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ATTUALITÀ

BTp Italia: nel primo giorno ordini per 3,2 miliardi. Boom di mini-contratti
14 novembre 2022
Si è chiuso con ordini superiori ai 3 miliardi di euro il primo giorno di collocamento del nuovo
Buono del Tesoro Poliennale (BTp) Italia - un titolo indicizzato all'inflazione - che il Tesoro ha
lanciato oggi sul mercato. Nel primo round, riservato al retail, il BTp con durata 6 anni e scadenza
22 novembre 2028 ha raccolto ordini per 3,184 miliardi, a fronte di 103.077 contratti sottoscritti.
La prima fase del periodo di collocamento è dedicata agli investitori retail e si concluderà il 16
novembre prossimo, salvo chiusura anticipata. Il tasso cedolare (reale) annuo minimo garantito è
fissato all’1,60%, pari cioè alla precedente emissione di metà giugno scorso.
La seconda fase del collocamento, dedicata agli investitori istituzionali, avrà inizio nella giornata di
giovedì 17 novembre.
È la partecipazione dei piccoli risparmiatori il dato più rilevante della nuova emissione del Btp Italia.
E anche se la domanda ’retail’ non è a livelli record, quello che balza agli occhi è una dimensione
media degli ordini, nel primo giorno di contrattazioni, mai così bassa da quanto è stato lanciato il
titolo oltre un decennio fa.
Con 103.077 ordini, la dimensione media di ciascun contratto è pari a 30.899. È il segnale di
un’elevata partecipazione del piccolo risparmiatore, attratto dalla protezione di fronte a
un’inflazione che ’mangia’ la liquidità come mai prima d’ora negli oltre 20 anni dell’euro.

ATTUALITÀ
Si apre oggi a Bali, in Indonesia, il vertice del G20.
Il G20 è un forum intergovernativo che coinvolge le principali economie del mondo (global
governance).
I membri del G20 sono: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia,
Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Repubblica di Corea, Russia,
Sud Africa, Stati Uniti, Turchia e Unione europea.
Anche la Spagna è invitata in qualità di ospite permanente. I 20 Paesi rappresentano il 60% della
popolazione globale, l'80% del Pil del mondo e il 75% degli scambi commerciali
I leader del G20 discuteranno, tra l'altro, delle tre priorità della presidenza indonesiana del G20:
• salute globale
• trasformazioni digitali
• transizioni energetiche sostenibili
Sulla riuscita dei gruppi di lavoro, impegnati nella ricerca di un accordo sul comunicato finale del
summit, pesa lo spettro della guerra tra Russia e Ucraina.

Il Modello Mundell-Fleming
Permette di analizzare gli effetti della politica economica nel breve periodo in un’ economia aperta.
Esso estende l’apparato analitico IS-LM (Modello Hicks-Hansen) presentato da Hicks in un saggio
apparso sulla rivista "Econometrica" (Mr.Keynes and the Classics: a Suggested Interpretation)
nell'aprile del 1937, pochi mesi dopo la pubblicazione della "Teoria Generale" di Keynes. Il
contributo di Hicks consiste nell’aver fornito una spiegazione dell'equilibrio economico generale
frutto di una sintesi (la cosiddetta sintesi neoclassica) tra le due opposte visioni della teoria
neoclassica e della teoria keynesiana. Il Modello Mundell (1961) e Fleming (1962) estende il
modello IS- LM al caso di un’economia aperta, in regime di cambi fissi o di cambi flessibili (breve
periodo).
Il modello Mundell-Fleming analizza le condizioni di equilibrio simultaneo, interno ed esterno, del
sistema economico, prendendo in considerazione le curve IS, LM ed FE che descrivono le varie
combinazioni di tasso di interesse e del reddito in corrispondenza delle quali sono in equilibrio:
• il settore reale, il c.d. mercato dei beni, assicurato dall’uguaglianza fra risparmio ed
investimento;
• il settore monetario, ossia il mercato della moneta, assicurato dall’uguaglianza fra domanda
ed offerta di moneta;
il settore esterno assicurato dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti frutto dell’equilibrio
complessivo delle partite correnti e del saldo del conto finanziario.
Il Modello studia un equilibrio economico di breve periodo, in cui i prezzi sono fissi e il livello del
PIL (Y) è determinato dal lato della domanda.

Equilibrio del settore monetario: Ms/P = L


Ms/P è determinata e regolata dalle Autorità monetarie
Chiave del problema diventa L (ossia la volontà del pubblico di detenere moneta presso di sé in
forma liquida).
Moventi: Transattivo, Precauzionale e speculativo

Come derivare graficamente la curva LM

Squilibri della curva LM


Posizione della LM

Inclinazione della LM
POLITICA FISCALE
Politica Fiscale (o di bilancio) è la manovra del bilancio pubblico (entrate e spese) per il
perseguimento di obiettivi macroeconomici fondamentali.
Gli obiettivi sono di attenuare gli eccessi del ciclo economico, contribuendo, in tal modo, alla
crescita del reddito e dell’occupazione.
Lo strumento per ottenere risultati è la variazione delle modalità di imposizione fiscale e dei
programmi di spesa pubblica (quanto/chi tassare e quanto/come spendere).
L’imposizione può essere in somma:
• fissa
• proporzionale
• progressiva (l’aliquota non è più costante ma è funzione crescente del reddito del
contribuente)
La progressività dell’imposta mira principalmente a esercitare un’azione perequativa (distribuzione
più equa) dei redditi. Tale azione può essere attenuata dall'erosione della base imponibile
(esenzione di taluni redditi dall’imposta) nonché dall’elusione (minimizzazione del carico fiscale) ed
evasione dell’imposta.

Il settore pubblico comprende:


• Il settore statale: le Amministrazioni Centrali dello Stato (ossia, gli organi costituzionali e di
rilevanza costituzionale e i Ministeri), la Cassa Depositi e Prestiti, l’Anas, Foreste demaniali
• le Amministrazioni locali (Enti locali –Regioni, Provincie, Comuni-, ASL, Università, Enti
lirici, Enti portuali e Camere di Commercio)
• gli enti pubblici di previdenza (Inps, Inpdap, Inail,...)

Identità contabile del bilancio pubblico


T-Cg-Trc–INT–Ig–Trk= Bs dove T= entrate correnti
Cg=consumi pubblici
Trc= trasferimenti correnti (esclusi gli interessi) INT= interessi
sul debito pubblico
Ig= investimenti pubblici netti
Trk= trasferimenti in conto capitale
Bs= saldo del bilancio

G=Cg+Ig
Tr=Trc+INT+Trk dove G= spesa pubblica
Tr= trasferimenti totali

Entrate pubbliche
Abbiamo le entrate correnti con:
• Le entrate tributarie, che comprendono:
a) le imposte e le tasse sui consumi, sui redditi, sulle ricchezze e sugli affari;
b) i proventi dei monopoli di stato;
c) i proventi di lotto, lotterie e altri giochi;
• Le entrate extra-tributarie, che comprendono i proventi dei beni dello stato, gli utili delle
imprese a partecipazione pubblica e di aziende autonome e i proventi di servizi pubblici;
Abbiamo o poi le entrate in conto capitale con:
• L’alienazione (ossia la vendita) di beni patrimoniali e aziende pubbliche e dal rimborso di
crediti

Spese pubbliche
Le spese pubbliche sono costituite da:
• La spesa pubblica per beni e servizi, composta da:
a) spesa per consumi pubblici (costo per il personale dipendente + spese per acquisti
correnti di beni e servizi)
b) spesa per investimenti pubblici (ampliamento della dotazione di capitale di proprietà
pubblica, quale edifici, scuole, strade, ecc)
• I trasferimenti correnti:
a) trasferimenti a famiglie aventi finalità redistributive e di fornitura di beni meritori (es.
assegni a particolari categorie di persone, come invalidi civili, pensioni di guerra,
ecc)
b) trasferimenti alle imprese, contributi assegnati alle imprese
c) trasferimenti al Resto del mondo, per contribuzioni a organismi internazionali,
cooperazione per lo sviluppo, ecc
• Gli interessi
• I trasferimenti in conto capitale, pagamenti effettuali alle imprese per sostenere investimenti
privati

Il saldo di bilancio ed i documenti di programmazione


La differenza fra le entrate e le uscite rappresenta il saldo, che può essere attivo o passivo, a
seconda che le entrate siano maggiori o minori delle uscite.
La legge di riforma della contabilità pubblica (2009) ha innovato lo schema delle decisioni di
bilancio e il relativo ciclo programmatorio:
• Il Documento di economia e finanza (DEF) costituisce il principale documento di
programmazione della politica economica e di bilancio. Esso traccia, in una prospettiva di
medio-lungo termine, gli impegni, sul piano del consolidamento delle finanze pubbliche, e
gli indirizzi, sul versante delle diverse politiche pubbliche
• La Legge di Bilancio è il documento predisposto su base annuale e pluriennale col quale il
Parlamento autorizza il Governo a prelevare ed utilizzare le risorse pubbliche necessarie
per l’esecuzione delle politiche pubbliche e delle attività amministrative dello Stato e
rappresenta il principale documento contabile per l’allocazione, la gestione e il
monitoraggio delle risorse finanziarie dello Stato

Il moltiplicatore in un’economia aperta

Il finanziamento della spesa pubblica


La spesa pubblica può essere finanziata attraverso:
• tributi (incremento imposizione fiscale)
• deficit (con emissione di titoli del debito pubblico o creazione di base monetaria)
La tradizionale economia keynesiana sostiene che gli effetti macroeconomici della spesa pubblica
dipendano sostanzialmente dal modo in cui essa è finanziata.
Consideriamo un’economia che si trovi in una situazione di partenza di equilibrio, eventualmente di
sottoccupazione. Consideriamo anche un incremento della spesa pubblica, pari a ΔG.

Nel caso più comune di spesa pubblica non finanziata da un pari aumento delle imposte, gli effetti
sul reddito e sull’occupazione risultano essere proporzionalmente maggiori.
Per determinarne gli effetti specifici è, tuttavia, necessario tenere in considerazione le modalità con
cui le autorità decidono di procedere al finanziamento della spesa pubblica in disavanzo.
Essi hanno a disposizione essenzialmente due modalità: la creazione addizionale di base
monetaria e l’emissione di titoli del debito pubblico, al fine di approvvigionarsi di liquidità sul
mercato, grazie agli acquisti di titoli effettuati da privati;
L’identità di bilancio nel caso di disavanzo sarà : T-Gp-INT+ Δ𝐵𝑀/p+ Δ𝐵/p =0

Finanziamento tramite creazione di base monetaria


Il finanziamento può avvenire tramite:
• Emissione di monete o biglietti del Tesoro
• Finanziamento dello scoperto del Tesoro sul c/c di Tesoreria (in presenza di convenzione
tra Stato e BC)
Il costo di tale forma di credito è molto basso (es. in Italia il tasso di interesse applicato era pari
all’1%). Ciò rappresenta una sorta di entrata (occulta) pari alla differenza tra il costo del debito se
si emettono titoli del debito pubblico e il costo del finanziamento monetario (di cui sopra). Questa
entrata prende il nome di signoraggio: quando la BM è eccessiva rispetto a quella che garantisce
la stabilità monetaria, si genera una sorta di tassa di inflazione (che avvantaggia lo Stato perché
riduce il valore reale del debito).
Politica fiscale espansiva + Politica monetaria espansiva rappresenta la politica monetaria
accomodante.
Vi sarà il rischio di incremento dei prezzi in presenza di pieno impiego o di strozzature settoriali.

Finanziamento tramite emissione di titoli di debito pubblico


Tale forma di finanziamento induce ad una concorrenza fra l’investitore pubblico e gli investitori
privati (es. le imprese)
A parità di risparmio disponibile, tale concorrenza produce l’aumento del saggio di interesse e la
conseguente riduzione degli investimenti privati
Avremo uno spiazzamento finanziario: i.e., sottrazione del risparmio per gli investitori privati ed il
suo impiego per le esigenze di finanziamento della spesa pubblica.
Conseguenze: un effetto di freno dell’incremento di reddito indotto dall’aumento della spesa
pubblica: possibile annullamento effetto espansivo.

Secondo la Scuola della Nuova-Macroeconomia classica, l’aumento della spesa pubblica


causerebbe uno spiazzamento reale: gli individui, prevedendo che per rimborsare il debito lo Stato
dovrà aumentare in futuro le imposte, si preparano a questa evenienza riducendo il consumo
attuale, cioè uno spiazzamento reale: sostituzione di consumi pubblici e consumi privati; effetti
depressivi sull’investimento per maggiore incertezza.
Ipotesi di ultrarazionalità dei consumatori (ma scarso riscontro nella realtà).
La proposizione che se ne ricava è nota come equivalenza ricardiana o equivalenza di barro-
Ricardo: Data una sequenza di spesa pubblica, e imponendo il vincolo del pareggio intertemporale
del bilancio pubblico, l’effetto che la spesa pubblica esercita sul reddito di equilibrio e sui consumi
è esattamente il medesimo, a prescindere dal fatto che essa sia finanziata con imposte oppure con
l’emissione di titoli del debito pubblico.
Ovvero, il finanziamento della spesa con emissione di debito pubblico in realtà equivale al
finanziamento mediante imposte.
L’idea alla base dell’“equivalenza ricardiana” è che un aumento del disavanzo pubblico non
determina alcuna influenza sui consumi complessivi (Ipotesi AR).

Nel caso in cui non si alternino situazioni di deficit e di avanzi nel bilancio pubblico, ma perdurino
disavanzi, il debito pubblico si accumula nel tempo.
Ad es. l’ Italia ed altri paesi nel dopoguerra in cui l’’ammontare attuale del debito pubblico dell’Italia
è di 2.766 miliardi di euro (dato al giugno 2022).
L’indicatore comunemente utilizzato per monitorare l’andamento del debito è il rapporto
percentuale tra il debito pubblico e il PIL. In Italia pari a 150,2% (dato al giugno 2022).
L’ Italia, dopo la Grecia, è il paese con il rapporto debito/PIL più elevato nell’UE.
Il debito pubblico (come qualsiasi altro debito, almeno in linea di principio) diventa insostenibile se,
per finanziare il pagamento degli interessi è necessario accendere altro debito.
Tuttavia, la dinamica del debito pubblico inizia a generare preoccupazioni ben prima di arrivare al
caso limite di insostenibilità tecnica.
La politica economica assume come obiettivo di sostenibilità del debito pubblico il seguente:
ottenere che il rapporto tra stock del debito e PIL sia non-crescente nel tempo.

Cause della crescita del debito pubblico


Consideriamo il rapporto B/PIL dove B è il debito pubblico (nominale).
Tale rapporto varia nel tempo se il numeratore (B) varia a tassi superiori rispetto a quelli del
denominatore (PIL=pY), ossia approssimativamente se Ḃ-ṗ-Ẏ>0 (ricordiamo che la variazione
percentuale di un quoziente è la differenza fra la variazione percentuale del dividendo e la
variazione percentuale del divisore).
Cause della crescita:
1. Il rapporto tra debito pubblico e PIL cresce nei periodi nei quali è elevato il deficit primario
2. Un basso tasso di crescita del PIL reale contribuisce ad elevare il rapporto debito pubblico
/PIL;
3. Il rapporto viene fatto crescere da tassi d’interesse reali elevati
Nel caso particolare di un saldo primario in pareggio, il rapporto tra debito pubblico e PIL cresce se
il tasso reale d’interesse è superiore al tasso di crescita del PIL reale, mentre diminuisce quando il
tasso di crescita del PIL reale eccede il tasso d’interesse reale; supponiamo che ci sia pareggio
primario (ossia al netto degli investimenti , cioè Gp-T=0). Allora il debito può crescere soltanto per
gli interessi maturati sullo stock di debito precedente (iB). Quindi, in caso di assenza di deficit
primario iB/B sarà pari a i e dunque i- ṗ-Ẏ>0 Ma i- ṗ= tasso d’interesse reale, quindi il rapporto
debito pubblico e PIL cresce se i reale > del saggio di crescita del PIL

Vediamo cosa è successo in Italia negli anni Ottanta e primi anni Novanta:
1. Il tasso d’interesse reale era superiore al tasso di crescita del PIL (es. i dei titoli pubblici erano
7% mentre Ẏ era circa 2,5%). Cause: stretta monetaria USA; PM restrittive della BI dopo il
«divorzio» dal Tesoro ; debole crescita del reddito
2. Riduzione del finanziamento monetario del Tesoro (cioè riduzione del ricorso all’incremento
della BM) a seguito del «divorzio» tra BI e Tesoro

Esistono limiti alla crescita del debito pubblico?


In realtà no. E’ tuttavia chiaro che, un elevato e persistente debito pubblico, porta all’insorgenza di
rischi di insolvenza
Per ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL vi sono vari strumenti:
• Politiche di crescita del reddito: riorientamento della spesa pubblica e dei tributi, senza
aumento disavanzi (offerta servizi pubblici efficienti); PM espansiva; politica deprezzamento
tasso di cambio; politica moderazione salariale);
• Politiche di contenimento del deficit primario (e quindi di aumento del saldo primario):
contenimento della spesa primaria; aumento delle entrate ; privatizzazione imprese
pubbliche;
• Politiche di controllo dei tassi d’interesse: contenimento costo reale del debito
(miglioramento tecniche di emissione e creazione di un mercato secondario dei titoli
pubblici); diversificazione caratteristiche dei titoli; introduzione vincoli ai movimenti di
capitale (es. tassa di Tobin); rafforzamento stabilità dei tassi di cambio.
In Italia, e più in generale nei paesi UE, le politiche di rientro si sono rafforzate nella seconda metà
degli anni Novanta al fine di rinnovare l’adesione agli accordi di cambio previsti dallo SME
(Sistema Monetario Europeo) e di partecipare alla UEM (Unione economica e monetaria),
uniformandosi alle prescrizioni degli Accordi di Maastricht.
Gli Accordi di Maastricht prevedevano un limite sia al rapporto tra disavanzo del bilancio pubblico e
PIL sia al rapporto fra debito pubblico e PIL:
Il disavanzo annuo di bilancio di un paese non deve portarsi oltre il 3% del PIL e il debito pubblico
complessivo non deve superare il 60% del PIL.
La partecipazione all’UEM ha poi implicato una ulteriore limitazione al rapporto deficit /PIL,
secondo le prescrizioni del Patto di stabilità e crescita (PSC), poi aggiornato con il Fiscal compact.
Parametri PSC:
• Il disavanzo pubblico: Il PSC fissa limiti per il disavanzo pubblico al fine di garantire la
sostenibilità delle finanze pubbliche. Un disavanzo superiore al 3% del PIL è considerato
eccessivo e richiede azioni correttive.
• Il debito pubblico: Il PSC fissa il limite del 60% del PIL per il debito pubblico.

Il 1.1.1999 entra in vigore per i paesi UEM il PSC affinché continuino a rispettare i parametri di
Maastricht relativi alla disciplina di bilancio:
Nel marzo del 2011 il Consiglio europeo ha adottato il Patto Euro +.
Vi hanno aderito anche 6 paesi non dell’Eurozona (Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia
e Romania), con l’obiettivo di rafforzare il coordinamento delle politiche economiche dei paesi
membri, in particolare nei settori dell’occupazione, della competitività, della stabilità finanziaria e
della sostenibilità delle finanze pubbliche.
Nel gennaio 212 l’UE ha approvato il rafforzamento del PSC ed il c.d. Fiscal Compact:
• monitoraggio più attento degli squilibri macroeconomici
• introduzione di un maggiore automatismo nelle decisioni del Consiglio (le sanzioni
proposte dalla Commissione vengono immediatamente adottate a meno che il
Consiglio le rifiuti sulla base di un voto a maggioranza qualificata)
• Fiscal Compact
• sanzioni più severe per incoraggiare gli stati membri a rispettare il PSC (costituzione di
un deposito infruttifero pari allo 0,2% del Pil per i paesi che si discostano dagli obiettivi di medio
termine).
Nel Gennaio 2012 l’Ue ha approvato il c.d. «fiscal compact»
2 regole:
• Golden Rule: pareggio di bilancio (i.e., il divieto per il deficit strutturale - disavanzo corretto
per il ciclo- di superare lo 0.5 % del Pil nel corso di un ciclo economico)
• Obbligo riduzione del rapporto debito/PIL: dovrà scendere ogni anno di 1/20 della distanza
tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%.

ATTUALITÀ
Chiuso il vertice Cop27: accordo mondiale sul clima.
Sharm el Sheikh. Dopo due settimane di trattative, la Cop27 (Conferenza delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici) si conclude all’alba di domenica 20 novembre. L’assemblea plenaria della
Cop27 ha deciso l’istituzione di un fondo per i ristori delle perdite e dei danni del cambiamento
climatico. Un Comitato transitorio dovrà preparare un progetto da presentare alla prossima Cop28
nel 2023 per l’avvio operativo del fondo.
E questa è la buona notizia. Il fondo metterà a disposizione soldi a cui i PVS - più vulnerabili agli
eventi meteorologici estremi -potranno attingere per rimediare ai danni e alle perdite causate dal
clima nei Paesi in via di sviluppo. Donatori: Usa, Europa, Canada, Australia, Nuova Zelanda,
Giappone, i quali non vogliono essere i soli a finanziare il fondo e chiedono che lo facciano pure
altre potenze economiche, a cominciare dalla Cina.
Il documento finale salva l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi dai livelli
pre-industriali ma delude su carbone e combustibili fossili: si sottolinea l’importanza della
transizione alle fonti rinnovabili e si auspica l’eliminazione dei sussidi alle fonti fossili. Ma il
documento chiede soltanto la riduzione della produzione elettrica a carbone e non dice nulla su
riduzione o eliminazione dell’uso dei combustibili fossili. UE e ONU i più critici e delusi.

La scheda IS (equilibrio del settore reale) Come si ricava graficamente

Squilibri Posizione

Inclinazione
POLITICA DEL TASSO DI CAMBIO

Introduzione
Ogni economia aperta commercia col resto del mondo, scambiando beni e servizi, attività e
passività finanziarie.

Scambio di beni e servizi


Vantaggi dalla specializzazione dovuti a:
• dotazioni di fattori
• economie di scala

Scambio di attività finanziarie
• titoli azionari
• titoli obbligazionari (emessi da soggetti privati o pubblici)
• le monete (o valute)
Il mercato in cui vengono scambiate le valute di paesi diversi prende il nome di mercato valutario o
mercato dei cambi.

I movimenti di capitali finanziari hanno luogo per ragioni diverse:


• finalità speculative (ottenere un rendimento) degli operatori, e quindi l'orizzonte decisionale
è tipicamente di breve periodo;
• finalità strategiche di più lungo periodo, come l'acquisizione di quote azionarie di imprese di
cui si cerca di prendere il controllo (investimenti diretti esteri).
Negli ultimi decenni i movimenti di capitali finanziari hanno acquisito un'importanza crescente e
rappresentano oggi la preponderante maggioranza negli scambi internazionali.

Regimi di tasso di cambio


Per regime (o sistema) di cambio si intende un accordo fra due (o più Paesi), con il quale vengono
fissate regole per lo scambio tra le rispettive monete
• Cambio fisso, quando le Autorità monetarie di due o più paesi possono accordarsi per
stabilire un rapporto fisso di scambio tra le monete. Se le forze di mercato tendono a
modificare il tasso di cambio, le autorità intervengono per evitare variazioni del tasso di
cambio
• Cambio flessibile, quando le Autorità possono consentire che il cambio si stabilisca sulla
base del libero gioco di domanda e offerta delle valute
Al di là di questi due estremi polari, esistono una pluralità di sistemi di cambio, che possono essere
più o meno vicino ai due estremi.
Cambio amministrato = le autorità intervengono solo se il tasso di cambio supera (al rialzo o al
ribasso) un valore soglia predeterminato o per evitare eccessive fluttuazioni

Cenni storici del tasso di cambio


Storicamente il cambio inizia ad avere importanza quando il commercio internazionale diventa
rilevante.
La prima epoca che segna accordi internazionali sui tassi di cambio è la seconda parte del XIX
secolo: a partire dal 1870 gran parte dei Paesi allora avanzati adottano monete con un prefissato
contenuto aureo (cioè un valore fissato in termini di oro);
Il sistema che ne origina viene definito “sistema aureo” o “Gold standard”.
Il sistema di cambi fisso basato sul “Gold Standard” ha coinvolto un ampio numero di Paesi tra il
1870 e il 1914.
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, molti Paesi furono obbligati ad espandere la spesa
pubblica, che in parte fu coperta con emissione monetaria, la quale implicò l’incapacità di garantire
la copertura aurea, e quindi implicò la caduta del sistema di cambio fisso.
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, il tentativo di alcuni Paesi di tornare a sistemi aurei (fra
cui l’Inghilterra, e anche l’Italia fascista) si dimostrò vano.
Un nuovo sistema internazionale nacque nel 1944 con gli Accordi di Bretton Woods. Esso
prevedeva che:
• le autorità statunitensi garantissero la convertibilità del dollaro Usa in oro, su richiesta delle
banche centrali degli altri Paesi,
• tutti i Paesi si impegnassero ad avere un cambio fisso contro il dollaro. Erano consentite
oscillazioni dei tassi di cambio (attorno al tasso fisso) in una banda determinata.
In questo modo, ciascuna moneta finiva con l’avere un contenuto aureo (anche se non esisteva un
obbligo diretto di convertibilità);
▪Curiosità: il valore di cambio oro-dollaro fu per molti anni fissato a 35 dollari per oncia; inoltre, il
tasso di cambio bilaterale lira-dollaro era di 625 lire italiane per dollaro; in questo modo,
(35*625)=21.875 lire corrispondevano ad un’oncia d’oro. Per questo motivo, il sistema venne
connotato come “gold-exchange standard”. Le parità fra i tassi di cambio potevano essere riviste,
soltanto a seguito di squilibri fondamentali che giustificassero modificazioni delle parità, e previa
autorizzazione del Fondo Monetario Internazionale.

Fondo Monetario Internazionale (FMI o in inglese IMF, International Monetary Fund), presso il
quale le Banche Centrali dei Paesi aderenti avrebbero versato parte delle proprie riserve d’oro (a
copertura delle monete nazionali) e il quale (dal 1967) poteva emettere, ed allocare fra i Paesi
aderenti, una sorta di moneta virtuale, i diritti speciali di prelievo –con cui i Paesi aderenti potevano
regolare le loro transazioni ufficiali.
Al FMI veniva attribuito il compito di aiutare (con prestiti) i Paesi che si fossero trovati in
temporanee difficoltà di liquidità
Il FMI doveva quindi svolgere una sorta di compito di Banca Centrale Mondiale, con il ruolo di
prestatore di ultima istanza verso le banche centrale dei Paesi aderenti, che si fossero trovate in
difficoltà.
Banca Mondiale (WB, World Bank), con compiti di sostegno e finanziamento allo sviluppo, in
particolare dei Paesi economicamente meno avanzati.
GATT (General Agreement on Trade and Tariff), rimpiazzato nel 1995 dall’Organizzazione
Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization), per favorire la libertà di commercio
internazionale. Il sistema di cambi fissi di Bretton Woods regolò i rapporti economici internazionali
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, al 1971.
Il “gold-exchange standard” entra in crisi negli anni ’60, a causa della guerra del Vietnam, il forte
aumento della spesa pubblica e del debito americano
Il 15 agosto 1971, il Presidente Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le
crescenti richieste di conversione in oro le riserve americane si stavano sempre più assottigliando.
Abbandono degli accordi di Bretton Woods.

Bilancia dei pagamenti


Sono due le sezioni principali della BdP di interesse per l'analisi economica:
• la sezione delle partite correnti, PC, che registra lo scambio di beni e servizi, redditi e
trasferimenti
• la sezione della dei movimenti dei capitali finanziari, SMK, che registra lo scambio di attività
e passività finanziarie
BP=PC+SMK
Ovviamente la bilancia dei pagamenti (nel suo complesso) potrà essere in avanzo, in equilibrio e in
disavanzo a seconda della somma algebrica degli esiti delle due sezioni.
Se entrambe le sezioni sono in pareggio:
PC=0
SMK=0
allora si dice che la Bilancia dei pagamenti è in situazione di "pieno equilibrio".
L’equilibrio della BdP è un obiettivo di PE di lungo periodo.
Nella realtà, il "pieno equilibrio" della bilancia dei pagamenti è un evento piuttosto raro.
Più frequente è invece osservare situazioni di pareggio derivanti dalla compensazione di due
disequilibri.
Riequilibrio della BdP
Supponiamo che ci sia uno squilibrio (avanzo o disavanzo) della BdP:
esistono forze capaci di riportare ad un ri-equilibrio automatico?
ove tali forze non esistano o siano giudicate insufficienti, quali sono le politiche di
riequilibrio?

Il processo automatico di riequilibrio può riguardare i movimenti di beni o i movimenti di capitale:


I movimenti di capitale possono riequilibrarsi se esiste una loro sufficiente mobilità (nel caso, si
spostano in funzione delle variazioni del tasso di interesse sui diversi mercati)
I movimenti di beni possono riequilibrarsi se:
• in cambi flessibili – è prevista una flessibilità (del cambio), che può incidere sulla
competitività
• in cambi fissi, è possibile una variazione dei prezzi (ma lenta) e/o del reddito (con possibili
effetti depressivi nel paese in deficit)

L’equilibrio dei movimenti di capitale tende ad essere assicurato dall’uguaglianza fra il tasso di
interesse domestico e il tasso di interesse estero, ridotto del tasso atteso di variazione del cambio
(ipotesi di parità scoperta):
rd =rf −e
Gli interventi di riequilibrio saranno dunque rappresentati da misure di politica monetaria:
• in caso di deficit, PM restrittiva: si riduce la base monetaria (e quindi l’offerta di moneta) per
ottenere un innalzamento del tasso d’interesse, che attirerà capitali dall’estero. Implicazioni:
effetti negativi sul reddito (per via dell’effetto sugli investimenti); incremento onere del
debito pubblico
• in caso di surplus, si aumenterà la BM per ottenere una riduzione del tasso di interesse
Oppure da misure di controllo diretto sul movimento dei capitali (vincoli di informazione, di importo,
introduzione di un’imposta…)

Interventi dal lato della domanda: Il saldo dei movimenti di beni (nella versione più semplificata, la
bilancia commerciale) è funzione inversa della domanda domestica (reddito, Yd) e funzione diretta
della domanda estera (reddito, Y*).
Le politiche di riequilibrio possono quindi intervenire sulla domanda domestica, riducendola per
contenere il deficit dei movimenti di beni o accrescendola per aumentare le capacità produttive
interne. Gli strumenti a disposizione sono dunque la politica monetaria e la politica fiscale.
Interventi per la competitività: squilibri nei movimenti di beni possono essere dovuti a difetti o
eccessi di competitività e possono essere eliminati operando sui prezzi interni o sui fattori dai quali
essi dipendono (es. salari, produttività, margini profitti), sui prezzi esteri (attraverso la politica
tariffaria) o sul cambio nominale (attraverso svalutazioni o rivalutazioni)
p● e=pw

La manovra del tasso di cambio


a) Cambi fissi: il tasso di cambio può variare per esplicita decisione delle autorità.
b) Cambi flessibili: la variazione è dovuta alle forze di mercato.
Poniamoci nei panni di un Paese, il nostro, la cui moneta viene svalutata o si deprezza. Ci saranno
effetti sule partite correnti e sui movimenti di capitali finanziari.

Effetti sulle partite correnti:In entrambi i casi (svalutazione o deprezzamento), l’effetto immediato è
che per i cittadini del nostro Paese diventerà più costoso acquistare un’unità di valuta estera,
mentre per i cittadini di Paesi stranieri risulta più a buon mercato acquistare la moneta del nostro
Paese.
Conseguenza: i beni e servizi prodotti all’interno (prodotti domestici) risulteranno più a buon
mercato dei beni e servizi con prezzi quotati in valuta estera, ossia, il prodotto domestico diventa
relativamente meno costoso, rispetto alla produzione straniera.
Conclusione: il prodotto domestico di un Paese la cui moneta si svaluta (o deprezza) diviene
maggiormente competitivo, in termini di prezzo, sui mercati internazionali.
(Al contrario, il prodotto di un Paese la cui moneta si rivaluta -o apprezza- risulterà, sui mercati
internazionali, meno competitivo).
La maggiore competitività si traduce in un aumento della domanda rivolta all’economia, e quindi,
successivamente in un miglioramento delle sue partite correnti; in un aumento della sua
produzione e del suo reddito nazionale.
Questa conclusione è soggetta ad alcune condizioni.

Effetti sui movimenti di capitali finanziari: Le decisioni finanziarie dipendono dalla remunerazione,
cioè dal tasso d’interesse associato ai titoli finanziari stessi, ma anche dai tassi di cambi e le loro
variazioni (soprattutto le attese sulle sue variazioni del TC).
Per garantire parità dei rendimenti dei titoli domestici ed esteri deve valere rd =rf −e dove e
puntato con l’apice exp (per expected) indica la variazione attesa del tasso di cambio
(modalità «certo per incerto»- “x unità di valuta estera per 1 unità di valuta nazionale).
Altre implicazioni:
• Se ci si attende un apprezzamento della moneta domestica, questo vuol dire che cresce il
rendimento atteso dei titoli emessi in moneta domestica (rispetto a quelli emessi in valuta
straniera) e questo provocherà un afflusso di capitali finanziari nell’economia domestica.
• Al contrario, un’attesa di deprezzamento (o di svalutazione) della moneta domestica
determinerà un maggiore rendimento atteso dei titoli emessi in valuta estera, e quindi una
fuoriuscita di capitali finanziari verso quella valuta.
In conclusione, attese di deprezzamento o svalutazione provocato un deflusso di capitali in
anziani, mentre attese di apprezzamento o rivalutazione determinano un afflusso di capitali
finanziari. Le attese di movimenti del tasso di cambio mettono in moto fenomeni che portano poi
all’effettiva realizzazione di queste attese: è un caso di profezie che si autorealizzano (self-
fulfilling prophecies).

Il caso dei cambi flessibili


Poniamo che il Paese A abbia una BdP in deficit: il valore degli acquisti all’estero (di beni, servizi,
titoli, ecc.) operati da residenti del Paese A, eccede il valore delle vendite (di beni, servizi, titoli,
ecc.) che i residenti in A effettuano verso non-residenti. Quindi, la domanda di valute estere
cresce.
Sul mercato dei cambi vi sarà un eccesso di domanda di valute straniere e un eccesso di offerta di
moneta domestica (i cittadini del Paese in questione, infatti, vogliono cedere moneta nazionale per
acquistare valute estere). Ciò determina, per la semplice legge economica della domanda e
dell’offerta, un deprezzamento del tasso di cambio.
Quindi, una BdP in deficit, in un regime di cambi flessibili, porta ad un deprezzamento della
moneta. Il deprezzamento, però, comporta un aumento di competitività di prezzo del prodotto
nazionale, con positivi effetti sulle partite correnti, cioè con l’effetto di ridurre (e persino annullare) il
deficit iniziale.
Simmetricamente, il tasso di cambio di un Paese tende ad apprezzarsi, a seguito di un avanzo
della sua BdP, giacché affluiscono nel Paese valute straniere in ammontare superiore rispetto a
quelle che da esso defluiscono; gli operatori vorranno cambiare la valuta straniera in moneta
domestica e quindi daranno vita ad un eccesso di offerta di valuta straniera e ad un eccesso di
domanda di moneta domestica; ciò comporta un apprezzamento del tasso di cambio della moneta
domestica rispetto alle valute straniere.
Ancora una volta, la variazione del tasso di cambio si ripercuote sul mercato dei beni: se infatti la
moneta si apprezza, il prodotto di questo Paese perde competitività di prezzo sui mercati
internazionali; ciò porterà ad un peggioramento delle partite correnti (aumentano le importazioni e
diminuiscono le esportazioni).
Per quanto detto, l’aggiustamento del cambio rappresenta quindi un meccanismo automatico di
aggiustamento basato sui prezzi relativi.

Il caso dei cambi fissi


Poniamo che il Paese A sperimenti un disavanzo nella BdP:
• i cittadini esprimono una maggiore domanda di valuta estera, cioè cedono (alle banche)
moneta nazionale chiedendo in contropartita valute estere (onde effettuare i pagamenti
all’estero);
• le banche richiedono la valuta estera alla Banca Centrale;
• la Banca Centrale cede la valuta estera e ritira base monetaria (della moneta domestica),
ciò al fine di mantenere un dato rapporto di cambio- determinando riduzione del circolante
nell’economia domestica.
Quindi il deficit della BdP si traduce in una diminuzione della moneta in circolazione, in un Paese
che adotta cambi fissi.
In sintesi, squilibri della BdP si ripercuotono sull’offerta di moneta, se il Paese adotta un sistema di
cambi fissi; precisamente, un surplus della BdP si traduce, ceteris paribus, in un aumento
dell’offerta di moneta, mentre un deficit si traduce in riduzione dell’offerta di moneta.
La Banca Centrale potrebbe voler evitare la ripercussione sull’offerta di moneta adottando misure
di compensazione, attraverso operazioni di “sterilizzazione” (contromisure monetarie). Queste
hanno lo scopo di “neutralizzare” l’effetto sull’offerta complessiva di moneta in circolazione
derivante dalle operazioni di acquisto e vendita di divise estere sul mercato dei cambi.

Efficacia della manovra del TC: condizioni


Affinché la manovra del cambio sia efficace, è necessario che siano verificate alcune pre-
condizioni.
a) La condizione di Marshall-Lerner: questa pre-condizione richiede che le importazioni e le
esportazioni siano sufficientemente reattive (elastiche) al tasso di cambio, affinché una
svalutazione (o deprezzamento) del tasso di cambio migliori l’esito della partite correnti.
Le elasticità delle esportazioni e delle importazioni rispetto al tasso di cambio possono
essere definite come il rapporto fra la variazione percentuale della quantità e la variazione
percentuale del tasso di cambio.
In formula:

In particolare, se si parte da una situazione di pareggio dei conti con l’estero, una
svalutazione conduce ad un miglioramento del saldo delle partite correnti se e solo se la
somma delle elasticità in valore assoluto delle importazioni e delle esportazioni al tasso di
cambio è maggiore di 1.

b) L’effetto j: Le quantità fisiche di beni importati ed esportati, per adeguarsi alle nuove
condizioni di prezzo, hanno bisogno di tempo. Le quantità fisiche X ed M non si modificano
istantaneamente. Al contrario, nell’immediato, il valore delle esportazioni cala, (o il valore
delle importazioni aumenta), proprio perché il tasso di cambio è diminuito a seguito della
svalutazione. Pertanto, una decisione di svalutazione rende immediatamente ridotto il
valore delle esportazioni (ossia rende immediatamente accresciuto il valore relativo delle
importazioni); ciò dà luogo ad un immediato e netto calo del valore delle partite correnti ...
che poi inizieranno a migliorare solo gradatamente, a seguito del graduale ri-aggiustamento
delle quantità fisiche ai nuovi valori di prezzo. Se valgono le condizioni di Marshall-Lerner,
alla fine si otterrà il miglioramento delle partite correnti.
c) Assenza di strozzature: Un’ulteriore cautela è rappresentata dalla condizione di assenza di
strozzature nel lato dell’offerta: la svalutazione della moneta riesce a migliorare le partite
correnti soltanto se l’apparato produttivo dell’economia domestica non è soggetto a rigidità
(strozzature) tali che rendono l’economia non in grado di produrre beni per soddisfare
l’accresciuta domanda estera.
Altrimenti, soltanto una spinta inflazionistica.
d) Effetto no pass-through: Non sempre una svalutazione della moneta domestica si traduce
in una maggiore competitività di prezzo avvertita dai consumatori finali, ma può tradursi
unicamente in un maggiore profitto per gli intermediari commerciali (che pagano meno i
beni espressi nella moneta svalutata ma li rivendono a prezzo invariato sul mercato estero).

Conclusioni
Affinché la manovra del cambio sia efficace sulle partite correnti devono essere soddisfatte
numerose condizioni; queste rappresentano elementi di cautela, nonostante ciò, la svalutazione è
una manovra di politica economica attuata con grande frequenza per migliorare l’esito delle partite
correnti (anche in Italia ai tempi della lira).
Quando le autorità di politica economica sono pronte a svalutare (o far deprezzare) la propria
moneta per accrescere la competitività, si dice che seguono una politica di svalutazione
competitiva.
Vi è tuttavia un acceso dibattito fra gli economisti su come valutare politiche di svalutazione
competitiva: un utile strumento o un dannoso palliativo?
L’adozione di una politica del tasso di cambio unilaterale ai fini di un riequilibrio della BP (es.
svalutazione per ridurre il deficit di BC) può non essere opportuna:
o problema di reputazione del paese (scarso rigore e serietà);
o effetti negativi sui partner commerciali - c.d. politiche “beggar-thy- neighbour” (la
svalutazione incide sulla competitività dei partner)

ATTUALITÀ
Manovra di bilancio 2023: mix di interventi dal lato delle entrate e da quello delle spese, 22
novembre 2022
Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge di bilancio per l’anno 2023, il bilancio
pluriennale per il triennio 2023-2025 e l'aggiornamento del Documento Programmatico di Bilancio
(DPB) . L’ammontare della manovra di bilancio è di circa 35 miliardi di euro ed è principalmente
finanziata in deficit (4,5 per cento). La quota di risorse restante dovrebbe essere finanziata da
nuove imposte. I provvedimenti verranno ora trasmessi al Parlamento e alle autorità europee.
Gran parte delle risorse disponibili (oltre 21 miliardi di euro) sono destinate al sostegno di famiglie
e imprese per contrastare il caro energia e l’aumento dell’inflazione.
Altre risorse sono state stanziate per il taglio del cuneo fiscale (differenza tra lo stipendio lordo
versato dal datore di lavoro per il dipendente e la busta paga netta incassata da questi), riduzione
dell’Iva per i prodotti per l’infanzia e per l’igiene intima femminile, aumento dell’assegno unico per
le famiglie, agevolazioni per le assunzioni a tempo indeterminato per donne under 36 e per
percettori di reddito di cittadinanza. Previsto un finanziamento pari a 70 milioni di euro alle scuole
paritarie.
Previsto un aumento della tassazione sugli extraprofitti delle società energetiche.

ATTUALITÀ
In materia fiscale, è stata estesa la flat tax (aliquota agevolata del 15%) fino a 85.000 euro per
autonomi e partite iva, la detassazione ai premi dei dipendenti, un intervento di “tregua fiscale” per
alcune categorie di cittadini e imprese (cancellazione delle cartelle fino al 2015 che hanno un
importo inferiore a 1.000 euro e rateizzazione dei pagamenti fiscali dovuti)
Sul fronte delle pensioni, l’indicizzazione delle pensioni al 120% del trattamento minimo e
l’introduzione per l’anno 2023 di un nuovo schema di anticipo pensionistico che permette di uscire
dal lavoro con 41 anni di contributi e 62 anni di età (quota 103) e prevede bonus per chi invece
decide di restare a lavoro.
Tra le altre misure, prevista una revisione del reddito di cittadinanza, che si avvia verso la sua
abolizione, con un periodo transitorio nel 2023 con maggiori controlli su di chi lo percepisce e
riceve offerte di lavoro.

L’equilibrio del settore estero: la Scheda FE


Eq. mercato dei cambi coincide con eq. complessivo della bilancia dei pagamenti
La BdP è in eq. quando esportazioni nette (che in assenza di redditi primari e redditi secondari
corrispondono alle partite correnti) sono compensate dal saldo del conto finanziario (movimenti di
capitale)

Derivazione grafica Squilibri

Posizione Inclinazione
L’efficacia della politica economica in economia aperta (nel b.p.): il Modello Mundell- Fleming
Permette di analizzare gli effetti della politica economica nel breve periodo in un’economia aperta.
Il Modello Mundell (1961) e Fleming (1962) estende il modello IS- LM al caso di un’economia
aperta, in regime di cambi fissi o di cambi flessibili (breve periodo).
Il modello Mundell-Fleming analizza le condizioni di equilibrio simultaneo, interno ed esterno, del
sistema economico, prendendo in considerazione le curve IS, LM ed FE che descrivono le varie
combinazioni di tasso di interesse e del reddito in corrispondenza delle quali sono in equilibrio:
• il settore reale, il c.d. mercato dei beni, assicurato dall’uguaglianza fra risparmio ed
investimento;
• il settore monetario, ossia il mercato della moneta, assicurato dall’uguaglianza fra domanda
ed offerta di moneta;
• il settore esterno assicurato dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti frutto dell’equilibrio
complessivo delle partite correnti e del saldo del conto finanziario.
Il Modello studia un equilibrio economico di breve periodo, in cui i prezzi sono fissi e il livello del
PIL (Y) è determinato dal lato della domanda.

Politica monetaria: la variazione dell’offerta di moneta (attraverso la BM) complessiva genera una
traslazione della LM (verso destra se espansiva, verso sinistra se restrittiva).
Politica fiscale : l’intervento sulla spesa pubblica o sul livello di tassazione genera, attraverso il
meccanismo del moltiplicatore, una variazione del reddito ed uno spostamento della curva IS
(verso destra se espansiva, verso sinistra se restrittiva)

E’ importante conoscere il regime di cambio


In cambi fissi : il rapporto tra una moneta e l’altra è fissato in modo ufficiale e duraturo. Le autorità
sono vincolate nelle loro azioni dall’impegno di mantenere il tasso di cambio fisso
In cambi flessibili: non esiste una dichiarazione ufficiale del tasso di
cambio, il cui valore è determinato sul mercato. La variazione del tasso di cambio, se sono
verificate le condizioni delle elasticità, assicura in modo automatico l’equilibrio della bilancia dei
pagamenti.

Effetti della politica fiscale


Ipotesi: risorse sottoccupate, impiego politica fiscale espansiva, la IS si sposta a destra. Quali
effetti? 3 condizioni da tenere in considerazione.
Effetti della politica del tasso di cambio
Partendo da equilibrio E non di piena occupazione, la politica del tasso di cambio (es. una
svalutazione) può essere uno strumento efficace per aumentare il reddito nazionale?

La svalutazione del TC provoca:


1. un aumento delle X con spostamento della FE in FE1;
2. aumenta il Y, la IS si sposta a destra in IS1.
Se Y aumenta, a parità di offerta di moneta, aumenta il tasso di interesse con maggiore afflusso di
K . In assenza di politiche di sterilizzazione, aumenta la quantità di moneta e la LM si sposta in
LM1, nuovo equilibrio in E1.
La svalutazione del cambio ha contribuito a far crescere il reddito (se soddisfatta la condizione di
ML) ma politica beggar-thy-neighbour: problema di reputazione

Conclusioni
▪ PF e PM non possono essere considerati strumenti equivalenti. Ogni strumento deve
essere utilizzato in relazione all’impatto relativo esercitato sui singoli obiettivi, in funzione
del regime di cambio vigente (mix di politiche x obiettivo interno e esterno; problema
dell’assegnazione degli strumenti)
▪ Lo squilibrio di BP permane se le autorità impediscono ai meccanismi automatici di
aggiustamento di operare (sia in deficit che in surplus)
▪ La PF è efficace in cambi fissi, meno in cambi flessibili
▪ La PM è efficace in cambi flessibili, ma non in cambi fissi
▪ In particolare, in regime di cambi fissi, nel caso di perfetta mobilità dei movimenti di
capitale, la Banca Centrale non può adottare una politica monetaria indipendente.
▪ Centralità attribuita ai movimenti di capitale nella correzione degli squilibri di bilancia dei
pagamenti:
a) K non si spostano soltanto in funzione del differenziale dei tassi di interesse: gli
operatori finanziari controllano anche l’andamento di altre variabili quali il livello del
reddito, la solidità economica del paese, l’affidabilità ecc;
b) afflussi continui di K, per compensare ad esempio deficit strutturale delle partite
correnti, non sono sostenibili nel lungo periodo (esplosione servizio del debito).
▪ Ipotesi assunte (elevata mobilità dei K e validità della condizione di Marshall-Lerner)
▪ Modello basato su una concezione del funzionamento del sistema economico di tipo
deterministico
▪ Resta un utile schema di riferimento per l’analisi delle relazioni economiche internazionali
ATTUALITÀ
La Commissione europea ha pubblicato i propri orientamenti in merito ad una riforma decisa delle
regole sulla gestione di debito e deficit dei governi dell'area euro.
Nella comunicazione si nota sicuramente il risultato di un compromesso con i “falchi” nordeuropei
che avrebbero voluto mantenere in toto l'impianto normativo del passato, ma il risultato delle
negoziazioni appare complessivamente piuttosto buono. Formalmente, i riferimenti alla soglia del
60% del rapporto debito/Pil e del 3% del rapporto deficit/Pil restano invariati, ma il loro impatto
viene depotenziato da una procedura di determinazione delle politiche di spesa incentrata nel
rapporto bilaterale tra singoli governi e Commissione.
De facto i livelli medi di debito/Pil dell'area Euro si sono allontanati dalla soglia del 60% dai tempi
della crisi finanziaria internazionale del 2009, oscillando nel decennio successivo intorno all'80%.
Nel 2020 la crisi pandemica ha impresso una nuova spinta verso l'alto, verso un livello medio del
90%.
La soglia del 60% non è importante di per sé (il 47% dei Paesi membri non la rispettava nel 2019 e
questa percentuale era salita al 70% nel 2021 per via della crisi pandemica), ma per la rigorosa
disciplina di bilancio che risulterebbe dall'applicazione del principio di convergenza del rapporto
debito/Pil verso il 60%.
Dal 2011 la normativa europea ha introdotto il criterio del “ventesimo di rientro”, secondo cui un
debito eccessivamente elevato dovrebbe essere ridotto annualmente in misura pari ad 1/20 del
gap fra il livello corrente di debito/Pil ed il 60%.
Per i governi altamente indebitati, questo criterio univoco e “cieco” alle differenze tra le varie
economie implicava automaticamente dei percorsi di rientro dal debito affrontabili soltanto
attraverso un'austerity molto spinta. Tuttavia, nel decennio successivo le numerose esenzioni
concesse a chi implementava riforme strutturali hanno reso il criterio spesso inapplicabile, in ogni
caso inefficace.
I principali governi dell'area Euro (compresa la Germania) hanno rispettato ben poco i rigidi
obiettivi fiscali connessi con la soglia del 60% e - dal 2011 - al criterio del ventesimo di rientro; non
solo durante le crisi, ma anche durante periodi di relativa stabilità economia e finanziaria.
La regola del ventesimo di rientro non dovrebbe sopravvivere nella sua forma attuale. Rimarrebbe
la necessità di definire percorsi di rientro dal debito, ma con ritmi differenziati per singoli Paesi e ad
una “velocità variabile” aggiornabile ogni 4 anni.
Nessuna innovazione per quanto riguarda la soglia massima del 3% del rapporto deficit/Pil,
ritenuta efficace e sostenibile. In passato, i Paesi membri hanno mediamente rispettato questo
limite (con la notabile eccezione del Portogallo), nonostante livelli di debito di partenza molto
differenziati.
Il criterio del 3% verrà riattivato nel 2024. Le stime più recenti della Commissione sui deficit
governativi dei principali Paesi dell'Unione tra il 2022 ed il 2024 restano ampiamente sopra la
soglia e non sembrano (come nel caso della Francia e dell'Italia) nemmeno convergere verso di
essa.
L'output gap (differenza tra Pil osservato e potenziale) va in pensione e viene sostituito da un
indicatore osservabile ed inequivocabile: un tetto massimo alla spesa primaria, calcolata al netto
degli interessi, dell'impatto degli stabilizzatori automatici (cassa integrazione, etc) e di misure
eccezionali ed una tantum. I limiti alla spesa primaria sarebbero stabiliti ogni 4 anni attraverso una
negoziazione bilaterale tra Commissione e governi, tarata sul rispetto di un piano di rientro del
debito specifico per ogni Paese. Probabilmente l'incentivo maggiore a rispettare i patti dovrebbe
arrivare dalle condizionalità inserite nel Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr).
Il documento della Commissione pone poi molta enfasi sul tema degli investimenti pubblici.
La proposta prevede peraltro la possibilità di ottenere più tempo per il percorso concordato di
rientro del debito (fino a 3 anni in più) in cambio di riforme ed investimenti che riguardino l'ambito
della lotta al cambiamento climatico, i diritti sociali e la modernizzazione digitale.

ATTUALITÀ
La spesa pubblica italiana sfonda il tetto dei mille miliardi: l'asticella si ferma a quota 1.029 per il
2022, pari al 54,3% del Pil di quest'anno. Non si è riusciti a qualificare le uscite pubbliche per
renderle funzionali a un solido sviluppo del Pil, dell'occupazione, del benessere generale. L'unico
Paese dove l'incidenza della spesa è più forte (il 55%) è la Francia, dove però l'efficienza della
potente macchina amministrativa è decisiva nello sviluppo industriale. E poi il debito pubblico non
supera il 100%: comunque alto, ma non abnorme come quello italiano, il 150% del Pil, oltre 2.700
miliardi
Eppure di spending review ne sono state fatte, e anche di aggiustamenti e riduzioni di spesa qua e
là. Ma non si è riusciti ad arrivare al cuore del problema, cioè l'eccesso di uscite, la loro
riqualificazione complessiva, l'adozione dei tagli realmente necessari.
Ritagliare all'interno della spesa pubblica quote più decenti per le voci che davvero servirebbero -
istruzione, ricerca, sanità - è sempre più difficile, per non parlare dello spazio per gli investimenti
produttivi.
La spesa pubblica, come in tutta Europa, si è gonfiata nelle due emergenze consecutive,
pandemia e guerra. Ma la composizione del bilancio italiano risente ancora dei pesanti aumenti di
spesa varati negli anni 70 e 80, il periodo dell'assistenzialismo delle partecipazioni statali, degli
interventi clientelari a pioggia, della spesa pensionistica slegata da qualsiasi logica. Risale ad
allora un debito pubblico così invadente dal quale non ci siamo più liberati. La Commissione ha
avvertito che i Paesi con il bilancio più vulnerabile, e l'esplicito riferimento è all'Italia, devono
evitare di rendere strutturali alcune voci, bonus e incentivi, con il rischio che si trasformino in
"entitlemens", cioè divengano permanenti.
LA POLITICA DEI REDDITI E DEI PREZZI
L’obiettivo della politica dei redditi e dei prezzi è di evitare l’aumento del livello generale dei prezzi
essenzialmente attraverso il controllo delle variabili distributive, essenzialmente del salario e/o dei
margini di profitto.
Es. il salario: reddito per i lavoratori e costo per le imprese.
La politica dei redditi potrebbe voler contenere l’aumento del salario per tenere bassi i costi di
produzione e ridurre la possibilità di un aumento dei prezzi.
Distribuzione del reddito: in un sistema chiuso, con un solo bene, in assenza di capitale fisso e con
due soli percettori di reddito – lavoratori e capitalisti – il valore complessivo del reddito prodotto
eguaglia il reddito distribuito:
pY=W+R dove p e Y sono prezzo e quantità
W è la massa salariale
R la massa dei profitti
La massa salariale è W= wN, dove w è il salario unitario nominale e N è il
numero di occupati, quindi
𝒘𝑵 𝑹
𝑷= +
𝒀 𝒀
Definendo la massa dei profitti come il prodotto di un margine percentuale di profitto (mark-up) g
sul costo di produzione, abbiamo R ≡wN x g.
Quindi possiamo riscrivere
𝒘𝑵 𝒘𝑵𝒈 𝒘𝑵
𝑷= + = (𝟏 + 𝒈)
𝒀 𝒀 𝒀
Considerando che la produttività media del lavoro è π= Y/N, per sostituzione si
ha:
𝑾
𝒑 = (𝟏 + 𝒈)
𝝅
In termini dinamici, le variazioni del prezzo possono scriversi:
ṗ ≅ ẇ − 𝝅 + (𝟏 + 𝒈)

Non vi sarà aumento del prezzo (inflazione) se il saggio di salario nominale, w, varia nella stessa
misura della produttività, π, e il margine di profitto, g, non muta. In questo caso, le quote
distributive del reddito non cambierebbero. Le regole di politica dei redditi più utilizzate prevedono
una crescita dei salari pari a quella della produttività media del lavoro e l’invarianza del margine di
profitto.

Le politiche dei redditi si distinguono in:


a) Dirigistiche: sono quelle che impongono ai salariati e/o ai capitalisti un determinato
comportamento nelle variazioni del salario o del margine di profitto. Es. il blocco dei salari.
L’intervento è più frequente sui salari che sul margine di profitto perché più facilmente
rilevabili. Oppure sui prezzi (visibili e accertabili), sebbene possa danneggiare l’efficienza
del sistema economico imponendo vincoli alle «forze di mercato». Si tratta quindi di misure
di controllo diretto e dovrebbero avere effetti consistenti ed immediati. In pratica, sorgono
vari problemi circa la variabile da controllare e le regole da introdurre per le variazioni dei
salari in presenza di ventagli settoriali di variazione della produttività (cioè i prezzi
potrebbero aumentare anche in presenza di limitazione dei salari)
b) di mercato: consistono nella fissazione da parte dell’ente pubblico di un sistema di incentivi
e/o disincentivi per orientare in senso anti-inflazionistico le scelte dei percettori di reddito
Vi rientrano:
• l’attribuzione alle imprese di un permesso negoziabile all’aumento dei prezzi,
liberamente scambiabili sul mercato (assenza di realizzazioni pratiche!);
• la creazione, attraverso la leva fiscale, di incentivi per il mancato aumento dei prezzi
e disincentivi per il loro aumento (politiche dei redditi legate all’imposizione).
c) Istituzionali: tendono a trasformare in senso cooperativo le relazioni industriali - ossia le
relazioni tra capitalisti e lavoratori (normalmente non-cooperative) in materia di salario e
trattamenti normativi, attraverso un insieme di istituzioni appropriate. Tali politiche
costituirebbero delle vere e proprie politiche di riforma, miranti a cambiare la natura delle
regole del gioco fra le varie categorie di percettori di reddito.
Tre modalità:
• Obbligo di cooperazione tramite l’introduzione dell’arbitrato
• Scambio economico, che preveda certi livelli di imposte, sussidi, politiche del lavoro,
ecc, per le parti sociali che addivengano ad un accordo non inflazionistico in materia
salariale
• Scambio politico, ovvero la promessa da parte del governo di assumere certi
atteggiamenti in materie non strettamente economiche, fino a giungere ad un patto
sociale in materia economica e sociale

I campo delle scelte di politica dei redditi si estende all’adozione di misure volte ad aumentare il
tasso di crescita della produttività, che dipende da
o fattori interni, quali ritmi di lavoro, preparazione e qualificazione professionale effettuate dai
lavoratori; formazione professionale su iniziativa dell’impresa, organizzazione del lavoro,
dotazione di capitale, tecnologia
o fattori esterni all’impresa, quali rapporti inter-aziendali e inter- settoriali, es. fornitura di
input; reti di trasporto e comunicazioni efficienti; istituzioni scolastiche e accademiche;
centri di ricerca; servizi di informazione; servizi finanziari,..
I numerosi casi di applicazione della politica dei redditi non offrono sempre risultati confortanti per il
controllo dell’inflazione.
In Italia una politica dei redditi di tipo dirigistico ha trovato applicazione nel 1984; politiche dei
redditi di tipo istituzionale sono state attuate a partire dal luglio 1993, con effetti deludenti in
materia di crescita del salario e della produttività.
LA POLITICA MICRO ECONOMICA
La politica microeconomica tende:
1) ad assicurare l’esistenza ed il funzionamento ottimale del mercato;
2) a correggere i fallimenti del mercato messi in rilievo dalla teoria microeconomica (esistenza
di esternalità, beni pubblici, costi di transazione e asimmetria informativa), che danno luogo
a inefficienze e ineguaglianze;
3) ad assicurare una distribuzione del reddito o della ricchezza ritenuta equa e a garantire la
presenza di beni meritori.
Il modello economico di riferimento – equilibrio economico parziale e generale – appartiene alla
scuola neoclassica, e quindi non prevede esplicitamente l’azione economica pubblica: necessità di
adattarlo con ulteriori variabili e relazioni economiche.
La funzione di «garanzia» del mercato è ottenuta con l'affidare allo Stato i compiti di attribuzione
dei diritti, la giustizia e la difesa.
Dallo svolgimento di tali compiti derivano ulteriori funzioni, come il prelievo di tributi (per il
sostenimento dei costi di tali funzioni).
Di particolare importanza ai nostri fini è l'attribuzione (ed il rispetto) dei diritti di proprietà, che
costituisce il fondamento stesso del mercato e che può perseguire finalità distributive e di
efficienza.

Tra le vare politiche microeconomiche abbiamo:


• L'imposizione (positiva e negativa), ovvero concessione di incentivi (es. imposte negative o
sussidi) e disincentivi (es. imposte positive), è un importante strumento di politica
microeconomica che può correggere le inefficienze derivanti dalle esternalità o servire
obiettivi di politica industriale, regionale, re-distributiva.
• La politica della domanda pubblica di beni e servizi può essere volta a garantire: a) il
funzionamento dell'apparato amministrativo e la produzione di servizi pubblici, b) il
sostegno a particolari settori (politica industriale), c) la regolazione della domanda globale
(politica anticiclica).
• La regolamentazione consiste nella introduzione di obblighi di fare o non fare che
disciplinano il comportamento degli operatori privati.

Le forme di regolamentazione sono numerose:


• regolamentazione dei prodotti dell’ingegno o protezione della proprietà intellettuale al fine di
stimolare l’attività innovativa (diritti d’autore, brevetti, marchi,..):
• regolamentazione ambientale, per i diritti di proprietà relativi alle attività che hanno
ripercussioni sull’ambiente per incoraggiare la creazione di economie esterne e scoraggiare
esternalità negative;
• regolamentazione dell’entrata in un mercato e della concorrenza effettiva, ad es.
autorizzazione all’entrata per ragioni di qualificazione professionale, protezione sicurezza
consumatori; fissazione di numero minimo di produttori; eliminazione barriere all’entrata;
diritto accesso esclusivo assegnato con asta,..;
• regolamentazione tariffaria e di prezzo, con finalità di efficienza o redistributiva;
• regolamentazione qualitativa e informativa;
• regolamentazione delle quantità importate ed esportate

Tipi di legislazione:
• La legislazione antimonopolistica tende a:
a) tutelare la libertà economica di entrare nel mercato e sopravviverci;
b) limitare il potere economico e politico connesso con le concentrazioni;
c) accrescere l'efficienza allocativa, sanzionando gli accordi restrittivi della concorrenza (es.
fissazione collusiva del prezzo, ripartizione dei mercati), la formazione di posizioni
dominanti (eventualmente anche attraverso il processo di concentrazione) e/o l'abuso di
esse.
• La regolamentazione finanziaria (ossia del mercato finanziario o mercato dei capitali) è
specificamente rivolta a garantire:
a) la trasparenza della posizione (perfetta informazione) sia delle imprese che attingono per
le loro esigenze di investimento al mercato finanziario sia degli intermediari finanziari;
b) il buon funzionamento delle banche e degli altri intermediari finanziari per evitare la
creazione di diseconomie esterne tali da portare ad instabilità sistemica.

La politica dei prezzi è una forma di regolamentazione che può essere attuata attraverso:
• la fissazione di un margine di profitto massimo;
• la determinazione di un tasso di rendimento massimo sul capitale investito;
• la fissazione del prezzo massimo (price cap).
L'impresa pubblica è uno strumento tradizionalmente considerato efficace per una molteplicità di
obiettivi specifici (efficienza allocativa, occupazione, sviluppo settoriale e regionale) nonché per
una generica maggiore coerenza delle scelte aziendali con gli obiettivi pubblici.
Progressiva privatizzazione delle aziende pubbliche. La valutazione della performance dell'impresa
pubblica non mostra differenze sistematiche con l'impresa privata. Tuttavia, negli ultimi due
decenni si è diffuso in tutto il mondo un vasto movimento favorevole a privatizzare larga parte del
settore pubblico.
Giudizio critico su impresa pubblica non giustificato (fine diverso dal profitto, possibilità di
sopportare perdite).
Diffusione impresa mista o a partecipazione statale (IRI, ENI).
POLITICHE ANTIMONOPOLISTICHE
Le politiche antimonopolistiche (o antitrust) rappresentano l’insieme delle norme e delle azioni di
politica economica messe in atto al fine di impedire i comportamenti delle imprese che non
rispettano la libera concorrenza e che porterebbero a un’indesiderata inefficienza nelle allocazioni
di mercato.
Il fine ultimo delle normative antitrust è infatti quello di sostenere un'economia di mercato libera
(dove ogni impresa assume le proprie decisioni in modo indipendente dai suoi concorrenti), in
modo da garantire una forte concorrenza che conduca a una distribuzione più efficiente di merci e
servizi, a prezzi più bassi, a una migliore qualità e al massimo dell'innovazione.
Specificamente:
o Combattere accordi e intese fra imprese, volti a restringere la concorrenza
o Combattere gli abusi esercitati da chi occupa posizioni dominanti (es. pratiche di
discriminazioni dei prezzi, istituzioni di barriere all’entrata, ecc...)
o Impedire acquisizioni e fusioni di imprese che portino a concentrazioni industriali
Gli strumenti di politica antimonopolistica sono variegati.
La liberalizzazione dei mercati e l'apertura internazionale hanno di norma effetti positivi
sull'efficienza allocativa nel breve-medio periodo. Gli effetti di lungo periodo sono più incerti.

Le origini del diritto antitrust vengono comunemente fatte risalire allo Sherman Antitrust Act, la
prima legge antitrust emanata dal Congresso degli Stati Uniti nel 1890, ma concretamente
applicata solo nel 1911.
Negli USA non esiste un organo specificatamente dedicato alla lotta al monopolio, ma e’ il governo
che fa causa contro le imprese che ritiene violino le leggi anti-monopolio.
La prima grande causa riguardò la Standard Oil, che controllava il 90% della raffinazione del
petrolio: il 15 maggio del 1911, la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò lo spacchettamento della
Standard Oil Company in 34 società, determinando così la prima grande vittoria dello Sherman
Antitrust Act.

La tradizione antitrust americana ha influenzato profondamente l'Europa. Nel secondo dopoguerra


furono varate legislazioni antimonopolistiche nei principali paesi industrializzati: in Francia la
disciplina è stata riformata nel 1986, in Germania e in Gran Bretagna nel 1948, in Spagna nel
1963.
Nel Trattato di Roma - che istituì la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea
dell'energia atomica (CEEA o Euratom) - furono disciplinate le fattispecie delle intese restrittive e
dell'abuso di posizione dominante e, successivamente le concentrazioni. In Italia l'introduzione di
una normativa antimonopolistica nazionale avvenne con notevole ritardo, nel 1990 (legge 287).

Il trattato di roma del 1957, con gli art. 81, 85, 86 e 92 rappresenta il primo atto di normativa
antitrust dei Paesi Europei (oggi confluiti negli articoli 101-106 del trattato sul funzionamento
dell'Unione europea). Le norme vigenti sanzionano gli accordi tendenti a limitare la concorrenza,
l'abuso di posizione dominante, le fusioni e le acquisizioni che coinvolgano imprese aventi
dimensione comunitaria, gli aiuti statali distorsivi della concorrenza.
In Italia, la Legge n°287 del 1990 crea l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale
vigila su tutti i mercati.
Accanto all’Autorità garante della concorrenza e del mercato in Italia, operano le Autorità di settore
che hanno il compito di vigilare sui comportamenti delle imprese che operano in specifici settori
(es. l’Autorità per l’energia elettrica e gas, l’Autorità di vigilanza sui fondi pensione, l’Autorità
garante per gli appalti, ecc...).

Art. 81: Sono vietate tutte le pratiche che limitano la concorrenza, e in particolare:
• concordare prezzi;
• concordare di limitare la produzione;
• spartirsi mercati di sbocco o di approvvigionamento;
• applicare condizioni dissimili a transazioni equivalenti;
• condizionare la conclusione di accordi a clausole irrilevanti

Art.85: Sono previste deroghe per le intese fra le imprese che vanno a vantaggio dei consumatori
Esempi: Miglioramenti tecnologici, Miglioramenti delle reti distributive ...

Art. 86: Divieto di sfruttamento di posizione dominante. Esempi: Discriminazioni di prezzi,


Imposizione di vendite congiunte, Clausole di esclusiva, Pratiche di prezzi predatori.

Art. 92: Divieto di aiuto di stato ad imprese, tali che falsano la libera concorrenza.

A partire dagli anni ’80 hanno avuto luogo due differenti processi, che hanno portato i Paesi
europei a rivedere la logica del proprio modello e ad aderire al modello americano con:
• un cospicuo ridimensionamento dell’azione dello Stato nell’economia
• processi di liberalizzazione e privatizzazione del mercato. Con privatizzazione si intende il
passaggio di proprietà da soggetti pubblici a soggetti privati, Con liberalizzazione si intende
l’ingresso di nuove imprese sui mercati serviti dai monopolisti.

Le sanzioni europee alle piattaforme digitali


Problemi legati al dominio delle piattaforme digitali – le cosiddette Gafam: Google (Alphabet),
Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – che appare sempre più incontrastato.
Nel 2021, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato italiana ha comminato ad Amazon
una multa di oltre un miliardo di euro per abuso di posizione dominante.
La multa non rappresenta un caso isolato nell’ambito della regolamentazione della concorrenza nel
mercato delle piattaforme digitali:
• dal 2017, Google è stata sanzionata tre volte, per un totale di 8,2 miliardi di euro, per aver
promosso il proprio servizio di comparazione di prezzi nei risultati di ricerca, oltre che per
aver abusato del suo potere nel mercato pubblicitario
• nel 2017, Facebook è stata multata per 110 milioni di euro per aver fornito informazioni
incomplete all’Unione europea in merito all’integrazione di WhatsApp nel suo social
network
• ad aprile 2021, la Commissione europea ha accusato Apple di aver abusato della propria
posizione dominante nella distribuzione delle app per i servizi di streaming musicale –
attraverso l’App Store – per favorire il suo servizio, Apple Music. Le indagini erano state
aperte nel 2020 dopo una denuncia di Spotify
POLITICHE INDUSTRIALI
Le politiche microeconomiche finora analizzate hanno quale obiettivo quello di accrescere
l’efficienza statica. Quelle che andiamo ad analizzare ora , invece, sono finalizzate ad accrescere
anche l’efficienza dinamica, che deriva dalla capacità di amministrare il cambiamento e/o di reagire
al cambiamento introdotto da altri, consentendo migliori risultati in termini di occupazione e tassi di
crescita del reddito.
Una tale capacità è legata a numerose circostanze, che esprimono aspetti rilevanti della struttura
produttiva di un'economia
Essa include:
• caratteri macroeconomici: es. dimensione del sistema economico, il grado di apertura
internazionale;
• caratteri microeconomici: composizione settoriale e la ripartizione regionale della
produzione; la concentrazione tecnica, economica e finanziaria; le tecniche di produzione
impiegate e il carattere innovativo dei prodotti; le barriere all'entrata e all'uscita;
l'organizzazione produttiva; i rapporti di integrazione fra le imprese; i fattori produttivi
disponibili, ossia, capitale «naturale»: capitale fisico, capitale umano.

Capacità innovativa
La capacità di crescita e l'occupazione di un sistema economico dipendono dalla composizione
settoriale della produzione: se un paese è specializzato nei settori per i quali la domanda mondiale
tende a crescere più velocemente, quel paese avrà maggiori possibilità di sviluppo e di
occupazione. L'introduzione di tecnologie innovative (innovazioni di processo) accresce il tasso di
sviluppo; nel breve e, in alcune condizioni, anche nel lungo periodo potrà, invece, accentuare i
problemi di occupazione. Le innovazioni di processo possono generare risultati non negativi
sull'occupazione in presenza di fattori compensativi degli effetti iniziali labour-saving, quali
l'investimento a monte nelle industrie fornitrici dei beni capitali, l'incremento di domanda indotto
dall' incremento della produttività, i meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro, l'apertura
internazionale.
Le innovazioni di prodotto hanno effetti positivi su crescita e occupazione. Cruciali sono anche i
rapporti fra imprese e fra settori produttivi: l'esistenza di accordi tecnici, anche la pura contiguità
territoriale delle imprese (in un distretto industriale), nello stesso settore o in settori legati fra loro
da rapporti di scambio, possono contribuire ad accrescere l'efficienza statica e dinamica del
sistema economico. La struttura produttiva avrà, pertanto, effetti sia sull'efficienza statica sia su
quella dinamica.
L’operare delle forze di mercato non assicura sempre la struttura produttiva più efficiente (cause:
assenza di informazioni necessarie, interesse individuale, saggio di preferenza temporale non
considera le generazioni future).

Composizione di un’economia
• il settore dell'agricoltura (o settore primario): produzione di beni agricoli, silvicultura,
allevamento, itticultura e pesca., attività di trasformazione immediata e conservazione dei
prodotti agricoli, servizi agrituristici
• il settore dell'industria (o settore secondario): manifattura, energia elettrica, costruzioni
• il settore dei servizi (o terziario): servizi (beni immateriali a uso immediato). Comparti:
commercio, servizi bancari - finanziari – assicurativi, turismo, servizi delle pubbliche
amministrazioni

Definizione impresa
Politiche industriali
La politica industriale generale cerca di influenzare le decisioni delle imprese in modo che risulti
rafforzata la struttura produttiva, attraverso l'uso di strumenti che agiscono su tutto il sistema
economico.
Esempi di strumenti:
➢ l'attribuzione di opportuni diritti di proprietà e la garanzia del loro rispetto;
➢ lo stimolo alla concorrenza, alla ricerca di base e all' innovazione, alla creazione di
economie esterne (e i disincentivi alla creazione di diseconomie esterne), allo sviluppo dell'
imprenditorialità, dell’internazionalizzazione delle imprese.
Un contrasto può sorgere in particolare fra la politica antimonopolistica e la politica industriale.

La politica industriale selettiva tende ad influenzare le decisioni delle imprese in certi settori
produttivi.
La politica selettiva può avere finalità aggressive (offensive) (si propone di mutare la struttura
industriale) o difensive (si propone di mantenere quella esistente .
Gli strumenti della politica industriale selettiva sono:
• la tassazione (in particolare, l'introduzione di dazi)
• la sussidiazione
• la regolamentazione
• l'impresa pubblica
• la manovra della domanda pubblica

Le politiche industriali in Italia


L'Italia, come tutti i Paesi europei, esce dal secondo conflitto mondiale, con l'apparato produttivo
pesantemente danneggiato, e la ricostruzione è quindi il primo e immediato obiettivo.
A questo obiettivo concorrono gli aiuti internazionali, coordinati in particolare sotto il Piano Marshall
e i primi accordi tra Paesi Europei, tendenti alla costituzione di una comunità economica (nascono
la CECA e l’EURATOM).
La politica industriale rimane in capo ai singoli stati nazionali.

Negli anni 50,60 l’obiettivo primario era di costruire una struttura industriale nazionale che fosse
particolarmente forte nei settori ritenuti strategici.
La politica industriale viene definita "selettiva", ossia orientata a favorire la crescita e il
rafforzamento di specifici settori (settori di base e di interconnessione).
Logica sottostante: favorire i settori che producevano beni di base, o beni che servivano poi da
input ad altri settori, avrebbe comportato una riduzione dei costi di produzione di tali beni, di cui
avrebbe beneficiato l'intero sistema economico.
Gli Strumenti utilizzati sono:
• la protezione doganale nei confronti di Paesi terzi (e nei confronti dei partner della
Comunità Economica Europea, nelle forme e nei limiti in cui questa era possibile secondo
gli accordi del Trattato di Roma),
• l'incentivazione fiscale (sussidi o defiscalizzazione),
• la promozione di fusioni e accorpamenti (sia con un'opera di political suasion –
convincimento politico– sia attraverso l'erogazione di facilitazioni fiscali)
• la creazione di imprese pubbliche nazionali (le cosiddette compagnie di bandiera).

Nel 73 si avrà uno shock petrolifero. I Paesi Comunitari hanno reagito, per lo meno sino alla fine
degli Anni Settanta, non già cercando di modificare la propria struttura produttiva, bensì
arroccandosi un una difesa della struttura esistente. Vi è un congelamento della concorrenza.

Negli anni 80 le politiche industriali sono di tipo "generale", ossia rivolte non più a specifici settori,
ma all'intero sistema produttivo. Bisogna consentire, a tutti i settori industriali, un recupero di
flessibilità, con la possibilità di ri-organizzare i processi produttivi, e quindi di potere sostituire gli
input produttivi:
• flessibilità interna all'impresa: capacità di modificare i processi produttivi, impiegando in
modo meno vincolato gli input;
• flessibilità esterna: possibilità di spostamento di risorse da un'impresa all'altra.

Negli anni 90 la Politica industriale è tipo generale e rivolta alle istituzioni.


L'azione pubblica per il miglioramento della struttura produttiva del nostro paese avrebbe dovuto
incentrarsi sulle cosiddette esternalità di sistema, ossia sulla fissazione di regole del gioco e di
diritti di proprietà capaci di accrescere la competitività dell' intero sistema economico in termini di
prezzo e di qualità. Specifico rilievo assumono quegli interventi di carattere orizzontale che
soltanto indirettamente tendono a rendere possibili riconversioni e ristrutturazioni, i cosiddetti
ammortizzatori sociali: es. indennità di disoccupazione, Cassa integrazione guadagni ; legge
tendente a garantire la mobilità ; legge per i lavori socialmente utili; prepensionamenti.
POLITICHE REGIONALI, REDISTRIBUTIVE, COMMERCIALI

Politiche regionali
La politica regionale o territoriale persegue la crescita e lo sviluppo di determinate aree del sistema
economico considerato. La politica regionale tende al miglioramento della distribuzione territoriale
del reddito, favorendo il permanere degli insediamenti produttivi esistenti in una certa area, la
formazione di nuove imprese da parte di imprenditori locali e l'afflusso di nuovi insediamenti
provenienti dall'esterno dell'area.
Il principale ostacolo economico all' insediamento di attività produttive in un' area arretrata è dato
dall’elevato costo di produzione in quell' area: nonostante il fatto che il salario sia in essa
normalmente più basso, il costo totale di produzione risulta più elevato per: più bassa produttività
media del lavoro; più elevati costi di approvvigionamento di materie prime e di capitale; l'esistenza
di una "rendita da illegalità".
L'operare del mercato non porta ad una convergenza spontanea delle condizioni di un' area
arretrata a quelle delle aree più sviluppate: lo svantaggio iniziale tende ad essere mantenuto o
accresciuto.
Di fronte all' esistenza di un circolo vizioso (o causazione cumulativa), può, dunque, essere
necessario l'intervento dello Stato. La politica regionale, quindi, mira a sostenere la crescita e lo
sviluppo dell'economia in zone geografiche specifiche, attraverso strumenti di politica industriale e
politica dello sviluppo.

Esempi di strumenti delle politiche strutturali per il riequilibrio territoriale:

Molti di questi strumenti sono stati utilizzati per stimolare la crescita dell'economia meridionale in
Italia.
La politica meridionalistica del dopoguerra ha sostanzialmente avuto inizio pel 1950, con la riforma
fondiaria e la costituzione della Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse per il
Mezzogiorno (Cassa per il Mezzogiorno) per la progettazione e l’ esecuzione di opere
infrastrutturali. La Cassa ha operato fino al 1981, poi sostituita con l'Agenzia per la promozione
dello sviluppo del Mezzogiorno (Agensud), con compiti di finanziamento e incentivazione dell'
attività imprenditoriale, soppressa, con la legge 488/1992. Nel 1998 è stata istituita «Sviluppo
Italia», un'agenzia per la promozione degli investimenti nel Mezzogiorno.
Dalla creazione delle infrastrutture la politica meridionalistica si è spostata, a partire dalla seconda
metà degli anni Cinquanta, verso gli incentivi al capitale (agevolazioni in conto capitale e in conto
interesse) e, dalla fine degli anni Sessanta, anche agli incentivi al lavoro, con la fiscalizzazione
degli oneri sociali (ossia il loro passaggio a carico del bilancio statale) e il sostegno dei redditi
personali. Sempre a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta sono stati ridefiniti e ampliati
gli obblighi per le amministrazioni pubbliche di riservare (detti, perciò, riserve) alle imprese
meridionali quote delle proprie spese per forniture (30%) e degli investimenti (40%).
Negli anni Novanta la politica di incentivazione al Mezzogiorno si è progressivamente affievolita
per effetto degli interventi dell' UE, tendenti ad evitare la diversione degli insediamenti capace di
falsare la concorrenza.

Negli anni più recenti, mutamento nelle forme di intervento con l'introduzione della cosiddetta
programmazione negoziata per favorire un coordinamento locale fra amministrazioni pubbliche,
imprese e sindacati per finanziare e realizzare investimenti produttivi e infrastrutture e per
assicurare comportamenti dei soggetti negoziali coerenti a questo fine :
• contratti di programma, per favorire la realizzazione di sistemi integrati di interventi e, in
particolare, l'insediamento di grandi imprese o gruppi industriali
• intese (operative) di programma, tra Amministrazioni Centrali e Regioni (o Province
autonome) per la realizzazione di piani pluriennali di intervento
• patti territoriali: mirano a costruire relazioni di fiducia e esperienze di collaborazione fra
soggetti pubblici e privati di aree territoriali, al fine di attuare progetti per lo sviluppo locale
in senso lato
• contratti d'area: strumenti operativi, concordati tra le Amministrazioni pubbliche e le
rappresentanze di lavoratori e imprenditori interessati alla realizzazione di azioni finalizzate
allo sviluppo e alla creazione di nuova occupazione in ambiti territoriali circoscritti.

Alla fine degli anni 80 abbiamo 5 linee di intervento finanziate con fondi strutturali:
• Obiettivo 1: sostegno alle regioni in ritardo di sviluppo, definite come quelle nelle quali il
reddito pro-capite è inferiore al 75% del reddito pro-capite medio dell'Unione Europea
(Tutte le regioni dell'Italia Meridionale rappresentano aree che ricadono nelle zone coperte
dall'Obiettivo 1).
• Obiettivo 2: rivolto alle aree colpite da declino industriale.
• Obiettivo 3: rivolto a regioni con disoccupazione di lunga durata e problemi di inclusione
sociale di gruppi emarginati.
• Obiettivo 4: rivolto a regioni con problemi di disoccupazione legata a riconversione
industriale.
• Obiettivo 5/a: riguarda regioni con problemi di adeguamento strutturale dell'agricoltura e
della pesca.
• Obiettivo 5/b: zone rurali vulnerabili.
• Obiettivo 6: zone a bassissima densità abitativa.
POLITICHE REDISTRIBUTIVE
La distribuzione del reddito esistente in un dato periodo in un sistema economico è il risultato di
due elementi: la distribuzione primaria e le politiche redistributive.
La distribuzione primaria è il risultato delle forze e del potere di mercato dei vari soggetti e
categorie di percettori di reddito. Nelle economie europee essa deriva dalla negoziazione salariale
fra sindacati di imprese e sindacati di lavoratori
Sulla distribuzione primaria incidono varie misure di politica economica.
Pur essendo numerose le misure redistributive, è principalmente la politica del bilancio pubblico
che viene impiegata per realizzare gli obiettivi di equità.
La redistribuzione attraverso il bilancio pubblico può avvenire, oltre che mediante imposte, anche
con trasferimenti monetari e in natura.
I trasferimenti monetari consistono nell'assegnazione da parte dello Stato di somme di denaro o di
buoni (coupons) spendibili liberamente dal cittadino.
I trasferimenti in natura, invece, vengono attribuiti direttamente quei beni e servizi che lo Stato
vorrebbe fossero disponibili agli individui meno abbienti (quali servizi sanitari, di istruzioni, di
mensa) o vengono assegnati buoni con destinazione vincolata e non cedibili.
La scelta dell'uno o dell'altro sistema può avere effetti molto diversificati, tanto più quanto maggiore
è la sperequazione distributiva (differenti livelli di consumo, differenti destinazioni, beni consumati
diversi da quelli essenziali).

Stato sociale o stato del benessere (welfare state)


Il complesso dell'attività di trasferimento attuata dallo Stato, in particolare nel campo
dell'educazione, della sanità, della previdenza e dell'assistenza, prende il nome di stato sociale o
stato del benessere (welfare state).
La sua nascita si fa concretamente risalire al Piano Beveridge (cfr. Beveridge, 1942), realizzato
nelle sue linee essenziali in Gran Bretagna e, con varianti, in altri paesi.
Si possono individuare sostanzialmente tre principali modelli o regimi di welfare state:
a) il modello conservatore-corporativo; tradizionale in Germania, Austria e Italia , attribuisce il
diritto a beneficiare dello stato sociale a chi abbia (avuto) lo status di lavoratore occupato.
Il ruolo sostanziale ai fini redistributivi viene svolto dalla solidarietà familiare e, comunque,
privata (in particolare, attraverso la carità); lo Stato interviene soltanto in funzione residuale.
Il regime tende sostanzialmente a favorire il mantenimento dei differenziali distributivi creati
dal mercato con temperamento delle sperequazioni più nette.
b) il modello liberale; prevede interventi di tipo residuale. Esso è presente negli USA, Canada
e Australia. Si incoraggia il mercato ad assicurare le prestazioni di mera sussistenza
attraverso sussidi. L'assistenza può essere subordinata all'accertamento dell'effettivo stato
di bisogno e, pertanto, i trasferimenti possono non essere universali.
c) il modello socialdemocratico; può essere esemplificato dallo stato del benessere realizzato
nei paesi scandinavi, tende a promuovere l'uguaglianza non dei soli lavoratori, ma di tutti i
cittadini. Il mercato e la famiglia assumono rilevanza marginale.

Negli ultimi anni le critiche allo stato sociale si sono rafforzate per varie ragioni: il maturare di
avverse situazioni demografiche (invecchiamento della popolazione) ed economiche (crisi dei
bilanci pubblici) e il crescere della spinta alla riduzione dei costi del lavoro indotta dalla
globalizzazione.
Necessità di una contrazione o di una ristrutturazione dello stato sociale.
Il dibattito relativo ha suggerito numerosi raffinamenti o modifiche:
1. la sostituzione dei contributi sociali con imposte sul reddito o sul valore aggiunto;
2. l'introduzione o il rafforzamento del legame fra alcune prestazioni e la condizione lavorativa
3. la riduzione della durata del sussidio di disoccupazione e la sua trasformazione in sussidio
all'occupazione, dopo un certo periodo di tempo;
4. l'ampliamento dell'accertamento dell'effettivo stato di bisogno suggerito per ridurre il
volume complessivo delle spese sociali, limitandone l'erogazione ai soli casi di (estremo)
bisogno;
5. la destinazione specifica a certe voci di spesa di fondi ottenuti con alcune imposte o
contributi
LA POLITICA COMMERCIALE
La politica commerciale è l'insieme delle misure mirate a disciplinare gli scambi di merci e servizi
con Paesi terzi. Un paese può adottare un atteggiamento:
• liberista, ossia tendente a non introdurre ostacoli alle esportazioni e, soprattutto, alle
importazioni
• protezionista, tendente a difendere la produzione interna dalla concorrenza estera
• autarchico, mirante a chiudere l'economia nazionale rispetto al Resto del mondo.
Esempi storici di misure liberiste:
▪ l'abolizione del dazio sul grano decisa dal Regno Unito nel 1846
▪ Il trattato commerciale franco-inglese (Accordo di Cobden-Chevalier) del 1860, con l'inclusione
della clausola della nazione più favorita (contenuta in un trattato internazionale con la quale gli
Stati contraenti si impegnano a concedersi reciprocamente il trattamento più favorevole che
abbiano concesso o concederanno in futuro, in una determinata materia a uno o più Stati).

Il fondamento scientifico del liberismo si trova nei vantaggi della specializzazione a livello
internazionale, messi in rilievo da David Ricardo (1817) con il principio dei costi comparati:
se due paesi hanno diversa abilità relativa nel produrre due beni, il che si riflette nei costi
comparati di produzione, potrà convenire loro di specializzarsi, ognuno producendo soltanto il bene
il cui costo è comparativamente minore, e scambiare l'eccedenza della produzione di quel bene
con l’altro paese in cambio del bene prodotto dall'altro paese.
Tutte le teorie formulate successivamente incorporano sostanzialmente il principio ricardiano; in
quelle più recenti sono anche adottate più realistiche ipotesi di concorrenza imperfetta
Il principio di Ricardo soffre tuttavia di numerose limitazioni, dovute alla natura statica dell'analisi,
alla mancata considerazione della mobilità internazionale dei fattori, nonché dei fattori di offerta e
all'ipotesi di piena occupazione. Le argomentazioni economiche a favore del protezionismo si
fondano proprio su queste limitazioni.

Strumenti della protezione


• Tariffe, nella forma di dazi sui beni e/o servizi importati. Si tratta di vere e proprie imposte
indirette, che fanno normalmente aumentare il prezzo delle merci estere. In quanto
imposte, essi sono fonte di entrate fiscali.
Negli ultimi decenni, in aggiunta o in sostituzione della protezione tariffaria si sono diffusi numerosi
e sofisticati strumenti di protezione non tariffaria (o barriere non tariffarie), rappresentati da:
• contingenti (o quote), che consistono nella fissazione di limiti di quantità fisiche o valutari
alle importazioni;
• regolamentazioni spesso in apparenza dirette ad altre finalità (igieniche, di sicurezza, di
difesa ambientale), ma che si risolvono in ostacoli, appesantimenti burocratici, ritardi e
aggravi di costi per i produttori esteri; procedure e limitazioni amministrative varie; altre
modalità di allungamento dei tempi richiesti per la verifica doganale;
• preferenze e limitazioni in materia di appalti, concessioni, forniture pubbliche;
• sussidi e altre forme di incentivazione delle esportazioni.
Altri strumenti di protezione non-tariffaria sono:
• le limitazioni volontarie alle esportazioni (voluntary export restraint, VER) che pur essendo
introdotti dal paese esportatore, sono in realtà richiesti dal paese importatore, il quale
minaccia l'adozione di altri tipi di restrizioni;
• il requisito di contenuto nazionale minimo della produzione (minimum national content
requirement). Esso prevede che un bene possa essere venduto nel paese soltanto se ha
un contenuto minimo, in termini fisici o di valore, di produzione locale.

Gli effetti dell'introduzione di un dazio, nell'ipotesi che il prezzo internazionale rimanga invariato
sono:
• effetto consumo: il dazio provoca un aumento del prezzo del bene che riduce il consumo
interno;
• effetto produzione (o protettivo): il dazio provoca un aumento del prezzo del bene che fa
aumentare l'offerta interna;
• effetto importazione: le importazioni tendono a ridursi;
• effetto entrate fiscali: le imposte aumentano in misura pari all'aliquota del dazio moltiplicata
per la (nuova) quantità importata;
• effetto redistribuzione: i consumatori pagano un maggior prezzo ai produttori nazionali e il
dazio allo Stato.

Le giustificazioni del protezionismo


Caso classico dell’“industria nascente”: Il paese che protegga un'industria nascente (infant
industry) può con il tempo acquisire quella stessa capacità ed esperienza e porsi in condizioni di
competere con vantaggio con il paese che abbia iniziato prima la produzione o anche pervenire a
una posizione di superiorità.
È il caso nel quale esistano economie di scala dinamiche derivanti da processi di apprendimento
(learning by doing). Ampia applicazione nei Paesi in via di sviluppo.
Effetti:
• cresce la produzione dell’industria protetta;
• possibili effetti esterni (spillover) positivi sul sistema produttivo del paese
• ma distorsione nell’allocazione delle risorse (fattori produttivi).
La difesa dal «lavoro straniero a buon mercato»: sostenere la protezione generale dell'industria o
di singoli rami industriali (principalmente di quelli a forte intensità di lavoro), minacciati dal basso
costo del lavoro esistente all'estero che rende non competitive le attività nazionali che non siano
adeguatamente protette.
Esempio: Affrontare il problema del dumping sociale, la forma di concorrenza "sleale" che sarebbe
esercitata da molti paesi, spesso da PVS, in virtù del fatto che il costo del lavoro in essi sarebbe
basso per effetto della scarsa protezione sociale dei lavoratori
Criticità: al più basso costo del lavoro esistente all'estero corrisponde di norma anche una sua più
bassa produttività.
Il protezionismo come ausilio ad una politica per l'occupazione: a fronte di una politica per la
crescita dell’ occupazione e del reddito che farebbe aumentare le importazioni, limitare le
importazioni attraverso misure protezioniste .
Teoria del dazio “ottimo”. Il paese grande può con il dazio aumentare il
proprio benessere.

Relazione tra politiche industriali e politiche commerciali


Le politiche commerciali tendono ad incidere direttamente sui flussi di importazione e di
esportazione.
Le politiche industriali tendono, invece, ad influenzare principalmente i fattori di offerta: tecniche
produttive, tipologie di prodotti, grado di concentrazione, rapporti fra imprese e fra industrie,
delocalizzazioni produttive.
Stretta relazione tra le due politiche: Le politiche industriali possono concorrere attraverso
molteplici vie al rafforzamento della posizione competitiva di un paese (posizionamento della
struttura industriale nei settori nei quali la domanda mondiale cresce più velocemente;
potenziamento dei settori strategici; innovazioni di prodotto; concentrazione economica; relazioni
fra imprese e fra industrie).
A loro volta, le politiche commerciali possono contribuire a rafforzare la struttura produttiva di un
sistema economico (realizzazione di economie di scala dinamiche, investimenti in determinati rami
produttivi).
COORDINAMENTO INTERNAZIONALE DELLA POLITICA ECONOMICA

La trasmissione internazionale delle politiche economiche


Gli effetti delle politiche economiche non si esauriscono all’interno dei singoli paesi ma in un
mondo di mercati globalizzati, si ripercuotono sia negativamente che positivamente anche sulle
economie dei paesi terzi attraverso il flussi di interscambio commerciale e movimenti di capitale. Il
tema del coordinamento internazionale nasce appunto dall’esigenza di creare condizioni di
cooperazione nelle politiche economiche più che politiche di beggar-thy-neighbour. Per
evidenziare questi effetti si ricorre in generale al modello mundell-Fleming abbandonando l’ipotesi
del paese piccolo ma assumendo due paesi grandi nella versione elaborata da Mundell e Mussa.
Si assume perfetta mobilità dei capitali e quindi l’equilibrio è garantito dall’uguaglianza a livello
internazionale dei tassi di interesse. Abbiamo due politiche, monetarie fiscale virgola che possono
operare in due diversi regimi di cambio: cambi fissi o flessibili.

Cambi fissi: In questo caso i canali di trasmissione dell’interdipendenza economica fra due paesi
grandi A e B sono essenzialmente due:
• le partite correnti: variazioni del reddito in un paese fanno variare anche la sua domanda di
importazioni nei confronti dell’altro paese
• Tasso di interesse mondiale: variazioni del tasso di interesse mondiale generate dalle
politiche economiche interne ai due paesi provocano effetti rilevanti sui flussi internazionali
di capitale.
In regime di cambi fissi gli effetti delle politiche nazionali adottate dal paese A, Sia se si
considerano misure di carattere fiscale, sia di carattere monetario, saranno sempre positivi
sull’economia del paese B. si assume perfetta mobilità dei capitali e perfetta sostituibilità dei titoli.

L’effetto finale della politica monetaria adottata dal Paese A è caratterizzato da:
• un incremento del livello del reddito in entrambi i paesi
• una diminuzione delle riserve valutarie ufficiali nel Paese A
• un aumento delle riserve valutarie ufficiali nel Paese B
• una diminuzione del tasso di interesse mondiale
A differenza da quanto previsto dal Modello di M-F, la PM ha efficacia sul reddito interno anche in
cambi fissi.
Anche nel caso di un’espansione fiscale nel paese A, in regimi di cambi fissi, l’effetto finale è un
incremento del livello del reddito (sebbene minore a quello della politica monetaria), un tasso di
interesse mondiale più alto, e un effetto sulle riserve valutarie, in questo caso, negativo nel Paese
B e positivo nel Paese A.
Cambi flessibili: In regime di cambi flessibili occorre considerare anche l’effetto delle politiche sul
tasso di cambio. In presenza di trasmissione internazionale degli effetti delle politiche
economiche, l’adozione di misure di politica fiscale da parte di un paese determina incrementi del
livello del reddito in entrambi i paesi. L’adozione di misure di politica monetaria dal parte del paese
A determina al contrario effetti positivi solo sul livello del reddito interno ma negativi sul reddito del
paese B. Si verifica in questo caso il tipico effetto di trasmissione all’estero degli effetti negativi di
una politica economica che porta benefici esclusivamente nel paese che la adotta.

Il coordinamento internazionale della politica economica implica una significativa modifica delle
politiche nazionali in considerazione dell’interdipendenza economica internazionale.
Esiste una diffusa percezione riguardo la maggiore interdipendenza dei sistemi economici a livello
internazionale (grazie alla presenza di un intenso interscambio internazionale di beni, servizi e
capitali). Parallelamente, il problema del coordinamento assume un’importanza centrale. In
un’economia internazionale sempre più interdipendente non è realistico studiare la politica
economica dei paesi più influenti senza tenere in considerazione i loro effetti in termini di
interazioni con l’esterno. Eventuali shock macroeconomici e cambiamenti di politica economica
che si verificassero nei paesi economicamente più influenti determinerebbero effetti rilevanti anche
nei confronti del resto del mondo (es dollaro/euro; crisi 2009).
Politica economica mira a perseguire non solo gli obiettivi (interni ed esterni) nazionali, ma anche
quelli del resto del mondo.
Il coordinamento internazionale è quella situazione in cui ogni paese manovra gli strumenti di
politica economica dei quali dispone al fine di conseguire non soltanto gli obiettivi suoi propri, ma
anche quelli del resto del mondo.
Le motivazioni:
• per evitare risultati sub ottimali, frutto di azioni non coordinate in risposta alla crescente
interdipendenza internazionale
• per perseguire obiettivi superiori di interesse collettivo (beni pubblici globali)
Esempi rilevanti dell’esigenza di coordinamento internazionale si
o Sistema monetario int.le
o Sistema multilaterale degli Scambi (GATT/OMC)
o Millenium Development Goals (MDGs)/ Sustainable
o Development Goals (SDGs)
o Politiche ambientali
In condizioni di incertezza rispetto alla scelta dell’altro, entrambi (i paesi, gli agenti economici ecc.)
si attendono un guadagno maggiore da soluzioni non cooperative (nell’esempio riportato adottando
una politica protezionistica) ma cadono nella situazione peggiore rispetto a quella che si otterrebbe
nel caso in cui paesi scegliessero di cooperare. Quando i paesi decidono di comportarsi in maniera
non cooperativa, si realizza, a livello globale, una situazione peggiore rispetto a quella che si
otterrebbe se scegliessero di cooperare. Maggiori guadagni richiedono, dunque, soluzioni
cooperative.
I vantaggi del coordinamento internazionale sono:
• Riduce le esternalità negative (es. politiche beggar my neighbour)
• Permette di beneficiare di esternalità positive (economie esterne) o anche di ottenere
benefici a livello globale (Global Public Goods)

Il coordinamento internazionale consente normalmente di conseguire risultati migliori per l’insieme


dei paesi, ma non è detto che ogni paese riceva un vantaggio dal coordinamento e non è detto che
la soluzione cooperativa sia sempre migliore rispetto alla defezione per il singolo paese (in
assenza di “rappresaglia”)
Ostacoli:
• l’atteggiamento favorevole al coordinamento non è spontaneo
• elevata presenza di differenze tra i paesi (disponibilità risorse, strategie politiche diverse)
• mancanza di fiducia reciproca o di credibilità negli impegni presi
• problema dell’effettiva corrispondenza costi-benefici del coordinamento
• difficoltà di prevedere i vantaggi attesi dalla cooperazione

Il coordinamento tra più paesi può aver luogo attraverso:


a) concertazioni ad hoc
b) cooperazione istituzionalizzata
La seconda modalità stabilisce regole e regimi finalizzate ad evitare almeno in parte le inefficienze
derivanti da soluzioni unilaterali, fornendo una cooperazione certa e ragionevole.

Chi definisce gli indirizzi e le azioni di politica economica internazionale, ossia la gestione del
governo globale dell’economia dal punto di vista monetario, finanziario e commerciale (la c.d.
Global governance)?
Le Istituzioni Internazionali sono un insieme di regole e strutture organizzative, formali ed informali,
in grado di agevolare il coordinamento delle decisioni fra Stati in materia di politica economica
Vanno distinte in:
• organizzazioni “formali” (es. ONU e le sue Agenzie Specializzate; le c.d. “Istituzioni di
Bretton Woods”: IFIs (FMI e BM) + OMC)
• organizzazioni “informali” (es. il G-7/G-8, “società civile globale”, ecc.).
Coordinamento monetario internazionale
Uno dei principali canali di interdipendenza internazionale è il canale monetario. Per questo
gli Stati preferiscono adottare atteggiamenti cooperativi nella definizione delle loro politiche
di cambio e nel mantenimento di regole certe al funzionamento dei regimi monetari. Il
termine “sistema monetario internazionale” indica l’insieme delle regole e delle
organizzazioni in base alle quali vengono effettuati i pagamenti internazionali.

Classificazione in base ai rapporti di cambio fra le valute


• il “regime a cambi fissi”, in cui il rapporto tra una moneta e l’altra è fissato in modo
ufficiale e duraturo;
• il “regime a cambi flessibili” (o “liberi”), in cui non esiste una dichiarazione ufficiale
del tasso di cambio, ma il suo valore è di volta in volta determinato dal mercato dei
cambi;
• il “regime a cambi parzialmente flessibili” (o “amministrati”), in cui la banda di
oscillazione del tasso di cambio è fissata da accordi inter-statuali.
Classificazione in base al tipo di riserva valutaria internazionale
• “sistema monetario aureo” (o gold standard), in cui l’oro è l’unica modalità di riserva
delle banche centrali;
• “sistema monetario fiduciario”, (o exchange standard ) in cui il valore della valuta è
del tutto svincolato dal proprio contenuto aureo e legato ad una valuta di riserva o
ad un insieme di valute di riserva;
• “sistema a cambio aureo” (o “gold exchange standard”), che rappresenta una
combinazione tra i primi due casi.

Il sistema monetario attuale


• Sistema fiduciario: Riserve ufficiali in oro + principali valute convertibili (principale moneta
di riserva: US$)
• Regime di cambi amministrati: Nella maggior parte dei casi le autorità monetarie attivano
solo interventi correttivi rispetto ad oscillazioni troppo ampie o per rispettare obiettivi di
politica economica (no parità dichiarate)
I paesi, ormai liberi dall’impegno di difendere la parità dei propri tassi di cambio, possono scegliere
liberamente politiche fiscali e monetarie pìù rispondenti agli obiettivi di intervento
Il sistema monetario internazionale è frutto del coordinamento informale fra i ministri delle finanze
dei paesi del G-7 (attualmente del G20)

Fondo monetario internazionale


Nascita: Accordi di Bretton Woods (1944) – operativo dal 1945;
Paesi Membri: Inizialmente 28; oggi 190 su 201 Stati indipendenti
Princìpi Ispiratori: (padre intellettuale Keynes, ma figlio del piano White, parzialmente modificato
rispetto alla prima edizione)
Missione: Istituzione monetaria con obiettivi di stabilizzazione macroeconomica internazionale. E’
oggi Istituto specializzato delle NU (ma virtualmente indipendente)
Obiettivi iniziali:
• sostenere finanziariamente i paesi con gravi squilibri di BP al fine di assicurare il
• riequilibrio esterno senza sacrificare la stabilità dei cambi e gli obiettivi interni;
• verificare l’esistenza di “sostanziali squilibri” di BP, condizione necessaria per richiedere la
modifica della parità dichiarata;
• sorvegliare il sistema dei pagamenti internazionali;
Obiettivi attuali:
• perseguire la stabilità del sistema monetario internazionale, delle BP
• e dei TC.
• Finanziamenti condizionati all’adozione di programmi di riequilibrio strutturale della bilancia
dei pagamenti e di politiche economiche rigorose;
• Monitoraggio dello stato economico e finanziario e consulenza ai paesi;
• Assistenza tecnica e formazione.
Non membri: Cuba, Liechtenstein, Monaco, Taiwan, Città del Vaticano, Corea del Nord, Timor Est.
Organi principali:
• Consiglio dei Governatori: 190 Paesi Membri nominano i loro Governatori;
• Consiglio Esecutivo: i Governatori delegano gli incarichi specifici a 24 Direttori Esecutivi (di
cui 5 permanenti USA, Giappone, Germania, Francia e UK e 19 eletti sulla base di un
sistema di raggruppamenti di paesi non necessariamente su base regionale*)
• Direttore Generale eletto dal Consiglio Esecutivo per 5 anni. Rappresenta il FMI e presiede
il CE (attualmente Kristalina Georgieva, bulgara, ex Banca Mondiale)
Quote del fondo:
• Quote: I paesi membri versano una quota annuale (funzione del peso economico) che
forma la riserva destinata a compensare momentanei squilibri monetari (25% in DSP(*) o in
valuta forte; il resto in valuta nazionale).
• Voto: Il voto dei paesi membri pesa in funzione delle quote detenute. Nel CE non vale
regola “un paese un voto”. Ogni DE ha un potere di voto che è funzione della somma delle
quote versate dai paesi rappresentati (DE USA conta oggi per circa il 16% , DE G-7 per
circa il 56%).
• Riforma voto: Nel maggio 2008, dopo 2 anni di negoziati, il FMI ha riformato il sistema delle
quote (e quindi dei voti). 135 paesi hanno visto aumentare i propri diritti di voto (+5,4% in
totale; 54 paesi hanno registrato aumenti sup. al 12%). L’aumento principale ha riguardato i
c.d. paesi emergenti. Ulteriore riforma è stata approvata nel gennaio 2016
Riforma quote e voto del 2016:
• più fondi permanenti (da 329 a 659 miliardi di dollari)
• più peso ai paesi emergenti (quota BRIC circa 6% ciascuno)
• cambiamento sistema elezione dei membri del board: non più cooptazione da parte dei
paesi maggiori ma su base elettiva
Prestiti: pari all’importo complessivo della quota più la parte versata in DSP (in pratica il 125%
essendo la quota in DSP pari al 25%). Bailout: L’azione del Fondo è subordinata al diretto
intervento sulle scelte di indirizzo macroeconomico dei singoli governi (condizionalità tramite
lettere d’intenti per piani di salvataggio, “IMF bailout conditions”). Con l’aumento delle esigenze di
finanziamento dei Pvs il Fondo ha attivato diversi strumenti finanziari per aiutare i Paesi a basso
reddito con esigenze di liquidità di breve e medio periodo dovute a difficoltà di bilancio e/o a
catastrofi naturali. Con l’aumento delle esigenze di finanziamento dei Pvs il Fondo ha attivato
diversi strumenti finanziari per aiutare i Paesi a basso reddito con esigenze di liquidità di breve e
medio periodo dovute a difficoltà di bilancio e/o a catastrofi naturali.
LA POLITICA EUROPEA PER LA DIGITALIZZAZIONE
La trasformazione digitale rappresenta ormai da molti anni un obiettivo prioritario dell’Unione
europea. Sebbene i trattati europei non contengano disposizioni speciali per le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione (TIC), l'UE può intraprendere azioni pertinenti nel quadro
delle politiche settoriali e orizzontali, quali: la politica industriale; la politica della concorrenza; la
politica commerciale; la ricerca e lo sviluppo tecnologico e lo spazio; l'istruzione, la formazione
professionale.
La consapevolezza diffusa dei vantaggi economici, sociali e ambientali della digitalizzazione, e più
in generale dell’utilizzo delle tecnologie ICT, ha determinato la necessità di stabilire obiettivi di
digitalizzazione sempre più sfidanti.
Ciò ha comportato numerosi interventi legislativi della Commissione europea tesi a favorire
l’innovazione digitale, superando le barriere esistenti tra i diversi mercati nazionali nella prospettiva
di realizzare un unico grande mercato europeo dei servizi digitali.

Il primo gennaio del 1998 si completa nell’Unione europea la piena liberalizzazione delle
telecomunicazioni: in tutti i paesi europei si sviluppa la piena concorrenza nell’offerta delle reti e
dei servizi di telecomunicazione. È in questo contesto che l’accesso ad internet e la banda larga si
affermano sempre più come servizi essenziali, mentre le tecnologie ICT sono sempre più
considerate uno straordinario volano per la crescita economica.
Prende così forma la cosiddetta Strategia di Lisbona, adottata nel Consiglio europeo di Lisbona del
23-24 marzo 2000: fare della UE l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica
del mondo. I piani di azione adottati a partire dalla Strategia di Lisbona hanno fissato obiettivi
sfidanti di tipo essenzialmente qualitativo.
Questo limite viene superato con l’adozione dell’Agenda digitale europea nel 2010.
L’Agenda digitale europea stabiliva 13 obiettivi misurabili, da conseguire alcuni entro il 2015 ed
altri entro il 2020, nelle seguenti aree: banda larga e ultra larga; mercato unico digitale; inclusione
digitale; servizi pubblici; ricerca e innovazione.
L’Agenda digitale europea ha avuto e continua ad avere un rilevante impatto nelle politiche dei
paesi europei, ancorché gli obiettivi prefissati non siano certo vincolanti per gli stati membri. In
particolare, gli obiettivi riguardanti lo sviluppo delle reti a banda larga veloce e ultra larga sono
diventati un riferimento essenziale per le politiche pubbliche dei paesi europei.
Nel 2015 viene adottata dalla CE la Strategia per il mercato digitale unico, che si proponeva di
sostenere il processo di digitalizzazione nell’Unione con interventi normativi tesi a creare un unico
grande mercato digitale europeo. La Commissione ha quindi attuato un piano di iniziative
legislative volte al superamento delle barriere digitali tra i diversi paesi (es. fine tariffe di roaming).
Nel 2019 la CE - presieduta da Ursula von der Leyen - ha incluso la trasformazione digitale tra le
priorità politiche da perseguire nel quinquennio 2019-2024.
La CE intende perseguire l’obiettivo principale di un’Europa autonoma nelle nuove tecnologie
digitali. La sfida per la UE è dunque diventata la sovranità nelle tecnologie ICT emergenti, ovvero
l’autonomia dagli USA e dalla Cina. Ciò attraverso il rafforzamento degli investimenti sia nella
connettività, sia nelle tecnologie ICT emergenti.
Un altro ambito cruciale di intervento è rappresentato dai dati: la CE intende attuare interventi
legislativi per superare la frammentazione delle legislazioni nazionali in tema di dati, nonché
promuovere investimenti in infrastrutture, in tecnologia, nella formazione e nelle competenze. Da
ultimo, riesaminare le regole antitrust europee per creare le condizioni per un maggiore sviluppo
delle aziende europee nel comparto internet.

Performance competitive
Per valutare la performance, un indicatore particolarmente utile è il DESI (Digital Economy Society
Index), elaborato dalla Commissione europea per monitorare l’andamento dei processi di
digitalizzazione negli stati membri. Il DESI è un indicatore costruito per catturare i progressi dei
singoli paesi nelle seguenti aree cruciali per la trasformazione digitale:
• connettività,
• competenze digitali dei cittadini,
• utilizzo di internet da parte dei cittadini
• digitalizzazione dell’economia e digitalizzazione dei servizi pubblici.
Negli stati membri i progressi nella digitalizzazione sono evidenti.
Si registrano tuttavia differenze significative tra paesi: alcuni, tra cui quelli scandinavi, sono tra i
leader mondiali, mentre altri, tra cui l’Italia (seppur in ripresa), sono in ritardo rispetto alla media
europea .
Nonostante non sia possibile identificare un’unica Europa digitale, emergono alcune aree di
debolezza rilevanti nella larga maggioranza dei paesi europei su cui è possibile intervenire con
appropriate politiche pubbliche.
Obiettivi:
• garantire in tutta Europa la copertura universale con le reti a banda ultra larga e stimolare i
clienti a migrare verso i servizi a banda più elevata
• rafforzare il tessuto produttivo europeo nell’ecosistema digitale (un’adeguata offerta di
servizi e prodotti digitali da parte delle imprese europee.

Politica economica e digitalizzazione


La digitalizzazione rappresenta uno dei cambiamenti più importanti dello scenario economico
mondiale.
In che modo la digitalizzazione può influire sulla politica economica?
Il modo più evidente - e attualmente più studiato - è come può incidere sul mercato finanziario e
sulla politica monetaria
In particolare, ci concentriamo qui sulle conseguenze possibili della digitalizzazione:
• per le banche,
• per le forme di moneta tradizionale,
• per il ruolo della banca centrale nelle economie di mercato
Le diverse forme di moneta utilizzate oggi non hanno un valore intrinseco legato al valore del bene
che le compone (come in passato le monete con contenuto di oro o altri metalli preziosi) e non
danno diritto a una conversione diretta in una quantità fissa di un bene
Il riconoscimento del loro valore - l'accettazione da parte dei cittadini - dipende dalla fiducia.
Il valore della moneta risiede, in particolare:
1) nella fiducia, da parte di chi la riceve di trovare in qualsiasi momento qualcun'altro disposto
ad accettarla a un valore sostanzialmente stabile e prevedibile nel tempo (fiducia nel
processo di emissione);
2) nella fiducia, da parte di chi la cede in cambio di beni e servizi, di liberarsi da ogni obbligo
nei confronti di chi la riceve nel momento in cui egli l'accetta (fiducia nel processo di
trasferimento);
3) nella fiducia di chi la utilizza che essa sia effettivamente moneta (fiducia nel processo di
conservazione).

In un'economia di mercato, la produzione di queste tre forme di fiducia è affidata alle banche
centrali, assieme alle autorità di supervisione e alle banche.
Oggi in Italia la gran parte della moneta è moneta bancaria: se le banconote sono pari a circa 200
miliardi, i depositi bancari e postali in conto corrente superano i 1.200 miliardi di euro.
Il predominio delle banche nella gestione della moneta privata e del sistema dei pagamenti è stato
appena scalfito dalle innovazioni rappresentate dagli istituti di moneta elettronica e gli istituti di
pagamento. Una concorrenza più forte potrebbe in futuro venire dalle imprese Fintech (Financial
Services Technology Consortium).
Le imprese Fintech sono attive in vari servizi finanziari (es. gestione di strumenti di pagamento,
offerta di prestiti; crowdfunding, risparmio gestito). Mentre le banche offrono contemporaneamente
molti servizi finanziari, le Fintech svolgono generalmente solo una delle tante attività bancarie
(anche allo scopo di evitare gli intensi controlli della vigilanza prudenziale in vigore per le banche).
Le GAF stanno diventando progressivamente intermediari finanziari o vere e proprie banche
La crisi finanziaria globale del 2008 con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers ha
favorito lo sviluppo delle Fintech, in anni contraddistinti da una perdita di fiducia del pubblico nei
confronti degli intermediari bancari.
La moneta non metallica
La storia è stata testimone di una progressiva transizione degli strumenti di pagamento dalle
monete metalliche (moneta-pegno), a valore intrinseco, alle note di banca (banconote) (moneta-
segno). L’emissione di queste ultime – inizialmente da parte di banchieri privati – consentiva:
• di economizzare l’uso di base metallica di riferimento (come l’oro o l’argento);
• di espandere la massa di strumenti di pagamento oltre il livello di base monetaria
fisicamente disponibile (detenendo riserve di monete metalliche per la sola frazione di note
emesse che veniva normalmente presentata per l’incasso)
L’emissione di banconote è stata progressivamente demandata a istituti governativi in condizioni di
monopolio, i quali inizialmente garantivano convertibilità integrale in termini di una base monetaria
metallica – come ai tempi del gold standard. Successivamente si è passati ad un sistema basato
su di una moneta puramente fiduciaria e non convertibile, avente corso legale.
Lo sviluppo tecnologico ed informatico ha recentemente favorito la nascita delle criptovalute.
Questi strumenti finanziari – puramente elettronici e quindi interamente immateriali – nascono
all’interno di un meccanismo completamente decentrato e sovranazionale, in cui il diritto di battere
la singola unità di criptovaluta è attribuito al vincitore di una specifica competizione, tipicamente
legata alla soluzione di un calcolo matematico.
Il grado di difficoltà è crescente nel tempo, e regolato da un algoritmo esogeno ed immutabile.
L’esperienza delle criptovalute si è imposta alle cronache finanziarie in particolare tra il 2017 e il
2018, quando la prima e più nota di esse – il Bitcoin (creato da Satoshi Nakamoto, un anonimo
inventore) – ha sfiorato i 20,000 dollari di valutazione.
Già prima di questi exploit, tuttavia, il numero di differenti criptovalute disponibili nel panorama
globale si era moltiplicato, generando di fatto un intero sistema di valute liberamente emesse da
agenti privati – ciascuna potenzialmente in diretta concorrenza con le altre, e con le esistenti valute
governative tradizionali.
L’obiettivo è superare il monopolio governativo nell’emissione della moneta.

La digitalizzazione della moneta


La creazione delle cripto-valute mira a decentrare il sistema attraverso il quale la proprietà della
moneta è creata, trasferita e conservata.
Il registro che tiene traccia di questi aspetti viene portato fuori dalle istituzioni finanziarie che lo
custodivano e inserito all’interno di ciascuna unità di moneta
Il sistema decentrato è il punto di arrivo delle cripto-monete, le cui origini risalgono agli anni
Ottanta del Novecento. E-cash fu il primo esempio di moneta digitale sviluppata come alternativa
al sistema monetario tradizionale; l’approccio sviluppato dal suo ideatore David Chaum, a partire
dal 1983, si muoveva intorno all’idea di un sistema in grado di preservare l’anonimato degli utenti.
Successivamente, la tecnologia si è sviluppata anche per consentire di trasferire e conservare la
moneta in modo decentrato.
Come le altre forme di moneta, anche le cripto-monete sono una tecnologia sociale: hanno valore
solo se nel corso del tempo permettono di ottenere beni e servizi in una quantità (quasi) certa e
stabile.
I benefici e i possibili rischi connessi con le cripto-monete dipendono:
• dalle caratteristiche dell’offerta, vale a dire dai criteri in base ai quali viene decisa la
quantità di nuove unità immesse; dal procedimento attraverso il quale vengono immesse;
• dalle caratteristiche del sistema dei pagamenti, vale a dire dal sistema utilizzato per
trasferire, validare e conservare la proprietà delle singole unità.
Tali caratteristiche - insieme alle regole imposte dai regolamentatori - permettono di misurare la
distanza effettiva dalle tre tipologie di moneta tradizionali - circolante, riserve di banca centrale,
moneta bancaria - e stabilire se una cripto- valuta può essere considerata un sostituto della
moneta, svolgendo contemporaneamente le funzioni di unità di conto, di riserva di valore e di
mezzo di pagamento - o se si tratti solamente di una riserva di valore.

Uno degli aspetti più innovativi legato alle cripto-valute è il sistema utilizzato per trasferire e
validare il passaggio di proprietà delle singole unità di cripto-valuta (caso del Bitcoin): la
blockchain. I sistemi tradizionalmente utilizzati per trasferire le forme di moneta non tangibili -
moneta bancaria e riserve di banca centrale - sono per lo più accentrati: prevedono cioè
meccanismi di compensazione e regolamento delle transazioni. Ad esempio, quando viene
trasferita moneta bancaria per comprare un bene o un servizio, oltre a registrare una variazione
dei depositi del compratore e del venditore presso le rispettive banche, si realizza anche una
registrazione a debito/credito sui conti delle due banche nei sistemi di regolamento
Al contrario la tecnologia blockchain prevede che:
• tutti i possessori di una unità di Bitcoin possano accedere a una copia del registro dove
sono segnate tutte le transazioni passate delle unità di Bitcoin;
• alcuni utenti all’interno del sistema o tutti gli utenti possano validare le nuove transazioni e
scrivere direttamente sulla propria copia del registro e su quelle di tutti gli altri utenti i
passaggi di proprietà della cripto-attività
Il fatto che l’informazione sia distribuita e la validazione sia decentrata rende superflua l’esistenza
di un’istituzione al centro del sistema che validi e tenga traccia delle transazioni. La memoria
(registro) diffusa diventa necessaria nel momento in cui la fiducia nell'emissione, nel trasferimento
e nella conservazione non è più riposta in una istituzione centrale bensì affidata a un sistema
decentrato.
L’offerta di Bitcoin è regolata in modo meccanico da un algoritmo che fissa la quantità di nuove
unità da immettere in funzione solo del trascorrere del tempo e non dell’andamento della
domanda. Cambi repentini della domanda si riflettono sul suo prezzo, rendendone il valore molto
instabile.
Come riserva di valore, pertanto, Bitcoin è un’attività molto rischiosa. L’elevata volatilità del prezzo
rende difficile prevedere quanto varrà in un dato momento futuro. Per effetto di questa incertezza,
la regola per sostenere la fiducia nel Bitcoin è stata quella non solo di (pre)stabilire e di rendere
accessibile a tutti l’informazione su quante nuove unità verranno create ogni giorno in futuro, ma
anche di rendere tale quantità decrescente nel tempo, fino a non produrne più di nuove. La regola
è dunque quella della scarsità nel tempo
Qualora la domanda di nuove unità dovesse aumentare a un ritmo superiore a quello dell’offerta, il
loro valore crescerebbe.

A partire dal 2019 è emersa l’intenzione - da parte di alcune imprese - di emettere global
stablecoin (GSC), una nuova tipologia di cripto- attività con due caratteristiche principali:
• sarebbero degli asset-linked stablecoin, delle attività il cui valore potrebbe essere collegato
a un paniere di attività in valute diverse
• gli emittenti sarebbero compagnie che operano su scala globale, per lo più nel campo
dell’informazione, le cosiddette Big Tech company .
La potenziale diffusione globale delle global stablecoin ha generato un ampio dibattito tra banche
centrali, regolatori e governi sui possibili effetti che avrebbero per il sistema finanziario e dei
pagamenti e per l’efficacia della politica monetaria.

Una risposta possibile alla diffusione delle cripto-attività e, in particolare, dei global stablecoin, è
che la banca centrale crei una sua moneta digitale accessibile a tutti, la cosiddetta central bank
digital currency (CBDC). Le banche centrali hanno accolto la sfida e stanno studiando
l’introduzione di una moneta digitale governativa
La nuova moneta potrebbe essere simile: 1) alle riserve di banca centrale - nel caso in cui venisse
remunerata con un tasso di interesse - ma sarebbe utilizzabile anche da famiglie e imprese o 2) al
circolante nel caso in cui non fosse remunerata.
Una volta emessa in maniera accentrata, la moneta potrebbe sfruttare un sistema dei pagamenti
decentrato, basandosi sulla blockchain per i trasferimenti di proprietà.
Si tratta di una proposta molto dibattuta non solo per i possibili benefici in termini di efficienza del
sistema dei pagamenti, ma anche per le implicazioni sulla conduzione della politica monetaria, sul
sistema finanziario e sull’attività delle banche, nonché per le conseguenze sociali e legali.
Da quest’ultimo punto di vista, la sostituzione del circolante con una valuta digitale di banca
centrale implicherebbe la possibilità di tracciare i passaggi di proprietà di ogni unità di moneta,
senza anonimato: caratteristica auspicabile per contrastare la possibilità di effettuare pagamenti
per traffici illeciti o riciclaggio, ma rischiosa in termini di diffusione delle informazioni in merito a
gusti, scelte di consumo, spostamenti degli utilizzatori.
Dal punto di vista della politica monetaria, l’emissione di CBDC, se accompagnata
dall’eliminazione del circolante, permetterebbe di superare la questione del limite inferiore effettivo
dei tassi di interesse ufficiali. La possibilità di detenere circolante, il cui rendimento nominale è
nullo, impedisce al rendimento nominale di qualsiasi attività finanziaria di scendere su livelli
significativamente negativi: la banca centrale non è più in grado di contrastare riduzioni
dell’inflazione abbassando i tassi di interesse ufficiali (una delle ragioni per le quali le banche
centrali hanno dovuto ricorrere a interventi non convenzionali).
La sostituzione del circolante con CDBC permetterebbe - in astratto - di applicare tassi di interesse
negativi anche su questa tipologia di moneta elettronica.
Inoltre, la moneta digitale governativa preserverebbe il ruolo che le banche centrali hanno nello
stabilizzare le fluttuazioni economiche e nel mantenere la stabilità finanziaria del sistema.

Dal punto di vista del sistema bancario, la presenza di una moneta elettronica emessa
direttamente dalla banca centrale e accessibile a tutti potrebbe avere due effetti:
1) nel caso in cui la CBDC non pagasse un interesse, diventerebbe una riserva liquida di
valore, molto simile al circolante e potrebbe, in alcune fasi economiche di elevata instabilità
finanziaria, accrescere il rischio di una fuga dai depositi bancari;
2) nel caso in cui la nuova moneta pagasse un tasso di interesse simile a quello oggi
assicurato dai depositi bancari, la CBDC potrebbe diventare un sostituto perfetto dei
depositi bancari.
Conseguenza: il contributo ed il ruolo delle banche al sistema dei pagamenti potrebbe risultare
fortemente limitato. L’imposizione di limiti alla quantità di CBDC che ogni cittadino potrebbe
detenere, per limitare la disintermediazione del sistema bancario, è uno dei temi più discussi nel
dibattito.

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