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DISPENSE DI POLITICA ECONOMICA

Dipartimento di Economia e Management


Università di Pisa

Lorenzo Corsini
1. Obbiettivi ottimi e flessibili
2. IL Modello Keynesiano, il gettito fiscale e le politiche fiscali
3. La relazione fra disoccupazione e inflazione: la curva di
Phillips
4. Concorrenza imperfetta, salario reale determinato
dall’impresa e offerta aggregata
5. Contrattazione sindacale e salario reale contrattato
6. Le politiche economiche in condizioni di concorrenza
imperfetta
7. Economia aperta e concorrenza imperfetta
8. Le aspettative razionali
9. La conduzione della politica monetaria e le regole di
politica monetaria
10. Politica economica, interdipendenza strategica, credibilità,
discrezioni e regole
11. La sostenibilità del debito pubblico
12. Il mercato del lavoro in concorrenza perfetta
13. La protezione dell’impiego
14. La teoria della job search e le politiche per il lavoro

1
1 OBBIETTIVI OTTIMI E FLESSIBILI
In politica economica si parla di obiettivi ottimi (o flessibili) quando tali obiettivi sono derivati tramite la
massimizzazione (minimizzazione) di una funzione di benessere (perdita) che rispecchia le preferenze del
governo o della popolazione sotto il vincolo del modello macroeconomico che lega gli obiettivi agli
strumenti a disposizione. In pratica l’autorità di politica economica prende atto di una serie di possibili
combinazioni di risultati macroeconomici (che sono dettati dalle relazioni fra le variabili macroeconomiche)
e, fra questi, sceglie quello che maggiormente va incontro alle sue preferenze, preferenze che, entro certi
limiti, dovrebbero rispecchiare quelle della popolazione.

L’effettivo vincolo macroeconomico è il frutto dell’analisi e dello studio dei modelli macroeconomici e
rispecchia il funzionamento dell’economia. Al contrario, la scelta del particolare risultato macroeconomico
dipende dalle decisioni dell’autorità pubblica e risponde quindi alle sue preferenze e a ragioni anche
politiche.

In quanto segue, presentiamo un modello di politica economica ad obiettivi ottimi con l’unico scopo di
esemplificare questa metodologia ed illustrarne il suo funzionamento.

1.1. Un modello con obiettivi ottimi


Al fine di esemplificare la metodologia per la determinazione degli obiettivi ottimi ci concentreremo su un
semplice modello e su due variabili macroeconomiche: il tasso di inflazione 𝜋 e il tasso di disoccupazione u.

Inflazione e disoccupazione sono due patologie che arrecano danni al sistema economico e alla
popolazione. Risulta per tanto evidente che, a secondo del loro valore vi sia un danno per la popolazione e
per il governo da essa eletto e, in concreto, una perdita di benessere. In particolare immaginiamo che la
perdita di benessere sia rappresentata dalla seguente funzione L:

𝐿 = 𝜆𝜋 ∙ (𝜋 − 𝜋̅)2 + 𝜆𝑢 ∙ (𝑢 − 𝑢̅)2 (1)

Dove 𝜋̅ è l'inflazione considerata auspicabile e 𝑢̅. Si noti che in questo caso, col termine “auspicabile”, ci si
riferisce a quei livelli che, se raggiunti, consentano di eliminare qualsiasi perdita di benessere ovvero, sono
quei valori che, se presi singolarmente, risulterebbero ottimali.

I parametri 𝜆𝜋 e 𝜆𝑢 rappresentano invece l'importanza che vengono attribuite, rispettivamente, ad


inflazione e disoccupazione e rappresentano le preferenze del policy maker e/o della popolazione. In altri
termini, misurano quanto il policy maker e la popolazione giudichino dannosi questi fenomeni. Data la
formulazione della funzione L, quando 𝜆𝑢 > 𝜆𝜋 si ha che viene data più importanza al problema della
disoccupazione che all'inflazione.

Dal punto di vista degli strumenti di politica economica, immaginiamo inoltre che utilizzando adeguate
politiche monetarie sia possibile ridurre la disoccupazione ma solo al costo di incrementare il tasso di
inflazione. In pratica, si immagina che aumentando la quantità di moneta presente in un’economia sia
possibile indurre gli individui a consumare di più e, conseguentemente, le imprese ad assumere più
lavoratori, riducendo la disoccupazione. Contemporaneamente però, la maggiore moneta e la maggiore
domanda spingerà le imprese ad incrementare i prezzi, generando inflazione. Questo meccanismo può

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essere espresso, in forma semplificata, tramite la seguente relazione fra tasso di inflazione e tasso di
disoccupazione:

𝜋 = 𝑏 ∙ (𝑢𝑛 − 𝑢) (2)

dove b>0 e 𝑢𝑛 è il tasso di disoccupazione che garantirebbe un tasso di inflazione pari a 0. Il valore 𝑢𝑛
dipende dalla struttura dell'economia e non dalle preferenze. Tale relazione è il frutto dell’analisi teorica,
quantitativa e macroeconomica e, in genere, non è influenzata da giudizi di valore o politici. Nel caso
particolare qua esemplificato, la relazione fra tasso di disoccupazione rappresentata dalla (2) è nota come
curva di Phillips

In questo modello l'obbiettivo ottimo del policy-maker, in termini di inflazione e disoccupazione viene
ottenuto minimizzando la funzione di perdita espressa dalla (1) sotto il vincolo rappresentato dalla (2).

1.2.1. La risoluzione del modello


Per risolvere tale problema operiamo qualche piccola semplificazione che semplificherà l’esposizione ma
non altererà le conclusioni che raggiungeremo.

In particolare, con riferimento alla (1), ipotizziamo che 𝜆𝜋 =1. In pratica stiamo normalizzando ad 1 il
parametro che rappresenta il peso attribuito ai danni generati dall’inflazione: in seguito a tale
normalizzazione si avrà che: se 𝜆𝑢 >1, viene data più importanza a u rispetto a 𝜋; 𝜆𝑢 <1 , viene data meno
importanza a u rispetto a 𝜋; se 𝜆𝑢 =1 , viene data pari importanza a u e a 𝜋.

Assumiamo inoltre che 𝜋̅=𝑢̅=0 ovvero, presi singolarmente, sarebbe auspicabile portare a 0 sia il tasso di
disoccupazione che di inflazione. Date queste ipotesi la funzione di perdita risulta quindi:

𝐿 = (𝜋)2 + 𝜆𝑢 ∙ (𝑢)2 (3)

La soluzione del problema di ottimo è quindi data dalla minimizzazione della (3) rispetto a u e sotto il
vincolo rappresentato dalla (2). Ovvero la soluzione è ottenuta risolvendo il seguente sistema:

min(𝜋)2 + 𝜆𝑢 ∙ (𝑢)2
{ 𝑢,𝜋 (4)
𝑠. 𝑣. 𝜋 = 𝑏 ∙ (𝑢𝑛 − 𝑢)

Poiché 𝜋 dipende direttamente da u possiamo inserire direttamente il vincolo nella funzione da


minimizzare (che chiameremo adesso Lv) e il problema da risolvere diviene

min[𝑏 ∙ (𝑢𝑛 − 𝑢)]2 + 𝜆𝑢 ∙ (𝑢)2 . (5)


𝑢

Derivando rispetto a u e ponendo uguale a zero otteniamo:

𝜕𝐿𝑣⁄ = −2𝑏 2 ∙ (𝑢 − 𝑢) + 2𝜆 ∙ 𝑢=0. (6)


𝜕𝑢 𝑛 𝑢

Da cui otteniamo

−2𝑏 2 ∙ (𝑢𝑛 − 𝑢) + 2𝜆𝑢 ∙ 𝑢 = 0 (6a)

(𝑏 2 + 𝜆𝑢 ) ∙ 𝑢 = 𝑏 2 ∙ 𝑢𝑛 . (6b)

Da cui si ottiene l’obbiettivo ottimo in termini del tasso di disoccupazione.


3
𝑢
𝑢∗ = 1+𝜆 𝑛/𝑏2 (7)
𝑢

Si noti che, dato il valore ottimo del tasso di disoccupazione 𝑢∗ è immediatamente possibile ottenere il
valore ottimo del tasso di inflazione 𝜋 ∗ sfruttando il vincolo macroeconomico (dato, in questo caso, dalla
curva di Phillips).

Il risultato in termini di tasso di disoccupazione ottimale mostra che tale tasso è tanto più basso tanto più
alta è l’importanza che viene attribuito alla disoccupazione stessa, importanza rappresentata in questo
modello dal parametro 𝜆𝑢 . Inoltre, tale valore dipende anche dai parametri 𝑢𝑛 ed b che dipendono dalla
struttura dell’economia e che determinano, effettivamente, il vincolo macroeconomico. Inoltre tale valore
è strettamente maggiore di zero e quindi si discosta dal valore 𝑢̅=0 che il governo riteneva auspicabile: in
pratica, anche se singolarmente il governo riteneva auspicabile 𝑢̅=0 una volta preso atto dei vincoli
macroeconomici il governo avrà come obiettivo un tasso di disoccupazione diverso da 𝑢̅=0.

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2 IL MODELLO KEYNESIANO, IL GETTITO FISCALE E LE
POLITICHE FISCALI
2.1 Il modello Keynesiano in presenza di gettito fiscale
Sviluppiamo il modello Keynesiano classico inserendo in maniera esplicita il gettito fiscale che lo stato
ottiene imponendo tasse e imposte ai cittadini. Manteniamo intatte alcune delle ipotesi cardine di questo
modello, ovvero: i) il livello generale dei prezzi P è fisso, ii) gli investimenti I sono determinati in maniera
esogena e iii) le imprese, al livello dei prezzi fisso a P, sono disposte a soddisfare tutta la domanda
aggregata.

Si supponga che lo stato possa esigere dai cittadini un gettito fiscale complessivo pari a T. Per semplicità
consideriamo il caso in cui tale gettito sia dato da una somma fissa e non dipenda dal reddito dei cittadini
stessi. Data la presenza di una tassazione pari a T, i cittadini non possono utilizzare l’intero reddito a loro
disposizione (Y) ma soltanto una parte di essa. In particolare la parte di reddito che rimane dopo aver
pagato le imposte T viene definito reddito disponibile (YD). Conseguentemente

𝑌𝐷 = 𝑌 − 𝑇 (1)

Il consumo C degli individui e delle famiglie dipende quindi da YD e non da Y. In particolare:

𝐶 = 𝐶 0 + 𝑐𝑌𝐷 (2)

Dove C0 è il consumo autonomo e c è la propensione al consumo (che per definizione è minore di 1). Di
conseguenza,

𝐶 = 𝐶 0 + 𝑐(𝑌 − 𝑇) (3)

Inoltre, in maniera analoga al caso senza gettito fiscale, la domanda aggregata A è pari (in economia
chiusa) a:

𝐴=𝐶+𝐼+𝐺 (4)

dove I sono gli investimenti effettuati dalle imprese e G è la spesa pubblica. In questo semplice modello
ipotizziamo che gli investimenti siano fissi ed esogeni. Combinando l’equazione (3) e l’equazione (4) si ha:

𝐴 = 𝐶 0 + 𝑐(𝑌 − 𝑇) + 𝐼 + 𝐺 (4a)

Infine, le imprese offrono una produzione Y in grado di soddisfare esattamente la domanda aggregata,
ovvero:

𝑌=𝐴 (5)

Combinando le equazioni (4a) e (5) si ha

𝑌 = 𝐶 0 + 𝑐(𝑌 − 𝑇) + 𝐼 + 𝐺 (6)

e ricombinando:

5
1
𝑌=( )∙ (𝐶 0 − 𝑐𝑇 + 𝐼 + 𝐺) (7)
1−𝑐

L’equazione 6 determina il reddito di equilibrio del sistema. Per evitare confusione nella notazione
indichiamo con YE il reddito di equilibrio e, di conseguenza:

1
𝑌𝐸 = (1−𝑐) ∙ (𝐶 0 − 𝑐𝑇 + 𝐼 + 𝐺) (8)

2.1.1 Il bilancio pubblico


In maniera molto schematica, il bilancio pubblico BP può essere sintetizzato dalla differenza fra il gettito
fiscale T e le spesa pubblica per beni e servizi (G) e per trasferimenti (TR). Nella nostra analisi non
consideriamo i trasferimenti che possono quindi essere posti a zero. Di conseguenza,

𝐵𝑃 = 𝑇 − 𝐺 − 𝑇𝑅 = 𝑇 − 𝐺 (9)

Ne consegue che se 𝑇 < 𝐺 le spese pubbliche superano le entrate e di conseguenza si genera un deficit
pubblico che porta alla formazione di debito pubblico. Al contrario, se T>G si ha un avanzo pubblico e una
riduzione dell’eventuale debito pubblico pregresso.

2.2 Una semplice analisi delle politiche fiscali


Il governo (o l’autorità di politica economica responsabile delle politiche fiscali) può intervenire facendo
variare sia la spesa pubblica G che il gettito fiscale T. Vogliamo analizzare gli effetti di questi interventi sul
reddito di equilibrio.

Prima di iniziare occorre precisare che, in questa sede, ci limitiamo ad analizzare gli effetti che queste
politiche hanno tramite l’impatto sulla domanda aggregata. Non analizziamo invece l’effetto che la specifica
spesa o prelievo fiscale può avere condizionando, nel merito, il funzionamento dell’economia. Forniamo un
esempio per chiarire questo aspetto. Si supponga che il governo aumenti la spesa per i servizi sanitari
acquistando nuovi ospedali e mettendoli a disposizione della popolazione. Questa manovra ha due effetti:
in primo luogo la domanda aggregata aumenta (poiché è richiesta la costruzione di nuovi ospedali); in
secondo luogo i cittadini ricevono più servizi sanitari il che li renderà più sani e, potenzialmente, potrebbe
modificare il funzionamento dell’economia (ad esempio, cittadini più sani, potrebbero essere più
produttivi). In questa sede ci occupiamo unicamente del primo effetto. Per questa ragione le politiche che
trattiamo in questa sede, prendono anche il nome di politiche di sostegno della domanda. Il loro effetto,
infatti si esplica unicamente nel condizionare la domanda aggregata.

2.2.1 Le politiche fiscali espansive


Con politiche fiscali espansive si intendono quelle politiche che mirano ad incrementare la domanda
aggregata e tramite questa, il reddito. Possono prendere la forma di un aumento della spesa pubblica per
bene o servizi (G) o una riduzione del gettito fiscale (T). Per completezza, anche l’aumento dei trasferimenti
TR costituisce una politica espansiva ma, in questa sede, non la tratteremo.

Vediamo di analizzare i due interventi. In caso di aumento di G possiamo ottenere il suo effetto sulla
domanda aggregata derivando l’equazione (4a):

6
0 +𝑐(𝑌−𝑇)+𝐼+𝐺]
𝜕𝐴⁄ = 𝜕[𝐶 =1 (10)
𝜕𝐺 𝜕𝐺

Ovvero, ogni aumento della spesa pubblica produce un pari aumento nella domanda aggregata.

L’impatto sul reddito di equilibrio si ottiene derivando l’equazione del reddito di equilibrio (8) rispetto alla
spesa pubblica:
1 0
𝜕𝑌 𝐸⁄ = 𝜕[(1−𝑐)∙(𝐶 −𝑐𝑇+𝐼+𝐺)] = ( 1 ) (11)
𝜕𝐺 𝜕𝐺 1−𝑐

Poiché c<1, ogni aumento della spesa pubblica produce un aumento maggiore sul reddito di equilibrio. Ciò
è dovuto all’effetto moltiplicatore. In pratica, l’aumento della spesa pubblica fa aumentare la domanda
aggregata, l’aumento della domanda aggregata fa aumentare il reddito e l’aumento del reddito fa
aumentare a sua volta i consumi privati (che dipendono infatti dal reddito) che fanno aumentare la
domanda aggregata e cosi’ via. In pratica si innesca, appunto, un effetto moltiplicatore. Si noti inoltre che
l’effetto moltiplicatore è tanto maggiore quanto maggiore è c.

L’aumento di G provoca però un peggioramento del bilancio pubblico BP¸ col rischio di generare debito
pubblico.

Trattiamo ora la riduzione del gettito fiscale T. Il suo effetto sulla domanda aggregata è dato derivando
l’equazione (4a) rispetto a T:
0 +𝑐(𝑌−𝑇)+𝐼+𝐺]
𝜕𝐴⁄ = 𝜕[𝐶 = −𝑐 (12)
𝜕𝑇 𝜕𝐺

Si noti che l’effetto di una riduzione di T è positivo (T si riduce e la derivata di cui sopra è negativa) ma, dato
che c<1 è minore in valore assoluto dell’effetto che aveva un aumento della spesa pubblica. Cioè dovuto al
fatto che in seguito alla riduzione del gettito fiscale il reddito disponibile aumenta, ma solo una parte c di
tale aumento sarà effettivamente tramutato in consumi e quindi in domanda aggregata.

L’impatto sul reddito di equilibrio si ottiene derivando l’equazione del reddito di equilibrio (8) rispetto alla
tassazione:
1 0
𝜕𝑌 𝐸⁄ = 𝜕[(1−𝑐)∙(𝐶 −𝑐𝑇+𝐼+𝐺)] = − ( 𝑐 ) (13)
𝜕𝑇 𝜕𝐺 1−𝑐

Una riduzione del gettito fiscale ha quindi un effetto positivo (la derivata è negativa e T si riduce) sul
reddito di equilibrio e tale effetto è necessariamente inferiore, in valore assoluto, rispetto al moltiplicatore
della spesa pubblica ottenuto nell’equazione (11).

In maniera analoga al caso della spesa pubblica, la riduzione di T provoca però un peggioramento del
bilancio pubblico BP¸ col rischio di generare debito pubblico.

Concludendo, le politiche fiscali espansive sostengono e incrementano la domanda, fanno aumentare il


reddito di equilibrio (e l’’occupazione) ma peggiorano il bilancio pubblico eventualmente generando debito.

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2.2.2 Le politiche fiscali restrittive
Con politiche fiscali espansive si intendono quelle politiche che mirano a ridurre la domanda aggregata e
tramite questa, il reddito. Possono prendere la forma di una riduzione della spesa pubblica per beni o
servizi (G) o un aumento del gettito fiscale (T).

L’analisi di tale politiche è analoga a quella delle loro controparti espansive. In particolare dall’equazione
(11) si evince che una riduzione della spesa pubblica produce una riduzione ancor maggiore del reddito di
equilibrio.

L’equazione (12) invece, ci permette di affermare che un aumento del gettito fiscale riduce il reddito di
equilibrio.

Ovviamente, poiché in questi casi G si riduce oppure T aumenta osserviamo un miglioramento del bilancio
pubblico BP ed, eventualmente, una riduzione del debito pubblico.

2.2.3 Le politiche fiscali in pareggio


Un’altra possibilità di intervento consiste di promuovere un incremento della spesa pubblica per beni e
servizi finanziandola completamente con l’incremento del gettito fiscale. Tale manovra permette di
mantenere invariato il bilancio pubblico evitando quindi di accumulare ulteriore debito pubblico.

Vediamo gli effetti di tale manovra. Si supponga di incrementare la spesa pubblica di una quantità pari a ∆𝐺
e, contemporaneamente di aumentare il gettito fiscale di un equivalente ammontare ∆𝑇: ovvero

∆𝐺 = ∆𝑇 (14)

Ovviamente una simile manovra lascia invariato il bilancio pubblico BP.

In seguito all’aumento della spesa pubblica ∆𝐺 osserviamo un aumento del reddito pari al prodotto fra ∆𝐺
e il moltiplicatore della spesa pubblica (11). Contemporaneamente l’aumento della tassazione ∆𝑇 produce
una riduzione del reddito pari al prodotto fra ∆𝑇 e il moltiplicatore del gettito fiscale (13).
Complessivamente, la variazione del reddito di equilibrio ∆𝑌 𝐸 è dato dalla somma di questi due effetti,
quindi:
𝐸 𝐸 1 𝑐
∆𝑌 𝐸 = 𝜕𝑌 ⁄𝜕𝐺 ∙ ∆𝐺 + 𝜕𝑌 ⁄𝜕𝑇 ∙ ∆𝑇 = (1−𝑐) ∙ ∆𝐺 − (1−𝑐) ∙ ∆𝑇

Poiché la manovra è in pareggio, vale la condizione (14) e quindi otteniamo

1−𝑐
∆𝑌 𝐸 = (1−𝑐) ∙ ∆𝐺 = ∆𝐺 > 0 (15)

Ovvero il reddito di equilibrio aumenta e il bilancio pubblico rimane invariato!

2.3 Alcuni limiti delle politiche fiscali a sostegno del reddito


In quanto visto fino ad ora sembrerebbe che le politiche a sostegno della domanda siano in grado di
produrre incrementi di reddito e occupazione in maniera continua. Da questo punto di vista,

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sembrerebbero essere quindi una panacea contro le crisi economiche senza prevedere alcuna forma di
controindicazione.

Occorre tuttavia sottolineare alcuni limiti sui quali non sempre ci siamo soffermati ma che risultano impliciti
nella struttura stessa dell’economia.

In primo luogo, come abbiamo già rilevato, le politiche fiscali espansive producono un peggioramento del
bilancio pubblico, incrementano il deficit pubblico e spingono verso l’alto il debito pubblico. Di conseguenza
tali politiche possono essere utilizzate soltanto accumulando debito, un fattore che potrebbe produrre
conseguenze negative nei periodi futuri.

Tuttavia abbiamo notato che le politiche fiscali in pareggio sono in grado di incrementare il reddito senza
peggiorare il bilancio pubblico: hanno quindi tutti i vantaggi delle politiche fiscali espansive senza averne la
principale controindicazione. Occorre quindi domandarci se ci possono essere dei limiti all’utilizzo e
all’efficacia di questa forma di intervento ed in particolare esistono almeno tre principali meccanismi che
potrebbe limitare tale efficacia:

- Un eccessivo livello di tassazione potrebbe avere effetti negativi sulla produzione. In questa analisi
avevamo espressamente detto che non avremmo preso in considerazione gli effetti diretti di spesa
pubblica e gettito ma, se lo avessimo fatto, un’eccessiva pressione fiscale potrebbe disincentivare
imprese e lavoratori a produrre e far quindi ridurre la produzione.

- Esiste un limite fisico all’occupazione e, quindi, alla produzione. Una volta che tutti i lavoratori
risultano occupati infatti, non è possibile spingere oltre la produzione e, se la domanda fosse
ulteriormente stimolata risulterebbe impossibile soddisfarla

- Nella nostra trattazione abbiamo ipotizzato che le imprese desiderino soddisfare tutta la domanda
ma è possibile che questo non sia il caso. In particolare in presenza di volumi di domanda sempre
più elevata i costi delle imprese potrebbero aumentare e, a parità di livello di prezzo, le imprese
potrebbero trovare non più conveniente soddisfare la domanda.

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3 La relazione fra disoccupazione e inflazione: la curva di
Phillips
L’analisi delle politiche economiche effettuata tramite il modello AD-AS mette in luce la possibilità di
influenzare il livello del reddito e di occupazione solo a patto di produrre delle variazioni nel livello generale
dei prezzi. Per la verità abbiamo notato come questa effettiva possibilità dipenda dalle aspettative sui
prezzi e, in presenza di qualche imperfezione in tali aspettative, abbiamo concluso che politiche monetarie
e fiscali espansive incrementano il livello del reddito, riducono il tasso di disoccupazione ed incrementano il
livello generale dei prezzi. Tale incrementi possono essere temporanei o prolungati nel tempo a seconda
dei meccanismi di adeguamento delle aspettative. In ogni caso, l’incremento del livello dei prezzi genera
quindi inflazione e, a un livello ancora generico, possiamo affermare che le politiche economiche sono in
grado di ridurre il tasso di disoccupazione al costo di produrre inflazione.

Riassumendo, le conclusioni a cui giungiamo dall’analisi del modello AD-AS ci permettono di dire che: i)
sembra esistere una relazione inversa fra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione, ii) la natura esatta di
tale relazione sembra dipendere dal modo in cui le aspettative sul livello dei prezzi si formano e iii) le
politiche economiche sono in grado di sfruttare tale relazione determinando il tasso di disoccupazione e, di
conseguenza, il tasso di inflazione.

La relazione che abbiamo descritto fra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione prende il nome di curva
di Phillips, dal nome dell’economista inglese (neo-zelandese di nascita) che per primo rilevò empiricamente
tale relazione. Nel proseguo di questo capitolo deriveremo analiticamente tale relazione e mostreremo
come essa dipenda strettamente dal modo in cui le aspettative sui prezzi si formano.

Procederemo quindi a derivare analiticamente la curva di Phillips prestando particolare attenzione al ruolo
che le aspettative dei prezzi hanno nella sua derivazione. In quanto segue forniremo la derivazione per due
casi: nel primo le aspettative sono di tipo statico adattivo, nel secondo le aspettative sono di tipo
accelerativo.

3.1 La Curva di Phillips sotto l’ipotesi aspettative adattive statiche


Supponiamo inizialmente che le aspettative siano statiche ovvero che gli agenti economici si aspettino che
il livello dei generali dei prezzi al tempo t sia identico al livello generale dei prezzi del periodo precedente.
In pratica assumiamo che

𝑃𝑒 = 𝑃𝑡−1 (1)

Dove appunto 𝑃𝑒 sono le aspettative sui prezzi al tempo t e 𝑃𝑡−1 è il livello dei prezzi effettivamente
osservato nel periodo t-1. Secondo tale ipotesi gli agenti non prevedono mai dei cambiamenti nel livello
generale dei prezzi e si rendono conto di tali cambiamenti solamente quando essi si sono già verificati,
incorporando poi tali cambiamenti nelle aspettative future.

Incorporiamo adesso l’ipotesi espressa nell’equazione (1) all’interno del modello di AD-AS. In particolare in
tale modello avevamo che la curva di offerta delle imprese (curva AS), in un dato periodo t, era:

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𝑃𝑡 = 𝑃𝑒 ∙ (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (2)

dove 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) è una funzione decrescente del tasso di disoccupazione ut, mentre z e h sono parametri che
misurano rispettivamente la forza contrattuale del sindacato ed il potere di mercato delle imprese.

Incorporando l’ipotesi contenuta in (1) nell’equazione (2) otteniamo

𝑃𝑡 = 𝑃𝑡−1 ∙ (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (3)

da cui
𝑃𝑡
𝑃𝑡−1
= (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (4)

𝑃𝑡 −𝑃𝑡−1 𝑃𝑡
Possiamo adesso sfruttare la definizione di tasso di inflazione 𝜋𝑡 = 𝑃𝑡−1
=𝑃 − 1 per riscrivere la (4)
𝑡−1
nel seguente modo:

𝜋𝑡 = (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) − 1 (5)

Che rappresenta a tutti gli effetti la curva di Phillips, ovvero una relazione negativa fra tasso di
disoccupazione e tasso di inflazione. In pratica, secondo tale relazione ogni livello di tasso di disoccupazione
implica direttamente un certo tasso di inflazione. Di conseguenza, le autorità di politica monetaria possono
a questo punto incidere sulla domanda aggregata (la curva AD) attraverso politiche monetarie e fiscali
espansive: questo determinerà un certo livello del tasso di disoccupazione e, automaticamente, un certo
tasso di inflazione.

Un punto particolare della curva di Phillips così derivata è rappresentato da 𝜋 = 0 , ovvero la situazione in
cui non vi è inflazione. In tale situazione abbiamo ovviamente che 𝑃𝑡 = 𝑃𝑡−1 e, di conseguenza, questo è
l’unico caso in cui, sotto l’ipotesi di aspettative statiche adattive tali aspettative risultano corrette. In tale
situazione, dall’equazione (5) otteniamo che:
1
𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) = 1+ℎ. (6)

Definiamo quindi 𝑢𝑁𝐼 come quel tasso di disoccupazione per cui l’equazione 6 risulta verificata e il tasso di
inflazione è pari a zero. In pratica:

1
𝑢𝑁𝐼 = 𝑓 −1 (1+ℎ |𝑧) (7)

Si noti che, sotto l’ipotesi di adattive statiche, il tasso 𝑢𝑁𝐼 (ovvero il tasso di disoccupazione che rende
l’inflazione pari a 0) coincide col tasso 𝑢𝑛 (la disoccupazione naturale) ma al di fuori di tale ipotesi, i due
livelli di disoccupazione non necessariamente coincidono.

3.1.1 Una rappresentazione lineare della curva di Phillips


L’equazione (5) descrive una versione della curva di Phillips che si basa sulla funzione 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧). Qua di
seguito vogliamo invece rielaborare l’equazione (5) per ottenerne una formalizzazione più semplice e per
mostrare poi che, ovviamente, la curva può essere anche espressa come una relazione fra inflazione e
reddito (dato che vi è una relazione inversa fra reddito e disoccupazione). Nella rielaborazione, sfruttiamo il
fatto che per definizione di tasso naturale di disoccupazione 𝑢𝑁 abbiamo che 1/𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧) = 1 + ℎ e se
inseriamo questa nella (5) otteniamo
11
𝑓(𝑢𝑡 ,𝑧)
1 + 𝜋𝑡 = (8)
𝑓(𝑢𝑁 ,𝑧)

Convertiamo in logaritmi la parte destra e sinistra ottenendo

𝑓(𝑢 ,𝑧)
𝑙𝑜𝑔(1 + 𝜋𝑡 ) = log 𝑓(𝑢 𝑡 ,𝑧) (9)
𝑁

E sfruttando le proprietà dei logaritmi (per valori piccoli di qualunque x si ha che 𝑙𝑜𝑔(1 + 𝑥) ≅ 𝑥).

𝜋𝑡 = log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) − log 𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧). (10)

Al fine di semplificare ulteriormente definiamo log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) = 𝛼𝑌𝑡 , ovvero esplicitiamo il fatto che
log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) sia una semplice funzione lineare crescente del reddito aggregato. Otteniamo quindi

𝜋𝑡 = 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) (11)

L’equazione (11) costituisce una rappresentazione lineare della curva di Phillips costruita sotto l’ipotesi di
aspettative statico adattive.

3.2 La Curva di Phillips sotto l’ipotesi di aspettative accelerative


Supponiamo adesso che gli agenti economici si aspettino effettivamente che il livello generali dei prezzi
possa variare e che, in particolare, formulino le aspettative immaginando che la variazione percentuale del
livello dei prezzi sia pari alla variazione osservata nel periodo precedente. In pratica, prevedono che il tasso
di inflazione corrente sia pari al tasso di inflazione osservato nel periodo precedente. Formalmente
abbiamo che:

𝑃𝑒 = 𝑃𝑡−1 ∙ (1 + 𝜋𝑡−1 ) (12)

Dove anche in questo caso 𝑃𝑒 sono le aspettative sui prezzi al tempo t, 𝑃𝑡−1 è il livello dei prezzi
effettivamente osservato nel periodo t-1 e 𝜋𝑡−1 il tasso di inflazione registrato nel periodo t-1. Secondo tale
ipotesi gli agenti prevedono quindi che il livello dei prezzi vari, ma credono che tale variazione sia costante
nel tempo, salvo poi rivedere le loro aspettative una volta che osservano una variazione nel tasso di
inflazione.

Incorporiamo adesso l’ipotesi espressa nell’equazione (12) all’interno del modello di AD-AS ed in
particolare nella equazione della curva AS (equazione 2). Otteniamo quindi:

𝑃𝑡 = 𝑃𝑡−1 ∙ (1 + 𝜋𝑡−1 ) ∙ (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (13)

da cui
𝑃𝑡
𝑃𝑡−1
= (1 + 𝜋𝑡−1 ) ∙ (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (14)

Possiamo adesso sfruttare la definizione di tasso di inflazione otteniamo:

𝜋𝑡 = (1 + 𝜋𝑡−1 ) ∙ (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) − 1 (15)

12
Che rappresenta a tutti gli effetti la curva di Phillips aumentata con le aspettative sul tasso di inflazione
(infatti, 𝜋 𝑒 = 𝜋𝑡−1 ). Si noti che tale curva dipende direttamente dal tasso di inflazione osservato nel
periodo precedente e, quindi, scostamenti del tasso di inflazione corrente da quello passato provocano
direttamente delle traslazioni verso l’alto. Anche in questo caso le politiche fiscali e monetarie possono
influire (tramite la curva AD) sul tasso di disoccupazione: in questo caso però non solo generano inflazione
ma innescano anche una revisione verso l’alto dell’inflazione stessa, rischiando di generare, quindi spirali di
inflazione esplosive.

Esiste un solo caso in cui viene garantita l’invarianza nel tempo del tasso di inflazione e che impedisce
quindi a questa versione della curva di Phillips di continuare a traslare. L’invarianza nel tempo
dell’inflazione prevede infatti che 𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 e quindi che il tasso di inflazione coincida con quello atteso. In
particolare, in tale evenienza otteniamo che
1
𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) = . (16)
1+ℎ

Il tasso di disoccupazione che garantisce tale equivalenza è noto come Non-accelerating-inflation-rate-of-


unemployment (NAIRU) ed è il tasso di disoccupazione che garantisce l’invarianza nel tempo del tasso di
inflazione. Se definiamo con 𝑢𝑁𝐴𝐼 tale tasso abbiamo che

1
𝑢𝑁𝐴𝐼 = 𝑓 −1 (1+ℎ |𝑧). (17)

Si noti che, numericamente, 𝑢𝑁𝐴𝐼 ottenuto sotto l’ipotesi di aspettative accelerative è equivalente a 𝑢𝑁𝐼
ottenuto sotto l’ipotesi di aspettative adattive statiche (si veda equazione 7). La differenza tuttavia sta nel
1
fatto che per tale valore 𝑓 −1 (1+ℎ |𝑧) del tasso di disoccupazione abbiamo che: i) sotto l’ipotesi di
aspettative adattive statiche, il tasso di inflazione è pari a 0, ii) sotto l’ipotesi di aspettative accelerative, il
tasso di inflazione è costante ma può assumere qualunque valore.

Chiudiamo adesso l’analisi mostrando qual è il livello di disoccupazione che garantisce, sotto l’ipotesi di
aspettative accelerative, un tasso di inflazione pari a 0. Poniamo quindi 𝜋𝑡 = 0 nell’equazione 11 e
otteniamo:
1
𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) = (1+𝜋 (18)
𝑡−1 )∙(1+ℎ)

Tale condizione determina quindi il tasso di disoccupazione non inflattivo che risulta essere

1
𝑢𝑁𝐼 = 𝑓 −1 ((1+𝜋 |𝑧). (19)
𝑡−1 )∙(1+ℎ)

Si noti che tale tasso è diverso da quello calcolato sotto l’ipotesi di aspettative adattive statiche e che, in
questo caso, il tasso di disoccupazione non inflattivo dipende dal tasso di inflazione del periodo precedente.

3.2.1 Una rappresentazione lineare della curva di Phillips


L’equazione (15) descrive una versione della curva di Phillips che si basa sulla funzione 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) e sul tasso
di inflazione del periodo precedente. Qua di seguito vogliamo invece rielaborare l’equazione (15) per
ottenerne una formalizzazione più semplice e per mostrare poi che, ovviamente, la curva può essere anche
espressa come una relazione fra inflazione e reddito (dato che vi è una relazione inversa fra reddito e
13
disoccupazione). Nella rielaborazione, sfruttiamo il fatto che per definizione di tasso naturale di
disoccupazione 𝑢𝑁 abbiamo che 1/𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧) = 1 + ℎ e se inseriamo questa nella (15) otteniamo

𝑓(𝑢 ,𝑧)
1 + 𝜋𝑡 = (1 + 𝜋𝑡−1 ) ∙ 𝑓(𝑢 𝑡 ,𝑧) (20)
𝑁

Convertiamo in logaritmi la parte destra e sinistra ottenendo

𝑓(𝑢 ,𝑧)
𝑙𝑜𝑔(1 + 𝜋𝑡 ) = 𝑙𝑜𝑔(1 + 𝜋𝑡−1 ) + log 𝑓(𝑢 𝑡 ,𝑧) (21)
𝑁

E sfruttando le proprietà dei logaritmi (per valori piccoli di qualunque x si ha che 𝑙𝑜𝑔(1 + 𝑥) ≅ 𝑥).

𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 + log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) − log 𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧). (22)

Al fine di semplificare ulteriormente definiamo log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) = 𝛼𝑌𝑡 , ovvero esplicitiamo il fatto che
log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) sia una semplice funzione lineare crescente del reddito aggregato. Otteniamo quindi

𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) (23)

L’equazione (23) costituisce una rappresentazione lineare della curva di Phillips costruita sotto l’ipotesi di
aspettative accelerative.

3.3 Un confronto fra tasso naturale di disoccupazione, tasso non


inflattivo e tasso non accelerativo
Richiamiamo ora l’attenzione su tre valori particolari del tasso di disoccupazione che nell’ambito della
relazione fra disoccupazione e inflazione sono particolarmente importanti.

Il tasso naturale di disoccupazione è quel tasso di disoccupazione per il quale il livello corrente dei prezzi
risulta essere pari al livello atteso: di conseguenza, le aspettative sono realizzate. Si noti che questo caso è
compatibile con qualunque meccanismo di formazione delle aspettative.

Il tasso di disoccupazione non inflattivo è quel tasso che garantisce un tasso di inflazione pari a 0: risulta
evidente che

- nel caso di aspettative statico adattive il tasso non inflattivo è pari al tasso naturale, infatti quando
l’inflazione è pari a 0 il livello dei prezzi risulta pari a quello del periodo precedente e, quindi, le
aspettative statico adattive risultano essere corrette.
- nel caso di aspettative accelerative il tasso non inflattivo può assumere qualunque valore e dipende
dai valori passati. In genere, sotto queste aspettative, il tasso non inflattivo non coincide con quello
naturale se non in un caso particolare: quando il tasso di inflazione precedente risulta pari a 0.

Il tasso di disoccupazione non accelerativo (NAIRU in inglese) è quel tasso che garantisce un tasso di
inflazione che si mantiene costante nel tempo. Sotto l’ipotesi di aspettative accelerative il tasso non
accelerativo è pari a quello naturale, infatti se il tasso di inflazione risulta costante allora l’inflazione
corrente è pari a quella del periodo precedente e, quindi le aspettative accelerative risultano essere
corrette.

14
4. Concorrenza imperfetta e salario reale determinato
dall’impresa
Nella presente sezione intendiamo analizzare come viene a generarsi l’offerta di beni e servizi e come,
tramite questa, si determini il prezzo di offerta e come tale prezzo determini anche, implicitamente, il
salario reale. L’assunto di partenza è che nel mercato dei beni operino una moltitudine di imprese identiche
che vendono i loro prodotti in regime di concorrenza imperfetta e, in particolare, di concorrenza
monopolistica. Partiremo quindi dall’analizzare il comportamento della singola impresa e dopo di che
ricaveremo l’equilibrio aggregato.

4.1 Il comportamento della singola impresa


Supponiamo che nel mercato dei beni operino una moltitudine di imprese identiche che operano in un
regime di concorrenza monopolistica producendo i loro beni utilizzando unicamente il fattore lavoro. Tali
imprese sono identiche fra loro come struttura e tecnologia produttiva ma producono dei beni lievemente
differenziati. Si pensi ad esempio al mercato dell’abbigliamento, della ristorazione, dei vini: all’interno di
ognuno di questi mercati i beni venduti sono fondamentalmente gli stessi eppure ogni singola impresa
produce un bene che è lievemente diverso da quello dei concorrenti. Queste differenze nei beni attribuisce
un certo potere di mercato ad ogni impresa produttrice: in pratica, un lieve aumento di prezzo da parte di
un’impresa non si traduce automaticamente nella perdita di tutti i suoi clienti (come accadrebbe in
concorrenza perfetta). Ad esempio, se un’impresa che produce un certo tipo di vino dovesse aumentare il
prezzo di vendita ci sarebbero dei consumatori che, amando in particolare quel tipo di vino,
continuerebbero a comprarlo.

Dal punto di vista analitico questa situazione può essere espressa tramite la seguente funzione di domanda
individuale (ovvero la quantità 𝑌𝑖 che viene domandata ogni impresa i):

𝑌𝑖 = 𝑝𝑖−𝜀 (1)

Dove 𝑝𝑖 = 𝑃𝑖 /𝑃 è il prezzo relativo del bene i (𝑃𝑖 è il prezzo nominale di tale bene e P è il livello generale dei
prezzi) e 𝜀>1 è l’elasticità della domanda rispetto al prezzo. Si noti che quando 𝑃𝑖 ≠ 𝑃 tale domanda non
risulta zero e quindi le imprese possono, se lo desiderano, fissare appunto un livello dei prezzi diverso da
quello prevalente (cosa che invece non possono di fatto fare in concorrenza perfetta).

Sulla base di tale domanda individuale ogni impresa andrà quindi a scegliere il prezzo che massimizza il loro
profitto reale 𝜋𝑖 . Supponendo che il lavoro 𝑁𝑖 sia l’unico fattore impiegato nella produzione (per cui 𝑁𝑖 =
𝑁(𝑌𝑖 )) e che 𝑤𝑖 sia il salario reale a cui tale lavoro viene retribuito, abbiamo che il profitto reale è dato da:

𝜋𝑖 = 𝑝𝑖 𝑌𝑖 − 𝑤𝑖 𝑁(𝑌𝑖 ). (2)

Sulla base di tale profitto reale le imprese vanno a scegliere il livello dei prezzi 𝑝𝑖 che massimizza il profitto.
Tenendo presente che la domanda 𝑌𝑖 dipende dal prezzo stesso secondo quanto descritto dalla (1),
possiamo riscrivere la (2) nel seguente modo

𝜋𝑖 = 𝑝𝑖1−𝜀 − 𝑤𝑖 𝑁(𝑌𝑖 ) (3)

15
e procedere quindi a massimizzare rispetto a 𝑝𝑖 ottenendo la seguente condizione di ottimo:

𝜕𝜋𝑖 𝜕𝑁𝑖 𝜕𝑌𝑖


= (1 − 𝜀)𝑝𝑖−𝜀 − 𝑤𝑖 =0 (4)
𝜕𝑝𝑖 𝜕𝑌𝑖 𝜕𝑝𝑖

Si noti che la condizione sopra esposta prende atto che il lavoro impiegato dipende dalla produzione
effettuata e che questa, a sua volta, dipende dal prezzo applicato dall’impresa. Sviluppando la (4)
otteniamo

𝜕𝜋𝑖 𝜀𝑤𝑖 𝑝𝑖−𝜀−1


𝜕𝑝𝑖
= (1 − 𝜀)𝑝𝑖−𝜀 + 𝜕𝑌𝑖 ⁄𝜕𝑁𝑖
=0 (4a)

da cui
𝜀 1
𝑝𝑖 = 𝜀−1 𝑤𝑖 𝜕𝑌 ⁄𝜕𝑁 (5)
𝑖 𝑖

1
Dove, chiaramente, 𝜕𝑌𝑖 ⁄𝜕𝑁𝑖 rappresenta la produttività marginale del lavoro e 𝑤𝑖 𝜕𝑌 ⁄𝜕𝐿 misura il costo
𝑖 𝑖
𝜀
marginale del lavoro. Possiamo riscrivere 𝜀−1
≡ 1 + ℎ ed ottenere

1
𝑝𝑖 = (1 + ℎ)𝑤𝑖 𝜕𝑌 ⁄𝜕𝑁 (6)
𝑖 𝑖

Dove h è quindi il mark-up sui costi marginali, ovvero misura il ricarico sul prezzo marginale.

Inoltre è possibile sfruttare l’equazione (6) per determinare i profitti ottimali, ovvero il profitto che le
imprese ottengono quando fissano il prezzo al livello ottimale. Tale profitto (che indichiamo con 𝜋𝑖∗) prende
il nome di profitto indiretto ed è ottenuto inserendo la (6) nella (3).

1 1−𝜀 1 −𝜀
𝜋𝑖∗ = [(1 + ℎ)𝑤𝑖 ] − 𝑤𝑖 𝑁 ([(1 + ℎ)𝑤𝑖 ] ) (7)
𝜕𝑌𝑖 ⁄𝜕𝐿𝑖 𝜕𝑌𝑖 ⁄𝜕𝐿𝑖

4.2 L’equilibrio aggregato in caso di imprese identiche


Fino ad adesso abbiamo analizzato il comportamento delle singole imprese derivando il livello dei prezzi
relativi che esse fissano. A riguardo è opportuno notare che nel fissare il loro livello 𝑝𝑖 esse nel concreto
determinano il loro livello 𝑃𝑖 : questo accade poiché, prese singolarmente, le imprese non possono influire
sul livello P e pertanto fissano 𝑃𝑖 e, automaticamente, determinano 𝑝𝑖 considerando P come dato.

A livello aggregato, tuttavia, tutte le imprese sono identiche e pertanto in equilibrio tutte le imprese
fisseranno lo stesso prezzo e tutti i lavoratori avranno lo stesso salario. Per cui si avrà che 𝑃𝑖 = 𝑃 e,
identicamente, 𝑝𝑖 = 1 e 𝑤𝑖 = 𝑊/𝑃 (dove W è il salario nominale a livello aggregato). Applicando queste
condizioni alla 6 otteniamo
𝑊 1
1 = (1 + ℎ) 𝑃 𝜕𝑌⁄𝜕𝑁
(8)

da cui:
𝑊
𝑃 = (1 + ℎ) 𝜕𝑌⁄𝜕𝑁 (9)

16
Ed anche

𝑊 1 𝜕𝑌
= (10)
𝑃 1+ℎ 𝜕𝑁

Le equazioni (9) e (10) sono particolarmente importanti nella determinazione delle variabili
macroeconomiche di nostro interesse. La prima, determina il livello generale dei prezzi che va quindi a
dipendere dal potere di mercato h, dai salari nominali W e dalla produttività marginale del lavoro 𝜕𝑌⁄𝜕𝑁.

La seconda prende il nome di curva di salario reale determinata dal prezzo (price-determined-real-wage-
curve, PRW) e determina il livello di salario reale che le imprese, decidendo i prezzi, fissano implicitamente.

4.3 L’andamento della curva di salario reale determinata dal prezzo


Prendiamo adesso in considerazione l’equazione (10) e la curva di salario reale che da essa discende e
domandiamoci se in qualche modo tale salario reale può dipendere dall’occupazione aggregata N e dal
tasso di disoccupazione u. Un’eventuale relazione fra W/P ed N dovrebbe necessariamente passare
dall’andamento della produttività marginale rispetto N oppure dall’andamento del mark-up h rispetto a N.
Ovviamente poi N dipende è legato in modo diretto alla produzione (N=N(Y)) e in modo inverso al tasso di
disoccupazione (u=(L-N)/L, dove L è la forza lavoro).

Concentriamoci in particolare sulla relazione fra salario reale e tasso di disoccupazione e considerando i casi
più verosimili essa risulta essere: i) crescente se la produttività marginale è decrescente (ovvero se esistono
rendimenti di scala decrescenti) ii) stabile se la produttività marginale è costante rispetto all’occupazione
(ovvero se esistono rendimenti costanti di scala), iii) circa stabile se la produttività è decrescente e il mark-
up è crescente rispetto a reddito/occupazione (in pratica, i due effetti si compensano).

In pratica stiamo sottolineando come le ipotesi più verosimili implichino che tale relazione sia crescente o
stabile. Come abbiamo appena indicato una delle ragioni perché cui tale relazione può essere stabile risiede
nel fatto che i mark-up si riducano all’aumentare di reddito/occupazione e questo compensi l’eventuale
produttività marginale decrescente: nella prossima sotto-sezione 4.3.1 motiveremo meglio la relazione
negativa fra mark-up e reddito. Infine occorre sottolineare che esistono altri motivi che potrebbero ad una
relazione stabile salario reale determinato dal prezzo e occupazione: in particolare esiste la teoria del
prezzo al costo normale che sostiene come le imprese non facciano variare il prezzo in presenza di
variazioni della domanda e, implicitamente, determinino salari reali costanti rispetto all’occupazione e al
tasso di disoccupazione.

4.3.1 La ciclicità del Mark-up


Il parametro h misura il mark-up (ricarico) che le imprese operano sui costi marginali e tale parametro
dipende dall’elasticità della domanda (infatti per definizione 1 + ℎ ≡ 𝜀/(𝜀 − 1)). Occorre adesso
domandarsi se il mark-up e l’elasticità della domanda possano in qualche modo essere influenzati dal livello
di produzione e occupazione e se siano quindi condizionati dall’andamento del ciclo economico.

La teoria economica e l’evidenza empirica sostengono che i mark-up risultano essere contro-ciclici ovvero
tendono a ridursi quando la produzione e l’occupazione aumentano (e la disoccupazione si riduce).
Parimenti, l’elasticità della domanda tende ad essere pro-ciclica, aumentando nelle fase di alta occupazione

17
e reddito. Le ragioni per un simile andamento sono principalmente tre e sono dovute al fatto che durante le
fasi di espansione di reddito e occupazione:

- nuovi consumatori si affacciano sul mercato: di conseguenza le imprese, per poterli attrarre e
fidelizzare, preferiscono moderare i loro prezzi riducendo il mark-up.
- Eventuali comportamenti collusivi tesi a mantenere elevato il livello dei prezzi rischiano di
sgretolarsi: infatti, quando la domanda è elevata, la deviazione da comportamenti collusivi
attrarrebbe molto compratori rendendo particolarmente profittevole tale deviazione. Di
conseguenza, la collusione risulta essere meno presente e il mark-up si riduce.
- Nuovi prodotti e produttori si affacciano sul mercato incrementando la varietà dei prodotti
disponibili e quindi aumentando l’elasticità della domanda.

4.3.2 La teoria del costo normale


Un'altra spiegazione del perché la curva di salario determinata dal prezzo sia stabile rispetto
all’occupazione risiede nella teoria del costo normale (normal cost pricing in inglese). Secondo tale teoria le
imprese non stabiliscono i prezzi sulla base del costo marginale ovvero in base ai principi di pura
massimizzazione ma si limitano a fissare i prezzi utilizzando i costi rilevati ad un livello normale di
produzione ovvero quel livello che tipicamente l’impresa produce. I costi utilizzati come riferimento a tale
livelli possono essere sia quelli marginali che quelli medi (e, nella versione originale di questa teoria si fa
riferimento a quelli medi). Una volta determinati tali costi normali, le imprese fissano i prezzi applicando un
mark-up che dipende dall’elasticità della domanda e che è costante rispetto a produzione ed occupazione

In pratica se l’impresa fa riferimento ai costi medi a livello normale avremo che il livello dei prezzi fissato
sarà
1
𝑝𝑖 = (1 + ℎ)𝑤𝑖 (11)
𝑌̅⁄𝑁̅

dove 𝑌̅ e 𝑁
̅ sono i valori normali di produzione e occupazione e 𝑌̅⁄𝑁 ̅ è la produttività del lavoro al livello
normale. Tale meccanismo di prezzo, in equilibrio aggregato implica il seguente salario reale:

𝑊 1 𝑌̅
𝑃
= 1+ℎ 𝑁̅ (12)

che risulta quindi invariante rispetto ad occupazione e reddito.

In maniera simile, se l’impresa fa riferimento ai costi marginali a livello normale avremo che il livello dei
prezzi fissato sarà
1
𝑝𝑖 = (1 + ℎ)𝑤𝑖 (13)
(𝜕𝑌𝑖 ⁄𝜕𝑁𝑖 |𝑁 =𝑁
̅ )
𝑖

̅ e
dove (𝜕𝑌𝑖 ⁄𝜕𝑁𝑖 |𝑁𝑖=𝑁̅ ) rappresentano la produttività marginale al livello normale di occupazione 𝑁
produzione. Dalla (13) discende il seguente salario reale:
𝑊 1
𝑃
= 1+ℎ (𝜕𝑌𝑖 ⁄𝜕𝑁𝑖 |𝑁𝑖=𝑁̅ ) (14)

che risulta quindi invariante rispetto ad occupazione e reddito.

18
In entrambi i casi quindi si verifica l’invarianza del salario reale determinato dal prezzo rispetto alla
produzione e occupazione. Queste ipotesi sembrano essere piuttosto verosimili nel breve periodo e in
presenza di piccole variazione della produzione: infatti, in presenza di piccole variazioni di domanda e
produzione è verosimile che le imprese preferiscano non variare i prezzi anche solo per una lieve forma di
inerzia. Al contrario, in presenza di ampi aumenti di produzione e domanda queste ipotesi potrebbero
essere meno verosimili ma tornano ad esserlo se, l’aumento della produzione, non avviene in maniera
preponderante tramite la variazione delle produzioni delle singole imprese quanto in seguito a nuove
imprese che entrano nel mercato: in tale circostanza le variazioni delle produzioni delle singole imprese
continuano ad essere contenute anche in presenza di ampie variazione di produzione e occupazione
aggregata e la teoria dei costi normali continua ad essere verosimile.

Occorre fare un ultimo appunto sulle due versioni della teoria dei costi normali: in quella basata sui costi
medi vi è un abbandono piuttosto forte della teoria marginalista e l’impresa opera di fatto come un agente
non massimizzante e quindi, almeno apparentemente, non razionale. Al contrario, nella versione basata sui
costi marginali tale deviazione dal comportamento massimizzante è molto più lieve: infatti l’impresa sceglie
il livello dei prezzi tramite un processo massimizzante rispetto ad un livello normale di produzione
preferendo per via di inerzia o costi di aggiustamento non far variare tale prezzi in presenza di lievi
scostamenti dal livello normale.

19
5. Contrattazione sindacale e salario reale contrattato
Nella seguente sezione vogliamo derivare il salario reale risultante dalla contrattazione fra sindacati e
imprese. In genere è possibile immaginare che la contrattazione avvenga ad uno dei seguenti livelli: a livello
di singola impresa, a livello di settore o a livello di intera economia.

Inoltre la contrattazione può avvenire secondo

- il modello right to manage (diritto a condurre) in cui sindacati e imprese contrattano sul salario e
poi le imprese possono fissare il livello di occupazione che preferiscono.
- Il modello di contrattazione efficiente in cui sindacati e imprese contrattano e si accordano
simultaneamente e in modo vincolante sia sui salari che sull’occupazione.

In quanto segue discuteremo come rappresentare e risolvere in maniera generica un problema di


contrattazione e poi risolveremo in maniera analitica un modello right to manage e in maniera soltanto
grafica quello un modello di contrattazione efficiente.

5.1 La risoluzione di un problema generico di contrattazione


Supponiamo che avvenga una contrattazione fra due parti. Per il momento rimaniamo sul generico e non
riferiamoci in particolare a sindacati, imprese e salari. Sia U l’utilità della prima parte e 𝛱 l’utilità della
seconda parte. Siano inoltre R e 𝛱 ̅ le utilità che le parti percepiscono, rispettivamente, se la contrattazione
fallisce (tali utilità sono note, in inglese, col termine outside option). Infine sia il vettore w l’insieme delle
variabili oggetto di contrattazione.

E’ possibile dimostrare che la soluzione a tale contrattazione è data dalla massimizzazione rispetto alle
variabili w del seguente massimando Ω:

̅)
Ω = (𝑈 − 𝑅)𝛽 (𝛱 − 𝛱 (1)

Dove 𝛽 (che assume sempre valori positivi) misura il potere contrattuale della prima parte e un valore di 𝛽
pari a uno mostra una parità di potere contrattuale fra le parti. Valori superiori (inferiori) all’unità mostrano
che la prima (seconda) parte ha più potere contrattuale dell’altra. Tale massimando prende il nome di
massimando di Nash.

5.2 Un modello di right to manage e il salario reale contrattato


Vogliamo adesso derivare analiticamente la soluzione di una contrattazione salariale fra sindacato e
impresa sotto le seguenti ipotesi: i) la contrattazione avviene a livello di singola impresa; ii) la
contrattazione avviene sul salario reale; iii) la contrattazione avviene secondo la regola del right to manage;
iv) tutte le imprese e i sindacati sono identici fra loro.

La risoluzione di tale problema si esplica tramite la massimizzazione di un opportuno massimando di Nash:


la derivazione della soluzione anche se non presenta difficoltà particolari è piuttosto lunga e verrà mostrata
tramite vari passaggi cosi’ costituiti: i) impostare il massimando e formulare il problema da massimizzare, ii)
20
l’inclusione del vincolo di right to manage, iii) la trasformazione del massimando per semplificarne la sua
soluzione, iv) la soluzione del massimando e la determinazione del salario reale contrattato a livello di
singola impresa e v) il risultante salario prevalente a livello di intera economia.

5.2.1 Il massimando di Nash ed il problema di massimo


Al fine di impostare il massimando di Nash occorre formulare alcune ipotesi sulle utilità delle parti, sulle
loro outside option e sul funzionamento del mercato dei beni

Supponiamo che l’utilità U del sindacato sia data dal prodotto fra il numero di occupati nell’impresa Ni e il
salario reale 𝑤𝑖 che i lavoratori percepiscono lavorando nell’impresa. Supponiamo poi che R sia l’utilità che
i lavoratori del sindacato percepiscono se l’accordo non viene raggiunto e quindi non possono lavorare
nell’impresa: R è data dal numero dei lavoratori che non hanno trovato un impiego (che era appunto Ni)
moltiplicato r ovvero il reddito che possono percepire al di fuori dell’impresa. Il reddito r in genere dipende
dalla possibilità di lavorare presso un’altra impresa, dal lavoro domestico e dai sussidi di disoccupazione.

̅ è il profitto che
L’utilità 𝛱 dell’impresa invece è data dal profitto reale 𝜋𝑖 (𝑤𝑖 ) mentre indichiamo con 𝛱
otterrebbero se l’accordo sul salario non fosse raggiunto e la produzione non potesse aver luogo (tale
valore potrebbe essere anche negativo in presenza di costi fissi). Riassumendo:

𝑈 = 𝑁𝑖 𝑤𝑖 (2)

𝑅 = 𝑁𝑖 𝑟 (3)

𝛱 = 𝜋𝑖 (𝑤𝑖 ) = 𝑝𝑖 𝑌𝑖 − 𝑤𝑖 𝑁𝑖 (4)

Dove 𝑝𝑖 è il prezzo praticato dall’impresa e 𝑌𝑖 è la quantità venduta. Il mercato funziona secondo la


concorrenza monopolistica e la funziona di domanda di beni della singola impresa è 𝑌𝑖 = 𝑝𝑖−𝜀 . La funzione
di produzione è 𝑌𝑖 = 𝑁𝑖 .

Il massimando di Nash risultante è quindi

̅ ] = [𝑁𝑖 (𝑤𝑖 − 𝑟)]𝛽 [𝜋𝑖 (𝑤𝑖 ) − 𝛱


Ω = [𝑈 − 𝑅]𝛽 [𝛱 − 𝛱 ̅] (5)

Il sindacato e l’impresa contrattano (a livello di impresa) il salario reale 𝑤𝑖 secondo la regola del right to
manage: ovvero le parti si accordano sul salario dopo di che le imprese sono libero di fissare il livello di
occupazione che preferiscono. In questo caso particolare, fissare il livello di occupazione o quello dei prezzi
è identico: infatti, fissando i prezzi viene determinata automaticamente la produzione domandata e quindi
l’occupazione necessaria.

Date queste premesse possiamo formalizzare il risultato del processo di contrattazione tramite la soluzione
del seguente problema

max[𝑁𝑖 (𝑤𝑖 − 𝑟)]𝛽 [𝜋𝑖 (𝑤𝑖 ) − 𝜋̅]


{ wi (6)
𝑠. 𝑣. 𝜕𝜋𝑖 ⁄𝑑𝑁𝑖 = 0

Dove il vincolo rappresenta il meccanismo del right to manage.

Si noti che poiché 𝑌𝑖 = 𝑝𝑖−𝜀 e 𝑌𝑖 = 𝑁𝑖 massimizzare i profitti rispetto ai prezzi o rispetto all’occupazione è,
dal punto di vista dell’impresa, equivalente: infatti nel momento in cui un’impresa sceglie il prezzo

21
determina anche la produzione domandata e, automaticamente, l’occupazione necessaria per produrre
tale domanda. Per cui il problema può essere scritto equivalentemente come:

max[𝑁𝑖 (𝑤𝑖 − 𝑟)]𝛽 [𝜋𝑖 (𝑤𝑖 ) − 𝜋̅]


{ wi (7)
𝑠. 𝑣. 𝜕𝜋𝑖 ⁄𝑑𝑝𝑖 = 0

Al fine di risolvere il problema rappresentato dalla (7) procederemo inizialmente imponendo il vincolo
direttamente nel massimando Ω e poi lo massimizzeremo rispetto a 𝑤𝑖 : in questo modo avremo operato la
massimizzazione sotto il vincolo imposto dall’ipotesi right to manage.

5.2.2. L’inclusione del vincolo di right to manage


Al fine di includere il vincolo nel problema procederemo sviluppando tale il vincolo per ottenere la
condizione da imporre al massimando. Per ipotesi sappiamo che 𝜋𝑖 = 𝑝𝑖 𝑌𝑖 − 𝑤𝑖 𝐿𝑖 , 𝑌𝑖 = 𝑝𝑖−𝜀 e 𝑌𝑖 = 𝑁𝑖 e
quindi

𝜋𝑖 = 𝑝𝑖1−𝜀 − 𝑤𝑖 𝑝𝑖−𝜀 (8)

Data l’ipotesi di right to manage, il vincolo è rappresentato dalla massimizzazione dei profitti rispetto al
prezzo, di conseguenza, dalla (8), abbiamo
𝜋𝑖
𝑝𝑖
= (1 − 𝜀)𝑝𝑖−𝜀 + 𝜀𝑤𝑖 𝑝𝑖−𝜀−1 = 0 (9)

Da cui
𝜀
𝑝𝑖 = (𝜀−1) 𝑤𝑖 (10)

Dalla (8) e ricordando che 𝑌𝑖 = 𝑝𝑖−𝜀 e 𝑌𝑖 = 𝑁𝑖 otteniamo l’occupazione desiderata dall’impresa 𝑁𝑖∗ (ovvero
quella che tipicamente viene chiamata la curva di domanda di lavoro):

𝜀 −𝜀 𝜀 −𝜀
𝑁𝑖∗ = [(𝜀−1) 𝑤𝑖 ] = [(𝜀−1)] 𝑤𝑖−𝜀 (11)

Inoltre combinando (8) e (10) otteniamo i profitti indiretti 𝜋𝑖∗ ovvero i profitti che l’impresa ottiene quando
sta massimizzando rispetto ad occupazione e prezzi:

𝜀 1−𝜀 𝜀 −𝜀
𝜋𝑖∗ = ( 𝑤𝑖 ) − 𝑤𝑖 ( 𝑤𝑖 ) (12)
𝜀−1 𝜀−1

che può essere riscritta come

𝜀 1−𝜀 𝜀 −𝜀
𝜋 ∗ = 𝑤𝑖1−𝜀 [(𝜀−1) − (𝜀−1) ] (12a)

𝜀 1−𝜀 𝜀 −𝜀
E definendo [(𝜀−1) − (𝜀−1) ] ≡ 𝐷(𝜀) si ha

𝜋 ∗ = 𝑤𝑖1−𝜀 𝐷(𝜀) (13)

Riscriviamo ora il problema rappresentato dalla (7) inserendo le condizioni (11) e (13) che, di fatto,
rappresentano il vincolo relativo al nostro problema:

22
−𝜀 𝛽
𝜀
max [(𝜀−1) 𝑤𝑖−𝜀 (𝑤𝑖 − 𝑟)] [𝑤𝑖1−𝜀 𝐷(𝜀)] (14)
wi

o equivalentemente:

𝜀 −𝛽𝜀
max {(𝜀−1) [𝑤𝑖−𝜀 (𝑤𝑖 − 𝑟)]𝛽 [𝑤𝑖1−𝜀 𝐷(𝜀)]} (15)
wi

5.2.3 la trasformazione del massimando


E’ possibile risolver il problema rappresentato dalla (15) sfruttando la proprietà dei logaritmi per cui

maxΩ = max(lnΩ). (16)


wi wi

Data tale proprietà, la (15) può essere riscritta come (si ricordi che, in generale, ln(xy) = ln(x) + ln(y) ):

𝜀 −𝛽𝜀
max [ln (𝜀−1) + ln 𝑤𝑖 −𝛽𝜀 + ln(𝑤𝑖 − 𝑟)𝛽 + ln 𝑤𝑖1−𝜀 + ln 𝐷(𝜀)] (17)
wi

ed ancora (si ricordi che, in generale, ln(x α ) = αln(x) ):

𝜀
max [−𝛽𝜀 ln (𝜀−1) − 𝛽𝜀 ln 𝑤𝑖 + 𝛽 ln(𝑤𝑖 − 𝑟) + (1 − 𝜀) ln 𝑤𝑖 + ln 𝐷(𝜀)] (17a)
wi

ed infine

𝜀 −𝛽𝜀
max [ln ( ) + (1 − 𝜀 − 𝛽𝜀) ln 𝑤𝑖 + 𝛽 ln(𝑤𝑖 − 𝑟) + ln 𝐷(𝜀)] (18)
wi 𝜀−1

5.2.4 La risoluzione del massimando e la determinazione del salario reale


contrattato a livello di singola impresa
E’ possibile quindi ottenere la soluzione del problema di contrattazione massimizzando quanto contenuto
nella (18) rispetto a 𝑤𝑖 : svolgendo tale massimizzazione otteniamo

𝜀 −𝛽𝜀
∂[ln( ) +(1−𝜀−𝛽𝜀) ln 𝑤𝑖 +𝛽 ln(𝑤𝑖 −𝑟)+ln 𝐷(𝜀)] 1 1
𝜀−1
𝜕𝑤𝑖
= (1 − 𝜀 − 𝛽𝜀) 𝑤 + 𝛽 𝑤 −𝑟 = 0 (19)
𝑖 𝑖

da cui
1 1
(1 − 𝜀 − 𝛽𝜀) + 𝛽 𝑤 −𝑟 = 0 (19a)
𝑤𝑖 𝑖

𝑤𝑖 −𝑟
(1 − 𝜀 − 𝛽𝜀) +𝛽 =0 (19b)
𝑤𝑖

𝑟
(1 − 𝜀 − 𝛽𝜀) (1 − )+ 𝛽=0 (19c)
𝑤𝑖

𝑟
(1 − 𝜀 − 𝛽𝜀 + 𝛽) = (1 − 𝜀 − 𝛽𝜀) ( ) (19d)
𝑤 𝑖

(1−𝜀−𝛽𝜀+𝛽)
(1−𝜀−𝛽𝜀)
𝑤𝑖 =𝑟 (19e)

23
𝛽
(1 + (1−𝜀−𝛽𝜀)) 𝑤𝑖 = 𝑟 (19f)

1
(1 − 𝜀−1 ) 𝑤𝑖 = 𝑟 (19g)
( +𝜀)
𝛽

−1
1
𝑤𝑖 = (1 − 𝜀−1 ) 𝑟 (20)
( +𝜀)
𝛽

che rappresenta il salario reale contrattato a livello della singola impresa: si noti che tale salario dipende
positivamente dal potere contrattuale 𝛽.

5.2.5 Il salario reale prevalente a livello dell’intera economia


Al fine di ottenere il salario reale prevalente nell’economia occorre sfruttare l’equazione del salario
contrattato a livello di singola impresa specificando meglio quello che rappresenta r. In particolare se r
rappresenta il reddito percepito fuori dalla singola impresa possiamo immaginare che, dato un certo tasso
di disoccupazione u, un singolo lavoratore ha una probabilità 1-u di trovare lavoro percependo un certo
salario 𝑤 𝑜 (ovvero il salario prevalente fuori dalla sua impresa) ed una probabilità u di non trovare lavoro,
rimanendo disoccupato e percependo un reddito b (che dipende dal reddito che può produrre col lavoro
domestico e dai sussidi di disoccupazione). Sulla base di questa struttura abbiamo che

𝑟 = (1 − 𝑢)𝑤 𝑜 + 𝑢𝑏 (21)

e combinando (20) e (21) otteniamo:


−1
1
𝑤𝑖 = (1 − 𝜀−1 ) [(1 − 𝑢)𝑤 𝑜 + 𝑢𝑏]. (22)
( +𝜀)
𝛽

Adesso dobbiamo sfruttare l’ipotesi di identicità di imprese e sindacati per cui tutti i salari pagati da tutte le
imprese sono uguali. Per cui:

𝑤𝑖 = 𝑤 𝑜 = 𝑤 (23)

Dove w rappresenta il salario reale prevalente nell’economia. Inserendo la (23) nella (22) otteniamo

1
𝑤 (1 − 𝜀−1 ) = [(1 − 𝑢)𝑤 + 𝑢𝑏] (24)
( +𝜀)
𝛽

1
𝑤 (1 − 𝜀−1 − 1 + 𝑢) = 𝑢𝑏 (24a)
( +𝜀)
𝛽

1
𝑤 (𝑢 − 𝜀−1 ) = 𝑢𝑏 (24b)
( +𝜀)
𝛽

−1
1
𝑤 = (𝑢 − 𝜀−1 ) 𝑢𝑏 (24c)
( +𝜀)
𝛽

−1
1
𝑤 = (1 − 𝜀−1 ) 𝑏 (25)
𝑢( +𝜀)
𝛽

24
L’equazione (25) determina il salario reale contrattato che risulta prevalente nell’intera economia. Tale
risultato mostra come il salario reale contrattato dipenda: positivamente dal potere contrattuale 𝛽 e dal
reddito durante la disoccupazione b e negativamente dal tasso di disoccupazione 𝑢 e dall’elasticità della
domanda dei beni 𝜀.

5.3 Il modello di contrattazione efficiente: un’analisi grafica


Il modello di contrattazione right to manage si fonda sull’ipotesi che le imprese mantengano il diritto e la
capacità di determinare in maniera autonoma l’occupazione. Per quanto questa ipotesi sembri plausibile
occorre domandarsi se per sindacati e imprese non sia invece conveniente accordarsi simultaneamente su
salari reali ed occupazione al fine di trovare un accordo che sia preferibile per entrambi. Qualora
effettivamente la contrattazione preveda la determinazione simultanea di salario ed occupazione si parla di
“contrattazione efficiente”. In quanto segue svolgeremo un analisi grafica del modello di contrattazione
efficiente e lo compareremo con quello right to manage.

5.3.1 Il sindacato e le curve di indifferenza


Manteniamo l’ipotesi che il sindacato sia interessato sia al salario reale che all’occupazione raggiunta in una
certa impresa i e che, di conseguenza, la sua utilità dipenda in maniera positiva da questi ultimi due fattori.
L’utilità del sindacato è associata quindi a delle curve di indifferenza che sono decrescenti nello spazio
salario reale (𝑤𝑖 ) ed occupazione (𝑁𝑖 ). Tale situazione è rappresentata in figura 1: si noti che, poiché
entrambi i fattori hanno un impatto positivo sull’utilità, le curve di indifferenza che sono posizionate più in
alto e più a destra sono associate a livelli di utilità più elevata (ovvero, in termini di utilità si ha che 𝑈3 >
𝑈2 > 𝑈1 ).

25
5.3.2 Le imprese, la domanda di lavoro e le curve di isoprofitto
Dal punto di vista delle imprese occorre inizialmente notare che se potessero fissare l’occupazione in
maniera ottimale una volta fissato il salario (come nel modello right to manage) esse sarebbe in grado di
determinare l’occupazione ottimale: da un punto di vista grafico è possibile rappresentare tale occupazione
ottimale tramite la curva di domanda di lavoro (Fig. 2a). Tale curva rappresenta l’equazione (11) e lungo di
essa, per ogni livello di salario, viene determinata l’occupazione ottimale: nell’ambito del modello right to
manage, le soluzioni della contrattazione cadono sempre su questa curva poiché, per definizione di right to
manage, l’impresa sceglie l’occupazione ottimale una volta che il salario viene determinato dalla
contrattazione. Oltre alla curva di domanda di lavoro possiamo rappresentare graficamente anche le curve
di isoprofitto (ovvero il luogo geometrico delle combinazioni 𝑤𝑖 e 𝑁𝑖 che assicurano lo stesso livello di
profitti): tali curve sono rappresentate in figura 2b. E’ possibile dimostrare che: i) le curve di isoprofitto che
intersecano la curva di domanda di lavoro in corrispondenza di un livello di salario più elevato
corrispondono a profitti più bassi e ii) tali curve hanno la forma di una U rovesciata e intersecano la curva di
domanda di lavoro nel loro punto di vertice. La dimostrazione della prima affermazione risulta intuitiva:
infatti le imprese, potendo scegliere, preferirebbero pagare un salario reale il più basso possibile. Di
conseguenza, maggiore sarà tale salario minori saranno i profitti delle imprese. Pertanto le curve di
isoprofitto più alte corrispondono a minori profitti (graficamente si ha che 𝛱3 > 𝛱2 > 𝛱1).

La seconda affermazione è lievemente più complicata da provare. Per farlo si consideri il punto A nella
figura 2b: poiché tale punto giace sulla curva di domanda di lavoro l’occupazione in 𝑁𝑖𝐴 risulta ottimale per
il livello di salario 𝑤𝑖𝐴 . Di conseguenza, mantenendo costante il salario reale a 𝑤𝑖𝐴 e variando l’occupazione
(ovvero spostandosi a destra o sinistra del punto A) i profitti devono necessariamente decrescere
(l’occupazione cessa infatti di essere ottimale): quindi spostandosi sia a destra che a sinistra di A andremo
necessariamente a finire su curve di isoprofitto corrispondenti a profitti più bassi e, di conseguenza, la
forma degli isoprofitti deve necessariamente essere a U rovesciata e l’intersezione fra curva di domanda di
lavoro e di isoprofitto deve necessariamente aver luogo nel vertice di quest’ultima: altrimenti non sarebbe
possibile che spostandosi sia alla destra che alla sinistra di A i profitti si riducano.

26
5.3.3 L’analisi grafica della contrattazione.
Vediamo ora di analizzare il risultato della contrattazione dal punto di vista grafico. Per farlo, partiamo dal
modello right to mange, rappresentato in figura 3a. Abbiamo già detto che la soluzione del modello right to
manage giace necessariamente sulla curva di domanda di lavoro ed in particolare si verrà a determinarsi ad
un punto su di essa a seconda del potere sindacale del sindacato: se il sindacato è forte (𝛽 elevato) la
soluzione sarà un punto corrispondente ad una curva di indifferenza elevata (ad esempio A, corrispondente
alla curva di indifferenza 𝑈2 ), se il sindacato è debole (𝛽 basso) la soluzione sarà un ponto corrispondente
ad una curva di indifferenza bassa (ad esempio B, corrispondente alla curva di indifferenza 𝑈1 ). In maniera
speculare quando il potere sindacale è alto la soluzione (A) identifica un isoprofitto più basso
(corrispondente alla curva di isoprofitto 𝛱1 nel grafico) rispetto a quando il potere sindacale è basso
(soluzione B ,corrispondente alla curva di isoprofitto 𝛱2 nel grafico). In pratica, la soluzione del modello
right to manage si muove lungo la curva di domanda di lavoro spostandosi verso l’alto (salario reale più
elevato) all’aumentare del potere sindacale.

5.3.4 La contrattazione efficiente


Prendiamo adesso spunto dalla soluzione grafica del modello right to manage per mostrare come tale
soluzione sia inefficiente e come, di conseguenza, esistano soluzione più efficienti. In questa accezione,
definiamo una soluzione inefficiente quando esistono soluzioni alternative in cui l’utilità di una delle parti
migliora e l’utilità dell’altra migliora o rimane invariata. Al contrario, una soluzione è efficiente se non è
possibile migliorare l’utilità di una parte senza peggiorare l’utilità dell’altra.

Osserviamo quindi la soluzione grafica del modello right to manage: supponiamo ad esempio che la
contrattazione secondo questo schema porti al risultato A rappresentato nella figura 3b. Si confronti adesso
la soluzione A con il punto E. Il punto A ed E giacciono sulla stessa curva di isoprofitto ma il punto E si trova
su una curva di indifferenza più elevata. Risulta quindi evidente che la soluzione espressa dal punto A è
inefficiente in quanto esistono punti nello spazio 𝑤𝑖 e 𝑁𝑖 che sono più efficienti (come ad esempio il punto

27
E). In particolare, prendendo a riferimento il punto A, tutti i punti che si trovano nell’area evidenziata in
grigio costituiscono delle soluzioni più efficienti di A in termini di occupazione e salario reale.

Gli unici punti efficienti nello spazio 𝑤𝑖 e 𝑁𝑖 risultano quindi essere quelli di tangenza fra le curve di
indifferenza e le curve di isoprofitto (come ad esempio 𝐸, 𝐸1 ed 𝐸2 in figura): l’insieme di questi punti
costituiscono la curva dei contratti (CC) e, nel nostro caso, vanno a formare l’insieme delle soluzioni
possibili nel modello di contrattazione efficiente. A tutti gli effetti, infatti, se imprese e sindacati possono
accordarsi in sede di contrattazione su salari e occupazione andranno necessariamente a scegliere una
combinazione che giace sulla CC: qualunque altro accordo sarebbe subottimale per entrambe le parti.

Una volta determinato l’insieme di soluzioni efficienti della contrattazione efficiente (la curva CC appunto) il
risultato effettivo dipenderà nuovamente dal potere contrattuale del sindacato e, alla aumentare del
potere contrattuale si tenderà a raggiungere soluzioni più favorevoli al sindacato (quindi associate a curve
di indifferenza più elevate, come ad esempio il punto 𝐸2 nel grafico) mentre all’aumentare del potere
sindacale saranno raggiunge soluzioni meno favorevoli per loro (come ad esempio 𝐸1 nel grafico). Al pari
anche il tasso di disoccupazione incide sulla soluzione della contrattazione: tassi di disoccupazione più
elevati riducono le outside option del sindacato e spingono verso soluzioni peggiori per loro: quindi
all’aumentare del tasso di disoccupazione la soluzione della contrattazione scenderà su un punto più basso
lungo la curva dei contratti.

Questo risultato vale a livello di singola impresa e singolo sindacato ma, in presenza di agenti economici
identici, può essere facilmente esteso a livello aggregato ottenendo anche in questo caso una curva WS
crescente rispetto a potere contrattuale e decrescente rispetto al tasso di disoccupazione.

5.4 Alcune considerazioni su modello right to manage e contrattazione


efficiente
Vediamo adesso di analizzare alcune caratteristiche del modello di contrattazione efficiente rispetto a al
modello right to manage

5.4.1 La posizione delle curva di domanda di lavoro e dei contratti.


Abbiamo già notato che le soluzioni del modello right to manage risultano inefficienti. Questo è dovuto al
fatto che, per definizione stessa di right to manage, l’insieme delle possibili soluzione della contrattazione è
ristretto a quello che giacciono sulla curva di domanda di lavoro: questo vincolo restringe l’insieme delle
possibili soluzioni e costringe quindi a “scartare” soluzioni più efficienti. Una volta che il vincolo right to
manage decade, la contrattazione non determina più una soluzione sulla curva di domanda di lavoro ma
può posizionarsi su una posizione più efficiente. Da questo punto di vista, la contrattazione efficiente
determina un insieme di soluzioni, la curva dei contratti, che giace necessariamente a destra della curva di
domanda di lavoro. Questo accade poiché, data la forma delle curve di indifferenza e di isoprofitto, se
partiamo da un punto lungo la curva di domanda di lavoro e vogliamo incrementare le utilità di entrambe le
parti occorre necessariamente incrementare l’occupazione (come si nota dal grafico 3b): quindi, la curva
dei contratti si trova necessariamente a destra di quella di domanda di lavoro.

Più in particolare, per ogni punto della curva di domanda di lavoro, le soluzioni più efficienti si trovano in
uno spazio associato ad i) un salario reale più basso, ii) un’occupazione più alta. Per comprendere questo
28
risultato utilizziamo il grafico 3b. Supponiamo che il potere contrattuale e disoccupazione siano tali per cui
la soluzione della contrattazione nell’ambito del modello right to manage sia il punto A: se passiamo al
modello di contrattazione efficiente, le soluzioni più efficienti di A si trovano nell’area grigia in basso a
destra di A, area che è necessariamente associata ad un salario più basso e ad un’occupazione più alta (si
veda il grafico). In particolare la nuova soluzione sarà un punto della curva dei contratti che attraversa
l’area grigia. Ripetendo questo ragionamento per qualsiasi soluzione del modello right to manage
(corrispondente quindi ad un certo potere sindacale e a un certo tasso di disoccupazione) e passando poi
alla contrattazione efficiente otterremo sempre soluzioni contraddistinte da un più basso salario reale ed
una più alta occupazione.

5.4.2 L’inclinazione della curva dei contratti


In condizioni normali (quelle rappresentate nel grafico 3b) la curva dei contratti risulta decrescente e,
pertanto, all’aumentare del potere sindacale la soluzione della contrattazione efficiente implica un
aumento del salario reale ed una riduzione dell’occupazione. Tuttavia, in casi particolari, la curva dei
contratti può essere crescente: ciò accade quando il sindacato da particolarmente importanza
all’occupazione e, di conseguenza, le curve di indifferenza risultano molto ripide. In queste circostanze, la
curva dei contratti può risultare crescente e quindi, la soluzione della contrattazione efficiente prevede che
all’aumentare del potere sindacale aumenti sia il salario contrattato che l’occupazione.

5.4.3 Le deviazioni profittevoli e la curva dei contratti


Occorre notare che una volta contrattato un certo salario reale le soluzioni della contrattazione efficiente
non risultano ottimali per l’impresa. Si consideri ad esempio che la soluzione della contrattazione efficiente
sia data dal punto E nella figura 3b. Per quel livello del salario reale, le imprese troverebbero conveniente
ridurre l’occupazione fino a raggiungere quella corrispondente sulla curva di domanda di lavoro (che infatti
rappresenta, per ogni salario, l’occupazione ottimale). Di conseguenza, esiste una deviazione profittevole
per l’impresa che la porterebbe a disattendere l’impegno preso in fase di contrattazione in termini di
occupazione. Ovvero, a meno che non sia effettivamente possibile far rispettare dal punto di vista formale
l’impegno che l’impresa ha assunto (aspetto complicato per quanto riguarda l’occupazione), il risultato
della contrattazione efficiente rischia di essere disatteso da parte dell’imprese e, l’effettivo rispetto
dell’accordo rischia di dipendere dalla semplice buona volontà delle imprese o da eventuali pressioni
“informali” che sindacati ed eventualmente governo possono fare sull’imprese al fine di far rispettare loro
gli accordi.

5.4.4 Una nota su la curva price setting nel modello di contrattazione efficiente
Segnaliamo infine che occorre far attenzione al fatto che anche la determinazione della curva price setting
potrebbe essere condizionata dalla presenza di contrattazione efficiente. Infatti, la curva price setting viene
di norma determinata dal fatto che le imprese scelgono i prezzi e l’occupazione in maniera ottimale:
tuttavia nel modello di contrattazione efficiente le imprese rinunciano a tale scelta ottimale e, per tanto,
anche la price setting potrebbe subire variazioni. Non andiamo nel dettaglio su come ricavare la price
setting in questa circostanza, ma ci limitiamo a segnalare che, in presenza di contrattazione efficiente, essa
potrebbe assumere andamenti diversi da quelli usualmente previsti e potrebbe dipendere anche dal potere
contrattuale del sindacato.

29
6. Le politiche economiche in condizioni di concorrenza
imperfetta
L’introduzione di meccanismi di concorrenza imperfetta nel mercato dei beni e del lavoro comporta delle
differenze sostanziali nel funzionamento del sistema macroeconomico. In particolare abbiamo visto che
questi meccanismi (concorrenza monopolistica e contrattazione salariale) incidono in maniera
determinante nella determinazione del salario reale e del tasso naturale di disoccupazione. Abbiamo anche
visto che è possibile rappresentare questi aspetti derivando la curva di salario contrattato (curva WS – wage
setting) e la curva di salario determinato dalle imprese (curva PS - price setting). L’introduzione di questi
aspetti insieme all’utilizzo di aspettative accelerative ha mostrato che le politiche fiscali e monetarie
risultano efficaci nel breve periodo ma non hanno effetti nel medio periodo (a meno di non accettare
un’inflazione in continuo aumento).

Rimane tuttavia da valutare se delle politiche economiche che incidano sui meccanismi di imperfezione e,
più in generale, sul salario contrattato e sul salario determinato dalle imprese siano o meno in grado di
avere un effetto sul tasso di disoccupazione naturale, su quello non accelerativo e, più in generale, su salari
reali e reddito aggregato.

Queste forme di politiche prendono il nome di “politiche dal lato dell’offerta” o “politiche dell’offerta”
poiché, come vedremo non incidono sulla domanda aggregata (cioè sulla curva AD) ma sull’offerta
aggregata (curva AD). Dal punto di vista dell’analisi economica, lo studio di queste politiche può essere
fatto studiando come esse incidono sulle curve WS (che rappresenta il salario contrattato) e la curva PS
(che rappresenta il salario reale determinato dalle imprese). In quanto segue analizzeremo l’effetto di
generiche politiche dell’offerta che vadano a incidere sulla curva WS o sulla PS, dopo di che, analizzeremo
in particolare quali sono le specifiche politiche che sono in grado di incidere su queste due curve e in che
modo possono farlo.

Nella presente analisi porremo grande attenzione su come queste politiche influenzino il tasso naturale di
disoccupazione: e questo, sotto l’ipotesi che le aspettative siano accelerative, coincide col tasso di
disoccupazione non accelerativo (NAIRU). In pratica, sotto l’ipotesi che le aspettative siano accelerative,
ovvero che le aspettative sulle variazioni del livello dei prezzi da parte dei lavoratori possano essere errate
ma che, col tempo, queste vengano riviste, la nostra analisi mostra come le politiche dell’offerta vadano a
determinare il tasso di disoccupazione non accelerativo. Lo schema di analisi che proponiamo potrebbe poi
essere esteso a forme diverse di aspettative.

6.1 Le politiche dal lato dell’offerta: un’analisi generale


Le politiche dell’offerta possono essere suddivise in due tipologie: quelle che incidono sul salario contratto
dai lavoratori e quelle che incidono sul salario reale determinato dalle imprese. Le prime incidono sulla
curva WS, le seconde sulla curva PS. In teoria, potrebbero anche esistere delle politiche che incidono
direttamente su entrambe le curva. Tratteremo comunque distintamente le due forme di politiche e
illustreremo come esse incidano anche nella determinazione del tasso di disoccupazione naturale (e sotto
determinate ipotesi anche sul NAIRU) e come queste abbiano poi un effetto sul reddito aggregato che si
determina nel modello AD-AS.
30
6.1.1 Le politiche sul salario contrattato
Consideriamo adesso una generica politica economica che promuova la moderazione salariale da parte dei
lavoratori e del sindacato. Gli effetti di questa politica sono illustrati in figura 1a: la politica va ad incidere
sulla curva WS e la sposta verso il basso. Quello che accade è che, in corrispondenza di ogni livello di
disoccupazione, i sindacati richiedono e contrattano adesso un salario reale minore e questo spiega la
traslazione verso il basso della curva WS. In corrispondenza della nuova curva WS’ il tasso di disoccupazione
naturale risulta essere 𝑢1∗ che è più basso di quello iniziale 𝑢0∗ .

Al contrario, una politica economica che promuova le pretese salariali da parte di lavoratori e sindacati
produce un innalzamento della curva WS: per ogni livello di disoccupazione le richieste di salario reale sono
adesso maggiori e questo sposta la curva di WS verso l’alto. Conseguentemente, in corrispondenza della
nuova curva WS’’ il tasso di disoccupazione non accelerativo risulta essere 𝑢2∗ che è più alto di quello
iniziale 𝑢0∗ .

Si noti che in entrambi i casi le politiche hanno inciso sul tasso di disoccupazione naturale ma hanno
lasciato invariato il salario reale.

6.1.2 Le politiche sui prezzi e sul salario reale determinato dalle imprese
Consideriamo adesso una generica politica economica che vada ad incidere sulla determinazione dei prezzi
fissati dalle imprese e, quindi, su come esse determino indirettamente il salario reale (che, come noto,
dipende dal salario nominale W e dai prezzi P): in particolare, una politica che promuova la riduzione dei
prezzi da parte delle imprese produce uno spostamento della curva PS verso l’alto. Gli effetti di questa
politica sono illustrati in figura 2a. Quello che accade è che, in corrispondenza di ogni livello di
disoccupazione, le imprese fissano adesso un prezzo più basso e quindi determinano un salario reale W/P

31
che ora risulta essere più alto: questo spiega la traslazione verso l’alto della curva PS. In corrispondenza
della nuova curva PS’ il tasso di disoccupazione naturale (che sotto determinate ipotesi coincide col NAIRU)
risulta essere 𝑢1∗ che è più basso di quello iniziale 𝑢0∗ . Inoltre, in seguito a questa politica, il salario reale che
si ottiene in corrispondenza del tasso di disoccupazione non accelerativo cresce, passando da (𝑊 ⁄𝑃)0 a
(𝑊 ⁄𝑃)1 .

Al contrario, una politica economica che incrementi i prezzi fissati dalle imprese produce un abbassamento
della curva PS: per ogni livello di disoccupazione i prezzi sono aumentati e determinano ora un salario reale
più basso e questo sposta la curva di PS verso l’alto. Conseguentemente, in corrispondenza della nuova
curva PS’’ il tasso di disoccupazione naturale risulta essere 𝑢2∗ che è più alto di quello iniziale 𝑢0∗ . Inoltre, in
seguito a questa politica, il salario reale che si ottiene in corrispondenza del tasso di disoccupazione non
accelerativo si riduce, passando da (𝑊 ⁄𝑃)0 a (𝑊 ⁄𝑃)2 .

Complessivamente si può notare che queste politiche sono in grado di ridurre (o incrementare) il tasso
naturale di disoccupazione ed, in questo, hanno effetti simili alle politiche che incidono sul salario
contrattato: tuttavia, a differenze di queste, le politiche sui prezzi delle imprese incidono anche sul livello
del salario reale che si realizza in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione.

6.1.3 Le politiche dell’offerta e il meccanismo di trasmissione sui prezzi, reddito


aggregato e tasso di disoccupazione
Abbiamo notato che le politiche dell’offerta sono in grado di incidere sul tasso naturale di
disoccupazione (che coincide col tasso non accelerativo sotto l’ipotesi di aspettative accelerative).
Mostriamo adesso come queste politiche si ripercuotano sul reddito aggregato che si realizza nel
modello AD-AS. Illustreremo questo processo nel caso di una politica di moderazione del salario
contrattato: tuttavia, il meccanismo di trasmissione risulta analogo anche per tutti gli altri casi.

Supponiamo quindi che l’economia si trovi inizialmente nel punto di equilibrio del modello AD-AS
(figura 3b): il reddito aggregato è pari a 𝑌0 e il tasso di disoccupazione è 𝑢0 che nella situazione
iniziale risulta essere (per ipotesi) esattamente pari al tasso naturale 𝑢0∗ . Poniamo adesso che
32
venga messa in atto una politica di moderazione salariale che sposta la curva WS verso il basso
(figura 3a): in seguito a questa manovra il tasso naturale diviene 𝑢1∗ . Tuttavia, inizialmente questo
non ha effetti diretti sull’economia, infatti, per il momento, le curve del modello AD-AS (figura 3b)
rimangono stabili e il reddito rimane a 𝑌0 e il tasso di disoccupazione è 𝑢0 (che è pari a 𝑢0∗ ).
Tuttavia il tasso di disoccupazione 𝑢0 che sussiste nell’economia è più alto del tasso di
disoccupazione naturale che si è determinato in seguito allo spostamento della curva WS. Di
conseguenza, per 𝑢0 la curva PS è più in alto della curva WS: in pratica il salario reale che si
realizza nel mercato è più alto di quello atteso dai sindacati in seguito alla contrattazione e, di
conseguenza, questi ridurranno le loro pretese in termini di salario nominale. Questa riduzione dei
salari nominali si traduce in un livello più basso anche dei prezzi (che vengono fissati applicando un
ricarico sui costi di produzione): di conseguenza la curva AS (figura 3b) trasla verso il basso. La
riduzione dei prezzi porta, col tempo, anche alla revisione delle aspettative sui prezzi (tale
adeguamento varia a secondo dell’ipotesi di formazione delle aspettative) e spinge ulteriormente
la curva AS verso il basso. La traslazione verso il basso della AS produce, nell’equilibrio del
modello, un reddito più alto (𝑌1 ) ed un tasso di disoccupazione più basso (𝑢1 ): se questo nuovo
livello di disoccupazione continuasse ad essere più alto di quello naturale attuale (𝑢1∗ ) il processo
continuerebbe, la curva AS continuerebbe ad abbassarsi, il reddito ad aumentare e la
disoccupazione a ridursi fino al raggiungimento del tasso naturale (𝑢1∗ ).

6.1.4 Sinergie fra politiche dell’offerta e politiche della domanda


Quanto abbiamo appena osservato ci permette di affermare che, in seguito all’attuazione di
politiche dell’offerta il sistema economico converge automaticamente verso il nuovo livello del
reddito naturale. Per quanto questo meccanismo sia automatico, a seconda del modo in cui gli
individui formulano le aspettative, potrebbe occorrere anche molto tempo a convergere al nuovo
33
equilibrio. Da questo punto di vista sorge una sinergia fra politiche dell’offerta e politiche della
domanda (monetarie o fiscali): infatti se le politiche dell’offerta vanno a determinare un nuovo
livello del reddito naturale, le politiche della domanda possono, incidendo proprio sulla domanda,
portare immediatamente il reddito al suo livello naturale. Ad esempio, se viene attuata una
politica dell’offerta che va ad aumentare il livello naturale del reddito (ovvero a ridurre il tasso
naturale di disoccupazione) è possibile mettere in atto, in contemporanea, una appropriata
politica espansiva che faccia aumentare la domanda e quindi il reddito, portandolo
immediatamente al suo livello naturale: livello che adesso, per definizione, risulterà stabile nel
tempo.

6.2 Politiche dell’offerta: una rassegna delle principali modalità di


intervento
Dopo aver descritto gli effetti di politiche dell’offerta generiche occorre andare ad analizzare nello
specifico come è possibile mettere in atto queste politiche. In pratica, se fino ad adesso ci eravamo
limitati a descrivere queste politiche come degli interventi che incidevano sulla curva WS e PS
occorre ora domandarci quali sono le modalità con le quali è possibile, nel concreto, intervenire
per incidere su queste curve. Inoltre, occorrerà analizzare se questi interventi abbiano delle
conseguenze secondarie o indirette anche su altri aspetti dell’economia. In quanto segue, senza la
pretesa di esaustività, presenteremo le modalità di intervento relative alle seguenti politiche: 1)
regolamentazione del mercato del lavoro e di moderazione sindacale, 2) regolamentazione del
mercato dei beni e promozione della concorrenza, 3) politiche dei redditi 4) tassazione diretta e
indiretta, 5) formazione, addestramento e istruzione.

6.2.1 Politiche di regolamentazione del mercato del lavoro e di moderazione


sindacale
Alcune delle politiche che regolamentano il mercato del lavoro hanno un impatto rilevante nella
determinazione del salario e, nel nostro schema di analisi, della curva WS. In particolare quelle, politiche
che incidono sul parametro z (che misura genericamente la forza delle rivendicazioni del sindacato)
incidono a loro volta sulla curva WS. Nel microfondare la curva WS abbiamo mostrato che il parametro z è
in particolare un indicatore legato ai sussidi di disoccupazione b e del potere sindacale 𝛽 e che questi due
aspetti incidono in maniera positiva sul salario contrattato dai sindacati. Ecco allora che le politiche di
regolamentazione del mercato del lavoro che determinano questi due aspetti vanno anche a determinare il
salario contrattato.

Ne consegue che, nell’implementare le politiche che riguardano i sussidi di disoccupazione e l’assicurazione


contro la disoccupazione un governo può, indirettamente, determinare anche i salari richiesti dai lavoratori.
Un sistema di sussidi di disoccupazione generoso quindi incrementerà le richieste salariali e spingerà verso
l’alto la curva WS; al contrario, un sistema poco generoso limiterà le richieste salariali e spingerà verso il
basso la curva WS. Occorre però prestare attenzione a tenere distinti l’effetto principale delle politiche di
supporto ai disoccupati (il cui principale obbiettivo è quello di aiutare economicamente chi non ha un

34
lavoro) da quella che è una conseguenza indiretta, ovvero le maggiori richieste salariali da parte dei
sindacati. Non è detto infatti che un governo voglia o debba sacrificare il supporto economico nei confronti
dei disoccupati per calmierare le richieste salariali.

In maniera in parte analoga anche il potere sindacale incide sulla curva WS: un sindacato forte riesce a
contrattare un salario più alto e, quindi, un aumento di tale potere si traduce in una traslazione verso l’alto
della curva WS, mentre un indebolimento si traduce in una curva posizionata più in basso. Risulta tuttavia
ancora vago cosa esattamente rappresenti il potere sindacale. In genere, e senza volere essere
completamente esaustivi, è possibile collegare il potere sindacale a:

- Il grado di partecipazione e di iscrizione dei lavoratori ai sindacati, che misura in qualche modo la
forza del sindacato e anche la capacità di coinvolgimento che un sindacato può avere in eventuali
confronti con le imprese fino ad arrivare a garantire un’elevata partecipazione in caso di scioperi.
- La legislazione sui diritti sindacali, che va a determinare in che misura un sindacato debba o possa
essere presente all’interno delle aziende e degli stabilimenti, incidendo quindi sulla capacità del
sindacato di coordinare e coinvolgere i lavoratori.
- La legislazione sui diritti di sciopero, che va a determinare in che misura e secondo quali modalità
un sindacato può indire sciopero e in che misura i lavoratori possono prendervi parte.
- La legislazione sulla protezione dell’impiego che, determinando il grado di protezione dei lavoratori,
li mette al riparo da eventuali ritorsioni da parte dei datori di lavoro in situazioni di conflitto nella
contrattazione e li protegge in parte anche da eccessivi ridimensionamenti occupazionali che
potrebbero far seguito alla contrattazione.

Un governo può quindi incidere sul potere contrattuale e quindi sul salario tramite politiche che vanno a
determinare questi aspetti. Anche in questo caso occorre distinguere fra l’effetto eventualmente voluto
(che potrebbe essere una riduzione del salario contrattato) dallo strumento che va a condizionare anche
altri aspetti (come appunto la stabilità dell’occupazione, la tutela dei diritti dei lavoratori o delle condizioni
di lavoro).

6.2.2 Politiche di regolamentazione del mercato dei beni e promozione della


concorrenza
Le politiche che regolamentano il mercato dei beni e in particolare quelle che vanno a incidere sulla
concorrenza e sul potere di mercato delle imprese vanno a influenzare direttamente le condizioni di offerta
e quindi influenzano anche la determinazione della curva PS. Infatti questa curva dipende in maniera
cruciale dal ricarico (il parametro h) che le imprese applicano sui costi di produzione e, quando abbiamo
microfondato il comportamento dell’impresa abbiamo visto che questo ricarico dipende dall’elasticità della
domanda dei beni che, in realtà, è una misura del grado di concorrenza presente sul mercato. Ne consegue
che se un governo mette in atto una politica volta ad incidere sul grado di concorrenza questa avrà un
effetto sull’elasticità della domanda, sul ricarico effettuato dalle imprese e, quindi, sulla curva PS. In
particolare le politiche che promuovono la concorrenza rendono maggiore l’elasticità, riducono i ricarichi e
spingono verso l’alto la curva PS. Politiche che invece riducono la concorrenza hanno invece effetti opposti.

Le politiche della concorrenza agiscono principalmente cercando di influenzare la presenza e il


comportamento delle imprese sul mercato e principalmente si attuano tramite:

35
- Politiche che incentivano l’entrata delle imprese sul mercato, tramite la riduzione dei costi
amministrativi di avviamento o tramite sussidi per i nuovi entranti.
- Rimozione di dazi e tariffe doganali che scoraggiano la concorrenza da parte di imprese straniere.
- Politiche anti-trust che mirano ad evitare (e a vietare) che sui mercati si creino situazioni di
monopolio o casi di imprese relativamente troppo grandi e quindi con troppo potere di mercato.

Queste politiche si concretizzano nel promuovere la concorrenza: ovviamente queste politiche potrebbero
essere condotte anche in maniera opposta per ottenere un minor grado di concorrenza. Oltre a queste,
occorre segnalare anche che, politiche che regolamentano il mercato fissando direttamente il prezzo da
praticare, anche se non rientrano direttamente nelle politiche della concorrenza, incidono sulla curva PS.

6.2.3 Politiche dei redditi


Le politiche dei redditi si prefiggono di ottenere risultati simili a quelle di regolamentazione del mercato dei
beni e del lavoro ma con metodi, e con un’impostazione diversa. Nelle politiche di regolamentazione
l’autorità governativa va a modificare alcuni gli aspetti del funzionamento del mercato e delle istituzioni e
queste modifiche, messe in atto in maniera impositiva (ovvero imponendo delle modifiche alle quali, gli
agenti economici, sono obbligati a sottostare), condizionano indirettamente la determinazione del salario e
dei prezzi.

Al contrario, attraverso le politiche dei redditi l’autorità di Politica Economica rinunica ad una forma diretta
di imposizione di nuove regole, ma cerca di convincere le parti (i sindacati e le imprese) a modificare il loro
comportamento al fine di raggiungere una soluzione e un accordo che possa essere considerato preferibile
a livello sociale1. In genere l’obiettivo è spingere versa una soluzione che consista in una moderazione
salariale, in una moderazione dei prezzi o in una politica aziendale di assunzioni ma può anche riguardare
altri aspetti della produzione e dell’attività economica. In pratica, l’autorità cerca di coordinare le parti e
avvia un’opera di concertazione che permetta di perseguire il benessere collettivo.

Occorre comunque far attenzione a non confondere il fatto che l’autorità di politica economica (o il
governo) rinunci a misure impositive col fatto che tale autorità non abbia un qualche potere, di natura
politica o anche economica, per forzare le parti a giungere ad una certa soluzione. Ad esempio un governo
potrebbe far presente che se una certa soluzione non viene raggiunta potrebbe prendere misure tali da
arrecare danni ad una o ad entrambi le parti, forzando quindi la mano. Inoltre, nella fase di concertazione,
non è detto che l’autorità si mantenga al di sopra delle parti ma potrebbe portare avanti una linea politica
che favorisca una o l’altra.

Il risultato di queste politiche dei redditi è quello non tanto di far traslare le curve WS o PS, quanto di
crearne nuove curve WSC e PSC che sono le curve “concertate” come effetto della politiche dei redditi (si
veda figura 4).

1
In realtà, non tutti gli economisti sono d’accordo nell’includere nelle politiche dei redditi solo gli interventi non
impositivi su sindacati e imprese. Alcuni autori fanno infatti rientrare all’interno di queste politiche anche gli interventi
che incidono sul salario contrattato o sui prezzi di vendita come ad esempio le riforme legislative che riducono il
potere contrattuale dei sindacati.
36
Queste nuove curve sono posizionate più in alto o più in basso rispetto a quelle originali e sono
praticamente equivalenti ad esse se non per il fatto che sono frutto della concertazione e non dei
meccanismi di mercato: per tanto esse permangono soltanto fino a quando le parti, singolarmente, sono
d’accordo nel mantenere l’accordo raggiunto. In pratica, quelle curve sono in quella posizione per precisa
volontà dei sindacati (la WSC) e delle imprese (PSC) ma in qualunque momento le parti potrebbe preferire
“tornare” sulle curve WS e PS originarie.

La politica dei redditi mira in genere a contenere i salari ed i prezzi e quindi si concretizza in un curva WSC
inferiore a quella originale e ad una curva PSC superiore all’originale anche se, almeno in teoria, potrebbe
esistere politiche pensate per raggiungere l’obiettivo opposto. Inoltre, può accadere che queste politiche
vengono messe in atto soltanto su una delle parti ovvero attraverso un’opera di convincimento mirata
soltanto sui sindacati o soltanto sulle imprese: storicamente questo è accaduto più spesso nei confronti dei
sindacati e quindi tramite una concertazione per la moderazione salariale. In ogni caso le politiche dei
redditi risultano essere particolarmente efficaci quando operano su entrambi i fronti. Infatti, in questo
caso, si ottiene sia la moderazione salariale che il contenimento dei prezzi e questo, come illustrato in
figura 4 è particolarmente vantaggioso poiché le nuove curve WSC e PSC sono rispettivamente più alte e
più basse dei corrispettivi originali e quindi si determina sia la riduzione del tasso naturale di
disoccupazione (che passa da 𝑢0∗ a 𝑢1∗ ) che l’aumento dei salari reali corrisposti a al livello naturale di
disoccupazione (che passano da (𝑊 ⁄𝑃)0 a (𝑊 ⁄𝑃)1 ).

Occorre infine sottolineare che, proprio poiché la politica dei redditi si basa sulla buona volontà delle parti e
proprio poiché queste possono recedere dai loro buoni propositi è possibile che anche una volta raggiunto
un accordo concertato le parti finiscano per disattendere i loro impegni, rendendo inefficace questa
politica. In genere questa eventualità è più verosimile per quanto riguarda il comportamento delle imprese:
infatti mentre comunque la moderazione salariale si traduce in salari monetari più bassi (ovvero contratti di
lavoro che vengono formalizzati e che quindi vanno rispettati) la moderazione dei prezzi e l’aumento delle
assunzioni risulta essere più una dichiarazione di impegni piuttosto che altro, essendo assai difficile
formalizzare questo impegno e altrettanto difficile verificarlo nel concreto.

37
6.2.3 Politiche di tassazione e imposizione
Abbiamo visto come la determinazione delle curve WS e PS passi attraverso il tentativo da parte dei
sindacati e delle imprese di assicurarsi, rispettivamente, dei salari reali (e un livello di occupazione) e dei
profitti che risultino per loro il più soddisfacenti possibile. In realtà, le variabili di loro interesse non sono
genericamente i flussi di reddito relativi ai salari e profitti ma sono costituite invece dai flussi di reddito
netto, ovvero al netto di tasse e imposte. Chiaramente, qualora non vi siano tasse, i valori lordi e netti
coincidono e quindi non si registrano differenze di rilievo (nella presente analisi utilizziamo il termine tasse
e imposte come perfetti sinonimi). Al contrario se vengo applicate delle tasse queste possono influenzare
direttamente i salari pagati e percepiti ed avere un effetto anche sui prezzi praticati.

Nella misura in cui le tasse vanno a incidere sui salari richiesti e sui prezzi le autorità di politica economica
possono incidere sul livello di tassazione e attraverso questa sul salario contrattato e sul salario
determinato dalle imprese. In pratica, la determinazione del livello delle imposte risulta quindi essere una
vera e propria politica dell’offerta. In particolare, analizzeremo gli effetti e le implicazioni di politica
economica di due tipologie di imposte: un’imposta diretta sul salario dei lavoratori ed una imposta indiretta
sul prezzo di vendita di bene. Il termine “diretto” si riferisce al fatto che tale imposta colpisce direttamente
il reddito (il salario nel nostro caso) mentre il termine “indiretto” si riferisce al fatto che essa colpisce solo
indirettamente il reddito, riducendolo (indirettamente appunto) soltanto al momento dell’acquisto di beni.
In quanto segue, per brevità, tratteremo i casi in cui esista soltanto imposizione diretta o soltanto quella
indiretta: nulla vieta di immaginare un sistema in cui entrambi queste imposizioni siano presenti e i risultati
che otterremmo sarebbero in larga misura analoghi.

Partiamo dal caso di imposta diretta sul salario. Fino ad ora, la nostra analisi si fondava sul fatto che per un
certo livello di disoccupazione u e per un certo potere contrattuale z i sindacati si accordavano per un
salario reale atteso pari a f(u,z). Poiché nella nostra analisi non avevamo inserito imposte, tale salario era
netto e quindi veniva percepito interamente dai lavoratori (ed infatti, esso entrava integralmente nella
funzione di utilità dei sindacati). In pratica f(u,z), nella nostra analisi, è il salario netto contrattato ed, in
presenza di imposte, possiamo quindi scrivere che
𝑊
𝑃𝑒
(1 − 𝑡𝑤 ) = 𝑓(𝑢, 𝑧) (1)

𝑊
Dove 𝑡𝑤 è l’aliquota di imposizione sul reddito (i salari nel nostro caso) e 𝑃𝑒 (1 − 𝑡𝑤 ) è quindi il salario reale
atteso netto. Dalla (1) discende che il salario reale atteso lordo è

𝑊 𝑓(𝑢,𝑧)
𝑃𝑒
= (1−𝑡 (2)
𝑤)

e questa equazione rappresenta la curva WS in presenza di tassazione diretta sul salario. Si noti che la (2)
determina anche il salario nominale che le imprese si troveranno a pagare: infatti ciò che rileva dal punto di
vista dei costi dell’impresa è il salario lordo, non quello netto.

L’ equazione (2) ci mostra che in presenza di un 𝑡𝑤 > 0 la curva WS è posizionata più in alto rispetto al caso
senza imposte (infatti, dalla (2) si nota che la tassazione entra negativamente nel denominatore del salario
reale lordo atteso). Inoltre, l’equazione (2) mostra che variazioni dell’aliquota 𝑡𝑤 producono traslazioni
della curva WS: una riduzione dell’aliquota trasla la WS verso il basso mentre un aumento la sposta verso
l’alto (si veda figura 5a e 5b).

38
Come si nota nella figura 5a, quando l’aliquota viene ridotta da 𝑡𝑤0 a 𝑡𝑤1 (con 𝑡𝑤1 < 𝑡𝑤0 ) la curva WS
trasla verso il basso, il tasso di disoccupazione naturale si abbassa (passando da 𝑢0∗ a 𝑢1∗ ) e il salario reale
lordo pagato dalle imprese rimane costante al livello (𝑊 ⁄𝑃)0 . Al contrario, il salario reale netto che i
lavoratori ricevono cresce: infatti esso passa da (1 − 𝑡𝑤0 )(𝑊 ⁄𝑃)0 a (1 − 𝑡𝑤1 )(𝑊 ⁄𝑃)0 (si ricordi che 𝑡𝑤1 <
𝑡𝑤0 ).

Il caso di un aumento dell’aliquota di imposizione diretta è rappresentato in figura 5b: in questo caso
l’aliquota passa da 𝑡𝑤0 a 𝑡𝑤2 (con 𝑡𝑤2 > 𝑡𝑤0 ) la curva WS trasla verso l’alto, il tasso di disoccupazione
naturale aumenta (passando da 𝑢0∗ a 𝑢2∗ ) e il salario reale lordo pagato dalle imprese rimane costante al
livello (𝑊 ⁄𝑃)0 . Al contrario, il salario reale netto che i lavoratori ricevono si riduce: infatti esso passa da
(1 − 𝑡𝑤0 )(𝑊 ⁄𝑃)0 a (1 − 𝑡𝑤2 )(𝑊 ⁄𝑃)0 (si ricordi che 𝑡𝑤2 < 𝑡𝑤0).

Passiamo ora a valutare l’impatto dell’imposizione indiretta, ovvero ipotizziamo che su ogni acquisto venga
posta una tassa con aliquota 𝑡𝑦 sul prezzo di vendita. In assenza di tale imposta il prezzo p che l’impresa
fissava dipendeva dai salari W e dal ricarico praticato (1+h): inoltre, tale prezzo pagato finiva interamente
nelle casse dell’impresa. Di conseguenza, in presenza della tassa 𝑡𝑦 , l’entità dell’incasso netto che l’impresa
ritiene ottimale deve continuare ad essere dato dal prodotto fra W e 1+h; in pratica (sotto l’ipotesi che
𝜕𝑌⁄𝜕𝑁 = 1):

𝑃(1 − 𝑡𝑦 ) = (1 + ℎ)𝑊 (3)

Da cui risulta che il salario determinato implicitamente dalle imprese è pari a:

𝑊 1−𝑡𝑦
𝑃
= 1+ℎ
(4)

che rappresenta la curva PS in presenza di tassazione diretta sul salario. Si noti che la (4) rappresenta anche
il salario reale che i lavoratori riceveranno. In presenza di un 𝑡𝑦 > 0 la curva PS risulta posizionata più in
basso rispetto al caso senza imposte (infatti, dalla (4) si nota che la tassazione entra negativamente nel
nella determinazione del salario reale). Inoltre, l’equazione (4) mostra che variazioni dell’aliquota 𝑡𝑦

39
producono traslazioni della curva PS: una riduzione dell’aliquota trasla la PS verso l’alto mentre un aumento
la sposta verso il basso (si veda figura 6a e 6b).

Come si nota nella figura 6a, quando l’aliquota viene abbassata da 𝑡𝑦0 a 𝑡𝑦1 (con 𝑡𝑦1 < 𝑡𝑦0 ) la curva PS
trasla verso l’alto, il tasso di disoccupazione naturale si abbassa (passando da 𝑢0∗ a 𝑢1∗ ) e il salario reale
determinato dalle imprese cresce (da (𝑊 ⁄𝑃)0 a (𝑊 ⁄𝑃)1 ).

Il caso di un aumento dell’aliquota di imposizione indiretta è rappresentato in figura 6b: in questo caso
l’aliquota passa da 𝑡𝑦0 a 𝑡𝑦2 (con 𝑡𝑦2 > 𝑡𝑦0 ) la curva PS trasla verso l’alto, il tasso di disoccupazione
naturale aumenta (passando da 𝑢0∗ a 𝑢2∗ ) e il salario reale determinato dalle imprese si riduce (da (𝑊 ⁄𝑃)0 a
(𝑊 ⁄𝑃)2 ).

Un altro aspetto che occorre considerare nel valutare le implicazioni di politica economica di queste
manovre sul livello di tassazione è che politiche di riduzione delle aliquote dell’imposizione (sia diretta che
indiretta) hanno benefici sul tasso naturale di disoccupazione e sul salario netto percepito ma tenderanno a
ridurre il gettito fiscale e produrranno quindi un aggravio per il bilancio pubblico. Al contrario le politiche
che incrementano le aliquote incrementano il tasso naturale di disoccupazione e riducono il salario netto
ma incrementano il gettito fiscale e migliorano quindi il bilancio pubblico.

Infine, occorre sottolineare che le politiche sull’imposizione diretta e indiretta che abbiamo analizzato in
questa sezione vanno tenute ben distinte dalle politiche fiscali trattate in precedenza. Infatti, le prime,
rientrando nelle politiche dell’offerta dispiegano i loro effetti andando a modificare le curve WS e PS, le
condizioni di offerta e, in ultima analisi, il tasso naturale di disoccupazione. Al contrario, le politiche fiscali
trattate nelle precedenti sezioni hanno un impatto sulla domanda aggregata e dispiegano i loro eventuali
effetti tramite quest’ultima.

Detto questo, le politiche di determinazione delle aliquote dirette e indirette hanno, in aggiunta, anche un
effetto analogo a quello delle politiche fiscali: esse infatti vanno a incidere sul reddito disponibile (il salario
netto nel nostro caso) e quindi sul consumo e quindi sulla domanda aggregata producendo gli effetti classici
delle politiche fiscali. Ad esempio, una politica dell’offerta che riduce l’aliquota di tassazione dei salari
40
produce un incremento dei salari netti e del reddito disponibile e questo (e solo questo) meccanismo è
equivalente a quello che si osservava in una politica fiscale espansiva che riduce il gettito fiscale. Se poi
questi specifici effetti risultino duraturi nel tempo dipenderà ovviamente dal meccanismo di formazione
delle aspettative.

6.2.4 Politiche di formazione, istruzione e addestramento


Fino ad ora ci siamo concentrati sui meccanismi con cui i prezzi vengono definiti dalle imprese e le richieste
salariali sono formulate dai sindacati. In realtà, oltre a questi meccanismi, i prezzi e salari dipendono anche
dai meccanismi di produzione. In particolare, l’equazione generale che descrive la curva PS è:

𝑊 1 𝜕𝑌
𝑃
= 1+ℎ 𝜕𝑁 (5)

Finora, per semplicità, avevamo posto Y=N e quindi la produttività marginale (e media) risultava pari ad
uno. In generale però che queste produttività siano necessariamente fisse sul valore unitario e quindi se le
politiche economiche sono in grado di incidere sui livelli di produttività allora, tramite queste politiche,
sono anche in grado di incidere sul salario determinato delle imprese. Per capire meglio questo aspetto
utilizziamo la seguente (semplice) funzione di produzione aggregata:

𝑌 = 𝑠𝑁 (6)

Dove s è un parametro che misura la competenza dei lavoratori ovvero la loro capacità produttiva. In base a
tale funzione abbiamo che:

𝜕𝑌⁄
𝜕𝑁 = 𝑠 (7)

𝑌⁄ = 𝑠 (8)
𝑁
𝑊 1
𝑃
= 1+ℎ 𝑠 (9)

In pratica, s misura sia la produttività marginale che quella media e la curva PS dipende direttamente da
essa. Poiché s identifica le competenze e la capacità produttive dei lavoratori, politiche di formazione,
istruzione e addestramento dei lavoratori indurranno un incremento di s e questo, in base all’equazione (9),
farà traslare verso l’alto la curva PS, riducendo il tasso di disoccupazione naturale ed incrementando il
salario reale. In pratica, attraverso mirate politiche di formazione, l’autorità di politica economica fornisce
nuove e migliori competenze ai lavoratori, che risulteranno quindi più produttivi. L’effetto di questa politica
è quello tipico di una politica dell’offerta che spinge verso l’alto la curva PS.

Queste politiche si concretizzano in genere attraverso corsi di formazione, corsi di aggiornamento ed anche
attraverso l’istruzione pubblica fornita ai lavoratori e ai cittadini. Ovviamente la fornitura di questi corsi e
dell’istruzione ha un costo per lo stato e possiamo immaginare in particolare che il livello s venga
determinato in base alla spesa per lavoratore EXPc che lo stato sceglie di effettuare e che maggiore è il
livello di spesa per lavoratore, maggiori saranno le competenze da esse acquisite. Sulla base di tale spesa, si
determina il livello di s secondo una generica funzione T(EXPc). In pratica abbiamo che:

𝑠 = 𝑇(𝐸𝑋𝑃𝑐) (10)

Ipotizziamo che tale funzione abbia le seguenti proprietà: 𝑇 ′ (𝐸𝑋𝑃𝑐) > 0 e 𝑇 ′′ (𝐸𝑋𝑃𝑐) < 0.

41
L’esistenza di questa funziona di produzione delle competenze dei lavoratori non cambia, per ora, il
quadro: maggiore è la spesa per formazione, minore sarà il tasso naturale di disoccupazione e maggiore il
salario reale risultante. Questo risultato è indubbiamente auspicabile per un governo, ma produce un
aggravio per il bilancio pubblico.

Tuttavia, possiamo sfruttare queste considerazioni sui benefici ed i costi di questa politica per valutare gli
effetti che questa politica avrebbe se, in contemporanea, fosse interamente finanziata tramite un prelievo
fiscale sul salario dei lavoratori. In questo caso, per definizione, il bilancio dello stato non peggiorerebbe e si
potrebbero comunque sfruttare i vantaggi offerti dai corsi di formazione. Da questo punto di vista, la
variabile di scelta da parte dell’autorità di politica economica è l’entità dell’aliquota contributiva 𝑡𝑠 : una
volta determinata tale aliquota avremo infatti che i fondi raccolti sono 𝑁 ∙ 𝑡𝑠 ∙ 𝑊/𝑃 e la spesa complessiva
in formazione sarà esattamente pari a tale importo (questo per mantenere il bilancio pubblico in pareggio).
Ne consegue che la spesa per lavoratore è pari a

𝐸𝑋𝑃𝑐 = 𝑡𝑠 ∙ 𝑊/𝑃 (11)

e il livello di competenze s raggiunto è

𝑠 = 𝑇(𝑡𝑠 ∙ 𝑊/𝑃). (12)

Infine poiché il salario reale determinato dalle imprese è dato dalla (9) atteniamo che
𝑠
𝑠 = 𝑇(𝑡𝑠 1+ℎ) (13)

dove s compare sia nel lato destro che sinistro dell’equazione. Per comprendere qual è effettivamente il
livello s risultante è possibile ricorrere ad un’analisi grafica: si veda la figura 7a, dove sfruttiamo le proprietà
della funzione 𝑇 ′ (. ) > 0 e 𝑇 ′′ (. ) < 0. Nella figura la funzione 𝑇(. ) ha quindi un andamento crescente
(poiché all’aumentare della spesa pro-capite aumentano le competenze impartite) e concavo e il valore di s
risultante (per un certo valore dell’aliquota 𝑡𝑠0 ) è dato dal punto di incontro della funzione con la bisettrice
(infatti, per tale valore di s il lato destro e sinistro dell’equazione (13) coincidono).

42
Inoltre, possiamo analizzare graficamente gli effetti di una variazione dell’aliquota (figura 7b): ogni qual
volta l’aliquota viene aumentata la curva relativa alla funzione 𝑇(. ) ruota verso l’alto (questo è dovuto al
fatto che 𝑇 ′ > 0 e l’aliquota 𝑡𝑠 entra in modo positivo nell’argomento della funzione) e quindi il valore delle
competenza s aumenta: in figura se l’aliquota aumenta da 𝑡𝑠1 > 𝑡𝑠0 il valore delle competenze aumenta da
𝑠0 a 𝑠1.

Apparentemente l’aumento dell’aliquota 𝑡𝑠 ha un effetto positivo su s e quindi sposta la curva PS verso


l’alto riducendo il tasso naturale di equilibrio: poiché tutta questa manovra ha lasciato il bilancio pubblico
invariato si potrebbe pensare che l’aumento dell’aliquota sia sempre conveniente. In realtà non è così,
infatti, l’aliquota va a determinare l’imposizione a cui i salari sono soggetti e, come abbiamo visto nella
precedente sotto-sezione, un incremento dell’aliquota sui salari fa traslare verso l’alto la curva WS
incrementando, ceteris paribus, il tasso naturale di disoccupazione. In particolare la curva WS in presenza di
un aliquota contributiva 𝑡𝑠 è data da:

𝑊 𝑓(𝑢,𝑧)
𝑃𝑒
= (1−𝑡 ). (14)
𝑠

𝑊 𝑊
𝜕 𝑃𝑒 𝜕
⁄ > 0 e 𝑃𝑒⁄
E si noti che 𝜕𝑡𝑠 𝜕𝑡𝑠 𝜕𝑡𝑠 > 0.

In pratica l’incremento dell’aliquota 𝑡𝑠 ha due effetti: incrementa s facendo traslare verso l’alto la PS e
incrementa l’imposizione fiscale sui salari spostando verso l’alto anche la curva WS. Questi due effetti
spingo in direzioni contrapposte il tasso naturale di disoccupazione senza che uno dei due effetti debba
necessariamente prevalere. Tuttavia, possiamo sfruttare questo risultato per determinare, graficamente,
quella che è l’aliquota ottimale 𝑡𝑠∗. Ci riferiamo in questo contesto ad aliquota ottimale intendendo quel
valore dell’aliquota che rende minimo il tasso naturale di disoccupazione. Per capire come determinare tale
valore consideriamo un caso esemplificativo e ne forniamo una dimostrazione grafica (figura 8).

43
Consideriamo il caso limite in cui 𝑡𝑠 ≅ 0 e, di conseguenza 𝑠 ≅ 0 (in pratica, in assenza di aliquote non ci
sono i fondi per finanziare la formazione dei lavoratori e le competenze sono vicine allo zero). Poiché 𝑠 ≅ 0
la curva PS si trova molto vicina all’asse delle ascisse. Partendo da questa situazione proviamo ad
aumentare l’aliquota 𝑡𝑠 : poiché 𝑇 ′ (. ) > 0 e 𝑇 ′′ (. ) < 0 è ragionevole supporre che poiché la spesa iniziale
era circa zero, l’aumento del valore di s sia in questa circostanza molto ampio e, quindi, la traslazione della
PS verso l’alto sia altrettanto ampia; inoltre, l’aumento di 𝑡𝑠 spinge, moderatamente, la WS verso l’alto.
Poiché la traslazione della PS è molto ampia e quella della WS è moderata la nuova posizione (punto A in
figura) corrisponde ad un tasso naturale di disoccupazione più basso ed un salario più alto. Proviamo
adesso a far aumentare ancora 𝑡𝑠 : poiché vale sempre 𝑇 ′′ (. ) < 0 questa volta la traslazione della PS sarà
𝑊
𝜕 𝑃𝑒

più contenuta di prima mentre la curva WS traslerà di più di prima (infatti, dato che 𝜕𝑡𝑠 𝜕𝑡𝑠 > 0, le
ulteriori variazioni di 𝑡𝑠 fanno traslare WS di entità sempre maggiori): nel caso in figura le due curve sono
traslate della stessa entità, incontrandosi ora nel punto B, e lasciando invariato il tasso di disoccupazione.
Questa situazione, in cui abbiamo raggiunto un valore di 𝑡𝑠 tramite una variazione dell’aliquota che ha fatto
traslare le due curve in maniera identica, identifica il valore ottimale dell’aliquota: da quel valore in poi
infatti ulteriori aumenti dell’aliquota provocherebbero traslazioni della curva PS inferiori a quelli della WS.
Infatti, 𝑇 ′′ (. ) < 0 implica che ogni traslazione della curva PS sia inferiore a quella precedente: se a un certo
punto la PS traslava quanto la WS, le traslazioni successive sarebbero necessariamente di entità minore
mentre la WS traslerebbe addirittura a un ritmo maggiore. In pratica, il valore ottimale dell’aliquota è dato
da quell’aliquota che, al margine, provoca il medesimo incremento delle curve WS e PS e l’esistenza di un
simile valore ottimale è garantito dalla condizione 𝑇 ′′ (. ) < 0.

Per chiudere occorre segnalare che abbiamo analizzato gli effetti di politiche di addestramento finanziate
tramite contributi prelevati dai redditi da lavoro: avremmo potuto svolgere l’analisi relativa al caso in cui il
finanziamento avviene con imposte indirette sul prezzo di vendita.

44
7. Economia aperta e concorrenza imperfetta
Nell’ambito del funzionamento di un’economia il ruolo degli scambi di beni e servizi con l’estero è
estremamente rilevante sia dal punto di vista dell’entità di tali scambi rispetto al resto dell’economia
interna sia dal punto di vista di come essi incidono sule meccaniche dell’attività economica. Infatti, al fine di
comprendere il funzionamento di un’economia che scambia con l’estero è necessario introdurre nuovi
elementi. In primo luogo occorre considerare il fatto che esistono adesso valute diverse che circolano nei
diversi paesi e che queste valute possono essere convertite fra loro secondo un certo tasso di cambio e.
Tale tasso esprime la quantità di valuta estera che si riceve in cambio di un’unità di valuta nazionale.

Inoltre gli scambi che hanno luogo possono riguardare sia i beni e i servizi oppure le attività finanziarie e
questi diversi scambi sono regolati da meccanismi diversi. E ancora, visti i flussi di scambi di merci, servizi e
capitali, occorre valutare quale sia il saldo di questi flussi e quale sia, complessivamente, la posizione di un
paese rispetto all’altro. Infine, lo scambio produce degli effetti diretti nell’attività economica: le
importazioni e le esportazioni incidono sulla domanda aggregata mentre l’utilizzo di fattori produttivi
acquistati all’estero incide sul prezzi finali di vendita e sul loro livello aggregato.

Gli effetti dell’apertura del sistema economico agli scambi internazionali dipendono fortemente da alcune
delle regole e delle caratteristiche del sistema aperto. In particolare, occorre distinguere intanto se il
sistema dei cambi è un sistema flessibile (dove il tasso di cambio varia in base agli squilibri della bilancia dei
pagamenti) oppure un sistema a cambi fissi (dove la banca centrale, in presenza di squilibri della bilancia
dei pagamenti interviene per mantenere costante il tasso di cambio). Inoltre, su un’altra dimensione,
occorre distinguere se vi è perfetta mobilità di capitali, imperfetta mobilità di capitali o zero mobilità di
capitali. Sotto l’ipotesi di perfetta mobilità di capitali, le attività finanziarie acquistate nelle varie nazioni
(obbligazioni, azioni e altri investimenti finanziari) sono considerate, a parità di rendimento, equivalenti e
non vi sono limiti o vincoli alla compravendita internazionali di tali attività. Sotto imperfetta mobilità di
capitali le attività finanziarie di nazioni diverse non sono considerate perfette sostitute e questo avviene in
genere perché alcuni mercati finanziari e alcuni governi sono considerati meno affidabili degli altri: di
conseguenza a parità di rendimento si tende a preferire i titoli provenienti da aree più sicure. Infine, in caso
di zero mobilità di capitali, la compravendita di attività finanziare è espressamente vietata o, in ogni caso,
gli operatori economici non vogliono o non possono acquistare titoli esteri.

La presenza di due alternative in termini di tipologie di cambi e di tre alternative sulla mobilità dei capitali
genera, di fatto, 6 possibili situazioni che descrivono il funzionamento di un’economia aperta. Queste 6
alternative risultano essere diverse fra loro in termini del funzionamento dell’economia, dei meccanismi da
descrivere e dalle implicazioni di politica economica. Nella presente trattazione ci limitiamo a descrivere nel
dettaglio il caso di cambi fissi e perfetta mobilità di capitali. L’analisi dettagliata di questo caso permette
comunque di illustrare tutti gli aspetti che vanno considerati nella trattazione dell’economia aperta con
mercati imperfetti permettendo così di individuare tutte le problematiche che emergono. Infine, forniremo
anche qualche breve cenno sul caso di cambi flessibili e zero mobilità di capitali (che ci permetterà di
presentare, nel modo più semplice possibile, le conseguenze di un sistema di cambi flessibili). In quanto
segue ipotizzeremo inoltre che gli agenti abbiano aspettative accelerative: la nostra trattazione potrebbe
essere tranquillamente adattata ad altre ipotesi sulle aspettative.

45
7.1 Economia aperta e concorrenza imperfetta
Al fine di illustrare il funzionamento di un economia aperta occorre innanzitutto ampliare alcune delle
ipotesi che erano alla base del modello AD-AS e del modello WS-PS. Per iniziare immaginiamo adesso che
nel processo di produzione venga ora impiegato, oltre al lavoro, un secondo fattore che debba essere
importato dall’estero. In genere, si identifica questo fattore nelle materie prime o nell’energia che, in molti
paesi industrializzati, devono essere importati dall’estero. In alternativa, questo fattore può rappresentare
qualunque prodotto intermedio del processo di produzione che viene acquistato all’estero. Definiamo
quindi con M la quantità di questo fattore necessario per la produzione di un’unità aggiuntiva del prodotto.
Poiché tale fattore viene acquistato all’estero, il suo prezzo dipenderà dai prezzi internazionali (che
indichiamo con 𝑃∗ ) e, in particolare, il prezzo unitario che l’impresa dovrà pagare per acquistarlo è dato da
𝑃∗
𝑒
dove e è il tasso di cambio (quantità di valuta estera che si ottiene in cambio di un’unità di valuta

nazionale). In pratica 𝑃 ⁄𝑒 rappresenta il prezzo delle materie prime acquistate all’estero espresso in valuta
nazionale. Poiché le imprese in concorrenza imperfetta continuano ad applicare un ricarico h sui costi di
produzione (dati dal salario W e dai costi per l’acquisto delle materie prime) abbiamo che:

𝑃∗
𝑃 = (1 + ℎ) (𝑊 + 𝑒
𝑀) (1)

e di conseguenza il salario reale determinato dalle imprese è

𝑊 1 𝑃∗
𝑃
= 1+ℎ − 𝑒𝑃 𝑀. (2)

𝑃∗
Definendo con 𝛾 = l’indice di competitività otteniamo quindi
𝑒𝑃

𝑊 1
𝑃
= 1+ℎ − 𝛾𝑀 (3)

Che rappresenta la curva PS in economia aperta. Si noti che l’indice 𝛾 è lo stesso che influenza in modo
positivo le esportazioni e le esportazioni nette (esportazioni meno spesa per importazioni): infatti al
crescere di tale indice i prodotti esteri costano più di quelli nazionali e questo incide in maniera positiva
sulle esportazioni. Si noti che l’indice 𝛾 è condizionato dal rapporto fra prezzi internazionali e nazionali: per
tanto, qualora i tassi di inflazione internazionale 𝜋 ∗ e nazionale 𝜋 fossero diversi, avremmo un automatica
variazione dell’indice di competitività. In quanto segue, ipotizzeremo che, in condizioni di equilibrio, valga
𝜋 ∗ = 𝜋 e che tale uguaglianza possa variare solo in presenza di squilibri dell’economia che tratteremo volta
per volta.

Per quanto riguarda la curva WS, essa non viene influenzata dagli scambi con l’estero e continua ad essere
data da:
𝑊
𝑃𝑒
= 𝑓(𝑢, 𝑧). (4)

7.2 Competitività e tasso di disoccupazione: la curva CNA


Per descrivere il funzionamento di mercati con concorrenza imperfetta in economia aperta dobbiamo
quindi considerare le curve PS e della WS descritte dall’equazioni (3) e (4): la curva PS dipende adesso

46
dall’indice di competitività e, di conseguenza, trasla al variare di esso: incrementi della competitività
(aumenti dell’indice 𝛾) fanno traslare la curva PS verso il basso. Inoltre, man mano che l’indice di
competitività varia, anche il punto di incontro fra PS e WS varia e, di conseguenza, il tasso di disoccupazione
naturale si sposta: si veda figura 9a. In particolare, sotto l’ipotesi di aspettative accelerative, il tasso di
disoccupazione naturale coincide col tasso di disoccupazione non accelerativo (NAIRU) e di conseguenza,
come si nota in figura 9a all’aumentare dell’indice di competitività il tasso NAIRU aumenta.

Quello che sta succedendo è che, man mano che l’indice di competitività aumenta, i prezzi esteri
diventando relativamente più alti di quelli nazionali e questo costituisce, per l’impresa, un aggravio: in
pratica i costi delle imprese aumentano e, come reazione, il prezzo che esse praticano aumenta a sua volta:
questo riduce il salario reale che esse implicitamente determinano. Poiché il salario determinato dalle
imprese si riduce man mano che la competitività aumenta, va anche a incrementarsi il divario fra il salario
contrattato dai sindacati e quello determinato dalle imprese e, questo divario, viene colmato solo con
l’aumento del tasso naturale di disoccupazione (che, nel caso in esame, coincide col NAIRU).

In pratica, per ogni livello dell’indice di competitività, viene a determinarsi un tasso di NAIRU diverso ed, in
particolare, come abbiamo appena discusso, vi è una precisa relazione crescente fra indice di competitività
e tasso NAIRU: tale relazione da luogo alla curva CNA che rappresentiamo in figura 9b. In pratica la curva
CNA rappresenta le coppie di tasso di disoccupazione e di indice di competitività per il quale l’economia si
trova in una posizione di costanza dell’inflazione: al di fuori della curva, l’economia osserverà delle
variazioni del tasso di inflazione. Per comprendere come è costruita la curva CNA basta partire dalla figura
9a e notare appunto che per ogni valore dell’indice di competitività (𝛾0 , 𝛾1 , 𝛾2 ) corrisponde un diverso
valore del tasso NAIRU (𝑢0∗ , 𝑢1∗ , 𝑢2∗ ) e che ai valori più alti di 𝛾 corrispondono valori più alti di 𝑢∗ : riportando
per ogni valore di 𝛾 il corrispettivo valore di 𝑢∗ che si determina nel modello WS-PS è possibile ricavare la
curva CNA rappresentata in figura 9b.

47
7.3 Proprietà e stabilità della curva CNA
Abbiamo mostrato come la curva CNA mostri, per ogni livello dell’indice di competitività il tasso di
disoccupazione che mantiene costante l’inflazione. In pratica abbiamo mostrato che in economia aperta
non esiste un unico tasso NAIRU ma un insieme di essi, uno per ogni possibile livello della competitività
internazionale: questo insieme è rappresentato appunto dalla curva CNA. Vogliamo adesso mostrare cosa
accade quando il sistema si trova in punti al di fuori della curva CNA e come il sistema evolve partendo da
essi. Per comprenderlo prendiamo a riferimento la figura 10a e 10b e iniziamo a discutere cosa accade
quando ci troviamo al di sotto della curva CNA.

Prendiamo a riferimento il punto A in figura 10a: esso è contraddistinto dall’indice di competitività 𝛾𝐴 e dal
tasso di disoccupazione 𝑢𝐴 . Si confronti il punto A col punto 𝐴0 : il punto A e 𝐴0 hanno lo stesso indice di
competitività ma 𝐴0 ha un tasso di disoccupazione 𝑢0 maggiore di 𝑢𝐴 . Osserviamo adesso i valori 𝑢𝐴 e 𝑢0
nel modello WS-PS rappresentato in figura 10b: il valore 𝑢0 , poiché era relativo ad un punto che giaceva
sulla CNA corrisponde necessariamente ad un tasso NAIRU ovvero corrisponde al punto di incontro fra WS
e PS quando l’indice di competitività è pari a 𝛾𝐴 . Al contrario 𝑢𝐴 è maggiore di 𝑢0 e quindi nel modello WS-
PS corrisponde ad una situazione per cui, quando la competitività è pari a 𝛾𝐴 , la WS è sotto la PS (si veda
figura 10b). In pratica quando ci troviamo al di sotto della curva CNA il tasso di disoccupazione risulta
essere più alto di quello NAIRU. Proviamo adesso a domandarci cosa accade in tale circostanza: poiché 𝑢𝐴 è
superiore al tasso NAIRU (dato da 𝑢0∗ ) la curva WS risulta essere sotto la PS (si veda figura 10b): quindi i
sindacati vedono realizzarsi un salario reale superiore a quello che si aspettavano dalla contrattazione. Di
conseguenza i sindacati modereranno i salari nominali richiesti, le imprese reagiranno effettivamente
moderando i prezzi e questo col tempo ridurrà (sotto l’ipotesi di aspettative accelerative) il tasso di
inflazione. Per comprendere l’ultimo tassello occorre domandarci cosa accade all’indice di competitività
quando l’inflazione, come in questo caso si riduce: poiché in condizioni normali abbiamo detto che valeva
𝜋 ∗ = 𝜋, qualora l’inflazione nazionale si riduca avremo necessariamente che 𝜋 ∗ > 𝜋 il che produrrà un
𝑃∗
incremento dell’indice di competitività (che infatti è dato da 𝛾 = 𝑒𝑃) e il sistema si sposterà verso l’alto (si
veda figura 10a) proprio in seguito all’aumento dell’indice di competitività: questo processo continuerà fino
a quando il sistema sarà tornato sulla curva CNA (nel punto 𝐴1 ); in quella situazione il tasso di inflazione
torna ad essere stabile e l’indice di competitività, ora più alto di quello iniziale, diviene altrettanto stabile.
In pratica, poiché il tasso di disoccupazione iniziale era più alto di quello NAIRU, l’inflazione inizierà a
48
decrescere e questo renderà relativamente più conveniente le nostre merci rispetto a quelle straniere (i cui
prezzi, continueranno ad aumentare allo stesso ritmo precedente). A tutti gli effetti quindi partendo da una
situazione al di fuori della curva CNA esistono dei meccanismi automatici che ci riportano su di essa. Si noti
che in figura il sistema non si limita a spostarsi verso l’alto ma anche verso sinistra: fino ad ora ci siamo
limitati a spiegarne il movimento verso l’alto ma, in realtà, come spiegheremo meglio nella prossima sotto-
sezione il sistema si sposta anche verso sinistra.

Il caso in cui la posizione iniziale sia al di sopra della curva CNA risulta speculare: si consideri il punto B in
figura e lo si confronti 𝐵0 : essi hanno lo stesso indice di competitività 𝛾𝐵 ma il primo ha un tasso di
disoccupazione inferiore a quello che risulta essere NAIRU. Di conseguenza, nel diagramma WS-PS siamo in
una situazione in cui la curva WS è al di sopra di PS: le rivendicazioni salariali aumentano e questo comporta
un incremento dell’inflazione e una riduzione dell’indice di competitività. Il sistema si sposta da B verso il
basso (e verso destra) fino a raggiungere nuovamente la curva CNA.

Nella descrizione del meccanismo di stabilità abbiamo descritto come, partendo sia da punti al di sopra che
al di sotto della CNA si finisca per tornare ad essa e lì ci si stabilizzi. In realtà quando il sistema raggiunge
nuovamente la CNA il tasso di inflazione diviene costante ad un livello 𝜋 ≠ 𝜋 ∗ per cui per esattezza la curva
CNA viene lievemente oltrepassata salvo poi tornare nuovamente indietro verso essa: questo accade sia se
partiamo da punti al di sopra che al di sotto della CNA e quindi, in pratica, una volta che il sistema è tornato
in prossimità della CNA vi è una fase in cui oscilla intorno ad essa.

7.4 La Domanda aggregata in economia aperta e la determinazione del


tasso di disoccupazione
Fino ad adesso abbiamo analizzato le conseguenza di un sistema aperto agli scambi internazionali sul
modello WS-PS e abbiamo mostrato come adesso esista una relazione fra indice di competitività e tasso di
disoccupazione non accelerativo. In particolare abbiamo visto che esistono molteplici tassi NAIRU,
rappresentati dalla curva CNA. Occorre adesso comprendere su quale di questi tassi il sistema finirà
effettivamente per convergere. Per farlo, è necessario introdurre ora il ruolo della domanda aggregata di
equilibrio: infatti, il reddito e il tasso di disoccupazione dovranno essere necessariamente determinati dalla
domanda aggregata che si realizza in equilibrio.

La relazione che sfrutteremo è quella fra competitività e domanda aggregata: in particolare, all’aumentare
dell’indice di competitività i nostri prodotti risultano più competitivi e le nostre esportazioni nette
migliorano (a patto che siano rispettate le condizioni di Marshall-Lerner); per tanto la domanda aggregata
aumenta. Vi è quindi una relazione crescente fra domanda aggregata di equilibrio e indice di competitività.
Passiamo ora al tasso di disoccupazione: nei modelli macroeconomici che stiamo trattando, la produzione si
adegua alla domanda aggregata ma, inevitabilmente, la produzione può aumentare solo se aumenta
l’occupazione e se si riduce quindi la disoccupazione. Per tanto, vi è una relazione decrescente fra domanda
aggregata e tasso di disoccupazione. Mettendo insieme la relazione crescente fra competitività e domanda
aggregata e quella decrescente fra domanda aggregata e disoccupazione risulta necessariamente una
relazione decrescente fra competitività e disoccupazione. Di conseguenza i valori di equilibrio della
domanda aggregata possono essere rappresentati nello spazio (𝑢, 𝛾) come una curva decrescente: infatti
partendo da un punto qualunque della curva, se la competitività si riduce, la domanda aggregata si ridurrà
e il tasso di disoccupazione dovrà aumentare come reazione alla minor domanda aggregata. Graficamente
49
rappresentiamo la curva AD in figura 11. In particolare la curva AD può essere rappresentata come una
relazione crescente fra reddito e competitività poiché, come già detto, all’aumentare della competitività
aumenta la domanda aggregata e quindi la produzione (figura 11a). In maniera speculare, la curva AD è una
relazione decrescente fra competitività e disoccupazione poiché vi è una relazione inversa fra produzione e
disoccupazione (figura 11b): questa forma decrescente è quella che utilizzeremo nella restante trattazione.

Si noti inoltre che la domanda aggregata dipende anche dalla spesa pubblica G e dagli investimenti. Poiché
sotto l’ipotesi di perfetta mobilità di capitali il tasso di interesse è sempre costante al livello del tasso di
interesse internazionale anche gli investimenti possono essere considerati costanti e al di fuori del controllo
delle autorità di politica economica; al contrario la spesa pubblica può essere fatta variare e, un suo
aumento, farebbe traslare la curva AD verso sinistra.

Una volta che abbia introdotto la curva AD è possibile notare che il tasso NAIRU che si realizza
nell’economia è determinato dall’incontro fra la curva CNA e la curva AD: infatti, in equilibrio, il reddito
dovrò necessariamente essere pari alla domanda aggregata e quindi il sistema, per qualunque tasso di
disoccupazione, dovrà trovarsi lungo la curva AD. D’altra parte però, quando il sistema non si trova sulla
CNA abbiamo visto nella precedente sottosezione che esistono delle forze che spingono l’indice di
competitività a variare: la variazione dell’indice di competitività riporta il sistema verso la curva CNA.
Inoltre, man mano che la competitività varia, anche le esportazioni nette variano e quindi la domanda
aggregata varia (attenzione, questi sono movimenti lungo la curva AD e non movimenti della curva AD).
Prendiamo ad esempio il punto A in figura 11c: esso è al di sotto della curva CNA e questo porterà
l’inflazione a ridursi e la competitività ad aumentare. Inoltre, l’incremento della competitività fa aumentare
le esportazioni nette e quindi sia la domanda aggregata che la competitività aumenteranno e il sistema
risalirà lungo la curva AD fino a raggiungere il punto E, dove l’indice di competitività smette di variare e
anche la domanda aggregata può quindi stabilizzarsi. Se l’economia si trovasse invece in un punto come B il
meccanismo sarebbe semplicemente speculare e il sistema tornerebbe in B.

7.5 Le partite correnti e la curva PC


Fino ad ora non ci siamo preoccupati di verificare gli effetti che gli scambi internazionali generavano dal
punto di vista della bilancia dei pagamenti (BP) e delle sue componenti: le partite correnti (PC) ed i
movimenti dei capitali (MK). Per la verità, avendo noi ipotizzato che il sistema abbia perfetta mobilità di

50
capitali sappiamo che la bilancia dei pagamenti raggiunge sempre l’equilibrio dove il tasso di interesse
nazionale è pari a quello internazionale e dove i movimenti di capitali variano per colmare, a quel tasso di
interesse, qualsiasi sbilanciamento nelle partite correnti.

Proprio poiché i movimenti di capitale si limitano a reagire ai surplus o deficit delle partite corrente, vale la
pena concentrarsi su come questi si determinano. Riprendiamo quindi lo spazio (𝑢, 𝛾) e consideriamo come
variano in essi i saldi delle partite correnti. In particolare, costruiamo la curva PC che rappresenta il luogo
dei punti dove le partite correnti sono in pareggio. Possiamo facilmente intuire che le partite correnti sono
una funzione crescente della competitività (all’aumentare della competitività aumentano le esportazioni
nette) ed anche del tasso di disoccupazione (all’aumentare della disoccupazione si riduce reddito, domanda
aggregata e quindi importazioni). Ne consegue che la curva PC (figura 12a) è decrescente nello spazio
(𝑢, 𝛾): infatti se da essa ci spostiamo facendo aumentare la competitività, le partite correnti aumenteranno
e il tasso di disoccupazione dovrà ridursi così che le partite correnti possano ridursi fino a tornare in
equilibrio. Secondo lo stesso ragionamento possiamo notare che partendo da un punto lungo la PC e
aumentando la competitività ci troveremo necessariamente in un attivo delle partite correnti, mentre
partendo dalla curva PC e riducendo la competitività creeremo un passivo nelle partite correnti. Pertanto,
al di sopra della curva PC il saldo delle partite correnti sarà positivo, al di sotto di essa sarà negativo.

Riportiamo adesso in unico grafico le curve CNA, AD e PC (figura 12b). In tale schema l’equilibrio è
rappresentato dal punto E mentre al contrario i punti C e D trovandosi rispettivamente sopra e sotto la CNA
innescherebbero delle pressioni inflazionistiche che farebbero variare l’indice di competitività e
riporterebbero il sistema al punto E. Si noti che questi meccanismi sono relativi unicamente alle pressioni
inflazionistiche relative al non essere sulla curva CNA: il processo di aggiustamento invece non è influenzato
dal fatto che nei punti C e D le partite correnti non sono in pareggio.

In effetti eventuali scompensi nelle partite correnti non provocano automaticamente dei meccanismi di
correzione. Si veda ad esempio i casi rappresentati in figura 13a e 13b.

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I punti 𝐸1 (in figura 13a) ed 𝐸2 (figura 13b) sono entrambi punti stabili. Prendiamo ad esempio infatti il
punto 𝐸1 : esso giace sulla curva CNA e sulla AD e pertanto non si innescano pressioni inflattive e la
competitività può rimanere costante. Tale punto è tuttavia al di sotto della PC e per tanto, si registra un
deficit delle partite correnti. In pratica, una nazione che si trova in un punto come 𝐸1 sta importando più
beni e servizi di quanti ne stia esportando e risulta quindi in una posizione debitoria nei confronti
dell’estero. Questo deficit tuttavia, in un regime di perfetta mobilità di capitali e cambi fissi, viene
bilanciato perfettamente dai movimenti di capitali MK ovvero, al tasso di interesse internazionale, si
osserva un afflusso di capitali pari allo sbilanciamento nelle partite correnti. Tale flusso di capitali si
concretizza nell’acquisto degli agenti stranieri di titoli nazionali: in pratica, il paese si sta indebitando con
l’estero. Per quanto questo sbilanciamento nelle partite correnti generi debito estero, questa posizione
risulta comunque stabile, o quanto meno, non ci sono degli automatismi che spingono il sistema verso una
diversa posizione. Il caso rappresentato in figura 13b è speculare: anche il punto 𝐸2 è stabile ma ad esso è
associato un avanzo delle partite correnti e un pari disavanzo nei movimenti dei capitali. In questa
situazione il paese sta accumulando crediti nei confronti dell’estero e anche in questo caso non ci sono
automatismi che spingono il sistema verso altre posizioni.

In ogni caso, nel lungo periodo, è difficile immaginare che un paese possa mantenere indefinitamente un
posizione di deficit delle partite correnti. Infatti, anche in mancanza di automatismi certi, è possibile
immaginare che vi sia delle ragioni che portano al riequilibrio dei conti con l’estero.

Una possibile ragione è legata al fatto che, in presenza di disavanzi nelle partite correnti un paese continua,
in ogni periodo, ad incrementare il proprio debito nei confronti dell’estero. Per quanto tale debito sia
sempre finanziabile al tasso di interesse internazionale, è verosimile che a un certo punto gli investitori
internazionali inizino ad aver dubbi sulle effettive capacità di ripagare tale debito e per tanto, sarebbero
disposti a finanziare la posizione debitoria solo ad un tasso di interesse più alto di quello internazionale (in
pratica, viene a decadere l’ipotesi di perfetta mobilità di capitali): conseguentemente il tasso interesse del
paese verrebbe ad aumentare, riducendo gli investimenti e la domanda aggregata (la cui curva traslerebbe
verso destra) spingendo il sistema verso un riequilibrio dei conti con l’estero. Inoltre, come vedremo più
avanti, un governo lungimirante potrebbe voler evitare di accumulare troppo debito estero e rischiare crisi
finanziarie internazionali e potrebbe intervenire tramite appropriate politiche economiche per portare il
sistema verso una situazione di pareggio nella bilancia dei pagamenti.

Occorre infine notare che, se eventuali deficit delle partite correnti potrebbero essere, nel lungo periodo
non sostenibili, è probabile che eventuali surplus siano invece gestibili con maggiore facilità. In effetti ci
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sono paesi come Germania, Giappone e, in parte, Cina che per moltissimi anni hanno mostrato partite
correnti in attivo. In questi casi, effettivamente, non ci sono ragioni per cui questa situazione non permanga
anche se potrebbero intervenire pressioni politiche (interne o da parte delle altre nazioni) affinché la
politica economica metta in atto misure per riportare la situazione verso un equilibrio più bilanciato.

7.6 Le politiche economiche in economia aperta


Dopo aver descritto nel dettaglio il funzionamento di un’economia aperta e concorrenza imperfetta ci
concentriamo ora su come la politica economica possa intervenire per influenzare il funzionamento del
sistema e per spingerlo verso posizioni ritenute preferibili. Utilizzeremo quindi lo schema lo schema AD-
CNA-PC per rappresentare gli effetti di alcune politiche economiche e per valutare in che misura tali effetti
siano più o meno duraturi. Le politiche che analizzeremo nel dettaglio sono le seguenti: le politiche fiscali,
le politiche di svalutazione del tasso di cambio e le politiche dell’offerta. A queste, in teoria, andrebbero
aggiunte le politiche monetarie: tuttavia, in un regime di cambi fissi e perfetta mobilità di capitali, il tasso di
interesse risulta sempre pari a quello internazionale e, per tanto, politiche monetarie nazionali non sono in
grado di influenzarlo e risultano quindi inefficaci. L’inefficacia e le ragioni di essa sono le stesse si
ottengono, a parità di ipotesi, nell’ambito del modello IS-LM e visto che il risultato non cambia all’interno
del modello che stiamo trattando, non è necessario approfondire ulteriormente, in questa circostanza, le
politiche monetarie.

7.6.1 Le politiche fiscali in economia aperta


Analizziamo ora gli effetti di una politica fiscale prendendo atto che il sistema economico prevede scambi
con l’estero e che i mercati sono contraddistinti dalla concorrenza imperfetta. Nella presente trattazione
illustreremo cosa accade in seguito alla messa in atto di politiche fiscali che fanno variare la spesa pubblica:
in buona misura, gli effetti delle politiche fiscali che vanno invece a variare il gettito fiscale producono
effetti equivalenti.

Poniamo quindi di essere in una situazione di equilibrio sia dal punto di vista delle pressioni inflazionistiche
(ovvero il sistema si trova sulla curva CNA) sia nel saldo delle partite correnti (ovvero il sistema si trova sulla
curva PC): tale situazione è rappresentata dal punto E in figura 14a. Supponiamo adesso che il governo
metta in atto una politica fiscale espansiva, incrementando la spesa pubblica da 𝐺0 a 𝐺1 e analizziamo gli
effetti di questa politica fiscale espansiva: per farlo consideriamo il grafico 14a.

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Come reazione iniziale all’aumento della spesa pubblica, la domanda aggregata aumenterà mentre,
nell’immediato l’indice di competitività non ha ragioni di variare. La maggior domanda aggregata porterà
un incremento nella produzione e ad una riduzione del tasso di disoccupazione che passerà ad essere 𝑢𝐴 : il
sistema si trova quindi adesso nel punto A. Tuttavia il punto A è al di sopra della curva CNA e quindi 𝑢𝐴 è
inferiore al tasso NAIRU: questo provoca delle pressioni sull’inflazione che inizierà ad accelerare riducendo
la competitività internazionale. Il sistema quindi vedrà una riduzione di 𝛾 e si sposterà lungo la nuova curva
AD fino a tornare sulla curva CNA nel punto 𝐸1 : in tale punto il sistema risulta stabile e l’indice di
competitività è pari a 𝛾𝐸1 (che è inferiore a quello iniziale) mentre la disoccupazione risultante sarà 𝑢𝐸1 che
è inferiore a quella iniziale. Di conseguenza la politica fiscale è risultata efficace riducendo il tasso di
disoccupazione (e, conseguentemente, aumentando il reddito). Si noti che in questa manovra la spesa
pubblica è aumentata (e quindi, in genere, il bilancio pubblico è peggiorato) e la competitività e le
esportazioni nette sono peggiorate (variando quindi la composizione della domanda aggregata). Proprio
questa riduzione della competitività, insieme alla riduzione del tasso di disoccupazione, ha portato le
partite correnti a peggiorare ed, in fatti, il punto 𝐸1 giace sotto la curva PC ed implica quindi un deficit delle
partite correnti. Questo abbiamo visto, che non comporta conseguenze dirette anche se nel lungo periodo
potrebbero intervenire dei meccanismi (ma non degli automatismi) che spingeranno il sistema verso
posizioni di equilibrio anche nelle partite correnti.

Il caso di politiche fiscali restrittive è invece raffigurato nella figura 14b: in seguito alla riduzione della spesa
pubblica da 𝐺0 a 𝐺2 la curva AD trasla verso destra e il sistema, inizialmente, si trova nel punto B. Poiché
tale punto è al di sotto della curva CNA, assisteremo alla riduzione del tasso di inflazione e al conseguente
aumento dell’indice di competitività fino a che il sistema non si stabilizzerà nel punto 𝐸2 dove il tasso di
disoccupazione risultante (𝑢𝐸2 ) è più alto di quello iniziale e dove, trovandoci sopra la curva PC, le partite
correnti sono in attivo.

7.6.2 Le politiche di svalutazione


Vediamo adesso gli effetti di una politica di svalutazione ovvero di una politica che consiste nel far variare,
di ufficio, il tasso di cambio e: in particolare una svalutazione consiste nel ridurre il valore di e. In pratica,
con una svalutazione, l’autorità di politica economica impone (e si impone) di cedere una maggior quantità
di valuta nazionale in cambio dello stesso quantitativo di valuta straniera.

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Supponiamo quindi di essere in una situazione di equilibrio sia dal punto di vista delle pressioni
inflazionistiche (ovvero il sistema si trova sulla curva CNA) sia nel saldo delle partite correnti (ovvero il
sistema si trova sulla curva PC): tale situazione è rappresentata dal punto E in figura 15a.

Supponiamo quindi che l’autorità di politica economica decida di mettere in atto una politica di
svalutazione e riduca il tasso di cambio e: in seguito a tale riduzione l’indice di competitività 𝛾 aumenta

(l’indice è infatti dato da 𝑃 ⁄𝑒𝑃) e passa da 𝛾𝐸 a 𝛾𝐴 . La maggiore competitività dei nostri prodotti si traduce
in maggiori esportazioni (ed esportazioni nette) il che stimola la produzione nazionale e riduce la
disoccupazione: il sistema si sposta dal punto A risalendo lungo la curva AD fino al punto A. Tuttavia il
punto A è al di sopra della curva CNA e quindi 𝑢𝐴 è inferiore al tasso NAIRU: questo provoca delle pressioni
sull’inflazione che inizierà ad accelerare riducendo la competitività internazionale. Il sistema quindi vedrà
adesso una riduzione di 𝛾 e si sposterà sempre lungo la curva AD ma in direzione opposta fino a tornare
sulla curva CNA nuovamente nel punto 𝐸: in tale punto il sistema risulta stabile e l’indice di competitività è
di nuovo pari a 𝛾𝐸 (ovvero è pari a quello precedente alla svalutazione) e la disoccupazione risultante è di
nuovo 𝑢𝐸 (ovvero è pari a quella precedente alla svalutazione). Di conseguenza la politica di svalutazione è
risultata, alla fine del processo di aggiustamento, inefficace nel ridurre il tasso di disoccupazione e
nell’aumentare il reddito. Tuttavia, durante il processo di aggiustamento (e solo durante quello), la politica
è riuscita effettivamente a ridurre il tasso di disoccupazione ed ha per tanto mostrato di poter essere
efficace nel breve periodo e l’effettiva durata di tale efficacia dipende poi dai meccanismo di adeguamento
dei prezzi e dalle aspettative degli agenti economici. Infine occorre notare che, al termine del processo di
aggiustamento, le partite correnti sono tornate al livello iniziale: nel caso rappresentato in figura questo
coincide col pareggio ma anche se inizialmente vi fosse stato un disavanzo (o avanzo) al termine del
processo di aggiustamento si sarebbe tornati nuovamente alla stessa posizione di disavanzo (o avanzo). Di
conseguenza, le politiche di svalutazione non sono comunque in grado di risolvere problemi relativi a
sbilanciamenti delle partite correnti.

Nella presente trattazione ci siamo concentrati sul caso di politiche di svalutazione ma le politiche di
rivalutazione (illustrata in figura 15b) risultano perfettamente speculari: la rivalutazione produce
inizialmente una riduzione della competitività e un aumento, nel breve periodo, del tasso di
disoccupazione. In seguito, però, si innescheranno pressioni che faranno ridurre il tasso di inflazione e
riporteranno la competitività al livello iniziale e, in questo modo, anche il tasso di disoccupazione finirà per
tornare al livello precedente alla politica di rivalutazione.
55
7.6.3 Le politiche dell’offerta in economia aperta
Le politiche dell’offerta hanno come obbiettivo la modifica di elementi strutturali del sistema economico al
fine di modificare i meccanismi di determinazione di prezzi e salari e, attraverso essi, il tasso di
disoccupazione naturale e il tasso NAIRU. In economia chiusa, abbiamo visto che esisteva un unico tasso
NAIRU e, le politiche dell’offerta, erano quindi direttamente in grado di incidere su di esso. In economia
aperta invece, esistono molteplici tassi NAIRU e le politiche dell’offerta non possono quindi univocamente
determinarne uno: tuttavia mantengono la possibilità di incidere su di esse andando a modificare la curva
CNA. Al fine di determinare gli effetti delle politiche dell’offerta sulla curva CNA è utile classificare le
politiche dell’offerta in due tipologie sulla base degli effetti che producevano: la prima è costituita da tutte
quelle politiche che fanno traslare verso l’alto la curva PS o che fanno traslare la curva WS verso il basso; la
seconda raccoglie quelle politiche che fanno traslare le curve nelle direzioni opposte. Il primo gruppo di
politiche era quello che, in economia chiusa, riduceva il tasso naturale di disoccupazione e rientravano in
essa le politiche di moderazione salariale, la promozione della concorrenza, la riduzione dell’imposte
dirette e indirette e le politiche che aumentavano il grado di competenza dei lavoratori. Il secondo gruppo
di politiche invece incrementava il tasso naturale di disoccupazione ed era costituito da politiche che
rafforzavano le pretese salariali, che riducevano il grado di concorrenza e che incrementavano le imposte
dirette e indirette. Prendiamo la prima tipologia di politiche: esse, in economia chiusa, riducevano il tasso di
disoccupazione naturale e, nel nostro caso, il tasso NAIRU: di conseguenza, in economia aperta, esse per
ogni livello dell’indice di competitività producono un abbassamento del NAIRU: graficamente questo si
traduce in una traslazione verso sinistra della curva CNA (si veda figura 16a).

Si noti che come reazione a questa politica inizialmente il sistema permane nel punto iniziale E ma poiché
adesso il punto E si trova sotto la nuova curva CNA’ si innescano i noti meccanismi che portano il sistema a
risalire lungo la curva AD fino al nuovo equilibrio E1 in cui la competitività è più alta e il tasso di
disoccupazione è più basso. Si noti che nella nuova posizione di equilibrio le partite correnti sono adesso in
avanzo: questo, di per se, non risulta problematico e come abbiamo visto non vi sono automatismi che
reagiscono a questa situazione di avanzo; nel lungo periodo, l’eccessivo accumulo di credito nei confronti
estero non genera particolari problemi nemmeno nel lungo periodo, è però possibile che intervengano
pressioni politiche che spingano le autorità economiche a correggere l’eccessivo avanzo.

56
Gli effetti di politiche dell’offerta della seconda tipologia invece sono opposti: esse, a parità di competitività
aumentano il tasso NAIRU e fanno quindi traslare verso destra la curva CNA (si veda figura 16b):
conseguentemente il sistema si sposterà verso la posizione E2 contraddistinta da una minore competitività
ed un tasso di disoccupazione più alto. Questo punto è stabile ma tuttavia in questa nuova posizione le
partite correnti sono adesso in avanzo: questo, di per se, non risulta problematico e come abbiamo visto
non vi sono automatismi che reagiscono a questa situazione di disavanzo; nel lungo periodo però,
l’eccessivo accumulo di debito nei confronti dell’estero potrebbe non essere sostenibile e spingere il
sistema verso altre posizioni.

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8. Le aspettative razionali
Nell’analisi del funzionamento dell’economia e delle conseguenze dell’applicazione delle politiche
economiche ci siamo imbattuti spesso nel ruolo che le aspettative giocano nell’effettivo risultato che
l’economia raggiunge. Fino ad adesso abbiamo preso atto che gli agenti economici formulano delle
aspettative che condizionano i meccanismi economici e che queste aspettative possono anche risultare
disattese. In ogni caso, abbiamo supposto che per quanto le aspettative possano essere disattese gli agenti
adeguano le loro aspettative che quindi, in genere, finiscono per convergere e per realizzarsi. Questo
processo di adeguamento può richiedere tempo e ci ha portato a mostrare che, in economia chiusa, le
politiche fiscali e monetarie risultano efficaci nel breve periodo ma risultano inefficaci nel medio periodo,
proprio quando le aspettative completano il loro processo di adeguamento. In realtà, abbiamo anche
aggiunto che proprio gli eventuali ritardi nell’adeguamento delle aspettative può essere sistematicamente
sfruttato dalle autorità di politica economica per portare, entro certi limiti e a certi costi, il sistema
economico verso posizioni ritenute migliori. Questo era il risultato ottenuto sotto le ipotesi che le
aspettative sul livello dei prezzi fossero di tipo statico adattivo o accelerativo.

Adesso vogliamo portare all’estremo il metodo di formazione delle aspettative e ipotizzare che gli agenti
siano in grado, sulla base delle informazioni da loro possedute, di formulare aspettative corrette. Questa
ipotesi prende il nome di aspettative razionali. La teoria delle aspettative razionali è stata originalmente
proposta dal Muth (1961) che suggeriva come “le aspettative, essendo predizioni di eventi futuri fondate su
informazioni, sono sostanzialmente uguali alle predizioni della teoria economica rilevante”. Tale teoria
tuttavia, non fu recepita immediatamente e si affermò in maniera prorompente soltanto dieci anni dopo,
grazie a vari contributi di Lucas nei primi anni settanta. L’adozione delle aspettative razionali ha prodotto
una nuova scuola di pensiero nota come Nuova Macroeconomia Classica: tale scuola, che unisce l’ipotesi di
aspettative razionali all’idea di mercati perfettamente concorrenziali in continuo equilibrio, si afferma negli
anni settanta e giunge a conclusioni fortemente liberiste sul ruolo della politica economica.

L’ipotesi relativa alle aspettative razionali consiste quindi nella capacità degli agenti economici di prevedere
correttamente i valori futuri delle variabili di interesse: se applichiamo questo metodo di formulazione delle
aspettative alla previsione del livello dei prezzi possiamo formalizzare l’ipotesi di aspettative razionali
attraverso la seguente funzione:

𝑃𝑒 = 𝐸(𝑃𝑡 |𝐼𝑡−1 ) (1)

dove 𝑃𝑒 sono le aspettative sul prezzo che si realizzerà al tempo t e 𝑃𝑡 rappresenta invece il prezzo che
effettivamente si realizzerà al tempo t. La componente 𝐼𝑡−1 invece rappresenta l’insieme delle informazioni
disponibili agli agenti al momento in cui formulano le aspettative. Questa formulazione delle aspettative in
pratica ci dice che gli individui, se posseggono tutte le informazioni necessarie, sono in grado di prevedere
in media il livello dei prezzi che effettivamente si realizza nel mercato. Questa ipotesi di aspettative
prevede anche, implicitamente, che gli agenti conoscano i meccanismi che regolano il funzionamento del
mercato e che gli agenti tengano conto di questa conoscenza comune.

Un modo alternativo (ma equivalente) di rappresentare le aspettative razionali è dato dalla seguente
equazione:

𝑃𝑒 = 𝑃𝑡 + 𝜀𝑡 (2)

58
Dove 𝜀𝑡 è una variabile casuale con media zero e deviazione standard costante. In pratica questa
formulazione ci dice che i prezzi che si realizzano si discostano dal valore previsto dagli agenti soltanto per
una componente erratica che rappresenta appunto gli effetti di eventuali eventi che gli individui non
potevano conoscere al momento di formulare le aspettative.

Una terza formulazione alternativa è quella che esplicita il ruolo delle aspettative sull’inflazione in relazione
a quelle sul prezzo: in pratica le aspettative sul prezzo atteso sono per definizione pari al livello dei prezzi
del periodo precedente incrementato sulla base dell’inflazione prevista 𝜋 𝑒 . In pratica 𝑃𝑒 = 𝑃𝑡−1 (1 + 𝜋 𝑒 ).

Preso atto di questo meccanismo di formazione delle aspettative vediamo ora quali sono le sue
conseguenze dal punto di vista delle politiche economiche.

8.1 Le aspettative razionali e la politica economica


Vediamo ora quali sono le conseguenze dell’ipotesi di aspettative razionali sull’efficacia delle politiche
fiscali e monetarie. Per farlo utilizziamo il modello AD-AS e nella presente trattazione ci occupiamo soltanto
delle politiche monetarie, ma i risultati che otteniamo possono essere estesi anche alle politiche fiscali.

Nel nostro modello di riferimento la curva AD rappresenta la domanda aggregata ed è data (nel periodo t )
dalla seguente equazione:

𝐶 0 +𝐼0 +𝐺 1 𝑀
𝑌𝑡 = 1−𝑐+𝑒𝑑/𝑓 + (1−𝑐)𝑓/𝑑+𝑒 𝑃 . (3)
𝑡

La curva AS rappresenta invece l’offerta aggregata ed è data dalla seguente equazione

𝑃𝑡 = 𝑃𝑒 𝑓(𝑢, 𝑧)(1 + ℎ) (4)

dove 𝑃𝑒 rappresenta appunto le aspettative sul livello dei prezzi che, in questo caso, ipotizziamo essere
razionali e date quindi da 𝑃𝑒 = 𝐸(𝑃𝑡 |𝐼𝑡−1 ). Nel valutare gli effetti di una politica monetaria occorre
distinguere se questa è stata annunciata dalla banca centrale, ed è quindi prevista dagli agenti, oppure se
non sia stata annunciata e risulti quindi una sorpresa per gli agenti.

Iniziamo dal primo caso e analizziamo gli effetti di una politica monetaria espansiva che viene
pubblicamente annunciata dalla banca centrale. Supponiamo quindi che inizialmente il sistema si trovi al
reddito naturale: poiché in questo caso la banca centrale ha annunciato pubblicamente la manovra
espansiva gli agenti posseggono tutte le informazioni necessarie per prevedere correttamente i prezzi e per
tanto, in mancanza di ulteriori eventi inaspettati, avremo che 𝑃𝑒 = 𝑃𝑡 . D’altra parte sappiamo già da
quanto avevamo visto precedentemente che l’unico livello del reddito in cui 𝑃𝑒 = 𝑃𝑡 (ovvero l’unico livello
di reddito in cui le aspettative si realizzano) è quello naturale: di conseguenza se le aspettative sono
razionali il reddito rimarrà pari a quello iniziale e la politica risulta inefficace. Quello che sta succedendo è
che gli agenti sanno, poiché razionali, che qualora il livello del reddito fosse superiore a quello naturale le
loro aspettative sarebbero disattese e, di conseguenza, il salario reale realizzato sarebbe inferiore a quello
atteso e questo porterebbe ad un aumento delle pretese salariali ed ad un generale aumento dei prezzi e al
ritorno al reddito naturale: incorporando queste previsioni gli agenti con aspettative razionali sono in grado
di prevedere questa evoluzione del sistema e prevedono correttamente che i prezzi dovranno aumentare
per mantenere invariata la quantità reale di moneta (infatti, affinché il reddito rimanga al livello naturale

59
occorre che M/P resti invariata, si veda equazione (3)). Di conseguenza gli agenti si aspettano direttamente
che il nuovo livello dei prezzi sia quello che rende invariata M/P. Vediamo graficamente quello che accade
utilizzando la figura 17a.

Il sistema inizialmente di trova nel punto E ed in seguito all’aumento dell’offerta di moneta la curva AD
trasla verso destra e gli agenti, che hanno aspettative razionali, si aspettano il livello dei prezzi che
effettivamente si realizza nel mercato: la realizzazione di questa previsione può avvenire soltanto al livello
del reddito naturale e, di conseguenza, la curva di offerta trasla immediatamente per incorporare questa
previsione, così facendo l’equilibrio del sistema risulta essere nel punto E1 in cui le aspettative sono
realizzate ed il reddito risulta invariato: la politica monetaria risulta inefficace e l’unico effetto è stato
quello di aumentare il livello dei prezzi

Passiamo ora al caso di una politica monetaria espansiva non annunciata ed analizziamolo utilizzando la
figura 16b. Il sistema inizialmente si trova nel punto E ed in questa situazione gli agenti, pur avendo
aspettative razionali, non sono a conoscenza della variazione dell’offerta di moneta e non hanno quindi
ragione di rivedere le loro aspettative: di conseguenza continuano ad aspettarsi il livello dei prezzi 𝑃0 .
Anche in questo caso la curva AD trasla verso destra ma, adesso, le aspettative rimangono ferme a 𝑃0 e la
curva di offerta, nell’immediato, non trasla: il nuovo equilibrio è quindi rappresentato dal punto A dove il
reddito è aumentato. Adesso tuttavia, gli individui notano che il livello dei prezzi (𝑃1 ) è più alto di quello
atteso e che il reddito è aumentato (essendo ora 𝑌1 ): in questa situazione gli agenti sono in grado di capire,
in base all’ipotesi di aspettative razionali, che ciò è dovuto ad un aumento dell’offerta di moneta. Di
conseguenza, in assenza di ulteriori manovre non annunciate, gli agenti prevedono correttamente che il
prezzo finirà per convergere al livello che garantisce che il reddito sia al livello naturale: ovvero si aspettano
il livello 𝑃2 e questo fa traslare la curva AS facendo tornare il reddito al livello naturale e realizzando,
effettivamente, il livello dei prezzi 𝑃2 . La durata di questo processo di aggiustamento dipende da quanto
effettivamente gli agenti impiegano ad accorgersi dell’aumento della base monetaria e, non appena lo
fanno, il sistema ritorna all’equilibrio naturale.

60
Concludendo possiamo vedere che politiche monetarie non annunciate portano effettivamente il reddito
ad un livello superiore a quello naturale ma il loro effetto scomparirà rapidamente. Inoltre l’utilizzo di
queste politiche a “sorpresa” dovrà avvenire necessariamente in maniera erratica poiché un utilizzo
sistematico di questo espediente sarebbe correttamente previsto da individui con aspettative razionali.

8.2 La curva di Phillips con aspettative razionali


L’analisi dell’efficacia delle politiche economiche sotto l’ipotesi di aspettative razionali ha già mostrato
come, in assenza di manovre a sorpresa o di eventi imprevedibili, il reddito che si realizza rimane
costantemente al livello naturale. Vediamo adesso come l’adozione delle aspettative razionali va a
condizionare la curva di Phillips e la conseguente relazione fra inflazione e disoccupazione. Come è noto,
l’equazione generica di tale curva è

𝑃𝑡 = 𝑃𝑒 ∙ (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (5)

Ed inserendo l’ipotesi di aspettative razionali espressa dall’equazione (2) otteniamo


𝑃𝑡
𝑃𝑡 +𝜀
= (1 + ℎ) ∙ 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (6)

Da cui
1 1
1+𝜀/𝑃𝑡 1+ℎ
= 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) (7)

Poiché il valor medio di 𝜀 è zero, la (7) comporta che


1
𝐸(𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧)) = 1+ℎ (8)

1
valore per il quale 𝑢𝑡 è esattamente pari al tasso naturale 𝑢𝑁 (per definizione infatti 𝑢𝑁 : 𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧) = 1+ℎ . In
pratica, l’analisi della curva di Phillips conferma che, a meno di errori di previsione, l’economia si trova
sempre al livello naturale mentre, in media, non emerge una relazione causale fra livello dei prezzi,
inflazione e tasso di disoccupazione. Di fatto la curva di Phillips risulta essere in media verticale con il
reddito che sempre al valore naturale mentre prezzi e inflazione possono essere a qualunque livello:
scostamenti del tasso di disoccupazione rispetto al suo valore naturale sono possibili, ma avvengono solo
sulla base di errori di previsione.
1
Si noti che in caso di errori di previsione positivi si ha che 𝜀𝑡 > 0 per cui dalla (7) abbiamo 𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) < 1+ℎ e
si realizza quindi un tasso di disoccupazione 𝑢𝑡 superiore a quello naturale 𝑢𝑁 (per definizione, infatti,
1
𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧) = ) , mentre per errori di previsioni negativi si ha l’effetto opposto e il tasso di disoccupazione
1+ℎ
che si realizza è inferiore a quello naturale.

Per quanto riguarda il livello dei prezzi e dell’inflazione che effettivamente si realizzano, possiamo
facilmente intuire che questi vengono determinati dalla quantità di moneta determinata dalla politica
monetaria. Infatti, poiché il reddito rimane fermo al livello naturale, la quantità reale di moneta M/P dovrà
rimanere costante nel tempo, le variazioni del livello dei prezzi P saranno esattamente pari alle variazioni

61
della quantità nominale di moneta: in pratica, l’inflazione è esattamente pari al tasso di crescita della
quantità di moneta.

8.3 La critica di Lucas


Abbiamo mostrato come l’ipotesi di aspettative razionali porta le politiche economiche ad essere inefficaci
arrivando a negare l’esistenza di un trade-off fra inflazione e disoccupazione. L’economista americano Lucas
utilizza tale risultati e li rafforza in quella che è nota come la critica di Lucas. Tale critica si rivolge alla
formulazione di politiche economiche basate sull’utilizzo di modelli econometrici. Secondo Lucas tali
modelli, costruiti sulla base di relazioni economiche osservate nel passato, falliscono nel considerare che gli
individui aggiustano i loro meccanismi decisionali in base alla messa in atto delle politiche economiche: per
tanto l’intervento di politica modifica proprio quei meccanismi che venivano considerati come dati e sulla
base dei quali erano stati determinati gli effetti dell’intervento. In termini econometrici la critica di Lucas
afferma che le politiche economiche vanno a mutare i parametri del modelli stimati e le previsioni fatte
utilizzando tali modelli sono quindi errate. Un esempio potrà chiarire questo ragionamento: se viene
osservato nel passato che ogni cittadino consuma metà del proprio reddito, l’autorità di politica economica
potrebbe pensare che trasferendo un certo ammontare di reddito ai cittadini, metà di tale trasferimento si
trasformerà in consumi e sulla base di tale assunto potrebbe valutare l’effetto di una simile politica
economica di trasferimento. In realtà, sostiene Lucas, l’intervento stesso va a cambiare la regola di
consumo e pertanto è errato prevedere gli effetti della politica sulla base della regola di consumo
precedente all’intervento.

Questo ragionamento rafforza quindi il risultato di inefficacia della politica economica i cui risultati sono, in
ogni caso, non prevedibili a meno di incorporare una reazione (razionale) da parte degli agenti economici
alla politica stessa.

8.4 L’offerta alla Lucas


All’interno della Nuova Macroeconomia Classica l’ipotesi di aspettative razionali ha come diretta
conseguenza teorica la permanenza continua del reddito al suo livello naturale. Tuttavia è evidente anche
agli esponenti di questa scuola che il reddito subisce continue oscillazioni e che per tanto, anche al netto di
una crescita del reddito di origine tecnologica, non è pensabile che esso coincida sistematicamente col
reddito naturale.

Questa apparente incongruenza viene spiegata all’interno dei fautori delle aspettative razionali con l’idea
che, appunto, gli scostamenti dal reddito naturale sono dovuti ad errori di previsione e che tali errori
emergono a causa di imperfezioni e incompletezza nelle informazioni degli agenti.

In particolare lo stesso Lucas formula un modello con informazione imperfetta noto come modello delle
“isole” in cui appunto gli agenti economici (che producono beni) hanno soltanto una visione parziale di
quello che accade nel loro contesto economico (come appunto se vivessero su delle isole) e per tanto non
sono in grado di distinguere se eventuali variazioni fra l’inflazione prevista e quella osservata sono dovute a
fenomeni puramente monetari non previsti che non giustificano quindi variazioni delle quantità prodotte
da parte degli agenti oppure da fenomeni reali (come mutamenti nelle preferenze nel loro specifico
62
settore) che giustificherebbero invece la variazione della quantità prodotta. Poiché non sono in grado di
distinguere perfettamente fra questi due fenomeni, essi reagiscono parzialmente a variazioni nel livello dei
prezzi e pertanto la curva di offerta (espressa in termini di 𝑦𝑡 che il logaritmo del reddito 𝑌𝑡 ) risulta essere
la seguente:

𝑦𝑡 = 𝑦𝑁 + 𝜏(1 − 𝜃)(𝜋𝑡 − 𝜋 𝑒 ) + 𝜀𝑡 (9)

dove i parametri 𝜏 e 𝜃 misurano due diversi aspetti della reazione degli agenti a scostamenti dall’inflazione
attese mentre 𝜀𝑡 è una componente stocastica. In particolare 𝜏 è una misura del grado di isolamento dei
singoli produttori: quando 𝜏 è molto elevato le imprese sono isolate e le informazioni in loro possesso sono
parziali e questo potrebbe portarle a interpretare gli scostamenti di prezzi in mutamenti reali della
domanda e a variare effettivamente la produzione. Il parametro 𝜃 (che varia fra 0 e 1) misura invece la
variabilità dei prezzi che l’autorità di politica economica è solita garantire: in presenza di un’autorità che in
passato non ha garantito la stabilità di prezzi e inflazione (e quindi ha prodotto grande variabilità) gli
scostamenti fra previsione e realizzazione dei prezzi viene interpretata come un fenomeno meramente
monetario e l’offerta non viene fatta variare. Al contrario, in un contesto in cui la stabilità è sempre stata
garantita (𝜃 basso) allora eventuali scostamenti sono percepiti come l’effetto di mutamenti reali
nell’economia e l’offerta viene quindi fatta variare.

L’equazione (8) prende il nome di offerta alla Lucas e costituisce uno dei punti cardine dei modelli della
Nuova Macroeconomia Classica. In pratica, secondo questa funzione di offerta, il livello di offerta è sempre
pari al reddito naturale al netto di eventuali errori di previsioni e da come essi si trasmettano all’economia
in base all’isolamento informativo degli agenti e all’affidabilità dell’autorità di politica economica.

63
9. La conduzione della politica monetaria e le regole di
politica monetaria
Nella presente sezione vogliamo approfondire alcuni aspetti delle politiche monetarie e concentrarci sul
ruolo che le banche centrali effettivamente hanno nel portare avanti tali politiche. Lo scopo di questo
approfondimento è sia quello di avvicinare l’analisi teorica al reale funzionamento delle politiche monetarie
sia quello far emergere e studiare alcune problematiche particolari che sono legate alla loro conduzione.

Nella trattazione fin qua sviluppata, le politiche monetarie si concretizzavano in interventi decisi in maniera
discrezionale dalla banca centrale cha andavano a determinare l’offerta di moneta. Dal punto di vista
dell’analisi teorica e dei nostri modelli di riferimento questo si traducevano in traslazioni della curva LM e
AD che innescavano poi vari meccanismi e che eventualmente portavano il sistema ad una nuova posizione
di equilibrio.

Lo schema di riferimento utilizzato in tale analisi era, e continua ad essere, corretto: tuttavia nel corso degli
ultimi decenni si è affermata l’idea che l’effettiva conduzione della politica monetaria avvenga secondo
metodi e strumenti diversi: tali nuovi metodi continuano ad essere inseriti nello stesso schema di originario
ma lo arricchiscono di nuovi elementi e meccanismi e, in alcuni casi, portano a risultati finali diversi.

Nel concreto, lo studio degli aspetti di monetari della politica economica ha avuto una variazione nel fulcro
dell’analisi: ovvero si è passati da un contesto in cui l’enfasi era posto sul controllo e la variazione
dell’offerta di moneta e sul ruolo che questa aveva nel modello IS-LM e AD-AS ad un contesto in cui l’enfasi
è su l’utilizzo di una regola fissa di politica monetaria in base alla quale la banca centrale decide il livello dei
tassi di interesse e condiziona il funzionamento del sistema economico. In pratica, anche se i meccanismi di
base rimangono li stessi, si passa dall’idea di una politica monetaria discrezionale che va a scegliere quale è
il livello dell’offerta monetaria, all’idea di una politica monetaria che viene determinata in base a degli
automatismi (delle regole): la presenza di questi automatismi nella gestione della politica monetaria è poi
di per se un nuovo meccanismo che si aggiunge a quelli precedenti.

In pratica, l’analisi della politica monetaria in un contesto di prezzi variabili si fonda ora sull’utilizzo di tre
“meccaniche” che spiegano il funzionamento del sistema: la curva IS, che determina il livello di produzione
nei mercati dei beni, una curva di Phillips che descrive l’evoluzione dei prezzi e dell’inflazione e una curva di
regola monetaria che rappresenta gli automatismi legati alla conduzione della politica monetaria e che va a
determinare il comportamento “automatico” della banca centrale, il tasso di interesse che la banca centrale
fissa in base a tale automatismi e, solo implicitamente , l’offerta di moneta che si realizza. Mettendo
insieme queste tre curve è possibile descrivere il funzionamento del sistema e la sua evoluzione. In quanto
segue riprenderemo questi tre elementi chiarendone alcuni aspetti e poi, mettendoli insieme analizzeremo
il funzionamento del sistema. Ovviamente, la principale innovazione in questa trattazione è la presenza di
una regola adottata dalla banca centrale: ad essa dedicheremo un particolare approfondimento. In quanto
segue, ci baseremo su una curva di Phillips costruita secondo aspettative accelerative: i risultati sarebbero
comunque simili se avessimo utilizzato aspettative razionali congiuntamente a mercati in cui sono presenti
forme di rigidità nominali.

64
9.1 La curva IS
Una prima componente del nostro schema è costituita dalla curva IS che, di per se, abbiamo già trattato in
precedenza. L’unica differenza rispetto alla IS che abbiamo visto fino ad ora è che, poiché non manterremo
necessariamente costanti i prezzi (ovvero è possibile che nel sistema vi sia un certo tasso di inflazione 𝜋
diverso da zero), gli investimenti non dipenderanno dal tasso di interesse nominale i, ma da quello reale r.
Ricordando che 𝑟 = 𝑖 − 𝜋 avremo quindi che gli investimenti I sono dati da 𝐼 = 𝐼0 − 𝑑 ∙ 𝑟.

Una volta considerata questa lieve modifica, la curva IS è data dalla seguente equazione:

𝐶 0 +𝐼0 +𝑔 𝑑
𝑌= 1−𝑐
− 1−𝑐 𝑟 (1)

oppure in maniera più compatta ma equivalemte

𝑌 =𝐴−𝑎∙𝑟 (2)

𝐶 0 +𝐼0 +𝑔 𝑑
dove 𝐴 ≡ 1−𝑐
e 𝑎 ≡ 1−𝑐. In pratica, in questa rappresentazione, il parametro A rappresenta tutta la
componente autonoma della domanda e i suoi effetti moltiplicativi, mentre a cattura gli effetti della
sensibilità del reddito al tasso di interesse reale. Nel resto di questa sezione, per comodità, utilizzeremo
l’equazione (2) per indicare la curva IS. Mostriamo tale curva in figura 18: essa ha un andamento
decrescente nello spazio (𝑌, 𝑟) e si può notare che se chiamiamo 𝑌𝑁 il livello del reddito naturale, esiste un
tasso di interesse 𝑟𝑁 che, se realizzato, garantisce che tale livello del reddito sia raggiunto: tale tasso di
interesse prende il nome di tasso stabilizzante.

9.1.1 Lo strumento di politica monetaria: il tasso di interesse reale


Una delle principali differenze nell’utilizzo di questo nuovo schema è che la banca centrale non utilizza
come strumento di intervento l’offerta di moneta. Nello schema standard IS-LM la banca centrala
determinava l’offerta di moneta, questo determinava la curva LM e il tasso di interesse si determinava sul
mercato e coincideva col punto di incontro con la IS. Nel nuovo approccio invece, la banca centrale utilizza
come strumento il tasso di interesse reale: fissando tale tasso, essa è in grado di determinare il livello del
reddito. Implicitamente, una volta fissato il tasso di interesse reale essa determina anche l’offerta di
moneta: in pratica essa fornirà moneta, creandola, a tutti coloro che lo desiderano e in questo modo, essa
varierà l’offerta di moneta. In pratica, una volta che la banca centrale ha fissato il tasso di interesse reale, la

65
domanda di moneta varierà di conseguenza e la banca centrale varierà l’offerta di moneta (e la curva LM)
per mantenere tale tasso di interesse.

L’utilizzo di questo strumento permette alla banca centrale di determinare direttamente il reddito:
ricapitolando la banca centrale sceglie quale tasso di interesse applicare e tramite esso determina il
reddito. Ovviamente può scegliere qualunque livello del reddito desidera, ma scostamenti dal reddito
naturale potrebbero avere conseguenze di cui, nell’evoluzione del sistema, dovremo tener conto.

9.2 La curva di Phillips


Nella nostra trattazione ipotizziamo la presenza di aspettative accelerative e, di conseguenza, la curva di
Phillip risulta essere data da:

𝜋𝑡 = (1 + 𝜋𝑡−1 )(1 + ℎ )𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) − 1 (3)

Si ricorderà anche che tale curva nel lungo periodo finisce per essere verticale ed identifica un unico livello
di disoccupazione che garantisce l’invarianza nel tempo dell’inflazione: tale tasso viene detto NAIRU e
coincide, in questo caso, col tasso di disoccupazione naturale.

Come è noto la curva di Phillips rappresenta la relazione fra tasso di disoccupazione ed inflazione e
l’equazione (3) è una sua possibile rappresentazione. Vogliamo tuttavia rielaborare l’equazione (3) per
ottenerne una formalizzazione più semplice e per mostrare poi che, ovviamente, la curva può essere anche
espressa come una relazione fra inflazione e reddito (dato che vi è una relazione inversa fra reddito e
disoccupazione). Nella rielaborazione, sfruttiamo il fatto che per definizione di tasso naturale di
disoccupazione 𝑢𝑁 abbiamo che 1/𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧) = 1 + ℎ e se inseriamo questa nella (3) otteniamo

𝑓(𝑢𝑡 ,𝑧)
1 + 𝜋𝑡 = (1 + 𝜋𝑡−1 ) ∙ (4)
𝑓(𝑢𝑁 ,𝑧)

Convertiamo in logaritmi la parte destra e sinistra ottenendo

𝑓(𝑢𝑡 ,𝑧)
𝑙𝑜𝑔(1 + 𝜋𝑡 ) = 𝑙𝑜𝑔(1 + 𝜋𝑡−1 ) + log (5)
𝑓(𝑢𝑁 ,𝑧)

E sfruttando le proprietà dei logaritmi (per valori piccoli di qualunque x si ha che 𝑙𝑜𝑔(1 + 𝑥) ≅ 𝑥).

𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 + log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) − log 𝑓(𝑢𝑁 , 𝑧). (6)

Al fine di semplificare ulteriormente definiamo log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) = 𝛼𝑌𝑡 , ovvero esplicitiamo il fatto che
log𝑓(𝑢𝑡 , 𝑧) sia una semplice funzione lineare crescente del reddito aggregato. Otteniamo quindi

𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) (7)

L’equazione (7) costituisce la curva di Phillips costruita sotto l’ipotesi di aspettative accelerative e questa è
la formulazione che utilizzeremo nella presente analisi.

Di fatto la curva di Phillips identifica le combinazioni di inflazione-reddito che la banca centrale può
scegliere in ogni singolo periodo: la banca centrale sa che scegliendo un certo tasso di interesse reale essa
andrà a determinare un certo livello del reddito (in base alla curva IS), dopo di che la curva di Phillips
determinerà il tasso di inflazione risultante in base a quel livello di reddito scelto. Al contrario, la banca
66
centrale non può scegliere posizioni in termini di reddito e inflazione che siano al di fuori di questa curva di
Phillips.

9.3 La regola monetaria e la curva MR


Una delle principali innovazioni dell’approccio alla conduzione della politica monetaria che stiamo
analizzando sta nel fatto che la banca centrale prende le sue decisioni di intervento sulla base di una regola
fissa che detta le sue azioni. Si tratta ora di capire come viene determinata tale regola e come essa
condiziona la politica monetaria. L’idea di fondo è che la regola di politica monetaria viene ricavata sulla
base degli obiettivi della banca centrale in termini di reddito e inflazione. In base a tale obiettivi vengono
esplicitate le preferenze della banca centrale sono rappresentate da una funzione di perdita: maggiori sono
gli scostamenti dagli obiettivi della banca centrale maggiore sarà la sua perdita. Una volta esplicitata tale
funzione di perdita la banca centrale sa che può muoversi lungo la curva di Phillips: ecco allora che la regola
monetaria sarà costruita attraverso un processo di minimizzazione della funzione di perdita sotto il vincolo
rappresentato dalla curva di Phillips. In pratica, data una certa curva di Phillips la banca centrale reagirà per
minimizzare la propria funzione di perdita. Viene quindi sottolineata il carattere automatico dell’azione di
politica economica.

Vediamo adesso come dal punto di vista teorico è possibile rappresentare questo meccanismo. Partiamo
dal supporre che la banca centrale abbia delle preferenze rappresentate dalla seguente funzione di perdita:

𝐿 = (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 )2 + 𝛽(𝜋𝑡 − 𝜋 𝑇 )2 (8)

dove 𝑌𝑁 è il reddito naturale, 𝜋 𝑇 è il tasso di inflazione obiettivo e 𝛽 è l’importanza che viene data agli
scostamenti dall’inflazione obiettivo. In pratica, la banca centrale ha dei punti di riferimento in termini di
reddito e inflazione e subisce delle perdite quando l’economia si discosta da tali livelli di riferimento. La
banca centrale vuole minimizzare tale funzione di perdita e può operare sul tasso di interesse per poter
condizionare il reddito ma sa anche che il tasso di inflazione risultante sarà determinato dalla curva di
Phillips (rappresentata dall’equazione (7)). In pratica, la banca centrale andrà a scegliere il reddito per
minimizzare la perdita rappresentata dalla (8) sotto il vincolo rappresentata dalla (7):

min(𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 )2 + 𝛽(𝜋𝑡 − 𝜋 𝑇 )2
{ 𝑌𝑡 . (9)
𝑠. 𝑣. 𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 )

Per risolvere questo problema inseriamo il vincolo (7) nell’equazione di perdita (8) ottenendo

𝐿𝑣 = (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 )2 + 𝛽[𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) − 𝜋 𝑇 ]2 (10)

E la minimizziamo rispetto al reddito (che può essere determinato dalla banca centrale tramite le manovre
sui tassi), otteniamo quindi:

𝜕𝐿𝑣
𝜕𝑌𝑡
= 2(𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 ) + 2𝛼𝛽[𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) − 𝜋 𝑇 ] = 0. (11)

Inseriamo nuovamente la (7) nella (11) e abbiamo la seguente relazione

𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 + 𝛼𝛽(𝜋𝑡 − 𝜋 𝑇 ) = 0 (12)

67
che può essere espressa in maniera equivalente come
1
𝜋𝑡 = − 𝛼𝛽 (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 ) + 𝜋 𝑇 (12a)

L’equazione (12a) prende il nome di curva MR (Monetary Rule) e rappresenta l’insieme delle azioni che
risultano ottimali per l’autorità di politica monetaria. Occorre prestare attenzione che non tutte tali risposte
ottimali risultano fattibili per la banca centrale: infatti essa fra quelle ottimali potrà scegliere unicamente
quella risposta che è compatibile con la curva di Phillips corrente (curva che è definita in maniera univoca
dal tasso di inflazione del periodo precedente).

Per chiarire il significato della curva MR e la sua derivazione riportiamo la sua costruzione nella figura 19.
Nella figura abbiamo riportato le curve di indifferenza relative alla funzione di perdita (8): esse risultano
delle ellissi centrate sul punto L0 che corrisponde al reddito naturale e al tasso di inflazione obiettivo. In
corrispondenza del punto L0 la funzione di perdita è pari a 0 mentre le curve L1, L2, L3 corrispondono a livelli
di perdita sempre maggiori (e quindi meno preferiti dalla banca). Poiché le coppie di reddito e inflazione
che la banca centrale può effettivamente raggiungere sono definite dalle curve di Phillips (ognuno
determinata dal livello di inflazione del periodo precedente) ecco che le risposte ottime sono date dai punti
di tangenza fra curve di indifferenza e curve di Phillips: questi punti di tangenza determinano la curva MR.
Tale curva ci mostra, per ogni possibile curva di Phillips, qual è la reazione ottima da parte della banca
centrale in termini di reddito e dell’inflazione che implicitamente risulta.

Si noti che la curva MR passa necessariamente dal punto L0 poiché esso, se raggiungibile, è senz’altro
ottimale.

9.4 Lo schema IS-CP-MR e l’evoluzione del sistema


L’utilizzo delle relazioni rappresentate dalla curva di Phillips, dalla curva IS e dalla curva MR permettono di
comprendere l’evoluzione di un sistema economico in cui la banca centrale adotti in maniera automatica
una regola monetaria. In pratica quello che accade è che la banca centrale interviene sistematicamente
cercando di raggiungere una posizione ottimale (dettata dalla curva MR) muovendosi in base alla curva di
Phillips (che determina le soluzioni possibili): l’effettivo livello di reddito scelto viene poi raggiunto tramite

68
la manovra del tasso di interesse reale che, in base, alla curva IS, stabilisce appunto qual è il tasso
necessario per raggiungere il livello del reddito desiderato. Questo processo va a determinare il tasso di
inflazione corrente e fa quindi traslare la curva di Phillips: il processo viene allora ripetuto utilizzando la
nuova curva di Phillips fino a quando il livello del tasso di inflazione non si stabilizza.

Ovviamente se in un certo istante si osserva che il tasso di inflazione precedente è pari a quello obiettivo
𝜋 𝑇 abbiamo che la curva di Phillips passa necessariamente dal punto in cui l’inflazione è pari 𝜋 𝑇 e il reddito
è pari a quello naturale 𝑌𝑁 : poiché tale punto è necessariamente ottimale per la banca centrale (ovvero
giace per costruzione sulla curva MR) possiamo esser certi che l’azione della banca centrale manterrà
invariato il reddito al livello naturale e il sistema risulterà stabile in quel punto. Di fatto la posizione 𝜋 𝑇 , 𝑌𝑁 è
stabile e, come vedremo fra poco, la reazione automatica della banca centrale fa evolvere il sistema verso
quella posizione.

9.4.1 Perturbazioni, shock sulla domanda aggregata e l’evoluzione del sistema


Il modo migliore per comprendere esattamente come lo schema IS-CP-MR permette di comprendere le
azioni della banca centrale e l’evoluzione del sistema è descrivere cosa avviene nel caso di una
perturbazione che altera la posizione di equilibrio stabile. In particolare, mostreremo quello che avviene
qualora l’autorità di politica fiscale (il governo) metto in atto una politica fiscale espansiva che incrementa
la domanda aggregata e il reddito. Le conseguenze di questo shock sono analoghe ad aumenti delle
componente autonome della domanda aggregata (consumi e investimenti autonomi) e, ovviamente, i
meccanismi rimangono li stessi (al contrario) nel caso di shock negativi sulla domanda aggregata: per tanto,
la presente descrizione può essere estesa anche a queste forme di shock).

Prima di descrivere nel dettaglio il funzionamento del sistema è necessario fare chiarezza nella tempistica
degli eventi. In particolare, partendo da una situazione pregressa in cui il reddito era al livello naturale e il
tasso di inflazione a quello obiettivo, immagineremo che: al tempo t-1 la spesa pubblica aumenti e che la
banca centrale osservi e prenda atto di quello che quello che accade, al tempo t la banca centrale
interviene (reagisce) e questo ha conseguenze su reddito e inflazione; al tempo t+1 e successivi la banca
centrale continua ad intervenire (reagire) fino ad aver raggiunto la posizione che ritiene adeguata.

Per comprendere l’evoluzione del sistema ne diamo una rappresentazione grafica che riportiamo in Fig. 20.
In figura abbiamo riportato in alto un sistema di assi in cui rappresentiamo la curva IS che mostra come la
manovra del tasso di interesse determina il reddito mentre in basso riportiamo un sistema di assi in cui
rappresentiamo la curva CP e MR che mostrano l’evoluzione del tasso di inflazione e la reazione della banca
centrale.

Vediamo quindi come si evolve il sistema. Inizialmente il reddito è al suo livello naturale 𝑌𝑁 , l’inflazione è al
tasso obiettivo 𝜋 𝑇 e il tasso di interesse è al livello stabilizzante 𝑟𝑁 . Al tempo t-1 viene messa in atto una
politica fiscale espansiva incrementando la spesa pubblica. La curva IS trasla verso destra divenendo IS’, la
banca centrale si limita ad osservare e il reddito aumenta fino a 𝑌𝐴 e data la curva di Phillips di quel periodo
(curva 𝐶𝑃𝑡−1 nel riquadro in basso), l’inflazione aumenta fino a 𝜋𝐴 : il sistema si sposta nel punto A.

Dopo aver osservato questa situazione, nel periodo t la banca centrale interviene, essa sa i) che in quel
periodo può scegliere qualunque punto sulla la curva 𝐶𝑃𝑡 e che ii) i punti per lei ottimali sono rappresentati
dalla curva MR. Ecco allora che il banca centrale sceglierà il punto di intersezione fra la curva 𝐶𝑃𝑡 e la curva
MR: ovvero sceglierà B. Conseguentemente sceglierà il livello di reddito 𝑌𝐵 e per farlo notiamo dalla curva
IS che dovrà fissare il tasso di interesse reale al livello 𝑟𝐵 (nel riquadro in alto): infine, avendo portato il
69
reddito a 𝑌𝐵 la curva 𝐶𝑃𝑡 ci dice che si realizzerà l’inflazione 𝜋𝐵 : il sistema si trova a tutti gli effetti nel
punto B.

Nel periodo t+1 la banca centrale continua la sua reazione: la curva 𝐶𝑃𝑡+1 determina ora le possibilità di
scelta della banca centrale e ancora una volta la reazione migliore sarà data dall’intersezione fra la curva
𝐶𝑃𝑡+1 e curva MR: in questo caso corrisponde a C e la banca centrale porta quindi il reddito a 𝑌𝐶 tramite
una manovra del tasso di interesse che viene fissato a 𝑟𝐶 ; contemporaneamente la curva 𝐶𝑃𝑡+1 determina
il nuovo tasso di inflazione che risulta essere 𝜋𝐶 . Il sistema si trova quindi in C e nel periodo successivo vi
sarà una nuova curva di Phillips (𝐶𝑃𝑡+2 ) e la banca centrale continuerà le medesime azioni fino a quando,
muovendosi lungo la curva MR non avrà raggiunto nuovamente la posizione E. Una volta che il sistema si
trova in E la banca centrale non ha più modo di migliorare la sua posizione (vedendo raggiunti i suoi
obiettivi in termini di reddito e inflazione). Si noti che nel nuovo punto di equilibrio il reddito è al livello
naturale ma si determina un nuovo livello del tasso di interesse reale 𝑟𝑁′ che risulta essere stabilizzante.
questo avviene a causa dello lo shock iniziale sulla domanda aggregata che rende necessario un tasso di
interesse reale più alto di quello iniziale per mantenere il reddito al suo livello naturale: in pratica, al fine di
mantenere il reddito al livello naturale viene indotto uno spiazzamento completo degli investimenti.

70
E’ possibile ora ricapitolare l’evoluzione del sistema: la politica fiscale espansiva ha portato inizialmente il
livello del reddito ad un livello superiore a quello naturale (da 𝑌𝑁 si è passati a 𝑌𝐴 ). La reazione della banca
centrale ha prima ridotto il reddito fino a 𝑌𝐵 (che è sensibilmente più basso di quello naturale) e poi ha
iniziato a far crescere il reddito a 𝑌𝐶 riportandolo progressivamente verso quello naturale. Per ottenere
questo risultato la banca centrale ha alzato fortemente il tasso di interesse reale fino a 𝑟𝐵 e poi lo ha
progressivamente ridotto fino a raggiungere un livello finale 𝑟𝑁′ che è comunque più alto di quello iniziale.
Infine l’inflazione è aumentata inizialmente in seguito all’espansione del reddito dovuta alla politica fiscale
e poi è calata progressivamente in seguito alle reazioni della banca centrale, tornando quindi al livello
obiettivo.

9.4.2 Alcune note sul funzionamento dello schema IS-CP-MR


Al fine di completare la descrizione del funzionamento dello schema appena illustrato, occorre precisare
alcuni aspetti che rendono più approfonditi e chiari i meccanismi sottostanti.

In primo luogo l’intero processo analizzato ha avuto luogo poiché la banca centrale nel periodo t-1 si è
limitata ad osservare quanto succedeva senza intervenire immediatamente. Al contrario, se la banca
centrale fosse stata in grado di intervenire direttamente in tale periodo, proprio quando l’aumento della
spesa pubblica aveva luogo, avrebbe potuto direttamente fissare il tasso di interesse reale al livello 𝑟𝑁′ :
questo avrebbe immediatamente arrestato l’aumento del reddito, reso inefficace la manovra fiscale e
annullato qualunque scostamento del tasso di inflazione da quello obiettivo. In pratica, se la banca centrale
fosse in grado di intervenire immediatamente allora si giungerebbe immediatamente alla posizione finale,
senza dover subire variazioni di reddito o del tasso di inflazione. Conseguentemente, alla base dell’utilizzo
di questo schema vi è l’idea che la banca centrale, in alcune circostanze non è in grado di reagire
immediatamente a perturbazioni della domanda aggregata e abbia bisogno di un po’ di tempo (un periodo
nella nostra illustrazione) per poter osservare quello che sta accadendo.

Un altro aspetto che occorre sottolineare è che la reazione della banca centrale produce un arco temporale
durante il quale il reddito si trova al di sotto di quello naturale. Osservando la fig. 20 si comprende che, se
la curva MR fosse particolarmente piatta, il livello del reddito si scosterebbe in maniera molto significativa
da quello naturale e la sua riduzione sarebbe quindi molto forte: di contro però, il processo di
aggiustamento sarebbe molto rapido e il reddito tornerebbe rapidamente verso quello naturale. In termini
1
matematici, dato che l’equazione della MR è data da 𝜋𝑡 = 𝛼𝛽 (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 ) + 𝜋 𝑇 , tale curva risulta piatta
quando 𝛽 è molto grande, ovvero quando la banca centrale tende a dare molto peso agli scostamenti del
tasso di inflazione da quello obbiettivo. In tale circostanza, la banca centrale è disposta a imporre forti
riduzioni del reddito pur di riportare il tasso di inflazione al livello desiderato ed effettivamente osserviamo
quindi un’ampia contrazione ed un rapido ritorno ai livelli desiderati. In maniera speculare, se curva MR è
molto pendente (valori di 𝛽 bassi) la riduzione del reddito sarà contenuta ma il processo di aggiustamento
durerà a lungo e la contrazione durerà altrettanto a lungo. In questo caso la banca centrale non ha molto
interesse negli scostamenti del tasso di inflazione e quindi preferisce imporre contrazioni del reddito
moderate anche se più durature.

Occorre inoltre notare che la trattazione che abbiamo dato ha illustrato il caso in cui lo shock della
domanda aggregata sia permanente (ovvero la curva IS trasla in maniera definitiva). Tuttavia questo
schema rimane valido anche nel caso di shock transitori (la curva IS trasla inizialmente verso e il reddito
varia ma la curva, nel periodo successivo, ritorna nella posizione di partenza): l’evoluzione del sistema può
risultare leggermente diversa ma i meccanismi sono gli stessi ed in questo caso la reazione banca centrale
71
fondamentalmente permette al sistema di tornare al livello naturale in maniera più rapida. Inoltre, nel caso
di shock transitori, il livello del tasso di interesse reale alla fine dell’aggiustamento risulterà pari a quello
iniziale (infatti, la curva IS torna ad essere quella iniziale).

Infine, vale la pena sottolineare che l’azione della banca centrale nel caso che abbiamo illustrato è andata a
contrastare l’operato dell’autorità di politica fiscale. Ovviamente, nel caso ci fossero stati shock avversi sulla
domanda aggregata l’operato della banca centrale avrebbe operato in senso opposto, ovvero, avrebbe
reagito riducendo i tassi di interesse e cercando quindi di sostenere il reddito. Questi comportamenti
mettono in luce come la banca centrale, nel perseguire le sua regola di politica monetaria, svolga una
funzione fortemente stabilizzatrice e agisca in maniera contro-ciclica, stimolando l’economia nelle fasi
recessive e frenandola nelle fasi di eccessiva attività. Inoltre viene anche evidenziato come la banca
centrale agisca in maniera indipendente rispetto all’autorità di politica fiscale (generalmente il governo)
arrivando anche a contrastarne direttamente l’azione. Il tema delle regole, dell’indipendenza e del
contrasto rispetto ad altre autorità di politica economica verrà ripreso nelle prossime sezioni.

9.5 Le regole sul tasso di interesse


I meccanismi illustrati nell’ambito dello schema IS-CP-MR mostrano in maniera netta come, in questo
schema, gli interventi della banca sia dettati dall’adozione di una regola di politica ben precisa: ovvero, sulla
base di questa regola, la banca centrale interviene e influenza il reddito aggregato tramite l’imposizione di
un certo tasso di interesse reale. In pratica, emerge un comportamento delle banca centrale che consiste
nel fissare un tasso di interesse ben preciso sulla base della situazione economica che osserva. Questo
comportamento è descritto dallo schema IS-PC-MR e può essere formalizzato tramite l’utilizzo
dell’equazioni delle tre curve per ottenere una vera e propria regola sul tasso di interesse che ci dice,
appunto qual è il tasso di interesse che la banca centrale va a fissare.

A secondo delle ipotesi particolari che facciamo all’interno del nostro schema è possibile ricavare regole sul
tasso di interesse diverse. Inizialmente ricaviamo una regola di tasso di interesse che riprende in maniera
identica lo schema IS-PC-MR che abbiamo presentato: la politica monetaria che si basa sulla regola così
ricavata prende il nome di inflation targeting. In seguito modificheremo lievemente alcune delle
caratteristiche dello schema e ricaveremo quindi una nuova regola che prende il nome di Taylor Rule (nome
derivato dall’economista Americano Taylor che la propose negli anni novanta tale regola).

9.5.1 Inflation targetting e regola sul tasso di interesse


Se adottiamo la schema IS-PC-MR nella versione che abbiamo presentato possiamo utilizzare le equazioni
delle tre curve per poter arrivare alla determinazione del tasso di interesse che la banca centrale fissa: la
politica monetaria che utilizza la regola di interesse che emerge in queste circostanze prende il nome di
Inflation Targeting. Per ottenere tale regola riprendiamo quindi le tre equazioni delle tre curve:

CP: 𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) (13)


1
MR: 𝜋𝑡 = − 𝛼𝛽 (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 ) + 𝜋 𝑇 (14)

IS: 𝑌𝑡 = 𝐴 − 𝑎 ∙ 𝑟𝑡 = 0 (15)

72
Prima di iniziare riformuliamo l’equazione (15) in maniera diversa (ma equivalente): partiamo dalla (15) e
sottraiamo a destra e a sinistra il termine 𝑌𝑁 considerando poi che per definizione 𝑌𝑁 = 𝐴 − 𝑎 ∙ 𝑟𝑁 , si ha

IS: 𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 = (𝐴 − 𝑎 ∙ 𝑟𝑡 ) − (𝐴 − 𝑎 ∙ 𝑟𝑁 ) = −𝑎(𝑟𝑡 − 𝑟𝑁 ) (15a)

Mettendo le equazioni di queste curve possiamo ottenere effettivamente il tasso di interesse reale che la
banca centrale fissa. Infatti inserendo l’equazione della curva PC (13) nella MR (14) otteniamo:
1
𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) = − 𝛼𝛽 (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 ) + 𝜋 𝑇 (16)

e semplificando:

𝜋𝑇 −𝜋𝑡−1
𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 = 1 (16a)
𝛼+
𝛼𝛽

Si noti che questo passaggio equivale al momento in cui, graficamente, andavamo a determinare il punto di
incontro fra curva PC e curva MR e determinavamo così il reddito che la banca centrale andava a realizzare.
Adesso, inseriamo l’equazione della curva IS (15a) nella (16a)

𝜋𝑇 −𝜋𝑡−1
−𝑎(𝑟𝑡 − 𝑟𝑁 ) = 1 (17)
𝛼+
𝛼𝛽

e rielaborando:
1
𝑟𝑡 = 𝑟𝑁 + 1 (𝜋𝑡−1 − 𝜋 𝑇 ) (17a)
𝑎(𝛼+ )
𝛼𝛽

Si noti che questo passaggio equivale al momento in cui, graficamente, andavamo a determinare sulla curva
IS il tasso di interesse necessario per ottenere il reddito che la banca centrale voleva realizzare.

L’equazione 17a rappresenta la regola di tasso di interesse che rappresenta la regola politica monetaria di
inflation targeting.

Come si vede dall’equazione (17a) questa regola prevede interventi sul tasso di interesse reale (ovvero
scostamento del tasso di interesse dal suo livello stabilizzatore) soltanto quando l’inflazione osservata è
diversa da quella obiettivo. Questo spiega anche il nome che prende la regola di politica monetaria ad essa
legata: l’inflation targeting. Apparentemente quindi questa regola non impone azioni quando invece il
reddito aggregato diverge da quello desiderato. In realtà reazioni della banca centrale in seguito a
scostamenti dal reddito desiderato sono comunque contemplate all’interno di questa regola ma lo sono
solo in maniera implicita e, in un certo senso, residuale. Infatti gli scostamenti dell’inflazione da quella
obiettivo implicitamente determinano anche deviazioni del reddito dal suo livello naturale: per tanto le
azioni della banca centrale in seguito a scostamenti del tasso di inflazione sono, implicitamente, dovute
anche a scostamenti dal reddito naturale.

9.5.2 Ritardi di adeguamento e la Taylor Rule


Vogliamo adesso mostrare come, mantenendo lo schema IS-CP-MR e i suoi meccanismi ma variando alcune
delle ipotesi sulle equazioni delle curve, è possibile che emergano regole diverse da quella dell’inflation
targeting. In particolare mostreremo che a determinate condizioni emerge una regola del tasso di interesse
73
in cui nella determinazione del tasso entrano direttamente gli scostamenti dal reddito naturale. La regola
che stiamo per costruire prende il nome di Taylor Rule e costituisce effettivamente la regola che la banca
centrale americana (la Fed) ha adottato in maniera sostanzialmente continua negli ultimi 30 anni.

L’ipotesi di fondo che viene variata è che nei mercati esistano delle rigidità nominali che rendono
l’adeguamento dei salari e dei prezzi lento e, quindi, scostamenti del reddito dal suo livello naturale non
producono immediatamente pressioni nel livello. Al contrario c’è un ritardo nell’adeguamento di salari e
prezzi e, in particolare, immaginiamo che gli scostamenti del reddito dal livello naturale riescono a produrre
pressioni sul livello di inflazione del periodo successivo. In pratica, quando il reddito è diverso dal suo livello
naturale gli agenti economici vorrebbero immediatamente aggiustare i prezzi e i salari ma la presenza di
rigidità nominali (costi di aggiustamento dei prezzi e presenza di contratti di lavoro già in essere) glielo
impedisce e quindi il loro adeguamento avverrà soltanto nel periodo successivo. Tutto questo porta ad una
curva di Phillips dove, appunto, lo scostamento del reddito di un certo periodo dal livello naturale impatta
sul tasso di inflazione del periodo successivo. Di conseguenza, sempre sotto l’ipotesi di aspettative
accelerative, abbiamo che la curva CP è data da:

CP: 𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡−1 − 𝑌𝑛 ) (18)

Si noti appunto che il reddito del periodo t-1 ha un effetto sul tasso di inflazione del periodo t. Inoltre, se la
curva di Phillips è data da questa equazione, essa può essere utilizzata per determinare anche il tasso di
inflazione del periodo t+1, infatti dalla (18) discende naturalmente che:

𝜋𝑡+1 = 𝜋𝑡 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) (18a)

che di fatto è la curva di Phillips vigente nel periodo t+1.

L’introduzione di queste nuove ipotesi sulla curva di Phillips comporta l’importante conseguenza che il
reddito corrente non ha effetto sull’inflazione corrente e questo vuol anche dire che la banca centrale non
può controllare nell’immediato il tasso di inflazione: detto altrimenti, il tasso di inflazione corrente può
essere considerato come dato. Dal punto di vista delle azioni della banca centrale quello che diventa
rilevante non è il tasso di inflazione corrente (sul quale non ha controllo) ma il tasso di inflazione del
periodo successivo (che può invece andare a determinare): di conseguenza negli obiettivi andranno a
includere il tasso di inflazione futuro e non quello corrente; la funzione di perdita della banca centrale è
quindi data da:

𝐿 = (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 )2 + 𝛽(𝜋𝑡+1 − 𝜋 𝑇 )2 (19)

Si noti appunto che la perdita dipende dallo scostamento del tasso di inflazione del periodo t+1 dal livello
obiettivo. Poiché la curva di Phillips è adesso rappresentata dalla (18) e la funzione di perdita dalla (19) è
possibile utilizzare queste due equazioni per ricavare una nuova curva MR: se applichiamo la stessa
procedura utilizzata per ricavarla nel caso standard ma usando invece le equazioni (18) e (19) otteniamo la
seguente equazione per la curva MR:
1
MR: 𝜋𝑡+1 = − 𝛼𝛽 (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 ) + 𝜋 𝑇 (20)

Infine per quanto riguarda la curva IS non apportiamo alcun cambiamento ed essa rimane descritta
dall’equazione 15a.

74
Adesso che abbiamo caratterizzato in maniera lievemente diversa gli elementi dello schema IS-CP-MR
possiamo utilizzare le nuove equazioni di queste curve (la 15a, la 18 e la 20) per ricavare la regola del tasso
di interesse. Per farlo inseriamo la curva di Phillips relativa al periodo t+1 (rappresentata dalla 18a)
nell’equazione della MR (la 20) ed otteniamo:
1
𝜋𝑡 + 𝛼(𝑌𝑡 − 𝑌𝑛 ) = − (𝑌 − 𝑌𝑁 ) + 𝜋 𝑇 . (21)
𝛼𝛽 𝑡

Nell’equazione (21) è presente il tasso di inflazione del periodo t ed allora possiamo nuovamente sostituirlo
con l’equazione della curva di Phillips, questa volta relativa al periodo t. Ovvero inseriamo la (18) nella (21)
e otteniamo:

1
𝜋𝑡−1 + 𝛼(𝑌𝑡−1 − 𝑌𝑛 ) = − ( + 𝛼) (𝑌𝑡 − 𝑌𝑁 ) + 𝜋 𝑇 (21a)
𝛼𝛽

Ed infine, inserendo l’equazione per la curva IS (15a) nella (21a) otteniamo:


1
𝑟𝑡 = 𝑟𝑁 + 1 [(𝜋𝑡−1 − 𝜋 𝑇 ) + 𝛼(𝑌𝑡−1 − 𝑌𝑛 )] (22)
𝑎( +𝛼)
𝛼𝛽

Che costituisce la regola del tasso di interesse ricavata sotto le nuove ipotesi di ritardo di adeguamento nei
prezzi. Si noti che adesso la regola prevede direttamente che il tasso di interesse reale che viene scelta
dipende direttamente da scostamenti del reddito osservato da quello naturale.

Un caso particolare all’interno della regola espressa dalla curva (22) lo si ottiene: i) esplicitando il fatto che
il tasso di interesse reale 𝑟𝑡 sulla base delle quali le imprese determinano gli investimenti è dato dalla
differenza fra tasso di interesse corrente 𝑖𝑡 e l’aspettativa sull’inflazione al tempo t delle imprese (ovvero,
in caso di aspettative accelerative 𝑟𝑡 = 𝑖𝑡 − 𝜋 𝑒 = 𝑖𝑡 − 𝜋𝑡−1 ) e ii) ipotizzando 𝑎 = 𝛼 = 𝛽 = 1. A queste
condizioni l’equazione (22) può essere scritta come:
1 1
𝑖𝑡 = 𝑟𝑁 + 𝜋𝑡−1 + 2 (𝜋𝑡−1 − 𝜋 𝑇 ) + 2 (𝑌𝑡−1 − 𝑌𝑛 ) (23)

L’equazione (23) prende il nome di Regola di Taylor e indica in maniera molto diretta la regola di fissazione
del tasso di interesse nominale che va quindi a dipendere dal tasso di inflazione osservato (al tempo t-1),
dagli scostamento di reddito osservato e inflazione osservata dai loro livelli obiettivo (a cui viene attribuito
pari peso) e dal tasso di interesse reale stabilizzante. Questa regola di fatto descrive il comportamento
tenuto dalla banca centrale americana negli ultimi circa trenta anni. Si noti che in alcune versioni della
regola di Taylor i valori dei parametri 𝑎, 𝛼 e 𝛽 non sempre vengono esplicitati numericamente. Inoltre
alcune rappresentazioni di questa regola non hanno un’indicazione temporale precisa (o comunque
all’analoga a quella espressa nella 23): in ogni caso tutte mantengono l’indicazione che il tasso di interesse
nominale corrente dipendono dal tasso di inflazione osservato e dal reddito osservato, rimanendo quindi
analoghe nel significato economico alla rappresentazione che ne abbiamo fornita.

75
10. Politica economica, interdipendenza strategica,
credibilità, discrezioni e regole
Nel proseguire nel segnalare alcune delle problematiche che emergono nell’effettiva conduzione della
politica economica occorre adesso soffermarsi sul ruolo che eventuali “conflitti” possono avere nel portare
avanti gli interventi di politica economica.

In particolare, vogliamo soffermarci sul fatto che, in alcune circostanze, pur volendo promuovere il
benessere collettivo, l’autorità di politica economica si potrebbe trovare in un contesto il suo operato
risulta essere in qualche modo condizionato (se non contrastato) da altri agenti economici che,
legittimamente, perseguono il proprio obiettivo economico. Si noti che in questo frangente non ci riferiamo
a comportamenti scorretti o illegali ma semplicemente a situazioni in cui le decisioni dei singoli agenti
potrebbero condurre a situazioni non per forza efficienti dal punto di vista aggregato.

Per descrivere questo meccanismo occorre costruire un modello in cui l’autorità di politica economica si
trova a porre in essere delle politiche il cui risultato dipende anche dalle decisioni degli agenti economici. In
particolare presenteremo un modello (noto come modello Barro-Gordon) in cui l’autorità di politica
economica può cercare di influenzare il reddito ma che tale efficacia dipende nel concreto dalla reazione
degli agenti economici.

Questo modello riprende alcuni degli aspetti che abbiamo già trattato e si basa sull’idea che da un lato, le
autorità di politica economica posso mettere in atto manovre fiscali o monetarie che potrebbe risultare
efficaci ma che non lo sono nella misura in cui gli agenti economici sono perfettamente razionali, ipotesi
sotto la quale il reddito non può che essere al livello naturale. L’idea di fondo quindi è che l’autorità di
politica economica potrebbe preferire e ricercare un reddito superiore a quello naturale ma questo
tentativo si “scontra” col comportamento degli agenti che, se perfettamente razionali, vanificano questo
tentativo.

10.1 Il modello Barro Gordon


L’essenza del modello Barro Gordon è rappresentata dall’interdipendenza strategica che fra un’autorità
economica che possiede una propria funzione obbiettivo e che può mettere in atto politiche economiche
che condizionano i risultati di mercato e il resto degli agenti economici. Come vedremo l’analisi
comportamento di queste due parti, l’autorità e gli agenti privati, porta alla formulazione di un vero e
proprio “gioco” che può quindi essere interpretato e risolto secondo i metodi tipici della teoria dei giochi.

Supponiamo quindi che nell’economia siano presenti un’autorità di politica economica e gli agenti privati. Si
noti che non specifichiamo se l’autorità rappresenti il governo oppure una banca centrale: essa rappresenta
una qualunque autorità che può mettere in atto sia politiche fiscali che monetarie.

Nell’economia vi è una relazione fra inflazione 𝜋 e reddito 𝑌 rappresentata dalla seguente curva di Phillips
aumentata con le aspettative 𝜋 𝑒 :

𝜋 = 𝜋 𝑒 + 𝛼(𝑌 − 𝑌𝑛 ) (1)

76
Dove 𝑌𝑛 è il livello naturale del reddito. Per quanto riguarda le aspettative possiamo dire che esse
dipendono dal comportamento dei singoli agenti privati: se essi lo desiderano possono raccogliere
informazioni disponibili sul mercato ed avere quindi aspettative razionali.

All’interno di questo schema l’autorità di politica economica e gli agenti privati attueranno le strategie
migliori per raggiungere i loro obiettivi.

10.1.1 Gli obiettivi e le strategie degli agenti privati


Nell’ambito della versione base di questo modello il comportamento degli agenti privati è
estremamente semplice. Gli agenti si limitano a raccogliere informazione su quale sarà il tasso di
inflazione che si realizzerà sul mercato e utilizzano tale informazione per compiere la loro attività
economica. In queste circostanze la strategia migliore che possono adottare è quella di raccogliere
informazione (che nella versione base sono liberamente disponibili) e formulare quindi delle
aspettative razionali. In pratica la loro strategia consiste nel determinare le aspettative sui prezzi e
la strategia ottimale non può che essere quella di formulare aspettative corrette (ovvero razionali).
Di conseguenza la loro strategia ottimale è rappresentata da

𝜋 𝑒 = 𝜋. (2)

Poiché l’inflazione verrà determinata di fatto dall’autorità di politica economica (che la determina
indirettamente in base alle politiche che influenzano il reddito), l’equazione (2) rappresenta di
fatto la curva di reazione ottima dei privati (RCP): ovvero ci dice, per ogni possibile azione
dell’autorità economica qual è la razione ottima (in termini di strategia) da parte dei privati.

10.1.2 Gli obiettivi e le strategie dell’autorità di politica economica


Supponiamo che l’autorità di politica economica abbia una funzione di perdita che dipende dagli
scostamenti dall’obiettivo in termini di inflazione (𝜋 𝑇 ) e in termini di reddito ( 𝑌 𝑇 ). In particolare
supponiamo che 𝑌 𝑇 = (1 + 𝑘)𝑌𝑛 dove k>0 è un semplice parametro. In pratica stiamo assumendo che
l’autorità di politica economica ha come obiettivo mantenere un livello del reddito più alto di quello
naturale: questo avvicina l’autorità al comportamento che potrebbe essere quello di un governo che, anche
solo per motivi elettorali, potrebbe volere sostenere il reddito e ridurre la disoccupazione anche oltre i
livelli naturali. Per semplicità analitica (e senza alcuna perdita di generalità) poniamo inoltre 𝜋 𝑇 = 0.

La funzione di perdita risulta quindi essere:

𝐿 = (𝑌 − 𝑌 𝑇 )2 + (𝜋 − 𝜋 𝑇 )2 = [𝑌 − (1 + 𝑘)𝑌𝑛 ]2 + 𝜋 2 = 0 (3)

L’autorità di politica economica ha il potere di determinare autonomamente il reddito e l’inflazione


(tramite appropriate politiche economiche) ma deve comunque tenere conto del vincolo strutturale
rappresentato dalla curve di Phillips: se inseriamo il vincolo rappresentato da quest’ultima (eq. 1) nella
funzione di perdita (eq. 3) otteniamo

𝐿 = [𝑌 − (1 + 𝑘)𝑌𝑛 ]2 + [𝜋 𝑒 + 𝛼(𝑌 − 𝑌𝑛 )]2 (4)

Che rappresenta quindi la funzione di perdita in base al livello del reddito che l’autorità sceglie: essa dal
punto di vista di un gioco ci dice qual è il payoff dell’autorità in base alla strategia scelta dagli agenti privati
77
(strategia rappresentata da 𝜋 𝑒 ). Possiamo ottenere la strategia ottima minimizzando la (3) rispetto a Y, la
condizione di ottimo risulta essere

𝜕𝐿
𝜕𝑌
= 2[𝑌 − (1 + 𝑘)𝑌𝑛 ] + 2𝛼[𝜋 𝑒 + 𝛼(𝑌 − 𝑌𝑛 )] = 0 (5)

e inserendovi nuovamente l’equazione (1)

2[𝑌 − (1 + 𝑘)𝑌𝑛 ] + 2𝛼𝜋 = 0 (5a)

da cui

(𝑌 − 𝑌𝑛 − 𝑘𝑌𝑛 ) + 𝛼𝜋 = 0 (5b)

𝜋−𝜋𝑒
e considerando che dalla (1) abbiamo che 𝑌 − 𝑌𝑛 = 𝛼
possiamo riscrivere la (5b) come:

𝜋−𝜋𝑒
𝛼
− 𝑘𝑌𝑛 + 𝛼𝜋 = 0 (5c)

da cui

1 𝜋𝑒
𝜋 (𝛼 + ) = + 𝑘𝑌𝑛 (5d)
𝛼 𝛼

ed infine
1 𝛼
𝜋 = 1+𝛼2 𝜋 𝑒 + 1+𝛼2 𝑘𝑌𝑛 (6)

L’equazione (6) ci dice a tutti gli effetti qual è la strategia ottima da parte dell’autorità di politica economica
per ogni possibile strategia dell’altro giocatore (ovvero per ogni possibile 𝜋 𝑒 ). Di fatto la (6) rappresenta la
curva di reazione dell’autorità di politica economica (curva RCA).

10.1.3 La soluzione del modello e l’equilibrio di Nash


Ora che abbiamo ricavato le curve di reazione possiamo procedere a risolvere il modello e a discutere la
soluzione d’equilibrio. A tal fine è utile rappresentare in Figura 21 le curve RCP ed RCA (descritte
rispettivamente dall’eq. 2 e dall’eq. 6).

78
Risulta evidente dalla figura che esiste un unico punto in cui le due curve si intersecano: ovvero esiste un
solo punto in cui le reazioni dei due “giocatori” risultano effettivamente ottimali in base alla reazione
dell’avversario. In pratica, nel punto E l’autorità di politica sta reagendo in maniera ottimale proprio mentre
anche i privati reagiscano in maniera altrettanto ottimale. In qualunque altro punto, data l’azione degli
avversario, uno dei giocatori non sta reagendo in modo ottimale e troverebbe pertanto profittevole deviare
da quella posizione e attuare una strategia diverso. Soltanto se entrambi i giocatori si trovano sulle proprie
curve di reazione nessuno di essi devierà dalla propria strategia e pertanto l’unico punto di equilibrio è
rappresentato da E: nella teoria dei giochi tale posizione rappresenta l’equilibrio di Nash.

Analiticamente, la soluzione può essere ricavata mettendo insieme l’equazione (2) e (6): in questo modo
otteniamo
1 𝛼
𝜋 = 1+𝛼2 𝜋 + 1+𝛼2 𝑘𝑌𝑛 (7)

da cui, con semplici passaggi algebrici otteniamo che


𝑘
𝜋 = 𝛼 𝑌𝑛 (8)

La (8) rappresenta quindi il tasso di inflazione che si realizza nel sistema: per quanto riguarda invece il
reddito, dato che 𝜋 𝑒 = 𝜋 avremo necessariamente che (in base alla curva di Phillips) 𝑌 = 𝑌𝑛 .

In pratica la soluzione del modello prevede che il reddito sia pari al livello naturale e il tasso di inflazione sia
maggiore di 0.

10.1.4 L’ottimalità della soluzione e le deviazioni profittevoli


La soluzione raggiunta presenta tuttavia un problema dal punto di vista del benessere complessivo. In
particolare si confronti (in figura 21) il punto E con il punto O. In entrambi i punti gli agenti privati hanno
previsto correttamente il tasso di inflazione e quindi essi sono punti indifferenti per loro. In aggiunta
entrambi i punti hanno lo stesso livello del reddito (infatti, fin tanto che gli agenti privati prevedono
correttamente il tasso di inflazione, il livello del reddito è pari a quello naturale) tuttavia il punto O è
contraddistinto da un tasso di inflazione pari a 0 e quindi il punto E ha un’inflazione maggiore a quella del
punto O (questo risulta evidente se si considera l’equazione 8). Di conseguenza, a tutti gli effetti, il punto O
costituisce una posizione migliore a livello aggregato: esso è parimenti preferito ai privati e produce una
perdita minore per l’autorità di politica economica. Spostarsi dal punto O al punto E costituisce un
miglioramento paretiano. Tuttavia tale punto non è stabile: infatti qualora ci trovassimo in O, ovvero
qualora i privati si aspettassero un tasso di inflazione pari a 0 avremmo che l’autorità avrebbe convenienza
a deviare da tale punto ed in particolare a mettere in atto la strategia prevista dalla propria curva di
reazione, ovvero il punto C. In pratica, qualora ci trovassimo nel punto O, esisterebbero delle deviazioni
profittevoli che farebbero spostare il sistema da tale punto e lo condurrebbero in E che, però, è inferiore
dal punto di vista paretiano rispetto ad O.

79
10.2 Credibilità, indipendenza, regole e discrezionalità dell’autorità di
politica economica
Il risultato ottenuto dal modello Barro Gordon mostra come l’azione dell’autorità di politica economica
porti ad un risultato sub-ottimale. Occorre capire come sia possibile porre rimedio a questa sub-ottimalità e
come quindi si possano raggiungere risultati ottimali (rappresentati dalla posizione O nel modello
presentato).

A tal fine l’autorità di politica economica dovrebbe cercare di raggiungere la posizione O e per farlo
dovrebbe convincere gli agenti privati che il tasso di inflazione che andrà a determinare sarà effetti pari a 0.
In pratica, l’autorità dovrà annunciare tale intenzione e risultare credibile: solo a questa condizione gli
agenti effettivamente porteranno le loro aspettative a coincidere con un tasso di inflazione pari a zero. A
quel punto tuttavia, l’autorità avrebbe una deviazione profittevole (che si concretizza nella posizione C) ma
se vuole rimanere credibile anche nel futuro dovrà astenersi dal deviare da O. Di conseguenza, un’autorità
di politica economica che vuole risultare credibile, dovrebbe astenersi da comportamenti che,
nell’immediato producono per lei dei benefici (la posizione C è migliore di O) ma che comprometterebbero
la credibilità futura e la possibilità di raggiungere stabilmente la posizione O.

In questa ottica è opportuno che l’autorità risulti indipendente ovvero non debba rendere conto,
nell’immediato, ad altre istituzioni: questo garantisce che tale autorità si astenga da quelle deviazioni che,
nell’immediato, potrebbero portarle benefici a discapito però del benessere futuro.

Infine, il risultato forse più importante dei questo modello è relativo al ruolo che la discrezionalità o le
regole hanno nella conduzione della politica economica. Nella misura in cui l’autorità può mettere in atto
politiche economiche in maniera discrezionale è possibile che essa sia in grado di rispondere al meglio ad
una data situazione contingente: tuttavia, si corre fortemente il rischio che, in presenza di discrezionalità, le
politiche messe in atto conducano a posizioni subottimali (come ad esempio, l’equilibrio rappresentato da
E). Al contrario l’adozione di regole rigide di politica economica potrebbero essere inadatte a fronteggiare
situazioni impreviste, ma garantirebbe, proprio in virtù della loro rigidità il raggiungimento di posizioni
migliori (come appunto la posizione O). Nel nostro caso ad esempio, se l’autorità potesse “legarsi le mani” e
fosse quindi “costretta” a indurre un tasso di inflazione pari a zero allora saremmo certi che il sistema si
stabilizzerebbe nel punto O.

Il dibattito fra regole e discrezionalità è uno dei punti più critici della teoria della politica economica: pur
non potendo dare in questa nostra trattazione una risposta definitiva su cosa sia preferibile, il semplice
modello che abbiamo mostrato rende perfettamente chiaro il dilemma fra questi due approcci alla politica
economica. Inoltre rende più chiaro l’approccio alla conduzione della politica monetaria che abbiamo
presentato nella sezione precedente: in quell’ottica la politica monetaria veniva attuata proprio attraverso
delle regole ben precise alle quali l’autorità si atteneva.

80
11 LA SOSTENIBILITA’ DEL DEBITO PUBBLICO

In circostante normali esistono tre canali attraverso cui è possibile finanziare la spesa pubblica (che
indicheremo con G). Lo stato può raccogliere tasse (che indichiamo con T), può stampare moneta oppure
può prendere a prestito il denaro necessario. Qualora stampi moneta lo stato va ad aumentare lo stock di
moneta esistente nell’economia: se M è tale stock, possiamo indicare con ∆𝑀 l’entità del finanziamento
monetario della spesa pubblica (che ovviamente è pari all’incremento dello stock di moneta). Qualora
invece lo stato prenda a prestito il denaro, lo stato va a generare debito pubblico: se in un certo momento
B è lo stock di debito pubblico, avremo che ∆𝐵 è l’entità del denaro preso a prestito per finanziare il
disavanzo pubblico in un certo momento. Ovviamente, ∆𝐵 è anche l’incremento che avremo dello stock di
debito pubblico.

Date queste semplici definizioni avremo che la spesa pubblica complessiva dovrà essere pari a

𝐺 = 𝑇 + ∆𝑀 + ∆𝐵 (1)

Detto altrimenti, la spesa pubblica dovrà essere finanziata attraverso i tre canali sovra descritti. In maniera
analoga possiamo mettere in luce il disavanzo pubblico D ovvero l’eccesso della spesa rispetto all’entrate
fiscali; avremo che:

𝐷 ≡ 𝐺 − 𝑇 = ∆𝑀 + ∆𝐵 (2)

Al fine di analizzare il debito e il suo andamento è utile anche definire altre due componenti: sia G0 la spesa
pubblica per beni e servizi al netto della spesa per gli interessi sul debito e sia 𝑖 il tasso di interesse che
viene pagato sul debito. Ne consegue che la spesa per interessi è pari a 𝑖 ∙ 𝐵 e che in un dato momento
l’esborso complessivo per la spesa pubblica è 𝐺 = 𝐺0 + 𝑖 ∙ 𝐵 .

Prima di procedere occorre inoltre segnalare che il finanziamento monetario del debito, per quanto
teoricamente possibile ed in passato effettivamente utilizzato dalle autorità di politica economica, è
attualmente considerato come un intervento che comporta molte controindicazioni e viene raramente
messo in pratica. In alcuni paesi poi (come quelli dell’area Euro), questa forma di finanziamento è
esplicitamente vietata. Per questa ragione, nella presente trattazione, non ci occuperemo di questa
componente e considereremo che ∆𝑀 = 0: conseguentemente avremo che

𝐷 = 𝐺 − 𝑇 = 𝐺0 − 𝑇 + 𝑖 ∙ 𝐵 = ∆𝐵 (3)

Ovvero, i disavanzi pubblici fanno direttamente aumentare lo stock di debito pubblico. La componente
𝐺0 − 𝑇 è noto col termine di disavanzo primario e il suo opposto 𝑇 − 𝐺0 è noto col termine saldo primario.

11.1 L’Evoluzione del debito pubblico e la sua sostenibilità


Ci concentriamo adesso sulla trattazione analitica dell’evoluzione del debito. In particolare siamo
interessati all’evoluzione del rapporto fra lo stock di debito B e il Prodotto interno lordo nominale (𝑃 ∙ 𝑌) di
un paese: indichiamo con 𝑏 = 𝐵/𝑃𝑌.

81
Vogliamo quindi analizzare l’andamento e la variazione del rapporto fra stock di debito e PIL nominale. In
pratica vogliamo analizzare ∆𝐵/𝑃𝑌 e utilizzando l’equazione (3) otteniamo che
∆𝐵 𝐺0 −𝑇
𝑃𝑌
= 𝑃𝑌
+𝑖∙𝑏 (4)

e indicando con a il rapporto fra il avanzo primario (𝑇 − 𝐺0 ) e PIL nominale possiamo riscrivere la (4) come
∆𝐵
𝑃𝑌
= −𝑎 + 𝑖 ∙ 𝑏 (5)

Per analizzare tale andamento è utile a sviluppare l’analisi matematica nel tempo continuo: se ∆𝐵 è la
generica variazione nel tempo, possiamo indicare la variazione nel tempo continuo col termine 𝐵′ , si ha
quindi 𝐵′ = 𝜕𝐵/𝜕𝑡 (dove t è il tempo); ovvero nel tempo continuo vale:
𝐵′
𝑃𝑌
= −𝑎 + 𝑖 ∙ 𝑏 (6)

In maniera analoga possiamo indicare con 𝑏 ′ l’andamento nel tempo del rapporto del debito PIL.

In generale, è possibile valutare la sostenibilità o meno del debito pubblico sulla base del segno di 𝑏 ′ . Infatti
quando 𝑏 ′ <0 avremo che, nel tempo, il rapporto debito PIL andrà riducendosi e, di conseguenza, l’entità del
debito andrà via via riducendosi risultando così sostenibile nel lungo periodo. Al contrario se 𝑏 ′ > 0 avremo
che il rapporto debito PIL nel tempo andrà aumentando, risultando quindi impossibile per un paese, a
meno di interventi appositi, riuscire a ripagare tale debito. In tale circostanza è verosimile che i creditori
smettano a un certo punto di finanziare il debito (poiché notano che tale debito non potrà esser ripagato)
e, conseguentemente, il paese non troverà più finanziamenti per sostenere la sua spesa pubblica. Il caso
𝑏 ′ = 0 è un caso limite, poiché se da un lato i creditori non vedranno mai rimborsato lo stock di debito (che
infatti rimane costante in termini relativi) dall’altro vedranno sistematicamente ripagati gli interessi su tale
debito e quindi è verosimile che manterranno aperta la linea di credito.

Queste considerazioni ci portano quindi a legare la sostenibilità del debito al segno della variabile 𝑏 ′ ,
variabile che risulta essere quindi estremamente importante. In quanto segue svilupperemo in maniera
analitica 𝑏 ′ al fine di valutare cosa determini il suo segno.

A tutti gli effetti 𝑏 ′ rappresenta la variazione nel tempo del rapporto 𝐵/𝑃 ∙ 𝑌, per cui:

𝜕(𝐵/𝑃𝑌) 𝐵′ 𝑃𝑌−𝐵(𝑃′𝑌+𝑃𝑌′) 𝐵′ 𝐵 (𝑃′ 𝑌+𝑃𝑌 ′ ) 𝐵′ 𝐵 𝑃′ 𝑌′


𝑏′ = 𝜕𝑡
= 𝑃2 𝑌 2
= 𝑃𝑌 − 𝑃𝑌 𝑃𝑌
= 𝑃𝑌 − 𝑃𝑌 ( 𝑃 + 𝑌 ) (7)

Si consideri adesso che:

- 𝐵′ /𝑃𝑌 è equivalente, in base alla (6), a −𝑎 + 𝑖 ∙ 𝑏

- 𝑃′ /𝑃 rappresenta il tasso di crescita dei prezzi, ovvero l’inflazione, che indichiamo con 𝜋.

- 𝑌 ′ /𝑌 è il tasso di crescita del PIL reale, che indichiamo con g.

Possiamo quindi riscrivere la (7) come

𝑏 ′ = −𝑎 + 𝑖𝑏 − 𝑏(𝜋 + 𝑔) = −𝑎 + 𝑏(𝑟 − 𝑔) (8)

dove r è il tasso di interesse reale.

82
L’equazione (8) rappresenta a tutti gli effetti la condizione che va a determinare il segno di 𝑏 ′ e, in ultima
analisi, la sostenibilità del debito.

11.2 Alcune considerazioni sulla sostenibilità del debito


Al fine di mantenere il debito sotto controllo occorre che 𝑏 ′ ≤ 0 e, conseguentemente occorre che l’avanzo
primario sia sufficientemente elevato da coprire eventuali eccessi del tasso di interesse reale rispetto alla
crescita del PIL reale. Sulla base della (8) si ha quindi che

𝑏 ′ ≤ 0 ⇔ 𝑏(𝑟 − 𝑔) ≤ 𝑎

Risulta quindi che 𝑏(𝑟 − 𝑔) ≤ 𝑎 è la condizione che garantisce la sostenibilità del debito. E’ utile osservare
due cose:

- quando (𝑟 − 𝑔) è positivo, ovvero quando il tasso di interesse reale è superiore al tasso di crescita
del PIL reale abbiamo che per mantenere la sostenibilità del debito a dovrà essere necessariamente
positivo: in queste circostanze non è possibile conciliare sostenibilità del debito e disavanzi primari.
- Al fine di mantenere la sostenibilità il segno di a (ovvero la necessità o meno di avere avanzi
primari) risulta essere condizionata dal segno di (𝑟 − 𝑔) ma non dal valore assoluto di 𝑏: in pratica
l’entità del debito pubblico non va a determinare, almeno in maniera diretta, se un paese può
permettersi o meno disavanzi primari.

83
12. Il mercato del lavoro in concorrenza perfetta
Nella presente sezione descriviamo il funzionamento di un mercato del lavoro che funzioni secondo i
paradigmi della concorrenza perfetta. Tali paradigmi, oltre a basarsi sull’assenza di potere di mercato da
parte di imprese e lavoratori, prevedono perfetta informazione, flessibilità completa di prezzi e salari, la
possibilità immediata di incontro fra impresa e lavoratori e la perfetta omogeneità di tutti gli agenti
economici. Descriviamo ora il funzionamento di uno schema base e lo utilizzeremo per determinare
occupazione e salario di equilibrio e il processo di aggiustamento verso tali valori.

12.1 La domanda e l’offerta di lavoro


Le imprese operano nel mercato e ognuna di esse occupa Ni lavoratori utilizzandoli per produrre una
quantità di prodotto prodotto Yi che vendono al prezzo (determinato dal mercato) P. Per un dato livello del
salario W, i profitti dell’impresa saranno:

𝜋𝑖 = 𝑃𝑌𝑖 − 𝑊𝑁𝑖 . (1)

Le imprese sceglieranno l’occupazione per massimizzare i loro profitti e di conseguenza (si ricordi che la
produzione Yi è una funzione dell’occupazione Ni):

𝜕𝜋𝑖 𝜕𝑌
𝜕𝑁𝑖
= 𝑃 𝜕𝑁𝑖 − 𝑊 = 0 (2)
𝑖

𝑊 𝜕𝑌𝑖
= (2a)
𝑃 𝜕𝑁𝑖

E, sotto l’ipotesi che tutte le imprese siano identiche fra loro (Yi=Y e Ni=N):

𝑊 𝜕𝑌
= (3)
𝑃 𝜕𝑁

Dove 𝜕𝑌/𝜕𝑁 è la produttività marginale del lavoro: sotto l’ipotesi di rendimenti decrescenti di scala tale
produttività marginale è decrescente.

L’equazione (3) determina la domanda del lavoro ND, ovvero determina, per ogni livello del salario reale
qual è la domanda di lavoro da parte delle imprese. In base alle (3), sotto l’ipotesi di rendimenti decrescenti
di scala, tale domanda è decrescente rispetto al salario reale.

Per quanto riguarda i lavoratori, ci limitiamo a supporre che l’offerta di lavoro sia crescente rispetto al
salario reale. In pratica, ipotizziamo che quando il salario reale è elevato, un numero maggiore di lavoratori
trova conveniente proporsi sul mercato piuttosto che dedicarsi ad altre attività (lavoro domestico,
istruzione, pensionamenti). Di conseguenza, l’offerta di lavoro 𝑁 𝑆 è una funzione N(W/P) la cui derivata è
positiva:

𝑁 𝑆 = 𝑁(𝑊/𝑃) (4)

84
12.2 Occupazione, salario reale di equilibrio e meccanismo di
aggiustamento
L’equazione della domanda (3) e dell’offerta (4) determinano l’occupazione complessiva e il salario reale
prevalente: è possibile rappresentare l’equilibrio graficamente, si veda figura 22a.

L’incontro fra la curva di domanda e di offerta determinano l’occupazione di equilibrio 𝑁 ∗ e il salario di


equilibrio 𝑊/𝑃∗ : per tale valore del salario reale, la domanda di lavoro è esattamente pari all’offerta di
lavoro; tutti gli individui che desiderano lavorare trovano quindi un impiego e di conseguenza non vi è
disoccupazione. Se ci sono individui che non lavorano, lo fanno per loro scelta e, di conseguenza, sono
considerati disoccupati volontari.

Vediamo adesso cosa succede se il sistema si trova ad un salario reale diverso da quello di equilibrio. Per
farlo, consideriamo la figura 22b e consideriamo un caso in cui il salario 𝑊/𝑃1 sia più alto di quello di
equilibrio. In tale circostanza il salario è piuttosto elevato e, come si vede dal grafico, i lavoratori che si
offrono sono molto più numerosi dei lavoratori che le imprese vogliono assumere: come conseguenza il
numero di lavoratori effettivamente impiegati è pari soltanto alla domanda di lavoro (𝑁1 nel grafico) e
poiché l’offerta di lavoro è superiore a tale valore, nel mercato è presente disoccupazione involontaria
(rappresentata dal segmento U nel grafico). Tuttavia, come conseguenza di tale disoccupazione alcuni
lavoratori saranno disposti a lavorare per un salario inferiore a 𝑊/𝑃1 : infatti, nel grafico, si nota che anche
per valori inferiori a tale valore il numero di lavoratori che si offrono è superiore a 𝑁1 . Di conseguenza, se il
salario è flessibile, i lavoratori si offriranno per una paga inferiore ed il salario reale si riduce: tale processo
prosegue fin tanto che sussiste un eccesso di offerta di lavoro, ovvero fino a quando il salario reale non ha
raggiunto il suo livello di equilibrio 𝑊/𝑃∗ . Per tanto il mercato del lavoro, se perfettamente flessibile è
perfettamente in grado di eliminare eccessi di offerta e la disoccupazione scompare.

Soltanto in presenza di rigidità del salario si realizza disoccupazione involontaria: ad esempio se il salario
fosse forzatamente fissato al livello 𝑊/𝑃1 e non potesse ridursi (ad esempio in seguito ad una legge sul
85
salario minimo o alla contrattazione sindacale), allora nel sistema si riscontrerebbe effettivamente
disoccupazione involontaria.

Si noti infine che lo stesso meccanismo di aggiustamento opera, in maniera simmetrica, qualora il salario
𝑊
reale sia momentaneamente inferiore a quello di equilibrio(come ad esempio 𝑃2
in figura): in tal caso la
domanda di lavoro è superiore all’offerta e nel sistema si realizza l’occupazione 𝑁2 . In questo caso, non
tutta la domanda di lavoro viene soddisfatta e nel sistema vi sono posti vacanti (pari al segmento V in
figura): in seguito alla presenza di posti vacanti le imprese, per riempirli, incrementeranno la paga che
offrono ai lavoratori e questo riporta gradualmente il salario reale a 𝑊/𝑃∗ e il sistema torna all’equilibrio.

86
13. La protezione dell’impiego
Nella presente sezione analizziamo il ruolo che la protezione dell’impiego ha nel funzionamento del
mercato del lavoro ed in particolare nella determinazione dei salari e dell’occupazione. In generale, con
protezione dell’impiego si indicano tutte quelle normative che regolano il processo di licenziamento dei
lavoratori da parte dei datori di lavoro e che impediscono quindi che questi ultimi possano liberamente
licenziare i loro dipendenti. Nella nostra analisi mostreremo gli effetti della protezione dell’impiego
attraverso alcuni semplici modelli teorici che evidenziano quali sono, sotto determinate ipotesi, le
conseguenze di queste istituzioni. Nella trattazione teorica la presenza di protezione dell’impiego sarà
assimilata alla presenza di un costo monetario z che le imprese devono pagare ai lavoratori che vengono
licenziati. Con le dovute cautele, questi modelli possono essere adattati ai casi in cui tale costa
rappresentino anche i costi amministrativi e giudiziari relativi al processo di licenziamento (e che quindi non
vengono pagati direttamente al lavoratore) e al caso in cui il licenziamento sia a tutti gli effetti vietato (il
che è assimilabile a costi di licenziamento la cui entità tenda all’infinito).

Nel procedere nell’analisi teorica ipotizzeremo che imprese e lavoratori siano neutrali al rischio e
svilupperemo due modelli distinti: nel primo esploreremo il caso in cui i salari sono perfettamente flessibili,
nel secondo invece ci occuperemo di un mercato del lavoro con salari rigidi. Come vedremo, le
conseguenze della protezione dell’impiego risultano essere molto diverse in base a queste ipotesi su
flessibilità o rigidità dei salari.

13.1 La protezione dell’impiego con salari perfettamente flessibili


La presenza di un costo di licenziamento z, in una situazione di salari perfettamente flessibili, si traduce
direttamente in un costo aggiuntivo le imprese dovranno sostenere. Per i lavoratori invece, esso costituisce
un compenso aggiuntivo che andranno a ricevere qualora perdessero il loro posto di lavoro.

Per quanto riguarda le imprese quindi, ognuna di esse sa che, qualora il lavoratore debba essere licenziato,
essa dovrà pagare un costo z e se definiamo con q la probabilità che questo avvenga, il costo atteso per
l’impresa è pari a 𝑞 ∙ 𝑧. Quindi i profitti attesi 𝐸(𝜋) da parte dell’impresa sono

𝐸(𝜋) = 𝑃𝑌 − (𝑊 + 𝑞 ∙ 𝑧)𝑁 (1)

Dove 𝑃 e Y sono prezzi e produzione, 𝑊 il salario nominale e N l’occupazione. Sotto l’ipotesi di neutralità al
rischio le imprese sceglieranno l’occupazione che massimizza il profitto atteso e quindi applicando la
𝐸𝜕(𝜋)
condizione di ottimo 𝜕𝑁
= 0 otteniamo:

𝑊 𝜕𝑌 𝑞∙𝑧
𝑃
= 𝜕𝑁 − 𝑃
(2)

Ovvero, per ogni livello di produttività marginale, il salario reale che le imprese sono disposte a pagare
viene ridotto di una quantità esattamente pari al costo atteso per il licenziamento. Graficamente questo si
traduce in una curva di domanda di lavoro che trasla verso il basso di una quantità esattamente pari a 𝑞 ∙
𝑧/𝑃: si veda figura 23 dove ND è la curva di domanda di lavoro in assenza di protezione dell’impiego e 𝑁𝑍𝐷 è
la curva in presenza di protezione).

87
Per quanto riguarda i lavoratori la presenza della protezione dell’impiego si traduce in aumento effettivo
del denaro percepito in media: in particolare il lavoratore sa che riceverà un valore atteso pari a 𝑞 ∙ 𝑧. Di
conseguenza questo vuol dire che se prima la curva di offerta del lavoro prevedeva che per il salario 𝑊/𝑃∗
ci fosse l’offerta 𝑁 ∗ adesso, in presenza di protezione dell’impiego, tale quantità di lavoro dovrà essere
offerta per un salario reale pari a 𝑊/𝑃∗ − 𝑞 ∙ 𝑧: infatti i lavoratori sanno che quando il salario reale pagato
è pari a 𝑊/𝑃∗ − 𝑞 ∙ 𝑧 il compenso effettivamente percepito è pari 𝑊/𝑃∗ e quindi il lavoro che offrono sarà
𝑁 ∗ . Dal punto di vista grafico (figura 23) questo ragionamento si traduce nel fatto che la curva di offerta di
lavoro in presenza di protezione dell’impiego (curva 𝑁𝑍𝑆 ) trasla verso il basso esattamente del quantitativo
𝑞 ∙ 𝑧 : ovvero per ogni livello di salario reale adesso si offrono più lavoratori (poiché essi sanno, come già
detto, che il compenso effettivo è più alto del semplice salario reale pagato).

Il risultato complessivo, come si vede in figura, è che entrambe le curve traslano dello stesso quantitativo
𝑞 ∙ 𝑧: l’occupazione non cambia mentre il salario reale di equilibrio si riduce esattamente di 𝑞 ∙ 𝑧.

Il risultato raggiunto è quindi molto rilevante e ci dice che se il salario è perfettamente flessibile e se gli
agenti economici sono neutrali al rischio la protezione dell’impiego è neutrale rispetto all’occupazione
complessiva. In pratica, la presenza di un costo di licenziamento viene scaricato direttamente sul salario che
risulta quindi abbassarsi di un quantitativo esattamente pari al costo atteso di licenziamenti mentre
l’occupazione non risente di questi meccanismi di protezione dell’impiego.

88
13.2 La protezione dell’impiego con salari rigidi
In presenza di un salario rigido, ovvero di un salario che non può essere aggiustato in seguito ai costi di
licenziamento e che non risponde alle condizioni di offerta del lavoro, il costo di licenziamento z non può
ripercuotersi direttamente sul salario.

In queste circostanze è utile studiare il funzionamento del mercato del lavoro ricorrendo ad un modello
estremamente stilizzato ma che cattura alcuni degli aspetti che risultano essere particolarmente importanti
quando l’impresa paga dei costi di aggiustamento del lavoro (ovvero il costo di licenziamento) e il salario è
fisso ad un livello predeterminato. Questo modello è una versione semplificata del modello presentato in
Saint-Paul (1997).

L’idea di fondo del modello è che l’attività di impresa si svolga in due periodi: nel primo le condizioni
dell’economia sono note e l’impresa può scegliere liberamente il livello di occupazione che desidera, nel
secondo periodo invece, le condizioni dell’economia sono aleatorie e aggiustamenti del livello di
occupazione rispetto al periodo precedente sono costoso per via della presenza di costi di licenziamento.

In particolare si immagina un’impresa che opera per due periodi: la funzione di produzione del primo
periodo è pari a 𝑌 = log 𝑁 mentre nel secondo periodo tale funzione è pari a 𝑌 = 𝜃 log 𝑁 dove 𝜃 è un
parametro relativo alla produttività del processo di produzione e può assumere due possibili valori: con
probabilità p il parametro di produttività assume valore 𝜃𝐿 < 1 e con probabilità 1-p esso assume valore
𝜃𝐻 > 1. In pratica queste due situazioni rappresentano, rispettivamente, uno shock negativo sull’economia
(un basso valore del parametro 𝜃) e uno shock positivo sull’economia (un alto valore del parametro 𝜃).
Durante il primo periodo, al momento di determinare l’occupazione, l’impresa conosce perfettamente la
funzione di produzione di quel periodo ma non quella del secondo periodo e sa che eventuale
aggiustamenti successivi sul livello di occupazione, quando il livello di produttività sarà rivelato,
comportano dei costi aggiuntivi legati alla presenza di un costo di licenziamento z. Durante tutti e due i
periodi il salario nominale risulta rigido e rimane fisso al livello W; per semplicità aggiungiamo anche che i
prezzi a cui vengono venduti i beni sono normalizzati ad 1 in entrambi i periodi.

Sulla base di questa struttura, al momento di prendere le decisioni sull’occupazione del primo periodo il
profitto atteso bi-periodale 𝐸(𝜋) da parte dell’impresa risulta essere quindi pari a:

𝐸(𝜋) = 𝑌1 − 𝑊𝑁1 + 𝐸 [𝑌2 − 𝑊𝑁2 − 𝑧 ∙ max(𝑁1 − 𝑁2 , 0)] (3)

Dove la componente 𝑧 ∙ max(𝑁1 − 𝑁2 , 0) rappresenta esattamente il costo legato ai licenziamenti: questa


componente è pari a 0 se l’impresa mantiene costante o aumenta l’occupazione (ovvero 𝑁1 − 𝑁2 ≥ 0)
mentre è pari 𝑧 ∙ (𝑁1 − 𝑁2 ) se l’impresa licenzia 𝑁1 − 𝑁2 lavoratori. In pratica, se l’impresa trovasse
conveniente scegliere nel secondo periodo un’occupazione 𝑁2 che è inferiore a quello del primo periodo 𝑁1
allora dovrà pagare, per ogni unità in esubero, un costo pari a z: in queste circostanze, ovviamente, il costo
complessivo sarebbe 𝑧 ∙ (𝑁1 − 𝑁2 ).

Specificando nella (3) le effettive funzioni di produzione e le relative probabilità ad esse associate abbiamo:

𝐸(𝜋) = log 𝑁1 − 𝑊𝑁1 + 𝑝𝜃𝐿 log 𝑁2,𝐿 − 𝑝𝑊𝑁2,𝐿 − 𝑝 ∙ 𝑧 max(𝑁1 − 𝑁2,𝐻 , 0) + (1 − 𝑝)𝜃𝐻 log 𝑁2,𝐻 −
(1 − 𝑝)𝑊𝑁2,𝐻 − (1 − 𝑝) ∙ 𝑧 max(𝑁1 − 𝑁2,𝐻 , 0) (4)

89
Dove 𝑁2,𝐿 e 𝑁2,𝐻 rappresentano l’occupazione scelta nel secondo periodo in caso, ripsettivamente, di
produttività bassa oppure alta. L’impresa sotto l’ipotesi di neutralità al rischio e di tasso di sconto pari a 0
procede a massimizzare tale profitto scegliendo l’occupazione 𝑁1 durante il primo periodo e l’occupazione
𝑁2 nel secondo periodo dopo che avrà osservato il livello di produttività di tale periodo. Per risolvere
questo problema di massimizzazione è utile adottare un procedimento di induzione all’indietro (backward
induction), partendo cioè dalle decisione del secondo periodo e risalendo poi a quelle del primo periodo

13.1.1 Le decisioni nel secondo periodo


Al momento in cui l’impresa deve prendere le decisioni sull’occupazione del secondo periodo essa ha avuto
modo di osservare l’effettiva produttività di quel periodo e si ritroverà con un’occupazione ereditata dal
primo periodo pari a 𝑁1 . Vediamo come essa si comporta a seconda di quale sia la produttività che osserva
e partendo quindi da una qualunque occupazione 𝑁1 .

Se l’impresa osserva uno shock positivo (che avviene con probabilità 1-p), ovvero se si realizza 𝜃𝐻 essa nota
che adesso la produttività marginale relativa all’occupazione 𝑁1 è necessariamente aumentata. Infatti, nel
primo periodo per ogni occupazione 𝑁1 , la produttività marginale era pari a 1/𝑁1 (si ricordi che nel primo
periodo, la funzione di produzione era 𝑌 = log 𝑁) mentre adesso, mantenendo la stessa occupazione 𝑁1 la
produttività marginale sarebbe 𝜃𝐻 /𝑁1 (si ricordi che nel secondo periodo la funzione di produzione si è
rivelata essere era 𝑌 = 𝜃𝐻 log 𝑁): poiché 𝜃𝐻 > 1 si ha che 𝜃𝐻 /𝑁1 > 1/𝑁1 e quindi, a parità di occupazione
𝑁1 , la produttività marginale del secondo periodo sarebbe più alta. Ma dato che il salario è rimasto fermo a
W, allora se la produttività marginale è aumentata, l’impresa trova necessariamente conveniente
aumentare l’occupazione: ecco allora che necessariamente si ha 𝑁1 − 𝑁2 < 0. Conseguentemente, i profitti
che l’impresa va a conseguire in questo periodo sono dati da:

𝜋2 = 𝜃𝐻 log 𝑁2 − 𝑊𝑁2 − 𝑧 ∙ max(𝑁1 − 𝑁2 , 0) = 𝜃𝐻 log 𝑁2 − 𝑊𝑁2 (5)

E poiché i profitti al periodo 1 si sono ormai realizzati il comportamento migliore dell’impresa è scegliere
l’occupazione 𝑁2 che massimizza la (5). La condizione di primo ordine prevede che

𝜕𝜋2 𝜃𝐻
= −𝑊 =0 (6)
𝜕𝑁2 𝑁2

Da cui

𝜃𝐻
𝑁2 = 𝑊
(7)

L’equazione (7) rappresenta l’occupazione che si realizza nel periodo due qualora l’economia sia sottoposta
ad uno shock positivo, eventualità che accade con probabilità 1-p. Si noti che in questa circostanza
l’occupazione non dipende dai costi di licenziamento z.

Nel caso in cui l’impresa osservi invece uno shock negativo (che avviene con probabilità p), ovvero se si
realizza 𝜃𝐿 essa nota che adesso la produttività marginale relativa all’occupazione 𝑁1 si è necessariamente
ridotta. Il ragionamento è analogo a quello del caso precedente: nel primo periodo la produttività
marginale era pari a 1/𝑁1 mentre adesso, mantenendo la stessa occupazione 𝑁1 la produttività marginale
sarebbe 𝜃𝐿 /𝑁1 (si ricordi che nel secondo periodo la funzione di produzione si è rivelata essere 𝑌 =
𝜃𝐿 log 𝑁): poiché 𝜃𝐿 > 1 si ha che 𝜃𝐿 /𝑁1 < 1/𝑁1 e quindi, a parità di occupazione 𝑁1 , la produttività
marginale del secondo periodo sarebbe più ora più bassa. Ma dato che il salario è rimasto fermo a W, allora
se la produttività marginale è aumentata, l’impresa troverebbe necessariamente conveniente ridurre
90
l’occupazione: ecco allora che necessariamente si ha 𝑁1 − 𝑁2 < 0: in questa circostanza però, la riduzione
dell’occupazione comporta dei costi di licenziamenti. In pratica, i profitti che l’impresa va a conseguire in
questo periodo sono dati da:

𝜋2 = 𝜃𝐿 log 𝑁2 − 𝑊𝑁2 − 𝑧 ∙ max(𝑁1 − 𝑁2 , 0) = 𝜃𝐿 log 𝑁2 − 𝑊𝑁2 − 𝑧 ∙ (𝑁1 − 𝑁2 ) (8)

E poiché i profitti al periodo 1 si sono ormai realizzati il comportamento migliore dell’impresa è scegliere
l’occupazione 𝑁2 che massimizza la (8). La condizione di primo ordine prevede che

𝜕𝜋2 𝜃
𝜕𝑁2
= 𝑁𝐿 − 𝑊 + 𝑧 = 0 (9)
2

Da cui

𝐿 𝜃
𝑁2 = 𝑊−𝑧 (10)

L’equazione (10) rappresenta l’occupazione che si realizza nel periodo due qualora l’economia sia
sottoposta ad uno shock negativo, eventualità che accade con probabilità p. Si noti che in questa
circostanza l’occupazione dipende dai costi di licenziamento z e che sarà tanto più ampia quanto più ampi
sono i costi di licenziamento z.

13.1.2 Le decisioni primo periodo


L’utilizzo del metodo di induzione a ritroso ci ha permesso di ricavare l’occupazione che si realizza a
seconda dell’andamento dell’economia nel secondo periodo. Per stabilire invece l’occupazione che
l’impresa sceglie nel primo periodo possiamo inserire le occupazioni ricavate per i due stati del mondo
(equazioni 7 e 10) all’interno dei profitti complessivi attesi dall’impresa (equazione 3) e tener conto che ∙
max(𝑁1 − 𝑁2 , 0) è pari a 0 in caso di shock positivo (ovvero con probabilità 1-p) ed è pari invece a 𝑁1 − 𝑁2
in caso di shock negative (ovvero con probabilità p). Così facendo otteniamo:

𝐿 𝜃 𝑊𝜃 𝜃 𝑊𝜃𝐻 𝜃
𝐸(𝜋) = log 𝑁1 − 𝑊𝑁1 + 𝑝 (𝜃𝐿 log 𝑊−𝑧 − 𝑊−𝑧𝐿 ) + (1 − 𝑝) (𝜃𝐻 log 𝑊𝐻 − )− 𝐿
𝑝 ∙ 𝑧 ∙ (𝑁1 − 𝑊−𝑧 )(11)
𝑊

L’occupazione del primo periodo viene quindi scelta per massimizzare la (11): partendo da tale equazione,
la condizione del primo ordine implica che:

𝜕𝐸(𝜋) 1
𝜕𝑁1
= 𝑁 −𝑊−𝑝∙𝑧 = 0 (12)
1

da cui
1
𝑁1 = 𝑊+𝑝∙𝑧 (13)

L’equazione (13) rappresenta l’occupazione che si realizza nel periodo uno ed essa risulta essere influenzata
negativamente dai costi di licenziamento z: tanto maggiore sono questi costi, tanto minore è l’occupazione
che si realizza nel primo periodo.

13.1.3 Alcune considerazioni su protezione dell’impiego e occupazione


Il semplice modello appena esposto mostra alcuni risvolti cruciali sugli effetti della protezione dell’impiego
sull’occupazione. Il primo risultato è che, in condizioni di shock negativi sull’economia (rappresentati nel
91
nostro modello da una riduzione della produttività del lavoro) la protezione dell’impiego mantiene il livello
occupazionale ad un valore più alto di quello che si avrebbe in sua assenza: questo tuttavia avviene a
discapito dell’impresa, che fissa l’occupazione ad un livello sub-ottimale. In assenza di questo costo infatti,
l’impresa fisserebbe un occupazione che garantirebbe l’uguaglianza fra salario e produttività marginale:
poiché non può farlo, l’occupazione scelta dell’impresa non è efficiente.

In aggiunta, nel primo periodo l’occupazione che si realizza è inferiore a quella che si avrebbe avuta in
assenza di protezione dell’impiego: in pratica le imprese, sapendo che in futuro potrebbe essere
dispendioso ridurre l’occupazione, preferiscono mantenere comunque l’occupazione più bassa, per
prevenire almeno una parte degli eventuali costi di aggiustamento futuri. Anche in questo periodo
ovviamente, la soluzione non è efficiente dato che la produttività marginale è inferiore al salario.

La protezione dell’impiego sembra quindi garantire un livello di occupazione più alto durante i periodi
avversi ma al costo di un’occupazione relativamente più basso nei periodo “normali” (rappresentati nel
nostro modello dal periodo iniziale) e di una generale perdita di efficienza. L’effetto sul livello
dell’occupazione non è quindi univoco e cambia a secondo della situazioni: volendo, sarebbe possibile
calcolare il valore medio dell’occupazione ma anche in questo caso otterremmo che l’effetto della
protezione non è univoco e il suo effetto sul livello medio dipende dai particolari valori assunti dai
parametri.

Per qualificare questo risultato è opportuno infine riflettere su come due delle ipotesi del modello incidono
sul risultato di fondo.

Il primo aspetto riguarda il fatto che il modello ipotizza che l’attività dell’impresa duri solo due periodi:
poiché il secondo periodo è anche l’ultimo, l’impresa non replica quel comportamento “cautelativo” nei
confronti del livello dell’occupazione che attuava nel primo periodo. Tuttavia, se immaginassimo che
l’attività dell’impresa prosegua anche oltre il secondo periodo, questo meccanismo cautelativo tornerebbe
ad essere attuato e l’effetto negativo della protezione dell’impiego del secondo periodo sarebbe più
marcato e avrebbe luogo anche nei periodi contraddistinti da shock positivi sulla produttività.

Il secondo aspetto è invece legato al fatto che, nella realtà, una parte dei lavoratori lascerebbero comunque
il lavoro fra il primo e il secondo periodo: ciò è dovuto ai pensionamenti o, comunque, ad eventuali
dimissioni volontarie da parte dei lavoratori. Questa riduzione spontanea del lavoro mitiga gli eventuali
costi di aggiustamento causati dalla protezione dell’impiego e, se ne tenessimo conto, l’effetto negativo
della protezione sull’occupazione del primo periodo sarebbe meno marcato.

In pratica, stiamo facendo notare che, aggiungendo al nostro modello alcuni aspetti che meglio descrivono
il funzionamento reale dell’economica, ci sono ragioni per supporre che questi da un lato rafforzerebbero la
componente negativa del legame fra protezione dell’impiego sull’occupazione mentre altre mitigherebbero
tale componente. Complessivamente quindi, anche aggiungendo questi aspetti, è verosimili aspettarsi che
l’effetto della protezione dell’impiego sull’occupazione continui ad essere non univoco.

92
14. La teoria della job search e le politiche per il lavoro
Vogliamo adesso studiare il funzionamento di un mercato del lavoro in cui sono presenti delle frizioni che
impediscono all'offerta e alla domanda del lavoro di incontrarsi in maniera immediata. In pratica, ragioni di
tipo informativo, geografico e di competenze non permettono che i lavoratori che cercano lavoro riescano
a trovare immediatamente i posti di lavoro effettivamente esistenti in un dato momento. In presenza di
queste frizioni i lavoratori, anche se disposti a lavorare al salario corrente, risultano disoccupati e lo sono
oltretutto in modo "involontario". Questa forma di disoccupazione, si aggiunge a quella classica legata a
salari troppo alti e alle rigidtà che impediscono a quest'ultimi di abbassarsi e quella keynesiana, legata ad
un'insufficienza nella domanda aggregata.

Vediamo adesso di descrivere più nel dettaglio la natura delle frizioni che impediscono l'incontro fra
domanda e offerta di lavoro; esse possono essere legate a:

- problemi di tipo informativo. Ovvero, ci sono imprese che cercano lavoratori e lavoratori che cercano un
impiego ma le due parti non hanno informazioni su queste disponibilità di impiego e mano d'opera e, di
conseguenza, i rapporti di lavoro non possono crearsi.

- problemi geografici e logistici. In queste circostanze, nel mercato sono presenti sia posti vacanti che
lavoratori disposti a lavorare ma la localizzazione geografica dei lavoratori e delle imprese crea dei
problemi: gli impieghi sono in una certa area geografica mentre i lavoratori vivono in un area distante e non
possono spostarsi o trasferirsi o potrebbero farlo solo a costi molto elevati, a causa dei quali il salario
corrente non giustifica lo spostamento.

- problemi di competenze. Anche in quest'ultimo caso, ci sarebbero sia imprese che vogliono assumere sia
lavoratori che cercano un impiego ma le competenze richieste dalle imprese sono diverse da quelle che i
lavoratori hanno e per tanto le imprese non possono assumere quei particolari lavoratori.

Il funzionamento dell'economia e la determinazione di salario ed occupazione è fortemente condizionato


da queste frizioni: vogliamo adesso costruire un modello che tenga conto di questi aspetti ed in cui risulti
esplicito il fatto che la creazione di posti di lavoro non è un meccanismo automatico nemmeno in presenza
di posti vacanti e di lavoratori disoccupati. Il modello che presentiamo nella sezione 13.1 è una versione
base del modello di Mortensen-Pissarides che a sua volta riprende alcune delle idee precedentemente
postulate da Phelps e Diamond. Nella sua versione classica il modello Mortensen-Pissarides fa ricorso ad
elementi di programmazione dinamica: per semplicità espositiva eviteremo questi aspetti e non micro-
fonderemo quindi alcuni passaggi limitandoci a fondarli su considerazioni logiche ed economiche. Come
vedremo, in presenza di frizioni, la determinazione dei valori di equilibrio della disoccupazione è a sua volta
influenzata dalle politiche attive e passive per il lavoro: di conseguenza, utilizzeremo questo modello anche
per analizzare gli effetti e le conseguenze di queste politiche.

Infine, nella sezione 12.2 presentiamo invece un semplice modello che vuole evidenziare alcuni meccanismi
relativi al processo di ricerca del singolo lavoratore e cerca di evidenziare alcuni legami fra questi
meccanismi e i sussidi di disoccupazione.

93
14.1 Un modello di ricerca del lavoro e matching
Vogliamo quindi presentare un modello che si fonda sul fatto che, in ogni istante, siano presenti sia
lavoratori disoccupati che cercano un impiego, sia imprese che cercano lavoartori di impiegare e che,
nonostante questi due gruppi siano presenti contemporaneamente, la nascita dei rapporti di lavoro non
avvenga in maniera automatica, proprio per la presenza di frizioni.

Si suppone quindi che nel mercato siano presenti un certo numero di lavoratori (disoccupati) che cerca un
impiego e un certo numero di imprese che cerca lavoratori da assumere. Definiamo con U il numero di
lavoratori disoccupati che cerca lavoro e con V il numero di posizioni aperte da parte delle imprese. Come
conseguenza del fatto che lavoratori e imprese non riescono ad incontrarsi immediatamente (a causa delle
frizioni), i lavoratori non hanno la certezza di trovare lavoro definiamo con 𝜆 la probabilità di essere assunti:
si noti che effettivamente questa probabilità dovrà dipendere dal numero di individui che cerca lavoro,
dalle posizioni disponibili e da quanto sia più o meno facile che la domanda e l'offerta di lavoro si
incontrino. In aggiunta supponiamo anche che i rapporti di lavoro che si creano o, che sono già in essere,
non siano perenni: al contrario esiste una probabilità 𝛾 che tale rapporto abbia fine; ciò avviene perché
l'impresa fallisce o perché il lavoratore viene licenziato o perché si dimette. Si noti inoltre che se definiamo
con L la forza lavoro possiamo anche definire il tasso di disoccupazione u=U/L e il tasso di posti vacanti per
lavoratore v=V/L. In pratica, in ogni periodo, alcuni disoccupati trovano lavoro e, contemporaneamente,
alcuni occupati perdono il loro impiego e nuovi posti di lavoro si rendono disponibili: questi flussi vanno a
determinare la quantità di occupati, disoccupati e posti vacanti che sono presenti in ogni momento
nell'economica.

Data l'esistenza di U lavoratori che cercano lavoro e di V posti vacanti, vi è effettivamente un processo di
ricerca che porterà alcuni di quei lavoratori a coprire alcuni di quei posti vacanti. Esiste quindi un
meccanismo che fa si che alcuni lavoratori effettivamente trovino lavoro: questo meccanismo prende il
nome di "Matching Function" e va a determinare il numero di rapporto che si creano. In pratica in base al
numero di lavoratori disoccupati U e dei posti vacanti V questa funzione si dice quanti nuovi posti di lavoro
M si creano. Tale relazione è descritta dalla seguente funzione di matching:

𝑀 = 𝑀(𝑈, 𝑉) (1)

La funzione è ovviamente crescente in U e V e, in teoria, potrebbe avere rendimenti di scala decrescenti,


crescenti o costanti. Esistono diverse analisi empiriche che hanno cercato di determinare effettivamente la
natura dei rendimenti e, se pur i risultati non siano univoci, esse sembrano indicare che l'ipotesi più
plausibile sia quella dei rendimenti costanti di scala. Per questa ragione adottiamo nella presente analisi
questa ipotesi e andiamo ad adottare la seguente forma funzionale:
1 1
𝑀 = 𝐾 ∙ 𝑈2𝑉 2 (2)

Il parametro K misura la tecnologia del "matching" e dipende fortemente dal grado di frizioni del mercato
ovvero da quanto siano rilevanti le problematiche informative, geografiche e di competenza. Tuttavia
questo parametro dipende anche fortemente dal grado di servizi all'impiego che vengono forniti
dall'autorità pubblica: ovvero esso dipende dalle politiche attive che vengono messe in atto da uno stato e,
nell’ambito di questo modello, ne rappresenta gli effetti.

Consideriamo adesso quello che accade ad un singolo lavoratore: nel mercato ci sono U individui che
cercano lavoro e in un dato periodo si formano M rapporti di lavoro. Dal punto di vista del lavoratore
94
l'effettiva probabilità λ di trovare lavoro è quindi data dal rapporto M/U, ovvero tenendo in considerazione
la (2) abbiamo che:
1 1 1
𝑀 𝐾∙𝑈 2 𝑉 2 𝑉 2
𝜆= = =𝐾∙( ) (3)
𝑈 𝑈 𝑈

che può anche essere espresso in funzione dei tassi (dividendo sia V che U per L):
1
𝑣 2
𝜆 = 𝐾 ∙ (𝑢) (4a)

Se definiamo 𝑣/𝑢 = 𝜃 possiamo riscrivere la (4a) come


1
𝑣 2
𝜆=𝐾∙ (𝑢) (4b)

dove 𝜃 misura quanto è "tirato" (tight in inglese, 𝜃 misura la “tightness” del mercato): quando questo
valore è alto nel mercato si registra un numero alto di posti vacanti rispetto al numero di lavoratori che
cerca un impiego; viceversa, per bassi valori di 𝜃 nel mercato ci sono relativamente più disoccupati che
posti vacanti.

Nel sistema economico alcuni disoccupati troveranno lavoro in base a 𝜆 mentre alcuni occupati perderanno
il loro impiego: in pratica, l'evoluzione della disoccupazione è guidata da questi due flussi e pertanto
possiamo scrivere tale evoluzione come:

𝑈̇ = 𝛾(𝐿 − 𝑈) − 𝜆𝑈 (5)

dove appunto U rappresenta la variazione nel tempo della disoccupazione (e L-U è, a tutti gli effetti, il
numero di occupati). In pratica, l'equazione (5) ci dice che in base al numero di disoccupati U va a
determinarsi anche l'evoluzione stessa della disoccupazione.

La nostra analisi dell’evoluzione del sistema si concentrerà adesso nell’identificare quel valore di
disoccupazione (e di posti vacanti) che garantiscono l’equilibrio del sistema; equilibrio che in questo caso
rappresenterà la situazione in cui la disoccupazione rimane costante, ovvero, la variazione della
disoccupazione è pari a zero.

Vogliamo quindi verificare l’esistenza di un valore U per il quale i flussi di entrata e di uscita dalla
disoccupazione si bilanciano e la disoccupazione si stabilizza ad un livello di equilibrio: se ciò succede
ovviamente avremo 𝑈̇ = 0 e applicando questa condizione alla (5) abbiamo che

𝜆𝑈 = 𝛾(𝐿 − 𝑈) (6)

e quindi
𝛾
𝑈= 𝐿 (6a)
𝛾+𝜆

ovvero quando la disoccupazione assume il valore espresso dalla (6a) allora il numero di disoccupati che
trova lavoro è esattamente pari al numero di lavoratori che perde un impiego e di conseguenza la
disoccupazione si stabilizza al suo livello di equilibrio.

95
E' possibile riscrive la (6a) utilizzando le variabili espresse in tassi: per farlo è sufficiente divedere entrambi i
lati per L e otteniamo:
𝛾
𝑢 = 𝛾+𝜆 (7)

In realtà l'equazione (7) contiene il termine 𝜆 che non è un semplice parametro esogeno ma è invece
determinato endogenamente dal modello stesso: in particolare, se inseriamo l'equazione (4b) che
determina 𝜆 nella (7) otteniamo:
𝛾
𝑢= 1 (8)
𝑣
𝛾+𝐾∙( )2
𝑢

e rielaborando
1 1
𝛾𝑢 + 𝐾 ∙ 𝑣 2 𝑢2 = 𝛾 (8a)

ed anche

𝛾 2 (1−𝑢)2
𝑣 = 𝐾2 𝑢
(8b)

Le equazioni (8a) e (8b) sono due rappresentazioni della medesima relazione che deve sussistere fra u e v
affinché la disoccupazione sia stabile al livello di equilibrio. In pratica, affinché la disoccupazione sia al suo
livello di equilibrio deve valere la (8a) e, equivalentemente, la (8b): in caso contrario il valore della
disoccupazione varia nel tempo.

In particolare la (8a) e la (8b) mostrano che, in equilibrio, esiste una relazione inversa fra v e u: per vedere
questo risultato si può analizzare, distintamente, la (8a) o la (8b). Se analizziamo la (8a) si può notare che,
qualora aumenti u, affinché la (8a) stessa continui ad essere corretta occorrerà che v si riduca. Partendo
dalla (8b) invece, è sufficiente derivare la relazione stessa rispetto a u e notare che tale derivata è negativa.
In entrambi i casi, viene dimostrata la relazione negativa fra v e u.

La relazione definita dall'equazione (8b) descrive quella che in economia è nota come Curva di Beveridge:
curva che è stata originariamente ricavata tramite analisi empiriche sulle serie storiche sui tassi di
disoccupazione e dei posti vacanti, analisi che hanno appunto ottenuto empiricamente una relazione
negativa fra queste due variabili. Visti i nostri presupposti di partenza e le condizioni che abbiamo imposto
per ricavarla, la Curva di Beveridge identifica le coppie di u e di v che garantiscono l’equilibrio del sistema,
inteso qui come situazione di stabilità del tasso di disoccupazione. Si noti che spesso, nella letteratura
teorica, si è soliti rappresentare la Curva di Beveridge tramite l'equazione (7): essa infatti rappresenta la
relazione generale, senza che venga specificata una forma funzionale precisa della funzione di matching.

𝛾 2 (1−𝑢)2
Nella nostra analisi, la curva di Beveridge è comunque descritta da 𝑣 = 𝐾2 𝑢
e questa relazione inversa
può essere rappresentata in un grafico (Figura 23). Si noti che dalla (8b) discende anche che un aumento di
K (che rappresenta, fra le altre cose, la qualità dei servizi all'impiego) riduce a parità di u il valore di v e
comporta quindi una traslazione verso il basso della curva di Beveridge. In maniera speculare, un aumento
di 𝛾 fa traslare verso l'alto la curva.

96
Osservando il grafico in figura è possibile notare che per un qualunque punto A la pendenza della curva che
congiunge l'origine al punto stesso è esattamente pari al rapporto fra i valori che v e u assumono nel punto
A stesso (𝑢𝑎 e 𝑣𝑎 nel grafico) ovvero è pari al valore che 𝜃 assume nel punto A (si ricordi che 𝜃 = 𝑣/𝑢).

La costruzione di questa curva ci ha permesso di evidenziare la relazione fra tasso di disoccupazione e posti
vacanti e mostrare che il sistema economico si muove necessariamente lungo tale curva. Resta tuttavia
ancora da determinare su quale punto particolare di tale curva l'economia si stabilizzerà.

Per farlo, osserviamo preliminarmente che nel grafico in figura (23), scelto un qualunque punto A si ha che
la pendenza della curva che congiunge l'origine al punto stesso è esattamente pari al rapporto fra i valori
che v e u assumono nel punto A stesso (𝑢𝐴 e 𝑣𝐴 nel grafico) ovvero è pari al valore che 𝜃 assume nel punto
A (si ricordi che 𝜃 = 𝑣/𝑢). Ne consegue che qualora fossimo in grado di determinare il valore che θ assume
nel sistema economico, allora saremmo immediatamente in grado di leggere sulla curva di Beveridge qual è
il tasso di disoccupazione di equilibrio che l'economia raggiunge: ad esempio, se fossimo in grado di
determinare che nell'economia si determina un valore di "tightness" pari a 𝜃𝐴 allora saremmo
immediatamente in grado di affermare che nel sistema si determina il tasso di disoccupazione 𝑢𝐴 .

La determinazione di 𝜃 costituisce quindi il completamento del modello di search e, per farlo, ci


concentreremo nella prossima sottosezione sul comportamento di imprese e lavoratori e sui salari da essi
offerti e richiesti, mostrando che questi loro comportamenti e le loro rivendicazioni in termini salariali
vanno a determinare effettivamente 𝜃 e "chiudono" il modello determinando anche il tasso di
disoccupazione di equilibrio.

14.1.1 Il comportamento di imprese e lavoratori


Partiamo da considerare il comportamento dei lavoratori che cercano un impiego e che domanderanno un
certo salario W. Per comprendere le loro azioni si supponga che nel mercato vi sia un certo tasso di posti

97
vacanti v e un certo tasso di disoccupazione u. In tale circostanza si registra anche un certo 𝜃 = 𝑣/𝑢:
quando tale 𝜃 è alto allora vi sono relativamente più posti disponibili che lavoratori che cercano un
impiego. Una situazione di questo genere è favorevole ai lavoratori stessi e di conseguenza, tanto maggiore
è 𝜃, tanto maggiore saranno le loro richieste salariali.

Si supponga inoltre che nel sistema economico sia presente un sussidio di disoccupazione il cui ammontare
monetario è pari a b: la presenza di questo sussidio rende lo stato di disoccupazione più sostenibile per i
lavoratori e li sosterrà portandoli ad aumentare le loro pretese salariali. Si noti che l’erogazione di un
sussidio di disoccupazione rientra nelle politiche passive per il lavoro e, quindi, nell’ambito di questo
modello esso rappresenta proprio queste forme di politiche.

Questi due meccanismi ci portano a dire che il salario a cui i lavoratori si offrono di lavorare 𝑊𝑆 sia una
funzione crescente di 𝜃 e di b. Si ha quindi che:

𝑊𝑆 = 𝑓(𝜃, 𝑏) (9)

Con 𝑓′(𝜃) > 0 e 𝑓′(𝑏) > 0.

Dal punto di vista delle imprese invece, un valore elevato di 𝜃 si traduce in maggiori difficoltà nel trovare un
lavoro: ci sono infatti molti posti vacanti e relativamente pochi lavoratori disponibili. In queste circostanze il
processo di ricerca risulta essere particolarmente lungo e costosa e l’impresa stessa è disposto ad
intraprendere questa ricerca solo se il salario che andrà a corrispondere sarà basso. In altre parole,
l’impresa sa che il processo di ricerca se avrà esito positive consentirà l’attività di produzione e garantirà dei
profitti ma quando 𝜃 è alto i profitti attesi dal processo di ricerca sono bassi e di conseguenza potrà e vorrà
pagare un salario basso. Al pari, se indichiamo con A la produttività del lavoro, quando A è grande il profitto
atteso sarà ampio e le imprese sono disposte a pagare un salario più alto. Questi meccanismi fanno si che il
salario𝑊𝑂 che le imprese offrono dipenda in maniera negative da 𝜃 e in maniera positiva da A. Pertanto:

𝑊𝑂 = 𝑔(𝜃, 𝐴) (10)

Con 𝑔′ (𝜃) < 0 e 𝑔′(𝐴) > 0.

14.1.2 La determinazione del salario, della “tightness” e del tasso di


disoccupazione di equilibrio
Abbiamo appena mostrato che il salario domandato dai lavoratori 𝑊𝑆 è una funzione crescente 𝜃 e che il
salario offerto dalle imprese 𝑊𝑂 è una funzione decrescente di 𝜃. Ne consegue che l’incontro fra salario
domandato e salario offerto determinerà l’equilibrio e l’effettivo livello di 𝜃 (che rappresenta la “tightness”
del mercato). A quel punto il valore di 𝜃 andrà a determinare, insieme alla Curva di Beveridge, il tasso di
disoccupazione di equilibrio.

Riportiamo quindi in figura 24a le curve di salario domandato e di salario offerto. L’incontro delle due curve
determina il salario che si realizza ed il conseguente livello di 𝜃 (indicati con 𝑊 ∗ e 𝜃 ∗ in figura).

98
La determinazione del valore di equilibrio di 𝜃 permette immediatamente di determinare il tasso di
disoccupazione di equilibrio: infatti applicando tale valore nella curva di Beveridge si identifica la posizione
di equilibrio del sistema e il tasso di disoccupazione di equilibrio. Si veda a riguardo la figura 24b: avendo
ottenuto il valore 𝜃 ∗ dall’incontro dei salari offerti e domandati, possiamo determinare l’effettiva semiretta
che parte dall’origine la cui pendenza è appunto 𝜃 ∗ e la cui intersezione con la Curva di Beveridge identifica
l’equilibrio del sistema (il punto E) e il tasso di disoccupazione di equilibrio 𝑢∗ .

14.1.2 Gli effetti delle politiche attive e passive del lavoro


Possiamo adesso utilizzare lo schema appena ricavato per verificare gli effetti che le politiche attive e
passive hanno in questo ambito e sul processo di ricerca e sulla determinazione del tasso di disoccupazione
di equilibrio. Secondo il nostro schema le politiche attive del lavoro sono catturate dal parametro K che è
influenzato, fra gli altri, dai servizi per l’impiego che vengono offerti nell’ambito delle politiche attive.

Per comprendere gli effetti di queste politiche allora è utile verificare nell’ambito del nostro modello cosa
accade se viene promossa una politica attiva che va a migliorare i servizi per l’impiego e che, di
conseguenza, incrementa il valore di K che, ad esempio, passa da K1 a K2. Rappresentiamo gli effetti di
questa politica in figura 25: un simile intervento produce una traslazione della curva di Beveridge verso il
basso (l’equazione della curva è infatti descritta dalla 8b). Inoltre, poiché K non ha alcun ruolo nella
determinazione di 𝜃 esso rimane fermo al suo livello di equilibrio: la traslazione della curva verso il basso e
l’invarianza di 𝜃 producono un nuovo punto di equilibrio E2 in cui il tasso di disoccupazione di equilibrio
risulta essere 𝑢2∗ < 𝑢1∗ (si veda figura).

99
In pratica, il miglioramento dei servizi per l’impiego riduce la disoccupazione di equilibrio e seppur costoso
(l’attivazione dei servizi dell’impiego migliori necessita una maggior spesa pubblica) risulta quindi benefico
per l’economia.

Passiamo adesso a valutare gli effetti delle politiche passive per il lavoro ed in particolare gli effetti dei
sussidi di disoccupazione che vengono erogati in forma monetaria ai lavoratori disoccupati il cui
ammontare è rappresentato nel nostro modello da b. Per comprendere gli effetti di questa politica
analizziamo cosa accade se viene promossa una politica passiva che va ad incrementare l’ammontare
erogato che, di conseguenza, passa ad esempio da b1 a b2. Rappresentiamo gli effetti di questa politica in
figura 26a e 26b.

100
Come primo effetto di questo intervento, i lavoratori chiederanno un salario più elevato e la curva 𝑊 𝐷
trasla verso l’alto (infatti l’equazione di tale curva è data dalla 9). Come si vede in figura questo produce un
aumento dei salari di equilibrio e una riduzione del livello di equilibrio di 𝜃 che passa passando da 𝜃1∗ e 𝜃2∗.
Le conseguenze sul tasso di disoccupazione di questo cambiamento possono essere ricavate tramite la
curva di Beveridge (figura 26b): poiché 𝜃 la semi-retta che identifica il punto di equilibrio trasla verso il
basso e il nuovo punto di equilibrio è E2. In tale punto il tasso di disoccupazione è pari a 𝑢2∗ > 𝑢1∗ ovvero
questo intervento a provocato un aumento del tasso di disoccupazione di equilibrio.

In pratica, dei sussidi di disoccupazione più generosi, seppur utili a migliorare le condizioni di vita dei
disoccupati, oltre a produrre un aggravio nel bilancio pubblico producono anche un incremento nel tasso di
disoccupazione di equilibrio. Questa forma di politica deve quindi essere utilizzata con cautela perché
comporta dei costi sia dal punto di vista del bilancio pubblico sia dal punto di vista dell’effetto che ha sul
tasso di disoccupazione. Ovviamente, un governo dovrà trovare un bilanciamento fra la necessità di aiutare
finanziariamente i disoccupati e i costi che questo intervento comporta.

14.2 Un semplice modello di ricerca del lavoro e sussidi disoccupazione


Si immagini adesso un lavoratore che vive e lavora per un unico periodo e che all’inizio di tale periodo è
disoccupato. Egli, all’inizio del periodo può intraprendere la ricerca dell’impiego ma tale ricerca è costosa e
riduce la sua utilità. In pratica, la ricerca del lavoro prevede l’impiego di tempo e di denaro e per questo
riduce l’utilità del lavoratore. Supponiamo inoltre che esista un sistema di sussidi di disoccupazione che
eroga un ammontare b ai lavoratori che non riescono a trovare lavoro. Qualora il lavoratore trova lavoro
egli riceve invece un salario w e paga un certo ammontare di tasse sul salario pari a t.

Il processo di ricerca di lavoro dipende dall’impegno che il lavoratore attua nella ricerca. In particolare
definiamo con s l’impegno del lavoratore. All’interno di questo modello è’ il lavoratore stesso che decide
quanto impegnarsi e in particolare il livello di s verrà scelto dal lavoratore in modo ottimale per
massimizzare la propria utilità. In ogni caso, il processo di ricerca può avere esito positivo o negativo e, per
semplicità, definiamo direttamente con s la probabilità che il lavoratore trovi un impiego. Infine, come già
detto, l’impegno nella ricerca del lavoro provoca disutilità ed in particolare esprimiamo con la funzione
𝜙(𝑠) tale disutilità. Ipotizziamo ovviamente che 𝜙 ′ (𝑠) > 0 ed inoltre 𝜙 ′′ (𝑠) > 0. L’ipotesi sulla derivata
seconda positiva è particolarmente rilevante in questo ambito: essa ci dice che l’incremento della disutilità
che deriva dalla ricerca del lavoro è più grande quando lo sforzo è già alto. Questo è dovuto al fatto che
mentre inizialmente incrementare le probabilità di lavoro è semplice (è sufficiente consultare qualche
annuncio o fare qualche intervista di lavoro nella zona in cui si vive) in seguito risulta più complicato
aumentarla (si è costretti a seguire corsi di formazione, fare colloqui in posti remoti e così via). Inoltre
possiamo immaginare che per migliorare ulteriormente le probabilità di essere assunti si debba accettare
anche lavori meno appetibili, più faticosi o più lontani e tutto questo può ulteriormente aumentare la
disutilità.

All’interno di questo schema, se immaginiamo che l’utilità U del lavoratore dipende direttamente dal
reddito percepito (oltre che dalla disutilità derivante dalla ricerca), possiamo esprimere l’utilità attesa E(U)
del lavoratore come (si ricordi che s e 1-s rappresentano, rispettivamente le probabilità di trovare lavoro e
rimanere disoccupati):

𝐸(𝑉) = 𝑠 ∙ (𝑤 − 𝑡) + (1 − 𝑠) ∙ 𝑏 − 𝜙(𝑠) (11)


101
Il lavoratore dovrà quindi scegliere il livello di sforzo s che massimizza il la sua utilità attesa. La condizione di
ottimo prevede quindi che 𝜕𝐸(𝑉)⁄𝜕𝑠 = 0 e applicando questa condizione alla (11) otteniamo:

𝜕𝐸(𝑉)
𝜕𝑠
= (𝑤 − 𝑡) − 𝑏 − 𝜙′(𝑠) (12)

da cui

𝜙 ′ (𝑠) = (𝑤 − 𝑡) − 𝑏 (13)

La condizione (13) determina implicitamente lo sforzo che il singolo lavoratore trova ottimale e ci dice che
lo sforzo effettivo viene scelto in maniera che la disutilità marginale di un’unità aggiuntiva di sforzo sia pari
al beneficio che ne trae al margine, beneficio marginale che è pari alla differenza fra il salario netto e il
sussidio di disoccupazione.

La condizione (11) permette di ottener la relazione fra sussidi di disoccupazione ed impegno nella ricerca di
lavoro. La (11) ci dice che un incremento nella generosità del sussidio (un incremento di b) provoca
necessariamente una riduzione dello sforzo: infatti se b aumenta il lato destro della (13) si riduce ed allora
𝜙 ′ (𝑠) dovrà necessariamente ridursi. Poiché abbiamo che 𝜙 ′′ (𝑠) > 0 allora, affinché 𝜙 ′ (𝑠) si riduca è
necessario che s stesso si riduca. Ecco quindi che questo modello mostra come all’aumentare dei sussidi di
disoccupazione lo sforzo impiegato nella ricerca di lavoro si riduce e, parimenti, si riducono le probabilità di
trovare lavoro e, più in generale, aumenta la durata media della disoccupazione.

Alla base di questo risultato vi il meccanismo per cui, all’aumentare dei sussidi, si riduce il vantaggio legato
al trovare un impiego e quindi, si riducono gli incentivi a mettere molto impegno nella ricerca di lavoro.

I risultati di questo modello mettono ulteriormente in luce alcuni degli effetti collaterali dei sussidi di
disoccupazione, effetti che anche in questo caso non sembrano portare beneficio al sistema economico: in
particolare abbiamo appena mostrato che essi riducono l’impegno nella ricerca di lavoro e incrementano
quindi la durata media della disoccupazione

Si noti infine che questo modello inserisce fra le componenti del sistema economico anche la tassazione sul
lavoro. Tuttavia, nella trattazione che abbiamo svolto, questa componente non ha alcun ruolo: questo
elemento è stato comunque mantenuto nel modello poiché, qualora si volesse analizzare come
determinare il livello ottimo dei sussidi, occorrerebbe tener presente che un aumento dei sussidi provoca in
genere una maggiore spesa per lo stato ed è quindi possibile che vi sia anche un aumento della tassazione:
ne consegue che nelle analisi che mirano a determinare qual è il livello di sussidi ottimale occorre tener
presente che il livello di tassazione è a sua volta influenzato dal livello stesso del sussidio. Un analisi di
questo genere va comunque oltre gli obiettivi della presente analisi.

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