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Modulo III

La domanda di beni

Indichiamo la domanda totale di beni con Z. Usando la scomposizione del Pil possiamo scrivere Z
come indicato:

Z = C+I+G+X-IM

Questa equazione è un’identità. Essa definisce Z come la somma di consumo, investimento, spesa
pubblica ed esportazioni al netto delle importazioni.

Ora dobbiamo pensare alla determinazione di Z. Per facilitarci il compito, introduciamo alcune
semplificazioni.

- Assumiamo che tutte le imprese producano uno stesso bene, che può essere usato
indifferentemente dai consumatori come beni di consumo, dalle imprese come beni di
investimento e dal governo come spesa pubblica.
- Assumiamo che le imprese siano disposte a fornire qualsiasi quantità del bene a un
dato prezzo.
- Assumiamo che l’economia sia chiusa, cioè che non commerci con il resto: sia le
esportazioni sia le importazioni sono nulle. Sotto l’ipotesi di economia chiusa, X=IM=0,
per cui la domanda di beni è la somma di consumo, investimento e spesa pubblica.

Z= C+I+G

C= C (Yd)

Co= Co+C1Yd

Consumo (C)

Le decisioni di consumo dipendono da molti fattori, ma la determinante principale è sicuramente

il reddito, o meglio il reddito disponibile. Siano C il consumo e Yd il reddito disponibile.

La funzione C(Yd) è chiamata funzione del consumo: quando il reddito disponibile aumenta, anche
il consumo aumenta. Gli economisti chiamano queste funzioni equazioni di comportamento, per
indicare che descrivono alcuni aspetti del comportamento degli agenti economici. Spesso è utile
specificare la formula funzionale. In questo caso, è utile assumere che la relazione tra consumo e
reddito disponibile sia data dalla semplice relazione indicata dall’equazione. In altre parole, è
ragionevole assumere che la funzione del consumo sia una relazione lineare, caratterizzata da due
parametri, Co e C1.

- Il parametro C1 è chiamato propensione marginale al consumo. Esso esprime l’effetto


sul consumo di un euro aggiuntivo di reddito disponibile. Se C1 è 0,6, un euro in più di
reddito disponibile aumenta il consumo di 60 centesimi.
- Il parametro Co ha una semplice interpretazione. Rappresenta il consumo desiderato
in corrispondenza di un reddito disponibile nullo: se Yd =0 allora C=Co.
Investimento (I)

Nei modelli economici troviamo due tipi di variabili. Alcune dipendono da altre variabili del
modello e sono pertanto spiegate all’interno del modello stesso: queste sono chiamate variabili
endogene. E’ il caso del consumo nell’equazione sottostante:

Yd= Y-T

C= C0+C1(Y-T)

I=I

Altre variabili invece non sono spiegate all’interno del modello e vengono prese come date: sono
le variabili esogene. Nel nostro caso l’investimento sarà preso come dato. Qui l’investimento è
considerato esogeno per motivi di semplicità. Ma questa ipotesi è tutt’altro che innocua: essa
comporta che quando osserviamo variazioni nella produzione, dobbiamo assumere che
l’investimento non risponda in alcun modo.

Spesa pubblica (G)

Nel nostro modello la terza componente della domanda è la spesa pubblica, G. Insieme alle imposte
T, G descrive la politica fiscale del governo. Analogamente all’investimento, consideriamo G e T
come esogene, ma per ragioni diverse da quelle precedenti. La ragione di questa semplificazione
si basa su due considerazioni:

1) Innanzitutto, poiché il governo non presenta regolarità di comportamento come i


consumatori e le imprese, non esiste un’unica funzione per G e per T che descriva il
comportamento di queste variabili, come per il consumo.
2) La seconda considerazione è la più importante. Uno dei compiti dei macroeconomisti
è consigliare il governo circa le decisioni di spesa e di gettito. Il nostro obiettivo è essere
in grado di dire ai membri del governo:” Se sceglierete questi livelli di G e T, succederà
questo e quest’altro”. Per questo, l’approccio che verrà seguito non cercherà spiegazioni
dell’andamento di G e T, ma le tratterà come variabili di scelta del governo.

La determinazione della produzione di equilibrio

Vediamo ora l’equilibrio sul mercato dei beni, e la relazione tra produzione e domanda. Se le
imprese tengono scorte, la produzione non deve necessariamente essere uguale alla domanda: le
imprese possono rispondere ad un aumento della domanda attingendo alle loro scorte, la
produzione non deve necessariamente essere uguale alla domanda: le imprese possono rispondere
ad un aumento della domanda attingendo alle loro scorte –cioè scegliendo un investimento
negativo in scorte. Allo stesso modo, possono rispondere ad un calo della domanda continuando a
produrre e accumulando scorte –cioè scegliendo un investimento positivo in scorte. Per il
momento ignoriamo questa complicazione e iniziamo assumendo che le imprese non abbiano
scorte di magazzino. In questo caso, l’investimento in scorte è nullo e l’equilibrio nel mercato dei
beni richiede che la produzione sia uguale alla domanda.

Z= C+I+G

Z=Co+C1 (Y-T) +I + G

Y= Z

Y= Co + C1 (Y-T) + I + G

Questa equazione è chiamata equazione di equilibrio.

In equilibrio, la produzione, Y (il lato sinistro dell’equazione) è uguale alla domanda


(il lato destro). A sua volta, la domanda dipende dal reddito, Y, che è uguale alla produzione.
Una volta costruito il modello, possiamo risolverlo per vedere che cosa determina il livello di
produzione e come quest’ultimo cambia in seguito, per esempio, a una variazione della spesa
pubblica. Risolvere un modello non significa soltanto risolverlo algebricamente, ma anche capire
il risultato economico dei risultati. Tre sono i passi seguiti dai macroeconomisti nella ricerca:

1) L’algebra assicura la coerenza logica del modello;

2) I grafici danno l’intuizione;


3) Le parole spiegano i risultati.

L’equazione descrive la produzione di equilibrio, il livello di produzione tale per cui la produzione
è uguale alla domanda. Vediamo il significato dei due fattori sul lato destro, iniziando dal secondo:

• Il termine (c0+I+G-c1T) rappresenta la componente della domanda di beni che non


dipende dal livello di produzione. Per questo è chiamata spesa autonoma.
• Consideriamo ora il primo fattore, 1/(1-c1). Poiché la propensione marginale al
consumo (c1) è compresa tra 0 e 1, allora 1/(1-c1) è un numero maggiore di 1. Questo
numero, che moltiplica l’effetto della spesa autonoma, è chiamato moltiplicatore. Quanto
più c1 si avvicina a 1, tanto maggiore sarà il moltiplicatore.
Qui abbiamo considerato un aumento dei consumi, ma dall’equazione è evidente che qualsiasi
aumento della spesa autonoma –una variazione degli investimenti, della spesa pubblica, oppure
delle imposte- avrà lo stesso tipo di effetto: influenzerà la produzione in misura superiore
all’effetto diretto sulla spesa autonoma. Ma da cosa deriva l’effetto del moltiplicatore?
L’equazione vista in precedenza ci dà una prima intuizione. Come possiamo riassumere il tutto?
La produzione dipende dalla domanda, che a sua volta dipende dal reddito, che è uguale alla
produzione. Un incremento della domanda, come per esempio un aumento della spesa pubblica,
fa aumentare la produzione e il reddito. L’aumento di reddito a sua volta fa aumentare la domanda
e quindi la produzione, e così via. Alla fine il risultato è un aumento della produzione superiore
all’incremento iniziale della domanda, di un fattore pari al moltiplicatore. La dimensione del
moltiplicatore è collegata direttamente al valore della propensione al consumo: quanto più alta è
la propensione al consumo, tanto maggiore è il moltiplicatore. Qual è il valore della propensione
al consumo nei diversi paesi oggi? Per rispondere a questa domanda, e più in generale per stimare
le equazioni di comportamento e i loro parametri, gli economisti usano l’econometria, l’insieme
dei metodi statistici usati in economia. Finora abbiamo pensato all’equilibrio in termini di
uguaglianza tra produzione e domanda di beni.

Un modo alternativo – ma equivalente - considera l’equilibrio in termini di risparmio e


investimento. Quest’ultimo è l’approccio proposto per la prima volta da John Maynard Keynes nel
suo modello del 1936, nell’ambito della Teoria Generale.
Iniziamo dal risparmio. Il risparmio è la somma tra risparmio privato e risparmio pubblico. Per
definizione il risparmio privato, cioè il risparmio (S) dei consumatori è uguale al loro reddito
disponibile al netto dei consumi. Usando la definizione di reddito disponibile, possiamo scrivere
il risparmio come reddito meno imposte meno consumo. Per definizione, il risparmio pubblico è
uguale alle imposte (al netto dei trasferimenti) meno la spesa pubblica, T-G. Se le imposte
eccedono la spesa pubblica, il governo ha un avanzo di bilancio, cioè il risparmio pubblico è
positivo. Se le imposte sono inferiori alla spesa pubblica, il governo ha un disavanzo di bilancio,
cioè il risparmio pubblico è negativo. Torniamo ora all’equazione di equilibrio nel mercato dei
beni che abbiamo derivato prima. La produzione deve essere uguale alla domanda, che è a sua
volta la somma di consumo, investimento e spesa pubblica. L’equazione che descrive la
produzione di equilibrio ci dice che il governo può influenzare la produzione scegliendo il livello
di spesa (G) e il gettito fiscale (T). Se il governo vuole aumentare la produzione di 1 miliardo di
euro, tutto ciò che deve fare è aumentare G di (1-c1) miliardi di euro. Questo aumento della spesa
farà aumentare la produzione di 1 miliardo di euro, per effetto del moltiplicatore. Ma il governo
può davvero scegliere il livello di produzione? Ovviamente no. Ci sono molti aspetti della realtà
che non sono incorporati nel nostro modello, e che complicano il compito del governo.
Elenchiamone alcuni brevemente.

• Cambiare la spesa pubblica o le imposte potrebbe essere tutt’altro che facile:


l’approvazione di nuovi progetti di legge da parte dell’autorità legislativa richiede infatti
molto tempo.
• Abbiamo ipotizzato che l’investimento resti costante. Ma anche l’investimento tenderà
a reagire. Come pure le importazioni: parte della maggiore domanda da parte dei
consumatori e delle imprese sarà diretta non a beni nazionali, ma a beni esteri. Tutte queste
risposte sono accompagnate da complessi effetti dinamici, rendendo difficile per il governo
valutarli con certezza.

• Le aspettative contano. Per esempio, la risposta dei consumatori a una riduzione fiscale
dipende molto dal fatto che considerino tale riduzione transitoria o permanente. Quanto
più percepiscono la riduzione come permanente, tanto maggiore sarà la loro risposta in
termini di consumo.
• Mantenere il livello di produzione desiderato potrebbe causare spiacevoli effetti
collaterali. Per esempio, tentare di raggiungere un livello di produzione molto elevato
potrebbe accelerare l’inflazione e perciò essere insostenibile nel medio periodo.
• Ridurre le imposte o aumentare la spesa pubblica potrebbe generare grossi disavanzi
di bilancio e portare all’accumulazione del debito pubblico. Quest’ultimo può avere effetti
perversi nel lungo periodo. Negli Stati Uniti, questo tema oggi è all’ordine del giorno,
perché i tagli fiscali introdotti dall’amministrazione Bush hanno prodotto ampi disavanzi
e un crescente debito pubblico.
Per riassumere, la proposizione secondo cui, usando la politica fiscale, il governo può influenzare
la domanda e la produzione nel breve periodo è corretta. Tuttavia il ruolo del governo in generale,
e in particolare il successo della politica fiscale, diventeranno sempre più difficili.

Domanda e offerta aggregata

Keynes concentrò l’attenzione sui fattori che determinano la spesa per consumi. Considerando un
singolo individuo che dispone di un certo reddito annuo (ad esempio 2000 euro) egli destinerà una
parte del suo reddito al consumo ed una al risparmio. Da che cosa dipende il livello del consumo
dell’individuo? Keynes riteneva che il consumo di un individuo dipendesse da diversi fattori, ma
soprattutto dal reddito dell’individuo stesso. La relazione tra il consumo di un individuo e il suo
reddito prende il nome di funzione individuale o microeconomica del consumo. Quanto più alto è
il reddito dell’individuo, tanto più elevato sarà il suo consumo. Pertanto il consumo è una funzione
crescente del reddito. Si può ritenere che, se l’individuo, quando ha un reddito annuo di 2000 euro,
spende in consumi 1500 euro e risparmia 500 euro, quando il suo reddito annuo aumenterà da
2000 a 4000 euro, dilaterà i suoi consumi, spendendo più di 1500 euro. A tal punto è legittimo
chiedersi: all’aumentare del reddito il consumo cresce in misura via via maggiore, via via minore
o costante? In linea di massima si può ritenere che, all’aumentare del reddito, il consumo cresce
in misura via via minore. E’ plausibile che un individuo, che parte da un basso livello di reddito,
man mano che il suo reddito aumenta, consuma una parte via via minore del suo incremento
di reddito.

Possiamo ora definire due concetti fondamentali nell’analisi keynesiana: la propensione


marginale al consumo (MPC) e la propensione media al consumo (APC). La MPC è
l’aumento che registra il consumo di un individuo quando il suo reddito aumenta di una unità.
Essa viene indicata con c, o con ΔC/ΔY, dove Δ indica l’incremento: ΔY è l’incremento del
reddito e ΔC quello del consumo. La APC invece è data dal rapporto tra il consumo e il reddito
di un individuo (C/Y): essa è la quota di reddito che l’individuo devolve al consumo.

Finora abbiamo considerato singoli individui, ma l’analisi di Keynes ha carattere


macroeconomico e si riferisce all’intera collettività. Se consideriamo non un singolo individuo
ma un Paese, possiamo affermare che il consumo globale della collettività dipende dal reddito
nazionale. La relazione tra consumo globale e reddito nazionale prende il nome di funzione
macroeconomica o aggregata del consumo. Il consumo globale aumenta al crescere del reddito
nazionale, e la funzione macroeconomica del consumo ha ovviamente le stesse proprietà della
funzione individuale. Allo stesso modo possiamo definire la MPC e la APC della collettività. La
prima è l’aumento che il consumo totale subisce quando il reddito nazionale aumenta di una
unità. La seconda è il rapporto tra il consumo totale e il reddito nazionale. Poiché per ogni
individuo la MPC nel breve periodo è costante e minore di 1, anche la MPC della collettività
sarà costante e minore di 1. Quando il reddito nazionale aumenta, una parte di questo incremento
sarà consumata e una parte risparmiata.

Dopo Keynes numerosi autori hanno studiato i fattori che determinano la spesa per consumi.
Alcuni hanno giustamente rilevato che il consumo globale dipende non tanto dal reddito nazionale
quanto dal reddito disponibile (cioè il reddito al netto delle imposte). Supponiamo che un individuo
abbia un reddito annuo di 20.000 euro, ma che su di esso paghi € 2000 di imposte. Chiaramente il
suo consumo dipenderà dal reddito al netto delle imposte (18.000), cioè dal suo reddito disponibile.
Il suo consumo aumenterà se aumenta il suo reddito disponibile. Consideriamo un individuo che
gode di una pensione. I suoi consumi dipendono dall’entità di questa pensione. Sappiamo però che
questa non va inclusa nel calcolo del reddito nazionale, perché costituisce un mero trasferimento.
Ma il consumo globale di un Paese è influenzato anche dalla massa di pensioni e sussidi di cui gli
individui godono, che non entrano nel computo del reddito nazionale ma fanno parte del
reddito disponibile. Il consumo globale pertanto dipende dal reddito nazionale disponibile, cioè
dal reddito che gli individui hanno effettivamente a disposizione e che possono decidere se
consumare o risparmiare. Quindi, ad esempio, un aumento delle imposte determina una
diminuzione del reddito disponibile e, di conseguenza, dei consumi, mentre una riduzione delle
imposte li stimola.

Altri autori hanno rilevato che il consumo rilevato in un anno, normalmente non dipenderà solo
dal reddito dello stesso anno, ma sarà anche influenzato dal reddito dell’anno precedente e forse
anche da quello di qualche anno prima. Infatti i consumi dell’individuo in genere si adeguano con
un certo ritardo quando egli ha brusche variazioni nel suo livello di reddito, sia che si tratti di
aumenti sia di diminuzioni. Supponiamo che un individuo da un anno all’altro abbia un fortissimo
aumento di reddito. Difficilmente egli accrescerà immediatamente di molto i suoi consumi, ma li
eleverà gradualmente, ma mano che si abitua ai nuovi standards di consumo. Questo fenomeno è
ancora più vero quando un individuo subisce una forte diminuzione del suo reddito. Infatti la
riduzione dei consumi al di sotto dei livelli a cui era abituato è penosa, per cui l’individuo ridurrà
il suo risparmio pur di non essere costretto a ridurre troppo il livello di consumo. Questo fenomeno
per cui il reddito di un anno influenza non solo il consumo dello stesso anno ma anche quello degli
anni successivi è chiamato effetto d’eco. Altri autori, come Friedman, hanno sostenuto che, poiché
gli individui tendono ad evitare che il livello dei propri consumi si alzi o si abbassi bruscamente,
il consumo di un dato anno non dipende dal reddito dello stesso anno ma dal reddito medio che
l’individuo ha avuto nel passato e pensa di avere nel futuro. Questo reddito medio è stato chiamato
reddito permanente. F. Modigliani, rilevando che il reddito di un individuo di solito è basso nel
periodo iniziale e finale della vita mentre è più alto nel periodo centrale della vita stessa, ha
sostenuto che il consumo di un individuo non dipende dal suo reddito corrente ma dal reddito
percepito durante tutto l’arco della vita: in vecchiaia l’individuo consumerà parte di ciò che ha
risparmiato nel periodo centrale della sua vita: teoria del ciclo vitale del consumo.

Altri autori hanno rilevato che il consumo globale dipende non solo dal livello del reddito
nazionale, ma dalla sua distribuzione tra gli individui: distribuzione personale. Se un individuo ha
un reddito mensile di 2.500 euro e questo subisce un aumento di 10 euro, questo incremento di

reddito (ΔY=10) determinerà un incremento di consumo molto basso, pari ad esempio a 1 euro

(ΔC=1). Invece un individuo che ha un reddito mensile di 500 euro, quando questo subisce un

aumento di 10 euro (ΔY=10), consumerà quasi tutto questo incremento (ad esempio ΔC=8). In
altri termini la MPC è più alta per i poveri che per i ricchi.

Nell’esempio per il secondo individuo:

MPC= 8/10= 0,8

Mentre per il primo individuo:

MPC=1/10= 0,1

Un aumento del reddito nazionale può quindi avere effetti diversi sul consumo globale, a seconda
di come è distribuito. Se l’aumento del reddito nazionale consiste nell’aumento del reddito dei
ricchi, si avrà un lieve aumento del consumo. Se invece l’aumento del reddito nazionale consiste
nell’aumento del reddito dei poveri, si avrà un consistente aumento dei consumi.

Altri autori, infine, sostengono che il consumo globale dipenda dalla distribuzione del reddito
nazionale in profitti e salari. Trattandosi in questo caso della distribuzione tra diverse categorie di
reddito e non di persone, si parla di distribuzione funzionale. Un aumento dei profitti viene in larga
misura risparmiato, perché le imprese organizzate sotto forma di SPA normalmente distribuiscono
solo una parte assai limitata dei profitti agli azionisti, mentre ne reinvestono la parte maggiore.
Viceversa un aumento dei salari viene in larga misura consumato. Ad esempio, un aumento di
profitti di 10 euro determina un aumento dei consumi di 1 euro, mentre un aumento dei salari di
10 euro determina un aumento dei consumi di 8 euro. Tale teoria sembra simile alla precedente
ma è diversa. Infatti gli individui che percepiscono profitti non necessariamente coincidono con i
ricchi, né quelli che percepiscono salari con i poveri.
Gli investimenti

Nella versione semplificata del modello Keynesiano , la domanda di investimento rappresenta una
scelta programmata dagli imprenditori, e quindi autonoma.

Alcuni autori hanno insistito sul ruolo della domanda nella determinazione degli investimenti, e
la versione più nota di questa ipotesi è rappresentata dalla teoria dell’accelleratore. L’accelleratore
è il fenomeno per cui un aumento della domanda globale genera investimento. Consideriamo
un’impresa che produce camicie e supponiamo che la domanda di camicie nel 2016 aumenti di
100 pezzi. L’impresa, se tiene conto che questo aumento di domanda abbia carattere permanente,
effettuerà un investimento tale da creare nuovi macchinari che le consentano di produrre
permanentemente questo 100 pezzi in più di camicie. Quindi, ogni volta che c’è un aumento di
domanda, le imprese effettueranno investimenti volti ad accrescere l’offerta dei beni che esse
producono, cioè ad accrescere i propri impianti e macchinari (ossia la propria capacità produttiva).

Ragionando in termini macroeconomici, supponiamo che vi sia, in un anno, un incremento della


domanda globali pari, ad esempio, a 100 miliardi di euro. Supponiamo anche le imprese stiano
utilizzando pienamente i loro impegni e macchinari, cioè la propria capacità produttiva. Se nel
sistema economico occorrono, in media, 4 unità di capitale per produrre una unità di prodotto, le
imprese, se ritengono che questo aumento di domanda sia stabile, effettueranno investimenti in
impianti e macchinari pari a 4 x 100 miliardi = 400 miliardi, in modo da poter produrre
permanentemente la nuova quantità di beni che viene richiesta. Le imprese adegueranno così

l’offerta alla domanda. Se indichiamo con ΔY l’incremento di domanda globale, con v il rapporto

capitale/prodotto (cioè la quantità di capitale che occorre per produrre una unità di prodotto; 4/1)
e con I gli investimenti globali, avremo:

I = v ΔY
Questa è una funzione degli investimenti basata sul principio dell’accelleratore; v, il rapporto
capitale/prodotto, è chiamato anche coefficiente di accelerazione. In altri termini, la teoria
dell’accelleratore afferma che l’investimento è proporzionale all’incremento della domanda
globale, cioè del reddito nazionale.

Il moltiplicatore del reddito

Le teorie esaminate costituiscono dei perfezionamenti dell’analisi di Keynes sui fattori che
determinano i consumi, ma sono rilevanti soprattutto nel lungo periodo. Infatti, sostiene Keynes,
nel breve periodo (pochi mesi) la distribuzione del reddito ad esempio non muta (né quella
personale né quella funzionale). Sulla base di queste considerazioni, Keynes basò l’analisi del
moltiplicatore del reddito.

Supponiamo di trovarci in una situazione in cui vi sono macchinari inutilizzati e forza lavoro
disoccupata, e supponiamo che lo Stato effettui un investimento che consiste, ad esempio, nel
compiere dei lavori pubblici (costruire una strada). Per realizzare quest’opera lo Stato assume 500
operai e che paghi a ognuno di essi un salario annuo di € 20.000. Pagherà quindi un monte salari-
annuo di € 10.000. In questo modo si creano 10.000.000 di reddito, e quindi il reddito nazionale

aumenta di 10.000.000 (ΔY= 10.000.000). I soggetti economici (gli operai) che ricevono questo

reddito in parte lo consumano (cioè lo destinano all’acquisto di beni di consumo) e in parte lo


risparmiano. Supponiamo che essi dei 10.000.000 consumino 7.000.000 (e risparmino 3.000.000).
Entra a questo punto in ballo la propensione marginale al consumo (MPC). Supponendo che i
soggetti che percepiscono i 10.000.000 consumino 7.000.000, la PMC della collettività sarà uguale
a 0,7. Infatti: ΔY= 10.000.000, ΔC= 7.000.000, ΔC/ΔY= 0,7.

Per comodità poniamo ΔC/ΔY= c. Quindi c= 0,7.

Per pura comodità ora introduciamo la formula seguente:

ΔC= (ΔC/ΔY) ΔY= c (ΔY)

Supponiamo che la MPC sia pari a 0,7.

Se ΔY= 10.000.000, ΔC= 0,7 x 10.000.000= 7.000.000

Il vantaggio di quanto indicato è costituito dal fatto che essa è una formula generale. Se ad esempio
ΔY= 1000, applicando tale formula otteniamo ΔC= 0,7 x 1000= 700. Cioè, se il reddito nazionale
aumenta di 1000 euro, il consumo globale aumenta di 700 euro. Ricordiamo che per Keynes nel
breve periodo la MPC è costante e minore di 1. Supponendo che essa sia uguale a 0,7, abbiamo
rispettato le ipotesi keynesiane.

Supponiamo adesso che i 7.000.000 consumati vengano destinati all’acquisto di generi alimentari
e vestiario. Si verifica quindi un aumento della domanda di quei beni. Le imprese che producono
questi beni ne espanderanno la produzione per far fronte all’incremento della domanda, e, per
espandere la produzione, assumeranno dei disoccupati, e, rimetteranno in funzione i macchinari
inutilizzati. In seguito a ciò, queste imprese incasseranno questi 7.000.000 e li distribuiranno come
redditi ai soggetti che hanno partecipato alla produzione. Con essi infatti pagheranno i salari agli
operai assunti, gli interessi a coloro da cui hanno ricevuto i prestiti, e tratterranno il residuo (che è
il profitto). Pertanto la parte di incremento del reddito consumata nella prima fase (7.000.000)
diviene il reddito dei soggetti che rientrano nel processo produttivo nella seconda fase. Il reddito
generato in questo processo non è più 10.000.000, ma è 10.000.000 + 7.000.000. Il reddito
nazionale finora è aumentato di
17.000.000.

In sintesi: l’incremento iniziale di reddito (10.000.000) è ΔY; il secondo incremento di reddito

(7.000.000) non è altro che ΔC. Quindi il reddito generato finora è pari a ΔY + c ΔY. (ΔY=
10.000.000; c ΔY= 7.000.000).

Ma il processo continua. Coloro che hanno ricevuto questi 7.000.000 come reddito in parte li
consumeranno e in parte li risparmieranno. Quanta parte ne consumeranno? Possiamo rispondere
immediatamente. Se su un reddito addizionale di 10.000.000 quegli individui consumavano
7.000.000, cioè il 70% (i 7/10), questi individui consumeranno il 70% di 7.000.000. Infatti
abbiamo supposto che la MPC sia pari a 0,7. Applicando la formula che abbiamo rappresentato,

abbiamo subito ΔC= 0,7 x 7.000.000= 4.900.000. Coloro che hanno ricevuto i ne

consumeranno 4.900.000, cioè acquisteranno beni per questa cifra. Pertanto 4.900.000
divengono gli incassi di altre imprese che, per soddisfare questo incremento di domanda di beni,
espandono la produzione impiegando altri disoccupati. I 4.900.000 euro quindi diventano il
reddito dei lavoratori e degli altri soggetti economici a cui vengono distribuiti da queste imprese.
A questo punto il reddito generato dall’inizio del processo è:
10.000.000+7.000.000+4.9000.000.

Tale processo ci fa dunque considerare il reddito generato da un investimento iniziale da parte


dello Stato. Attraverso questo processo moltiplicativo, un atto iniziale di investimento genera un
incremento di reddito e di occupazione assai maggiore di quelli creati dall’investimento iniziale.
1/1-c è il moltiplicatore del reddito. Il suo valore dipende da quello di c, cioè dalla propensione
emarginale al consumo. Poiché c ha un valore compreso tra 0 e 1, 1-c è un numero compreso tra
0 e 1, e quindi 1/1-c, il moltiplicatore, è un numero positivo maggiore di 1. Infatti, se tutto il reddito
messo nelle mani degli operai nella prima fase viene risparmiato, non si verifica alcuna
moltiplicazione. Se c=1 , invece il valore del moltiplicatore è infinito. Infatti se tutti consumano
sempre tutto il reddito addizionale che si crea, il processo si arresta solo quando si raggiunge la
piena occupazione. Quando non vi sono più uomini disoccupati e macchinari inutilizzati, anche se
aumenta la domanda di beni, non è più possibile espandere la produzione, per cui il processo
moltiplicativo del reddito si arresta. In generale, quanto maggiore è c, tanto maggiore è il valore
del moltiplicatore. L’ipotesi su cui è basata l’analisi keynesiana del moltiplicatore è che vi siano
disoccupati e macchinari inutilizzati nel sistema economico, per cui le imprese, quando aumenta
la domanda dei beni che esse producono, reagiscono non aumentando i prezzi, ma espandendo la
produzione.

Si è pertanto osservato che il volume della domanda globale e quindi della produzione, cioè il
volume del reddito generato dal processo del moltiplicatore, dipende dall’entità dell’investimento
iniziale e dalla propensione marginale al consumo della collettività. Quanto maggiori sono
l’investimento o la propensione marginale al consumo o entrambi, tanto maggiore sarà la domanda
di beni generata e quindi la produzione e l’occupazione generate. Pertanto il reddito nazionale
effettivo (cioè effettivamente prodotto) di un Paese è determinato da due elementi: il volume degli
investimenti effettuati e il valore della propensione marginale al consumo della collettività. Il
reddito nazionale effettivo è chiamato anche reddito nazionale di equilibrio, perché rende uguali
la domanda globale e l’offerta globale. A questo punto è però lecito chiedersi se il livello degli
investimenti e il valore della propensione marginale al consumo saranno sufficientemente elevati
da generare un livello di reddito che assicuri la piena occupazione. La risposta di Keynes è
negativa: il reddito effettivo sarà inferiore a quello potenziale. Infatti il livello degli investimenti
dipende da due elementi: le aspettative degli imprenditori sulla domanda e sui profitti e il saggio
di interesse. Se gli imprenditori prevedono che la domanda dei beni che essi producono aumenterà
e che possono realizzare profitti elevati, effettueranno alti investimenti. Ma, sostiene Keynes,
spesso le aspettative sono pessimistiche per tante ragioni, e allora gli imprenditori investiranno
poco. L’altro elemento è il saggio di interesse. Questo rappresenta il costo del credito, cioè ciò che
l’imprenditore deve pagare ad una banca per avere in prestito del denaro con cui finanziare gli
investimenti. Un basso saggio di interesse quindi stimolerà gli investimenti. Ma spesso il saggio
di interesse non scenderà ad un livello sufficientemente basso da generare un volume di
investimenti che a sua volta generi un livello di reddito eguale a quello potenziale.

La propensione marginale al consumo, secondo Keynes, nei Paesi ricchi è piuttosto bassa, perché
le persone, avendo già un reddito abbastanza elevato, quando hanno un aumento di reddito, ne
risparmiano una parte notevole. Bassi investimenti e una bassa propensione marginale al consumo
determinano un basso livello di reddito nazionale e dell’occupazione. Secondo Keynes esiste
quindi una tendenza per i Paesi ricchi, cioè per le economie industrializzate, ad avere
disoccupazione. Non esistono affatto delle forze interne al sistema economico capaci di portarlo
alla piena occupazione, come sosteneva la maggior parte degli economisti prekeynesiani. A questo
punto è necessario fare alcune considerazioni sulla definizione di piena occupazione e di reddito
potenziale. Nelle società industriali avanzate gli individui cambiano spesso occupazione e nel
passaggio da un lavoro ad un altro rimangono disoccupati per qualche tempo; analogamente le
donne abbandonano il lavoro in certi periodi di vita (stato di gravidanza, per es.) per riprenderlo
successivamente. Pertanto vi sarà sempre una certa disoccupazione nel sistema economico dovuta
a queste ragioni e ad altre analoghe, chiamata disoccupazione frizionale. Questa sarà il 3-4% del
totale delle forze di lavoro, cioè delle persone in età lavorativa. Il reddito potenziale viene quindi
definito come il reddito nazionale che viene prodotto nel sistema economico quando vi è una
disoccupazione pari al 3-4%. La produzione può superare il livello del reddito potenziale se le
imprese fanno ricorso al lavoro straordinario dei dipendenti, se cercano di assumere quei pochi
lavoratori che sono disoccupati, etc. Quando la produzione aumenta fino al livello del reddito
potenziale, i prezzi non aumentano. In questa fase, poiché vi sono macchinari inutilizzati e uomini
disoccupati, un aumento della domanda stimola l’espansione della produzione ma non fa
aumentare i prezzi. Quando invece la produzione supera il reddito potenziale, i prezzi aumentano.
Ora l’aumento della domanda stimola ancora l’espansione della produzione, ma questa può
avvenire con difficoltà e in ogni caso a costi crescenti per le imprese, che quindi aumenteranno i
prezzi oltre che la produzione.

Dall’analisi keynesiana si deducono precisi orientamenti per la politica economica. Dato che nel
sistema economico non esiste un meccanismo automatico che realizza la piena occupazione, è
necessario, per garantire a tutti un lavoro, un intervento dello Stato che accresca il volume degli
investimenti e la propensione marginale al consumo. Un aumento di questi due fattori, attraverso
l moltiplicatore, farà crescere il reddito nazionale e l’occupazione. La propensione marginale al
consumo può essere aumentata mediante diverse misure: diminuendo le imposte che gravano sui
beni di consumo, rendendo meno onerose per l’acquirente le vendite a rate di questi beni e infine
redistribuendo il reddito dagli individui più ricchi ai più poveri mediante un’imposizione fiscale
progressiva che colpisca i primi in misura molto maggiore dei secondi. Una persona povera,
quando riceve un aumento di reddito, ne consuma una frazione elevata, mentre un individuo ricco
ha già un livello di consumo alto, per cui, quando riceve un aumento di reddito, ne consuma una
frazione minima. Misure di questo tipo, sostiene Keynes, incontreranno forti resistenze di
carattere politico e sociale, e analoghe resistenze si verificheranno per programmi volti ad
espandere massicciamente i consumi pubblici, come le spese per l’istruzione, la sanità, ecc., che
sortirebbero effetti analoghi. Programmi di questo tipo richiederebbero un massiccio aumento
dell’imposizione fiscale sui ceti alti e medio alti.

Viste le difficoltà che si frappongono all’aumento della propensione marginale al consumo,


occorre per Keynes prendere misure che facciano aumentare gli investimenti. Bisogna in primo
luogo stimolare gli investimenti privati, migliorando le aspettative degli imprenditori. Una via per
realizzare ciò è rappresentata dall’aumento delle commesse pubbliche alle imprese private;
un’altra consiste nel ridurre il costo del credito o le imposte per le imprese. Questi provvedimenti
però possono essere insufficienti. Anche una riduzione dei costi per le imprese può non indurle ad
investire se le aspettative sono molto pessimistiche, e allora lo Stato deve realizzare direttamente
investimenti in opere pubbliche. Per Keynes la misura fondamentale per raggiungere la piena
occupazione consiste nella realizzazione di investimenti pubblici. Lo Stato dovrà finanziarli non
con un aumento delle imposte, che ridurrebbero il reddito disponibile degli individui e quindi la
domanda globale, ma procurandosi il denaro mediante l’emissione di titoli di debito pubblico (c.d.
finanziamento in disavanzo).

Keynes attribuiva un ruolo primario alla politica fiscale e in particolare all’aumento della spesa
pubblica per il raggiungimento della piena occupazione. La diminuzione dei salari, che per gli
economisti prekeynesiani era la misura principale per raggiungere la piena occupazione, viene da
Keynes ritenuta di difficile realizzazione per l’opposizione dei sindacati. Ma, anche se fosse
possibile, sarebbe controproducente. Infatti una diminuzione dei salari si tradurrebbe in una
minore domanda di beni di consumo da parte dei lavoratori e quindi in una diminuzione della
domanda globale. Le imprese, vedendo diminuire la domanda dei beni che esse producono,
reagirebbero riducendo l’offerta, cioè la produzione, e licenzierebbero i lavoratori. Quindi una
diminuzione dei salari, anziché far diminuire la disoccupazione, la farebbe aumentare. Effetti
moltiplicativi analoghi a quelli di un aumento degli investimenti, ha un aumento delle esportazioni.
Infatti un incremento delle esportazioni di un’impresa spingerà questa ad accrescere la produzione,
assumendo dei disoccupati. Il salario pagato a questi disoccupati si tradurrà in domanda
addizionale di beni. Anche le esportazioni, quindi, contribuiscono a determinare il livello del
reddito nazionale. Pertanto misure che stimolano il loro aumento facilitano il raggiungimento della
piena occupazione. Queste possono consistere in sgravi fiscali e riduzione del costo del credito per
le imprese esportatrici.

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