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Diritto Internazionale:

Cap.1 : Enti che partecipano alla vita di relazione internazionale

Non vi è una completa identificazione tra ‘soggetti di diritto internazionale’ ed ‘enti che
partecipano alla vita di relazione internazionale’.
Vi sono:
- Enti che hanno una piena soggettività internazionale, come gli Stati indipendenti e
sovrani
- Enti che hanno una limitata capacità internazionale, pertanto sono destinatari solo di
alcune situazioni giuridiche soggettive, come gli Insorti
La Corte internazionale di giustizia ha affermato che “in un sistema giuridico, i soggetti del
diritto non hanno necessariamente la stessa natura e non sono identici per il contenuto dei
loro diritti”.
In dottrina, la soggettività internazionale di alcune ‘entità minori’ è contestata (come l’Ordine
di Malta e i comitati nazionali all’estero); per tale motivo, si è preferito utilizzare l’espressione
“enti che partecipano alla vita di relazione internazionale”.
I vari enti che partecipano alla vita di relazione internazionale sono stati catalogati in 4
categorie, che si differenziano per i loro caratteri peculiari:

1. Enti territoriali = entità che presentano come tratto caratteristico l’esercizio del potere
di governo su una comunità territoriale.
es. gli Stati sovrani e indipendenti / Insorti

2. Enti non territoriali che aspirano a divenire organizzazioni di governo di una comunità
territoriale = cioè enti che non esercitano attualmente poteri di imperio su un
territorio, ma che hanno come obiettivo naturale l’acquisizione del potere di governo.
es. Governi in esilio / Comitati nazionali all’estero / Movimenti di liberazione
nazionale

3. Enti non territoriali di diversa natura, che non aspirano ad acquisire un territorio = si
tratta di entità sui generis, alle quali è attribuita eccezionalmente la capacità di
intrattenere relazioni internazionali.
es. Santa Sede / Ordine di Malta / Comitato internazionale della Croce Rossa

4. Enti non territoriali (che occasionalmente vengono chiamati ad amministrare un


territorio) che sorgono per volontà degli Stati e che mantengono durante la loro
esistenza un legame indissolubile con gli Stati.
es. Organizzazioni internazionali

Nel diritto internazionale è controverso lo status dell’individuo: la tutela dei diritti costituisce
oggi un settore importante delle relazioni internazionali.

1.Enti territoriali:
- Stati sovrani e indipendenti: un ruolo primario nella vita di relazione internazionale è
dato dagli enti dotati di potestà territoriale, ossia gli Stati. Il diritto internazionale è un
sistema normativo volto a regolare la coesistenza tra enti sovrani, e gli Stati sono i
soggetti principali del diritto internazionale.
Gli Stati sovrani e indipendenti hanno soggettività internazionale, per cui gli stati
membri di Stati federali non hanno tale carattere poiché difettano del carattere
dell’indipendenza, costituendo parti componenti di un ente più ampio, cioè lo Stato
federale, che è l’unico a cui riconoscere la soggettività internazionale. Infatti, lo Stato
federale è ritenuto responsabile per eventuali illeciti compiuti da organi di stati
membri. Seppure la costituzione sancisca la possibilità per gli stati membri di uno
Stato federale di stipulare trattati, ciò non costituisce un elemento da cui è possibile
trarre la personalità internazionale : si tratta di capacità che spettano esclusivamente
allo Stato federale ma che sono costituzionalmente decentrate.
Parimenti, seppure l’art.117 Cost. affermi la possibilità per le regioni di concludere
accordi con gli Stati, in realtà si tratta di una potestà che spetta allo Stato italiano e
che quest’ultimo ha attribuito, per certe materie, agli enti territoriali minori.
Ai fini dell’acquisto della soggettività internazionale, la dimensione del territorio di uno
Stato o la dimensione della sua popolazione non costituisce un elemento rilevante:
partecipano alla vita di relazione internazionale anche Stati di dimensione territoriale
ridotta, come il Granducato di Lussemburgo.
Un problema sorge circa i cd. ‘Stati esigui’, come Andorra, Monaco, San Marino : si
tratta di Stati che dipendono da terzi per la condotta delle loro relazioni internazionali;
la dottrina dubita che queste entità possano essere considerate come soggetti di
diritto internazionale, in quanto sprovviste del carattere dell’indipendenza.
A proposito della posizione degli Stati esigui, non possono essere formulate delle
conclusioni di carattere generale, ma bisogna differenziare ogni tipo di caso che si
presenta nella vita di relazione internazionale = nel caso in cui l’ingerenza sia
particolarmente penetrante, si dubita della soggettività internazionale dell’ente, infatti
molti di questi stati sono oggetto di ingerenze incisive da parte dello Stato vicino. es.
con il Trattato del 17 Luglio 1918, Monaco si era impegnato con la Francia ad
esercitare i suoi diritti di sovranità in perfetta conformità con gli interessi politici,
militari, navali ed economici della Francia; inoltre, in caso di urgenza, la Francia
aveva il diritto di far penetrare e soggiornare a Monaco (anche senza il preventivo
accordo con il sovrano di Monaco) le forze militari e navali necessarie al
mantenimento della sicurezza dei due Stati. Con tale Trattato veniva sancito che il
Principato di Monaco non poteva mutare corona e che, in caso di estinzione della
casa regnante, Monaco sarebbe dovuto divenire un protettorato francese.
Il Trattato del 1918 è stato sostituito con il Trattato del 24 ottobre 2002, più conforme
al diritto e alle relazioni internazionali attuali : anche questo trattato obbliga Monaco
ad esercitare la propria sovranità in modo conforme agli interessi fondamentali della
Repubblica francese nei settori della politica, economia, sicurezza e difesa e
premette alla Francia di intervenire, senza il consenso monegasco, quando
l’indipendenza e la sovranità del principato di Monaco siano gravemente minacciate
e vi sia una rottura dell’ordine istituzionale. E’ stata abolita la clausola secondo cui, in
caso di estinzione della casa regnante, Monaco sarebbe divenuta un protettorato
francese; bensì viene internazionalizzata la disposizione costituzionale che stabilisce
la successione al trono e si afferma che il territorio del principato è inalienabile.
Oggi, gran parte degli Stati esigui sono membri delle Nazioni Unite (come Andorra,
Monaco, San Marino e Liechtenstein).
Poi, vi sono gli Stati protetti = cioè Stati che non hanno il requisito dell’indipendenza,
anche se sono considerati da alcuni come soggetti di diritto internazionale. Gli Stati
protetti sono stati formati durante il periodo coloniale. Lo Stato protettore assumeva
la rappresentanza internazionale dello Stato protetto e stipulava per suo conto i
trattati internazionali. Per cui, come in ogni rapporto giuridico di rappresentanza, lo
Stato protetto era titolare delle situazioni giuridiche derivanti dal trattato (e non lo
Stato protettore). Tuttavia, lo Stato protettore aveva una ingerenza più o meno
penetrante nei confronti dell’ordinamento interno dello Stato protetto, ingerenza che
poteva manifestarsi o nella forma del concorso di organi o nella forma della
sostituzione di organi.
- Concorso di organi : il potere legislativo viene esercitato congiuntamento da
organi dello Stato protetto e dello Stato protettore.
- Sostituzione di organi : gli organi dello Stato protettore si sostituivano
pienamente allo Stato protetto.
Precedentemente, i rapporti tra Stato protettore e Stato protetto erano disciplinati da un
trattato internazionale concluso tra i due soggetti; oggi, un trattato simile sarebbe
considerato invalido poiché contrario ad una norma di diritto internazionale che sancisce il
divieto di ristabilimento di una dominazione coloniale e situazioni assimilabili.
Il protettorato di diritto internazionale si distingue dal protettorato di diritto coloniale, in
quanto quest’ultimo è il risultato di accordi stipulati a livello locale con i capi tribù e il territorio
del protettorato doveva considerarsi parte integrante della madrepatria.
Inoltre, il protettorato deve essere distinto dai territori sotto mandato, che sono entità prive di
soggettività internazionale: il protettorato veniva amministrato nell’interesse della potenza
protettrice, i mandati venivano amministrate nell’interesse della popolazione locale. I
mandato sono sorti al tempo della Società delle Nazioni e sono cessati con l’estinzione della
Società delle Nazioni.
Protettorato e vassallaggio sono due figure distinte: nel vassallaggio, l’entità sotto
vassallaggio, pur godendo di una certa autonomia, è subordinata ad un’altra.
Esempi di protettorato, prima del raggiungimento dell’indipendenza della Francia, sono stati
il Marocco e la Tunisia.
Vi sono anche entità dotate di autonomia all’interno di uno Stato, che dovrebbero diventare il
nucleo su cui costituire un futuro Stato: è il caso della Palestina che è stata costruita sui
territori occupati da Israele. La Palestina manca dei requisiti di effettività e indipendenza,
poiché è soggetta alla volontà di Israele, che controlla le frontiere territoriali, marittime e
aeree dei territori della Palestina. Nel 2005 Israele si è ritirata dalla Striscia di Gaza (in
Palestina), ma il territorio è continuamente sotto assedio israeliano poiché Israele controlla
le frontiere aeree, marittime e terrestri della Striscia di Gaza.
La proclamazione dello Stato della Palestina, avvenuta nel 1988, con capitale
Gerusalemme, è rimasta priva di effettività.
La Palestina non è membro delle Nazioni Unite, e gode solo dello status di Stato
osservatore: nonostante ciò, essa ha stipulato un notevole numero di trattati sotto l’egida
delle Nazioni Unite, tra cui il Trattato di Non-proliferazione nucleare e il Trattato sulla
proibizione delle armi nucleari.
In conclusione, possiamo dire che la Palestina ha una limitata soggettività internazionale e la
sua statualità è in ‘statu nascendi’, cioè uno Stato in fase di formazione, che vedrà la luce
alla fine del suo processo di autodeterminazione.
Vi sono anche i cd. Stati fantoccio = stati che non hanno il requisito dell’indipendenza, che
sono stati creati dall’occupante durante la guerra (es. Manchukuo creato durante
l’occupazione giapponese della Manciuria; la Slovacchia creata dalla Germania).
Viene in considerazione anche lo Stato organizzazione = cioè un complesso ristretto di
organi che dirige l’ente.
Lo Stato comunità = è rappresentato dalla triade governo - territorio - popolazione.
Territorio e popolazione non sono elementi costitutivi della personalità dello Stato; bensì
possono avere una loro rilevanze per individuare se lo Stato, in caso di dissoluzione, si sia
estinto oppure se vi sia una entità che continui la personalità internazionale del soggetto
esistente prima della dissoluzione.

La nascita di uno Stato, in diritto internazionale, è una questione di fatto. Nonostante questo
alcuni preferiscono la tesi secondo cui la nascita non può realizzarsi in contrasto con
elementari principi del diritto internazionale, soprattutto con il principio di autodeterminazione
e il divieto di aggressione.
Così come la nascita, anche l’estinzione dello Stato è un fenomeno reale.
Viene in rilievo anche la ‘teoria degli Stati risorti’ = secondo cui, la personalità internazionale
dello Stato non sarebbe venuta meno nonostante l’incorporazione da parte di un altro Stato.
es. le tre Repubbliche baltiche (Estonia, Lituania e Lettonia) sono state incorporate dalla
Unione Sovietica nel 1940 e divenute di nuovo indipendenti nel 1991.
Gli Stati risorti pretendono di essere titolari delle situazioni giuridiche loro facenti capo prima
della incorporazione.
Una situazione di anarchia che comporti una rottura costituzionale dell’ordinamento interno,
non estingue lo Stato nel senso del diritto internazionale : i cd. ‘failed states’ continuano ad
essere membri delle organizzazioni internazionali (es. Somalia, Sierra Leone.. che hanno
continuato ad essere membri delle Nazioni Unite).
Una fattispecie che condurrebbe all’estinzione dello Stato potrebbe essere dovuta ai
cambiamenti climatici : alcuni stati del Pacifico sembrano destinati a scomparire a causa del
surriscaldamento terrestre e dell’innalzamento del livello degli oceani (Tuvalu, Kiribati, Isole
Marshall); resterebbe un popolo senza territorio, da ospitare altrove.

- Insorti: Oltre agli Stati sovrani e indipendenti, partecipano alla vita di relazione
internazionale come enti territoriali, gli Insorti (definiti anche ‘movimenti insurrezionali’
o ‘partito insurrezionale’), che mediante la lotta armata perseguono il rovesciamento
del governo di uno Stato (cd. governo legittimo o costituito), oppure la secessione di
una parte del territorio di tale Stato, purché abbiano un controllo abbastanza stabile
su una parte del territorio nazionale.
Il movimento insurrezionale è da annoverare tra gli enti territoriali poiché ha una
propria individualità sul piano internazionale nel caso in cui eserciti un controllo
esclusivo su una porzione di territorio e sulla relativa popolazione, e non si tratti di
semplici tensioni o disordini interni, come sommosse o atti sporadici di violenza.
La rilevanza sul piano internazionale degli Insorti è legata al Principio di effettività: gli
insorti sono enti temporanei, in quanto suscettibili di una evoluzione o di una
involuzione: esso è destinato a trasformarsi in uno Stato o sostituirsi al governo
costituito (in caso di vittoria) oppure è destinato a retrocedere a semplice gruppo di
individui (in caso di sconfitta).
A differenza degli Stati sovrani e indipendenti, gli Insorti hanno una capacità
internazionale limitata -> es. il movimento insurrezionale non può validamente
trasferire il territorio sotto suo controllo ad un altro soggetto mediante trattato di
cessione.
La capacità internazionale degli insorti è limitata alle norme che regolano la condotta
delle ostilità con il governo legittimo e alle norme che disciplinano l’esercizio del
potere d’imperio del movimento insurrezionale sul territorio da esso controllato.
Il movimento insurrezionale gode anche della capacità di concludere accordi con altri
soggetti internazionali: tali accordi possono riguardare o il futuro status del territorio,
o la definitiva cessione della guerra civile e incidere sul modo di essere
dell’ordinamento giuridico dello Stato in cui si svolge l’insurrezione.
I membri delle forze armate insurrezionali non sono legittimi combattenti, quindi nel
caso in cui vengano catturati non hanno il diritto allo status di prigioniero di guerra,
ma possono essere trattati come semplici criminali per gli atti di violenza compiuti.
Gli insorti hanno una capacità bellica limitata, infatti non possono condurre ostilità in
alto mare : a causa dell’insurrezione, i terzi possono aver subito danni dagli insorti:
se l’insurrezione è sconfitta, il governo legittimo non è responsabile per i danni
provocati dagli insorti; se l’insurrezione è vittoriosa, il nuovo governo è tenuto a
riparare i danni causati dagli insorti. Inoltre esso è responsabile anche per i danni
causati dal governo predecessore.
Si afferma che: “Un governo che è diventato il governo legittimo di uno Stato in
seguito ad una rivoluzione vittoriosa è di norma internazionalmente responsabile per
i danni causati dalle forze e dalle autorità tanto del governo precedente che dei
rivoluzionari” -> questi principi sono stati consacrati nell’art.10 del progetto di articoli
sulla responsabilità internazionale degli Stati, approvati dalla CDI.
I terzi possono aiutare il governo costituito ma non gli insorti, a meno che non
intervenga una risoluzione di segno contrario del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite; qualora lo facessero, commetterebbero un illecito internazionale.
A parte viene considerato il fatto che gli insorti pratichino forme di violenza bellica in
totale dispregio dei principi del diritto umanitario: es. l’ISIL (islamic state of syria and
levant) è stato un movimento insurrezionale sorto a cavallo tra Siria e Iraq che, per
circa tre anni, ha occupato stabilmente una porzione di territorio nei due Stati e che è
riuscito ad effettuare operazioni nei paesi vicini e anche azioni terroristiche in Europa
attraverso i propri affiliati. L’ISIL era dotato di un alto livello di effettività nei territori
sotto il suo controllo.

2.Enti non territoriali che aspirano a divenire organizzazione di governo di una comunità
territoriale:
- Governi in esilio = Fra gli enti che anche se non esercitano un potere di imperio su
un territorio, aspirano a divenire organizzazioni di governo di una comunità
territoriale, vengono in primo luogo in considerazione i Governi in esilio.
L’istituto dei Governi in esilio ha avuto particolare rilevanza a partire dalla seconda
guerra mondiale quando diversi governi di Stati occupati dalla Germania si
rifugiarono nel Regno Unito.
Affinché si abbia un Governo in esilio è necessario che vi sia uno Stato disposto ad
ospitare tale ente e che possa permettergli di esplicare funzioni modellate su quelle
di un’organizzazione statale.
I Governi in esilio hanno rilevanza sul piano internazionale quando il nuovo assetto
della comunità territoriale da cui provengono, e che aspirano a governare di nuovo,
sia da giudicare transitorio, cioè sprovvisto di stabilità. -> ciò si verifica soprattutto nel
caso di occupazione di uno Stato che si trovi in stato di guerra (occupatio bellica) che
non estingue la personalità dello Stato occupato.
Alcuni ammettono la possibilità di costituire un Governo in esilio anche nel caso di
mutamento rivoluzionario di governo all’interno di uno Stato, anche se questa
opinione è difficilmente accoglibile.
Il Governo in esilio opera come una sorta di ‘ente fiduciario’ del popolo che lui
rappresenta. Così, il governo in esilio può esigere l’adempimento di accordi a favore
della popolazione per cui opera.
Non tutti gli autori riconoscono rilevanza ai Governi in esilio, ma non attribuire una
rilevanza ai Governi in esilio è un’opinione piuttosto errata, soprattutto ora che la
norma cogente sul divieto di aggressione impedisce di riconoscere qualsiasi effetto
alle situazioni internazionali derivanti da questo illecito internazionale.
es. annessione del Kuwait da parte dell’Iraq e la rilevanza sul piano internazionale
assunta dal Governo kuwaitiano in esilio in Arabia Saudita.
Spesso l’occupante (Governo in esilio) installa al potere un “governo fantoccio”,
denominato anche “governo Quisling”, dal nome del collaborazionista norvegese
installato al governo dai tedeschi durante l’occupazione della Norvegia.
La fine del fenomeno bellico dovrebbe comportare l’estinzione della figura del
Governo in esilio; tuttavia, secondo alcuni, quest’affermazione non può essere
affermata nella sua assolutezza, poichè si deve tenere conto del principio del
disconoscimento di situazioni conseguenza del ricorso alla forza armata in violazione
del diritto internazionale e del principio di autodeterminazione dei popoli.

- Comitati nazionali all’estero: la seconda figura di enti non territoriali che aspirano a
divenire organizzazioni di governo di una comunità territoriale è costituita dai
Comitati nazionali all’estero.
Il fenomeno della costituzione di questi comitati ha assunto particolare rilevanza a
partire dalla prima guerra mondiale, quando Francia, Italia e Regno Unito
riconobbero i comitati nazionali cecoslovacco e polacco.
Il Comitato nazionale all’estero è un ente che si occupa della gestione degli interessi
di una comunità nazionale che aspira a governare in futuro (il comitato aspira a
governare la comunità) ma che attualmente è soggetta ad un potere statale.
Per poter esistere un Comitato nazionale all’estero si presuppone vi sia uno Stato
che è in guerra con lo Stato che attualmente governa la comunità nazionale di cui il
Comitato è espressione, disposto ad ospitarlo; altrimenti lo Stato ospitante violerebbe
la norma sul non intervento e nello stesso tempo il Comitato nazionale all’estero non
avrebbe una rilevanza internazionale.
L’ospitalità dello Stato di sede non è sufficiente per affermare la partecipazione del
Comitato nazionale all’estero per la vita di relazione internazionale. Si richiede che ai
Comitati nazionali all’estero sia consentito esercitare funzioni di governo sui
connazionali che si trovino all’estero.
Inoltre, affinchè si possa affermare che il Comitato nazionale all’estero abbia una
rilevanza sul piano internazionale è necessario che questi si ponga come ‘ente
militare’, cioè disponga di proprie forze armate.
L’esistenza di una guerra in corso contro l’organizzazione di governo alla quale il
Comitato nazionale si oppone determina una “crisi di effettività”di questa
organizzazione e spiega l’attribuzione di un ruolo sul piano delle relazioni
internazionali al Comitato all’estero.
I Comitati nazionali all’estero sono titolari di diritti e obblighi derivanti dal diritto
bellico, e possono concludere accordi circa l’impiego delle proprie forze armate (es.
l’accordo concluso nel 1918 dall’Italia con il Comitato cecoslovacco), e in alcuni casi
intrattengono anche relazioni diplomatiche.
Le recenti trasformazioni della comunità internazionale hanno comportato un
aggiustamento della figura dei comitati nazionali all’estero: tra questi viene
annoverato anche il ‘Consiglio delle Nazioni Unite per la Namibia’ istituito
dall’Assemblea Generale nel 1967. Tale Consiglio operò all’estero perchè il Sud
Africa negò il suo ingresso nel territorio namibiano; le funzioni del Consiglio
cessarono con la proclamazione dell’indipendenza della Namibia nel 1990.
Considerazioni analoghe valgono per il GNA, cioè per il Government of National
Accord, che ambisce a governare l’intera Libia. Il GNA è stato costituito in Tunisia e
ha operato come Comitato nazionale all’estero, fino a quando non si è insediato in
Libia.
La figura del Comitato nazionale ha oggi perso d’importanza.

- Movimenti di liberazione nazionale: si definisce Movimento di liberazione nazionale


quell’ente organizzato che rappresenta un popolo in lotta per l’autodeterminazione;
questi vanno annoverati tra gli enti non territoriali che aspirano a divenire
organizzazioni di governo di una comunità territoriale.
La rilevanza internazionale dei Movimenti di liberazione nazionale non è legata alla
circostanza di esercitare un potere di governo su un territorio, quindi non è legato al
principio di effettività, ma trova il suo fondamento nel principio giuridico
dell’autodeterminazione dei popoli (anche se comunque non mancano esempi di
movimenti di liberazione nazionale che sono riusciti a conseguire un controllo
effettivo su una porzione di territorio e sulla comunità lì stanziata).
In particolare, il Movimento di liberazione nazionale è l’ente rappresentativo di un
popolo soggetto a dominio coloniale o razzista o ad occupazione straniera.
La figura dei Movimenti di liberazione nazionale ha assunto rilevanza con la
decolonizzazione, in particolare con la decolonizzazione violenta degli anni sessanta.
Le forme di partecipazione alla vita internazionale dei Movimenti di liberazione
nazionale sono diverse:
- essi prendono parte ai lavori di organizzazioni internazionali
- essi partecipano a conferenze internazionali
es. l’organizzazione per la liberazione della palestina (OLP) ha goduto dello status di
osservatore in seno all’Assemblea Generale ed è stata presente, senza diritto di voto, in
tutte le conferenze internazionali; inoltre l’OLP è stata membro della Lega Araba.
- un’altra manifestazione importante della personalità internazionale dei movimenti di
liberazione nazionale è data dalla capacità di concludere accordi, soprattutto con
riguardo allo svolgimento delle ostilità contro il governo costituito o alla costituzione
del futuro Stato.
es. l’OLP ha concluso vari accordi con diversi Stati arabi per regolare la presenza sul
territorio di tali Stati delle forze armate palestinesi.
Un accordo particolarmente rilevante fu quello stipulato nel 1979 dal Fronte Polisario e dalla
Mauritania allo scopo di stabilire i confini fra lo Stato della Mauritania e il futuro Stato del
Sahara Occidentale.
Oppure, nel 1993, l’OLP e Washington hanno firmato i cd. ‘Accordi di Oslo-Washington’,
circa i principi relativi allo status dei territori palestinesi.
- il campo in cui si manifesta maggiormente la rilevanza internazionale dei Movimenti
di liberazione nazionale è quello relativo alla lotta armata che essi conducono per
realizzare il diritto all’autodeterminazione (cd. guerre di liberazione nazionale).
La disciplina giuridica delle guerre di liberazione nazionale si è profondamente
distaccata dalla disciplina delle guerre civili: in particolare, per quanto riguarda i
rapporti tra il governo costituito e il popolo in lotta per l’autodeterminazione, si è
affermata la regola (di diritto consuetudinario) per cui il governo costituito non può
usare la forza per privare il popolo del diritto all’autodeterminazione. La repressione
della lotta di un popolo soggetto a dominio coloniale, razzista o ad occupazione
straniera è illecita, in quanto contraria al principio di autodeterminazione (repressione
mediante mezzi coercitivi).
In una guerra di liberazione nazionale, il diritto consuetudinario vigente vieta agli Stati
terzi di intervenire a favore del governo costituito: tale divieto copre sia l’intervento
armato diretto, sia ogni altra forma di assistenza, come la fornitura di materiale
bellico o il supporto logistico, il cui scopo è quello di facilitare l’azione repressiva del
governo costituito.
Varie risoluzioni dell’Assemblea Generale attribuiscono ai popoli privati con forza del
loro diritto all’autodeterminazione (cioè i popoli sotto dominazione coloniale, razzista
o straniera) il diritto di ricevere assistenza dai Terzi Stati nel corso di una guerra di
liberazione nazionale, il cd. diritto di resistenza : vi è un contrasto relativo
all’individuazione del contenuto di questo diritto: a parere degli Stati afro-asiatici e
degli Stati socialisti, i terzi potrebbero intervenire militarmente, in modo diretto o
indiretto, a fianco del movimento di liberazione nazionale ; secondo gli Stati
occidentali, i terzi possono concedere esclusivamente aiuti di natura umanitaria.
Particolarmente delicato è il problema dell’applicabilità delle regole del diritto di
guerra (ius in bello) alle guerre di liberazione nazionale: l’art.1 par.4 del I Protocollo
del 1977 configura le lotte per l’autodeterminazione come conflitti armati
internazionali, equiparandole a conflitti tra Stati; Oltre che tale protocollo, si occupa
della materia anche la Convenzione di Ginevra del 1949.
Il Movimento di liberazione nazionale può mettere in vigore il Protocollo e le
Convenzioni di Ginevra nei confronti dello Stato contro cui è intrapresa la lotta
armata, purchè questi sia parte del Protocollo. In tal caso, i membri del Movimento di
liberazione nazionale devono essere considerati come legittimi combattenti e,
qualora catturati, hanno diritto allo status di prigionieri di guerra.
Tuttavia, questa disposizione è di mero diritto convenzionale, per cui non vincola gli
Stati che non sono parti del protocollo addizionale.
Problemi delicati si pongono per quei territori il cui popolo abbia il diritto
all’autodeterminazione nel caso in cui si debba stipulare un accordo internazionale e
che sono amministrati da Stati che li hanno occupati illegalmente = questo è il caso
del Sahara occidentale, il cui territorio è parzialmente occupato dal Marocco. L’Union
Europea ha concluso con il Marocco un accordo di associazione e un accordo di
liberalizzazione per i prodotti agricoli. Il Tribunale dell’Unione Europea aveva
riconosciuto la legittimazione ad agire per escludere che l’accordo potesse essere
applicato nella parte del Sahara occidentale occupata dal Marocco; successivamente
la sentenza è stata annullata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con
decisione del 21 Dicembre 2016, affermando che mancasse il presupposto della
materia del contendere, in quanto l’accordo per via delle sue clausole non poteva
trovare applicazione nel Sahara occidentale. La sentenza attribuisce all’ente del
Fronte Polisario la qualifica di rappresentante del popolo saharwi, titolare del diritto
all’autodeterminazione, stanziato su un territorio che non appartiene al Marocco.
- Enti non territoriali:
Santa Sede = accanto agli enti territoriali e agli enti che aspirano a divenire enti
territoriali, partecipano alla vita di relazione internazionale anche altre entità di varia
natura: si tratta di enti che presentano caratteristiche peculiari e che sono associati
alla comunità internazionale a titolo individuale.
Sin dalle origini della moderna comunità degli Stati è riconosciuta la personalità di
diritto internazionale della Santa Sede, quale suprema autorità della Chiesa
Cattolica. Particolarmente significativo è che la personalità internazionale della Santa
Sede non è venuta meno neppure durante il periodo intercorso fra l’estinzione dello
Stato pontificio ed il sorgere dello Stato della Città del Vaticano, passaggio in cui si
verificò la perdita di ogni dominio territoriale.
Sono molteplici le espressioni della partecipazione della Santa Sede alla vita sociale
internazionale: essa ha il potere di concludere accordi internazionali, chiamati
‘concordati’ quando hanno per oggetto il trattamento riservato alla religione cattolica
e al clero; partecipa ai lavori di organizzazioni internazionali, ad es. ha lo stato di
osservatore presso le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa; prende parte a
conferenza internazionali; inoltre, la Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche con
la maggior parte degli Stati membri della comunità internazionale.
I rapporti tra l’Italia e la Santa Sede sono disciplinati dai cd. “patti lateranensi” del
1929, i quali constano di un Trattato, di una Convenzione finanziaria e di un
Concordato : in particolare il Trattato regola i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede, ed è
proprio con il Trattato che l’Italia ha riconosciuto la sovranità della Santa Sede sulla
Città del Vaticano, pur restando i due enti formalmente distinti. L’art.24 del Trattato
lateranense afferma che ‘la città del Vaticano assume lo status di neutralità
permanente’; inoltre, il trattato contiene disposizioni sulla protezione del Pontefice e
disposizioni in materia di cooperazione penale.
Una previsione di particolare rilievo è quella secondo cui ‘la Santa Sede rimarrà
estranea alle competizioni territoriali fra gli Stati e ai congressi internazionali indetti
per tale effetto, a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua
missione di pace”. In base a questa previsione, la Santa Sede ha ad es. prestato la
sua opera di mediazione per la soluzione della controversia territoriale tra Argentina
e Cile sul Canale di Beagle.
Il Concordato disciplina, invece, le questioni relative all’esercizio del culto cattolico in
Italia. (il 18 Febbraio 1984 l’Italia e la Santa Sede hanno stipulato un Accordo
comportante ‘modificazioni al Concordato lateranense’. nonostante il titolo di
‘accordo’, questi sostituisce integralmente il Concordato del 1929).
La Santa Sede, in quanto ente internazionale, è esente da giurisdizione
nell’ordinamento italiano; a tal proposito, l’art.11 del Trattato del Laterano stabilisce
che ‘gli enti centrali della Chiesa cattolica siano esenti da ogni ingerenza da parte
dello Stato italiano. Si deve trattare però di enti che concorrono alla funzione di
governo della Chiesa cattolica, anche se ubicati fuori dal territorio della Città del
Vaticano. In caso contrario essi possono essere assoggettati alla giurisdizione
italiana, come ha stabilito la recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, che
ha disposto l’assoggettamento alla giurisdizione italiana di una controversia relativa
al licenziamento di un dipendente della Pontifica Università Lateranense’.
La Santa Sede, in quanto ente internazionale, deve essere tenuta distinta dalla Città
del Vaticano, che invece ha dominio territoriale. Tuttavia i due enti sono posti in
collegamento dal fatto che il Sommo Pontefice è l’autorità centrale tanto della Santa
Sede che dello Stato della Città del Vaticano.
Tutti i trattati che riguardano la sovranità su un territorio sono stipulati con la Città del
Vaticano e non con la Santa Sede, ad es. in materia monetaria l’Italia ha stipulato
una Convenzione con lo Stato della Città del Vaticano nel 1930, e poi nel 2000 in
occasione dell’introduzione dell’euro.
Lo Stato della Città del Vaticano, nonostante sia privo di litorale, ha anche diritto alla
libertà di navigazione. Infatti le navi potrebbero essere registrate e battere la
bandiera dello Stato della Città del Vaticano in virtù di un Decreto della Pontificia
Commissione dello Stato della Città del Vaticano; attualmente però nessuna nave
inalbera la bandiera vaticana.
A partire dal 6 Aprile 1964, la Santa Sede ha lo status di osservatore presso le
Nazioni Unite e partecipa ai lavori dell’Assemblea Generale, senza diritto di voto; il
suo status di osservatore è disciplinato in un annesso alla risoluzione dell’Assemblea
Generale 1 luglio 2004, n.58/314.

Ordine di Malta = singolare è la posizione all’interno della comunità internazionale


dell’Ordine di Malta (Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di
Gerusalemme, di Rodi e di Malta).
L’Ordine di Malta ha esercitato autorità di governo su diversi territori: inizialmente si
stabilì a Gerusalemme, poi a San Giovanni d’Acri, a Cipro e a Rodi; dal 1530 l’Ordine
ebbe in feudo (concessione) Malta, da cui fu cacciato Napoleone nel 1798. Dal 1798
è venuto meno ogni suo dominio territoriale, perchè Malta non venne retrocessa
all’Ordine, ma fu ceduta dalla Francia alla Gran Bretagna con il Trattato di pace del
1814.
Nonostante questo, l’Ordine di Malta ha svolto diverse attività di rilievo
internazionale: esso intrattiene relazioni diplomatiche con un certo numero di Stati,
relazioni che sono aumentate dopo la fine della guerra fredda e la dissoluzione
dell’Unione Sovietica.
I rappresentanti dell’Ordine di Malta sono accreditati presso alcune organizzazioni
internazionali, come es. l’Organizzazione Mondiale della Sanità; nel 1994 l’Ordine è
stato ammesso come osservatore presso l’Assemblea Generale.
Di particolare rilievo sono anche le funzioni umanitarie che svolge l’Ordine di Malta
sia in tempo di pace che in occasione di conflitti armati.
L’Ordine emette passaporti.
La giurisprudenza interna di alcuni Stati riconosce all’Ordine di Malta l’immunità della
giurisdizione civile, relativamente alle attività concernenti i fini pubblici dell’Ordine, sul
presupposto di una sua soggettività internazionale; anche la giurisprudenza italiana è
orientata in tal senso.
Due importanti pronunce della Cassazione (9 Agosto 2010 e 10 Luglio 2012)
riguardano le controversie in materia di lavoro con l’ACISMOM (Associazione dei
Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta), che non possono essere
sottratte alla giurisdizione italiana, tranne che si voglia ammettere che esista una
consuetudine costituzionale per cui l’Ordine è esente da giurisdizione nel nostro
ordinamento, e quindi il nostro Stato considererebbe l’Ordine come una persona
internazionale.
I rapporti tra l’Italia e l’Ordine di Malta sono disciplinati da uno scambio di note dell’11
Gennaio 1960, poi modificato dall’Accordo del 17 Maggio 2012 con relativo
protocollo attuativo. Il 1 Agosto 2003 è entrato in vigore un accordo tra Italia e Ordine
di Malta in materia sanitaria, stipulato in forma solenne.
Nonostante le forme di partecipazione dell’Ordine di Malta alla vita sociale
internazionale, parte della dottrina nega all’Ordine la qualità di soggetto del diritto
internazionale e vi è chi lo assimila ad un’organizzazione non governativa; secondo
altra parte della dottrina, l’Ordine sarebbe persona solo nei confronti dei soggetti che
lo riconoscono (il riconoscimento avrebbe natura costitutiva).
Dal 1834 l’Ordine ha sede a Roma, in due palazzi, uno di via Condotti e l’altro nel
palazzo dell’Aventino.
Il 5 Dicembre 1988 l’Ordine ha concluso un accordo con Malta relativo alla
concessione in affitto (lease) di una piccola porzione di territorio maltese per 99 anni;
ma l’accordo non è stato registrato presso il Segretariato Generale delle Nazioni
Unite.
L’Ordine vive in una condizione di dipendenza dalla Santa Sede, tanto che l’elezione
del Gran Maestro dell’Ordine deve essere ratificata dal Sommo Pontefice.
L’ingerenza della Santa Sede si riflette anche sulla revisione della legge
fondamentale dell’Ordine, cioè la sua costituzione e i codici melitensi.

Comitato Internazionale della Croce Rossa = fra gli enti non territoriali che
partecipano alla vita di relazione internazionale vi è anche il Comitato Internazionale
della Croce Rossa.
Il Comitato si è costituito nella forma di associazione di diritto privato ai sensi del
diritto svizzero e ha sede a Ginevra; esso è composto da individui che sono nominati
per cooptazione. Si è attenuato il requisito della cittadinanza svizzera originariamente
previsto per diventare membri del Comitato.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è un ente umanitario che promuove ‘i
principi fondamentali ed uniformi dell’istituzione della Croce Rossa’ ed opera con
assoluta indipendenza politica, confessionale ed economica.
Tale Comitato esplica funzioni rilevanti e svolge attività di rilievo internazionale
durante i conflitti armati. Nel caso di conflitto armato internazionale, le quattro
Convenzioni di Ginevra del 1949 assegnano al Comitato Internazionale della Croce
Rossa le funzioni di organizzazione umanitaria, nell’eventualità in cui non sia
possibile affidare questi compiti alle Potenze Protettrici o ad un sostituto di queste.
Il I Protocollo addizionale del 1977 assegna al Comitato Internazionale della Croce
Rossa il compito di facilitare la designazione delle Potenze Protettrici.
Per quanto riguarda i conflitti armati interni, il Comitato Internazionale della Croce
Rossa è menzionato dall’art.3 par.2 in cui viene definito come “l’organismo abilitato
ad offrire i suoi servigi alle parti in conflitto”.
Il Tribunale penale per la ex-Iugoslavia, nella decisione del 27 Luglio 1999, ha
riconosciuto al CICR il privilegio della non divulgazione delle informazioni in suo
possesso; questo privilegio deriverebbe dal diritto internazionale consuetudinario e
dai principi di neutralità, riservatezza, imparzialità, principi necessari all’esercizio del
mandato del CICR.
Al Comitato è stato attribuito lo status di osservatore presso l’Organizzazione delle
Nazioni Unite.
Il Comitato ha, inoltre, stipulato un accordo di sede con la Svizzera nel 1993,
affermando la sua volontà di essere considerato come una persona internazionale.
Altri accordi sono stati stipulati con gli Stati in cui opera il Comitato, che sono volti a
determinare lo status dei suoi funzionari, della sede della missione e dei relativi beni.
La Francia, con legge del 4 Giugno 2003, ha riconosciuto al Comitato e al suo
personale le stesse immunità attribuite alle Nazioni Unite secondo la Convenzione
sulle immunità delle Nazioni Unite del 1946.

- Enti non territoriali che hanno un legame con gli Stati:


Organizzazioni internazionali = una caratteristica dell’evoluzione del diritto
internazionale è data dal ruolo sempre più rilevante che hanno assunto le
organizzazioni internazionali. Con il termine ‘organizzazioni internazionali’ si indicano
le associazioni fra Stati sprovviste di un proprio apparato di organi.
Si tratta di enti che presentano un legame indissolubile, una sorta di cordone
ombelicale con gli Stati. Le Organizzazioni internazionali nascono per volontà degli
Stati (volontà espressa nel cd. trattato istitutivo) e possono estinguersi qualora si
affermi una volontà di estinzione degli Stati membri.
Le Organizzazioni internazionali sono enti derivati, e non enti originari della comunità
internazionale (come gli Stati sovrani e indipendenti).
Attualmente nella vita sociale internazionale opera un consistente numero di
organizzazioni internazionali, sia a carattere universale (es. le Nazioni Unite) che a
livello regionale (Consiglio d’Europa, Unione Africana..).
Le Organizzazioni internazionali hanno una struttura tripartita, composta da:
- una Assemblea, in cui sono rappresentati tutti gli Stati membri;
- un Consiglio esecutivo, organo più ristretto di cui sono membri solo alcuni
Stati;
- un Segretariato generale, che agisce nell’interesse esclusivo
dell’organizzazione.
Quindi, Assemblea e Consiglio esecutivo sono organi collegiali composti da Stati; il
Segretariato generale è un organo individuale e non può prendere istruzioni dagli Stati
membri dell’organizzazione
Vi sono anche Organizzazioni più complesse, come le Nazioni Unite e l’Unione Europea: gli
organi principali delle Nazioni Unite sono:
- l’Assemblea Generale : composta da tutti gli Stati membri
- il Consiglio di sicurezza : composto da 15 membri, di cui 5 membri permanenti con
diritto di veto, cioè Cina, Francia, Regno Unito, Federazione Russa e Stati Uniti; gli
altri 10 eletti a rotazione dall’Assemblea Generale per un periodo di 2 anni e non
immediatamente rieleggibili. Da tempo si è tentato di riformare il Consiglio di
sicurezza, che nella sua composizione rispecchia l’ordine mondiale del 1945, ma
ormai divenuto anacronistico. Tuttavia, i tentativi di ampliare il numero dei membri
permanenti (con o senza diritto di veto) o di aumentare il numero dei membri non
permanenti con la possibilità di essere immediatamente rieletti dopo un biennio, non
sono stati coronati con successo.
- il Consiglio economico e sociale : composto di 54 membri eletti dall’Assemblea
Generale
- il Consiglio di amministrazione fiduciaria, le cui funzioni sono cessate con la fine della
decolonizzazione
- la Corte internazionale di giustizia : che si compone di 15 giudici che siedono a titolo
individuale e durano in carica 9 anni
- il Segretariato, con a capo il Segretariato generale.
Nonostante l’atto istitutivo di Organizzazioni internazionali sia il trattato, recentemente sono
state costituite Organizzazioni internazionali non fondate su un trattato.
L’art. 2 del Progetto di articoli sulla responsabilità delle Organizzazioni internazionali
qualifica come Organizzazioni internazionale “un’Organizzazione istituita mediante trattato o
altro strumento disciplinato dal diritto internazionale; non sono invece organizzazioni
internazionali gli enti costituiti in virtù del diritto interno di uno Stato, nonostante annoverino
tra i membri gli Stati”.
Un es. di Organizzazione alla cui base non si trova un trattato istitutivo è l’Organizzazione
per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE), di cui sono membri gli Stati europei.
L’OSCE ha una struttura istituzionale molto complessa, adesso versa in uno stato di
profonda crisi e sembra aver compiuto la sua missione storica. Si è saputo di diversi tentativi
di riforma, ma fin ora non sono stati coronati con successo.
Gli Stati diventano membri delle Organizzazioni internazionali mediante una procedura di
ammissione, che comporta in genere che la domanda di ammissione sia accettata mediante
una delibera da parte degli organi dell’organizzazione, che valutano la capacità dello Stato
candidato di adempiere gli obblighi connessi alla qualità di membro.
es. nelle Nazioni Unite, la procedura di ammissione è disciplinata dall’art.4 della Carta. Uno
Stato che abbia presentato domanda di ammissione diventa membro delle Nazioni Unite
mediante una decisione dell’Assemblea Generale, che delibera su proposta del Consiglio di
sicurezza.
Uno Stato può essere sospeso oppure espulso dall’organizzazione, l’espulsione implica la
perdita della qualità di membro. Si tratta di misure sanzionatorie che vengono comminate nei
confronti dello Stato che si ritiene colpevole di gravi violazioni degli obblighi imposti dallo
Statuto.
La sospensione e l’espulsione sono previste dagli art.5-6 della Carta delle Nazioni Unite, ma
si tratta di misure che non sono mai state adottate (è necessaria una delibera
dell’Assemblea Generale, su proposta del Consiglio di sicurezza).
La procedura di voto degli organi collegiali dell’Organizzazione è disciplinata dai relativi atti
istitutivi oppure è frutto della prassi invalsa nell’organo. Si distingue tra consensus,
unanimità, maggioranza semplice e maggioranza qualificata.
Il consensus è definito nelle Regole di procedura della Conferenza sulla Sicurezza e
Cooperazione in Europa come “l’assenza di qualsiasi obiezione formulata dal
rappresentante di uno Stato e da lui considerata come un ostacolo all’adozione di una
decisione in proposito”. Quando un atto è adottato per consensus non ha luogo una
votazione formale e il presidente dell’organo si limita a constatare che non esiste nessuna
obiezione all’adozione della proposta di risoluzione. Uno Stato può, prima dell’adozione della
risoluzione o immediatamente dopo, manifestare le proprie riserve circa il contenuto della
delibera, senza opporsi alla sua adozione.
Il consensus è un metodo che permette di proteggere la minoranza, i cui interessi sarebbero
pregiudicati da un voto maggioritario.
L’adozione di un atto per consensus è il risultato di una trattativa e di un’opera di
mediazione; il contenuto dell’atto è spesso ambiguo, dovendo tenere spesso conto degli
interessi di tutti i partecipanti.
Nell’unanimità è richiesto il voto positivo di tutti i componenti l’organo; a differenza del
consensus, l’unanimità comporta un’espressa manifestazione di volontà (si precisa che
l’astensione non ostacola l’adozione delle delibere in cui è richiesta l’unanimità).
Quando viene richiesta la maggioranza semplice, l’atto è adottato qualora sia stato votato
dal 50%+1 degli Stati componenti l’organo; poi dipende dallo Statuto dell’organizzazione o
dalle regole di procedura stabilire se si debbano computare ai fini del quorum tutti gli stati
membri o solo i presenti e votanti (es. con riferimento all’Assemblea Generale, l’art.18 della
Carta delle Nazioni Unite stabilisce che le delibere relative a questioni non rientranti tra
quelle definite come ‘importanti’ debbano adottarsi a maggioranza dei membri presenti e
votanti).
La maggioranza qualificata assume varie modalità: può essere innanzitutto una
maggioranza di ⅔. L’art.18 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che le decisioni
dell’Assemblea Generale su ‘questioni importanti’ siano prese a maggioranza dei ⅔ dei
membri presenti e votanti. Altre volte la maggioranza necessaria per l’adozione dell’atto
deve comprendere il voto di determinati Stati (es. l’art.27 della Carta delle Nazioni Unite
afferma che le decisioni del Consiglio di sicurezza su questioni di sostanza vengono prese
con un voto favorevole di 9 membri sui 15 componenti il Consiglio, nel quale siano compresi
i voti dei membri permanenti, che godono del diritto di veto).
Un’ulteriore modalità di maggioranza qualificata è costituita dalla ‘ponderazione dei voti’ (es.
nel Consiglio dei Governatori del Fondo Monetario Internazionale, ciascuno Stato dispone di
un numero di voti in proporzione alle quote versate al Fondo).
Fra le varie forme con cui si realizza la partecipazione delle Organizzazioni internazionali
alla vita di relazione internazionale assume particolare rilievo la capacità ad esse
riconosciuta di concludere accordi con Stati o con altre organizzazioni internazionali.
Inoltre, le Organizzazioni internazionali sono titolari del diritto alla protezione dei propri
funzionari da parte dello Stato sul cui territorio si trovano ad operare. Il diritto di protezione e
il correte diritto di ottenere la riparazione nel caso di violazione è stato riconosciuto
espressamente alle Nazioni Unite dalla Corte internazionale di giustizia relativamente alla
‘riparazione dei danni subiti dalle Nazioni Unite’.
Le Organizzazioni internazionali sono dotate di personalità internazionale, in particolare la
Corte ha affermato che “gli strumenti istitutivi delle organizzazioni internazionali sono trattati
internazionali di una categoria speciale: il loro scopo è la creazione di nuovi soggetti del
diritto dotati di una certa autonomia, cui le parti affidano il compito di realizzare fini comuni”.
Si tratta quindi di enti dotati di una struttura permanente, muniti di organi che consentono di
esercitare funzioni sul piano internazionale e che perseguono fini distinti da quelli degli Stati
membri. Inoltre, la Corte ha ribadito che le organizzazioni internazionali sono dei “soggetti di
diritto internazionale che non posseggono una competenza generale (a differenza degli
Stati)”.
Quindi, le Organizzazioni internazionali hanno una limitata capacità internazionale e sono
titolari di un numero limitato di situazioni giuridiche soggettive.
Bisogna distinguere la ‘personalità internazionale’ con la ‘capacità di diritto interno’:
- la ‘personalità internazionale’ ha per oggetto la titolarità di situazioni giuridiche
soggettive derivanti da norme internazionali. La personalità internazionale non può
essere conferita dal trattato istitutivo e quindi dagli Stati; essa deriva dall’ordinamento
internazionale. Tutto quello che si può ammettere è che gli Stati contraenti si
obbligano a considerare l’organizzazione come persona internazionale nei loro
rapporti reciproci. La menzione della personalità internazionale dell’ente nell’atto
istitutivo ha un mero valore ricognitivo.
- la ‘capacità di diritto interno’ implica che l’organizzazione, negli ordinamenti degli
Stati parti del trattato istitutivo, gode della capacità giuridica necessaria per lo
svolgimento delle sue funzioni.
es. può acquistare o alienare beni immobili o stare in giudizio.
L’art.104 della Carta delle Nazioni Unite recita: “L’Organizzazione gode, nel territorio
di ciascuno dei suoi Membri, della capacità necessaria per l’esercizio delle sue
funzioni e per il perseguimento dei suoi fini”.
L’art.335 TFUE stabilisce che “in ciascuno degli Stati membri, l’Unione ha la più
ampia capacità giuridica riconosciuta alle persone giuridiche dalle legislazioni
nazionali; in particolare, essa può acquistare o alienare beni immobili e mobili e stare
in giudizio”.

Le Organizzazioni internazionali, a differenza degli Stati, non hanno un territorio, per cui non
godono del diritto di sovranità territoriale e non esercitano le relative competenze. Esse
esercitano le proprie funzioni tramite un apparato istituzionale che ha sede in uno Stato
membro e con cui stipulano ‘un accordo di sede’ che stabilisce i reciproci diritti e doveri.
Una questione che si è posta di recente riguarda se e in quale misura le Organizzazioni
internazionali abbiano un dovere di protezione nei confronti dei propri funzionari.
Eccezionalmente può capitare che esse siano chiamate all’amministrazione di territori, ad
es. le Nazioni Unite hanno assicurato l’amministrazione del Kosovo e hanno esercitato poteri
normativi per l’amministrazione del territorio.
La dipendenza dell’Organizzazione internazionale dall’accordo istitutivo e, in ultima analisi,
dagli Stati, si riflette sul problema della responsabilità internazionale per determinare
(qualora sia stato commesso un fatto illecito) se l’obbligo di riparazione incomba
sull’organizzazione o sugli Stati membri collettivamente considerati.

Le ONG, cioè le Organizzazioni Non Governative, si differenziano dagli enti fin ora
esaminati: si tratta di organizzazioni private a carattere trasnazionale, il cui atto istitutivo è
fondato sull’ordinamento interno di uno o più Stati. Le ONG spesso fungono da gruppi di
pressione per le più svariate materie e hanno talvolta uno statuto di osservatore presso le
organizzazioni internazionali. Esse possono presentare memorie scritte ai tribunali
internazionali senza divenire parti processuali, se così dispone lo Statuto del Tribunale.
es. di ONG : Amnesty International e Greenpeace, la prima particolarmente attiva nel campo
dei diritti umani e la seconda in quello delle questioni ambientali.

- Enti partecipanti occasionalmente alla vita di relazione internazionale:


L’individuo = nonostante qualche opinione contraria, è difficile ammettere la
personalità internazionale dell’individuo.
L’individuo non partecipa a nessuna delle tre funzioni essenziali dell’ordinamento
giuridico, ad eccezione di una limitata capacità circa l’accertamento del diritto
relativamente ai trattati che proteggono i diritti umani; esso è estraneo alla funzione
di produzione del diritto e alla funzione della sua realizzazione coercitiva.
Bisogna considerare due categorie di norme: le norme in materia di protezione dei
diritti dell’uomo e le norme relative ai crimini internazionali.
- le norme in materia di protezione dei diritti dell’uomo sono norme che si
dirigono agli Stati, che sono obbligati all’interno dei loro ordinamenti ad
accordare determinati diritti agli individui
- le norme sui crimini internazionali non sono concepibili come norme che
impongono direttamente doveri agli individui, ma come norme che obbligano
gli Stati a dettare, all’interno del loro ordinamento nazionale, norme
incriminatrici e punire i comportamenti lesivi.
Tuttavia, per l’ordinamento internazionale l’individuo è ritenuto responsabile di un crimine
internazionale, sebbene il fatto non sia considerato tale dalla legge penale interna. Questa è
l’opinione del Tribunale di Norimberga che in un celebre dictum affermò che “gli individui
hanno doveri che vanno al di là degli obblighi di obbedienza imposti dallo Stato”.
Si può seguire anche un’altra costruzione: l’ordinamento internazionale impone
all’ordinamento interno di reprimere i crimini internazionali. Il dovere dell’individuo di non
commettere crimini internazionali non deriva dall’ordinamento internazionale, ma dalla
norma interna di adattamento al diritto internazionale. Nel caso in cui ci sia discrasia tra
l’ordinamento internazionale e l’ordinamento interno, nel senso che un fatto è ritenuto crimen
iuris gentium dal primo ma non è punito dal secondo, la norma di origine internazionale deve
essere comunque applicata all’interno dell’ordinamento nazionale.
A tal proposito, l’art.15 del Patto delle Nazioni Unite, dopo aver stabilito che nessuno può
essere punito per un fatto che non costituiva reato nel momento in cui è stato commesso,
aggiunge che si può essere condannati per atti che al momento in cui furono commessi
costituivano reati secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalla comunità delle
nazioni.
Allo stesso modo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, stabilisce delle cd. ‘smart
sanctions’ che colpiscono gli individui, impedendone le libertà di movimento all’estero o
stabilendo il congelamento dei loro beni; spetta agli Stati applicare le misure necessarie per
far rispettare la delibera del Consiglio.
Per quanto riguarda le situazioni giuridiche di natura processuale, l’individuo può avviare il
procedimento davanti al Comitato dei diritti dell’uomo per far valere una violazione del Patto
del 1966 sui diritti civili e politici; la procedura si conclude con una constatazione che non ha
carattere obbligatorio.
Più incisiva è la procedura per far valere una violazione della Convenzione europea del
1950 davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo: in questo caso, la procedura implica
una partecipazione attiva dell’individuo e si conclude con una sentenza, cioè un atto
giuridicamente vincolante.
Nell’ordinamento dell’UE, l’individuo è titolare di diritti ed obblighi ed è legittimato a
presentare ricorso davanti al Tribunale e alla Corte di giustizia (ad es. per l’annullamento di
una decisione) .
Quanto detto per l’individuo, vale anche per la persona giuridica: i trattati bilaterali in materia
di investimento possono attribuire determinati diritti alle imprese, ad es. per il rimpatrio degli
utili; ma in realtà i rapporti giuridici intercorrono tra Stato nazionale dell’impresa e Stato
ospitante. L’impresa godrà di diritti all’interno dello Stato ospitante in seguito all’attuazione
del trattato internazionale all’interno dello Stato stesso. Quanto ai doveri attribuiti all’impresa
da strumenti di soft law (ad es. obbligo di tutelare diritti umani e altri doveri in materia sociale
stabiliti dalle linee guida dell’OCSE per le imprese multinazionali del 2000), non sembra che
questi strumenti possano essere utilizzati per fondare la personalità internazionale di
un’entità non statale.
Come accade per gli individui, anche per le imprese diritti e obblighi sono filtrati attraverso lo
schermo statale.
Tutto ciò vale anche per le imprese multinazionali caratterizzate da una sede principale e da
varie sussidiarie localizzate in numerosi Stati.
Occorre ricordare che nel caso ‘La Grand’ la Corte internazionale di giustizia ha affermato
che l’art. 36 della Convenzione sulle relazioni consolari del 24 Aprile 1963 afferma che le
autorità dello Stato in cui si trova l’individuo devono avvertire sollecitamente, a richiesta
dell’interessato, lo Stato nazionale in caso di arresto di un suo cittadino, attribuisce un diritto
agli individui. Questo diritto può essere azionato davanti alla Corte internazionale di giustizia
esclusivamente dagli Stati.
La giurisprudenza del caso La Grand è stata riconfermata nel caso ‘Avena’.
La Corte internamericana dei diritti dell’uomo invece ha affermato che il titolare del diritto
corrispondente all’obbligo di tenere informato lo Stato nazionale della detenzione è
l’individuo.

Cap. 2: Il riconoscimento

Il riconoscimento di nuovi Stati:


La nascita di uno Stato sovrano e indipendente è un avvenimento che si realizza sul piano
storico, quindi un situazione di fatto di cui il diritto internazionale prende semplicemente atto
(principio di effettività).
Ogni volta che una nuova entità statale si affaccia sulla scena internazionale, vi è tra i
membri della comunità degli Stati preesistenti la pratica di procedere al riconoscimento del
nuovo Stato. Con il riconoscimento, gli Stati preesistenti prendono atto della realtà del nuovo
Stato e manifestano la volontà di entrare in relazione con esso.
Nella prassi il riconoscimento ha avuto diverse forme, si parla di:
- Riconoscimento ‘de iure’, o ‘pieno’ = nel caso in cui lo Stato che vi procede ritiene
che la situazione del nuovo Stato sia caratterizzata da piena stabilità e quindi si può
procedere all’instaurazione di normali relazioni con esso.
- Riconoscimento ‘de facto’ = è una forma più blanda di riconoscimento che si ha
quando lo Stato preesistente, pur prendendo atto dell’esistenza di un’autorità
indipendente che esercita effettivamente il potere di governo su un territorio, nutre
riserve circa la stabilità della situazione del nuovo Stato e perciò intende instaurare
relazioni di basso profilo con esso.
es. la Repubblica Democratica Tedesca fu inizialmente oggetto di mero
riconoscimento de facto da parte del Regno Unito, che solo successivamente
procedette al riconoscimento de iure.
Vi è una differenza tra le due forme di riconoscimento, differenza che se anche caduta in
disuso, conserva un suo fondamento teorico: dal punto di vista formale, l’atto di
riconoscimento può avere i più svariati contenuti: può trattarsi di un semplice messaggio di
congratulazioni al Capo dello Stato del nuovo Stato per la raggiunta indipendenza oppure di
una nota formale, in cui la nuova entità viene riconosciuta come uno Stato indipendente e
sovrano. La nota può provenire dal Capo dello Stato recognoscente oppure dal Ministro
degli affari esteri oppure da un organo che esprime la volontà dello Stato nelle relazioni
internazionali.
Oltre che il Riconoscimento esplicito = cioè quello derivante da un’apposita dichiarazione
formale; il riconoscimento può essere anche Riconoscimento tacito o implicito = cioè un
riconoscimento risultante da comportamenti concludenti dello Stato preesistente (es.
instaurazione di relazioni diplomatiche con il nuovo Stato, stipulazione di trattati).
Per evitare che la partecipazione ad un trattato multilaterale da parte del nuovo Stato possa
essere considerata come una forma di riconoscimento implicito, gli Stati parti spesso
affermano che la loro partecipazione al trattato multilaterale non comporta riconoscimento
del nuovo Stato.
La partecipazione ad un’organizzazione internazionale (es. Nazioni Unite) non comporta il
riconoscimento implicito da parte degli Stati membri.
Il riconoscimento non ha valore costitutivo della personalità internazionale dello Stato: esso
è un atto politico ed è pienamente discrezionale. A tal proposito, la Commissione di arbitrato
sulla ex Iugoslavia (cd. Commissione Badinter) ha più volte affermato che il riconoscimento
ha un effetto dichiarativo (e quindi non costitutivo) della personalità internazionale dello
Stato. Nonostante questo, il riconoscimento rappresenta l’atto di fondazione della vita
sociale del nuovo Stato, nel senso che da esso dipende la possibilità di tale Stato di
intrattenere normali relazioni con gli Stati preesistenti.
Quindi, uno Stato di nuova formazione che non fosse oggetto di riconoscimento da nessuno
degli Stati preesistenti sarebbe titolare soltanto di alcuni diritti ed obblighi derivanti dalle
norme di diritto consuetudinario che per la loro operatività non presuppongono l’esistenza di
relazioni diplomatiche. Gli Stati preesistenti non possono ignorare i diritti elementari che
spettano ad uno Stato non riconosciuto.
Si ha quindi che il riconoscimento contribuisce a creare l’effettività della situazione e a
consolidare l’esistenza del nuovo Stato.
Di regola, uno Stato non riconosciuto o la cui esistenza è contestata da una componente
importante della comunità internazionale non può divenire membro delle Nazioni Unite.
Il riconoscimento può essere sottoposto dallo Stato preesistente a condizioni, come ad es. il
rispetto dei diritti delle minoranze, subentro nei trattati del predecessore…
La nuova entità da riconoscere deve essere effettivamente uno Stato indipendente e il
riconoscimento non deve essere prematuro. (prematuro fu probabilmente il riconoscimento
effettuato dalla Santa Sede e successivamente dalla Germania nei confronti della Slovenia e
della Croazia, che non erano ancora completamente indipendenti dalla Repubblica federale
socialista di Iugoslavia. La Bosnia Erzegovina proclamò la sua indipendenza il 3 Marzo
1992, e il riconoscimento della Repubblica iugoslava è da inquadrare nella fattispecie del
riconoscimento di belligeranza, piuttosto che come riconoscimento di nuovi Stati).
Gli Stati non dovrebbero riconoscere entità che sono sorte grazie all’aggressione e alla
violazione del divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali.
Un problema è sorto per il Kosovo, che ha proclamato la propria indipendenza il 17 Febbraio
2008 nonostante mancasse il requisito dell’effettività per poter essere considerato un nuovo
soggetto di diritto internazionale. L’indipendenza kosovara si fonda sull’intervento armato
della Nato nel 1999; la contrarietà dell’intervento alle regole del diritto internazionale sull’uso
della forza è stata sanata dalla successiva ris.1244 del Consiglio di sicurezza che, tuttavia,
per la sua ambiguità, ribadisce la sovranità territoriale della Iugoslavia e nello stesso tempo
riconosce solo una sostanziale autonomia e autogoverno del Kosovo, ma non
l’autodeterminazione o l’indipendenza.
Un altro principio che si è affermato ad Helsinki nel 1975 come principio cardine della
sicurezza europea è il divieto di mutare le frontiere ricorrendo all’uso della forza.
Il Kosovo è l’unico esempio di Stato la cui nascita è dovuta ad un impiego illecito della forza.
Il Kosovo è stato peraltro riconosciuto da un numero di Stati che rappresenta circa ¼ della
comunità internazionale, ma l’opposizione di almeno 1 membro permanente del Consiglio di
sicurezza (in questo caso il membro fu la Federazione russa) ne rese impossibile l’ingresso
nelle Nazioni Unite. L’8 Ottobre 2008 si chiese un parere alla Corte internazionale di
giustizia sulla liceità, secondo il diritto internazionale, della proclamazione di indipendenza
kosovara; il parere, reso il 22 Luglio 2010, non fu un esempio di limpidezza giuridica: la
Corte ha affermato che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non violava il diritto
internazionale poichè la prassi degli Stati è ricca di precedenti simili. Così, la Corte ha
affermato, per aggirare l’ostacolo, che l’autore della dichiarazione di indipendenza era il
popolo kosovaro e non l’amministrazione provvisoria che governava in quel momento la
regione.
Anche per lo Stato turco di Cipro del Nord è stato stabilito il dovere di non riconoscimento
perchè la sua creazione è frutto dell’intervento turco del 1974.
Oltre al Kosovo, esistono in Europa orientale e nel Caucaso altre entità di fatto la cui
indipendenza non è stata ancora riconosciuta, come la Transnistria in Moldavia.
Qual è la condizione giuridica dello Stato non riconosciuto nell’ordinamento interno dello
Stato non recognoscente? in linea di principio, lo Stato non riconosciuto dovrebbe avere
‘locus standi’ davanti ai tribunali dello Stato non recognoscente, dovrebbe godere
dell’immunità della giurisdizione di fronte ai tribunali di quest’ultimo e dovrebbe vedere le sue
norme e sentenze applicate, in virtù del rinvio operato dal diritto internazionale privato.
Questa è la prassi seguita dalle corti continentali; al contrario, nei paesi di common law
(dove le corti seguono le raccomandazioni dell’esecutivo circa la qualità statuale dell’ente
non riconosciuto) lo Stato non recognoscente non ha di regola nessun locus standi di fronte
ai tribunali e le norme del suo ordinamento non vengono riconosciute.

Riconoscimento di nuovi Governi:


Dal riconoscimento di nuovi Stati, si distingue il riconoscimento di nuovi Governi nel caso in
cui si verifichi un mutamento rivoluzionario di regime.
La distinzione è ancora valida, nonostante sia stata considerata scarsamente rilevante,
motivo per il quale alcuni Stati hanno abbandonato la prassi del riconoscimento di Governi:
ad es. il Regno Unito a partire dal 1980 non opera più il riconoscimento di Governi, ma solo
il riconoscimento di Stati, proprio per evitare che un atto formale di riconoscimento possa
essere interpretato come un’approvazione della politica perseguita dal nuovo governo. Il
Regno Unito si limita a prendere atto della situazione e a intrattenere rapporti con il nuovo
governo, qualora questi controlli effettivamente il territorio.
Il riconoscimento di un nuovo Governo è effettuato nel caso di mutamento rivoluzionario del
governo al potere in uno Stato preesistente.
Il mutamento rivoluzionario di regime, seppure comporti una rottura costituzionale, non
estingue lo Stato come soggetto di diritto internazionale. In genere, il nuovo Governo, per
attrarre il riconoscimento, si affretterà a proclamare che rispetterà i trattati internazionali
stipulati dal vecchio regime ed onorerà il debito estero che aveva contratto.
Il riconoscimento di Governi esprime la volontà dello Stato che vi procede di mantenere con
il nuovo governo le stesse relazioni internazionali che si avevano con il governo precedente.
Si tratta di un atto di natura politica, quindi discrezionale.
I motivi che possono indurre gli Stati a non riconoscere il nuovo governo sono diversi: ad es.
gli Stati occidentali non riconobbero il Governo afgano installato al potere dall’Unione
Sovietica tra il 1979 e 1980. Non lo riconobbero perchè il nuovo governo mancava di
effettività e rappresentatività.
Altre volte, il mancato riconoscimento dipende dal fatto che il nuovo governo non è un
governo democratico e vìola in modo massiccio i diritti dell’uomo.
Il mancato riconoscimento non significa che viene interrotto ogni rapporto tra i due Stati:
anzi, i trattati bilaterali rimangono in vigore e le relazioni diplomatiche continuano, anche se
ad un livello più basso del precedente. (es. dopo il colpo di Stato in Cile, le relazioni
diplomatiche Italia-Cile continuarono a livello di incaricati ufficiali).
Il riconoscimento di governo ha una rilevanza pratica notevole anche quando ci siano due
organizzazioni di governo rivali che pretendono entrambe di essere riconosciute come il
governo legittimo di uno Stato (es. nel caso in cui, a seguito della rivoluzione, il governo
spodestato continua a controllare una parte del territorio dello Stato; oppure quando, sempre
a seguito di un colpo di Stato, eventualmente provocato da un intervento straniero, il
governo spodestato si rifugia all’estero e continua ad essere considerato, a volte per lungo
tempo, come il Governo legittimo da vari Stati e persino dalle Nazioni Unite).

Il riconoscimento di insorti:
Il riconoscimento di insorti (recognition of insurgency) esprime la volontà di Stati terzi rispetto
al conflitto di non trattare gli insorti come meri criminali. Questo tipo di riconoscimento viene
effettuato dagli Stati terzi che vogliono mantenere relazioni con il movimento insurrezionale,
soprattutto allo scopo di garantire la protezione dei propri cittadini stanziati nel territorio
controllato dagli insorti.
Si tratta di un atto di natura politica (e non giuridica) che non ha valore costitutivo della
personalità giuridica degli insorti.
Secondo una parte della dottrina, un riconoscimento prematuro costituisce un illecito
internazionale nei confronti dello Stato in cui è in atto l’insurrezione.
es. il riconoscimento del Consiglio Nazionale Transitorio libico, che controllava Bengasi e la
Cirenaica prima della presa di potere sull’intera Libia e la definitiva scomparsa del regime di
Gheddafi, è un esempio di riconoscimento di insorti.

Il riconoscimento di belligeranza in caso di guerra civile:


Il riconoscimento di belligeranza (recognition of belligerency) è l’atto con cui una guerra
civile viene equiparata ad una guerra internazionale. Nel caso in cui ciò accada, lo Stato che
procede al riconoscimento è tenuto ad applicare le regole dei conflitti armati internazionali.
Pertanto, se il riconoscimento viene effettuato dagli Stati terzi, questi sono obbligati ad
applicare il diritto di neutralità; se invece è il governo legittimo ad effettuare il
riconoscimento, esso dovrà applicare le regole dei conflitti armati internazionali e
considerare i ribelli come legittimi combattenti.
Il riconoscimento di belligeranza è un atto giuridico, poichè comporta conseguenze
giuridiche, cioè l’estensione ad un conflitto armato interno delle regole dei conflitti armati
internazionali.
I terzi effettuano il riconoscimento di belligeranza allo scopo di limitare il conflitto
obbligandosi ad una politica di non intervento: es. il Regno Unito riconobbe come belligeranti
i Confederati durante la guerra civile americana; pertanto essi potevano esercitare il diritto di
visita in alto mare e confiscare le merci che costituivano contrabbando di guerra.
Un altro es. è dato dal riconoscimento del partito insurrezionale durante la guerra civile in
Nicaragua da parte degli Stati membri del Gruppo Andino.
Bisogna ammettere che il riconoscimento di belligeranza operato dal governo legittimo è più
un’ipotesi di scuola.
Si discute ancora se vi sia stato implicito riconoscimento di belligeranza da parte della
Francia nella fase finale della rivoluzione algerina o da parte della Nigeria in occasione della
secessione del Biafra: nel primo caso, la Francia esercitò alcuni diritti di belligeranza nei
confronti dei terzi, le cui navi furono arrestate in alto mare; nel secondo caso, la Nigeria
estese il trattamento dei prigionieri di guerra ai ribelli biafrani e ne bloccò i porti. Quindi, i due
Stati tennero dei comportamenti tipici dei conflitti armati internazionali.
Il riconoscimento di movimenti di liberazione nazionale:
Con la decolonizzazione, ha assunto rilevanza anche il riconoscimento di movimenti di
liberazione nazionale, cioè l’atto con cui si constata che il movimento è l’ente che
rappresenta il popolo in lotta per l’autodeterminazione.
Vi sono casi in cui i movimenti di liberazione nazionale aspirano a rappresentare un
determinato popolo.
Per individuare quale movimento sia legittimo rappresentante del popolo in questione,
acquista una notevole importanza il riconoscimento effettuato dagli Stati e dalle
organizzazioni internazionali. In particolare, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha
attribuito ad organizzazioni regionali come l’Organizzazione per l’Unità Africana (ora Unione
Africana) e la Lega Araba, la competenza a riconoscere i movimenti di liberazione nazionale
legittimati a rappresentare i popoli africani e il popolo palestinese in lotta per
l’autodeterminazione.
In questi casi, il riconoscimento ha una sua importanza per individuare l’ente che ha il diritto
a partecipare ad una conferenza internazionale oppure da prendere in considerazione ai fini
della futura indipendenza del territorio.
All’Assemblea Generale è stato assegnato il compito di determinare l’unità territoriale ai fini
dell’autodeterminazione: ciò è accaduto per quanto riguarda il Sahara occidentale.

Il riconoscimento di situazioni giuridiche:


Il riconoscimento, in quanto atto unilaterale, può avere per oggetto non solo un ente, ma
anche una situazione che si riconosce come conforme a diritto.
Il riconoscimento di situazioni giuridiche ha una sua importanza nelle annessioni territoriali e
nell’estensione della sovranità dello Stato costiero sulle aree marine adiacenti alle sue coste.
es. il Regno Unito riconobbe, prima de facto e poi de iure, l’annessione italiana dell’Etiopia
nel 1936, anche se poi revocò il riconoscimento nel 1939
Il riconoscimento rende incontestabile una determinata situazione e produce una specie di
preclusione per lo Stato che lo opera. Lo Stato non può successivamente contestare la
situazione e non può affermare che essa non è conforme a diritto. Per questi motivi, il
riconoscimento di situazioni giuridiche è un atto giuridico.

Il disconoscimento e le politiche di non riconoscimento:


Il disconoscimento (de-recognition) è la condotta tenuta da uno Stato nei confronti di un ente
che non si vuole riconoscere oppure che non si vuole più riconoscere.
Il disconoscimento può assumere due varianti:
1. può consistere nell’assenza di riconoscimento nei confronti di un ente che ha tutti i
requisiti per essere riconosciuto (es. il comportamento tenuto per molti anni dagli
Stati Uniti nei confronti della Cina comunista)
2. può concretizzarsi nel ritiro del precedente riconoscimento (es. gli Stati occidentali
per poter instaurare rapporti con la Cina comunista, dovettero revocare il
riconoscimento nei confronti del Taiwan)
Oggetto di disconoscimento possono essere anche i governi: ad es. venne disconosciuto il
governo di Gheddafi.
Le politiche di non riconoscimento sono seguite dagli Stati nei confronti di altri enti
internazionali e nei confronti di una determinata situazione giuridica, volontariamente, in
seguito a sollecitazione di un terzo oppure in attuazione di una risoluzione del Consiglio di
sicurezza, che può avere anche natura obbligatoria.
- nel caso di politiche di non riconoscimento seguite dagli Stati nei confronti di altri enti
internazionali e nei confronti di una determinata situazione giuridica volontariamente
= qui, la politica di non riconoscimento è equiparabile al disconoscimento. Nella
dichiarazione di Bruxelles, la comunità europea e i suoi membri stabilirono che non
avrebbero mai riconosciuto entità che fossero il risultato di aggressioni.
- nel caso di politiche di non riconoscimento seguite dagli Stati nei confronti di altri enti
internazionali e nei confronti di una determinata situazione giuridica a seguito di
sollecitazione di un terzo = la politica di non riconoscimento è il risultato delle
pressioni di un terzo Stato che intende tenere isolato un soggetto di diritto
internazionale dal resto della comunità internazionale. A tal proposito, prima della
normalizzazione dei rapporti tra le due Germanie, la Germania federale affermò che
avrebbe interrotto le relazioni diplomatiche con gli Stati che avessero riconosciuto la
Repubblica Democratica Tedesca; parimenti, Taiwan affermò che avrebbe interrotto
le relazioni diplomatiche con quegli Stati che avessero riconosciuto la Cina
comunista. Tuttavia, alla fine la situazione fu completamente rovesciata perchè la
Cina comunista pose come presupposto per il proprio riconoscimento e per
l’instaurazione di relazioni diplomatiche il disconoscimento di Taiwan.
- nel caso di politiche di non riconoscimento seguite dagli Stati nei confronti di altri enti
internazionali e nei confronti di una determinata situazione giuridica in attuazione di
una risoluzione del Consiglio di sicurezza = in questo caso, una politica collettiva di
non riconoscimento può aver luogo in virtù di una risoluzione del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite. Nel caso in cui la risoluzione abbia natura obbligatoria,
gli Stati hanno il dovere di adottare una politica di non riconoscimento (cd. non
riconoscimento collettivo).
Un es. di non riconoscimento da parte degli Stati nei confronti di enti internazionali è
dato dalla ris.541 del Consiglio di sicurezza che ha invitato gli Stati a non riconoscere
la Repubblica turca di Cipro del Nord.
Per quanto riguarda il non riconoscimento di situazioni giuridiche, un es. è dato dalla
ris.276 del Consiglio di sicurezza che dichiara nulla l’annessione da parte del Sud
Africa e la ris.622 che dichiara nulla e non avvenuta l’annessione del Kuwait da parte
dell’Iraq.
L’obbligo di non riconoscimento può derivare direttamente dall’ordinamento internazionale,
senza che sia necessario imporlo mediante una risoluzione del Consiglio di sicurezza.
L’art.41 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale dello Stato impone agli
Stati di non riconoscere come legittima una situazione creata mediante una grave violazione
di un dovere derivante da una norma imperativa del diritto internazionale.
Tra le situazioni illegali vi è ‘la costruzione del muro in Palestina’ e l’ ‘annessione della
Crimea’: per quanto riguarda la costruzione del muro in Palestina= la Corte, dopo aver
affermato la contrarietà al diritto internazionale della costruzione del muro, ha stabilito che gli
Stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale derivante dalla costruzione del
muro nel territorio palestinese sotto occupazione; per quanto riguarda l’annessione della
Crimea = la Crimea, che già godeva di una certa autonomia, ha proclamato la propria
indipendenza nel marzo 2014.

Cap.3: Status soggettivi degli enti internazionali


La Neutralità permanente:
Per quanto concerne la condizione dei soggetti di diritto internazionale, la dottrina
tradizionale ha elaborato una teoria degli status giuridici soggettivi. Tra questi status vi sono
annoverati ad es. la qualità di Stato neutralizzato, di Stato protetto o di membro delle Nazioni
Unite.
L’espressione ‘status giuridici soggettivi’ è una pura denominazione di comodo e viene
attribuita solo alla neutralità permanente e a determinate figure affini a questa.
La neutralità permanente in tempo di pace è differente dalla neutralità durante la guerra (cd.
neutralità occasionale):
- Neutralità permanente in tempo di pace = lo Stato che si trova vincolato ad una
politica di neutralità permanente assume degli obblighi in tempo di pace e, in tempo
di guerra, ha il dovere di restare neutrale.
Nel caso in cui uno Stato vincolato ad una politica di neutralità permanente entri in
guerra, commette un illecito internazionale; invece, uno Stato che ha liberamente
scelto di restare neutrale non commette alcun illecito internazionale nel caso in cui
decidesse di abbandonare la neutralità e di affiancare un belligerante.
- Neutralità in tempo di guerra = è una condotta volontaria, nel senso che lo Stato può
decidere di restare neutrale oppure entrare in guerra a fianco di un belligerante.
Le due nozioni, seppure distinte, presentano delle caratteristiche comuni:
- la neutralità permanente in tempo di pace è stipulata in vista della guerra
- in tempo di guerra, sia lo Stato che segue una politica di neutralità permanente, sia il
neutrale hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri nei confronti dei belligeranti.
Dalla neutralità (permanente o in tempo di guerra) si distingue la Neutralizzazione dei
territori:
- Neutralità = è uno status soggettivo che riguarda lo Stato.
- Neutralizzazione di un territorio = è uno status che riguarda una sola parte del
territorio dello Stato, dove non possono essere condotte ostilità. Pertanto, può
accadere che uno Stato sia belligerante, ma alcune parti del suo territorio siano
sottratte alla guerra; al contrario, il territorio di uno Stato neutrale è inviolabile e il
belligerante che commettesse atti di ostilità sarebbe responsabile di un illecito
internazionale.
La neutralità permanente di uno Stato comporta una serie di obblighi che si caratterizzano
per il fatto di vincolare lo Stato neutralizzato a tenere in tempo di pace un comportamento
volto ad evitare che esso sia trascinato in un conflitto armato. Nonostante non esista un
contenuto specifico della neutralità permanente in tempo di pace, essa è caratterizzata da
alcuni doveri che sono strumentali allo scopo che la neutralità persegue: in particolare, si
tratta dell’obbligo di non far parte di alleanze militari di natura reciproca e del dovere di non
concedere basi militari.
In caso di conflitto armato, lo Stato che segue una politica di neutralità permanente non può
prendere parte al conflitto a fianco di uno dei belligeranti, nè concedere loro facilitazioni;
altrimenti esso commette un illecito internazionale, poichè vìola il dovere derivante dal suo
status di neutralità.
Lo Stato neutralizzato deve impedire che il suo territorio e le sue acque territoriali vengano
utilizzate dai belligeranti per scopi ostili.
Lo Stato neutralizzato, qualora sia oggetto di un attacco armato, può esercitare il diritto di
legittima difesa.
Inoltre, la neutralità permanente non è incompatibile con la partecipazione ad operazioni di
mantenimento della pace: es. l’Austria ha frequentemente fornito contingenti militari per le
operazioni di peace-keeping promosse dalle Nazioni Unite.
La fonte della neutralità permanente è normalmente un trattato internazionale multilaterale,
ma può essere tuttavia anche un accordo bilaterale o un impegno unilaterale dello Stato.
La neutralità ha un contenuto ‘erga omnes’, nel senso che gli obblighi di non facere assunti
dallo Stato neutrale sono oggetto di un rapporto tra Stato neutrale e Stato parte del trattato
di neutralizzazione, ma il dovere viene assunto nei confronti di tutti gli Stati, nonostante solo
gli Stati parti del trattato di neutralizzazione abbiano il diritto di chiedere al neutrale
l’esecuzione del rapporto di neutralità. Un es. di neutralità stabilita mediante uno strumento
multilaterale è la Svizzera, la cui neutralità fu sancita dall’Atto finale del Congresso di Vienna
del 9 Giugno 1815; la neutralità della Svizzera è sancita anche nell’art.5 della Costituzione
federale.
es. Lo Stato della Città del Vaticano è un esempio di neutralità permanente fondata su uno
strumento bilaterale, precisamente fondata sull’art.24 del Trattato laterano tra l’Italia e la
Santa Sede del 29 Febbraio 1929 in cui si stabilisce che “la Città del Vaticano sarà sempre
ed in ogni caso considerata neutrale ed inviolabile”; si ricordano anche la neutralità di Malta,
dell’Austria, della Costa Rica (pag.63).
Allo stato di neutralità permanente seguono alcuni obblighi, tra cui:
- il dovere di non far parte di alleanze militari
- il dovere di non far parte di altri patti militari incompatibili con la neutralità
- il dovere di non consentire l’accesso a personale militare straniero
- il divieto di concedere basi militari, tranne espressa autorizzazione del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite.
I 19 Stati parti dell’accordo di neutralizzazione assumono obblighi sinallagmatici, come:
- il dovere di non instaurare alleanze militari con la Cambogia
- il dovere di non instaurare altri patti militari incompatibili con la neutralità permanente
Il riconoscimento della neutralità permanente da parte degli altri Stati membri della comunità
internazionale contribuisce al consolidamento della condizione di neutralità: il
riconoscimento può avvenire da parte dei singoli stati oppure da organizzazioni
regionali/universali.
es. la neutralità della Cambogia è riconosciuta dai 19 Stati parti dell’Accordo di Parigi, tra cui
i cinque membri del Consiglio di sicurezza.
La neutralità può essere garantita da terzi: la garanzia della neutralità differisce dai patti di
sicurezza collettiva poichè questi ultimi hanno natura reciproca, nel senso che in caso di
attacco armato obbligano ciascun componente ad intervenire a favore dell’altro; la neutralità
invece, è a senso unico, cioè obbliga il garante ad intervenire a favore del neutrale garantito,
ma non viceversa.
es. di garanzia di neutralità: scambio di note tra Italia e Malta del 15 Settembre 1980. Il
sistema di garanzia maltese comporta per l’Italia l’obbligo di adottare (su richiesta di Malta)
misure particolarmente incisive, tra cui l’assistenza militare, quando l’isola di Malta sia
oggetto di un attacco armato, quindi si trovi in una situazione di legittima difesa.
La neutralità permanente deve essere distinta anche dal Non Allineamento: il Non
allineamento non è una nozione giuridica, ma una nozione che appartiene al mondo delle
relazioni internazionali. = Esso risale al periodo della guerra fredda e indicava quel gruppo di
Stati (come India e Iugoslavia) che non voleva schierarsi al fianco delle superpotenze (Stati
Uniti e Unione Sovietica), e quindi non voleva far parte di alleanze militari guidate da tali
super potenze, come la Nato o il Patto di Varsavia.
Il Non allineamento sembra essere stato scoperto dall’Ucraina, che si considerava uno Stato
Non allineato a cui era vietato far parte della Nato; in particolare, la legge del 15 Luglio 2010
stabiliva la non adesione dell’Ucraina a qualsiasi alleanza militare; essa, piuttosto, aveva
aderito al Movimento dei Non allineati.
Tuttavia, i recenti avvenimenti hanno messo in discussione la politica dell’Ucraina
considerata ‘sui generis’ perchè l’Ucraina aveva basi militari in Crimea: la concessione di
basi militari è incompatibile con lo spirito del non allineamento. Così, dopo l’annessione
russa della Crimea e la guerra civile, la politica di non allineamento è stata formalmente
abbandonata mediante l’abrogazione della relativa legge.

Lo status internazionale del Giappone:


L’art.9 Cost. assoggetta il Giappone ad obblighi che si riflettono sul piano internazionale,
soprattutto in materia di sicurezza.
In particolare, sono consacrati diversi obblighi:
- la rinuncia alla guerra
- la rinuncia alla minaccia e all’uso della forza per risolvere le controversie
internazionali
- l’obbligo di non mantenere forze di mare, terra ed aria, nonchè altro potenziale di
guerra
- l’obbligo di non riconoscere il diritto di belligeranza dello Stato

La guerra di Corea iniziata nel 1950 fece da propulsore per una reinterpretazione dell’art.9:
l’obbligo nascente da tale norma è stato inteso nel senso che esso consente il
mantenimento di forze esclusivamente volte ad assicurare la legittima difesa dello Stato. Era
riconosciuto il diritto di legittima difesa individuale, mentre oggetto di discussione era se il
Giappone potesse esercitare il diritto di legittima difesa collettiva, poichè la legittima difesa
era consentita solo per la difesa dello Stato.
Una forza di legittima difesa è stata istituita nel 1954, composta da forze di terra, di mare ed
aria.
L’art.9 Cost. ha influenzato la redazione dei patti di sicurezza di cui il Giappone è parte: a
causa dell’art.9, il Giappone difficilmente sarebbe potuto divenire parte di Trattati di
sicurezza collettiva, come quello istitutivo della Nato.
Il 19 Gennaio 1960, il Giappone ha stipulato un Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti:
questo trattato contiene obblighi reciproci, cioè non solo gli Stati Uniti devono soccorrere il
Giappone, ma anche il Giappone deve venire in aiuto degli Stati Uniti. Il dovere da parte del
Giappone di soccorrere gli Stati Uniti riguarda solo il caso in cui un attacco armato contro le
forze americane abbia luogo nel territorio sotto amministrazione giapponese.
Il 13 Marzo 2007, Australia e Giappone hanno adottato una ‘Dichiarazione congiunta sulla
cooperazione in materia di sicurezza’. Tale Dichiarazione è stata firmata dai corrispettivi
Primi Ministri = essa è una mera dichiarazione di intenti (e non un trattato di alleanza
militare), che dispone la mutua difesa reciproca in caso di attacco armato.
La Dichiarazione impegna i due Stati solo a prendere iniziative comuni nel caso di lotta al
terrorismo internazionale, di proliferazione nucleare, protezione delle frontiere e sicurezza
marittima. La cooperazione in campo militare ha per oggetto soprattutto iniziative in materia
di operazioni umanitarie, incluso il peace-keeping.
Fino agli inizi degli anni novanta, il Giappone non aveva mai partecipato ad operazioni di
peace-keeping; successivamente la situazione è mutata, anche perchè il Giappone aspirava
a divenire membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La legge del 1992 sulla cooperazione internazionale, infatti, aveva autorizzato il Giappone a
partecipare solo ad attività non militari (come operazioni di soccorso alla popolazione civile o
il monitoraggio di elezioni); questa legge è stata emendata nel 2001 per consentire al
Giappone di partecipare in modo più incisivo alle missioni delle Nazioni Unite.
Preso nota dell’impossibilità politica di procedere ad una revisione formale dell’art.9 Cost. a
causa dell’opposizione dell’ala pacifista della Dieta (l’art.9 Cost. può essere emendato solo
da una maggioranza di ⅔ del Parlamento giapponese e dopo che un referendum popolare si
sia espresso affermativamente); così si è provveduto ad una reinterpretazione dell’art.9
Cost. mediante una Decisione ministeriale del 1 Luglio 2014, e nel 2015 sono state adottate
delle leggi ordinarie che restano subordinate all’art.9 Cost. e sono soggette al vaglio della
Corte Suprema nel caso in cui ricorrano i motivi per sollevare una questione di
costituzionalità; la Corte potrebbe abrogare la legge ritenuta incostituzionale.
La nuova legislazione di reinterpretazione dell’art.9 afferma:
1. viene ammesso il ricorso alla legittima difesa collettiva, ammettendo che si possa
intervenire in difesa di un terzo Stato nonostante il Giappone non sia
immediatamente oggetto di attacco armato. L’esercizio della legittima difesa collettiva
è concepito in un ambito ristretto, cioè l’intervento è ammesso solo quando venga
attaccato un paese legato da una stretta relazione con il Giappone e l’aggressione
costituisca una minaccia anche nei confronti del Giappone stesso.
2. sono consentite forme minori di uso della forza armata: es. azioni volte a rimediare
intrusioni nelle acque territoriali giapponesi oppure interventi per salvare cittadini.
3. per quanto riguarda il mantenimento della pace, il Giappone dovrebbe avere un ruolo
più incisivo e proattivo, essendo stata varata una legislazione permanente che
consente di ovviare alla necessità di varare una legge ad hoc per ogni singola
operazione.
4. viene consentita la partecipazione del Giappone ad operazioni multinazionale di
supporto alla pace al di fuori delle Nazioni Unite, inclusa l’assistenza logistica a forze
armate estere impegnate al mantenimento della pace e della sicurezza.
5. viene ammesso il supporto logistico del Giappone a Stati impegnati in operazioni
militari, anche in assenza di un attacco diretto contro il Giappone, qualora vi sia un
serio pericolo per la sua sicurezza.

Neutralità permanente e Nazioni Unite:


Si è posta la domanda se lo status di neutralità permanente sia compatibile con
l’appartenenza alle Nazioni Unite? In linea di principio, la Carta delle Nazioni Unite contiene
delle disposizioni in contrasto con la neutralità permanente. Secondo quanto sancito nella
Carta, gli Stati sono obbligati ad eseguire le decisioni del Consiglio di sicurezza comportanti
misure coercitive non implicanti l’uso della forza armata, prestare mutua assistenza
nell’eseguire le misure deliberate dal Consiglio e dare alle Nazioni Unite assistenza in
qualsiasi azioni esse intraprendano.
Inoltre,l’ art.43 della Carta, obbliga gli Stati membri a mettere a disposizione del Consiglio di
sicurezza dei contingenti militari e li obbliga a concedere assistenza e facilitazioni per azioni
intraprese dall’ONU, compreso il diritto di passaggio; l’art.45 obbliga gli Stati a tenere a
disposizione del Consiglio di sicurezza delle forze aeree per operazioni urgenti.
Durante la Conferenza di San Francisco in cui fu adottata la Carta delle Nazioni Unite,
venne respinta la proposta francese di inserire una disposizione che sancisse
l’incompatibilità tra neutralità permanente e Nazioni Unite. Tuttavia, venne stabilito in sede di
redazione che uno Stato non avrebbe potuto invocare la neutralità permanente per sottrarsi
agli obblighi derivanti dalla Carta (art.2 par.5).
Gli obblighi sanciti nella Carta prevalgono su qualsiasi altro obbligo assunto da uno Stato
membro in base ad altri accordi internazionali, con la conseguenza che il trattato su cui si
fonda la neutralità permanente, anche se posteriore rispetto all’entrata in vigore della Carta,
non può essere invocato per sottrarsi agli obblighi da questa predisposti. Inoltre, anche se la
neutralità avesse fondamento nel diritto internazionale, prevarrebbe in ogni caso la Carta (in
quanto trattato) che è una lex specialis.
L’Austria, pur dando esecuzione alle decisioni del Consiglio di sicurezza, affermò che non
poteva essere automaticamente vincolata dalle decisioni del Consiglio di sicurezza a causa
del suo status di neutralità permanente, e che la questione doveva essere risolta caso per
caso. Ciò non trova fondamento nella Carta e lo status di neutralità permanente non
conferisce alcun diritto all’esenzione al membro neutrale. Solo il Consiglio di sicurezza,
qualora lo ritenesse opportuno, potrebbe esentare il neutrale dall’eseguire una decisione:
questo potere del Consiglio di sicurezza deriva dall’art.48 secondo cui “le azioni necessarie
per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale sono intraprese da tutti i
membri o da alcuni di essi secondo quanto stabilisca il Consiglio di sicurezza”.
Successivamente, la pretesa austriaca è stata abbandonata -> l’opinione più fondata
sembra essere quella per cui l’esecuzione delle misure prese nel quadro del sistema di
sicurezza collettiva contro uno Stato membro del sistema non è incompatibile con lo status
di neutralità permanente e lo Stato oggetto della misura non può quindi reagire contro lo
Status che sia obbligato a seguire una politica di neutralità.
Invece, negli strumenti più recenti istitutivi della neutralità permanente, viene espressamente
sancita la compatibilità tra doveri derivanti dal sistema di sicurezza collettiva e neutralità
permanente.
La dichiarazione maltese circa la neutralità permanente sancisce espressamente che
‘nessuna forza militare straniere può usare le installazioni dell’isola, tranne inter alia, che si
debbano eseguire misure decise dalle Nazioni Unite o in caso di azioni da esse intraprese’.
Nella stessa ottica deve essere inquadrata anche la ris.50/80 A dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite relativa al Turkmenistan in cui si afferma che ‘l’adozione da parte del
Turkmenistan dello status di neutralità permanente non pregiudica l’adempimento dei suoi
doveri secondo la Carta e contribuirà al conseguimento dei fini delle Nazioni Unite’.
Il 10 Settembre 2002 anche la Svizzera (Stato che costituisce l’esempio per eccellenza di
neutralità permanente) è diventata membro delle Nazioni Unite: la Svizzera applica le
risoluzioni delle Nazioni Unite che dispongono di sanzioni e la Legge sull’armata federale è
stata emendata per consentire alla Svizzera di partecipare alle operazioni di peacekeeping.
Il Dipartimento degli Affari federali ha affermato nel 2005 che la neutralità della Svizzera non
è messa in discussione dalla partecipazione ad azioni militari decise dalle Nazioni Unite in
applicazione del Capitolo VII della Carta.

Neutralità permanente e Unione Europea:


Ci si è chiesto se lo status di neutralità permanente sia compatibile con la qualità di membro
dell’Unione Europea.
Tale problema si pone soprattutto per l’Austria, la cui neutralità permanente è fondata su un
atto internazionale e per Malta, la cui neutralità è fissata sia a livello internazionale che a
livello costituzionale.
Quanto agli altri paesi membri dell’Unione (che non sono parti di patti militari), la questione si
presenta in termini diversi: l’Irlanda ha sancito nella propria costituzione la non adesione ad
alleanze militari; la Finlandia e la Svezia hanno una neutralità di natura politica non fondata
su uno strumento internazionale.
Disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione Europea e disposizioni specifiche sulla
politica estera e di sicurezza comune sono contenute nel Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea (TFUE) e nel Titolo V del Trattato sull’Unione Europea (TUE) = per
quanto riguarda le disposizioni generali sull’azione esterna dell’UE si fa riferimento
soprattutto agli artt.36, 346, 347, 215.
- L’art.36 TFUE consente agli Stati membri di prendere misure restrittive
all’importazione, all’esportazione e al transito giustificate da motivi di pubblica
sicurezza. Nonostante la disposizione abbia per oggetto la circolazione delle merci
all’interno dell’Unione Europea, essa è stata applicata anche all’esportazione di
prodotti provenienti da un paese dell’Unione e destinati ad essere avviati ad un
paese terzo da uno Stato membro diverso da quello di provenienza. Nel caso
concreto, si trattava di materiale proveniente dalla Francia e che doveva essere
imbarcato a destinazione dell’Unione Sovietica nell’aeroporto di Lussemburgo. La
Corte di Giustizia ha affermato che uno Stato membro, invocando l’art.30 del Trattato
CE, poteva prendere misure volte a proteggere la propria ‘sicurezza esterna’,
derogando al regolamento 222/77 in virtù del quale la licenza di esportazione
rilasciata da uno Stato membro deve essere riconosciuta come valida negli altri Stati
membri. Applicando questi principi all’ipotesi in esame, è da ritenere che l’art.36
potrebbe essere invocato dal membro neutrale, quando una merce in partenza dal
proprio territorio potrebbe comprometterne la neutralità.
- L’art.346 TFUE lascia fuori dal campo di azione dell’UE la produzione, il commercio
di armi, munizioni e materiale bellico. Si afferma che “ogni Stato membro può
adottare le misure che ritiene necessarie alla tutela degli interessi essenziali della
propria sicurezza” : per cui lo Stato potrà adottare misure conformi al proprio status.

Vi sono maggiori difficoltà circa la misure prese dall’UE contro uno Stato terzo a titolo di
sanzioni economiche o misure restrittive (contromisure): si tratta di misure prese in
esecuzione di decisioni del Consiglio di sicurezza oppure adottate autonomamente dall’UE.
Tali misure sono fondate sugli artt.29 TUE e 215 TFUE (aventi per oggetto la politica
commerciale dell’Unione Europea e il congelamento dei fondi). Normalmente l’Unione
dispone tramite regolamento.
Può il membro neutrale non applicare il regolamento invocando il suo stato di neutralità? No,
inoltre lo Stato neutrale non può dissociarsi da misure sanzionatorie prese nell’ambito
dell’UE e la sua condotta potrà essere considerata conforme al diritto internazionale solo se
si ammetta che la neutralità non è pregiudicata dalla comminazione di sanzioni o
contromisure nei confronti di uno Stato che vìoli il diritto internazionale.
es. nel caso dell’Ucraina, le misure restrittive sono state osservate anche dai membri
neutrali dell’UE e non consta che la Russia abbia imputato una violazione degli obblighi
derivanti dalla neutralità al membro UE vincolato ad una politica di neutralità permanente.

Per quanto riguarda la compatibilità tra Neutralità permanente e le disposizioni del Titolo V
del Trattato sull’Unione Europea, l’opinione prevalente affermava che non esistesse una
vera e proprio incompatibilità, infatti l’art.17 TUE non comportava degli obblighi comuni nel
campo della difesa. Questa norma faceva riferimento a ‘tutte le questioni relative alla
sicurezza dell’Unione Europea, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa
comune che potrebbe condurre a una difesa comune qualora il Consiglio Europeo decida in
tal senso’. Senonché il paragrafo 1 di questa disposizione conteneva una clausola che
salvaguardava lo status dei neutrali, poichè disponeva che “non veniva pregiudicato il
carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”.
Stesse considerazioni valevano per le decisioni che hanno implicazioni nel settore della
difesa.
Tuttavia, l’accelerazione che ha avuto il processo UE nel campo della difesa rende sempre
più angusto lo spazio per una politica di neutralità permanente.
L’art.42 TUE, che ha sostituito l’art.17, contiene una disposizione secondo cui “la politica di
sicurezza e di difesa comune costituisce parte integrante della politica estera e di sicurezza
comune”
Il paragrafo successivo afferma la creazione di una difesa comune, decisa dal Consiglio
europeo con deliberazione unanime; è necessario, infatti, anche il voto dei membri neutrali
dell’Unione, tranne che si eserciti la cd. ‘astensione costruttiva’.
L’art.42 par.7 TUE contiene un patto di difesa reciproca tra gli Stati membri: la disposizione
salvaguarda lo status dei membri UE neutrali, specificando che ‘il patto di sicurezza
collettiva non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di alcuni
Stati membri’. Inoltre, uno Stato membro può anche non partecipare alle forme più intense di
cooperazione militare.
Tra le misure restrittive con unanimità (per i membri neutrali) vi è da annoverare anche la cd.
astensione costruttiva in sede di Consiglio UE relativamente alle decisioni in materia di
politica estera e di sicurezza comune.
Per le decisioni da adottare con unanimità, uno Stato può astenersi e motivare la propria
astensione con dichiarazione formale. L’astensione non pregiudica l’adozione della
decisione. Inoltre, il membro che si astiene non è obbligato ad applicare la decisione, anche
se deve comunque tenere una condotta che non ostacoli l’attuazione della decisione.
Bisogna comunque tenere presente che le trasformazioni subite dalla comunità
internazionale hanno mutato profondamente l’istituto della Neutralità permanente: questa
resta incompatibile con i patti di difesa collettiva a carattere reciproco, ma (a differenza di
come in passato) non è più in contrasto con l’appartenenza ad organizzazioni universali o
regionali che svolgono funzioni nel campo della sicurezza collettiva. Non è contraria allo
status di neutralità permanente la clausola di solidarietà disposta dall’art.222 TFUE per far
fronte ad attacchi terroristici. La neutralità infatti è una nozione che si è sviluppata in
relazione ad un conflitto armato internazionale; inoltre, qualora la solidarietà dovesse avere
implicazioni nel campo della difesa, il neutrale sarebbe salvaguardato dall’art.31 TUE,
espressamente richiamato dall’art.222.
Cap. 4: Il territorio

Il territorio è l’ambito entro cui lo Stato esercita la propria potestà di governo (imperium),
escludendo altri soggetti di diritto internazionale (ius excludendi alios).
La potestà di governo e il suo esercizio esclusivo costituiscono manifestazione della
sovranità territoriale.
Il diritto internazionale protegge la sovranità territoriale, nel senso che ogni attività esercitata
in un territorio straniero senza il consenso del sovrano territoriale o un’attività non ammessa
dal diritto internazionale, è illecita.
L’acquisto di proprietà immobiliari da parte dello Stato o da parte dei suoi cittadini in territorio
altrui non comporta alcun acquisto della sovranità territoriale; spesso succede che alcuni
Stati confondano l’imperium con il dominium e vietano l’acquisto di proprietà immobiliari
oppure lo sottopongono ad un regime autorizzativo oneroso per il timore (infondato) che
l’acquisto costituisca un vulnus della loro sovranità.
Il diritto internazionale protegge:
- sia la sovranità territoriale, permettendo l’indisturbato esercizio dei poteri dello Stato
nel proprio territorio
- sia l’integrità territoriale dello Stato, proibendo la sottrazione di parti del territorio
senza una valida causa di giustificazione.
Tra i poteri connessi all’esercizio della sovranità territoriale rientra anche quello di cedere
parte del proprio territorio: questo potere in passato era assoluto; oggi, invece, deve tenere
conto del principio di autodeterminazione dei popoli.
Il potere dello Stato all’interno del proprio territorio incontra i limiti derivanti dal diritto
internazionale sia consuetudinario che pattizio: questi limiti riguardano soprattutto il
trattamento che deve essere riservato agli Stati stranieri, ai loro organi e ai loro cittadini (es.
gli Stati esteri non potranno essere sottoposti a giurisdizione per le loro attività iure imperii, e
dovranno essere accordati privilegi e immunità agli agenti diplomatici e alla sede della
missione diplomatica).
Il diritto internazionale consuetudinario e i trattati internazionali relativi alla protezione dei
diritti dell’uomo (ratificati dallo Stato) impongono limiti al potere d’imperio dello Stato circa il
trattamento dei propri cittadini; è dibattuto, inoltre, se esistano limiti alle attività dello Stato
per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali esistenti nel suo territorio o alle
attività industriali. Si è consolidato il principio per cui ‘non possono essere intraprese attività
suscettibili di arrecare danno al territorio altrui’; tuttavia, rimane incerto se è il diritto
consuetudinario che imponga un obbligo di non svolgere attività che possano arrecare
danno all’ambiente in quanto tale.
La Corte di giustizia ha fornito un parere a favore di questo obbligo, circa la minaccia e l’uso
delle armi nucleari, in cui si afferma che lo Stato territoriale non solo deve evitare di
effettuare azioni suscettibili di recare danno al territorio di altri Stati, ma ha anche l’obbligo di
astenersi dall attività che possano danneggiare aree non assoggettate ad alcun controllo
territoriale.
Il diritto di sovranità territoriale ha per oggetto il territorio in senso stretto, il mare territoriale e
lo spazio aereo sovrastante il territorio.Nelle aree adiacenti al mare territoriale, lo Stato
costiero non esercita alcun diritto di sovranità territoriale, ma solo poteri di natura funzionale
(zona contigua e zona archeologica) e diritti sovrani connessi allo sfruttamento delle risorse
naturali del suolo e del sottosuolo marino (piattaforma continentale) e delle risorse
biologiche (zona economica esclusiva).
La piattaforma continentale è un attributo necessario dello Stato costiero, la cui esistenza è
indipendente da una proclamazione ad hoc, zona contigua, zona archeologica e zona
economica esclusiva devono essere istituite dallo Stato costiero con apposita
proclamazione.
La sovranità sul territorio può essere indivisa ed essere esercitata congiuntamente da due o
più Stati, come nel caso del condominio. es.il Sudan è stato condominio anglo-egiziano; le
Nuove Ebridi condominio anglo-francese.
La figura del condominio potrebbe essere riesumata per dare una sistemazione a questioni
territoriali controverse, es. si è dibattuto circa la possibilità di sottoporre a condominio anglo-
spagnolo Gibilterra, attualmente sotto sovranità britannica contestata dalla Spagna.

Il dominio riservato:
A parte i limiti derivanti dal diritto internazionale consuetudinario o pattizio, lo Stato è libero
di assoggettare i rapporti che si svolgono all’interno del suo territorio alla disciplina che gli
conviene maggiormente. Si tratta di una sfera di competenza denominata “Dominio
riservato”. La Corte internazionale di giustizia ha affermato che il Dominio riservato ha per
oggetto tutte le materie in relazione alle quali il principio di sovranità degli Stato lascia ai
soggetti di diritto internazionale libertà di scelta; tra tali materie la Corte ha annoverato
anche la determinazione del sistema politico, economico, sociale e culturale e la
formulazione della politica estera, quindi gli ‘affari interni’ e gli ‘affari esterni’ dello Stato.
es. di materia che rientra nel dominio riservato: la forma di Stato e la forma di governo: il
diritto internazionale consuetudinario non può determinare se uno Stato debba essere
monarchico o repubblicano, oppure se debba avere una forma decentrata o accentrata. A tal
proposito la ris.265 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulle relazioni amichevoli
stabilisce che ogni Stato ha il diritto inalienabile di scegliere il proprio sistema politico,
economico, sociale e culturale, senza interferenza da parte di un altro Stato.
Il Dominio riservato ha un’importanza rilevante nelle Nazioni Unite e indica quelle materie di
esclusiva competenza statale, al riparo dall’ingerenza dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite. L’art.2 della Carta delle Nazioni Unite afferma che “nessuna disposizione della
presente Carta autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, nè obbliga i membri a sottoporre tali
questioni ad una procedura di regolamento in applicazione della presente Carta. Questo
principio non pregiudica l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo VII”.
Esistono 2 teorie principali per determinare la sfera di libertà dello Stato entro cui le Nazioni
Unite possono intervenire:
1. la ‘Teoria del Dominio riservato’ = secondo questa teoria, non fanno parte del
Dominio riservato le questioni che sono disciplinate dal diritto internazionale
consuetudinario o pattizio (purchè lo strumento convenzionale vincoli lo Stato il cui
dominio riservato viene in considerazione);
2. la seconda tesi restringe la sfera della competenza domestica e afferma che non
rientrino nel Dominio riservato le materie disciplinate dal diritto internazionale e le
materie che sono state oggetto di attenzione da parte delle Nazioni Unite con
l’adozione di risoluzioni di carattere generale. es. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo
In deroga a quanto affermato, le Nazioni Unite possono intervenire in una questione che
ricada nella competenze domestica di uno Stato, come nel caso della fattispecie del
consenso dell’avente diritto -> uno Stato può consentire che le Nazioni Unite intervengano
per controllare una competizione elettorale. L’art.2 della Carta delle Nazioni Unite afferma
che anche se una materia è ricompresa nel dominio riservato, le Nazioni Unite possono
disporre misure coercitive qualora la situazione domestica, ad es. una guerra civile, sia
qualificata dal Consiglio di sicurezza come una minaccia o come una violazione della pace.
Il Dominio riservato ha rilevanza anche circa le controversie che possono essere deferite
alla Corte internazionale di giustizia : molto spesso gli Stati, per escludere che la
controversia rientri nella competenza della Corte, eccepiscono che il suo oggetto rientra
nella loro competenza domestica. L’art.36 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia
consente di accettare unilateralmente la competenza della Corte per tutte le controversie
che abbiano per oggetto le questioni giuridiche menzionate, mentre le questioni che abbiano
per oggetto questioni che rientrano nel dominio riservato degli Stati sono implicitamente
escluse. Nonostante ciò, alcuni Stati hanno accettato la giurisdizione della Corte secondo
quanto sancito nel meccanismo dell’art.36 e hanno espressamente escluso le controversie
che ricadono nel dominio riservato.
es. gli Stati Uniti avevano formulato una riserva nel momento in cui avevano accettato la
competenza della Corte internazionale di giustizia, secondo cui restavano escluse dalla
competenza della Corte le questioni attinenti al dominio riservato, come determinato dagli
stessi Stati Uniti.

Modi di acquisto della sovranità territoriale:


I modi di acquisto della sovranità territoriale sono previsti da norme di diritto internazionale
consuetudinario di antica data e risentono della tradizione romanistica, proprio perchè il
diritto internazionale all’epoca della costituzione della comunità internazionale si ispirava a
questa.
Il divieto dell’uso della forza e la scomparsa di determinate categorie di territori hanno
comportato l’estinzione di alcuni modi di acquisto o ne hanno fatto venire meno l’importanza.
Questi modi di acquisto, tuttavia, possono però avere importanza nel caso in cui si debba
valutare la legittimità di titoli di sovranità formatisi in epoche passate, in base al principio
‘tempus regit actum’ (es. in un arbitrato internazionale).
Anche i modi di acquisto della sovranità territoriale possono essere distinti in Originari e
Derivati:
- Modi di acquisto originari = appartengono a questa categoria l’Acquisto di un
territorio nullius e la Conquista:
- Per l’Acquisto del territorio nullius non basta la mera scoperta, bensì occorre
l’occupatio accompagnata dall’animus possidendi, consistente in una esplicita
dichiarazione di annessione oppure consistente nella volontà implicita di
comportamenti concludenti; occorre inoltre che si tratti effettivamente di res nullius.
Se la res è inappropriabile perchè soggetta al principio di patrimonio comune
dell’umanità o perchè destinata al soddisfacimento del principio di
autodeterminazione di un popolo, l’occupatio non fa sorgere il diritto di sovranità
territoriale.
- La Conquista si distingue dalla Debellatio: quest’ultima costituisce la completa
distruzione dell’apparato militare dell’avversario. Una volta debellato, lo Stato è alla
mercè del debellante, che potrebbe procedere all’annessione per incorporazione.
Oggi la conquista non è considerato un modo di acquisto, perchè contrario con la
norma sul divieto di aggressione stabilita nella Dichiarazione sulle relazioni
amichevoli e sulla Definizione di aggressione, in cui si afferma che un’acquisizione
territoriale risultato dell’uso della forza o dell’aggressione non è da considerare
legale. L’acquisizione sarebbe da considerare oltre che meramente illecita, anche
priva di effetti giuridici.
Se la forza, con autorizzazione delle Nazioni Unite, venisse esercitata per ristabilire
la pace e la sicurezza, potrebbe lo Stato debellante procedere all’annessione dello
Stato debellato? No, infatti il principio di autodeterminazione dei popoli pone un limite
difficilmente superabile ed inoltre, lo Stato (che ha agito per legittima difesa) non ha
un titolo per annettersi parte del territorio dello Stato aggressore. Ciò sarebbe
contrario ai principi di necessità e proporzionalità che condizionano l’esercizio della
legittima difesa.
Si parla di ‘modi di acquisto della sovranità a titolo originario’ perchè si fa riferimento
a Stati preesistenti della comunità internazionale. La costituzione di un nuovo Stato
nella comunità internazionale comporta automaticamente l’acquisto della sovranità
sul territorio su cui lo Stato sorge.

- Modi di acquisto a titolo derivato =


- Cessione: la Cessione può avvenire per i più svariati motivi, come la vendita di un
territorio oppure a seguito di un Trattato di pace (es.il Dodecaneso fu ceduto
dall’Italia alla Grecia in virtù del Trattato di pace del 1947).
Il trasferimento del territorio e l’acquisto della sovranità territoriale hanno luogo con il
consenso dello Stato cedente o, quantomeno, con la sua acquiescenza.
L’occupazione di un territorio non produce trasferimento allo Stato occupante anche
se questi si comporti animo domini, poichè il titolo giuridico prevale sull’effettività
della situazione.
A tal proposito, è respinta la tesi secondo cui il mero trascorrere del tempo possa
comportare il trasferimento del territorio per una sorta di prescrizione acquisitiva
qualora il sovrano sia inerte.
Bisogna ricordare che l’occupatio bellica non conferisce all’occupante un titolo per
annettersi al territorio occupato: le annessioni effettuate pendente bello sono nulle.
(es. le annessioni da parte di Israele dei territori di West Bank e di Gerusalemme Est
su cui Israele esercita la propria autorità a titolo di occupante, sono state considerate
nulle dalla Corte internazionale di giustizia).

Amministrazione del territorio separata dal diritto di sovranità territoriale:


Un territorio può essere amministrato (in tutto o in parte) da uno Stato che non ha il diritto di
sovranità territoriale su tale territorio; il territorio che è sotto amministrazione altrui o non è
sottoposto ad alcuna sovranità di nessuno Stato oppure può appartenere ad uno Stato che
resta titolare del ‘nudum ius’ (nuda proprietà).
A tal proposito vi sono i mandati costituiti al tempo della Società delle Nazioni e i territori
sottoposti ad amministrazione fiduciaria: i Mandati dovevano essere amministrati dalla
potenza mandataria nell’interesse della popolazione locale ed erano distinti in 3 categorie A,
B e C. I mandati di tipo A erano da assimilare ai protettorati (Libano, Siria) e divennero Stati
indipendenti al termine della II Guerra Mondiale. I mandati di tipo B e C furono trasformati in
amministrazioni fiduciarie con l’avvento delle Nazioni Unite (tranne il mandato del Sud Africa
sul Sud Ovest africano (Namibia) che fu dichiarato decaduto).
Nei territori sottoposti ad amministrazione fiduciaria, la potenza amministratrice
amministrava il territorio nell’interesse della popolazione locale allo scopo di avviare il
territorio all’autonomia. L’amministrazione fiduciaria (trusteeship) comportava la stipulazione
di un accordo tra le Nazioni Unite e il trustee, che era sottoposto al controllo dell’Assemblea
Generale.
Mandati e Amministrazione fiduciaria non esistono più, poichè tutti i territori interessati
hanno raggiunto l’indipendenza. Invece, esistono territori amministrati da organizzazioni
internazionali per periodi limitati di tempo e in via transitoria. es. l’Amministrazione transitoria
delle Nazioni Unite per la Slavonia orientale, l’Amministrazione transitoria di Timor orientale,
l’Amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite in Kosovo che continua ad operare
nonostante il Kosovo abbia raggiunto l’indipendenza il 7 febbraio 2008.
Queste Amministrazioni si differenziano dalle vecchie amministrazioni fiduciarie e trovano la
loro base in una risoluzione del Consiglio di sicurezza, circa il mantenimento della pace e
della sicurezza internazionale -> si tratta per lo più di territori usciti da un conflitto e che
necessitano di un’opera di ricostruzione economica e istituzionale: per far fronte a queste
situazioni, l’Assemblea Generale e il Consiglio di sicurezza hanno creato una ‘peacebuilding
commission’, cioè una Commissione per la costruzione della pace, organo sussidiario
dell’Assemblea Generale e del Consiglio di sicurezza (la Commissione non ha compiti di
amministrazione di territori).
Amministrazione disgiunta della sovranità si ha anche nell’occupatio bellica: i poteri
dell’autorità militare sul territorio occupato sono stabiliti dagli artt.43 del regolamento
annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907.
[i territori contigui alla parte orientale di Trieste sono stati per molto tempo sotto
amministrazione iugoslava.Trieste e dintorni occidentali rimasero sotto l’amministrazione del
Regno Unito e degli Stati Uniti; la parte orientale sotto quella iugoslava. Nominalmente, il
territorio non essendosi mai costituito, era sotto la nuda sovranità italiana e
l’amministrazione anglo-americana su Trieste e quella iugoslava nella parte orientale erano
a titolo di occupatio bellica. Nel 1954 fu stipulato il Memorandum di Londra tra Regno Unito,
Stati Uniti, Italia e Iugoslavia, che divideva il territorio in due zone: zona A sotto
amministrazione italiana e la zona B ceduta alla Iugoslavia con il Trattato di Osimo del 1975.
Quindi, mentre in virtù del Memorandum del 1954 l’Italia ebbe la piena sovranità su Trieste e
sul territorio adiacente, la Iugoslavia acquistò la sovranità della zona B solo a seguito della
stipulazione del Trattato di Osimo.]

La frontiera:
La ‘frontiera’, o ‘confine dello Stato’, è la linea che delimita la sovranità statale. Essa viene
stabilita con 2 procedimenti:
1. la Delimitazione = con essa si precisano i limiti dell’ambito spaziale entro cui lo Stato
esercita la sovranità territoriale (mediante coordinate geografiche). La delimitazione,
di regola, è un atto bilaterale tra i due Stati confinanti che si concretizza nella
stipulazione di un trattato internazionale. Essa può avvenire mediante l’opera di un
tribunale internazionale nel caso di controversia tra i due Stati confinati -> es. la
delimitazione del confine tra Eritrea ed Etiopia è avvenuta mediante la decisione
arbitrale della Commissione confinaria neutrale del 13 Aprile 2002); la delimitazione
può avvenire anche in seguito ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite -> es. è il caso della delimitazione della frontiera tra Iraq e Kuwait,
dopo la fine della II guerra del Golfo (1991), quando venne istituita una Commissione
per la definizione dei confini dei due stati.

2. la Demarcazione = consistente nella trasposizione dei dati geografici sul terreno (es.
apposizione di cippi di frontiera, reti metalliche…)

Si discute se esistano principi di diritto consuetudinario in materia di Delimitazione dei confini


dello Stato: ciò che è certo è che esiste una norma consuetudinaria denominata ‘uti
possidetis’ = si tratta di una consuetudine nata a livello regionale in America Latina, secondo
cui i confini degli Stati latino americani erano da considerare eguali a quelli delle vecchie
circoscrizioni coloniali spagnole. Questa consuetudine è stata trapiantata anche in Africa per
evitare di fare riferimento alle vecchie circoscrizioni coloniali che erano state tracciate sulle
carte geografiche senza tenere conto delle popolazioni locali.
Il principio dell’uti possidetis è stato così sancito nell’art.4 dell’Atto istitutivo dell’Unione
Africana del 2000: per cui, si tratta di una consuetudine generale che ha perso i caratteri
originari della consuetudine locale.
Tale principio è stato applicato anche dalla cd. Commissione Badinter (commissione di
arbitrato istituita dalla conferenza sulla iugoslavia) ai nuovi Stati sorti a seguito dello
smembramento della Iugoslavia, affermando che essi ereditavano i confini delle
circoscrizioni dello Stato federale iugoslavo.
L’uti possidetis, quindi, si è affermato come un principio connesso alla formazione degli Stati
di nuova indipendenza per secessione o smembramento di uno Stato federale = In caso di
secessione o smembramento, lo Stato di nuova indipendenza eserciterà la propria sovranità
all’interno dei confini che prima della secessione o dello smembramento delimitavano la
provincia o la regione divenuta poi indipendente.
A parte l’uti possidetis, si discute se esistano altri principi di diritto consuetudinario.
Per quanto riguarda la delimitazione dei Fiumi di confine = si fa riferimento alla regola del
‘thalweg’, cioè alla linea mediana del canale navigabile o alla linea di massimo scorrimento;
se il fiume non è navigabile, si fa riferimento alla linea mediana.
Per quanto riguarda i Laghi di frontiera = normalmente il criterio da applicare è quello della
linea mediana. Nel caso in cui il lago sia circondato da più Stati, bisogna congiungere la
linea mediana con i confini di terraferma, tracciando delle linee ideali. Tuttavia, questo
principio non è esente da incertezza, come testimonia la delimitazione del Mar Caspio.
Nel caso in cui due Stati siano separati da una catena di Montagne = si può adottare il
criterio dello spartiacque oppure il criterio di una linea che unisce le vette più alte.
Tutti questi criteri, compreso l’uti possidetis, sono derogabili mediante accordo.

Per quanto concerne la delimitazione delle aree marine, la Convenzione delle Nazioni Unite
sul diritto del mare del 1982 detta regole precise che sono da considerare dichiarative del
diritto internazionale consuetudinario.
Per il Mare territoriale = il criterio da seguire è quello della linea mediana: a norma dell’art.15
della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, ‘nessuno degli Stati che si
fronteggiano può, salvo contrario accordo, estendere il proprio mare territoriale al di là della
linea mediana, cioè al di là della linea i cui punti siano equidistanti dai punti più vicini della
linea di base’. Il criterio della linea mediana, tuttavia, non trova applicazione quando ‘in virtù
dell’esistenza di titoli storici o di altre circostanze speciali, è necessario delimitare
diversamente il mare territoriale dei due Stati’.
La delimitazione della zona contigua tra Stati adiacenti o frontieri = non è oggetto di una
disposizione ad hoc da parte della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare,
bensì si fa riferimento al criterio della linea mediana.
Per quanto riguarda la Piattaforma continentale = è stato abbandonato il criterio della linea
mediana, ed è stato adottato un criterio diverso sancito dall’art.83 della Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare, secondo cui la delimitazione deve effettuarsi mediante
accordo conformemente al diritto internazionale, al fine di pervenire ad una soluzione equa
(art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia). Tale disposizione (della
soluzione equa) potrebbe sembrare priva di contenuto pratico; in realtà, la regola della
soluzione equa viene applicata soprattutto quando gli Stati si rivolgono ad un arbitro o ad un
giudice (spesso si rivolgono alla Corte internazionale di giustizia) e in questi casi la
delimitazione avviene con lodo o con sentenza arbitrale. Anche quando la delimitazione
avviene mediante accordo, questo spesso rispecchia i principi stabiliti dalla giurisprudenza
internazionale in materia di delimitazione, che consentono di pervenire ad una equa
soluzione (es. individuazione delle circostanze rilevanti ai fini della delimitazione, come la
configurazione geografica della costa).
La Zona economica esclusiva di Stati adiacenti e frontisti = viene delimitata con gli stessi
criteri della piattaforma continentale.
Normalmente si ha una linea unica per la delimitazione della piattaforma continentale e della
zona economica esclusiva, ma possono essere concepite anche due linee diverse.
Bisogna ricordare che le controversie territoriali, incluse quelle circa la fissazione della
frontiera, non possono essere risolte mediante l’uso della forza.
I rapporti derivanti dalla contiguità territoriale vengono tradizionalmente ricompresi nella
categoria dei rapporti di vicinato, disciplinati mediante accordi internazionali.

Frontiera e successione tra Stati:


In caso di successione tra Stati, la frontiera può essere messa in discussione? No, perchè
vale il principio della stabilità delle frontiere.
Nel caso in cui la frontiera sia stata delimitata mediante trattato, non viene in considerazione
una vera e propria successione nei trattati, poichè il trattato di delimitazione, una volta
eseguito, ha esaurito i suoi effetti e lo Stato successore subentra nel diritto di sovranità
territoriale dello Stato predecessore. Inoltre, l’art.11 della Convenzione di Vienna sulla
successione tra Stati stabilisce che il mutamento di sovranità non reca pregiudizio alla
frontiera stabilita da un trattato. Inoltre, per pretendere l’estinzione del trattato non è
invocabile la clausola “rebus sic stantibus” (“stando così le cose”), poichè l’art.62 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati afferma che la clausola non opera nei confronti
dei trattati che stabiliscono una frontiera.
Infine, il principio dell’uti possidetis conduce all’affermazione che: nel caso di uno Stato di
nuova indipendenza, i confini del nuovo Stato corrispondono alle delimitazione della regione
o provincia su cui esso si è costituito e, qualora questa confini con uno Stato terzo,
coincidono con i confini dello Stato predecessore.
Per quanto riguarda l’Italia, il problema si è posto con il Trattato di Osimo del 1975 che ha
stabilito la cessione della zona B alla Repubblica federale socialista di Iugoslavia: con la
nascita di Slovenia e Croazia i territori ceduti sono venuti a far parte dei due nuovi Stati, ma
il Trattato di Osimo, e il relativo confine, non è stato rimesso in discussione dall’Italia.

Le servitù internazionali:
E’ dubbio se esistano in diritto internazionale delle servitù internazionali. In ogni caso, non si
può parlare di servitù prediali a causa della difficoltà di individuare un fondo servente e un
fondo dominante. Per poter supporre la loro esistenza si dovrebbe parlare piuttosto di
‘servitù personali’.
La prassi attesta comunque che attraverso un trattato, gli Stati possono imprimere vincoli ad
una parte del loro territorio, vincoli non meramente obbligatori, ma che hanno il carattere
della realità. La questione ha rilevanza nel caso di successione tra Stati, poiché i vincoli
assunti dallo Stato predecessore si trasmettono allo Stato successore in base al principio
‘res transit cum onere suo’.
Come esempio di servitù si può considerare l’art.7 del Trattato Laterano del 1929 tra l’Italia e
la Santa Sede, secondo cui lo Stato italiano non può erigere costruzioni che costituiscano
introspetto intorno al territorio dello Stato della Città del Vaticano; altre volte la servitù ha per
oggetto la costituzione di una zona franca -> es. di zona franca fu l’ ‘Affare Alta savoia e
Paese di Gex’, deciso con sentenza del 1932: i due territori originariamente facevano parte
del Regno di Sardegna, ma la frontiera doganale tra il Regno di Sardegna e la Svizzera era
arretrata rispetto a quella politica. Nel 1860 i due territori vennero trasferiti alla Francia, e la
Corte doveva quindi determinare se la Svizzera mantenesse nei confronti della Francia il
diritto che aveva avuto nei confronti del Regno di Sardegna. La Corte statuì che la Svizzera
aveva diritto al mantenimento del regime delle zone franche.
Anche il diritto di passaggio costituisce un classico esempio di servitù -> e fu affrontato dalla
Corte internazionale di giustizia nel caso del ‘diritto di passaggio in territorio indiano’ del
1960. Il Portogallo rivendicava il diritto di passaggio tra i suoi possedimenti sulla costa
indiana e i possedimenti enclaves, cioè quelli interamente circondati dal territorio dell’India.
La Corte ammise la sussistenza del diritto facendo riferimento non alla teoria della servitù
internazionale, ma all’accordo tacito e alla consuetudine bilaterale.
Un diritto di accesso al mare viene in considerazione per quegli Stati privi di litorale (land-
locked States) poiché vi è una consuetudine internazionale che accorda a tutti gli Stati il
diritto alla libertà di navigazione. Tuttavia, non esiste una consuetudine internazionale
secondo cui lo Stato che circonda il territorio dello Stato enclavé sia obbligato a concedere
un diritto di transito. Infatti, gli elementi ricavabili a tal proposito derivano dal diritto
convenzionale, in particolare l’art.125 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del
mare attribuisce agli Stati privi di litorale un diritto di accesso al mare, le cui modalità devono
però essere concordate con lo Stato costiero interessato.

Spesso le servitù hanno per oggetto territori smilitarizzati o neutralizzati: a differenza della
neutralità permanente e della neutralità in tempo di guerra, la neutralizzazione ha per
oggetto una parte del territorio statale. In caso di guerra, nel territorio soggetto a
neutralizzazione non devono essere compiute operazioni militari né dal sovrano territoriale,
né da terzi Stati.
Concettualmente, la neutralizzazione si distingue dalla smilitarizzazione:
- Neutralizzazione = essa comporta che la regione oggetto di neutralizzazione non
possa divenire luogo di guerra. La neutralizzazione non viene meno in tempo di
guerra, essendo stipulata in vista delle ostilità;
- Smilitarizzazione = essa comporta l’obbligo di non costruire fortificazioni militari o
l’obbligo di mantenere forze militari nella zona. La smilitarizzazione potrebbe essere
travolta dagli eventi bellici.
In linea di principio, potrebbe esserci una neutralizzazione senza smilitarizzazione, tuttavia i
due regimi sono spesso contemporaneamente presenti. Inoltre, per quanto le due nozioni
siano distinte, tendono a confondersi.
Un es. di neutralizzazione e smilitarizzazione contemporaneamente è dato dall’Arcipelago
dello Spitsbergen (o Svalbard): l’art.9 del trattato di Parigi del 9 Febbraio 1920 stabilisce che
‘ l’Arcipelago non dovrà essere mai utilizzato “dans un but de guerre”; inoltre, la Norvegia
(sovrana del territorio) si impegna a non erigere alcuna base navale, a non costruire alcuna
fortificazione e a non consentire ai terzi di farlo’.
Anche le vie d’acqua artificiali e gli stretti internazionali sono talvolta neutralizzati allo scopo
di escluderli dalle ostilità che potrebbero verificarsi in caso di conflitto armato. -> es. l’art.4
della Convenzione di Costantinopoli afferma che nel canale di Suez non può essere
esercitato alcun atto di ostilità, anche in caso di belligeranza dell’Egitto.; l’art.3 del trattato di
Hay-Pauncefote aveva neutralizzato il canale di Panama..
La neutralizzazione spesso non è immune dagli eventi bellici: ad es. la neutralizzazione del
Canale di Suez è stata ripetutamente violata durante le due guerre mondiali e durante i
conflitti tra Stati arabi e Israele.
Il Trattato di pace del 1947 aveva stabilito delle smilitarizzazioni a carico dell’Italia, piuttosto
onerose: Pantelleria, le isole Pelagie e Pianosa. Obblighi particolarmente intensi erano
stabiliti per quanto riguarda la possibilità di costruire installazioni militari e fortificazioni in
Sicilia e Sardegna, ma questi obblighi non sono più in vigore. L’8 Dicembre 1951 l’Italia inviò
ai 21 Stati parti del Trattato di pace una nota in cui si chiedeva l’abrogazione delle clausole
militari a suo carico: 15 Stati risposero positivamente, gli altri hanno successivamente
prestato acquiescenza.

Il principio del patrimonio comune dell’umanità:


Alcuni territori sono assoggettati al principio del Patrimonio comune dell’umanità (common
heritage of mankind): per cui, lo sfruttamento di tali territori deve avvenire solo nell’interesse
del soggetto che vi procede e nell’interesse dell’intera comunità internazionale. Pertanto, su
tale soggetto graveranno determinati obblighi, il cui adempimento consentirà di sfruttare il
territorio tenendo conto di interessi solidaristici. Per assicurare l’assolvimento di questi
obblighi, il principio del patrimonio comune dell’umanità postula una qualche forma di
organizzazione internazionale che presiede allo sfruttamento.
Le aree assoggettate a tale principio si distinguono dalle res nullius, poiché non possono
essere oggetto di appropriazione (anche le aree soggette al principio di libertà, come l’alto
mare, sono inappropriabili).
Tuttavia, il principio del patrimonio comune postula elementi solidaristici che non sono
presenti nel principio di libertà e la costituzione di un’organizzazione internazionale che
assicuri il corretto sfruttamento dell’area.
In linea di principio, sono assoggettati al principio del patrimonio comune dell’umanità i fondi
marini giacenti oltre la piattaforma continentale e, secondo una parte della dottrina e i paesi
in via di sviluppo, lo spazio extra-atmosferico, i corpi celesti e la luna (secondo quanto
sancito dagli artt.1-2 del Trattato del 1967 sullo spazio extra-atmosferico e l’art.11 del
Trattato del 1979 sulla luna e sui corpi celesti). Tuttavia, allo stato attuale il regime in vigore
non è molto dissimile a quello che si applica negli spazi soggetti al principio di libertà (il
trattato non qualifica espressamente lo spazio extra-atmosferico come patrimonio comune
dell’umanità). Il principio di libertà vigente per lo spazio è stato messo in discussione dagli
Stati Uniti, il cui Presidente ha adottato una direttiva il 31 Agosto 2006, secondo cui gli Stati
Uniti si riservano il diritto di negare le attività spaziali altrui qualora considerate ‘ostili agli
interessi nazionali’.
I fondi marini al di là della giurisdizione nazionale, cioè giacenti oltre la piattaforma
continentale, costituiscono lo spazio in cui il principio del patrimonio comune dell’umanità ha
trovato finora una più compiuta razionalizzazione. La Convenzione delle Nazioni Unite sul
diritto del mare ha proclamato il fondo marino al di là della giurisdizione nazionale e le sue
risorse patrimonio comune dell’umanità, stabilendo doveri come corollari del principio, quali:
inappropriabilità dell’area e delle sue risorse che non possono essere oggetto di
rivendicazione, non possono essere oggetto di esercizio del diritto di sovranità, non vi può
essere riconoscimento di pretese di sovranità o di diritti.
I fondi marini sono sottoposti alla giurisdizione dell’Autorità internazionale dei fondi marini,
un’organizzazione internazionale i cui organi principali sono l’Assemblea, il Consiglio, il
Segretariato e l’Impresa. Lo sfruttamento dei fondi marini sarebbe dovuto avvenire in base al
cd. regime parallelo e avrebbe dovuto avere come protagonisti sia gli Stati (e le imprese da
essi patrocinate), sia l’Autorità internazionale dei fondi marini (che agisce tramite Impresa,
eventualmente in associazione con i Paesi in via di sviluppo).
Nel caso in cui gli Stati avessero inteso sfruttare il fondo marino, allora avrebbero dovuto
sottoporre all’Autorità un progetto con due siti minerari: uno che sarebbe dovuto essere
sfruttato dall’Autorità tramite l’Impresa; l’altro dallo Stato o dall’impresa richiedente (cd.
sistema parallelo).
Inoltre, era previsto a carico degli Stati contraenti un obbligo di trasferimento (a titolo
oneroso) delle tecnologie necessarie, con l’obiettivo di mettere in grado l’Impresa dei fondi
marini di provvedere allo sfruttamento delle risorse minerarie.
Però, a causa dell’opposizione degli Stati industrializzati, in particolare degli Stati Uniti, il
regime delineato dalla Convenzione è stato modificato prima della sua entrata in vigore.
Successivamente, nel 1994 è stato concluso un accordo integrativo, che prevede:
- l’Impresa sarà costituita solo quando sarà prevedibile che inizi lo sfruttamento dei
fondi marini; fino a quel momento, le funzioni dell’Impresa saranno svolte dal
Segretariato dell’Autorità.
- l’Impresa dovrà operare in ‘joint-venture’ con le imprese (o con i consorzi delle
imprese nazionali) e una sua partecipazione autonoma potrà avvenire solo quando
essa avrà fondi a sufficienza per operare da sola.
- viene abolito il trasferimento obbligatorio delle tecnologie.
- l’Impresa è posta sullo stesso piano delle società commerciali, nonostante ciò resta
l’obbligo per le imprese commerciali di identificare un sito che possa in futuro essere
sfruttato dall’Impresa.

Pertanto, l’Accordo integrativo del 1994 ha attenuato la rigidità del cd. ‘regime di
sfruttamento parallelo’ e ha fatto venire meno la posizione privilegiata dell’Impresa, con la
conseguenza che il sistema è maggiormente improntato sull’economia di mercato e non
risente più della filosofia dirigistica su cui si fondava la parte XI della Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare.
Ciononostante, gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite
sul diritto del mare e le opposizioni sono ancora forti nell’amministrazione USA. L’Impresa
non è stata ancora costituita, nonostante siano stati adottati tutti gli strumenti per la sua
creazione (nell’attesa le sue funzioni sono svolte dal Segretariato dell’Autorità).
L’Autorità ha stipulato una serie di contratti con Stati e consorzi di imprese che svolgono
soprattutto attività di ricerca (più che sfruttamento minerario) -> gli Stati che patrocinano le
imprese hanno l’obbligo di assicurare che queste si uniformino ai termini contrattuali e a tal
fine devono prendere tutte le misure legislative e amministrative necessarie.
[Esiste un vero e proprio ‘obbligo di due diligence’: l’Autorità è competente per le risorse
minerarie; le risorse biogenetiche giacenti sui fondi marini (che sono diventate d’interesse
per l’industria farmaceutica) non ricadono nella competenza dell’autorità. La disciplina delle
risorse biogenetiche dovrebbe ricadere nella competenza della Conferenza per
l’elaborazione di un Trattato sulla conservazione e uso sostenibile della diversità biologica
nelle aree oltre la giurisdizione nazionale.]

L’Antartide:
Lo strumento di base in materia di disciplina dei territori antartici e delle aree marittime
adiacenti è il Trattato di Washington del 1 Novembre 1959, entrato in vigore nel 1961.
Questo sancisce espressamente che “ l’Antartide deve essere usata esclusivamente per fini
pacifici”: ciò comporta il divieto di svolgere qualsiasi attività militare (es. divieto di stabilire
delle basi militari, costruzione di fortificazioni, conduzione di manovre ed esperimenti
militari); si vieta, inoltre, qualsiasi esplosione nucleare o il deposito di materiale radioattivo
(denuclearizzazione dell’Antartide).
E’ consentito l’impiego di personale o di materiale militare per la ricerca scientifica. L’art.2
del Trattato stabilisce il principio della libertà di ricerca scientifica in Antartide per tutti gli
Stati; l’art.4, invece, congela ogni pretesa di sovranità.
Vi sono alcuni Stati che non hanno ancora avanzato alcuna pretesa territoriale (come la
Federazione Russa e gli Stati Uniti), altri invece da tempo rivendicano la sovranità su
porzioni del continente antartico, fondando queste pretese sulla scoperta (come Francia e
Regno Unito) o sulla contiguità dei loro territori (come Cile e Argentina). L’art.4 congela
appunto queste pretese.
La ‘gestione’ del continente antartico è affidata al Comitato delle Parti Consultive, di cui sono
membri i 12 Stati che hanno negoziato il Trattato e gli Stati che hanno conseguito lo status di
Parte Consultiva successivamente. Per acquisire lo status di Parte Consultiva occorre avere
ratificato il Trattato, aver svolto una sostanziale ‘attività di ricerca scientifica nel continente
antartico’, in particolare stabilendo basi o effettuando spedizioni scientifiche.
Il giudizio circa la sussistenza di questo presupposto è rimesso alle Parti Consultive stesse,
così che l’accesso al ‘club’ delle Parti Consultive avviene per cooptazione; l’Italia ha
conseguito questo status nel 1987.
Per cui: gli Stati parti del Trattato di Washington si dividono in ‘Parti Consultive’ e ‘Parti non
consultive’:
- le Parti Consultive si riuniscono ad intervalli regolari e adottano atti da indirizzare ai
propri governi. Tali atti assumono la denominazione di misure, risoluzioni e decisioni:
le misure, approvate all’unanimità, sono vincolanti; risoluzioni e decisioni hanno
natura di raccomandazioni e sono approvate per consensus.

Oltre che il Trattato di Washington, la cui sfera di applicazione ricopre anche i mari adiacenti
a sud del 60° di latitudine sud, bisogna aggiungere i Trattati negoziati successivamente nel
quadro del regime antartico, ossia: la ‘Convenzione sulla protezione della foca antartica’ e la
‘Convenzione sulla conservazione della flora e della fauna marina dell’Antartico’.
Quest’ultima convenzione è particolarmente importante per lo sfruttamento ottimale delle
risorse biologiche, soprattutto del krill (un piccolo crostaceo tipico delle acque polari), la cui
pesca indiscriminata avrebbe finito per arrecare gravi danni all’ecosistema antartico.
Il 2 Giugno 1988 è stato adottato a Wellington, in Nuova Zelanda, un trattato per la disciplina
delle attività minerarie antartiche: infatti, l’Antartide contiene notevoli quantità di rame,
carbone, oro e argento. Così, gli Stati avevano voluto prevenire una corsa indiscriminata allo
sfruttamento dell’Antartide, indirizzando le future attività minerarie verso un sistema di
garanzia sia per gli investitori, sia per la comunità internazionale. A questo proposito, i
negoziatori della Convenzione avevano voluto soprattutto assicurare la tutela dell’ambiente
antartico da possibili forme di inquinamento.
In particolare, l’art.4 della Convenzione afferma che “nessuna attività mineraria in Antartide
avrebbe potuto essere intrapresa finché non si fosse stabilito con certezza che tale attività
non avrebbe determinato effetti pregiudizievoli sull’ambiente antartico”.
Tuttavia, alcuni Stati non approvarono quanto stabilito a Wellington: essi avrebbero preferito
che l’Antartide fosse completamente sottratta ad ogni attività mineraria e divenisse parco
mondiale; altri Stati ancora avrebbero voluto dichiarare l’Antartide patrimonio comune
dell’umanità (questo principio è difficilmente applicabile all’Antartide, che è oggetto di
pretese di sovranità).
Il Trattato di Wellington tuttavia non entrò mai in vigore, infatti finirono per prevalere le
opinioni degli Stati contrari allo sfruttamento minerario e le opinioni delle organizzazioni
ambientaliste.
Nel 1991 è stato concluso un Protocollo sulla protezione dell’ambiente antartico, entrato in
vigore nel 1998: tale Protocollo dichiara l’Antartide “una riserva naturale, votata alla pace e
alla scienza” e contiene una serie di disposizioni ispirate alla tutela dell’ambiente.
L’art.7 del Protocollo proibisce ogni attività mineraria in Antartide = si tratta però di una
moratoria, poiché dopo 50 anni dall’entrata in vigore del Protocollo ogni Parte Consultiva
potrà chiedere la convocazione di una conferenza per il riesame del protocollo. Se si
otterranno maggioranze pari a ¾ si potranno avere disposizioni volte a consentire lo
sfruttamento minerario. Eventualmente, queste disposizioni dovranno stabilire un regime
giuridicamente vincolante ed essere quindi ratificate dagli Stati seguendo quanto stabilito nel
Protocollo.
Sono parte integrante del Protocollo 4 annessi; ulteriori annessi possono essere adottati allo
scopo di far fronte a nuove necessità ambientali. In totale sono stati stipulati 6 annessi.
Il sistema antartico sta evolvendo verso una progressiva istituzionalizzazione; nel 2003 è
stato istituito un Segretariato del Trattato antartico.

L’Artico:
A differenza dell’Antartide (polo sud), il Polo Nord non è composto da terre emerse ma solo
da acque marine ricoperte da ghiacci, che si stanno riducendo a causa del ‘riscaldamento
globale’. Le acque dell’Artico adiacenti agli Stati costieri sono assoggettate al regime del
mare territoriale, mentre le zone di mare al di là del limite esterno del mare territoriale sono
soggette al principio della libertà dell’alto mare.
Sono da respingere le pretese di alcuni Stati costieri (come la Federazione Russa e il
Canada) volte a rivendicare la sovranità su porzioni di mare adiacenti alle loro acque
territoriali.
La piattaforma continentale artica, ricca di petrolio e gas naturale, è soggetta ai diritti di
sfruttamento esclusivo degli Stati costieri e sulle acque sovrastanti la piattaforma lo Stato
costiero ha il diritto di istituire una zona economica esclusiva: il 15 Settembre 2010 Norvegia
e Russia hanno concluso un accordo per la delimitazione delle rispettive piattaforme
continentali e zone economiche esclusive.
Le terre emerse site nell’Oceano Artico sono soggette al diritto di sovranità territoriale, non
esistendo più territori nullius neppure nell’Artico ->es. l’Arcipelago dello Svalbard è sotto
sovranità norvegese.
Nel 1996 è stato costituito il Consiglio Artico di cui fanno parte gli 8 Stati che si affacciano
sull’Artico, storicamente attivi nella regione (quali Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda,
Norvegia, Federazione Russa, Svezia, Stati Uniti). Il Consiglio costituisce un foro di
consultazione. Agli Stati attivi nella regione o a quello che aspirano a divenirlo può essere
concesso lo status di ‘osservatore permanente’: l’Italia ha acquisito tale status nel 2013.
La governance dell’Artico è quindi assicurata da un sistema di ‘soft law’ piuttosto chiuso.
Nel 2011 è stata stipulata una Convenzione su ricerca e salvataggio, entrata in vigore nel
2013; nel 2017 è entrato in vigore il Polar Code, che richiede determinati requisiti di
costruzione ed equipaggiamento per la navigazione polare.
Cap. 5: La successione internazionale tra Stati

L’assetto territoriale di una comunità statale può subire mutamenti, che incidono sulla
personalità internazionale dello Stato e danno luogo alla nascita di nuovi soggetti di diritto
internazionale o all’accrescimento territoriale di nuovi Stati, talvolta a seguito dell’estinzione
dello Stato preesistente.
Viene denominato ‘Stato successore’ il nuovo Stato o lo Stato che accresce il proprio
territorio a spese di un altro; viene denominato ‘Stato predecessore’ lo Stato che si estingue
o che subisce una diminuzione territoriale.
Si possono verificare i seguenti fenomeni:
- nascita di uno o più Stati su una parte del territorio dello Stato predecessore (cd.
secessione); -> es. gli Stati nati dal processo di decolonizzazione in Asia e Africa,
nonché Stati come il Bangladesh seceduto dal Pakistan.
- nascita di più Stati sull’intero territorio appartenente allo Stato predecessore con
conseguente estinzione di quest’ultimo Stato predecessore (cd. smembramento,
dissoluzione o frazionamento estintivo); -> es. la Cecoslovacchia, che si è estinta
dando luogo a due Stati: Repubblica Ceca e Slovacchia.
Talvolta è difficile stabilire se si è in presenza di smembramento con conseguente
estinzione dello Stato preesistente o se questi continui nel tempo, anche privo di una
parte del suo territorio.
-> sul territori della Repubblica federale socialista di Iugoslavia si sono costituiti più
Stati, ma uno di questi, cioè la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia-
Montenegro) ha preteso per un certo periodo di essere la continuazione della
vecchia Repubblica federale. Tale pretesa è stata successivamente abbandonata.
Per cui, lo smembramento e la nascita di nuovi Stati hanno avuto come conseguenza
l’estinzione della Federazione Iugoslava.
- incorporazione di uno Stato da parte di un altro Stato (cd. incorporazione);
- trasferimento di una parte del territorio dallo Stato predecessore allo Stato
successore (cd. cessione);
- fusione di due o più Stati nell’ambito di un nuovo Stato con conseguente estinzione
degli Stati predecessori (cd. fusione).

Tali mutamenti territoriali, cioè la sostituzione di uno Stato nella sovranità di un territorio
appartenente ad un altro Stato (cd. ‘successione in fatto’) danno luogo al “fenomeno
successorio”. Occorre determinare se i rapporti giuridici facenti capo allo Stato predecessore
si trasmettono allo Stato successore (cd. ‘successione giuridica’).
Fattispecie che vanno distinte dalla successione sono:
- un mutamento rivoluzionario di regime : esso non estingue la personalità
internazionale dello Stato, con la conseguenza che il nuovo governo sorto dopo la
rivoluzione dovrà adempiere gli obblighi facenti capo al vecchio regime e sarà titolare
dei relativi diritti ->es. la rivoluzione russa dette luogo all’Unione Sovietica, la cui
personalità internazionale fu considerata identica a quella della Russia imperiale.
- l’anarchia non dà luogo ad un fenomeno successorio : essa non estingue lo Stato nel
senso del diritto internazionale (questione del failed States).
- è da escludere la successione per lo Stato protetto, dopo l’estinzione del vincolo del
protettorato (la questione potrebbe riguardare solo l’estinzione dei trattati stipulati
dallo Stato protettore per conto dello Stato protetto, per effetto della clausola ‘rebus
sic stantibus’).
- gli Stati risorti dovrebbero essere esaminati nel quadro della secessione -> es. le tre
Repubbliche baltiche dovrebbero essere considerate come nuovi Stati nati per
secessione dall’Unione Sovietica, anche se la prassi attesta che essere abbiano
preteso e siano state trattate come Stati identici a quelli esistenti prima
dell’incorporazione.
- l’occupatio bellica non dà luogo al fenomeno successorio, poiché non comporta
alcun mutamento di sovranità.

Qualora un territorio sia oggetto di un mutamento di sovranità, si pone il problema di sapere


se lo Stato successore subentri nei trattati internazionali stipulati dallo Stato predecessore.
La materia è disciplinata dalla ‘Convenzione di Vienna sulla successione tra Stati nei trattati’
del 1978, entrata in vigore il 6 Novembre 1996. (la convenzione non è stata ratificata
dall’Italia).
Si stabilisce che: lo Stato successore, nel caso in cui sia un nuovo soggetto di diritto
internazionale, subentra in fatto nel governo del territorio dello Stato predecessore e ne
acquista la sovranità a titolo originario. E’ quindi ininfluente stabilire se il successore subentri
anche nel trattato che stabilisce i confini tra predecessore e terzo Stato; tra l’altro, secondo
una parte della dottrina, il trattato di confine si estingue una volta eseguito.
Bisogna invece stabilire se vi sia successione giuridica nei trattati che stabiliscono un
particolare regime di frontiera: l’art.11 della Convenzione del 1978 si occupa dei regimi di
frontiera e stabilisce che la successione tra Stati non tocca la frontiera stabilita mediante
trattato tra predecessore e terzo Stato; inoltre, non altera il regime della frontiera, come
stabilito nel trattato stipulato tra predecessore e terzo. Si ha quindi che lo Stato successore
acquista la sovranità territoriale sul territorio dello Stato predecessore e nello stesso tempo
subentra nei diritti e negli obblighi pattizi stabiliti in tema di rapporti transfrontalieri.
I trattati bilaterali stipulati dallo Stato predecessore non vengono trasmessi allo Stato
successore (principio della ‘tabula rasa’). Nel caso in cui il trattato sia fonte di situazioni
giuridiche localizzate, allora queste situazioni si trasmettono allo Stato successore poiché si
tratta di rapporti giuridici che insistono sul territorio e istituiscono vincoli di natura reale (es.
un diritto di transito per uno Stato confinante) .
Lo stesso principio vale anche per i trattati, di regola multilaterali, relativi ai diritti dell’uomo e
al diritto umanitario.
I trattati istitutivi di basi militari non creano rapporti giuridici localizzati, infatti essi hanno
natura meramente politica; tuttavia, lo Stato successore può avere interesse a subentrare in
un trattato bilaterale stipulato dallo Stato predecessore. Allora si ha che il trattato stipulato
dal predecessore costituisce la base per la conclusione di un nuovo accordo (anche in forma
tacita) formalmente distinto dal precedente, ma di contenuto identico ( in pratica si tratta di
una novazione: si definisce novazione, in termine giuridico, l'estinzione di un rapporto di
obbligazione tra due parti (creditrice e debitrice) con conseguente nascita di uno nuovo,
rispetto al precedente mutato nel titolo o nell'oggetto = in questo caso mutato nel titolo ).
Quindi, spesso i trattati stipulati dal predecessore costituiscono il punto di partenza per la
negoziazione di un nuovo accordo.
L’art.12 della Convenzione del 1978 contiene 3 paragrafi che disciplinano:
a. le situazioni giuridiche (diritti e obblighi) relative al territorio, che si trasmettono allo
Stato successore -> es. servitù di passaggio
b. le situazioni giuridiche (diritti e obblighi) relative al territorio di cui siano titolari un
gruppo di Stati o tutti gli Stati della comunità internazionale, che si trasmettono allo
Stato successore -> es.un trattato che disciplina una via d’acqua internazionale
c. le basi militari: per esse vige il principio della ‘tabula rasa’, e poiché sono vincoli di
natura obbligatoria, non si trasmettono allo Stato successore. Quindi, i trattati istitutivi
di una base militare cessano, tranne che siano novati mediante un accordo tra
successore e terzo, parte del trattato stipulato con lo Stato predecessore.

Per quanto riguarda i trattati multilaterali, la prassi ha condotto alla nascita di una
consuetudine internazionale secondo cui il nuovo Stato, pur non subentrando
automaticamente nel trattato multilaterale che trovava applicazione nel territorio oggetto del
mutamento di sovranità, ha il diritto di divenire parte mediante una dichiarazione di continuità
o mediante una notificazione di successione. La dichiarazione o la notificazione
retroagiscono al momento della nascita del nuovo Stato, quindi ha effetti ex tunc (l’adesione
invece ha efficacia ex nunc). Ciò tuttavia non è possibile per i trattati multilaterali ristretti, che
hanno un’alta valenza politica (es. un trattato di alleanza militare); non è altresì possibile per
i trattati istitutivi di un’organizzazione internazionale: in questo caso, affinché lo Stato possa
essere ammesso, esso deve seguire la procedura di ammissione. Solo nel caso di fusione,
quando i due Stati predecessori sono stati entrambi membri dell’organizzazione, ha luogo
una procedura di ammissione semplificata.
I trattati in materia di disarmo, controllo degli armamenti e quelli riguardanti la difesa in
generale, non sono sottoposti ad un regime particolare; quindi non si trasmettono al
successore, tranne quelli di natura localizzata-> es. un trattato che obbliga alla
smilitarizzazione di un determinato territorio.
Nonostante ciò, si ritiene che è interesse della comunità internazionale e degli Stati parti
estendere il regime istituito dal trattato ai successori -> es. con l’Accordo di Alma Ata,
Bielorussia e Ucraina, che avevano sul loro territorio ingenti quantitativi di armi nucleari, si
impegnarono ad aderire al ‘Trattato di non proliferazione nucleare’ (TNP) come Stati non
nucleari, cioè come stati obbligati a non detenere armi nucleari. Le armi nucleari così furono
trasferite alla Federazione Russa. In tal modo, tutti gli Stati successori dell’Unione Sovietica
hanno aderito al TNP. Si è preferito ricorrere all’adesione piuttosto che alla dichiarazione di
successione, poiché occorreva attestare che il nuovo Stato, nonostante fosse successore di
uno Stato nucleare, diveniva parte del TNP come Stato non nucleare. Mentre per i trattati sul
disarmo, gli Stati successori dell’Unione Sovietica hanno effettuato una dichiarazione di
successione.

Per quanto concerne la Cessione e l’Incorporazione si applica il ‘principio della mobilità delle
frontiere dei trattati’ : i trattati stipulati dallo Stato successore si applicano ai territori acquisiti
mediante incorporazione o cessione; conseguentemente, si restringe la sfera di applicazione
territoriale dei trattati dello Stato predecessore in caso di cessione.
Sia nel caso di cessione, che nel caso di incorporazione, i trattati del predecessore non si
trasmettono al successore, a meno che si tratti di trattati istitutivi di vincoli localizzati al
territorio oggetto del mutamento di sovranità.

Per quanto riguarda gli Accordi di devoluzione: un Accordo di devoluzione produce obblighi
e diritti solo nei rapporti tra Stato predecessore e Stato successore (l’accordo di devoluzione
non può produrre una successione automatica nei rapporti giuridici del predecessore, poiché
questo accordo è per i terzi ‘res inter alios acta’, cioè ‘cioè che è stato negoziato da alcuni
non nuoce e non giova ad altri’). Lo Stato successore è obbligato nei confronti del
predecessore a seguire l’attività necessaria per subentrare negli accordi applicati nel
territorio oggetto del mutamento di sovranità; pertanto, il successore dovrà proporre al
predecessore di concludere una novazione per poter subentrare nei trattati stipulati tra terzo
e predecessore.
Per quanto riguarda i trattati multilaterali, il successore dovrà effettuare una notifica di
successione che gli consentirà di divenire parte di questi trattati ex tunc.

Se il mutamento di sovranità territoriale non estingue la personalità internazionale dello


Stato, allora per tale Stato non si pone un problema successorio (identità e contiguità dello
Stato). I trattati antecedenti al mutamento di sovranità permangono in vigore per lo Stato la
cui personalità internazionale non si estingue.

Un problema successorio si pone per i nuovi Stati sorti sul territorio oggetto del mutamento
di sovranità e per gli Stati cessionari il cui territorio si è ampliato in seguito al mutamento di
sovranità -> è il caso dell’Unione Sovietica dopo la secessione delle repubbliche asiatiche.
La Federazione Russa è identica all’Unione Sovietica, di cui continua (con un nome diverso)
la personalità internazionale. Le repubbliche asiatiche sono invece nuovi Stati indipendenti,
per cui si è posto un problema di successione nei trattati stipulati dall’Unione Sovietica.

La successione nei beni, debiti e archivi dello Stato predecessore:


Si parla di successione tra Stati anche in materia di beni, debiti e archivi dello Stato
predecessore verso quello successore. La materia è disciplinata dalla Convenzione di
Vienna del 1983, non ancora entrata in vigore.
Tali Convenzioni, insieme a quella del 1978, sono da considerare come uno sviluppo
progressivo del diritto internazionale, e non del diritto consuetudinario.
Per la successione nei beni, bisogna distinguere i beni immobili dai mobili:
- i Beni immobili = situati nel territorio oggetto del mutamento di sovranità vengono
trasferiti allo Stato successore. Questa regola si applica ovviamente nel caso di
incorporazione, ma anche nei casi di secessione, cessione e smembramento.
Tuttavia, si precisa che nel caso di cessione le parti possano disporre diversamente,
motivo per il quale l’art.14 della Convenzione del 1983 sancisce che si tratta di una
regola di natura suppletiva, cioè da applicare quando le parti non abbiano disposto in
materia.
- i Beni mobili = del predecessore sono trasferiti allo Stato successore in caso di
cessione, secessione, smembramento, purché si tratti di beni mobili connessi con
attività esercitate dal predecessore nel territorio oggetto del mutamento di sovranità.
Altrimenti saranno trasferiti al successore in ‘proporzione equa’, cioè in proporzione
equa tra gli Stati successori, visto che il predecessore è cessato di esistere.
In caso di cessione, vale anche qui la regola della diversa volontà delle parti (regola
suppletiva).

- i Beni immobili appartenenti allo Stato predecessore ma situati in un terzo Stato =


divengono proprietà dello Stato successore se l’estinzione del predecessore è
avvenuta per incorporazione, fusione o smembramento. Restano di proprietà del
predecessore in caso di cessione o secessione.
- i Beni mobili appartenenti allo Stato predecessore ma situati in un terzo Stato =
rimangono di proprietà del predecessore solo in caso di cessione; in caso di
secessione o smembramento si deve applicare la regola della proporzione equa.
Tutti i Beni, sia immobili che mobili, dello Stato predecessore si trasmettono allo Stato
successore in caso di fusione di Stati.

L’art.15 della Convenzione di Vienna contiene una disposizione di favore verso gli Stati nati
dal processo di decolonizzazione, attribuendo al nuovo Stato i beni immobili siti nel territorio
oggetto di mutamento di sovranità e i beni mobili connessi con l’attività del predecessore in
quel territorio, ma anche le proprietà acquisite con il contributo del territorio su cui si è
costituito lo Stato indipendente. Ciò vale anche per i beni mobili di proprietà del
predecessore, ma appartenenti al territorio oggetto del mutamento di sovranità (es. oggetti
che si trovano nei musei del predecessore).
Tuttavia, queste regole sono di difficile applicazione e non costituiscono codificazione del
diritto internazionale consuetudinario, infatti la loro presenza nella Convenzione è uno dei
principali motivi che ha indotto gli Stati preesistenti a non ratificarla.
Inoltre, in caso di smembramento è difficile determinare a quale dei successori spettino le
proprietà all’estero del predecessore: la questione può essere risolta solo attraverso un
accordo tra gli Stati interessati.

Incerta è anche la sorte dei beni appartenenti a Stati terzi o a stranieri e situati nel territorio
oggetto della successione. L’art.12 della Convenzione del 1983 stabilisce che i beni
appartenenti a Stati terzi non sono pregiudicati dal mutamento di sovranità. Alcuni affermano
che questa regola dovrebbe servire da guida anche per stabilire la sorte dei beni di cui siano
proprietari i cittadini stranieri, con la conseguenza che lo Stato successore dovrebbe
corrispondere loro un indennizzo nel caso in cui intenda disconoscere i diritti di proprietà.
Vi sono controversie per quanto riguarda la sorte del debito pubblico dello Stato
predecessore: la regola tradizionale è quella per cui i debiti localizzati sono trasferiti allo
Stato successore. Non vengono trasmessi allo Stato successore, invece, i cd. debiti odiosi,
come ad es. quelli contratti dallo Stato predecessore per condurre una guerra di
aggressione. Gli altri debiti, cd. debito generale, continuano a far capo al predecessore nel
caso in cui questo, nonostante la successione, non cessa di esistere.
In caso di estinzione del predecessore per smembramento o incorporazione è difficile
stabilire se i debiti si estinguano oppure si trasmettano al successore. La dottrina è divisa in
questo punto: alcuni propendono per il principio di continuità del debito, altri no. -> es. la
Repubblica federale tedesca si è rifiutata di succedere nel debito della Repubblica
democratica tedesca.
In caso di smembramento e di nascita di due o più Stati successori, la Convenzione di
Vienna si pronuncia a favore del principio di trasmissibilità in proporzioni eque: si tiene conto
dei vantaggi dello Stato successore in termini di proprietà, diritti e interessi del
predecessore. Tuttavia vi sono dei dubbi circa l’appartenenza di questa regola al diritto
internazionale.

Per quanto concerne gli archivi di Stato, la Convenzione di Vienna stabilisce il ‘principio di
territorialità’, salvo diversa volontà delle parti. Quindi, in caso di cessione, gli archivi relativi
all’amministrazione del territorio ceduto saranno trasferiti al successore. Tale principio vale
anche per lo Stato di nuova indipendenza costituito sul territorio dello Stato predecessore, e
anche in caso di smembramento; per gli archivi che non hanno una connessione diretta con
il territorio degli Stati nati dallo smembramento vale il principio dell’equa ripartizione.

La successione in materia di responsabilità internazionale:


Per quanto riguarda la successione in materia di diritti e obblighi derivanti dalla commissione
di un fatto illecito internazionale, non esiste alcuna Convenzione internazionale di
codificazione.
L’Institut de droit international ha adottato una risoluzione concernente ‘la successione di
Stati in materia di responsabilità internazionale’, che parte dal principio di intrasmissibilità dei
relativi diritti e obblighi, principio che è conforme al diritto internazionale consuetudinario.
La risoluzione individua alcune eccezioni, ad es. in materia di trasmissibilità di diritti ed
obblighi derivanti dalla responsabilità internazionale per un fatto illecito ‘localizzato’ nel
territorio oggetto della successione (es. la soppressione di un diritto di passaggio) oppure
per quanto riguarda i nuovi Stati indipendenti. In quest’ultimo caso vengono trasmessi allo
Stato successore i diritti derivanti da un fatto illecito commesso contro lo Stato
predecessore, qualora il fatto illecito abbia una connessione con la popolazione o con il
territorio dello Stato di nuova indipendenza.

Cap. 6: Il diritto del mare

La codificazione del diritto del mare:


Il regime giuridico degli spazi marini è stato oggetto di vari tentativi di codificazione: il primo
tentativo fu intrapreso dalla Società delle Nazioni, quando fu convocata nel 1930 all’Aja una
Conferenza per la codificazione del diritto internazionale, in particolare la codificazione del
regime giuridico del mare territoriale. Tuttavia, la Conferenza dell’Aja non potè adottare
alcuna convenzione sulle acque territoriali; fu invece possibile inserire nell’atto finale della
Conferenza il testo di alcune disposizioni su cui si era raggiunto il consenso fra gli Stati
partecipanti. Gli articoli generati dai lavori della Conferenza dell’Aja rivestono notevole
interesse, soprattutto ai fini della ricostruzione del diritto internazionale consuetudinario
(anche se non hanno dato luogo alla conclusione di un trattato internazionale).
L’opera di codificazione del diritto internazionale marittimo fu ripresa successivamente dalle
Nazioni Unite e dalla Commissione del diritto internazionale. Fu redatto un progetto di articoli
sul diritto del mare che nel 1956 fu sottoposto all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e
costituì la base della Prima Conferenza sul diritto del mare, tenutasi a Ginevra nel 1958 con
la partecipazione di 86 Stati.
La Conferenza di Ginevra si concluse con l’adozione di 4 testi convenzionali distinti:
- la Convenzione sul mare territoriale e la zona contigua
- la Convenzione sull’alto mare
- la Convenzione sulla piattaforma continentale
- la Convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare
La ragione che condusse all’adozione di 4 diversi accordi fu quella di favorire la più ampia
partecipazione degli Stati, consentendo ad essi di vincolarsi solo ad alcune parti del regime
convenzionale stabilito per gli spazi marini.
I testi adottati hanno avuto esiti differenti: la ‘Convenzione sul mare territoriale e la zona
contigua’, la ‘Convenzione sull’alto mare’ e quella ‘sulla piattaforma continentale’ hanno
avuto un esito piuttosto soddisfacente; un esito insignificante lo ebbe invece la ‘Convenzione
sulla pesca’.
La redazione delle Convenzioni ha dato luogo ad un relativismo convenzionale, infatti alcuni
Stati sono parte di una o più convenzioni, ma non hanno ratificato le altre -> es. l’Italia è
parte contraente della Convenzione sul mare territoriale e di quella sull’alto mare, ma non
delle Convenzioni sull’alto mare e sulla pesca.
La prima Conferenza sul diritto del mare non riuscì a condurre ad un accordo tra gli Stati sul
problema dell’ampiezza delle acque territoriali; per questo, fu convocata una seconda
Conferenza sul diritto del mare, tenutasi a Ginevra nel 1960, proprio con l’obiettivo di
risolvere questo problema, e anche il problema riguardante l’ampiezza della zona di pesca
riservata allo Stato costiero.
Tuttavia, tale conferenza si rivelò un vero fallimento: si era arrivati ad una soluzione che
prevedeva un’ampiezza massima di 6 miglia per il mare territoriale, più un’ulteriore zona di
pesca di 6 miglia = tale soluzione non riuscì per un voto a raggiungere la maggioranza dei
due terzi prescritta dal regolamento della Conferenza ai fini dell’adozione.
Pochi anni dopo la conclusione della Conferenza di Ginevra emersero nuove esigenze della
comunità internazionale, che si rilevarono incompatibili con il regime convenzionale stabilito
a Ginevra precedentemente. Si avviò così una nuova opera di codificazione, nel 1967,
avanzata dalla delegazione maltese presso l’Assemblea Generale, diretta a riservare a fini
pacifici l’utilizzazione dei fondi marini posti oltre la giurisdizione nazionale degli Stati costieri
e garantire lo sfruttamento delle relative risorse nell’interesse della comunità.
A seguito della proposta maltese, l’Assemblea creò nel 1967 un Comitato ad hoc sugli usi
pacifici del suolo e del sottosuolo marino oltre i limiti della giurisdizione nazionale. Tale
Comitato divenne poi un organo permanente dell’Assemblea.
Il 17 Dicembre 1970 fu convocata una Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del
mare, composta da 320 articoli e 9 allegati: la nuova codificazione è uno strumento unitario
che disciplina le differenti aree marine e pone fine al relativismo convenzionale che si era
prodotto sin dalla Prima Conferenza del diritto del mare.
Subito dopo la conclusione della Conferenza, gli Stati occidentali (soprattutto gli Stati Uniti),
poiché insoddisfatti della Convenzione relativa ai fondi marini, si fecero promotori di
negoziati volti ad una modifica della Convenzione ancora prima della sua entrata in vigore. I
negoziati ebbero successo e si conclusero con un ‘Accordo relativo all’esecuzione della
parte XI della Convenzione delle Nazioni Unite del diritto del mare del 10 Dicembre 1982’ nel
1994. Nonostante sia stata modificata la parte XI della Convenzione del 1982, gli Stati Uniti
non l’hanno ancora ratificata e preferiscono per il momento essere vincolati solo dalle norme
consuetudinarie sul diritto del mare.
La nuova Convenzione sul diritto del mare non abroga le Convenzioni di Ginevra del 1958 :
l’art.311 della Convenzione stabilisce solamente che tra gli Stati parti della Convenzione di
Ginevra del 1958 e della Convenzione del 1982, quest’ultima abbia la prevalenza.
Conseguentemente, le Convenzioni di Ginevra del 1958 continuano ad essere applicate solo
dagli Stati parti di tali convenzioni e dagli Stati che sono parte contemporaneamente della
Convenzioni di Ginevra del 1958 e della Convenzione del 1982.
La Convenzione sul diritto del mare è entrata in vigore il 16 Novembre 1994, 12 mesi dopo il
deposito del sessantesimo strumento di ratifica.

Il mare territoriale:
La sovranità di ogni Stato costiero si estende ad una zona di mare adiacente alle sue coste
(quindi al di là del suo territorio e delle sue acque interne), denominata ‘mare territoriale’.
Parimenti sono soggetti alla sovranità dello Stato costiero anche lo spazio aereo che
sovrasta il mare territoriale e il relativo letto e sottosuolo marino.
[Anche le isole hanno un proprio mare territoriale. Per isola si intende una distesa di terra di
formazione naturale, circondata da acqua, e che resta scoperta ad alta marea].
Il mare territoriale ha un limite interno e un limite esterno:
- Limite interno del mare territoriale = si procede alla misurazione del mare territoriale
e si determina il limite interno attraverso la fissazione delle linee di base.
La linea di base normale è la linea di costa a bassa marea ed è la linea da utilizzare
come punto di partenza per la misurazione del mare territoriale.
Nel caso in cui la costa sia profondamente frastagliata o indentata, lo Stato costiero
può congiungere con una serie di linee ideali i punti più sporgenti della costa (cd.
‘sistema delle linee rette’). Il sistema delle linee rette può essere impiegato non solo
nel caso in cui la costa sia molto frastagliata, ma anche nel caso in cui essa sia
piatta, purché in quest’ultima ipotesi esista un gruppo di isole nell’immediata
vicinanza della costa (art.7 della Convenzione del diritto del mare). -> figure pag.113.
Il diritto internazionale non pone un limite preciso sulla lunghezza della retta, ma
detta solo alcuni criteri volti a limitare la discrezionalità dello Stato costiero:
- il tracciato delle linee non deve discostarsi molto dalla direzione generale
della costa;
- gli spazi marini situati all’interno delle linee rette devono essere
sufficientemente collegati al dominio terrestre da poter essere sottoposti al
regime delle acque interne.

- Limite esterno del mare territoriale = è determinato dallo Stato costiero entro un
limite massimo previsto dal diritto internazionale. A differenza della Convenzione di
Ginevra del 1958 che non prevedeva nulla a proposito, la Convenzione del 1982
prevede che l’ampiezza di questa zona marina non possa eccedere le 12 miglia.
Il criterio delle 12 miglia si ritiene ormai acquisito nel diritto consuetudinario ed è
stato adottato anche da Stati che erano restrittivi nel fissare l’ampiezza del mare
territoriale (come Regno Unito e Stati Uniti).

La sovranità dello Stato costiero incontra dei limiti, che sono costituiti dal passaggio
inoffensivo e dalla giurisdizione civile e penale sulle navi in transito. [per passaggio si
intende il fatto di navigare nel mare territoriale per attraversarlo, senza toccare le acque
interne]. L’accesso alle acque interne dello Stato è subordinato al consenso dello Stato
costiero stesso.
Il passaggio deve essere continuo e rapido: esso non comprende una facoltà di sosta o di
ancoraggio, tranne che questi costituiscano eventi ordinari di navigazione (come ad es. una
breve sosta per aggiustare il carico) oppure siano resi necessari da forze maggiori (come
pericoli o dalla necessità di prestare soccorso a persone o ad altre navi).
Il passaggio è da ritenere “inoffensivo” quando, ai sensi dell’art.19 della Convenzione del
diritto del mare, ‘non arrechi pregiudizio alla pace,al buon ordine e alla sicurezza dello Stato
costiero”; tale norma elenca una serie di attività che se poste in essere dalla nave straniera
nel mare territoriale, rendono il passaggio pregiudizievole alla pace, al buon ordine e alla
sicurezza dello Stato costiero e dunque offensivo (es. esercitazioni e manovre con armi).
Una questione riguarda se il diritto di passaggio inoffensivo spetti solo alle navi mercantili o
se spetti anche alle navi da guerra: un’interpretazione sistematica delle Convenzioni del
1958 e del 1982 conduce ad ammettere che le norme convenzionali consentano il
passaggio inoffensivo ad ambedue le categorie di navi.
Un pensiero favorevole al passaggio delle navi da guerra proviene soprattutto dagli Stati
occidentali; ma le numerose legislazioni del terzo mondo continuano a subordinare il
passaggio delle navi da guerra alla previa autorizzazione dello Stato costiero oppure alla
sua notifica anticipata.
Le navi in passaggio inoffensivo hanno l’obbligo di rispettare le leggi e i regolamenti dello
Stato costiero, soprattutto in materia di sicurezza della navigazione e prevenzione
dell’inquinamento.
I sommergibili devono navigare in emersione e mostrare la bandiera.
Non esiste un diritto di sorvolo del mare territoriale: questo è ammissibile solo se consentito
dallo Stato costiero.
Lo Stato costiero può sospendere il diritto di passaggio inoffensivo nel mare territoriale,
purché la sospensione sia essenziale per la sicurezza dello Stato costiero stesso; inoltre, la
sospensione deve avere carattere temporaneo, non deve essere discriminatoria e deve
riguardare specifiche aree del mare territoriale.
La giurisdizione civile e penale non può essere esercitata sulle navi da guerra, poiché esse
godono di immunità completa dalla giurisdizione.
Per quanto concerne le navi mercantili, la consuetudine internazionale accorda l’esenzione
della nave straniera in passaggio dalla giurisdizione penale dello Stato costiero per quanto
riguarda i ‘fatti interni’, cioè per quegli avvenimento che riguardano strettamente la vita della
nave e non hanno ripercussioni sul mondo esterno. Viceversa, l’esercizio della giurisdizione
penale da parte dello Stato costiero risulta ammesso quando si tratta di fatti che turbano la
tranquillità e il buon ordine dello Stato costiero e del mare territoriale.
L’art.27 della Convenzione del 1982 stabilisce che “lo Stato costiero non dovrebbe (should
not: condizionale) esercitare la propria giurisdizione penale per procedere all’arresto di
persona a bordo o ad atti di istruzione, su nave straniera in passaggio nel mare territoriale
ed in relazione ad un reato commesso a bordo della nave di passaggio, tranne in ipotesi ben
determinate che presuppongono un collegamento tra il crimine e la terraferma o il consenso
dello Stato della bandiera o misure necessarie per combattere il traffico di stupefacenti”.
Per quanto concerne l’esercizio della giurisdizione civile sulle navi mercantili in passaggio
nel mare territoriale, l’art.28 della Convenzione del 1982 stabilisce che “lo Stato costiero non
dovrebbe arrestare o dirottare una nave mercantile straniera in passaggio nel mare
territoriale per esercitare la giurisdizione civile nei confronti di una persona che si trovi a
bordo” (l’uso del condizionale in entrambe le norme finisce per stemperare il carattere
vincolante della norma).
La Convenzione del 1982 impone allo Stato costiero il dovere di non adottare misure
esecutive o conservative sulla nave in passaggio, tranne che non si tratti di misure prese in
riferimento ad obbligazioni assunte dalla nave nel corso, o in vista, del passaggio nel mare
territoriale.
Le aree marine poste all’interno della linea di base, cioè quelle aree che guardano la
terraferma, sono acque interne e sono assimilate al territorio dello Stato: in esse non vige il
diritto di passaggio inoffensivo.
Per evitare che il sistema delle linee rette possa nuocere sui traffici marittimi, l’art.8 della
Convenzione del 1982 detta un’eccezione a tale regola, stabilendo che “nelle acque che
prima della chiusura erano assoggettate al regime delle acque territoriali o dell’alto mare,
continua a vigere il diritto di passaggio inoffensivo”.

Il mare territoriale italiano:


Secondo l’art.2 del Codice della navigazione del 1942, il mare territoriale italiano aveva una
estensione di 6 miglia marine a partire dalla linea di base (a bassa marea). Venivano
dichiarati soggetti allo sovranità dello Stato italiano anche golfi, seni e baie di apertura non
superiore alle 20 miglia; nel caso in cui l’apertura fosse stata superiore, il Codice della
navigazione assoggettava alla sovranità dello Stato le porzioni racchiuse da una retta di 20
miglia tracciata tra i due punti più foranei.
La legge del 4 Agosto 1974 n.359 ha modificato l’art.2 del Codice della navigazione
estendendo a 12 miglia l’ampiezza del mare territoriale, calcolate a partire dalla linea di
costa a bassa marea, e ha adottato per le baie il criterio di 24 miglia.
Si presume che i Golfi di Venezia (36 miglia), Manfredonia (28 miglia), Squillace (35 miglia)
e Salerno (36 miglia) siano stati chiusi utilizzando il sistema che consente di tracciare una
retta lungo una costa marcata da profonde frastagliature e insenature, non essendo questi
golfi baie in senso giuridico e avendo comunque una linea di chiusura di lunghezza
superiore alle 24 miglia. -> figura pag.119.
Non risultano proteste da parte della Francia (Stato frontista, quindi maggiormente
interessata alla delimitazione); invece, gli Stati Uniti hanno contestato la delimitazione
italiana affermando che le isole tra la foce dell’Arno e Civitavecchia non possono essere
considerate ‘coastal fringing islands’ (‘corona di isole’) in senso giuridico (un’affermazione
che appare speciosa).
Anche le due isole maggiori, Sardegna e Sicilia, sono state cerchiettate da un sistema di
linee rette: Malta ha protestato per le rette tracciate lungo le coste meridionali della Sicilia.
Il Golfo di Taranto è stato chiuso affermando la tesi di essere una baia storica: qualora non
si dovesse accettare tale tesi, la chiusura del Golfo di Taranto sarebbe giustificabile
applicando il criterio delle linee rette.

Le baie:
Le baie sono insenature che penetrano profondamente nella costa.
Gli Stati hanno sempre cercato di chiudere le baie con una o più linee rette, per questioni di
sicurezza; il diritto internazionale ha tenuto conto di questa esigenza e ha accordato allo
Stato costiero il diritto di chiudere la baia, purché essa non sia una mera incurvatura della
costa, ma una baia in senso giuridico.
Affinché la baia possa essere considerata tale ‘in senso giuridico’, l’insenatura deve
racchiudere una superficie di acque uguale o superiore a quella di un semicerchio avente
per diametro la linea tracciata tra i punti di ingresso della baia (cd. regola del semicerchio). -
> figura pag.117.
Le baie in senso giuridico possono essere chiuse solo se la distanza tra i punti di ingresso
non superi le 24 miglia; nel caso in cui la distanza sia maggiore, gli Stati sono autorizzati a
tirare una linea retta di 24 miglia marine all’interno della baia, in modo da racchiudere una
superficie di acque più ampia possibile.
Bisogna tenere presente che per la chiusura delle baie, non è rilevante la conformazione
della costa: esse possono essere chiuse anche qualora siano incuneate in una costa piatta.
Il regime delle baie giuridiche, così come predisposto dalla Convenzione delle Nazioni Unite
sul diritto del mare, si applica alle baie incuneate nella costa di un solo Stato.
Particolari problemi (non risolti dalla Convenzione) possono sorgere quando, a seguito di un
mutamento territoriale, la baia si trovi ad essere soggetta alla sovranità di due o più Stati:
secondo alcuni la baia non sarebbe più sottoposta al regime delle baie giuridiche; altri,
invece, hanno espresso un’opinione contraria fondata sul presupposto che esista ormai una
regola consuetudinaria applicabile sia alle baie giuridiche che alle baie storiche appartenenti
a due o più Stati.
Una disciplina particolare vige per le ‘baie storiche’: esse possono essere chiuse anche
qualora non soddisfino il criterio del semicerchio ed indipendentemente dalla loro ampiezza.
Affinché una baia possa essere definita ‘baia storica’ bisogna verificare la sussistenza di due
elementi:
1. un prolungato esercizio di diritti di sovranità sulle acque della baia da parte dello
Stato costiero;
2. l’acquiescenza (=accettazione o meno) degli altri Stati.
es. di baie storiche sono le baie di Chesapeake e di Delaware (negli Stati Uniti) e del
Varanger Fjord (Norvegia).
Il Golfo di Taranto è stato dichiarato baia storica nel dpr. 26 Aprile 1977 n.816.
Non ha alcun fondamento giuridico la teoria delle baie vitali, che non possono essere
considerate né baie giuridiche, né baie storiche, ma la cui chiusura è dovuta ad esigenze di
sicurezza dello Stato costiero.

Gli stretti internazionali:


Gli “stretti” sono quei bracci di mare siti tra due terre emerse, compresi interamente nelle
acque territoriali dello Stato o degli Stati rivieraschi, che mettono in comunicazione due parti
più ampie di mare.
Secondo una norma di diritto internazionale consuetudinario, negli stretti utilizzati per la
navigazione internazionale che uniscono due parti di mare (cd. stretti internazionali) vige il
diritto di passaggio inoffensivo non sospendibile, diritto a favore sia delle navi private che
delle navi da guerra.
La ‘Convenzione di Ginevra del 1958 sul mare territoriale e sulla zona contigua’ ha precisato
che il diritto al passaggio inoffensivo attraverso gli stretti internazionali non può essere
sospeso (a differenza di quanto avviene per il passaggio nelle semplici acque territoriali) =la
Convenzione di Ginevra detta questo regime non solo per quei bracci di mare che mettono
in comunicazione due zone di alto mare, ma anche agli stretti che collegano l’alto mare con
il mare territoriale di uno Stato straniero. Tale previsione fu inserita nella Convenzione
soprattutto per poter assoggettare al regime degli stretti internazionali lo stretto di Tiran,
compreso tra la costa egiziana e la costa saudita; proprio tale previsione indusse gli Stati
arabi a non divenire parti della Convenzione del 1958.
Il regime degli stretti internazionali ha subìto una notevole revisione con la Convenzione
delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Il mutamento di disciplina è stato determinato dalla
circostanza che, con l’estensione del mare territoriale a 12 miglia, molti bracci di mare in cui
precedentemente esisteva un corridoio di alto mare, sarebbero divenuti stretti assoggettati
alla sovranità dello Stato rivierasco.
La Convenzione del 1982 innovava rispetto al regime preesistente la nozione di ‘passaggio
in transito’:ai sensi della Convenzione, per ‘passaggio in transito’ si intende l’esercizio della
libertà di navigazione e di sorvolo al solo fine del transito rapido e continuo nello stretto.
Il passaggio in transito comporta diritti più ampi del passaggio inoffensivo, quali:
- il transito delle navi, sia private che da guerra, non sospendibile
- il diritto di sorvolo a favore degli aeromobili civili e militari
- la possibilità per i sommergibili di navigare in immersione durante l’attraversamento
dello stretto
Le navi e gli aeromobili in transito devono astenersi dalla minaccia o l’uso della forza contro
gli Stati rivieraschi, nonché da ogni attività che non sia in diretto rapporto con il transito,
secondo il modo normale di operazione della nave o dell’aeromobile.
Il ‘passaggio in transito’ si applica, secondo la Convenzione del 1982,
- agli stretti utilizzati per la navigazione internazionale che mettono in comunicazione
due parti di alto mare;
- a due zone economiche esclusive;
- a una zona economica esclusiva e una zona di alto mare.
Si applica invece il passaggio inoffensivo non sospendibile (e non il passaggio in transito)
- agli stretti che collegano il mare territoriale di uno Stato a una parte di alto mare
oppure alla zona economica esclusiva di un altro Stato
- agli stretti che collegano due zone di alto mare, ma compresi fra il continente e
un’isola appartenente allo stesso Stato costiero, sempre che esista una via di
comunicazione alternativa di comparabile comodità. -> questo è un regime
applicabile allo stretto di Messina

Controverso è se possa essere costruito un ponte su uno stretto internazionale: la questione


ha interessato Svezia e Danimarca per la costruzione di un ponte sul Gran Belt per collegare
i due Stati; anche in Italia è stata sollevata la questione del ponte sullo stretto di Messina:
nel 1988 l’Italia notificò all’IMO che intendeva costruire il ponte, indicando anche le modalità
di costruzione; secondo alcuni, la costruzione del ponte non sarebbe contraria al diritto
internazionale.
Il regime predisposto dalla Convenzione del 1982 non si applica agli stretti internazionali
disciplinati da convenzioni internazionali di lunga data, come ad es. quella di Montreux del
1936, che assoggetta ad una dettagliata regolamentazione il transito nel Bosforo e nei
Dardanelli, distinguendo tra tempo di pace e tempo di guerra.

La zona contigua e la zona archeologica:


Si definisce ‘zona contigua’ = una fascia marina adiacente al mare territoriale nella quale lo
Stato costiero può esercitare, anche sulle navi straniere, il controllo necessario a prevenire e
reprimere infrazioni alle sue leggi doganali, fiscali, sanitarie e d’immigrazione, che
potrebbero essere commesse o siano state commesse nel territorio o nel mare territoriale.
Nella Convenzione di Ginevra del 1958 si prevede per la zona contigua una estensione
massima di 12 miglia marine a partire dalla linea di base. La Convenzione del 1982
autorizza gli Stati ad istituire una zona contigua sino a 24 miglia marine : quindi, poiché il
mare territoriale può avere un’estensione fino alle 12 miglia dalla linea di base, praticamente
la zona contigua ricopre una fascia di mare adiacente di ulteriori 12 miglia marine.
L’estensione della zona contigua a 24 miglia fa parte del diritto internazionale
consuetudinario e quindi gli Stati possono istituire zone di tale ampiezza, indipendentemente
dalla ratifica della Convenzione del 1982: infatti, molti Stati già prima dell’entrata in vigore di
questa Convenzione, avevano provveduto ad istituire una zona contigua di 24 miglia marine.
A differenza di quanto avviene per le acque territoriali, sulle quali si ha un’estensione della
sovranità dello Stato costiero, l’introduzione di una zona contigua è del tutto facoltativa, ed è
per questo necessaria una formale proclamazione dello Stato costiero.
In Italia, l’estensione del mare territoriale a 12 miglia, operata nel 1974, ha assorbito la zona
contigua (infatti prima l’Italia aveva un mare territoriale di 6 miglia ed una zona contigua
adiacente di altre 6 miglia) .
La l.30 Luglio 2002 n.189 attribuisce alle navi in servizio di polizia e alle navi della Marina
militare poteri di polizia, anche nei confronti di navi straniere, per contrastare il traffico illecito
di migranti. Questi poteri possono essere esercitati nel ‘mare territoriale o nella zona
contigua’ e si specifica che essi possono essere esercitati anche al di fuori delle acque
territoriali, ma nei limiti consentiti dal diritto internazionale.
Poiché non è stata adottata nessuna legislazione attuativa, i poteri per il contrasto delle
migrazioni illegali in tali zone restano allo stato virtuale (si limita ad affidare alla Guardia di
Finanza i poteri di controllo sull’immigrazione nella fascia di mare adiacente al mare
territoriale, ma non è di per sè istitutivo della zona contigua) -> tuttavia, tale argomentazione
è respinta da chi afferma che sia stata istituita ‘una zona contigua funzionalmente collegata
alla materia di immigrazione’.

Una novità assoluta della Convenzione del diritto del mare è la possibilità, riconosciuta
dall’art.303, di istituire una ‘zona archeologica’ sul fondo marino adiacente alla costa. La
zona archeologica = può avere un’estensione di 24 miglia dalle linee di base. In particolare,
si prevede che lo Stato costiero, al fine di controllare il commercio degli oggetti archeologici
o storici, può presumere che la rimozione di questi oggetti dalla zona archeologica senza la
sua approvazione si concretizzi in una violazione delle sue leggi e dei suoi regolamenti.
Allo Stato costiero così vengono riconosciuti diritti speciali di controllo e giurisdizione in
ordine alla rimozione di oggetti di valore archeologico e storico oltre il mare territoriale e sino
ad una distanza di 24 miglia dalle linee di base. Tuttavia, la norma che disciplina la zona
archeologica non dà informazioni circa i diritti dei proprietari identificabili, le regole in materia
di salvataggio e altre regole del diritto marittimo.
Per quanto riguarda l’Italia, in assenza di una formale proclamazione di una zona
archeologica, occorre innanzitutto fare riferimento all’art.94 della ‘Convenzione dei beni
culturali e del paesaggio’ che stabilisce la tutela degli oggetti archeologici e storici rinvenuti
nei fondali della zona di mare oltre le 12 miglia a partire dal limite esterno del mare
territoriale, in conformità alla Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio culturale
subacqueo del 2 Novembre 2001.
La tutela dei beni sommersi è affidata all’art.2 l.8 Febbraio 2006 n.61, istitutiva di zone di
protezione ecologica. Le zone ecologiche italiane hanno un’estensione più ampia della zona
archeologica. La tutela del patrimonio sommerso doveva essere intesa come confinata ad
una distanza di 24 miglia dalla linea di base.

La piattaforma continentale:
Una norma di diritto internazionale consuetudinario formatasi nel XX secolo, attribuisce allo
Stato Costiero diritti sovrani per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse naturali, sulle
zone del fondo e del sottosuolo marino facenti parte della piattaforma continentale.
Alcuni Stati dell’America Latina rivendicarono diritti esclusivi sulla piattaforma continentale e
sulla colonna d’acqua sovrastante; tuttavia, queste pretese non furono accolte dalla
comunità internazionale. L’istituto della piattaforma continentale fu oggetto di riconoscimento
nella I Conferenza sul diritto del mare del 1958, che portò alla conclusione della
Convenzione di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale.
Quest’ultima Convenzione riconosce allo Stato costiero diritti sovrani sulla piattaforma
continentale relativamente alla esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali della
stessa.
(Per risorse naturali = si intendono sia le risorse minerarie che le risorse biologiche
sedentarie, cioè gli organismi che rimangono immobili sulla piattaforma o che si spostano
rimanendo costantemente in contatto col fondo marino).
I diritti dello Stato costiero sulla piattaforma continentale sono esclusivi, nel senso che
nessuno può svolgere attività di esplorazione o sfruttamento senza autorizzazione da parte
dello Stato costiero stesso.
I diritti dello Stato costiero non pregiudicano lo status giuridico delle acque sovrastanti la
piattaforma, che invece rimangono soggette al regime dell’alto mare; non pregiudicano lo
status dello spazio aereo sovrastante le acque. Conseguentemente si ha che le attività di
esplorazione o sfruttamento della piattaforma (intraprese dallo Stato costiero o sotto sua
autorizzazione) non devono comportare una ingiustificabile interferenza con la navigazione e
la pesca libera.
Agli Stati terzi è riconosciuto il diritto di collocare sulla piattaforma continentale cavi (es. cavi
telefonici o telegrafici) e condotte (es. oleodotti, gasdotti) sotto riserva dello Stato costiero di
prendere le misure ragionevoli per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse della
piattaforma e per la prevenzione, riduzione e controllo dell’inquinamento da condotte.
La Convenzione del 1982 prevede espressamente che il tracciato delle condotte sulla
piattaforma continentale sia subordinato al consenso dello Stato costiero.
Per quanto concerne la delimitazione della piattaforma continentale in senso giuridico, il
limite interno coincide con il confine esterno del mare territoriale. Più complessa è la
definizione del limite esterno: la Convenzione di Ginevra del 1958 pone due criteri alternativi:
1. secondo un primo criterio, di carattere batimetrico, la piattaforma continentale si
estende verso il largo fino al punto in cui la profondità delle acque si mantiene a 200
metri.
2. Vi è anche la possibilità di un’estensione dei diritti esclusivi dello Stato costiero oltre il
limite batimetrico dei 200 metri, ed in particolare, secondo il criterio di sfruttabilità,
fino al punto in cui la profondità delle acque sovrastanti consente lo sfruttamento
delle risorse naturali del suolo e del sottosuolo marino.
La previsione del criterio di sfruttabilità apre diverse incertezze ai fini
dell’individuazione del limite esterno della piattaforma continentale: tale criterio
consente che, man mano che progrediscono le capacità tecnologiche dello Stato
costiero, una corrispondente estensione delle zone marine comprese nella nozione
giuridica di piattaforma continentale, e dunque soggette ai diritti sovrano dello Stato
costiero stesso. Si è discusso se tale possibilità dovesse ritenersi circoscritta solo
alle aree marine corrispondenti alla piattaforma continentale in senso geologico, o se
il criterio della sfruttabilità consentisse una illimitata estensione dei diritti dello Stato
costiero fino ad investire gli abissi oceanici.
La questione del limite esterno della piattaforma continentale è stata completamente
ridefinita dalla III Conferenza sul diritto del mare.
Secondo la Convenzione del 1982, la piattaforma di uno Stato costiero comprende i fondi
marini e il relativo sottosuolo al di là delle sue acque territoriali, fino a 200 miglia marine dalla
linea di base a partire dalla quale è misurato il mare territoriale.
La Convenzione del 1982, quindi, prevede che indipendentemente da ogni considerazione di
carattere geologico, la piattaforma continentale abbia comunque un’estensione minima di
200 miglia marine a partire dalla linea di base. Questa distanza potrà essere superata
qualora lo Stato costiero abbia una piattaforma continentale più estesa (in senso geologico) :
in questo caso, il limite esterno verrà a coincidere con il bordo del margine continentale,
purché non si superi il limite massimo di 350 miglia dalle linee di base oppure di 100 miglia
dall’isobata dei 2500 metri.
Secondo l’art.76 della Convenzione del 1982 “il margine continentale comprende il
prolungamento sommerso dalla massa terrestre dello Stato costiero; consiste nel fondo
marino e nel sottosuolo della piattaforma, del pendio e della risalita”.
Il margine continentale, invece, non comprende gli alti fondali oceanici o le loro dorsali
oceaniche, né il sottosuolo. Il limite esterno della piattaforma, qualora essa superi le 200
miglia, viene definito in concorso con la Commissione sui limiti della piattaforma
continentale.
In caso di sfruttamento della piattaforma continentale oltre le 200 miglia, il diritto esclusivo
dello Stato costiero subisce una importante limitazione: lo Stato costiero è tenuto a versare
un contributo in denaro o in natura, calcolato in percentuale dei benefici ricavati dallo
sfruttamento, all’Autorità dei fondi marini che dovrà provvedere ad un’equa distribuzione dei
contributi raccolti agli Stati parte della Convenzione, tenendo conto degli interessi degli Stati
in via di sviluppo e degli interessi degli Stati meno avanzati o privi di litorale marittimo.
La Corte internazionale di giustizia con la sent.3 Giugno 1985 in materia di delimitazione di
piattaforma continentale tra Libia e Malta, ha ammesso che fa parte del diritto internazionale
consuetudinario la regola secondo cui “i diritti dello Stato costiero sul suolo e sottosuolo
adiacente alle proprie coste si estendono fino alle 200 miglia dalle linee di base,
indipendentemente dalla presenza di una piattaforma continentale in senso geologico”.
La Convenzione del 1958 e la Convenzione del 1982 dettano regole differenti in materia di
delimitazione della piattaforma continentale tra Stati, le cui coste si fronteggiano o sono
adiacenti; in questi casi l’art.6 della Convenzione del 1958 stabilisce che la delimitazione
vada effettuata mediante accordo fra gli Stati interessati. Viene stabilito che, in mancanza di
accordo, la linea di delimitazione è data dalla mediana, cioè dalla linea i cui punti sono
equidistanti dai punti più vicini delle linee di base di ciascuno di questi Stati.
Il criterio della linea mediana, ai sensi dell’art.6, va corretto nel caso in cui sussistano delle
circostanze speciali, es. la presenza di isole vicino alla costa dell’altro Stato o il fatto che
nell’area da delimitare vi siano coste concave o convesse.
[il criterio della linea mediana non è stato considerato come appartenente al diritto
consuetudinario dalla sent. della Corte internazionale di giustizia sulla ‘definizione della
piattaforma continentale nel mare del Nord’].
La Convenzione del 1982 stabilisce all’art.83 che “la delimitazione della piattaforma
continentale tra Stati frontisti o limitrofi è effettuata mediante accordo sulla base del diritto
internazionale, in modo da pervenire ad una soluzione equa”. In attesa di un accordo
definitivo, gli Stati dovrebbero cercare di concludere un accordo provvisorio che non
comprometta la delimitazione conclusiva.
La Corte internazionale di giustizia ha affermato in varie decisioni che: la regola per cui la
delimitazione della piattaforma va effettuata mediante accordo ed in modo da raggiungere
ad una equa soluzione, fa parte del diritto internazionale consuetudinario. In particolare, la
Corte ha affermato che allo scopo di pervenire ad un risultato equo, occorre procedere alla
delimitazione tra Stati frontisti in 3 fasi:
- in primo luogo, bisogna tracciare una linea mediana tra le coste opposte;
- quindi, si deve aggiustare la mediana tenendo conto delle circostanze speciali (es. la
presenza di isole);
- infine, occorre verificare che la linea così tracciata non produca risultati non equi, ad
es. a causa della sproporzione tra la lunghezza delle coste degli Stati frontisti e le
aree marittime assegnate.
Il metodo delle 3 fasi, ormai consolidato, è stato recentemente ribadito dalla sentenza della
Corte internazionale di giustizia del 2 Febbraio 2018, nell’affare ‘Delimitazione marittima nel
mar dei Caraibi e nell’Oceano pacifico’.
L’Italia ha provveduto a delimitare la propria piattaforma continentale con una serie di
accordi tra Stati frontisti: Iugoslavia, Tunisia, Spagna, Grecia, Albania; Croazia e Serbia-
Montenegro sono succeduti nell’accordo con l’ex Iugoslavia. Nello specifico, l’accordo di
Caen del 2015 stabilisce la divisione della piattaforma continentale tra Italia e Francia,
incluse le modalità di sfruttamento dei giacimenti petroliferi a cavallo della frontiera; tuttavia,
tale accordo non è in vigore.

La zona economica esclusiva:


La zona economica esclusiva (ZEE) è un istituto introdotto dalla Convenzione delle Nazioni
Unite sul diritto del mare del 1982 (artt.55-75). Tale istituto costituisce uno sviluppo alle
diverse pretese avanzate dagli Stati costieri in relazione a zone di pesca esclusive nei mari
adiacenti alle acque territoriali.
La ZEE può estendersi fino a 200 miglia, calcolate a partire dalla linea di base. In pratica, lo
Stato costiero guadagna 188 miglia (considerando che il mare territoriale è fissato a 12
miglia).
I diritti di cui gode lo Stato costiero nella Zona Economica Esclusiva sono diversi e meno
intensi rispetto a quelli di cui gode nel mare territoriale.
L’istituzione della ZEE dipende da un preciso atto di volontà dello Stato costiero: ciò significa
che la ZEE non è un attributo necessario dello Stato costiero (come invece lo sono il mare
territoriale e la piattaforma continentale), ma deve essere proclamata.
Nella ZEE lo Stato costiero gode di diritti esclusivi in materia di sfruttamento, gestione e
conservazione delle risorse naturali (sia biologiche che non biologiche) esistenti sul fondo
marino, sul sottosuolo marino e nella colonna d’acqua sovrastante; lo Stato costiero gode
altresì di diritti esclusivi circa le attività dirette alla utilizzazione a fini economici della zona,
come la produzione di energia a partire dall’acqua, dalle correnti e dai venti.
In questa zona, lo Stato costiero ha inoltre diritti di giurisdizione in relazione allo stabilimento
e all’uso di isole e installazioni artificiali, alla ricerca scientifica marina e in materia di
protezione dell’ambiente marino dall’inquinamento.
Poiché i diritti dello Stato costiero riguardano il fondo marino e il relativo sottosuolo, la Zona
Economica Esclusiva assorbe la piattaforma continentale, a meno che questa non si
estenda oltre le 200 miglia dalle linee di base e tranne che non si adottino diverse linee per
la delimitazione delle due zone con Stati le cui coste sono adiacenti o fronteggiano quelle
dello Stato in questione.
La ZEE non è oggetto di un diritto di sovranità territoriale dello Stato costiero: gli altri Stati
continuano a godere in tale zona di alcune libertà connesse al regime dell’alto mare, come
libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di cavi e condotte sottomarini.
Nella ZEE, lo Stato costiero gode di poteri di polizia connessi alla realizzazione dei suoi
diritti; lo Stato costiero può prendere misure, come la visita e la cattura di navi straniere che
abbiano violato le sue leggi e nelle materie per cui esso ha la giurisdizione in base alla
Convenzione.
Circa la delimitazione della ZEE tra Stati frontisti o limitrofi, la Convenzione del 1982 adotta
una regola identica a quella relativa alla delimitazione della piattaforma continentale: la
delimitazione della ZEE va effettuata mediante un accordo conforme al diritto internazionale
e in modo da ottenere una soluzione equa. Non è detto che la linea di delimitazione della
ZEE tra due Stati debba coincidere necessariamente con la linea che delimita le rispettive
zone della piattaforma continentale. La soluzione di un’unica linea è preferibile dal punto di
vista pratico ed è in genere adottata nei trattati di delimitazione tra Stati frontisti o limitrofi.Vi
possono essere delle eccezioni.
Anche quegli Stati che avevano in un primo momento osteggiato la Convenzione del 1982
hanno finito per istituire una propria ZEE, come gli Stati Uniti che nel 1983 hanno proclamato
una Zona Economica Esclusiva di 200 miglia.
Qualora uno Stato abbia proclamato una ZEE, esso ha in tale zona diritti sovrani riguardanti
lo sfruttamento, la gestione e la conservazione delle risorse ittiche. Secondo quanto sancito
nella Convenzione del 1982, i diritti dello Stato costiero hanno come obiettivo quello dello
sfruttamento ottimale delle risorse biologiche della ZEE; in particolare, l’art.62 stabilisce che
“lo Stato costiero deve determinare, in base ai dati scientifici di cui dispone, il volume
massimo delle catture che di ogni specie possono effettuarsi in un certo periodo di tempo
senza provocare un eccessivo sfruttamento. Qualora lo Stato costiero non abbia la capacità
di effettuare l’intero volume di catture ammissibili, esso dovrà autorizzare mediante accordo
altri Stati a sfruttare il surplus”. La Convenzione, al riguardo, stabilisce che nell’autorizzare
l’accesso di altri Stati alle risorse ittiche della zona, lo Stato costiero deve tener conto di tutte
le circostanze rilevanti, e in particolare dell’importanza che queste risorse presentano per la
sua economia ed altri interessi nazionali, degli speciali diritti riconosciuti dalla Convenzione
agli Stati privi di litorale, dei bisogni degli Stati vicini in via di sviluppo e della necessità di
salvaguardare gli interessi degli Stati i cui cittadini hanno praticato abitualmente la pesca
nella zona oppure hanno contribuito alla ricerca e alla identificazione degli stock.
L’accesso di altri Stati alle risorse ittiche della ZEE è subordinato dallo Stato costiero al
pagamento di corrispettivi in denaro e all’osservanza di particolari condizioni, come lo
svolgimento di ricerche scientifiche da parte delle navi straniere, l’imbarco sulle navi
straniere di cittadini dello Stato costiero in qualità di osservatori o apprendisti, lo scarico del
pescato nei porti locali, la costituzione di imprese comuni, il trasferimento di tecnologie nel
settore della pesca e della ricerca applicata. In ogni caso, le navi straniere che siano
ammesse nella ZEE devono osservare le disposizioni dello Stato costiero relative alla
conservazione delle risorse biologiche.
Per quanto riguarda la pesca, l’art.73 della Convenzione del 1982 stabilisce che “lo Stato
costiero può adottare tutte le misure necessarie ad assicurare il rispetto dei provvedimenti
da esso emanati in conformità alla Convenzione, inclusi l’abbordaggio, l’ispezione o il
sequestro delle navi straniere e la proposizione di un’azione giudiziaria di fronte ai propri
tribunali”.
La Convenzione pone dei limiti ai poteri repressivi dello Stato costiero:
- lo Stato costiero è tenuto a notificare prontamente allo Stato della bandiera ogni
misura di sequestro o detenzione di navi straniere;
- lo Stato costiero deve procedere senza indugio al rilascio della nave sequestrata e
alla liberazione del suo equipaggio, nel caso in cui sia stata fornita una cauzione o
un’altra garanzia;
- le pene comminate dallo Stato costiero per la violazione delle norme relative alla
pesca non possono comprendere l’imprigionamento o alcuna forma di punizione
corporale.
L’Italia non ha proclamato una Zona Economica Esclusiva, ma ha previsto l’istituzione di
“zone di protezione ecologica”. Ciò conduce all’istituzione non di una zona, ma di più zone.
Nelle zone di protezione si applicherà la normativa interna e internazionale in materia di
prevenzione e repressione di tutti i tipi di inquinamento marino nei confronti di navi italiane o
straniere e nei confronti di persone di nazionalità italiana o straniera.
La zona di protezione ecologica non è una zona riservata di pesca, per cui i terzi possono
dedicarsi a tale attività. L’Italia può prendere misure per la protezione dei mammiferi e della
biodiversità, secondo quanto previsto dalla normativa nazionale, internazionale e
comunitaria.
I limiti esterni della zona di protezione ecologica dovranno essere fissati in virtù di accordi
con gli Stati adiacenti e frontisti. L’attuazione concreta di singole zone di protezione
ecologica è subordinata all’adozione di decreti ad hoc da notificare agli Stati adiacenti e
frontisti: con dpr. 27 Ottobre 2011 n.2009, l’Italia ha istituito zone di protezione ecologica nel
Mediterraneo nord-occidentale, nel Mar Ligure e nel Mar Tirreno.

Il regime dell’alto mare e dei fondi marini internazionali:


Ai sensi dell’art.1 della Convenzione di Ginevra sull’alto mare, costituiscono “alto mare” =
tutte le parti del mare non comprese nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato.
Questa definizione tuttavia è stata riveduta a seguito dell’introduzione di nuovi istituti come
la ZEE e le acque arcipelagiche.
Così, l’art.86 della Convenzione del 1982 prevede che il regime sull’alto mare si applica a
tutte le parti del mare che non siano comprese nella ZEE, nelle acque interne o territoriali o
nelle acque arcipelagiche.
L’alto mare ha inizio a partire dal limite esterno della ZEE (nel caso in cui lo Stato abbia
proclamato una zona economica esclusiva); invece, nel caso in cui lo Stato costiero non
abbia proclamato una propria zona economica esclusiva, si parla di ‘alto mare’ a partire dalle
acque poste al di là del mare territoriale.
L’alto mare è aperto a tutti gli Stati e nessuno può pretendere di assoggettare alcuna parte
di esso alla propria sovranità.
Ogni Stato gode della libertà di usare l’alto mare: l’art.87 della Convenzione sul diritto del
mare, comporta diverse libertà:
- libertà di navigazione
- libertà di pesca
- libertà di posa di cavi e condotte sottomarini
- libertà di sorvolo
- libertà di costruire isole artificiali e altre installazioni
- libertà di ricerca scientifica
Queste libertà devono essere esercitate da ogni Stato in modo che ne sia consentito il
godimento anche da parte di altri Stati della comunità internazionale.
Ogni Stato, sia costiero che privo di litorale, ha il diritto di far navigare in alto mare navi
battenti la propria bandiera; le condizioni cui è subordinata l’attribuzione della bandiera sono
determinate liberamente da ciascuno Stato. Tuttavia, la Convenzione di Ginevra afferma che
‘deve esistere un legame sostanziale fra lo Stato e la nave che batte la sua bandiera’. In
particolare, lo Stato deve esercitare effettivamente la sua giurisdizione e il suo controllo sulle
navi nazionali, in materia tecnica, amministrativa e sociale.
Si è discusso se il requisito del legame sostanziale sia imposto, oltre che dalla Convenzione
di Ginevra, anche dal diritto internazionale consuetudinario -> la Corte internazionale di
giustizia sul trattato istitutivo dell’IMCO (oggi IMO) non ha espresso un parere decisivo al
riguardo, infatti essa non si trovò a dover scegliere se l’esistenza di un ‘genuine link’ fosse
necessaria per iscrivere le navi nei registri dello Stato della bandiera.
Invece, alcuni Stati come l’Italia richiedono l’esistenza di un collegamento effettivo fra la
nave e la comunità, altri accordano facilmente la propria nazionalità alle navi dando luogo al
fenomeno delle ‘bandiere ombra’: la nave non è sotto l’effettivo controllo dello Stato della
bandiera ed elude gli standard di sicurezza e le norme generalmente in uso di tutela del
lavoro degli equipaggi.
In alto mare le navi sono soggette alla giurisdizione esclusiva dello Stato della bandiera
(bisogna ricordare che la nave deve possedere una sola nazionalità; infatti, la nave che
batte la bandiera di due o più Stati è assimilata alla nave priva di nazionalità. Le navi prive di
nazionalità non possono invocare la protezione di nessuno Stato e in alto mare sono
soggette all’autorità delle navi da guerra di tutti gli Stati).
Il suolo, il sottosuolo marino e le risorse qui esistenti, siti oltre il limite esterno della
piattaforma continentale, non sono assoggettati al regime dell’alto mare e al principio di
libertà: essi sono stati proclamati patrimonio comune dell’umanità dall’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite. Si afferma infatti che l’utilizzazione dei fondi marini posti oltre la
giurisdizione degli Stati deve avvenire esclusivamente a fini pacifici e l’esplorazione e lo
sfruttamento delle risorse ivi esistenti devono essere effettuati nell’interesse dell’umanità
intera, tenendo conto soprattutto dei Paesi in via di sviluppo. Si precisa che dovrà essere
assicurata un'equa ripartizione tra tutti gli Stati dei proventi delle attività di utilizzazione
economica dei fondi marini internazionali.
Nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, i fondi marini al di là della
giurisdizione nazionale vengono denominati ‘Area’.
La colonna d’acqua sovrastante l’Area è soggetta al principio della libertà dell’alto mare e
quindi vi possono essere esercitate le attività di pesca. Un problema si pone per le risorse
bio-genetiche recentemente scoperte sui fondi marini dell’Area, che non sono oggetto di una
specifica regolamentazione.
La disciplina dell’Area comprende le risorse minerali, quelle liquide o gassose, compresi i
noduli polimetallici.

Le zone di ricerca e soccorso:


L’art.98 della Convenzione sul diritto del mare disciplina l’obbligo di prestare soccorso a chi
si trovi in pericolo. Questa disposizione ha assunto una notevole importanza a seguito di
eventi frequenti come il traffico illegale di migranti via mare. Tuttavia, tale disciplina era stata
pensata per incidenti occasionali e la sua applicazione alle migrazioni di massa comporta
problemi di non facile soluzione, con la conseguenza che sarebbe opportuno che la
comunità internazionale si dotasse di nuovi strumenti convenzionali.
Secondo l’art.98 comma 1, l’obbligo di prestare soccorso non è assoluto, ma è condizionato
dalla circostanza che non siano messi a repentaglio la nave soccorritrice, il suo equipaggio e
i suoi passeggeri; il comandante della nave deve procedere il più velocemente possibile al
soccorso delle persone in pericolo nel caso in cui venga a conoscenza del loro bisogno di
aiuto e sempre se si possa aspettare da lui tale iniziativa ‘ragionevolmente’.
Per cui, si dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso (es. la distanza dal luogo
dell’incidente), che rientreranno nella valutazione del comandante, tenendo conto che il
principio della buona fede ne limita la discrezionalità.
Il soccorso deve essere prestato anche in caso di collisione.
L’art.98 comma 2 è destinato alla promozione di ‘zone di ricerca e soccorso’, attraverso la
costituzione e il funzionamento permanente di un servizio ad hoc adeguato ed efficace. A tal
fine dovrebbero essere stipulati accordi regionali con gli Stati limitrofi, quando le circostanze
lo richiedano.
Si tratta quindi di disposizioni improntate alla massima cautela.
Talvolta gli Stati istituiscono zone di ricerca e salvataggio molto ampie (nonostante non
abbiamo i mezzi per renderle completamente operative) allo scopo di poter avanzare
pretese di altro genere nelle acque al largo delle loro coste -> un es. è Malta, che ha istituito
una zona di ricerca e salvataggio di grande estensione, che si sovrappone a quella italiana.

Le eccezioni al principio di libertà di navigazione in alto mare:


La regola per cui in alto mare le navi sono sottoposte alla esclusiva giurisdizione dello Stato
della bandiera è assoluta per quanto concerne le navi da guerra.
L’art.95 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare dispone che ‘le navi da
guerra in alto mare godono della completa immunità dalla giurisdizione di ogni Stato diverso
da quello della bandiera’.
Per quanto riguarda invece le navi private, il diritto internazionale prevede alcuni casi in cui è
possibile un intervento anche nei confronti di navi straniere in alto mare:
- la prima ipotesi riguarda la pirateria = poiché il pirata esplica la sua attività in alto
mare, al di fuori del controllo statale, si è inteso proteggere la sicurezza dei traffici
marittimi attribuendo a qualsiasi Stato il potere di reprimere un’attività criminosa che
metterebbe in pericolo lo stesso principio della libertà di navigazione.
La pirateria è dettagliatamente disciplinata dagli artt.100-107 della Convenzione del
1982.
Ogni Stato mediante le proprie navi da guerra o altre navi in servizio governativo,
può catturare in alto mare una nave pirata. Tale potere non spetta se la nave pirata si
rifugia nelle acque territoriali altrui: in questo caso sarà lo Stato costiero che dovrà
provvedere alla cattura. In caso di incapacità dello Stato costiero (perché ad es.
versa in una situazione di anarchia) il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può
autorizzare gli Stati ad intervenire nelle acque territoriali altrui. -> es. ciò è successo
quando sono stati autorizzati gli Stati presenti in Oceano Indiano con navi da guerra
a combattere la pirateria: essi sono stati autorizzati ad entrare nelle acque territoriali
per un periodo di 6 mesi, successivamente rinnovato per un lasso di tempo
maggiore.
Guardie armate (militari o civili) possono essere imbarcate su navi mercantili; esse
però non sono abilitate a dare la caccia ai pirati e possono solo esercitare il diritto di
legittima difesa, qualora la nave venga attaccata.
Data l’importanza che è riconosciuta alla pirateria, si deve specificare che con tale
termine si intendono gli atti illegittimi di violenza, detenzione o depredazione
commessi per fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave contro un’altra
nave in alto mare o contro persone o beni che si trovino a bordo.
Gli atti di pirateria possono essere compiuti solo da navi private, e non da navi di
guerra. Affinché si possa parlare di atti di pirateria, occorre che siano coinvolte
almeno due navi.
La norma sulla pirateria è stata estesa agli aeromobili. Gli atti di terrorismo essendo
commessi per fini politici, difficilmente possono ricadere nella fattispecie della
pirateria.
Non sono da annoverare tra gli atti di pirateria né le azioni di protesta violenta
compiute in alto mare da navi di associazioni ambientaliste contro altre navi, ritenute
responsabili di danneggiare l’ecosistema marino e le specie protette (es. caccia alla
balena).

- Un’altra eccezione alla regola della giurisdizione esclusiva dello Stato della bandiera
è data dal ‘diritto di inseguimento’ = secondo l’art.111 della Convenzione del 1982, lo
Stato costiero ha il diritto di inseguire e catturare in alto mare, mediante navi o
aeromobili da guerra o adibiti a servizio pubblico, le navi straniere che abbiano
violato le sue leggi in zone sottoposte alla propria giurisdizione.
L’inseguimento deve avere inizio quando la nave straniera o una delle sue
imbarcazioni, si trova nelle acque interne, arcipelagiche o territoriali dello Stato
costiero o nella sua zona contigua, ZEE o acque sovrastanti la piattaforma
continentale.
Nel caso in cui la nave si trovi nella zona contigua, nella ZEE o nelle acque
sovrastanti la piattaforma continentale, l’inseguimento potrà essere esercitato dallo
Stato costiero esclusivamente solo in caso di violazione di particolari diritti
riconosciuti allo Stato in tali zone (es. per attività di pesca nella ZEE non consentite
dallo Stato costiero).
L’inseguimento deve essere continuo; nel caso di interruzione dell’inseguimento, ad
es. per temporanea avaria della nave inseguitrice, esso non può essere lecitamente
ripreso.
Il diritto di inseguimento cessa qualora la nave inseguita entri nelle acque territoriali
dello Stato di cui batte la bandiera o di un terzo Stato.
Il diritto di visita può essere esercitato da una nave da guerra anche nei confronti di
una nave priva di nazionalità o nei confronti di una nave che, pur navigando sotto
bandiera straniera, abbia in realtà la stessa nazionalità della nave da guerra.
Recentemente è stata istituita una norma consuetudinaria per cui lo Stato costiero
può prendere misure necessarie per prevenire o eliminare i pericoli di inquinamento
derivanti da un incidente marittimo anche nei confronti di navi straniere. (Tale norma
è stata recepita dall’art.221 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del
mare).
La Convenzione del 1982 consente misure di autorità, come arresto della nave e
sequestro delle relative attrezzature, su navi straniere in alto mare anche nell’ipotesi
in cui queste siano impiegate per trasmissioni non autorizzate, cioè per trasmissioni
radiofoniche o televisive diffuse nel grande pubblico in violazione dei regolamenti
internazionali. Questo potere è attribuito sia allo Stato bandiera, sia allo Stato di cui i
responsabili abbiano la nazionalità e agli Stati nei quali le trasmissioni sono ricevute
o le cui radiocomunicazioni sono disturbate.

- Un’altra eccezione è costituita dall’istituto della ‘presenza collettiva’ = che si realizza


quando una nave ancorata al largo (nave madre) si serve di battelli che fanno la
spola tra la nave stessa e la terraferma per mettere in essere traffici illeciti (es.
contrabbando di merci). In tal caso, lo Stato costiero è autorizzato a visitare la nave
in alto mare e a prendere le misure repressive necessarie.
L’art.108 della Convenzione del 1982 dispone un obbligo tra gli Stati per la
repressione del traffico di stupefacenti. La Convenzione di Vienna del 20 Dicembre
1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope non accorda il
potere di arrestare una nave straniera in alto mare, senza il consenso dello Stato
bandiera.
A tal fine gli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno concluso nel 1995 un
‘Accordo sul traffico illecito via mare, che applica l’art.17 della Convenzione delle
Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope’.

- Per quanto riguarda il Terrorismo marittimo, essendo motivato da motivi politici non
ricade sotto la definizione di pirateria. La Convenzione del 10 marzo 1988 per la
repressione dei reati contro la sicurezza della navigazione marittima e il relativo
Protocollo non prevedono alcuna norma circa il diritto di arrestare una nave straniera
in potere di un gruppo terrorista. Il Protocollo di emendamento alla Convenzione del
1988 istituisce forme di cooperazione tra gli Stati parti, allo scopo di arrestare una
nave sospetta di essere adibita alla commissione di atti di terrorismo mediante l’uso
di armi biologiche o chimiche, materiali fissili, esplosivi o radioattivi. La nave sospetta
può essere abbordata o perquisita con il consenso dello Stato della bandiera.

Le zone di identificazione aerea:


Fra le libertà dell’alto mare rientra la ‘libertà di sorvolo’ che trova applicazione sia nello
spazio aereo sopra l’alto mare, sia nello spazio atmosferico sovrastante la ZEE e la zona
contigua. Questi spazi aerei sono aperti alla libera utilizzazione degli aerei civili e militari di
tutti gli Stati.
Nella prassi recente sono emerse pretese di alcuni Stati marittimi (come Stati Uniti, Francia
e Canada) dirette ad istituire lungo le proprie coste delle ‘Zone di identificazione aerea’, cd.
ADIZ : Air Defence Identification Zones.
Tali zone si estendono per decine di miglia nello spazio aereo sovrastante l’alto mare o la
ZEE dello Stato costiero.
Normalmente, gli Stati costieri richiedono agli aerei che entrano in tali zone di identificazione
aerea e che si dirigono verso il loro territorio, di farsi identificare e di fornire alle autorità
territoriali informazioni relative al volo.
Si può affermare che le zone di identificazione aerea siano ammesse dal diritto
internazionale, poiché costituiscono esercizio del diritto di uno Stato di stabilire ragionevoli
condizioni per l’ingresso nel suo territorio, soprattutto al fine di proteggere la sua sicurezza
specialmente dopo la recrudescenza del fenomeno terroristico.
La notevole estensione di queste zone potrebbe essere dovuta alle elevate velocità oggi
raggiunti da alcuni tipi di aeromobili.
Le zone di identificazione aerea, che hanno finalità di sicurezza, non vanno confuse con le
Regioni per le informazioni di volo (FIR, Flight Information Region): si tratta di zone per la
ripartizione e controllo del traffico aereo di natura civile, che si estendono anche allo spazio
aereo internazionale. Gli aerei in volo nello spazio internazionale devono comunicare allo
Stato costiero, che controlla la FIR, tutte le informazioni richieste.
Queste procedure non sono applicabili agli aerei militari, i quali non sono tenuti a
comunicare il proprio piano di volo quando navigano negli spazi internazionali né a pagare
alcun corrispettivo, ma gli Stati devono tenere conto della sicurezza della navigazione degli
aeromobili civili.

Gli Stati arcipelago:


La Convenzione del 1982 ha introdotto, innovando il regime preesistente, uno speciale
regime riguardante gli Stati arcipelago e le acque arcipelagiche (artt.46-54).
Uno Stato-arcipelagico è uno Stato costituito interamente da uno o più arcipelaghi ed
eventualmente da altre isole. Per arcipelago si intende un gruppo di isole (comprese porzioni
di isole, le acque contigue e gli altri elementi naturali), le quali hanno le une con le altre
rapporti così stretti da formare intrinsecamente un tutto geografico, economico e politico, o
che storicamente siano state considerate tali.
Per cui, non rientrano in questo speciale regime gli arcipelaghi appartenenti a Stati formati
da territori anche non insulari, come es. le isole Azzurre sotto sovranità portoghese, o le
isole Baleari sotto sovranità spagnola.
La Convenzione del 1982 stabilisce che gli Stati-arcipelago possono tracciare delle linee di
base rette, cd. ‘linee di base arcipelagiche’, che congiungono i punti estremi delle isole o
degli scogli emergenti dell’arcipelago. La chiusura è ammissibile purché il tracciato delle
linee rette includa al suo interno le isole principali dell’arcipelago e purché la proporzione tra
le acque racchiuse dalle linee e la superficie terrestre sia tra uno a uno e nove a uno. Inoltre,
la lunghezza delle singole linee rette non può essere superiore a 100 miglia marine; il 3%
del numero totale delle linee può però avere un’ampiezza maggiore, fino ad un massimo di
125 miglia.
Uno Stato che si proclami Stato-arcipelago guadagna vaste aree marine, poiché tutte le
zone di giurisdizione sono calcolate a partire dalle linee rette arcipelagiche.
Le zone di mare che si trovano all’interno delle linee rette arcipelagiche sono dette ‘acque
arcipelagiche’ e sono assoggettate alla sovranità dello Stato. Nelle acque arcipelagiche vige
il diritto di passaggio inoffensivo a favore delle navi straniere.
In relazione a particolari rotte, come quelle utilizzate normalmente per la navigazione
internazionale, si applica il diritto di passaggio arcipelagico, che è assimilabile al diritto di
passaggio in transito attraverso gli stretti: esso comprende il diritto di sorvolo e di
navigazione senza impedimento e, per i sommergibili il diritto di transito in immersione.
Lo Stato arcipelagico può designare esso stesso i corridoi di navigazione e le rotte aeree per
le quali vale il passaggio arcipelagico; qualora lo Stato arcipelagico non provveda alla
designazione di tali corridoi, il diritto di passaggio arcipelagico si applica alle rotte
normalmente utilizzate per la navigazione internazionale.
Al momento in cui è stata adottata la Convenzione del 1982, la normativa dettata per gli Stati
arcipelago costituiva probabilmente opera di sviluppo progressivo del diritto internazionale.
Negli anni successivi alla conclusione della Convenzione, si è assistito ad un moltiplicarsi di
provvedimenti legislativi di singoli Stati, i quali hanno tracciato linee rette arcipelagiche ed
attribuito alle zone chiuse dalle rette lo status di acque arcipelagiche, in conformità con la
Convenzione del 1982. L’acquiescenza dei terzi Stati porta a ritenere che il regime dettato
per gli Stati-arcipelago sia riconosciuto dal diritto internazionale generale.

La soluzione delle controversie nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare:
La Convenzione del 1982 prevede una serie di disposizioni dettagliate per la soluzione delle
controversie, contenuta nella parte XV della Convenzione.
Innanzitutto, la Convenzione dispone l’istituzione di strutture per l’assolvimento di questa
funzione:
1. un Tribunale internazionale per il diritto del mare, con sede ad Amburgo, composto
da 21 giudici che durano in carica 9 anni, eletti dagli Stati parti della Convenzione. Le
sentenze del tribunale sono obbligatorie ed inappellabili.
2. una Camera per le controversie relative ai fondi marini, composta da 11 membri
scelti dai giudici del Tribunale tra i propri appartenenti.
3. una lista di conciliatori tenuta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, volta a
facilitare la costituzione di un Tribunale arbitrale.

La Convenzione stabilisce il principio della risoluzione pacifica delle controversie e lascia


alle parti la libertà di scelta del meccanismo che ritengono più opportuno: esse dovranno
consultarsi reciprocamente. Possono anche tentare una procedura di conciliazione, ma
questo dipende dalla loro volontà. Nel caso in cui le parti non riescano ad accordarsi sul
mezzo per risolvere la controversia, scatta la competenza obbligatoria stabilita dal sistema
per la soluzione delle controversie e ciascuna parte può adire unilateralmente uno dei
meccanismi indicati al momento della firma/ratifica della Convenzione, e precisamente:
- il Tribunale internazionale per il diritto del mare
- la Corte internazionale di giustizia
- un Tribunale arbitrale costituito conformemente all’Annesso VII della Convenzione
- un Tribunale speciale arbitrale istituito per determinate controversie in virtù
dell’Annesso VIII della Convenzione

Qualora le parti abbiano indicato la stessa procedura, la controversia è sottoposta a quella


procedura; in caso contrario, la controversia sarà risolta dal Tribunale arbitrale costituito in
virtù dell’Annesso VII alla Convenzione.
Il sistema è quindi strutturato in modo da consentire la soluzione obbligatoria delle
controversie, mediante ricorso unilaterale. Si tratta delle controversie relative:
- alla libertà di navigazione, sorvolo e posa di cavi e condotte sottomarine
- alla violazione di leggi e regolamenti dello Stato costiero, adottati in conformità della
Convenzione
- alle condotte comportanti una violazione delle norme sulla protezione dell’ambiente
marino
Vi sono delle eccezioni alla competenza obbligatoria: esse sono di 2 tipi:
1) il primo gruppo riguarda le eccezioni stabilite direttamente dalla Convenzione, che
sono:
- alcune controversie relative alla ricerca scientifica marina indicate nell’art.297
-> es. quelle relative alla sospensione o cessazione di ricerche condotte da
terzi nella ZEE dello Stato costiero
- alcune controversie relative alla pesca -> es. quelle che investono il diritto
dello Stato costiero di fissare il volume ammissibile delle catture.
In entrambi questi casi, nel caso di mancanza di una soluzione, ciascuna parte può
sottoporre la controversia alla Commissione di conciliazione prevista dall’Annesso V.
2) il secondo gruppo ha per oggetto le eccezioni facoltative, cioè quelle controversie
che uno Stato dichiara di voler escludere dalla competenza obbligatoria (art.298).
Queste possono riguardare:
- le delimitazioni marittime
- le attività militari
- le controversie su cui il Consiglio di sicurezza ha esercitato le sue funzioni per
la loro soluzione
Anche in questo caso, per le sole controversie relative alla delimitazione delle aree marine o
inerenti a baie storiche o titoli storici, si può fare ricorso alla conciliazione obbligatoria di cui
all’Annesso V.
Oppure, si può ricorrere ad una funzione consultiva: la Camera per la soluzione delle
controversie dei fondi marini può rendere pareri a richiesta dell’Autorità internazionale sui
fondi marini e il Tribunali internazionale per il diritto del mare può adottare pareri se richiesto
da un ente espressamente autorizzato da un accordo internazionale che abbia una relazione
con la Convenzione.
La Camera può essere investita non solo di una controversia tra Stati, ma anche di
controversie tra l’Autorità internazionale sui fondi marini e persone fisiche e giuridiche, es.
per contratti relativi allo sfruttamento dell’Area.
Secondo l’art.72, lo Stato costiero che ha catturato una nave straniera dedita alla pesca
illegale nella sua zona economica esclusiva, deve provvedere immediatamente al rilascio
della nave e dell’equipaggio, qualora sia prestata cauzione o altra idonea garanzia. Questa
disciplina, è applicabile mutatis mutandis anche alle infrazioni relative alla salvaguardia
dell’ambiente marino dall’inquinamento.
In caso di inadempienza, lo Stato della bandiera può azionare il procedimento per il rilascio
della nave e dell’equipaggio davanti al Tribunale internazionale per il diritto del mare.

Cap.7: La tutela dell’indipendenza statale e delle organizzazioni internazionali


nell’ordinamento degli Stati esteri:

L’esenzione degli Stati esteri dalla giurisdizione civile:


Una norma di diritto internazionale consuetudinario prescrive che “uno Stato non può essere
sottoposto a giurisdizione di fronte ai Tribunali di uno Stato estero”. Tale norma è posta in
virtù dell’eguaglianza degli Stati e tutela la loro indipendenza, traducendo in diritto positivo il
principio ‘par in parem non habet imperium’. Per cui, uno Stato estero non può essere
convenuto in giudizio dinanzi a un Tribunale dello Stato del foro, tranne che lo Stato esterno
non accetti volontariamente di sottoporsi alla giurisdizione locale e quindi rinunci
all’immunità.
La regola dell’immunità (o esenzione) dello Stato estero dalla giurisdizione ha natura
processuale e la sua sussistenza deve essere determinata in relazione al momento in cui
viene instaurato in giudizio nello Stato del foro e non in relazione al momento in cui si sono
verificati i fatti imputabili allo Stato estero, che si pretendono illeciti.

a) Immunità dalla giurisdizione:


La dottrina dell’esenzione degli Stati esteri dalla giurisdizione civile era inizialmente una
dottrina assoluta, che non comportava eccezioni: lo Stato non poteva essere sottoposto a
giurisdizione per nessun tipo di rapporto di cui fosse titolare.
Con l’accrescere dell’intervento statale nell’economia, la regola dell’esenzione assoluta
cominciò ad essere erosa. Si assistette progressivamente al ridimensionamento della teoria
della immunità assoluta. Attualmente, la regola vigente afferma che “lo Stato è esente da
giurisdizione, di fronte ai Tribunali di un altro Stato, quando compie attività che non sono
manifestazione delle sue funzioni sovrane, cioè attività iure imperii; lo Stato invece è
sottoponibile a giurisdizione quando pone in essere atti di natura privatistica, cioè attività iure
gestionis”.
La teoria dell’immunità ristretta è seguita sia dalle Corti continentali, che da quelle di
common law ed è stata codificata in atti legislativi ad hoc, come Sovereign immunity act,
State immunity act, Foreign states immunity.
Nel 1972 è stata conclusa la Convenzione europea sull’immunità degli Stati, attualmente in
vigore.
La distinzione tra ‘attività iure imperii’ e ‘attività iure gestionis’ in alcuni casi è abbastanza
semplice, in altri casi è invece di dubbia determinazione -> es. la Corte di Cassazione ha
affermato che l’attività di addestramento di aerei da guerra, essendo volta alla difesa della
sovranità, realizza un’attività iure imperii; si considera attività iure gestionis l’acquisizione di
macchinari o di derrate alimentari oppure l’emissione statale di bonds.
Tuttavia, se non si fa riferimento alla natura dell’atto e si considera solo il suo scopo, la
distinzione è più difficile -> es. un immobile può essere acquistato da uno Stato per puro
investimento oppure per essere adibito a sede della rappresentanza diplomatica.
Il principio generale enunciato nell’art.15 della Convenzione è quello secondo cui uno Stato
non può essere sottoposto a giurisdizione. Viene elencata una serie di fattispecie in cui
l’immunità dalla giurisdizione non può essere invocata (dagli artt.1 al 14): tra queste la
Convenzione include i casi in cui lo Stato estero sia parte attrice nel processo e il convenuto
proponga domande riconvenzionali.
Problemi particolari sono emersi per le controversie di lavoro tra lo Stato estero e il
personale impiegato presso l’ente: normalmente, le controversie sono sorte in relazione a
rapporti di lavoro subordinato, in cui le mansioni svolte non rientravano nelle funzioni
sovrane dell’ente (bibliotecari, cuochi..) ma, circa lo scopo, erano in qualche modo
strumentali al funzionamento dell’ente (mantenimento della biblioteca dell’ambasciata,
vettovagliamento delle forze armate).
L’art.5 della Convenzione di Basilea esclude che possa essere invocata l’immunità dalla
giurisdizione, nel caso in cui la controversia sia relativa ad un contratto di lavoro concluso tra
lo Stato estero ed una persona fisica, cittadina dello Stato del foro o qui abitualmente
residente, ed avente per oggetto una prestazione da eseguire a livello locale.
L’art.11 della Convenzione Onu dispone nella stessa maniera, con la differenza che tale
disposizione ammette che si possa invocare l’immunità dalla giurisdizione quando le funzioni
svolte siano strettamente connesse all’esercizio dell’autorità governativa -> es. quando un
individuo, cittadino dello Stato locale, sia stato reclutato con un contratto di diritto pubblico,
secondo l’ordinamento dello Stato estero, per svolgere funzioni inquadrabili nell’esercizio
dell’autorità governativa o sia un agente diplomatico o console, oppure un membro del corpo
diplomatico di una missione permanente presso una organizzazione internazionale.
L’eccezione all’immunità dalla giurisdizione non si applica se il prestatore d’opera sia
cittadino dello Stato datore di lavoro, tranne che la persona abbia la residenza permanente
nello Stato del foro.
L’immunità dalla giurisdizione non è applicabile ai rapporti patrimoniali, ma è applicabile
quando l’azione abbia per oggetto l’assunzione, il rinnovo del rapporto o la reintegrazione
del lavoratore. Non è detto nulla circa la tutela sindacale.
La giurisprudenza italiana dà rilevanza alla natura delle mansioni svolte e all’oggetto delle
richieste giudiziali avanzate (petitum).
L’immunità è solitamente esclusa quando il lavoratore svolga mansioni di carattere
meramente materiale oppure nel caso in cui, indipendentemente dalle mansioni svolte,
avanzi in giudizio pretese di natura esclusivamente patrimoniale, purché il loro accertamento
non richieda apprezzamenti dei poteri pubblicistici dello Stato estero.
Raramente i giudici si sono espressi a favore della reintegrazione nel posto di lavoro.
Un’eccezione fondamentale è stata stabilita dalla Convenzione Onu riguardante le
controversie relative al risarcimento del danno, cd. ‘Tort exception’.
Lo Stato le cui azioni o omissioni generatrici del danno siano imputabili, non può invocare
l’immunità dalla giurisdizione se l’azione o l’omissione abbiano avuto luogo nel territorio dello
Stato del foro e se l’autore dell’atto o omissione era presente nello Stato del foro.
L’eccezione copre gli incidenti stradali, l’assassinio politico e l’attività nei servizi segreti:
l’eccezione si applica ai danni conseguenti a lesioni personali, ma non copre altri tipi di danni
(come ad es. quelli causati da diffamazione).
Secondo la Corte internazionale di giustizia, la Tort Exception non sarebbe applicabile alle
situazioni di conflitto armato (anche la Convenzione di Basilea esclude dal proprio ambito di
applicazione azioni ed omissioni delle forze armate stanziate nel territorio dello Stato del
foro).
L’immunità dalla giurisdizione non può essere invocata negli Stati Uniti per azioni risarcitorie
conseguenti ad atti di terrorismo sponsorizzati da Stati; l’eccezione si applica solo nei
confronti degli Stati inclusi in un’apposita lista preparata dal Dipartimento di Stato.
Successivamente, nel 1803 l’ipotesi del terrorismo è stata inclusa: a partire dal 2016,
possono essere intraprese azioni risarcitorie per fatti di terrorismo accaduti negli Stati Uniti
anche contro stati che non sono inclusi nella lista. Si tratta quindi di un’estensione della Tort
Exception.
Una tesi innovativa è stata avanzata dalla nostra Corte di Cassazione con la sent.11 Marzo
2004 n.5044, cd. caso Ferrini, secondo cui non può essere accordata l’immunità dalla
giurisdizione allo Stato estero che sia responsabile di illeciti da qualificare come crimini
internazionali (nel caso considerato si trattava di violazioni del Regolamento annesso alla IV
Convenzione dell’Aja del 1907, commesse durante la II guerra mondiale a danno dei
cittadini italiani dopo l’occupazione tedesca e consistenti della deportazione in Germania e
nell’assoggettamento al lavoro forzato). La Germania ha lamentato la violazione della norma
sull’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione ed ha depositato ricorso contro l’Italia alla
Corte internazionale di giustizia; quest’ultima ha dato ragione alla Germania affermando che
l’Italia nel sottoporla a giurisdizione aveva violato la norma sull’immunità dalla giurisdizione.
La Corte ha respinto tutte le argomentazioni italiane, affermando che la regola sull’immunità
della giurisdizione ha natura processuale e non viene con la violazione di una norma
imperativa del diritto internazionale (ius cogens).
Per cui si ha che l’immunità dalla giurisdizione non è operante quando lo Stato è
responsabile della violazione di norme imperative del diritto internazionale.
L’eccezione, seppure non compare tra quelle elencate dalla Convenzione Onu, sarebbe
dovuta essere stata ammessa sia perché le norme imperative sono sovraordinate a quelle
consuetudinarie, sia perché in caso contrario lo Stato avrebbe goduto delle conseguenze di
un’azione contraria ad una norma imperativa del diritto internazionale. -> per cui, non si
sarebbe trattato di una nuova eccezione che restringe il contenuto della norma sull’immunità
dalla giurisdizione, quindi accanto all’eccezione relativa alle attività iure gestionis, sarebbe
da annoverare anche quella relativa alla violazione di norme imperative del diritto
internazionale.
La nostra Corte di Cassazione ha invece affermato che si sarebbe trattato semplicemente
della risoluzione mediante un’interpretazione sistematica delle antinomie tra norme, una
cogente e l’altra consuetudinaria. Tuttavia, tale argomentazione non è stata accettata dalla
Corte internazionale di giustizia, basandosi sul presupposto che la norma sull’immunità della
giurisdizione ha mera natura procedurale e quindi non si pone un contrasto tra la norma
consuetudinaria e quella imperativa. Si tratta di una conclusione formalistica smentita da
almeno un’opinione dissidente (in particolare l’opinione del giudice Conçado Trindade).
Per attuare la sentenza della Corte internazionale di giustizia, l’Italia aveva inserito nella
‘legge di autorizzazione all’adesione ed esecuzione della Convenzione del 2004
nell’ordinamento interno’ una disposizione volta ad individuare un nuovo motivo di
revocazione in aggiunta a quelli già stabiliti dall’art.395 cpc: la sentenza della Corte
internazionale di giustizia che accerti il difetto di giurisdizione del giudice italiano. La
sentenza passata in giudicato avrebbe potuto essere impugnata per revocazione, anche
molti anni dopo la sua emanazione. Qualora il provvedimento della Corte internazionale di
giustizia fosse intervenuto prima del passaggio in giudicato della sentenza, il giudice
avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio il difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del
processo.
La Corte costituzionale, con la sent.del 22 Ottobre 2014, ha rimesso tutto in discussione : la
Consulta ha statuito che la regola per cui lo Stato estero è immune da giurisdizione anche in
caso di commissione di crimini internazionali non può essere accolta nel nostro
ordinamento, poiché in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione.
Conseguentemente la Corte ha dichiarato incostituzionale l’art.94 della Carta delle Nazioni
Unite, che obbligava gli Stati ad eseguire le sentenze della Corte internazionale di giustizia.
Dopo la sentenza della Corte internazionale di giustizia, l’indirizzo della Corte suprema era
immediatamente mutato per adeguarsi al dictum internazionale, nonostante venisse ribadita
l’autonomia della Corte internazionale di giustizia e del giudice italiano.
La Corte di Cassazione affermò che il principio dell’immunità dalla giurisdizione veniva meno
nel caso in cui fosse stata violata una norma imperativa del diritto internazionale (anche se
secondo la Corte di Cassazione questa eccezione non si era ancora trasformata in diritto
positivo).
Dopo la sent. della Corte Costituzionale si è ritornati all’originaria giurisprudenza Ferrini.
Nel caso ‘Podrute’, elicottero italiano in missione di pace abbattuto da un Mig serbo nei cieli
croati il 7 Gennaio 1992, la Cassazione ha confermato la condanna della Corte d’Assise
d’Appello di Roma al pagamento del risarcimento dei danni ai familiari delle vittime da parte
della Serbia.
La Cassazione ha precisato che le norme consuetudinarie in contrasto con i principi
fondamentali della Costituzione non possono entrare nel nostro ordinamento; inoltre, ha
affermato che la norma sull’immunità dalla giurisdizione per attività iure imperii viene meno
qualora siano commessi gravi crimini internazionali.

b) Immunità dalle misure esecutive e cautelari:


L’immunità dalla giurisdizione non riguarda solo il procedimento di cognizione, ma è
invocabile anche per i procedimenti esecutivi e cautelari. Oltre alla distinzione iure imperii e
iure gestionis, vi è la distinzione tra beni adibiti allo svolgimento di attività sovrane dello
Stato (es. immobile adibito a sede dell’ambasciata) e beni che rientrano nella sfera di attività
private dello Stato (es. immobili acquistati per investimento). Tuttavia, l’applicazione pratica
di questa distinzione è fonte di incertezze.
Il problema si è posto per es. per i beni ad uso promiscuo, come i conti correnti della
missione diplomatica, che possono essere usati sia per attività iure privatorum (come
un’attività commerciale), sia per attività iure imperii, cioè per fini istituzionali della sede
diplomatica.
La giurisprudenza interna è ondeggiante tra la tesi secondo cui il danaro, depositato sul
conto bancario della missione diplomatica, è destinato ad attività sovrane dello Stato; e la
tesi che si fonda sulla fungibilità del danaro e sull’impossibilità di dimostrare che la somma
depositata sul conto corrente sia istituzionalmente destinata a soddisfare le attività
pubblicistiche dell’ente.
La Corte di Cassazione al riguardo ha affermato che spetta allo Stato titolare del deposito
individuare la destinazione di ciò che è parte del deposito, a fini commerciali piuttosto che
pubblicistici (l’individuazione della destinazione non può essere effettuata dal giudice, pena
un’ingerenza illecita nelle prerogative dello Stato estero).
L’art.19-bis della l.10 Novembre 2014 n.162 ha stabilito che i depositi bancari e postali delle
rappresentanze diplomatiche e consolari non possono essere soggette ad esecuzione
forzata qualora il capo della missione abbia dichiarato che il conto contiene somme
destinate esclusivamente a funzioni ufficiali.
L’art.23 della Convenzione di Basilea esclude che possano essere assoggettati a misure
esecutive i beni appartenenti a Stati esteri.
La Convenzione Onu (art.19) distingue, invece, tra misure cautelari adottate prima della
sentenza (pre-judgment measures) e misure esecutive da esperire dopo l’adozione della
sentenza stessa (post-judgment measures):
- pre-judgment measures = di regola non sono ammesse, tranne che lo Stato estero vi
abbia consentito o abbia destinato a tale scopo una specifica categoria di beni.
- post-judgment measures = anche queste non sono ammesse, ma il divieto di
ammissibilità prevede delle eccezioni, consentendo misure esecutive su beni che
non siano destinati a fini di servizio pubblico non commerciale.
L’art.21 della Convenzione Onu contiene poi una lista di beni immuni, come i conti bancari
utilizzati o destinati all’esercizio della sede diplomatica o consolare
Sono sottoponibili all’attività di esecuzione solo quei beni che non sono strumentali
all’esercizio di funzioni sovrane dello Stato estero; tuttavia, a causa delle incertezze della
distinzione, il sistema delle liste appare più opportuno.
Nell’ordinamento italiano, la questione della sottoponibilità dei beni di uno Stato estero a
misure esecutive era disciplinata dalla l.15 Luglio 1926, n.1263: essa subordinava
l’esperibilità del procedimento ad una autorizzazione del Ministro di Giustizia; la disposizione
veniva applicata a titolo di reciprocità. In ogni caso, non era ammesso ricorso contro il
decreto di reciprocità e contro il decreto che eventualmente negava l’autorizzazione.
Successivamente, la Corte Costituzionale ha eliminato, prima in parte, poi totalmente, la
disposizione. = dopo una serie di vicende, la Cassazione ha ribadito che, secondo il diritto
internazionale generale, non possono essere esperite misure cautelari o esecutive su beni di
Stati esteri destinati all’esercizio di funzioni sovrane o comunque perseguenti fini
pubblicistici.
Bisogna tenere presente che sono titolari dell’immunità dalla giurisdizione sia gli Stati esteri
in senso stretto, sia gli Stati membri di Stati federali (o comunque le suddivisioni politiche
degli Stati o le persone giuridiche pubbliche distinte dallo Stato, che abbiano la capacità di
stare in giudizio). Allo Stato membro di uno Stato federale l’attribuzione dell’immunità non è
automatica e dipende da una dichiarazione dello Stato federale, secondo cui i suoi Stati
membri possono invocare l’immunità dalla giurisdizione.

c) Immunità e diritto di accesso alla giustizia:


Come si concilia l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione con il diritto di accesso alla
giustizia garantito dall’art.24 Cost. e sancito anche dall’art.6 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo?
La Corte Costituzionale e la Cassazione hanno dato prevalenza al principio dell’immunità
dalla giurisdizione.
- la Corte Costituzionale nella sent. 48/1979 ha affermato che tutte le consuetudini
esistenti prima dell’entrata in vigore della Costituzione dovevano ritenersi presenti nel
nostro ordinamento.
- la Cassazione riteneva che il diritto di accesso alla giustizia non doveva considerarsi
leso nel caso in cui fosse possibile una sua soddisfazione per equivalenti, ad es.
quando lo Stato estero poteva essere citato in giudizio di fronte ai suoi Tribunali; ciò
comportava un aggravamento della posizione dell’attore.
Altre volte la Cassazione ha adombrato la tesi per cui l’immunità, non essendo
illimitata, non può contrastare con l’art.24 Cost.
La dottrina italiana si è dimostrata favorevole ad una interpretazione restrittiva della
regola sull’immunità dello Stato estero dalla giurisdizione: tale regola non contrasta
con l’art.24 Cost. qualora esistano rimedi alternativi ‘effettivi. E’ un principio
applicabile sia all’immunità dalla giurisdizione delle organizzazioni internazionali, che
all’immunità dalla giurisdizione degli Stati.
Nella sent.238/2014 la Corte Costituzionale, dopo aver affermato che le regole
consuetudinarie anteriori all’entrata in vigore della Costituzione dovevano ritenersi
presenti nel nostro ordinamento quantunque comportanti una deroga alla
Costituzione, ha ribadito che il diritto di accesso alla giustizia può essere derogato
quando ricorrono validi motivi, come la protezione della funzione sovrana dello Stato
estero nell’esercizio della sua potestà di governo. La deroga non è ammissibile nel
caso in cui vi siano comportamenti illegittimi consistenti in gravi violazioni dei diritti
umani. -> l’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha affermato che ‘il
diritto di accesso ad un Tribunale non è assoluto, ma può essere oggetto di
limitazioni, tra cui quelle derivanti dal diritto internazionale’.
Circa la riparazione dei crimini internazionali, la risoluzione di Tallinn dell’Institute de
droit international ha stabilito all’art.5 che ‘l’immunità degli Stati non deve privare le
vittime dal loro diritto alla riparazione’. Nonostante ciò, la Corte europea dei diritti
dell’uomo nel caso ‘Nait-Liman c. Svizzera’ ha affermato l’inesistenza di un obbligo
internazionale in materia di esercizio della giurisdizione civile per atti commessi da
Stati terzi o da individui soggetti alla giurisdizione di Stati terzi, anche qualora siano
commessi gravi crimini che sono proibiti da una norma di diritto cogente, come la
tortura.

d) L’Atto di Stato:
La dottrina dell’Atto di Stato ha origine nei sistemi di common law, in particolare nel Regno
Unito e negli Stati Uniti. Essa ha varie applicazioni (non riguarda solo l’immunità
giurisdizionale dello Stato estero).
La dottrina ha la seguente applicazione:
- i Tribunali del foro non possono determinare la validità di un provvedimento
legislativo adottato dallo Stato estero ed applicato nel suo territorio, nonostante il
provvedimento sia contrario al diritto internazionale. Conseguentemente, per es. i
Tribunali del foro non possono esaminare la liceità di un provvedimento con cui lo
Stato estero confisca o nazionalizza le proprietà degli stranieri (violando il diritto
internazionale). In tal caso dovrebbe intervenire lo Stato di cittadinanza dell’individuo
che ha subito il danno e deve fare ricorso alla protezione diplomatica.
La dottrina dell’Atto di Stato è oggetto di numerose eccezioni e la sua evoluzione ha fatto sì
che sia ritenuto ammissibile convenire lo Stato estero in giudizio, in caso di
espropriazione/nazionalizzazione di beni in violazione delle regole del diritto internazionale
(anche questa eccezione subisce varie interpretazioni).
La Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali dello Stato non ha fatto
propria la dottrina dell’Atto di Stato.

L’immunità degli organi stranieri:


Le attività poste in essere dall’individuo-organo nell’esercizio delle sue funzioni non sono
attività proprie dell’individuo, ma attività dello Stato di cui esso è organo e per cui agisce.
L’attività è imputata allo Stato (quindi non è dell’individuo), tranne nel caso in cui venga
commesso un crimine internazionale: l’atto, nel caso di un crimine internazionale, è imputato
allo Stato e resta proprio, in qualche modo, anche dell’individuo-organo.
Secondo una norma di diritto internazionale generale, ogni Stato ha il diritto di pretendere
che la condotta tenuta dai suoi organi sia considerata come attività dello Stato e non come
attività individuale posta in essere da soggetti privati.
Si parla di “immunità funzionale o organica” (ratione materiae) dell’individuo-organo.
Il diritto internazionale consente allo Stato territoriale di disconoscere l’immunità funzionale
in casi ben determinati, soprattutto quando l’organo abbia commesso un crimine
internazionale.
A parte la commissione di crimini internazionali, l’individuo-organo che compie l’atto per
conto dello Stato è tutelato dalla norma sull’immunità funzionale (l’atto è quindi imputato allo
Stato e l’individuo non ne risponde).
Oltre che l’immunità funzionale, vi è anche l’ “immunità di natura personale” = per gli atti che
l’individuo-organo svolge al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni.
Si tratta di due immunità distinte:
- Immunità funzionale = copre gli atti compiuti dall’organo nell’esercizio delle proprie
funzioni e non viene meno anche quando l’organo cessa dalla carica;
- Immunità personale = copre gli atti commessi al di fuori delle funzioni e termina con il
cessare della carica.
La qualifica di ‘organo dello Stato’ deve essere determinata in base all’ordinamento interno
dello Stato per cui l’organo agisce.
[un caso controverso è quello Enrica Lexie del 2011, una nave privata privata su cui erano
imbarcati alcuni membri della Marina militare in funzione antipirateria, e a cui la legge
italiana attribuiva la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria. Essi furono accusati di aver fatto
fuoco su pescatori indiani scambiati per pirati. La questione è tutt’ora pendente davanti al
Tribunale arbitrale Italia-India.]
I Capi di Stato godono sia dell’immunità funzionale (sono organi di Stati) e delle stesse
immunità personali degli agenti diplomatici, quando si trovano all’estero. L’art.21 della
Convenzione di New York presuppone l’esistenza di cui godrebbero i Capi di Stato secondo
il diritto internazionale, poiché specifica che ad essi spettano le immunità accordate dallo
Stato ricevente e le immunità disposte dal diritto internazionale. -> a tal proposito, la Corte di
Cassazione francese, nel caso ‘Gheddafi’, ha affermato innanzitutto che il terrorismo non
potesse essere qualificato come un crimine internazionale, poi ha stabilito la non
sottoponibilità a giudizio di Gheddafi, poiché questi (in quanto Capo di Stato in carica)
godeva di immunità secondo il diritto internazionale. La Corte di Cassazione quindi ha
affermato la regola dell’immunità dalla giurisdizione penale dei Capi di Stato in carica (che
non spetta più quando il Capo dello Stato cessi dalla funzione).
Per i Capi di Governo valgono le stesse regole esposte per i Capi di Stato; l’art.21 par.2
della Convenzione di New York sulle missioni speciali fa riferimento a immunità previste dal
diritto internazionale.
Per quanto riguarda i Ministri degli Affari Esteri, la Corte internazionale di giustizia ha
stabilito che esso gode dell’immunità completa dalla giurisdizione penale, sia per gli atti
compiuti a titolo privato, sia per gli atti ufficiali, purché si tratti di un ministro in carica.
L’immunità è strumentale allo svolgimento delle funzioni di un Ministro degli affari esteri e
sussiste anche nel caso in cui venga compiuto un crimine internazionale: essa viene meno
solo se l’individuo è sottoposto a giudizio da parte di un Tribunale internazionale (deve
trattarsi di un Tribunale internazionale istituito dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite).
Qualora l’individuo-organo compia attività clandestine in un territorio altrui, l’immunità
funzionale viene disconosciuta, tranne che si tratti di agenti diplomatici, i quali godono
d’immunità processuale durante il periodo in cui svolgono la loro missione.
L’immunità degli organi di Stato è attualmente oggetto di studio da parte della Commissione
del diritto internazionale in vista di una sua possibile codificazione.
Per quanto riguarda lo status dei corpi di truppa che si trovano all’estero con il consenso
dello Stato territoriale: essi sono disciplinati dal diritto convenzionale tramite accordi ad hoc
= questi accordi vengono denominati ‘Sofa’ (Status of Forces Agreement).
Secondo alcuni, lo Stato territoriale dovrebbe astenersi in ogni caso dall’esercitare la propria
giurisdizione sui corpi di truppa stranieri e sui singoli componenti dei corpi stessi; un’altra
corrente di pensiero afferma che in base al diritto internazionale consuetudinario, lo Stato
territoriale sarebbe tenuto solo a tollerare l’esercizio (da parte dello Stato bandiera) delle
funzioni relative al mantenimento della disciplina e all’amministrazione interna del corpo, ma
nessuna forma ulteriore di immunità dovrebbe essere riconosciuta al di là di queste materie.
Circa i rapporti tra più contingenti presenti in territorio estero, ciascuno è assoggettato alla
legge della propria bandiera: questo principio può essere ammesso come ‘criterio di
giurisdizione’ solo quando si devono disciplinare fatti o rapporti che restano all’interno del
contingente (non può assicurare un riparto di giurisdizione quando si tratta di rapporti che
interessano più contingenti, poiché il rapporto ha ripercussioni sull’esterno -> es. l’omicidio di
un membro di un contingente da parte di un componente di un altro contingente. Sarebbe
necessario stipulare un accordo ad hoc. La questione venne in luce con l’uccisione di un
funzionario italiano del Sismi, Nicola Calipari, il 4 Marzo 2005, da parte di un soldato
americano, Mario Lozano, ad un posto di blocco presso l’aeroporto di Baghdad. Si ritenne,
per la Corte di Cassazione, che Lozano avesse agito nell’esercizio delle sue funzioni.)

Gli agenti diplomatici:


La potestà d’imperio di uno Stato all’interno del proprio territorio trova limitazioni a seguito
dell’instaurazione di relazioni diplomatiche con altri Stati.
Allo scopo di assicurare un efficace svolgimento delle funzioni diplomatiche, il diritto
internazionale generale stabilisce alcuni privilegi e immunità a favore degli agenti
diplomatici.
Questo settore del diritto internazionale è oggetto di un’apposita convenzione di
codificazione: la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, ratificata
dall’Italia e resa esecutiva nel nostro ordinamento con la l.9 Agosto 1967 n.804.
La procedura con cui l’individuo-organo viene investito di funzioni diplomatiche si chiama
‘accreditamento’:essa presuppone il preventivo gradimento dello Stato territoriale e si
perfeziona con la presentazione delle lettere credenziali, normalmente rilasciate dal Capo
dello Stato accreditante al Capo dello Stato accreditatario; è ammissibile anche una
procedura semplificata.
I limiti alla potestà territoriale derivanti dall’instaurazione di relazioni diplomatiche sono:
1. Inviolabilità dei locali della missione diplomatica;
2. Inviolabilità personale dell’agente diplomatico;
3. Immunità dell’agente diplomatico dalla giurisdizione locale;
4. Immunità fiscale.

1.Inviolabilità dei locali della missione diplomatica:


I locali in cui ha sede la missione diplomatica sono inviolabili (art.22 della Convenzione di
Vienna). Gli organi dello Stato territoriale non vi possono penetrare se non con il consenso
del capo della missione. Infatti, non si possono effettuare perquisizioni, requisizioni o
sequestri all’interno della sede diplomatica.
L’inviolabilità dei locali della missione diplomatica si estende anche ai mezzi di trasporto e
alla corrispondenza ufficiale della missione (si parla di ‘extraterritorialità della missione
diplomatica’).
La sovranità sul territorio su cui si trova la sede diplomatica appartiene allo Stato
accreditatario e non allo Stato accreditante.
Lo Stato territoriale ha il dovere di prendere tutte le misure appropriate al fine di proteggere
la missione diplomatica da ogni intrusione o danneggiamento, e da qualsiasi atto che ne
possa disturbare la pace o la dignità.
I locali della missione diplomatica non possono essere oggetto di sequestro.
Non esiste una consuetudine internazionale sull’asilo diplomatico : una persona che trova
rifugio nei locali della missione diplomatica di uno Stato estero ed è ricercata dalla giustizia
locale, non può essere arrestata, tranne che il capo della missione esprima il proprio
assenso. -> tale questione si ebbe con il caso ‘Assange’ nel Regno Unito: Assange si era
rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per evitare l’estradizione in Svezia.
Nei paesi dell’America Latina, invece, esiste una consuetudine locale in materia di asilo
diplomatico.

2.Inviolabilità personale dell’agente diplomatico:


La persona dell’agente diplomatico è inviolabile: lo Stato territoriale deve astenersi
dall’esercitare misure coercitive contro l’agente diplomatico straniero, il quale non può
essere sottoposto ad alcuna forma di arresto o detenzione.
Inoltre, lo Stato territoriale deve adottare tutte le misure per prevenire ogni attentato o offesa
alla persona, alla libertà o dignità dell’agente diplomatico.
Nel caso di ostaggi, la Corte internazionale di giustizia ha ritenuto responsabile l’Iran per non
aver impedito che gli studenti islamici sequestrassero il personale dell’ambasciata degli Stati
Uniti a Teheran, dopo averla occupata.
Tra le violazioni delle immunità diplomatiche è annoverata la decisione del governo indiano
di intimare l’ambasciatore Daniele Mancini di non lasciare l’India. Questa fu una reazione al
comportamento che aveva avuto l’Italia quando decise di non far rientrare in India i due
marò implicati nell’incidente dell’Enrica Lexie. La reazione indiana non è giustificabile come
contromisura, poiché si tratta sempre di una lesione dell’inviolabilità degli agenti diplomatici.

3.Immunità dell’agente diplomatico dalla giurisdizione locale:


Oltre che dell’immunità funzionale, gli agenti diplomatici godono anche dell’immunità dalla
giurisdizione dei Tribunali dello Stato per gli atti compiuti come persone private. L’immunità
per gli atti privati vale solo fin quando durano le funzioni diplomatiche della persona in
questione.
Si parla di ‘Immunità dalla giurisdizione locale’ = una immunità meramente processuale, con
la conseguenza che l’agente diplomatico può essere sottoposto alla giurisdizione dello Stato
presso cui era accreditato una volta terminata la missione per gli atti compiuti nella sua
capacità privata.
L’ ‘Immunità funzionale’ (immunità funzionale per gli atti compiuti dall’agente diplomatico per
gli atti compiuti dall’agente diplomatico nell’esercizio delle sue funzioni) = invece, è di
carattere sostanziale, quindi perdura nel tempo anche dopo la cessazione delle funzioni.
In materia penale, l’immunità dell’agente diplomatico è piena e non incontra eccezioni: egli
non può essere assoggettato ad un processo in nessun caso.
Nel caso in cui l’agente diplomatico sia responsabile di reati in base alla legge locale, potrà
essere dichiarato dallo Stato territoriale come ‘persona non grata’, con la conseguenza che
lo Stato accreditante lo dovrà richiamare, o dovrà porre fine alle sue funzioni. Di regola si
assegna un breve periodo di tempo entro il quale l’agente diplomatico dovrà lasciare il
territorio dello Stato ricevente; scaduto tale termine di tempo, l’agente diplomatico che non
abbia lasciato il territorio decadrà dai privilegi e dall’immunità di cui era titolare.
Anche in materia civile e amministrativa, gli agenti diplomatici beneficiano di immunità dalla
giurisdizione dei Tribunali locali: questa immunità incontra alcune eccezioni elencate
dall’art.31 della Convenzione di Vienna (come l’azione reale concernente un immobile
privato situato nello Stato territoriale, azione successoria, azione relativa a rapporti giuridici
connessi ad una professione liberale o attività commerciale esercitata dall’agente
diplomatico).
Pertanto, l’agente diplomatico è il mero beneficiario materiale delle immunità e dei privilegi
diplomatici (lo Stato accreditante, dal punto di vista giuridico, è titolare del diritto soggettivo
all’immunità). Ne consegue che solo lo Stato accreditante può, nel caso in cui lo ritenga
opportuno, rinunciare all’immunità dei suoi agenti diplomatici dalla giurisdizione locale :
art.32 Convenzione di Vienna.

4.Immunità fiscale:
L’agente diplomatico gode del privilegio dell’esenzione fiscale per le imposte dirette
personale. L’esenzione fiscale non copre le imposte indirette, ed è accordata come
condizione di favore e sulla base della reciprocità.
Talvolta uno Stato nomina come agente diplomatico un cittadino dello Stato accreditatario:
ciò è consentito dalla Convenzione di Vienna sulle immunità diplomatiche, che subordina la
nomina al consenso dello Stato accreditatario, che può ritirarlo in ogni momento.
Il cittadino che viene nominato non gode né dell’immunità fiscale, né dall’esenzione dalla
giurisdizione perché se no di creerebbe una situazione contraria ad ogni criterio di giustizia:
infatti, di regola, l’agente diplomatico è immune dalla giurisdizione dello Stato accreditatario,
ma non è immune dalla giurisdizione dello Stato accreditante di cui è cittadino.
A tal proposito, l’art.38 della Convenzione di Vienna stabilisce che “l’agente diplomatico,
cittadino dello Stato accreditatario, gode dell’immunità giurisdizionale e della inviolabilità solo
per gli atti fiscali compiuti nell’esercizio delle sue funzioni” = cioè gode solo dell’immunità
funzionale, e non di quella personale.

I consoli:
Se l’agente diplomatico = rappresenta lo Stato accreditante nelle relazioni internazionali con
lo Stato accreditatario;
il Console = svolge funzioni tipiche dell’amministrazione dello Stato d’invio all’interno dello
Stato territoriale. Le funzioni del console sono elencate nell’art.5 della Convenzione di
Vienna del 24 agosto 1963 sulle relazioni consolari, entrata in vigore il 19 marzo 1967.
Tra le funzioni elencate nell’art.5 emergono:
- funzioni sul rilascio dei passaporti e dei documenti di viaggio ai cittadini dello Stato
d’invio;
- funzioni sulla salvaguardia degli interessi dei cittadini nelle successioni mortis causa
aperte nello Stato di residenza;
- funzioni circa la trasmissione di atti giudiziari o extragiudiziari (inclusa l’esecuzione di
rogatorie:La richiesta che un'autorità giudiziaria rivolge ad un'altra autorità (per es. di
un altro stato) per il compimento di atti processuali relativi a un procedimento che si
svolge innanzi ad essa ma che esulano dalla sua competenza territoriale o dalla sua
sfera di giurisdizione (in particolare nell'ipotesi di assunzione di prove).
- inoltre, i consoli agiscono in qualità di notai e di ufficiali di Stato civile e sono anche
competenti a risolvere le controversie marittime in materia di rapporti tra capitano ed
equipaggio delle navi battenti bandiera dello Stato di invio;
- i consoli rappresentano lo Stato d’invio, soprattutto per quanto riguarda le relazioni
commerciali, economiche, culturali e scientifiche.
I locali consolari, nella parte usata esclusivamente per lo svolgimento dei lavori consolari,
sono inviolabili; sono inviolabili anche gli archivi, i documenti consolari.
Tuttavia, ai consoli non spettano le immunità che il diritto internazionale accorda agli agenti
diplomatici. Ai consoli, secondo il diritto internazionale consuetudinario, spetta solo la
Immunità funzionale e l'inviolabilità dell’archivio consolare.
Circa l’inviolabilità personale, la Convenzione del 1963 dispone che “i Consoli non possono
essere arrestati, tranne nel caso in cui venga commesso un ‘reato grave’ e comunque
sempre in seguito alla decisione dell’autorità giudiziaria. In tutti gli altri casi, la privazione
della libertà può essere attuata solo a seguito di una sentenza definitiva”.
I consoli godono solo dell’immunità funzionale, per cui non possono essere sottoposti a
giurisdizione per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni.
Il console, così come l’agente diplomatico, può svolgere le proprie funzioni solo con il
consenso dello Stato di residenza, dopo la trasmissione delle lettere patenti dallo Stato
d’invio e dopo l’ “exequatur” dello Stato territoriale (exequatur è la procedura giudiziaria che
serve a far riconoscere, in un determinato paese, un provvedimento emesso dall'autorità
giudiziaria di un altro paese).
Il console, come l’agente diplomatico, può essere dichiarato ‘persona non grata’ dallo Stato
di residenza.

Le organizzazioni internazionali:
Una questione che si è posta in dottrina riguarda le organizzazioni internazionali, in
particolare se ad esse spetti nello Stato del foro l’immunità dalla giurisdizione, sia per il
processo di cognizione, sia per il processo di esecuzione.
Vi è questa incertezza poiché per le organizzazioni internazionali non esistono convenzioni a
livello regionale o universale che disciplinano il loro trattamento nello Stato del foro.
Di regola, si provvede stipulando degli accordi ad hoc per le singole organizzazioni o per
una categoria di organizzazioni; in particolare, vengono stipulati degli accordi con lo Stato
dove l’organizzazione si trova, il cd. ‘accordo di sede’, con cui si disciplinano anche le
immunità giurisdizionali.
L’art.105 della Carta delle Nazioni Unite dispone che “l’organizzazione gode, nel territorio di
ciascuno dei suoi membri, dei privilegi e delle immunità necessari per il conseguimento dei
suoi fini” = questa disposizione è ulteriormente specificata nella Convenzione generale sui
privilegi e immunità delle Nazioni Unite.
Nella sent. 13 aprile 2012 nell’affare ‘Madri di Srebrenica’, la Corte Suprema olandese ha
stabilito che l’immunità delle Nazioni Unite non poteva venire meno neppure in caso di
commissione di gravi violazioni del diritto internazionale; la Corte europea si pronunciò sulla
stessa scia della Corte suprema: ha affermato infatti che non si poteva censurare il
comportamento delle Nazioni Unite per un affare che riguardava i poteri del Consiglio di
sicurezza e che la regola dell’immunità dalla giurisdizione doveva essere applicata
nonostante fosse invocata dal ricorrente la violazione di una norma imperativa del diritto
internazionale.
Circa le istituzioni specializzate delle Nazioni Unite, esiste la ‘Convenzione generale sui
privilegi e immunità degli istituti specializzati’; per la soluzione di controversie di lavoro tra
enti internazionali e funzionari dell’ente stesso esistono dei ‘Tribunali interni dell’ente’ (come
i tribunali del contenzioso amministrativo delle Nazioni Unite e il tribunale d’appello).
L’organizzazione può istituire anche delle procedure specifiche.
Secondo alcuni, l’immunità delle organizzazioni internazionali trova fondamento
nell’estensione analogica della norma consuetudinaria sull’immunità dalla giurisdizione degli
Stati; secondo altri, esisterebbe una norma di diritto internazionale consuetudinario che
esenterebbe le organizzazioni internazionali dalla giurisdizione dei Tribunali interni; una
terza opinione ricava l’immunità delle organizzazioni dalla personalità giuridica
internazionale delle organizzazioni stesse e di cui l’immunità costituirebbe un corollario.
Secondo un’opinione intermedia, l’immunità viene attribuita solo alle ‘organizzazioni più
importanti’, come le Nazioni Unite o altre organizzazioni che svolgono funzioni incisive nella
comunità internazionale.
Vi è infine un’opinione radicalmente contraria alle precedenti, secondo cui le organizzazioni
internazionali non godono dell’esenzione dalla giurisdizione: secondo questa opinione,
l’immunità dovrebbe essere stabilita convenzionalmente e sarebbe valida solo nei confronti
degli Stati parti del trattato istitutivo o parti dell’accordo di sede.
Inoltre, si afferma che l’immunità possa essere concessa da una legge ad hoc
dell’ordinamento statale, a prescindere dall’ordinamento internazionale.
A seguito dell’espressione di queste differenti opinioni, la Corte internazionale di giustizia si
è espressa a favore della personalità delle organizzazioni internazionali, senza però
esprimersi sulla questione dell’immunità. Il contenuto dell’immunità è incerto: si suppone che
questa sia attribuita da una norma di diritto internazionale e non può essere applicato il
principio ‘par in parem non habet iurisdictionem’ perché non esiste parità tra Stati e
organizzazioni internazionali. Infatti, mentre gli Stati esplicano funzioni di natura generale, le
organizzazioni internazionali espletano solo le funzioni determinate dal trattato istitutivo,
perseguendo i fini che da questo sono prefigurati.
La nostra giurisprudenza, in materia di immunità dalla giurisdizione delle organizzazioni
internazionali, non ha seguito un pensiero univoco =
- Sent. 2425/1979 della Cassazione = essa ha riconosciuto l’immunità dalla
giurisdizione, ricavandola da un’applicazione analogica della norma valevole per gli
Stati esteri.
- Sent. 5399/1982 della Cassazione = si è pronunciata come la precedente sent.
- Sentt. 5819/1985 e 8433/1990 = la Corte Suprema ha riconosciuto all’istituto italo-
latino americano l’immunità dalla giurisdizione ricavandola dalla personalità
internazionale dell’ente e da un’autonoma norma di diritto internazionale
consuetudinario, senza la necessità di fare ricorso all’accordo istitutivo.
- Sent. 149/1999 = la Corte di Cassazione ha seguito la teoria intermedia cui si è fatto
cenno precedentemente.
- La Corte Suprema, dopo aver affermato che la soggettività internazionale degli Stati
è incomparabile con quella delle organizzazioni internazionali, ha statuito che
bisogna determinare caso per caso se queste godano dell’immunità dalla
giurisdizione; ha aggiunto che non è sicuro affermare l’esistenza di una norma
consuetudinaria che consenta di estendere a tutte le organizzazioni internazionali il
principio dell’immunità dalla giurisdizione. L’incertezza può essere colmata solo da
specifiche norme scritte e, in particolare, dall’accordo istitutivo.

Possiamo dire quindi che bisogna quindi procedere con cautela: se fosse certo e
incontrovertibile l’esistenza di una norma di diritto internazionale consuetudinario in materia
di immunità dalla giurisdizione, gli Stati non sentirebbero la necessità di inserire una norma
ad hoc negli accordi di sede. Quindi, qualora si debba accertare se l’organizzazione gode di
immunità, occorre in primo luogo esaminare l’accordo di sede o un altro strumento
equivalente che, in quanto diritto convenzionale, deroga la consuetudine internazionale. In
mancanza di un accordo di sede non si può andare oltre all’applicazione analogica della
norma consuetudinaria relativa all’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione.
Conseguentemente, l’immunità andrebbe affermata solo per quelle funzioni che rientrano
nella sfera pubblicistica dell’ente (ciò vale anche per l’immunità dall’esecuzione).
In materia di rapporti di lavoro, una disciplina convenzionale che sottraesse la cognizione
della lite ai Tribunali sarebbe in contrasto con l’art.24 Cost. : a tal proposito la Cassazione
francese ha negato in una controversia di lavoro l’immunità dalla giurisdizione alla Banca
africana di sviluppo, partendo dal presupposto che la Banca non disponeva di un
meccanismo per la soluzione delle controversie con il personale e che l’accoglimento
dell’immunità avrebbe privato il lavoratore del suo diritto di accesso ad un Tribunale.
La tesi negazionista è stata fatta propria anche dalla Corte d’Appello dell’Aja che non ha
accordato l’immunità dalla giurisdizione all’Ufficio europeo dei brevetti in una controversia
d’impiego con il personale.
Generalmente gli Stati membri delle organizzazioni internazionali dispongono presso
l’organizzazione di una rappresentanza permanente diretta da un capo-missione e di cui
fanno parte alcuni funzionari di rango diplomatico -> i privilegi e le immunità di queste
persone sono disciplinate dall’accordo di sede stipulato tra organizzazione internazionale e
Stato ospite. Il fine è quello di consentire ai membri della rappresentanza di svolgere le
proprie funzioni.
Possono essere stipulati accordi generali o ad hoc, come la Convenzione sui privilegi e le
immunità delle Nazioni Unite e la Convenzione sui privilegi e le immunità delle istituzioni
specializzate.
L’art.105 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che i rappresentanti dei membri delle
Nazioni Unite debbano godere dei privilegi e dell’immunità necessari per l’esercizio
indipendente delle loro funzioni inerenti all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Nel 1975 fu stipulata a Vienna la Convenzione sulla rappresentanza degli Stati nelle loro
relazioni con le organizzazioni internazionali universali: questa Convenzione è entrata
recentemente in vigore.

I funzionari delle organizzazioni internazionali:


I funzionari delle organizzazioni internazionali godono solo dell’immunità funzionale,
limitatamente agli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni (tale immunità è una
conseguenza dell’ente per cui operano).
I funzionari internazionali non godono di immunità e privilegi di natura personale, come es.
immunità dalla giurisdizione penale per gli atti compiuti al di fuori delle loro funzioni,
esenzioni di natura fiscale… generalmente questi vengono accordati ai funzionari di rango
più elevato -> es. nell’Accordo di sede tra Austria e UNIDO del 13 aprile 1967 è specificato
che il Direttorio generale dell’Organizzazione gode dei privilegi e delle immunità attribuiti agli
ambasciatori aventi la qualifica di capi-missione.
Cap. 8: Le fonti del diritto internazionale

L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia:


L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia stabilisce che la Corte, per le
controversie per cui deve decidere in base al diritto internazionale, deve applicare:
- le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, che stabiliscono norme
generalmente riconosciute dagli Stati in lite;
- la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come
diritto;
- i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia è considerato come una
enunciazione delle fonti del diritto internazionale; esso oggi viene letto insieme all’art.53
della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che ha riconosciuto l’esistenza di norme
imperative del diritto internazionale generale (ius cogens).
Le norme di diritto cogente non sono prodotte da fonti del diritto internazionale, infatti la
‘cogenza’ è una qualità di alcune norme prodotte dalla consuetudine e dipende dall’elemento
soggettivo nella formazione della consuetudine internazionale. Per cui, esisterebbero delle
norme consuetudinarie cogenti che prevalgono su accordi contrari e sulle norme
consuetudinarie prive di carattere cogente. Le norme cogenti produrrebbero effetti che
trascendono il diritto dei trattati, investendo altri settori del diritto internazionale.

La consuetudine:
L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia definisce la consuetudine come
“una pratica generale accettata quale diritto” = questa definizione illustra che la
consuetudine si compone di 2 elementi costitutivi:
1. Diuturnitas = cioè la ripetizione costante di un comportamento da parte della
generalità degli Stati (cd. elemento materiale);
2. Opinio iuris ac necessitatis = cioè la convinzione generale che tale comportamento
sia conforme a diritto (cd. elemento psicologico). Per cui deve trattarsi di una pratica
considerata come conforme a diritto, in quanto non può dare origine a una
consuetudine internazionale una pratica contraria a diritto e che sia reputata tale.
Affinché si possa ravvisare l’elemento materiale della consuetudine. è necessario che un
determinato comportamento sia ripetuto nel tempo, in modo uniforme, dalla generalità degli
Stati.
Il tempo di formazione della consuetudine può essere più o meno esteso: in alcuni casi le
norme consuetudinarie sono venute alla luce in un arco ristretto di tempo -> es. norma
consuetudinaria sulla piattaforma continentale e la norma consuetudinaria che riconosce la
possibilità allo Stato costiero di istituire una zona economica esclusiva di 200 miglia di
ampiezza.
In ogni caso, un lasso di tempo (seppure breve) è necessario ai fini della cristallizzazione di
una norma consuetudinaria e, nonostante sia sostenuto il contrario, non esistono
consuetudini istantanee (il concetto di consuetudine istantanea appare una contraddizione).
La prassi deve essere virtualmente uniforme e seguita dalla generalità degli Stati: per
generalità non si richiede che un comportamento sia tenuto da ognuno dei membri della
comunità internazionale, ma dalla maggior parte di essi; generalità non significa totalità.
Molto importante è il comportamento degli Stati ‘i cui interessi sono specialmente toccati’,
come ad es. gli Stati marittimi per la nascita delle consuetudini in materia di diritto del mare
(il comportamento deve essere imputabile ad uno Stato).
Oltre che dall’elemento materiale, la formazione di una norma consuetudinaria dipende dalla
convinzione che la pratica generale sia conforme a diritto, il cd. ‘elemento psicologico’. La
necessità di questo elemento è stata illustrata dalla Corte internazionale di giustizia nella
sentenza sulla Piattaforma continentale del mare del Nord secondo cui ‘gli atti considerati
devono dare luogo ad una pratica costante, e devono essere tali da costituire la prova della
convinzione che questa pratica sia resa obbligatoria dall’esistenza di una norma di diritto; gli
Stati internazionali devono avere quindi il sentimento di conformarsi a ciò che costituisce
una obbligazione giuridica’.
Si ritiene che l’elemento psicologico possa essere costituito anche dalla semplice
convinzione di esercitare un diritto -> es. molti Stati affermano l’esistenza di un diritto di
passaggio inoffensivo per le navi da guerra nel mare territoriale, diritto che è contestato dagli
Stati del terzo mondo.
I due elementi necessari (materiale e psicologico) sono stati ribaditi dalla Corte
internazionale di giustizia nel parere sulla ‘liceità delle armi nucleari’ del 1996.
La consuetudine è una fonte idonea a creare norme di diritto internazionale generale,
vincolanti per tutti i membri della comunità internazionale: ogni Stato è tenuto ad osservare
una norma consuetudinaria, indipendentemente dal fatto che abbia o no partecipato alla sua
formazione e indipendentemente se l’abbia accettata o meno; allo stesso modo gli Stati di
nuova formazione sono vincolati dalle norme consuetudinarie generali vigenti al momento
della loro nascita.
Non si ritiene accettabile la tesi che afferma che la consuetudine non vincola lo Stato che si
è opposto in modo palese e inequivocabile al suo processo di formazione (cd. ‘Teoria
dell’obiettore permanente) = per cui, la consuetudine vincola anche lo Stato che vi si era
opposto.
La consuetudine, oltre che produrre norme generali, può produrre anche norme vincolanti
solo per una ristretta cerchia di soggetti: si tratta delle “consuetudini particolari”, come le
consuetudini regionali o locali, oppure le norme che si applicano solo agli Stati appartenenti
ad una determinata area geografica o geopolitica. -> un es. di consuetudine particolare,
nello specifico consuetudine regionale propria dell’America latina, è il principio dell’ ‘uti
possidetis’ secondo cui, in materia di delimitazione dei confini internazionali, gli attuali Stati
latini-americani dovrebbero conformarsi alle demarcazioni territoriali fra le varie circoscrizioni
amministrative istituite dalla Spagna all’epoca coloniale. Questo principio è ora diventato di
applicazione universale.
Si è posta una questione inerente all’esistenza di consuetudini locali bilaterali : la Corte si è
pronunciata a favore della loro esistenza durante la controversia tra India e Portogallo
relativa al passaggio su territorio indiano. Per cui esistono delle consuetudini locali che
vincolano solo due Stati.
Secondo alcuni, tra le consuetudini particolari dovrebbero essere annoverate anche quelle
consuetudini che si formano in deroga a regole pattizie (in particolare quelle consuetudini
che si formano in deroga a norme stabilite dal trattato istitutivo di una organizzazione
internazionale) -> es. la deroga dell’art.27 della Carta delle Nazioni Unite secondo cui
l’astensione di un membro permanente non impedisce l’adozione di una delibera da parte
del Consiglio. Tuttavia, si ritiene che la prassi modificativa potrebbe essere meglio intesa
non come elemento costitutivo di una consuetudine internazionale, ma come un
comportamento da cui poter evincere un accordo tacito modificativo del precedente.
Seguendo infatti questa visione, l’art.31 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei
trattati, afferma che “ai fini dell’interpretazione del trattato, occorre tenere conto di qualsiasi
prassi successivamente seguita nell’applicazione del trattato attraverso cui si sia formato un
accordo delle parti in materia di interpretazione del medesimo”.
Rilevare una consuetudine internazionale è un’operazione molto complessa, poiché bisogna
provare l’esistenza sia della pratica generale, sia dell’opinio iuris.

Le norme imperative del diritto internazionale (ius cogens):


Le norme imperative del diritto internazionale o norme di ius cogens sono norme di rango
superiore rispetto a quelle poste mediante accordo e rispetto all norme consuetudinarie.
La categoria delle norme imperative del diritto internazionale è emersa in un periodo
relativamente recente, infatti non vi è traccia di esse nell’art.38 dello Statuto della Corte
internazionale di giustizia. Queste norme hanno trovato riconoscimento nell’art.53 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati: ai sensi di questa disposizione, costituiscono
norme di ius cogens = quelle regole del diritto internazionale generale che sono riconosciute
ed accettate dalla comunità internazionale nel suo insieme come ‘norme inderogabili’.
L’art.53 contiene i criteri identificativi dello ius cogens, che sono:
- Generalità = una norma per poter essere qualificata come imperativa, deve
appartenere alla categoria delle norme di diritto internazionale generale, vincolante
per tutti i membri della comunità internazionale.
Poiché l’unica fonte idonea a produrre norme generali è la consuetudine, si ha che le
norme di ius cogens sono norme di fonte consuetudinaria.

- Accettazione e riconoscimento della norma imperativa da parte della comunità


internazionale nel suo insieme come norma inderogabile = affinché una norma di
diritto internazionale generale possa essere considerata imperativa, è necessario
che essa sia accettata e riconosciuta come ‘norma inderogabile’ dalla comunità
internazionale nel suo insieme. Per cui, è necessario che gli Stati siano convinti della
natura inderogabile della norma; questa convinzione deve essere propria della
comunità internazionale nel suo insieme, cioè deve essere condivisa dagli Stati
appartenenti a tutte le componenti essenziali della comunità internazionale.
Non esiste, quindi, un ius cogens regionale.
Le norme imperative sono norme di diritto internazionale generale, sorrette da opinio iuris:
gli Stati sono infatti convinti sia dell’applicabilità universale della norma, che
dall’inderogabilità della norma stessa.
Pertanto, le norme imperative sono norme consuetudinarie sostenute da un’opinio iuris
particolarmente qualificata, cioè l’inderogabilità.
Non è raro il caso che una norma nasca come norma consuetudinaria e si trasformi
successivamente in norma imperativa, che talvolta avrà un contenuto più ristretto rispetto
all’originaria norma consuetudinaria -> es. norma consuetudinaria sul divieto dell’uso della
forza e sul divieto di aggressione, da cui poi è nata la norma imperativa che ha un contenuto
più ristretto rispetto alla norma consuetudinaria.
E’ difficile individuare norme che siano autonomamente sorte come norme cogenti: in
genere, si tratta di norme già presenti nell’ordinamento internazionale, come norme
consuetudinarie e successivamente divenute norme cogenti.
La nozione di ius cogens non si applica solo al diritto dei trattati, ma anche alle fonti previste
da accordo.
L’opinio iuris sottesa alle norme imperative è data dalla convinzione che l’obbligo assunto è
posto a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale. -> es. di norme cogenti
sono quelle che vietano il genocidio, l’apartheid, il divieto di crimini da guerra e contro
l’umanità.
Per cui, si ha che le norme cogenti proteggono diritti fondamentali dell’ordinamento
internazionale e costituiscono le basi fondanti dell’attuale comunità internazionale.
La nozione di norma imperativa è ancora circondata da incertezza e, a causa di questa
incertezza, alcuni preferiscono elaborare un elenco concreto di norme cogenti ricavandolo
dalle indicazioni della giurisprudenza internazionale e interna.
L’ius cogens non può trovare la sua fonte in un trattato internazionale, poiché l’accordo
produce solo diritto particolare, quindi diritto che vincola solo gli Stati parti. Inoltre, si ritiene
errata la teoria secondo cui lo ius cogens troverebbe la sua fonte nei principi contenuti
nell’art.2 della Carta delle Nazioni Unite, ritenuti superiori a qualsiasi obbligo assunto
mediante trattato dagli Stati membri: infatti, alcuni di questi principi sono derogati dalla
stessa Carta delle Nazioni Unite, come il principio di uguaglianza di tutti i membri ONU, che
è derogato dall’art.27 che attribuisce il diritto di veto ai membri permanenti.
Bisogna ricordare che una norma di ius cogens è produttiva di obblighi erga omnes = nel
senso che il soggetto obbligato è tenuto ad osservare il comportamento prescritto nei
confronti di tutti i membri della comunità internazionale (tuttavia, non è detto il contrario: una
norma istitutiva di vincoli erga omnes non è detto che sia norma imperativa, soprattutto se
mancano gli elementi che caratterizzano il diritto cogente).

L’accordo:
L’accordo (o trattato o convenzione) è fonte del diritto internazionale.
L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia nell’elencare le norme applicabili
dalla Corte per risolvere le controversie internazionali, dispone che “la Corte applica le
convenzioni internazionali sia generali che particolari che stabiliscono norme espressamente
riconosciute dagli Stati in lite”.
La procedura di conclusione dei trattati, i loro effetti, le riserve, l’invalidità e l’estinzione sono
disciplinati dal diritto internazionale consuetudinario, in particolare nel 1969 è stata conclusa
la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, definita ‘un trattato sui trattati’, in quanto
detta le regole per la disciplina di questa fonte del diritto internazionale.
Le regole sancite nella Convenzione di Vienna sono in parte dichiarative del diritto
internazionale, in parte sviluppo progressivo: essa si applica solo tra gli Stati parti dei trattati
conclusi dopo la sua entrata in vigore.
La Convenzione di Vienna non è stata ratificata né dalla Francia (che non l’ha neanche
firmata), né dagli Stati Uniti (che l’hanno solo firmata) e gli Stati parti della Convenzione
sono poco più della metà degli Stati membri della comunità internazionale; l’Italia è parte
della Convenzione.
L’art.2 della Convenzione di Vienna stabilisce che “l’espressione ‘Trattato’ significa un
accordo internazionale concluso per iscritto fra Stati e disciplinato dal diritto internazionale,
contenuto sia in un unico strumento, che in più strumenti connessi, e quale che sia la sua
particolare denominazione”.
Da tale enunciazione possiamo ricavare che:
- il trattato è suscettibile di avere varie denominazioni: trattato, convenzione, accordo,
carta, statuto, protocollo, patto, dichiarazione..
- la volontà di concludere un trattato può essere consegnata in un unico strumento
oppure in due o più strumenti connessi -> es. uno scambio di note o di lettere
- l’accordo deve essere disciplinato dal diritto internazionale. Non è un trattato quindi
né un accordo che trova fondamento nel diritto pubblico interno di uno dei contraenti
(es. un accordo tra uno Stato e una impresa straniera), né uno strumento non avente
natura giuridicamente vincolante e appartenente al cd. ‘soft law’ (es. i documenti
OSCE non sono atti giuridicamente vincolanti, ma solo political commitments); anche
i MOU non sono atti giuridicamente vincolanti, tranne che dall’atto si ricavi una
esplicita volontà di obbligarsi).
La Convenzione di Vienna disciplina solo gli accordi fra Stati; tuttavia sono trattati anche gli
accordi conclusi tra Stati e altri soggetti del diritto internazionale, oppure conclusi tra soggetti
di diritto internazionale diversi dagli Stati (es. organizzazioni internazionali).
In diritto internazionale vige il principio della libertà di forma: in particolare, la Convenzione di
Vienna disciplina solo gli accordi in forma scritta, e non quelli conclusi in forma orale, anche
se l’art.3 ammette implicitamente la validità di quest’ultima. La Convenzione dell’Avana, al
contrario, stabilisce che la forma scritta è un requisito essenziale dei trattati.
Il problema che si pone per gli accordi conclusi in forma orale non è tanto quello della loro
ammissibilità (proprio perché in diritto internazionale vige il principio della libertà di forma),
quanto quello di stabilire ciò che è stato pattuito: normalmente il contenuto risulta dalle
minute concordate tra i plenipotenziari.
Dupuy ha definito il trattato affermando che: “il trattato è la manifestazione delle volontà
concordi delle parti, proveniente da soggetti di diritto dotati della capacità prescritta, allo
scopo di produrre degli effetti giuridici disciplinati dal diritto internazionale”.
Al contrario di come si riteneva in passato, l’accordo può disciplinare tutte le materie: non
esistono materie specifiche che possono essere incluse o non incluse in un accordo
internazionale. L’unico limite è rappresentato dallo ius cogens, poiché un accordo contrario
allo ius cogens (norma imperativa del diritto internazionale) è nullo.
L’accordo produce solo diritto internazionale particolare, cioè crea diritti ed obblighi solo tra
gli Stati parti dell’accordo stesso (invece, la consuetudine produce diritto internazionale
generale); è comunque possibile che una regola di un trattato possa trasformarsi
successivamente in diritto consuetudinario. Solo quando la regola diverrà diritto
consuetudinario, sarà vincolante per tutti gli Stati membri della comunità internazionale
(art.38 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati).
L’art.13 della Carta delle Nazioni Unite assegna all’Assemblea Generale il compito di
incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione. A tal
fine, l’Assemblea Generale si avvale della Commissione del diritto internazionale (CDI); le
regole che scaturiscono da tale processo possono essere dichiarative del diritto
internazionale consuetudinario. Le regole che sono dichiarative del diritto internazionale
consuetudinario obbligano gli Stati membri della comunità internazionale,
indipendentemente dalla ratifica dell’accordo e dalla sua entrata in vigore; talvolta, l’accordo
contiene regole che non sono codificazione del diritto internazionale in vigore, ma che ne
costituiscono sviluppo progressivo. Tranne nel caso in cui la regola pattizia si trasformi
successivamente in diritto consuetudinario, uno Stato è vincolato dall’accordo solo se ne è
parte (dell’accordo) e solo se l’accordo entri in vigore.

I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili:


L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia dispone alla lettera c) che la
Corte, per poter risolvere le controversie internazionali, applica anche i ‘principi generali di
diritto riconosciuti dalle nazioni civili’.
Si tratta di principi giuridici che sono generalmente riconosciuti negli ordinamenti interni degli
Stati e assunti dal diritto internazionale -> es. il principio della irretroattività delle norme
giuridiche a carattere punitivo e quello per cui nessuno può essere giudice della propria
causa. = sono principi generali accolti dagli Stati in foro domestico, e resi applicabili sul
piano internazionale al fine di integrare, ove vi sia la necessità, sia il diritto pattizio che il
diritto consuetudinario: è una ‘funzione integratrice’ dei principi generali di diritto riconosciuti
dalle nazioni civili, dimostrata dal fatto che essi sono collocati al terzo posto nell’elenco delle
fonti contenuto nell’art.38 (dopo le consuetudini e gli accordi).
L’espressione ‘nazioni civili’ è il retaggio di un’epoca lontana, in cui erano ritenuti ‘civili’ solo
le nazioni appartenenti alla res publica christiana; la nozione è oggi considerata
anacronistica, quasi offensiva nei confronti dei paesi meno sviluppati. Per tale motivo questa
formula è stata recentemente sostituita con ‘principi generali di diritto riconosciuti
dall’insieme delle nazioni’.
I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili hanno un ruolo determinante
nell’individuazione del diritto applicabile ai contratti tra Stati e privati (nonostante non si tratti
di accordi internazionali).
Nella sent. n.48/1967, la Corte Costituzionale non ha qualificato come principio generale di
diritto riconosciuto dalle nazioni civili il principio “ne bis in idem”, quindi ammettendo la
possibilità di poter essere giudicato in Italia, per un reato commesso in Italia, chi è stato
giudicato per lo stesso reato all’estero (es. se sei stato giudicato in America per un reato
commesso in Italia, puoi essere giudicato di nuovo in Italia per lo stesso reato).
Il principio “ne bis in idem” opera nei rapporti tra tribunali interni e tribunali penali
internazionali: i tribunali penali internazionali possono sottoporre il reo a un nuovo
procedimento solo in determinate ipotesi, ad es. se il procedimento nazionale non sia stato
imparziale o la condanna sia stata lieve rispetto al crimine commesso; altrimenti, il reo non
può essere sottoposto ad un nuovo procedimento. I tribunali interni non possono sottoporre
ad un nuovo procedimento il soggetto che è stato già giudicato dal tribunale penale
internazionale.
I “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” devono essere distinti dai “principi
generali del diritto internazionale”:
- Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili = sono principi desunti da
ordinamenti interni;
- Principi generali del diritto internazionale = sono principi desunti dal diritto
internazionale (e non da ordinamenti interni), hanno natura normativa e pongono
autonome valutazioni (quindi non hanno mera natura integrativa di altre norme
giuridiche) -> es. principio dell’uti possidetis; principio della delimitazione secondo
principi equi applicabile in materia di divisione della piattaforma continentale.
Talvolta la Corte internazionale di giustizia fa riferimento a principi generali tratti da specifici
settori del diritto internazionale, come i principi del diritto umanitario o i principi generali del
processo internazionale.

La giurisprudenza e la dottrina:
L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia fa riferimento alla Giurisprudenza
e alla Dottrina, specificando che esse costituiscono mezzi sussidiari per l’accertamento delle
norme giuridiche. Pertanto, Giurisprudenza e Dottrina non sono fonti del diritto
internazionale.
- Giurisprudenza = in diritto internazionale non esiste la regola ‘stare decisis’, infatti il
giudicato vincola solo le parti in lite della controversia. Il valore non vincolante della
giurisprudenza è stato affermato davanti alla Commissione di giuristi incaricata di
preparare lo Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale.
Ai fini di rilevare il contenuto delle norme internazionali, vengono in considerazione
sia le sentenze della Corte internazionale di giustizia, sia l sentenze dei Tribunali
arbitrali; con la proliferazione dei tribunali, il compito dell’interprete è aumentato ->
es. in materia di diritti dell’uomo, assumono grande importanza le sentenze della
Corte europea dei diritti dell’uomo.
Assumono notevole importanza anche i pareri consultivi della Corte internazionale di
giustizia, nonostante non siano obbligatori: si tiene conto dei pareri soprattutto per la
ricostruzione di una norma del diritto internazionale -> es. di pareri più importanti
sono sulle ‘Riserve alla convenzione sul genocidio’, sul principio di
autodeterminazione dei popoli e sulla liceità delle armi nucleari.

- Dottrina = l’art.38 dello Statuto della Corte menziona la dottrina come mezzo
sussidiario per la determinazione delle norme di diritto internazionale.
Nonostante giurisprudenza e dottrina siano poste sullo stesso piano dall’art.38 dello
Statuto della Corte internazionale di giustizia, si attribuisce alla prima più importanza.
Oggi vi sono numerose raccolte della prassi che sono un aiuto importante per la
ricostruzione di norme del diritto internazionale.

Una menziona a parte meritano i lavori della Commissione del diritto internazionale = essi
sono citati dalla Corte internazionale di giustizia per la determinazione delle norme
giuridiche, sia quando sono ancora in corso d’opera, sia quando sono stati adottati
definitivamente.

L’equità:
Lo Statuto della Corte internazionale di giustizia abilita la Corte ad adottare sentenze ‘ex
aequo et bono’, purché le parti le attribuiscano questo potere; se no, la Corte giudica in base
a principi extra-giuridici.
L’equità = è un principio non facente parte dell’ordinamento internazionale, ma ricavato dal
comune sentire in merito alla giustizia e altri criteri similari. L’equità è una fonte prevista da
accordo, poiché trae la sua forza obbligatoria dall’accordo delle parti che hanno chiesto alla
Corte di risolvere la loro controversia secondo equità (la Corte fin ora non ha pronunciato
alcuna sentenza ex aequo et bono). Quando la Corte decide secondo equità, la sentenza ha
valore dispositivo e non di mero accertamento; è la sentenza che si configura come fonte del
diritto nei rapporti tra le parti (non è l’equità a configurarsi come fonte).
Poiché non è una fonte del diritto internazionale, non è ammessa l’equità contra legem;
alcuni autori ammettono solo l’equità infra legem e secundum legem, ma solo come ‘aiuto
interpretativo solo quando la norma lo consenta’, infatti gli artt.31-32 della Convenzione di
Vienna del 1969 non menzionano l’equità tra i criteri interpretativi di un trattato.
Pur non essendo fonte del diritto, l’equità può assumere rilevanza (oltre che nell’ipotesi della
sentenza dispositiva) anche quando una norma di diritto internazionale impone il ricorso a
criteri equitativi. Essa ha assunto una grande rilevanza nella delimitazione marittima,
specialmente nella divisione della piattaforma continentale e della ZEE tra Stati adiacenti e
Stati frontisti : gli artt.74-83 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare
stabiliscono che la delimitazione debba avvenire mediante accordo, con lo scopo di
raggiungere una soluzione equa. Nello specifico, l’equità viene in considerazione non come
categoria astratta, ma come ‘principio equo’ che si applica nella delimitazione marina: gli
equi principi incorporano l’equità e sono ricavabili da una norma di diritto internazionale
consuetudinario -> es. di equi principi: criterio secondo cui la delimitazione non può essere
effettuata attribuendo porzioni di piattaforma continentale giacenti all’interno della
piattaforma continentale altrui o quello secondo cui è necessario che vi sia una
proporzionalità tra lo sviluppo dello Stato costiero e la porzione di piattaforma continentale
attribuita.

Le fonti previste da accordo:


L’accordo consente che, attraverso l’adozione di un determinato atto o mediante un
determinato procedimento, vengano create norme giuridiche vincolanti nei rapporti tra le
parti.
Una parte della dottrina pone, nella gerarchia delle fonti, l’accordo al secondo livello dopo la
consuetudine, quindi parla di fonti di 3° grado; altra parte della dottrina pone l’accordo al pari
della consuetudine, al primo livello nella gerarchia delle fonti, parlando di fonti di 2° grado.
La fonte prevista da accordo può essere inserita in un trattato semplice o in un trattato
istitutivo di un’organizzazione internazionale.
-> es. di fonte prevista da accordo: la clausola della nazione più favorita: attraverso questa
clausola, è esteso automaticamente alle altre parti del trattato il trattamento più favorevole
che una parte conceda ad un terzo, unilateralmente o in virtù di un accordo tra quella parte e
il terzo. -> es. : emendamento di un trattato multilaterale valido erga omnes, cioè per tutte le
parti del trattato, senza che sia necessaria l’approvazione o la ratifica di tutte le parti
contraenti.
Alcuni collocano tra le fonti previste da accordo anche le sentenze internazionali, sia quelle
dispositive, sia le sentenze pronunciate ex aequo et bono, sia le sentenze di mero
accertamento.
Circa le fonti previste dai trattati istitutivi di organizzazioni internazionali: non tutte le
organizzazioni hanno il potere di adottare atti giuridici vincolanti; le organizzazioni che hanno
questo potere adottano normalmente sia atti giuridici vincolanti, sia atti giuridici non
vincolanti. I trattati istitutivi di organizzazioni internazionali possono prevedere una
procedura di emendamento con effetti erga omnes -> es. gli emendamenti alla Carta delle
Nazioni Unite entrano in vigore per tutti i membri, se sono stati adottati a maggioranza di ⅔
dell’Assemblea generale, e ratificati da ⅔ dei membri delle Nazioni Unite, compresi tutti i
membri permanenti del Consiglio di sicurezza. La stessa procedura è adottata per la
revisione.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, il TFUE attribuisce agli organi preposti il potere di
emanare atti vincolanti (regolamenti, direttive, decisioni) e atti non vincolanti
(raccomandazioni e pareri):
- regolamento: è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile
all’interno degli Stati membri;
- direttiva: vincola lo Stato sugli obiettivi da raggiungere, lasciandolo libero di scegliere
i mezzi necessari per raggiungere l’obiettivo indicato;
- decisione: è un atto di amministrazione concreta, non dotato di astrattezza e
generalità; essa è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Nel caso in cui essa designi i
destinatari, è obbligatoria solo nei confronti di questi.

La gerarchia delle fonti:


Al vertice delle fonti è collocata la Consuetudine: questa, a seconda dell’atteggiarsi
dell’elemento soggettivo, può produrre norme derogabili mediante accordo, oppure norme
inderogabili e quindi cogenti (imperative).
Le norme imperative prevalgono sulle semplici norme consuetudinarie e invalidano o
estinguono accordi contrari ad esse. Una norma imperativa può essere modificata solo da
una successiva norma imperativa avente lo stesso suo valore; è difficile ammettere che una
norma imperativa si estingue ‘per desuetudo’, poiché atti contrari ad una norma imperativa
sarebbero considerati come illeciti particolarmente qualificati.
Lo ius cogens impedisce quindi la formazione di norme consuetudinarie contrarie. Tuttavia,
la consuetudine cede al diritto cogente posteriore (le consuetudini successive si coordinano
secondo il principio di successione delle leggi nel tempo).
E’ importante stabilire se una norma posteriore ad un trattato abbia natura imperativa o
consuetudinaria: la norma imperativa estingue il trattato anteriore, mentre il trattato anteriore
prevale su una norma consuetudinaria successiva.
Si è posta quindi una questione circa l’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di
giustizia, e cioè se questo sia una disposizione che indichi solamente le fonti del diritto
internazionale, o se sia una disposizione che ci informi sulla loro gerarchia = sta di fatto che
l’ordine elencato dall’art.38 è quello in cui le fonti si presentano al giudice internazionale che,
di fronte ad una fattispecie concreta, verificherà se questa è disciplinata dall’accordo tra le
parti; in mancanza, farà riferimento alla consuetudine. I principi generali di diritto riconosciuti
dalle nazioni civili verranno in considerazione solo come principi integratori di accordi e
consuetudini.
Le norme consuetudinarie si coordinano secondo il principio della successione delle leggi
nel tempo: la consuetudine posteriore prevale su quella anteriore. Invece, i rapporti tra
consuetudine particolare e consuetudine generale si coordinano secondo il principio di
specialità: anche se anteriore, la consuetudine particolare prevale sulla consuetudine
generale.
Il rapporto tra consuetudine-accordo è disciplinato secondo il principio di specialità: l’accordo
anteriore prevale sulla consuetudine posteriore a titolo di lex specialis.
Può accadere però che lo scopo della consuetudine posteriore sia quello di disciplinare una
intera materia, con la conseguenza che la consuetudine posteriore abroga l’accordo
anteriore. (es. la Corte di giustizia delle Comunità europee ha stabilito che la nscita della
consuetudine relativa alla ZEE ha abrogato la Convenzione di Londra del 1964, secondo cui
gli Stati costieri potevano esercitare un controllo sulla pesca solo fino a 12 miglia dalla linea
di base per il calcolo del mare territoriale).
Il principio di specialità non è applicabile ai rapporti tra accordo-consuetudine locale: le due
fonti si coordinano secondo il principio di successione delle leggi nel tempo, pertanto la
consuetudine locale posteriore prevale sull’accordo anteriore.
Al terzo posto nell’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, vi sono i principi
generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, che hanno lo scopo di integrare le norme
pattizie e consuetudinarie: quindi essi si applicano solo in assenza di una specifica
previsione normativa. Si ha che la consuetudine e l’accordo prevalgono sui principi generali
di diritto riconosciuti dalle nazioni civili: a tal proposito, l’art.21 dello Statuto della Corte
penale internazionale afferma che “ i principi generali di diritto trovano applicazione in
mancanza di una disciplina pattizia consuetudinaria”.

Le norme istitutive di obblighi erga omnes e le norme istitutive di vincoli solidali:


Di regola le norme internazionali creano vincoli bilaterali, cioè sono fonte di diritti e obblighi
reciproci tra le parti.
La Corte internazionale di giustizia, nel parere del 1951 sulle ‘riserve alla Convenzione sul
genocidio’ pose le basi per definire le “Norme istitutive di obblighi erga omnes (o vincoli
solidali)”.
La ‘Convenzione sul genocidio’ così come ogni altra convenzione in materia di diritti umani,
non contiene vincoli sinallagmatici: si afferma che gli Stati sono obbligati a prevenire e
reprimere il genocidio nel proprio ordinamento e gli altri Stati possono far valere la violazione
dell’obbligo (poiché se così non fosse, gli obblighi derivanti dalla convenzione sul genocidio
rimarrebbero privi di garanzia). Quindi, per uno Stato parte della Convenzione sul genocidio,
gli obblighi derivanti dalla Convenzione non sono reciproci, ma sono assunti nei confronti di
tutti gli Stati parti.
La Corte internazionale di giustizia ha avuto modo di precisare la nozione di ‘obblighi erga
omnes’ nella sentenza sulla Barcelona Traction del 1970: “una distinzione essenziale deve
essere fatta fra gli obblighi degli Stati nei confronti della comunità internazionale nel suo
insieme e gli obblighi nei confronti di un altro Stato nel quadro della protezione diplomatica: i
primi riguardano tutti gli Stati = vista l’importanza dei diritti in gioco, tutti gli Stati possono
essere considerati come aventi un interesse giuridico affinché questi diritti siano protetti; gli
obblighi di cui si tratta sono erga omnes”. La Corte cita degli es. -> il divieto di aggressione e
del genocidio; gli obblighi derivanti dai principi e dalle regole concernenti i diritti fondamentali
della persona umana, il divieto della schiavitù e della discriminazione razziale.
Accanto a norme che istituiscono vincoli solidali che presuppongono la mancanza di
soggettività internazionale del beneficiario materiale (es. divieto di genocidio), vi sono norme
che creano vincoli solidali che attribuiscono diritti in capo al soggetto immediatamente
tutelato (es. divieto di aggressione).
La categoria di norme istitutive di obblighi erga omnes, ossia obblighi che esistono nei
confronti della comunità internazionale nel suo insieme, è stata usata dalla Commissione del
diritto internazionale per individuare gli Stati, diversi dallo Stato immediatamente leso,
legittimati ad invocare la responsabilità internazionale dello Stato che abbia commesso una
violazione del diritto internazionale (art.48 del Progetto di articoli).
Le norme istitutive di obblighi erga omnes pongono ‘obblighi esigibili da tutti gli Stati’ o
‘obblighi esigibili dalla comunità di Stati che erano parti di un determinato trattato’ (se la
fonte dell’obbligo era una norma pattizia).
La comunità internazionale è una comunità anorganica e non verticistica: in essa, le norme
istitutive di obblighi erga omnes svolgono la funzione sociale (la funzione sociale nelle
comunità più sviluppate è operata dagli organi di rappresentanza e tutela di interessi
collettivi).
La solidarietà dell’obbligo può derivare sia da una norma pattizia, sia da una norma
consuetudinaria: la distinzione tra obblighi erga omnes derivanti da norma consuetudinaria e
obblighi erga omnes derivanti da un trattato multilaterale è confermata dall’art.1 della
risoluzione di Bruges dell’Institut de Droit international relativa agli ‘obblighi erga omnes in
diritto internazionale’.
Le norme di diritto cogente sono norme che istituiscono obblighi erga omnes (ciò è affermato
in dottrina, nonostante qualche voce contraria), ma non è vero il contrario: infatti, la fonte
istitutiva di vincoli solidali può essere anche l’accordo, ma l’accordo non è istitutivo di norme
cogenti = le norme cogenti sono poste a tutela della comunità internazionale degli Stati nel
suo insieme e operano anche come norme che impongono obblighi erga omnes. Al
contrario, la solidarietà fondata su una convenzione multilaterale opera a tutela degli
interessi disposti dalla convenzione, che gli Stati hanno deciso di salvaguardare
prescrivendo agli Stati parti obblighi erga omnes, che ciascuno di essi ha il diritto di esigere.
Inoltre, vi possono essere anche norme consuetudinarie dispositive che prescrivono obblighi
erga omnes -> es. la norma sul diritto di passaggio inoffensivo nel mare territoriale; la norma
è a favore di tutti gli Stati membri della comunità internazionale e lo Stato costiero è
obbligato nei loro confronti, ma questa non può essere definita come una norma imperativa
del diritto internazionale, tant’è che lo Stato costiero e il terzo possono concludere un
accordo derogatorio perfettamente valido.

Il Soft Law:
Con il termine “soft law” usato dalla dottrina americana, si indicano = le disposizioni non
giuridicamente vincolanti; la loro fonte è data da atti adottati dalle organizzazioni
internazionali, come le raccomandazioni internazionali, oppure i ‘codici di condotta’ o atti
adottati da conferenze internazionali non aventi dignità di trattato -> es. di soft law sono gli
atti adottati nel quadro dell’OSCE, che non sono atti giuridicamente vincolanti; oppure le
risoluzioni adottate dalle conferenze sull’ambiente.
Il Soft Law può contribuire in vario modo alla creazione di diritto:
- vi può essere la creazione di consuetudini internazionali, sempre se sussistono i
requisiti per la nascita di una consuetudine internazionale. Inoltre il Soft Law può
essere d’aiuto per il consolidamento dell’opinio iuris.
- il Soft Law può costituire fonte materiale di diritti ed obblighi giuridici -> es. i principi
contenuti nelle risoluzioni di conferenze internazionali possono essere tradotti in un
trattato internazionale (com’è accaduto per il diritto dell’ambiente, dove si è
espressamente stabilito che gli Stati si obbligano a rispettare le disposizioni dell’atto
di Soft Law richiamato).
- il Soft Law limita il dominio riservato degli Stati, nel senso che il richiamo agli
‘obblighi politici’ stabiliti dagli atti di Soft Law non costituisce ‘intervento negli affari
interni di un altro Stato’, sia che il richiamo sia operato dagli Stati, sia che esso sia
fatto da una organizzazione internazionale.
Invece, non si ritiene che alcuni atti, come le Dichiarazioni di principi dell’Assemblea
Generale, siano fonte di diritti e obblighi, neanche quando la Dichiarazione equipari la sua
inosservanza ad una violazione del diritto internazionale consuetudinario o della Carta delle
Nazioni Unite.Secondo alcuni la Dichiarazione di principi avrebbe valore di accordo in forma
semplificata; al riguardo, la giurisprudenza italiana non è univoca: vi sono sentenze che
affermano che inequivocabilmente le Dichiarazioni di principi non producono effetti né a
titolo di diritto pattizio, né a titolo di diritto consuetudinario; vi sono altre sentenze che danno
rilevanza alle Dichiarazioni di principi, in relazione all’art.10 Cost. Tuttavia, queste ultime
sentenze non giungono mai ad individuare un contrasto tra normativa interna e risoluzioni
dell’Assemblea Generale oppure risolvono il contrasto in base alla normativa costituzionale,
con un richiamo indiretto alle risoluzioni dell’Assemblea Generale.
E’ dubbia la questione concernente se le risoluzioni non vincolanti delle organizzazioni
internazionali producano il cd. “effetto di liceità”, cioè che lo Stato non commette nessun
illecito internazionale, qualora vìoli un obbligo di diritto pattizio o consuetudinario per dare
esecuzione ad una raccomandazione internazionale -> a tal proposito, il progetto di articoli
sulla responsabilità internazionale dello Stato non annovera le raccomandazioni
internazionali tra le cause di esclusione del fatto illecito.

Gli atti unilaterali:


Se l’accordo = la manifestazione di volontà di un soggetto di diritto internazionale è destinata
ad incontrarsi con quella di un altro soggetto;
un atto unilaterale = consiste nella manifestazione di volontà che non è destinata ad
incontrarsi con quella di un altro soggetto e quindi non ha valore pattizio. Per produrre effetti
giuridici l’atto unilaterale deve essere previsto da una norma dell’ordinamento, che può
avere natura pattizia o consuetudinaria. Nell’ordinamento internazionale gli atti unilaterali si
caratterizzano per la loro atipicità -> l’atto unilaterale viene definito “atto unilaterale di uno
Stato significa una dichiarazione formulata da uno Stato con lo scopo di produrre certi effetti
giuridici secondo il diritto internazionale”. Bisogna tenere presente che gli atti unilaterali non
sono contemplati tra le fonti del diritto internazionale dall’art.38 dello Statuto della Corte
internazionale di giustizia. Secondo alcuni si pongono dei problemi circa la loro collocazione
tra le fonti del diritto, soprattutto per gli atti unilaterali previsti da una norma consuetudinaria
(oltre che per gli atti unilaterali contemplati da una norma pattizia, ma questi ultimi volendo
possono essere assimilati alla produzione giuridica di III grado).
Negli atti unilaterali disciplinati dal diritto pattizio, vi sono la denuncia o recesso e la requete:
- Denuncia (o Recesso) = atto con cui lo Stato si scioglie dai vincoli contrattuali
disposti dal trattato. Il trattato disciplinerà le modalità del recesso e quando esso avrà
effetto.
Qualora il trattato non contenga alcuna clausola in merito, se l’intenzione delle parti è
il recesso, allora questo è ammissibile (come sancito nella Convenzione di Vienna
sul diritto dei trattati) ; il recesso è altresì ammissibile se questo può essere dedotto
dalla natura del trattato -> es. trattato di alleanza.

- Requete = atto con cui si mette unilateralmente in moto il procedimento davanti ad


un organo giurisdizionale (come la Corte internazionale di giustizia). La Requete
presuppone l’esistenza di una clausola compromissoria inserita nel trattato
internazionale: attraverso questa clausola, le parti convengono che ogni controversia
sull’applicazione o sull’interpretazione del trattato possa essere data, mediante
ricorso unilaterale, alla competenza di un organo giurisdizionale espressamente
indicato.
Tra gli atti disciplinati dal diritto consuetudinario vi sono numerosi atti, la cui natura giuridica
è controversa: riconoscimento, rinuncia, acquiescenza, protesta, promessa, notifica,
estoppel:
- Riconoscimento di situazioni giuridiche = attraverso il riconoscimento di situazioni
giuridiche, un soggetto riconosce come conforme a diritto una determinata
situazione, con la conseguenza che ad esso dovrebbe essere preclusa la possibilità
(posteriore) di contestarne la legittimità;
- Rinuncia = con essa un soggetto manifesta la volontà di non avvalersi di un diritto
soggettivo a lui spettante; la rinuncia può essere esplicita oppure desunta da
comportamenti concludenti. Inoltre, la rinuncia non si presume -> es. secondo l’art.45
della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, uno Stato perde il diritto di
invocare l’invalidità del trattato (quando si tratta di invalidità relativa) qualora esso
abbia dato esecuzione al trattato, nonostante fosse venuto a conoscenza della causa
di invalidità.
- Acquiescenza = l’acquiescenza è la conseguenza della mera inerzia del soggetto di
fronte ad una situazione che tocca i suoi interessi. Pertanto essa non consiste nel
mero silenzio, ma è il silenzio di chi avrebbe dovuto prendere posizione in ordine ad
una determinata situazione -> es. l’acquiescenza ha una notevole rilevanza nel
contesto dell’acquisto della sovranità territoriale e del diritto del mare, ad esempio di
fronte ad una chiusura ingiustificata di aree marine attraverso lo stabilimento di rette
non conformi alla ‘Convenzione di Montego Bay’, la mancata protesta da parte degli
Stati costieri porta al consolidamento del titolo.
- Protesta = si parla di protesta quando una determinata pretesa non si riconosce
conforme a diritto, e quindi si vogliono impedire le conseguenze che potrebbero
derivare dall’ acquiescenza.
- Promessa = atto con cui uno Stato si impegna a tenere un determinato
comportamento o si obbliga ad astenersi dal farlo. Si è discusso se la promessa
fosse, in diritto internazionale, produttiva di effetti giuridici: sul punto è intervenuta la
Corte internazionale di giustizia nell’ ‘affare sugli esperimenti nucleari’ dove è stato
affermato che le dichiarazioni della Francia, secondo cui essa avrebbe cessato gli
esperimenti nucleari una volta terminata la campagna di test del 1974, erano fonte di
obblighi giuridici per la Francia.
Dalla dichiarazione unilaterale della promessa occorre ricavare, ovviamente, una
volontà chiara di obbligarsi.
- Notifica = con la notifica vengono edotti (condotti fuori) uno o più soggetti del diritto
internazionale dall’esistenza di determinati fatti o situazioni; quindi, il soggetto che ha
ricevuto la notifica non può ignorare l’esistenza del fatto o della situazione -> es. il
blocco navale notificato dallo Stato bloccante agli altri Stati membri della comunità
internazionale ha come conseguenza che le navi straniere non possono addurre
l’ignoranza del blocco per esimersi dai suoi rigori.
- Estoppel = è una figura del diritto anglosassone. In dottrina si discute se esso abbia
natura sostanziale o procedurale e se possa essere assimilato al riconoscimento o
all’acquiescenza. L’estoppel impedirrebbe di rendere priva di effetti una dichiarazione
effettuata da uno Stato nei confronti di un altro, quando la dichiarazione è a
svantaggio dello Stato dichiarante e a vantaggio dell’altro Stato. Allo Stato
dichiarante non è data la possibilità di contestare la sua dichiarazione e far valere
una pretesa in contrasto con essa.
Problemi di estoppel vengono frequentemente in considerazione con le controversie
legate a titoli di sovranità territoriale e alle delimitazioni marittime. -> es. nell’affare
relativo alla ‘sentenza arbitrale del Re di Spagna’ che opponeva l’Honduras al
Nicaragua, la Corte internazionale di giustizia ha statuito che il Nicaragua non poteva
mettere in dubbio la validità del lodo arbitrale, visto che il Presidente del Nicaragua si
era complimentato con il Presidente dell’Honduras per il fatto di essere stato
vittorioso e perché il lodo poneva fine alla controversia di frontiera tra i due Stati. In
altri termini, il Nicaragua aveva considerato il lodo perfettamente valido nonostante
non avesse avuto per lui un esito favorevole.
La Commissione del diritto internazionale si è occupata della revoca delle
dichiarazioni che creano obblighi giuridici ed ha stabilito che queste non possono
essere ‘arbitrariamente’ revocate. I parametri per determinare se una dichiarazione
sia stata arbitrariamente revocata sono costituiti da ogni specifico termine della
dichiarazione relativo alla revoca, dall’affidamento del destinatario e dal mutamento
fondamentale delle circostanze.

Cap. 9: Il diritto dei trattati

Il diritto dei trattati è stato codificato in grande parte dalla Convenzione di Vienna sul diritto
dei trattati, conclusa il 23 Maggio 1969 dopo una conferenza durata 2 anni; la Convenzione
è entrata in vigore il 27 Gennaio 1980. Essa consta di 85 articoli e 1 allegato, regolando tutte
le fasi della vita del trattato:
- conclusione
- entrata in vigore
- rispetto, applicazione e interpretazione
- emendamento e modifica
- invalidità, estinzione e sospensione
- funzioni del depositario, notifiche, correzione del testo e registrazione
La Convenzione non regola le questioni successorie (che sono invece disciplinate da una
convenzione ad hoc), né le questioni relative alla responsabilità degli Stati e agli effetti della
guerra sui trattati. Non è disciplinata la questione degli obblighi che potrebbero insorgere
rispetto ad un trattato per lo Stato aggressore a causa delle misure intraprese in virtù della
Carta delle Nazioni Unite.
Praticamente la Convenzione di Vienna è un trattato sui trattati e contiene delle disposizioni
che sono dichiarative del diritto consuetudinario in vigore, e disposizioni che ne costituiscono
lo sviluppo progressivo. Alcune disposizioni che costituivano sviluppo progressivo al
momento dell’adozione della Convenzione, sono poi divenute col tempo diritto internazionale
consuetudinario.
L’Italia ha ratificato la Convenzione il 25 Luglio 1974. Pur avendo tratto un notevole numero
di ratifiche, la Convenzione di Vienna non ha ottenuto l’universalità degli Stati della comunità
internazionale: in particolare, non vi sono Francia, Regno Unito e Stati Uniti; mentre Cine e
Federazione Russa l’hanno solo ratificata.

Modalità di stipulazione e entrata in vigore dei trattati:


1) La procedura di stipulazione di un trattato inizia con la negoziazione = i negoziati
sono condotti dai plenipotenziari degli Stati, che si mettono d’accordo su un testo. La
negoziazione dei trattati multilaterali ha luogo nell’ambito di una conferenza
internazionale oppure davanti all’organo di un’organizzazione internazionale.
L’adozione del testo avviene con il consenso di tutti gli Stati partecipanti (tranne che
il testo sia adottato da una conferenza internazionale: in questo caso l’adozione del
testo avviene con il consenso dei ⅔ degli Stati presenti e votanti); ma la regola è
derogabile.
Il testo può essere parafato, cioè siglato dai plenipotenziari con le sole iniziali; alla
parafatura segue la firma, che viene apposta anche quando la parafatura sia stata
omessa. Generalmente la firma non obbliga le parti ad osservare il trattato, ma ha lo
scopo di autenticare e rendere incontestabile il negoziato. Secondo l’art.18 della
Convenzione di Vienna, la firma, pur non obbligando lo Stato ad osservare il trattato,
lo obbliga ad astenersi da atti incompatibili con il suo oggetto e il suo scopo, fino a
quando lo Stato non abbia manifestato la sua intenzione di non divenirne parte -> es.
gli Stati Uniti, pur avendo firmato lo Statuto istitutivo della Corte penale
internazionale, ha successivamente affermato che non lo avrebbero ratificato, con la
conseguenza che a loro non si potrebbe imputare nessuna violazione dell’obbligo di
astenersi da atti incompatibili con l’oggetto e lo scopo dello Statuto della Corte, a
causa degli accordi stipulati per impedire che i loro cittadini siano giudicati dalla
Corte penale internazionale.

2) La fase successiva consiste nella ratifica: cioè l’atto con cui lo Stato si impegna ad
osservare il trattato.
- nel caso di un trattato bilaterale, dopo la ratifica vi segue lo scambio di
ratifiche -> i trattati bilaterali entrano in vigore dopo lo scambio delle ratifiche
- nei trattati multilaterali vi è, invece, il deposito di ratifiche presso il depositario
(il depositario può essere uno Stato o un organo di un’organizzazione
internazionale, come il Segretario Generale delle Nazioni Unite nel caso di
trattati stipulati sotto gli auspici dell’organizzazione delle Nazioni Unite)
-> i trattati multilaterali entrano in vigore dopo il raggiungimento di un certo
numero di ratifiche.
Si diviene parte di un trattato multilaterale anche mediante l’adesione =
solitamente l’adesione è un atto con cui divengono parti del trattato gli Stati
che non hanno partecipato alla negoziazione. Per poter far parte del trattato
mediante adesione, bisogna consultare la clausola di adesione contenuta nel
trattato per individuare gli Stati in possesso dei requisiti per aderire al trattato
ed il termine entro cui effettuare l’adesione.
La prassi attesta che oggi l’adesione è uno strumento impiegato in modo
diverso da come veniva impiegato in passato: oggi è l’atto con cui divengono
parti del trattato tutti gli Stati che non abbiamo firmato il trattato entro i termini
stabiliti, pur avendo partecipato alla negoziazione.

3) Al termine delle Conferenza che ha adottato il testo del trattato, normalmente viene
redatto un Atto Finale = tale strumento è una sorta di atto notarile che registra tutte le
fasi della conferenza, gli Stati partecipanti, le regole di procedura, i lavori dei comitati
e il nome dei presidenti. L’Atto Finale non è sottoposto a ratifica.
All’Atto finale talvolta sono accluse (allegate) delle risoluzioni o dichiarazioni adottate
al termine dei lavori: anche queste non vengono sottoposte a ratifica e non sono atti
giuridicamente vincolanti. E’ invalso l’uso di votare una risoluzione soprattutto
quando il trattato è un atto costitutivo di una organizzazione internazionale o contiene
norme attributive di diritti e doveri per gli Stati: in questo modo si predispone di tutti
gli atti necessari a creare l’organizzazione non appena il trattato entra in vigore; dopo
che queste disposizioni siano state adottate dagli organi dell’organizzazione
internazionale, vengono tradotte in regole giuridiche.
Secondo l’art.10 della Convenzione di Vienna, la firma dell’Atto Finale può costituire
lo strumento che attesta l’autenticità del testo del trattato.

Tali modalità di stipulazione riguardano i trattati conclusi in forma solenne, in cui la firma ha
lo scopo di autenticazione del testo e la ratifica (o l’adesione) ha lo scopo di obbligare lo
Stato ad osservare il trattato internazionale.
La procedura è più semplice negli accordi conclusi in forma semplificata: normalmente per
essi la procedura consiste nella sola negoziazione, cui segue la firma da parte dei
plenipotenziari. In questo caso, la firma ha lo scopo sia di autenticazione del testo, sia di
obbligare le parti ad osservare il trattato. Il valore ‘obbligatorio’ della firma deve risultare
direttamente dal testo del trattato oppure deve essere ricavato dalla volontà delle parti.

La capacità di concludere trattati internazionali:


L’art.6 della Convenzione di Vienna del 1969 stabilisce che ogni Stato ha la capacità di
concludere trattati: la norma fa riferimento agli Stati in quanto soggetti di diritto
internazionale. Non si fa riferimento invece agli Stati membri di Stati federali, poiché si tratta
di competenze costituzionalmente decentrate: chi stipula, sotto il profilo del diritto
internazionale, è lo Stato federale e non lo Stato membro.
La Convenzione del 1969 si occupa solo dei trattati stipulati da Stati, inclusi i trattati che
rappresentano l’atto costitutivo di una organizzazione internazionale.
In realtà, vi sono altri soggetti di diritto internazionale che sono titolari dello ius contrahendi:
- le organizzazioni internazionali = che possono stipulare accordi sia con enti
omologhi, sia con gli Stati -> es. si pensi alle Nazioni Unite, alla Nato.
- l’Unione Europea = numerosi sono gli accordi stipulati dall’Unione Europea sia con
gli Stati, sia con le organizzazioni internazionali. Tali accordi sono disciplinati dalla
‘Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati fra Stati e organizzazioni internazionali e
fra organizzazioni internazionali del 1986’ (questa convenzione, che ha ricevuto un
basso numero di ratifiche, non è considerata dichiarativa del diritto internazionale
consuetudinario, nonostante in grande parte riproduca i principi sanciti nella
Convenzione del 1969).
- gli insorti e i movimenti di liberazione nazionale = queste due entità hanno, però,
limitata capacità internazionale e di essi non si occupa la Convenzione di Vienna.
Solitamente gli accordi conclusi dagli insorti hanno per oggetto la conduzione e la
cessazione delle ostilità; gli accordi conclusi dai movimenti di liberazione nazionale
hanno per oggetto la materia finanziaria per lo sviluppo del territorio sotto il loro
controllo.
La capacità degli insorti e dei movimenti di liberazione nazionale di stipulare accordi
si desume espressamente dal diritto internazionale umanitario.
- governo costituito e partito insurrezionale = secondo l’art.3 comune alle quattro
Convenzioni di Ginevra del 1949, governo costituito e partito insurrezionale possono
concludere accordi per mettere in vigore tra di loro le disposizioni delle quattro
Convenzioni di Ginevra del 1949 relative ai conflitti armati internazionali.
Secondo l’art.96 del I Protocollo addizionale del 1977, il movimento di liberazione
nazionale può indirizzare una dichiarazione al depositario con cui si impegna ad
applicare le quattro Convenzioni (le Convenzioni e il Protocollo trovano applicazione
nei rapporti Stato contraente-movimento di liberazione nazionale).
La capacità del partito insurrezionale di concludere accordi ha trovato conferma nella
prassi più recente -> es. Gli accordi di Rambouillet del 1999 relativi alla sistemazione
del Kosovo erano stati firmati dall’Uck, il movimento insurrezionale di etnia albanese,
anche se poi vennero contestati dalla Repubblica federale di Iugoslavia, che
contestava il contenuto degli accordi e affermava la non capacità dell’Uck a
concluderli.
- Comitato internazionale della Croce Rossa = anche esso conclude accordi
disciplinati dal diritto internazionale.

I pieni poteri e gli organi legittimati a concludere accordi internazionali:


L’adozione del testo di un trattato, la sua autenticazione o il consenso ad essere obbligato,
sono atti che devono provenire da organi i cui atti siano imputabili allo Stato e che siano
abilitati dal diritto internazionale a concluderli.
L’individuazione degli organi competenti a stipulare i trattati non è effettuata dal diritto
internazionale, ma dal diritto interno di ciascuno Stato membro della comunità
internazionale; tuttavia, esistono alcune norme internazionali che legittimano direttamente
certi organi statali a compiere determinati atti relativi alla stipulazione del trattato.
L’art.7 della Convenzione del 1969 distingue due categorie di persone:
1. persone che per poter esprimere la volontà dello Stato in materia di stipulazione di
un trattato devono esibire i ‘pieni poteri’;
2. persone i cui poteri sono presunti, a causa delle funzioni esercitate.
Un atto compiuto da una persona che non ne aveva il potere è privo di effetti giuridici, tranne
che esso sia successivamente convalidato dallo Stato.
I ‘pieni poteri’ sono di regola un documento firmato dal Capo dello Stato e controfirmato dal
Ministro degli affari esteri; ma possono essere dati anche in via telegrafica nel caso in cui si
trattasse di autorizzare la firma dell’accordo.
Come sancito nella Convenzione di Vienna, sono 3 le categorie di persone i cui pieni poteri
sono presunti:
1. i Capi di Stato, i Capi di governo e i Ministri degli affari esteri = queste persone
possono concludere tutti gli atti relativi alla stipulazione di un trattato, inclusa la
manifestazione del consenso dello Stato ad obbligarsi;
2. i Capi di missione diplomatica relativamente ai trattati conclusi tra Stato accreditante
e Stato accreditatario = tuttavia, i Capi di missione diplomatica possono compiere
solo gli atti in materia di adozione del testo del trattato e non possono esprimere il
consenso dello Stato ad obbligarsi, tranne che essi siano dotati di pieni poteri.
3. i Rappresentanti degli Stati accreditati ad una conferenza internazionale o presso
una organizzazione internazionale o uno dei suoi organi, relativamente ai trattati
adottati nel quadro della conferenza, organizzazione o organo. Anche in questo caso
gli organi in questione possono compiere solo gli atti in materia di adozione del testo.

La Convenzione di Vienna non menziona le “convenzioni tra belligeranti”: queste sono


accordi conclusi in forma scritta o orale, volti a disciplinare determinate questioni di ordine
militare tra i belligeranti. Il procedimento di stipulazione tra belligeranti si distingue dal
procedimento tradizionale che si segue per la stipulazione dei trattati a causa delle
particolari esigenze che le convenzioni devono assolvere e soprattutto per l’esigenza di
speditezza che la situazione richiede. Le convenzioni tra belligeranti possono essere
stipulate dai comandanti militari responsabili delle operazioni ed entrano in vigore
immediatamente, senza bisogno di essere sottoposte al procedimento di ratifica. Questa
categoria di convenzioni non può contenere clausole politiche o territoriali, pena la loro
invalidità.
Il diritto internazionale accorda direttamente ai comandanti militari il potere di stipulare
convenzioni con il nemico, senza che sia necessaria l’esibizione dei pieni poteri.

Le riserve:
La mole sempre più consistente di trattati multilaterali e la difficoltà di conciliare i diversi
interessi delle parti inducono gli Stati a formulare delle riserve quando il trattato viene
concluso.
Nella Convenzione di Vienna, la riserva è definita come “una dichiarazione unilaterale, quale
che sia la sua articolazione o denominazione, fatta da uno Stato quando sottoscrive, ratifica,
accetta, approva o aderisce ad un trattato, con cui esso mira ad escludere o modificare
l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo Stato stesso”.
Pertanto, la riserva può essere:
- ‘eccettuativa’ = in quanto lo Stato riservante mira ad escludere l’applicazione di una
determinata clausola del trattato;
- ‘modificativa’ o ‘interpretativa’ = in quanto è volta a modificare gli effetti di alcune
disposizioni del trattato o è volta a conferire una determinata interpretazione ad un
termine o ad una clausola del trattato.
Non sono riserve le dichiarazioni di natura politica; sono invece riserve le dichiarazioni
denominate che hanno lo scopo di escludere o modificare una clausola del trattato.
La riserva può essere apposta solo ad un trattato multilaterale: in un trattato bilaterale
sarebbe inconcepibile poiché equivarrebbe ad un’offerta a concludere un nuovo trattato.
In diritto internazionale è stato da tempo abbandonato il principio dell’integrità del trattato,
secondo cui lo Stato che formulava una riserva poteva divenirne parte solo se il trattato
prevedeva la possibilità di apporre riserve o, in mancanza, se la riserva veniva accettata da
tutti gli altri Stati contraenti; è invece prevalso il principio di flessibilità.
Di regola, se il trattato disciplina espressamente la possibilità di apporre riserve (ad es.
vietando le riserve o consentendone solo alcune), le relative disposizioni vanno rispettate.
Quando il trattato non dice nulla circa la possibilità di apporre riserve, non è necessario che
la riserva sia accettata da tutte le altre parti.
In linea di principio, è sufficiente che uno Stato contraente accetti la riserva affinché il suo
autore possa divenire parte del trattato: tale sistema è stato affermato nel parere della Corte
internazionale di giustizia relativo alle ‘riserve alla Convenzione sul genocidio’, che ha inoltre
affermato che sono inammissibili le riserve incompatibili con l’oggetto e lo scopo del trattato.
Di fronte ad una riserva altrui, uno Stato può accettarla oppure formulare una obiezione.
I rapporti contrattuali che si instaurano tra Stati riservanti e gli altri Stati parti sono così
disciplinati:
- nei rapporti tra Stato riservante e Stato accettante, il trattato si applica ad eccezione
della clausola oggetto della riserva (cd. riserva eccettuativa), oppure si applica con le
modifiche o con l’interpretazione volute dallo Stato riservante (cd. riserva modificativa
o interpretativa);
- nei rapporti tra Stato riservante e Stato obiettante, il trattato non si applica;
- nei rapporti tra Stati non riservanti, il trattato si applica integralmente.
La Convenzione di Vienna ha innovato questo regime, poiché prescrive che uno Stato, nel
formulare l’obiezione, deve precisare che non intende avere nessun rapporto contrattuale
con lo Stato riservante, nel caso in cui non voglia divenire parte del trattato nei confronti
dello Stato riservante. Se no, di fronte ad una semplice obiezione, lo Stato obiettante diventa
parte nei confronti dello Stato riservante e il trattato si applica ad eccezione della clausola
oggetto della riserva, qualunque sia la natura della clausola stessa.
Praticamente, nel caso in cui si tratti di una riserva eccettuativa, la semplice obiezione
produce gli stessi effetti dell’accettazione.
In caso di accettazione della riserva, la clausola che ne è oggetto si applica come modificata
o interpretata dallo Stato riservante;
in caso di obiezione non qualificata, la clausola oggetto della riserva non si applica.
La Convenzione di Vienna indebolisce la forza dell’obiezione e rende problematica la sua
formulazione da parte dei piccoli Stati nei confronti delle grandi potenze.
Problemi particolari si pongono a proposito dei trattati che stabiliscono vincoli solidali, cioè
obblighi erga omnes partes nei confronti di tutte le parti contraenti. In questo caso
l’obiezione è priva di significato pratico, poiché se uno Stato non applica il trattato nei
confronti dello Stato riservante, vìola il trattato nei confronti di tutti gli altri Stati -> es. i trattati
in materia di diritti dell’uomo oppure i trattati sul disarmo. Esemplificando, prensiamo in
considerazione il ‘Trattato sul divieto delle armi batteriologiche’ del 1972: se uno Stato parte
non applica il trattato nei confronti dello Stato riservante e procede quindi alla fabbricazione
di armi batteriologiche, allora questo vìola il trattato nei confronti degli Stati parti.
I trattati multilaterali spesso regolano il regime delle riserve, stabilendo quali sono le riserve
ammissibili oppure vietando l’apposizione di riserve. La giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo è orientata a considerare come non apposta (nulla) una riserva
inammissibile: tuttavia, è difficilmente concepibile che si possa considerare nulla la riserva.
Occorre seguire una determinata procedura temporale per l’apposizione di una riserva: le
riserve possono essere formulate al momento della firma, oppure in occasione di ratifica o
adesione.
- Riserve formulate al momento della firma = devono essere confermate al momento
della ratifica, tranne che la firma esprima già il consenso ad obbligarsi. La riserva può
essere ritirata in qualsiasi momento, senza che sia necessario il consenso dello
Stato accettante.
- Riserve formulate in occasione di ratifica o adesione = dopo la ratifica o l’adesione
non è più possibile formulare riserve. La prassi tuttavia riporta casi di ‘riserve tardive’:
queste per poter produrre effetti devono essere accettate da tutti gli Stati contraenti o
incontrare la loro acquiescenza (a meno che esse siano ammesse dal trattato).
Gli Stati hanno un illimitato diritto di effettuare obiezioni: le obiezioni possono essere
formulate sia da uno Stato parte, sia da un semplice firmatario. Nel caso in cui l’obiezione
sia formulata da uno Stato firmatario, allora l’obiezione produce i suoi effetti solo nel
momento in cui lo Stato firmatario diventa parte del trattato.
L’obiezione ad una riserva può essere ritirata in qualsiasi momento.
L’accettazione di una riserva, per poter produrre i suoi effetti, deve provenire da uno Stato
contraente; poiché l’accettazione può essere anche tacita, la Convenzione di Vienna
stabilisce che “uno Stato, qualora intenda obiettare, deve farlo entro 12 mesi dalla data di
ricezione della notifica della riserva”.
La prassi attesta una notevole volontà degli Stati a formulare riserve; nel caso in cui queste
riserve non venissero ammesse, gli Stati effettuano delle ‘dichiarazioni’ che non possono
valere come riserve, ma solo come interpretazione attribuita dallo Stato dichiarante ad una
particolare disposizione del trattato.

L’interpretazione dei trattati:


La Convenzione di Vienna detta regole precise sull’interpretazione dei trattati, gli artt.31-33.
Il criterio da seguire per interpretare un trattato è quello obiettivo: occorre procedere
all’interpretazione testuale, cioè attribuire ai termini impiegati il loro senso ordinario, tenendo
conto del loro contesto (interpretazione sistematica) , l’oggetto trattato (cioè le clausole
essenziali del trattato) e lo scopo del trattato (occorre fare attenzione alla finalità che il
trattato si propone).
Pertanto, la Convenzione di Vienna non sancisce un preciso metodo teleologico, ma integra
il metodo oggettivo con quello teleologico (interpretazione teleologica è quell’interpretazione
che da un peso prevalente allo scopo per cui la norma è stata emanata) : lo scopo che il
trattato si propone sono spesso ricavabili dal preambolo.
Il trattato deve essere interpretato in buona fede; i termini impiegati devono essere
interpretati nel loro significato normale e, qualora non fossero chiari, non si possono
sollevare problemi interpretativi immaginari.
Per ‘contesto’ si deve intendere non solo il testo del trattato, ma anche il suo preambolo,
poiché anche il preambolo talvolta contiene importanti statuizioni -> es. la Convenzione sulla
proibizione delle armi chimiche del 1993 stabilisce nel preambolo il divieto di uso d’erbicidi
come metodo di guerra.
La Convenzione di Vienna stabilisce altri due strumenti che concorrono a formare il
contesto. Essi sono:
- ogni accordo in rapporto con il trattato, purché sia stato adottato
contemporaneamente alla conclusione del trattato;
- ogni ‘strumento’ posto in essere dalle parti in occasione del trattato e accettato dalle
parti come strumento in connessione con il trattato -> es. una dichiarazione
interpretativa, accettata dalle altre parti.
Bisogna precisare che la Convenzione di Vienna parla di ‘strumento’, quindi fa riferimento ad
un atto diverso dal trattato -> es. gli “understandings” adottati al momento della conclusione
della Convenzione sulla proibizione di mezzi e metodi di guerra che modificano l’ambiente
del 1977 e che non costituiscono parte integrante del trattato.
Ai fini dell’interpretazione del trattato bisogna tenere conto di ulteriori criteri enunciati
nell’art.31 della Convenzione di Vienna, e più precisamente bisogna tenere conto di:
- ogni accordo posteriore tra le parti: ossia le parti possono concludere un accordo sul
significato da dare ad alcuni termini o a determinate clausole del trattato;
- della prassi successiva seguita nell’applicazione del trattato, che equivale ad un
accordo delle parti in materia di applicazione del trattato (il tema degli accordi e
prassi successivi all’applicazione del trattato è ora oggetto di studio della
Commissione del diritto internazionale) -> es. il criterio secondo cui la costa deve
essere profondamente frastagliata e la retta non deve discostarsi in modo
apprezzabile dalla linea generale della costa (art.4 Convenzione di Ginevra del 1958
sul mare territoriale e la zona contigua) deve essere oggi interpretata con una certa
elasticità a causa della prassi successiva all’adozione della Convenzione citata.
- infine, occorre tenere conto di qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale
applicabile nei rapporti tra le parti, come ad esempio il diritto consuetudinario oppure
i principi generali di diritto riconosciuti alle nazioni civili, da cui si ricavano norme che
integrano gli accordi. Inoltre, è bene precisare di prendere in considerazione non solo
i principi esistenti al momento della stipulazione del trattato (in base al principio
‘tempus regit actum’), ma anche norme nate successivamente, facendo attenzione
ad evitare gli eccessi cui talvolta si perviene con l’interpretazione evolutiva.
La Convenzione di Vienna sminuisce l’importanza dei cd. ‘lavori preparatori’, che invece
sono valorizzati dal metodo di interpretazione soggettivistico.
I lavori preparatori assumono, invece, notevole importanza sia per confermare
l’interpretazione cui si è pervenuta applicando l’art.31, sia per determinare il significato del
trattato quando il ricorso al metodo obiettivistico lascia il senso del trattato oscuro, oppure
quando il risultato è ‘manifestamente assurdo o irragionevole’.
Soprattutto nei fori multilaterali, accade spesso che per esigenze di bilancio, i lavori
preparatori non vengano nemmeno pubblicati o che ci si limiti a pubblicare un resoconto
sommario della seduta.
Tra i mezzi complementari di interpretazione, l’art.32 elenca non solo i lavori preparatori, ma
anche ‘le circostanze in cui il trattato è stato concluso’: bisogna tenere conto del quadro
storico e degli avvenimenti che hanno portato alla conclusione del trattato; inoltre, occorre
tenere in considerazione anche l’appartenenza ad un determinato gruppo di Stati, ad es.
un’alleanza militare o ad un raggruppamento economico.
I trattati multilaterali sono generalmente redatti in più lingue: es. i trattati adottati sotto gli
auspici delle Nazioni Uniti sono redatti in inglese, francese, russo, spagnolo, cinese e arabo.
Queste lingue fanno tutte ‘egualmente fede’, cioè costituiscono le lingue autentiche del
trattato. La regola generale è sancita nell’art.33, in cui si afferma che “i termini del trattato
hanno lo stesso significato nei diversi testi autentici. In caso di divergenza, che non sia
possibile eliminare facendo ricorso ai criteri disposti dagli artt.31-32, si adotterà il significato
che, tenuto conto dell’oggetto e del fine del trattato, permette meglio di conciliare le varie
versioni linguistiche”.
La lingua maggiormente usata nei fori multilaterali è l’inglese.
Nel caso in cui vi sia un errore materiale nella traduzione da una lingua all’altra di un
termine o nella traduzione di una clausola, si procederà alla correzione del testo mediante
una procedura ad hoc.

Per quanto riguarda i trattati istitutivi di organizzazioni internazionale è stata prospettata la


“Teoria dei poteri impliciti” = secondo questa teoria gli organi dell’organizzazione avrebbero
sia i poteri espressamente stabiliti dal trattato istitutivo (in base al principio di attribuzione),
ma anche i poteri necessari per poter conseguire i fini dell’organizzazione. Questa teoria si
ispira alla giurisprudenza della Corte suprema degli Stati Uniti quando si volevano ampliare i
poteri dello Stato federale a scapito degli Stati membri; essa, tuttavia, è stata ampiamente
criticata in dottrina.
La teoria dei poteri impliciti non è espressamente prevista nella Convenzione di Vienna;
inoltre, essa si applica anche ai trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, tranne che
sia disposto diversamente nel trattato. Essa risulta codificata nel TFUE, il cui art.352
stabilisce un procedimento volto ad attribuire all’Unione Europea i poteri d’azione per
raggiungere uno degli scopi dell’Unione, anche se la sua giurisprudenza è andata ben oltre.

Trattati e terzi Stati:


Il trattato non produce effetti nei confronti dei terzi (proprio come un contratto nel diritto
interno): vale il principio ‘pacta tertiis nec prosunt nec nocent’.
L’art.34 della Convenzione di Vienna stabilisce che “un trattato non crea né obblighi né diritti
per uno Stato terzo senza il suo consenso” -> questa regola è una manifestazione della
sovranità e dell’indipendenza degli Stati.
Tuttavia, vi sono 3 eccezioni alla regola sancita dall’art.34:
1. le regole di un trattato possono trasformarsi in diritto consuetudinario = in questo
caso il terzo è vincolato non dalla regola convenzionale, ma bensì dalla regola
consuetudinaria, che ha lo stesso contenuto della regola convenzionale.
2. l’art.75 della Convenzione di Vienna lascia impregiudicati gli obblighi che possono
scaturite per uno Stato aggressore, purché si tratti di misure che siano in conformità
con la Carta delle Nazioni Unite. Durante la codificazione del diritto dei trattati, la
Commissione del diritto internazionale ha fatto l’esempio di un trattato che impone
delle misure al terzo aggressore, a seguito di un’aggressione, e volte ad impedire
che esso possa ripetere la violazione. Anche in questo caso, l’imposizione
dell’obbligo al terzo non è una conseguenza del trattato, ma una conseguenza della
norma sul divieto di aggressione.
3. infine, vi possono essere dei trattati che creano un regime obiettivo o erga omnes,
cioè dei trattati che istituiscono delle situazioni che si impongono a tutti i membri
della comunità internazionale. -> es. i trattati che disciplinano le vie d’acqua
internazionali o il trattato di Washington sull’Antartide. In questo caso, l’effetto sul
terzo non deriva dal trattato, ma dalla realità della situazione creata dal trattato;
tuttavia, la Commissione del diritto internazionale non ha accettato la dottrina dei
trattati istitutivi di regimi obiettivi.

La Convenzione di Vienna distingue al suo interno due tipi di trattati:


- trattati con cui si vuole imporre un obbligo a carico del terzo = l’art.35 della
Convenzione di Vienna dispone che “un obbligo nasce per il terzo solo se le parti
hanno inteso creare un tale obbligo e se il terzo accetti espressamente l’obbligo”.
Inoltre, la norma richiede la forma scritta per l’accettazione dell’obbligo (la mera
acquiescenza non è sufficiente).
- trattati volti ad attribuire diritti al terzo = l’art.36 della Convenzione di Vienna dispone
che “un diritto nasce a favore del terzo se questo vi consente”. Il consenso è
presunto, tranne che si abbia una indicazione contraria o che il trattato disponga
diversamente (es. il trattato richiede l’accettazione espressa). Il diritto può essere
stabilito a favore di uno o più Stati o a favore di tutti gli Stati.
La presunzione di accettazione viene particolarmente in considerazione quando il
diritto è disposto a favore di tutti gli Stati membri della comunità internazionale.
Sia nel caso di un trattato a carico del terzo, sia nel caso di un trattato a favore del terzo, il
terzo non diventa parte del trattato; bensì si forma un distinto accordo tra Stati parti del
trattato e il terzo, relativo all’oggetto dell’obbligo o del diritto a suo favore. Ciò comporta delle
conseguenze per quanto riguarda la revoca dell’obbligo o del diritto: secondo l’art.37 della
Convenzione di Vienna, l’obbligo può essere revocato o modificato solo con il consenso
delle parti del trattato e del terzo.
Circa i diritti a favore del terzo, le parti non possono revocarlo o modificarlo, tranne che risulti
che il diritto sia revocabile o modificabile senza il consenso del terzo beneficiario.

L’invalidità dei trattati:


La Convenzione di Vienna disciplina le cause di invalidità dei trattati agli dall’art.46 all’art.53:
- art.46 : violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare d’importanza
fondamentale
- art.48 : errore
- art.49 : dolo
- art.50 : corruzione
- art.51: violenza nei confronti dell’individuo organo stipulante
- art.52 : violenza nei confronti dello Stato nel suo insieme
- art. 53 : violazione di una norma imperativa del diritto internazionale
La tradizionale distinzione che si compie nel diritto interno tra nullità e annullabilità è
difficilmente applicabile nel diritto internazionale: il sistema tipico del diritto interno non è
comparabile con quello del diritto internazionale, dove non esistono termini certi di
prescrizione e una giurisdizione obbligatoria.
L’invalidità del trattato deve essere invocata dallo Stato parte che ne ha interesse ed essa
non può operare automaticamente; si esclude anche che l’invalidità possa essere accertata
attraverso un regolamento giudiziale o tramite accordo delle parti.
Tuttavia si ritiene che piuttosto che fare riferimento alle nozioni di nullità e annullabilità,
conviene distinguere nel sistema della Convenzione di Vienna tra invalidità relativa e
invalidità assoluta, secondo 3 criteri: divisibilità, sanabilità, diritto di invocare la causa
d’invalidità.
1. Divisibilità del trattato = significa che la causa di invalidità può operare nei confronti
di singole clausole affette dal vizio, senza travolgere necessariamente tutto il trattato.
Sempre che il trattato lo consenta a norma dell’art.44, la divisibilità del trattato è
ammessa per le cause di invalidità elencate dagli artt.46-50, quali:
- violazione di norme interne sulla competenza a stipulare d’importanza
fondamentale
- violazione delle restrizioni imposte dallo Stato all’organo competente a
stipulare
- errore
- dolo
- corruzione
La divisibilità del trattato, invece, non è ammessa per le cause elencate dall’artt.51-53,
ossia:
- violenza nei confronti dell’individuo organo
- violenza nei confronti dello Stato
- contrarietà ad una norma imperativa del diritto internazionale
in questi casi l’invalidità coinvolge l’intero trattato.

2. Sanabilità del trattato = la sanabilità del trattato deriva dall’esecuzione del trattato
nonostante la conoscenza del vizio, è ammissibile per le cause degli artt.46 al 50;
per le cause elencate dagli artt.51-53 non si perde mai il diritto di invocare l’invalidità
del trattato.
3. Diritto di invocare l’invalidità del trattato = questo spetta solo alla parte vittima del
vizio negli artt.46-50; spetta invece a ciascuna parte del trattato in relazione agli
artt.51-53.
INVALIDITÀ’ RELATIVA:
- violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare d’importanza
fondamentale
- errore
- dolo
- corruzione

INVALIDITÀ’ ASSOLUTA:
- violenza nei confronti dell’individuo-organo stipulante
- violenza nei confronti dello Stato
- contrarietà ad una norma imperativa del diritto internazionale

A) Violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare d’importanza fondamentale:


Se un trattato viene concluso in violazione delle regole del diritto interno sulla competenza a
stipulare non si può ricorrere all’invalidità del trattato, tranne che si tratti di una violazione
manifesta e riguardante una regola di importanza fondamentale (art.46 Convenzione di
Vienna).
L’art.46 dà la definizione di ‘violazione manifesta’: “è tale quella violazione che sia
oggettivamente riconoscibile dall’altro contraente, che si comporta conformemente alla
pratica abituale e in buona fede”.
Inoltre, bisogna tener conto non solo delle regole scritte, ma anche dell’organizzazione
effettiva dello Stato -> es. talvolta i trattati contengono una clausola che obbliga lo Stato ad
esprimere il consenso nel rispetto delle proprie disposizioni costituzionali: se lo Stato non vi
si attiene, in seguito non potrà più invocare la violazione delle norme interne come causa di
invalidità del trattato, poiché lo Stato è tenuto al rigoroso rispetto delle proprie procedure
costituzionali.
B) Violazione della restrizione imposta all’organo, competente a stipulare secondo l’art.7
della Convenzione di Vienna:
L’art.7 della Convenzione di Vienna stabilisce determinate presunzioni circa la competenza
a stipulare. Pertanto, se vengono sancite delle limitazioni circa la competenza a stipulare di
un rappresentante dello Stato, allora l’inosservanza della norma 7 comporta l’invalidità del
trattato.
Tuttavia, la limitazione rileva solo qualora sia stata portata a conoscenza degli altri
contraenti, cioè se sia stata loro notificata prima che lo Stato (che invoca la restrizione dei
poteri del suo organo) abbia manifestato il consenso ad obbligarsi.

C) Errore:
L’errore consiste nella falsa rappresentazione di un fatto o di una situazione che uno Stato
supponeva esistente al momento della stipulazione del trattato. Sono pochi i casi in cui
l’errore è stato invocato; un tempo l’errore poteva riguardare una carta geografica, ma oggi è
difficilmente ammissibile poiché sarebbe assurdo che una cattiva conoscenza del diritto
internazionale venga invocata per invalidare un trattato. (quindi si considera l’errore di fatto e
non l’errore di diritto).
Per poter invocare l’errore come causa di invalidità, questi deve avere 3 caratteristiche:
1. essenziale = lo Stato non avrebbe concluso il trattato se non fosse incorso in errore;
2. scusabile = l’errore non può essere invocato quando le circostanze erano tali che lo
Stato si sarebbe dovuto rendere conto della possibilità di un errore;
3. incolpevole = l’errore non è invocabile quando lo Stato ha contribuito all’errore
mediante il suo comportamento.
L’errore materiale, quindi quell’errore riguardante la redazione del testo del trattato, non è
causa di invalidità. In tal caso di procede con la correzione del testo secondo la procedura
sancita nell’art.79 della Convenzione di Vienna. Nel caso in cui esista un depositario, questi
notifica agli Stati firmatari e contraenti l’errore e la proposta di correzione, fissando un
termine per la formulazione di eventuali obiezioni: se non viene effettuata nessuna
obiezione, allora il depositario procede alla correzione del testo.
Nei trattati redatti in più lingue, l’errore può riguardare la traduzione di un termine o di una
clausola -> ciò è accaduto per la Convenzione sul disarmo chimico del 1993, quando
sorsero delle divergenze tra il testo cinese e gli altri testi, che vennero poi corrette ricorrendo
alla procedura di cui all’art.79.

D) Dolo:
Uno Stato non può invocare l’invalidità del trattato qualora sia stato indotto a concludere
l’atto del comportamento fraudolento dall’altra parte (art.49 C. di Vienna).
Capotorti afferma che il dolo ha luogo mediante un inganno che induce l’altra persona in
errore (essenziale, scusabile o incolpevole).
Per poter essere causa di invalidità, il dolo deve essere opera di uno Stato che ha
partecipato alla negoziazione. Nella prassi internazionale è difficile riscontrare casi di dolo ->
es. secondo Scovazzi un caso di trattato concluso con dolo è il trattato di Uccialli tra Italia ed
Etiopia del 1889. L’Italia aveva stabilito mediante il trattato un protettorato sull’Etiopia,
mentre l’Etiopia credeva di aver stipulato un trattato di commercio e amicizia. Durante la
Conferenza di Vienna sul diritto dei trattati, l’Unione Sovietica citò il trattato Uccialli come
esempio di trattato concluso con dolo, anche se l’Etiopia negò di essere stata vittima di
raggiri.
E) Corruzione:
La corruzione è una sottospecie del dolo (art.50 Convenzione di Vienna).
Per poter essere causa di invalidità, la corruzione deve essere opera dell’altro Stato
partecipante alla negoziazione, deve essere sostanziale (piccoli favori non costituiscono
corruzione) e può essere diretta o indiretta (di solito la corruzione non è palese).
Il soggetto passivo della corruzione è il rappresentante dello Stato. Difficilmente si può
parlare di corruzione quando un trattato viene stipulato in forma solenne.
La prassi internazionale non presenta casi di trattati impugnati per corruzione, tuttavia vi
sono degli atti adottati per combattere la corruzione a livello internazionale, quali la
ris.51/191 del 1996 dell’Assemblea Generale o la Convenzione OSCE (organizzazione per
la cooperazione e lo sviluppo economico) contro le polemiche di corruzione.

F) Violenza nei confronti del rappresentante dello Stato:


L’art.51 stabilisce la nullità di un trattato quando il consenso dello Stato a vincolarsi è stato
ottenuto attraverso violenza esercitata sul suo rappresentante per mezzo di atti e minacce
diretti contro di lui.
Si può trattare di atti diretti contro il rappresentante dello Stato o contro la sua famiglia, allo
scopo di costringerlo a concludere il trattato.
Pertanto, viene in evidenza la violenza nei confronti di un soggetto in quanto individuo, e non
in quanto individuo organo.
La violenza non deve necessariamente provenire dallo Stato che ha partecipato alla
negoziazione, ma può anche essere opera di un terzo.
Inoltre, l’art.51 sanziona la violenza morale con la nullità dell’accordo; la violenza fisica
comporta l’inesistenza dell’accordo. Anche la violenza (come il dolo e la corruzione) è un
vizio che può sorgere anche in caso di accordo in forma semplificata. -> es. accordo di
Berlino del 1939 tra Germania e Cecoslovacchia, in cui il presidente cecoslovacco Hacha fu
oggetto di minacce volte ad indurlo a concludere l’accordo.

G) Violenza nei confronti dello Stato nel suo insieme:


L’art.52 dispone la nullità di un trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con minaccia o
con l’uso della forza in violazione dei principi di diritto internazionale incorporati nella Carta
delle Nazioni Unite. Affinché si ricadi in questa fattispecie, occorre che la forza minacciata o
impiegata sia in contrasto con la Carta: pertanto, un trattato concluso dopo un’azione di
legittima difesa non può essere considerato invalido.
L’art.52 fa riferimento non solo all’impiego della forza, ma anche alla minaccia: ad es. un
ultimatum è un esempio di minaccia da cui può conseguire la nullità del trattato.
La norma non definisce il termine ‘forza’, ma questa deve essere intesa come coercizione
militare e non come coercizione politica o economica (soprattutto perché la norma fa
riferimento ai principi incorporati nella Carta delle Nazioni Unite, il cui art.2 afferma che per
forza debba intendersi solo quella armata).
Durante la Conferenza di Vienna sul diritto dei trattati fu avanzata una proposta dai paesi
afroasiatici e latinoamericani volta ad includere nel termine ‘forza’ anche le pressioni
politiche ed economiche come causa di invalidità del trattato; ma tale proposta fu ritirata. La
soluzione fu un compromesso: venne adottata una risoluzione in cui si condanna l’uso della
violenza militare, politica ed economica nella conclusione dei trattati. Tuttavia, la risoluzione
non è parte integrante della Convenzione di Vienna.
La Convenzione di Vienna condanna il ricorso alle diverse forme di coercizione, ma non
afferma che il trattato concluso a seguito di queste forme di coercizione è invalido.
L’art.52 solleva il problema della validità dei trattati di pace: normalmente si ritiene che
questi trattati siano validi. Se un trattato di pace è stato concluso a seguito di un uso
illegittimo della forza, ad es. a seguito di aggressione, probabilmente il trattato è invalido.
Invece, sarebbe valido un trattato di pace imposto all’aggressore da una coalizione
vittoriosa.
Un problema particolare si pone circa i trattati conclusi sotto pressioni terroristiche: la
minaccia della forza in questo caso proviene da un soggetto che non ha partecipato alla
negoziazione: questa circostanza può condurre comunque all’invalidità del trattato poiché
l’art.52 non afferma che la violenza debba provenire da uno Stato che abbia partecipato alla
negoziazione o da un soggetto di diritto internazionale. Tuttavia, alcuni propendono per
l’invalidità dell’accordo. Anche la coercizione proveniente da attori non statali potrebbe
comportare l’invalidità del trattato -> es. è stato dichiarato invalido l’accordo concluso tra
Italia e Egitto nel 1985 con cui fu offerto un salvacondotto ai terroristi che avevano dirottato
la nave italiana Achille Lauro.

H) La contrarietà del trattato a una norma imperativa del diritto internazionale (Ius cogens):
L’art.53 dispone la nullità del trattato nel caso in cui questo sia contrario ad una norma
imperativa del diritto internazionale -> es. di trattato contrario ad una norma imperativa:
alleanza aggressiva, poiché il divieto di aggressione è considerato universalmente come
appartenente allo ius cogens.

L’estinzione dei trattati:


Gli artt.54-64 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati disciplina le cause di
estinzione (alcune di queste cause sono considerate anche come cause di sospensione).
Oltre alle cause interne al trattato, cioè esecuzione / termine / condizione risolutiva, vi sono
anche altre cause di estinzione:
- denuncia o recesso
- abrogazione espressa o implicita
- violazione sostanziale ad opera di una delle parti
- impossibilità sopravvenuta
- mutamento fondamentale delle circostanze
- sopravvenienza di una norma imperativa del diritto internazionale
Molte indicazioni sulle cause di estinzione dei trattati possono essere tratte dalla Corte
internazionale di giustizia nel caso del ‘progetto di diga sul Danubio’ del 25 Settembre 1997.

a) Denuncia o recesso:
La denuncia o recesso (art.54 Convenzione di Vienna) può aver luogo sia in relazione ad un
trattato multilaterale, sia in relazione ad un trattato bilaterale.
Il recesso di uno o più Stati da un trattato multilaterale non estingue il trattato tra le altre parti
contraenti.
Se il trattato contiene una clausola di denuncia o recesso, lo Stato dovrà seguire la
procedura stabilita dalla clausola-> es. normalmente i trattati di disarmo contengono una
clausola di recesso, che conferisce una certa discrezionalità allo Stato contraente che
intende liberarsi dai vincoli contrattuali; l’art. 10 del Trattato di non proliferazione nucleare
conferisce ad ogni Stato il diritto di recedere dal trattato se deciderà che eventi straordinari
relativi alla materia oggetto del trattato stesso abbiano messo in pericolo i supremi interessi
del suo Paese; secondo tale disposizione, il recesso da questo trattato può avvenire solo
dopo che siano trascorsi 3 mesi a partire dal momento in cui il recesso è stato notificato alle
altre parti contraenti e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Un problema si pone per i trattati stipulati a tempo indeterminato, che non contengono
alcuna clausola di denuncia o recesso: secondo l’art.56 della Convenzione di Vienna, la
denuncia o il recesso sono ammissibili quando essi possono essere dedotti dalla natura del
trattato oppure quando risulti dall’intenzione delle parti ammettere la possibilità di denuncia o
di recesso. Tuttavia, è difficile individuare una categoria di trattati che possono essere
oggetto di denuncia senza che contengano una clausola ad hoc. Secondo alcuni, i trattati di
alleanza potrebbero essere oggetto di una denuncia anche se non contemplata dal trattato.
La Carta delle Nazioni Unite non contiene alcuna disposizione sulla facoltà di recesso, ma
dai lavori preparatori si deduce che ‘circostanze eccezionali’ possono indurre uno Stato
membro a recedere dall’organizzazione delle Nazioni Unite -> il caso più noto è quello
dell’Indonesia che recedette dall’Onu nel 1965 per protesta contro l’elezione della Malaysia
nel Consiglio di sicurezza, ma vi rientrò nel 1966.
Il recesso è causa di estinzione del trattato, e si differenzia dalla sospensione = essa può
aver luogo se il trattato così dispone o per accordo successivo tra le parti (art.57).

b) Violazione sostanziale ad opera di una delle parti:


L’art.60 della Convenzione di Vienna disciplina una causa di estinzione e sospensione del
trattato a seguito di una sua violazione (del trattato). Per poter invocare questa causa, lo
Stato deve trovarsi di fronte ad una ‘violazione sostanziale’ del trattato ad opera di un altro
Stato parte. La ‘violazione sostanziale’ viene definita dall’art.60 come ‘ripudio del trattato non
autorizzato dalla Convenzione di Vienna, oppure come violazione di una disposizione
essenziale per la realizzazione dell’oggetto o dello scopo del trattato’.
Il semplice inadempimento non legittima l’altra parte a richiedere l’estinzione del trattato.
La Convenzione di Vienna distingue la violazione sostanziale nei trattati bilaterali e la
violazione sostanziale nei trattati multilaterali, rispettivamente par. 1 e 2 art.60 Convenzione
di Vienna.
Il principio “inadimplenti non est adimplendum”, che significa “all'inadempiente non è dovuto
l’adempimento”, esprime un principio di diritto presente in vari ordinamenti: ciascuna delle
parti di un contratto con prestazioni corrispettive può non adempiere la propria obbligazione
nel caso in cui l’altra parte si rifiuti di adempiere la propria. Questo principio nell’ordinamento
italiano è espresso nell’art.1460 Cc., ed è altresì presente nel diritto internazionale.
Naturalmente il principio non si applica nel caso in cui il trattato ne escluda espressamente
l’applicazione.

c) L’impossibilità sopravvenuta:
L’art.61 della Convenzione di Vienna annovera l’impossibilità di esecuzione tra i motivi per
poter richiedere il recesso o invocare l’estinzione del trattato.
Se l’impossibilità è solo temporanea -> lo Stato può chiedere la sospensione dell’esecuzione
del trattato;
Si parla propriamente di ‘impossibilità di esecuzione’ quando l’impossibilità è data dalla
scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione del
trattato -> es. sentenza sul ‘progetto di diga sul Danubio’ : uno Stato che ha perso tutto il suo
territorio costiero e che è divenuto quindi privo di litorale, non potrà più osservare un trattato
di navigazione con cui consentiva l’accesso ai suoi porti.
La Corte in questa sentenza ha affermato che le difficoltà finanziarie non rientrano
generalmente tra le cause di impossibilità di esecuzione (anche se possono essere causa di
esclusione del fatto illecito sotto il profilo della responsabilità internazionale).
L’impossibilità di esecuzione non può essere invocata quando questa è conseguenza di una
violazione del trattato o di un altro obbligo internazionale a danno di qualsiasi altra parte del
trattato.

d) Il mutamento fondamentale delle circostanze:


Secondo l’art.62 della Convenzione di Vienna, il mutamento fondamentale delle circostanze
esistenti al momento della conclusione del trattato, cd. regola ‘rebus sic stantibus’, può
essere invocato come causa di estinzione, recesso o sospensione del trattato, purché si
tratti di :
- un cambiamento fondamentale rispetto alle circostanza esistenti al momento della
conclusione del trattato
- il cambiamento non era stato previsto
- le circostanze costituivano una base essenziale per la stipulazione del trattato
- il cambiamento trasforma radicalmente la portata degli obblighi che devono essere
ancora eseguiti
Tuttavia, il mutamento delle circostanze non può essere invocato come causa di estinzione,
recesso o sospensione quando il cambiamento è dovuto ad una violazione del diritto
internazionale imputabile alla parte che invoca l’estinzione, il recesso o la sospensione;
quando il mutamento si ha su un trattato che fissa un confine.
-> es. un problema circa il mutamento fondamentale delle circostanze si è posto per il
Trattato ABM (Anti Ballistic Missiles) stipulato nel 1972 tra Stati Uniti e Unione Sovietica: gli
Stati Uniti volevano costruire un sistema di difesa antimissile in contrasto con il Trattato
ABM. Si discusse se la fine dell’equilibrio bipolare (caratteristico di quei tempi) e la
scomparsa della dottrina MAD avessero cambiato radicalmente le circostanze su cui il
Trattato ABM era fondato. Questo poi venne effettivamente denunciato nel 2001 dagli Stati
Uniti.
Bisogna precisare che secondo l’art.63 Convenzione di Vienna, la rottura delle relazioni
diplomatiche e consolari non comporta l’automatica estinzione del trattato, a meno che
l’esistenza delle relazioni diplomatiche e consolari sia indispensabile per l’applicazione del
trattato (es. nel caso di una convenzione consolare) : piuttosto, la rottura delle relazioni
diplomatiche deve essere ricondotta all’impossibilità sopravvenuta sancita dall’art.61 della
Convenzione di Vienna (e non al mutamento fondamentale delle circostanze).

e) La sopravvivenza di una norma imperativa al diritto internazionale:


Lo ius cogens può essere sia causa di invalidità che causa di estinzione di un trattato.
L’art.64 della Convenzione di Vienna stabilisce che un trattato si estingue qualora
sopraggiunga una norma imperativa del diritto internazionale. Per cui il trattato è valido nel
momento in cui è stato concluso poiché non contrario a nessuna norma imperativa di diritto
internazionale; successivamente, a causa della nascita di una nuova norma imperativa, il
trattato viene a trovarsi in contrasto con lo ius cogens -> es.un trattato con cui due Stati
hanno, al momento della sua conclusione, riconosciuto i rispettivi possedimenti coloniali. Il
trattato oggi sarebbe in contrasto con il principio di autodeterminazione dei popoli (principio
riconosciuto appartenente allo ius cogens). Pertanto il trattato si sarebbe estinto non appena
il principio di autodeterminazione avrebbe assunto la valenza di norma imperativa del diritto
internazionale.
f) La guerra:
La guerra può essere causa di estinzione dei trattati oppure condizione della loro piena
operatività.
La questione non è disciplinata dalla Convenzione di Vienna e viene lasciata volutamente
impregiudicata: pertanto, occorre fare riferimento al diritto consuetudinario e alla prassi, che
fa delle differenze in base alla categoria dei contratti.
Vi sono alcuni contratti che esistono poiché sono fondati sulla guerra (o conflitto armato) ->
es. le Convenzioni dell’Aja del 1907 sulla disciplina dei conflitti armati.
A volte la guerra determina una situazione di radicale incompatibilità con la situazione
preesistente, per cui il trattato si estingue -> es. un trattato di alleanza stipulato tra due Stati
che in seguito entrano in guerra l’uno contro l’altro; la guerra potrebbe riguardare anche un
trattato di alleanza multilaterale.
Vi sono dei trattati per cui l’ipotesi della guerra produce un effetto sospensivo -> es. i trattati
di commercio: nel caso in cui il trattato sia multilaterale, l’effetto sospensivo si produce solo
inter partes, cioè nei rapporti tra gli Stati belligeranti.
Dopo la fine delle ostilità, la prassi ha rimesso in vigore tutti i trattati sospesi pendente bello,
e la cui procedura di rimessione in vigore è contenuta nel trattato di pace. -> es. questa
procedura è stata seguita anche nei confronti dell’Italia per quanto riguarda i trattati bilaterali
conclusi tra l’Italia e le Potenze alleate, parti del trattato di pace con l’Italia del 1 Febbraio
1947; l’art.44 del trattato ‘consente a ciascuna potenza alleata con l’Italia il diritto di notificare
entro 6 mesi i trattati bilaterali conclusi con l’Italia anteriormente alla guerra, di cui si desideri
il mantenimento o la rimessa in vigore’; la disposizione aggiunge che ‘si devono intendere
abrogati tutti i trattati che non sono oggetto di tale notificazione’.
La nostra Corte di Cassazione si è pronunciata solo per l’estinzione dei trattati il cui
contenuto è radicalmente incompatibile con lo stato di guerra; nei casi in cui la guerra
produrrebbe un mero effetto sospensivo, il trattato riprenderebbe a produrre
automaticamente i suoi effetti dopo la cessazione delle ostilità.
Un problema particolare sorge per i ‘trattati multilaterali di disarmo’ : l’inosservanza di un tale
trattato, in tempo di guerra, potrebbe mettere in pericolo la sicurezza dei belligeranti
(soprattutto se uno solo di essi fosse vincolato) -> es. si pensi al Trattato sulla proibizione
delle armi chimiche. I trattati multilaterali di disarmo contengono una clausola di recesso
molto ampia, che permette allo Stato contraente di denunciare il trattato quando si
verifichino ‘eventi straordinari’ che possano mettere in pericolo i suoi ‘interessi supremi’.
Il belligerante, quindi, può usare la clausola del recesso, senza ricorrere alla teoria della
sospensione automatica del trattato che lo esporrebbe all’accusa di violazione (poiché egli è
vincolato anche nei confronti degli Stati non belligeranti).
Anche i trattati bilaterali in materia di disarmo sono dotati di una clausola di recesso uguale a
quella contenuta nei trattati multilaterali: tuttavia, per i trattati bilaterali è più semplice
ipotizzare l’estinzione automatica, che consentirebbe al belligerante di evitare di attendere il
decorso del tempo necessario (solitamente 3 mesi) affinché il recesso diventi operante.
Per quanto riguarda i trattati internazionali in materia di diritti dell’uomo, la guerra in questi
trattati non dovrebbe provocare un effetto sospensivo o estintivo: di regola, questi trattati
contengono una clausola che abilita lo Stato ad invocare la guerra per sospendere
l’applicazione delle disposizioni volte alla tutela dei diritti umani.
Tuttavia, vi sono delle disposizioni che non possono essere derogate, quali il divieto di
trattamenti inumani e degradanti -> ciò è stato affermato anche dalla Corte internazionale di
giustizia in tema di ‘liceità di armi nucleari’ in cui ha affermato che la protezione derivante
dalle disposizioni del ‘Patto dei diritti civili e politici’ non cessa in tempo di guerra, salva
l’ipotesi che lo Stato invochi l’art.4 che dispone che in caso di guerra si possano derogare
alcuni obblighi disposti dal Patto stesso.
Secondo il progetto di risoluzione presentato alla sessione di Helsinki dell’Institut de droit
international, la guerra non dovrebbe pregiudicare l’esistenza dei trattati istitutivi di
un’organizzazione internazionale.
Il tema degli effetti della guerra sui trattati è stato oggetto di studio da parte della CDI, che
nel 2011 ha adottato il Progetto di articoli sugli effetti dei conflitti armati sui trattati: si afferma
che la guerra non comporti l’automatica estinzione o sospensione dei trattati tra belligeranti;
il Progetto di articoli ha per oggetto sia i conflitti armati internazionali, che quelli non
internazionali.

L’emendamento e la revisione dei trattati:


Dal punto di vista formale, i termini ‘emendamento’ e ‘revisione’ sono equivalenti, nel senso
che indicano una modifica del trattato; dal punto di vista material, l’ ‘emendamento’ indica
una modifica minore di singole clausole del trattato, mentre la ‘revisione’ comporta una
modifica più incisiva del trattato nel suo complesso.
L’art.39 Convenzione di Vienna afferma che il trattato può essere emendato per accordo fra
le parti.
Pertanto, un accordo posteriore può modificare un accordo precedente, ma la modifica per
essere efficace implica che tutti gli Stati parti dell’accordo precedente siano parti
dell’accordo posteriore (tale regola può essere modificata, se così dispone il trattato
anteriore).
La Convenzione di Vienna detta alcune regole per la modifica dei trattati multilaterali (regole
che sono derogabili). Si possono avere i seguenti rapporti contrattuali:
- tutte le parti del trattato anteriore diventano parti anche del trattato posteriore; in tal
caso, le parti sono vincolate dal trattato posteriore.
- può capitare, invece, che solo alcune parti del trattato anteriore diventino parti anche
del trattato posteriore: in questo caso il trattato emendato si applica solo tra gli Stati
che l'hanno ratificato. Nei rapporti tra Stati parti non ratificanti e Stati parti ratificanti
continua a vigere il trattato anteriore non emendato.
L’art.41 della Convenzione di Vienna ammette che due o più parti di un trattato multilaterale
possano concludere tra di loro un accordo derogatorio; questa possibilità incontra un limite
circa i diritti delle parti del trattato multilaterale (che non devono essere pregiudicati),
l’oggetto e lo scopo del trattato stesso -> per cui l’accordo derogatorio non può comportare
una violazione del trattato multilaterale, pena la sua illiceità. L’accordo derogatorio è valido,
ma nell’eseguirlo le parti commettono un illecito internazionale nei confronti degli Stati parti
dell’accordo multilaterale.
-> es. di trattato che si inquadra nell’art.41 della Convenzione di Vienna: Trattato sulla
stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, il cd.
‘Fiscal compact’, firmato il 2 marzo 2012 da 25 Stati membri dell’Unione Europea (tranne
Regno Unito e Repubblica Ceca).
Tutte queste regole sono derogabili per volontà delle parti.
Il Trattato, inoltre, può prevedere una procedura ad hoc per quanto riguarda il suo
emendamento o la sua revisione -> es. l’art.109 della Carta delle Nazioni Unite dispone che,
per procedere alla revisione della Carta, occorre una conferenza generale dei membri delle
Nazioni Unite, da convocare con il voto dei ⅔ dei membri dell’Assemblea Generale e di 9
membri del Consiglio di sicurezza (non si applica il diritto di veto). Per poter entrare in
vigore, le modifiche devono ottenere i ⅔ dei voti della conferenza ed essere ratificati da ⅔
dei membri delle Nazioni Unite, inclusi i membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Una procedura analoga ma meno solenne è prevista dall’art.108 per i semplici
emendamenti, che vengono negoziati e adottati direttamente davanti all’Assemblea
Generale con una maggioranza di ⅔ ed entrano in vigore dopo la ratifica di ⅔ dei membri
delle Nazioni Unite, compresi i membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Circa l’Unione Europea, l’art.48 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) prevede una
procedura di revisione ordinaria e procedura di revisione semplificate dei trattati su cui si
fonda l’UE:
- La procedura di revisione ordinaria : postula che le modifiche entrino in vigore solo
dopo la ratifica di tutti gli Stati membri dell’Unione;
- La procedura di revisione semplificata : si concludono con una decisione del
Consiglio europeo, ed entra in vigore solo dopo l’approvazione da parte di tutti gli
Stati membri dell’UE, oppure attraverso una decisione del Consiglio europeo, che
può essere adottata solo nel caso in cui nessuno dei parlamenti degli Stati membri si
opponga.
La scelta della procedura di revisione ordinaria o di quella semplificata dipende dal
contenuto della disposizione da modificare.
La conferenza di revisione di un trattato non deve essere confusa con la conferenza di
riesame, tipica dei trattati di disarmo:
- Conferenza di riesame = può aver luogo ad intervalli regolari se stabilito dal trattato,
oppure può essere convocata per iniziativa di una o più parti del trattato. Durante la
conferenza di riesame, le parti fanno un bilancio dei risultati acquisiti con
l’esecuzione del trattato che viene esaminato articolo per articolo. La conferenza di
riesame ha carattere politico (e non è una conferenza di emendamento).
Talvolta, tuttavia, si può avere la combinazione tra conferenza di riesame e
conferenza in cui si prendono decisioni che incidono sulla struttura del trattato -> es.
la Conferenza di New York del 1995 è stata allo stesso tempo sia conferenza di
riesame, che di estensione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) .

Il principio secondo cui un trattato può essere modificato solo con il consenso di tutte le parti
è un principio troppo rigido, che si adatta poco ai cambiamenti che si verificano nelle
relazioni internazionali. Per tale ragione, alcuni trattati prevedono una procedura di
emendamento erga omnes.
La decisione di emendare un trattato normalmente è presa solo da un gruppo di Stati parti,
tuttavia tutte le parti sono automaticamente vincolate dalla decisione presa e pertanto si
applica il trattato emendato. La Carta delle Nazioni Unite prevede che l’emendamento entri
in vigore solo dopo che sia stato adottato a maggioranza dei ⅔ dei membri dell’Assemblea
Generale e dopo che sia stato ratificato successivamente dai ⅔ dei membri delle Nazioni
Unite, inclusi i membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Regole particolari sono stabilite per i trattati di disarmo -> es. i trattati in materia nucleare
danno preminenza agli Stati nucleari.
Inoltre, un trattato può essere emendato dalla prassi successiva nel caso in cui questa
modifichi le disposizioni del trattato -> es. l’art.27 della Carta delle Nazioni Unite prevedeva il
voto affermativo di tutti i membri del Consiglio di sicurezza; si è però affermata la prassi
secondo cui l’astensione di un membro permanente non blocca la delibera del Consiglio.
Questa prassi (il cui valore è stato riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia) ha
portato alla nascita di una consuetudine particolare che modifica l’art.27 della Carta in virtù
dell’accordo successivo modificativo.

La soluzione delle controversie in materia di invalidità ed estinzione dei trattati:


La Convenzione di Vienna del 1969 ha innovato profondamento il diritto internazionale
consuetudinario dettando una procedura in materia di invalidità ed estinzione dei trattati,
procedura che pone fine all’unilateralismo esistente secondo il diritto consuetudinario.
Tale procedura tuttavia si applica solo ai trattati conclusi dopo l’entrata in vigore della
convenzione stessa per gli Stati che l’abbiano ratificata o vi abbiano aderito.
Questa procedura per l’Italia si applica solo in riferimento ai trattati conclusi dopo il 27
Gennaio 1980.
La procedura in materia di invalidità ed estinzione dei trattati è disciplinata dagli artt.65-66
della Convenzione di Vienna: in essa è stabilito che una parte non può unilateralmente
sciogliersi dal vincolo contrattuale, bensì prima di adottare una declaratoria di invalidità o di
estinzione deve notificare la propria intenzione all’altra parte, precisando la misura che
intende prendere e i motivi che ne sono alla base; l’altra parte ha 3 mesi di tempo per
obiettare (salvo motivi di particolare urgenza). Se questa resta inattiva, c’è acquiescenza e
la parte che ha iniziato il procedimento può adottare la declaratoria di invalidità o di
estinzione. In caso contrario nasce una controversia che dovrà essere risolta secondo i
metodi indicati dall’art.33 della Carta delle Nazioni Unite (negoziato, buoni uffici, mediazione,
conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale o un altro mezzo scelto liberamente dalle
parti) : può accadere che le parti non siano d’accordo sul metodo da scegliere, ad es. una
parte preferisce la conciliazione e l’altra il regolamento giudiziale = ciò comporta un
prolungarsi della controversia, ma se entro 12 mesi (dal momento in cui l’obiezione alla
pretesa di invalidità o di estinzione è stata sollevata) la controversia non è ancora stata
risolta, l’art.66 della Convenzione di Vienna prevede 2 procedure:
1. per le controversie che hanno per oggetto l’invalidità o l’estinzione di un trattato
perché contrario allo ius cogens = è previsto che ciascuna parte possa adire la Corte
internazionale di giustizia, mediante un ricorso unilaterale, a meno che le parti in
comune accordo preferiscano ricorrere all’arbitrato.
2. per tutte le altre causa di invalidità o di estinzione = è previsto il ricorso alla
conciliazione obbligatoria, nel senso che ciascuna parte può mettere in moto
unilateralmente il procedimento di conciliazione. Il risultato della conciliazione non è
vincolante, ma ha solo il valore di raccomandazione alle parti in causa.
Pertanto, la Convenzione di Vienna non elimina totalmente l’unilateralismo: la parte che ha
invocato la causa di invalidità o di estinzione, anche se soccombente nel giudizio di
conciliazione, può adottare la declaratoria di invalidità o di estinzione e non applicare più il
trattato internazionale. Per cui, la controversia non si estingue, ma perdura nel tempo.
Bisogna precisare che gli atti contenuti nella declaratoria di invalidità o di estinzione devono
essere redatti in forma scritta e firmati dagli organi che rappresentano lo Stato nelle relazioni
internazionali, come il Capo dello Stato, il Capo di governo, Ministro degli affari esteri; se no
la firma può essere apposta solo da chi ha i pieni poteri.
[la procedura di conciliazione è disciplinata da un annesso alla Convenzione di Vienna].

La Costituzione italiana e i trattati internazionali:


Nella Costituzione italiana gli articoli che riguardano la stipulazione di trattati internazionali
sono l’11, 80, 87 comma 8, 72 comma 4, 75 comma 2, 117 ultimo comma.
- art.11 Cost. = non ha per oggetto espressamente la stipulazione dei trattati
internazionali, ma pone dei limiti al loro contenuto e regola la legge di autorizzazione
alla ratifica di alcuni trattati internazionali.
La norma in questione pone un divieto circa il contenuto del trattato: è proibito
stipulare trattati in contrasto con la disposizione costituzionale (es. un’alleanza
aggressiva); la norma impone poi il ripudio della guerra come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Un trattato in contrasto con l’art.11 sarebbe costituzionalmente illegittimo e con ogni
probabilità nullo, poiché contrario alla norma imperativa sul divieto di aggressione.
L’art.11 è stato interpretato come ‘norma permissiva’, cioè una norma che
consentirebbe di autorizzare con legge ordinaria la ratifica di un trattato comportante
le limitazioni di sovranità necessarie per assicurare la pace e la giustizia tra le
nazioni, purché in condizioni di parità con gli altri Stati; inoltre, consentirebbe di
ratificare con legge ordinaria i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali che
hanno come fine quello di assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni.
La norma è stata scritta per poter facilitare l’ingresso dell’Italia alle Nazioni Unite.
Nel nostro ordinamento costituzionale, la competenza a ratificare i trattati
internazionali spetta al Presidente della Repubblica, anche se la decisione politica di
procedere o no alla ratifica spetta al Governo (ciò vale anche per procedere
all’adesione).

- art.87 comma 8 = recita che “il Presidente della Repubblica ratifica i trattati
internazionali, previa autorizzazione delle Camere (quando occorra)”. Secondo
l’art.80, l’autorizzazione delle Camere è richiesta per 5 categorie di trattati:
- trattati di natura politica
- trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari
- trattati che importano variazioni del territorio dello Stato
- trattati che importano oneri alle finanze
- trattati che importano modificazioni di leggi
Circa i ‘trattati di natura politica’, si tratta di un’espressione molto ampia, perché
anche un accordo tecnico potrebbe rientrare tra i trattati di natura politica.
La circolare n.5 del Ministro degli Affari Esteri Susanna Agnelli riporta che “per
quanto riguarda i trattati aventi natura politica, poiché ogni accordo internazionale ha
un qualche rilievo politico anche minimo, l’espressione in questione non può riferirsi
che ai trattati che hanno ‘un grande rilievo politico’, comportando scelte fondamentali
di politica estera”.
Circa i ‘trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari’ e i ‘trattati che
importano variazioni del territorio dello Stato’, si tratta di espressioni tecnico-
giuridiche che non lasciano dubbi. (Vi sono però accordi che, anche se non incidono
sul territorio dello Stato in senso stretto, incidono su aree in cui lo Stato gode di diritti
sovrani, come la piattaforma continentale o la zona economica esclusiva -> es.
l’accordo del 1969 sulla delimitazione della piattaforma continentale tra Italia e
Iugoslavia: inizialmente si procedeva a ratificare gli accordi relativi alla delimitazione
della piattaforma continentale italiana senza richiedere l’autorizzazione parlamentare;
successivamente, invece, la ratifica è stata preceduta dall’autorizzazione
parlamentare.
Circa i ‘trattati che importano oneri alle finanze dello Stato’, nella circolare n.5 del
Ministro degli Affari Esteri Susanna Agnelli si riporta che si fa riferimento ‘agli oneri
aggiuntivi rispetto a quelli che trovano copertura negli stanziamenti del bilancio dello
Stato’.
Infine, i ‘trattati che comportano modificazioni di leggi’ sono quei trattati che incidono
sul nostro ordinamento giuridico, in quanto si tratta di modificare una legge dello
Stato o si tratta di una materia su cui esiste una riserva di legge.

- art.72 comma 4 Cost. = impone la procedura normale per l’esame dei disegni di
legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, quindi una approvazione
diretta da parte delle Camere (escludendo che si possa ricorrere ad una forma
abbreviata, cioè solo in Commissione).
L’art.15 comma 2 della l.23 Agosto 1988 n.400 prevede che, per l’autorizzazione alla
ratifica dei trattati internazionali, non si possa procedere neanche con decreto-legge,
poiché l’autorizzazione parlamentare si configura come un atto di controllo
sull’esecutivo e come una compartecipazione Governo-Parlamento nell’assunzione
di diritti e obblighi derivanti dal trattato.

Per cui, nel nostro ordinamento si possono avere le seguenti forme di stipulazione di trattati
internazionali:
1. Trattati ricompresi nella categoria prevista nell’art.80 Cost., per cui è necessaria la legge
di autorizzazione alla ratifica e la ratifica da parte del Presidente della Repubblica;
2. Trattati per cui è richiesta solo la ratifica da parte del Presidente della Repubblica, che
sono stipulati in forma solenne;
3. Accordi in forma semplificata che entrano in vigore con la sola sottoscrizione da parte
degli organi dell’esecutivo. Gli accordi in forma semplificata sono trattati non stipulati in
forma solenne, che entrano in vigore quando vengono sottoscritti dal rappresentante
dell’esecutivo o attraverso lo scambio di documenti costituenti trattato (es. scambio di note).
Non possono essere stipulati trattati in forma semplificata per tutte le materie ricadenti
nell’art.80 Cost. : la loro stipulazione in forma semplificata è costituzionalmente illegittima,
poiché viene violata una disposizione dell’ordinamento italiano.
Possono essere stipulati trattati in forma semplificata per tutte quelle materie che non
ricadono nell’art.80 Cost. -> bisogna precisare che non esiste nessuna disposizione
costituzionale che legittimi la stipulazione di accordi in forma semplificata, tuttavia non vi
sono dubbi sulla loro legittimità sia perché vi è una prassi piuttosto consistente, sia perché la
l.11 dicembre 1984 n.839 menzionando esplicitamente gli accordi in forma semplificata ne
ammette implicitamente la legittimità. Nella circolare n.5 sopracitata si afferma che “si tratta
di una categoria di portata molto limitata, non espressamente contemplata in Costituzione
che, sulla base di una prassi ormai consolidata, comprende gli accordi esecutivi di
precedenti accordi precettivi regolarmente entrati in vigore e quelli di natura puramente
amministrativa o tecnica”.
Secondo la circolare del 3 marzo 2008 n.4 del Ministro degli Affari Esteri Susanna Agnelli
non costituiscono accordi in forma semplificata le ‘intese interministeriali e tecniche’ la cui
caratteristica è quella di far sorgere impegni di collaborazione tecnico-amministrativa e
impegni di natura politica esclusivamente tra le singole Amministrazioni stipulanti. Queste
intese dovrebbero essere previamente inviate al MAE per acquisire un parere circa la natura
dell’atto, circa la sua compatibilità con il quadro normativo nazionale ed europeo, che con i
vincoli internazionali dell’Italia, ed ottenere poi il nulla-osta per la firma.
Le intese non sono concluse a nome dello Stato italiano e la loro natura non è
giuridicamente vincolante per lo Stato; esse non devono contenere clausole tipiche degli
accordi internazionali (come entrata in vigore, denuncia, modifica, soluzione delle
controversie). Tuttavia si pone un problema sul valore giuridico che l’amministrazione
stipulante deve attribuire ad esse, soprattutto quando non hanno carattere squisitamente
politico, e problemi circa la loro efficacia nell’ordinamento interno, cioè se esse possono
essere oggetto di atti amministrativi per la loro esecuzione.
Nell’ordinamento italiano mancava un documento ufficiale dove vengono elencati i trattati
che vincolano lo Stato; alla lacuna si è ovviato con la l.11 dicembre 1984, il cui art.4 impone
di trasmettere trimestralmente i trattati vincolanti per l’Italia; l’art.9 prescrive che siano
pubblicati annualmente in un volume ad hoc della Gazzetta Ufficiale gli accordi internazionali
vigenti per l’Italia, indicando gli Stati parti e le eventuali riserve; l’art.80 della Convenzione di
Vienna prescrive la pubblicazione dei trattati dopo la loro entrata in vigore.
Questa prescrizione è presente nel nostro ordinamento in virtù della legge di adattamento.
Si è posta una questione relativa ai ‘trattati segreti’, e cioè se questi possono ssere stipulati
all’interno del nostro ordinamento: secondo alcuni la risposta è no, in quanto l’ordinamento
internazionale impedirebbe di stipulare trattati segreti e anche la nostra Costituzione lo
impedirebbe; secondo altri, occorre coordinare la legge 11 dicembre 1984 con la legge sul
segreto di Stato, cioè la legge 3 agosto 2007 n.124.
Il trattato segreto sarebbe costituzionalmente ammissibile solo per gli accordi in forma
semplificata che non abbiano per oggetto le materie disciplinate dall’art.80 Cost. (è
altamente improbabile che un accordo segreto disciplini le materie dell’art.80 Cost, in quanto
l’accordo segreto è necessariamente di natura politica).
Anche in relazione ai trattati è possibile stipulare delle clausole segrete, che potrebbero
danneggiare i supremi interessi dello Stato: per cui si è stabilito che “il Governo può
legittimamente concludere con il paese contraente un ‘accordo quadro’ da cui sia omessa la
disciplina delle parti più strettamente tecnico-militari che potranno formare oggetto di alcune
clausole segrete”.

Un altro problema riguarda l’esecuzione provvisoria del trattato, infatti vi potrebbero essere
delle ragioni di urgenza che potrebbero imporre l’esecuzione del trattato prima che questo
sia stato ratificato. La Convenzione di Vienna ha discusso su questo punto, e a tal proposito
il suo art.25 stabilisce che “un trattato possa essere provvisoriamente applicato prima della
sua entrata in vigore quando ciò venga stabilito dai negoziatori”. Nel nostro ordinamento
questo problema si pone con riguardo agli accordi disciplinati dall’art.80 Cost. e per gli
accordi per cui è richiesta la ratifica del Presidente della Repubblica (al di fuori di questi due
casi, è possibile ricorrere alla forma semplificata).
Si ritiene che non esiste un ostacolo costituzionale ben preciso a tale possibilità, infatti
l’art.80 Cost. ha per oggetto la ‘ratifica’, cioè l’entrata in vigore del trattato, e non la sua
provvisoria applicazione. Motivo per il quale l’adattamento del nostro ordinamento alla
Convenzione di Vienna ha comportato l’introduzione dell’art.25 della Convenzione nel nostro
ordinamento: la norma abilita gli organi dell’esecutivo a disporre la provvisoria esecuzione
del trattato. Si potrebbe in qualche modo ammettere che l’art.25 sia una norma dichiarativa
del diritto internazionale consuetudinario: ammettendo ciò, il principio della provvisoria
esecuzione assumerebbe nel nostro ordinamento rango costituzionale, in virtù
dell’adattamento sancito nell’art.10 Cost. Ammettere che l’art. 25 rientri tra le norme del
diritto internazionale consuetudinario farebbe venire meno ogni problema circa la
costituzionalità del procedimento di esecuzione provvisoria. Eventualmente, il Governo
dovrà informare ampiamente il Parlamento e la provvisoria esecuzione deve essere disposta
dall’accordo stesso (e non decisa unilateralmente).
Il Parlamento si è dichiarato contrario all’applicazione provvisoria degli accordi internazionali,
tranne nel caso di espressa autorizzazione.

Un altro problema è determinare chi sia competente, secondo l’ordinamento italiano, a


formulare le riserve: a tal proposito la nostra Costituzione non detta nulla; infatti si è fatto
riferimento ai principi generali, secondo cui l’organo competente ad apporre riserve è quello
legittimato a manifestare la volontà internazionale dello Stato: spetta al Governo formulare
una riserva, che sarà poi formalmente apposta dal Presidente della Repubblica al momento
del deposito della ratifica.
Si possono avere due situazioni:
- il Parlamento autorizza la ratifica del trattato purché il Governo apponga una riserva,
ma questi non tiene conto dei desiderata del Parlamento. Secondo alcuni il Governo
è libero di tenere o meno conto della riserva voluta dal Parlamento, poiché il Governo
non è obbligato a ratificare il trattato nonostante l’autorizzazione parlamentare.
- il Parlamento non formula alcuna riserva, e questa viene apposta dal Governo. La
riserva è valida sul piano internazionale (quindi il Governo è libero di formulare
riserve).
Dal punto di vista politico, è opportuno che il Parlamento sia informato della presa di
posizione governativa.
Tra autorizzazione e deposito della ratifica trascorre spesso un notevole lasso di tempo.
La denuncia dei trattati (compresi quelli dell’art.80 Cost.) rientra nella competenza del
Governo (nonostante la tesi che afferma la compartecipazione tra Governo-Parlamento, si
ritiene che sia da escludere che la denuncia debba essere autorizzata dal Parlamento con
legge). Tuttavia, è opportuno che il Parlamento sia informato delle intenzioni dell’esecutivo,
specialmente quando il trattato riveste un’importanza politica rilevante -> es. trattato sul
divieto di armi chimiche.

- art. 75 comma 2 Cost. = esclude espressamente che la legge di autorizzazione alla


ratifica di un trattato internazionale possa essere sottoposta a referendum
abrogativo. Una volta che viene ratificato, il trattato internazionale entra in vigore sul
piano internazionale e il referendum abrogativo abrogherebbe l’ordine di esecuzione
del trattato (non viene abrogata la legge di autorizzazione, ma bensì l’ordine di
esecuzione), con la conseguenza che la non esecuzione del trattato nell’ordinamento
interno renderebbe lo Stato responsabile sul piano internazionale.
Alcuni ordinamenti stranieri, come Francia, Irlanda e Paesi Bassi, ammettono il
referendum: si tratta di un ‘referendum preventivo’, ossia un referendum che opera
prima che intervenga la ratifica del trattato internazionale -> es. sia Francia che i
Paesi Bassi hanno sottoposto a referendum preventivo la ratifica del Trattato che
adotta una Costituzione per l’Europa; l’esito negativo ha impedito la successiva
ratifica del trattato costituzionale.
- art.117 ultimo comma Cost. = attribuisce alle Regioni il potere di concludere accordi
con Stati esteri. Questo potere conferito alle regioni può avere come oggetto solo le
materie di competenza regionale e deve essere esercitato ‘nei casi e con le forme
disciplinati dalle leggi dello Stato’.
La l.5 giugno 2003 n.131 ha dettato una procedura per la stipulazione di accordi e
confermato che questo potere spetta anche alle Province autonome di Trento e
Bolzano. Gli accordi che possono essere stipulati tra Regioni e Stati esteri devono
rientrare nella competenza legislativa delle Regioni e delle province autonome di
Trento e Bolzano, ma hanno tuttavia un contenuto limitato, poiché si deve trattare:
- o di “accordi esecutivi e applicativi di accordi internazionali” stipulati dallo
Stato italiano e poi entrati in vigore
- o di “accordi di natura tecnico-amministrativa”
- o di “accordi di natura programmatica finalizzati a favorire lo sviluppo
economico, sociale e culturale” delle Regioni e delle province di Trento e
Bolzano.
Secondo l’art.3 della legge 131/2003, le Regioni e le province autonome devono inoltre
rispettare i vincoli derivanti dalla Costituzione, dall’ordinamento comunitario, dagli obblighi
internazionali, dalle linee e dagli indirizzi di politica estera italiana e dai principi fondamentali
dettati dalle leggi dello Stato. Pertanto, l’accordo non può essere in contrasto con l’art.80
Cost., dovendo rispettare i vincoli derivanti dalla Costituzione.
Gli accordi vengono sottoscritti dalla Regione o dalla Provincia autonoma, previo
conferimento dei pieni poteri da parte del Ministro degli Affari Esteri, che valuta l’opportunità
e la legittimità dell’accordo. Il perfezionamento dell’accordo avviene mediante la firma da
parte del Presidente della Regione o da parte del Presidente della Provincia autonoma (la
ratifica spetta al Capo dello Stato); nel caso in cui viene stipulato un accordo senza che
siano conferiti i pieni poteri, allora l’accordo è nullo.
L’art.6 l.131/2003 enuncia una dettagliata procedura per consentire al Governo di valutare
l’opportunità dell’accordo e la sua legittimità dal punto di vista costituzionale; è previsto
l’intervento del Ministro degli Affari Esteri e del Presidente del Consiglio dei Ministri, che
controllano la procedura di conclusione dell’accordo, sia sotto il profilo formale, che
sostanziale. Il Governo può sempre intervenire durante l’iter della trattativa. L’ultima parola
spetta al Consiglio dei Ministri -> tale norma di suddetta legge non è in contrasto con
l’art.117 Cost. .
Regioni e Province autonome possono anche stipulare ‘intese’ con enti territoriali interni ad
uno Stato estero: tali intese non hanno natura di accordo internazionale. Tuttavia, si fa
sempre riferimento agli accordi stipulati da una regione italiana con uno Stato estero, e mai
agli accordi stipulati tra una regione italiana con un ente omologo estero cui sono attribuiti gli
stessi poteri di uno Stato estero dal suo ordinamento interno, es. uno Stato membro di uno
Stato federale.
Esplicitamente non è affrontata neppure la questione se una regione italiana possa
concludere intese con uno Stato estero: anche se la Corte costituzionale non si è espressa a
proposito, si ritiene che la risposta sia affermativa.
La Corte si è espressa circa la possibilità delle regioni di stipulare intese solo con enti interni
di uno Stato estero, ma non con gli Stati esteri stessi.
Gli accordi e le intese delle Regioni e delle Province autonome sono di regola pubblicati sul
bollettino ufficiale della regione interessata.
Cap.10: L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale:

Ordinamento interno e ordinamento internazionale sono ordinamenti giuridici separati e


originari (cd. ‘teoria dualista’, seguita dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana) : pertanto,
non si tratta di un unico ordinamento giuridico (come invece afferma la ‘teoria monista’ =
secondo cui il diritto internazionale sarebbe direttamente applicabile nell’ordinamento interno
e ne vincolerebbe i soggetti).
Pur affermando la loro separazione, i due ordinamenti non devono essere considerati come
delle monadi: essi, invece, comunicano tra di loro attraverso particolari meccanismi, come il
meccanismo del “Rinvio”.
Il Rinvio può essere:
- Rinvio Formale = che si ha quando un ordinamento rinvia alle norme di un altro
ordinamento nella loro qualità formale di norme giuridiche. Quindi nell’ordinamento
richiamante la norma giuridica segue la vita che essa ha nell’ordinamento richiamato.
Se nell’ordinamento richiamato la norma si estingue, essa si estingue anche
nell’ordinamento richiamante.
Il Rinvio Formale può essere ricettizio o non ricettizio:
- Rinvio formale ricettizio = in questo caso, la norma dell’ordinamento
richiamato viene immessa nell’ordinamento richiamante -> es. immissione
delle norme di un trattato nell’ordinamento italiano tramite un ordine di
esecuzione;
- Rinvio formale non ricettizio = in questo caso, la norma dell’ordinamento
richiamato costituisce solo il presupposto per l’applicazione di norme
dell’ordinamento richiamante -> es. rinvio operato dall’art.2 della legge di
guerra, secondo cui ‘l’applicazione, in tutto o in parte, della legge di guerra è
ordinata con Decreto Reale, quando lo Stato italiano è in guerra con un altro
Stato’.

- Rinvio Materiale = si ha quando l’ordinamento richiamante rinvia alle norme


dell’ordinamento richiamato non nella loro qualità formale di norme giuridiche, ma nel
loro contenuto materiale.
Spesso accade che per esigenze di celerità si fa rinvio alla norma di un altro paese:
se il rinvio è materiale, non opera nessun effetto nell’ordinamento richiamante poiché
non si può avere il cambiamento di una normativa.

Il diritto internazionale regola i rapporti tra Stati, ma per raggiungere i suoi obiettivi necessita
della cooperazione degli ordinamenti interni statali. Da ciò deriva l’esigenza di apportare
nell’ordinamento interno tutte quelle modifiche necessarie per conseguire il raggiungimento
degli obiettivi fissati dal diritto internazionale.
Ogni ordinamento giuridico statale procede autonomamente all’adattamento del diritto
interno al diritto internazionale: nell’ordinamento italiano si distingue l’adattamento al diritto
internazionale consuetudinario e l’adattamento al diritto internazionale pattizio:
- Adattamento al diritto internazionale consuetudinario : il procedimento di
adattamento è disciplinato dall’art.10 comma 1 Cost.
- Adattamento al diritto internazionale pattizio : per questo tipo di adattamento manca
una disciplina d’adattamento.
Bisogna precisare che la modifica apportata all’art.117 Cost. non riguarda l’adattamento, ma
bensì la prevalenza delle norme internazionali facenti parte del nostro ordinamento sulle
norme di legge contrarie.

L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario e allo ius cogens:


L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario è disposto dall’art.10 comma 1 Cost.,
secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute” : la disposizione compie un rinvio formale all’ordinamento
internazionale, con la conseguenza che ogni modifica nell’ordinamento internazionale si
riflette anche nell’ordinamento interno. Perassi a tal proposito affermò che opera come una
‘trasformazione permanente’.
Ci si è chiesto se l’adattamento sia sempre operante, anche nel caso in cui la norma di
diritto internazionale sia in contrasto con la Costituzione? La Corte Costituzionale aveva
affrontato questo problema nella sent. 48/1979, in cui aveva distinto le norme
consuetudinarie anteriori alla data di entrata in vigore della Costituzione (che sarebbero
state recepite nel nostro ordinamento senza alcun limite) e norme consuetudinarie posteriori
(che non sarebbero potute essere recepite nel caso in cui fossero state in contrasto con i
principi fondamentali della Costituzione).
Secondo la Corte Costituzionale l’adattamento disposto dall’art.10 Cost. non può consentire
la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale. Pertanto, una
norma di diritto internazionale consuetudinario che fosse in contrasto con i principi
fondamentali della Costituzionale, non sarebbe immessa nel nostro ordinamento.
Tuttavia, la Corte internazionale di giustizia ha contestato la sent. della Corte costituzionale,
in particolare ha contestato la distinzione tra norme consuetudinarie esistenti prima
dell’entrata in vigore: per esse sarebbe inammissibile il giudizio di costituzionalità; e norme
consuetudinarie formatesi successivamente: per esse sarebbe ammissibile il giudizio di
ammissibilità = vista questa disparità di trattamento, la Corte internazionale di giustizia ha
affermato che tutte le norme consuetudinarie possono essere oggetto del giudizio di
legittimità costituzionale, senza alcun limite temporale circa la loro formazione. In ogni caso,
la Corte internazionale di giustizia ha ribadito che ‘i principi fondamentali dell’ordinamento
costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana costituiscono un limite all’ingresso
delle norme consuetudinarie nel nostro ordinamento’.
Il limite costituito dai principi fondamentali è stato individuato dalla giurisprudenza
costituzionale, primi tra tutti i diritti fondamentali della persona umana -> una norma
consuetudinaria in contrasto con tali principi non sarebbe recepita nel nostro ordinamento e
quindi non dovrebbe essere applicata dal giudice (non vi è neanche la necessità di sollevare
un giudizio di costituzionalità).
Per quanto riguarda il contrasto tra norme di diritto internazionali consuetudinario e norme
del diritto interno che però non costituiscono principi fondamentali, è generalmente
ammesso che la norma consuetudinaria possa derogare la norma interna : si tratta di un
contrasto più apparente che reale, che va risolto in base al ‘principio di specialità’, che
conseguentemente fa prevalere le norme consuetudinarie sulle norme costituzionali (non
principi fondamentali) a titolo di lex specialis.
L’art.10 Cost. contiene l’espressione ‘norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute’, un’espressione che solleva 2 problemi:
1) bisogna attenzionare se la norma di diritto internazionale di cui si tratta sia oggetto di
‘obiezione persistente’ da parte dell’Italia. Se si considera la premessa secondo cui
la norma di diritto consuetudinario obbliga anche l’obiettore permanente, si dovrebbe
coerentemente ammettere che l’adattamento operi nonostante l’Italia sia ‘obiettore
persistente’.
2) bisogna altresì attenzionare se una consuetudine regionale possa essere immessa
nell’ordinamento costituzionale interno tramite l’art.10 Cost. : la risposta è sì, solo se
la consuetudine regionale vincoli l’Italia.

La dottrina prevalente assegna alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute


il rango di norme costituzionali; la Corte Costituzionale ha fatto propria tale opinione
dottrinale -> da ciò consegue che una norma di legge ordinaria in contrasto con una norma
consuetudinaria può essere oggetto di giudizio di costituzionalità e caducata dalla Corte
Costituzionale.
La Costituzione non disciplina espressamente l’adattamento del diritto interno al diritto
internazionale avente natura imperativa (ius cogens): infatti, nel 1948 era quasi sconosciuta
l’esistenza di norme internazionali imperative. Nonostante questo, l’art.10 Cost. è una
disposizione abbastanza flessibile da poter prevedere anche l’adattamento del diritto interno
al diritto internazionale cogente.
Si ha che l’art.10 Cost. nella sua formulazione testuale dispone l’adattamento
dell’ordinamento ‘alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute’ : le norme
imperative appartengono alle ‘norme di diritto internazionale generalmente riconosciute’.
Una norma imperativa può essere definita tale quando è ‘accettata e riconosciuta’ dalla
comunità internazionale nel suo insieme come ‘norma che non può essere derogata’. = per
cui, gli Stati devono essere convinti della universale obbligatorietà e della inderogabilità della
norma, e tale convinzione deve essere condivisa da tutte le componenti essenziali della
comunità internazionale.
Si può pertanto concludere che le norme imperative (che non sono derogabili), come le
norme consuetudinarie (che sono derogabili), sono ammesse nel nostro ordinamento tramite
l’art.10 comma 1 Cost.
Per determinare invece il ‘rango’ delle norme imperative immesse nel nostro ordinamento,
bisogna analizzare la sentenza della Corte cost. 29 dicembre 1988 n.1146, che ha stabilito
una gerarchia tra le norme costituzionali e i principi supremi.
I cd. ‘principi supremi’ hanno una valenza superiore rispetto alle altre norme di rango
costituzionale e non sono modificabili nel loro contenuto essenziale neppure da norme
costituzionali. I principi supremi, quindi, rappresentano un limite alla revisione costituzionale,
al punto tale da sottoporre una legge di revisione costituzionale al controllo di costituzionalità
nel caso in cui si ponesse in contrasto con i principi supremi della Costituzione.
Bisogna precisare che le norme imperative di diritto internazionale immesse nel nostro
ordinamento appartengono alla categoria dei principi supremi della Cotituzione, precisando
che:
- i principi supremi della Costituzione non sono modificabili (neppure da una legge di
revisione costituzionale)
- i principi supremi prodotti da una norma imperativa sono modificabili solo da una
norma imperativa posteriore: nel senso che una modifica dell’ordinamento
internazionale si ripercuoterebbe automaticamente anche nell’ordinamento interno.
Pertanto, i principi supremi di origine internazionalistica rappresenterebbero una modifica
alla Costituzione operata senza ricorrere al procedimento di revisione costituzionale; una
volta immessi nell’ordinamento interno, i principi supremi di origine internazionalistica non
possono essere modificati da una legge di revisione costituzionale, ma solo da una norma di
diritto internazionale avente natura imperativa (è la Costituzione svizzera che inibisce ogni
modifica costituzionale suscettibile di violare la norma di ius cogens).
Le ragioni che stanno a fondamento di ciò sono:
- la norma imperativa è di rango superiore rispetto a quello di tutte le altre norme
internazionale, motivo per cui esse sono gerarchicamente superiori a tutte le norme
dell’ordinamento interno; tuttavia è sempre ammissibile che una norma venga riconosciuta
nell’ordinamento richiamante con un valore diverso rispetto a quello che ha nell’ordinamento
richiamato.
- le norme imperative, che sono equiparate ai principi supremi immodificabili, non possono
essere oggetto di un procedimento di revisione costituzionale (poiché se si sottoponesse la
norma imperativa a revisione costituzionale, allora lo Stato italiano sarebbe esposto a illeciti
particolarmente gravi, provocando la rottura della vocazione internazionalistica).
A partire dal ‘caso Ferrini’ la giurisprudenza italiana ha iniziato ad applicare la teoria delle
norme cogenti per dirimere il contrasto tra le norme cogenti e le norme consuetudinarie -> si
doveva stabilire se lo Stato estero dovesse rispondere civilmente delle conseguenze
derivanti dalla violazione di una norma cogente a causa della commissione di crimini
internazionali da parte dei suoi organi belligeranti, oppure se non dovesse essere applicato il
principio dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione. La Cassazione ha stabilito che, in
caso di parallela e antinomica coesistenza nell’ordinamento internazionale dei due principi,
bisogna ricorrere al criterio del bilanciamento degli interessi e il contrasto deve essere risolto
‘dando prevalenza al principio di rango più elevato e di ius cogens’.

L’adattamento al diritto internazionale pattizio:


Il trattato, una volta che è stato ratificato ed entrato in vigore, obbliga lo Stato
nell’ordinamento internazionale. Tuttavia, affinché il trattato produca effetti anche
nell’ordinamento interno dello Stato, deve essere recepito: ciò vale sia per i trattati conclusi
in forma solenne, sia per i trattati conclusi in forma semplificata (che non necessitano della
ratifica per entrare in vigore).
Non esiste nessuna disposizione costituzionale che si occupi dell’adattamento del diritto
italiano al diritto internazionale pattizio (infatti l’art.10 Cost. dispone solo l’adattamento
dell’ordinamento interno al diritto consuetudinario.
La “teoria dei Quadri” che sancisce che l’art.10 Cost. avrebbe disposto anche l’adattamento
ai trattati, non ha mai avuto seguito in dottrina, a tal punto da essere stata sconfessata dalla
prassi legislativa e dalla giurisprudenza costituzionale.
Per cui = un trattato di cui non sia stato disposto l’adattamento non produce effetti nel nostro
ordinamento giuridico. Nella prassi italiana esistono due modi per disporre l’adattamento: il
procedimento speciale e il procedimento ordinario.
- Procedimento speciale = con questo procedimento si dà ‘piena ed intera esecuzione’
al trattato nell’ordinamento interno tramite un atto normativo ad hoc. Questo atto
normativo contiene in allegato il testo del trattato in lingua originale. Nel caso in cui il
trattato sia redatto in più lingue, e l’italiano non figuri tra le lingue autentiche, si regola
si sceglie la lingua francese, che è quella più vicina a quella italiana (anche se tale
prassi non è sempre seguita). Talvolta il testo del trattato è accompagnato da una
traduzione in lingua italiana (non ufficiale).
Tuttavia, nel formulare la norma interna di adattamento deve fare riferimento alla
lingua (o alle lingue) in cui il trattato è stato redatto; la norma interna di esecuzione
sarà il risultato di un rinvio operato dall’interprete al testo del trattato. Si tratta di un
‘rinvio formale’ dell’ordinamento interno all’ordinamento internazionale, con la
conseguenza che ogni variazione che si produce nell’ordinamento internazionale, si
produrrà automaticamente anche nell’ordinamento interno.

- Procedimento ordinario = con questo procedimento si riformulano le norme del


trattato, e il rinvio disposto dall’ordinamento interno è un ‘rinvio materiale’, con la
conseguenza che non si ha una perfetta e continua aderenza tra ordinamento interno
e ordinamento internazionale. Nel caso in cui il trattato si estingua nell’ordinamento
internazionale, le norme interne di esecuzione sopravvivono ed è necessario un atto
abrogativo per eliminarle.
Nel nostro ordinamento si preferisce, per motivi di celerità, ricorrere all’ordine di esecuzione:
tuttavia, questo strumento non opera nei confronti del trattato che non è self-executing, cioè
nei confronti di quelle norme che non sono complete nel loro contenuto -> es. in materia di
crimini internazionali, i trattati di solito stabiliscono l’obbligo di punire il colpevole, ma non
prescrivono la pena da comminare: in questi casi si deve ricorrere al procedimento ordinario,
se no l’ordine di esecuzione non opera.
Si fa molto spesso ricorso all’ordine di esecuzione, anche quando sarebbe necessario
ricorrere al procedimento ordinario. Per ovviare a questa difficoltà e per non perdere i
benefici dell’ordine di esecuzione, si è affermato un Procedimento misto.
- Procedimento misto = consiste in un ordine di esecuzione accompagnato
dall’adozione di disposizioni che danno attuazione (nell’ordinamento interno) delle
norme non self-executing del trattato -> es. per la Convenzione sul disarmo del 1993,
oltre all’ordine di esecuzione, sono state adottate delle norme nei confronti dei
trasgressori che istituiscono l’ ‘Autorità Nazionale’ circa le ispezioni.

Vi sono casi in cui la scelta del modo di adattamento è obbligata, poiché il trattato impone
agli Stati di adottare determinate misure per la sua esecuzione -> es. l’art.8 della
Convenzione sul disarmo chimico del 1993 obbliga gli Stati parti a reprimere le attività
proibite dalla Convenzione stessa, ed estende la legislazione penale in materia anche alle
attività commesse dai propri cittadini all’estero.

L’ordine di esecuzione può essere contenuto in una legge oppure in un atto regolamentare
da adottare con decreto: la scelta di uno dei due dipende dalla potenzialità di produzione
giuridica dei vari atti e si opera individuando quale sarebbe l’atto normativo necessario
qualora si dovesse procedere all’adattamento con procedimento ordinario (es. se il trattato
riguarda una materia disciplinata da legge o da una riserva di legge, allora l’ordine di
esecuzione dovrà essere contenuto in una legge ordinaria). Tuttavia, bisogna tenere
presente che l’art.11 Cost. è una cd. ‘norma permissiva’, perché consente di disporre
l’adattamento con legge ordinaria ai trattati contemplati nella disposizione, nonostante essi
incidano su materie disciplinate da norme costituzionali.
Le norme internazionali introdotte tramite ordine di esecuzione sono soggette al sindacato di
costituzionalità: in caso di contrasto, la legge di esecuzione viene dichiarata incostituzionale
nella parte in cui immette nel nostro ordinamento norme contrarie alla Costituzione.
Ci si è chiesto se sono emendabili (modificabili) gli atti con cui nel nostro ordinamento viene
dato rilievo al trattato internazionale? Bisogna distinguere i tipi di atti: vi sono infatti
- l’autorizzazione alla ratifica
- ordine di esecuzione -----> sia l’autorizzazione alla ratifica che l’ordine di esecuzione
fanno parte dello stesso disegno di legge.
Nel caso in cui sia formulato un emendamento, significa che le Camere vogliono un trattato
diverso da quello negoziato, quindi l’esecutivo deve negoziare un nuovo testo (a meno che
l’ostacolo si possa superare tramite l’apposizione di una riserva, in caso di trattato
multilaterale). Ciò non vale per le modifiche di natura formale, come è avvenuto ad es. per il
disegno di legge di autorizzazione alla ratifica della Convenzione di New York sulle immunità
giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, approvato dalla Camera dei Deputati con la modifica
del termine ‘ratifica’ sostituito da quello ‘adesione’, poiché l’Italia doveva necessariamente
aderire (visto che non aveva firmato il trattato nei termini prescritti).
Il disegno di legge, nella parte relativa all’ordine di esecuzione, è un atto che è legge in
senso formale e in senso materiale, per cui è emendabile; si può procedere con
emendamento solo se questi non produca una sfasatura dell’entrata in vigore del trattato sul
piano internazionale e sul piano interno oppure solo se non abbia lo scopo di modificare il
contenuto del trattato.
Nel procedimento con ordine di esecuzione si finisce quasi sempre per derogare il normale
termine di vacatio legis di 15 giorni dalla pubblicazione dell’atto nella Gazzetta Ufficiale,
disposto dall’art.10 preleggi: la deroga porta a far entrare in vigore le norme interne di
esecuzione a partire dal momento di entrata in vigore del trattato per l’Italia.
Nel caso in cui vi sia un procedimento misto, anche la vacatio legis può essere mista -> es.
le norme di esecuzione del trattato disposte tramite ordine di esecuzione entreranno in
vigore dal momento dell’entrata in vigore del trattato nell’ordinamento internazionale, mentre
le disposizioni dettate con il procedimento ordinario entrano in vigore secondo quanto
stabilito dall’art.10 preleggi -> ciò è avvenuto con la l.18 Novembre 1995 n.496, con cui si è
data attuazione alla Convenzione sul disarmo chimico del 1993. La Convenzione è entrata in
vigore nel nostro ordinamento da quando essa è entrata in vigore nell’ordinamento
internazionale, cioè nel 1997.
Bisogna osservare che nel nostro ordinamento l’adattamento avviene contemporaneamente
o successivamente alla legge di autorizzazione alla ratifica del trattato; nei paesi di common
law invece si segue una regola diversa: prima viene adottata la legge di esecuzione e poi si
procede alla ratifica del trattato (la regola che si usa nei paesi di common law, se venisse
applicata nel nostro ordinamento, ridurrebbe il problema delle norme non self executing, cioè
il ricorso all’ordine di esecuzione quando questo sia palesemente inidoneo ad assicurare la
trasposizione delle norme del trattato nell’ordinamento interno).

Rango delle norme di adattamento al diritto pattizio:


Le norme interne immesse attraverso l’ordine di esecuzione hanno “nell’ordinamento
nazionale, il valore conferito loro dalla forza dell’atto che ne dà esecuzione”; inoltre, esse
hanno una particolare resistenza all’abrogazione e alla modificazione a causa di una legge
successiva incompatibile con queste.
Secondo la Corte Costituzionale, si tratta di ‘norme derivanti da una fonte riconducibile ad
una competenza atipica, quindi insuscettibili di abrogazione o modificazione da parte di una
disposizione di legge ordinaria’. Qualora il legislatore volesse abrogare le norme interne di
esecuzione dovrebbe farlo espressamente -> pertanto, l’eventuale contrasto tra norma
prodotta mediante ordine di esecuzione e norma successiva dovrebbe essere risolto in via
interpretativa, dando prevalenza alla norma prodotta mediante ordine di esecuzione. La
dottrina aveva appoggiato tale tesi, affermando che si trattasse del ‘principio di specialità’: le
norme prodotte dall’ordine di esecuzione sarebbero leggi speciali (non ratione materiae o
ratione personae) perché hanno come fondamento la volontà dello Stato di rispettare il diritto
internazionale.
La materia è stata recentemente disciplinata dall’art.117 Cost., modificato dalla l.cost.18
Ottobre 2001, secondo cui “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel
rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
comunitari” = questa norma non si esprime circa l’adattamento, ma incide sul rango delle
norme immesse nel nostro ordinamento, in particolare circa la loro resistenza passiva
rispetto a norme posteriori. La disposizione stabilisce un limite alla potestà legislativa dello
Stato e la superiorità del trattato sulla legge ordinaria, con la conseguenza che una norma di
legge contraria può essere annullata dalla Corte Costituzionale. Ciò vale sia per le norme
immesse nell’ordinamento tramite l’ordine di esecuzione, sia per le norme risultato del
procedimento ordinario di adattamento.
Quindi, ogni volta che sia ravvisabile un contrasto, il giudice deve sollevare una pregiudiziale
di costituzionalità e aspettare che la Corte Costituzionale si pronunci al riguardo? La Corte
Costituzionale ha affermato che il giudice non può disapplicare direttamente la norma
interna in contrasto con la norma convenzionale, ma deve inviare la questione alla Corte
Costituzionale, che si dovrà occupare di verificare se la normativa interna sia conforme alla
normativa convenzionale; la Corte ha aggiunto, inoltre, che le norme convenzionali immesse
nel nostro ordinamento sono ‘norme interposte’, quindi norme che si collocano tra la legge
ordinaria e la Costituzione; si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma
rimangono ad un livello subcostituzionale. Secondo la Corte, pertanto, il giudice deve
interpretare la norma interna in conformità con la disposizione internazionale (cd. ‘principio
dell’interpretazione conforme’); nel caso in cui l’interpretazione non riesca a superare
l’antinomia e il giudice dubiti della conformità della norma interna al diritto internazional, egli
dovrà investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale, che in tal
caso dichiarerà la nullità della norma interna in contrasto con la norma internazionale.
Si ritiene ragionevole fare riferimento al meccanismo interpretativo per evitare i tempi lunghi
del ricorso alla Corte Costituzionale.
Bisogna ricordare che le norme del trattato immesse nel nostro ordinamento tramite legge
ordinaria non possono derogare la Costituzione, perché l’art.117 Cost. non conferisce loro il
rango di norma costituzionale (invece, le norme immesse nel nostro ordinamento tramite
l’art.10 Cost. possono derogare la Costituzione).
Nonostante l’art.117 Cost. non sia una norma che dispone l’adattamento, secondo alcuni
essa imporrebbe al legislatore di operare l’adattamento, poiché senza l’adattamento il
trattato non produce effetti nell’ordinamento interno; inoltre, la norma dispone la superiorità
delle norme di qualsiasi trattato internazionale (e non solo dei trattati ratificati) -> infatti,
l’art.1 della l.5 Giugno 2003 n.131 dispone che “costituiscono vincoli alla potestà legislativa
dello Stato quelli derivanti dai trattati internazionali”, omettendo quindi la dizione ‘trattati
internazionali ratificati’; inoltre, sempre l’art.1 di tale legge afferma che i vincoli della potestà
dello Stato e delle Regioni sono quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute (art.10 Cost.), da accordi di reciproca limitazione della sovranità
(art.11 Cost.), dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali. Per cui la legge 2
Giugno 2003 fa una distinzione tra ‘accordi di reciproca limitazione della sovranità’ e ‘accordi
internazionali’.
I limiti derivanti alla potestà dello Stato al fine di rispettare gli obblighi internazionali, non
impediscono che sia sollevato il giudizio di costituzionalità in caso di contrasto tra l’ordine di
esecuzione e le norme costituzionali.
Le norme pattizie immesse nell’ordinamento non hanno rango costituzionale, quindi esse
non possono derogare le norme costituzionali -> la Corte Costituzionale nella sent.349/2007
ha affermato, con riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che le norme
convenzionali immesse nel nostro ordinamento non acquistano la forza delle norme
costituzionali e non sono quindi immuni dal controllo di legittimità costituzionale.

La Costituzione dispone poi la superiorità dei trattati che disciplinano lo status degli stranieri:
secondo l’art.10 comma 2 Cost. “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge
in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Pertanto, una norma interna in
contrasto con un trattato sulla condizione dello straniero sarebbe viziata di incostituzionalità.
Si perviene a questa tesi anche applicando l’art.117 Cost., infatti sarebbero ritenuti
incostituzionali quelle norme interne che imponessero obblighi allo straniero in contrasto con
il trattato e non quelle che conferissero un trattamento più favorevole.
L’adattamento alle fonti previste da accordo:
Si pone un problema riguardante le norme prodotte da una fonte giuridica di terzo grado
(fonte prevista da accordo), e cioè se queste entrino automaticamente nel nostro
ordinamento una volta che sia stata data esecuzione al trattato che tale fonte prevede,
oppure se sia necessario un provvedimento ad hoc.
Per risolvere questo problema, bisogna fare una distinzione:
- qualora il trattato preveda espressamente l’efficacia interna delle norme prodotte,
allora queste norme entreranno automaticamente in vigore nell’ordinamento interno -
> ciò avviene per i regolamenti dell’UE che, secondo l’art.288 TFUE, sono obbligatori
in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri.
- qualora il trattato non disponga nulla, l’applicabilità diretta potrebbe essere desunta
dall’ordine di esecuzione del trattato. L’ordine di esecuzione quindi dovrebbe
immettere nel nostro ordinamento le norme prodotte in virtù dei meccanismi creati
dal trattato. Tuttavia la prassi è contraria a ciò: innanzitutto perché spesso la fonte di
terzo grado non contiene norme self-executing; poi perché esiste una naturale
diffidenza ad accogliere fonti di un altro ordinamento senza un controllo da parte
dell’ordinamento in cui devono trovare attuazione.

Per quanto riguarda gli “allegati tecnici” alla Convenzione ICAO, adottati dal Consiglio
dell’Organizzazione, l’art.690 del codice della navigazione stabilisce che questi devono
essere recepiti in via amministrativa, sulla base dei principi generali stabiliti dal dpr. 4 luglio
1985 n.461, anche mediante l’emanazione di regolamenti tecnici dell’ENAC.
Quanto vale per gli allegati tecnici, vale anche per le sentenze internazionali che devono
essere attuate nell’ordinamento interno.
La sentenza internazionale è normalmente una sentenza di puro accertamento e quindi lo
Stato dovrà prendere tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta; nel
nostro ordinamento la sentenza non ha efficacia diretta.
Anche le sentenze della Corte europea dei diritto dell’uomo non hanno forza esecutiva
all’interno dell’ordinamento statale. Il problema è particolarmente delicato per quelle
sentenze la cui esecuzione nell’ordinamento interno potrebbe comportare la revisione del
giudicato e la riapertura del procedimento (la questione si pone per la Corte europea dei
diritti dell’uomo, ma si è posta anche per le sentenze della Corte internazionale di giustizia
qualora la Corte decida per la ‘restitutio in integrum’ comportante l’annullamento della
sentenza del giudice interno -> es. ciò è accaduto nel ‘caso Avena e altri cittadini messicani’
con cui la Corte ordinò agli Stati Uniti di riaprire i procedimenti giudiziari che avevano portato
alla condanna di alcuni cittadini messicani, senza che questi fossero stati informati del diritto
all’assistenza consolare che avrebbero potuto ottenere in virtù dell’art.36 della Convenzione
di Vienna sulle relazioni consolari. Meddelin, uno dei 52 cittadini messicani compresi nel
ricorso del Messico nel caso ‘Avena’ si oppose alla condanna a morte decretata dalla Corte
del Texas; la Corte Suprema degli StatI Uniti ritenne che la sentenza della Corte
internazionale di giustizia non fosse direttamente applicabile negli Stati Uniti e pertanto la
pena di morte fu eseguita.
Anche le sentenze della Corte internazionale di giustizia sono vincolanti: la questione si è
posta in relazione alla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 Febbraio 2012
‘Germania c. Italia’, nonostante la Corte avesse lasciato l’Italia libera di provvedere a
rimuovere la decisione giudiziaria consentendole l’adozione di una legislazione più
appropriata o di altri mezzi a sua scelta.
L’Italia, per potersi conformare alle sentenze della Corte, avrebbe dovuto rimuovere le
sentenze dei nostri giudici con cui la Germania era sottoposta a giurisdizione (comprese
quelle passate in giudicato)....pag.272

L’art.117 Cost. pone un vincolo al legislatore italiano circa gli obblighi derivanti da fonti
previste da accordo: la disposizione fa riferimento ‘agli obblighi internazionali’, una formula
molto ampia che include anche gli obblighi derivanti da fonti di terzo grado. Pertanto, la
norma di adattamento alla norma prodotta dalla fonte di terzo grado è una norma interposta
tra la legge ordinaria e la Costituzione e una legge ordinaria contrastante dovrebbe essere
rimossa mediante un rinvio alla Corte Costituzionale.

L’adattamento al diritto dell’Unione Europea:


Il diritto dell’Unione Europea comprende:
- il diritto contenuto nei Trattati istitutivi
- il Trattato sull’Unione Europea
- il Trattato istitutivo della Comunità Europea
- il Trattato istitutivo della Comunità Europea dell’energia atomica
- il diritto prodotto dai meccanismi istituiti dai Trattati istitutivi, cioè regolamenti,
direttive e decisioni
- i principi generali del diritto dell’UE, affermati dalla Corte di giustizia dell’UE nella sua
giurisprudenza
- gli accordi internazionali conclusi dall’UE con Stati terzi e organizzazioni
internazionali

Il nostro ordinamento si è adattato ai Trattati istitutivi e ai successivi trattati modificativi


attraverso ordine di esecuzione contenuto in una legge ordinaria (contenuto nella l.14
ottobre 1957 n.1203).
Per quanto riguarda la legislazione derivata, occorre distinguere:
- Regolamento = secondo l’art.288 TFUE, il regolamento è applicabile in ogni Stato
membro, quindi non occorre nessun atto di adeguamento affinché acquisti validità
nell’ordinamento interno.
La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le norme legislative interne con
cui venivano recepiti i regolamenti: nel caso in cui il regolamento non sia
‘autosufficiente’ sono necessari degli atti integrativi -> es. quando il regolamento
disponga delle sanzioni penali o amministrative da irrogare in caso di violazione,
senza determinarne con esattezza il contenuto.

- Direttive = le direttive pongono un obbligo di risultato e stabiliscono un termine entro


cui gli Stati devono darvi esecuzione, per cui è necessario un atto di adattamento
affinché queste siano efficaci nell’ordinamento interno. Tuttavia, una volta decorso il
termine senza che che sia stato emanato un atto di adeguamento, le direttive (che
dettano obblighi chiari, incondizionati e precisi agli Stati e che sono dirette a conferire
diritti ai singoli) possono essere riconosciute produttive di effetti diretti nel nostro
ordinamento indipendentemente da un atto di adeguamento.
Si tratta, però, di effetti verticali: cioè la direttiva può essere invocata dal singolo
(persona fisica o giuridica) nei confronti dello Stato, ma non nei confronti di un’altra
persona fisica o giuridica (se invocata da un singolo nei confronti di un altro singolo,
si tratta dei cd. effetti orizzontali).
Le direttive che non hanno efficacia diretta possono produrre nel nostro ordinamento
solo degli effetti limitati.
Il singolo ha diritto di chiedere allo Stato il risarcimento del danno, a condizione che
la direttiva, qualora attuata, gli avrebbe conferito un diritto soggettivo, esista un
nesso di causalità tra non attuazione della direttiva-danno subito dal soggetto, e che
sia possibile ricavare dalla direttiva il contenuto dei diritti attribuiti ai singoli.
Anche per le decisioni rivolte allo Stato occorre un atto di adeguamento, ma queste
(decisioni) possono avere efficacia diretta solo nei confronti dei singoli; per le
decisioni rivolte ai singoli, non è necessario un atto di adeguamento.
L’Italia è stata spesso condannata dalla Corte di giustizia per la mancata
trasposizione delle direttive nei termini prescritti = per ovviare a questo
inconveniente, con la legge ‘La Pergola’, fu adottato un meccanismo che avrebbe
dovuto facilitare l’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto comunitario, cioè la
legge comunitaria. La legge comunitaria avrebbe dovuto consentire un adeguamento
globale al diritto comunitario derivato.
Era previsto che la legge comunitaria dovesse essere ‘una legge ordinaria da
emanare con cadenza annuale, contenente disposizioni di attuazione degli atti
comunitari, delega al governo quando si sarebbe dovuto trasporre un certo numero
di direttive e autorizzazione al governo circa l’attuazione in via regolamentare delle
materie non ricoperte da riserva di legge; tale legge avrebbe potuto contenere anche
disposizioni abrogative di norme in contrasto con il diritto comunitario’.
La legge La Pergola è stata abrogata dalla l.4 Febbraio 2005 n.11, cd. ‘legge
Buttiglione’, che disciplina la partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’UE
(cd. fase ascendente), sia le procedure di esecuzione degli obblighi comunitari (cd.
fase discendente), mantenendo il meccanismo della legge comunitaria con l’aggiunta
di disposizioni occorrenti per dare attuazione ai trattati internazionali conclusi
dall’Unione. La legge Buttiglione consentiva di adottare provvedimenti di urgenza nel
caso in cui si doveva procedere all’adeguamento prima della data presunta di entrata
in vigore della legge comunitaria.
Il progredire dell’integrazione europea e le trasformazioni che si sono succedute
hanno comportato l’abrogazione della l.11/2005 e l’adozione di una disciplina più
articolata contenuta nella l.24 dicembre 2012 n.234 che detta ‘norme generali sulla
partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normative e delle
politiche dell’Unione Europea’. La nuova legge contiene norme sia per la fase
ascendente, che per la fase discendente e contiene meccanismi, quali la legge di
delegazione europea e la legge europea.
- legge di delegazione europea = le legge di delegazione europea sostituisce i
sostanza le vecchia legge comunitaria. Essa deve essere presentata dal
Governo al Parlamento entro il 28 Febbraio di ogni anno, salvo la possibilità
di introdurre entro il 31 Luglio di ogni anno un ulteriore disegno di legge,
qualora si debbano recepire altri atti dell’UE.
- legge europea = la legge europea, invece, non deve essere adottata entro un
termine stabilito e può contenere disposizioni abrogative di norme vigenti in
contrasto con l’ordinamento dell’Unione, o norme necessarie per dare
attuazione a sentenze della Corte di giustizia oppure occorrenti per eseguire i
trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell’UE che
vincolano non solo l’Unione Europea ma anche gli Stati membri.
La l.234 contiene inoltre disposizioni in materia di ricorsi alla Corte di giustizia e del diritto di
rivalsa dello Stato nei confronti delle regioni o di altri enti pubblici responsabili di violazioni
del diritto dell’UE e numerose altre disposizioni che dovrebbero impedire una ritardata
attuazione del diritto dell’Unione Europea ed evitare violazioni da parte dell’Italia.
Per quanto riguarda il rango delle norme dell’Unione, si è fatto riferimento all’art.11 Cost.,
secondo cui ‘l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolta a tale scopo, al fine di assicurare la prevalenza del diritto dell’UE sul
diritto incompatibile’.
In un primo momento, la Corte ha affermato che la norma di legge ordinaria italiana
posteriore potesse derogare alla norma comunitaria anteriore, applicando quindi il principio
di successione delle leggi nel tempo. Successivamente, la Corte ha cambiato indirizzo
affermando che il diritto comunitario prevale sul diritto interno, anche se posteriore.
Tale ‘prevalenza’ sarebbe dovuta essere assicurata dalla Corte Costituzionale : il giudice
ordinario non avrebbe dovuto disapplicare la norma di legge interna in contrasto con il diritto
comunitario, ma avrebbe dovuto sollevare il giudizio di costituzionalità (l’attesa di una
pronuncia della Corte Costituzionale comportava dispendio di tempo).
La Corte, dopo aver ribadito che il diritto comunitario direttamente applicabile prevale sulla
norma interna anche se successiva, ha statuito che il giudice ordinario è tenuto a
disapplicare la norma interna successiva incompatibile, senza necessità di sollevare il
controllo di costituzionalità. La prevalenza però non è ammissibile quando la norma
comunitaria si ponga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana (cd. controlimiti).
La Corte è pervenuta a questo risultato in virtù della separazione tra ordinamento
comunitario e ordinamento interno: l’ordinamento interno si ritrae di fronte ai rapporti giuridici
regolati dall’ordinamento comunitario. Le norme comunitarie trovano diretta applicazione
nell’ordinamento interno in virtù dell’art.11 Cost. .
Le norme interne incompatibili con il diritto comunitario non sono abrogate, ma vivono in una
sorta di limbo.
I rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario cui sono pervenute la Corte di
giustizia e la Corte Costituzionale hanno portato a concludere che è preclusa la possibilità di
sollevare il giudizio di costituzionalità di una norma interna in contrasto con una norma
dell’UE direttamente applicabile o produttiva di effetti diretti (salvo la proposizione del
giudizio di costituzionalità in via principale) oppure in relazione ad una norma interna, la cui
permanenza in vigore potrebbe pregiudicare l’osservanza dei Trattati istitutivi e
l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea.
La ‘prevalenza’ del diritto comunitario sul diritto interno, che prima era fondata in via
interpretativa sull’art.11 Cost., trova ora ancoraggio costituzionale con l’art.117 Cost., che
stabilisce che ‘la potestà legislativa è esercitata dallo Stato nel rispetto della Costituzione e
dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario’.

Le Regioni e l’adattamento al diritto pattizio e al diritto dell’Unione Europea:


Può accadere che un trattato o un atto dell’UE giuridicamente vincolante, incidano su
materie oggetto di competenza regionale: in questo caso, si pone il problema di sapere se
l’adattamento possa essere operato a livello regionale o se sia di competenza esclusiva del
legislatore statale.
La questione è stata oggetto di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale ed ha
trovato una collocazione con la modifica del titolo V della Costituzione.
L’art.117 Cost. dispone che ‘le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle
materie di loro competenza, provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi
internazionali e degli atti dell’Unione Europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite
dalla legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di
inadempienza’.
Bisogna distinguere tra adattamento ai trattati e adattamento al diritto dell’Unione Europea:
- adattamento ai trattati: l’art.6 della legge 131 dispone che “le Regioni e le province
autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di propria competenza legislativa,
provvedono direttamente all’attuazione degli accordi internazionali ratificati, dandone
preventiva comunicazione al Ministero degli Affari Esteri e alla Presidenza del
Consiglio dei ministri-Dipartimento per gli affari regionali, che nei successivi 30 giorni
dal relativo ricevimento possono formulare criteri e osservazioni”. Per cui le Regioni e
le due Province autonome sono legittimate a dare attuazione all’accordo
internazionale senza bisogno di attendere un atto di adeguamento da parte del
governo centrale; infatti la disposizione statuisce che ‘le Regioni e le due Province
autonome provvedono direttamente all’attuazione’. Naturalmente si deve trattare di
un accordo internazionale in vigore per lo Stato italiano.
L’art.6 ha per oggetto solo gli ‘accordi ratificati’, escludendo gli accordi in forma
semplificata; tuttavia si tratta di una formulazione impropria, poiché è inammissibile
che la legge di attuazione possa modificare il testo costituzionale.
Pertanto, il potere di adeguamento a livello regionale riguarda sia gli accordi conclusi
in forma solenne, sia gli accordi conclusi in forma semplificata, che abbiano per
oggetto materie di competenza regionale.
Le Regioni e le Province autonome possono provvedere all’adeguamento per i soli
accordi non rientranti nell’art.80 Cost.; le Regioni, qualora sia stato dato l’ordine di
esecuzione, potranno sempre formulare leggi di attuazione in materia di loro
competenza, soprattutto non self-executing.
L’art.6 l.131/2003 disciplina dettagliatamente la procedura di conclusione degli
accordi stipulati dalle Regioni e dalle due Province autonome, ma non dispone nulla
circa la loro attuazione. Tuttavia, si ritiene che l’ente regionale, così come ha il potere
di concludere accordi nelle materie di sua competenza, possa anche avere il potere
di eseguirli.
Nell’ipotesi in cui la Regione non li attui, spetterà allo Stato provvedere secondo i
poteri di sostituzione che gli sono conferiti dall’art.120 Cost. e dall’art.6-8 della l.131.

- adattamento al diritto dell’Unione Europea : la giurisprudenza costituzionale e il


legislatore ordinario, dopo un lungo percorso durato vari decenni, hanno riconosciuto
la competenza delle Regioni ad attuare il diritto dell’Unione Europea.
La l.9 marzo 1989 n.86 aveva attribuito alle Regioni e alle Province autonome il
potere di dare immediata attuazione alle direttive UE aventi per oggetto materie di
competenza regionale.
I poteri sostitutivi dello Stato sono definiti dal comma 2 dell’art.120 Cost. e la
procedura per poter essere esercitati è disciplinata dall’art.8 l.131, ed è necessario
quando si deve ‘rimediare alla violazione della normativa comunitaria o alla sua
mancata attuazione’.
Resta fermo il principio per cui nelle materie di loro competenza, le Regioni e le
Province autonome provvedono al recepimento delle direttive europee. Alcune
Regioni, per ovviare a ritardi e a inadempimenti, si sono dotate di una ‘legge
comunitaria regionale’ per l’adozione di atti rientranti nella competenza regionale.

Il sindacato giurisdizionale da parte del giudice interno sui trattati e sugli atti delle
organizzazioni internazionali:
Ci si è chiesto se il giudice interno possa sindacare la vigenza di atti internazionali (sia che si
tratti di trattati o di atti di organizzazioni internazionali)?
Per quanto riguarda i trattati = il giudice nazionale non dovrebbe applicare un trattato che
esso consideri invalido o estinto. Tuttavia, questa affermazione è in contrasto con la teoria
dell’atto politico cui fanno spesso ricorso i giudici italiani e i giudici di common law.
La rilevanza dei trattati sancita nell’art.117 Cost. induce a ridimensionare questa teoria e
dare una valutazione critica alla tesi secondo cui il trattato, coinvolgendo una scelta di
politica estera dello Stato, non sarebbe sindacabile in sede giurisdizionale.

E’ opportuno distinguere tra invalidità e estinzione del trattato:


- il trattato è affetto da invalidità relativa = cioè un vizio sanabile, riconducibile agli
artt.46-50 della Convenzione di Vienna del 1969. Solo quando le modalità di
stipulazione del trattato fossero chiaramente in contrasto con la Costituzione, il
giudice interno dovrebbe sollevare un giudizio di costituzionalità e rinviare la
questione alla Corte Costituzionale; si tratterrebbe di sollevare la questione di
costituzionalità della legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione del trattato
non nella parte contenente l’autorizzazione alla ratifica (che esaurisce i suoi effetti
nel momento in cui il trattato è stato ratificato), ma nella parte che contiene l’ordine di
esecuzione. Inoltre, la legge di autorizzazione alla ratifica potrebbe essere stata
omessa e l’omissione costituisce un vizio ex art.46 Convenzione di Vienna.
L’acquiescenza fa perdere il diritto di invocare la causa di invalidità.

- il giudice potrebbe dichiarare l’invalidità del trattato, incidenter tantum, quando ricorra
una causa di invalidità assoluta, di cui agli artt.51-53 della Convenzione di Vienna.
Spetterà all’esecutivo (Governo) impugnare il trattato e seguire le disposizioni di
procedura dettate dalla Convenzione di Vienna; gli Stati che non sono vincolati dalla
Convenzione di Vienna dovranno seguire le procedure dettate dal diritto
consuetudinario.

- Circa l’estinzione dei trattati = il giudice interno non applicherà il trattato nel caso in
cui ricorra una causa automatica di estinzione, come ad es. il termine finale oppure
un mutamento di sovranità che possono determinare l’estinzione del trattato; la
guerra comporta in certi casi l’estinzione automatica del trattato.
L’estinzione del trattato è rimessa alla volontà dell’esecutivo (denuncia), per cui il
giudice non applicando il trattato finirebbe per invadere le competenze che non gli
sono proprie.

Per quanto riguarda gli atti delle organizzazioni internazionali, occorre distinguere:
in un sistema come quello dell’Unione Europea in cui spetta al giudice UE statuire sulla
validità dell’atto, il giudice nazionale non può dichiarare quindi l’atto invalido; al massimo può
effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Per le decisioni del Consiglio di sicurezza che hanno effetto negli ordinamenti statali? Il
Consiglio di sicurezza nell’adottare le sue decisioni è vincolato dalla Carta delle Nazioni
Unite, pertanto in linea di principio, un atto del Consiglio di sicurezza che sia contrario alle
disposizioni sancite dalla Carta delle Nazioni Unite dovrebbe essere considerato invalido.
A tal proposito, la Corte federale svizzera ha stabilito che le corti interne non possono
statuire sulla validità di una risoluzione del Consiglio di sicurezza, a meno che questa sia
contraria ad una norma imperativa del diritto internazionale.
A nostro parere, si è ritenuto che il giudice interno potrebbe dichiarare invalida la risoluzione
e disapplicarla nel caso concreto -> es. decreto con cui si decide di inviare derrate alimentari
essenziali e medicinali alla popolazione di uno Stato colpito da embargo; il giudice interno
dovrebbe effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte UE, cui spetterebbe decidere se l’atto
in questione sia invalido per aver dato esecuzione ad una risoluzione illegittima del Consiglio
di sicurezza; in caso di sentenza sfavorevole, resterebbe la possibilità di sollevare giudizio di
costituzionalità di fronte alla Corte Costituzionale invocando la teoria dei controlimiti.
La questione è stata affrontata nel 2017 dall’Institut de droit international, che ha adottato
una risoluzione in materia: la risoluzione, dopo aver specificato che la Carta delle Nazioni
Unite non dispone di alcun meccanismo per esaminare la validità delle risoluzioni del
Consiglio di sicurezza azionabile dal giudice interno, afferma che ‘un giudizio sulla validità
delle risoluzioni è precluso alle corti regionali e ai tribunali interni; il giudice dovrebbe
valutare la conformità a diritto della legislazione interna di esecuzione delle risoluzioni del
Consiglio di sicurezza’.
Tuttavia, l’art.103 della Carta delle Nazioni Unite, in caso di conflitto, sancisce la superiorità
degli obblighi stabiliti dalla Carta rispetto a quelli derivanti da qualsiasi altro obbligo
internazionale.

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