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Genesi storica e definizione del Prodotto Interno Lordo. Nascita del PIL
Gli indicatori statistici risultano particolarmente importanti per promuovere il progresso della
società. La scelta di questi indicatori è fondamentale, in quanto il “cosa si misura” influenza
il “cosa si fa”; se gli strumenti utilizzati non sono corretti, o non riescono a cogliere tutte le
caratteristiche dell’oggetto di indagine, possono indurre a prendere decisioni inefficienti o
addirittura inefficaci.
Negli ultimi due decenni, l’alto grado di complessità raggiunto dalla società, insieme alla
distanza tra le variabili socio-economiche standard, e alla percezione che i cittadini hanno del
benessere, hanno alimentato un crescente dibattito sulla capacità degli indicatori
maggiormente utilizzati di fornire un’immagine corretta della realtà. Il Pil è il principale
protagonista di tale dibattito. Misura quantitativa dell’attività macroeconomica, esso ha
assunto negli anni il ruolo di indicatore dell'intero sviluppo economico-sociale e del progresso
in generale.
«Il prodotto interno lordo è il valore di tutto quello che produce un paese e rappresenta una
grandezza molto importante per valutare lo stato di salute di un’economia, sebbene non
comprenda alcuni elementi fondamentali per valutare il livello di benessere».
Il PIL, diventato lo strumento per eccellenza con cui è stata analizzata la crescita economica
di un territorio, è la misura di base per valutare il successo o l’eventuale stato di crisi di
un’economia. La sua definizione ha permesso di ottenere informazioni relative all’andamento
economico e finanziario di una nazione in modo da sviluppare politiche economiche coerenti.
Il PIL ormai non è più solo un dato ma è arrivato a essere l’obbiettivo di ogni economia e il
modello della crescita economica. Il suo uso e abuso ha accompagnato lo sviluppo economico
degli ultimi settant’anni ma in questa nuova fase, caratterizzata da crisi economiche e
instabilità socio-politico, la sua importanza viene messa in discussione. Sarà in grado di
continuare a mantenere il suo ruolo dominante oppure verrà messo da parte a favore di nuovi
indicatori?
Se dovessimo tentare brevemente di definire l’analisi storica del Pil, è possibile risalire a far
parte delle sue origini già alla fine dell’Ottocento, quando gli apparati statali cominciarono
sempre più ad affidarsi alle analisi statistiche per analizzare determinati fenomeni come
l’andamento dei salari e dei redditi.
«Il Pil fu inventato il secolo scorso in un periodo di piena crisi. Esattamente con la
depressione del ’29, e con un impatto disastroso sia sulla produzione sia riguardante il
lavoro, che diede l’irruenza necessaria affinché politici ed economisti unissero le forze per
sviluppare un sistema di misurazione dello stato dell’economia».
Con l’esplosione della seconda guerra mondiale, i finanziamenti alla difesa divennero i
principali propulsori della crescita economica americana, rendendo necessaria una rapida
conversione delle grandi industrie per la produzione di arsenali e strumenti militari».
L’invenzione del Pil aiutò gli Stati Uniti a conquistare la guerra, tanto quanto l’invenzione della
bomba nucleare realizzata a Manhattan. Negli ultimi decenni, la performance del Pil è diventata
la priorità assoluta per gran parte dei paesi del mondo, a prescindere dal tipo di leadership
politica, dal livello di sviluppo industriale e dal retro-terra culturale e ideologico di ogni
nazione”.
«La metodologia del Pil è stata sviluppata per misurare la quantità di produzione, senza alcuna
distinzione tra produzione che è tesa ai consumi immediati, per l’investimento in beni durevoli
o per rifornire gli inventari. Ma nel processo di produzione, beni e capitali si consumano e
deprezzano a causa dell’uso, danni e obsolescenza. Quando questo determinato ammortamento
viene sostituito dal Pil, il risultato è il prodotto interno netto. Il prodotto interno netto è una
misura più dettagliata della produzione di una nazione, ma il calcolo del deprezzamento è lungo
e spesso difficile. Questa è la ragione per cui il suo contrario ‘lordo’ è diventato l’icona più
popolare: le stime del Pil sono infatti più semplici e tempestive, in grado di fornire informazione
ai mercati e ai media in modo più standard e regolare».
Dalla definizione che abbiamo dato di Pil discende anche una delle diverse modalità del suo
possibile calcolo, ossia la valorizzazione complessiva di tutti i beni e servizi finali prodotti.
I sistemi più comunemente utilizzati sono tre e calcolano il valore del Pil con modalità diverse
che, comunque, dovrebbero condurre a risultati simili, e consentono sia di verificare la validità
dei differenti metodi, sia di poter conoscere, attraverso queste diverse vie, altri interessati indici
economici:
2. Con questa seconda modalità di calcolo del Pil si deve considerare il valore aggiunto
apportato da ciascuna impresa al processo produttivo, ovvero l’eccesso di valore fornito
dall’azione imprenditoriale di ciascuna singola azienda alle diverse materie prime, semilavorati
ed energie acquistate e impiegate riguardo il proprio ciclo di lavorazione, con l’utilizzo dei nuovi
fattori produttivi necessari per ottenere un determinato bene o fornire il servizio, pilastro della
sua attività. Ogni qualvolta che acquistiamo un determinato bene, contribuiamo al Pil in misura
pari a quanto scritto sull’etichetta. La formula, particolarmente semplice, è la seguente:
PIL= C+I+G+X-IM
dove C rappresenta la spesa per i consumi privati, I la spesa per gli investimenti, G la spesa
pubblica, X indica le esportazioni a cui sottraiamo la spesa per le IMportazioni, poiché essa
fuoriesce dal confine nazionale.
3. La terza ed ultima modalità di calcolo del Pil usufruisce il valore di tutti i redditi pagati
dall’economia ai diversi percettori o fattori produttivi; i salari guadagnati dai lavoratori, i
profitti ottenuti dagli azionisti, gli interessi di coloro che hanno prestato i loro risparmi allo
stato o alle imprese, la rendita ottenuta dall’affitto di terreni e strutture alle imprese.
1. Somma del valore dei beni e dei servizi finali prodotti in un’economia in un dato periodo
di tempo
2. Somma del valore aggiunto in una economia in un dato periodo di tempo
3. Somma dei redditi dell’economia in un dato periodo di tempo (imposte indirette, redditi da
lavoro e reddito da capitale o profitto)
Dalla definizione si capisce perché spesso il PIL è usato come misura approssimata del livello
delle ricchezze e del benessere di un sistema economico.
Bisogna distinguere tra. PIL nominale: somma della quantità dei beni finali valutati al loro
prezzo corrente.
PIL reale: somma delle quantità di beni finali valutati a prezzi costanti.
La crescita del PIL nominale dipende da due fattori:
Il PIL reale permette di misurare la produzione e le sue variazioni nel tempo, escludendo
l’effetto di prezzi crescenti esempio: Nel 2006, il Pil reale degli Stati Uniti era 4,5 volte tanto
il suo valore del 1960, un aumento considerevole, ma chiaramente inferiore all’aumento di 25
volte del Pil nominale nello stesso periodo.
Il PIL reale è utilizzato per due operazioni:
Confronti internazionali tra PIL reale di diversi paesi, allo scopo di costruire
graduatorie di benessere e di ricchezza internazionali;
Confronti intertemporali allo scopo di vedere se nell’economia si è verificato un
aumento di produzione effettiva (aumento del PIL) o una riduzione della produzione
effettiva (riduzione del PIL).
Entrambi i valori sono importanti sotto diversi punti di vista ma, per riconoscere il Pil come
valido strumento indicatore nel tempo delle variazioni effettive di ricchezza di una nazione
ed effettuare i giusti confronti con le altre nazioni, è necessario utilizzare esclusivamente il
Pil reale, perché ogni periodo di tempo ha diversi tassi di inflazione, ed anche degli indici
diversi di variazione dei prezzi che andrebbero ad alterare inadeguatamente i risultati e i
confronti, ingannando o scoraggiando in modo negativo le autorità economiche e l’opinione
pubblica.
Altrettanto o forse anche più importante è il Pil reale pro capite.
Esso viene spesso utilizzato come indicatore del tenore di vita di un paese, e la crescita
economica quindi come un indice di miglioramento dello stesso. Un paese può avere un
elevato livello del Pil o un alto livello del Pil pro capite, ma crescere lentamente, ad esempio
il Giappone. Un paese può invece avere un basso livello del Pil o un basso livello del Pil pro
capite, ma crescere velocemente, ad esempio come la Cina.
Quindi, per fare una stima del reddito in relazione alla popolazione si utilizza il Pil pro capite.
Questo numero ci fornisce il Pil medio per ogni individuo e si ottiene dividendo il Pil totale
per il numero di abitanti del paese a cui si riferisce. È diventata pratica comune giudicare se
un paese sta meglio di un altro sulla base del livello di reddito pro capite. In questo modo
otteniamo un indice della distribuzione potenziale del reddito/PIL che ci permette anche di
fare confronti tra diversi paesi.
La distribuzione pro capite del PIL quindi fornisce un dato sull’ipotetica distribuzione del
reddito tra la popolazione ma non abbiamo modo di sapere come esso sia realmente
distribuito. Di qui l’importanza delle informazioni relative al livello di diseguaglianza nella
distribuzione del reddito, di norma misurate con l’indice di Gini.
Prodotto interno lordo e reddito nazionale lordo
Legata al concetto di PIL è anche un'altra misura, il Reddito Nazionale Lordo. Esso si ottiene,
sommando al PIL il saldo dei redditi esteri meno i redditi dei non residenti.
Il reddito nazionale lordo include invece la produzione totale di beni e servizi prodotti da una
nazione più tutti i redditi guadagnati dai suoi cittadini anche se residenti all’estero, ad esempio
i profitti realizzati da aziende italiane che operano all’estero e le rimesse degli immigrati. Gli
Stati Uniti hanno utilizzato come indicatore il reddito nazionale lordo fino al 1991, quando lo
US Bureau of Economic Research decise di passare al PIL; si optò per questo cambiamento
dal momento che la maggior parte dei paesi aveva ormai adottato il PIL come misura di base
della produzione.
Nonostante in economia generale PIL e RNL forniscano in genere risultati simili, il PIL è
stato in genere preferito per la sua capacità più puntuale di misurare le fluttuazioni
economiche di breve periodo.
Per le grandi economie queste misure forniscono dati simili, in quanto i redditi esteri sono
relativamente contenuti rispetto alla produzione interna, tuttavia per i paesi più piccoli può
sussistere una certa differenza come ad esempio nel caso dell’Irlanda che, avendo sul suo
territorio nazionale un alto numero di aziende estere, ha un RNL inferiore rispetto al suo PIL:
nel 2004 il reddito nazionale lordo irlandese era pari all’84% del PIL.
Ruolo del PIL in ambito internazionale
La ricerca di uno sviluppo sostenibile è correlata in modo saldo alla qualità della vita ed al
miglioramento degli standard di vita della popolazione, più della semplice crescita economica.
Ci chiediamo, pertanto, se l’attuale indicatore PIL, sia in grado di esprimerlo correttamente,
anche e soprattutto in un’ottica di sostenibilità.
Il quesito posto è di fondamentale rilevanza poiché gli indicatori costituiscono la bussola per
guidare azioni migliorative e di modifica delle politiche poste in essere dai governi.
Esso è il più utilizzato tra gli indicatori, non solo presso gli operatori economici, ma soprattutto
a livello politico per valutare la bontà delle politiche economiche.
La sua diffusione è facilmente spiegabile dalla semplicità dei risultati che restituisce. Infatti, si
ha un unico dato espresso in termini percentuali che riassume la crescita o la decrescita di una
nazione in relazione all’anno precedente.
Il PIL viene spesso chiamato in causa per valutazioni sul benessere economico di uno Stato.
L’opinione pubblica, anche quella più attenta, tende a considerare i dati PIL quasi come una
sorta di diagnosi sulla salute del Paese e sugli standard di vita della popolazione.
Un aumento del PIL indica crescita della produzione nazionale, con un conseguente aumento dei
profitti delle imprese e perciò tutto ciò che è correlato all’aumento di produzione dovrebbe,
almeno in linea teorica, crescere: occupazione, livello dei redditi, ecc. Indirettamente un maggior
livello della produzione può diventare un segnale di benessere; in buona parte dei casi, come
abbiamo avuto modo di verificare, ad aumenti di PIL sono seguiti incrementi di benessere nella
popolazione. Tuttavia, la misura del benessere non è esprimibile con il PIL, esso può costituire
un indizio del suo probabile aumento, ma non è strutturato per calcolarlo, visto che si fonda sulla
somma dei prezzi della produzione destinata al mercato. Confondere produzione e benessere,
come se fossero espressi da un unico indicatore, non è corretto «(…) può condurre a indicazioni
fuorvianti in relazione alla qualità della vita delle persone e portare a prendere decisioni politiche
sbagliate». Così come il PIL pro capite non è misura di qualità della vita, le sue variazioni annue
non possono essere considerate neppure adatte per valutare lo sviluppo, nella definizione ampia
che abbiamo dato.
L’aumento del PIL è misura della crescita economica, che ha natura unicamente quantitativa,
altresì il concetto di “sviluppo” indica quel processo di evoluzione e graduale trasformazione
della società e anche dell’economia per il raggiungimento dell’effettivo incremento del
benessere comune.
Continuare ad utilizzare il PIL pro capite compromette l’obiettivo della massimizzazione del
benessere collettivo, vista la sua inadeguatezza nella misura della qualità della vita. Al contrario
avremo in modo puntuale i dati relativi alla crescita dell’economia di mercato.
Chiarito che crescita e sviluppo non sono concetti sinonimi, il problema consiste nella
definizione di priorità ed obiettivi politici. Se la classe dirigente focalizzerà la sua attenzione
unicamente sulla crescita, non ci sarà bisogno di nuovi indicatori: il PIL rappresenta un valido
strumento. Ma se gli interessi saranno più ampi fino a comprendere, la giusta distribuzione di
benessere nella popolazione, la salvaguardia dell’ambiente e lo sviluppo ambientale, i
miglioramenti degli standard di vita, la salute della persona, la riduzione delle disparità sociali,
in altre parole, se le priorità sono collegate in maniera più salda al concetto di sviluppo, i
governanti si troveranno in mano uno strumento di misurazione poco preciso e del tutto
inadeguato per controllare la situazione attuale e verificare l’andamento delle politiche poste in
essere.
Il PIL non riflette la distribuzione del reddito nella popolazione. A tal proposito è facile
constatare come due nazioni che presentano un diverso PIL, non siano necessariamente una
migliore dell’altra. Occorre migliorare il livello di analisi; infatti, potrebbe capitare che la
nazione con una percentuale più alta presenti una distribuzione di ricchezza in misura superiore
negli strati più ricchi della popolazione. Al contrario la nazione con PIL inferiore ha una
ricchezza meglio distribuita e diffusa su tutta la popolazione.
Il PIL trascura quei fondamentali aspetti di sperequazione economica e di povertà, necessari per
capire gli standard di vita e lo sviluppo di un Paese, che possono assumere valori molto diversi
da Nazione a Nazione, indipendentemente dal livello di crescita dell’indicatore.
Il PIL considera solo la produzione di mercato, cioè quei prodotti che possono essere esprimibili
con un valore monetario. Se escludiamo i servizi pubblici, valutati in base al loro costo, i prodotti
che non transitano dal mercato, sono del tutto fuori dal campo d’indagine del PIL. Un esempio
può essere il lavoro svolto dalla casalinga, se decidesse di assumere dietro pagamento un terzo
per i servizi da prestare alla casa, il PIL aumenterebbe, ma la quantità dei servizi prodotti
resterebbe invariata.
Buona parte di servizi che un tempo erano autoprodotti, ora sono reperibili sul mercato. Ciò non
implica un aumento di prodotti disponibili, ma un cambiamento negli stili di vita.
In alcune nazioni ad economia arretrata, può essere presente una quota maggiore di prodotti e
servizi di autoconsumo rispetto alle nazioni più avanzate. Operare un paragone può, dunque
diventare arduo, poiché l’autoconsumo è per definizione escluso dal PIL.
Per non parlare dell’attività di volontariato. Il carattere di gratuità della stessa implica escludere
dal calcolo del Prodotto nazionale tutte quelle attività e quel mondo di persone e servizi prestati,
utili per la società e che costituiscono un valore aggiunto per la qualità della vita.
Il PIL è dunque un indicatore di tipo quantitativo, che nulla ci dice sulla natura e qualità dei
prodotti acquistati e neppure sull’effettivo consumo degli stessi per le famiglie. Se un individuo
compra una macchina sportiva ed un altro un’utilitaria il PIL cresce sommando i prezzi, i quali,
nel caso di buon funzionamento del mercato sono anche indici di preferenza dei consumatori.
Con l’indicatore il parametro delle preferenze si appiattisce fino al paradosso che un’epidemia
spinga il PIL verso l’alto per la maggior produzione di medicinali.
In termini di produzione l’indicatore è corretto, ma non si può certo definire l’aumento di PIL
dell’esempio come un aumento di benessere. Anche un evento bellico è in grado di far crescere
il PIL, poiché aumenta il consumo di prodotti militari, così come i costi che si sostengono per
una catastrofe ambientale sono tali da far crescere ancora il PIL. Si può comprendere come ai
fini del PIL la guerra, le malattie, l’inquinamento sono fattori di stimolo della crescita e per
tornare al paradosso, se l’indicatore è letto anche come misura del benessere, gli stessi eventi
indicano un maggior benessere del Paese.
Nel caso di una malattia le spese sanitarie sostenute dal settore pubblico o dal privato fanno
incrementare l’indicatore. Poniamo il caso che un individuo a seguito di un incidente non possa
più lavorare e sia costretto ad assumere una badante, i costi della malattia graverebbero sul
settore pubblico e sull’individuo, ma in relazione al PIL, ciò costituirebbe un fattore di crescita
e quindi di benessere.
Se due industrie che operano nello stesso settore, producono utilizzando tecnologie diverse, la
prima rispettosa dell’ambiente, mentre la seconda adopera fattori inquinanti, in un’ottica PIL le
industrie in esame apportano la stessa quantità di benessere, ma non è così nella realtà. Infatti,
non vengono calcolati i danni causati all’ambiente ed alla salute dell’uomo per l’attività
d’inquinamento. Anzi se posti in essere interventi difensivi o riparatori di questi danni, abbiamo
visto che il PIL cresce, quindi paradossalmente, l’industria che più inquina contribuisce anche
in misura maggiore alla crescita del PIL.
L’esempio sopra citato fa emergere la questione delle spese difensive.
Se analizziamo meglio la natura di tali spese, utilizzate spesso per riparare disastri ambientali
causati dalle industrie, ci accorgiamo che esse vengono calcolate come costi intermedi e pertanto,
da escludere in modo diretto dal calcolo del PIL.
Il significato concettuale e la natura epistemologica del PIL sono ora più chiare. Come indicatore
di crescita la sua validità è fuori discussione, ma allo stesso tempo, non si può pretendere di
stimare il benessere con uno strumento gravato da evidenti contraddizioni e paradossi endogeni.
La qualità della vita e più in generale lo sviluppo potrebbero presentare segno opposto rispetto
al PIL, mentre l’opinione pubblica, illusa da incrementi positivi dell’indicatore, non si
accorgerebbe dell’errore e potrebbe essere tratta in inganno nel fare considerazioni e prendere
delle scelte.
Il problema, come ribadito, rimane politico ed attiene al senso di responsabilità dell’uomo. Per
fare un esempio, se le nazioni si danno come obiettivi lo sviluppo e la sostenibilità, un tale
indicatore, può essere paragonato alle ombre del mito della caverna di Platone, tenderebbe a
fornire solo tracce di quella che può essere la situazione reale: ombre appunto, ma non un’idea
completa e precisa della realtà.
Alcuni studiosi tenderebbero a giustificare il paradosso della crescita del PIL, motivando questa
teoria attraverso la convinzione che un evento negativo possa portare ad un incremento della
produzione, maggiore degli effetti negativi dell’evento stesso. Ad esempio, a seguito di
pandemie o sconvolgimenti climatici, con la compensazione per l’incremento della produzione
di altri settori per il sostenimento delle spese difensive.
In parte il ragionamento proposto può avere una sua validità, se non fosse che alcune ricerche
empiriche hanno dimostrato che il saldo netto tra aumento del benessere economico e aumento
del disagio e delle esternalità negative è sbilanciato a favore di queste ultime.
La critica diretta al PIL, inteso come indice, ha avuto un grandissimo sviluppo dagli anni ‘90 in
poi.
La critica al PIL è per sua natura una critica diretta allo sviluppo economico e proprio per questo
motivo diventa più forte nei momenti di crisi, poiché se ne evidenziano le carenze con maggiore
forza.
Gli anni ’30 sono stati segnati dalla grande Depressione e dall’invenzione del PIL; gli anni ‘40
dalla devastazione della seconda Guerra Mondiale e dalla ricostruzione; gli anni’50 sono stati
gli anni del boom economico in cui lo sviluppo del PIL dei maggiori paesi occidentali è stato
impressionante e sostenuto con fervore.
Tuttavia gli anni ’60 e ’70 sono stati caratterizzati da un forte senso di incertezza politica e quindi
il dibattito politico e accademico relativo alle critiche al sistema economico capitalista e al PIL
hanno preso maggior vigore.
Gran parte dell’ideologia che contrasta il PIL si è sviluppata tra la fine degli anni ’60 e gli anni
’70, anni di contestazione e di cambiamento che hanno messo in luce come i paradigmi di
crescita economica non fossero infallibili.
Il più famoso discorso contro l’indicatore che ebbe una risonanza mediatica notevole risale
addirittura al 18 marzo 1968, e fu pronunciato dal Democratico Robert Kennedy presso
l’Università del Kansas. Vale la pena ricordare i passaggi salienti:
Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero
perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del
paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro
che cercano di forzarle.
Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai
nostri bambini.
Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per
migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la
polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si
ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o
della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la
solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici
dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra
di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra
conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve,
eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.
Al di là della retorica politica, nel discorso sono presenti non solo i limiti evidenziati dal PIL,
ma anche quell’idea di sviluppo integrale che dovrà diventare il cuore dell’azione politica dei
governati nel XXI secolo.
Negli anni ’80 l’avvento del Neoliberismo e una nuova fase di sviluppo economico ma anche
tecnologico hanno nuovamente dato vigore alla crescita economica e al PIL; in questo modo le
voci contrarie, sebbene presenti, sono state meno considerate perché schiacciate dall’evidenza
proposta dallo sviluppo.
Gli anni ’90 hanno visto nuove teorie affermarsi riguardanti lo sviluppo, un’attenzione più
concreta verso le diseguaglianze sociali ed economiche a livello mondiale: il dibattito economico
ha iniziato in questa fase a proporre misure alternative al PIL.
Il PIL è una misura della produzione attuale di una collettività; benché il Sistema dei Conti
Nazionali contenga molte altre variabili utili per misurare il benessere materiale delle famiglie,
esso non può ricomprendere tutti gli aspetti che determinano il loro benessere complessivo,
nonché misure soddisfacenti della sua distribuzione tra gli individui (equità) e tra le generazioni
(sostenibilità). Tali limiti sono stati ben presenti a chi ha sviluppato il Sistema dei Conti
Nazionali, cosicché negli ultimi quaranta anni si sono moltiplicate le iniziative di ricerca per
sviluppare indicatori alternativi o complementari al PIL.
Nel suo intervento alla University of Kansas del 18 marzo 1968, R. F. Kennedy criticò duramente
il prodotto nazionale lordo come indicatore di benessere in un’epoca in cui il concetto non era
ancora così dominante: “Il prodotto nazionale lordo comprende l’inquinamento dell’aria,
l’abbattimento delle sequoie e la scomparsa delle nostre bellezze naturali nel caotico
inurbamento... Cresce con la produzione di napalm, e delle testate nucleari”.
Negli ultimi 40 anni molti statisti e studiosi hanno cercato di ridurre l’attenzione sul prodotto
interno lordo (Pil), considerato a torto la misura chiave del progresso nazionale, con l’obiettivo
di integrare i conti nazionali con altri indicatori più idonei a rappresentare il benessere della
società (l’accumulo a lungo termine di ricchezza naturale, economica e sociale, i livelli di
aspettativa di vita, di alfabetizzazione, di istruzione, di soddisfazione personale, l’impatto
negativo dell’inquinamento e del degrado del capitale naturale ecc.).
Gli indici statistici rappresentano un elemento chiave per la promozione e la difesa dei diritti e
del benessere umano.
Nell’ambito degli attuali sistemi di misura usati nella contabilità nazionale, un primo passo verso
una misurazione più efficace degli standard di vita potrebbe essere quello di soffermarsi su
indicatori alternativi al prodotto interno lordo, che talvolta evidenziano trend e fenomeni che
sarebbero invece poco chiari se ci si limitasse all’osservazione del Pil.
L’ISU è un indice composito basato sul PIL pro capite, sulla speranza di vita (rappresentativa
delle condizioni sanitarie della popolazione) e sul tasso di scolarizzazione primaria
(rappresentativo del livello educativo).
L’indice, sviluppato nel tentativo di rendere operativo l’approccio proposto da Amartya Sen
orientato alle capability, è relativamente semplice e produce una classifica di tutti i paesi al
mondo; la pubblicazione della quale richiama una grande attenzione mediatica (la sua semplicità
rende il risultato apparentemente molto intuitivo) e spesso produce forti polemiche politiche in
quei paesi che perdono posizioni nella graduatoria, mentre è usato per scopi propagandistici in
quelli che invece guadagnano posizioni.
Tuttavia, visto anche il fatto che l’indice viene pubblicato dall’UNDP all’interno dello Human
Development Report, l’indice viene soprattutto utilizzato per valutare la situazione dei paesi in
via di sviluppo, mentre in quelli avanzati l’eco che esso suscita è molto più limitata.
Il “padre” del PIL l’economista Simon Kuznets nel 1934 chiarì al Congresso degli Stati Uniti
che “il benessere di una nazione non può essere facilmente desunto da un indice del reddito
nazionale”.
La c.d. “Commissione Stiglitz” ha elaborato una prima serie di indicazioni finalizzate a misurare
il progresso e ha fornito agli istituti di statistica dodici raccomandazioni. Le proposte di nuovi
indicatori: servono nuovi metodi statistici (le raccomandazioni della “Commissione Stiglitz”):
2. Impostare l’analisi dal punto di vista delle famiglie; prendendo cioè in considerazione
tasse, prestazioni sociali e servizi forniti dallo Stato, come la sanità e l’istruzione.
3. Tenere in conto il patrimonio delle famiglie, distinguendo, cioè tra chi spende tutto per
consumi, accrescendo il benessere immediato, e chi invece risparmia per il benessere futuro.
4. Dare più importanza alla distribuzione dei redditi, dei consumi e della ricchezza, non
ricorrendo quindi a medie matematiche, che non tengono conto della differenza di reddito tra i
più ricchi e i più poveri. Le raccomandazioni della “Commissione Stiglitz”
5. Estendere gli indicatori alle attività non legate direttamente al mercato. Attività come
fare le pulizie in casa o accudire neonati, fanno parte della “produzione” economica di una
famiglia, ma che vengono prese in considerazione dalle statistiche se non svolte da personale
salariato.
10. Gli istituti di statistica dovrebbero anche cercare di integrare nelle inchieste sulla
qualità della vita dati sull’evoluzione effettuata da ogni cittadino nel corso della propria
esistenza.
Le spese per la ricerca e lo sviluppo, per l’istruzione e per la sanità non contribuiscono alla
formazione e sono parte integrante del consumo. L'indice è stato poi ulteriormente sviluppato ed
ha portato alla definizione dell’indicatore “Genuine Progress Indicator”.
I fautori di GPI sostengono che misura più attendibilmente il progresso economico, poiché
distingue fra sviluppo utile e sviluppo poco economico. Il confronto tra il PIL e il GPI è analogo
alla differenza che c’è tra il Ricavo Totale di un'azienda e l’Utile Netto:
Per questi motivi è calcolato distinguendo tra spese positive (che aumentano il benessere, come
quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti stradali),
diversamente dal PIL, al quale si propone come alternativa, che considera tutte le spese come
positive e che non considera tutte quelle attività che, pur registrando flussi monetari,
contribuiscono ad accrescere il benessere di una società (casalinghe, volontariato).
Almeno 11 paesi (tra cui Canada, Olanda, Austria, Inghilterra, Svezia e Germania) hanno
ricalcolato il loro prodotto interno lordo usando il GPI. I dati, per i paesi UE e USA, mostrano
che mentre il PIL è cresciuto negli ultimi decenni, il GPI è aumentato solo fino ai primi anni 70,
dopodiché ha iniziato a decrescere.
Indice dell'impronta ecologica Mathis Wackernagel e William Ress 1996/1997 (Global Footprint
Network) Quantifica, paese per paese, l’area biologicamente produttiva necessaria per fornire
continuativamente le risorse richieste dal sistema economico e assorbirne gli scarti, data la
tecnologia in uso.
In questo modo osserva il consumo di risorse naturali incorporato nella domanda di beni e servizi
di un dato sistema economico, indipendentemente da dove questi vengano prodotti (indicatore
“consumption-based”, invece che “production-based”).
L’impronta ecologica può poi essere comparata con la capacità biologica disponibile in ciascun
paese. In parole povere, essa misura l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria
per rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e per assorbire i rifiuti
corrispondenti.
In Italia l'impronta ecologica è stata e viene calcolata non solo per l'intera nazione, ma anche su
scala regionale e locale. Il Cras (Centro ricerche applicate per lo sviluppo sostenibile) ha
calcolato l'impronta per la Basilicata, la Calabria, la Campania, la Liguria, la Puglia, la Sardegna,
la Sicilia e la Toscana; l'Istituto Ricerche Interdisciplinari sulla Sostenibilità, costituito dalle
Università di Torino e di Brescia, ha calcolato l'impronta ecologica per le province di Ancona,
Ascoli Piceno, Cagliari, Forlì-Cesena, Pesaro-Urbino, Siena e per il comune di Follonica. Anche
la Provincia di Bologna ha pubblicato i calcoli relativi all'impronta del proprio territorio.
L'impronta ecologica ha parecchi limiti, riconosciuti dagli stessi autori. In primo luogo riduce
tutti i valori ad una sola unità di misura, la terra. Ciò distorce la rappresentazione di problemi
complessi e multidimensionali. I consumi sono riferiti alle sole risorse rinnovabili, non viene
misurata la dipendenza da risorse non rinnovabili (minerali, petrolio). Lo stesso si può dire per
la produzione di rifiuti e di materiali non smaltibili. L’inquinamento non è considerato, ad
eccezione delle emissioni di CO2.
Da ciò deriva che: il danno ambientale reale è molto maggiore di quello che mostra l'impronta
ecologica, perché non vengono considerati molti fattori degradanti; - l'impronta ecologica
fornisce utili indicazioni, ma rimane uno strumento non definitivo per le scelte dei governi: anche
se si dovesse raggiungere la parità tra consumi e disponibilità questo non ci assicurerebbe la
soluzione dei problemi ambientali.
Genuine savings index (GSI) Banca Mondiale 1999 Banca Mondiale ha ideato questo indice di
sostenibilità ambientale per misurare la variazione netta nel valore del capitale di un Paese,
attraverso tre tipi di correzioni rispetto al Pil. Vengono aggiunte le spese per la formazione,
considerate come investimenti in capitale umano. Sono invece detratte le spese per la contrazione
delle risorse naturali e i danni provocati all'inquinamento. Anche questo come il GPI, l’HDI e
l'impronta ecologica è un indicatore sistemico e mostra con un solo numero quanto è sostenibile
lo sviluppo di uno Stato.
Wellbeing indicator (WBI) The World Conservation Union – 2001 Valuta il livello di benessere
di 180 Stati aggregando 88 indicatori divisi in due sottoindici. Di pari peso nella formazione del
dato finale.
Il benessere umano (Hwi) dedicato alla ricchezza economica, livello di cultura, istruzione,
servizi sociali da una parte e la qualità dell'ambiente (Ewi), che considera lo stato delle risorse
naturali e il livello di inquinamento, dall'altra.
Sustainable society index (Ssi) Geurt van de Kerk e Arthur Manuel (Olanda) 2003 Mostra quanto
sia eco-compatibile lo sviluppo di un Paese partendo dalla definizione di sostenibilità formulata
dalla commissione Brundtland (la capacità di una società di soddisfare i bisogni di oggi senza
compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri).
Si basa su 22 indicatori riuniti in cinque categorie e mostra come il benessere delle società ricche
sia progressivamente diminuito dagli Anni Settanta del secolo scorso, nonostante il Pil abbia
continuato la sua crescita. Happy planet Index (Hpi) New Economics Foundation (Londra) 2006.
È frutto di uno studio che, sulla base dell'equazione che alti livelli di consumismo non producono
alti livelli di benessere, mette in relazione le risorse utilizzate da un Paese con l'impronta
ecologica, l'aspettativa di vita e la felicità dei suoi abitanti. A livello europeo i primi in classifica
sono Islanda, Svezia e Norvegia.
Prodotto interno di qualità (Piq) Symbola/D. Siniscalco (Italia) - 2006 Ha l'obiettivo di elaborare
una contabilità della “qualità” che abbia la stessa immediatezza comunicativa del Pil e mostri
quanta parte di esso è collegato a produzioni di qualità. Il Piq si può misurare in termini monetari
quindi comparabile con gli aggregati settoriali e di spesa pubblica. Per questo può essere
considerato uno strumento complementare al Pil. Il PIQ è misurabile in termini monetari e perciò
comparabile con gli aggregati comparabile con gli aggregati settoriali e di spesa pubblica. Nel
2007 il PIQ italiano ha raggiunto il 44,3% del Pil, pari a 628 miliardi di euro.
BES – Benessere Equo e Sostenibile (lavoro in fieri) CNEL/ISTAT + altre realtà 2011
(insediamento comitato di indirizzo 20/04/11) (Italia Nostra, Lega Ambiente, WWF, Forum del
Terzo Settore, reti di associazioni e dei movimenti delle donne, Sbilanciamoci ecc.) Obiettivo:
Una misura del benessere nazionale che serva a indirizzare le politiche economiche, sociali e
ambientali., partendo dalla critica ai limiti del PIL.