facendo spostare verso destra la curva. In qualche caso succede anche il contrario, cioè
quando le macchine sostituiscono i lavoratori.
• Variazione dei prezzi degli input. Se i prezzi degli input usati aumentano, sarà più difficile per
l’impresa mantenere lo stesso livello di lavoratori, dato che saranno meno produttivi.
Detto questo, a noi non servono le curve di domanda di lavoro dei singoli settori, dobbiamo sommarle
tutte per avere cognizione della curva di domanda di lavoro dell’economia nel suo complesso. In
realtà, non si tratta di un’operazione così immediata ma a noi conviene fare in questo modo per
semplificare il modello. A breve vedremo che vale la pena di introdurre questa assunzione
semplificatrice perché potremo intuire meglio come si sviluppa il sistema economico.
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- L’offerta di lavoro
La curva dell’offerta di lavoro rappresenta la relazione tra la quantità di lavoro offerta e il salario.
Come la curva di domanda, anche la curva di offerta è regolata dal principio di ottimizzazione. In
questo caso, i lavoratori dovranno decidere se vale la pena di lavorare per il salario offerto:
ovviamente, più è alto il salario più si è disposti a lavorare. Quest’ultima frase ci permette di costruire
una curva di domanda inclinata positivamente.
- Spostamenti della curva di offerta di lavoro
In generale, qualsiasi cambiamento tra la quantità di lavoro offerta e il salario si tradurrà in uno
spostamento della curva di offerta di lavoro. Queste sono le 3 potenziali ragioni di ciò:
• Un cambiamento nei gusti. Per fare un esempio, prima le donne non lavoravano, ora si, dunque
l’offerta di lavoro è cresciuta di molto.
• Variazione del costo opportunità del tempo. Gli elettrodomestici hanno reso la nostra vita
casalinga molto più semplice: liberatici dall’affanno dei lavori di casa, ora siamo più motivati ad
impiegare il nostro tempo nel lavoro retribuito.
• Cambiamenti demografici. Un incremento della popolazione si associa ad un’analoga crescita
dei lavoratori potenziali, dunque ha l’effetto di accrescere la forza lavoro.
Anche la curva dell’offerta di lavoro complessiva può essere derivata sommando quelle dei settori.
- L’equilibrio nel mercato del lavoro concorrenziale
Qui, l’equilibrio è chiamato market-clearing wage, per indicare
che in quel punto qualsiasi lavoratore che cerca lavoro lo trova,
per la quantità associata al salario “sgombra” il mercato. Al
contrario, un salario che non sgombra il mercato è il risultato di
una rigidità causata da attriti che hanno impedito questo
aggiustamento. Questo mercato del lavoro è un caso ideale: così
le imprese possono assumere e licenziare in maniera istantanea,
ma soprattutto sia lavoratori che imprese godono di una perfetta
informazione e il salario si adatta, è mobile.
23.3 Da cosa dipende la disoccupazione
Assumendo un mercato del lavoro ideale, ogni persona in cerca di lavoro otterrebbe un’occupazione.
In questo modello i disoccupati sono coloro situati sopra l’equilibrio lungo la curva d’offerta, ma
sono coloro che non lavorano perché non gli va bene il salario. Del resto, mancano completamente
tutti coloro che cercano lavoro per uno stipendio anche inferiore a quello di equilibrio. Nel modello
c’è qualcosa che non funziona: abbiamo assunto che tutti abbiano perfette informazioni ma sappiamo
benissimo che nella realtà non è affatto così. Tale asimmetria informativa è la causa della
disoccupazione frizionale, che però non è l’unica causa della disoccupazione, come vedremo.
23.4 La ricerca del posto di lavoro e la disoccupazione frizionale
In un mercato del lavoro ideale, qualsiasi persona disposta a lavorare per il salario di equilibrio troverà
sempre un lavoro. Questo accade perché abbiamo assunto che non ci sia alcun attrito a complicare la
ricerca. Tuttavia, chi ha lavorato veramente sa bene quanto sia complicato trovarsi un impiego,
cosicché di attriti ce ne sono davvero tanti. La complessità della ricerca del lavoro deriva da limiti
oggettivi. La disfunzione che ne emerge è la disoccupazione frizionale.
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23.5 Rigidità dei salari e disoccupazione strutturale


La disoccupazione frizionale risulta dall’attività stessa di trovare lavoro ed è una cosa del tutto
normale. Abbiamo già detto però che questa non è l’unica ragione della disoccupazione, che può
derivare anche dal fatto che il salario richiesto è più alto di quello di equilibrio. Si parla di rigidità
salariale quando il salario viene mantenuto al di sopra del suo livello di equilibrio e di
disoccupazione strutturale in tutti i casi in cui si assiste a un persistente eccesso di offerta di lavoro
rispetto alla domanda. La rigidità salariale è il motivo della disoccupazione strutturale: se mantieni
gli stipendi sopra il livello di equilibrio, vuol dire che ci saranno tante persone disposte a lavorare
anche per meno e quelle rimarranno disoccupate (perché per legge le aziende non possono assumerle
a meno e non possono nemmeno assumerle col salario di legge perché ci perderebbero).
- Le leggi sul salario minimo
In molti paesi esistono leggi sul salario minimo, che di fatto
rappresentano degli attriti al naturale meccanismo del mercato. La figura
mostra in che modo il salario minimo può impedire il riequilibrio tra
domanda e offerta di lavoro. Le leggi sul salario minimo creano vincitori
e perdenti: vincono coloro che ottengono un salario più alto rispetto
all’equilibrio di mercato, perdono coloro che rimangono disoccupati, nel
limbo. Comunque, rimane che il salario minimo non è l’unica
motivazione della disoccupazione strutturale: basti pensare che, per
esempio, negli USA solo l’1% prende il minimo, il resto si attesta su livelli superiori e non è toccato
da questo meccanismo.
- La rigidità verso il basso dei salari e le oscillazioni della disoccupazione
Un’altra forma di rigidità dipende dall’avversione dei lavoratori a qualsiasi diminuzione del salario,
quella che viene chiamata rigidità verso il basso dei salari. Le imprese si guardano bene dal fare
azioni simili, tutt’al più ci provano solo quando sono sull’orlo del fallimento. Si tratta di un altro
fattore che impedisce di raggiungere l’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, generando
disoccupazione. Sostanzialmente, quando c’è la crisi e diminuisce la domanda di lavoro, le imprese
lasciano inalterati i salari per non scontentare i lavoratori. Lasciare invariato il prezzo significa però
operare sull’altra dimensione del mercato del lavoro: la quantità di impiegati, che verrà ridotta,
generando disoccupazione strutturale. Il punto F indicherebbe la disoccupazione con salari
flessibili, il punto E2 mostra quello che accade con salario rigido (aumento della disoccupazione)
- Il tasso naturale di disoccupazione e la disoccupazione ciclica
L’economia ha sempre una certa disoccupazione che peraltro oscilla
nel tempo. Dunque, per distinguere un tasso di disoccupazione
normale da uno anomalo, si usa il tasso naturale di disoccupazione,
cioè la media del tasso di disoccupazione su un lungo periodo. La
disoccupazione ciclica, invece, è la differenza tra tasso di
disoccupazione e tasso naturale. È la disoccupazione extra o in meno
generata dalla performance economica: cresce durante le recessioni e
cala durante la crescita. Per esempio, nel 2013 la disoccupazione
naturale in Spagna era del 16,1%, ma quella rilevata nello stesso anno era del 26,1%: la
disoccupazione ciclica era quindi del 10,1%. La disoccupazione naturale include disoccupazione
frizionale (normale) e strutturale (inefficienza), quindi non significa che il suo valore sia quello
“giusto” perché è naturale, dato che comprende anche l’incidenza delle inefficienze economiche.
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CAPITOLO 24, I MERCATI DEL CREDITO


24.1 Il mercato del credito
Per fare impresa ci vogliono i soldi e spesso, specie all’inizio, non c’è una grossa disponibilità.
Questo significa che, se si crede a fondo nel progetto, bisognerà chiedere un prestito per realizzarlo.
- Debitori e domanda di prestiti
Tutti chiedono dei prestiti, dalle imprese, vecchie o nuove che siano, ai consumatori, che magari
hanno bisogno di un mutuo per acquistare una casa. In economia, gli agenti economici che prendono
denaro in prestito sono definiti debitori, i fondi che effettivamente prestano sono detti creditori.
Saremmo tentati di pensare che solo le banche concedano prestiti, ma in realtà il mercato del credito
è composto da molte istituzioni, anche non bancarie. Naturalmente, non è che si presta gratis, il denaro
ha un costo, espresso tramite il tasso di interesse. Questo è il pagamento aggiuntivo che il debitore
deve al creditore, oltre al completo rimborso del capitale. Sinora abbiamo parlato di tasso di interesse
nominale, che non deve essere confuso con quello reale. Un’importante conseguenza del
meccanismo dei tassi di interesse è che più sono alti, meno si è motivati a chiedere prestiti e viceversa.
- Tassi di interesse reali e nominali
Il prezzo reale di un prestito è il tasso di interesse reale, r, che corrisponde al tasso di interesse
nominale meno l’inflazione. L’inflazione infatti misura la perdita di valore di un dollaro al crescere
del livello generale dei prezzi. È una differenza molto simile a quella tra PIL nominale e reale.
Tasso di interesse reale = tasso di interesse nominale – inflazione → r = i – π
Questa è la cosiddetta equazione di Fisher, ma perché dovremmo lambiccarci il cervello con tutte
queste precisazioni? Perché il potere d’acquisto di un euro oggi non è uguale tra un anno e quindi è
necessario averne coscienza quando si fanno le scelte.
- La curva di domanda di credito
Dal momento che quello che conta è il tasso di
interesse reale, anche la domanda di credito sarà una
funzione di questa variabile. La curva di domanda del
credito è la relazione tra la quantità di credito
domandata e il tasso di interesse reale. Siccome più alto
è il tasso, meno si è invogliati a chiedere in prestito – e
viceversa – la curva ha un’inclinazione negativa.
Comunque, anche se ciò che conta è il tasso di interesse
reale, i prestiti sono tutti concessi secondo un tasso di
interesse nominale. Nel considerare la curva di
domanda di credito dobbiamo osservare se ci sono
movimenti della curva o lungo la curva. I fattori che causano lo spostamento della curva sono molti:
1. Cambiamento nella percezione delle opportunità d’impresa. Se ci sono più clienti, l’impresa
sarà invogliata a chiedere prestiti per finanziare la loro espansione.
2. Cambiamenti delle preferenze e delle aspettative delle famiglie. Le famiglie chiedono prestiti
in base alle loro esigenze e alle loro percezioni sul futuro.
3. Cambiamenti di politica economica. Stiamo parlando del deficit o della tassazione, un aumento
dell’indebitamento dello Stato sposta la curva di domanda verso destra.
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- Le decisioni di risparmio
Ma da dove vengono i soldi che le banche poi prestano? Le banche racimolano fondi attraverso i
depositi che gli agenti economici fanno presso di loro. Le banche fanno quindi da intermediari tra
risparmio e investimento, anche se, come detto non sono le uniche a svolgere tale compito.
Concentriamoci però adesso sui depositanti, cioè sui risparmiatori, che sono la fonte iniziale da cui
vengono i prestiti. Ma perché le persone risparmiano? Sostanzialmente, perché credono sia meglio
mettere da parte una somma di denaro per spenderla in futuro, inoltre, scelgono di depositare i loro
risparmi in banca perché lì hanno la garanzia che questi soldi aumentino secondo un tasso di
interesse, cosa che nascondendo i soldi sotto il materasso non hanno, anzi.
- La curva dell’offerta del credito
La motivazione per la quale esiste un tasso di interesse
sui depositi è semplice: dal momento che risparmiare
implica la rinuncia a spendere quel denaro adesso, lo si
fa solo se in cambio si ottiene qualcosa. Questo
qualcosa è proprio il tasso di interesse, che funge anche
da termometro per i depositi. Infatti, un tasso alto
incoraggerà la scelta del risparmio e viceversa. Tutto
questo ci porta alla convinzione che la curva di offerta
di credito, ossia la relazione tra quantità di credito
offerto e tasso di interesse reale, sia inclinata
positivamente. Come al solito anche qui è necessario
distinguere i movimenti lungo la curva dagli spostamenti della curva, che dipendono da:
1. Cambiamenti nelle decisioni di risparmio delle famiglie.
2. Cambiamenti nelle decisioni di risparmio delle imprese.
- L’equilibrio nel mercato del credito
Il mercato del credito è il luogo in cui coloro che prendono in prestito possono ottenere fondi dai
risparmiatori. Questa è una rappresentazione semplificata, perché assume che i debitori abbiano tutti
la stessa affidabilità nel ripagare il prestito, nella realtà il tasso di interesse cresce con il rischio che
si ha di non vedersi ripagato il debito. Anche in questo mercato, ovviamente, c’è un equilibrio.
- I mercati del credito e l’allocazione efficiente delle risorse
I mercati del credito svolgono una funzione sociale molto importante, dando ai risparmiatori la
possibilità di cedere le loro disponibilità in eccesso a coloro che invece hanno bisogno di prendere
fondi in prestito, portando quindi ad una migliore allocazione delle risorse. Del resto, perché non
dovresti mettere i soldi in banca? Se li metti sotto il materasso sarai sicuro al 100% di ritrovarceli,
ma quando ne usufruirai quei soldi, che sono sempre gli stessi, avranno perso potere d’acquisto per
via dell’inflazione, dunque anche se nominalmente avrai ancora X, realmente ne hai di meno. I
mercati del credito non solo evitano questa conseguenza (perché matura un interesse) ma permettono
nel frattempo a chi ne ha bisogno di usufruirne.
24.2 Le banche e l’intermediazione finanziaria
Le banche fanno da intermediari nel senso che quando depositiamo i soldi sul conto non sappiamo
che cosa ci fanno. Le banche mettono insieme quei soldi e ne fanno vari usi, incluso farsi prestiti tra
di loro. Gestire una banca, fare insomma da intermediario finanziario, è una cosa molto difficile: il
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risparmio può prendere forme diverse, può essere sotto forma di credito o anche sotto forma di quote
societarie. Abbiamo detto fin qui che oltre alle banche esistono anche intermediari finanziari altro
tipo, ora è il momento di richiamarli brevemente. Hedge funds, Private equity funds e Venture capital
funds sono parte di quello che viene chiamato “sistema bancario ombra”. Si tratta di aziende che
permettono di utilizzare il risparmio per l’acquisto di titoli finanziari come le azioni e le obbligazioni.
Insomma, sono una miriade di istituzioni che non sono propriamente banche, perché non accettano
depositi, ma ciò nonostante agiscono come banche per concedere prestiti. La Lehman Brothers che
ha fatto crack nel 2008 era un’istituzione di questo tipo.
- Attività e passività nel bilancio di una banca
Un modo per capire cosa fa una banca è leggere il suo bilancio, guardando attività e passività:
• Attività: sono gli investimenti compiuti, i titoli di Stato posseduti e le somme di denaro che sono
state prese in prestito presso la banca (dalle famiglie e dalle imprese).
• Passività: ne fanno parte i depositi dei clienti della banca e tutti i crediti che questa ha richiesto.
Nel bilancio, come in tutte le imprese, le entrate della banca devono compensare le sue uscite. Usiamo
il bilancio della Citibank per capirci qualcosa:
BILANCIO DI CITIBANK
ATTIVITÀ PASSIVITÀ
Riserve $294 mld Depositi a vista $938 mld
Disponibilità liquide $192 mld Prestiti a breve termine $527 mld
Investimenti a lungo termine $1.398 mld Debito a lungo termine $221 mld

PASSIVITÀ TOT. $1.686 mld


Patrimonio netto $198 mld
ATTIVITÀ TOTALI $1.884 mld Attività totali + Patrimonio netto $1.884 mld

Abbiamo raggruppato le attività totali di Citibank in tre categorie:


1. Riserve bancarie: ne fa parte il denaro contante nel caveau della banca e la disponibilità della
banca depositata presso la Banca Centrale.
2. Disponibilità liquide: sono attività prive di rischio a cui la banca ha accesso immediato, come i
depositi presso altre banche.
3. Investimenti a lungo termine: sono per lo più prestiti alle famiglie e alle imprese, ma anche voci
come il valore degli immobili che la banca possiede, cioè gli edifici dove sono le sedi.
Abbiamo raggruppato le passività totali di Citibank in quattro categorie:
1. Depositi a vista: non sono altro che i conti correnti delle persone che depositano i loro soldi in
banca, sono “a vista” perché costoro li ritengono sempre accessibili.
2. Prestiti a breve termine: comprendono tutti i crediti che la banca ha ottenuto da altre istituzioni
finanziarie e che scadono entro un anno. Molti di questi in realtà sono i prestiti interbancari, detti
overnight perché da restituire nel lasso di 24h.
3. Debito a lungo termine: sono i debiti che devono essere ripagati in un periodo di tempo maggiore
o uguale ad un anno. La differenza tra questa voce e quella degli investimenti a lungo termine è
la principale fonte di rischio per l’attività bancaria.
4. Patrimonio netto: è la differenza fra le attività totali e le passività totali ed è sostanzialmente il
valore totale della banca, o meglio, il valore delle quote azionarie di una banca se i conti sono
fatti bene.
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24.3 Cosa fanno le banche


Il bilancio della banca ci aiuta a delineare quali siano le funzioni che svolgono le banche:
• Le banche individuano le opportunità di finanziamento che possono dare profitto.
• Le banche trasformano passività a breve termine, come i depositi, in investimenti di lungo
periodo, in un processo che si chiama trasformazione delle scadenze.
• Le banche gestiscono il rischio di credito attraverso strategie di diversificazione.
Vediamo adesso tali funzioni più nel dettaglio.
- La scelta delle migliori opportunità di finanziamento
Le banche sono in una posizione ideale per svolgere questa funzione perché ad esse si presenta un
gran numero di soggetti e quindi possono scegliere quello migliore. Non a caso, le banche hanno un
gran numero di funzionari per valutare le opportunità di investimento.
- Le trasformazione delle scadenze
Abbiamo visto nel bilancio di Citibank che la banca trasformar sue passività a breve termine in attività
a lungo termine. La scadenza è il tempo entro cui un debito deve essere ripagato. I depositi a vista
hanno una scadenza di 0 anni, perché il cliente può prelevare dal deposito in ogni momento. È quando
la banca concede dei prestiti che ci sono delle scadenze che vanno da 1 a 30 anni. La ricollocazione
dei risparmi all’interno della voce investimenti è quella che viene chiamata trasformazione delle
scadenze. Si tratta di una situazione con cui le banche si trovano a che fare quotidianamente. Il
problema sorge quando tante persone vogliono prelevare soldi, anche se la banca li ha già impegnati
in altri investimenti. Per risolvere la questione, la banca non presta mai tutti i soldi che ha in cassa
ma ne conserva sempre una certa percentuale sotto forma di riserve.
- La gestione del rischio
Ai propri depositanti le banche promettono che non perderanno mai un centesimo. Non è una
promessa da poco, dato che i prestiti in cui si impegnano le banche talvolta sono rischiosi. Le banche
in questo senso cercano di tutelarsi diversificando i propri investimenti: in sostanza, cercano di
non prestare tutti i soldi ad un solo debitore, al fine di evitare di perdere tutto se il prestito non viene
ripagato. D’altronde, non è mica una garanzia sufficiente, come ha dimostrato la crisi economica del
2008. In quel caso, i risparmiatori sono stati protetti attraverso la seconda strategia di gestione del
rischio: il trasferimento del rischio in primo luogo verso gli azionisti delle banche e infine, come
spesso accade, verso lo Stato. Per capire che succede facciamo un esempio: supponiamo che le
attività a lunga scadenza di una banca perdano il 10% del valore. Assumiamo che la banca abbia
attività per 11 miliardi di euro, di cui 1 miliardo di riserve e disponibilità liquide e 10 miliardi di
attività a lungo termine. Primo, il valore degli investimenti a lungo termine è diminuito di un miliardo
(il 10% che avevamo detto). Secondo, il valore del patrimonio netto è anch’esso diminuito.
BILANCIO DI CITIBANK (prima del -10%)
ATTIVITÀ PASSIVITÀ
Riserve e disponibilità liquide 1 miliardo Depositi a vista 9 miliardi
Investimenti a lungo termine 10 miliardi
PASSIVITÀ TOT. 9 miliardi
Patrimonio netto 2 miliardi
ATTIVITÀ TOTALI 11 miliardi Attività totali + Patrimonio netto 11 miliardi
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BILANCIO DI CITIBANK (dopo il -10%)


ATTIVITÀ PASSIVITÀ
Riserve e disponibilità liquide 1 miliardo Depositi a vista 9 miliardi
Investimenti a lungo termine 10 – 1 = 9
PASSIVITÀ TOT. 9 miliardi
Patrimonio netto 2–1=1
ATTIVITÀ TOTALI 11 – 1 = 10 Attività totali + Patrimonio netto 10 miliardi

Questo esempio mostra come gli azionisti si prendano carico di tutti i rischi cui la banca è esposta,
perché il valore delle loro azioni, esemplificato dal patrimonio netto, diminuisce. In sostanza, se
l’investimento si rivela infruttuoso, gli azionisti aprono il portafoglio fino a quando c’è dentro
denaro. Tuttavia, se anche gli azionisti non hanno più una lira per piangere, perché il patrimonio
netto è negativo, beh allora è necessario l’intervento dello stato per salvare i risparmi dei clienti della
banca. L’intervento pubblico è diverso da paese a paese, negli USA interviene la Federal District
Insurance Corporation (FDIC) che assume il controllo della banca e decide se chiudere
definitivamente o se girarla ad una nuova proprietà. Nel primo caso, lo Stato restituisce le somme
ai risparmiatori (fino a $250.000 in America, fino a €100.000 in Italia) mentre azionisti e creditori
della banca rimangono a bocca asciutta. Nel secondo caso, che è il più frequente, lo Stato facilità
l’acquisizione della banca in dissesto finanziario verso una banca sana: anche in questo caso gli
azionisti e i creditori non prendono nulla, mentre vengono garantiti tutti i risparmi. Sostanzialmente,
si tratta di un passaggio di una banca insolvente ad una che invece è solvente, ma affinché questo
accade bisogna che quest’ultima ci guadagni qualcosa. Questo significa che lo Stato – e quindi tutti i
cittadini, pagano fior di quattrini affinché la banca solida si accolli quella insolvente.
- La corsa agli sportelli
Per quanto socialmente utile, la funzione delle banche di trasformare le scadenze è molto rischiosa,
come abbiamo visto. Il fatto stesso di trasformare passività a breve termini in attività a lungo termine
significa immobilizzare somme di denaro che la banca potrebbe trovarsi a restituire in ogni momento.
Questo è esattamente quello che succede durante un panico bancario, quando si verifica la cosiddetta
corsa agli sportelli per ritirare i propri risparmi. In pratica, le persone temono che la banca non sia
in grado di restituire i loro soldi e quindi si precipita a ritirarli in massa per ritirarli finché ci sono. La
corsa agli sportelli genera dei costi importanti, che bloccano il mercato finanziario ogni volta. Casi
famosi sono quelli della crisi del 2008 o della crisi greca del 2015, quando vennero ritirati in pochi
mesi 45 miliardi di euro. Il collasso del sistema fu evitato con riserve di liquidità concesse dalla BCE.
- La regolamentazione bancaria e la solvibilità delle banche
Se le corse agli sportelli fossero un evento frequente, il sistema bancario sarebbe alquanto instabile.
Ma fortunatamente, grazie all’assicurazione sui depositi questi eventi sono abbastanza rari dagli
anni ’30 in poi. La coscienza di essere in qualche modo tutelati, fa sì che si verifichino di rado.
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CAPITOLO 25, IL SISTEMA MONETARIO


25.1 La moneta
L’economia mondiale è un sistema davvero complesso, lo strumento che viene usato per condurre
le sue miriadi di transazioni è la moneta. L’uso della moneta è fondamentale dato che ci permette di
unificare l’unità di misura di tutti i beni e servizi nell’economia.
- Le funzioni della moneta
In un’economia moderna la moneta svolge simultaneamente tre funzioni:
1. Mezzo di scambio;
2. Riserva di valore;
3. Misura del valore relativo, o unità di conto.
Un mezzo di scambio è qualcosa che può essere scambiato con beni e servizi, facilitando così il
commercio. La moneta è un mezzo di scambio migliore quando agisce anche da riserva di valore.
In questo caso permette anche di trasferire potere d’acquisto dal presente al futuro (una banconota da
€10 vale quella cifra tanto oggi quanto domani). La moneta ci dà anche un metro di misura dei prezzi,
dato che tutti i negozi usano lo stesso sistema, facilitando il commercio. Insomma, le economie
moderne usano la moneta anche come unità di conto.
- Tipi di moneta
Al giorno d’oggi si utilizza la moneta a corso legale, cioè qualcosa che la legge stabilisce essere
moneta e che non è convertibile in una qualche merce di pari valore come l’oro o l’argento.
- L’offerta di moneta
Quando in economia si parla di moneta si intende in realtà un insieme di mezzi di pagamento di varia
natura. A partire da questa premessa, definiamo l’offerta di moneta come l’insieme della moneta
circolante, dei conti correnti, dei conti a risparmio e di molti altri tipi di conto bancario. Questa
definizione si indica spesso con il nome
M2, esistono anche M1 e M3 ma noi
useremo sempre M2. La figura mostra
l’evoluzione della moneta circolante
(cioè quella che si usa, che non sta nei
caveau) e dell’offerta di moneta M2 in
America. A noi serve dividere entrambe
queste quantità per il PIL nominale e
infatti vediamo come i due valori siano
completamente diversi. Se pensiamo a
quanti soldi portiamo in giro rispetto a
quanti ne abbiamo realmente sul conto questa cosa non ci sorprende molto: è una differenza del tutto
normale. La figura ci dice qualcosa in più anche riguardo l’andamento di questi due rapporti sul lungo
periodo. Come si vede, nessuno dei due rapporti indica una chiara tendenza di lungo periodo, anche
se entrambi oscillano in continuazione.
25.2 Moneta, prezzi e PIL
Adesso ci accingeremo allo studio della relazione tra moneta, prezzi e PIL nominale. Ci avvarremo
del fatto che il rapporto tra moneta e PIL nominale tende ad essere stabile nel lungo periodo.
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- PIL nominale, PIL reale e inflazione


Allora, il PIL nominale è il valore della produzione totale ai prezzi correnti, il PIL reale è il valore
della produzione totale ai prezzi fissati ad un anno base. Il tasso di inflazione, invece, è il tasso di
crescita generale dei prezzi. Dunque, siamo già a conoscenza di una delle proprietà basilari del PIL
nominale: la crescita annuale può dipendere da un aumento dei prezzi, della produzione o dei due
fattori messi insieme. Partiremo da questa idea per elaborare una teoria che descriva il nesso tra tasso
di crescita dell’offerta monetaria, tasso di inflazione e tasso di crescita del PIL.
- La teoria quantitativa della moneta
Innanzitutto, nel lungo periodo, il rapporto PIL nominale-offerta di moneta è costante:
𝑂𝑓𝑓𝑒𝑟𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑛𝑒𝑡𝑎
= 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
𝑃𝐼𝐿 𝑛𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒
È la teoria quantitativa della moneta ad assumere che questo rapporto sia esattamente costante. A
dire il vero non è sempre così, però questo modello è una buona approssimazione sul lungo periodo
e, in effetti, la teoria funziona. Se un rapporto tra due variabili è costante, vuol dire che offerta di
moneta e PIL nominale sono uguali. Quella appena menzionata è un’implicazione della teoria:
Tasso di crescita dell’offerta della moneta = Tasso di crescita del PIL nominale
Noi sappiamo però che il tasso di crescita del PIL nominale dipende a sua volta da (1) tasso di
inflazione e (2) tasso di crescita del PIL reale. Quindi riscrivendo l’equazione:
Tasso di crescita dell’offerta di moneta = Tasso d’inflazione + Tasso di crescita PIL reale
Facendo qualche passaggio algebrico abbiamo che:
Tasso d’inflazione = Tasso di crescita dell’offerta di moneta – Tasso di crescita PIL reale
Questo risultato è importante e ci dice che, maggiore è la differenza tra tasso di crescita dell’offerta
di moneta e tasso di crescita del PIL reale, maggiore è l’inflazione.
25.3 L’inflazione
Abbiamo già visto che il tasso di inflazione si riferisce sempre all’aumento di un indice dei prezzi.
Naturalmente, queste variazioni non sono mica sempre positive: infatti, se il livello dei prezzi scende,
parliamo di tasso di deflazione. Dopo gli anni ’30 l’inflazione è stata la regola.
- Le cause dell’inflazione
C’è inflazione se il tasso di crescita dell’offerta di moneta è superiore al tasso di crescita del PIL
reale, come avviene per esempio in questo caso:
tasso di crescita dell’offerta di moneta (2%) – tasso di crescita PIL reale (1%) = inflazione (1%)
Come si vede dalla figura, più è grossa la differenza tra tasso di crescita dell’offerta monetaria e tasso
di crescita del PIL reale più aumenta l’inflazione. Nei casi come quelli dell’Argentina si parla di
iperinflazione, associata sempre ad una crescita estremamente veloce dell’offerta di moneta, che il
più delle volte è causata da un forte deficit dello Stato. Quando non ci sono soldi per pagare la
macchina pubblica e per realizzare le politiche lo Stato può farsi prestare i soldi o stampare lui
stesso soldi. Ovviamente, così facendo, vengono immessi moltissimi soldi nel sistema (aumento
dell’offerta di moneta), cosa che fa schizzare alle stelle l’inflazione.
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Il tasso di inflazione in rapporto alla


differenza tra crescita dell’offerta di
moneta e crescita del PIL reale

- Le conseguenze dell’inflazione
Se lo stipendio aumenta tanto quanto i prezzi dei beni di consumo, tanto da mantenere sempre uguale
il potere d’acquisto, una moderata inflazione non è poi così problematica. Tuttavia, questo scenario
non si verifica molto di frequente e spesso, specie nel breve periodo, l’inflazione genera perdite o
guadagni inattesi. Infatti, se consideriamo il fatto che il nostro stipendio nominale è sempre quello,
qualsiasi aumento dell’inflazione ci danneggia, dato che diminuisce il nostro potere d’acquisto. Per
contro, l’azienda ci guadagna, perché pur pagando la stessa cifra, allo stesso tempo guadagna di più.
Il consumatore ci può anche vincere: per esempio, se si fa un mutuo a tasso fisso e l’inflazione cresce
pagare la rata inciderà relativamente meno rispetto alla sottoscrizione del prestito. In generale,
funziona così: quando i pagamenti e le spese non sono indicizzati all’inflazione, un aumento di
quest’ultima favorisce alcuni agenti economici e ne danneggia altri. Queste sono grossomodo le
conseguenze a livello individuale, ma ce ne sono altre anche a livello collettivo.
- I costi sociali dell’inflazione
L’inflazione fa i danni anche a livello collettivo principalmente per tre ragioni:
1. Un alto tasso di inflazione provoca un aumento dei “costi di menu”. Quando si parla di “costi
di menu” si fa riferimento al fatto che i commercianti devono continuamente stare a cambiare i
loro prezzi in caso di aumenti galoppanti del tasso di inflazione. Per esempio, quando ci fu
l’iperinflazione tedesca del 1922-23 i negozi avrebbero dovuto cambiare i prezzi ogni giorno.
2. Un’inflazione molto alta ha effetti distorsivi sui prezzi relativi. Quando l’inflazione è troppo
alta i prezzi non aumentano in modo sincronizzato, cosicché, mentre lo stipendio è fermo al palo,
i beni essenziali diventano più costosi. Si genera dunque inefficienza economica.
3. L’inflazione talvolta conduce a politiche deleterie per l’economia come il controllo dei
prezzi. L’inflazione fa arrabbiare le persone, pertanto, i politici devono prendere provvedimenti
popolari come il controllo dei prezzi che, come abbiamo visto, fa più danni della grandine.
- I benefici sociali dell’inflazione
L’inflazione può anche avere qualche effetto positivo:
1. Stampando moneta lo Stato può aumentare le proprie entrate. Se lo Stato stampa e spende
subito un’enorme quantità di moneta, ci sarà sicuramente iperinflazione. Ma se al contrario
stampa e non spende tutto subito, beh allora l’inflazione sarà moderata e in compenso lo Stato
avrà liquidità. Rimane comunque un’arma a doppio taglio che, tra l’altro, per l’Italia e gli altri
paesi dell’Eurozona, non è più possibile stampare moneta, dato che la BCE lo vieta per tenere
sotto controllo il livello dei prezzi del mercato unico. Ne consegue che nell’Eurozona il potere di
stampare moneta per finanziare il debito lo detiene la BCE. Questa pratica, detta signoraggio, va
in base alle quote con cui le banche centrali nazionali partecipano al capitale della BCE, per la
Banca d’Italia è il 12,49% (la più alta è la quota della Bundesbank, 18,93%).
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2. In alcuni casi l’inflazione può stimolare l’attività economica. In un certo senso, la diminuzione
del salario reale da corrispondere ai dipendenti dovrebbe essere un incentivo per le imprese ad
assumere maggiormente, stimolato anche dai ricavi crescenti (d’altronde, se i prezzi crescono!).
Come abbiamo visto prima, l’inflazione fa anche diminuire il tasso di interesse reale, che sarebbe
il tasso di interesse reale corretto per l’inflazione. Dal momento che le aziende e i comuni cittadini
traggono la liquidità per investire dalle banche, l’inflazione sarebbe indirettamente anche un
incentivo ad investire e dunque una molla per l’aumento del PIL.
25.4 La banca centrale
In ciascun paese il sistema monetario è gestito dalla Banca Centrale. Qui elencheremo solo le
funzioni principali delle banche centrali e gli strumenti con cui le assolvono.
FEDERAL RESERVE BANK (FED)
Negli USA la banca centrale si chiama Federal Reserve Bank o più semplicemente FED. È
composta da un comitato esecutivo di 7 membri nominati dal Presidente USA, tra questi viene scelto
anche il Governatore della banca. Gli obbiettivi principali della FED sono:
• Condurre una politica monetaria che porti alla massimizzazione dell’occupazione, al
mantenimento di uno stabile livello dei prezzi e a moderati tassi di interesse.
• Regolare e controllare le istituzioni finanziarie (bancarie e non) degli Stati Uniti.
• Mantenere la stabilità del sistema finanziario e contenerne il rischio.
• Servizio di tesoreria a istituzioni finanziarie nazionali, estere e al governo (conservano le riserve).
BANCA CENTRALE EUROPEA (BCE)
La Banca Centrale Europea (BCE) è figlia del Trattato di Maastricht del 1992, è diventata operativa
nel 1998 con la nascita dell’Eurozona. Il trattato ha istituito anche il SEBC, cioè il sistema europeo
delle banche centrali, di cui fanno parte tutti i paesi dell’UE, anche quelli fuori dall’Eurozona. La
BCE si articola in un Consiglio Direttivo e un Comitato Esecutivo: nel primo siedono i governatori
delle banche centrali nazionali, il secondo è composto da tecnici di comprovata bravura. Questi
vengono nominati nel Consiglio Europeo a maggioranza qualificata. Gli obbiettivi della BCE sono:
• Innanzitutto, un basso e stabile livello di inflazione, per salvaguardare il valore dell’euro.
• Una crescita sostenibile, non inflazionistica, che rispetti l’ambiente e che promuova la
convergenza degli standard di vita dei paesi membri.
• Elevato livello di occupazione e miglioramento di tutti una serie di parametri a livello europeo.
• Supervisione delle istituzioni finanziarie dell’Eurozona
- La banca centrale e gli obiettivi di politica monetaria
Possiamo dire che, in generale, la banca centrale è l’istituzione pubblica che manovra alcuni tassi
di interesse di riferimento, controlla in modo indiretto l’offerta di moneta ed esercita una funzione di
monitoraggio delle istituzioni finanziarie. L’attività della banca centrale è riconducibile alla
cosiddetta politica monetaria. Al netto di particolarismi vari, le banche centrali puntano a due cose:
1. Livelli bassi e prevedibili del tasso di inflazione;
2. Livello massimo (sostenibile) dell’occupazione.
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- Cosa fa una banca centrale


La banca centrale (pubblica) opera a stretto contatto con quelle private, innanzitutto nella veste di
regolatore. La banca centrale infatti supervisiona i bilanci delle banche private e può richiamare
all’ordine quelle scellerate. Dalla crisi del 2008 in poi questo ruolo è diventato molto pressante. La
banca centrale è tenuta anche a supervisionare attivamente il sistema dei pagamenti interbancari:
se un cliente di Unicredit deve fare un bonifico su un conto Intesa San Paolo, i soldi vengono girati
prima alla banca centrale e poi ad Intesa San Paolo. Inoltre, la banca centrale detiene anche le riserve
delle banche private (ad eccezione dei contanti che stanno nei rispettivi caveau). La gestione delle
riserve è uno dei ruoli più importanti e complessi in seno alle banche centrali: questa responsabilità
gli consente di esercitare influenza su tre elementi:
1. I tassi di interesse a breve, in particolare il tasso interbancario, quello overnight.
2. L’offerta di moneta e il tasso di inflazione.
3. Il tasso di interesse a lungo termine
Ci si potrebbe chiedere come il tasso di occupazione possa dipendere da una banca, la realtà è che,
abbassando i tassi, la BC stimola la domanda di credito da parte delle imprese, innescando un
meccanismo che porta all’aumento della domanda di lavoro, che si traduce in occupazione. Detto
questo, noi ora dobbiamo giustamente capire perché queste riserve siano così importanti. Per farlo
procederemo in questa maniera:
1. Cominceremo con una discussione sul ruolo delle riserve bancarie nell’economia, esse sono
oggetto di scambio e infatti hanno un apposito mercato.
2. Vedremo l’equilibrio di questo mercato e dunque un tasso di interesse chiave.
3. Vedremo l’influenza esercitata dalla BC sull’offerta di moneta e sull’inflazione, a loro volta
influenzate dall’andamento del mercato delle riserve bancarie.
4. Infine, vedremo come il tasso di interesse in mano alla BC, che è a breve termine, influenzi anche
quello a lungo termine, che è quello che interessa veramente a chi fa investimenti.
- Le riserve bancarie
Abbiamo già visto che cosa siano le riserve, denaro contante che la banca privata conserva nei propri
caveau, insieme con le sue ulteriori disponibilità depositate presso la banca centrale. Insomma, le
riserve bancarie non fanno parte di M2, cioè l’offerta di moneta in mano alle famiglie e alle
imprese. C’è da dire, però, che chi detiene le riserve influenza anche l’offerta della moneta. Dunque,
per svolgere le loro operazioni quotidiane, le banche private hanno bisogno di fondi, provenienti
direttamente dalle loro riserve. Perché gli dovrebbero servire? In un giorno può capitare che ci siano
più prelievi che depositi, oppure che sia necessario prestare una grossa somma attualmente non
disponibile. Insomma, in tutti questi casi c’è bisogno di liquidità, cioè di fondi pronti all’uso. Le
banche private devono detenere un certo numero di riserve fissate per legge dalla BC, si tratta di una
percentuale, tipo 10%, che deve rimanere in cassa. Detto questo, le riserve aggiuntive oltre a quelle
obbligatorie sono dette “riserve in eccesso”. Quando una banca ha bisogno di liquidità per tirare
avanti, la prima linea di difesa sono le riserve che ha in cassa e quelle conservate presso la banca
centrale. Tuttavia, questa scorta spesso non basta, dunque, se la banca non riuscisse a finanziarsi in
qualche altro modo, rischierebbe di fare crack. La soluzione più comune è quella che vede la banca
stessa chiedere soldi in prestito ad un’altra banca e non si tratta mica di una situazione anomala.
Facciamo un esempio per vedere quanto queste situazioni siano frequenti: immaginiamo che una
grande azienda abbia un conto presso una banca. Nei giorni di paga l’azienda preleva centinaia di
miglia di euro, necessari per pagare i lavoratori: la banca si troverà a quel punto senza una lira e
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chiederà quindi aiuto alle altre banche (quelle dei dipendenti?) cariche di soldi. Questo è il campo
d’azione del cosiddetto mercato interbancario, che in America si chiama federal funds market. Su
questo mercato le banche si fanno prestiti a vicenda, che scadono solitamente in 24h, ecco perché
si chiama mercato overnight. Per lo stesso motivo, il tasso di interesse su questi prestiti si chiama
tasso overnight o interbancario. Può sembrare strano, ma le banche vivono di questi prestiti e li
conducono quotidianamente in maniera efficiente.
- La domanda del mercato interbancario
La curva di domanda delle riserve riguarda le riserve che
sono detenute dalle banche private presso la BC (non ne
fanno parte quelle nei singoli caveau). Questa curva
rappresenta sempre il totale delle riserve delle banche,
non solo quelle prese in prestito. In sostanza, la curva di
domanda delle riserve rappresenta la relazione tra quantità
domandata e tasso interbancario: le riserve sono la rete di
sicurezza delle banche che preferiscono averne in quantità
se costano poco, questo è il motivo per cui la curva è
inclinata negativamente. Occorre soffermarsi anche su cosa può indurre la curva a spostarsi: ci sono
5 motivi principali per cui questo può accadere e gli ultimi 2 li detiene la BC:
1. Espansione o contrazione dell’economia. Durante i boom economici le banche hanno bisogno
di liquidità per concedere prestiti e le riserve sono una fonte di liquidità.
2. Cambiamento del fabbisogno di liquidità. Se le banche si aspettano una corsa agli sportelli,
aumentano comprensibilmente il loro bisogno di liquidità per pagare i risparmiatori.
3. Cambiamento del volume dei depositi. Se aumenta la quantità di depositi, le riserve dovranno
aumentare proporzionalmente, dato che la percentuale obbligatoria è fissata per legge.
4. Cambiamento degli obblighi di riserva. La banca centrale può aumentare o diminuire la quota
legale di riserve che le banche private devono mantenere.
5. Cambiamento del tasso di interesse pagato sulle riserve in deposito presso la banca centrale.
La BC è la banca delle banche: fa maturare un interesse sui depositi delle banche private, dunque
se questo sale, i privati saranno motivati a depositare presso la BC.
- Il lato dell’offerta e l’equilibrio sul mercato interbancario
Vediamo adesso l’offerta del mercato interbancario, considerando il caso della banca centrale sul
mercato overnight. Il modello è semplice, l’offerta di riserve è una linea verticale fissata ogni mattina
dalla banca centrale. Per comodità, cominciano a vedere il caso in cui la linea rimane immobile e non
si sposta. Il punto in cui domanda e offerta si incontrano è l’equilibrio sul mercato overnight, in cui
i due valori si equivalgono. In molti casi le attività scambiate sono titoli di stato, emessi direttamente
dallo stato o da esso patrocinati. Quando vuole aumentare le sue riserve, la BC compra titoli di stato
dalle banche private in cambio di riserve elettroniche. Queste mosse si chiamano “operazioni di
mercato aperto” e riescono a spostare la curva d’offerta delle riserve. Insomma, la BC può condurre
la politica monetaria in due modi: può tenere la curva d’offerta fissa, lasciando che gli scambi
siano dettati dalla domanda o può essa stessa determinare il tasso di interesse, attraverso gli
spostamenti della curva d’offerta delle riserve. Per questa seconda opzione, la BC prima sceglie il
tasso e poi cerca di far incastrare domanda e offerta proprio in quel punto: è così che il tasso si può
mantenere fisso nel tempo, perché l’offerta si adegua automaticamente alla domanda, ovunque le
vada.
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Figura 1 Politica monetaria con Figura 2 Politica monetaria con


equilibrio deciso dalla domanda equilibrio deciso dall’offerta
(comandano le banche private) (comanda la Banca Centrale)

La politica monetaria delle banche centrali dagli anni ’80 in poi preferisce mantenere stabile il tasso
di interesse interbancario, cambiandolo soltanto quando si rende necessario stimolare l’economia.
- L’influenza della BC sull’offerta di moneta e sul tasso di inflazione
I movimenti dei tassi d’interesse overnight non sono che una delle conseguenze della gestione delle
riserve da parte delle banche centrali. La BC non può controllare direttamente né l’inflazione né
l’offerta di moneta, perché le riserve non ne fanno parte. Tuttavia, tramite quest’ultime è possibile
pilotare il livello dei prezzi che finché rimane su dei livelli stabili non desterà particolare attenzione.
Come abbiamo visto con la teoria quantitativa della moneta:
Tasso d’inflazione = Tasso di crescita dell’offerta di moneta – Tasso di crescita PIL reale
Dunque, ogni qualvolta l’inflazione supererà un livello critico, la BC cercherà di ridurre il tasso di
crescita dell’offerta di moneta, su cui ha un controllo indiretto. Questo tipo di controllo dipende dal
fatto che l’offerta di moneta cresce quando le banche concedono prestiti, quindi se la banca centrale
scoraggia i prestiti alzando il tasso interbancario, allora la quantità di offerta di moneta diminuirà. Lo
stesso succede nel caso opposto, in cui la BC taglia i tassi per agevolare prestiti e investimenti.
- La relazione tra i tassi di interesse a breve e lungo termine
L’ultima conseguenza della gestione delle riserve bancarie da parte della BC è l’influenza dei tassi
di interesse reali a lungo termine tramite quelli a breve termine (quelli overnight). Abbiamo visto
che il tasso di interesse reale è la differenza tra il tasso di interesse nominale e l’inflazione. La
decisione o meno di fare un investimento viene presa prestando attenzione al tasso di interesse reale
di lungo periodo e quando diciamo “lungo periodo” ci riferiamo almeno a 10 anni, che è la scadenza
a cui solito si fa riferimento. Ma come può un tasso overnight, che dura 24h, influenzare un altro tasso
che scade di qui a dieci anni? Per capirlo dobbiamo ragionare in termini di aspettativa sul tasso di
interesse reale effettivo, cioè quanto pensiamo che l’inflazione distorcerà il tasso nominale che
accettiamo al momento di richiedere il prestito. Il tasso di interesse reale effettivo è:
Tasso di interesse reale effettivo = tasso di interesse nominale – tasso di inflazione effettivo
Insomma, è quello che si pagherà effettivamente. Quando si prende denaro in prestito non si può
sapere quale sarà l’andamento dei prezzi, quindi si cerca di fare una media utilizzando il tasso di
interesse reale atteso (il valore atteso), sottraendo l’inflazione che ci si attende. Su cosa si basano
queste previsioni? Di solito si tende a fare previsioni basandosi sul presente: in base a quanto varia
l’inflazione quell’anno si considera l’intero periodo. Il potere della BC risiede nel fatto che, siccome
è una media, se il primo valore (quello presente) è basso, allora si abbasserà anche la media.

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