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Non vi è una completa identificazione tra ‘soggetti di diritto internazionale’ ed ‘enti che
partecipano alla vita di relazione internazionale’.
Vi sono:
- Enti che hanno una piena soggettività internazionale, come gli Stati indipendenti e
sovrani
- Enti che hanno una limitata capacità internazionale, pertanto sono destinatari solo di
alcune situazioni giuridiche soggettive, come gli Insorti
La Corte internazionale di giustizia ha affermato che “in un sistema giuridico, i soggetti del
diritto non hanno necessariamente la stessa natura e non sono identici per il contenuto dei
loro diritti”.
In dottrina, la soggettività internazionale di alcune ‘entità minori’ è contestata (come l’Ordine
di Malta e i comitati nazionali all’estero); per tale motivo, si è preferito utilizzare l’espressione
“enti che partecipano alla vita di relazione internazionale”.
I vari enti che partecipano alla vita di relazione internazionale sono stati catalogati in 4
categorie, che si differenziano per i loro caratteri peculiari:
1. Enti territoriali = entità che presentano come tratto caratteristico l’esercizio del potere
di governo su una comunità territoriale.
es. gli Stati sovrani e indipendenti / Insorti
2. Enti non territoriali che aspirano a divenire organizzazioni di governo di una comunità
territoriale = cioè enti che non esercitano attualmente poteri di imperio su un
territorio, ma che hanno come obiettivo naturale l’acquisizione del potere di governo.
es. Governi in esilio / Comitati nazionali all’estero / Movimenti di liberazione
nazionale
3. Enti non territoriali di diversa natura, che non aspirano ad acquisire un territorio = si
tratta di entità sui generis, alle quali è attribuita eccezionalmente la capacità di
intrattenere relazioni internazionali.
es. Santa Sede / Ordine di Malta / Comitato internazionale della Croce Rossa
Nel diritto internazionale è controverso lo status dell’individuo: la tutela dei diritti costituisce
oggi un settore importante delle relazioni internazionali.
1.Enti territoriali:
- Stati sovrani e indipendenti: un ruolo primario nella vita di relazione internazionale è
dato dagli enti dotati di potestà territoriale, ossia gli Stati. Il diritto internazionale è un
sistema normativo volto a regolare la coesistenza tra enti sovrani, e gli Stati sono i
soggetti principali del diritto internazionale.
Gli Stati sovrani e indipendenti hanno soggettività internazionale, per cui gli stati
membri di Stati federali non hanno tale carattere poiché difettano del carattere
dell’indipendenza, costituendo parti componenti di un ente più ampio, cioè lo Stato
federale, che è l’unico a cui riconoscere la soggettività internazionale. Infatti, lo Stato
federale è ritenuto responsabile per eventuali illeciti compiuti da organi di stati
membri. Seppure la costituzione sancisca la possibilità per gli stati membri di uno
Stato federale di stipulare trattati, ciò non costituisce un elemento da cui è possibile
trarre la personalità internazionale : si tratta di capacità che spettano esclusivamente
allo Stato federale ma che sono costituzionalmente decentrate.
Parimenti, seppure l’art.117 Cost. affermi la possibilità per le regioni di concludere
accordi con gli Stati, in realtà si tratta di una potestà che spetta allo Stato italiano e
che quest’ultimo ha attribuito, per certe materie, agli enti territoriali minori.
Ai fini dell’acquisto della soggettività internazionale, la dimensione del territorio di uno
Stato o la dimensione della sua popolazione non costituisce un elemento rilevante:
partecipano alla vita di relazione internazionale anche Stati di dimensione territoriale
ridotta, come il Granducato di Lussemburgo.
Un problema sorge circa i cd. ‘Stati esigui’, come Andorra, Monaco, San Marino : si
tratta di Stati che dipendono da terzi per la condotta delle loro relazioni internazionali;
la dottrina dubita che queste entità possano essere considerate come soggetti di
diritto internazionale, in quanto sprovviste del carattere dell’indipendenza.
A proposito della posizione degli Stati esigui, non possono essere formulate delle
conclusioni di carattere generale, ma bisogna differenziare ogni tipo di caso che si
presenta nella vita di relazione internazionale = nel caso in cui l’ingerenza sia
particolarmente penetrante, si dubita della soggettività internazionale dell’ente, infatti
molti di questi stati sono oggetto di ingerenze incisive da parte dello Stato vicino. es.
con il Trattato del 17 Luglio 1918, Monaco si era impegnato con la Francia ad
esercitare i suoi diritti di sovranità in perfetta conformità con gli interessi politici,
militari, navali ed economici della Francia; inoltre, in caso di urgenza, la Francia
aveva il diritto di far penetrare e soggiornare a Monaco (anche senza il preventivo
accordo con il sovrano di Monaco) le forze militari e navali necessarie al
mantenimento della sicurezza dei due Stati. Con tale Trattato veniva sancito che il
Principato di Monaco non poteva mutare corona e che, in caso di estinzione della
casa regnante, Monaco sarebbe dovuto divenire un protettorato francese.
Il Trattato del 1918 è stato sostituito con il Trattato del 24 ottobre 2002, più conforme
al diritto e alle relazioni internazionali attuali : anche questo trattato obbliga Monaco
ad esercitare la propria sovranità in modo conforme agli interessi fondamentali della
Repubblica francese nei settori della politica, economia, sicurezza e difesa e
premette alla Francia di intervenire, senza il consenso monegasco, quando
l’indipendenza e la sovranità del principato di Monaco siano gravemente minacciate
e vi sia una rottura dell’ordine istituzionale. E’ stata abolita la clausola secondo cui, in
caso di estinzione della casa regnante, Monaco sarebbe divenuta un protettorato
francese; bensì viene internazionalizzata la disposizione costituzionale che stabilisce
la successione al trono e si afferma che il territorio del principato è inalienabile.
Oggi, gran parte degli Stati esigui sono membri delle Nazioni Unite (come Andorra,
Monaco, San Marino e Liechtenstein).
Poi, vi sono gli Stati protetti = cioè Stati che non hanno il requisito dell’indipendenza,
anche se sono considerati da alcuni come soggetti di diritto internazionale. Gli Stati
protetti sono stati formati durante il periodo coloniale. Lo Stato protettore assumeva
la rappresentanza internazionale dello Stato protetto e stipulava per suo conto i
trattati internazionali. Per cui, come in ogni rapporto giuridico di rappresentanza, lo
Stato protetto era titolare delle situazioni giuridiche derivanti dal trattato (e non lo
Stato protettore). Tuttavia, lo Stato protettore aveva una ingerenza più o meno
penetrante nei confronti dell’ordinamento interno dello Stato protetto, ingerenza che
poteva manifestarsi o nella forma del concorso di organi o nella forma della
sostituzione di organi.
- Concorso di organi : il potere legislativo viene esercitato congiuntamento da
organi dello Stato protetto e dello Stato protettore.
- Sostituzione di organi : gli organi dello Stato protettore si sostituivano
pienamente allo Stato protetto.
Precedentemente, i rapporti tra Stato protettore e Stato protetto erano disciplinati da un
trattato internazionale concluso tra i due soggetti; oggi, un trattato simile sarebbe
considerato invalido poiché contrario ad una norma di diritto internazionale che sancisce il
divieto di ristabilimento di una dominazione coloniale e situazioni assimilabili.
Il protettorato di diritto internazionale si distingue dal protettorato di diritto coloniale, in
quanto quest’ultimo è il risultato di accordi stipulati a livello locale con i capi tribù e il territorio
del protettorato doveva considerarsi parte integrante della madrepatria.
Inoltre, il protettorato deve essere distinto dai territori sotto mandato, che sono entità prive di
soggettività internazionale: il protettorato veniva amministrato nell’interesse della potenza
protettrice, i mandati venivano amministrate nell’interesse della popolazione locale. I
mandato sono sorti al tempo della Società delle Nazioni e sono cessati con l’estinzione della
Società delle Nazioni.
Protettorato e vassallaggio sono due figure distinte: nel vassallaggio, l’entità sotto
vassallaggio, pur godendo di una certa autonomia, è subordinata ad un’altra.
Esempi di protettorato, prima del raggiungimento dell’indipendenza della Francia, sono stati
il Marocco e la Tunisia.
Vi sono anche entità dotate di autonomia all’interno di uno Stato, che dovrebbero diventare il
nucleo su cui costituire un futuro Stato: è il caso della Palestina che è stata costruita sui
territori occupati da Israele. La Palestina manca dei requisiti di effettività e indipendenza,
poiché è soggetta alla volontà di Israele, che controlla le frontiere territoriali, marittime e
aeree dei territori della Palestina. Nel 2005 Israele si è ritirata dalla Striscia di Gaza (in
Palestina), ma il territorio è continuamente sotto assedio israeliano poiché Israele controlla
le frontiere aeree, marittime e terrestri della Striscia di Gaza.
La proclamazione dello Stato della Palestina, avvenuta nel 1988, con capitale
Gerusalemme, è rimasta priva di effettività.
La Palestina non è membro delle Nazioni Unite, e gode solo dello status di Stato
osservatore: nonostante ciò, essa ha stipulato un notevole numero di trattati sotto l’egida
delle Nazioni Unite, tra cui il Trattato di Non-proliferazione nucleare e il Trattato sulla
proibizione delle armi nucleari.
In conclusione, possiamo dire che la Palestina ha una limitata soggettività internazionale e la
sua statualità è in ‘statu nascendi’, cioè uno Stato in fase di formazione, che vedrà la luce
alla fine del suo processo di autodeterminazione.
Vi sono anche i cd. Stati fantoccio = stati che non hanno il requisito dell’indipendenza, che
sono stati creati dall’occupante durante la guerra (es. Manchukuo creato durante
l’occupazione giapponese della Manciuria; la Slovacchia creata dalla Germania).
Viene in considerazione anche lo Stato organizzazione = cioè un complesso ristretto di
organi che dirige l’ente.
Lo Stato comunità = è rappresentato dalla triade governo - territorio - popolazione.
Territorio e popolazione non sono elementi costitutivi della personalità dello Stato; bensì
possono avere una loro rilevanze per individuare se lo Stato, in caso di dissoluzione, si sia
estinto oppure se vi sia una entità che continui la personalità internazionale del soggetto
esistente prima della dissoluzione.
La nascita di uno Stato, in diritto internazionale, è una questione di fatto. Nonostante questo
alcuni preferiscono la tesi secondo cui la nascita non può realizzarsi in contrasto con
elementari principi del diritto internazionale, soprattutto con il principio di autodeterminazione
e il divieto di aggressione.
Così come la nascita, anche l’estinzione dello Stato è un fenomeno reale.
Viene in rilievo anche la ‘teoria degli Stati risorti’ = secondo cui, la personalità internazionale
dello Stato non sarebbe venuta meno nonostante l’incorporazione da parte di un altro Stato.
es. le tre Repubbliche baltiche (Estonia, Lituania e Lettonia) sono state incorporate dalla
Unione Sovietica nel 1940 e divenute di nuovo indipendenti nel 1991.
Gli Stati risorti pretendono di essere titolari delle situazioni giuridiche loro facenti capo prima
della incorporazione.
Una situazione di anarchia che comporti una rottura costituzionale dell’ordinamento interno,
non estingue lo Stato nel senso del diritto internazionale : i cd. ‘failed states’ continuano ad
essere membri delle organizzazioni internazionali (es. Somalia, Sierra Leone.. che hanno
continuato ad essere membri delle Nazioni Unite).
Una fattispecie che condurrebbe all’estinzione dello Stato potrebbe essere dovuta ai
cambiamenti climatici : alcuni stati del Pacifico sembrano destinati a scomparire a causa del
surriscaldamento terrestre e dell’innalzamento del livello degli oceani (Tuvalu, Kiribati, Isole
Marshall); resterebbe un popolo senza territorio, da ospitare altrove.
- Insorti: Oltre agli Stati sovrani e indipendenti, partecipano alla vita di relazione
internazionale come enti territoriali, gli Insorti (definiti anche ‘movimenti insurrezionali’
o ‘partito insurrezionale’), che mediante la lotta armata perseguono il rovesciamento
del governo di uno Stato (cd. governo legittimo o costituito), oppure la secessione di
una parte del territorio di tale Stato, purché abbiano un controllo abbastanza stabile
su una parte del territorio nazionale.
Il movimento insurrezionale è da annoverare tra gli enti territoriali poiché ha una
propria individualità sul piano internazionale nel caso in cui eserciti un controllo
esclusivo su una porzione di territorio e sulla relativa popolazione, e non si tratti di
semplici tensioni o disordini interni, come sommosse o atti sporadici di violenza.
La rilevanza sul piano internazionale degli Insorti è legata al Principio di effettività: gli
insorti sono enti temporanei, in quanto suscettibili di una evoluzione o di una
involuzione: esso è destinato a trasformarsi in uno Stato o sostituirsi al governo
costituito (in caso di vittoria) oppure è destinato a retrocedere a semplice gruppo di
individui (in caso di sconfitta).
A differenza degli Stati sovrani e indipendenti, gli Insorti hanno una capacità
internazionale limitata -> es. il movimento insurrezionale non può validamente
trasferire il territorio sotto suo controllo ad un altro soggetto mediante trattato di
cessione.
La capacità internazionale degli insorti è limitata alle norme che regolano la condotta
delle ostilità con il governo legittimo e alle norme che disciplinano l’esercizio del
potere d’imperio del movimento insurrezionale sul territorio da esso controllato.
Il movimento insurrezionale gode anche della capacità di concludere accordi con altri
soggetti internazionali: tali accordi possono riguardare o il futuro status del territorio,
o la definitiva cessione della guerra civile e incidere sul modo di essere
dell’ordinamento giuridico dello Stato in cui si svolge l’insurrezione.
I membri delle forze armate insurrezionali non sono legittimi combattenti, quindi nel
caso in cui vengano catturati non hanno il diritto allo status di prigioniero di guerra,
ma possono essere trattati come semplici criminali per gli atti di violenza compiuti.
Gli insorti hanno una capacità bellica limitata, infatti non possono condurre ostilità in
alto mare : a causa dell’insurrezione, i terzi possono aver subito danni dagli insorti:
se l’insurrezione è sconfitta, il governo legittimo non è responsabile per i danni
provocati dagli insorti; se l’insurrezione è vittoriosa, il nuovo governo è tenuto a
riparare i danni causati dagli insorti. Inoltre esso è responsabile anche per i danni
causati dal governo predecessore.
Si afferma che: “Un governo che è diventato il governo legittimo di uno Stato in
seguito ad una rivoluzione vittoriosa è di norma internazionalmente responsabile per
i danni causati dalle forze e dalle autorità tanto del governo precedente che dei
rivoluzionari” -> questi principi sono stati consacrati nell’art.10 del progetto di articoli
sulla responsabilità internazionale degli Stati, approvati dalla CDI.
I terzi possono aiutare il governo costituito ma non gli insorti, a meno che non
intervenga una risoluzione di segno contrario del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite; qualora lo facessero, commetterebbero un illecito internazionale.
A parte viene considerato il fatto che gli insorti pratichino forme di violenza bellica in
totale dispregio dei principi del diritto umanitario: es. l’ISIL (islamic state of syria and
levant) è stato un movimento insurrezionale sorto a cavallo tra Siria e Iraq che, per
circa tre anni, ha occupato stabilmente una porzione di territorio nei due Stati e che è
riuscito ad effettuare operazioni nei paesi vicini e anche azioni terroristiche in Europa
attraverso i propri affiliati. L’ISIL era dotato di un alto livello di effettività nei territori
sotto il suo controllo.
2.Enti non territoriali che aspirano a divenire organizzazione di governo di una comunità
territoriale:
- Governi in esilio = Fra gli enti che anche se non esercitano un potere di imperio su
un territorio, aspirano a divenire organizzazioni di governo di una comunità
territoriale, vengono in primo luogo in considerazione i Governi in esilio.
L’istituto dei Governi in esilio ha avuto particolare rilevanza a partire dalla seconda
guerra mondiale quando diversi governi di Stati occupati dalla Germania si
rifugiarono nel Regno Unito.
Affinché si abbia un Governo in esilio è necessario che vi sia uno Stato disposto ad
ospitare tale ente e che possa permettergli di esplicare funzioni modellate su quelle
di un’organizzazione statale.
I Governi in esilio hanno rilevanza sul piano internazionale quando il nuovo assetto
della comunità territoriale da cui provengono, e che aspirano a governare di nuovo,
sia da giudicare transitorio, cioè sprovvisto di stabilità. -> ciò si verifica soprattutto nel
caso di occupazione di uno Stato che si trovi in stato di guerra (occupatio bellica) che
non estingue la personalità dello Stato occupato.
Alcuni ammettono la possibilità di costituire un Governo in esilio anche nel caso di
mutamento rivoluzionario di governo all’interno di uno Stato, anche se questa
opinione è difficilmente accoglibile.
Il Governo in esilio opera come una sorta di ‘ente fiduciario’ del popolo che lui
rappresenta. Così, il governo in esilio può esigere l’adempimento di accordi a favore
della popolazione per cui opera.
Non tutti gli autori riconoscono rilevanza ai Governi in esilio, ma non attribuire una
rilevanza ai Governi in esilio è un’opinione piuttosto errata, soprattutto ora che la
norma cogente sul divieto di aggressione impedisce di riconoscere qualsiasi effetto
alle situazioni internazionali derivanti da questo illecito internazionale.
es. annessione del Kuwait da parte dell’Iraq e la rilevanza sul piano internazionale
assunta dal Governo kuwaitiano in esilio in Arabia Saudita.
Spesso l’occupante (Governo in esilio) installa al potere un “governo fantoccio”,
denominato anche “governo Quisling”, dal nome del collaborazionista norvegese
installato al governo dai tedeschi durante l’occupazione della Norvegia.
La fine del fenomeno bellico dovrebbe comportare l’estinzione della figura del
Governo in esilio; tuttavia, secondo alcuni, quest’affermazione non può essere
affermata nella sua assolutezza, poichè si deve tenere conto del principio del
disconoscimento di situazioni conseguenza del ricorso alla forza armata in violazione
del diritto internazionale e del principio di autodeterminazione dei popoli.
- Comitati nazionali all’estero: la seconda figura di enti non territoriali che aspirano a
divenire organizzazioni di governo di una comunità territoriale è costituita dai
Comitati nazionali all’estero.
Il fenomeno della costituzione di questi comitati ha assunto particolare rilevanza a
partire dalla prima guerra mondiale, quando Francia, Italia e Regno Unito
riconobbero i comitati nazionali cecoslovacco e polacco.
Il Comitato nazionale all’estero è un ente che si occupa della gestione degli interessi
di una comunità nazionale che aspira a governare in futuro (il comitato aspira a
governare la comunità) ma che attualmente è soggetta ad un potere statale.
Per poter esistere un Comitato nazionale all’estero si presuppone vi sia uno Stato
che è in guerra con lo Stato che attualmente governa la comunità nazionale di cui il
Comitato è espressione, disposto ad ospitarlo; altrimenti lo Stato ospitante violerebbe
la norma sul non intervento e nello stesso tempo il Comitato nazionale all’estero non
avrebbe una rilevanza internazionale.
L’ospitalità dello Stato di sede non è sufficiente per affermare la partecipazione del
Comitato nazionale all’estero per la vita di relazione internazionale. Si richiede che ai
Comitati nazionali all’estero sia consentito esercitare funzioni di governo sui
connazionali che si trovino all’estero.
Inoltre, affinchè si possa affermare che il Comitato nazionale all’estero abbia una
rilevanza sul piano internazionale è necessario che questi si ponga come ‘ente
militare’, cioè disponga di proprie forze armate.
L’esistenza di una guerra in corso contro l’organizzazione di governo alla quale il
Comitato nazionale si oppone determina una “crisi di effettività”di questa
organizzazione e spiega l’attribuzione di un ruolo sul piano delle relazioni
internazionali al Comitato all’estero.
I Comitati nazionali all’estero sono titolari di diritti e obblighi derivanti dal diritto
bellico, e possono concludere accordi circa l’impiego delle proprie forze armate (es.
l’accordo concluso nel 1918 dall’Italia con il Comitato cecoslovacco), e in alcuni casi
intrattengono anche relazioni diplomatiche.
Le recenti trasformazioni della comunità internazionale hanno comportato un
aggiustamento della figura dei comitati nazionali all’estero: tra questi viene
annoverato anche il ‘Consiglio delle Nazioni Unite per la Namibia’ istituito
dall’Assemblea Generale nel 1967. Tale Consiglio operò all’estero perchè il Sud
Africa negò il suo ingresso nel territorio namibiano; le funzioni del Consiglio
cessarono con la proclamazione dell’indipendenza della Namibia nel 1990.
Considerazioni analoghe valgono per il GNA, cioè per il Government of National
Accord, che ambisce a governare l’intera Libia. Il GNA è stato costituito in Tunisia e
ha operato come Comitato nazionale all’estero, fino a quando non si è insediato in
Libia.
La figura del Comitato nazionale ha oggi perso d’importanza.
Comitato Internazionale della Croce Rossa = fra gli enti non territoriali che
partecipano alla vita di relazione internazionale vi è anche il Comitato Internazionale
della Croce Rossa.
Il Comitato si è costituito nella forma di associazione di diritto privato ai sensi del
diritto svizzero e ha sede a Ginevra; esso è composto da individui che sono nominati
per cooptazione. Si è attenuato il requisito della cittadinanza svizzera originariamente
previsto per diventare membri del Comitato.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è un ente umanitario che promuove ‘i
principi fondamentali ed uniformi dell’istituzione della Croce Rossa’ ed opera con
assoluta indipendenza politica, confessionale ed economica.
Tale Comitato esplica funzioni rilevanti e svolge attività di rilievo internazionale
durante i conflitti armati. Nel caso di conflitto armato internazionale, le quattro
Convenzioni di Ginevra del 1949 assegnano al Comitato Internazionale della Croce
Rossa le funzioni di organizzazione umanitaria, nell’eventualità in cui non sia
possibile affidare questi compiti alle Potenze Protettrici o ad un sostituto di queste.
Il I Protocollo addizionale del 1977 assegna al Comitato Internazionale della Croce
Rossa il compito di facilitare la designazione delle Potenze Protettrici.
Per quanto riguarda i conflitti armati interni, il Comitato Internazionale della Croce
Rossa è menzionato dall’art.3 par.2 in cui viene definito come “l’organismo abilitato
ad offrire i suoi servigi alle parti in conflitto”.
Il Tribunale penale per la ex-Iugoslavia, nella decisione del 27 Luglio 1999, ha
riconosciuto al CICR il privilegio della non divulgazione delle informazioni in suo
possesso; questo privilegio deriverebbe dal diritto internazionale consuetudinario e
dai principi di neutralità, riservatezza, imparzialità, principi necessari all’esercizio del
mandato del CICR.
Al Comitato è stato attribuito lo status di osservatore presso l’Organizzazione delle
Nazioni Unite.
Il Comitato ha, inoltre, stipulato un accordo di sede con la Svizzera nel 1993,
affermando la sua volontà di essere considerato come una persona internazionale.
Altri accordi sono stati stipulati con gli Stati in cui opera il Comitato, che sono volti a
determinare lo status dei suoi funzionari, della sede della missione e dei relativi beni.
La Francia, con legge del 4 Giugno 2003, ha riconosciuto al Comitato e al suo
personale le stesse immunità attribuite alle Nazioni Unite secondo la Convenzione
sulle immunità delle Nazioni Unite del 1946.
Le Organizzazioni internazionali, a differenza degli Stati, non hanno un territorio, per cui non
godono del diritto di sovranità territoriale e non esercitano le relative competenze. Esse
esercitano le proprie funzioni tramite un apparato istituzionale che ha sede in uno Stato
membro e con cui stipulano ‘un accordo di sede’ che stabilisce i reciproci diritti e doveri.
Una questione che si è posta di recente riguarda se e in quale misura le Organizzazioni
internazionali abbiano un dovere di protezione nei confronti dei propri funzionari.
Eccezionalmente può capitare che esse siano chiamate all’amministrazione di territori, ad
es. le Nazioni Unite hanno assicurato l’amministrazione del Kosovo e hanno esercitato poteri
normativi per l’amministrazione del territorio.
La dipendenza dell’Organizzazione internazionale dall’accordo istitutivo e, in ultima analisi,
dagli Stati, si riflette sul problema della responsabilità internazionale per determinare
(qualora sia stato commesso un fatto illecito) se l’obbligo di riparazione incomba
sull’organizzazione o sugli Stati membri collettivamente considerati.
Le ONG, cioè le Organizzazioni Non Governative, si differenziano dagli enti fin ora
esaminati: si tratta di organizzazioni private a carattere trasnazionale, il cui atto istitutivo è
fondato sull’ordinamento interno di uno o più Stati. Le ONG spesso fungono da gruppi di
pressione per le più svariate materie e hanno talvolta uno statuto di osservatore presso le
organizzazioni internazionali. Esse possono presentare memorie scritte ai tribunali
internazionali senza divenire parti processuali, se così dispone lo Statuto del Tribunale.
es. di ONG : Amnesty International e Greenpeace, la prima particolarmente attiva nel campo
dei diritti umani e la seconda in quello delle questioni ambientali.
Cap. 2: Il riconoscimento
Il riconoscimento di insorti:
Il riconoscimento di insorti (recognition of insurgency) esprime la volontà di Stati terzi rispetto
al conflitto di non trattare gli insorti come meri criminali. Questo tipo di riconoscimento viene
effettuato dagli Stati terzi che vogliono mantenere relazioni con il movimento insurrezionale,
soprattutto allo scopo di garantire la protezione dei propri cittadini stanziati nel territorio
controllato dagli insorti.
Si tratta di un atto di natura politica (e non giuridica) che non ha valore costitutivo della
personalità giuridica degli insorti.
Secondo una parte della dottrina, un riconoscimento prematuro costituisce un illecito
internazionale nei confronti dello Stato in cui è in atto l’insurrezione.
es. il riconoscimento del Consiglio Nazionale Transitorio libico, che controllava Bengasi e la
Cirenaica prima della presa di potere sull’intera Libia e la definitiva scomparsa del regime di
Gheddafi, è un esempio di riconoscimento di insorti.
La guerra di Corea iniziata nel 1950 fece da propulsore per una reinterpretazione dell’art.9:
l’obbligo nascente da tale norma è stato inteso nel senso che esso consente il
mantenimento di forze esclusivamente volte ad assicurare la legittima difesa dello Stato. Era
riconosciuto il diritto di legittima difesa individuale, mentre oggetto di discussione era se il
Giappone potesse esercitare il diritto di legittima difesa collettiva, poichè la legittima difesa
era consentita solo per la difesa dello Stato.
Una forza di legittima difesa è stata istituita nel 1954, composta da forze di terra, di mare ed
aria.
L’art.9 Cost. ha influenzato la redazione dei patti di sicurezza di cui il Giappone è parte: a
causa dell’art.9, il Giappone difficilmente sarebbe potuto divenire parte di Trattati di
sicurezza collettiva, come quello istitutivo della Nato.
Il 19 Gennaio 1960, il Giappone ha stipulato un Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti:
questo trattato contiene obblighi reciproci, cioè non solo gli Stati Uniti devono soccorrere il
Giappone, ma anche il Giappone deve venire in aiuto degli Stati Uniti. Il dovere da parte del
Giappone di soccorrere gli Stati Uniti riguarda solo il caso in cui un attacco armato contro le
forze americane abbia luogo nel territorio sotto amministrazione giapponese.
Il 13 Marzo 2007, Australia e Giappone hanno adottato una ‘Dichiarazione congiunta sulla
cooperazione in materia di sicurezza’. Tale Dichiarazione è stata firmata dai corrispettivi
Primi Ministri = essa è una mera dichiarazione di intenti (e non un trattato di alleanza
militare), che dispone la mutua difesa reciproca in caso di attacco armato.
La Dichiarazione impegna i due Stati solo a prendere iniziative comuni nel caso di lotta al
terrorismo internazionale, di proliferazione nucleare, protezione delle frontiere e sicurezza
marittima. La cooperazione in campo militare ha per oggetto soprattutto iniziative in materia
di operazioni umanitarie, incluso il peace-keeping.
Fino agli inizi degli anni novanta, il Giappone non aveva mai partecipato ad operazioni di
peace-keeping; successivamente la situazione è mutata, anche perchè il Giappone aspirava
a divenire membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La legge del 1992 sulla cooperazione internazionale, infatti, aveva autorizzato il Giappone a
partecipare solo ad attività non militari (come operazioni di soccorso alla popolazione civile o
il monitoraggio di elezioni); questa legge è stata emendata nel 2001 per consentire al
Giappone di partecipare in modo più incisivo alle missioni delle Nazioni Unite.
Preso nota dell’impossibilità politica di procedere ad una revisione formale dell’art.9 Cost. a
causa dell’opposizione dell’ala pacifista della Dieta (l’art.9 Cost. può essere emendato solo
da una maggioranza di ⅔ del Parlamento giapponese e dopo che un referendum popolare si
sia espresso affermativamente); così si è provveduto ad una reinterpretazione dell’art.9
Cost. mediante una Decisione ministeriale del 1 Luglio 2014, e nel 2015 sono state adottate
delle leggi ordinarie che restano subordinate all’art.9 Cost. e sono soggette al vaglio della
Corte Suprema nel caso in cui ricorrano i motivi per sollevare una questione di
costituzionalità; la Corte potrebbe abrogare la legge ritenuta incostituzionale.
La nuova legislazione di reinterpretazione dell’art.9 afferma:
1. viene ammesso il ricorso alla legittima difesa collettiva, ammettendo che si possa
intervenire in difesa di un terzo Stato nonostante il Giappone non sia
immediatamente oggetto di attacco armato. L’esercizio della legittima difesa collettiva
è concepito in un ambito ristretto, cioè l’intervento è ammesso solo quando venga
attaccato un paese legato da una stretta relazione con il Giappone e l’aggressione
costituisca una minaccia anche nei confronti del Giappone stesso.
2. sono consentite forme minori di uso della forza armata: es. azioni volte a rimediare
intrusioni nelle acque territoriali giapponesi oppure interventi per salvare cittadini.
3. per quanto riguarda il mantenimento della pace, il Giappone dovrebbe avere un ruolo
più incisivo e proattivo, essendo stata varata una legislazione permanente che
consente di ovviare alla necessità di varare una legge ad hoc per ogni singola
operazione.
4. viene consentita la partecipazione del Giappone ad operazioni multinazionale di
supporto alla pace al di fuori delle Nazioni Unite, inclusa l’assistenza logistica a forze
armate estere impegnate al mantenimento della pace e della sicurezza.
5. viene ammesso il supporto logistico del Giappone a Stati impegnati in operazioni
militari, anche in assenza di un attacco diretto contro il Giappone, qualora vi sia un
serio pericolo per la sua sicurezza.
Vi sono maggiori difficoltà circa la misure prese dall’UE contro uno Stato terzo a titolo di
sanzioni economiche o misure restrittive (contromisure): si tratta di misure prese in
esecuzione di decisioni del Consiglio di sicurezza oppure adottate autonomamente dall’UE.
Tali misure sono fondate sugli artt.29 TUE e 215 TFUE (aventi per oggetto la politica
commerciale dell’Unione Europea e il congelamento dei fondi). Normalmente l’Unione
dispone tramite regolamento.
Può il membro neutrale non applicare il regolamento invocando il suo stato di neutralità? No,
inoltre lo Stato neutrale non può dissociarsi da misure sanzionatorie prese nell’ambito
dell’UE e la sua condotta potrà essere considerata conforme al diritto internazionale solo se
si ammetta che la neutralità non è pregiudicata dalla comminazione di sanzioni o
contromisure nei confronti di uno Stato che vìoli il diritto internazionale.
es. nel caso dell’Ucraina, le misure restrittive sono state osservate anche dai membri
neutrali dell’UE e non consta che la Russia abbia imputato una violazione degli obblighi
derivanti dalla neutralità al membro UE vincolato ad una politica di neutralità permanente.
Per quanto riguarda la compatibilità tra Neutralità permanente e le disposizioni del Titolo V
del Trattato sull’Unione Europea, l’opinione prevalente affermava che non esistesse una
vera e proprio incompatibilità, infatti l’art.17 TUE non comportava degli obblighi comuni nel
campo della difesa. Questa norma faceva riferimento a ‘tutte le questioni relative alla
sicurezza dell’Unione Europea, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa
comune che potrebbe condurre a una difesa comune qualora il Consiglio Europeo decida in
tal senso’. Senonché il paragrafo 1 di questa disposizione conteneva una clausola che
salvaguardava lo status dei neutrali, poichè disponeva che “non veniva pregiudicato il
carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”.
Stesse considerazioni valevano per le decisioni che hanno implicazioni nel settore della
difesa.
Tuttavia, l’accelerazione che ha avuto il processo UE nel campo della difesa rende sempre
più angusto lo spazio per una politica di neutralità permanente.
L’art.42 TUE, che ha sostituito l’art.17, contiene una disposizione secondo cui “la politica di
sicurezza e di difesa comune costituisce parte integrante della politica estera e di sicurezza
comune”
Il paragrafo successivo afferma la creazione di una difesa comune, decisa dal Consiglio
europeo con deliberazione unanime; è necessario, infatti, anche il voto dei membri neutrali
dell’Unione, tranne che si eserciti la cd. ‘astensione costruttiva’.
L’art.42 par.7 TUE contiene un patto di difesa reciproca tra gli Stati membri: la disposizione
salvaguarda lo status dei membri UE neutrali, specificando che ‘il patto di sicurezza
collettiva non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di alcuni
Stati membri’. Inoltre, uno Stato membro può anche non partecipare alle forme più intense di
cooperazione militare.
Tra le misure restrittive con unanimità (per i membri neutrali) vi è da annoverare anche la cd.
astensione costruttiva in sede di Consiglio UE relativamente alle decisioni in materia di
politica estera e di sicurezza comune.
Per le decisioni da adottare con unanimità, uno Stato può astenersi e motivare la propria
astensione con dichiarazione formale. L’astensione non pregiudica l’adozione della
decisione. Inoltre, il membro che si astiene non è obbligato ad applicare la decisione, anche
se deve comunque tenere una condotta che non ostacoli l’attuazione della decisione.
Bisogna comunque tenere presente che le trasformazioni subite dalla comunità
internazionale hanno mutato profondamente l’istituto della Neutralità permanente: questa
resta incompatibile con i patti di difesa collettiva a carattere reciproco, ma (a differenza di
come in passato) non è più in contrasto con l’appartenenza ad organizzazioni universali o
regionali che svolgono funzioni nel campo della sicurezza collettiva. Non è contraria allo
status di neutralità permanente la clausola di solidarietà disposta dall’art.222 TFUE per far
fronte ad attacchi terroristici. La neutralità infatti è una nozione che si è sviluppata in
relazione ad un conflitto armato internazionale; inoltre, qualora la solidarietà dovesse avere
implicazioni nel campo della difesa, il neutrale sarebbe salvaguardato dall’art.31 TUE,
espressamente richiamato dall’art.222.
Cap. 4: Il territorio
Il territorio è l’ambito entro cui lo Stato esercita la propria potestà di governo (imperium),
escludendo altri soggetti di diritto internazionale (ius excludendi alios).
La potestà di governo e il suo esercizio esclusivo costituiscono manifestazione della
sovranità territoriale.
Il diritto internazionale protegge la sovranità territoriale, nel senso che ogni attività esercitata
in un territorio straniero senza il consenso del sovrano territoriale o un’attività non ammessa
dal diritto internazionale, è illecita.
L’acquisto di proprietà immobiliari da parte dello Stato o da parte dei suoi cittadini in territorio
altrui non comporta alcun acquisto della sovranità territoriale; spesso succede che alcuni
Stati confondano l’imperium con il dominium e vietano l’acquisto di proprietà immobiliari
oppure lo sottopongono ad un regime autorizzativo oneroso per il timore (infondato) che
l’acquisto costituisca un vulnus della loro sovranità.
Il diritto internazionale protegge:
- sia la sovranità territoriale, permettendo l’indisturbato esercizio dei poteri dello Stato
nel proprio territorio
- sia l’integrità territoriale dello Stato, proibendo la sottrazione di parti del territorio
senza una valida causa di giustificazione.
Tra i poteri connessi all’esercizio della sovranità territoriale rientra anche quello di cedere
parte del proprio territorio: questo potere in passato era assoluto; oggi, invece, deve tenere
conto del principio di autodeterminazione dei popoli.
Il potere dello Stato all’interno del proprio territorio incontra i limiti derivanti dal diritto
internazionale sia consuetudinario che pattizio: questi limiti riguardano soprattutto il
trattamento che deve essere riservato agli Stati stranieri, ai loro organi e ai loro cittadini (es.
gli Stati esteri non potranno essere sottoposti a giurisdizione per le loro attività iure imperii, e
dovranno essere accordati privilegi e immunità agli agenti diplomatici e alla sede della
missione diplomatica).
Il diritto internazionale consuetudinario e i trattati internazionali relativi alla protezione dei
diritti dell’uomo (ratificati dallo Stato) impongono limiti al potere d’imperio dello Stato circa il
trattamento dei propri cittadini; è dibattuto, inoltre, se esistano limiti alle attività dello Stato
per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali esistenti nel suo territorio o alle
attività industriali. Si è consolidato il principio per cui ‘non possono essere intraprese attività
suscettibili di arrecare danno al territorio altrui’; tuttavia, rimane incerto se è il diritto
consuetudinario che imponga un obbligo di non svolgere attività che possano arrecare
danno all’ambiente in quanto tale.
La Corte di giustizia ha fornito un parere a favore di questo obbligo, circa la minaccia e l’uso
delle armi nucleari, in cui si afferma che lo Stato territoriale non solo deve evitare di
effettuare azioni suscettibili di recare danno al territorio di altri Stati, ma ha anche l’obbligo di
astenersi dall attività che possano danneggiare aree non assoggettate ad alcun controllo
territoriale.
Il diritto di sovranità territoriale ha per oggetto il territorio in senso stretto, il mare territoriale e
lo spazio aereo sovrastante il territorio.Nelle aree adiacenti al mare territoriale, lo Stato
costiero non esercita alcun diritto di sovranità territoriale, ma solo poteri di natura funzionale
(zona contigua e zona archeologica) e diritti sovrani connessi allo sfruttamento delle risorse
naturali del suolo e del sottosuolo marino (piattaforma continentale) e delle risorse
biologiche (zona economica esclusiva).
La piattaforma continentale è un attributo necessario dello Stato costiero, la cui esistenza è
indipendente da una proclamazione ad hoc, zona contigua, zona archeologica e zona
economica esclusiva devono essere istituite dallo Stato costiero con apposita
proclamazione.
La sovranità sul territorio può essere indivisa ed essere esercitata congiuntamente da due o
più Stati, come nel caso del condominio. es.il Sudan è stato condominio anglo-egiziano; le
Nuove Ebridi condominio anglo-francese.
La figura del condominio potrebbe essere riesumata per dare una sistemazione a questioni
territoriali controverse, es. si è dibattuto circa la possibilità di sottoporre a condominio anglo-
spagnolo Gibilterra, attualmente sotto sovranità britannica contestata dalla Spagna.
Il dominio riservato:
A parte i limiti derivanti dal diritto internazionale consuetudinario o pattizio, lo Stato è libero
di assoggettare i rapporti che si svolgono all’interno del suo territorio alla disciplina che gli
conviene maggiormente. Si tratta di una sfera di competenza denominata “Dominio
riservato”. La Corte internazionale di giustizia ha affermato che il Dominio riservato ha per
oggetto tutte le materie in relazione alle quali il principio di sovranità degli Stato lascia ai
soggetti di diritto internazionale libertà di scelta; tra tali materie la Corte ha annoverato
anche la determinazione del sistema politico, economico, sociale e culturale e la
formulazione della politica estera, quindi gli ‘affari interni’ e gli ‘affari esterni’ dello Stato.
es. di materia che rientra nel dominio riservato: la forma di Stato e la forma di governo: il
diritto internazionale consuetudinario non può determinare se uno Stato debba essere
monarchico o repubblicano, oppure se debba avere una forma decentrata o accentrata. A tal
proposito la ris.265 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulle relazioni amichevoli
stabilisce che ogni Stato ha il diritto inalienabile di scegliere il proprio sistema politico,
economico, sociale e culturale, senza interferenza da parte di un altro Stato.
Il Dominio riservato ha un’importanza rilevante nelle Nazioni Unite e indica quelle materie di
esclusiva competenza statale, al riparo dall’ingerenza dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite. L’art.2 della Carta delle Nazioni Unite afferma che “nessuna disposizione della
presente Carta autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, nè obbliga i membri a sottoporre tali
questioni ad una procedura di regolamento in applicazione della presente Carta. Questo
principio non pregiudica l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo VII”.
Esistono 2 teorie principali per determinare la sfera di libertà dello Stato entro cui le Nazioni
Unite possono intervenire:
1. la ‘Teoria del Dominio riservato’ = secondo questa teoria, non fanno parte del
Dominio riservato le questioni che sono disciplinate dal diritto internazionale
consuetudinario o pattizio (purchè lo strumento convenzionale vincoli lo Stato il cui
dominio riservato viene in considerazione);
2. la seconda tesi restringe la sfera della competenza domestica e afferma che non
rientrino nel Dominio riservato le materie disciplinate dal diritto internazionale e le
materie che sono state oggetto di attenzione da parte delle Nazioni Unite con
l’adozione di risoluzioni di carattere generale. es. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo
In deroga a quanto affermato, le Nazioni Unite possono intervenire in una questione che
ricada nella competenze domestica di uno Stato, come nel caso della fattispecie del
consenso dell’avente diritto -> uno Stato può consentire che le Nazioni Unite intervengano
per controllare una competizione elettorale. L’art.2 della Carta delle Nazioni Unite afferma
che anche se una materia è ricompresa nel dominio riservato, le Nazioni Unite possono
disporre misure coercitive qualora la situazione domestica, ad es. una guerra civile, sia
qualificata dal Consiglio di sicurezza come una minaccia o come una violazione della pace.
Il Dominio riservato ha rilevanza anche circa le controversie che possono essere deferite
alla Corte internazionale di giustizia : molto spesso gli Stati, per escludere che la
controversia rientri nella competenza della Corte, eccepiscono che il suo oggetto rientra
nella loro competenza domestica. L’art.36 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia
consente di accettare unilateralmente la competenza della Corte per tutte le controversie
che abbiano per oggetto le questioni giuridiche menzionate, mentre le questioni che abbiano
per oggetto questioni che rientrano nel dominio riservato degli Stati sono implicitamente
escluse. Nonostante ciò, alcuni Stati hanno accettato la giurisdizione della Corte secondo
quanto sancito nel meccanismo dell’art.36 e hanno espressamente escluso le controversie
che ricadono nel dominio riservato.
es. gli Stati Uniti avevano formulato una riserva nel momento in cui avevano accettato la
competenza della Corte internazionale di giustizia, secondo cui restavano escluse dalla
competenza della Corte le questioni attinenti al dominio riservato, come determinato dagli
stessi Stati Uniti.
La frontiera:
La ‘frontiera’, o ‘confine dello Stato’, è la linea che delimita la sovranità statale. Essa viene
stabilita con 2 procedimenti:
1. la Delimitazione = con essa si precisano i limiti dell’ambito spaziale entro cui lo Stato
esercita la sovranità territoriale (mediante coordinate geografiche). La delimitazione,
di regola, è un atto bilaterale tra i due Stati confinanti che si concretizza nella
stipulazione di un trattato internazionale. Essa può avvenire mediante l’opera di un
tribunale internazionale nel caso di controversia tra i due Stati confinati -> es. la
delimitazione del confine tra Eritrea ed Etiopia è avvenuta mediante la decisione
arbitrale della Commissione confinaria neutrale del 13 Aprile 2002); la delimitazione
può avvenire anche in seguito ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite -> es. è il caso della delimitazione della frontiera tra Iraq e Kuwait,
dopo la fine della II guerra del Golfo (1991), quando venne istituita una Commissione
per la definizione dei confini dei due stati.
2. la Demarcazione = consistente nella trasposizione dei dati geografici sul terreno (es.
apposizione di cippi di frontiera, reti metalliche…)
Per quanto concerne la delimitazione delle aree marine, la Convenzione delle Nazioni Unite
sul diritto del mare del 1982 detta regole precise che sono da considerare dichiarative del
diritto internazionale consuetudinario.
Per il Mare territoriale = il criterio da seguire è quello della linea mediana: a norma dell’art.15
della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, ‘nessuno degli Stati che si
fronteggiano può, salvo contrario accordo, estendere il proprio mare territoriale al di là della
linea mediana, cioè al di là della linea i cui punti siano equidistanti dai punti più vicini della
linea di base’. Il criterio della linea mediana, tuttavia, non trova applicazione quando ‘in virtù
dell’esistenza di titoli storici o di altre circostanze speciali, è necessario delimitare
diversamente il mare territoriale dei due Stati’.
La delimitazione della zona contigua tra Stati adiacenti o frontieri = non è oggetto di una
disposizione ad hoc da parte della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare,
bensì si fa riferimento al criterio della linea mediana.
Per quanto riguarda la Piattaforma continentale = è stato abbandonato il criterio della linea
mediana, ed è stato adottato un criterio diverso sancito dall’art.83 della Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare, secondo cui la delimitazione deve effettuarsi mediante
accordo conformemente al diritto internazionale, al fine di pervenire ad una soluzione equa
(art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia). Tale disposizione (della
soluzione equa) potrebbe sembrare priva di contenuto pratico; in realtà, la regola della
soluzione equa viene applicata soprattutto quando gli Stati si rivolgono ad un arbitro o ad un
giudice (spesso si rivolgono alla Corte internazionale di giustizia) e in questi casi la
delimitazione avviene con lodo o con sentenza arbitrale. Anche quando la delimitazione
avviene mediante accordo, questo spesso rispecchia i principi stabiliti dalla giurisprudenza
internazionale in materia di delimitazione, che consentono di pervenire ad una equa
soluzione (es. individuazione delle circostanze rilevanti ai fini della delimitazione, come la
configurazione geografica della costa).
La Zona economica esclusiva di Stati adiacenti e frontisti = viene delimitata con gli stessi
criteri della piattaforma continentale.
Normalmente si ha una linea unica per la delimitazione della piattaforma continentale e della
zona economica esclusiva, ma possono essere concepite anche due linee diverse.
Bisogna ricordare che le controversie territoriali, incluse quelle circa la fissazione della
frontiera, non possono essere risolte mediante l’uso della forza.
I rapporti derivanti dalla contiguità territoriale vengono tradizionalmente ricompresi nella
categoria dei rapporti di vicinato, disciplinati mediante accordi internazionali.
Le servitù internazionali:
E’ dubbio se esistano in diritto internazionale delle servitù internazionali. In ogni caso, non si
può parlare di servitù prediali a causa della difficoltà di individuare un fondo servente e un
fondo dominante. Per poter supporre la loro esistenza si dovrebbe parlare piuttosto di
‘servitù personali’.
La prassi attesta comunque che attraverso un trattato, gli Stati possono imprimere vincoli ad
una parte del loro territorio, vincoli non meramente obbligatori, ma che hanno il carattere
della realità. La questione ha rilevanza nel caso di successione tra Stati, poiché i vincoli
assunti dallo Stato predecessore si trasmettono allo Stato successore in base al principio
‘res transit cum onere suo’.
Come esempio di servitù si può considerare l’art.7 del Trattato Laterano del 1929 tra l’Italia e
la Santa Sede, secondo cui lo Stato italiano non può erigere costruzioni che costituiscano
introspetto intorno al territorio dello Stato della Città del Vaticano; altre volte la servitù ha per
oggetto la costituzione di una zona franca -> es. di zona franca fu l’ ‘Affare Alta savoia e
Paese di Gex’, deciso con sentenza del 1932: i due territori originariamente facevano parte
del Regno di Sardegna, ma la frontiera doganale tra il Regno di Sardegna e la Svizzera era
arretrata rispetto a quella politica. Nel 1860 i due territori vennero trasferiti alla Francia, e la
Corte doveva quindi determinare se la Svizzera mantenesse nei confronti della Francia il
diritto che aveva avuto nei confronti del Regno di Sardegna. La Corte statuì che la Svizzera
aveva diritto al mantenimento del regime delle zone franche.
Anche il diritto di passaggio costituisce un classico esempio di servitù -> e fu affrontato dalla
Corte internazionale di giustizia nel caso del ‘diritto di passaggio in territorio indiano’ del
1960. Il Portogallo rivendicava il diritto di passaggio tra i suoi possedimenti sulla costa
indiana e i possedimenti enclaves, cioè quelli interamente circondati dal territorio dell’India.
La Corte ammise la sussistenza del diritto facendo riferimento non alla teoria della servitù
internazionale, ma all’accordo tacito e alla consuetudine bilaterale.
Un diritto di accesso al mare viene in considerazione per quegli Stati privi di litorale (land-
locked States) poiché vi è una consuetudine internazionale che accorda a tutti gli Stati il
diritto alla libertà di navigazione. Tuttavia, non esiste una consuetudine internazionale
secondo cui lo Stato che circonda il territorio dello Stato enclavé sia obbligato a concedere
un diritto di transito. Infatti, gli elementi ricavabili a tal proposito derivano dal diritto
convenzionale, in particolare l’art.125 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del
mare attribuisce agli Stati privi di litorale un diritto di accesso al mare, le cui modalità devono
però essere concordate con lo Stato costiero interessato.
Spesso le servitù hanno per oggetto territori smilitarizzati o neutralizzati: a differenza della
neutralità permanente e della neutralità in tempo di guerra, la neutralizzazione ha per
oggetto una parte del territorio statale. In caso di guerra, nel territorio soggetto a
neutralizzazione non devono essere compiute operazioni militari né dal sovrano territoriale,
né da terzi Stati.
Concettualmente, la neutralizzazione si distingue dalla smilitarizzazione:
- Neutralizzazione = essa comporta che la regione oggetto di neutralizzazione non
possa divenire luogo di guerra. La neutralizzazione non viene meno in tempo di
guerra, essendo stipulata in vista delle ostilità;
- Smilitarizzazione = essa comporta l’obbligo di non costruire fortificazioni militari o
l’obbligo di mantenere forze militari nella zona. La smilitarizzazione potrebbe essere
travolta dagli eventi bellici.
In linea di principio, potrebbe esserci una neutralizzazione senza smilitarizzazione, tuttavia i
due regimi sono spesso contemporaneamente presenti. Inoltre, per quanto le due nozioni
siano distinte, tendono a confondersi.
Un es. di neutralizzazione e smilitarizzazione contemporaneamente è dato dall’Arcipelago
dello Spitsbergen (o Svalbard): l’art.9 del trattato di Parigi del 9 Febbraio 1920 stabilisce che
‘ l’Arcipelago non dovrà essere mai utilizzato “dans un but de guerre”; inoltre, la Norvegia
(sovrana del territorio) si impegna a non erigere alcuna base navale, a non costruire alcuna
fortificazione e a non consentire ai terzi di farlo’.
Anche le vie d’acqua artificiali e gli stretti internazionali sono talvolta neutralizzati allo scopo
di escluderli dalle ostilità che potrebbero verificarsi in caso di conflitto armato. -> es. l’art.4
della Convenzione di Costantinopoli afferma che nel canale di Suez non può essere
esercitato alcun atto di ostilità, anche in caso di belligeranza dell’Egitto.; l’art.3 del trattato di
Hay-Pauncefote aveva neutralizzato il canale di Panama..
La neutralizzazione spesso non è immune dagli eventi bellici: ad es. la neutralizzazione del
Canale di Suez è stata ripetutamente violata durante le due guerre mondiali e durante i
conflitti tra Stati arabi e Israele.
Il Trattato di pace del 1947 aveva stabilito delle smilitarizzazioni a carico dell’Italia, piuttosto
onerose: Pantelleria, le isole Pelagie e Pianosa. Obblighi particolarmente intensi erano
stabiliti per quanto riguarda la possibilità di costruire installazioni militari e fortificazioni in
Sicilia e Sardegna, ma questi obblighi non sono più in vigore. L’8 Dicembre 1951 l’Italia inviò
ai 21 Stati parti del Trattato di pace una nota in cui si chiedeva l’abrogazione delle clausole
militari a suo carico: 15 Stati risposero positivamente, gli altri hanno successivamente
prestato acquiescenza.
Pertanto, l’Accordo integrativo del 1994 ha attenuato la rigidità del cd. ‘regime di
sfruttamento parallelo’ e ha fatto venire meno la posizione privilegiata dell’Impresa, con la
conseguenza che il sistema è maggiormente improntato sull’economia di mercato e non
risente più della filosofia dirigistica su cui si fondava la parte XI della Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare.
Ciononostante, gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite
sul diritto del mare e le opposizioni sono ancora forti nell’amministrazione USA. L’Impresa
non è stata ancora costituita, nonostante siano stati adottati tutti gli strumenti per la sua
creazione (nell’attesa le sue funzioni sono svolte dal Segretariato dell’Autorità).
L’Autorità ha stipulato una serie di contratti con Stati e consorzi di imprese che svolgono
soprattutto attività di ricerca (più che sfruttamento minerario) -> gli Stati che patrocinano le
imprese hanno l’obbligo di assicurare che queste si uniformino ai termini contrattuali e a tal
fine devono prendere tutte le misure legislative e amministrative necessarie.
[Esiste un vero e proprio ‘obbligo di due diligence’: l’Autorità è competente per le risorse
minerarie; le risorse biogenetiche giacenti sui fondi marini (che sono diventate d’interesse
per l’industria farmaceutica) non ricadono nella competenza dell’autorità. La disciplina delle
risorse biogenetiche dovrebbe ricadere nella competenza della Conferenza per
l’elaborazione di un Trattato sulla conservazione e uso sostenibile della diversità biologica
nelle aree oltre la giurisdizione nazionale.]
L’Antartide:
Lo strumento di base in materia di disciplina dei territori antartici e delle aree marittime
adiacenti è il Trattato di Washington del 1 Novembre 1959, entrato in vigore nel 1961.
Questo sancisce espressamente che “ l’Antartide deve essere usata esclusivamente per fini
pacifici”: ciò comporta il divieto di svolgere qualsiasi attività militare (es. divieto di stabilire
delle basi militari, costruzione di fortificazioni, conduzione di manovre ed esperimenti
militari); si vieta, inoltre, qualsiasi esplosione nucleare o il deposito di materiale radioattivo
(denuclearizzazione dell’Antartide).
E’ consentito l’impiego di personale o di materiale militare per la ricerca scientifica. L’art.2
del Trattato stabilisce il principio della libertà di ricerca scientifica in Antartide per tutti gli
Stati; l’art.4, invece, congela ogni pretesa di sovranità.
Vi sono alcuni Stati che non hanno ancora avanzato alcuna pretesa territoriale (come la
Federazione Russa e gli Stati Uniti), altri invece da tempo rivendicano la sovranità su
porzioni del continente antartico, fondando queste pretese sulla scoperta (come Francia e
Regno Unito) o sulla contiguità dei loro territori (come Cile e Argentina). L’art.4 congela
appunto queste pretese.
La ‘gestione’ del continente antartico è affidata al Comitato delle Parti Consultive, di cui sono
membri i 12 Stati che hanno negoziato il Trattato e gli Stati che hanno conseguito lo status di
Parte Consultiva successivamente. Per acquisire lo status di Parte Consultiva occorre avere
ratificato il Trattato, aver svolto una sostanziale ‘attività di ricerca scientifica nel continente
antartico’, in particolare stabilendo basi o effettuando spedizioni scientifiche.
Il giudizio circa la sussistenza di questo presupposto è rimesso alle Parti Consultive stesse,
così che l’accesso al ‘club’ delle Parti Consultive avviene per cooptazione; l’Italia ha
conseguito questo status nel 1987.
Per cui: gli Stati parti del Trattato di Washington si dividono in ‘Parti Consultive’ e ‘Parti non
consultive’:
- le Parti Consultive si riuniscono ad intervalli regolari e adottano atti da indirizzare ai
propri governi. Tali atti assumono la denominazione di misure, risoluzioni e decisioni:
le misure, approvate all’unanimità, sono vincolanti; risoluzioni e decisioni hanno
natura di raccomandazioni e sono approvate per consensus.
Oltre che il Trattato di Washington, la cui sfera di applicazione ricopre anche i mari adiacenti
a sud del 60° di latitudine sud, bisogna aggiungere i Trattati negoziati successivamente nel
quadro del regime antartico, ossia: la ‘Convenzione sulla protezione della foca antartica’ e la
‘Convenzione sulla conservazione della flora e della fauna marina dell’Antartico’.
Quest’ultima convenzione è particolarmente importante per lo sfruttamento ottimale delle
risorse biologiche, soprattutto del krill (un piccolo crostaceo tipico delle acque polari), la cui
pesca indiscriminata avrebbe finito per arrecare gravi danni all’ecosistema antartico.
Il 2 Giugno 1988 è stato adottato a Wellington, in Nuova Zelanda, un trattato per la disciplina
delle attività minerarie antartiche: infatti, l’Antartide contiene notevoli quantità di rame,
carbone, oro e argento. Così, gli Stati avevano voluto prevenire una corsa indiscriminata allo
sfruttamento dell’Antartide, indirizzando le future attività minerarie verso un sistema di
garanzia sia per gli investitori, sia per la comunità internazionale. A questo proposito, i
negoziatori della Convenzione avevano voluto soprattutto assicurare la tutela dell’ambiente
antartico da possibili forme di inquinamento.
In particolare, l’art.4 della Convenzione afferma che “nessuna attività mineraria in Antartide
avrebbe potuto essere intrapresa finché non si fosse stabilito con certezza che tale attività
non avrebbe determinato effetti pregiudizievoli sull’ambiente antartico”.
Tuttavia, alcuni Stati non approvarono quanto stabilito a Wellington: essi avrebbero preferito
che l’Antartide fosse completamente sottratta ad ogni attività mineraria e divenisse parco
mondiale; altri Stati ancora avrebbero voluto dichiarare l’Antartide patrimonio comune
dell’umanità (questo principio è difficilmente applicabile all’Antartide, che è oggetto di
pretese di sovranità).
Il Trattato di Wellington tuttavia non entrò mai in vigore, infatti finirono per prevalere le
opinioni degli Stati contrari allo sfruttamento minerario e le opinioni delle organizzazioni
ambientaliste.
Nel 1991 è stato concluso un Protocollo sulla protezione dell’ambiente antartico, entrato in
vigore nel 1998: tale Protocollo dichiara l’Antartide “una riserva naturale, votata alla pace e
alla scienza” e contiene una serie di disposizioni ispirate alla tutela dell’ambiente.
L’art.7 del Protocollo proibisce ogni attività mineraria in Antartide = si tratta però di una
moratoria, poiché dopo 50 anni dall’entrata in vigore del Protocollo ogni Parte Consultiva
potrà chiedere la convocazione di una conferenza per il riesame del protocollo. Se si
otterranno maggioranze pari a ¾ si potranno avere disposizioni volte a consentire lo
sfruttamento minerario. Eventualmente, queste disposizioni dovranno stabilire un regime
giuridicamente vincolante ed essere quindi ratificate dagli Stati seguendo quanto stabilito nel
Protocollo.
Sono parte integrante del Protocollo 4 annessi; ulteriori annessi possono essere adottati allo
scopo di far fronte a nuove necessità ambientali. In totale sono stati stipulati 6 annessi.
Il sistema antartico sta evolvendo verso una progressiva istituzionalizzazione; nel 2003 è
stato istituito un Segretariato del Trattato antartico.
L’Artico:
A differenza dell’Antartide (polo sud), il Polo Nord non è composto da terre emerse ma solo
da acque marine ricoperte da ghiacci, che si stanno riducendo a causa del ‘riscaldamento
globale’. Le acque dell’Artico adiacenti agli Stati costieri sono assoggettate al regime del
mare territoriale, mentre le zone di mare al di là del limite esterno del mare territoriale sono
soggette al principio della libertà dell’alto mare.
Sono da respingere le pretese di alcuni Stati costieri (come la Federazione Russa e il
Canada) volte a rivendicare la sovranità su porzioni di mare adiacenti alle loro acque
territoriali.
La piattaforma continentale artica, ricca di petrolio e gas naturale, è soggetta ai diritti di
sfruttamento esclusivo degli Stati costieri e sulle acque sovrastanti la piattaforma lo Stato
costiero ha il diritto di istituire una zona economica esclusiva: il 15 Settembre 2010 Norvegia
e Russia hanno concluso un accordo per la delimitazione delle rispettive piattaforme
continentali e zone economiche esclusive.
Le terre emerse site nell’Oceano Artico sono soggette al diritto di sovranità territoriale, non
esistendo più territori nullius neppure nell’Artico ->es. l’Arcipelago dello Svalbard è sotto
sovranità norvegese.
Nel 1996 è stato costituito il Consiglio Artico di cui fanno parte gli 8 Stati che si affacciano
sull’Artico, storicamente attivi nella regione (quali Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda,
Norvegia, Federazione Russa, Svezia, Stati Uniti). Il Consiglio costituisce un foro di
consultazione. Agli Stati attivi nella regione o a quello che aspirano a divenirlo può essere
concesso lo status di ‘osservatore permanente’: l’Italia ha acquisito tale status nel 2013.
La governance dell’Artico è quindi assicurata da un sistema di ‘soft law’ piuttosto chiuso.
Nel 2011 è stata stipulata una Convenzione su ricerca e salvataggio, entrata in vigore nel
2013; nel 2017 è entrato in vigore il Polar Code, che richiede determinati requisiti di
costruzione ed equipaggiamento per la navigazione polare.
Cap. 5: La successione internazionale tra Stati
L’assetto territoriale di una comunità statale può subire mutamenti, che incidono sulla
personalità internazionale dello Stato e danno luogo alla nascita di nuovi soggetti di diritto
internazionale o all’accrescimento territoriale di nuovi Stati, talvolta a seguito dell’estinzione
dello Stato preesistente.
Viene denominato ‘Stato successore’ il nuovo Stato o lo Stato che accresce il proprio
territorio a spese di un altro; viene denominato ‘Stato predecessore’ lo Stato che si estingue
o che subisce una diminuzione territoriale.
Si possono verificare i seguenti fenomeni:
- nascita di uno o più Stati su una parte del territorio dello Stato predecessore (cd.
secessione); -> es. gli Stati nati dal processo di decolonizzazione in Asia e Africa,
nonché Stati come il Bangladesh seceduto dal Pakistan.
- nascita di più Stati sull’intero territorio appartenente allo Stato predecessore con
conseguente estinzione di quest’ultimo Stato predecessore (cd. smembramento,
dissoluzione o frazionamento estintivo); -> es. la Cecoslovacchia, che si è estinta
dando luogo a due Stati: Repubblica Ceca e Slovacchia.
Talvolta è difficile stabilire se si è in presenza di smembramento con conseguente
estinzione dello Stato preesistente o se questi continui nel tempo, anche privo di una
parte del suo territorio.
-> sul territori della Repubblica federale socialista di Iugoslavia si sono costituiti più
Stati, ma uno di questi, cioè la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia-
Montenegro) ha preteso per un certo periodo di essere la continuazione della
vecchia Repubblica federale. Tale pretesa è stata successivamente abbandonata.
Per cui, lo smembramento e la nascita di nuovi Stati hanno avuto come conseguenza
l’estinzione della Federazione Iugoslava.
- incorporazione di uno Stato da parte di un altro Stato (cd. incorporazione);
- trasferimento di una parte del territorio dallo Stato predecessore allo Stato
successore (cd. cessione);
- fusione di due o più Stati nell’ambito di un nuovo Stato con conseguente estinzione
degli Stati predecessori (cd. fusione).
Tali mutamenti territoriali, cioè la sostituzione di uno Stato nella sovranità di un territorio
appartenente ad un altro Stato (cd. ‘successione in fatto’) danno luogo al “fenomeno
successorio”. Occorre determinare se i rapporti giuridici facenti capo allo Stato predecessore
si trasmettono allo Stato successore (cd. ‘successione giuridica’).
Fattispecie che vanno distinte dalla successione sono:
- un mutamento rivoluzionario di regime : esso non estingue la personalità
internazionale dello Stato, con la conseguenza che il nuovo governo sorto dopo la
rivoluzione dovrà adempiere gli obblighi facenti capo al vecchio regime e sarà titolare
dei relativi diritti ->es. la rivoluzione russa dette luogo all’Unione Sovietica, la cui
personalità internazionale fu considerata identica a quella della Russia imperiale.
- l’anarchia non dà luogo ad un fenomeno successorio : essa non estingue lo Stato nel
senso del diritto internazionale (questione del failed States).
- è da escludere la successione per lo Stato protetto, dopo l’estinzione del vincolo del
protettorato (la questione potrebbe riguardare solo l’estinzione dei trattati stipulati
dallo Stato protettore per conto dello Stato protetto, per effetto della clausola ‘rebus
sic stantibus’).
- gli Stati risorti dovrebbero essere esaminati nel quadro della secessione -> es. le tre
Repubbliche baltiche dovrebbero essere considerate come nuovi Stati nati per
secessione dall’Unione Sovietica, anche se la prassi attesta che essere abbiano
preteso e siano state trattate come Stati identici a quelli esistenti prima
dell’incorporazione.
- l’occupatio bellica non dà luogo al fenomeno successorio, poiché non comporta
alcun mutamento di sovranità.
Per quanto riguarda i trattati multilaterali, la prassi ha condotto alla nascita di una
consuetudine internazionale secondo cui il nuovo Stato, pur non subentrando
automaticamente nel trattato multilaterale che trovava applicazione nel territorio oggetto del
mutamento di sovranità, ha il diritto di divenire parte mediante una dichiarazione di continuità
o mediante una notificazione di successione. La dichiarazione o la notificazione
retroagiscono al momento della nascita del nuovo Stato, quindi ha effetti ex tunc (l’adesione
invece ha efficacia ex nunc). Ciò tuttavia non è possibile per i trattati multilaterali ristretti, che
hanno un’alta valenza politica (es. un trattato di alleanza militare); non è altresì possibile per
i trattati istitutivi di un’organizzazione internazionale: in questo caso, affinché lo Stato possa
essere ammesso, esso deve seguire la procedura di ammissione. Solo nel caso di fusione,
quando i due Stati predecessori sono stati entrambi membri dell’organizzazione, ha luogo
una procedura di ammissione semplificata.
I trattati in materia di disarmo, controllo degli armamenti e quelli riguardanti la difesa in
generale, non sono sottoposti ad un regime particolare; quindi non si trasmettono al
successore, tranne quelli di natura localizzata-> es. un trattato che obbliga alla
smilitarizzazione di un determinato territorio.
Nonostante ciò, si ritiene che è interesse della comunità internazionale e degli Stati parti
estendere il regime istituito dal trattato ai successori -> es. con l’Accordo di Alma Ata,
Bielorussia e Ucraina, che avevano sul loro territorio ingenti quantitativi di armi nucleari, si
impegnarono ad aderire al ‘Trattato di non proliferazione nucleare’ (TNP) come Stati non
nucleari, cioè come stati obbligati a non detenere armi nucleari. Le armi nucleari così furono
trasferite alla Federazione Russa. In tal modo, tutti gli Stati successori dell’Unione Sovietica
hanno aderito al TNP. Si è preferito ricorrere all’adesione piuttosto che alla dichiarazione di
successione, poiché occorreva attestare che il nuovo Stato, nonostante fosse successore di
uno Stato nucleare, diveniva parte del TNP come Stato non nucleare. Mentre per i trattati sul
disarmo, gli Stati successori dell’Unione Sovietica hanno effettuato una dichiarazione di
successione.
Per quanto concerne la Cessione e l’Incorporazione si applica il ‘principio della mobilità delle
frontiere dei trattati’ : i trattati stipulati dallo Stato successore si applicano ai territori acquisiti
mediante incorporazione o cessione; conseguentemente, si restringe la sfera di applicazione
territoriale dei trattati dello Stato predecessore in caso di cessione.
Sia nel caso di cessione, che nel caso di incorporazione, i trattati del predecessore non si
trasmettono al successore, a meno che si tratti di trattati istitutivi di vincoli localizzati al
territorio oggetto del mutamento di sovranità.
Per quanto riguarda gli Accordi di devoluzione: un Accordo di devoluzione produce obblighi
e diritti solo nei rapporti tra Stato predecessore e Stato successore (l’accordo di devoluzione
non può produrre una successione automatica nei rapporti giuridici del predecessore, poiché
questo accordo è per i terzi ‘res inter alios acta’, cioè ‘cioè che è stato negoziato da alcuni
non nuoce e non giova ad altri’). Lo Stato successore è obbligato nei confronti del
predecessore a seguire l’attività necessaria per subentrare negli accordi applicati nel
territorio oggetto del mutamento di sovranità; pertanto, il successore dovrà proporre al
predecessore di concludere una novazione per poter subentrare nei trattati stipulati tra terzo
e predecessore.
Per quanto riguarda i trattati multilaterali, il successore dovrà effettuare una notifica di
successione che gli consentirà di divenire parte di questi trattati ex tunc.
Un problema successorio si pone per i nuovi Stati sorti sul territorio oggetto del mutamento
di sovranità e per gli Stati cessionari il cui territorio si è ampliato in seguito al mutamento di
sovranità -> è il caso dell’Unione Sovietica dopo la secessione delle repubbliche asiatiche.
La Federazione Russa è identica all’Unione Sovietica, di cui continua (con un nome diverso)
la personalità internazionale. Le repubbliche asiatiche sono invece nuovi Stati indipendenti,
per cui si è posto un problema di successione nei trattati stipulati dall’Unione Sovietica.
L’art.15 della Convenzione di Vienna contiene una disposizione di favore verso gli Stati nati
dal processo di decolonizzazione, attribuendo al nuovo Stato i beni immobili siti nel territorio
oggetto di mutamento di sovranità e i beni mobili connessi con l’attività del predecessore in
quel territorio, ma anche le proprietà acquisite con il contributo del territorio su cui si è
costituito lo Stato indipendente. Ciò vale anche per i beni mobili di proprietà del
predecessore, ma appartenenti al territorio oggetto del mutamento di sovranità (es. oggetti
che si trovano nei musei del predecessore).
Tuttavia, queste regole sono di difficile applicazione e non costituiscono codificazione del
diritto internazionale consuetudinario, infatti la loro presenza nella Convenzione è uno dei
principali motivi che ha indotto gli Stati preesistenti a non ratificarla.
Inoltre, in caso di smembramento è difficile determinare a quale dei successori spettino le
proprietà all’estero del predecessore: la questione può essere risolta solo attraverso un
accordo tra gli Stati interessati.
Incerta è anche la sorte dei beni appartenenti a Stati terzi o a stranieri e situati nel territorio
oggetto della successione. L’art.12 della Convenzione del 1983 stabilisce che i beni
appartenenti a Stati terzi non sono pregiudicati dal mutamento di sovranità. Alcuni affermano
che questa regola dovrebbe servire da guida anche per stabilire la sorte dei beni di cui siano
proprietari i cittadini stranieri, con la conseguenza che lo Stato successore dovrebbe
corrispondere loro un indennizzo nel caso in cui intenda disconoscere i diritti di proprietà.
Vi sono controversie per quanto riguarda la sorte del debito pubblico dello Stato
predecessore: la regola tradizionale è quella per cui i debiti localizzati sono trasferiti allo
Stato successore. Non vengono trasmessi allo Stato successore, invece, i cd. debiti odiosi,
come ad es. quelli contratti dallo Stato predecessore per condurre una guerra di
aggressione. Gli altri debiti, cd. debito generale, continuano a far capo al predecessore nel
caso in cui questo, nonostante la successione, non cessa di esistere.
In caso di estinzione del predecessore per smembramento o incorporazione è difficile
stabilire se i debiti si estinguano oppure si trasmettano al successore. La dottrina è divisa in
questo punto: alcuni propendono per il principio di continuità del debito, altri no. -> es. la
Repubblica federale tedesca si è rifiutata di succedere nel debito della Repubblica
democratica tedesca.
In caso di smembramento e di nascita di due o più Stati successori, la Convenzione di
Vienna si pronuncia a favore del principio di trasmissibilità in proporzioni eque: si tiene conto
dei vantaggi dello Stato successore in termini di proprietà, diritti e interessi del
predecessore. Tuttavia vi sono dei dubbi circa l’appartenenza di questa regola al diritto
internazionale.
Per quanto concerne gli archivi di Stato, la Convenzione di Vienna stabilisce il ‘principio di
territorialità’, salvo diversa volontà delle parti. Quindi, in caso di cessione, gli archivi relativi
all’amministrazione del territorio ceduto saranno trasferiti al successore. Tale principio vale
anche per lo Stato di nuova indipendenza costituito sul territorio dello Stato predecessore, e
anche in caso di smembramento; per gli archivi che non hanno una connessione diretta con
il territorio degli Stati nati dallo smembramento vale il principio dell’equa ripartizione.
Il mare territoriale:
La sovranità di ogni Stato costiero si estende ad una zona di mare adiacente alle sue coste
(quindi al di là del suo territorio e delle sue acque interne), denominata ‘mare territoriale’.
Parimenti sono soggetti alla sovranità dello Stato costiero anche lo spazio aereo che
sovrasta il mare territoriale e il relativo letto e sottosuolo marino.
[Anche le isole hanno un proprio mare territoriale. Per isola si intende una distesa di terra di
formazione naturale, circondata da acqua, e che resta scoperta ad alta marea].
Il mare territoriale ha un limite interno e un limite esterno:
- Limite interno del mare territoriale = si procede alla misurazione del mare territoriale
e si determina il limite interno attraverso la fissazione delle linee di base.
La linea di base normale è la linea di costa a bassa marea ed è la linea da utilizzare
come punto di partenza per la misurazione del mare territoriale.
Nel caso in cui la costa sia profondamente frastagliata o indentata, lo Stato costiero
può congiungere con una serie di linee ideali i punti più sporgenti della costa (cd.
‘sistema delle linee rette’). Il sistema delle linee rette può essere impiegato non solo
nel caso in cui la costa sia molto frastagliata, ma anche nel caso in cui essa sia
piatta, purché in quest’ultima ipotesi esista un gruppo di isole nell’immediata
vicinanza della costa (art.7 della Convenzione del diritto del mare). -> figure pag.113.
Il diritto internazionale non pone un limite preciso sulla lunghezza della retta, ma
detta solo alcuni criteri volti a limitare la discrezionalità dello Stato costiero:
- il tracciato delle linee non deve discostarsi molto dalla direzione generale
della costa;
- gli spazi marini situati all’interno delle linee rette devono essere
sufficientemente collegati al dominio terrestre da poter essere sottoposti al
regime delle acque interne.
- Limite esterno del mare territoriale = è determinato dallo Stato costiero entro un
limite massimo previsto dal diritto internazionale. A differenza della Convenzione di
Ginevra del 1958 che non prevedeva nulla a proposito, la Convenzione del 1982
prevede che l’ampiezza di questa zona marina non possa eccedere le 12 miglia.
Il criterio delle 12 miglia si ritiene ormai acquisito nel diritto consuetudinario ed è
stato adottato anche da Stati che erano restrittivi nel fissare l’ampiezza del mare
territoriale (come Regno Unito e Stati Uniti).
La sovranità dello Stato costiero incontra dei limiti, che sono costituiti dal passaggio
inoffensivo e dalla giurisdizione civile e penale sulle navi in transito. [per passaggio si
intende il fatto di navigare nel mare territoriale per attraversarlo, senza toccare le acque
interne]. L’accesso alle acque interne dello Stato è subordinato al consenso dello Stato
costiero stesso.
Il passaggio deve essere continuo e rapido: esso non comprende una facoltà di sosta o di
ancoraggio, tranne che questi costituiscano eventi ordinari di navigazione (come ad es. una
breve sosta per aggiustare il carico) oppure siano resi necessari da forze maggiori (come
pericoli o dalla necessità di prestare soccorso a persone o ad altre navi).
Il passaggio è da ritenere “inoffensivo” quando, ai sensi dell’art.19 della Convenzione del
diritto del mare, ‘non arrechi pregiudizio alla pace,al buon ordine e alla sicurezza dello Stato
costiero”; tale norma elenca una serie di attività che se poste in essere dalla nave straniera
nel mare territoriale, rendono il passaggio pregiudizievole alla pace, al buon ordine e alla
sicurezza dello Stato costiero e dunque offensivo (es. esercitazioni e manovre con armi).
Una questione riguarda se il diritto di passaggio inoffensivo spetti solo alle navi mercantili o
se spetti anche alle navi da guerra: un’interpretazione sistematica delle Convenzioni del
1958 e del 1982 conduce ad ammettere che le norme convenzionali consentano il
passaggio inoffensivo ad ambedue le categorie di navi.
Un pensiero favorevole al passaggio delle navi da guerra proviene soprattutto dagli Stati
occidentali; ma le numerose legislazioni del terzo mondo continuano a subordinare il
passaggio delle navi da guerra alla previa autorizzazione dello Stato costiero oppure alla
sua notifica anticipata.
Le navi in passaggio inoffensivo hanno l’obbligo di rispettare le leggi e i regolamenti dello
Stato costiero, soprattutto in materia di sicurezza della navigazione e prevenzione
dell’inquinamento.
I sommergibili devono navigare in emersione e mostrare la bandiera.
Non esiste un diritto di sorvolo del mare territoriale: questo è ammissibile solo se consentito
dallo Stato costiero.
Lo Stato costiero può sospendere il diritto di passaggio inoffensivo nel mare territoriale,
purché la sospensione sia essenziale per la sicurezza dello Stato costiero stesso; inoltre, la
sospensione deve avere carattere temporaneo, non deve essere discriminatoria e deve
riguardare specifiche aree del mare territoriale.
La giurisdizione civile e penale non può essere esercitata sulle navi da guerra, poiché esse
godono di immunità completa dalla giurisdizione.
Per quanto concerne le navi mercantili, la consuetudine internazionale accorda l’esenzione
della nave straniera in passaggio dalla giurisdizione penale dello Stato costiero per quanto
riguarda i ‘fatti interni’, cioè per quegli avvenimento che riguardano strettamente la vita della
nave e non hanno ripercussioni sul mondo esterno. Viceversa, l’esercizio della giurisdizione
penale da parte dello Stato costiero risulta ammesso quando si tratta di fatti che turbano la
tranquillità e il buon ordine dello Stato costiero e del mare territoriale.
L’art.27 della Convenzione del 1982 stabilisce che “lo Stato costiero non dovrebbe (should
not: condizionale) esercitare la propria giurisdizione penale per procedere all’arresto di
persona a bordo o ad atti di istruzione, su nave straniera in passaggio nel mare territoriale
ed in relazione ad un reato commesso a bordo della nave di passaggio, tranne in ipotesi ben
determinate che presuppongono un collegamento tra il crimine e la terraferma o il consenso
dello Stato della bandiera o misure necessarie per combattere il traffico di stupefacenti”.
Per quanto concerne l’esercizio della giurisdizione civile sulle navi mercantili in passaggio
nel mare territoriale, l’art.28 della Convenzione del 1982 stabilisce che “lo Stato costiero non
dovrebbe arrestare o dirottare una nave mercantile straniera in passaggio nel mare
territoriale per esercitare la giurisdizione civile nei confronti di una persona che si trovi a
bordo” (l’uso del condizionale in entrambe le norme finisce per stemperare il carattere
vincolante della norma).
La Convenzione del 1982 impone allo Stato costiero il dovere di non adottare misure
esecutive o conservative sulla nave in passaggio, tranne che non si tratti di misure prese in
riferimento ad obbligazioni assunte dalla nave nel corso, o in vista, del passaggio nel mare
territoriale.
Le aree marine poste all’interno della linea di base, cioè quelle aree che guardano la
terraferma, sono acque interne e sono assimilate al territorio dello Stato: in esse non vige il
diritto di passaggio inoffensivo.
Per evitare che il sistema delle linee rette possa nuocere sui traffici marittimi, l’art.8 della
Convenzione del 1982 detta un’eccezione a tale regola, stabilendo che “nelle acque che
prima della chiusura erano assoggettate al regime delle acque territoriali o dell’alto mare,
continua a vigere il diritto di passaggio inoffensivo”.
Le baie:
Le baie sono insenature che penetrano profondamente nella costa.
Gli Stati hanno sempre cercato di chiudere le baie con una o più linee rette, per questioni di
sicurezza; il diritto internazionale ha tenuto conto di questa esigenza e ha accordato allo
Stato costiero il diritto di chiudere la baia, purché essa non sia una mera incurvatura della
costa, ma una baia in senso giuridico.
Affinché la baia possa essere considerata tale ‘in senso giuridico’, l’insenatura deve
racchiudere una superficie di acque uguale o superiore a quella di un semicerchio avente
per diametro la linea tracciata tra i punti di ingresso della baia (cd. regola del semicerchio). -
> figura pag.117.
Le baie in senso giuridico possono essere chiuse solo se la distanza tra i punti di ingresso
non superi le 24 miglia; nel caso in cui la distanza sia maggiore, gli Stati sono autorizzati a
tirare una linea retta di 24 miglia marine all’interno della baia, in modo da racchiudere una
superficie di acque più ampia possibile.
Bisogna tenere presente che per la chiusura delle baie, non è rilevante la conformazione
della costa: esse possono essere chiuse anche qualora siano incuneate in una costa piatta.
Il regime delle baie giuridiche, così come predisposto dalla Convenzione delle Nazioni Unite
sul diritto del mare, si applica alle baie incuneate nella costa di un solo Stato.
Particolari problemi (non risolti dalla Convenzione) possono sorgere quando, a seguito di un
mutamento territoriale, la baia si trovi ad essere soggetta alla sovranità di due o più Stati:
secondo alcuni la baia non sarebbe più sottoposta al regime delle baie giuridiche; altri,
invece, hanno espresso un’opinione contraria fondata sul presupposto che esista ormai una
regola consuetudinaria applicabile sia alle baie giuridiche che alle baie storiche appartenenti
a due o più Stati.
Una disciplina particolare vige per le ‘baie storiche’: esse possono essere chiuse anche
qualora non soddisfino il criterio del semicerchio ed indipendentemente dalla loro ampiezza.
Affinché una baia possa essere definita ‘baia storica’ bisogna verificare la sussistenza di due
elementi:
1. un prolungato esercizio di diritti di sovranità sulle acque della baia da parte dello
Stato costiero;
2. l’acquiescenza (=accettazione o meno) degli altri Stati.
es. di baie storiche sono le baie di Chesapeake e di Delaware (negli Stati Uniti) e del
Varanger Fjord (Norvegia).
Il Golfo di Taranto è stato dichiarato baia storica nel dpr. 26 Aprile 1977 n.816.
Non ha alcun fondamento giuridico la teoria delle baie vitali, che non possono essere
considerate né baie giuridiche, né baie storiche, ma la cui chiusura è dovuta ad esigenze di
sicurezza dello Stato costiero.
Una novità assoluta della Convenzione del diritto del mare è la possibilità, riconosciuta
dall’art.303, di istituire una ‘zona archeologica’ sul fondo marino adiacente alla costa. La
zona archeologica = può avere un’estensione di 24 miglia dalle linee di base. In particolare,
si prevede che lo Stato costiero, al fine di controllare il commercio degli oggetti archeologici
o storici, può presumere che la rimozione di questi oggetti dalla zona archeologica senza la
sua approvazione si concretizzi in una violazione delle sue leggi e dei suoi regolamenti.
Allo Stato costiero così vengono riconosciuti diritti speciali di controllo e giurisdizione in
ordine alla rimozione di oggetti di valore archeologico e storico oltre il mare territoriale e sino
ad una distanza di 24 miglia dalle linee di base. Tuttavia, la norma che disciplina la zona
archeologica non dà informazioni circa i diritti dei proprietari identificabili, le regole in materia
di salvataggio e altre regole del diritto marittimo.
Per quanto riguarda l’Italia, in assenza di una formale proclamazione di una zona
archeologica, occorre innanzitutto fare riferimento all’art.94 della ‘Convenzione dei beni
culturali e del paesaggio’ che stabilisce la tutela degli oggetti archeologici e storici rinvenuti
nei fondali della zona di mare oltre le 12 miglia a partire dal limite esterno del mare
territoriale, in conformità alla Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio culturale
subacqueo del 2 Novembre 2001.
La tutela dei beni sommersi è affidata all’art.2 l.8 Febbraio 2006 n.61, istitutiva di zone di
protezione ecologica. Le zone ecologiche italiane hanno un’estensione più ampia della zona
archeologica. La tutela del patrimonio sommerso doveva essere intesa come confinata ad
una distanza di 24 miglia dalla linea di base.
La piattaforma continentale:
Una norma di diritto internazionale consuetudinario formatasi nel XX secolo, attribuisce allo
Stato Costiero diritti sovrani per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse naturali, sulle
zone del fondo e del sottosuolo marino facenti parte della piattaforma continentale.
Alcuni Stati dell’America Latina rivendicarono diritti esclusivi sulla piattaforma continentale e
sulla colonna d’acqua sovrastante; tuttavia, queste pretese non furono accolte dalla
comunità internazionale. L’istituto della piattaforma continentale fu oggetto di riconoscimento
nella I Conferenza sul diritto del mare del 1958, che portò alla conclusione della
Convenzione di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale.
Quest’ultima Convenzione riconosce allo Stato costiero diritti sovrani sulla piattaforma
continentale relativamente alla esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali della
stessa.
(Per risorse naturali = si intendono sia le risorse minerarie che le risorse biologiche
sedentarie, cioè gli organismi che rimangono immobili sulla piattaforma o che si spostano
rimanendo costantemente in contatto col fondo marino).
I diritti dello Stato costiero sulla piattaforma continentale sono esclusivi, nel senso che
nessuno può svolgere attività di esplorazione o sfruttamento senza autorizzazione da parte
dello Stato costiero stesso.
I diritti dello Stato costiero non pregiudicano lo status giuridico delle acque sovrastanti la
piattaforma, che invece rimangono soggette al regime dell’alto mare; non pregiudicano lo
status dello spazio aereo sovrastante le acque. Conseguentemente si ha che le attività di
esplorazione o sfruttamento della piattaforma (intraprese dallo Stato costiero o sotto sua
autorizzazione) non devono comportare una ingiustificabile interferenza con la navigazione e
la pesca libera.
Agli Stati terzi è riconosciuto il diritto di collocare sulla piattaforma continentale cavi (es. cavi
telefonici o telegrafici) e condotte (es. oleodotti, gasdotti) sotto riserva dello Stato costiero di
prendere le misure ragionevoli per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse della
piattaforma e per la prevenzione, riduzione e controllo dell’inquinamento da condotte.
La Convenzione del 1982 prevede espressamente che il tracciato delle condotte sulla
piattaforma continentale sia subordinato al consenso dello Stato costiero.
Per quanto concerne la delimitazione della piattaforma continentale in senso giuridico, il
limite interno coincide con il confine esterno del mare territoriale. Più complessa è la
definizione del limite esterno: la Convenzione di Ginevra del 1958 pone due criteri alternativi:
1. secondo un primo criterio, di carattere batimetrico, la piattaforma continentale si
estende verso il largo fino al punto in cui la profondità delle acque si mantiene a 200
metri.
2. Vi è anche la possibilità di un’estensione dei diritti esclusivi dello Stato costiero oltre il
limite batimetrico dei 200 metri, ed in particolare, secondo il criterio di sfruttabilità,
fino al punto in cui la profondità delle acque sovrastanti consente lo sfruttamento
delle risorse naturali del suolo e del sottosuolo marino.
La previsione del criterio di sfruttabilità apre diverse incertezze ai fini
dell’individuazione del limite esterno della piattaforma continentale: tale criterio
consente che, man mano che progrediscono le capacità tecnologiche dello Stato
costiero, una corrispondente estensione delle zone marine comprese nella nozione
giuridica di piattaforma continentale, e dunque soggette ai diritti sovrano dello Stato
costiero stesso. Si è discusso se tale possibilità dovesse ritenersi circoscritta solo
alle aree marine corrispondenti alla piattaforma continentale in senso geologico, o se
il criterio della sfruttabilità consentisse una illimitata estensione dei diritti dello Stato
costiero fino ad investire gli abissi oceanici.
La questione del limite esterno della piattaforma continentale è stata completamente
ridefinita dalla III Conferenza sul diritto del mare.
Secondo la Convenzione del 1982, la piattaforma di uno Stato costiero comprende i fondi
marini e il relativo sottosuolo al di là delle sue acque territoriali, fino a 200 miglia marine dalla
linea di base a partire dalla quale è misurato il mare territoriale.
La Convenzione del 1982, quindi, prevede che indipendentemente da ogni considerazione di
carattere geologico, la piattaforma continentale abbia comunque un’estensione minima di
200 miglia marine a partire dalla linea di base. Questa distanza potrà essere superata
qualora lo Stato costiero abbia una piattaforma continentale più estesa (in senso geologico) :
in questo caso, il limite esterno verrà a coincidere con il bordo del margine continentale,
purché non si superi il limite massimo di 350 miglia dalle linee di base oppure di 100 miglia
dall’isobata dei 2500 metri.
Secondo l’art.76 della Convenzione del 1982 “il margine continentale comprende il
prolungamento sommerso dalla massa terrestre dello Stato costiero; consiste nel fondo
marino e nel sottosuolo della piattaforma, del pendio e della risalita”.
Il margine continentale, invece, non comprende gli alti fondali oceanici o le loro dorsali
oceaniche, né il sottosuolo. Il limite esterno della piattaforma, qualora essa superi le 200
miglia, viene definito in concorso con la Commissione sui limiti della piattaforma
continentale.
In caso di sfruttamento della piattaforma continentale oltre le 200 miglia, il diritto esclusivo
dello Stato costiero subisce una importante limitazione: lo Stato costiero è tenuto a versare
un contributo in denaro o in natura, calcolato in percentuale dei benefici ricavati dallo
sfruttamento, all’Autorità dei fondi marini che dovrà provvedere ad un’equa distribuzione dei
contributi raccolti agli Stati parte della Convenzione, tenendo conto degli interessi degli Stati
in via di sviluppo e degli interessi degli Stati meno avanzati o privi di litorale marittimo.
La Corte internazionale di giustizia con la sent.3 Giugno 1985 in materia di delimitazione di
piattaforma continentale tra Libia e Malta, ha ammesso che fa parte del diritto internazionale
consuetudinario la regola secondo cui “i diritti dello Stato costiero sul suolo e sottosuolo
adiacente alle proprie coste si estendono fino alle 200 miglia dalle linee di base,
indipendentemente dalla presenza di una piattaforma continentale in senso geologico”.
La Convenzione del 1958 e la Convenzione del 1982 dettano regole differenti in materia di
delimitazione della piattaforma continentale tra Stati, le cui coste si fronteggiano o sono
adiacenti; in questi casi l’art.6 della Convenzione del 1958 stabilisce che la delimitazione
vada effettuata mediante accordo fra gli Stati interessati. Viene stabilito che, in mancanza di
accordo, la linea di delimitazione è data dalla mediana, cioè dalla linea i cui punti sono
equidistanti dai punti più vicini delle linee di base di ciascuno di questi Stati.
Il criterio della linea mediana, ai sensi dell’art.6, va corretto nel caso in cui sussistano delle
circostanze speciali, es. la presenza di isole vicino alla costa dell’altro Stato o il fatto che
nell’area da delimitare vi siano coste concave o convesse.
[il criterio della linea mediana non è stato considerato come appartenente al diritto
consuetudinario dalla sent. della Corte internazionale di giustizia sulla ‘definizione della
piattaforma continentale nel mare del Nord’].
La Convenzione del 1982 stabilisce all’art.83 che “la delimitazione della piattaforma
continentale tra Stati frontisti o limitrofi è effettuata mediante accordo sulla base del diritto
internazionale, in modo da pervenire ad una soluzione equa”. In attesa di un accordo
definitivo, gli Stati dovrebbero cercare di concludere un accordo provvisorio che non
comprometta la delimitazione conclusiva.
La Corte internazionale di giustizia ha affermato in varie decisioni che: la regola per cui la
delimitazione della piattaforma va effettuata mediante accordo ed in modo da raggiungere
ad una equa soluzione, fa parte del diritto internazionale consuetudinario. In particolare, la
Corte ha affermato che allo scopo di pervenire ad un risultato equo, occorre procedere alla
delimitazione tra Stati frontisti in 3 fasi:
- in primo luogo, bisogna tracciare una linea mediana tra le coste opposte;
- quindi, si deve aggiustare la mediana tenendo conto delle circostanze speciali (es. la
presenza di isole);
- infine, occorre verificare che la linea così tracciata non produca risultati non equi, ad
es. a causa della sproporzione tra la lunghezza delle coste degli Stati frontisti e le
aree marittime assegnate.
Il metodo delle 3 fasi, ormai consolidato, è stato recentemente ribadito dalla sentenza della
Corte internazionale di giustizia del 2 Febbraio 2018, nell’affare ‘Delimitazione marittima nel
mar dei Caraibi e nell’Oceano pacifico’.
L’Italia ha provveduto a delimitare la propria piattaforma continentale con una serie di
accordi tra Stati frontisti: Iugoslavia, Tunisia, Spagna, Grecia, Albania; Croazia e Serbia-
Montenegro sono succeduti nell’accordo con l’ex Iugoslavia. Nello specifico, l’accordo di
Caen del 2015 stabilisce la divisione della piattaforma continentale tra Italia e Francia,
incluse le modalità di sfruttamento dei giacimenti petroliferi a cavallo della frontiera; tuttavia,
tale accordo non è in vigore.
- Un’altra eccezione alla regola della giurisdizione esclusiva dello Stato della bandiera
è data dal ‘diritto di inseguimento’ = secondo l’art.111 della Convenzione del 1982, lo
Stato costiero ha il diritto di inseguire e catturare in alto mare, mediante navi o
aeromobili da guerra o adibiti a servizio pubblico, le navi straniere che abbiano
violato le sue leggi in zone sottoposte alla propria giurisdizione.
L’inseguimento deve avere inizio quando la nave straniera o una delle sue
imbarcazioni, si trova nelle acque interne, arcipelagiche o territoriali dello Stato
costiero o nella sua zona contigua, ZEE o acque sovrastanti la piattaforma
continentale.
Nel caso in cui la nave si trovi nella zona contigua, nella ZEE o nelle acque
sovrastanti la piattaforma continentale, l’inseguimento potrà essere esercitato dallo
Stato costiero esclusivamente solo in caso di violazione di particolari diritti
riconosciuti allo Stato in tali zone (es. per attività di pesca nella ZEE non consentite
dallo Stato costiero).
L’inseguimento deve essere continuo; nel caso di interruzione dell’inseguimento, ad
es. per temporanea avaria della nave inseguitrice, esso non può essere lecitamente
ripreso.
Il diritto di inseguimento cessa qualora la nave inseguita entri nelle acque territoriali
dello Stato di cui batte la bandiera o di un terzo Stato.
Il diritto di visita può essere esercitato da una nave da guerra anche nei confronti di
una nave priva di nazionalità o nei confronti di una nave che, pur navigando sotto
bandiera straniera, abbia in realtà la stessa nazionalità della nave da guerra.
Recentemente è stata istituita una norma consuetudinaria per cui lo Stato costiero
può prendere misure necessarie per prevenire o eliminare i pericoli di inquinamento
derivanti da un incidente marittimo anche nei confronti di navi straniere. (Tale norma
è stata recepita dall’art.221 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del
mare).
La Convenzione del 1982 consente misure di autorità, come arresto della nave e
sequestro delle relative attrezzature, su navi straniere in alto mare anche nell’ipotesi
in cui queste siano impiegate per trasmissioni non autorizzate, cioè per trasmissioni
radiofoniche o televisive diffuse nel grande pubblico in violazione dei regolamenti
internazionali. Questo potere è attribuito sia allo Stato bandiera, sia allo Stato di cui i
responsabili abbiano la nazionalità e agli Stati nei quali le trasmissioni sono ricevute
o le cui radiocomunicazioni sono disturbate.
- Per quanto riguarda il Terrorismo marittimo, essendo motivato da motivi politici non
ricade sotto la definizione di pirateria. La Convenzione del 10 marzo 1988 per la
repressione dei reati contro la sicurezza della navigazione marittima e il relativo
Protocollo non prevedono alcuna norma circa il diritto di arrestare una nave straniera
in potere di un gruppo terrorista. Il Protocollo di emendamento alla Convenzione del
1988 istituisce forme di cooperazione tra gli Stati parti, allo scopo di arrestare una
nave sospetta di essere adibita alla commissione di atti di terrorismo mediante l’uso
di armi biologiche o chimiche, materiali fissili, esplosivi o radioattivi. La nave sospetta
può essere abbordata o perquisita con il consenso dello Stato della bandiera.
La soluzione delle controversie nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare:
La Convenzione del 1982 prevede una serie di disposizioni dettagliate per la soluzione delle
controversie, contenuta nella parte XV della Convenzione.
Innanzitutto, la Convenzione dispone l’istituzione di strutture per l’assolvimento di questa
funzione:
1. un Tribunale internazionale per il diritto del mare, con sede ad Amburgo, composto
da 21 giudici che durano in carica 9 anni, eletti dagli Stati parti della Convenzione. Le
sentenze del tribunale sono obbligatorie ed inappellabili.
2. una Camera per le controversie relative ai fondi marini, composta da 11 membri
scelti dai giudici del Tribunale tra i propri appartenenti.
3. una lista di conciliatori tenuta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, volta a
facilitare la costituzione di un Tribunale arbitrale.
d) L’Atto di Stato:
La dottrina dell’Atto di Stato ha origine nei sistemi di common law, in particolare nel Regno
Unito e negli Stati Uniti. Essa ha varie applicazioni (non riguarda solo l’immunità
giurisdizionale dello Stato estero).
La dottrina ha la seguente applicazione:
- i Tribunali del foro non possono determinare la validità di un provvedimento
legislativo adottato dallo Stato estero ed applicato nel suo territorio, nonostante il
provvedimento sia contrario al diritto internazionale. Conseguentemente, per es. i
Tribunali del foro non possono esaminare la liceità di un provvedimento con cui lo
Stato estero confisca o nazionalizza le proprietà degli stranieri (violando il diritto
internazionale). In tal caso dovrebbe intervenire lo Stato di cittadinanza dell’individuo
che ha subito il danno e deve fare ricorso alla protezione diplomatica.
La dottrina dell’Atto di Stato è oggetto di numerose eccezioni e la sua evoluzione ha fatto sì
che sia ritenuto ammissibile convenire lo Stato estero in giudizio, in caso di
espropriazione/nazionalizzazione di beni in violazione delle regole del diritto internazionale
(anche questa eccezione subisce varie interpretazioni).
La Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali dello Stato non ha fatto
propria la dottrina dell’Atto di Stato.
4.Immunità fiscale:
L’agente diplomatico gode del privilegio dell’esenzione fiscale per le imposte dirette
personale. L’esenzione fiscale non copre le imposte indirette, ed è accordata come
condizione di favore e sulla base della reciprocità.
Talvolta uno Stato nomina come agente diplomatico un cittadino dello Stato accreditatario:
ciò è consentito dalla Convenzione di Vienna sulle immunità diplomatiche, che subordina la
nomina al consenso dello Stato accreditatario, che può ritirarlo in ogni momento.
Il cittadino che viene nominato non gode né dell’immunità fiscale, né dall’esenzione dalla
giurisdizione perché se no di creerebbe una situazione contraria ad ogni criterio di giustizia:
infatti, di regola, l’agente diplomatico è immune dalla giurisdizione dello Stato accreditatario,
ma non è immune dalla giurisdizione dello Stato accreditante di cui è cittadino.
A tal proposito, l’art.38 della Convenzione di Vienna stabilisce che “l’agente diplomatico,
cittadino dello Stato accreditatario, gode dell’immunità giurisdizionale e della inviolabilità solo
per gli atti fiscali compiuti nell’esercizio delle sue funzioni” = cioè gode solo dell’immunità
funzionale, e non di quella personale.
I consoli:
Se l’agente diplomatico = rappresenta lo Stato accreditante nelle relazioni internazionali con
lo Stato accreditatario;
il Console = svolge funzioni tipiche dell’amministrazione dello Stato d’invio all’interno dello
Stato territoriale. Le funzioni del console sono elencate nell’art.5 della Convenzione di
Vienna del 24 agosto 1963 sulle relazioni consolari, entrata in vigore il 19 marzo 1967.
Tra le funzioni elencate nell’art.5 emergono:
- funzioni sul rilascio dei passaporti e dei documenti di viaggio ai cittadini dello Stato
d’invio;
- funzioni sulla salvaguardia degli interessi dei cittadini nelle successioni mortis causa
aperte nello Stato di residenza;
- funzioni circa la trasmissione di atti giudiziari o extragiudiziari (inclusa l’esecuzione di
rogatorie:La richiesta che un'autorità giudiziaria rivolge ad un'altra autorità (per es. di
un altro stato) per il compimento di atti processuali relativi a un procedimento che si
svolge innanzi ad essa ma che esulano dalla sua competenza territoriale o dalla sua
sfera di giurisdizione (in particolare nell'ipotesi di assunzione di prove).
- inoltre, i consoli agiscono in qualità di notai e di ufficiali di Stato civile e sono anche
competenti a risolvere le controversie marittime in materia di rapporti tra capitano ed
equipaggio delle navi battenti bandiera dello Stato di invio;
- i consoli rappresentano lo Stato d’invio, soprattutto per quanto riguarda le relazioni
commerciali, economiche, culturali e scientifiche.
I locali consolari, nella parte usata esclusivamente per lo svolgimento dei lavori consolari,
sono inviolabili; sono inviolabili anche gli archivi, i documenti consolari.
Tuttavia, ai consoli non spettano le immunità che il diritto internazionale accorda agli agenti
diplomatici. Ai consoli, secondo il diritto internazionale consuetudinario, spetta solo la
Immunità funzionale e l'inviolabilità dell’archivio consolare.
Circa l’inviolabilità personale, la Convenzione del 1963 dispone che “i Consoli non possono
essere arrestati, tranne nel caso in cui venga commesso un ‘reato grave’ e comunque
sempre in seguito alla decisione dell’autorità giudiziaria. In tutti gli altri casi, la privazione
della libertà può essere attuata solo a seguito di una sentenza definitiva”.
I consoli godono solo dell’immunità funzionale, per cui non possono essere sottoposti a
giurisdizione per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni.
Il console, così come l’agente diplomatico, può svolgere le proprie funzioni solo con il
consenso dello Stato di residenza, dopo la trasmissione delle lettere patenti dallo Stato
d’invio e dopo l’ “exequatur” dello Stato territoriale (exequatur è la procedura giudiziaria che
serve a far riconoscere, in un determinato paese, un provvedimento emesso dall'autorità
giudiziaria di un altro paese).
Il console, come l’agente diplomatico, può essere dichiarato ‘persona non grata’ dallo Stato
di residenza.
Le organizzazioni internazionali:
Una questione che si è posta in dottrina riguarda le organizzazioni internazionali, in
particolare se ad esse spetti nello Stato del foro l’immunità dalla giurisdizione, sia per il
processo di cognizione, sia per il processo di esecuzione.
Vi è questa incertezza poiché per le organizzazioni internazionali non esistono convenzioni a
livello regionale o universale che disciplinano il loro trattamento nello Stato del foro.
Di regola, si provvede stipulando degli accordi ad hoc per le singole organizzazioni o per
una categoria di organizzazioni; in particolare, vengono stipulati degli accordi con lo Stato
dove l’organizzazione si trova, il cd. ‘accordo di sede’, con cui si disciplinano anche le
immunità giurisdizionali.
L’art.105 della Carta delle Nazioni Unite dispone che “l’organizzazione gode, nel territorio di
ciascuno dei suoi membri, dei privilegi e delle immunità necessari per il conseguimento dei
suoi fini” = questa disposizione è ulteriormente specificata nella Convenzione generale sui
privilegi e immunità delle Nazioni Unite.
Nella sent. 13 aprile 2012 nell’affare ‘Madri di Srebrenica’, la Corte Suprema olandese ha
stabilito che l’immunità delle Nazioni Unite non poteva venire meno neppure in caso di
commissione di gravi violazioni del diritto internazionale; la Corte europea si pronunciò sulla
stessa scia della Corte suprema: ha affermato infatti che non si poteva censurare il
comportamento delle Nazioni Unite per un affare che riguardava i poteri del Consiglio di
sicurezza e che la regola dell’immunità dalla giurisdizione doveva essere applicata
nonostante fosse invocata dal ricorrente la violazione di una norma imperativa del diritto
internazionale.
Circa le istituzioni specializzate delle Nazioni Unite, esiste la ‘Convenzione generale sui
privilegi e immunità degli istituti specializzati’; per la soluzione di controversie di lavoro tra
enti internazionali e funzionari dell’ente stesso esistono dei ‘Tribunali interni dell’ente’ (come
i tribunali del contenzioso amministrativo delle Nazioni Unite e il tribunale d’appello).
L’organizzazione può istituire anche delle procedure specifiche.
Secondo alcuni, l’immunità delle organizzazioni internazionali trova fondamento
nell’estensione analogica della norma consuetudinaria sull’immunità dalla giurisdizione degli
Stati; secondo altri, esisterebbe una norma di diritto internazionale consuetudinario che
esenterebbe le organizzazioni internazionali dalla giurisdizione dei Tribunali interni; una
terza opinione ricava l’immunità delle organizzazioni dalla personalità giuridica
internazionale delle organizzazioni stesse e di cui l’immunità costituirebbe un corollario.
Secondo un’opinione intermedia, l’immunità viene attribuita solo alle ‘organizzazioni più
importanti’, come le Nazioni Unite o altre organizzazioni che svolgono funzioni incisive nella
comunità internazionale.
Vi è infine un’opinione radicalmente contraria alle precedenti, secondo cui le organizzazioni
internazionali non godono dell’esenzione dalla giurisdizione: secondo questa opinione,
l’immunità dovrebbe essere stabilita convenzionalmente e sarebbe valida solo nei confronti
degli Stati parti del trattato istitutivo o parti dell’accordo di sede.
Inoltre, si afferma che l’immunità possa essere concessa da una legge ad hoc
dell’ordinamento statale, a prescindere dall’ordinamento internazionale.
A seguito dell’espressione di queste differenti opinioni, la Corte internazionale di giustizia si
è espressa a favore della personalità delle organizzazioni internazionali, senza però
esprimersi sulla questione dell’immunità. Il contenuto dell’immunità è incerto: si suppone che
questa sia attribuita da una norma di diritto internazionale e non può essere applicato il
principio ‘par in parem non habet iurisdictionem’ perché non esiste parità tra Stati e
organizzazioni internazionali. Infatti, mentre gli Stati esplicano funzioni di natura generale, le
organizzazioni internazionali espletano solo le funzioni determinate dal trattato istitutivo,
perseguendo i fini che da questo sono prefigurati.
La nostra giurisprudenza, in materia di immunità dalla giurisdizione delle organizzazioni
internazionali, non ha seguito un pensiero univoco =
- Sent. 2425/1979 della Cassazione = essa ha riconosciuto l’immunità dalla
giurisdizione, ricavandola da un’applicazione analogica della norma valevole per gli
Stati esteri.
- Sent. 5399/1982 della Cassazione = si è pronunciata come la precedente sent.
- Sentt. 5819/1985 e 8433/1990 = la Corte Suprema ha riconosciuto all’istituto italo-
latino americano l’immunità dalla giurisdizione ricavandola dalla personalità
internazionale dell’ente e da un’autonoma norma di diritto internazionale
consuetudinario, senza la necessità di fare ricorso all’accordo istitutivo.
- Sent. 149/1999 = la Corte di Cassazione ha seguito la teoria intermedia cui si è fatto
cenno precedentemente.
- La Corte Suprema, dopo aver affermato che la soggettività internazionale degli Stati
è incomparabile con quella delle organizzazioni internazionali, ha statuito che
bisogna determinare caso per caso se queste godano dell’immunità dalla
giurisdizione; ha aggiunto che non è sicuro affermare l’esistenza di una norma
consuetudinaria che consenta di estendere a tutte le organizzazioni internazionali il
principio dell’immunità dalla giurisdizione. L’incertezza può essere colmata solo da
specifiche norme scritte e, in particolare, dall’accordo istitutivo.
Possiamo dire quindi che bisogna quindi procedere con cautela: se fosse certo e
incontrovertibile l’esistenza di una norma di diritto internazionale consuetudinario in materia
di immunità dalla giurisdizione, gli Stati non sentirebbero la necessità di inserire una norma
ad hoc negli accordi di sede. Quindi, qualora si debba accertare se l’organizzazione gode di
immunità, occorre in primo luogo esaminare l’accordo di sede o un altro strumento
equivalente che, in quanto diritto convenzionale, deroga la consuetudine internazionale. In
mancanza di un accordo di sede non si può andare oltre all’applicazione analogica della
norma consuetudinaria relativa all’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione.
Conseguentemente, l’immunità andrebbe affermata solo per quelle funzioni che rientrano
nella sfera pubblicistica dell’ente (ciò vale anche per l’immunità dall’esecuzione).
In materia di rapporti di lavoro, una disciplina convenzionale che sottraesse la cognizione
della lite ai Tribunali sarebbe in contrasto con l’art.24 Cost. : a tal proposito la Cassazione
francese ha negato in una controversia di lavoro l’immunità dalla giurisdizione alla Banca
africana di sviluppo, partendo dal presupposto che la Banca non disponeva di un
meccanismo per la soluzione delle controversie con il personale e che l’accoglimento
dell’immunità avrebbe privato il lavoratore del suo diritto di accesso ad un Tribunale.
La tesi negazionista è stata fatta propria anche dalla Corte d’Appello dell’Aja che non ha
accordato l’immunità dalla giurisdizione all’Ufficio europeo dei brevetti in una controversia
d’impiego con il personale.
Generalmente gli Stati membri delle organizzazioni internazionali dispongono presso
l’organizzazione di una rappresentanza permanente diretta da un capo-missione e di cui
fanno parte alcuni funzionari di rango diplomatico -> i privilegi e le immunità di queste
persone sono disciplinate dall’accordo di sede stipulato tra organizzazione internazionale e
Stato ospite. Il fine è quello di consentire ai membri della rappresentanza di svolgere le
proprie funzioni.
Possono essere stipulati accordi generali o ad hoc, come la Convenzione sui privilegi e le
immunità delle Nazioni Unite e la Convenzione sui privilegi e le immunità delle istituzioni
specializzate.
L’art.105 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che i rappresentanti dei membri delle
Nazioni Unite debbano godere dei privilegi e dell’immunità necessari per l’esercizio
indipendente delle loro funzioni inerenti all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Nel 1975 fu stipulata a Vienna la Convenzione sulla rappresentanza degli Stati nelle loro
relazioni con le organizzazioni internazionali universali: questa Convenzione è entrata
recentemente in vigore.
La consuetudine:
L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia definisce la consuetudine come
“una pratica generale accettata quale diritto” = questa definizione illustra che la
consuetudine si compone di 2 elementi costitutivi:
1. Diuturnitas = cioè la ripetizione costante di un comportamento da parte della
generalità degli Stati (cd. elemento materiale);
2. Opinio iuris ac necessitatis = cioè la convinzione generale che tale comportamento
sia conforme a diritto (cd. elemento psicologico). Per cui deve trattarsi di una pratica
considerata come conforme a diritto, in quanto non può dare origine a una
consuetudine internazionale una pratica contraria a diritto e che sia reputata tale.
Affinché si possa ravvisare l’elemento materiale della consuetudine. è necessario che un
determinato comportamento sia ripetuto nel tempo, in modo uniforme, dalla generalità degli
Stati.
Il tempo di formazione della consuetudine può essere più o meno esteso: in alcuni casi le
norme consuetudinarie sono venute alla luce in un arco ristretto di tempo -> es. norma
consuetudinaria sulla piattaforma continentale e la norma consuetudinaria che riconosce la
possibilità allo Stato costiero di istituire una zona economica esclusiva di 200 miglia di
ampiezza.
In ogni caso, un lasso di tempo (seppure breve) è necessario ai fini della cristallizzazione di
una norma consuetudinaria e, nonostante sia sostenuto il contrario, non esistono
consuetudini istantanee (il concetto di consuetudine istantanea appare una contraddizione).
La prassi deve essere virtualmente uniforme e seguita dalla generalità degli Stati: per
generalità non si richiede che un comportamento sia tenuto da ognuno dei membri della
comunità internazionale, ma dalla maggior parte di essi; generalità non significa totalità.
Molto importante è il comportamento degli Stati ‘i cui interessi sono specialmente toccati’,
come ad es. gli Stati marittimi per la nascita delle consuetudini in materia di diritto del mare
(il comportamento deve essere imputabile ad uno Stato).
Oltre che dall’elemento materiale, la formazione di una norma consuetudinaria dipende dalla
convinzione che la pratica generale sia conforme a diritto, il cd. ‘elemento psicologico’. La
necessità di questo elemento è stata illustrata dalla Corte internazionale di giustizia nella
sentenza sulla Piattaforma continentale del mare del Nord secondo cui ‘gli atti considerati
devono dare luogo ad una pratica costante, e devono essere tali da costituire la prova della
convinzione che questa pratica sia resa obbligatoria dall’esistenza di una norma di diritto; gli
Stati internazionali devono avere quindi il sentimento di conformarsi a ciò che costituisce
una obbligazione giuridica’.
Si ritiene che l’elemento psicologico possa essere costituito anche dalla semplice
convinzione di esercitare un diritto -> es. molti Stati affermano l’esistenza di un diritto di
passaggio inoffensivo per le navi da guerra nel mare territoriale, diritto che è contestato dagli
Stati del terzo mondo.
I due elementi necessari (materiale e psicologico) sono stati ribaditi dalla Corte
internazionale di giustizia nel parere sulla ‘liceità delle armi nucleari’ del 1996.
La consuetudine è una fonte idonea a creare norme di diritto internazionale generale,
vincolanti per tutti i membri della comunità internazionale: ogni Stato è tenuto ad osservare
una norma consuetudinaria, indipendentemente dal fatto che abbia o no partecipato alla sua
formazione e indipendentemente se l’abbia accettata o meno; allo stesso modo gli Stati di
nuova formazione sono vincolati dalle norme consuetudinarie generali vigenti al momento
della loro nascita.
Non si ritiene accettabile la tesi che afferma che la consuetudine non vincola lo Stato che si
è opposto in modo palese e inequivocabile al suo processo di formazione (cd. ‘Teoria
dell’obiettore permanente) = per cui, la consuetudine vincola anche lo Stato che vi si era
opposto.
La consuetudine, oltre che produrre norme generali, può produrre anche norme vincolanti
solo per una ristretta cerchia di soggetti: si tratta delle “consuetudini particolari”, come le
consuetudini regionali o locali, oppure le norme che si applicano solo agli Stati appartenenti
ad una determinata area geografica o geopolitica. -> un es. di consuetudine particolare,
nello specifico consuetudine regionale propria dell’America latina, è il principio dell’ ‘uti
possidetis’ secondo cui, in materia di delimitazione dei confini internazionali, gli attuali Stati
latini-americani dovrebbero conformarsi alle demarcazioni territoriali fra le varie circoscrizioni
amministrative istituite dalla Spagna all’epoca coloniale. Questo principio è ora diventato di
applicazione universale.
Si è posta una questione inerente all’esistenza di consuetudini locali bilaterali : la Corte si è
pronunciata a favore della loro esistenza durante la controversia tra India e Portogallo
relativa al passaggio su territorio indiano. Per cui esistono delle consuetudini locali che
vincolano solo due Stati.
Secondo alcuni, tra le consuetudini particolari dovrebbero essere annoverate anche quelle
consuetudini che si formano in deroga a regole pattizie (in particolare quelle consuetudini
che si formano in deroga a norme stabilite dal trattato istitutivo di una organizzazione
internazionale) -> es. la deroga dell’art.27 della Carta delle Nazioni Unite secondo cui
l’astensione di un membro permanente non impedisce l’adozione di una delibera da parte
del Consiglio. Tuttavia, si ritiene che la prassi modificativa potrebbe essere meglio intesa
non come elemento costitutivo di una consuetudine internazionale, ma come un
comportamento da cui poter evincere un accordo tacito modificativo del precedente.
Seguendo infatti questa visione, l’art.31 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei
trattati, afferma che “ai fini dell’interpretazione del trattato, occorre tenere conto di qualsiasi
prassi successivamente seguita nell’applicazione del trattato attraverso cui si sia formato un
accordo delle parti in materia di interpretazione del medesimo”.
Rilevare una consuetudine internazionale è un’operazione molto complessa, poiché bisogna
provare l’esistenza sia della pratica generale, sia dell’opinio iuris.
L’accordo:
L’accordo (o trattato o convenzione) è fonte del diritto internazionale.
L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia nell’elencare le norme applicabili
dalla Corte per risolvere le controversie internazionali, dispone che “la Corte applica le
convenzioni internazionali sia generali che particolari che stabiliscono norme espressamente
riconosciute dagli Stati in lite”.
La procedura di conclusione dei trattati, i loro effetti, le riserve, l’invalidità e l’estinzione sono
disciplinati dal diritto internazionale consuetudinario, in particolare nel 1969 è stata conclusa
la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, definita ‘un trattato sui trattati’, in quanto
detta le regole per la disciplina di questa fonte del diritto internazionale.
Le regole sancite nella Convenzione di Vienna sono in parte dichiarative del diritto
internazionale, in parte sviluppo progressivo: essa si applica solo tra gli Stati parti dei trattati
conclusi dopo la sua entrata in vigore.
La Convenzione di Vienna non è stata ratificata né dalla Francia (che non l’ha neanche
firmata), né dagli Stati Uniti (che l’hanno solo firmata) e gli Stati parti della Convenzione
sono poco più della metà degli Stati membri della comunità internazionale; l’Italia è parte
della Convenzione.
L’art.2 della Convenzione di Vienna stabilisce che “l’espressione ‘Trattato’ significa un
accordo internazionale concluso per iscritto fra Stati e disciplinato dal diritto internazionale,
contenuto sia in un unico strumento, che in più strumenti connessi, e quale che sia la sua
particolare denominazione”.
Da tale enunciazione possiamo ricavare che:
- il trattato è suscettibile di avere varie denominazioni: trattato, convenzione, accordo,
carta, statuto, protocollo, patto, dichiarazione..
- la volontà di concludere un trattato può essere consegnata in un unico strumento
oppure in due o più strumenti connessi -> es. uno scambio di note o di lettere
- l’accordo deve essere disciplinato dal diritto internazionale. Non è un trattato quindi
né un accordo che trova fondamento nel diritto pubblico interno di uno dei contraenti
(es. un accordo tra uno Stato e una impresa straniera), né uno strumento non avente
natura giuridicamente vincolante e appartenente al cd. ‘soft law’ (es. i documenti
OSCE non sono atti giuridicamente vincolanti, ma solo political commitments); anche
i MOU non sono atti giuridicamente vincolanti, tranne che dall’atto si ricavi una
esplicita volontà di obbligarsi).
La Convenzione di Vienna disciplina solo gli accordi fra Stati; tuttavia sono trattati anche gli
accordi conclusi tra Stati e altri soggetti del diritto internazionale, oppure conclusi tra soggetti
di diritto internazionale diversi dagli Stati (es. organizzazioni internazionali).
In diritto internazionale vige il principio della libertà di forma: in particolare, la Convenzione di
Vienna disciplina solo gli accordi in forma scritta, e non quelli conclusi in forma orale, anche
se l’art.3 ammette implicitamente la validità di quest’ultima. La Convenzione dell’Avana, al
contrario, stabilisce che la forma scritta è un requisito essenziale dei trattati.
Il problema che si pone per gli accordi conclusi in forma orale non è tanto quello della loro
ammissibilità (proprio perché in diritto internazionale vige il principio della libertà di forma),
quanto quello di stabilire ciò che è stato pattuito: normalmente il contenuto risulta dalle
minute concordate tra i plenipotenziari.
Dupuy ha definito il trattato affermando che: “il trattato è la manifestazione delle volontà
concordi delle parti, proveniente da soggetti di diritto dotati della capacità prescritta, allo
scopo di produrre degli effetti giuridici disciplinati dal diritto internazionale”.
Al contrario di come si riteneva in passato, l’accordo può disciplinare tutte le materie: non
esistono materie specifiche che possono essere incluse o non incluse in un accordo
internazionale. L’unico limite è rappresentato dallo ius cogens, poiché un accordo contrario
allo ius cogens (norma imperativa del diritto internazionale) è nullo.
L’accordo produce solo diritto internazionale particolare, cioè crea diritti ed obblighi solo tra
gli Stati parti dell’accordo stesso (invece, la consuetudine produce diritto internazionale
generale); è comunque possibile che una regola di un trattato possa trasformarsi
successivamente in diritto consuetudinario. Solo quando la regola diverrà diritto
consuetudinario, sarà vincolante per tutti gli Stati membri della comunità internazionale
(art.38 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati).
L’art.13 della Carta delle Nazioni Unite assegna all’Assemblea Generale il compito di
incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione. A tal
fine, l’Assemblea Generale si avvale della Commissione del diritto internazionale (CDI); le
regole che scaturiscono da tale processo possono essere dichiarative del diritto
internazionale consuetudinario. Le regole che sono dichiarative del diritto internazionale
consuetudinario obbligano gli Stati membri della comunità internazionale,
indipendentemente dalla ratifica dell’accordo e dalla sua entrata in vigore; talvolta, l’accordo
contiene regole che non sono codificazione del diritto internazionale in vigore, ma che ne
costituiscono sviluppo progressivo. Tranne nel caso in cui la regola pattizia si trasformi
successivamente in diritto consuetudinario, uno Stato è vincolato dall’accordo solo se ne è
parte (dell’accordo) e solo se l’accordo entri in vigore.
La giurisprudenza e la dottrina:
L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia fa riferimento alla Giurisprudenza
e alla Dottrina, specificando che esse costituiscono mezzi sussidiari per l’accertamento delle
norme giuridiche. Pertanto, Giurisprudenza e Dottrina non sono fonti del diritto
internazionale.
- Giurisprudenza = in diritto internazionale non esiste la regola ‘stare decisis’, infatti il
giudicato vincola solo le parti in lite della controversia. Il valore non vincolante della
giurisprudenza è stato affermato davanti alla Commissione di giuristi incaricata di
preparare lo Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale.
Ai fini di rilevare il contenuto delle norme internazionali, vengono in considerazione
sia le sentenze della Corte internazionale di giustizia, sia l sentenze dei Tribunali
arbitrali; con la proliferazione dei tribunali, il compito dell’interprete è aumentato ->
es. in materia di diritti dell’uomo, assumono grande importanza le sentenze della
Corte europea dei diritti dell’uomo.
Assumono notevole importanza anche i pareri consultivi della Corte internazionale di
giustizia, nonostante non siano obbligatori: si tiene conto dei pareri soprattutto per la
ricostruzione di una norma del diritto internazionale -> es. di pareri più importanti
sono sulle ‘Riserve alla convenzione sul genocidio’, sul principio di
autodeterminazione dei popoli e sulla liceità delle armi nucleari.
- Dottrina = l’art.38 dello Statuto della Corte menziona la dottrina come mezzo
sussidiario per la determinazione delle norme di diritto internazionale.
Nonostante giurisprudenza e dottrina siano poste sullo stesso piano dall’art.38 dello
Statuto della Corte internazionale di giustizia, si attribuisce alla prima più importanza.
Oggi vi sono numerose raccolte della prassi che sono un aiuto importante per la
ricostruzione di norme del diritto internazionale.
Una menziona a parte meritano i lavori della Commissione del diritto internazionale = essi
sono citati dalla Corte internazionale di giustizia per la determinazione delle norme
giuridiche, sia quando sono ancora in corso d’opera, sia quando sono stati adottati
definitivamente.
L’equità:
Lo Statuto della Corte internazionale di giustizia abilita la Corte ad adottare sentenze ‘ex
aequo et bono’, purché le parti le attribuiscano questo potere; se no, la Corte giudica in base
a principi extra-giuridici.
L’equità = è un principio non facente parte dell’ordinamento internazionale, ma ricavato dal
comune sentire in merito alla giustizia e altri criteri similari. L’equità è una fonte prevista da
accordo, poiché trae la sua forza obbligatoria dall’accordo delle parti che hanno chiesto alla
Corte di risolvere la loro controversia secondo equità (la Corte fin ora non ha pronunciato
alcuna sentenza ex aequo et bono). Quando la Corte decide secondo equità, la sentenza ha
valore dispositivo e non di mero accertamento; è la sentenza che si configura come fonte del
diritto nei rapporti tra le parti (non è l’equità a configurarsi come fonte).
Poiché non è una fonte del diritto internazionale, non è ammessa l’equità contra legem;
alcuni autori ammettono solo l’equità infra legem e secundum legem, ma solo come ‘aiuto
interpretativo solo quando la norma lo consenta’, infatti gli artt.31-32 della Convenzione di
Vienna del 1969 non menzionano l’equità tra i criteri interpretativi di un trattato.
Pur non essendo fonte del diritto, l’equità può assumere rilevanza (oltre che nell’ipotesi della
sentenza dispositiva) anche quando una norma di diritto internazionale impone il ricorso a
criteri equitativi. Essa ha assunto una grande rilevanza nella delimitazione marittima,
specialmente nella divisione della piattaforma continentale e della ZEE tra Stati adiacenti e
Stati frontisti : gli artt.74-83 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare
stabiliscono che la delimitazione debba avvenire mediante accordo, con lo scopo di
raggiungere una soluzione equa. Nello specifico, l’equità viene in considerazione non come
categoria astratta, ma come ‘principio equo’ che si applica nella delimitazione marina: gli
equi principi incorporano l’equità e sono ricavabili da una norma di diritto internazionale
consuetudinario -> es. di equi principi: criterio secondo cui la delimitazione non può essere
effettuata attribuendo porzioni di piattaforma continentale giacenti all’interno della
piattaforma continentale altrui o quello secondo cui è necessario che vi sia una
proporzionalità tra lo sviluppo dello Stato costiero e la porzione di piattaforma continentale
attribuita.
Il Soft Law:
Con il termine “soft law” usato dalla dottrina americana, si indicano = le disposizioni non
giuridicamente vincolanti; la loro fonte è data da atti adottati dalle organizzazioni
internazionali, come le raccomandazioni internazionali, oppure i ‘codici di condotta’ o atti
adottati da conferenze internazionali non aventi dignità di trattato -> es. di soft law sono gli
atti adottati nel quadro dell’OSCE, che non sono atti giuridicamente vincolanti; oppure le
risoluzioni adottate dalle conferenze sull’ambiente.
Il Soft Law può contribuire in vario modo alla creazione di diritto:
- vi può essere la creazione di consuetudini internazionali, sempre se sussistono i
requisiti per la nascita di una consuetudine internazionale. Inoltre il Soft Law può
essere d’aiuto per il consolidamento dell’opinio iuris.
- il Soft Law può costituire fonte materiale di diritti ed obblighi giuridici -> es. i principi
contenuti nelle risoluzioni di conferenze internazionali possono essere tradotti in un
trattato internazionale (com’è accaduto per il diritto dell’ambiente, dove si è
espressamente stabilito che gli Stati si obbligano a rispettare le disposizioni dell’atto
di Soft Law richiamato).
- il Soft Law limita il dominio riservato degli Stati, nel senso che il richiamo agli
‘obblighi politici’ stabiliti dagli atti di Soft Law non costituisce ‘intervento negli affari
interni di un altro Stato’, sia che il richiamo sia operato dagli Stati, sia che esso sia
fatto da una organizzazione internazionale.
Invece, non si ritiene che alcuni atti, come le Dichiarazioni di principi dell’Assemblea
Generale, siano fonte di diritti e obblighi, neanche quando la Dichiarazione equipari la sua
inosservanza ad una violazione del diritto internazionale consuetudinario o della Carta delle
Nazioni Unite.Secondo alcuni la Dichiarazione di principi avrebbe valore di accordo in forma
semplificata; al riguardo, la giurisprudenza italiana non è univoca: vi sono sentenze che
affermano che inequivocabilmente le Dichiarazioni di principi non producono effetti né a
titolo di diritto pattizio, né a titolo di diritto consuetudinario; vi sono altre sentenze che danno
rilevanza alle Dichiarazioni di principi, in relazione all’art.10 Cost. Tuttavia, queste ultime
sentenze non giungono mai ad individuare un contrasto tra normativa interna e risoluzioni
dell’Assemblea Generale oppure risolvono il contrasto in base alla normativa costituzionale,
con un richiamo indiretto alle risoluzioni dell’Assemblea Generale.
E’ dubbia la questione concernente se le risoluzioni non vincolanti delle organizzazioni
internazionali producano il cd. “effetto di liceità”, cioè che lo Stato non commette nessun
illecito internazionale, qualora vìoli un obbligo di diritto pattizio o consuetudinario per dare
esecuzione ad una raccomandazione internazionale -> a tal proposito, il progetto di articoli
sulla responsabilità internazionale dello Stato non annovera le raccomandazioni
internazionali tra le cause di esclusione del fatto illecito.
Il diritto dei trattati è stato codificato in grande parte dalla Convenzione di Vienna sul diritto
dei trattati, conclusa il 23 Maggio 1969 dopo una conferenza durata 2 anni; la Convenzione
è entrata in vigore il 27 Gennaio 1980. Essa consta di 85 articoli e 1 allegato, regolando tutte
le fasi della vita del trattato:
- conclusione
- entrata in vigore
- rispetto, applicazione e interpretazione
- emendamento e modifica
- invalidità, estinzione e sospensione
- funzioni del depositario, notifiche, correzione del testo e registrazione
La Convenzione non regola le questioni successorie (che sono invece disciplinate da una
convenzione ad hoc), né le questioni relative alla responsabilità degli Stati e agli effetti della
guerra sui trattati. Non è disciplinata la questione degli obblighi che potrebbero insorgere
rispetto ad un trattato per lo Stato aggressore a causa delle misure intraprese in virtù della
Carta delle Nazioni Unite.
Praticamente la Convenzione di Vienna è un trattato sui trattati e contiene delle disposizioni
che sono dichiarative del diritto consuetudinario in vigore, e disposizioni che ne costituiscono
lo sviluppo progressivo. Alcune disposizioni che costituivano sviluppo progressivo al
momento dell’adozione della Convenzione, sono poi divenute col tempo diritto internazionale
consuetudinario.
L’Italia ha ratificato la Convenzione il 25 Luglio 1974. Pur avendo tratto un notevole numero
di ratifiche, la Convenzione di Vienna non ha ottenuto l’universalità degli Stati della comunità
internazionale: in particolare, non vi sono Francia, Regno Unito e Stati Uniti; mentre Cine e
Federazione Russa l’hanno solo ratificata.
2) La fase successiva consiste nella ratifica: cioè l’atto con cui lo Stato si impegna ad
osservare il trattato.
- nel caso di un trattato bilaterale, dopo la ratifica vi segue lo scambio di
ratifiche -> i trattati bilaterali entrano in vigore dopo lo scambio delle ratifiche
- nei trattati multilaterali vi è, invece, il deposito di ratifiche presso il depositario
(il depositario può essere uno Stato o un organo di un’organizzazione
internazionale, come il Segretario Generale delle Nazioni Unite nel caso di
trattati stipulati sotto gli auspici dell’organizzazione delle Nazioni Unite)
-> i trattati multilaterali entrano in vigore dopo il raggiungimento di un certo
numero di ratifiche.
Si diviene parte di un trattato multilaterale anche mediante l’adesione =
solitamente l’adesione è un atto con cui divengono parti del trattato gli Stati
che non hanno partecipato alla negoziazione. Per poter far parte del trattato
mediante adesione, bisogna consultare la clausola di adesione contenuta nel
trattato per individuare gli Stati in possesso dei requisiti per aderire al trattato
ed il termine entro cui effettuare l’adesione.
La prassi attesta che oggi l’adesione è uno strumento impiegato in modo
diverso da come veniva impiegato in passato: oggi è l’atto con cui divengono
parti del trattato tutti gli Stati che non abbiamo firmato il trattato entro i termini
stabiliti, pur avendo partecipato alla negoziazione.
3) Al termine delle Conferenza che ha adottato il testo del trattato, normalmente viene
redatto un Atto Finale = tale strumento è una sorta di atto notarile che registra tutte le
fasi della conferenza, gli Stati partecipanti, le regole di procedura, i lavori dei comitati
e il nome dei presidenti. L’Atto Finale non è sottoposto a ratifica.
All’Atto finale talvolta sono accluse (allegate) delle risoluzioni o dichiarazioni adottate
al termine dei lavori: anche queste non vengono sottoposte a ratifica e non sono atti
giuridicamente vincolanti. E’ invalso l’uso di votare una risoluzione soprattutto
quando il trattato è un atto costitutivo di una organizzazione internazionale o contiene
norme attributive di diritti e doveri per gli Stati: in questo modo si predispone di tutti
gli atti necessari a creare l’organizzazione non appena il trattato entra in vigore; dopo
che queste disposizioni siano state adottate dagli organi dell’organizzazione
internazionale, vengono tradotte in regole giuridiche.
Secondo l’art.10 della Convenzione di Vienna, la firma dell’Atto Finale può costituire
lo strumento che attesta l’autenticità del testo del trattato.
Tali modalità di stipulazione riguardano i trattati conclusi in forma solenne, in cui la firma ha
lo scopo di autenticazione del testo e la ratifica (o l’adesione) ha lo scopo di obbligare lo
Stato ad osservare il trattato internazionale.
La procedura è più semplice negli accordi conclusi in forma semplificata: normalmente per
essi la procedura consiste nella sola negoziazione, cui segue la firma da parte dei
plenipotenziari. In questo caso, la firma ha lo scopo sia di autenticazione del testo, sia di
obbligare le parti ad osservare il trattato. Il valore ‘obbligatorio’ della firma deve risultare
direttamente dal testo del trattato oppure deve essere ricavato dalla volontà delle parti.
Le riserve:
La mole sempre più consistente di trattati multilaterali e la difficoltà di conciliare i diversi
interessi delle parti inducono gli Stati a formulare delle riserve quando il trattato viene
concluso.
Nella Convenzione di Vienna, la riserva è definita come “una dichiarazione unilaterale, quale
che sia la sua articolazione o denominazione, fatta da uno Stato quando sottoscrive, ratifica,
accetta, approva o aderisce ad un trattato, con cui esso mira ad escludere o modificare
l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo Stato stesso”.
Pertanto, la riserva può essere:
- ‘eccettuativa’ = in quanto lo Stato riservante mira ad escludere l’applicazione di una
determinata clausola del trattato;
- ‘modificativa’ o ‘interpretativa’ = in quanto è volta a modificare gli effetti di alcune
disposizioni del trattato o è volta a conferire una determinata interpretazione ad un
termine o ad una clausola del trattato.
Non sono riserve le dichiarazioni di natura politica; sono invece riserve le dichiarazioni
denominate che hanno lo scopo di escludere o modificare una clausola del trattato.
La riserva può essere apposta solo ad un trattato multilaterale: in un trattato bilaterale
sarebbe inconcepibile poiché equivarrebbe ad un’offerta a concludere un nuovo trattato.
In diritto internazionale è stato da tempo abbandonato il principio dell’integrità del trattato,
secondo cui lo Stato che formulava una riserva poteva divenirne parte solo se il trattato
prevedeva la possibilità di apporre riserve o, in mancanza, se la riserva veniva accettata da
tutti gli altri Stati contraenti; è invece prevalso il principio di flessibilità.
Di regola, se il trattato disciplina espressamente la possibilità di apporre riserve (ad es.
vietando le riserve o consentendone solo alcune), le relative disposizioni vanno rispettate.
Quando il trattato non dice nulla circa la possibilità di apporre riserve, non è necessario che
la riserva sia accettata da tutte le altre parti.
In linea di principio, è sufficiente che uno Stato contraente accetti la riserva affinché il suo
autore possa divenire parte del trattato: tale sistema è stato affermato nel parere della Corte
internazionale di giustizia relativo alle ‘riserve alla Convenzione sul genocidio’, che ha inoltre
affermato che sono inammissibili le riserve incompatibili con l’oggetto e lo scopo del trattato.
Di fronte ad una riserva altrui, uno Stato può accettarla oppure formulare una obiezione.
I rapporti contrattuali che si instaurano tra Stati riservanti e gli altri Stati parti sono così
disciplinati:
- nei rapporti tra Stato riservante e Stato accettante, il trattato si applica ad eccezione
della clausola oggetto della riserva (cd. riserva eccettuativa), oppure si applica con le
modifiche o con l’interpretazione volute dallo Stato riservante (cd. riserva modificativa
o interpretativa);
- nei rapporti tra Stato riservante e Stato obiettante, il trattato non si applica;
- nei rapporti tra Stati non riservanti, il trattato si applica integralmente.
La Convenzione di Vienna ha innovato questo regime, poiché prescrive che uno Stato, nel
formulare l’obiezione, deve precisare che non intende avere nessun rapporto contrattuale
con lo Stato riservante, nel caso in cui non voglia divenire parte del trattato nei confronti
dello Stato riservante. Se no, di fronte ad una semplice obiezione, lo Stato obiettante diventa
parte nei confronti dello Stato riservante e il trattato si applica ad eccezione della clausola
oggetto della riserva, qualunque sia la natura della clausola stessa.
Praticamente, nel caso in cui si tratti di una riserva eccettuativa, la semplice obiezione
produce gli stessi effetti dell’accettazione.
In caso di accettazione della riserva, la clausola che ne è oggetto si applica come modificata
o interpretata dallo Stato riservante;
in caso di obiezione non qualificata, la clausola oggetto della riserva non si applica.
La Convenzione di Vienna indebolisce la forza dell’obiezione e rende problematica la sua
formulazione da parte dei piccoli Stati nei confronti delle grandi potenze.
Problemi particolari si pongono a proposito dei trattati che stabiliscono vincoli solidali, cioè
obblighi erga omnes partes nei confronti di tutte le parti contraenti. In questo caso
l’obiezione è priva di significato pratico, poiché se uno Stato non applica il trattato nei
confronti dello Stato riservante, vìola il trattato nei confronti di tutti gli altri Stati -> es. i trattati
in materia di diritti dell’uomo oppure i trattati sul disarmo. Esemplificando, prensiamo in
considerazione il ‘Trattato sul divieto delle armi batteriologiche’ del 1972: se uno Stato parte
non applica il trattato nei confronti dello Stato riservante e procede quindi alla fabbricazione
di armi batteriologiche, allora questo vìola il trattato nei confronti degli Stati parti.
I trattati multilaterali spesso regolano il regime delle riserve, stabilendo quali sono le riserve
ammissibili oppure vietando l’apposizione di riserve. La giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo è orientata a considerare come non apposta (nulla) una riserva
inammissibile: tuttavia, è difficilmente concepibile che si possa considerare nulla la riserva.
Occorre seguire una determinata procedura temporale per l’apposizione di una riserva: le
riserve possono essere formulate al momento della firma, oppure in occasione di ratifica o
adesione.
- Riserve formulate al momento della firma = devono essere confermate al momento
della ratifica, tranne che la firma esprima già il consenso ad obbligarsi. La riserva può
essere ritirata in qualsiasi momento, senza che sia necessario il consenso dello
Stato accettante.
- Riserve formulate in occasione di ratifica o adesione = dopo la ratifica o l’adesione
non è più possibile formulare riserve. La prassi tuttavia riporta casi di ‘riserve tardive’:
queste per poter produrre effetti devono essere accettate da tutti gli Stati contraenti o
incontrare la loro acquiescenza (a meno che esse siano ammesse dal trattato).
Gli Stati hanno un illimitato diritto di effettuare obiezioni: le obiezioni possono essere
formulate sia da uno Stato parte, sia da un semplice firmatario. Nel caso in cui l’obiezione
sia formulata da uno Stato firmatario, allora l’obiezione produce i suoi effetti solo nel
momento in cui lo Stato firmatario diventa parte del trattato.
L’obiezione ad una riserva può essere ritirata in qualsiasi momento.
L’accettazione di una riserva, per poter produrre i suoi effetti, deve provenire da uno Stato
contraente; poiché l’accettazione può essere anche tacita, la Convenzione di Vienna
stabilisce che “uno Stato, qualora intenda obiettare, deve farlo entro 12 mesi dalla data di
ricezione della notifica della riserva”.
La prassi attesta una notevole volontà degli Stati a formulare riserve; nel caso in cui queste
riserve non venissero ammesse, gli Stati effettuano delle ‘dichiarazioni’ che non possono
valere come riserve, ma solo come interpretazione attribuita dallo Stato dichiarante ad una
particolare disposizione del trattato.
2. Sanabilità del trattato = la sanabilità del trattato deriva dall’esecuzione del trattato
nonostante la conoscenza del vizio, è ammissibile per le cause degli artt.46 al 50;
per le cause elencate dagli artt.51-53 non si perde mai il diritto di invocare l’invalidità
del trattato.
3. Diritto di invocare l’invalidità del trattato = questo spetta solo alla parte vittima del
vizio negli artt.46-50; spetta invece a ciascuna parte del trattato in relazione agli
artt.51-53.
INVALIDITÀ’ RELATIVA:
- violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare d’importanza
fondamentale
- errore
- dolo
- corruzione
INVALIDITÀ’ ASSOLUTA:
- violenza nei confronti dell’individuo-organo stipulante
- violenza nei confronti dello Stato
- contrarietà ad una norma imperativa del diritto internazionale
C) Errore:
L’errore consiste nella falsa rappresentazione di un fatto o di una situazione che uno Stato
supponeva esistente al momento della stipulazione del trattato. Sono pochi i casi in cui
l’errore è stato invocato; un tempo l’errore poteva riguardare una carta geografica, ma oggi è
difficilmente ammissibile poiché sarebbe assurdo che una cattiva conoscenza del diritto
internazionale venga invocata per invalidare un trattato. (quindi si considera l’errore di fatto e
non l’errore di diritto).
Per poter invocare l’errore come causa di invalidità, questi deve avere 3 caratteristiche:
1. essenziale = lo Stato non avrebbe concluso il trattato se non fosse incorso in errore;
2. scusabile = l’errore non può essere invocato quando le circostanze erano tali che lo
Stato si sarebbe dovuto rendere conto della possibilità di un errore;
3. incolpevole = l’errore non è invocabile quando lo Stato ha contribuito all’errore
mediante il suo comportamento.
L’errore materiale, quindi quell’errore riguardante la redazione del testo del trattato, non è
causa di invalidità. In tal caso di procede con la correzione del testo secondo la procedura
sancita nell’art.79 della Convenzione di Vienna. Nel caso in cui esista un depositario, questi
notifica agli Stati firmatari e contraenti l’errore e la proposta di correzione, fissando un
termine per la formulazione di eventuali obiezioni: se non viene effettuata nessuna
obiezione, allora il depositario procede alla correzione del testo.
Nei trattati redatti in più lingue, l’errore può riguardare la traduzione di un termine o di una
clausola -> ciò è accaduto per la Convenzione sul disarmo chimico del 1993, quando
sorsero delle divergenze tra il testo cinese e gli altri testi, che vennero poi corrette ricorrendo
alla procedura di cui all’art.79.
D) Dolo:
Uno Stato non può invocare l’invalidità del trattato qualora sia stato indotto a concludere
l’atto del comportamento fraudolento dall’altra parte (art.49 C. di Vienna).
Capotorti afferma che il dolo ha luogo mediante un inganno che induce l’altra persona in
errore (essenziale, scusabile o incolpevole).
Per poter essere causa di invalidità, il dolo deve essere opera di uno Stato che ha
partecipato alla negoziazione. Nella prassi internazionale è difficile riscontrare casi di dolo ->
es. secondo Scovazzi un caso di trattato concluso con dolo è il trattato di Uccialli tra Italia ed
Etiopia del 1889. L’Italia aveva stabilito mediante il trattato un protettorato sull’Etiopia,
mentre l’Etiopia credeva di aver stipulato un trattato di commercio e amicizia. Durante la
Conferenza di Vienna sul diritto dei trattati, l’Unione Sovietica citò il trattato Uccialli come
esempio di trattato concluso con dolo, anche se l’Etiopia negò di essere stata vittima di
raggiri.
E) Corruzione:
La corruzione è una sottospecie del dolo (art.50 Convenzione di Vienna).
Per poter essere causa di invalidità, la corruzione deve essere opera dell’altro Stato
partecipante alla negoziazione, deve essere sostanziale (piccoli favori non costituiscono
corruzione) e può essere diretta o indiretta (di solito la corruzione non è palese).
Il soggetto passivo della corruzione è il rappresentante dello Stato. Difficilmente si può
parlare di corruzione quando un trattato viene stipulato in forma solenne.
La prassi internazionale non presenta casi di trattati impugnati per corruzione, tuttavia vi
sono degli atti adottati per combattere la corruzione a livello internazionale, quali la
ris.51/191 del 1996 dell’Assemblea Generale o la Convenzione OSCE (organizzazione per
la cooperazione e lo sviluppo economico) contro le polemiche di corruzione.
H) La contrarietà del trattato a una norma imperativa del diritto internazionale (Ius cogens):
L’art.53 dispone la nullità del trattato nel caso in cui questo sia contrario ad una norma
imperativa del diritto internazionale -> es. di trattato contrario ad una norma imperativa:
alleanza aggressiva, poiché il divieto di aggressione è considerato universalmente come
appartenente allo ius cogens.
a) Denuncia o recesso:
La denuncia o recesso (art.54 Convenzione di Vienna) può aver luogo sia in relazione ad un
trattato multilaterale, sia in relazione ad un trattato bilaterale.
Il recesso di uno o più Stati da un trattato multilaterale non estingue il trattato tra le altre parti
contraenti.
Se il trattato contiene una clausola di denuncia o recesso, lo Stato dovrà seguire la
procedura stabilita dalla clausola-> es. normalmente i trattati di disarmo contengono una
clausola di recesso, che conferisce una certa discrezionalità allo Stato contraente che
intende liberarsi dai vincoli contrattuali; l’art. 10 del Trattato di non proliferazione nucleare
conferisce ad ogni Stato il diritto di recedere dal trattato se deciderà che eventi straordinari
relativi alla materia oggetto del trattato stesso abbiano messo in pericolo i supremi interessi
del suo Paese; secondo tale disposizione, il recesso da questo trattato può avvenire solo
dopo che siano trascorsi 3 mesi a partire dal momento in cui il recesso è stato notificato alle
altre parti contraenti e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Un problema si pone per i trattati stipulati a tempo indeterminato, che non contengono
alcuna clausola di denuncia o recesso: secondo l’art.56 della Convenzione di Vienna, la
denuncia o il recesso sono ammissibili quando essi possono essere dedotti dalla natura del
trattato oppure quando risulti dall’intenzione delle parti ammettere la possibilità di denuncia o
di recesso. Tuttavia, è difficile individuare una categoria di trattati che possono essere
oggetto di denuncia senza che contengano una clausola ad hoc. Secondo alcuni, i trattati di
alleanza potrebbero essere oggetto di una denuncia anche se non contemplata dal trattato.
La Carta delle Nazioni Unite non contiene alcuna disposizione sulla facoltà di recesso, ma
dai lavori preparatori si deduce che ‘circostanze eccezionali’ possono indurre uno Stato
membro a recedere dall’organizzazione delle Nazioni Unite -> il caso più noto è quello
dell’Indonesia che recedette dall’Onu nel 1965 per protesta contro l’elezione della Malaysia
nel Consiglio di sicurezza, ma vi rientrò nel 1966.
Il recesso è causa di estinzione del trattato, e si differenzia dalla sospensione = essa può
aver luogo se il trattato così dispone o per accordo successivo tra le parti (art.57).
c) L’impossibilità sopravvenuta:
L’art.61 della Convenzione di Vienna annovera l’impossibilità di esecuzione tra i motivi per
poter richiedere il recesso o invocare l’estinzione del trattato.
Se l’impossibilità è solo temporanea -> lo Stato può chiedere la sospensione dell’esecuzione
del trattato;
Si parla propriamente di ‘impossibilità di esecuzione’ quando l’impossibilità è data dalla
scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione del
trattato -> es. sentenza sul ‘progetto di diga sul Danubio’ : uno Stato che ha perso tutto il suo
territorio costiero e che è divenuto quindi privo di litorale, non potrà più osservare un trattato
di navigazione con cui consentiva l’accesso ai suoi porti.
La Corte in questa sentenza ha affermato che le difficoltà finanziarie non rientrano
generalmente tra le cause di impossibilità di esecuzione (anche se possono essere causa di
esclusione del fatto illecito sotto il profilo della responsabilità internazionale).
L’impossibilità di esecuzione non può essere invocata quando questa è conseguenza di una
violazione del trattato o di un altro obbligo internazionale a danno di qualsiasi altra parte del
trattato.
Il principio secondo cui un trattato può essere modificato solo con il consenso di tutte le parti
è un principio troppo rigido, che si adatta poco ai cambiamenti che si verificano nelle
relazioni internazionali. Per tale ragione, alcuni trattati prevedono una procedura di
emendamento erga omnes.
La decisione di emendare un trattato normalmente è presa solo da un gruppo di Stati parti,
tuttavia tutte le parti sono automaticamente vincolate dalla decisione presa e pertanto si
applica il trattato emendato. La Carta delle Nazioni Unite prevede che l’emendamento entri
in vigore solo dopo che sia stato adottato a maggioranza dei ⅔ dei membri dell’Assemblea
Generale e dopo che sia stato ratificato successivamente dai ⅔ dei membri delle Nazioni
Unite, inclusi i membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Regole particolari sono stabilite per i trattati di disarmo -> es. i trattati in materia nucleare
danno preminenza agli Stati nucleari.
Inoltre, un trattato può essere emendato dalla prassi successiva nel caso in cui questa
modifichi le disposizioni del trattato -> es. l’art.27 della Carta delle Nazioni Unite prevedeva il
voto affermativo di tutti i membri del Consiglio di sicurezza; si è però affermata la prassi
secondo cui l’astensione di un membro permanente non blocca la delibera del Consiglio.
Questa prassi (il cui valore è stato riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia) ha
portato alla nascita di una consuetudine particolare che modifica l’art.27 della Carta in virtù
dell’accordo successivo modificativo.
- art.87 comma 8 = recita che “il Presidente della Repubblica ratifica i trattati
internazionali, previa autorizzazione delle Camere (quando occorra)”. Secondo
l’art.80, l’autorizzazione delle Camere è richiesta per 5 categorie di trattati:
- trattati di natura politica
- trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari
- trattati che importano variazioni del territorio dello Stato
- trattati che importano oneri alle finanze
- trattati che importano modificazioni di leggi
Circa i ‘trattati di natura politica’, si tratta di un’espressione molto ampia, perché
anche un accordo tecnico potrebbe rientrare tra i trattati di natura politica.
La circolare n.5 del Ministro degli Affari Esteri Susanna Agnelli riporta che “per
quanto riguarda i trattati aventi natura politica, poiché ogni accordo internazionale ha
un qualche rilievo politico anche minimo, l’espressione in questione non può riferirsi
che ai trattati che hanno ‘un grande rilievo politico’, comportando scelte fondamentali
di politica estera”.
Circa i ‘trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari’ e i ‘trattati che
importano variazioni del territorio dello Stato’, si tratta di espressioni tecnico-
giuridiche che non lasciano dubbi. (Vi sono però accordi che, anche se non incidono
sul territorio dello Stato in senso stretto, incidono su aree in cui lo Stato gode di diritti
sovrani, come la piattaforma continentale o la zona economica esclusiva -> es.
l’accordo del 1969 sulla delimitazione della piattaforma continentale tra Italia e
Iugoslavia: inizialmente si procedeva a ratificare gli accordi relativi alla delimitazione
della piattaforma continentale italiana senza richiedere l’autorizzazione parlamentare;
successivamente, invece, la ratifica è stata preceduta dall’autorizzazione
parlamentare.
Circa i ‘trattati che importano oneri alle finanze dello Stato’, nella circolare n.5 del
Ministro degli Affari Esteri Susanna Agnelli si riporta che si fa riferimento ‘agli oneri
aggiuntivi rispetto a quelli che trovano copertura negli stanziamenti del bilancio dello
Stato’.
Infine, i ‘trattati che comportano modificazioni di leggi’ sono quei trattati che incidono
sul nostro ordinamento giuridico, in quanto si tratta di modificare una legge dello
Stato o si tratta di una materia su cui esiste una riserva di legge.
- art.72 comma 4 Cost. = impone la procedura normale per l’esame dei disegni di
legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, quindi una approvazione
diretta da parte delle Camere (escludendo che si possa ricorrere ad una forma
abbreviata, cioè solo in Commissione).
L’art.15 comma 2 della l.23 Agosto 1988 n.400 prevede che, per l’autorizzazione alla
ratifica dei trattati internazionali, non si possa procedere neanche con decreto-legge,
poiché l’autorizzazione parlamentare si configura come un atto di controllo
sull’esecutivo e come una compartecipazione Governo-Parlamento nell’assunzione
di diritti e obblighi derivanti dal trattato.
Per cui, nel nostro ordinamento si possono avere le seguenti forme di stipulazione di trattati
internazionali:
1. Trattati ricompresi nella categoria prevista nell’art.80 Cost., per cui è necessaria la legge
di autorizzazione alla ratifica e la ratifica da parte del Presidente della Repubblica;
2. Trattati per cui è richiesta solo la ratifica da parte del Presidente della Repubblica, che
sono stipulati in forma solenne;
3. Accordi in forma semplificata che entrano in vigore con la sola sottoscrizione da parte
degli organi dell’esecutivo. Gli accordi in forma semplificata sono trattati non stipulati in
forma solenne, che entrano in vigore quando vengono sottoscritti dal rappresentante
dell’esecutivo o attraverso lo scambio di documenti costituenti trattato (es. scambio di note).
Non possono essere stipulati trattati in forma semplificata per tutte le materie ricadenti
nell’art.80 Cost. : la loro stipulazione in forma semplificata è costituzionalmente illegittima,
poiché viene violata una disposizione dell’ordinamento italiano.
Possono essere stipulati trattati in forma semplificata per tutte quelle materie che non
ricadono nell’art.80 Cost. -> bisogna precisare che non esiste nessuna disposizione
costituzionale che legittimi la stipulazione di accordi in forma semplificata, tuttavia non vi
sono dubbi sulla loro legittimità sia perché vi è una prassi piuttosto consistente, sia perché la
l.11 dicembre 1984 n.839 menzionando esplicitamente gli accordi in forma semplificata ne
ammette implicitamente la legittimità. Nella circolare n.5 sopracitata si afferma che “si tratta
di una categoria di portata molto limitata, non espressamente contemplata in Costituzione
che, sulla base di una prassi ormai consolidata, comprende gli accordi esecutivi di
precedenti accordi precettivi regolarmente entrati in vigore e quelli di natura puramente
amministrativa o tecnica”.
Secondo la circolare del 3 marzo 2008 n.4 del Ministro degli Affari Esteri Susanna Agnelli
non costituiscono accordi in forma semplificata le ‘intese interministeriali e tecniche’ la cui
caratteristica è quella di far sorgere impegni di collaborazione tecnico-amministrativa e
impegni di natura politica esclusivamente tra le singole Amministrazioni stipulanti. Queste
intese dovrebbero essere previamente inviate al MAE per acquisire un parere circa la natura
dell’atto, circa la sua compatibilità con il quadro normativo nazionale ed europeo, che con i
vincoli internazionali dell’Italia, ed ottenere poi il nulla-osta per la firma.
Le intese non sono concluse a nome dello Stato italiano e la loro natura non è
giuridicamente vincolante per lo Stato; esse non devono contenere clausole tipiche degli
accordi internazionali (come entrata in vigore, denuncia, modifica, soluzione delle
controversie). Tuttavia si pone un problema sul valore giuridico che l’amministrazione
stipulante deve attribuire ad esse, soprattutto quando non hanno carattere squisitamente
politico, e problemi circa la loro efficacia nell’ordinamento interno, cioè se esse possono
essere oggetto di atti amministrativi per la loro esecuzione.
Nell’ordinamento italiano mancava un documento ufficiale dove vengono elencati i trattati
che vincolano lo Stato; alla lacuna si è ovviato con la l.11 dicembre 1984, il cui art.4 impone
di trasmettere trimestralmente i trattati vincolanti per l’Italia; l’art.9 prescrive che siano
pubblicati annualmente in un volume ad hoc della Gazzetta Ufficiale gli accordi internazionali
vigenti per l’Italia, indicando gli Stati parti e le eventuali riserve; l’art.80 della Convenzione di
Vienna prescrive la pubblicazione dei trattati dopo la loro entrata in vigore.
Questa prescrizione è presente nel nostro ordinamento in virtù della legge di adattamento.
Si è posta una questione relativa ai ‘trattati segreti’, e cioè se questi possono ssere stipulati
all’interno del nostro ordinamento: secondo alcuni la risposta è no, in quanto l’ordinamento
internazionale impedirebbe di stipulare trattati segreti e anche la nostra Costituzione lo
impedirebbe; secondo altri, occorre coordinare la legge 11 dicembre 1984 con la legge sul
segreto di Stato, cioè la legge 3 agosto 2007 n.124.
Il trattato segreto sarebbe costituzionalmente ammissibile solo per gli accordi in forma
semplificata che non abbiano per oggetto le materie disciplinate dall’art.80 Cost. (è
altamente improbabile che un accordo segreto disciplini le materie dell’art.80 Cost, in quanto
l’accordo segreto è necessariamente di natura politica).
Anche in relazione ai trattati è possibile stipulare delle clausole segrete, che potrebbero
danneggiare i supremi interessi dello Stato: per cui si è stabilito che “il Governo può
legittimamente concludere con il paese contraente un ‘accordo quadro’ da cui sia omessa la
disciplina delle parti più strettamente tecnico-militari che potranno formare oggetto di alcune
clausole segrete”.
Un altro problema riguarda l’esecuzione provvisoria del trattato, infatti vi potrebbero essere
delle ragioni di urgenza che potrebbero imporre l’esecuzione del trattato prima che questo
sia stato ratificato. La Convenzione di Vienna ha discusso su questo punto, e a tal proposito
il suo art.25 stabilisce che “un trattato possa essere provvisoriamente applicato prima della
sua entrata in vigore quando ciò venga stabilito dai negoziatori”. Nel nostro ordinamento
questo problema si pone con riguardo agli accordi disciplinati dall’art.80 Cost. e per gli
accordi per cui è richiesta la ratifica del Presidente della Repubblica (al di fuori di questi due
casi, è possibile ricorrere alla forma semplificata).
Si ritiene che non esiste un ostacolo costituzionale ben preciso a tale possibilità, infatti
l’art.80 Cost. ha per oggetto la ‘ratifica’, cioè l’entrata in vigore del trattato, e non la sua
provvisoria applicazione. Motivo per il quale l’adattamento del nostro ordinamento alla
Convenzione di Vienna ha comportato l’introduzione dell’art.25 della Convenzione nel nostro
ordinamento: la norma abilita gli organi dell’esecutivo a disporre la provvisoria esecuzione
del trattato. Si potrebbe in qualche modo ammettere che l’art.25 sia una norma dichiarativa
del diritto internazionale consuetudinario: ammettendo ciò, il principio della provvisoria
esecuzione assumerebbe nel nostro ordinamento rango costituzionale, in virtù
dell’adattamento sancito nell’art.10 Cost. Ammettere che l’art. 25 rientri tra le norme del
diritto internazionale consuetudinario farebbe venire meno ogni problema circa la
costituzionalità del procedimento di esecuzione provvisoria. Eventualmente, il Governo
dovrà informare ampiamente il Parlamento e la provvisoria esecuzione deve essere disposta
dall’accordo stesso (e non decisa unilateralmente).
Il Parlamento si è dichiarato contrario all’applicazione provvisoria degli accordi internazionali,
tranne nel caso di espressa autorizzazione.
Il diritto internazionale regola i rapporti tra Stati, ma per raggiungere i suoi obiettivi necessita
della cooperazione degli ordinamenti interni statali. Da ciò deriva l’esigenza di apportare
nell’ordinamento interno tutte quelle modifiche necessarie per conseguire il raggiungimento
degli obiettivi fissati dal diritto internazionale.
Ogni ordinamento giuridico statale procede autonomamente all’adattamento del diritto
interno al diritto internazionale: nell’ordinamento italiano si distingue l’adattamento al diritto
internazionale consuetudinario e l’adattamento al diritto internazionale pattizio:
- Adattamento al diritto internazionale consuetudinario : il procedimento di
adattamento è disciplinato dall’art.10 comma 1 Cost.
- Adattamento al diritto internazionale pattizio : per questo tipo di adattamento manca
una disciplina d’adattamento.
Bisogna precisare che la modifica apportata all’art.117 Cost. non riguarda l’adattamento, ma
bensì la prevalenza delle norme internazionali facenti parte del nostro ordinamento sulle
norme di legge contrarie.
Vi sono casi in cui la scelta del modo di adattamento è obbligata, poiché il trattato impone
agli Stati di adottare determinate misure per la sua esecuzione -> es. l’art.8 della
Convenzione sul disarmo chimico del 1993 obbliga gli Stati parti a reprimere le attività
proibite dalla Convenzione stessa, ed estende la legislazione penale in materia anche alle
attività commesse dai propri cittadini all’estero.
L’ordine di esecuzione può essere contenuto in una legge oppure in un atto regolamentare
da adottare con decreto: la scelta di uno dei due dipende dalla potenzialità di produzione
giuridica dei vari atti e si opera individuando quale sarebbe l’atto normativo necessario
qualora si dovesse procedere all’adattamento con procedimento ordinario (es. se il trattato
riguarda una materia disciplinata da legge o da una riserva di legge, allora l’ordine di
esecuzione dovrà essere contenuto in una legge ordinaria). Tuttavia, bisogna tenere
presente che l’art.11 Cost. è una cd. ‘norma permissiva’, perché consente di disporre
l’adattamento con legge ordinaria ai trattati contemplati nella disposizione, nonostante essi
incidano su materie disciplinate da norme costituzionali.
Le norme internazionali introdotte tramite ordine di esecuzione sono soggette al sindacato di
costituzionalità: in caso di contrasto, la legge di esecuzione viene dichiarata incostituzionale
nella parte in cui immette nel nostro ordinamento norme contrarie alla Costituzione.
Ci si è chiesto se sono emendabili (modificabili) gli atti con cui nel nostro ordinamento viene
dato rilievo al trattato internazionale? Bisogna distinguere i tipi di atti: vi sono infatti
- l’autorizzazione alla ratifica
- ordine di esecuzione -----> sia l’autorizzazione alla ratifica che l’ordine di esecuzione
fanno parte dello stesso disegno di legge.
Nel caso in cui sia formulato un emendamento, significa che le Camere vogliono un trattato
diverso da quello negoziato, quindi l’esecutivo deve negoziare un nuovo testo (a meno che
l’ostacolo si possa superare tramite l’apposizione di una riserva, in caso di trattato
multilaterale). Ciò non vale per le modifiche di natura formale, come è avvenuto ad es. per il
disegno di legge di autorizzazione alla ratifica della Convenzione di New York sulle immunità
giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, approvato dalla Camera dei Deputati con la modifica
del termine ‘ratifica’ sostituito da quello ‘adesione’, poiché l’Italia doveva necessariamente
aderire (visto che non aveva firmato il trattato nei termini prescritti).
Il disegno di legge, nella parte relativa all’ordine di esecuzione, è un atto che è legge in
senso formale e in senso materiale, per cui è emendabile; si può procedere con
emendamento solo se questi non produca una sfasatura dell’entrata in vigore del trattato sul
piano internazionale e sul piano interno oppure solo se non abbia lo scopo di modificare il
contenuto del trattato.
Nel procedimento con ordine di esecuzione si finisce quasi sempre per derogare il normale
termine di vacatio legis di 15 giorni dalla pubblicazione dell’atto nella Gazzetta Ufficiale,
disposto dall’art.10 preleggi: la deroga porta a far entrare in vigore le norme interne di
esecuzione a partire dal momento di entrata in vigore del trattato per l’Italia.
Nel caso in cui vi sia un procedimento misto, anche la vacatio legis può essere mista -> es.
le norme di esecuzione del trattato disposte tramite ordine di esecuzione entreranno in
vigore dal momento dell’entrata in vigore del trattato nell’ordinamento internazionale, mentre
le disposizioni dettate con il procedimento ordinario entrano in vigore secondo quanto
stabilito dall’art.10 preleggi -> ciò è avvenuto con la l.18 Novembre 1995 n.496, con cui si è
data attuazione alla Convenzione sul disarmo chimico del 1993. La Convenzione è entrata in
vigore nel nostro ordinamento da quando essa è entrata in vigore nell’ordinamento
internazionale, cioè nel 1997.
Bisogna osservare che nel nostro ordinamento l’adattamento avviene contemporaneamente
o successivamente alla legge di autorizzazione alla ratifica del trattato; nei paesi di common
law invece si segue una regola diversa: prima viene adottata la legge di esecuzione e poi si
procede alla ratifica del trattato (la regola che si usa nei paesi di common law, se venisse
applicata nel nostro ordinamento, ridurrebbe il problema delle norme non self executing, cioè
il ricorso all’ordine di esecuzione quando questo sia palesemente inidoneo ad assicurare la
trasposizione delle norme del trattato nell’ordinamento interno).
La Costituzione dispone poi la superiorità dei trattati che disciplinano lo status degli stranieri:
secondo l’art.10 comma 2 Cost. “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge
in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Pertanto, una norma interna in
contrasto con un trattato sulla condizione dello straniero sarebbe viziata di incostituzionalità.
Si perviene a questa tesi anche applicando l’art.117 Cost., infatti sarebbero ritenuti
incostituzionali quelle norme interne che imponessero obblighi allo straniero in contrasto con
il trattato e non quelle che conferissero un trattamento più favorevole.
L’adattamento alle fonti previste da accordo:
Si pone un problema riguardante le norme prodotte da una fonte giuridica di terzo grado
(fonte prevista da accordo), e cioè se queste entrino automaticamente nel nostro
ordinamento una volta che sia stata data esecuzione al trattato che tale fonte prevede,
oppure se sia necessario un provvedimento ad hoc.
Per risolvere questo problema, bisogna fare una distinzione:
- qualora il trattato preveda espressamente l’efficacia interna delle norme prodotte,
allora queste norme entreranno automaticamente in vigore nell’ordinamento interno -
> ciò avviene per i regolamenti dell’UE che, secondo l’art.288 TFUE, sono obbligatori
in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri.
- qualora il trattato non disponga nulla, l’applicabilità diretta potrebbe essere desunta
dall’ordine di esecuzione del trattato. L’ordine di esecuzione quindi dovrebbe
immettere nel nostro ordinamento le norme prodotte in virtù dei meccanismi creati
dal trattato. Tuttavia la prassi è contraria a ciò: innanzitutto perché spesso la fonte di
terzo grado non contiene norme self-executing; poi perché esiste una naturale
diffidenza ad accogliere fonti di un altro ordinamento senza un controllo da parte
dell’ordinamento in cui devono trovare attuazione.
Per quanto riguarda gli “allegati tecnici” alla Convenzione ICAO, adottati dal Consiglio
dell’Organizzazione, l’art.690 del codice della navigazione stabilisce che questi devono
essere recepiti in via amministrativa, sulla base dei principi generali stabiliti dal dpr. 4 luglio
1985 n.461, anche mediante l’emanazione di regolamenti tecnici dell’ENAC.
Quanto vale per gli allegati tecnici, vale anche per le sentenze internazionali che devono
essere attuate nell’ordinamento interno.
La sentenza internazionale è normalmente una sentenza di puro accertamento e quindi lo
Stato dovrà prendere tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta; nel
nostro ordinamento la sentenza non ha efficacia diretta.
Anche le sentenze della Corte europea dei diritto dell’uomo non hanno forza esecutiva
all’interno dell’ordinamento statale. Il problema è particolarmente delicato per quelle
sentenze la cui esecuzione nell’ordinamento interno potrebbe comportare la revisione del
giudicato e la riapertura del procedimento (la questione si pone per la Corte europea dei
diritti dell’uomo, ma si è posta anche per le sentenze della Corte internazionale di giustizia
qualora la Corte decida per la ‘restitutio in integrum’ comportante l’annullamento della
sentenza del giudice interno -> es. ciò è accaduto nel ‘caso Avena e altri cittadini messicani’
con cui la Corte ordinò agli Stati Uniti di riaprire i procedimenti giudiziari che avevano portato
alla condanna di alcuni cittadini messicani, senza che questi fossero stati informati del diritto
all’assistenza consolare che avrebbero potuto ottenere in virtù dell’art.36 della Convenzione
di Vienna sulle relazioni consolari. Meddelin, uno dei 52 cittadini messicani compresi nel
ricorso del Messico nel caso ‘Avena’ si oppose alla condanna a morte decretata dalla Corte
del Texas; la Corte Suprema degli StatI Uniti ritenne che la sentenza della Corte
internazionale di giustizia non fosse direttamente applicabile negli Stati Uniti e pertanto la
pena di morte fu eseguita.
Anche le sentenze della Corte internazionale di giustizia sono vincolanti: la questione si è
posta in relazione alla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 Febbraio 2012
‘Germania c. Italia’, nonostante la Corte avesse lasciato l’Italia libera di provvedere a
rimuovere la decisione giudiziaria consentendole l’adozione di una legislazione più
appropriata o di altri mezzi a sua scelta.
L’Italia, per potersi conformare alle sentenze della Corte, avrebbe dovuto rimuovere le
sentenze dei nostri giudici con cui la Germania era sottoposta a giurisdizione (comprese
quelle passate in giudicato)....pag.272
L’art.117 Cost. pone un vincolo al legislatore italiano circa gli obblighi derivanti da fonti
previste da accordo: la disposizione fa riferimento ‘agli obblighi internazionali’, una formula
molto ampia che include anche gli obblighi derivanti da fonti di terzo grado. Pertanto, la
norma di adattamento alla norma prodotta dalla fonte di terzo grado è una norma interposta
tra la legge ordinaria e la Costituzione e una legge ordinaria contrastante dovrebbe essere
rimossa mediante un rinvio alla Corte Costituzionale.
Il sindacato giurisdizionale da parte del giudice interno sui trattati e sugli atti delle
organizzazioni internazionali:
Ci si è chiesto se il giudice interno possa sindacare la vigenza di atti internazionali (sia che si
tratti di trattati o di atti di organizzazioni internazionali)?
Per quanto riguarda i trattati = il giudice nazionale non dovrebbe applicare un trattato che
esso consideri invalido o estinto. Tuttavia, questa affermazione è in contrasto con la teoria
dell’atto politico cui fanno spesso ricorso i giudici italiani e i giudici di common law.
La rilevanza dei trattati sancita nell’art.117 Cost. induce a ridimensionare questa teoria e
dare una valutazione critica alla tesi secondo cui il trattato, coinvolgendo una scelta di
politica estera dello Stato, non sarebbe sindacabile in sede giurisdizionale.
- il giudice potrebbe dichiarare l’invalidità del trattato, incidenter tantum, quando ricorra
una causa di invalidità assoluta, di cui agli artt.51-53 della Convenzione di Vienna.
Spetterà all’esecutivo (Governo) impugnare il trattato e seguire le disposizioni di
procedura dettate dalla Convenzione di Vienna; gli Stati che non sono vincolati dalla
Convenzione di Vienna dovranno seguire le procedure dettate dal diritto
consuetudinario.
- Circa l’estinzione dei trattati = il giudice interno non applicherà il trattato nel caso in
cui ricorra una causa automatica di estinzione, come ad es. il termine finale oppure
un mutamento di sovranità che possono determinare l’estinzione del trattato; la
guerra comporta in certi casi l’estinzione automatica del trattato.
L’estinzione del trattato è rimessa alla volontà dell’esecutivo (denuncia), per cui il
giudice non applicando il trattato finirebbe per invadere le competenze che non gli
sono proprie.
Per quanto riguarda gli atti delle organizzazioni internazionali, occorre distinguere:
in un sistema come quello dell’Unione Europea in cui spetta al giudice UE statuire sulla
validità dell’atto, il giudice nazionale non può dichiarare quindi l’atto invalido; al massimo può
effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Per le decisioni del Consiglio di sicurezza che hanno effetto negli ordinamenti statali? Il
Consiglio di sicurezza nell’adottare le sue decisioni è vincolato dalla Carta delle Nazioni
Unite, pertanto in linea di principio, un atto del Consiglio di sicurezza che sia contrario alle
disposizioni sancite dalla Carta delle Nazioni Unite dovrebbe essere considerato invalido.
A tal proposito, la Corte federale svizzera ha stabilito che le corti interne non possono
statuire sulla validità di una risoluzione del Consiglio di sicurezza, a meno che questa sia
contraria ad una norma imperativa del diritto internazionale.
A nostro parere, si è ritenuto che il giudice interno potrebbe dichiarare invalida la risoluzione
e disapplicarla nel caso concreto -> es. decreto con cui si decide di inviare derrate alimentari
essenziali e medicinali alla popolazione di uno Stato colpito da embargo; il giudice interno
dovrebbe effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte UE, cui spetterebbe decidere se l’atto
in questione sia invalido per aver dato esecuzione ad una risoluzione illegittima del Consiglio
di sicurezza; in caso di sentenza sfavorevole, resterebbe la possibilità di sollevare giudizio di
costituzionalità di fronte alla Corte Costituzionale invocando la teoria dei controlimiti.
La questione è stata affrontata nel 2017 dall’Institut de droit international, che ha adottato
una risoluzione in materia: la risoluzione, dopo aver specificato che la Carta delle Nazioni
Unite non dispone di alcun meccanismo per esaminare la validità delle risoluzioni del
Consiglio di sicurezza azionabile dal giudice interno, afferma che ‘un giudizio sulla validità
delle risoluzioni è precluso alle corti regionali e ai tribunali interni; il giudice dovrebbe
valutare la conformità a diritto della legislazione interna di esecuzione delle risoluzioni del
Consiglio di sicurezza’.
Tuttavia, l’art.103 della Carta delle Nazioni Unite, in caso di conflitto, sancisce la superiorità
degli obblighi stabiliti dalla Carta rispetto a quelli derivanti da qualsiasi altro obbligo
internazionale.