12/04/2021
DIFFERENZIAZIONE DI PRODOTTO:
Fino ad ora abbiamo osservato un mercato in cui i prodotti sono omogenei e vi è un prezzo unico. Con
questa diversa analisi osserviamo cosa succede se il prodotto non è omogeneo e se i prezzi sono differenti.
Prodotto differenziato ogni impresa produce un prodotto con caratteristiche differenti, tanto da essere
ritenuto “unico” e i consumatori percepiscono tutti questi beni come diversi tra loro. La differenziazione di
prodotto NON porta al monopolio. Porta piuttosto alla concorrenza monopolistica.
Dal nostro punto di vista, si ha differenziazione di prodotto nel momento in cui il consumatore percepisce
i prodotti come diversi (anche se non lo sono veramente). A volte quindi la differenziazione di prodotto
nasce dalla percezione dei consumatori, legata ad esempio alla rilevanza del marchio. Esempio: farmaci
originali e farmaci generici.
Consideriamo ora che si aggiunga un’impresa (8 competitors) la domanda residuale si riduce e diventa Dr
(8).
In questo caso si realizza la condizione di equilibrio in cui la domanda è uguale ai costi medi (AC) si ha
profitto nullo, quindi equilibrio stabile di lungo periodo.
Gli ingressi in questo mercato finiranno, poiché con 8 competitors non si hanno profitti e il mercato non
attrae più nuove imprese.
La differenziazione di prodotto non genera in questo caso un risultato diverso rispetto a quello che
succedeva nel caso dei prodotti omogenei.
La differenziazione di prodotto mi può aiutare solo a capire quale è il livello di differenziazione ottima
esistente in un mercato.
Quanto è differenziato un mercato? La differenziazione è efficiente o no? C’è poca o troppa varietà?
Caso A: impresa produce quel tipo di prodotto differenziato e quel livello di differenziazione di prodotto è
socialmente desiderabile perché il benessere netto è positivo (CS+p).
Quale è il mix ottimo di quantità e varietà? Devo stabilirlo in base alle preferenze dei consumatori.
Prendendo in considerazione le curve di indifferenza dei consumatori, stabilisco che il punto di ottimo è
rappresentato dal punto di intersezione tra la curva di indifferenza al livello più alto che incontra PPF e PPF
(punto O).
IL MODELLO DI LANCASTER:
Il modello di Lancaster fa un ragionamento sui prezzi, anche se non li rappresenta. È un modello
interessante per la sua conclusione.
Ipotesi del modello: i prodotti si differenziano per 2 caratteristiche (caratteristica 1 e caratteristica 2).
Andiamo a studiare come cambia la scelta del consumatore al variare dei prezzi.
Elementi:
• Consumatore ha un certo reddito, che rimane stabile
• Si hanno i prezzi dei prodotti, nessuno di questi cambia tranne il prezzo del prodotto C
Situazione iniziale: dati il reddito e i prezzi iniziali, il consumatore potrebbe comprare la quantità A1, B1, C1
o D1.
Data la curva di indifferenza il consumatore comprerà C1, perché è quello che si colloca su una curva di
indifferenza più alta. Ora immaginiamo che il prezzo del bene C aumenti e che i prezzi degli altri beni
restino uguali. Il consumatore in questo caso non si può permettere di comprare C1, quindi comprerà C2
perché si trova sulla curva di indifferenza più alta. C2 < C1, ma la curva di indifferenza di C2 è comunque
superiore a quella degli altri beni. Cosa succede se il prezzo di C continua ad aumentare?
• BENI DA CARATTERISTICHE MISCELABILI: quando posso comprare diversi beni e combinarli per
avere un bene relativamente differenziato
• BENI DA CARATTERISTICHE NON MISCELABILI
Aumentando ancora il prezzo del bene C, il consumatore uscirà dal mercato del bene C e si dirigerà sul
mercato dei beni D e B, sfruttando la caratteristica di miscelabilità di questi prodotti in questo modo ha
un’utilità maggiore rispetto a quella che avrebbe avuto continuando a comprare il bene C.
CONCLUSIONE:
A determinati livelli di prezzo, i consumatori passano da acquistare alcuni prodotti ad acquistarne degli altri
per aumentare la loro soddisfazione SALTO DELLA FUNZIONE DI DOMANDA.
Approcciamo al modello partendo dalla distanza geografica, così come è stato ideato. C’è un kilometro di
spiaggia, su ogni metro è collocato un consumatore, quindi abbiamo mille consumatori; ci sono due gelatai
che hanno un carrellino mobile e che devono individuare la collocazione spaziale ideale che minimizza i
costi per la collettività e massimizza il benessere sociale. Il prodotto è indifferenziato e possono decidere
liberamente dove mettersi. Per il consumatore il costo complessivo del gelato è C=P + d(m), quindi è la
somma tra il prezzo del gelato, che non cambia, e la fatica per arrivare al gelato, misurata in termini di
distanza. Per giungere al benessere sociale devo minimizzare questa funzione, per i che va da 1 a 1000.
Poiché il prezzo è fisso, si deve minimizzare la distanza complessiva che tutti i consumatori della spiaggia
devono percorrere per arrivare al carrellino di gelato. Dunque, da un semplice calcolo deriva che, per
minimizzare i costi complessivi i due soggetti dovrebbero posizionarsi in un determinato modo: uno
dovrebbe mettersi a 250 metri e un altro a 750 metri, in questo modo non esiste un consumatore che
debba percorrere più di 250 metri per il gelato.
Se fosse finita così, con questa distribuzione lineare, i due si dividerebbero il mercato esattamente a metà: i
consumatori da 0 al 500 vanno dal primo gelataio, e quelli dal 501 al 1000 vanno dal secondo gelataio.
Questa sarebbe una soluzione logicamente giusta. Il problema nasce dall’interazione strategica tra i due
venditori: entrambi hanno capito come i consumatori si comportano per minimizzare i costi, quindi
tenderanno entrambi a spostarsi verso il centro. Quindi, spostandosi entrambi verso il centro, si ruberanno
uno la quota di mercato dell’altro. Tutti quelli dal lato del primo gelataio sono più scontenti, ma comunque
continueranno a fornirsi da lui perché resta il più vicino, dunque il primo gelataio non subirà perdite.
Ora però, anche il consumatore 501 andrà dal primo gelataio, che quindi ha guadagnato un cliente e
aumentato la sua quota di mercato. Allo stesso modo farà l’altro gelataio, che è comunque razionale. Alla
fine del processo i due gelatai si collocheranno entrambi a 500 metri, uno vicino all’altro e questo è un
equilibrio di Nash: solo quando sono entrambi al centro nessuno dei due ha incentivo a spostarsi in
qualunque altra posizione, andare verso il centro fa guadagnare di più, mentre spostarsi dal centro fa
perdere il mercato. Questa posizione, tuttavia, non è di ottimo sociale, che era invece il punto dal quale
siamo partiti.
Inoltre, come aveva già intuito Bain, la differenziazione di prodotto può diventare una barriera all’entrata.
Ad esempio, i due gelatai incumbent iniziano a comprare molti carrellini di gelato e si posizionano molto
vicini lungo tutta la spiaggia (=grande differenziazione), in questo caso è difficile entrare: se entro, la fetta di
mercato che potrei soddisfare è molto piccola. L’unica strategia potenzialmente vincente potrebbe essere
doppiare tutti i prodotti già esistenti degli incumbent con una gamma iper-differenziata di prodotti (ad
esempio barrette di cioccolato), ma questo potrebbe non essere economicamente sostenibile: in tal caso
sarebbe altissimo il costo, tanto da rendere la differenziazione di prodotto una barriera strategica
all’entrata.
Dunque, sulla base delle condizioni di mercato, si giunge a due conclusioni totalmente diverse:
1. Se non c’è libertà di entrata, la differenziazione fallisce e determina una inefficienza perché il gioco
tra i produttori li porta a darsi battaglia per la conquista del consumatore medio, con prodotti
relativamente uguali;
2. Se c’è libertà di entrata, il livello di differenziazione di prodotto è determinato dal livello dei costi
fissi, maggiori sono i costi fissi, minore sarà la differenziazione, e viceversa, e la differenziazione può
essere usata come barriera all’entrata.
Il modello di Hotelling ha avuto tantissime applicazioni, in particolare per analizzare i flussi elettorali e per
capire come si spostano gli elettori, soprattutto in riferimento al sistema elettorale americano. Grazie a tale
modello, infatti, è stato possibile riconoscere un fenomeno specifico per cui, a seguito delle primarie, i
programmi si aggiustano per la cd “conquista dell’elettore medio” con il risultato che gli elettori con idee
più radicate non vanno a votare.
IL MODELLO DI SALOP
Ripartiamo dalla seconda critica, quella del segmento. Salop riprende il modello di Hotelling provando a
risolvere il problema dello spostamento dei consumatori. Egli immagina di collocare i suoi consumatori su
un cerchio, in modo tale che in qualunque punto essi si trovino, possono spostarsi da ogni lato, verso ogni
direzione. Il problema che Salop cerca di risolvere è sempre spaziale, di collocamento delle imprese. Allo
stesso tempo però, inserisce anche la possibilità di differenziare il prezzo: quindi nel modello di Salop le
imprese si possono differenziare in base a dove si collocano nello spazio e in base al prezzo che praticano.
Si possono avere a questo punto diversi scenari. Per praticità si rappresenta il cerchio come segmento ma
comunque gli estremi coincidono.
Le imprese si collocano lungo il cerchio e il consumatore sceglie dove posizionarsi sia sulla base delle sue
preferenze (ad esempio per distanza alla Hotelling) ma anche sulla base del prezzo. Ho 3 imprese e la
correlazione tra la collocazione spaziale e il prezzo praticato da ognuna determina una struttura di mercato
caratterizzata da tre triangoli.
L’impresa 1 centrale, a parità, di prezzo andrà ad operare sulla parte di mercato identificata dallo spicchio di
circonferenza al di sotto del suo picco, ma si può vedere che va ad invadere il mercato anche degli altri due.
Il mercato di questa impresa possiamo quindi dividerlo in due. C’è una parte centrale, che è di monopolio,
perché è quella parte di consumatori che sono soddisfatti solo dall’impresa in questione, per loro il
prodotto è esclusivo ed è il migliore in assoluto, senza possibilità di sostituti. Ci sono poi due segmenti
laterali che identificano consumatori che rientrano sia nel mercato dell’impresa 1, dunque che reputano il
suo prodotto soddisfacente, sia nel mercato delle altre due imprese, cioè guardano allo stesso modo anche
i loro prodotti. Questi consumatori fanno parte di un mercato in concorrenza (è per questo motivo che il
mercato non può essere rappresentato da un segmento).
Per ogni impresa presente in uno spazio con differenziazione di prodotto, esistono due segmenti distinti
di mercato: la domanda, dunque, non è lineare e non può essere espressa da una relazione lineare, perché è
strutturata da due segmenti distinti di consumatori. Si deve necessariamente tener conto di questi due
distinti segmenti.
Possiamo pensare che le imprese a questo punto scelgano strategie combinate anche in relazione ai prezzi.
L’impresa 1 può decidere di:
1. Alzare il prezzo e quindi di perdere la quota di mercato in concorrenza, ma concentrare tutta la sua
attenzione sul mercato in monopolio. Mi accontento di una quota di mercato minore, faccio meno
ragionamento di volumi, ma il mio prodotto è percepito come qualitativamente migliore e quindi
estraggo una maggiore rendita dai consumatori di monopolio.
2. Caso opposto, l’impresa decide abbassare il prezzo, estrae meno rendita dal monopolio ma
aumenta la sua quota di mercato in concorrenza: vendo a un prezzo basso anche in monopolio e
quindi ho rendite più basse rispetto a prima. Per Salop, quest’ultimo caso rappresenta un mercato
con molte imprese, in cui c’è la tendenza a ragionare molto in termini di prezzo, e i segmenti di
concorrenza sono molto ampi. Un mercato con poche imprese invece sarà più simile al modello 1.
In ogni mercato si può definire il prezzo P* che delimita esattamente i mercati di monopolio, senza
sovrapposizione tra le imprese, e quindi mi fa distinguere con precisione i due segmenti di mercato
(concorrenza e monopolio) sostituisco questo prezzo nella funzione di domanda dell’impresa, che
abbiamo detto essere non più lineare, e capisco che se faccio un prezzo inferiore a P*, entro nel mercato
della concorrenza (dove ragiono sulla distribuzione dei consumatori con le imprese che sono più vicine al
mio ragionamento), altrimenti sono in monopolio. La conclusione principale è proprio la definizione della
funzione di domanda non lineare, che rappresenta una parte di mercato percepita di monopolio e una
percepita in concorrenza.
Posso dunque associare ad ogni tipo di bene la sua tipologia di pubblicità. È possibile riscontrare:
La pubblicità informativa, che mi da informazioni rispetto al bene o al prezzo;
La pubblicità persuasiva che invece mi spinge a comprare il prodotto, ad esempio attraverso un
testimonial o tecniche di persuasione in generale, ma non mi dice nulla circa la sua qualità.
L’obiettivo è quello di combinare i diversi tipi di pubblicità in base alla tipologia di bene in questione. Per il
bene fiducia è adatta la pubblicità persuasiva: il produttore è consapevole che il consumatore non sarà mai
in grado di valutare le caratteristiche del prodotto, quindi, deve puntare sulla persuasione.
Nel bene ricerca principalmente mi serve pubblicità informativa sulla distribuzione del bene, quindi ad
esempio è efficiente una pubblicità che dice dove si trova in offerta. Per il bene esperienza è necessaria una
pubblicità che mi invogli a comprendere le caratteristiche del prodotto e a ragionare sull’acquisto.
La pubblicità:
1. Da un lato dovrebbe essere in grado di ampliare il beneficio complessivo, attraverso l’ampliamento
dei benefici marginali, del mio bene
2. Dall’altro, il tema è che questa possa essere considerata come un’effettiva barriera all’entrata.
Generalmente se si analizzano mercati con forte differenziazione di prodotto, l’andamento delle funzioni
che relazionano vendite e pubblicità tende a seguire perfettamente le funzioni rappresentate.
L’impresa incumbent può già godere della notorietà del marchio, quindi a pubblicità 0 comunque già vende,
perché il prodotto è conosciuto la sua funzione che riassume la pubblicità parte da 0: se un’impresa
incumbent non investe fin da 0 in pubblicità, riesce lo stesso ad ottenere un certo numero di vendite perché
è già presente e affermata nel mercato (c’è un certo livello di consumatori che continuerà a richiedere quel
prodotto). Al crescere dell’investimento pubblicitario, cresce il volume di vendita fino a un certo livello, per
poi avere una diminuzione dei volumi di vendita per l’incumbent ho un livello ottimale di investimento
pubblicitario.
Il nuovo entrante invece ha bisogno dell’investimento pubblicitario iniziale (fin dal momento 0) per
diffondere il prodotto: all’inizio spende in pubblicità, senza vendere nulla, ma solo con lo scopo di piazzare il
prodotto sul mercato. Dopo un certo investimento fatto, e quindi dopo aver piazzato il prodotto,
l’andamento della relazione tra investimento in pubblicità e volumi di vendita sarà molto simile a quello
dell’incumbent e quindi i volumi di vendita aumenteranno parallelamente alla pubblicità.
A parità di investimento il vantaggio del volume di vendita resta dalla parte dell’incumbent questo
rappresenta il fatto che la pubblicità si va a configurare come maggior costo che deve sostenere l’entrante
rispetto all’incumbent per entrare nel mercato. Si può quindi considerare la pubblicità come una barriera
all’entrata.
La relazione che si ottiene tra quantità domandata dai consumatori e investimento pubblicitario viene
studiata attraverso l’elasticità della domanda rispetto all’investimento pubblicitario, che mi dice come
varia la quantità domandata se aumento di un euro l’investimento pubblicitario:
13/04/2021
DISCRIMINAZIONE DI PREZZO:
La discriminazione di prezzo è una possibilità delle imprese, in monopolio o comunque con un rilevante
potere di mercato, di vendere lo stesso prodotto a consumatori diversi e soprattutto a prezzi diversi.
Esistono diverse modalità di attuare una discriminazione di prezzo.
Però, l'aumento della quantità venduta (da Q* a Q’) porta un incremento del ricavo dovuto all’unità
marginale (area verde): allo stesso tempo il secondo effetto di questa unità in più riguarda il prezzo, perché
il monopolista è costretto a venderla a un prezzo minore di P* visto che la curva di domanda è inclinata
negativamente. Affinché i consumatori assorbano la nuova quantità, è necessario che questa sia venduta ad
un prezzo minore, pari a P’. Questo fatto comporta una perdita di ricavo sulle unità infra-marginali (area
rossa).
Sulla base di questa conclusione, al monopolista conviene vendere un’unità in più se l’area verde è
maggiore di quella rossa. La variazione data dalle due aree (verde e rossa) è sintetizzata dalla curva del
ricavo marginale: se questo è positivo gli conviene vendere. Se il ricavo marginale (MR) è positivo vuol dire
che l’area in verde (incremento di ricavo sull’unità marginale) è maggiore dell’area rossa (perdita di ricavo
sulle unità infra-marginali) e viceversa.
Il MR spiega l’aumento del TR (ricavo totale) all’aumentare di una unità della quantità venduta.
Come si può superare questo problema? Con una strategia di discriminazione di prezzi, quindi vendendo lo
stesso prodotto a clienti diversi con prezzi diversi. Se viene applicata la discriminazione dei prezzi si supera
il problema classico del monopolio (ottenendo maggiori profitti rispetto al monopolio puro), perché viene
tolto il vincolo per cui sul mercato ci deve essere un solo prezzo: con la discriminazione di prezzo, il
monopolista vende la quantità Q* al prezzo P* e la differenza tra Q* e Q’ al prezzo P’. Così facendo,
otterrebbe un profitto maggiore rispetto al monopolio puro (che è MR=MC) perché se si vende lo stesso
bene a consumatori diversi e a prezzi diversi, si guadagna sempre sull’unità marginale e non si perde mai
sull’unità infra-marginale (ciò è dovuto al cambiamento di prezzo applicato solo per i consumatori
aggiuntivi, cosa che permette di andare oltre la strategia di monopolio).
ESEMPIO: le compagnie aeree discriminano il prezzo sulla base del momento in cui viene effettuato
l’acquisto: se si compra un biglietto oggi per domani, generalmente si paga un prezzo pieno; se si
programma un weekend nei prossimi quattro mesi, si possono trovare dei prezzi scontati. Come evitano
l’arbitraggio le compagnie aeree? Sfruttano la regolamentazione del nominativo sul biglietto (se chi ha
acquistato il biglietto vuole cambiare il nome sul biglietto deve pagare una penale).
ESEMPIO: il cinema, il pomeriggio infrasettimanale, ha un costo minore rispetto ad un sabato sera: il cinema
sta discriminando il prezzo sul valore del tempo (ore lavorative della popolazione). Non vi è meccanismo di
arbitraggio, quest’ultimo funziona in base ad una selezione naturale che si fonda sulle ore lavorative della
gente.
ESEMPIO: (caso antitrust America) soggetto= impresa produttrice di protesi per dentiere (anni ’70).
Quest’ultima usava lo stesso materiale usato in campo edile, anche se in edilizia aveva un valore
relativamente basso in quanto aveva molti competitors; l’impresa che produceva le protesi aveva due
mercati di riferimento: il mercato dell’edilizia, che gli permetteva di generare economie di scala vendendo
ad un prezzo vicino ai costi marginali, e il mercato delle protesi, dove riusciva a vendere ad un prezzo
notevolmente maggiore rispetto al costo marginale. Piccole imprese iniziarono ad operare nel mercato
dell’arbitraggio rivendendo tale materiale a studi odontoiatrici: come si può evitare l’arbitraggio?
Modificando il bene, aggiungendo ad esempio l’arsenico: il materiale con l’arsenico veniva usato per le
costruzioni edili, mentre quello privo di arsenico per le protesi.
La discriminazione di primo grado viene definita discriminazione perfetta di prezzo poiché l’efficienza
allocativa è massima e il monopolista si trova nella migliore condizione. In questo tipo di discriminazione le
condizioni citate pocanzi valgono in senso forte:
- L’impresa è un monopolista puro, dunque impone il prezzo;
- Il monopolista conosce perfettamente tutti i prezzi di riserva di tutti i consumatori
- Vale il non arbitraggio.
In questo tipo di discriminazione di prezzo, si parte dall’assunto che il monopolista è in grado di vendere il
bene a ciascun consumatore al suo prezzo di riserva.
Il monopolista è in grado di vendere il bene ad ogni consumatore esattamente al suo prezzo di riserva: nella
discriminazione, la funzione di ricavo marginale viene rappresenta in modo identico alla funzione di
domanda, in quanto non registro perdite sulle funzioni infra-marginali. Per questo motivo, l’equilibrio segue
la regola generale di monopolio ovvero MR=MC.
Quali elementi differenziano la discriminazione di 1° dalla concorrenza perfetta? In termini di quantità non
c’è nessuna differenza poiché si vende esattamente la stessa quantità in entrambi i casi; in termini di
prezzo, in concorrenza perfetta p* viene pagato da tutti i consumatori, in quanto generato
automaticamente dal mercato stesso (vige la legge del prezzo unico), nella discriminazione di prezzo di 1°
grado, solo l’ultimo consumatore che si trova in posizione P=MC paga p*, tutti gli altri consumatori
pagheranno, via via, prezzi crescenti e diversi tra di loro.
È una differenza di tipo distributivo, piuttosto che allocativo.
Dal punto di vista ALLOCATIVO del surplus totale, non vi è differenza tra la concorrenza perfetta e la
discriminazione di 1° grado poiché genero il massimo numero di scambi; dal punto di vista DISTRIBUTIVO in
concorrenza perfetta il surplus è generato dalla domanda e viene attribuito ai consumatori, nella
discriminazione di prezzo di 1° grado il surplus viene generato dalla domanda ma viene attribuito ai
produttori. C’è un totale trasferimento di surplus tra consumatore e produttore: quest’ultimo avrà il
massimo profitto, con massima inefficienza distributiva per il consumatore.
Analisi dei surplus:
Il monopolista segmenta la funzione D (funzione di domanda) in due gruppi, i quali rappresentano due
distinti mercati: D1 e D2 (il monopolista riesce ad evitare il mercato secondario).
In secondo luogo, il monopolista riesce ad applicare lo stesso mark-up di monopolio in maniera separata
nei due mercati. La differenza tra i due segmenti (D1, D2) è l’elasticità relativa. Siccome il monopolista può
bloccare l’arbitraggio in maniera efficiente, il mercato D1 è differente rispetto a D2 benché io venda lo
stesso bene. Il costo marginale (MC) è identico in quanto sto vedendo lo stesso bene.
A destra ci sono i consumatori che possono pagare di più, a sinistra i consumatori che sono disposti a
pagare di meno. Dunque, il mercato D1 è completamente diverso dal mercato D2. Si opera dunque con due
mark-up diversi.
La discriminazione in questo caso permette di vendere di meno ai consumatori che riescono a pagare meno
e vendere ad un prezzo più alto, rispetto al monopolio, ai consumatori che riescono a pagare di più,
ottenendo un profitto maggiore rispetto al regime di monopolio. In particolare, applicando in entrambi i
mercati la regola MR=MC il monopolista, per massimizzare il suo ricavo, riesce a vendere la quantità Q1 ai
consumatori che sono disposti a pagare P1 e la quantità Q2 ai consumatori che sono disposti a pagare P2
applica il prezzo P2 (più basso) a quei consumatori che hanno un’elasticità relativa più bassa.
Se avessi agito senza applicare discriminazione di prezzo, il prezzo di monopolio sarebbe risultato essere
intermedio rispetto a quelli che ho individuato ora.
La discriminazione di prezzo di terzo grado mi permette di vendere di più e a un prezzo maggiore a quei
clienti che hanno più disponibilità a pagare e di meno e a un prezzo minore a quei clienti che hanno meno
disponibilità a pagare. Così facendo ho un profitto maggiore rispetto a quello di monopolio, ma ancora non
ottengo tutto il surplus del consumatore. Questo perché restano altri due aspetti da considerare:
• Un primo aspetto riguarda il surplus del consumatore, che rimane positivo (area arancione), ma il
monopolista non è in grado di estrarre tutto il surplus del consumatore;
• Non ottengo la massima efficienza allocativa (come in discriminazione perfetta), rispetto ai due
ipotetici equilibri di concorrenza perfetta, perché vendo di meno in relazione alla quantità in
entrambi i mercati.
In discriminazione di prezzo di 3° grado: si produce di più rispetto al monopolio, si generano maggiori
profitti rispetto al monopolio, ma meno che nella condizione ideale di discriminazione perfetta di prezzo. È
comunque una situazione migliore rispetto al monopolio naturale perché realizzo un profitto maggiore
(grazie alla divisione della domanda di mercato in segmenti). Non ottengo il profitto massimo che il mercato
offre, perché non mi approprio di tutto il surplus del consumatore.
ESEMPIO CLASSICO: discriminazione di prezzo intertemporale: tale discriminazione serve a vendere lo stesso
bene a consumatori diversi in tempi diversi. Viene segmentata la domanda sulla disponibilità a pagare del
consumatore rispetto al fattore tempo (vale solo per alcune tipologie di beni, i quali devono mantenere un
certo valore nel tempo).
Consideriamo il caso di un libro. Il libro esce al tempo t1 con un determinato prezzo. Dopo 2 anni, esce
l’edizione tascabile che costa di meno. Dopo altri 2 anni esce l’edizione ultra-tascabile che costa ancora
meno. Al tempo t1, dato che è il momento in cui esce il libro, faccio il monopolista (vendo la quantità Q1 al
prezzo di monopolio P1) applicando la regola MR=MC.
I consumatori rappresentati nella retta nella parte evidenziata in rosso non sono stati serviti in quanto
hanno un prezzo di riserva minore del prezzo di monopolio. Tuttavia, questi consumatori vorrebbero
acquistare il bene e hanno prezzi di riserva maggiori del MC, è conveniente quindi abbassare il prezzo per
servire anche questa segmentazione di clienti.
Al tempo T2 la funzione di domanda inizia dal proprio dalla parte evidenziata in rosso: si crea una seconda
funzione di ricavo marginale di monopolio. Al tempo T2 vendo Q2 al P2 ottenendo l’area di extra ricavo che
non intacca il ricavo generato al T1 (non ho perdite sulle unità di ricavo infra-marginale) sono riuscito ad
ottenere i ricavi massimi sia al tempo T1 che al tempo T2.
Se il bene mantiene valore al tempo T3 può essere riproposto in forma differente ai consumatori
rappresentati dalla linea gialla che continuano ad avere un prezzo di riserva comunque superiore al MC.
In generale, se riesco a scongiurare il problema del deperimento del bene, tale ragionamento può essere
riproposto all’infinito ottenendo SEMPRE un aumento dei ricavi.
Questo è un esempio di discriminazione di prezzo intertemporale che sfrutta una forma di discriminazione
di 3° grado lineare.
DISCRIMINAZIONE DI PREZZO DI 2° GRADO:
Discriminazione di tipo non lineare, concetto sviluppatosi in senso moderno. Pigout, infatti, inizialmente fa
riferimento ad una discriminazione per quantità: il consumatore compra quantità diverse di beni a prezzi
diversi. (esempio 3x2 al supermercato).
Negli anni la discriminazione di prezzo di 2° grado ha avuto vari sviluppi, il più interessante dei quali è stato
quello relativo alla:
Tariffa in due parti (problema di Disneyworld) faccio più profitto se faccio pagare l’ingresso e tutte le
attrazioni sono gratis o se garantisco l’ingresso gratuito e tutte le attrazioni sono a pagamento? Il problema
sta nel definire la politica di prezzo, partendo dal presupposto per cui posso dividere il prezzo in più parti
(diverse tra loro): si parla di una tariffa che può essere strutturata in tale modo: si paga una parte fissa + il
MC. Solitamente siamo abituati ad immaginare una progressione lineare tra prezzo e quantità, invece in
caso di tariffa in due parti abbiamo una tariffa che prevede il pagamento di un prezzo fisso e una
componente variabile pari al costo marginale MC(q) è come se il monopolista offre al consumatore
l’opportunità di comprare la quantità di concorrenza perfetta, (quantità che accresce il benessere) in
cambio ovviamente di un costo specifico (tariffa fissa). Niente ragionamento di monopolio, vi è
l’opportunità di spingersi con l’acquisto fino ad una quantità di concorrenza.
Il problema della tariffa in due parti può essere espresso nel seguente modo:
Il monopolista deve individuare, sulla base del surplus del consumatore, la tariffa ottima che quest’ultimo è
disposto a pagare. Così facendo si ottiene un equilibrio abbastanza diverso da quello di monopolio: il
consumatore ottiene la quantità Qcp di concorrenza perfetta, ad un prezzo pari al costo marginale, ma allo
stesso tempo deve anche pagare tutta l‘area T di surplus si ottiene tutta l’area di surplus che si ottiene in
caso di concorrenza perfetta (area verde), però dividendolo tra il consumatore (area rossa) e il monopolista
(area blu).
Molto spesso, in mercati caratterizzati da tipi diversi di consumatori, le imprese offrono tariffe in due parti
miste: offrono, ad esempio, la possibilità di scegliere il tipo di tariffa fissa da pagare in base alle loro
capacità.
ESEMPIO: un ristorante offre un menù turistico che mi permette di pagare un prezzo fisso e mangiare tanto
(ottimale sia per i turisti, sia per chi ha intenzione di consumare tanto); accanto al menu turistico, mette la
possibilità di non pagare la tariffa fissa e pagare al prezzo di monopolio solo quello che compro.
Un altro vantaggio legato alle vendite con tariffe miste è correlato alla possibilità di auto-selezionare i
consumatori. Esempio: una compagnia telefonica offre 3 tariffe, ossia 3 costi complessivi:
T1= paghi a seconda di quanto consumi. Se consumi 0 paghi 0 e poi ha un costo lineare, quindi man
mano che aumenta la quantità aumenta il costo complessivo. Parte fissa=0 / Parte variabile=max;
T2= paghi un primo costo di accesso. Se consumi 0 paghi una parte fissa, però in cambio di questa
la compagnia ti permette di consumare a un costo più basso di quello esercitato dalla tariffa 1: a
mano a mano che si consuma, aumenta il costo però aumenta in modo minore rispetto alla tariffa
1. Parte fissa= positiva / Parte variabile=positiva tariffa bilanciata;
T3= paghi un costo di accesso molto alto ma non hai più costi marginali. Si chiama tariffa flat:
qualsiasi quantità si consumi, non ci sono altri costi al di fuori della parte fissa. Parte fissa=max /
Parte variabile=0.
Possibili vantaggi della discriminazione di secondo grado auto selezione dei consumatori: si consente al
monopolista di auto selezionare i consumatori. Se nella discriminazione di terzo è il monopolista che deve
essere in grado di segmentare la domanda, nella discriminazione di secondo grado è il consumatore che
rivela la sua scelta (scegliendo la tariffa più adatta a lui).
14/04/2021
Altra categoria che rientra nelle tariffe in due parti è quella delle vendite abbinate: danno luogo a molte
opportunità per il monopolista di differenziare le offerte commerciali in relazione alle preferenze del
consumatore e in relazione alla tipologia del bene stesso. Le vendite abbinate si possono distinguere in:
Vendita bundling (vendita a pacchetto): vendo due beni distinti, non correlati fra di loro dal punto
di vista funzionale. Es: pacchetto word: Excel funziona benissimo senza che si acquisti anche word,
però alla casa editrice (Microsoft) conviene venderli insieme. Il bundling può essere distinto in due
tipi:
o Bundling puro: fa riferimento alla vendita dei beni soltanto sotto forma di pacchetto, non vi
è possibilità di acquistare beni singolarmente. Es: pacchetto Office: word, Excel e
PowerPoint possono essere comprati solo insieme;
o Bundling misto: da l’opportunità di comprare sia il pacchetto sia il bene singolo ad
un’offerta commerciale diversa.
Da cosa dipende la scelta dell’offerta di bundling puro o misto? Dipende dalla distribuzione delle
preferenze dei consumatori in funzione dei beni che compongono il pacchetto.
Vendita Tying: è sempre una vendita a pacchetto, però in questo caso vendo due beni il cui
funzionamento è strettamente connesso fra di loro (vincolo). Es: stampanti e cartucce sono
“obbligato” a comprare entrambi per poter usare la stampante. In questo caso, l’acquisto dei due
beni avviene in momenti diversi.
Vendite Bundling:
Esempio 1:
Vi sono due beni, il bene A e il bene B; vi è la possibilità di pagare il pacchetto o di acquistare il bene
singolarmente; in tabella sono presenti i prezzi di riserva dei consumatori.
Il venditore deve capire se sia redditizio vendere il pacchetto deve risolvere un problema di
massimizzazione dei ricavi (dato che il MC dell’impresa è nullo, il problema iniziale di massimizzazione di
profitto viene semplificato a un problema di massimizzazione dei ricavi) per vedere che ricavi ottiene
vendendo i beni separatamente e quali vendendoli insieme.
Ricavo totale della vendita singola di A e B= (2*2.000) + (2*9.000) = 22.000, però parte del surplus sarà
destinato all’impresa e parte al consumatore. Questo perché il consumatore 2 del bene A comprerebbe a
9.000 avendo un prezzo di riserva pari a 10.000 (otterrebbe quindi un surplus pari a 1.000) e il consumatore
1 del bene B comprerebbe a 2.000 nonostante il suo prezzo di riserva sia 3.000 (otterrebbe un surplus di
1.000) da questo tipo di vendita, deriva un surplus del consumatore pari a 2.000.
Il surplus totale è di 22.000+2.000= 24.000 distribuito però tra impresa e consumatore.
Hip. 2: vendo il pacchetto a che prezzo? Vendo il pacchetto a P= 12.000 che è il prezzo di riserva di
entrambi i consumatori, quindi venderei Q= 2 e otterrei un ricavo totale= 24.000.
dalla vendita del pacchetto, ho un ricavo totale pari a 24.000, quindi siamo nel caso di un pacchetto
redditizio perché la vendita di quest’ultimo mi consente di ottenere un surplus maggiore rispetto alla
vendita dei beni singoli. Vendendo solo il pacchetto al prezzo 12.000, non cambia il surplus totale (che è
sempre pari a 24.000) ma ne cambia la distribuzione perché in questo caso è tutto a favore dell’impresa.
Ricavo totale vendita singola=22.000 < Ricavo totale vendita del pacchetto= 24.000
Se le preferenze dei consumatori sono di questo tipo, questo è un esempio in cui la vendita a pacchetto
favorisce il monopolista, consentendogli di estratte più surplus dal consumatore. Non sempre però la
vendita a pacchetto risulta essere redditizia.
Esempio 2:
Stesso mercato di prima, però cambia la preferenza del consumatore 1.
Ricavo totale della vendita singola di A e B= (2*9.000) + (1*2.000) = 20.000. Anche in questo caso il surplus
viene distribuito sia al consumatore che al monopolista.
Hip. 2: vendo il pacchetto. Il prezzo del pacchetto ottimale è P= 9.500, perché permette al monopolista di
vendere Q=2, avendo un ricavo totale= 19.000.
In questo caso, dalla vendita del pacchetto ottengo una rendita inferiore rispetto a quella che ottengo dalla
vendita singola (=20.000) la vendita del pacchetto è meno redditizia.
Regola generale= la vendita al pacchetto è redditizia in base alle preferenze dei consumatori:
generalmente nel pacchetto, perché questo sia redditizio, devono essere inseriti beni per cui i consumatori
hanno preferenze omogenee; in caso contrario (caso di beni per cui i consumatori hanno preferenze molto
diverse, quindi beni che alcuni tipi di consumatori valutano molto meno) il pacchetto si rivelerà essere poco
redditizio.
È importante capire la distribuzione delle preferenze dei consumatori per decidere se vendere il pacchetto o
i beni separatamente.
Il tema della vendita a pacchetto o dei beni singoli comprende una serie di riflessioni molto più ampia
esempio: tema della “Redditività del raggruppamento”.
Caso di un ristorante: conviene vendere alla carta, con menù fisso o offrire un raggruppamento misto (dare
la possibilità di comprare le pietanze singolarmente o al prezzo fisso)? Ci sono 3 possibili soluzioni.
Menù alla carta:
La retta individua il prezzo delle due portate, P
torta = 8, P pasta = 8.
Sulla base di ciò suddivido i consumatori in 4
gruppi:
- Il consumatore z ha un prezzo di riserva di 6
per torta e pasta, egli non acquista nulla (ha
prezzi di riserva più bassi di quelli offerti dal
ristorante).
- Il consumatore x pagherebbe 6 per la torta e
10 per la pasta: acquisterebbe solo la pasta.
- Il consumatore y acquisterebbe anch’egli
solo la pasta.
Facendo un menù alla carta venderei solo la pasta.
Quindi con la vendita dei beni singoli, comprano
qualcosa solo i consumatori x e y (compreranno la
pasta).
la scelta tra raggruppamento misto, menu alla carta o prezzo fisso dipende dalle preferenze dei
consumatori, infatti queste mi permettono di suddividere il mercato in frazioni diverse in base alla scelta
che faccio.
Ragionando sui ricavi: ottengo una diversa distribuzione dei consumatori sulla base di quella che è l’offerta
commerciale:
- Se vendo i beni singolarmente suddivido il mercato in 4 categorie.
- Se offro il pacchetto valuto il prezzo di riserva complessivo e divido il mercato in due categorie.
- Se offro contemporaneamente la possibilità di comprare il bene singolo e il pacchetto, con un
raggruppamento misto, il mercato si divide in 4 categorie, chi non compra nulla perché i prezzi di
riserva sono più bassi congiuntamente del prezzo del pacchetto e del bene proposto, chi ha prezzo
di riserva maggiore del pacchetto e compra quest’ultimo, consumatori che ritengono, data la loro
utilità, acquistare solo uno dei due beni pur potendosi permettere il pacchetto, in quanto avrebbe
un surplus maggiore.
- Sulla base della tipologia dell’offerta commerciale proposta, suddivido il mercato di conseguenza.
In questo grafico vengono inseriti i costi dei relativi beni: è possibile effettuare una valutazione sull’offerta
migliore da proporre in relazione alla distribuzione delle preferenze del consumatore e dei costi. Ho tre tipi
di consumatori:
A pagherebbe 10 per la torta e 2 per la pasta: ha un prezzo di riserva della pasta più basso del costo
della stessa (=3).
B pagherebbe 8 per la torta e 4 per la pasta.
C pagherebbe 11 per la pasta e 1 per la torta, situazione opposta al consumatore A.
Qual è l’offerta commerciale che conviene di più? Bisogna confrontare tra vendita dei beni separatamente
e vendita dei beni a pacchetto.
Hip. 1: vendo i beni separatamente. Sicuramente non venderei la torta a C: C la valuta 1, un prezzo minore
al costo della stessa, pari a 2. Mi concentro su A e B:
• A la pagherebbe 10;
• B la pagherebbe 8;
TORTA: Entrambi pagherebbero la torta ad un prezzo maggiore rispetto al costo di produzione, quindi è
conveniente fissare il prezzo a 8 cosicché vendo due torte, con un ricavo pari a 16, un costo totale pari a 4 e
un profitto sulla torta pari a 12.
PASTA: la pasta non la venderei al consumatore A poiché la valuta ad un prezzo minore rispetto al costo di
produzione; mi concentro su B e C:
• B la valuta poco al di sopra del costo (4);
• C molto sopra rispetto al costo (11).
Fisso il prezzo della pasta a 11, ne vendo una unità al consumatore C, ottengo un ricavo pari a 11, sostengo
un costo pari a 3, per un profitto totale sulla pasta pari a 8.
conclusione: profitto totale dalla vendita dei due beni separati= 12 + 8 = 20.
Hip. 2 vendo il pacchetto. A, B e C sono entrambi sulla retta che fissa il prezzo del pacchetto a 12. Se vendo il
pacchetto a 12 vendo tre unità, ho un ricavo pari a 12x3 = 36, il costo del pacchetto è 3+2 =5 (pasta e torta),
il costo totale dei 3 pacchetti è pari a 5 (costo di un pacchetto) x 3 (numero delle vendite) = 15, il profitto
legato al pacchetto = 21.
è più profittevole vendere il pacchetto perché: profitto pacchetto= 21 > profitto vendita singola= 20.
La scuola di Harvard parla di questo aspetto vedendolo (dal punto di vista dell’antitrust) come
monopolizzazione del mercato secondario, cosa che va a scapito del consumatore Non mi interessa fare
profitto nel mercato delle stampanti in quanto monopolizzo il mercato correlato andando a scapito del
consumatore.
La scuola di Chicago invece, contesta questa visione parlando di razionalità del consumatore, sostenendo
che il consumatore quando fa l’acquisto non valuta il prezzo del prodotto B (come invece afferma la scuola
di Harvard), ma valuta complessivamente il mercato del prodotto A rispetto al mercato del prodotto B
(nello stesso modo in cui lo fa l’impresa).
Discriminazione perfetta di prezzo: vendita abbinata ma vincolata dal punto di vista contrattuale (macchina
caffè e cialde).
Nella maggior parte dei casi, le macchinette del caffè dei bar sono in comodato d’uso e non di proprietà del
bar perché devono essere cambiate spesso. Allora le case produttrici di caffè offrono ai bar la possibilità di
avere la macchinetta in comodato d’uso, però allo stesso tempo li vincola a comprare il caffè
esclusivamente presso di loro, per ottenere un profitto.
Con questo metodo, molto probabilmente io sto pagando la macchina a un prezzo che è molto vicino al mio
prezzo di riserva faccio pagare a ogni barista (consumatore) il bene primario a un prezzo estremamente
vicino al suo prezzo di riserva, e comunque a un prezzo molto funzionale rispetto all’utilizzo che ne fa.
Effetto: se il prezzo della macchina è zero, la funzione del caffè si sposta verso l’alto (linea continua), se il
prezzo della macchina è diverso da zero, la funzione del caffè è rappresentato dalla linea tratteggiata.
È una vendita abbinata e vincolata contrattualmente, che potrebbe avere un esito molto vicino alla
discriminazione perfetta di prezzo il monopolista potrebbe estrarre dal suo consumatore, una vendita
pari al prezzo del surplus.
Anche il prezzo che il bar paga alla casa produttrice per avere la macchinetta cambia in base alla domanda
di caffè.
19/04/2021
IL COMPORTAMENTO STRATEGICO:
il tema del comportamento strategico può essere analizzato attraverso 3 fattispecie: i prezzi predatori,
l’incremento dei costi dei rivali ed i prezzi free and board.
Prezzi predatori come strategia di monopolizzazione cosa può fare un’impresa che ha una notevole
capacità produttiva?
Prima fase: FASE DI PREDAZIONE. Può temporaneamente inondare il mercato di prodotti in modo
da far scendere i prezzi al di sotto dei costi marginali. Quando i prezzi sono scesi, i concorrenti
soffrono delle perdite e sono costretti ad uscire dal mercato;
Seconda fase: FASE DI MONOPOLIZZAZIONE. Una volta che l’impresa rimane sola, acquisisce potere
di mercato e può anche arrivare a monopolizzare il mercato, applicando prezzi di monopolio.
Abbiamo due fasi.
Secondo la Scuola di Harvard, anche l’impresa predatrice subisce delle piccole perdite nella fase di
predazione, ma queste verranno poi ricompensate dai profitti di monopolio che si ottengono nella seconda
fase (ci sono perdite per tutte le imprese, la differenza sta nel fatto se queste verranno ricompensate o no).
La scuola di Chicago è sempre stata molto critica su questa strategia, perché la ritiene senza senso e
completamente fuori dal funzionamento dei mercati. In particolare, la scuola di Chicago porta avanti una
obiezione importante riguardo la fase di monopolizzazione: se le imprese escono quando P<CM, perché non
rientrano quando i prezzi si rialzano tornando sopra il costo marginale durante la seconda fase? L’obiezione
si basa sul fatto che non ha senso che, dato che vi è tanta facilità ad entrare ed uscire dal mercato, le
imprese poi non rientrino quando i prezzi risalgono (e quindi si ha di nuovo la possibilità di ottenere profitto
dal mercato).
conclusione dell’obiezione: la scuola di Chicago aggiunge che questo tipo di strategia (predazione come
strategia di monopolio) potrebbe funzionare solo l’impresa predatrice, tra le 2 fasi, riesce a creare delle
barriere all’entrata (per la scuola di Chicago esistono solo le barriere legali**), così che le altre imprese che
sono uscite dal mercato non possano poi rientrarvi.
** la Scuola di Chicago considera soltanto le barriere legali all'entrata: tutte le barriere considerate dalla scuola di
Harvard sono effetto di diversità nell'efficienza tra le imprese. Così facendo la scuola di Chicago riporta il tema sulla
costruzione di tali barriere (legali) e sul rapporto che esiste tra gruppi di interesse e stato regolatore (=è possibile
costruire barriere all'entrata solo se si catturano i regolatori), contestando il ragionamento puramente economico
della scuola di Harvard.
Un secondo elemento che aggiunge la scuola di Chicago riguarda il comportamento delle imprese nella fase
di predazione: se si studia con attenzione il comportamento sia dell’impresa che fa da predatore che
dell’impresa che fa da preda ci si rende conto di quanto sia complessa, se non impossibile, la sola fase di
predazione.
Il prezzo predatorio Pp è un prezzo che va al di sotto del costo marginale. Per imporre un prezzo sul
mercato, si deve offrire la quantità che mette il mercato in equilibrio a quel dato prezzo: applicare un
prezzo predatorio Pp vuol dire che l’impresa predatrice deve offrire la quantità predatoria Qp.
La strategia predatoria si attua verificando l’offerta delle altre imprese prede.
Se la predatrice portasse il prezzo a Pp, le imprese prede offrirebbero (nel breve periodo) la quantità Q1 che
si ottiene dall’intersezione con il costo marginale: oggi le imprese prede offrono ad un prezzo che
corrisponde al costo marginale, poi però si accorgono che è inferiore al costo medio (hanno una perdita) e
quindi domani usciranno dal mercato.
L’impresa preda se P=Pp offre Q1, ha ricavi totali pari a Pp*Q1, il costo totale è CM1 e quindi avrà una
perdita pari alla differenza tra i costi totali e i ricavi totali.
Affinché si generi sul mercato un prezzo Pp, se l’impresa preda offre solo Q1, l’impresa predatoria deve
farsi carico di tutta la quantità rimanente (quantità che il mercato richiede, ma che l’impresa preda non
riesce a soddisfare). Se non offro tutta la quantità richiesta, è impossibile che il prezzo scenda a Pp.
Dato che al prezzo Pp, il mercato chiede la quantità Qp e che l’impresa preda al prezzo Pp riesce al massimo
a produrre Q1, il resto della domanda (Q2) deve essere soddisfatto dall’impresa predatoria.
Se non viene offerta tutta la quantità Qp il prezzo non si abbasserà fino a Pp.
Da questa conclusione, si apre un’altra potenziale critica: l’impresa che fa predazione non solo deve avere
una capacità produttiva tale da colmare il gap, ma deve avere anche delle cospicue risorse finanziarie per
poter colmare tutta l’area della perdita che sostiene nella fase di predazione la fase di predazione è
molto più sconveniente per la predatrice che per la preda.
Immaginiamo che la preda resista finanziariamente (quindi riesca a finanziare la sua perdita): immaginiamo
che la preda abbia intuito che il prezzo basso non è dovuto al fatto che il concorrente (=predatrice) è
effettivamente in grado di produrre a costi più bassi, ma che è effettivamente una strategia di predazione. A
questo punto l’impresa che subisce la strategia di predazione potrebbe provare a resistere dal punto di
vista finanziario, ottenendo un vantaggio perché costringerebbe la predatrice a dover subire per un periodo
più lungo una perdita grande mentre lei subirebbe (nello stesso periodo) una perdita molto piccola (più
facile da sostenere).
Non è solo un discorso di maggiore o minore capacità produttiva, ma è anche un discorso importante dal
punto di vista finanziario.
Un mercato finanziario efficiente (come ad es. di concorrenza perfetta, efficiente= dove sono in grado di
distinguere se l’abbassamento del prezzo imposto dalla concorrente è dovuto solo a una strategia o a un
miglioramento della tecnologia) dovrebbe finanziare la perdita dell’impresa preda perché sa che la strategia
di predazione non durerà a lungo e si ritornerà presto ad avere profitti (non durerà a lungo, perché
l’impresa predatrice avrà sempre più perdite fino a non essere più in grado di coprirle).
conclusione: non è scontato il comportamento delle prede, in particolare non è detto che le prede di
fronte a una strategia dei prezzi predatori scappino.
A questo punto, la strategia dei prezzi predatori viene studiata (sempre dalla scuola di Harvard) da un
punto di vista di pratica strategica di deterrenza all’entrata. Si ragiona sulle imprese multiprodotto
(presenti in molti mercati). Queste usano nei diversi mercati, strategie di prezzo predatorio per costruirsi
una reputazione di concorrente aggressivo (reputazione che può essere utile, per esempio, per limitare
l’entrata di altre imprese in diversi mercati; è utile per far capire che ha risorse finanziarie importanti e non
vuole essere sfidata).
La struttura di costo dell’impresa A è detta “capital intensive”, cosa che gli permette di offrire a un basso
prezzo la quantità Qa, ma non riesce ad offrire di più (Qa= limite di capacità produttiva, dovuto dagli
investimenti sul capitale fatti dall’impresa, vincolo). L'impresa A ha una struttura di costo MB a, che è diversa
da quella del concorrente MC1.
L’impresa 1 ha una struttura “labour intensive” (MC1), che fa si che debba sostenere costi più alti per
qualunque volume, ma può offrire tutti i volumi di quantità perché non ha vincoli in termini di capitali
investiti e quindi di capacità produttiva (più lavoratori= più lavoro= più quantità).
Questo mercato è in equilibrio alla quantità Q* (intersezione tra la domanda e MC 1): in condizioni di
equilibrio l’impresa A offrirà la quantità massima che può offrire (=Qa); l’impresa 1 offrirà il resto della
quantità domandata (da Qa a Q*). Il prezzo di equilibrio è P1.
L’impresa A non può offrire la quantità al suo prezzo più basso perché in tali condizioni i consumatori
domanderebbero una quantità che l’impresa A non può offrire e dunque l’unica impresa che è in grado di
portare il mercato in equilibrio è l’impresa 1, la quale vende al prezzo P=MC l’impresa 1 deve intervenire
per mettere il mercato in equilibrio.
Per l’impresa A questa situazione è profittevole: quest’ultima, che è più competitiva, si introduce nel
mercato e vende tutte le sue quantità al prezzo di equilibrio (perché non ha quantità sufficienti per imporre
un prezzo, quindi fa creare il prezzo all’altra impresa), realizzando un grande profitto (area sbarrata in
nero).
Qual è l’effetto sulle due imprese di un aumento dei salari?
L’impresa A ha tutto l’interesse nell’aumentare i salari perché, data la sua struttura capital
intensive, l’aumento dei salari ha un effetto marginale (trascurabile) nella sua struttura dei costi.
L’aumento dei salari ha un effetto abbastanza importante sull’impresa 1. Se dovessero aumentare i
salari, la funzione di costo dell’impresa 1 subirebbe tutto l’incremento passando dal livello MC1 al
livello MC2.
Questo fa si che l’equilibrio di mercato si sposti (al livello Q*2): a questo nuovo livello di equilibrio l’impresa
A vende tutta la sua produzione e l’impresa 1 vende solo la differenza tra Q*2 e Qa. Il prezzo da P1 sale a P2
e quindi l’impresa A vende Qa a P2 e tutta l’area in verde è area di extra-profitto che l’impresa A ha
realizzato solo perché sono aumentati i costi della concorrenza.
conclusione: è aumentato il costo di una materia prima (in questo caso il lavoro), ma data la diversità
della struttura tecnologica delle due imprese, quest’aumento ha avuto un impatto diverso sulle strutture di
costo delle due imprese. C’è un incremento dei prezzi di mercato guidato dall’impresa 1, l’impresa 1 vede
aumentare i costi, l’impresa A invece non subisce un incremento così importante dei costi e ottiene un
profitto maggiore: l’incremento dei costi non sempre ha lo stesso effetto, ciò dipende dalla struttura dei
costi.
In base alla struttura dei costi che un’impresa ha, può risultare efficace o meno aumentare i costi della
concorrente (può essere una strategia vincente).
COSTO DI TRASPORTO:
Altro comportamento strategico. Il costo di trasporto generalmente non viene preso in considerazione in
ambito di concorrenza perfetta, ma nella realtà può essere molto importante in determinati contesti: il
costo di trasporto incide nella dinamica competitiva tra le imprese in base al rapporto che c’è tra il valore
della merce e il costo di trasporto.
Se lavoro qualunque materiale nell’industria pesante, il costo di trasporto ha un ruolo importante: tutta
l’industria pesante di solito genera prodotti che non sono destinati al consumatore finale, quindi con un
valore di mercato relativamente basso e i costi di trasporto sono elevati.
Immaginiamo di avere 2 imprese, che vogliono fare un accordo di cartello/una ripartizione geografica del
mercato. La ripartizione è molto complessa se ho di fronte un bene il cui costo di trasporto è molto elevato.
Abbiamo un segmento che va da A a B e su ogni punto del segmento ci sono dei potenziali consumatori.
Per i consumatori, il costo (ovvero il prezzo complessivo che loro valutano adeguato al bene) è dato dal
prezzo del bene (=quanto costa il materiale) più il costo di trasporto il consumatore si immagina che i
costi di trasporto siano una funzione lineare della distanza percorsa.
La retta inclinata che parte da A è il costo complessivo per il consumatore che acquista da A, dunque è data
da P= P’ + d(m) in cui d(m) rappresenta la componente variabile del prezzo che dipende da una funzione
lineare rispetto alla distanza.
Allo stesso modo si ragiona per B.
Questa struttura di mercato idealmente dividerebbe il mercato in due parti: tutti i consumatori che sono
compresi tra il punto A e il punto C, anche se il bene ha un costo di partenza uguale, sono orientati a
comprare dall’impresa A (perché comprando da A costa di meno) e per lo stesso motivo tutti i consumatori
che si trovano compresi dal punto C al punto B compreranno da B.
Le imprese però possono uscire da questo tipo di ripartizione, vendendo il bene con prezzo comprensivo
del trasporto. Si individua il punto di prezzo focale (che nel nostro caso è C) e entrambe le imprese si
impegnano a vendere a questo prezzo Pc: non si ha più un costo di trasporto che è una funzione lineare
basata sulla distanza, ma si ha un prezzo fisso che le imprese si impegnano a mantenere.
Il costo fisso (Pc) che tiene conto del costo medio di trasporto del mercato.
Se le imprese fanno un accordo di questo tipo, succede che il consumatore C può comprare sia dall’impresa
A che dall’impresa B (c’è più concorrenza) paga Pc sia che compri da A sia che compri da B: mentre prima
si trovava in una situazione di monopolio, adesso il compratore si trova in una situazione più di
concorrenza.
È complicato valutare se una pratica di questo tipo favorisca il consumatore: nel nostro caso, favorisce il
consumatore perché amplia la concorrenza, però allo stesso tempo questa pratica potrebbe essere usata
anche solo per nascondere un accordo di cartello e facilitarne la durata è una pratica che può avere
effetti positivi o negativi in base al contesto in cui viene proposto.
conclusione: la pratica del prezzo comprensivo del prezzo di trasporto, come in questo caso, non è
illegale, non è vietata, ma è attentamente controllata dall’autorità antitrust perché in base al contesto in
cui viene proposta può avere diverse conseguenze.
I: input a livello dell’input si ha un mercato formato da industrie che si occupano della produzione di beni
che non sono destinati alla vendita al consumatore finale, ma che sono destinati ad essere venduti ad altre
industrie per essere trasformato ulteriormente. Questo mercato funziona come un comune mercato
(monopolio, concorrenza, oligopolio, ecc.): in questo caso i problemi di efficienza allocativa possono
risiedere lungo tutta la filiera, non sono quando il consumatore compra.
Esempio: se si ha un monopolista dell’acciaio a livello di input, questo venderà a coloro che trasformano
l’acciaio, quantità minori a prezzi superiori. Se coloro che trasformano l’acciaio sono in concorrenza
perfetta, ma hanno comprato quantità di acciaio inferiore a quelle di massima efficienza, produrranno
meno beni, i quali poi saranno distribuiti da alcuni settori e che poi saranno comprati dai consumatori in
tutti i casi il consumatore finale comprerà di meno rispetto a quello che sarebbe l’ottimo dal punto di vista
sociale, anche se sta comprando in un mercato che si trova in condizioni di concorrenza perfetta. Questo è
dovuto al fatto che nella filiera era presente un monopolista che ha deciso di sfruttare il suo potere di
mercato.
Ogni volta che faccio un ragionamento di efficienza allocativa e distributiva, non devo guardare solo il
prodotto finale (quindi considerare se conviene per il consumatore), ma è necessario ampliare le
valutazioni di convenienza (sia per il consumatore che per il produttore) a tutta la filiera, in quanto tutte le
inefficienze del mercato possono risiedere in qualsiasi punto della filiera. È necessario andare a considerare
non solo lo scambio finale con il consumatore, ma tutti gli scambi che avvengono lungo la filiera.
Le imprese di input, dato che realizzano prodotti che non finiscono nelle mani del consumatore finale, si
trovano nel mezzo di un mercato: i produttori del bene finale rappresentano la domanda per le materie
prime e le imprese di input stesse rappresentano l’offerta. Allo stesso modo, i produttori (che spesso non
vendono al produttore finale) si trovano all’interno di un altro mercato con i distributori. Questo mercato,
che può essere sia integrato che separato, è caratterizzato dai distributori (che fanno da domanda se
guardo nei confronti dei produttori e che fanno da offerta se guardo al mercato normale) e dai produttori
(che fanno da domanda nel mercato dei fattori input e fanno da offerta nei confronti del consumatore in
caso di rapporto diretto o nei confronti dei distributori).
Se si introduce il tema della filiera, è possibile ragionare sulle relazioni di filiera e sui vari accordi che si
possono creare all’interno di essa. Posso distinguere le relazioni in 3 macro categorie:
1. Integrazioni Orizzontali. Rappresenta l’integrazione tra due imprese che operano sullo stesso
livello di una stessa filiera industriale. L’effetto immediato di questo tipo di integrazione è
l’aumento della concentrazione e quindi fa aumentare la quota di mercato delle imprese che sono
oggetto dell’integrazione. Per questo motivo, le integrazioni orizzontali sono attentamente
analizzate dall’autorità antitrust.
2. Integrazioni Verticali. Si hanno due imprese della stessa filiera che fanno parte di due livelli
contigui della filiera. Un esempio classico di integrazione verticale si ha tra la produzione e la
distribuzione, così che si risparmi nella distribuzione e si abbia anche la possibilità di far arrivare il
prodotto finale direttamente al consumatore. Gli effetti e la convenienza dell’integrazione verticale
sono più complessi, perché dipendono dalla struttura di mercato e dalle strutture di costo.
Quando si parla di integrazione verticale è necessario operare una distinzione tra integrazioni
verticali e restrizioni verticali. L’integrazione verticale rappresenta la fusione tra le due imprese
con tutti gli effetti giuridici del caso operazione di merger in senso stretto. La restrizione
verticale, invece, non è una fusione tra due imprese, ma rappresenta un particolare contratto che
lega il comportamento di due imprese con effetti simili a quelli dell’integrazione verticale (pur non
essendoci un’integrazione in senso giuridico) non si ha una merger in senso stretto, ma in virtù
del contratto stipulato, il comportamento delle due imprese è coordinato in maniera tale da avere
gli stessi effetti (o quasi) di una fusione.
Esempio di restrizione: franchising: è un contratto che coordina i comportamenti di due soggetti
(=negozi in questo caso) diversi in modo tale da avere un risultato finale uguale nei due negozi.
3. Integrazioni Conglomerali. Le integrazioni conglomerali invece, avvengono tra due imprese che
operano su due filiere completamente diverse, su livelli diversi della
filiera. La motivazione principale delle integrazioni conglomerali è quella
della diversificazione del rischio: ipotizzando di essere un grande gruppo
industriale, faccio integrazione conglomerale per seguire dove possibile
delle economie multi prodotto, oppure più semplicemente per
diversificare il rischio di impresa rispetto all’andamento del ciclo
economico (ci sono settori pro-ciclici e settori anticiclici).
REGIMI FISCALI:
Tra i tanti, un motivo che favorisce l’integrazione verticale è che esistono diversi regimi fiscali lungo tutta la
filiera.
Immaginiamo di avere una filiera semplice (I, P, D) in cui, per motivi logistici, le 3 fasi si volgono in paesi
diversi. Il paese in cui ci sono le materie prime è un paese in via di sviluppo, che vuole attrarre investimenti
esteri e che lo fa con una politica di incentivo alla tassazione: impone un’aliquota sulla tassazione molto
bassa (=5%). Il paese in cui avviene la produzione è un paese mediamente sviluppato, che vuole attrarre
profitti proponendo una politica relativamente vantaggiosa, e infine la distribuzione avviene in un paese
sviluppato: vado a vendere i prodotti vicino ai consumatori e dunque la politica è meno vantaggiosa.
Come si sviluppano i profitti lungo la filiera? Sulla base dei prezzi e delle quantità, immaginiamo di avere 3
imprese distinte che hanno questi livelli di utile lordo:
Sulla base dello scambio delle materie, tutte e 3 le imprese fanno un utile lordo (U lordo) pari a 100. Andando
a calcolare le tasse che paga ogni impresa, è possibile ricavare anche l’utile netto di ognuna di esse:
l’impresa di input avrà un utile netto di 95, l’impresa di produzione di 90 e l’impresa di distribuzione di 70.
Se ipotizziamo un’integrazione verticale, quindi consideriamo un’impresa che ha integrato tutte e 3 le fasi, il
risultato sarà differente. Le aliquote rimangono le stesse (dal punto di vista tecnico non cambia nulla, non si
hanno vantaggi produttivi dall’integrazione), però essendo l’impresa integrata, quando si provvede ad
eseguire lo scambio da I a P o da P a D è possibile usare un prezzo di trasferimento interno non devo più
fare una transazione al mercato, ma devo fare uno scambio di beni e servizi tra due divisioni della stessa
impresa.
Usando i prezzi di trasferimento interno, l’impresa integrata fa si che l’utile lordo complessivo non aumenti,
ma distribuisce diversamente l’utile tra le diverse fasi della filiera produttiva. Immaginiamo che gli utili lordi
siano diventati 200, 50 e 50 alla fine l’utile rimane sempre uguale (perché non ho conseguito alcun
vantaggio dall’integrazione), ma gli utili vengono distribuiti in maniera diversa. Utile netto: I=190; P= 45; D=
35.
L’impresa integrata ottiene un semplice vantaggio fiscale: l’utile lordo complessivo è rimasto uguale, ma
l’utile netto è aumentato perché con l’impresa integrata sono stato in grado di sfruttare diversamente le
aliquote fiscali presenti nei diversi paesi.
L’integrazione, dal punto di vista, tecnico o produttivo, non serve a nulla, non genera economie di scala
né altri vantaggi di quantità; può però produrre vantaggi fiscali.
20/04/2021
MONOPOLIO BILATERALE:
Monopsonio=unico compratore, ma con tante imprese che vendono in condizioni di concorrenza perfetta
(non sono in grado di modificare le condizioni di mercato). Qui il potere di mercato è esercitato dalla parte
della domanda, quindi dal compratore. Grafico del monopsonio SM è la funzione che il monopsonista
utilizza per valutare se acquistare o meno un bene. L’intersezione tra D e SM = QMPS (Q di interesse per
l’unico compratore).
Monopolio=unico venditore del bene in questione, con tanti compratori. Qui il potere di mercato è
esercitato dalla parte dell’offerta, ovvero dalle imprese.
Quando nel mercato si incontrano un monopsonista e un monopolista ho un monopolio bilaterale
(argomento legato al tema della specificità degli investimenti): quest’ultimo può determinare un incentivo
all’integrazione verticale.
Non è una situazione estremamente rara in quanto dipende dalla specificità del bene analizzato.
Nel caso del monopsonio, il monopsonista vende al prezzo più basso perché in questo caso il potere di
mercato sta dal lato della domanda e dunque le imprese sono obbligate a vendere al prezzo più basso.
Qual è l’equilibrio nel monopolio bilaterale?
Problema del monopolio bilaterale: nel monopolio bilaterale (somma del monopsonio e del monopolio), si
ha una riduzione della quantità di equilibrio rispetto alla quantità di concorrenza perfetta: sia il monopolista
che il monopsonista hanno interesse a ridurre la quantità che vendono rispetto alla quantità di concorrenza
perfetta il problema non è la quantità, ma il prezzo a cui vendere.
Considerando come termine di paragone la quantità di equilibrio di concorrenza perfetta, sia il monopolista
che il monopsonista hanno interesse nel ridurre la quantità di equilibrio perché sanno di poter
alzare/abbassare il prezzo a loro favore abbassando la quantità. Il problema di questo tipo di mercato non
riguarda lo stabilire la quantità di equilibrio.
Al contrario, il problema nel monopolio bilaterale sta nel definire il prezzo di equilibrio. Questo perché il
monopolista (quindi quando il potere di mercato sta nell’offerta, in colui che vende) vuole vendere a un
prezzo più alto di quello di concorrenza perfetta per ottenere anche il surplus dei consumatori; invece, il
monopsonista (quindi quando il potere di mercato sta nel lato della domanda) vuole comprare a un prezzo
più basso di quello di concorrenza perfetta si apre una negoziazione sul prezzo. Per capire quanto vale la
negoziazione, e come risolverla, è necessario andare a studiare i surplus.
Surplus del consumatore= differenza tra prezzo pagato e prezzo di riserva ovvero P massimo che è
disposto a pagare;
Surplus del produttore;
Area indeterminata di surplus generato dalla negoziazione = data dal fatto che non è stato ancora
stabilito il prezzo di equilibrio;
Perdita di benessere.
Quindi la negoziazione tra monopolista e monopsonista vale B+D in base al prezzo che viene applicato,
questa parte di surplus viene distribuita tra i due.
Il fatto che, in base al prezzo stabilito, i due soggetti si distribuiscono quest’area di surplus innesca un
preciso meccanismo. Il monopolista investe (al massimo) B+D nella negoziazione. Il monopsonista investe
(al massimo) B+D nella negoziazione. Entrambi investono il valore della negoziazione, quindi in totale si è
investito due volte D+B nella negoziazione dato che il surplus in avanzo è pari solo a B+D (ovvero la
negoziazione vale solo B+D), dallo scontro tra monopolista e monopsonista si ottiene una perdita di valore
pari a B+D (dovuto proprio al fatto che alla fine si investe due volte B+D).
l’indeterminazione di prezzo fa sì che il monopolista investa tutta l’area di surplus potenziale che
potrebbe ottenere vincendo la negoziazione di mercato, il monopsonista opera lo stesso ragionamento, ma
alla fine dalla conclusione della negoziazione si otterrà sempre e solo B+D. Ciò, dal punto di vista sociale,
scaturisce in una perdita del valore di B+D.
Come posso risolvere il tema del monopolio bilaterale? Con un’integrazione verticale (ma anche con una
joint venture). Se monopolista e monopsonista si integrano verticalmente tra loro, è come se diventassero
una sola impresa, quindi la negoziazione viene svolta esclusivamente all’interno dell’impresa stessa (e non
più a livello di mercato), cosa che porta ad eliminare la perdita che deriva dalla stessa perché entrambi
fanno ora parte della stessa “squadra”: non ha più importanza chi fa più surplus perché fanno parte della
stessa impresa, infatti se prima c’era un conflitto tra i due soggetti adesso si risolve con la gerarchia.
L’integrazione verticale non è l’unica soluzione a questo problema, vi è anche la possibilità di effettuare
accordi o forme intermedie di integrazione.
Si può dunque affermare che il monopolio bilaterale è un altro tema che può essere risolto con
l’integrazione verticale.
Per fare questa valutazione è necessario considerare cosa accade interno alla struttura di costo e alla
struttura produttiva dell’impresa che trasforma il bene input.
L’impresa che sta producendo il bene input in monopolio, sta minimizzando i costi come fanno tutte le
imprese: ha studiato tutte le combinazioni di capitale e lavoro che diano la possibilità di produrre la stessa
quantità del bene (informazioni fornite dall’isoquanto dell’impresa che tiene conto della tecnologia) e,
grazie all’intersezione tra l’isoquanto e la funzione di isocosto (retta che esprime tutte le combinazioni di K
e L che abbiano lo stesso costo: ipotizziamo che l’impresa sia price take nei mercati di K e L), l’impresa ha
individuato la combinazione di K e L che permette di minimizzare i costi, producendo sempre la stessa
quantità.
La quantità voluta dall’impresa può essere prodotta ai due estremi della curva, usando molto capitale e
poco lavoro (capital intensive) o molto lavoro e poco capitale (labour intensive): questa osservazione
dipende dalla tecnologia utilizzata. Il punto di minimo che posso raggiungere è rappresentato dal punto C
che rappresenta il punto di tangenza tra l’isocosto obiettivo C=100 e l’isoquanto. Il punto C quindi
rappresenta la combinazione ottima di K e di L, ovvero la combinazione con cui posso raggiungere la
quantità che mi sono prefissata minimizzando però i costi.
Il concetto di minimizzazione dei costi viene seguito da tutte le imprese price taker che si trovano su
qualunque mercato.
L’impresa inizialmente si trova nel punto D, in cui produce la sua quantità obiettivo con una combinazione
di I1 e I2 questo punto rappresenta l’equilibrio iniziale della produzione dell’impresa P1 (rappresentato dal
punto di tangenza tra isoquanto e isocosto perché quella specifica combinazione di input degli permette di
minimizzare i costi).
Con l’integrazione verticale, la struttura di costo cambia perché all’impresa P1 costa di meno l’input 2
l’effetto dell’integrazione verticale è che per l’unica impresa in cui c’è stata integrazione, l’input adesso
costa di meno perché tale input adesso gli viene trasferito (lo compra) non più da un’impresa diversa dalla
sua, ma da un’impresa con cui si “è fusa”: viene quindi usato un prezzo di trasferimento interno che
permette all’impresa che riceve l‘input 2 di pagarlo di meno.
Sulla struttura di costo dell’impresa P1, l’effetto dell’integrazione è rappresentato dalla retta rossa:
l’impresa P1 ha sempre lo stesso budget di 100 (=stesso costo), l’input 1 costa sempre lo stesso prezzo (la
quantità di input 1 che si può permettere è sempre la stessa), ma il prezzo dell’input 2 è diminuito
essendo diminuito il prezzo dell’input 2, a parità di budget (=100) l’impresa P1 potrebbe comprarne di più.
Se immaginiamo di continuare a produrre nel brevissimo tempo le stesse quantità (f (50)) comprando e
usando le stesse quantità di input 1 e 2 (non considero i cambiamenti portati dal nuovo prezzo di input 2),
l’impresa P1 si troverebbe su un altro isocosto che costa 80. Il vecchio punto di ottimo ora costa 80: il
prezzo di I1 non è cambiato, il prezzo di I2 è diminuito, produco le stesse quantità di prima, quindi il totale
degli input lo pago di meno l’impresa P1 ha ottenuto un risparmio di costo nonostante abbia continuato
a produrre la quantità di 50.
Il punto di tangenza con l’isocosto C=80 non è però il punto di ottimo, perché posso muovermi sull’isocosto
fino ad avere un punto di ottimo più conveniente. Tale punto è dato dalla tangenza tra l’isoquanto F (50) e
un nuovo isocosto con C=75 adesso l’impresa P1 può dire di aver guadagnato dall’integrazione verticale.
Solo con l’isocosto C=75 si ha un vero vantaggio dall’integrazione verticale, perché?
Confrontiamo i due punti di ottimo D (con C=100) ed E (con C=75). In entrambi i casi, l’impresa ha sempre
prodotto una quantità di 50, ma nell’equilibrio E l’impresa usa meno fattore non proprietario (ovvero meno
Input 1) e usa in maniera più intensiva il fattore proprietario, ovvero l’Input 2 (è fattore proprietario per via
dell’integrazione.
questa integrazione verticale ha permesso all’impresa P1 di cambiare il proprio mix produttivo,
sfruttando in maniera più intensiva il fattore proprietario (che mi costa meno perché integrato) e in maniera
meno intensiva il fattore non proprietario. Questo sfruttamento più intensivo del fattore proprietario ha
determinato un ulteriore abbattimento del costo (da 100 a 80 a 75) e ciò rappresenta un vantaggio
dell’integrazione verticale.
Per tutte le altre imprese che non sono state oggetto di integrazione verticale, non è cambiato niente.
Ho l’isocosto iniziale C=100, con cui dal punto di tangenza tra questo e l’isoquanto produco 50 unità con
una determinata quantità di input 1 di input 2. Il punto d’angolo è il punto di minimizzazione dei costi e
quindi il punto di ottimo.
Primo effetto dell’integrazione: l’input 2 diventa proprietario e quindi cambia il suo prezzo (l’impresa P1
non lo compra più a prezzo di monopolio, ma al prezzo uguale al costo marginale).
A questo punto l’impresa si trova a produrre nello stesso punto di ottimo, però tenendo conto delle
variazioni di prezzo. Si ha un nuovo isocosto, che fa parte della famiglia rossa (indica i prezzi cambiati) e
passa sempre per il punto di ottimo di prima: Continuo a produrre con il vecchio punto di ottimo tenendo
conto delle variazioni che ci sono state, ma non posso cercare un nuovo punto di ottimo. Questa iniziale
diminuzione dei costi non è rilevante per il complesso dell’impresa integrata, perché non fa altro che
spostare il profitto da monte a valle l’impresa integrata è indifferente.
Essendo la tecnologia a proporzioni fisse, questa non permette di sfruttare in maniera più intensiva il
fattore proprietario e quindi l’impresa P1 non ottiene quell’extra profitto che otteneva nel caso di tecnologia
a proporzioni variabili in questo caso, nei confronti di una possibile strategia di integrazione l’impresa è
indifferente, la strategia non genere un effettivo vantaggio, ma sposta solo i profitti.
conclusione: il monopolista produttore di input sarà interessato a una strategia di integrazione verticale
con uno dei produttori del bene finale solo nel caso in cui la tecnologia dell’impresa integrata sia a
proporzioni variabili, perché solo in questo modo l’impresa integrata è in grado di usufruire del profitto
extra che deriva dall’integrazione (il profitto extra è dato dalla possibilità di sfruttare in maniera più
intensiva l’input proprietario).
Il produttore vende ai distributori al Pp=MC perché si trova in concorrenza perfetta. Pp=prezzo alla
produzione. Per il distributore, il prezzo che viene applicato dal produttore (quindi Pp=MCp), è il suo costo
marginale MCd. Quindi il costo marginale del produttore è uguale al costo marginale del distributore.
A questo punto, il costo marginale del distributore lo posso effettivamente confrontare con la domanda di
mercato (superando l’ostacolo dovuto al fatto che domanda di mercato e costo marginale del distributore
si trovano in due mercati diversi) e trovo il punto di equilibrio. Dato che siamo in concorrenza perfetta,
l’equilibrio finale che si ottiene è esattamente l’equilibrio che ci si aspetta in concorrenza perfetta (= il prezzo
del distributore è uguale al costo marginale del distributore).
conclusione: non è importante come è strutturata la filiera, non avrò mai una perdita di benessere
quando tutti i mercati sono in condizioni di concorrenza perfetta (questo vale anche se la filiera è
caratterizzata da 50 livelli). Non importa quanti livelli ci sono, se tutti i mercati sono efficienti (in
concorrenza perfetta), non avrò mai una perdita.
[Tutte le considerazioni valgono anche nel caso in cui P in monopolio e D in concorrenza perfetta].
Per quanto riguarda il produttore, egli si trova nella stessa situazione dell’esempio di prima perché è
sempre in concorrenza perfetta. Quindi il prezzo di equilibrio per la produzione sarà uguale al costo
marginale della produzione.
Per quanto riguarda il distributore invece, il prezzo alla produzione coincide con il costo marginale alla
distribuzione Pp=MCd e di conseguenza il costo marginale alla produzione è uguale al costo marginale
della distribuzione: MCp=MCd.
A questo punto devo valutare la scelta che fa il distributore. Il distributore è un monopolista, quindi impone
un prezzo ottenuto facendo costo marginale=ricavo marginale (mark-up di monopolio) ha tutti gli
elementi per farlo, perché il costo marginale alla distribuzione è uguale al costo marginale alla produzione e
il ricavo marginale lo ricava dalla funzione di domanda. In questo modo, ottengo un classico equilibrio di
monopolio.
Prezzo praticato dal distributore Pm: MCd=MR ho ottenuto un equilibrio di monopolio in cui:
Surplus consumatore= A i consumatori, quindi, compreranno la quantità di monopolio al prezzo
di monopolio;
Surplus produttore= B (si deve intendere come surplus dell’offerta, ma in realtà questo surplus va al
distributore);
Perdita di benessere= C.
Il mercato alla produzione (quello che sta in concorrenza perfetta) è efficiente in questa filiera? No, perché
la domanda acquisterà meno, quindi alla fine i produttori (che stanno in concorrenza perfetta) venderanno
ai distributori le quantità Qm e non Qcp (vorrebbero vendere Qcp, ma visto che la domanda è
rappresentata dai distributori, che sono monopolisti, venderanno solo Qm), perché il distributore gli
domanda solo Qm. Quindi anche il mercato dei produttori, che in realtà sta in concorrenza perfetta, subisce
l’inefficienza del mercato della distribuzione (di monopolio).
conclusione: a prescindere dal numero di livelli che ho nella filiera, se all’interno di questa ho anche solo
un livello che opera in monopolio, questo condizionerà negativamente tutto il mercato andando a rendere
inefficiente l’intera struttura della filiera. È sufficiente avere anche una sola distorsione dalla concorrenza
per rendere l’intero mercato inefficiente.
26/04/2021
3° CASO: Produzione=monopolio e Distributore=concorrenza perfetta.
Il produttore immagina il funzionamento del mercato della distribuzione, ragionando quindi sulla domanda
finale: se produce la quantità di concorrenza perfetta come utilizza il suo potere di mercato? Dato che le
altre imprese sono in concorrenza perfetta egli ragiona come se fosse un distributore monopolista.
Il produttore sa che gli conviene distribuire la quantità Qp per sfruttare il suo potere di mercato. Il
distributore venderà al prezzo uguale al costo marginale il costo marginale del distributore è pari al
prezzo alla produzione, quindi la quantità alla produzione è anche uguale alla quantità alla distribuzione
(Qp=Qd) e il prezzo alla produzione è anche uguale al prezzo alla distribuzione (Pp=Pd).
Dato che il produttore è un monopolista, venderà a un prezzo P=MCd=Pp, quindi, venderà la stessa quantità
di monopolio.
Il consumatore finale compra al prezzo Pd la quantità Qd, ovvero compra al prezzo Pp la quantità Qp.
C’è interesse per il produttore ad integrarsi con uno dei distributori? No, perché non potrebbe sfruttare
alcun vantaggio dall’integrazione verticale, dato che venderebbe sempre la quantità Qp (=Qd) al prezzo Pp
(=Pd).
conclusione: tutti i casi in cui vi è un monopolio nella filiera, sono tutti i casi indifferenti ad una possibile
integrazione verticale. In tutti questi casi, il monopolio provocherebbe inefficienza lungo tutta la filiera.
Dato che il distributore vende solo la quantità Qd, il produttore venderà anche lui solo la quantità Qd
nonostante possa vendere fino a Qp il distributore può sfruttare il suo mark-up chiedendo solo la
quantità Qd e obbligando il produttore a vendere solo quella quantità (il produttore si trova in una
situazione di svantaggio e quindi farà un surplus minore rispetto a quello che potrebbe).
Il produttore non può applicare il suo mark-up di mercato e quindi ottiene un surplus minore rispetto a
quello di monopolio.
Questa situazione corrisponde a ciò che avviene nel caso di monopolio bilaterale: mi trovo in una situazione
in cui ho una doppia restrizione della quantità che si vende.
Data la situazione appena descritta, il surplus del lato dell’offerta è rappresentato solo da B e D e, in
particolare, B è il surplus che spetta al distributore e D è il surplus che spetta al produttore.
Equilibrio finale di mercato= Qd e Pd.
Conviene o no l’operazione di integrazione verticale? (Devo guardare il lato dell’impresa per rispondere).
Con l’integrazione verticale succede che l’impresa integrata rinuncia a fare surplus sul mercato della
distribuzione (rinuncia all’area B), ma acquisisce l’area E finché E>B l’integrazione verticale conviene. Nel
nostro caso, finché i MC sono piatti conviene sempre integrare verticalmente perché l’area E sarà sempre il
doppio di B (in realtà è maggiore anche se i MC non sono piatti, solo che non sarà il doppio, sarà solo
maggiore).
Quindi, finché E>B, l’impresa di produzione ha interesse ad effettuare un’integrazione verticale perché
lasciare due monopoli consecutivi (=senza integrazione) determina un’eccessiva riduzione della quantità
venduta, un eccessivo aumento del prezzo e di conseguenza si va a ridurre anche l’area di surplus del
produttore. Al contrario, grazie all’integrazione, non si hanno più due monopoli consecutivi, se ne ha uno
solo e quindi è possibile applicare il classico mark-up di monopolio e ottenere tutto il surplus di monopolio.
Questo caso non necessariamente lo possiamo risolvere solo con l’integrazione verticale, infatti può essere
anche un caso limite in cui, oltre all’integrazione verticale, l’applicazione di clausole contrattuali potrebbe
permettere all’impresa di produzione di ottenere lo stesso risultato.
RESTRIZIONI VERTICALI:
Le restrizioni verticali sono semplicemente accordi contrattuali che esasperano il coordinamento tra i due
soggetti che operano nella stessa filiera. Grazie a queste, il coordinamento tra i 2 soggetti è talmente
elevato da dare risultati molto simili a quelli dell’integrazione verticale, nonostante non ci siano tutte le
implicazioni giuridiche di quest’ultima.
Le restrizioni verticali sono numerose e possono avere tanti e diversi effetti sul mercato.
I casi di restrizioni verticali vengono analizzati per la prima volta negli anni ‘70, tramite lo studio dei casi di
free-rider tra i produttori e free-rider tra distributori. Esempio di restrizioni verticali= casi di free-rider tra
produttori e free-rider tra distributori.
Free-riding tra distributori: nella funzione di distributore, quest’ultimo svolge una funzione importante
per quanto riguarda i servizi prevendita e post-vendita.
Servizi prevendita= tuto ciò che serve al consumatore per scegliere in modo consapevole se e dove
comprare quel prodotto informazioni tecniche, prezzo, ecc.
Servizi post-vendita= il più importante è la garanzia, ma più in generale si intendono tutti quei servizi che
servono al cliente per poter utilizzare il bene anche a casa.
Il mondo si divide in due categorie di consumatori: i consumatori informati (quelli che conoscono le
caratteristiche del prodotto, hanno un’idea chiara di quello che gli serve quindi fanno un ragionamento di
prezzo, senza interessarsi ai servizi pre o post-vendita) e i consumatori poco informati (hanno poche
conoscenze del prodotto, poche skills, quindi i servizi pre e post-vendita sono fondamentali per fargli
scegliere quale prodotto comprare e se comprare o meno quel tipo di prodotto).
Stigler spiega il problema del free-riding tra distributori raccontando di una passeggiata in centro. Durante
questa, passeggiata nota 2 negozi: il negozio in piazza che offre un prodotto X ad un certo prezzo P ed un
altro negozio-magazzino che ha un cartello “andate nel negozio in piazza, trovate il prodotto che preferite,
poi venite qui e lo potrete acquistare con il 20% di sconto”.
Il distributore che non offre i servizi pre e post-vendita, offrirà più sconti sui prodotti rispetto agli altri
perché deve sostenere meno costi (per l’assenza di questi servizi). Se quindi nel mercato incontro alcuni
distributori che non offrono questo tipo di servizi e quindi offrono il prodotto a prezzi più bassi e altri
distributori che invece hanno prezzi più alti (perché offrono anche i servizi di pre e post vendita), succede
che poi, con il tempo, tutti capiscono le caratteristiche del prodotto, tutti si rivolgono al negozio che offre lo
sconto, facendo chiudere il negozio che offre assistenza così ci perdono tutti perché il mercato si
impoverisce, dato che si avranno solo negozi magazzino che non offrono servizi di assistenza.
L’equilibrio senza free-riding è più vantaggioso per tutti: il produttore venderà di più se i distributori offrono
servizi. Quindi, è compito del produttore cercare di bloccare il free-riding tra i distributori egli deve
evitare che i distributori si facciano una concorrenza distruttiva sui prezzi (dei servizi pre e post-vendita) in
modo tale da avere più vendita dei prodotti.
il produttore deve cercare di orientare la concorrenza tra i distributori non sul prezzo (perché più la
concorrenza è incentrata il prezzo, meno servizi offrono i distributori, meno domanda si sviluppa sul
mercato), ma sulla qualità dei servizi. Per ottenere questa situazione, il produttore deve inserire una
restrizione verticale.
La restrizione che il produttore deve imporre è la restrizione verticale del prezzo minimo di vendita. Ciò
consiste nel cedere i propri prodotti ai distributori imponendo come condizione un prezzo minimo di
vendita facendo così, il produttore sta lasciando al distributore un certo margine (tra il prezzo a cui il
bene viene venduto al distributore e il prezzo minimo a cui il produttore impone la vendita al distributore)
che deve andare a remunerare tutti i servizi di pre e post-vendita che il distributore deve fare.
Il produttore imporrà tale restrizione consapevole del fatto che più cresce la qualità di tali servizi, più cresce
la domanda presente nel mercato del bene in questione perché più consumatori non esperti entreranno sul
mercato. Inoltre, con il prezzo minimo di vendita il produttore si assicura che la concorrenza tra i
distributori avvenga non più sul prezzo del bene ma sulla qualità dei servizi offerti.
Il tema di free-riding tra i distributori è un tema molto attuale perché può essere paragonato all’effettuare
un acquisto in negozio e effettuarlo online.
Free-riding tra produttori: può essere un problema relativo agli investimenti che i produttori fanno su un
determinato prodotto/campagna pubblicitaria, ecc. I produttori possono fare da un lato investimenti in
informazione e dall’altro possono fare investimenti sule campagne pubblicitarie. Se il produttore fa questo
tipo di investimento, il suo interesse è che tutti i benefici di questo ricadano sui suoi prodotti, anche se ci
sono dei contesti in cui è possibile che i benefici di tali investimenti ricadano sui suoi competitor,
incentivando questi ultimi a voler mettere in atto comportamenti di free-riding tra produttori.
Esempio: free-riding sulla campagna pubblicitaria: devo cambiare la tv, vedo una pubblicità su un
determinato modello e mi reco in negozio per comprare quello; quando mi rivolgo al commesso
chiedendogli quale tv prendere, lui proverà a vendermi quella su cui ha più margine di guadagno (non gli
importa della pubblicità che ho visto) così facendo, il produttore della tv che mi vende il commesso non
investe nel marketing (=pubblicità), perché sa che gli altri produttori di tv lo faranno e sfrutta la pubblicità
dei competitor consapevole che questa porterà i clienti in negozio; una volta che i consumatori sono in
negozio, sarà il distributore a vendere la tv senza pubblicità invece di quella per cui ho visto la pubblicità: il
produttore sfrutta l’investimento in marketing dei competitor, risparmiando e offrendo lo stesso prodotto a
un prezzo più basso, applica un comportamento di free-riding.
Il produttore può fare free-riding sulla formazione avere un negozio che funzioni implica che il
proprietario deve preparare le persone: ad esempio, il produttore che realizza macchine fotografiche
potrebbe imporre ai distributori l’obbligo di frequentare un corso di fotografia, così che questi migliorino le
loro conoscenze sulle macchine fotografiche e possano consigliare e vendere meglio ai consumatori.
In questo caso però succede che il distributore più informato vende più prodotti, però non è detto che
venda più prodotti del singolo produttore perché può vendere in generale più prodotti di tutto il reparto
in questo caso, il produttore paga al distributore una maggiore formazione, però i benefici di questo
servizio in più ricadono sui prodotti di tutto il settore e non del singolo produttore.
Come risolvo un problema di free-riding tra i produttori? il problema sta nel fatto che se ogni produttore è
consapevole che se investe in servizi in più di questi ne beneficeranno anche tutti gli altri, finisce per
succedere che nessun produttore investe in tali servizi, perché aspetta che lo facciano gli altri: alla fine si ha
una scarsa attenzione da parte di tutti i produttori nel tutelare lo sviluppo del sistema della distribuzione.
Questo problema può essere risolto con la vendita in esclusiva: il produttore può lasciare i suoi prodotti in
esclusiva solo a determinati distributori, così che sappia che quel negozio vende solo il suo marchio (per
quanto riguarda i diversi marchi di quel prodotto) e quindi sa che tutti gli investimenti che fa sul marchio o
su quel negozio andranno a suo favore.
La vendita in esclusiva è una situazione molto complicata, soprattutto dal punto di vista dell’antitrust,
perché prevede tantissime sfaccettature che si possono realizzare.
1° effetto negativo della vendita in esclusiva: effetto di chiusura del mercato deve essere scongiurato.
Immaginiamo un mercato semplice con 2 produttori e 5 distributori.
L’effetto della combinazione di tutti questi contratti di esclusiva sarebbe la chiusura del mercato se il
mercato della distribuzione è chiuso da una serie di contratti di esclusiva, il Pe non potrà entrare a far parte
del mercato perché non ha canali di sbocco che gli permettano di raggiungere i consumatori, si dovrebbe
creare autonomamente un distributore (andando ad aumentare i suoi costi fissi).
In questo caso, la presenza di tutti questi contratti di esclusiva ha creato una barriera all’entrata, cosa che
rende il contratto di esclusiva illegale. Ogni volta che si vuole stabilire un contratto di esclusiva, questo deve
essere approvato dall’autorità antitrust la quale dovrà valutare (come prima cosa) se c’è effetto di chiusura
del mercato: generalmente si è stabilito che, affinché il contratto di esclusiva sia legale, almeno il 60% delle
quote del mercato devono rimanere libere (così è sempre possibile entrare nel mercato). Se infatti lungo
tutta la filiera sono presenti dei contratti di esclusiva che accorporano quote di mercato pari al 40%, il
mercato viene considerato a rischio.
Più è elevata la quota di mercato del produttore, più è probabile che il contratto di esclusiva sia illegale,
perché prevale il problema del rendere il mercato il più contenibile possibile: più il mercato è contendibile,
più è possibile che nuovi entranti facciano il loro ingresso nel mercato.
Caso più famoso di contratto di esclusiva: Coca-Cola (caso successo qualche hanno fa) la coca-cola non
faceva contratti di esclusiva, ma regalava ai bar il frigorifero con il logo dell’impresa senza vincolare il bar
all’acquisto dei prodotti coca-cola: non era un contratto di esclusiva, coca-cola forniva i bar di questo
frigorifero specificando che il bar non era vincolato a nessun contratto di esclusiva, ma poneva la
condizione per cui, all’interno del frigorifero, potevano essere esposti (per una questione di marketing) solo
prodotti coca-cola. Di fatto, questo è un contratto di esclusiva perché coca-cola sta facendo leva sullo spazio
a disposizione del bar: coca-cola era consapevole che nei bar entravano pochi frigoriferi e dunque era
consapevole del fatto che i bar non avrebbero provveduto a comprare un altro frigorifero per riporre gli
altri prodotti, quindi anche se in teoria non proponeva un contratto di esclusiva, di fatto “obbligava” i bar a
comprare i prodotti di coca-cola.
La commissione europea ha condannato, per questo motivo, Coca-Cola ed ha obbligato l’azienda a togliere
la clausola per cui nel frigorifero potevano essere esposti solo prodotti dello stesso marchio.
Alto caso importante, che ha avuto una discussione maggiore in Europa rispetto agli USA, è quello relativo
ai mercati secondari, ai mercati di importazione parallela. Questo perché, l’Europa concepisce l’autorità
antitrust come il mezzo migliore per favorire il mercato comune (e quindi disincentivare i mercati
secondari) e di conseguenza i limiti imposti dall’antitrust per regolare i mercati secondari sono molto più
importanti e rigidi che nei paesi americani.
La tendenza delle imprese è quella di, attraverso diversi contratti di esclusiva, suddividere il territorio in più
porzioni, che corrispondono a più mercati “separati” tra loro (si creano tanti monopoli locali) si creano
problematiche molto rilevanti dal punto di vista dell’antitrust.
Qual è l’effetto negativo di un contratto di esclusiva?
Un contratto di esclusiva può creare un monopolio locale la mia impresa vuole vendere un prodotto in
tutta Italia, per farlo nel modo più efficiente possibile, per controllare le modalità di distribuzione (anche
qualità dei servizi pre e post-vendita) e per evitare qualsiasi tipo di comportamento di free-riding, suddivido
il territorio italiano in 20 mercati (corrispondenti alle 20 regioni) e a ciascuno di essi associo un distributore,
che si occuperà della vendita al consumatore finale del prodotto, nel modo più efficiente possibile. Ho
creato tanti piccoli monopoli locali, incrementando i livelli di controllo lungo la filiera e senza dover
sopportare l’incremento dei costi dovuto all’integrazione verticale. Siamo sempre nell’ambito delle
restrizioni verticali.
La creazione di 20 monopoli locali ovviamente rappresenta un problema dal punto di vista antitrust, e
quindi l’autorità deve valutare da un lato i benefici dovuti al fatto che si evitano eventuali comportamenti di
free-riding, e dall’altro i rischi connessi alla creazione di tanti piccoli monopoli.
Per ovviare a questo problema sui contratti di esclusiva, la commissione europea distingue in maniera
attenta la vendita attiva e vendita passiva.
Nell’analisi che fa la commissione, la vendita attiva è la vendita che il distributore si procaccia direttamente
(ad esempio con una campagna pubblicitaria mirata).
La vendita passiva invece, è la vendita che il distributore fa senza aver avuto un comportamento attivo,
quindi senza aver fatto nulla per procacciarsi i consumatori.
In ottica antitrust, un contratto di esclusiva deve essere sempre e solo limitato alle vendite attive (non deve
mai riguardare le vendite passive) e in nessun caso (quindi anche combinando il contratto con altri e
integrazioni verticali) deve determinare un rifiuto a contrarre. Esempio: se io distributore ho un contratto di
esclusiva di vendita nella regione Lazio, posso svolgere una campagna pubblicitaria aggressiva e
procacciarmi consumatori in tutta la regione Lazio, però allo stesso tempo devo garantire la vendita del
prodotto a qualsiasi consumatore si rivolga a me per l’acquisto (a prescindere dalla regione dalla quale
proviene).
Si vuole evitare, soprattutto a livello europeo, che si creino dei mercati segmentati a livello nazionale, grazie
allo sfruttamento di contratti di esclusiva sulle vendite passive.
La scuola di Chicago contesta tutte queste restrizioni antitrust sui contratti di esclusiva. Ritiene che tutti i
casi di restrizione della vendita in esclusiva siano una grande perdita di tempo. Questo perché ritiene che il
contratto di esclusiva alla fine non protegga nessuno, ovvero non serve a discriminare l’operatore più
efficiente. Secondo la scuola di Chicago, infatti, se nel mercato è presente un operatore nettamente più
efficiente degli altri, non è possibile in nessun caso creare un effetto di chiusura del mercato.
Mercato formato da 2 imprese che, con un contratto di esclusiva, bloccano il settore della distribuzione,
coprendo tutto il mercato. A un certo punto spunta un operatore più efficiente che offre lo stesso prodotto
al MC2. La scuola di Chicago si chiede: davvero il contratto di esclusiva blocca l’entrata dell’operatore più
efficiente? Assolutamente no. Questo perché alla quantità Q1, l’operatore più efficiente può garantire a
tutti i distributori tutto il surplus extra (rettangolo in rosso) che realizza rispetto ai competitor.
Quindi l’operatore più efficiente può presentarsi dai distributori offrendo un surplus maggiore e quindi
rompendo la chiusura del mercato della distribuzione (dovuta al contatto di esclusiva). Nessuno degli
operatori meno efficienti può gareggiare con l’operatore che offre il prodotto al MC2, perché devono
sostenere dei costi estremamente più alti.
Quindi secondo la scuola di Chicago, il problema riguardo ai contratti di esclusiva evidenziato dall’autorità
antitrust non si pone: il tema dell’evitare il contratto di esclusiva è per loro qualcosa di sopravvalutato.
Anche in questo caso, la scuola di Chicago risolve il problema a monte con il tema dell’efficienza.
Torniamo al problema del doppio mark-up di monopolio (prima risolto con un’integrazione verticale)
un’ulteriore restrizione verticale che può risolvere il problema è l’imposizione di un prezzo massimo di
vendita.
Se si interviene con un’integrazione verticale, l’impresa integrata perde l’area di surplus nera e guadagna
l’area di surplus in rosso conviene nettamente, dunque l’impresa può trarre un guadagno
dall’integrazione verticale.
Le restrizioni verticali, quindi, sono benefiche per la concorrenza o generano solo più effetti negativi?
Dipende dai contesti, e il fatto che dipende dai contesti spiega due cose:
1. Sono pochissime le restrizioni verticali considerate di per se contrarie alla concorrenza:
generalmente, la limitazione alle restrizione verticali è analizzata caso per caso la commissione
europea infatti ri-aggiorna costantemente i casi di limitazioni imposte, dividendo tra black list (sono
tutte le restrizioni verticali che sono considerate contrarie al funzionamento concorrenziale del
mercato, non lo può fare nessuno) e white list (ci sono tutte le restrizioni verticali che a prescindere
dal contesto sono considerate NON LESIVE dei meccanismi di concorrenza dei mercati). Il resto
delle restrizioni va analizzato caso per caso perché indubbiamente le restrizioni verticali hanno un
effetto favorevole sui consumatori (per diversi motivi: favoriscono l’offerta di servizi pre e post-
vendita, favoriscono la migliore distribuzione del prodotto, migliorano in generale la qualità della
distribuzione), però allo stesso tempo hanno anche effetti negativi effetto negativo principale=
chiusura del mercato. Ci sono tante combinazioni di restrizioni verticali che possono sfociare nella
creazione di barriere all’entrata.
2. Un mondo senza restrizioni verticali potrebbe essere organizzato peggio di un mondo con le
restrizioni verticali. Con le restrizioni l’impresa riesce a distribuire in maniera più efficiente il
prodotto. In un mondo senza restrizioni verticali, i distributori si collocano dove c’è la domanda:
così facendo, si concentrerebbero tutti dove c’è la gran parte della domanda, lasciando scoperte le
altre parti del mercato (perché con una domanda minore).
In un mondo con le restrizioni verticali, è possibile assicurare una migliore distribuzione spaziale dei
distributori (così che venga coperto tutto il mercato) ed è possibile evitare la concentrazione di
punti vendita in particolari luoghi. Nel complesso, una distribuzione equa può essere garantita solo
in presenza di un minimo di restrizioni verticali.
argomento dei pro e contro delle restrizioni verticali molto dibattuto.
21/04/2021
POLITICA INDUSTRIALE: SETTORE MANIFATTURIERO E LEGGI DI KALDOR
Iniziamo la parte finale del corso, raccogliendo tutto quello che abbiamo analizzato e calandolo rispetto a
quelli che sono i dibattiti di politica economica attuali: normativa antitrust, regolazione di alcuni settori,
intervento pubblico e politica industriale.
Introduciamo il tema della politica industriale e valutiamo se c’è la possibilità di tracciare una linea guida
per quanto riguarda la rilevanza di certi settori economici rispetto ad altri. Sotto questo profilo, un punto di
interesse ci porta a considerare il ruolo del settore manifatturiero, ovvero della produzione di beni, e il
ruolo che questa produzione ha nel promuovere crescita e sviluppo di un certo territorio. Riguardo a questo
possiamo fare riferimento all’analisi di Kaldor, che per primo ha provato a comprendere il contributo
relativo dei diversi settori economici ai processi di crescita e di sviluppo. Questo ci tornerà utile per
rispondere a due domande: se e per quali ragioni potrebbe essere richiesto un intervento pubblico rispetto
alla struttura economica di un determinato sistema? Ovvero c’è necessità di un intervento diretto a
promuovere alcune attività economiche piuttosto che altre, influendo sulla struttura economica di un
determinato territorio, in modo da dargli una configurazione, piuttosto che un’altra, non coerente con i
segnali che arrivano dal mercato? Se per esempio una certa attività è in difficoltà e il mercato segnala che
non dovrebbe essere svolta nel territorio perché non riesce ad essere economicamente né
finanziariamente sostenibile, è necessario un intervento statale? E perché lo stato dovrebbe sostenere
proprio quella attività, piuttosto che un’altra? Ci sono molte risposte a queste domande, e dipende dalla
scuola di pensiero che si sta sposando. Una prima giustificazione potrebbe essere rintracciata nell’esigenza
di sostenere i lavoratori, il problema è il peso che quell’attività ha nel tessuto sociale e il contributo di
quella attività alla creazione di reddito nel territorio. In altre parole, se l’attività è di dimensioni rilevanti,
vale la pena che venga aiutata.
In realtà uno dei motivi per cui a lungo non si è discusso dei temi di politica industriale è perché veniva
percepito come un intervento che andava ad inficiare i normali meccanismi di mercato.
Politica industriale: un qualsiasi intervento governativo, di natura pubblica, che va a contrastare il normale
operare dei meccanismi di mercato.
È implicito che si tratta di selezionare, di fare una scelta rispetto al sostenere alcuni settori piuttosto che
altri, che in un contesto di mercato verrebbero meno. L’intervento può essere fatto sia se il settore è
difficoltà, sia nel caso in cui il settore non sarebbe proprio nato per iniziativa privata e si decide di
promuoverlo a livello pubblico. Molto spesso, questa tipologia di interventi viene fatta anche a livello di
singola impresa, perché l’impresa coincide con il settore o è una porzione rilevante dello stesso.
Si parla di picking the winner/losers, quindi aiutare, cioè selezionare, determinate imprese. La politica
industriale è andata spesso di pari passo con l’idea di scegliere chi aiutare nel settore.
La classica obiezione che si fa è: per quale motivo un soggetto pubblico dovrebbe poter riconoscere meglio
del mercato quali sono i settori più promettenti o che comunque dovrebbero essere presenti nel territorio?
Se in un certo sistema economico non si sviluppavano alcuni settori, è perché evidentemente altri territori
avranno altre competenze e risorse necessarie per farlo e quel territorio dovrà specializzarsi in altre attività.
Non è compito del soggetto pubblico decidere se svolgere o meno queste attività. Questo è il motivo per cui
la politica industriale è stata avversata per diverso tempo. Se il settore siderurgico non è più conveniente
che venga sviluppato in Italia, questo cambierà luogo e l’Italia si specializzerà in altro. C’è anche una
normativa a livello di UE che vieta esplicitamente aiuti statali, come strumenti per poter sostenere settori o
imprese specialmente in competizione con altri stati. Questo porta a una condizione relativa al fatto che
non è possibile proteggere i settori e le imprese con meccanismi che le isolino dalla competizione
internazionale, come ad esempio l’imposizione di un dazio o di barriere all’importazione/esportazione.
Il ritorno della politica industriale si deve in grande misura alla crisi del 2008, durante la quale ci si è resi
conto che, a fronte di un processo progressivo di deindustrializzazione, quindi di riduzione della presenza di
alcune attività, in particolare quelle manifatturiere, alcuni paesi, soprattutto quelli avanzati,
sperimentavano livelli di crescita e capacità di risposta alla crisi inferiori rispetto a quelle di altri paesi. Nello
sfondo c’è una dinamica che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni in cui c’è stata una crescita di molti paesi
che erano in via di sviluppo, tra cui la Cina, che hanno sperimentato il processo inverso, cioè di progressiva
industrializzazione e di progressivo aumento delle attività manifatturiere. Sono avvenuti quindi due
fenomeni: da un lato la percezione di un rallentamento della crescita nei settori industrializzati a confronto
della crescita in termini relativi di altri paesi, dall’altro il fatto che l’avanzamento tecnologico ha reso
fondamentali tutta una serie di attività che prima non erano considerate e quindi nei vecchi paesi non sono
presenti.
Tutto ciò ha posto di nuovo in rilievo la politica industriale, intesa dunque come sostegno alla crescita di
alcune attività economiche e come strumento per poter riattivare un percorso virtuoso tra le attività e i
percorsi di crescita.
Per politica industriale verticale si intende una politica industriale che punta su un determinato settore
selezionato e si impegna a promuoverlo. Impegno verticale su un certo settore.
Per politica industriale orizzontale si intende invece un generale sostegno ai settori economici (non ci si
focalizza su un’unica attività), attraverso le cd politiche dei fattori produttivi: si ritiene che alcuni fattori
produttivi siano importanti indipendentemente dall’attività economica che viene svolta e che dunque una
volta che siano promossi possano contribuire a sostenere tutte le attività. Queste politiche hanno come
principale riferimento i settori infrastrutturali (esempi: energia, mobilità dei fattori produttivi, ricerca e
sviluppo e politiche di innovazione, sono tutti fattori che possono sostenere molte attività). Non si sta
selezionando il settore dell’acciaio piuttosto che quello dell’alluminio, si stanno sostenendo i fattori
produttivi che saranno utili per entrambi.
Data questa particolare definizione di politica industriale orizzontale, che quindi risulta essere un aiuto
generale all’economia, viene messa in discussione la posizione della politica industriale, che
precedentemente avevamo rilegato ad un ruolo marginale di intervento eccezionale per aiutare alcuni
settori fondamentali in difficoltà. Sotto questa prospettiva, capiamo perché risulta complesso il ritorno di
una politica industriale verticale, e perché al contrario è cresciuta molto la politica industriale orizzontale in
cui è fondamentale la trasversalità in quanto ogni intervento è finalizzato a sostenere più di una attività o di
un settore contemporaneamente.
La crisi da Covid-19 ha messo un altro tassello: ha sottolineato l’importanza di determinati settori nel
territorio, come ad esempio quello farmaceutico, rispetto a talune problematiche. Questo aspetto rafforza
la visione di una politica industriale che sia in grado di indirizzare il sistema economico in maniera più
pervasiva. Un intervento pubblico che sostiene il settore farmaceutico è più coerente rispetto ad una
politica industriale verticale. Lo stesso ragionamento vale in altri contesti, ad esempio di tecnologie digitali.
Ci sono ambiti nei quali la presenza o meno di un sistema economico è ritenuta rilevante sia per motivi
economici che geopolitici, sia perché chi è avanti in alcuni settori ne indirizza il futuro andamento, sia
perché tali settori rappresentano un benchmark in cui essere presenti per poter prendere parte di una
competizione che vi sarà presente. Ma come si fa? Come facciamo ad essere parte di questa competizione?
Se sappiamo che nel prossimo futuro sarà importante la sostenibilità, vogliamo essere presenti come
sistema economico in tutti quei settori che sappiamo la caratterizzano? E se ad oggi non ci siamo,
vorremmo avere la possibilità di promuoverli? E allo stesso tempo non stiamo promuovendo anche tutta la
manifattura che c’è dietro?
Un possibile criterio è capire quali attività sono rilevanti e in che misura. La preoccupazione che riguarda i
singoli sistemi economici è spesso relativa al cd processo di deindustrializzazione, ovvero la presenza di
attività manifatturiere in un determinato territorio è venuta progressivamente meno. Oggi la “fabbrica del
mondo” è la Cina, ma l’espressione era stata coniata per il Regno Unito a fine ‘800. C’è la percezione di un
problema, che non riguarda in particolare l’Italia, ma anche gli Stati Uniti, post 2008 mettendo un’enfasi sul
made in USA. Ma perché si da così tanta enfasi alla manifattura? Ci sono quattro aspetti che la giustificano e
danno conto di quello che è il ruolo di questo settore nel sistema economico:
1. È la principale fonte di crescita della produttività; se un paese ha un settore manifatturiero molto
sviluppato si producono sempre più beni applicando sempre meno risorse. Si sono avuti i più grandi
guadagni in termini di produttività del lavoro, quindi si ottengono sempre più beni, impiegando
meno.
2. Rappresenta il terreno di sperimentazione di fattori tecnologici e di tecniche organizzative
innovativi, che poi possono essere utilizzati in altri settori, cioè hanno preso vita tutta una serie di
competenze e conoscenze che poi sono state adottate anche in altri settori come i servizi e
l’agricoltura (es. mezzi di produzione, organizzazione in forma di fabbrica…).
3. La gran parte di quelli che consideriamo “servizi avanzati”, finanziari, digitali, consulenza aziendale,
sono caratterizzati da una grande produttività e l’idea che possano occupare una posizione
rilevante nel sistema economico si lega proprio a questa, ma si deve tener conto che molti di questi
servizi sono attivati in gran parte dal settore manifatturiero, che ne genera la domanda. L’assenza
del settore manifatturiero contrae di molto la domanda di questi servizi.
4. La maggior parte dei beni che vengono commercializzati a livello internazionale sono manifatturieri,
quello che si scambia tra paesi sono manufatti; quindi, il settore manifatturiero ha una rilevanza
fondamentale laddove il paese voglia essere presente negli scambi internazionali, nelle catene
globali del valore.
Legge di Kaldor-Verdoorn:
Il primo tipo di evidenza empirica che abbiamo descritto viene resa più generale dalla legge di Kaldor-
Verdoorn. Questa legge esplicita il rapporto che c’è tra la variazione della produttività del lavoro e la
variazione dell’output.
Si nota infatti che vi è una relazione diretta che, al di là della costante a, dipende dal coefficiente di
Verdoorn (in media di valore 0,45).
λ̇=a+ ηλ ,q q̇
Dove:
λ̇ è il saggio di variazione della produttività del lavoro (il pallino indica il saggio)
q̇ è il saggio di variazione dell’output
η λ, q è il coefficiente di Verdoorn, cioè il valore di elasticità ( ‘eta’)
La crescita dell’output determina all’interno di quel sistema economico una crescita della produttività, ma
allo stesso tempo quando pensiamo alla variazione dell’output in un sistema economico, stiamo pensando
che questa possa derivare da una maggiore domanda. Se assumiamo che la domanda possa derivare da un
aumento degli acquisti dei consumatori o delle imprese, in questo caso, la crescita dell’output di un sistema
economico, trainata dalla relativa crescita della domanda relativa a C, I, G, NX, determina nel sistema
economico una crescita della produttività e, nella misura in cui il livello dei salari segue almeno in parte la
crescita della produttività, si avrà un progressivo aumento di benessere e delle condizioni degli individui,
che poi si esplica in un ulteriore incremento di C,I,G,NX che portano ad instaurare un circolo virtuoso: a
crescite della produttività, seguono crescite ulteriori della domanda, a crescite della domanda seguono
variazioni positive dell’output e dunque della produttività e così via. Questo potrà essere limitato solo da
vincoli ai diversi fattori che portano alla produzione di beni o alla maggiore domanda.
LEGGI DI KALDOR:
Kaldor sviluppa l’analisi di Verdoorn collocandola in un’analisi volta a capire i motivi per cui il percorso di
crescita del Regno Unito si era fermato: egli basa il suo studio sull’analisi dei fattori che possono spiegare il
basso tasso di crescita che vi era nel Regno Unito negli anni ’60 in rapporto agli altri paesi.
Essendo questo il paese che per primo ha sfruttato i vantaggi dell’industrializzazione, ha subito anche per
primo le conseguenze dell’abbassamento del tasso di crescita, conseguente alla deindustrializzazione, che
evidentemente non è un fenomeno nuovo dei nostri giorni.
Le 3 leggi di Kaldor riassumono dunque le evidenze empiriche che egli ha analizzato. Si tratta di risposte
molto diverse da quelle che verrebbero fornite da un approccio teorico che guarda soprattutto al lato
dell’offerta. Infatti, un’interpretazione che darebbe la teoria economica di Solow, è che è la disponibilità di
fattori produttivi che definisce l’opportunità di crescita, in particolare la possibilità che migliori la
produttività come fenomeno esogeno. L’analisi di Kaldor invece rileva l’aspetto della domanda:
1. Esistenza di una relazione empirica positiva tra i tassi di crescita del reddito (PIL) e tassi di crescita
della produzione manifatturiera. Questa relazione potrebbe anche essere letta oggi, vedi proprio la
Cina, anche se solo in parte.
2. Esistenza di una correlazione tra i tassi di crescita della produzione manifatturiera e i tassi di
crescita del prodotto per addetto (la produttività del lavoro) legge di Kaldor e Verdoorn.
Da un lato, abbiamo la produzione manifatturiera che influenza la crescita del reddito, dall’altro, la
produzione manifatturiera potrebbe influenzare la crescita del reddito attraverso la produttività del
lavoro, che è quello che aveva già evidenziato parzialmente Verdoorn.
3. Modificazioni strutturali indotte dalla crescita economica che inducono il trasferimento di occupati
dagli altri settori, come l’agricolo, (a bassa produttività) verso il manifatturiero (ad alta produttività)
determinano un ulteriore accelerazione nel tasso di crescita del prodotto. A maggiore
testimonianza del fatto che uno sviluppo del volume della produzione manifatturiera può
consentire di accelerare i processi di crescita.
Attenzione che queste sono evidenze empiriche non sono spiegazioni generali di fenomeni. Seguendo il
ragionamento di Kaldor, le motivazioni, i fattori economici, per cui la crescita della produzione determina
una crescita della produttività sono:
Rendimenti crescenti di scala e economie di apprendimento aumentando la produzione,
l’impresa si specializza, migliora il modo in cui opera, e adotta dei processi via via sempre più grandi
ed efficienti che fanno sì che il costo diminuisca e la produttività aumenti. Questo vale specialmente
per le industrie manifatturiere di processo, nei quali il vantaggio di produttività è legato ad un
aumento della dimensione. Aumenta la domanda, aumenta la produzione, metto un impianto più
grande, ottengo un costo inferiore, ottengo una produttività maggiore.
Specializzazione e interazione fra le imprese all’aumentare dell’output, si organizza la produzione
in modo più efficiente. Dimensionamento migliore delle attività e focalizzazione di ognuno nelle
attività in cui è possibile ottenere le dimensioni ottime minime, in questo modo garantire
complessivamente un costo minore e una produttività maggiore.
Progresso tecnico endogeno e incorporato nel capitale investimenti es. nei macchinari, l’idea di
base è che nel momento in cui svolgo una certa attività, per la quale ho bisogno di un dato
macchinario, stimolo l’investimento utile a migliorare la tecnologia del macchinario, che poi andrà
ad incorporare tutte le innovazioni che sono state sviluppate in quella direzione. Si genera un
processo endogeno legato all’attività che si sta svolgendo, un percorso virtuoso di miglioramento
tecnologico che è legato alla precedente struttura produttiva, cioè all’attività che stiamo facendo.
Non si tratta di acquisire un miglioramento tecnologico esterno che l’impresa deve acquisire.
L’impresario di automotive, che ha bisogno di una particolare tecnologia per avere una produzione
più efficiente all’interno della sua attività, promuoverà quindi lo sviluppo del macchinario e di tale
interesse ne gioverà anche il produttore del macchinario e non solo, perché per un’automobile
servono circa 10 mila componenti e quindi la produzione di una sola automobile genera la
domanda per circa 10 mila altre imprese. Si stimola così quindi quel percorso virtuoso per il quale si
ha una crescita della produttività.
27/04/2021
LA STORIA DELL’INDUSTRIA ITALIANA: DALL’UNITÀ FINO AD OGGI
Qual è la situazione dell’industria in Italia al momento dell’unità? È una situazione complessa.
Siamo nella prima metà dell’800, quando un impulso importante al settore industriale era stato dato da:
Prima rivoluzione industriale;
Introduzione del telaio meccanico, che conduce alla formazione dell’industria;
Introduzione della macchina a vapore (a metà degli anni ‘50), che fu importante perché ha
velocizzato il sistema dei trasporti e perché diede la possibilità di usare energia motrice all’interno
dei processi industriali (prima c’era il telaio meccanico, alimentato con l’energia dell’uomo= limite).
Un ulteriore impulso per il settore industriale si ebbe anche agli inizi del ‘900 quando la macchina a vapore
venne sostituita dall’energia elettrica, che si rivelò più funzionale della precedente in quanto la macchina a
vapore soffriva, con l’allargarsi dell’industria, di diseconomie di scala al crescere delle dimensioni
dell’impresa, dello stabilimento, con la macchina a vapore non si riusciva ad alimentare tutto lo
stabilimento con l’energia per via di problemi di diseconomie di scala.
Quindi, con il costante sviluppo dell’industria e l’allargarsi delle imprese, il settore subì un leggero
rallentamento dovuto all’impossibilità di avere energia sufficiente per mandare avanti le imprese, fino a che
non iniziò a diffondersi l’energia elettrica. Quest’ultima, riusciva a superare i limiti imposti dalle
diseconomie di scala grazie alle caratteristiche per cui può essere prodotta anche in un posto diverso da
quello in cui si trova l’industria (ovvero in cui viene impiegata).
La catena di montaggio di Ford, emblematica di questo periodo, senza l’energia elettrica non si sarebbe mai
realizzata.
Nei primi anni dopo l’unità d’Italia, la politica economica che fu seguita fu di tipo liberista, quindi di
apertura al mercato il dibattito riguardo la convenienza di una politica liberista o protezionista fu molto
acceso e dal punto di vista economico (in particolare per quanto riguarda la convenzione dell’industria) ha
caratterizzato tutta la seconda metà dell’800. Tale dibattito può essere fatto risalire alle primissime
intuizioni di Smith e Ricardo:
• Smith parla dell’importanza dello scambio, nell'opera "la ricchezza delle nazioni", anche se non ne
comprende la vera importanza, perché parla esclusivamente di scambi assoluti: il paese A è bravo
nella produzione del vino; il paese B è bravo nella produzione della tela il paese A deve
scambiare il suo vino con la tela del paese B e viceversa. Egli, quindi, considera solo i vantaggi
assoluti, sostenendo che ogni paese deve specializzarsi nell'ambito in cui è più preparato.
• Ricardo, invece, comprende il vero vantaggio che si può trarre dallo scambio, perché capisce che lo
scambio si può fare anche in senso relativo: mi conviene scambiare anche se sono più debole sia
nella produzione del vino, sia nella produzione della tela, l’importante è che mi specializzi nella
produzione in cui ho la maggiore disponibilità relativa di un determinato fattore produttivo.
Mettendo insieme le visioni di Smith e di Ricardo, in Italia si apre un ampio dibattito che si rivela essere
favorevole alle economie liberiste, quindi al libero scambio nei mercati internazionali, per favorire lo
sviluppo dell’industria.
Sono pochissime le voci che si dicono contrarie alle economie liberiste tra queste, la più importante è
quella dell’industriale Friederick List (si espone tra il 1820 e il 1830) che presenta un’idea molto diversa da
Smith e Ricardo, quasi aggressiva. Per List, Smith e Ricardo non vogliono promuovere una teoria neutrale di
libero scambio, ma promuovono una teoria di libero scambio che porti vantaggio esclusivamente all’impero
britannico.
Immaginando di fare libero scambio come intendono Smith e Ricardo, ogni paese si deve specializzare nella
produzione in cui è più forte, in cui ha maggiore risorse produttive: applicando questa visione alla
situazione del tempo, la Gran Bretagna si doveva specializzare nell’industria (il settore più innovativo, più
produttivo e che quindi gli garantiva un valore aggiunto), mentre tutti gli altri paesi devono produrre
materie prime per fornire l’imperialismo britannico sostanzialmente la teoria di Ricardo e Smith non
prevede una crescita per i paesi che non sono già sviluppati nel settore più innovativo, nell’industria.
List, quindi, oppone alla teoria di Ricardo e Smith delle teorie protezionistiche: se la Germania si mettesse a
produrre acciaio, ferro, meccanica, tela (tutti prodotti del settore industriale, quindi il più sviluppato di quel
periodo) non sarebbe in nessun modo competitiva con la Gran Bretagna, perché quest’ultima opera in
questo settore da più tempo e quindi ha avuto la possibilità di accumulare tutta una serie di vantaggi che gli
permettono di essere nettamente più efficiente. La Germania verrebbe spazzata via immediatamente dalle
imprese inglesi. Allo stesso tempo però, afferma che per la Germania è importante, per entrare in quei
mercati, recuperare competitività esplorando economie di scala e di apprendimento: inizialmente il paese
deve produrre per il proprio mercato interno, quindi l’unico modo di far prosperare l’industria è quello di
chiudere le frontiere e alzare i dazi doganali, così da rendere le imprese tedesche monopoliste nel mercato
interno tutta la domanda interna si rivolgerà alle industrie tedesche, queste attratte dalla domanda
interna potranno sfruttare economie di scala e di apprendimento e quindi in generale le industrie potranno
percorrere il processo di miglioramene continuo che gli permetterà di competere su tutti i mercati.
La tesi di List (molto dura) qualche anno dopo viene ripresa da John Stuart Mill (economista) che cerca di
fare una sintesi tra List (protezionista) e Ricardo (liberista) elabora la teoria dell’industria nascente.
Questa teoria parte dallo studio delle due tesi di origine, tra le quali non trova una netta opposizione. Al
contrario, Mill ritiene che quando si tratta di avviare una nuova industria in un paese, la teoria vincente sia
quella di List (in una fase di nascita dell’industria, il protezionismo di List è la politica idonea a favorire la
crescita di un nuovo nucleo industriale): quando si parte da zero nella creazione di una nuova industria
(soprattutto se in un settore estremamente avanzato), si crea un problema di diseconomie di scala e di
apprendimento e l’apertura verso un mercato internazionale spazzerebbe via le industrie locali. Tuttavia,
Mill ritiene che una pratica protezionistica che va avanti all’infinito rischi di rendere poco competitiva
l’industria nazionale e rischia di far perdere al paese quei vantaggi che derivano dalla competizione
internazionale (sostenute invece da Smith).
Quindi per Mill, superata la fase iniziale dell’impresa, la fase di start-up, il protezionismo diventa dannoso.
Quando si è creato il nuovo nucleo dell’industria (favorito dalla tutela del protezionismo) e quindi ’impresa
sarà in grado di competere a livello internazionale (ha quindi raggiunto tutte le caratteristiche necessarie, si
è sviluppata) si deve abbandonare il protezionismo, andando a favorire invece il liberissimo.
1881- viene varata in Italia una tariffa doganale che si ispira alla teoria dell'industria nascente:
Questo dibattito poi prosegue negli anni successici, ma la tesi di Mill ha abbastanza successo molti paesi
poi si ispireranno alla teoria dell’industria nascente per rimodellare e creare le politiche economiche
riguardanti le relazioni con l’estero e le politiche industriali. Così fa l’Italia.
Nel 1881 in Italia viene varata una nuova tariffa doganale che si ispira alla teoria dell’industria nascente
il paese, quindi, decide di puntare su alcuni settori chiave (industria pesante e meccanica), per far avviare lo
sviluppo economico dell’Italia come nazione unita. Quindi dal liberismo, che era stato applicato nei primi
anni subito dopo l’unità, si passa ad un periodo di protezionismo.
Parallelamente però vengono abbassate le tariffe doganali riguardo altri prodotti, quali i prodotti agricoli
(realizzati soprattutto al sud).
Nonostante la teoria dell’industria nascente non fosse la teoria economica prevalente in Italia, Gramsci
interpretò la nuova tariffa doganale del 1881 come l’inizio del divario tra nord e sud mentre la
storiografia sostiene che il divario iniziò proprio con l’unità d’Italia, Gramsci sostiene che questo iniziò con
la tariffa doganale del 1881, con la quale il paese decise di favorire l’industrializzazione al nord e la
permanenza del latifondismo al sud: abbassando la tariffa sui prodotti agricoli, si evitò lo sviluppo di
un’agricoltura intensiva di qualità nel mezzogiorno favorendo la permanenza del sistema feudale.
La tariffa del 1881 ebbe un relativo successo, che si concretizzò con la nascita dei primi nuclei industriali
importanti nell’industria pesante e meccanica (Padova, Terni, triangolo industriale Torino-Milano-Genova).
Altro aspetto importante è rappresentato dal lato del mercato monetario. Nel mercato monetario, l’Italia
parte con il modello di banca universale ripreso dall’esperienza francese, la quale va in crisi agli inizi del
’900 per lo scandalo della banca romana.
Scandalo della banca romana= dato che dopo l’unità i vari istituti bancari degli stati che si sono uniti hanno
continuato ad operare come istituti di emissione per un po’, anche la banca romana lo fece e comincia a
stampare moneta per 5 o 6 volte con lo stesso numero di serie per far fronte al proprio indebitamento.
Solo con la riforma del 1936 la Banca d’Italia diventa la Banca Centrale, quindi unico istituito d’emissione
e titolare della politica monetaria. Ciò comporta, nel mercato del credito, la separazione tra:
• Credito a breve termine fatto dalle banche.
• Credito a medio-lungo termine fatto dagli istituti di credito speciale.
Si delinea così (dal 1931 al 1936) l’assetto della politica industriale e monetaria del paese, che durerà fino a
buona parte del dopo guerra tutta la politica industriale e monetaria viene instaurata sulla base di questi
due pilastri (Banca d’Italia e IRI) fino a buona parte del dopo guerra (rimane pressoché immutato fino a
circa gli anni ‘90).
In coincidenza con la privatizzazione dell’IRI, la riforma bancaria del paese avverrà all’inizio degli anni ‘90 e
poi, insieme al trattato di Maastricht, inizia quel lento processo di trasferimento di competenze di poteri
dalle banche centrali nazionali in favore della Banca Centrale Europea.
Cosa accade dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Italia esce dal conflitto con un numero minore di morti
rispetto a quelli sofferti durante il primo conflitto mondiale (al contrario di tutti gli altri paesi coinvolti),
perde quindi poca forza lavoro e poca capacità produttiva. Il paese infatti dopo il conflitto, nonostante viva
un periodo di crisi e povertà, ha la capacità di ricostruire ciò che è stato distrutto e in questo processo fu
fondamentale l’intervento dell’IRI.
L’IRI, infatti, per favorire la ricostruzione, inizia a vendere ferro e acciaio sottocosto in tutto il paese
(materie prime più importanti): questo fu molto importante perché durante gli anni 50 ci fu un forte
consolidamento e crescita della capacità produttiva nel paese (nonostante fosse un periodo di grande crisi e
perdite per tutto il mondo).
Oltre all’operato dell’IRI, per la ricostruzione dell’industria italiana fu importante anche l’operato del piano
Marshall.
1958 - Trattato di Roma: armonizzazione delle tariffe doganali tra i paesi aderenti e progressivo
abbassamento delle stesse:
Negli anni ’50 ci fu la firma del trattato di Roma, il quale introduce l’armonizzazione delle tariffe doganali
tra i paesi aderenti (ancora pochi ma i più grandi del periodo) e un progressivo abbassamento delle
stesse è il primo passo verso la realizzazione di un mercato unico (anche se in realtà in questo trattato
non si accenna minimamente al mercato unico).
L’Italia arriva al trattato di Roma dopo aver già completato un processo importante di ricostruzione, quindi
anche tale armonizzazione delle tariffe doganali dà un impulso importante alle esportazioni del paese: tra il
1959 e il 1964 si vive il periodo del miracolo economico, in cui il PIL del paese cresce in media del 9%
annuo, trainato dall’industria, la quale è trainata a sua volta dall’esportazione (modello di crescita
economica di quel periodo: modello export-import). Miracolo economico: accadono tante cose, ad esempio
per la prima volta, i fenomeni migratori sono all’interno del paese (da nord a sud) e non più dal paese verso
l’estero ciò va a rafforzare principalmente il polo industriale Torino-Milano-Genova, grazie all’afflusso nel
nord Italia di tanta forza lavoro.
Cosa succede negli anni ’60? Succede che, a seguito degli investimenti fatti in Italia, la produttività cresce
più rapidamente del salario e quindi il costo del lavoro per unità di prodotto diminuisce: l’industria è
diventata più efficiente.
Quando i salari crescono, si consuma di più (cresce la domanda): se la domanda cresce, per mantenere il
mercato in equilibrio è necessario far crescere anche l’offerta. Per fare ciò servono degli investimenti (
nuovi investimenti= nuovi impianti= aumento dell’offerta); se gli investimenti crescono, cresce la
produttività riparto l’anno dopo con lo stesso ciclo: questo è il meccanismo che ha favorito lo sviluppo
dell’economia italiana durante il miracolo economico, fino ad arrivare al primo anno di crisi che si ha nel
1964 (primo anno in cui non si ha l’abbassamento del CLUP e che dà il via a una crisi continua che arriverà
fino e oltre gli anni 70).
Nota: “La Malfa”: per la prima volta pone il problema relativo alla necessita che la crescita del PIL debba
essere parallela ad una crescita di tipo sociale (livelli di reddito e di popolazione).
Ci sono altri eventi importanti che incidono nella situazione degli anni’70:
• Fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 si torna nei mercati internazionali a un sistema di
cambi flessibili, dopo che dalla fine della Seconda guerra mondiale c’erano stati solo cambi fissi.
• Shock petroliferi (il primo nel 1973) si vive un aumento esponenziale del costo del petrolio e ciò si
riflette molto sui conti dei paesi privi di risorse energetiche (come era l’Italia).
Come risponde l’Italia alla crisi innescata soprattutto dagli shock petroliferi?
Si riprende l’idea dell’IRI. La differenza nell’operato dell’IRI tra gli anni ‘30 e gli anni ‘70, sta però nel fatto
che l’IRI (che non aveva venduto ancora niente) negli anni ‘70 inizia ad acquisire anche industrie in difficoltà
di ruolo non strategico, quindi inizia a svolgere un ruolo di acquisizione in funzione di ammortizzatore
sociale (=in funzione di protezione dei posti di lavoro). Quindi l’IRI entra in moltissimi settori dell’industria
italiana del tempo (anche non strategici) per promuovere un rilancio dell’economia del paese. L’IRI inizia ad
acquistare molto potere come polo industriale, anche a livello europeo.
Era però previsto che se la Banca Centrale di un paese avesse ritenuto non più sostenibile questo livello di
cambio, invece di intervenire nel mercato, avrebbe potuto ricorrere alla svalutazione o rivalutazione della
moneta.
In Italia si apre un dibattito molto importante sul fatto se l’Italia dovesse entrare a far parte o meno del
sistema monetario europeo:
Favorevoli= Partito di ispirazione cattolica (perché partito tradizionalmente europeista).
Contrari= Partito Comunista e Confindustria.
Nel '71 l'Italia ha un periodo di crescita dovuto alla svalutazione della lira.
Gli industriali non volevano aderire allo SME perché, con la fine del cambio fisso del ‘71, le imprese italiane
vivono un periodo di breve crescita favorito dall’indebolimento della lira meccanismo della svalutazione
competitiva: se ho una moneta debole, i prezzi dei beni realizzati in quel paese quando li esprimo in moneta
estera sono particolarmente convenienti (serve meno valuta estera per acquistare la valuta interna), quindi,
grazie al cambio, il bene del paese con la moneta debole risulta essere competitivo nei mercati
internazionali. Ciò ha un lato positivo nel brevissimo periodo perché mi permette di recuperare un po’ di
competitività; dall’altro ha un aspetto negativo perché il paese con la moneta debole non ha una vera
competitività industriale, ma solo apparente. Lo stesso ragionamento vale anche nel caso contrario: si
potrebbe avere un doppio effetto negativo.
QUINDI in Italia non volevano entrare nel sistema dell’ECU perché si sarebbe perso il vantaggio della
svalutazione competitiva.
Alla fine, il dibattito si esaurisce con l’Italia che entra nello SME con una banda di oscillazione di circa il 6%
(rimarrà così fino a più o meno il 1999) l‘industria italiana esce molto poco competitiva dal periodo di
svalutazione competitiva perché tale periodo aveva sì rafforzato le imprese nel mercato interno (facendo
pensare che lo fosse anche nel mercato internazionale), causando una riduzione molto elevata degli
investimenti.
Un parziale rilancio dello sviluppo industriale in Italia, si ebbe con la fine del paradigma fordista e con il
successivo rilancio delle produzioni di nicchia (si ha la fine dei mercati generalisti). Assistiamo, quindi, a un
rilancio della piccola e media impresa nazionale, molto dinamica.
Questo rilancio favorisce poi una nuova ripresa industriale verso la fine degli anni ‘80 e inizio degli anni ‘90.
Nel 1989, la commissione europea apre nei confronti dell’IRI, una procedura di infrazione. L’idea di base
era che, dato che nel mercato si scontravano le imprese pubbliche con le private, l’impresa pubblica doveva
competere sullo stesso livello delle imprese private.
Differenze tra impresa pubblica e privata: l’impresa pubblica è finanziata dallo stato, quindi quando va in
perdita è lo stato a procedere alla ricapitalizzazione lo stato però ha una possibilità di ricapitalizzare che
l’imprenditore privato non ha perché lo stato può cercare i fondi per la capitalizzazione anche attraverso il
debito pubblico: l’imprenditore privato ha una capacità di fondi molto più ristretta (per questo motivo, in
caso di perdita, l’impresa privata spesso è costretta a chiudere).
Per la commissione europea era questo il problema non vi era pregiudizio nei confronti dell’impresa
pubblica, ma si voleva solo evitare che l’impresa pubblica sfruttasse la particolarità del suo azionista di
riferimento (= ovvero la possibilità di emettere debito).
Conclusione della procedura: per la commissione europea, l’impresa pubblica per essere al pari dell’impresa
privata doveva vivere con risorse proprie: l’IRI era in perdita (dopo la crisi degli anni ‘70) e veniva
costantemente rifinanziato dallo stato. La commissione europea non era d’accordo, apre una procedura
d’infrazione e nasce il problema della privatizzazione dell’IRI.
Il procedimento di privatizzazione dell’IRI fece sorgere numerosi problemi per via delle grandi dimensioni
che tale polo industriale aveva raggiunto l’IRI era diventato un monopolista pubblico su molti settori
dell’economia italiana e nel processo di privatizzazione si rischiava di trasformare un monopolista pubblico
in un monopolista privato. Per evitare di sfociare nella creazione di un monopolio, il periodo di
privatizzazione dell’IRI si apre con una serie di diverse modifiche della legislazione in corso: 1990= prima
legge antitrust del paese.
3/05/2021
TUTELA DELLA CONCORRENZA: ANTITRUST
Analizziamo l’aspetto normativo e parallelamente il risvolto economico. Il ragionamento dell’aspetto
normativo è su tre diversi sistemi antitrust: Stati Uniti, Europa e Italia. Richiamando l’aspetto storico
giungeremo poi alle fattispecie economiche.
In questi anni, il senatore Sherman, propone al senato un dibattito basato sul fatto che le imprese possono
cospirare ai danni dei concorrenti e dei consumatori: questi processi di fusione vanno monitorati
attentamente, analizzati dal punto di vista legislativo, perché bisogna iniziare a fare delle valutazioni sul
fatto se i benefici di questi processi siano maggiori dei costi (dove i costi sono legati ai rischi di
consumazione). L’obiettivo primario era quello di regolare queste imprese in modo da evitare che venissero
effettuate delle fusioni tra imprese con il solo scopo di creare danni ai concorrenti e ai consumatori: in
particolare, si temeva che le grandi imprese potessero usare la loro dimensione per ridurre il benessere dei
consumatori, ma soprattutto con il fine di limitare l’ingresso di potenziali concorrenti sul mercato.
Questa legge contro la cospirazione delle imprese è stata emanata con lo Sherman Act, prima legge di
antitrust che conosciamo (1890). È una normativa che, in termini odierni, possiamo dire che va ad
analizzare il tema dell’abuso di posizione dominante: accordi orizzontali, cartelli ecc.
Un altro dibattito importante in materia ci fu quasi 30 anni dopo. Siamo tra il 1910 e il 1920. Lo sviluppo
dell’energia elettrica aveva permesso alle imprese di liberarsi dai vincoli imposti dalla macchina a vapore
(con la macchina a vapore potevo fare crescere l’impresa in termini di dimensione ma poi dovevo fare i
conti con le diseconomie di scala: con la macchina a vapore non si potevano fornire di energia le grandi
imprese). L’energia elettrica cambia completamente le tecniche di produzione, perché non presenta
diseconomie di scala e permette di produrre l’energia in luogo diverso da quello in cui viene consumata
inoltre, quando si usava solo la macchina a vapore, ogni impresa doveva avere all’interno dei suoi
stabilimenti i macchinari necessari per provvedere alla linea di produzione e alla sua alimentazione; con lo
sviluppo dell’energia elettrica invece, ciò non era necessario perché le imprese potevano concentrarsi solo
sulla produzione, acquistando l’energia necessaria per mandare avanti la filiera produttiva da altre imprese
che si occupavano proprio della gestione e distribuzione dell’energia elettrica.
L’energia elettrica ha permesso anche lo sviluppo del fordismo la diffusione dell’energia elettrica permise
lo sviluppo di un processo di modernizzazione degli USA: possibilità di aumentare le dimensioni delle
fabbriche (sfruttando meglio le economie di scala), cresce il fenomeno delle fusioni e concentrazioni e le
imprese si concentrano nella produzione senza pensare all’energia. Si riapre un dibattito sul tema del
controllo delle concentrazioni e delle fusioni: dato che il modo più semplice per far nascere una grande
impresa è procedere attraverso fusione o concentrazione, si riapre il dibattito riguardo alla necessità di
strumenti per un controllo delle concentrazioni, in modo da avere un’idea chiara di quando le
concentrazioni generano effettivamente dei vantaggi e quando queste sono finalizzate solo a rientrare nelle
fattispecie di cui nello Sherman Act. La fusione e la concentrazione possono avere due effetti:
Economie di scala maggiore efficienza. È un effetto positivo, perché vuol dire costi più bassi,
prodotti maggiormente disponibili ed espansione del mercato.
Cresce la dimensione dell’impresa cresce il potere dell’impresa. Effetto negativo dal punto di
vista normativo perché più un’impresa è grande e più possibilità ha di cospirare.
se lo Sherman Act va a regolare il comportamento della grande impresa, adesso (grazie all’ulteriore
sviluppo che l’industria americana sta conoscendo), ci si pone il problema di intervenire prima della nascita
della grande impresa e quindi permetterne la nascita solo in quei casi in cui si è sicuri che gli effetti positivi
in termini di efficienza siano maggiori degli effetti negativi (di cui il maggiore è il rischio di abuso di
posizione dominante) che ne possono scaturire.
Proprio sul filone di questa volontà, viene stipulato il Clayton Act nel 1914, che introduce il controllo delle
concentrazioni. Con il Clayton Act viene istituita anche la Federal Trade Commission, ovvero l’organo
governativo che ha il compito di valutare ed approvare la nascita delle nuove concentrazioni, valutando se
gli effetti positivi (legati all’aumento dell’efficienza) prevalgono sugli effetti negativi.
Racchiude due principi importanti:
La normativa antitrust non si applica ai lavoratori quindi i lavoratori possono riunirsi in un
sindacato (possono cospirare), le riunioni dei lavoratori non possono essere sanzionate secondo le
regole contro le riunioni imposte dall’atto;
“Il lavoro NON è una commodity” commodity= materie prime. Ciò implica che il prezzo del
lavoro (salario) non è dato, come per le commodity, dall’incontro tra domanda e offerta: il prezzo
delle commodity viene stabilito dalle leggi del mercato (dall’incontro tra domanda e offerta),
mentre il salario del lavoro NON può nascere solo da una contrattazione di mercato. Affermando
ciò, si dà la possibilità di introdurre una regolamentazione sui salari, come può essere la
regolamentazione sul salario minimo: questo proprio sulla base per cui, essendo che il lavoro non è
una commodity, è riconosciuto che il prezzo del lavoro non possa essere determinato solo da una
contrattazione di mercato, ma deve essere regolato da una legislazione apposita.
Il Clayton Act, oltre alle concentrazioni, regola anche le discriminazioni di prezzo, definendole come una
potenziale violazione della normativa. In particolare, sulle discriminazioni di prezzo e su tutto il tema delle
intese e restrizioni verticali, ci sarà un altro (nonché l’ultimo) intervento normativo dell’antitrust americana:
il Robinson Patman Act (1936) si occupa di disciplinare nel modo migliore possibile le principali
fattispecie di discriminazioni di prezzo, restrizioni verticali, integrazioni verticali, ecc.
Infine, nel 1950 viene chiarito un aspetto legato al Clayton Act: per come era stato impostato, questo si
applicava solamente alle fusioni in senso stretto e quindi agli scambi di azione. Per esserci fusione, se
considero un’impresa A con 3 impianti e un’impresa B con 3 impianti, il Clayton Act si applica solo se tra le
due imprese avveniva una fusione con lo scambio di azioni tra le imprese principiali. Le imprese all’epoca
però, per evitare che la fusione fosse oggetto di analisi svolta con i criteri del Clayton Act, invece di fare le
fusioni con lo scambio di azioni (cosa che doveva essere precedentemente autorizzata dalla Federal Trade
Commission) seguivano un altro metodo di fusione l’impresario dell’impresa A comprava gli stabilimenti
dell’impresa B (che quindi rimaneva senza), e a quel punto l’impresa B liquidava la somma che aveva avuto
dall’impresa A a favore dei suoi soci. Questo tipo di fusione, per come era stata scritta la legge, non era
soggetta al controllo della commissione perché tecnicamente non vi era fusione tra le due società, che
rimanevano indipendenti tra loro.
Nel 1950, con un ulteriore intervento normativo, fu chiarito che le norme sancite all’interno del Clayton Act
si applicavano non solo a livello societario, ma anche a quella che era la capacità produttiva: se io compro
la capacità produttiva di un’impresa (senza però comprarne le azioni, come nel caso di prima) sto
effettuando a tutti gli effetti una fusione e quindi questa doveva essere sottoposta al controllo della
commissione.
Con questi interventi normativi, la legislazione antitrust americana è rimasta inalterata fino a giorni nostri:
essendo un paese di common law, le leggi non cambiano, ma cambia l’interpretazione che viene fatta dalle
corti (il common law si basa sui precedenti legislativi e non sulla legge in sé).
Guardando alla normativa antitrust, possiamo dire che c’è stato un periodo di forte interventismo e
controllo (dal Clayton Act alla crisi del 1929), poi un periodo di applicazione più blanda della
regolamentazione antitrust (dalla crisi del 1929 alla Seconda Guerra Mondiale), per poi tornare a un grande
interventismo negli anni ‘60 (anche se cambia l’approccio: questo è meno concentrato sull’analisi delle
dinamiche competitive delle imprese e più concentrato sul consumatore) e poi dagli anni ‘70 in poi si
sviluppa la prassi ad oggi in vigore dell’antitrust americana, ovvero la prevalenza della discussione caso per
caso (non ci sono più fattispecie che di per se sono considerate lesive della concorrenza e quindi
sanzionate, ma si procede ad un’analisi accurata di caso per caso).
In Europa nel 1890, siamo lontanissimi dalla formulazione di una normativa antitrust, siamo lontani dalle
problematiche che avevano ispirato i dibattiti che avevano portato alla formulazione dello Shermann Act e
del Clayton Act, proprio per l’assenza nel territorio europeo di un mercato unico. Anche se si va avanti di 30
anni, l’Europa è caratterizzata ancora dalle piccole e medie imprese, la catena di montaggio non è ancora
ben sviluppata, la situazione economica è ancora fragile; inoltre, l’Europa dell’epoca non ha neanche un
mercato paragonabile a quello degli Stati Uniti.
L’Europa arriva alla fine della Seconda Guerra Mondiale senza una normativa antitrust.
Il primo paese a dotarsi di una normativa antitrust è la Germania, non per propria volontà, ma perché tra le
varie condizioni della resa incondizionata imposta alla Germania dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale, gli americani pretesero che il paese stipulasse una normativa antitrust: probabilmente all’epoca
c’era la convinzione che la ricchezza delle materie prime e la capacità tecnologica dei tedeschi avrebbe ben
presto permesso un rapido e facile rilancio economico del paese e quindi gli americani sentirono il bisogno
di imporre fin da subito un controllo di tale ripresa. La prima legge antitrust tedesca ricalca esattamente i
principi dello Shermann Act e del Clayton Act: fattispecie delle intese, restrizione della concorrenza (cartelli
e accordi orizzontali), abuso di posizione dominante e controllo delle concentrazioni.
Per molto tempo, questa è l’unica normativa in ambito antitrust a livello europeo. Solo con il trattato di
Roma si fanno passi avanti in tema antitrust: nel trattato di Roma ancora non c’è nulla di fondante e
immediato per quanto riguarda il mercato comune, è il primo passo verso quella direzione, ma ancora ci
sono molti miglioramenti da fare (nel trattato si parla di armonizzazione delle tariffe doganali).
Il fatto però di aver inserito l‘idea che un giorno ci sarebbe potuto essere un mercato comune in Europa,
crea il problema (anche se solo in prospettiva) della necessità di avere una normativa antitrust. In
particolare, si temevano problematiche come, ad esempio, la crescita delle dimensioni delle imprese. Per
questo motivo, vengono inseriti nel trattato di Roma, alcuni articoli che riprendono i temi principali dello
Sherman Act vengono ripresi: art. 81 (intese restrittive della concorrenza), art. 82 (abuso di posizione
dominante), non c’è il controllo delle concentrazioni perché allora era visto come l’imposizione di una
limitazione dei poteri dei singoli stati (tale controllo verrà introdotto solo nel 1986, grazie al lavoro di quella
commissione che poi porterà al trattato di Maastricht: mercato comune e moneta pubblica), art. 86, 87
(articoli sugli aiuti di stato) e art. 90 (sulle imprese pubbliche).
vengono riprese le normative principali della normativa antitrust, con l’aggiunta degli aiuti di stato e
delle imprese pubbliche. Sostanzialmente, ancora oggi, diverse normative della legislazione antitrust
riportano questi principi di base.
L’Italia è il paese in cui il dopoguerra è caratterizzato da due pilastri: Banca d’Italia (che con la riforma del
1936 diventa banca è centrale e quindi unico ente che emette moneta e titolare della politica monetaria) e
l’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI, che negli anni ‘70 assume dimensioni enormi, perché usato
nuovamente come metodo per rilanciare l’economia italiana). Il tema che si occupava di regolare l’IRI era
racchiuso nell’art. 90: imprese pubbliche e private possono coesistere sul mercato, a patto però che si
trovino sullo stesso livello, devono competere ad armi pari (il principale vantaggio che l’impresa pubblica ha
sulla privata è che il suo proprietario, lo stato, può indebitarsi emettendo titoli di debito pubblico e quindi
avrà sempre la possibilità di ricapitalizzare l’impresa in caso di perdita, cosa che invece non è accessibile a
un qualunque privato) per quanto riguarda l’impresa pubblica, la legislazione antitrust italiana si
concentrerà su questo aspetto e quindi si sancisce che lo stato non può rifinanziare costantemente
l’impresa pubblica, perché questo crea una distorsione nella competizione sul mercato pubblico: mette a
disposizione dell’impresa pubblica delle risorse potenzialmente illimitate che non sono a disposizione
dell’impresa privata.
Dato che a seguito della crisi degli anni ‘70 l’IRI era costantemente in perdita, la commissione nel 1989 apre
un contenzioso nei confronti dell’IRI per cui imponeva una scelta: o l’IRI veniva risanato una volta per tutte
o si provvedeva alla privatizzazione iniziò la privatizzazione dell’IRI: a questo punto però si pone il
problema del monopolio pubblico. Dato che l’IRI, grazie alla sua grande espansione, controllava quote di
assoluta dominanza o comunque molto importanti nella maggior parte dei mercati nazionali (non solo
strategici), con la privatizzazione si rischiava di trasformare monopoli pubblici (che non possono
trasformarsi in abusi perché è lo stato stesso che controllava quelle quote) in monopoli privati, quindi c’è il
rischio che i monopoli privati sfocino in abusi e illegalità.
Quindi, se fino a quel momento la situazione del mercato nazionale in Italia non aveva posto il problema di
avere una normativa antitrust, con la privatizzazione dell’IRI si crea il contesto favorevole per arrivare ad
avere la prima legge antitrust.
La prima legge antitrust che si ebbe in Italia fu emanata nel 1990, istituita dall’Autorità Garante
dell’Indipendenza del Mercato (AGCM, organismo indipendente che ha il compito di tutelare e di applicare
la normativa antitrust in Italia e la normativa riguardante la pubblicità ingannevole).
Sostanzialmente, dal 1990 ad oggi ci sono state due modifiche importanti:
Nel 1990 tutti i settori venivano sottoposti al controllo dell’AGCM, tranne il settore bancario: la
tutela della concorrenza del settore bancario, con la legislazione del 1990 era affidata alla Banca
d’Italia (unico settore in cui la tutela della concorrenza non spettava all’AGCM). L’AGCM poteva
dare in merito solo dei pareri non vincolanti. Nel 2005, a seguito dello scandalo che ci fu in merito a
una serie di fusioni controllate dall’allora governatore della Banca d’Italia, fu modificato
innanzitutto la carica di governatore (non più a vita, ma carica a tempo determinato) e poi anche il
rapporto relativo alla normativa antitrust: se prima la Banca d’Italia decideva su consiglio non
vincolante dell’AGCM, dal 2005 la tutela della concorrenza anche del sistema bancario fu affidato al
controllo dell’AGCM. È l’AGCM che decide su parere non vincolante della Banca d’Italia.
L’altra modifica, meno rilevante, riguarda il collegio giudicante. Nel 1990 il collegio giudicante era
composto di 7 membri (compreso il presidente), successivamente con il governo Monti viene
modificato a 3 membri (compreso il presidente).
Quali sono le fattispecie che vengono regolate e analizzate dalla normativa antitrust?
3 macro-blocchi:
Abuso di posizione dominante. Dal punto di vista antitrust è qualcosa di estremamente complesso.
Nello studio dell’abuso di posizione dominante non sono previste delle fattispecie specifiche che
determinano l’abuso, ma è proprio una condotta di valutazione asimmetrica che l’antitrust ha nei
confronti delle piccole imprese e nei confronti di quelle che detengono una rilevante quota di
mercato. Generalmente, la prassi considera la detenzione di una quota di mercato del 40% come
una posizione dominante: studiando il mercato poi l’autorità si può rendere conto dell’esistenza di
posizione dominante anche con una quota inferiore (in questo caso deve essere analizzato caso per
caso), però nel caso di quote di mercato maggiori o uguali al 40% si tratta sempre di posizione
dominante. Per dire se una quota di mercato è più alta o più bassa del 40%, è necessario
considerare le vendite del mercato rilevante: è fondamentale individuare qual è il mercato rilevante
a cui ci si riferisce (se cambia il mercato rilevante a cui ci si riferisce cambia anche il valore implicito
delle quote) tutti i casi di abuso di posizione dominante sono in realtà casi che si concentrano su
quale sia il mercato rilevante, perché questo è l’unico modo di capire effettivamente quando
un’impresa ha una determinata quota di mercato e qual è la capacità di essa, all’interno di un
determinato segmento, di influenzare il segmento stesso.
Ad esempio, Coca Cola che fa un contratto di esclusiva non si difenderà sul contratto di esclusiva in
sé perché è ovvio che lo sia, dato che sta vincolando il barista, ma si difenderà sul fatto che non è
un operatore dominante: se si considera come mercato rilevante il bere, Coca Cola in questo
segmento ha una quota del 12% (bassa). Se invece studio un caso di intesa orizzontale, di cartello,
nello stesso caso trovo 2 pagine su quale sia il mercato rilevante, perché a nessuno interessa
stabilire se il mercato è grande o piccolo, e trovo 98 pagine sul cartello, su come funzionava e su
perché non lo era.
Intese restrittive della concorrenza e le pratiche commerciali (sempre legate alla limitazione della
concorrenza: restrizioni verticali). Si considerano tali tutte le intese orizzontali. Il caso più
sanzionato di questo genere di fattispecie controllate dall’antitrust sono i cartelli. Le intese
orizzontali sono considerate le più nocive tra i funzionamenti del mercato perché sono
generalmente pochissimi gli effetti di efficienza che possono esservi collegati, mentre sono tanti gli
effetti negativi che causano e che si riversano sui consumatori (le intese orizzontali generano un
incremento dei prezzi) e sulla possibilità di entrata di nuovi entranti. Sono molto rare le intese
orizzontali fissate sul prezzo: tendenzialmente le intese si accordano sulla quantità. Infatti,
tendenzialmente la maggior parte di intese orizzontali che possiamo trovare nella realtà sono
finalizzate alla ripartizione delle quote di mercato.
Controllo della concentrazione. Si tratta di andare a fare un attento monitoraggio per quanto
riguarda vantaggi e svantaggi delle operazioni di fusione (per questo motivo è un tema abbastanza
dibattuto fin dall’origine della normativa antitrust). Vantaggio principale della fusione=
abbattimento dei costi, che porta a un miglioramento dell’impresa dal punto di vista dell’efficienza.
Svantaggio= la concentrazione è lo strumento più facile per aumentare la quota di mercato, quindi
può ricadere nella fattispecie dell’abuso di posizione dominante. Sul controllo delle concentrazioni,
negli anni, c’è sempre stato un forte dibattito tra Scuola di Harvard e Scuola di Chicago.
o La Scuola di Harvard guarda alla concentrazione come un elemento determinante della
collusione: un mercato concentrato è un mercato in cui prevale la cooperazione tra le
imprese piuttosto che la competizione, elemento che va a danno dei consumatori e dei
potenziali concorrenti che vogliono fare il loro ingresso nel mercato.
o La Scuola di Chicago invece propone una lettura diversa perché guarda alla concentrazione
come risultato finale di un processo di efficientamento: l’impresa più efficiente è quella che
ha conquistato la maggior parte del mercato e questa, per la scuola di Chicago, è la
soluzione più efficiente possibile.
Questo dibattito è stato molto importante, perché non è rimasto solo a livello teorico, ma molto
spesso i diversi esponenti si sono scontrati anche durante l’analisi di casi antitrust.
Ragionamento scuola di Harvard: il punto di ottimo è pari al punto blu, e questa è la soluzione
concorrenziale. In questa soluzione l’area formata dal triangolo A+B+C è tutto surplus del
consumatore, il massimo surplus possibile.
Partiamo dal classico equilibrio di concorrenza perfetta e immaginiamo di favorire un processo di
efficientamento del mercato, attraverso delle operazioni di fusione. L’effetto di questo processo
potrebbe essere un abbassamento dei costi: l’abbassamento dei costi fa sì che rimanga un’unica
impresa nata dalle fusioni, e questa non praticherà più un prezzo uguale al costo marginale ma
praticherà un prezzo ottenuto da MC’=MR. Si ottiene il prezzo P M che è il prezzo di monopolio post
fusione.
L’efficienza allocativa il monopolio post-fusione è migliore o peggiore della concorrenza pre-
fusione? Mi concentro sull’efficienza allocativa, quindi mi concentro sui surplus totali.
Surplus totale pre-fusione: è dato dall’equilibrio di concorrenza perfetta, quindi corrisponde alle
aree A+B+C.
Surplus totale post-fusione: ottenuto dal monopolio (guardo solo all’efficienza allocativa),
corrisponde alle aree A+B+D (A del consumatore e B+D del produttore).
Esaminando l’aspetto allocativo, si stava meglio con la concorrenza perfetta o con il monopolista più
efficiente? Dipende: se guardo l’analisi dei due surplus capisco che le aree sono distribuite
diversamente, però B e D sono esattamente identiche (quindi non creano problemi), invece nel
passare dalla concorrenza al monopolio ho perso l’area C per guadagnare l’area D il monopolio è
più efficiente della concorrenza se vale che D>C (secondo la Scuola di Chicago). Quindi finché D>C,
conviene l‘efficientamento del mercato favorendo le fusioni.
L’efficienza della fusione però dipende soprattutto dalla differenza tra MC e MC’: tanto maggiore è
la differenza tra MC e MC’, tanto è più probabile che l’efficienza della fusione vada a coprire la
perdita dovuta al monopolio rispetto alla concorrenza perfetta.
Attenzione, l’errore implicito che fa Harvard è che il punto di intersezione tra i nuovi costi marginali
e la domanda non è un punto che esiste, perché o sei monopolista e hai quella funzione dei costi o
pratichi concorrenza perfetta, quello sarebbe il punto della concorrenza perfetta del monopolista
efficiente ma è un controsenso.
Esistono dei settori che beneficiano in qualche modo di esenzioni ai sensi della normativa antitrust tutto
ciò che riguarda la ricerca e lo sviluppo: concentrazioni, intese, ecc. tutte beneficiano di esenzioni.
L’altro argomento che viene solitamente usato per difendere le fusioni all’interno dei casi antitrust è quello
dell’impresa in fallimento: qualsiasi fusione che riguarda un’impresa che senza fusione potrebbe fallire
viene vista con un occhio diverso dall’autorità antitrust tema della failing firm defence.
Cosa è peggio dal punto di vista dell’efficienza: avere il fallimento di un operatore del mercato o un
aumento della concentrazione? La tesi della fusione per salvare l’impresa si basa proprio su questo
concetto, sfrutta il fatto che la fusione salverebbe un’impresa.
In altri casi le concentrazioni possono essere (caso più specifico) autorizzate con delle prescrizioni: autorizzo
la concentrazione ma sottopongo l’impresa che nasce dopo la fusione a delle condizioni che possono essere
sia comportamentali che collegate solo al monitoraggio (per avere maggiore trasparenza). In particolare,
soprattutto se la fusione comporta la potenziale restrizione della concorrenza, può essere imposto
all’impresa che nasce dalla fusione di condividere con i concorrenti una serie di asset specifici. Nel caso in
cui vengano imposte delle condizioni, queste verranno poste prima dell’accettazione della fusione: queste
condizioni potrebbero richiedere all’impresa post-fusione, per esempio, di condividere degli asset con i
concorrenti per favorire questi ultimi o di uscire da determinati mercati.
Come si fa a capire se un mercato deve essere tutelato o meno? Uno degli aspetti più utilizzati in questo
caso è lo studio degli indici di concentrazione. Uno degli indici più utilizzato dall’antitrust è l’indice HH:
sommatoria di tutte le quote di mercato al quadrato. Questo indice, nell’uso della pratica dell’antitrust
(quindi della valutazione dei vari mercati) viene moltiplicato per 10000 in modo tale che si parli di punti.
Generalmente un valore HH>2500 rappresenta un mercato relativamente concentrato i 2500
rappresentano la soglia di concentrazione del mercato.
Altro elemento centrale della normativa antitrust riguarda la pena che si collega agli atti di restrizione della
concorrenza: l’autorità deve dare un deterrente forte alle imprese nell’affrontare determinate pratiche.
Questo deterrente è rappresentato dalle multe e quindi dalle sanzioni che l’antitrust può decidere di
applicare in questi casi.
Per quanto riguardo l’Europa (e quindi l’Italia), il meccanismo di definizione della sanzione è stabilito da un
regolamento della commissione europea: questo prevede che, in primo luogo, si debba identificare il valore
delle vendite (= fatturato dell’impresa limitato ai prodotti/mercato rilevante di cui si occupa il contenzioso);
questo valore delle vendite, a secondo della gravità della condotta dell’impresa, deve essere moltiplicato
per un valore che va dal 5% al 30%; può essere inoltre aggiunto un ulteriore 15% in caso di cartello; una
volta fatto questo calcolo, questo deve essere moltiplicato per gli anni per cui è stato individuato il
comportamento scorretto.
Esiste un programma di clemenza: è previsto uno sconto del 100% alla prima impresa che ha collaborato
(portando degli elementi essenziali per individuare il comportamento scorretto); è previsto uno sconto del
50% o più alla seconda impresa che ha collaborato (portando altri elementi fondamentali per individuare
altri eventuali illeciti); è previsto uno sconto del 20% o più per la terza impresa. Ulteriore sconto, dopo la
sanzione, del 10% nel caso in cui l’impresa sanzionata non faccia appello (accetta di pagare
immediatamente la sentenza e la paga entro i termini previsti).
La sanzione potrebbe arrivare ad essere anche molto elevata e quindi, come conseguenza, potrebbe anche
causare il fallimento dell’impresa in questione non è scopo dell’autorità antitrust portare le imprese al
fallimento, per questo scatta la clausola di salvaguardia: complessivamente, la sanzione non può mai
essere superiore al 10% del fatturato dell’impresa dell’anno precedente. Questo perché la soglia del 10% del
fatturato dell’anno precedente è considerato qualcosa di sostenibile per l’impresa.
In generale, quando si calcola la sanzione, il valore delle vendite da considerare è solo quello relativo al
prodotto per cui l’impresa riceve la sanzione, mentre quando si calcola il 10% del fatturato dell’anno
precedente si considera il fatturato complessivo dell’impresa (sarà quindi considerato, in caso di impresa
multi prodotto, anche il fatturato proveniente dagli altri prodotti).
Caso delle imprese controllate (multinazionali): a che livello si applica la salvaguardia del 10%? Non si
applica sull’impresa oggetto della sanzione, ma si applica sul fatturato del gruppo (quindi anche per
considerare in quali casi scatta la clausola di salvaguardia si deve considerare il fatturato complessivo del
gruppo).
Caso Microsoft: caso molto famoso perché è stato uno dei pochi casi in cui c’è stata una decisione diversa
tra l’antitrust americana e quella europea. Alla fine degli anni ‘90, lo sviluppo del commercio internazionale
e della globalizzazione, ha portato a discutere di alcuni casi di antitrust (tra cui il caso Microsoft) su diversi
livelli: nel caso di Microsoft, e di molti altri, possono essere applicate sentenze sia dell’antitrust americana
che di quella europea in questi casi emergono le grandi differenze tra i due tipi di antitrust: Microsoft
viene sanzionato in Europa e considerato non colpevole negli USA per un caso di abuso di posizione
dominante.
04/05/2021
LA REGOLAMENTAZIONE DEI MERCATI
tema della regolazione economica (capitolo 21)
Lo Scognamiglio sposa la politica industriale di tipo orizzontale: tale politica si basa sul fatto che l’intervento
pubblico è legato a particolari settori di attività economica che si ritengono importanti nella misura in cui
forniscono dei fattori produttivi utilizzati da altri settori economici, e intervenendo su tali fattori si può
ottenere un risultato migliore favorendo e promuovendo tutte le altre attività economiche; è una forma di
intervento ritenuta meno invasiva in quanto non viene scelto un determinato settore in termini di
“promozione d’impresa”, ma si sceglie un settore sulla base del fatto che in quei particolari ambiti di attività
possono emergere talune problematiche legate al funzionamento del mercato. Se questo è vero si sta
declinando l’intervento pubblico come associato a specifiche esigenze, le quali sono in parte connesse
all’analisi dei “fallimenti del mercato”.
Il tema della regolazione economica riguarda il fatto di far emergere il rispetto delle regole e che dunque
l’intervento dello Stato debba essere regolato attraverso le stesse. In particolare, si tratta un sistema che
prende il nome di regolazione economica ed è un insieme di forme e di misure, esplicite ed implicite, con le
quali si tenta di promuovere un determinato risultato. Una necessità rispetto alla sfiducia che si ripone nella
capacità degli stessi agenti economici di ottenere un risultato economico coerente con gli obiettivi previsti,
se lasciati liberi di operare.
L’ottica con la quale cerchiamo di analizzare il problema della regolazione fa riferimento all’analisi positiva
che cerca di spiegare il funzionamento del sistema economico e, in questo caso, le ragioni dell’intervento
regolatorio. Questo tipo di analisi cerca di fare ciò attraverso la spiegazione dei fenomeni economici, fatta
mediante la formulazione di ipotesi e la verifica delle stesse.
L’analisi normativa, invece, porta con sé un giudizio di valore: dato l’obiettivo da raggiungere, la lettura che
diamo al sistema economico e/o alla regolamentazione deve essere funzionale al conseguimento
dell’obiettivo, dunque consiste nel giudicare le misure sulla base delle capacità che esse hanno di
raggiungere l’obiettivo stesso.
Proviamo a ragionare su questa distinzione basica, affrontando le diverse teorie e proposte che vengono
date sull’intervento regolatorio.
La teoria dell’interesse pubblico è legata all’idea che l’intervento pubblico di regolamentazione economica
debba essere limitato agli ambiti nei quali le interazioni tra operatori economici generano risultati non
efficienti sotto il profilo allocativo.
Il metro di giudizio è quello della concorrenza perfetta: si guarda ai mercati e, nei casi in cui i risultati
economici non sono coerenti con i risultati di efficienza allocativa, viene richiesto l’intervento economico
che cerca di produrre risultati simili qualora il mercato non ne sia in grado. L’intervento regolatorio va a
identificare gli ambiti di applicazione nei casi di fallimenti o di presenza di imperfezioni di mercato
perfettamente concorrenziale. Si interviene dunque nel momento in cui si riscontra un fallimento di
mercato, e proprio perché in presenza di quest’ultimo non si ottengono risultati di efficienza allocativa, si
interviene nell’ottica di replicarne i risultati.
La teoria dell’interesse pubblico ha tre principali assunti:
• Il regolatore è onnisciente (quando si interviene con un intervento pubblico, egli detiene una
perfetta informazione) e benevolo (soggetto che massimizza il benessere sociale e la
massimizzazione dell’efficienza allocativa); in ciò si traccia una distinzione importante tra un
intervento pubblico di regolazione che ha come obiettivo l’efficienza allocativa e l’intervento di
carattere pubblico che può avere finalità diverse, genericamente identificate nella natura politica
(inclusi quelli che sono gli interventi di carattere redistributivo),
• Il regolatore è interessato alla sola efficienza:
o La redistribuzione delle risorse è una decisione propria della politica (la distinzione tra
autorità di regolazione e istituzioni politiche discende dall’economia normativa moderna).
• L’intervento regolatorio è privo di costi e non genera distorsioni: essendo un regolatore
onnisciente e intervenendo con prospettiva benevola, quando interviene lo fa con il solo obiettivo
di raggiungere un determinato risultato senza creare ulteriori distorsioni o problemi al normale
funzionamento del mercato.
2. Esternalità le esternalità rappresentano delle situazioni in cui gli operatori di mercato, nel
prendere le proprie decisioni di consumo o di produzione, sono indotti a trascurare le ricadute degli
effetti negativi o positivi di tali decisioni sui soggetti terzi. Nel caso di esternalità di produzione, si
tratta di esternalità che riguardano i ricavi e i costi conseguiti con i vari processi industriali, ma che
non sono in grado di esprimere il reale impatto che l’attività ha generato sulla società e/o
sull’ambiente; sono legate al tema della decarbonizzazione dei sistemi economici. Le esternalità
alterano il funzionamento di mercato in quanto impediscono al prezzo del bene o del servizio di
sintetizzare tutte le informazioni rilevanti per la conclusione dello scambio. In particolare, in
presenza di esternalità negative, il prezzo non riflette il costo sociale del comportamento di
domanda o di offerta e si avrà, rispettivamente, un consumo e una produzione superiore all’ottimo,
mentre in caso di esternalità positive, si avrà un consumo o una produzione inferiore all’ottimo.
Non va dimenticato che l’intervento regolatorio può riguardare anche un diritto di proprietà di un
brevetto nel caso in cui venga sviluppata un’innovazione, al fine di tutelare chi svolge attività che
potrebbero generare esternalità positive connesse alla diffusione della stessa innovazione o allo
stimolo di innovazioni successive che però non verrebbero sviluppate nel caso in cui non fossero
tutelate.
Pensiamo ai cd beni di merito, questi sono beni che vengono ritenuti essenziali per una vita dignitosa e per
il benessere dell’individuo e per tale motivo si decide che vengano resi accessibili a tutti. Il tema, che in
apparenza non sembrerebbe economico, in realtà lo è: nel momento in cui in un qualsiasi mercato non si
riesce ad acquistare un determinato bene, o si trova un sostituto o si decide di comprarne altro,
evidentemente non si ha sufficiente disponibilità a pagare per acquistare quel determinato bene. Per molti
di questi beni non c’è un sostituto e, nonostante ciò, sono ritenuti comunque importanti ed essenziali per la
vita di ciascuno di noi. Pensiamo ad esempio all’energia elettrica. Il tema è che determinati beni li
consideriamo essenziali perché sono il frutto di un processo graduale di decisioni politiche che ci hanno
portato a considerarli tali, rispetto anche al fatto che ci sono dei vantaggi economici legati a questa
tipologia di servizi, anche dal punto di vista di reddito ed occupazione di un determinato territorio.
Gli interventi ridistributivi invece sono tutti quegli interventi regolatori che hanno come obiettivo quello di
definire prezzi diversi per categorie di consumatori diversi. Si riprende in questo caso il tema delle
discriminazioni di prezzo, si fa cioè riferimento al fatto che vengono stabiliti prezzi diversi per consumatori
con esigenze diverse. In merito all’energia elettrica, ad esempio, si suddivide la popolazione per fasce di
reddito, ovvero per aree geografiche o per grandi e piccoli consumatori, e sulla base di ciò si stabiliscono
prezzi minori o maggiori. Questa tipologia di scelte è sia di carattere redistributivo che di carattere
economico: si parla di perequazione (distribuzione sulla base di criteri di equità e pareggiamento). Chi vive
su un’isola dovrebbero sopportare un costo per l’energia elettrica maggiore perché la produzione di energia
è più costosa, ma, al fine di avere situazioni omogenee sul territorio, si può scegliere di far pagare a tutti i
consumatori lo stesso prezzo, a prescindere dalla localizzazione geografica, per promuovere uno sviluppo e
una crescita omogenea su tutto il territorio. Gli interventi distributivi risultano inoltre di fondamentale
importanza se trasliamo il ragionamento fatto finora sul tema degli investimenti infrastrutturali.
Le difficoltà di leggere i fallimenti, unite alle difficoltà di distinguere il confine tra le motivazioni di ordine
redistributivo/sociale e quelle di ordine economico/efficiente, fanno ben comprendere come la definizione
degli ambiti di intervento finisca per essere una scelta frutto della comunità che decide quale rilevanza
attribuire ad una attività economica piuttosto che un’altra, sebbene è sicuro che tutta una serie di sistemi
economici, quali quelli infrastrutturali, abbiano un posto di rilievo in questo senso.
La conclusione cui tendono queste teorie è che la regolazione è essenzialmente una redistribuzione della
ricchezza e non è un modo per accrescere la torta. Non vogliono e non ha come obiettivo quello di
incrementare il surplus sociale, piuttosto di redistribuirlo. Questo crea ovviamente una perdita di efficienza
che porta ad una riduzione del benessere complessivo. La concorrenza per la rendita dalla regolazione
porta solo ad uno spreco di risorse ed i fallimenti di mercato sono irrilevanti. In particolare, questi sono solo
una scusa per giustificare l’intervento del governo, e questo è coerente con il precedente discorso: se
facciamo una lista dei settori e dei fallimenti vediamo che pressoché tutti i settori presentano problemi di
quel genere, di fronte a questo, le teorie della regolazione privata propongono di non chiedere l’intervento
dello stato e di lasciare il più ampio spazio possibile al mercato perché è in grado di autoregolarsi.
Parallelamente a queste teorie ce ne sono altre, che vanno ad affinare alcuni aspetti e legano i due
principali contributi di queste due proposte teoriche. In qualche modo mediano il fatto che la regolazione
non sia semplice, che ci siano costi associati ad essa, nonché delle problematiche e che in ogni caso bisogna
sempre comprendere se lo strumento regolatorio è lo strumento migliore per ottenere risultati piuttosto
che altre forme di intervento, compresa la possibilità di non intervenire.
L’idea che è alla base di questo concetto è che in qualche modo sia desiderabile la presenza di un unico
soggetto che opera sul mercato, perché i migliori risultati qui non sono legati alla numerosità delle imprese.
Il modo con cui si legge questa situazione è legato sia alla domanda che all’offerta. Infatti, la situazione di
monopolio naturale non è limitata a quei casi in cui sono presenti, in un intero tratto della curva di costo
medio di lungo periodo, economie di scala. Questa condizione per il monopolio naturale è necessaria ma
non sufficiente, perché si deve definire anche il lato della domanda. Avendo in mente qual è la domanda
che si deve soddisfare, è possibile verificare la sussistenza di condizioni di sub additività della funzione di
costo, ovvero condizioni per cui è desiderabile che ci sia un unico operatore perché quell’operatore
consente di avere i costi di produzione più bassi.
n n
Sub additività della funzione di costo: c [ X ] < ∑ c [ xi ] per ogni ∑ x i= X .
i=1 i=1
Data una funzione di domanda inversa p=f (x), un’industria si trova in monopolio naturale se la funzione di
costo è sub additiva per ogni x tale che:
π [ x ] =f [ x ]∗x−c [ x ] ≥ 0
Il modo meno costoso di produrre consiste nel far produrre tutte le 𝑿 unità a una sola impresa.
In generale, una funzione di costo è sub additiva se la funzione di costo medio è decrescente, ma è tuttavia
possibile se la funzione di costo medio è crescente.
Nella realtà ci sono tantissimi esempi di settori in questa condizione, per esempio alcuni settori ritenuti
monopoli naturali sono quelli che fanno riferimento alle telecomunicazioni, al trasporto pubblico locale e a
tutti quei servizi che definiamo in qualche misura pubblici. Qui abbiamo presente che si potrebbe generare
una situazione, mentre da un lato ci aspettiamo che la fornitura di questi servizi sia per tutti, se non
opportunamente regolato è possibile che qualcuno entri e prenda soltanto alcune parti del mercato – se io
fornisco rete internet, mi converrebbe entrare solo negli ambiti in cui vi è molta domanda potenziale,
ovvero in città, perché lo stesso investimento che faccio può essere destinato a fornire un numero di
persone molto più rilevante di quello che fornirebbe quello stesso investimento ma in un diverso luogo;
stesso ragionamento per un servizio di trasporto. Questo aspetto qui è reso attraverso il concetto di
monopolio naturale, ovvero io ho deciso che devo servire tutto un territorio e quell’ambito geografico può
essere servito ad un costo inferiore qualora si accentri tutta la produzione in un unico soggetto, il quale
naturalmente deve fornire sia la parte dell’area geografica con un elevato potenziale di clienti, sia la parte
dove la densità di popolazione è estremamente più bassa: se si uniscono le due aree immaginando che
possano essere fornite ad un costo più basso con un’unica impresa, si sta sostanzialmente delimitando il
perimetro del servizio stesso. È evidente che però se quel servizio non viene protetto dall’ingresso di altre
imprese, queste andranno a scegliersi i segmenti migliori di mercato, lasciando all’impresa in questione
(obbligata a servire tutti) solo quelle parti meno redditizie – cherry picking. Quindi, aldilà della teoria, da un
punto di vista pratico, quello che interessa ad un’impresa in questi settori è quale e quanta domanda deve
servire e poi soprattutto un’analisi dei costi necessari per fornirla. Il lato empirico dipende dalla domanda.
Chi ha detto che dobbiamo fornire tutti? Chi ha detto che i servizi debbano raggiungere anche le aree
periferiche? È evidente che qui c’è un intervento pubblico che è teso a definire la dimensione geografica del
servizio. Dove portiamo un investimento in banda larga? Tutte queste scelte portano ad una certa
confusione tra gli ambiti economico e sociale che abbiamo visto nella tabella. Ci deve essere una decisione
a monte di qualcuno che dice che un’impresa o più imprese, a seconda di quale condizione è più efficiente,
debbano fornire un certo numero di cittadini, in che area geografica e come, in termini di accessibilità,
fornire il servizio e a quali prezzi. Questo da l’idea di quale sia il tema del monopolio naturale e quanto sia
poi concretamente difficile separare l’aspetto di decisione politica rispetto al modo attraverso cui si pensa
di raggiungere quel determinato obiettivo. Qual è questo obiettivo politico-economico a monte? Garantire
un benessere più o meno equo a tutti in termini di accesso a taluni servizi? In questi ultimi anni, dalle
privatizzazioni in poi, si è pensato che questa preoccupazione potesse in qualche modo venire meno, nel
senso che lasciare al mercato la fornitura di tali servizi significa pensare che questi servizi siano in gran
parte analoghi a un qualsiasi prodotto o bene sul mercato: se tale prodotto c’è bene, se non c’è ma c’è un
sostituto ad un prezzo inferiore bene, se non neanche il sostituto c’è pazienza.
Perché deve essere fornito un servizio di trasporto che garantisca metro, tram, autobus ecc.? Qualcuno lo
ha deciso. Si tratta di servizi infrastrutturali perché fanno riferimento alla struttura economico-sociale e
aiutano a migliorare la struttura stessa, ma una decisione di cosa sia infrastrutturale e cosa non lo sia è a
monte.
Solo dopo questa decisione, ci si può chiedere come far gestire al meglio il servizio dal fornitore, soprattutto
rispetto al tema tariffario. La decisione sul prezzo si fa a valle. Premesso che sia stato definito che possano
esserci condizioni di monopolio naturale in un certo settore, che sia stata definita anche la struttura di
costo, il che significa che è stato scelto come fornire il servizio (ci sono anche casi di complementarietà o
sostituibilità dei servizi – trasporti), e che sia stata identificata per questo un’impresa, il monopolista
potrebbe essere tentato di sfruttare la sua posizione di mercato, e sappiamo bene che la prima tentazione è
quella di aumentare i prezzi, diminuendo la quantità acquistata dai consumatori. Così facendo vanifica tutto
lo sforzo che è stato fatto finora in termini di ragionamenti. Emerge quindi un problema di regolazione del
prezzo, tenendo conto che se si lascia l’iniziativa all’impresa cui è stato affidato il servizio, questa potrebbe
abusare della propria posizione.
TEORIA DELL’OPTIMAL PRICING: al fine di regolare i monopoli naturali si ricorre alla teoria dell’optimal
pricing, ovvero quell’ambito di regolazione che ha come obiettivo la definizione del prezzo dei beni.
L’obiettivo della teoria dell’optimal pricing è quello di definire il prezzo (tariffa) dei beni prodotti dal
monopolista regolato. Questo ambito negli anni si è di molto ridotto, limitandosi a talune situazioni.
Come è possibile adeguare le tariffe nel tempo per riflettere mutamenti nei costi e nelle condizioni di
domanda? Come incentivare le imprese regolate a migliorare il proprio servizio? Si hanno due possibili
soluzioni:
1. Regolazione del saggio di rendimento del capitale (ROR o cost plus)
2. Price cap o regolazione per incentivi - imposizione di un vincolo sui prezzi
ROR:
Il regolatore si propone di fissare un tetto al tasso di profitto massimo dell’impresa: l’impresa è spinta
a definire un livello delle tariffe che sia coerente con quel livello di profitto, in modo da coprire i costi
sostenuti e da realizzare un’equa remunerazione sul capitale investito (schema USA).
profitti
r= ≤5
capitaleinvestito
Sto risolvendo il problema dando all’impresa il compito di rimodulare le tariffe sulla base delle condizioni di
mercato. Se l’impresa eccede il saggio di profitto è imposta una revisione tariffaria al ribasso (e viceversa).
In termini operativi, il metodo consiste nel definire un volume massimo di ricavi uguale alla somma dei costi
operativi sostenuti dall’impresa e di un’equa remunerazione del capitale investito, un mark-up, si tratta di
un sistema cost plus.
RR = OC + rB
Dove: RR è il cosiddetto revenue requirement; OC sono i costi di esercizio, inclusi gli ammortamenti e le
imposte; r è il rendimento del capitale; B è il capitale investito («regulatory asset base»)
Come definire il capitale investito (B) e il saggio di rendimento (r): investimenti “used and useful” e decisioni
di investimento prudently incurred; CAPM: saggio di rendimento deve porsi in competizione con altre
forme di investimento che presentano un grado di rischio comparabile.
Problemi in presenza di rilevanti asimmetrie informative: può facilmente condurre a inefficienza, sia tecnica
che allocativa in quanto genera un incentivo a sovrainvestire in capitale al fine di incrementare il livello
assoluto dei profitti (effetto Averch e Johnson)
• Inefficienza produttiva → l’impresa impiega troppo capitale;
• Inefficienza allocativa → la produzione avviene a costi più elevati.
PRICE-CUP:
Il regolatore fissa un livello della tariffa che è indipendente dal costo reale osservato, ma basato ad esempio
su un livello di costo atteso, eventualmente modificato nel tempo per tenere conto delle spinte
inflazionistiche e dei mutamenti della tecnologia. Significa che la variazione di prezzo che si riconosce
all’impresa può dipendere da tre fattori: I, X, Y. L’obiettivo è quello di spingere l’impresa a ridurre i costi,
anche oltre di quanto concordato. L’impresa rimane beneficiaria in via residuale delle riduzioni di costo (è
questo l’elemento incentivante) oltre quelle definite dal regolatore. Il regolatore definisce un livello iniziale
delle tariffe e disegna un meccanismo di adeguamento delle stesse nel tempo su un intervallo regolatorio di
durata prestabilita T.
p t− p t−1
≤ I − X +Y per t= 1, …, T
pt −1
Dove: I è il tasso di inflazione; X è l’incremento di produttività; Y è il trasferimento sul prezzo di costi fuori
controllo non riflessi in I.
Problemi applicativi:
1. Applicazione del vincolo in caso di più servizi/prodotti (paniere di servizi);
2. L’indice dei prezzi: in teoria indice dei prezzi che tiene conto delle variazioni degli input del
processo produttivo, nella pratica riferimento è RPI;
3. Il valore di X: livello deve essere definito in modo tale da consentire all’impresa di coprire i costi,
remunerare il capitale investito e fornire un adeguato incentivo agli investimenti.
10/05/2021
CASI ANTITRUST:
Analizzeremo tre casi: 2 casi di antitrust, uno di pubblicità ingannevole con implicazioni nell’antitrust. I 2
casi di antitrust in senso stretto riguardano uno un caso di integrazione verticale e l’altro un caso di
restrizione verticale. Il terzo caso invece è di pubblicità ingannevole: la pubblicità ingannevole in Italia è
materia di cui si occupa sempre l’antitrust.
Ogni volta che viene presentato un caso si apre una fase detta istruttoria, durante la quale l’ufficio
incaricato di svolgere la pratica ha il ruolo dell’accusa: il funzionario incaricato è colui che analizza il caso,
raccoglie le prove e poi presenta le sue conclusioni al collegio giudicante, che poi farà le sue valutazioni.
Dall’altro lato, alle imprese/impresa a cui viene contestata una condotta ai sensi della legge antitrust viene
data la possibilità di presentare le proprie memorie, ovvero documenti a loro favore, davanti al collegio
così che le stesse imprese possano ricostruire la situazione sulla base delle tutele garantite
dall’ordinamento giudiziario italiano il funzionario e, dopo, il collegio giudicante trarranno le loro
conclusioni da quelli che sono i documenti che vengono presentati per il caso (anche le memorie
presentate dall’impresa contestata).
I funzionari che si occupano del caso cooperano con un nucleo speciale della guardia di finanza, preposto a
fare le indagini: tramite la collaborazione con questo nucleo speciale della guardia di finanza, li funzionari
possono svolgere delle ispezioni o intercettazioni quando lo ritengono necessario.
Al termine di tutta a fase istruttoria c’è il deposito delle considerazioni da parte degli uffici che hanno
svolto l’indagine, c’è il deposito dell’impresa di una memoria difensiva (tempo 60 giorni) e
successivamente c’è il dibattimento: c’è un unico dibattimento (unica udienza), in cui alla presenza del
collegio, sia gli uffici (funzionari/collaboratori) che i consulenti dell’impresa, possono presentare le loro
considerazioni.
Esaurita questa fase il collegio valuta e emette il provvedimento che ritiene consono.
Il processo antitrust, nel nostro ordinamento, è inserito all’interno del processo amministrativo e quindi
come tutta la procedura amministrativa, contro il provvedimento dell’AGCM, le imprese possono ricorrere
al TAR del Lazio (come 2° grado di giudizio) e successivamente la sentenza del TAR del Lazio può
eventualmente essere appellata dalle imprese al Consiglio dello Stato (3° grado di giudizio). Il ricorso in
2°grado deve essere presentato obbligatoriamente al TAR del Lazio, perché l’AGCM ha sede a Roma.
Non c’è un vincolo per quanto riguarda eventuali procedimenti da seguire per l’apertura di un’istruttoria,
può iniziare su segnalazione di una qualsiasi persona. Un caso famoso in Italia che ha sancito proprio questo
principio è stato il Caso della Barbie ballerina (metà degli anni ‘90): la pubblicità di questa Barbie mostrava
una bambola che era in grado di ballare (autonomamente). In questo caso, il TAR avviò l’istruttoria sulla
base di una denuncia arrivata all’autorità antitrust a mezzo di una lettera scritta da due bambine, che si
dissero molto deluse dal giocattolo perché guardando la pubblicità avevano avuto la sensazione che
ballasse da sola, mentre una volta comprata si sono rese conto che era una semplice Barbie. All’inizio
l’impresa delle barbie presentò come memoria difensiva un documento attraverso cui considerava inadatto
aprire un’istruttoria sulla base di una lettera scritta da minori: il TAR però ha continuato il dibattimento e
l’analisi del caso in sé, ribadendo proprio che le denunce di comportamenti sospetti possono arrivare da
CHIUNQUE. In questo caso venne aperta un’istruttoria di pubblicità ingannevole nei confronti dell’impresa,
la quale alla fine del procedimento fu considerata colpevole. Altro caso molto importante è stato quello
della Coca-Cola del ‘99: è importante perché fu uno dei primi casi in Italia in cui venne adottato il
procedimento Europeo (speed test, detto anche test dell’ipotetico monopolista) per la definizione del
mercato rilevante.
Le multe che scaturiscano dai provvedimenti dell’autorità antitrust possono essere anche molto elevate.
Il caso che vede protagoniste Poste Italiane e nexive Group è un caso abbastanza recente, si è concluso nel
dicembre 2020.
Generalmente tutti i provvedimenti antitrust hanno una struttura simile: inizialmente vengono descritte le
imprese coinvolte, poi la tipologia di caso (se parliamo di integrazione, di restrizione, ecc.) e poi si passa
all’analisi delle singole fattispecie.
Al primo posto nell’analisi c’è sempre la definizione del mercato rilevante. La definizione di tale aspetto può
essere più o meno complessa da fare, in base alla complessità del caso.
Questo caso riguarda il servizio postale: fusione tra poste italiane e un servizio postale privato. Il servizio
postale è un servizio regolamentato, soprattutto per quanto riguarda la parte di servizio postale detta
“servizio universale”. Essendo un’attività regolamentata, non c’è bisogno di analizzare il mercato rilevante
perché la regolamentazione già segmenta il servizio postale in differenti mercati con l’obiettivo di
individuare il segmento di servizio universale.
Servizio universale= quel tipo di servizio che deve essere garantito a tutti gli utenti perché considerati
necessario. Lo stato può finanziare il servizio in questione affinché questo sia garantito a tutti gli utenti. Nel
caso delle poste devono essere garantiti dei servizi minimi di corrispondenza a tutti gli utenti (così come
richiedono le direttive europee) indipendentemente da dove sono situati nel territorio.
Poste italiane deve garantire la corrispondenza a qualunque cittadino che si trova sul suolo italiano, a
prescindere dal posto non è necessario garantire a tutti la consegna della corrispondenza in 24 ore, basta
che ad ognuno venga garantito un servizio di corrispondenza minimo.
Consegnare la posta a Roma poco costoso perché nella zona di Roma ergono spediti molti pacchi/lettere,
ci sono molte persone quindi ci sono economie di scala che posso sfruttare per rientrare dei costi.
Consegnare la posta in luoghi sperduti alto costo, perché non ci sono economie di scala che mi
permettono di rientrare del costo di raggiungere tale luogo sperduto. Quindi il servizio universale in questo
caso viene sovvenzionato in modo tale che si possa garantire il servizio di corrispondenza su tutto il
territorio nazionale a prescindere dal luogo specifico.
Essendo il servizio postale regolamentato dal punto di vista dell’ambito universale, al fine di identificare
qual è il segmento di servizio universale, il servizio postale viene analizzato nel dettaglio dalla
regolamentazione. Esiste una classificazione, accettata dagli operatori e dalle autorità, di come è fatto il
servizio postale, una segmentazione prevista dalla regolamentazione: dove inizia il segmento espresso,
dove inizia il segmento differito, qual è la definizione di pacchi rispetto al servizio di raccomandata, ecc.
per questo motivo, questo caso è più facile perché si può saltare la parte di analisi del mercato rilevante sul
quale svolgere l’analisi e affidarsi direttamente a quanto viene affermato dalla regolamentazione.
Descrizione dell’operazione: Nel caso di integrazione verticale, l’autorità antitrust deve valutare se la
fusione ha rilevanza comunitaria: questo perché se da una prima analisi risulta che la fusione ha rilevanza
comunitaria l’antitrust deve mandare tutti i documenti relativi al caso alla commissione europea e sarà
quest’ultima a valutare la fusione. Se invece la fusione non è rilevante in ambito comunitario, starà
all’antitrust italiano decidere riguardo la fusione.
Chi decide se la fusione è di ambito comunitario o meno? È il regolamento 139 del 20/01/2004: la fusione è
comunitaria se il fatturato totale dell’ipotetica impresa post-fusione, realizzato a livello mondiale, è
superiore a 5 miliardi di euro oppure se il fatturato realizzato individualmente nella comunità da l’ameno
una delle due imprese è superiore a 250 milioni di euro, salvo che questo non sia fatto per 2/3 in uno stato
membro.
Poste Italiane supera un fatturato di 250 milioni di euro, ma lo realizza in gran parte in Italia, quindi, non
è un caso di competenza europea.
Tema failing firm defence. In questo caso ricorrono tutte le condizioni per appellarsi alla failing firm
defence: l’AGC; nota che la società acquisita, la Nexive, e tutte le sue controllate negli ultimi 3 esercizi
hanno sempre registrato risultati di esercizio negativi. Questo fa si che rientriamo nel caso della failing firm
defence e quindi la fusione deve essere analizzata non solo considerando l’aspetto della concorrenza, ma
anche l’aspetto per cui senza l’acquisizione la Nexive potrebbe arrivare al fallimento.
Mercato rilevante: in questo caso è banale perché esistono delle regolamentazioni che suddividono il
settore in segmenti. L’AGCM non procede con l’analisi del mercato rilevante, questo è già delimitato dalle
regolamentazioni ed è il servizio universale.
Descrizione del mercato: serve a comprendere i segmenti maggiormente interessati dalla fusione. Molto
spesso nei documenti relativi a casi antitrust, le attività e le quote di mercato delle imprese oggetto di
analisi sono presentate sotto forme di percentuali o di intervalli per ragioni di riservatezza (non perché non
si è provveduto a un calcolo esatto dei fatturati). Nel nostro caso, sono segmenti interessati dalla fusione: 1)
servizi di corrispondenza ordinaria per i grandi utenti business (invii multipli) destinati ai clienti intermedi;
2) servizi di corrispondenza ordinaria per grandi utenti business (invii multipli e servizi di posta certificata)
destinati ai clienti finali; 3) servizi di corrispondenza ordinaria per utenti business con volumi di invii medio-
bassi destinati ai clienti finali; 4) posta raccomandata; 5) pubblicità diretta per corrispondenza (c.d. direct
marketing); 6) spedizione e trasporto ordinario di merci su strada per conto terzi (consegna pacchi
deferred); 7) spedizione e trasporto espresso (consegna pacchi espressa); 8) servizio di notifica a mezzo
posta, messo o ufficiale giudiziario degli atti giudiziari e degli atti della Pubblica Amministrazione; 9) servizi
di intermediazione per la posta massiva (mass printing).
Primi tre mercati che ha analizzato l’antitrust: servizi di corrispondenza ordinaria per utenti business che si
divide in:
- Corrispondenza ordinaria grandi utenti business - clienti intermedi;
- Corrispondenza ordinaria grandi utenti business - clienti finali;
- Corrispondenza ordinaria utenti business - clienti finali.
Per valutare il mercato (e l’influenza che l’impresa ha in esso) si considera la quota di mercato
generalmente, il calcolo della quota di mercato viene fatto su due livelli: sia a livello del fatturato (valore)
che a livello dei volumi (quantità), così da evidenziare immediatamente se l’impresa si occupa o meno di
attività a rilevante o basso valore aggiunto.
esempi. Considero un’impresa che l’80% di quota di mercato nei volumi ma il 60% nei valori: capisco che
l’impresa ha un basso valore aggiunto perché si occupa di fare tante quantità con poco margine. Altra
impresa con 50% della quota di mercato in volumi e 80% in valori: il grosso del valore aggiunto lo sta
facendo l’impresa, quindi ha un valore aggiunto alto.
Nel caso di poste italiane vediamo i valori delle quote di mercato delle due imprese prima e dopo la
fusione. Da questi valori ci si può rendere conto del fatto che si tratta di una fusione estremamente
problematica da valutare, per 2 motivi:
1. Uno dei due operatori coinvolti è già dominante (PI) ha una quota di mercato maggiore del 50%;
2. Post-merger, in alcuni mercati si arriva a quote che potrebbero anche essere vicine al 100%.
Per ogni segmento degli 8 mercati identificati, viene fatta la stessa analisi. L’unico segmento in cui non si
crea una situazione di posizione dominante è quello dei pacchi (perché esistono svariati competitor con
quote rilevanti. Amazon, Bartolini, FedEx).
Nel formulario, l’operatore può proporre una serie di condizioni di comportamento in anticipo, che si
impegna a seguire nel caso in cui venga accettata la fusione.
L’antitrust ha però rifiutato le proposte presentate da poste italiane, ha aperto l’istruttoria e come prima
cosa va a sentire i concorrenti: viene notificata l‘intenzione di fusione a ogni concorrente nei diversi
segmenti di mercato analizzati e ognuno di loro può presentare una propria valutazione sull’operazione (la
valutazione dei concorrenti deve essere funzionale a far comprendere meglio all’autorità i rischi del
mercato dal punto di vista competitivo).
Successivamente alle proposte dei ocncorrenti, l’autorità analizza le proposte di poste, spiega perché non le
ha accettate: poste allora rilancia e l’autorità fa un’ulteriore valutazione che avrà come esito sempre il
rifiuto di ciò che è stato proposto. Sulla base di questa analisi cronologica, dopo una serie di valutazioni si
arriva alla decisione fiale e quindi alle fasi finali della delibera.
Decisione finale: autorizzazione della fusione con delle misure impose a Poste Italiane . Misure imposte (8):
Programma di antitrust Compliance (misura n. 2). Codice di condotta interno dell’impresa che
riguarda tutti i funzionamenti interni, tutte le attività e le procedure svolte all’interno dell’impresa.
Si tratta di un codice di condotta che disciplina lo svolgimento di ogni attività in ottica di antitrust e
quindi in base anche al peso che l’impresa ha sul mercato. In particolare, questo programma serve
a ripianificare quelle che sono le principali procedure aziendali per l‘impresa in funzione del ruolo
che l’impresa svolge sul mercato.
Offerta Wholesale (misura n.5). Segmento dell’offerta che non è riservatosi privati, ma ad altri
operatori di mercato. Solitamente quando l’impresa è di grandi dimensioni una misura, in caso di
fusione, riguarda sempre un caso di maggiore apertura dell’offerta wholesale: devo permettere ad
altri operatori di mercato di utilizzare la mia rete e i miei servizi per erogare il loro prodotto. Per
precedenti accordi, l’offerta wholesale era per tutti coloro che avevano almeno 35 milioni di invii,
con la sentenza dell’antitrust si passa a una soglia di almeno 8 milioni di invii: tutti gli operatori che
hanno almeno 8 milioni di invii possono accedere alla rete di poste attraverso l’offerta wholesale.
Accesso alle cassette modulari (misura n.7). Le cassette modulari consentono di effettuare il
recapito della corrispondenza e degli avvisi di giacenza in strade disagiate (come delle cassette di
posta cumulative gestite da Poste Italiane). Nel nostro paese sono circa 20.000 e, con l’imposizione
di questa misura, Poste Italiane deve garantire a tutti i concorrenti l’accesso a questo servizio è
richiesta una maggiore apertura del mercato da parte di concorrenti entro 12 mesi dalla fusione.
Poste Italiane deve offrire un’ulteriore offerta wholesale (misura n.8), un’ulteriore offerta dedicata
ai concorrenti, che prima della sentenza non esisteva. In particolare, deve assicurare ai concorrenti
la possibilità di usufruire dei suoi servizi di posta massiva e di raccomandata smart.
la gran parte delle misure imposte dalla sentenza dell’antitrust riguardano segmenti del mercato in cui
poste ha una uova di mercato estremamente elevata.
Ovviamente, dopo la sentenza, l’autorità va a monitorare la corretta applicazione delle misure imposte.
CASO TICKETONE:
Caso molto recente, risolto nello scorso dicembre che riguarda il tema di restrizioni verticali e in particolare
di contratto di esclusiva. È un caso che nasce su proposta dei concorrenti.
È una fattispecie abbastanza classica in ambito di antitrust perché succede molto spesso che un operatore
dominante in una filiera provi ad espandere, attraverso contratti di esclusiva, la sua posizione dominante
dal segmento della filiera in cui è presente al segmento a monte o a valle.
Questo è il caso di ticketone.
Le parti: Ticketone e la sua controllante, che si occupa di organizzazione di eventi musicale (attività
strettamente correlata con la vendita dei biglietti).
Qui gli intervenienti sono le società concorrenti che hanno segnalato il comportamento scorretto (secondo
loro) delle due società citate. Le concorrenti hanno segnalato all’antitrust il contratto di esclusiva che
veniva proposto da Ticketone, secondo loro residuo della concorrenza di mercato, e quindi l’antitrust ha
aperto un contenzioso che ha portato ad una sanzione a carico i Ticketone (ritenuta colpevole).
Problema: la società controllante organizza un concerto e affida a Ticketone (di sua proprietà) l’esclusiva
sulla vendita dei biglietti. Siccome questa società è dominante sul mercato, di fatto nel momento in cui
organizza eventi e dà in esclusiva la vendita dei biglietti alla seconda, rafforza la sua controparte all’interno
di un altro mercato. Fa ciò grazie ad un contratto di esclusiva.
Le società concorrenti sono delle società che gestiscono una serie di location in cui realizzare concerti e
quindi si sono viste negare la possibilità di vendere separatamente i biglietti nel momento in cui volevano
ospitare nelle loro strutture un cantante della società controllata: la concorrente, dato che mette a
disposizione del concerto il suo palasport vorrebbe avere anche la possibilità di vendere tramite la sua
biglietteria i biglietti per l’evento.
Mercato rilevante: questa volta non è regolamentato quindi è fondamentale al fine di chiudere il caso
andare ad individuarlo. È un mercato complesso perché è necessario andare ad individuare tutti gli eventi
della filiera, tutto il rapporto della filiera si fa la ricostruzione della filiera dei concerti. Diverse parti della
filiera:
• A monte vi è l’artista, che solitamente viene pagato con un cachet e non con una percentuale dei
biglietti: quindi ci deve essere una società promoter che si assicura i servizi dell’artista e gli assicura
un fisso per ogni concerto. Per comprendere qual è l’elemento chiave della filiera è necessario
andare a capire dove sono i rischi.
• Il rischio dell’impresa (che in questo caso consiste nel trovarsi la platea vuota) non se lo assume
l’artista che riceve una paga fissa, ma l’impresa promoter che paga l’artista e tutte le attività
necessarie per realizzare il concerto. Elemento centrale che servirà per la condanna: figura del
promoter.
• Oltre al promoter che gestisce tutto, abbiamo anche il promoter locale, che è qualcuno a cui il
promoter nazionale si può appoggiare per la realizzazione dell’evento.
• Location: generalmente è gestita da un’altra società.
• Tema della vendita dei biglietti può essere vendita diretta, vendita a mezzo di terzi, prevendita, o
vendita in botteghino (oggi viene fatto quasi tutto in prevendita per quanto riguarda i concerti).
• Ultimo grado della filiera è il mercato.
è una semplice filiera con input produzione e distribuzione. Ci sono gli spettatori che si confrontano con
il distributore, che in questo caso è chi vende i biglietti, e a monte vi è il promoter che è il “produttore”
della materia prima che è l’artista stesso.
L’antitrust individua nel promoter il ruolo centrale perché è colui che sostiene il rischio di impresa.
All’interno di questa filiera, tutti sono più o meno operativi ad eccezione del promoter il cui profitto
dipende effettivamente dalla riuscita dell’evento.
prassi: il promoter si assicura un artista con un contratto di esclusiva; provvede ad organizzare tutto
l’evento occupandosi lui stesso di tutto oppure appoggiandosi ad un promoter locale; il promoter dà
un’esclusiva a una società di ticketing per quanto riguarda la vendita dei biglietti, considerando che la
vendita in botteghino è praticamente sparito in ambito di concerti.
Quote di mercato: dato che la società oggetto di fusione è importante e sono coinvolti mercati un po’ più
ampi, al fine dell’indagine antitrust si considera anche l’indice di concentrazione semplice (rapporto di
concentrazione) oltre alle quote di mercato.
Ne deriva che si ha il 50% dei biglietti venduti con le prime 6 imprese di mercato, poi c’è una moltitudine di
piccoli operatori: ci sono molte imprese che hanno una quota molto molto bassa. Per questo è un mercato
molto particolare: ci sono pochi grandi player e poi molti piccoli player.
Vendita dei biglietti: oggetto specifico del caso. Ticketone in questo ambito ha una quota molto importante:
65%. La vendita dei biglietti è un mercato molto concentrato.
Di solito i casi di intese restrittive della concorrenza sono tutti incentrati nella definizione del mercato
rilevante perché la pratica restrittiva della concorrenza generalmente è illegale se c’è abuso della posizione
dominante. Quindi gran parte dell’indagine svolta ha l’obiettivo di determinare se c’è abuso di posizione
dominante.
Nel nostro caso, dalla ricostruzione del mercato e della filiera, è evidente la presenza di un abuso di
posizione dominante.
11/05/2021
CASO AUTOSTRADE PER L’ITALIA:
All’inizio degli anni 80/90 si va incontro ad un processo di privatizzazione delle imprese, che ha reso
necessaria la contestuale introduzione di una serie di autorità di regolazione che hanno il compito di
individuare le regole di ingaggio dei concessionari che operano in determinati settori.
Ad oggi nel nostro sistema regolatorio si applicano i principi del price cap: meccanismo di regolazione del
prezzo che serve a capire qual è il tetto massimo dei prezzi dei beni e servizi offerti che i soggetti regolati
possono fissare sotto la supervisione del regolatore.
Il price cap non si occupa quindi tanto di fissare il primo prezzo, ma cos’è e come si fissa quest’ultimo? Il
suddetto rappresenta quel livello di prezzo minimo che serve sia a coprire i costi (d’investimento e
operativi) sia a remunerare il soggetto produttore.
Il costo della remunerazione (il tasso di remunerazione) viene individuato per via regolatoria dai soggetti
preposti a BOH.
Il caso in analisi riguarda l’intervento del Tribunale Amministrativo Regionale TAR Piemonte che ha
impugnato una delibera dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART) sotto una serie di profili di carattere
regolatorio. In particolare, ha fatto delle censure rispetto a due profili tipici del price cap:
1. Coefficiente di produttività;
2. Individuazione della remunerazione che l’ART ritiene debba essere applicata ai concessionari
autostradali che gestiscono la struttura autostradale.
Un incremento di inflazione sicuramente impatterà sui costi, sul prezzo del servizio offerto e ovviamente sul
ricavo del soggetto che gestisce il servizio offerto. Per fronteggiare questo problema una modalità delle
diverse tipologie autostradali sulla dinamica del prezzo consiste nel riconoscere non l’inflazione nel suo
complesso ma bensì una quota della stessa che solitamente corrisponde al 70%. Perché si fa ciò? Si vuole
incentivare il soggetto che gestisce il servizio a livellare i propri costi ad un livello inferiore rispetto a quello
inflativo.
Limitando il riconoscimento dell’inflazione, contestualmente si contiene il funzionamento di un altro
parametro tipico del meccanismo del price cap: la quota di efficientamento che il regolatore (in questo
caso l’ART) individua come benchmark di miglioramento della struttura dei costi dei soggetti che forniscono
il servizio a cui ogni singolo operatore deve tendere.
Questa quota di efficientamento viene anche riconosciuta come il cosiddetto “parametro X” o “X di
efficienza”; è un parametro affiancato alla variazione dell’inflazione al fine di individuare la variazione
tariffaria presente nella formula del price cap:
X efficienza = variazione inflazione – coefficiente per migliorare i costi
Una delle censure che il TAR Piemonte ha mosso contro la delibera dell’ART, è quella di aver utilizzato un
meccanismo di calcolo dell’efficientamento (dell’x efficiente) che non era idoneo per il soggetto regolato a
cui poi sarebbe stata imposta.
È il TAR Piemonte ad esprimersi su questa tematica in quanto l’ART ha sede a Torino il TAR Piemonte ha
impugnato e annullato la delibera dell’Autorità Regolatrice dei Trasporti.
Il procedimento di identificazione dell’X di efficienza utilizzato dall’ART è stato raccogliere una serie di dati
sulle attività dei concessionari da cui, sulla base di metodi econometrici, ha ricavato una frontiera efficiente.
A partire da questa frontiera, calibrando sulle singole concessioni, ha individuato i livelli di efficienza che
ciascuno di questi soggetti concessionari doveva raggiungere per colmare il gap di efficienza.
La censura del TAR Piemonte si concentra sulla concessione dell’Autostrada Pedemontana Lombarda (APL)
S.p.A., un’autostrada ancora non completata; in funzionamento ma per molta parte incompleta.
Secondo il TAR Piemonte quindi, non tutti i costi di gestione individuati dall’ART sotto la X di efficienza sono
comprimibili: non tutti i costi possono essere sottoposti ad efficientamento.
Il meccanismo di price cap si applica esclusivamente su una parte dei costi: quelli di gestione. La tariffa
regolatoria individuata dell’ART, infatti, è costruita sulla base di 2 blocchi:
1. Tariffa di gestione (costruita a partire da questi);
2. Tariffa di investimento (componente che comprende questo tipo di costi, che non sono
strettamente costi operativi).
Questo tipo di costruzione della tariffa complica il quadro da analizzare rispetto alla formula del price cap
perché la tariffa di efficienza non incide sui costi di investimento, che hanno un riconoscimento pieno,
incide solo sui costi di gestione.
Il TAR a questo punto afferma che questa costruzione dei costi della tariffa di gestione che induce le
imprese a migliorare la loro capacità di gestione delle autostrade (soggetta ad efficientamento) non è
precisa in quanto alcuni questi costi sono incomprimibili. Bisogna quindi riconoscere nelle diverse
situazioni, caso per caso, quali sono comprimibili e quali no. Il TAR mette un limite forte.
Qual è un esempio di costo che, soprattutto in questo momento storico, non è comprimibile? I costi di
manutenzione. Questo tema è sempre stato di particolare attenzione ma ad oggi è diventato fondamentale,
tanto che vi sono una serie di riflessioni in corso sul fatto che i meccanismi di regolazione non portino nella
scia dell’individuazione dell’efficientamento del servizio, e quindi di tariffe più basse per gli utenti, creare
un documento sul livello della spesa e sull’attenzione che i soggetti che gestiscono le infrastrutture
autostradali devono porre nella manutenzione: si parla quindi di una componente di costruzione e di
gestione. La componente di costruzione che la tariffa regolatoria dell’ART riconosce corrisponde quindi ai
costi d’investimento. Questo significa che viene riconosciuto l’investimento effettivo fatto dal
concessionario es. per allungare autostrada.
Considerando però solo i due blocchi della tariffa non si comprende quale è la remunerazione del
concessionario. Il capitale investito al netto delle quote di ammortamento viene riconosciuto all’interno
della tariffa attraverso il WACC: meccanismo di ponderazione tra il costo del debito contratto dal
concessionario e il costo del dell’equity. Il tasso di remunerazione utilizzato è un tasso di remunerazione
regolatorio (non è né il costo del debito effettivamente sostenuto dal concessionario, né la richiesta del
concessionario in termini di costo dell’equity, ossia il tasso di remunerazione del capitale investito) in cui gli
elementi specifici che concorrono all’identificazione di tale valore sono fissati per via regolatoria.
A questo punto bisogna capire com’è cambiata la procedura di individuazione del tasso di remunerazione
passando da un’autorità di regolazione all’altra (cioè dal CIPE al TAR). La modalità di regolazione è diventata
sicuramente più rigida.
Ancora, sotto questo profilo, il TAR Piemonte ha contestato altri due aspetti: la rigidità del modello dell’ART
in quanto aspecifico e il fatto che qualcuno di questi parametri per essere individuato prenda a riferimento
operatori non italiani che operano su diversi settori e non solo su quello autostradale.
In poche parole, la componente investimento che fa parte della tariffa dell’ART ha dentro di sé:
1. Il costo effettivamente sostenuto;
2. Il fattore remunerazione che moltiplica il capitale investito al netto di ammortamenti.
Questo però non è presente nella formula del price cap.
La delibera del CIPE presenta sia la X di efficienza sia il fattore K di riconoscimento degli investimenti. È però
fondamentale notare che nonostante la regolazione del CIPE presenti questi due elementi, più simili a quelli
della definizione del price cap, gli attribuisce un significato diverso.
- X è infatti quel fattore che consente l’uguaglianza del valore attuale netto dei ricavi con il valore
attuale dei costi;
- K è quel parametro che consente l’uguaglianza tra il valore dei ricavi incrementali e il valore dei
costi incrementali determinati dagli investimenti.
Quindi non sono la X di efficienza e la K di riconoscimento degli investimenti definiti precedentemente.
È bene soffermarsi sulla definizione della X, elemento di sostanziale differenza. Mentre la regolazione
dell’ART è molto simile sulla parte di gestione al meccanismo del price cap, la regolazione del CIPE non vede
la X come una X di efficienza.
Affinché con il meccanismo del CIPE si possa avere un’efficienza simile a quella dell’ART, è necessario aver
una maggiore presenza del soggetto regolatore per la supervisione della gestione e dei costi: per
incamerare efficienza è necessario che questa sia stimolata, indotta e controllata dal soggetto regolatore,
che deve fare uno screening al fine di individuare il massimo tetto ammissibile dalla tariffa e verificare che i
costi dell’impresa si riducano progressivamente nel tempo.
Il meccanismo applicato dal CIPE, nel periodo pre-privatizzazioni, aveva un livello di controllo talmente
approfondito da non incorrere nel problema dell’asimmetria informativa, che il price cap nella sua
applicazione standard tenta di superare.
I differenti meccanismi di individuazione della remunerazione fin qui descritti incidono anche sulla
definizione del parametro X, poiché questo, nella regolazione del CIPE, non essendo un parametro di
efficienza, ma bensì un parametro di second-best che consente la copertura dei costi, deve consentire
anche la copertura dei costi di investimento precedenti, già sostenuti.
Nella regolazione del CIPE, tutto l’investimento pregresso, che non è stato però ancora remunerato, e trova
una remunerazione al costo medio ponderato del capitale.
Nel meccanismo del CIPE vi è quindi una remunerazione sia nel parametro X che nel parametro K.
Ultima riflessione riguarda l’ulteriore profilo di censura del TAR Piemonte rispetto alla regolazione dell’ART:
il TAR Piemonte richiama una delle delibere che hanno portato alla costruzione del sistema di regolazione
dell’ART (delibera n.70 del 2016).
Sulla base delle stime delle gestioni più efficienti del settore, individua un ambito ottimale, ovvero
l’estensione minima e massima di un tratto autostradale affinché lo stesso possa essere il più efficiente
possibile.
Sulla base delle economie di scala rintracciate, oltre i 315 km di estensione la riduzione dei costi che si può
ottenere con le economie di scala è praticamente nulla.
Sia la regolazione dell’ART che quella del CIPE individuano i livelli della tariffa in forma prospettica,
guardando dunque alla durata della concessione: questi periodi di concessione sono divisi in periodi
regolatori di 5 anni.
In sintesi, ogni 5 anni, prendendo la tariffa iniziale si cerca di comprendere quale sarà lo sviluppo della
stessa nei successivi 5 anni: questo avviene sulla base di parametri economico- finanziari che stanno alla
base del rapporto di concessione.
Price cap: il metodo di definizione e adeguamento della tariffa, il quale identifica un vincolo superiore alla
crescita della tariffa per il periodo regolatorio e un riallineamento della stessa al termine del periodo
regolatorio.
Tariffa: il prezzo unitario, espresso per veicoli/km, al lordo di eventuali componenti tariffarie aggiuntive o
riduttive e al netto delle imposte e degli eventuali sovrapprezzi, che costituisce il limite superiore imposto
alla media delle tariffe di pedaggio praticate dai singoli concessionari per le diverse classi di veicoli e/o
tipologia di tratta autostradale, ponderata con i volumi di traffico dell’anno precedente.
Costi operativi:
a) Direttamente imputabili alle attività di gestione autostradale (es. personale direttamente impiegato
nelle attività e nei servizi, materiali direttamente impiegati), come rilevati da apposito sistema di
contabilità analitica predisposto dai concessionari;
b) Indirettamente imputabili alle attività di gestione autostradali, quali quota di pertinenza delle spese
generali, comunque allocate quanto più analiticamente possibile alle attività cui si riferiscono,
secondo criteri oggettivi e resi trasparenti.
La tariffa relativa a ciascun concessionario è adeguata annualmente sulla base della seguente formula
tariffaria definita secondo il metodo del price cap:
ΔT = ΔP – X + K
Dove:
- ΔT è la variazione percentuale annuale della tariffa;
- ΔP è il tasso di inflazione programmato;
- X è il parametro di cui al precedente punto 2.6.;
- K è la variazione percentuale annuale della tariffa determinata ogni anno in modo da consentire la
remunerazione degli investimenti realizzati l’anno precedente quello di applicazione; è determinata
in modo tale che il valore attualizzato dei ricavi incrementali previsti fino al termine del periodo di
regolamentazione sia pari al valore attualizzato dei maggiori costi ammessi, scontando gli importi al
tasso di congrua remunerazione; ai maggiori costi ammessi devono essere sottratti gli utilizzi del
fondo di cui al punto 6.4.
La tariffa unitaria media è il prezzo unitario medio, espresso in euro per veicolo*km, dei pedaggi praticati
dal concessionario alle diverse classi di veicoli e tipologie di tratta autostradale, ponderato con i volumi di
traffico.
Detta tariffa unitaria media, per ciascun anno tt del periodo concessorio, è rappresentabile come segue:
TTtt = TTGG, tt + TTKK, tt
Allo scopo di dare attuazione alla citata disposizione normativa, l’Autorità, nei primi mesi del 2014, ha
avviato un’attività finalizzata ad individuare i fattori che meglio potessero dare contezza dell’andamento dei
costi di produzione delle singole concessionarie autostradali (sia di piccola, che di media-grande
dimensione), in modo da permettere la costruzione di una c.d. “frontiera di costo efficiente”; tale
“frontiera” è costituita dall’insieme dei punti che identificano il costo minimo di produzione per ogni livello
di output (ad es. i volumi di traffico o la lunghezza della tratta in concessione), dati i prezzi dei fattori
produttivi e le caratteristiche qualitative/quantitative della tecnologia esistente.
La curva costituita da detti punti (“curva della frontiera di costo”) consente, tra l’altro, di determinare la
minima dimensione ottimale di produzione (ovvero quella al di sotto della quale si presentano in maniera
evidente significative “diseconomie di scala”).
I risultati ottenuti dall’Autorità hanno portato all’individuazione di un ambito ottimale, espresso in termini
di estesa chilometrica dell’infrastruttura autostradale affidata ad un singolo concessionario, superiore ad
una soglia minima di 180 km ed inferiore ad una soglia massima situata in un intorno di 315 km. Ciò implica
che per sfruttare le economie di scala, ed eliminare le inefficienze produttive dovute alla ridotta estesa
chilometrica di un’autostrada affidata ad un singolo concessionario, ogni singola concessione non dovrebbe
avere ad oggetto infrastrutture autostradali con estesa inferiore a 180 km. Nell’intervallo tra 180 km e
315km, l’analisi effettuata ha riscontrato la presenza di possibili benefici legati all’aumento della
dimensione dell’estesa in concessione, ma ha tuttavia evidenziato che tali benefici si riducono, fino ad un
sostanziale annullamento, man a mano che l’estesa tende verso valori situati nell’intorno dell’estremo
superiore dell’intervallo.