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Istituzioni di diritto Internazionale Carbone - Luzzato

Diritto Internazionale/ International Law (Università degli Studi di Udine)

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ISTITUZIONI DI DIRITTO INTERNAZIONALE 5° EDIZIONE


Sergio Carbone, Riccardo Luzzato, G. Giappichelli Editore

_______________________________________________________________________________________

1 I SOGGETTI E GLI ATTORI NELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE

1.1 La personalità giuridica degli Stati nel Dir.Int.

L’individuo è il soggetto primario degli ordinamenti statali in funzione delle cui caratteristiche ed esigenze è
formulata la normativa di diritto comune.
Nel Dir.Int. , al contrario, i soggetti primari della disciplina sono enti collettivi, mentre gli individui non
sono, in genere, titolari di situazioni giuridiche direttamente da loro azionabili nell’ambito della comunità
internazionale.

Tra i soggetti primari del Dir.Int. pubblico, i più importanti sono gli Stati. Ciascuno di essi, nel loro
ordinamento interno determina e regola le modalità di organizzazione dei propri enti collettivi.
Diversamente, nel Dir.Int. non vi sono precisi assetti organizzativi e/o modalità procedimentali. Il Dir.Int. si
limita a prendere atto della loro esistenza e della loro effettiva operatività.

Il Dir.Int. dell’era moderna ha origine quando, nel secolo XVII, gli Stati si affermarono quali enti dotati di un
determinato popolo e territorio oltreché caratterizzati da indipendenza e sovranità. Ciò che rileva è che lo
Stato, al di là dell’aspetto formale, quale ente sia attualmente in grado di tenere insieme e soddisfare due
esigenze “contraddittorie”: garantire la sicurezza e realizzare la solidarietà sociale degli individui.

I popoli risultano così uniti in varie comunità organizzate in vari Stati secondo diverse modalità, con proprie
origini e tradizioni.
Il momento iniziale di questo periodo storico è indicato nella conclusione del trattato di Westfalia del 1648
[pose fine alla guerra dei trent’anni] in occasione del quale lo Stato, da un lato, consolida definitivamente la
propria indipendenza rispetto al Papa e rispetto all’Imperatore [dei quali disconosce qualsiasi supremazia],
dall’altro afferma il proprio dominio esclusivo su un determinato territorio e sulla relativa popolazione.

In tal senso sovranità esterna o indipendenza [da qualsiasi altro ente o sistema normativo] e sovranità
interna [governo su territorio e popolazione] sono gli elementi costitutivi dello Stato quale soggetto di
Dir.Int.

1.1.1 La struttura della comunità internazionale

Quindi il Dir.Int. non attribuisce la sovranità alle organizzazioni collettive identificate con gli Stati né,
tantomeno, prevede modalità per l’accertamento costitutivo dell’esercizio della sovranità di tali enti e
dell’originarietà del loro ordinamento. Esso si limita a verificare la presenza fattuale di tali requisiti e, in
funzione di essi, la conseguente personalità giuridica, garantendo una specifica disciplina rivolta a preservare
tali caratteristiche e a rendere compatibile il relativo esercizio facendolo coesistere con quello degli altri
Stati.

Tali circostanze, rendono il Dir.Int. giuridicamente sovraordinato rispetto agli ordinamenti degli Stati [dotati
di personalità giuridica internazionale], ma al tempo stesso ciò non comporta che tali ordinamenti si debbano
considerare dipendenti dall’ordinamento internazionale.
È ben vero che l’autonomia degli Stati tende ad essere progressivamente ridotta dall’attuale evoluzione del
Dir.Int., dove le determinazioni e la sovranità degli Stati subiscono vincoli e condizionamenti di varia natura:
rispetto dei diritti dell’uomo, la protezione dell’ambiente, ecc. È altrettanto vero che tali condizionamenti
non pregiudicano l’auto-legittimità, la sovranità e l’indipendenza degli Stati.

Ogni Stato trova in se stesso la fonte che ne origina l’esistenza e legittima l’attribuzione a suo beneficio della
personalità giuridica internazionale, con la conseguente operatività delle norme di Dir.Int. a tutela
dell’esercizio della sua sovranità sul proprio territorio e sulla relativa popolazione in esso insediata.

Caratteristiche costitutive della personalità giuridica internazionale:


Stati dotati di indipendenza giuridica (sovranità esterna);
Stati dotati di una popolazione permanente, di uno specifico ambito territoriale e di un ente di governo

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effettivo (sovranità interna);


Il rispetto dei diritti dell’uomo e del principio di autodeterminazione;

1.2 La sovranità esterna o “indipendenza giuridica”

Per quanto riguarda l’indipendenza [da qualsiasi altro ente o sistema normativo] dello Stato [altrimenti
definita sovranità esterna o capacità di intrattenere rapporti con altri Stati] essa deve intendersi ed essere
valutata soprattutto in termini di indipendenza giuridica: e cioè di indipendenza dell’ordinamento giuridico
dello Stato rispetto ad altri ordinamenti giuridici e sistemi normativi. In altri termini si tratta di verificare
l’originarietà del suo ordinamento giuridico. Esso, quindi, deve trovare la fonte di legittimità in se stesso e
non deve dipendere dall’ordinamento di un altro Stato o dall’ordinamento di qualsiasi gruppo di Stati. Lo
Stato che si trova in condizioni di dipendenza da un altro Stato non essendo indipendente non può essere
soggetto di Dir.Int. Ovviamente la concezione giuridica di indipendenza non ha niente a che fare con la
soggezione di uno Stato al Dir.Int., d’altro canto l’indipendenza giuridica di uno Stato non esclude una
dipendenza di fatto [economica o politica].

1.2.1 La situazione in cui la dipendenza da enti esterni esclude l’indipendenza giuridica

Di per sé le restrizioni alla libertà dello Stato imposte dal Dir.Int. o dipendenti da impegni volontariamente
assunti o di fatto esistenti nei confronti di un altro Stato, non incidono sull’indipendenza ai fini
dell’attribuzione di personalità giuridica e quindi sulla sua sovranità esterna. Solo quando esse si trasformano
in vincoli che pongono lo Stato sotto una vera e propria autorità legale di un altro Stato, con intensità tale da
impedire la sua autonomia decisionale, si potrà ritenere che questa circostanza pregiudichi la sua
“indipendenza” in modo tale da rilevare ai fini di escludere l’attribuzione della personalità giuridica
internazionale.

1.2.2 Gli Stati membri di Stati federali ed il loro difetto di “sovranità esterna”

Non possono essere considerati dotati di personalità giuridica internazionale proprio per la mancanza di una
loro indipendenza, gli Stati membri di Stati federali. Essi, pur se dotati di una loro autonomia relativamente
alla conclusione di accordi di rilevanza internazionale, non sono in grado di instaurare tali rapporti quale
attività di un distinto soggetto dallo Stato federale o dallo Stato a cui appartengono.

Anche nei casi in cui Stati federali o regioni si vedono riconosciute una qualche autonomia sul piano delle
relazioni internazionali, l’esercizio di tale potere è sempre subordinato e condizionato dal potere centrale
dello Stato.

1.3 La sovranità “interna”: la triade popolo – governo – territorio

Per quanto riguarda la sovranità [interna] che deve caratterizzare lo Stato per consentirgli di acquisire la
personalità giuridica internazionale, essa deve comportare necessariamente la presenza di una comunità che
consiste di un territorio e di una popolazione governata da un’autorità governativa.

«il Dir.Int. riconosce come Stati soltanto quegli enti che, in piena indipendenza, esercitano il proprio potere
di governo collettivo nei confronti di una comunità stanziata sul territorio, onde è da ritenersi principio
acquisito che la sintesi statuale debba essere espressa dalla triade popolo-governo- territorio».

Tradizionalmente con riferimento alla popolazione s’intende un insieme di individui che convivono
stabilmente nell’ambito di uno spazio con caratteristiche di comunità dotata di una propria e particolare
coscienza politica pur potendo appartenere a differenti culture origini e credo religiosi.
Gli spazi di comune convivenza devono necessariamente identificarsi in uno specifico territorio consistente
in “una parte della superficie terrestre venuta a crearsi in modo naturale” alla quale non può essere
assimilata una “piattaforma artificiale”. Non è necessario che tale territorio abbia determinati confini ben
stabiliti ne è necessario che abbia un’estensione minima o particolare.

Ciò che rileva è la presenza di un’autorità politica organizzata in grado di esercitare le funzioni sovrane
con caratteristiche di effettività e al tempo stesso adeguatamente rappresentativa della popolazione insediata
nell’ambito del territorio di cui si dà carico di tutelare i relativi interessi. In tal modo si vuole soddisfare
l’esigenza che un determinato ambito spaziale sia sotto il controllo e la tutela di un’autorità di governo che
dia cura ed operi nell’interesse degli individui presenti in un determinato territorio. Tale tutela, da parte di

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un’autorità di governo, deve essere conforme ai limiti previsti dal Dir.Int., con particolare riguardo ai
rapporti con nei gli altri Stati.

Ciò che interessa è l’effettivo esercizio di tutte le funzioni sovrane su un territorio e su una popolazione a
prescindere dai criteri attraverso i quali si è consolidata nel tempo la titolarità e l’effettivo esercizio di tali
funzioni.
L’esercizio di tali funzioni deve risultare esclusivo con riferimento sia al territorio sia alla popolazione dello
Stato; anzi è proprio nella diretta riconducibilità al popolo di tale potere che il Dir.Int. progressivamente
attribuisce sempre maggior rilevanza ai fini della riconoscibilità della personalità giuridica di Dir.Int..

1.3.1 Gli ulteriori potenziali requisiti: il rispetto dei diritti dell’uomo e del principio di
autodeterminazione

La progressiva evoluzione del sistema normativo internazionale sembra voler qualificare ulteriormente le
modalità attraverso le quali il requisito relativo al controllo ed esercizio del potere di governo sul territorio e
popolazione deve manifestarsi ai fini dell’accertamento della personalità giuridica di uno Stato. Secondo
alcune pratiche internazionali, tale potere deve affermarsi ed essere gestito anche nel rispetto delle norme
relative ai diritti dell’uomo. Tanto che, nel caso di violazione su ampia scala di tali diritti, si legittima
l’intervento da parte di altri Stati e l’uso della forza al fine di garantirne il rispetto.

Oltre al rispetto dei diritti umani si va sempre più affermando l’idea che il potere di governo e di imperio
deve essere legittimato dal, e garantire l’esercizio del, c.d. diritto all’autodeterminazione [interna] dei
popoli.
L’autodeterminazione dei popoli esprime non già un’aspirazione, ma anche un principio fondamentale di
Dir.Int. La presenza di un sistema effettivamente rappresentativo della popolazione presente in un
determinato territorio, tende ad assumere rilevanza anche giuridica nella valutazione della personalità
giuridica internazionale di uno Stato.

1.3.2 Prassi recenti al limite al diritto all’autodeterminazione dei popoli

L’adeguata rappresentatività politica delle autorità pubbliche dotate del potere di imperio su un determinato
territorio e la loro legittimazione secondo corretti criteri di autodeterminazione dei popoli costituiscono
circostanze che solo di recente hanno assunto una qualche rilevanza ai fini della soggettività internazionale
degli Stati.

La prassi internazionale ha però evidenziato che tale principio è Stato spesso utilizzato a sproposito:
l’invocata autodeterminazione del popolo della Crimea a favore della riunificazione con la Russia, dalla
generalità degli Stati, è stata considerata del tutto irrilevante e, comunque, non idonea a giustificare
l’autonomia organizzativa o l’appartenenza ad uno Stato diverso da quello di cui faceva parte.
È, in ogni caso escluso, che al principio di autodeterminazione possano essere assegnati effetti retroattivi tali
da incidere sulla personalità giuridica internazionale di enti statali che si sono già affermati come soggetti
della Comunità internazionale pur in difetto di una specifica e autonoma determinazione democratica da
parte della loro popolazione.

In conclusione, pur essendo presenti nella Comunità internazionale importanti fermenti rivolti ad affermare
l’operatività dei principi dell’autodeterminazione dei popoli, ciò che tutt’ora rileva ai fini del riconoscimento
della personalità giuridica degli Stati è la presenza di un’organizzazione dotata di potere effettivo e
indipendente in grado di esercitarlo su una comunità territoriale.

1.4 Il riconoscimento: suo valore meramente dichiarativo

Le dinamiche internazionali e le circostanze oggetto di dibattito rivestono una precisa valenza politica e
producono alcuni effetti giuridici che si esprimono soprattutto attraverso il “riconoscimento degli Stati” e gli
atti che a tale riconoscimento seguono.
In realtà l’acquisto della personalità giuridica internazionale avviene in presenza del fattuale riscontro degli
elementi costitutivi dello Stato, a prescindere da qualsiasi procedimento formale accertativo di tali elementi.

Il riconoscimento di uno Stato è un atto meramente dichiarativo della sua personalità giuridica
internazionale. Ha l’effetto di poter essere invocato come prova presuntiva, sia della sussistenza degli
elementi costitutivi della personalità giuridica internazionale, sia della volontà da parte degli Stati che lo

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hanno effettuato di intrattenere rapporti giuridici rilevanti dell’ordinamento internazionale con lo Stato nei
confronti del quale opera il riconoscimento.

Il mancato riconoscimento da parte degli altri Stati non incide sull’attribuzione della personalità giuridica di
uno Stato e dei conseguenti diritti ed obblighi previsti dal Dir.Int. salvo su quelli relativi ai rapporti
amichevoli e all’avvio di forme più o meno intense di cooperazione volontaria. Quindi il riconoscimento è un
atto essenziale al fine di permettere una partecipazione dello Stato alla comunità internazionale attraverso
l’attivazione di rapporti di collaborazione ed assistenza interstatale. L’applicazione delle immunità opera in
maniera limitata nei confronti dello Stato non riconosciuto.

1.4.1 Posizione dello Stato non riconosciuto nella comunità internazionale

Da quanto sopra consegue che anche uno Stato non riconosciuto, purché dotato delle caratteristiche fattuali:
a) non può essere oggetto di atti di aggressione, ed il suo territorio non può essere considerato terra nullis e
b) ha diritto a vedere riconosciute le immunità previste dal Dir.Int. ed in particolare l’esercizio della
giurisdizione penale a favore dei suoi vertici istituzionali.

Peraltro, lo Stato non riconosciuto non può pretendere di far valere, nei confronti degli Stati che non lo
riconoscono, alcun diritto di attivare i procedimenti di formazione volontaria delle norme di Dir.Int. al fine di
instaurare rapporti di collaborazione ed assistenza interstatale.
Il “riconoscimento” è impiegato nelle relazioni internazionali come “biglietto di ammissione” ad effettivi e
intensi rapporti internazionali convenzionali [difensivi, commerciali] o a normali rapporti diplomatici.

In conclusione il riconoscimento non incide costitutivamente sull’attribuzione della personalità giuridica


degli Stati ma, da un lato, favorisce la prova della presenza degli elementi costitutivi di tale personalità e,
dall’altro, è un atto essenziale al fine di permettere una loro effettiva partecipazione alla Comunità
internazionale attraverso l’attivazione di rapporti di collaborazione e assistenza interstatale.

1.4.2 La personalità degli enti diversi dagli Stati

Il diritto internazionale, elaborato per secoli secondo una disciplina di diritto comune rivolta a garantire e
preservare la coesistenza degli Stati e l’esercizio delle reciproche sovranità è progressivamente evoluto verso
forme e sulla base di norme idonee a favorire la cooperazione tra Stati; si riscontra una progressiva riduzione
dell’assolutezza della sovranità degli Stati e dell’esclusività del relativo esercizio sulle loro popolazioni e sul
loro territorio. Hanno pertanto assunto un sempre più rilevante ruolo alcuni enti o organizzazioni collettive
dotati di effettività ed indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici oltreché finalizzati a realizzare
valori riconosciuti o loro attribuiti dalla Comunità internazionale o da alcuni suoi componenti. Tra tali
organizzazioni collettive assumono un’importanza sempre più significativa, anche in funzione del
progressivo affermarsi nell’ambito della Comunità internazionale di una coscienza favorevole al già
accennato principio di autodeterminazione dei popoli, (i c.d. Insorti, espressione di Movimenti di
Liberazione Nazionale). Si tratta di entità organizzate rappresentative delle istanze di autodeterminazione
delle popolazioni dei cui interessi si propongono come enti esponenziali pur non essendo riconducibili a vere
e proprie organizzazioni di tipo statuale in seno alla Comunità internazionale. Al fine di esercitare queste
funzioni rappresentative ed avvantaggiarsi della protezione offerta dal diritto internazionale, tali enti devono
quanto meno esercitare un controllo effettivo sulla popolazione delle cui istanze sono portatori, anche se il
controllo sulla popolazione non è richiesto con caratteristiche di stabilità e modalità organizzative
assimilabili a quelle di una vera e propria organizzazione statale. Si deve comunque garantire quanto meno la
presenza di un comando responsabile che operi con modalità tali da permettere di condurre operazioni
continuate e concentrate.

1.4.3 Il caso della Palestina

Risulta assai complesso identificare l’esatto momento in cui i movimenti insurrezionali acquistano la
personalità giuridica internazionale; è rilevante ai fini della prova di tali circostanze la loro partecipazione
alle relazioni internazionali, ed in particolare all’attività delle organizzazioni internazionali rilevanti allorché
in tali sedi operino come enti dotati di una relativa indipendenza. E’ quanto avvenuto, ad esempio, a
proposito dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Di tale organizzazione si è
inizialmente disconosciuta la rilevanza. Successivamente si è affermata una sua limitata soggettività
internazionale idonea a garantirle nell’ambito delle N.U. lo stato di observer e successivamente, a seguito del
riconoscimento della sua mutata denominazione in Palestina, il diritto di adottare documenti da far circolare

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come documenti ufficiali delle Nazioni Unite, oltreché il diritto di fare interventi orali in occasione di
riunioni dell’Assemblea Generale a fini commemorativi. Infine, a seguito dell’esercizio sempre più
stabilizzato della sua sovranità sul territorio palestinese e del riscontro della sua rappresentatività popolare
confermata a seguito delle elezioni democratiche del 20 gennaio 1996, non si è avuta esitazione
nell’estendere gli effetti conseguenti alla personalità internazionale della Palestina. Si tratta quindi di un
esempio assai significativo della progressiva espansione dell’ambito di operatività riconosciuta dal diritto
internazionale alla personalità giuridica degli Insorti in principio assai limitata, ma suscettibile di accrescersi
progressivamente sino a stabilizzarsi definitivamente in un nuovo Stato oppure di estinguersi in caso di
scioglimento degli Insorti a seguito dell’insuccesso della loro iniziativa.

1.4.4 In particolare, i diritti attribuiti agli Insorti: alcuni esempi

L’acquisto della personalità giuridica internazionale da parte degli Insorti comporta l’estensione nei loro
confronti dei privilegi conseguenti all’applicazione delle principali norme di diritto umanitario di guerra ed
in particolare di quelle relative ai conflitti armati con specifico riferimento alle norme delle Convenzioni di
Ginevra del 1949. Tanto che, secondo alcuni, l’applicazione di tali disposizioni dovrebbe avvenire prima del
raggiungimento dello stadio insurrezionale, proprio per favorire l’auto determinazione dei popoli allorché in
tale direzione sia inequivocabilmente orientato il movimento. Un’altra situazione conseguente alla
personalità giuridica degli Insorti riguarda i casi in cui questi ultimi prendono con la forza il possesso di una
nave battente bandiera dello Stato contro il quale operano. Si riconosce in tal caso libertà di azione alle navi
ribelli ed un obbligo di non interferenza da parte di Stati terzi sulla condotta di tali navi e del governo contro
il quale le navi sono dirette.

“un attacco da parte di una nave di cui gli insorti hanno preso il possesso contro il loro governo non è un
atto di pirateria”. Pertanto, le navi di cui gli Insorti hanno preso il possesso, da un lato non possono essere
catturare per ordine del governo di un altro Stato proprio in virtù della personalità giuridica internazionale, e
dall’altro non possono ricevere assistenza nei porti di altri Stati in quanto altrimenti questi ultimi si
espongono ad essere accusati di interferire illegittimamente nel conflitto tra gli Insorti e lo Stato di loro
appartenenza.

1.4.5 Lo speciale e limitato status dei Movimenti di Liberazione Nazionale e quello dell’Isis

In difetto degli elementi costitutivi indicati nei precedenti paragrafi i Movimenti di Liberazione Nazionale
non hanno uno status nell’ambito della Comunità internazionale tale da garantire loro diritti identici a quelli
attribuiti agli Stati; tali movimenti possono soltanto essere ascoltati nelle varie sedi internazionali in cui si
dibattono le determinazioni, e in generale i temi, relativi alle popolazioni ed ai territori di cui essi si pongono
come interpreti delle istanze autonomistiche. Ed in queste occasioni è loro attribuito il particolare status di
osservatore. Molto più complessa è la valutazione della situazione, nell’ambito del diritto internazionale, di
quegli enti rivolti ad operare secondo una logica anti-sistema in virtù di un ampio impiego di atti di violenza
e senza alcuna sensibilità per il rispetto dei diritti umani universali. Tanto più difficile risulta tale valutazione
anche in considerazione del fatto che i predetti enti risultano localizzati in territori appartenenti a Stati che,
pur non acconsentendo a tale loro presenza e contestandone l’attività, non sono in grado di impedirla. Uno
dei fenomeni più significativi è sicuramente quello del califfato dell’ISIS autoproclamatosi Stato islamico
che opera prevalentemente da sedi ottenute in virtù di alcune limitate occupazioni territoriali localizzate
prevalentemente il Libia, in Siria e in Iraq a seguito dei noti eventi che hanno sconvolto gli equilibri
istituzionali presenti in tali Stati. Si è infatti dibattuto, e tuttora si dibatte, con incerti esiti della pratica e della
stessa giurisprudenza internazionale, se a tale ente debba essere attribuita una soggettività internazionale.
Comunque, si ritiene che anch’esso sia tenuto a rispettare i c.d. obblighi erga omnes previsti dal diritto
internazionale, ad esempio, a tutela dei diritti dell’uomo; tanto che nei suoi confronti direttamente le Nazioni
Unite non hanno esitato a denunciarne la violazione ed a invocare al riguardo l’utilizzo della forza per la
relativa repressione.

1.4.6 Il Sovrano Ordine Militare di Malta

L’insieme dei privilegi conseguenti all’attribuzione della personalità giuridica degli Stati sono estesi, se pur
con gli adattamenti e con le limitazioni del caso, ad altri enti ed organizzazioni collettive dotate, soprattutto
per tradizione e storia, di effettività ed indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici, in funzione del
ruolo loro riconosciuto ed ancora attualmente esercitato nelle relazioni internazionali. Tra tali enti sono
particolarmente significativi la Santa Sede e il Sovrano Ordine di Malta. Il Sovrano Ordine di Malta è un
ente sorto a fini militari e di assistenza sanitaria che inequivocabilmente manifestò la propria autonomia ed

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indipendenza dal XIV secolo allorché si dotò di una vera e propria sovranità territoriale su Rodi e Malta. Tale
sovranità venne successivamente persa alla fine del XVIII secolo, ma tale ente mantenne la propria
autonomia ed indipendenza proseguendo la sua attività nel settore dell’assistenza sanitaria nella sua sede a
Roma e lasciando invariati i propri rapporti diplomatici con molti Stati europei. E’ quindi proprio in virtù
della riconosciuta esigenza di garantire il perseguimento dei suoi fini, in quanto tradizionalmente condivisi e
valorizzati come essenziali dalla Comunità internazionale, che si sono mantenuti a suo favore privilegi
sostanzialmente assimilabili, se pur nei limiti delle circoscritte esigenze funzionali a quelli attribuiti agli Stati
dal diritto internazionale. I privilegi propri della personalità giuridica internazionale attribuiti al Sovrano
Ordine di Malta riguardano solamente gli atti, i beni e le persone che ne sono organi in quanto siano rilevanti
per il perseguimento di quei valori universali nei limiti che la tradizione e la pratica del diritto internazionale
riconosce a tale ente.

1.4.7 La Santa Sede

“La Santa Sede gode della sovranità nelle relazioni internazionali quale caratteristica relativa alla sua
natura in conformità alle sue tradizioni ed alle richieste della sua missione nel mondo”. La Chiesa Cattolica,
con la Santa Sede che ne è l’ente esponenziale, opera nella pratica dei rapporti internazionali quale struttura
organizzativa autonoma con un proprio ordinamento giuridico dotato di caratteristiche di originalità ed
indipendenza. La Santa Sede e lo Stato della Città del Vaticano godono della maggior parte dei diritti e dei
privilegi che attraverso la personalità giuridica vengono attribuiti e garantiti dal diritto internazionale agli
Stati. Si tratta di tutte le situazioni giuridiche rivolte a consentire alla Santa Sede di svolgere la propria
missione di ordine religioso e morale a portata universale mantenendo una minima base territoriale in
funzione di garanzia di una adeguata indipendenza e della autonomia operativa dei suoi organi istituzionali.

1.5 Le organizzazioni internazionali intergovernative

L’ordinamento internazionale impone obblighi e garantisce un trattamento privilegiato anche alle


organizzazioni internazionali create dall’accordo di più Stati in virtù di accordi rivolti a perseguire
collettivamente e istituzionalmente fini e valori internazionalmente rilevanti che singolarmente lo Stato non
sarebbe in grado di realizzare in modo adeguato.

Il fenomeno trova le sue iniziali e timide manifestazioni fino dalla fine del XIX secolo, ma è solo dopo la
Seconda guerra mondiale che si ha l’affermarsi delle organizzazioni internazionali intergovernative, le quali
hanno una precisa attribuzione di uno status, di obblighi e una serie di privilegi riconducibili alla personalità
giuridica internazionale.

Tali organizzazioni non sono dotate, diversamente gli Stati, di una competenza generale ma sono governate
dal principio di specialità: ad esse è attribuita una personalità internazionale con diritti, obblighi e poteri
parametrati in funzione del perseguimento degli interessi comuni che gli Stati hanno a loro affidato.

La giurisprudenza italiana rileva che un’organizzazione internazionale, al fine di versi attribuita la


personalità giuridica internazionale, deve risultare dotata di organi sociali non solo distinti da quelli degli
Stati membri, ma neppure riconducibili ad organi comuni a tali Stati. Si deve trattare di organi propri
dell’organizzazione internazionale che, a tali fine, devono a) essere dotati di un’adeguata autonomia, anche
organizzativa, distinta da quella degli Stati membri, b) avere una propria missione ben definita con effettiva
attribuzione delle relative competenze nei cui limiti corrisponde la titolarità di uno specifico status nella
comunità internazionale.

1.5.1 Caratteri della personalità giuridica delle organizzazioni internazionali

I caratteri di cui sub a) e b) sono stati precisati dalla Corte Internazionale di Giustizia [CIG] a proposito dell’
Organizzazione delle Nazioni Unite [ONU].
La personalità delle organizzazioni internazionali, opera ed è prevista dal Dir.Int. entro i limiti strettamente
funzionali allo svolgimento della loro missione secondo la disciplina ricavabile dagli impegni che si sono
assunti gli Stati nell’ambito dello loro statuto costitutivo e secondo le modalità ivi indicate.

Si tratta, quindi, di una personalità internazionale che consente alle varie organizzazioni di essere titolare di
quelle situazioni giuridiche e di quella somma di privilegi garantiti dal Dir.Int. essenziali per consentire loro
lo svolgimento della loro attività nell’ambito della comunità internazionale. In tal senso di osserva che

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un’organizzazione internazionale è un soggetto internazionale dotato di una capacità ristretta, limitata al


perseguimento dei suoi fini, tenuto conto di essere priva di qualsiasi base territoriale.

Ne deriva che le organizzazioni internazionali proprio in virtù del principio di specialità non sono dotate di
una personalità internazionale con effetti identici a quelli attribuiti agli Stati proprio a causa
dell’impossibilità di porre su un piano di parità assoluta i due enti.
Per cui è da escludere che qualsiasi organizzazione internazionale anche quelle universali posso atteggiarsi a
Super-Stato come precisato dalla giurisprudenza con un parere della Corte Internazionale di Giustizia.

1.5.2 Il valore delle disposizioni contenute negli statuti o negli accordi di sede

I principi della capacità ristretta delle organizzazioni rispetto a quella attribuita agli Stati sono formulate con
specifiche disposizioni ad hoc nei loro statuti ed in specifici accordi relativi al loro status giuridico da cui è
possibile ricavare i limiti entro cui opera la loro personalità giuridica internazionale. Tali disposizioni hanno
una portata descrittiva e narrativa. Si tratta solo della dichiarata intenzione degli Stati membri di garantire la
partecipazione dell’organizzazione internazionale alle relazioni internazionali godendo della somma dei
privilegi riconosciuti a favore degli Stati nella misura necessaria al perseguimento dei suoi fini istituzionali.
È abitualmente riconosciuta da parte della giurisprudenza italiana la personalità giuridica alla quasi totalità
delle organizzazioni internazionali le quali, pertanto, possono giovarsi dell’immunità delle giurisdizione
civile con estensione ed effetti sostanzialmente identici a quelli di cui possono avvalersi gli Stati.

1.5.3 La personalità giuridica di diritto interno delle organizzazioni internazionali

Quanto ora indicato a proposito della personalità giuridica internazionale delle organizzazioni internazionali
non deve essere confuso con la loro personalità giuridica di diritto interno. Le disposizioni previste nei
trattati istitutivi hanno una vera e propria efficacia normativa nel determinare i caratteri e gli effetti di tale
personalità alla quale consegue, nel diritto interno di ogni Stato membro la capacità dell’organizzazione
internazionale di concludere contratti, acquistare beni mobili ed immobili di stare in giudizio. Tale
personalità in alcuni casi ha contenuti più ampi (es. Unione Europea). Nei casi in cui manchi l’accordo
istitutivo di una organizzazione si è sempre riservato a suo favore il trattamento riservato alle persone
giuridiche di diritto interno nella misura in cui risulta funzionale al perseguimento dei suoi scopi sociali.

Stesso trattamento è riservato anche alle organizzazioni internazionali di cui siano membri solamente Stati
terzi rispetto allo Stato in cui esse operano.

1.6 La personalità giuridica degli individui: nel Dir.Int. classico

In Dir.Int. i soggetti primari sono enti o organizzazioni collettive, in funzione delle cui esigenze è prevista
una disciplina di diritto comune ed è accordata la relativa personalità giuridica. In tale logica non sembra
possa esservi alcun spazio per attribuire agli individui, in ambito internazionale, personalità giuridica.

È ben vero che molte norme di Dir.Int. prevedono una disciplina di rapporti giuridici o di situazioni
giuridiche soggettive di cui sono destinatari gli individui secondo criteri e con modalità tali che consentano
la diretta e immediata applicazione ed attuazione nei loro confronti. Tale applicazione può avvenire solo per
il tramite degli Stati e nell’ambito degli ordinamenti statali. Le norme di Dir.Int. idonee compiutamente a
regolare situazioni giuridiche individuali possono essere fatte valere dagli individui solo all’interno degli
ordinamenti statali e solo nei casi in cui:

a) siano state valutate come tali da parte degli stati contraenti;


b) siano effettivamente attuate in esecuzione del corrispondente obbligo internazionale dell’ambito degli
ordinamenti statali.
Solo in presenza di queste circostanze i contenuti di tali norme potranno essere fatti valere da parte degli
individui [non in sede internazionale] all’interno degli ordinamenti statali o comunque per tramite degli Stati
che si sono adeguati all’obbligo di garantirne l’attuazione.
Gli individui pur essendo beneficiari della situazione giuridica creata dalla norma di Dir.Int. non sono in
grado di ottenere l’attuazione innanzi ai giudici nazionali nell’ambito degli ordinamenti statali indipendenti
in quanto anche in presenza di tali requisiti la norma non è produttiva di effetti nell’ordinamento interno.
Gli individui non sono in grado di far valere in ambito internazionale l’inadempimento provocato da tale
situazione in quanto non godono di garanzie e strumenti giurisdizionali previsti dal Dir.Int. in quanto
azionabili solo dagli Stati.

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1.6.1 Le tendenze più recenti

Due recenti fenomeni hanno, almeno parzialmente, modificato la situazione descritta sopra. In primo luogo,
l’affermarsi di una responsabilità penale personale, e giurisdizionalmente azionabile, nell’ambito
dell’ordinamento internazionale direttamente nei confronti degli individui che commettono determinati
comportamenti considerati crimina juris gentium. Tale diretta sanzionabilità è prevista ed opera anche se tali
comportamenti sono adottati nella loro qualità di organi di enti dotati di personalità giuridica internazionale.
A tal riguardo si afferma, da un lato, la responsabilità personale di tali individui e la loro giustiziabilità
universale, dall’altro si esclude che in questi casi possano giovarsi di privilegi e delle immunità previsti dal
Dir.Int. in funzione della loro eventuale qualità di organi di Stato o di altri soggetti di Dir.Int.

Un secondo fenomeno che si riscontra è l’affermarsi di una disciplina internazionale dei comportamenti, ed
in particolare la previsione di obblighi posti a carico [ed azionabili nei confronti] degli enti dotati di
personalità giuridica internazionale [in particolare gli Stati] non più funzionali alla sola tutela della loro
autonomia, indipendenza e sovranità a soddisfazione delle esclusive esigenze “dei governanti”, ma anche
dirette alla protezione di alcuni diritti fondamentali “dei governati”. E questo anche grazie all’affermazione
dei diritti internazionali dell’uomo.

S’inizia ad affermare in questo modo, anche in ambito internazionale, una concezione individualistica di
società: anche all’interno dell’ordinamento internazionale si porta l’individuo al centro dei diritti e degli
obblighi verso la società, in particolare verso l’intera Comunità internazionale, sia attraverso il
riconoscimento di alcuni diritti sia con riguardo ad alcuni obblighi direttamente previsti e sanzionati in tale
sede nei confronti degli individui.

1.6.2 I crimina juris gentium e la diretta responsabilità degli individui

Per quanto riguarda la presenza di norme a contenuto tale da comportare obblighi specificatamente e
direttamente previsti a carico degli individui, già in passato c’erano dei comportamenti degli individui che
erano direttamente valutati da parte del Dir.Int. come crimini di cui anch’essi, oltre che allo Stato,
assumevano diretta responsabilità nell’ambito dell’ordinamento internazionale [es. pirateria; tratta degli
schiavi; crimini di guerra]. Tali norme potevano trovare concreta attuazione nei confronti degli individui solo
entro gli ordinamenti statali. Tant’è che era considerato un vero obbligo nei confronti degli Stati perseguire i
colpevoli.

Negli ultimi decenni si è affermata però la diretta applicazione nei confronti degli individui nell’ambito dello
stesso ordinamento internazionale, delle norme che sanzionano alcuni specifici crimina iuris gentium.
Pertanto non vi alcun dubbio che, attualmente, a) il Dir.Int. prevede direttamente una disciplina della
responsabilità di individui distinta da quella degli Stati di cui sono eventualmente organi, con riguardo ad
alcuni comportamenti specificamente vietati nei loro confronti e b) nell’ambito dello stesso ordinamento
internazionale esistano istituzioni ed operino specifici strumenti processuali rivolti a consentire di giudicare e
sanzionare tali comportamenti.

1.6.3 La tutela internazionale dei diritti degli individui

All’affermarsi di obblighi e di procedimenti internazionali direttamente operanti nei confronti degli


individui, corrisponde anche il consolidamento di diritti [e delle relative garanzie procedimentali] previsti dal
Dir.Int. a favore degli individui ed autonomamente azionabili da quest’ultimi.
Tale progressiva evoluzione si è affermata in modo particolare riguardo la tutela dei diritti dell’uomo: tali
diritti si affermano con norme rivolte a favore degli individui in virtù delle quali questi ultimi divengono
diretti titolari di situazioni giuridiche all’interno dell’ordinamento internazionale ove essi possono giovarsi di
strumenti di tutela giurisdizionale. In particolare si segnala il procedimento innanzi alla Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo, le due sentenze producono effetti diretti anche nei confronti di tutti gli Stati contraenti e la
cui attività giurisdizionale può essere azionata in virtù di ricorsi individuali.

1.6.4 La personalità giuridica limitata dell’individuo

In base a quanto affermato può essere riconosciuta una limitata personalità giuridica internazionale
dell’individuo. Si tratta di una personalità giuridica del tutto particolare rispetto alla personalità di diritto
comune solitamente attribuita agli Stati. Gli individui possono far valere solo i diritti ed avvalersi delle
garanzie specificatamente adottate a loro favore. Si tratta di situazioni giuridiche che possono essere fatte

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valere solamente a certe condizioni e solo nei confronti di quelli stati che hanno accettato gli effetti di tali
norme.

Per converso, si riscontrano altrettanto speciali normative e/o provvedimenti adottati in ambito internazionale
in virtù dei quali gli individui ne risultano i diretti destinatari ed in forza dei quali è Stato possibile erogare
sanzioni e condanne [specialmente nell’ambito della violazione dei diritti umani].

L’attuale stadio di evoluzione del Dir.Int. si caratterizza proprio nel perseguire, oltre che la tutela primaria
degli interessi degli Stati, la protezione dei diritti dell’individuo, anche nell’espressione collettiva di
minoranza e di popolo. Ma non solo: anche l’individuo, in realtà, in alcuni casi e specifiche situazioni, è in
grado di giovarsi direttamente della tutela che gli viene garantita dal Dir.Int. . Tale tutela è assicurata non
solo in virtù dell’operatività dei tradizionali istituti affidati alla gestione ed iniziativa dello Stato, ma anche in
virtù di specifici strumenti giuridici e giurisdizionali previsti in suo favore.

1.7 La sintesi e la conclusione provvisoria

La normativa di Dir.Int. generale, all’opposto di quanto avviene negli ordinamenti statali, è normalmente
formulata e prevista avendo come naturali destinatari enti statali e organizzazioni collettive interstatali.
Peraltro, anche i popoli e le minoranze oltreché gli enti esponenziali che tutelano le loro legittime aspettative
risultano, in modo sempre più significativo, titolari di situazioni giuridiche direttamente previste e garantite
nella normativa di Dir.Int. a carattere speciale.

2.1 Le tendenze evolutive della struttura intestatale della Comunità internazionale

La più recente evoluzione della Comunità internazionale mette quindi in evidente il progressivo ampliamento
della sua base soggettiva e della tutela di situazioni giuridiche conseguenti all’attribuzione, pur a limitati fini
e riguardo a specifiche situazioni giuridicamente protette, della personalità giuridica a soggetti diversi dagli
Stati. Il fenomeno della c.d. globalizzazione, non ancora compiutamente valutabile nei suoi effetti giuridici,
ha ulteriormente messo in discussione le stesse fondamenta della struttura intestatale della Comunità
internazionale e gli stessi equilibri macroeconomici alla base dei rapporti internazionali che, pertanto, anche
sotto questo profilo, hanno subito radicali mutamenti. La dimensione globale di alcuni fenomeni e la
conseguente delocalizzazione dei relativi rapporti giuridici, hanno infatti evidenziato l’assoluta
inadeguatezza ad affrontarli da parte di una comunità internazionale esclusivamente interstatale. Gli
accennati mutamenti e le caratteristiche dei relativi fenomeni che hanno provocato la c.d. globalizzazione,
infatti, da un lato trascendono la capacità di qualsiasi Stato di affrontarli individualmente anche al limitato
fine di governarne gli effetti nel suo ambito territoriale di sovranità e, dall’altro, richiedono regole ed istituti
adeguati al loro carattere transnazionale oltrechè, ove del caso, a reprimere le devianze comportamentali
direttamente nei confronti di individui ed imprese. La c.d. globalizzazione può rappresentare solo l’inizio di
una vera e propria rivoluzione copernicana della struttura organizzativa e della base sociale della Comunità
internazionale, il cui esito non solo non è ancora definito, ma non è neppure prevedibile. Ed è proprio il Gine
di superare tali asimmetrie a consentire l’evoluzione della Comunità internazionale verso modelli
organizzativi adeguati alla soddisfazione della società e delle sue componenti coinvolte negli accennati
fenomeni che caratterizza il suo più recente sviluppo normativo. Di tali modelli organizzativi i più
significativi sono quelli riconducibili ad alcune organizzazioni internazionali rilevanti per il settore
economico o la tutela dei diritti dell’uomo anche se in tale ambito i parametri relativi al loro funzionamento
non si caratterizzano, secondo modalità più o meno accentuate, per la loro democraticità. Comunque la
Comunità internazionale è destinata, quanto meno in prospettiva, a non essere più esclusivamente
statocentrica e gestita da soli Stati secondo un modello organizzativo da cui edda ha tratto le origini nel XVII
secolo. E’ infatti proprio l’accennata inadeguatezza di tale modello organizzativo e dei singoli Stati a
controllare e garantire individualmente sia la sicurezza nazionale sia lo sviluppo economico e sociale della
popolazione che ha imposto gli accennati mutamenti. Dallo status di sovranità assoluta e indipendenza degli
Statu e da regole rivolte esclusivamente a garantire la salvaguardia di tali loro caratteri, si passa ad una
condizione di sempre più intensa interdipendenza delle comunità statali e dei loro popoli. Emergono inoltre
in modo sempre più evidente nella Comunità internazionale anche obblighi erga omnes rivolti a tutti gli Stati
di cui ognuno di essi ha diritto, individualmente o collettivamente, di pretendere il rispetto anche con mezzi
coercitivi. Emergono anche norme specificamente rivolte a creare ed a riconoscere la presenza in ambito
internazionale non solo di principi e valori globali universali, ma anche di norme che compiutamente ne
elaborano e ne politicizzano i contenuti secondo formulazioni direttamente operanti sia nei confronti degli
Stati, sia nei confronti di soggetti diversi da essi ed in particolare nei confronti di individui e imprese. La
collaborazione e la cooperazione tra popoli appartenenti a differenti ambienti socio-economici è ancora in

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grande misura statocentrica e fondata su strumenti normativi prevalentemente riconducibili, diretti ed


indirizzati ai soli Stati. Peraltro, la prospettiva dell’evoluzione della Comunità internazionale e del diritto in
tale ambito operante nel senso innanzi indicato sembra assolutamente ineludibile.

2.2 Evoluzione dei sistemi di cooperazione tra Stati e presenza di nuovi attori in ambito internazionale

In tale contesto emerge il mutato ruolo degli individui e delle imprese multinazionali oltreché la specifica
rilevanza delle organizzazioni internazionali. A queste ultime, in particolare, è attribuita una personalità
giuridica sempre più estesa con effetti sempre più significativi sulle relazioni internazionali. Si è infatti
riscontrato proprio attraverso la loro evoluzione e il loro sviluppo, il passaggio da rapporti del commercio
internazionale diretti da meccanismi intestatari ad un sistema istituzionalizzato della disciplina dei rapporti
economici internazionali nell’ambito di specifiche organizzazioni internazionali dotate di precisi poteri
normativi, sanzionatori e giurisdizionali oltreché di personalità giuridica internazionale adeguata a consentire
il pieno esercizio delle funzioni per le quali sono create. Ciò che specificamente ha qualificato i mutamenti
della composizione della Comunità internazionale nella direzione innanzi indicata è la partecipazione ai
processi di elaborazione normativa internazionale, ed ai relativi meccanismi di garanzia, di attori non ancora
dotati di una vera e propria personalità giuridica internazionale, ma presenti e partecipi di tali processi e
meccanismi. Tra essi assumono particolare importanza le c.d. Organizzazioni non governative e le imprese
multinazionali. Esse infatti sono particolarmente rappresentative, rispettivamente, le prime degli interessi
pubblicistici della società civile universale e le seconde degli interessi produttivi di un sistema economico-
finanziario globale coerente con modelli organizzativi idonei a massimizzarne l’efficienza e l’aumento del
valore. La stessa Carta delle Nazioni Unite prevede che le ONG abbiano un vero e proprio consultative status
con specifico riferimento agli argomenti relativi ai diritti economici e sociali. Anche lo statuto della Corte
penale internazionale riconosce alle ONG un ruolo ed una funzione particolari nel fornire informazioni al
rappresentante della pubblica accusa. Nello stesso senso non si è esitato a riconoscere l’importanza del
coinvolgimento attivo delle Organizzazioni non Governative al fine di consentire che la globalizzazione
operi a favore di tutti i cittadini e specialmente per i poveri del mondo. Si è rilevato peraltro che le ONG
possono essere di grande aiuto per l’operatività dei meccanismi e delle norme previste dal diritto
internazionale solo in quanto siano in grado di dimostrare la loro assoluta indipendenza e competenza
professionale oltreché la loro rappresentatività della società civile universale. La presenza delle ONG
comunque rileva non solamente nell’elaborazione ed attuazione di norme internazionali, ma anche
nell’ambito di procedimenti giurisdizionali, arbitrali e paragiurisdizionali relativi a controversie in cui gli
interessi che esse perseguono sono coinvolti. Tanto che anche nei casi in cui le ONG, per ragioni formali e/o
processuali, non possono esserne direttamente parti attive, si riconosce loro quanto meno la posizione di
“amicus curiae” (e cioè di soggetto in grado di fornire al giudice elementi di fatto e di diritto utili per la
decisione.

2.3 Il ruolo delle imprese multinazionali

In un sistema globalizzato, è sempre più significativo anche il ruolo delle IMN nella determinazione della
disciplina di diritto internazionale. Tale ruolo è ancora più accentuato con riferimento alle regole
internazionali relative alla circolazione ed agli effetti di alcuni specifici strumenti finanziari di cui soprattutto
si avvalgono le IMN per i propri investimenti, reperendo le relative risorse dai mercati finanziari
internazionali. Sono pertanto sempre più evidenti scenari normativi internazionali in cui le IMN risultano
attori e destinatari di regole delle quali il diritto e la Comunità internazionale di fatto non possono fare a
meno di tenere debito conto, in un’ottica rivolta a favorire la circolazione delle risorse economiche ed, in
particolare, gli investimenti internazionali, garantendo certezza della relativa disciplina. Appare sempre più
necessario che le IMN risultino direttamente assoggettate ad alcuni principi di diritto internazionale relativi
alla tutela dei diritti dell’uomo, alla salvaguardia dei diritti sociali dei lavoratori ed al rispetto di alcuni valori
propri degli Stati nel cui ambito si producono gli effetti dei loro comportamenti. Ed altrettanto significativo è
lo sforzo operato nell’ambito dell’Unione Europea allo scopo di definire un più preciso quadro giuridico
delle norme internazionali della cui applicazione le imprese europee devono rendersi garanti ed il cui
mancato rispetto fa sorgere nei loro confronti una responsabilità sociale direttamente invocabile in ambito
internazionale. Essa può sinteticamente essere ricondotta ai due fondamentali principi ai quali le imprese
multinazionali devono necessariamente attenersi: e cioè, il rispetto dei diritti umani e la disponibilità ad
affrontare costruttivamente la soluzione dei problemi e degli effetti negativi eventualmente conseguenti a
comportamenti relativi ai loro investimenti nell’ambito dello Stato in cui si trovano ad operare secondo le
indicazioni emergenti. Tali principi sono rivolti a conciliare gli obiettivi economici con quelli di tutela
dell’ambientale e di protezione sociale dei lavoratori, ed il loro mancato rispetto consente di invocare una
responsabilità delle imprese direttamente in ambiente internazionale. Le IMN sono state anche sottoposte

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direttamente a sanzioni adottate secondo procedimenti previsti da norme internazionali proprio in quanto
destinatarie di, e vincolate da, alcuni obblighi di diritto internazionale oltreché dalle eventuali conseguenti
sanzioni senza alcuna intermediazione degli Stati a vario titolo interessati alla loro attività. Le IMN, pur
prive di personalità giuridica internazionale, non solo partecipano attivamente alla formazione delle norme
internazionali che le riguardano, ma assumono anche un ruolo di interlocutore diretto degli Stati e delle
organizzazioni internazionali nella concreta attuazione di tali norme nell’ambito di veri e propri rapporti
internazionali.

2.4 Diritto internazionale e globalizzazione

Si può, quindi, conclusivamente osservare che la globalizzazione si pone come un momento di discontinuità
rispetto al processo di internazionalizzazione che ha caratterizzato la struttura della Comunità internazionale
negli ultimi quattro secoli. Si tratta di un processo che tende a trasformare l’organizzazione delle relazioni
economiche e sociali ampliando l’ambito materiale della disciplina internazionale dei rapporti al riguardo
rilevanti e rendendo più strettamente interconnesse le varie comunità statali con progressivo
depotenziamento dell’assolutismo della loro sovranità. A tali enti pertanto per esigenze funzionali al mercato
in cui operano, la Comunità internazionale, o le organizzazioni internazionali e regionali in essa esistenti,
affidano sia un vero e proprio potere normativo a portata generale, sia il potere di adottare provvedimenti
urgenti, a carattere individuale, riguardanti specifici servizi o prodotti al fine di garantire il corretto
funzionamento del mercato al quale si rivolge la loro attività, con particolare riguardo a quello relativo ai
trasporti ed a quello finanziario. Essi infatti garantiscono esperti e istituzioni in grado di decidere con
autonomia e indipendenza in modo efficiente, come richiede la necessità di governo di una società
globalizzata, e in particolare dei mercati finanziari. Il fenomeno evolutivo del diritto e dell’organizzazione
internazionale appena descritto appare, comunque, allo stato, difficilmente reversibile. Ne risultano pertanto
una precisa tendenza e un’esigenza sempre più marcata di cui la stessa Comunità internazionale assume
maggiore consapevolezza alla ricerca di adeguate soluzioni per soddisfarla.

A) La tendenza è verso una struttura della Comunità internazionale nella quale, da un lato, l’indipendenza e
la sovranità territoriale degli Stati risultano allentati e, dall’altro, la disciplina internazionale dei rapporti
economici e sociali si estende grandemente dipendendo non solo dagli Stati, ma da una pluralità di altri
soggetti e attori il cui coordinamento spetta in misura sempre maggiore ad organizzazioni internazionali
che operano sulla scorta di modelli di democrazia associativa caratterizzata dalla consultazione e dal
coinvolgimento nel processo decisionale anche dei rappresentanti di interessi collettivi.

B) Da tale constatazione emerge anche l’esigenza che tutti gli enti a vario titolo partecipi dei vari processi
decisionali che incidono sugli equilibri economici e sociali che caratterizzano la Comunità internazionale
debbano rendere conto e giustificare i loro comportamenti non solo nei confronti dei loro immediati
referenti diretti.

Pertanto, al fine ora indicato, la globalizzazione non potrà essere dissociata dallo sviluppo di modalità
operative maggiormente democratiche diverse da quelle di una governance modellata e funzionante
esclusivamente secondo criteri propri degli enti che operano nel e per il mercato. Dovranno, inoltre, essere
individuate modalità operative rivolte a garantire un vero e proprio government dei fenomeni rilevanti in
ambito internazionale ed idonee a favorire soluzioni in materia di politica economica rivolte a soddisfare non
solo le esigenze dei singoli Stati coinvolti, ma anche di tutte le componenti sociali che in modo sempre più
significativo sono presenti nel, e risentono degli effetti del, diritto internazionale.

2 IL DIRITTO INTERNAZIONALE E LE SUE FONTI

2.1 Il Dir.Int. nel quadro della società universale del genere umano

Nella società universale si è storicamente venuto a sviluppare un nucleo di principi e di norme di carattere
non scritto, dotati di alcune caratteristiche. Prima tra queste è il fatto che il complesso di principi e di norme
di cui si parla non hanno la funzione di regolare il comportamento dei soggetti che compongono la società
nei rapporti che si instaurano tra di loro o nei rapporti di tali soggetti con i vari centri di potere che sono in
grado si esercitare poteri di governo sulle varie comunità politiche. La loro funzione è, invece, quella di
regolare giuridicamente i rapporti che si instaurano tra questi centri di potere, cioè fra i vari Stati quali enti
indipendenti e sovrani.

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Il questa prospettiva, appare corretto dire che il Dir.Int. pubblico è il diritto della Comunità degli Stati, o
della Comunità internazionale.
Tuttavia è opportuno tener presente che la Comunità internazionale, non è una società a sé stante, rispetto
agli Stati e alla società universale del genere umano. Essa deve essere individuata in una specifica sfera di
relazioni sociali, quelle che si instaurano attraverso i rapporti internazionali fra enti sovrani, ma sempre
nell’ambito della società universale del genere umano.

2.1.1 Diritto internazionale generale e Dir.Int. particolare

Un’altra fondamentale caratteristiche del Dir.Int., inteso come diritto della Comunità internazionale, sta nel
suo carattere di diritto “autonomo”: proprio perché risultante da regole poste in essere per disciplinare le
relazioni che si instaurano tra enti sovrani, esso non po’ essere attribuito agli atteggiamenti, alla condotta o
volontà degli enti.

Si ha coincidenza fra creatori e destinatari delle norme, e non esiste, al di sopra degli Stati, alcun ente idoneo
a svolgere la funzione, che negli ordinamenti interni agli Stati è propria del legislatore. Nel diritto dello
Stato, le funzioni dell’ordinamento sono svolte in forma “accentrata”, mentre nel sistema internazionale, in
forma “decentrata”.

Da ciò deriva un’altra importante conseguenza: a seconda del differente tipo di fatti ai quali la formazione
della norma internazionale è riconducibile, può variare la sfera dei destinatari della norma stessa, e quindi il
suo ambito di efficacia.
Così, le norme internazionali che vengono poste in essere attraverso un atto di volontà di due o più Stati, non
possono che obbligare coloro ai quali tale volontà è riconducibile: altrimenti si sarebbe di fronte a un
fenomeno di “legislazione internazionale”, che il sistema internazionale attuale esclude. Si tratta di un
fenomeno pattizio (originato da un patto), che dà luogo al c.d. Dir.Int. particolare.

2.2 Caratteri essenziali del Dir.Int. generale

Diversamente accade per le norme appartenenti al c.d. Dir.Int. generale o comune: esse non si formano dal
prodotto di atti di volontà dei soggetti intesi a porle in essere, ma si formano in un ambiente sociale di
convivenza degli Stati quale conseguenza dell’operare di fatti diversi [non di origine pattizia]. I fatti che ne
determinano il sorgere operano su un piano pre-giuridico, in quanto fattori che orientano l’atteggiamento ed
il comportamento degli Stati.

Pertanto, in ultima analisi, le norme generali trovano fondamento in un fatto sociale, ossia nel
riconoscimento spontaneo come diritto da parte dei soggetti delle regole di condotta che esse enunciano.
Connotato essenziale del Dir.Int. generale è il suo carattere di diritto non scritto: manca un procedimento di
creazione e di formazione delle sue norme; il momento della creazione coincide con quello di attuazione. La
traduzione delle norme in forma scritta è rimessa a chi fa opera di interpretazione, e non si può mai inserire
nel processo creativo della norma. Le forme di manifestazione del Dir.Int. generale sono essenzialmente due:
la consuetudine e i principi generali del diritto.

2.3 La consuetudine internazionale ed i suoi vari elementi e aspetti

Le norme consuetudinarie internazionali sono la risultante di due distinti aspetti:


uno di carattere oggettivo o materiale: consiste nella ripetizione costante di un determinato
comportamento considerato doveroso, permesso o vietato dalla norma (usus);
uno di carattere soggettivo o psicologico: consiste nella convinzione che quel comportamento corrisponda
a quanto previsto dalla norma (opinio juris et necessitatis).
L’ampio dibattito riguardo al diritto interno e a quello internazionale sulla nozione di diritto consuetudinario,
ha dato luogo a posizioni divergenti:

• - alcuni, riducono la nozione di consuetudine al solo elemento materiale consistente nell’uso;

• - altri, considerano determinante il solo elemento psicologico per il sorgere di una norma giuridica
consuetudinaria.
La svalutazione dell’elemento soggettivo della consuetudine risponde all’idea che esso non può
essere rilevante sino al momento in cui la norma non sia venuta ad esistenza in virtù della costante

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ricezione della condotta.


La svalutazione dell’elemento oggettivo, al contrario, mentre nega che possa essere determinante ai
fini della formazione della norma un elemento non determinato nella sua estensione, individua nella
sola opinio juris l’elemento capace di spiegare l’affermazione dell’obbligatorietà delle regole di
condotta attraverso il riconoscimento da parte dei soggetti.
Guardando al fenomeno consuetudinario da un punto di vista teorico, si può convenire che
l’elemento che ne giustifica la capacità di creare regole di condotta vincolanti per i soggetti
internazionali va rinvenuto in un fattore soggettivo, ossia nel riconoscimento della giuridicità delle
regole. Tuttavia va tenuto presente che nel diritto non scritto il momento della creazione coincide
con quello dell’attuazione della regola di condotta. La distinzione dell’aspetto soggettivo da quello
oggettivo, acquisisce rilevanza nel momento dell’accertamento giudiziale della norma
consuetudinaria.

2.3.1 L’accertamento giudiziale delle norme consuetudinarie

In tale prospettiva va tenuto presente l’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia:

«1. La Corte, la cui funzione è di decidere in base al Dir.Int. le controversie che le sono sottoposte, applica:
a. le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente
riconosciute dagli Stati in lite;

b. la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come diritto;

c. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;

d. con riserva delle disposizioni dell’articolo 59, le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più
qualificati dalle varie nazioni come mezzi sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche.

2. Questa disposizione non pregiudica il potere della Corte di decidere una controversia ex aequo et bono
qualora le parti siano d’accordo».
Pur trattandosi di norme che hanno la funzione primaria di indicare le regole sulle quali la Corte deve
fondare la propria decisione, l’art. 38 indica chiaramente che le fonti che esso elenca devono essere tenute
presenti al fine di decidere le controversie sottoposte alla Corte “in base al Dir.Int. ”. Ora, la descrizione
contenuta nell’art. 38 riguardante la consuetudine internazionale risulta ispirata all’idea della presenza di
entrambi gli elementi tradizionali della consuetudine: tanto l’elemento oggettivo [“La pratica generale”],
quanto l’elemento soggettivo [“Accettata come diritto”, dove il termine accettata è inteso come
riconosciuto].
A tale descrizione la giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia, si è sempre mantenuta. Nel
procedere all’accertamento, la Corte si è dedicata all’esame della prassi degli Stati, sotto il profilo
dell’esistenza di un comportamento sufficientemente generalizzato e costante dell’asserita regola [quindi
sotto il profilo c.d. oggettivo - diuturnitas o usus]. Ma poi ha avuto cura di precisare che la presenza di una
pratica diffusa non è di per sé sufficiente per affermare l’esistenza di una norma consuetudinaria, se non
accompagnata dalla convinzione della giuridica obbligatorietà del comportamento (opinio juris et
necessitatis).

2.3.2 Elemento oggettivo ed elemento soggettivo della consuetudine nella pratica giurisprudenziale

Se la sola constatazione di una pratica, pure diffusa ed uniforme, non è stata ritenuta sufficiente a dimostrare
l’esistenza di una norma consuetudinaria in mancanza dell’elemento soggettivo, neppure la mera
affermazione di un’opinio juris può essere considerata idonea a giustificare la presenza di una norma
consuetudinaria, se essa non si traduce in una pratica corrispondente.

Il ruolo dei due elementi (oggettivo e soggettivo) che concorrono nel processo di formazione delle norme
internazionali consuetudinarie ed il rapporto che li unisce possono essere descritti nei termini che risultano
dall’esposizione che precede.
Ma tale situazione può assumere aspetti diversi in relazione alle varie ipotesi di regole consuetudinarie [con
riferimento al loro procedimento formativo e alla sua rapidità e al momento in cui viene a porsi la questione
dell’esistenza di una data regola]. Si possono pertanto verificare:

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- Ipotesi di norme consuetudinarie per disciplinare relazioni fra Stati in materie nuove prive di
regolamentazione: spesso sono regole che hanno la caratteristica di essersi sviluppate con notevole rapidità,
per alcune esigenze essenziali sentite da alcuni stati. Quindi, da una parte, la manifestata intensità ha portato
all’affermazione della regola, dall’altra, c’è una precisa direzione di volontà e d’azione di certi soggetti per
far sì che la regola trovi le condizioni necessarie per la sua affermazione.

- La pratica giurisprudenziale concede il formarsi di una norma consuetudinaria in un lasso di tempo


relativamente breve.

2.3.3 Fatti rilevanti al fine della formazione delle norme consuetudinarie: la prassi diplomatica e gli
altri atti e comportamenti degli Stati

I fattori necessari per la formazione della norma internazionale consuetudinaria vanno ricercati in modo
unitario, senza la possibilità di dividere quelli attinenti all’elemento materiale dall’elemento soggettivo.
L’interprete è dunque costretto a rivolgere la propria attenzione a tutte le manifestazioni riconducibili agli
Stati nei quali esse sono distinte in categorie di fatti:

- La prassi diplomatica degli Stati: sono tutte quelle espressioni, punti di vista, intenzioni, richieste, pretese
che vengono a trovare posto nella prassi diplomatica dei vari Stati, e che sono documentate in apposite
raccolte.
- Adozione di atti o comportamenti degli Stati: gli Stati possono prendere posizione su questioni che
implicano l’esistenza e l’applicazione di norme internazionali generali attraverso l’adozione di atti legislativi,
amministrativi, giurisdizionali.

- Diplomazia multilaterale: nelle occasioni di riunione e di dibattito delle Organizzazioni internazionali, a


cominciare da quelle delle Nazioni Unite, permettono di rivelare gli atteggiamenti di una pluralità di soggetti
ed i loro punti di vista in questo modo non c’è la necessità di creare la prassi tra scambi e contratti bilaterali
(tra coppie di Stati), ma viene accelerato il processo formativo dei vari elementi della consuetudine a livello
multilaterale.

2.3.4 La giurisprudenza internazionale

Accanto alla prassi dei soggetti [Stati], una posizione di assoluto rilievo, per la rilevazione delle norme
consuetudinarie, va riconosciuta alla giurisprudenza internazionale. Le statuizioni della Corte non
acquisiscono la qualità di fonti di diritto: l’art. 38 dello Statuto della Corte al par.1 lett. (d, precisa che si
tratta di “mezzi sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche” e facendo riserva all’art. 59 dello
stesso Statuto, che precisa: «la decisione della Corte non ha valore obbligatorio che fra le parti in lite e
riguardo alla controversia decisa».

Sebbene non esista nel sistema internazionale alcun vincolo di carattere formale ai precedenti
giurisprudenziali, il rilievo a tali precedenti è comunque evidente.

2.3.5 I trattati internazionali

Infine possono venire in rilievo ai fini della rilevazione del diritto consuetudinario anche i trattati
internazionali, sotto due diversi profili:
- sono importanti elementi della prassi degli Stati e di altri soggetti, oltre che atti specificatamente intesi alla
posizione di norme giuridiche. In quanto elementi della prassi, il fatto che determinate regole di condotta si
trovano ripetute nella prassi convenzionale di più Stati può costituire la prova che tali regole valgono anche
come norme consuetudinarie e che i trattati ne rappresentano soltanto la riaffermazione. Occorre in più anche
la dimostrazione che ciò corrisponda alla convinzione che si tratta di comportamenti obbligatori.

- Sotto un secondo profilo, una regola stabilita da trattati può essere inizialmente posta in essere ai fini di
modifica del diritto preesistente, ma venire a generalizzarsi in un momento successivo. (Vedere accordi
conclusi ai fini della codificazione).

2.3.6 Il significato attuale del fenomeno consuetudinario

Il fenomeno consuetudinario internazionale presuppone, per poter adeguatamente svolgere la propria


funzione nell’ambito delle relazioni internazionali, adattandosi all’evoluzione della società degli Stati, un

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notevole grado di omogeneità della base sociale che lo esprime. Il venir meno di questa omogeneità provoca
una crisi delle regole consuetudinarie, che può essere superata con l’intervento di un qualche potere capace
di imporre una nuova regolamentazione. Nel corso del XX secolo si sono avute crisi del diritto
consuetudinario per disomogeneità sociale:

• - rivoluzione sovietica;

• - divisione del mondo post bellico in 2 blocchi contrapposti;

• - guerre mondiali.
Di qui la tendenza verso la sostituzione di gran parte delle regole consuetudinarie vigenti con nuove,
alla cui elaborazione hanno potuto prendere parte anche nuovi Stati, e comunque diversi da quelli
che in passato avevano portato alla creazione delle antiche regole. Questa tendenza è stata
canalizzata attraverso i meccanismi previsti dal sistema delle Nazioni Unite, e si è tradotta in due
fenomeni: quello della codificazione e quello dell’emanazione da parte dell’Assemblea generale
dell’Organizzazione della Dichiarazione di principi.
Oggi la divisione si è ricomposta, specie a seguito degli eventi del crollo del muro di Berlino, del
crollo dell’Unione Sovietica, della scomparsa blocco di Stati a regime socialista.
Il diritto consuetudinario, ha potuto adeguarsi grazie ai principi e valori alla base delle regole
consuetudinarie internazionali, alla codificazione e alla Dichiarazione dei principi dell’Assemblea.
In questo modo si sono ricreate le basi per un nuovo consenso sociale.

2.3.7 Le contestazioni delle norme consuetudinarie ed il loro rilievo

Rimane comunque vero che la mancanza di omogeneità e la frammentazione della base sociale
internazionale in una pluralità di gruppi contrapposti, oltre a porre in crisi il fenomeno consuetudinario, può
provocare il venir meno, per desuetudine (mancanza di consuetudine), di determinate norme non più valide
all’opinio degli appartenenti ad uno di quei gruppi.

Al di fuori di ipotesi di contestazione “collettiva” per desuetudine, si deve negare che la contestazione di una
determinata regola consuetudinaria proveniente da un solo soggetto valga di per sé a renderla in opponibile a
chi tale contestazione muove. Pertanto è da escludere l’esistenza di un’eccezione consuetudinariamente
stabilita, in quanto riconosciuta dalla prassi e dall’opinio degli Stati.

2.4 La codificazione delle norme consuetudinarie

Tenuto conto del caratteri tipico delle norme consuetudinarie ed in particolare del loro carattere di norme non
scritte, si può comprendere come sia stata avvertita la necessità di provvedere ad una traduzione del loro
contenuto in forma scritta.
La codificazione si è sempre scontrata con molte difficoltà, soprattutto per il fatto che il Dir.Int. nasce e vive
in forma non scritta ad opera tra gli stessi soggetti che risultano destinatari. Ciò accade perché, nella struttura
della società internazionale, non è riconosciuto un “accentramento di poteri normativi” capaci di vincolare i
soggetti in capo ad un solo ente sovrano. Quindi, un’opera vera e propria di codificazione è resa impossibile
per mancanza di un ente sovrano.

Si parla di codificazione del Dir.Int. quando si fa riferimento all’unico strumento idoneo a porre in essere
norme giuridiche scritte: il trattato internazionale.
Ma anche questo strumento è riferibile a quegli stessi soggetti che risulteranno destinatari dei relativi
obblighi, e quindi la loro efficacia è limitata a coloro che ne diventano parti.

Quindi, l’opera di codificazione può solo tradursi nella conclusione di trattati internazionali che riproducono
il contenuto delle norme consuetudinarie, operando soltanto nei confronti dei soggetti che intendono
divenirne parti.
Se la consuetudine entra in un periodo di crisi per tensioni ed instabilità, bisogna “adeguare il diritto
generale alle nuove esigenze”.

2.4.1 L’opera delle Nazioni Unite per la codificazione

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Venendo ad esaminare i procedimenti concretamente utilizzabili ai fini della codificazione, e i loro più
importanti risultati, l’attenzione deve rivolgersi all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Il suo statuto, prevede un organo per intraprendere studi e fare raccomandazioni per la codificazione e lo
sviluppo progressivo del Dir.Int.

L’Assemblea [1947] istituì la Commissione del Dir.Int.: organo composto di esperti che ne fanno parte a
titolo individuale e non come rappresentanti di Stati, cui si deve l’opera di elaborazione della codificazione
del diritto consuetudinario.
L’Assemblea può anche prevedere altri procedimenti per predisporre studi e progetti intesi alla redazione di
testi da sottoporre agli Stati per l’approvazione in sede di Assemblea Generale. Principali realizzazioni della
Commissione del Dir.Int.:

- Convenzioni di Ginevra del 1958 in materia di diritto di mare, poi sostituite dalla Convenzione di Montego
Bay del 1982;

• - Relazioni diplomatiche del 1961;

• - Relazioni consolari del 1963;

• - Relazioni sulle missioni speciali del 1969;

• - Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969;

• - Successione tra stati in materia di trattati del 1978;

• - Relazione sul diritto dei trattati tra stati e organizzazioni internazionali 1986.

2.4.2 Il significato e la portata degli accordi di codificazione

Quando un accordo inteso alla codificazione del Dir.Int. generale viene stipulato, bisogna determinarne gli
effetti e i rapporti con il diritto generale preesistente.
Da un punto di vista formale l’accordo è capace di produrre tutti gli effetti che gli competono in quanto
trattato internazionale. L’accordo non vincola se non i soggetti che ne siano divenuti parti.

Il diritto generale, da parte sua, continua ad esistere e ad essere applicabile nei rapporti tra Stati non
contraenti, e fra questi e gli Stati contraenti.
Ma quale può essere il rapporto fra accordo di codificazione e Dir.Int. generale?
La giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia, a tal proposito, ha distinto tre ipotesi:

a. l’accordo di codificazione si limita a tradurre in forma scritta il contenuto di una norma generale già
esistente: la norma continuerà a valere ed applicarsi come prima, e l’effetto dell’accordo è puramente
“dichiarativo”.
b. l’accordo completa un processo di formazione di una norma consuetudinaria già in corso, il processo di
formazione della norma generale viene concluso con l’adozione dell’accordo.

c. l’accordo di codificazione contiene una o più norme nuove rispetto al diritto preesistente che costituiscono
la partenza di un processo destinato a creare una nuova norma generale, vincolante per tutti i soggetti.
È importante ricordare che le tre ipotesi sopra descritte possono verificarsi anche separatamente l’una
dall’altra. In secondo luogo il problema del rapporto con la norma generale esistente e dell’influenza
sull’eventuale formazione di una norma nuova può porsi, non solo con riferimento al un risultato del
processo di codificazione già compiuto, ma anche riguardo ad un progetto non ancora tradotto in un accordo.

2.5 Le Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite

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Un altro fenomeno in grado di influire nel processo formativo di norme internazionali consuetudinarie è
rappresentato dalle c.d. dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Si tratta, da
un punto di vista formale, di risoluzioni che hanno valore di semplici raccomandazioni, che sono prive di
efficacia obbligatoria per gli Stati membri. La più famosa risoluzione è stata la Dichiarazione Universale dei
diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948).

Negli ultimi anni le dichiarazioni stanno tendendo ad assumere il ruolo di nuove fonti di diritto generale [es.
dichiarazioni sull’uso dello spazio extra-atmosferico; dichiarazioni sull’eliminazione delle discriminazioni
razziali; dichiarazioni sulle relazioni amichevoli/collaborazione tra Stati; dichiarazioni sulla Carta dei diritti e
doveri economici degli Stati].

Ma dal punto di vista formale le Dichiarazioni sono prive di valore obbligatorio, e non hanno quindi
un’efficacia vincolante che possa essere loro riconosciuta. Sia il fenomeno della codificazione che quello
delle dichiarazioni non possono assumere carattere di fonti di diritto generale.

2.6 Le moderne trasformazioni nel processo di formazione delle norme consuetudinarie

Tanto gli accordi di codificazione quanto le Dichiarazioni dei principi dell’Assemblea generale, s’inseriscono
nella prassi internazionale degli Stati e altri soggetti: i primi, in quanto risultato del negoziato e della
stipulazione di accordi; le seconde sono l’esito di attività poste in essere dalla c.d. diplomazia multilaterale.

I due fenomeni, rispetto alla prassi tradizionale, si distinguono per il fatto di essere specificatamente intesi
alla rilevazione e all’enunciazione di norme e di principi aventi carattere ed efficacia generale. A parte
l’ipotesi che l’accordo di codificazione o la dichiarazione di principi si limitano a riflettere e riprodurre in
forma scritta una norma generale già esistente, l’intervento dei due atti nella formazione della norma fa sì
che, quando la norma generale sarà venuta a formarsi, la norma avrà come punto di riferimento la regola
scritta (Accordo o Dichiarazione).

Certamente la norma consuetudinaria come tale sarà, anche in questi casi, il risultato degli elementi
tradizionali, diuturnitas ed opinio.

2.7 Le consuetudini regionali e locali

Le norme consuetudinarie internazionali possono venire a formarsi tra due o più Stati in modi e con
presupposti analoghi a quelli esaminati in via generale. Naturalmente la sfera di efficacia di norme non
scritte di questo genere deve ritenersi attribuita solo agli Stati ai quali i comportamenti sono riferibili.

Le norme consuetudinarie possono venirsi a formare fra Stati geograficamente confinati o fra gruppi di Stati
legati tra loro da vincoli pattizi (accordi), che possono quindi modificare il regime del trattato se è consentito
dal medesimo.

2.8 I principi generali di diritto

Fanno parte del Dir.Int. anche i principi generali di diritto. Quest’ultima denominazione ricomprende due
fenomeni distinti: da una parte i principi generali di diritto usati per indicare i caratteri fondamentali e le
regole generali che si ricavano in via induttiva dalle regole espresse del sistema; dall’altra quei “principi
generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili” ai quali fa riferimento l’art. 38 dello Statuto della Corte
Internazionale di Giustizia.

2.8.1 I principi generali dell’ordinamento internazionale

Esistono, all’interno del Dir.Int. generale, alcuni principi generali esprimono immediatamente certe
specifiche caratteristiche della struttura del sistema giuridico nel quale società internazionale è organizzata.
Tali principi possono anche essere considerati come ricavati in via induttiva da varie regole consuetudinarie.

Nell’ambito dei principi generali si può introdurre una distinzione tra quelli si attinenti alla disciplina degli
aspetti formali fondamentali dell’ordinamento [come quelli che attengono ai soggetti e alle fonti] e quelli che
hanno carattere materiale perché riguardano la regolamentazione delle relazioni internazionali.

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Tra i primi, un ruolo fondamentale è il principio che si esprime con la formula pacta sunt servanda, cioè il
principio che attribuisce all’accordo dei soggetti l’idoneità a porre in essere norme giuridiche internazionali [
i patti vanno rispettati].
Per quanto riguarda i secondi, è opportuno richiamare la Dichiarazione relativa ai principi di Dir.Int.
concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra Stati dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
del 1970, la quale proclama sette principi:

1. Il principio dell’eguaglianza sovrana degli Stati (diritto di scegliere il proprio sistema politico, sociale,
economico, culturale, assetto costituzionale e proprio ordinamento giuridico)
2. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli;
3. Il principio del non-intervento negli affari interni od esterni di un altro Stato;

4. Il principio del divieto della minaccia e dell’uso della forza;


5. Il principio relativo all’obbligo di soluzione pacifica delle controversie internazionali;

6. Il principio relativo all’obbligo degli Stati a cooperare reciprocamente in conformità con la Carta delle
Nazioni Unite;
7. Il principio relativo all’obbligo di adempiere in buona fede agli obblighi assunti in conformità con la
Carta delle Nazioni Unite (riguarda l’insieme degli impegni internazionali assunti da uno Stato).

Si tratta di principi in gran parte desumibili dalla Carta delle Nazioni Unite, alla quale la dichiarazione fa
continuamente riferimento.
Nella Dichiarazione non si trova il principio del rispetto dei diritti umani fondamentali, perché è
generalmente ammesso la presenza di un divieto riguardante le “gross violations” dei diritti fondamentali
(genocidio, discriminazione razziale, trattamenti inumani).

Infine ci sono dei principi umanitari che non sono contemplati nella Dichiarazione ma da atti emanati dalla
Corte internazionale della giustizia e dalle Convenzioni di Ginevra [principio della libertà del traffico
marittimo; i principi di diritto umanitario; il principio della sovranità permanente delle risorse naturali; il
principio della prevenzione in materia ambientale].

2.8.2 I principi generali degli ordinamenti giuridici interni e il loro rilievo a livello internazionale

Tutt’altro significato hanno i principi generali sorti ed accertati nell’ambito degli ordinamenti giuridici
interni degli Stati, dei quali da menzione l’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale della Giustizia,
ovvero i “principi riconosciuti dalle Nazioni civili”.
Non si tratta qui di quei principi ricavabili dallo stesso Dir.Int. , e da questo autonomamente sviluppati, ma di
principi validi sul piano del diritto interno degli Stati, ed accolti dalla maggioranza di essi nei propri sistemi
giuridici.

La tendenza d’interpreti e giudici è sempre stata quella di integrare il contenuto dell’ordinamento


internazionale con i principi e i valori degli ordinamenti interni agli Stati perché la disciplina internazionale
generale è limitata e i valori che si vuole prendere in considerazione sono assoluti ed universali. La prassi
internazionale non ha mai cessato di far ricorso ai principi di diritto interno in questione ai fini di
integrazione del sistema giuridico internazionale.

Tenendo presente che i principi generali comuni agli ordinamenti statali esprimono valori riconosciuti ed
accolti nell’ambito delle società organizzate a Stato, non può certo stupire che tali principi trovino
automaticamente riconoscimento anche nelle relazioni interstatali. Tale sistema trova il proprio sostegno
nella società universale, di cui quelle organizzate a Stato non sono altro che sue articolazioni: la mancanza di
istituzioni politico-giuridiche comuni a livello interindividuale non esclude che i valori comuni alla società
ed agli ordinamenti statali trovino immediato riscontro e riconoscimento a livello internazionale.

2.8.3 La funzione integrativa dei principi generali di diritto interno

In virtù dell’appartenenza ad un comune ambiente di civiltà giuridica, i principi generali degli ordinamenti
interni operano in ambito internazionale; in particolare “integrano” la regolamentazione dei rapporti
internazionali, attraverso il richiamo di regole generali di logica giuridica e di giustizia degli ordinamenti
interni: sia nel senso di completare il tessuto connettivo rappresentato dalle regole elaborate in ambito
internazionale, sia in quello di meglio specificare l’ambito e la portata di tali regole.

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2.8.4 Determinazione dei principi generali e loro condizioni d’utilizzabilità

Sono necessarie alcune condizioni per far sì che i principi generali riconosciuti dagli ordinamenti giuridici
interni possono essere assunti come fonti di Dir.Int. generale:

a. deve essere effettivamente un principio generale: ossia una regola che esprimere caratteri essenziali di un
determinato settore normativo o istituto giuridico;
b. deve essere riconosciuto dagli ordinamenti giuridici interni.
c. Non c’è nessuna limitazione alla materia in cui il principio può essere richiamato;

2.8.5 Ipotesi d’utilizzazione dei principi generali di diritto interno

La prassi internazionale mostra ipotesi di utilizzazione dei principi generali di diritto interno in svariati
settori. Fra gli altri, a titolo esemplificativo:
- In materia processuale: il principio per cui nessuno può essere giudice in causa propria; il principio relativo
all’efficacia di cosa giudicata dalle decisioni rese da organi giurisdizionali; il principio dell’eguaglianza delle
parti nel processo;

- In materia di obbligazioni: il principio per cui il risarcimento del danno deve comprendere sia il danno
emergente sia il lucro cessante; il principio per cui la violazione di obbligazioni pecuniarie comporta il diritto
del creditore al pagamento degli interessi di mora; il principio dell’integrale riparazione in caso di violazione
degli obblighi internazionali;

- In materia di interpretazione di atti: il principio per cui una norma deve essere interpretata nel quadro
complessivo del sistema giuridico esistente al momento dell’interpretazione;
- In materia penale: il principio che vieta un nuovo giudizio a carico dell’imputato per gli stessi fatti.

2.9 Significato e contenuto del Dir.Int. generale

Considerando la struttura complessiva dell’ordinamento giuridico internazionale, il Dir.Int. generale assume


il significato di insieme di principi e regole comuni a tutti gli Stati ed altri soggetti, che esprimono i valori
condivisi dalla generalità di loro e riconducono ad un’unità logica i vari sottosistemi, risultando dalla
molteplicità dei complessi normativi a carattere pattizio.

Nello stesso tempo rappresenta il fondamento della validità di tutte le norme: appartiene al diritto generale, la
norma consuetudinaria per l’obbligatorietà dei trattati [sono fonti di 2° grado].
Il nucleo essenziale, del Dir.Int. generale, è costituito dalle regole che tutelano il potere di ogni Stato nei
confronti di tutti gli altri, e ne determinano limiti, per quanto riguarda le cerchie spaziali e le varie categorie
di soggetti. Nel tempo queste regole hanno subito un’evoluzione che però non ha comportato una rottura
radicale rispetto allo schema logico preesistente. In particolare sono venute alla luce delle tendenze che
hanno inciso in maniera significativa sul carattere “individualistico” dell’assetto tradizionale. Due aspetti che
rilevano in tal senso sono: il fenomeno del jus cogens internazionale e il fenomeno delle obbligazioni erga
omnes.

2.10 Lo jus cogens internazionale

Nonostante Il carattere “primario” che è proprio del diritto generale dal punto di vista logico, tale carattere
non si traduce in un valore gerarchicamente superiore delle norme che ne fanno parte, rispetto alle altre,
specie quelle pattizie.
Al contrario, le norme generali sono considerate di carattere flessibile, nel senso che è possibile ai soggetti di
derogarvi per mezzo di una regolamentazione pattizia divergente.

Per riprendere un esempio spesso adottato, non vi è dubbio che uno Stato ha un diritto esclusivo di svolgere
le proprie funzioni nel proprio territorio ad esclusione di ogni altro Stato: ma è certo che attività sovrane di
una altro Stato possono essere ammessa nel territorio a patto che vi siano delle apposite regolamentazioni
pattizie (attività giurisdizionali, installazione di basi militari).

A questo principio non venivano tradizionalmente riconosciute eccezione, se non nel caso dei trattati c.d.
contra bonos mores, vale a dire quei trattati che sono contrari al carattere etico, quindi al trattamento della
persona umana od al riconoscimento di requisiti minimi di sussistenza per uno Stato. In questi casi, il trattato

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è invalido.
Nel corso degli ultimi decenni, si è invece pervenuti all’elaborazione di una serie di principi propri e
specifici del Dir.Int., ai quali si attribuisce un valore fondamentale, capace di tradursi nell’inderogabilità
delle relative norme, e quindi di condurre all’invalidità dei trattati che si ponessero in contrasto con essi. Art.
53 Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati:

«È nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma
imperativa di Dir.Int. generale. Ai fini della presente convenzione, per norma imperativa di Dir.Int. generale
si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo
insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da
una nuova norma di Dir.Int. generale avente lo stesso carattere». Secondo la prassi e la giurisprudenza i
principi di diritto generale cogenti sono quelli posti alla base dello statuto delle nazioni Unite, ovvero il
divieto di minaccia e dell’uso della forza, l’obbligo di una soluzione pacifica alle controversie, il rispetto
della sovranità e dell’eguaglianza degli stati, la tutela dei diritti fondamentali ed i connessi principi di diritto
umanitario.

2.11 Le obbligazioni erga omnes

Nello stesso filone si inserisce la nozione di obbligazioni erga omnes. Tradizionalmente le norme di Dir.Int.
sono fondate sulla reciprocità degli interessi propri dei singoli Stati e i rapporti che s’instaurano tra ciascuno
Stato e nei confronti degli altri.
Negli ultimi anni sono nati degli obblighi che, non s’instaurano nei confronti di un solo Stato, ma nei
confronti della Comunità internazionale nel suo insieme.

Secondo la Corte internazionale di Giustizia, può essere rilevata una distinzione essenziale fra:
- obbligazioni degli Stati nei confronti della Comunità internazionale nel suo insieme: riguardano tutti gli
Stati e queste sono le obbligazioni erga omnes (genocidio, diritti fondamentali della persona umana);
- obbligazioni degli Stati nei confronti di un altro Stato.
La categoria di obblighi così individuata appartiene senza dubbio al Dir.Int. contemporaneo ed è utilizzata
anche in altre recenti sentenze.
Le obbligazioni erga omnes si caratterizzano per il carattere indivisibile degli obblighi e dei beni giuridici
tutelati, ed inquadrano, da un punto di vista dello schema formale, le situazioni nascenti dalle norme che
appartengono allo jus cogens.

2.12 Altre fonti di norme internazionali

Altre fonti di norme internazionali, anche se non idonee a dar vita a norme di Dir.Int. generale, sono: -
l’efficacia obbligatoria della promessa unilaterale: che costituisce la dichiarazione di uno o più Stati di
adottare un certo comportamento nei confronti d’altri soggetti. La conseguenza della promessa è
l’obbligatorietà del comportamento che ne è oggetto indipendentemente da qualsiasi reciprocità. Data la
coincidenza fra fonti di obbligazioni e fonti di norme di diritto internazionale, si può dire che la promessa è
fonte di norme giuridiche vincolanti per lo Stato che la fa.

- La promessa viene spesso menzionata come atto unilaterale, insieme alla protesta, riconoscimento, rinuncia
o notificazione, ma solo la promessa può essere considerata come fonte di norme o obbligazioni.

2.13 Le norme previste dai trattati

Ancora più indirettamente possono essere ricondotte al Dir.Int. generale le fonti costituite da certi atti
emanati da organizzazioni internazionali in base ai propri statuti: sono atti obbligatori avente carattere
pattizio. Sono comunemente dette “fonti di terzo grado”, che in una scala gerarchica dell’ordinamento, si
considerando di “primo grado” le norme generali e di “secondo grado” quelle pattizie. Le organizzazioni che
possono emanare tali atti sono:

• - il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite;

• - l’ICAO (International Civil Aviation Organisation): il Consiglio dell’ICAO;

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• - Comunità ed Unione europea: regolamenti, direttive e decisioni del Consiglio e della Commissione
della Comunità europea. Azioni, posizioni comuni e decisioni-quadro per l’Unione europea;

- Sentenza pronunciata ex aequo et bono da giudici internazionali: la sentenza è fondata su equità.

2.14 La c.d. soft law in Dir.Int.

Non appartiene alle tematica delle fonti la c.d. soft law: sono atti e manifestazioni che hanno un elemento di
carattere negativo, che consiste nell’assenza di effetti giuridici vincolanti:

• - Le proposizioni hanno la stessa struttura logica delle norme giuridiche vincolanti;

• - Il soggetto dal quale la proposizione proviene è privo del potere di emanare regole di condotta
vincolanti;
- I termini della proposizione non sono quelli giuridici, ma indicano solo comportamenti
“raccomandati” o doverosi dal punto di vista morale, sociologico o politico.
Il fenomeno della soft law, si è sviluppato nella Comunità internazionale, soprattutto in materia
ambientale.
Le regole di comportamento della soft law, anche se non sono delle vere e proprie norme e atti aventi
valore vincolante, possono adottare nel tempo un’efficacia normativa. È possibile che determinati
aspetti o parti di testi della soft law si evolvano diventando elementi di norme consuetudinarie o
d’accordi internazionali, oppure conclusione d’accordi aventi per contenuto i testi in precedenza non
vincolanti.
La soft law può diventare la base di comportamenti d’istituzioni internazionali dotate di potere
d’applicazione di norme agli Stati.
Le regole della soft law possono diventare vincolanti a seguito della loro applicazione, da parte
d’autorità competenti, all’interno dell’ordinamento statale.

3 L’ACCORDO NEL SISTEMA DELLE FONTI E IL DIRITTO DEI TRATTATI

3.1 L’accordo nel sistema delle fonti del Dir.Int.

L’Accordo – o trattato – può definirsi come l’incontro della volontà di due o più Stati o altri soggetti
dell’ordinamento internazionale che acconsentono di assumere obblighi e diritti reciproci regolati dal Dir.Int.
in relazione ad una determinata materia e a rispettarli in buona fede.
Il fondamento della giuridicità dell’accordo come fonte di norme particolari, dette anche pattizie o
convenzionali, che vincolano solo i contraenti, è costituito dalla regola generale pacta sunt servanda.

Manca invece nell’ordinamento internazionale, data la sua struttura, una procedura di applicazione generale
che garantisce l’adempimento delle norme convenute e che sanzioni eventuali violazioni.

3.1.1 La libertà degli Stati nel determinare il contenuto dei trattati e suoi limiti

Gli Stati sono liberti quanto alla materia oggetto del trattato e della natura delle norme contenute:
cooperazione in materia commerciale e navigazione, condizioni dei rispettivi cittadini al rispetto dei diritti
umani.
Gli Stati utilizzano i trattati per assumere reciprocamente obblighi, sia per precisare o escludere nei rapporti
reciproci l’applicazione di norme generali.

Unico vincolo posto dal Dir.Int. è costituito dal rispetto delle norme jus cogens, che non possono essere
derogate mediante trattato.

3.2 Gli effetti delle norme pattizie

I trattati sono fonti di obbligazione tra Stati contraenti, i soli che possono pretenderne l’adempimento
reciproco. In questo le norme pattizie differiscono dalle norme consuetudinarie che vincolano, invece, la
generalità degli Stati (quando uno Stato terzo tiene un comportamento conforme ad una norma contenuta

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negli accordi di codificazione, sta adempiendo ad un obbligo imposto dal diritto consuetudinario che è solo
riflesso nella norma di codificazione).

In passato si è cercato da un lato di attribuire un valore legislativo o quasi legislativo (c.d. law- making
treaties) ai trattati multilaterali come gli accordi di codificazione, dall’altro di stipulare accordi destinati ad
avere effetti di carattere generale o erga omnes, come istitutivi di regimi internazionali.

3.2.1 I rapporti tra norme generali e norme pattizie

Le norme pattizie sono definite, per contrapporle a quelle generali, come norme particolari o speciali. Una
norma generale anche se costituisce un obbligo nei trattati, non ha una posizione di preminenza o superiorità
al diritto consuetudinario, anzi gli Stati spesso introducono attraverso trattati delle regole diverse da quelle
che si applicano nei rapporti generali. Nell’art. 38 della Corte internazionale di giustizia, sono menzionate
prima le convenzioni generali e particolari e poi la consuetudine internazionale. L’assenza di gerarchia non
esclude che una norma generale successiva prevalga su una norma convenzionale precedente.

3.3 La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati: codificazione o sviluppo progressivo?

I trattati sono sottoposti a una serie di norme internazionali che ne disciplinano i requisisti di validità ed
efficacia, il procedimento di formazione, l’interpretazione, gli effetti delle modifiche, le cause di invalidità,
sospensione ed estinzione.
Queste norme sono contenute nella Convenzione sul diritto dei trattati (22 maggio 1969) adottata dalla
Conferenza delle Nazioni Unite tenutasi a Vienna.

La Convenzione di Vienna è una convenzione di codificazione che contiene anche norme c.d. di sviluppo
progressivo, sulle quali gli Stati non hanno ancora dato il loro consenso.
La Convenzione si applica solo ai trattati stipulati dopo la sua entrata in vigore.

3.3.1 L’ambito d’applicazione della Convenzione di Vienna

La Convenzione non si applica a tutti trattati, ma solo agli accordi fra Stati, stipulati per iscritto e retti dal
Dir.Int., quale che ne sia l’oggetto, ed esplicitamente anche ai trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali.
La Convenzione disciplina solo i trattati fra Stati indipendenti; non esclude che altre entità possano stipulare
trattati soggetti alle norme consuetudinarie in materia (art. 3). Si esclude qualsiasi trattato stipulato da enti
diversi dagli Stati. Le norme dei trattati fra Stati e organizzazioni internazionali, e quelli tra organizzazioni
internazionali, sono contenute in una successiva Convenzione (Vienna 1986).

Non sono trattati ma contratti internazionali (come tali non sottoposti al Dir.Int. ) gli accordi conclusi tra
Stati e società straniere, i contratti relativi allo sfruttamento delle risorse naturali di uno Stato, gli accordi tra
entità territoriali interne di Stati diversi volti ad istituire forme di cooperazione transfrontaliera.

Non esistono norme internazionali che impongano condizioni di forma scritta per la conclusione di trattati,
ma la forma scritta è la più utilizzata. Il fatto che la Convenzione non si applichi agli accordi conclusi in
forma non scritta non significa che questi siano sottratti alle norme consuetudinarie sul diritto dei trattati.

Non tutti gli accordi sono soggetti al Dir.Int. perché gli Stati possono concludere accordi regolati da norme
interne di uno di essi oppure concludere atti che rientrano nella c.d. soft law che sono sottratti al Dir.Int. in
quanto non creano obblighi e diritti reciproci.
Trattati istitutivi di organizzazioni internazionali: le norme della Convenzione di Vienna utilizzano termini
applicabili sia per i trattati fra Stati sia per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, lasciando ampio
spazio agli Stati contraenti alle regole della disciplina delle vicende dei trattati delle organizzazioni.

3.4 La procedura di formazione del trattato: i pieni poteri

Gli Stati sono rappresentati, nelle diverse fasi della procedura di formazione dei trattati, dai c.d.
plenipotenziari (pieni poteri), persone espressamente autorizzate dall’organo competente dello Stato a
negoziare, adottare, autenticare, e/o firmare il testo del trattato ed ad esprimere il consenso dello Stato.

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Il documento, che identifica il rappresentante e i poteri a lui attribuiti, si chiama appunto “pieni poteri”.
Se un soggetto non-autorizzato compie un atto riguardante la conclusione di un contratto, tale atto non avrà
effetto, salvo che lo Stato in questione confermi successivamente (art. 8).

Alcune categorie di persone sono esentate dalla presentazione dei pieni poteri, ovvero godono di pieni poteri
impliciti per effetto della funzione che svolgono nell’apparato dello Stato. Si tratta dei Capi di Stato, capi di
governo, ministri degli affari esteri (possono compiere qualsiasi atto relativo alla conclusione di un trattato;
dei Capi di missione diplomatica (limitatamente alla negoziazione e all’adozione del testo dei trattati tra
Stato accreditante e Stato accreditato); dei Rappresentanti degli stati accreditati presso una conferenza o
un’organizzazione internazionale (solo per la negoziazione e adozione del testo di un trattato nell’ambito di
quella conferenza o organizzazione – art. 7.2).

3.4.1 Il negoziato, l’adozione e l’autenticazione del testo

Le fasi della procedura della stipulazione del trattato sono diverse, in secondo che si tratti di accordi in forma
semplificata o accordi in forma solenne. La scelta della procedura non dipende dal numero di stati coinvolti.
La Convenzione di Vienna propone alcune regole procedurali, che possono essere derogate dagli Stati. La
forma solenne prevede una prima fase di negoziato: può svolgersi su impulso di uno o più Stati o nell’ambito
di una organizzazione internazionale. La conferenza di Stati partecipanti al negoziato può determinare le
modalità di svolgimento della procedura e le maggioranze necessarie per la votazione dei singoli articoli e
del testo nel suo complesso.

Una seconda fase di adozione del testo: secondo la Convenzione di Vienna, l’adozione può avvenire per
unanimità, per i trattati bilaterali o conclusi con pochi Stati, a maggioranza dei 2/3, in presenza di un numero
rilevante di Stati.
Una terza fase dell’autenticazione del testo: fissa in modo definitivo il contenuto del testo del trattato. Questa
può avvenire attraverso la firma dei plenipotenziari. La firma può avvenire nello stesso momento e luogo per
tutti gli Stati che hanno partecipato al negoziato, oppure rimane aperto alla firma.

I trattati possono essere negoziati e autenticati in più lingue. Indipendentemente dalle versioni linguistiche in
cui il testo è redatto e autenticato, il principio d’uguaglianza degli Stati comporta l’uguaglianza dei testi
autentici, tranne che gli Stati dichiarano che un testo debba prevalere su altri (artt. 31 – 32 – 33).

3.4.2 La manifestazione del consenso

Nei trattati stipulati in forma solenne, la manifestazione del consenso dello Stato ad obbligarsi al trattato si
esprime solitamente in un momento successivo alla firma, vale a dire quando sono stati esauriti tutti i
procedimenti interni di controllo o raccolte autorizzazioni da parte d’altri organi o istituzioni dello Stato.

La Convenzione di Vienna menziona a in proposito: la ratifica (conferma); l’accettazione; l’approvazione;


l’adesione, o qualsiasi altro strumento convenuto fra gli Stati.
Le prime tre espressioni coincidono e indicano la manifestazione del consenso da parte di uno Stato che ha
partecipato al negoziato e ha adottato e firmato il testo del trattato con riserva di ratifica successiva.

L’adesione, solo per i trattati aperti, riguarda gli Stati che vogliano partecipare al trattato in un momento
successivo alla firma.
Nella Convenzione di Vienna, con la manifestazione del consenso, uno Stato diventa: contraente di un
trattato [indipendentemente dal fatto che il trattato stesso sia entrato in vigore]; parte è invece uno Stato nei
cui confronti il trattato è in vigore. [è una prassi terminologica non obbligatoria]. Quando un trattato viene
stipulato da un’organizzazione internazionale, bisogna fare riferimento alle norme del trattato istitutivo per
determinare l’organo competente.

3.4.3 L’entrata in vigore del trattato

Le modalità e i tempi dell’entrata in vigore del trattato sono solitamente stabiliti dalle disposizioni finali del
trattato.
Nel periodo tra la firma e l’entrata in vigore del trattato, gli Stati sono tenuti a comportarsi “in buona fede”
per non compromettere l’entrata in vigore del trattato.

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Quando il trattato è Stato stipulato nell’ambito di un’organizzazione o di una conferenza internazionale, il


segretario generale o, rispettivamente, lo Stato ospitante devono depositare tutti gli strumenti di ratifica,
accettazione, approvazione o adesione degli Stati, e devono comunicare a tutti gli Stati firmatari e agli Stati
aderenti l’avvenuto deposito.
Gli Stati possono stabilire che un trattato o parte delle sue disposizioni si applichino in via provvisoria prima
dell’entrata in vigore. Questo è avvenuto per alcune parti dell’Accordo GATT.

3.4.4 Gli accordi in forma semplificata

Gli accordi in forma semplificata sono adottati solitamente per accordi bilaterali o conclusi tra gruppi ristretti
di Stati, che hanno carattere tecnico o amministrativo, oppure nelle organizzazioni internazionali per le
decisioni relative al funzionamento delle istituzioni (nomina giudici Corte di Giustizia, trattati segreti).

Per questi trattati, costituiscono la manifestazione del consenso la firma del testo o lo scambio dei documenti
o degli strumenti contenenti il trattato.
L’entrata in vigore coincide con la firma o lo scambio degli strumenti contenenti il trattato, ma gli Stati
possono stabilire un momento successivo.

3.5 La competenza a stipulare nell’ordinamento italiano i trattati in forma solenne

Ogni Stato determina liberamente quale organo ha il pieno potere per manifestare il consenso solenne ad
obbligarsi mediante trattato. Generalmente, le disposizioni sono contenute nella Costituzione materiale o
formale, e comportano spesso il concorso dell’attività di più organi. Esse servono a garantire il controllo del
Parlamento sull’attività dell’esecutivo e sulla gestione delle relazioni internazionali. Il Dir.Int. non pone
vincoli in proposito, ma disciplina le conseguenze del mancato rispetto di tali disposizioni.

Per quanto concerne i trattati stipulati in forma solenne la Costituzione italiana attribuisce al PdR il potere di
ratifica e di adesione.
Anche l’atto di ratifica risponde alla regola generale dell’art. 89 Cost., secondo la quale ogni atto del PdR
deve essere controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità e hanno il potere
d’iniziativa: in questo caso di tratterà del Ministro degli affari esteri, o eventuali altri ministri competenti
secondo a materia oggetto del trattato.

L’art. 87 Cost. prevede che la ratifica sia sottoposta ad autorizzazione preventiva da parte delle Camere nei
casi indicati dall’art. 80 Cost.. Questa disposizione permette al Parlamento di controllare che il Governo non
assuma obblighi internazionali scavalcando le competenze del Parlamento. L’articolo richiede infatti
l’autorizzazione parlamentare per due categorie di trattati:

Trattati di natura politica;


Trattati che comportano modificazioni di leggi, ovvero che comportano oneri finanziari, variazioni di
territorio, istituzione di organi arbitrali internazionali.
La legge d’autorizzazione alla ratifica deve essere approvata con la procedura a norma dell’art. 72 Cost. e
non può essere sottoposta a referendum (art. 75). Queste condizioni valgono anche per l’ordine di esecuzione
dei trattati.
L’autorizzazione parlamentare non produce, però, alcun obbligo a carico del Governo che può rinviare sine
die il deposito della ratifica.
Nella prassi italiana, l’autorizzazione è richiesta dal Governo al Parlamento solo per la ratifica e l’adesione e
non anche per la denuncia o il recesso dal trattato.
«Costituzione Art. 72 comma 4. La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della
Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di
delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e
consuntivi.

Art. 75. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di
autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Art. 80. Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o
prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o
modificazioni di leggi.

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Art. 87. Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale.
Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra,
l'autorizzazione delle Camere.
Art. 89. Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti,
che ne assumono la responsabilità».

3.5.1 gli accordi in forma semplificata

Il Governo ha il potere di concludere accordi in forma semplificata, per effetto di una delega implicita del
PdR.
La nostra Cost. non ne parla in modo esplicito, ma sono ammessi tali accordi per tutte le materie non-
dichiarate nell’art. 80, nel quale si richiede per determinate materie l’autorizzazione parlamentare. Unico
limite posto al potere del Governo, è di stipulare trattati segreti.

3.5.2 I poteri delle Regioni in relazione alla stipulazione dei trattati

Con la legge Cost. 3/2001 che modifica l’art 117 Cost. (Titolo V Cost.) ha mutato l’ambito di competenza
dello Stato e delle Regioni, sia sul piano materiale sia sul piano del potere di stipulare trattati internazionali.
Il nuovo art. 117 Cost. attribuisce esplicitamente alle Regioni il potere di stipulare trattati nelle materie di
loro competenza. La norma distingue:

“accordi con Stati”: oggi c’è una nuova legge 131/2003, la quale limita all’entità periferiche i poteri di
stipulazione di accordi esecutivi ed applicativi di accordi internazionali, di accordi di natura tecnico-
amministrativa, e di accordi di natura programmatica finalizzati a favorire lo sviluppo economico, sociale e
culturale.

“intese con enti territoriali interni ad altro Stato”: la nuova legge 131/2003, attribuisce alle Regioni e alle
province autonome di Trento e Bolzano, il potere di concludere, nelle materie di propria competenza
legislativa, intese volte a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale con enti territoriali interni
ad altri Stati. Quindi, gli accordi regionali non sono soggetti ad autorizzazione parlamentare.

3.5.3 Le conseguenze del mancato rispetto delle norme interne sulla competenza a stipulare
nell’ordinamento internazionale e nell’ordinamento italiano

Qualora vengano violate le norme costituzionali sulla competenza a stipulare, nel caso in cui l’atto di ratifica
provenga da un organo incompetente o non siano state rispettate le procedure interne, la Convenzione di
Vienna prevede all’art. 46, che uno Stato possa far valere tale violazione come vizio del proprio consenso e
dunque motivo d’invalidità del trattato. Si deve trattare di una violazione obiettivamente evidente e deve
riguardare una norma di diritto interno di rilevante importanza. La pressi internazionale in materia è piuttosto
rara. Il problema del nostro ordinamento italiano riguarda soprattutto casi in cui il Governo stipuli in forma
semplificata dei trattati per i quali l’art. 80 Cost. impone l’autorizzazione parlamentare.

3.6 L’interpretazione dei trattati. Il valore delle regole codificate nella Convenzione di Vienna

Fino a quando non si è conclusa la Convenzione di Vienna esisteva incertezza sul valore delle regole
internazionali interpretative che, secondo alcuni, erano vere norme di carattere generali vincolanti per
l’interprete, in quanto manifestazioni di ogni ordinamento giuridico, mentre secondo altri dei veri canoni
esegetici (interpretativi) non vincolanti. La Commissione del Dir.Int. ha individuato alcuni principi generali
nei quali ha riconosciuto delle vere regole generali vincolanti per l’interpretazione dei trattati e sono state
codificate agli artt. 31-33 della Convenzione di Vienna. Dopo alcuni decenni nei quali è stata affermata la
prevalenza del metodo soggettivo, che cerca di ricostruire la volontà delle parti sulla base dei lavoro
preparatori, si è lentamente affermata la tendenza a svincolare il testo dalla volontà espressa durante i
negoziati a favore del metodo esigetico oggettivo. In questo modo si è andati incontro all’esigenza degli Stati
che intendono aderire a trattati nei quali non hanno partecipato ai negoziati [Trattati Aperti].

3.6.1 La regola generale di interpretazione e il contesto del trattato

Il metodo esigetico codificato nella Convenzione ha natura prevalentemente oggettiva. Il primo elemento del
procedimento interpretativo è costituito dalla ricerca del significato letterale del testo (metodo esegetico) in
base all’art. 31.1. Tale articolo dispone che:

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Un trattato deve essere interpretato in buona fede secondo il significato naturale dei termini utilizzati nel
loro contesto, alla luce del suo oggetto e del suo scopo. La buona fede è un principio che si esprime in certi
canoni di comportamento che a loro volta vengono a formare un parametro di valutazione (art. 26).

Secondo il significato naturale dei termini utilizzati nel quadro del contesto generale del trattato: il contesto
comprende, oltre al preambolo e allegati, anche eventuali accordi relativi al trattato stipulato tra Stati al
momento di conclusione del trattato e agli strumenti predisposti da uno o più Stati nel medesimo momento e
accettati dagli altri contraenti come strumenti relativi al trattato.

È pacifico per la giurisprudenza che parte integrante del trattato sono il preambolo [enuncia lo scopo del
trattato e il quadro normativo nel quale esso si riferisce] e gli allegati [possono avere il contenuto più vario
secondo la materia oggetto dell’accordo].
Gli altri due elementi [preambolo e allegati], oltre all’elemento temporale devono avere con il trattato un
certo rapporto, che può variare a seconda delle circostanze.

La Convenzione non pone dei limiti alla forma del trattato: possono essere, quindi, accordi in forma scritta o
anche accordi o dichiarazioni orali.

3.6.2 Gli strumenti primari d’interpretazione

Accanto al contesto generale di cui sopra, l’art. 31 com. 3 impone di tenere in considerazione ogni accordo
successivo al trattato sull’interpretazione o applicazione del trattato (lett. a), la prassi successiva che dimostri
l’accordo delle parti relativamente all’interpretazione delle sue disposizioni (lett. b) e ogni regola di Dir.Int.
applicabile nelle relazioni tra le parti (lett. c).

Il primo caso riguarda l’ipotesi in cui gli Stati specificano il significato o l’applicazione di un termine
mediante un accordo concluso a questo fine, il quale obbliga gli stessi Stati a non discostarsi
dall’interpretazione così convenuta.
Quanto alla prassi applicativa, data la coincidenza dei soggetti che emanano la norma, la interpretano e la
applicano, si tratta di un elemento di accettazione del significato della norma applicata, quale manifestazione
oggettiva del consenso degli Stati.

Quanto alle regole di Dir.Int. applicabili tra le parti, si tratta del contesto dei rapporti internazionali tra Stati
contraenti in cui il trattato si inserisce ed opera.

«Art. 31 Regola generale per l’interpretazione 1. Un trattato deve essere interpretato in buona fede in base
al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce dei suo oggetto e del suo
scopo. 2. Ai fini dell’interpretazione di un trattato, il contesto comprende, oltre al testo, preambolo e allegati
inclusi: a) ogni accordo relativo al trattato e che sia intervenuto tra tutte le parti in occasione della sua
conclusione; b) ogni strumento disposto da una o più parti in occasione della conclusione del trattato ed
accettato dalle altre parti in quanto strumento relativo al trattato. 3. Verrà tenuto conto, oltre che del
contesto: a) di ogni accordo ulteriore intervenuto tra le parti circa l’interpretazione del trattato o
l’attuazione delle disposizioni in esso contenute; b) di ogni ulteriore pratica seguita nell’applicazione del
trattato con la quale venga accertato l’accordo delle parti relativamente all’interpretazione del trattato; c)
di ogni norma pertinente di Dir.Int., applicabile alle relazioni fra le parti. 4. Si ritiene che un termine o
un’espressione abbiano un significato particolare se verrà accertato che tale era l’intenzione delle parti».

Un elemento che mitiga l’oggettività del metodo di interpretazione codificato nella convenzione di Vienna è
dato dal ruolo attribuito all’oggetto, allo scopo e al fine a cui essi tendono. In tal modo viene in evidenza la
volontà degli Stati e la funzione del trattato.
L’art. 31 com. 4, infine, permette agli Stati di utilizzare un significato speciale per i termini del Trattato, che
è destinato a prevalere sul significato oggettivo determinato sulla base degli articoli precedenti. Tale
significato “speciale”, che deve essere provato dalla parte che lo vuole far valere, potrà risultare dal contesto,
dall’oggetto, dallo scopo del trattato o dagli altri strumenti primari, ma più facilmente desunto dai mezzi
complementari di interpretazione di cui all’art. 32.

3.6.3 Gli strumenti complementari di interpretazione

L’art. 32 permette il ricorso ad altri strumenti esegetici quando si voglia trovare conferma ulteriore del
risultato al quale si è giunti sulla base della regola all’art. 31, o quando vi sono ancora dei dubbi sul

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significato del testo. Tra i mezzi complementari l’art. 32 cita:


a. i lavori preparatori del trattato, cioè i negoziati;

b. i lavori di gruppo di esperti che precedono la conferenza diplomatica;


c. le circostanze della conclusione del trattato;
d. le vicende storiche che hanno portato alla conclusione del trattato.
Ciò non esclude che possano essere utilizzati strumenti diversi come la prassi successiva unilaterale, alcuni
principi esegetici generali per la logica interpretativa applicata in ogni ordinamento [l’interpretazione in
buona fede].

3.6.4 L’interpretazione dei trattati in più lingue

La Convenzione di Vienna si occupa dei trattati in più lingue, per i quali dispone, come regola generale, che
indipendentemente dalle versioni linguistiche in cui il testo è redatto e autenticato, il principio di uguaglianza
degli Stati comporta l’uguaglianza dei testi autentici, salvo che gli Stati abbiano indicato che un testo debba
prevalere sugli altri, vuoi direttamente nel testo del Trattato, vuoi in uno degli atri strumenti indicati agli artt.
31 e 32.

Pertanto se le versioni linguistiche hanno lo stesso significato, si devono applicare gli artt. 31 e 32. Se le
versioni linguistiche hanno significati differenti, l’art. 33.4 impone che si dia preferenza al significato che
meglio riconcilia i testi.

3.6.5 L’interpretazione dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali

La flessibilità del metodo di interpretazione codificato dalla Convenzione di Vienna risulta evidente ove si
tratti di interpretare i trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali, nei quali l’aspetto teleologico
risulta prevalente affinché l’organizzazione possa vivere e sviluppare la propria attività, soprattutto quando
ad un apposito organo viene attribuito la competenza ad interpretare il trattato in modo vincolante per gli
Stati membri e per l’organizzazione stessa.

3.7 Le riserve ai trattati: la Convenzione di Vienna

La natura e l’ambito di applicazione delle norme pattizie comporta che le regole convenute tra gli Stati si
applichino nei reciproci rapporti in modo uniforme. In realtà l’aumento del numero degli Stati ha comportato
un uso maggiore delle riserve, che consistono in dichiarazioni unilaterali depositate dallo Stato al momento
della firma o della manifestazione del consenso, che escludono o modificano l’effetto di determinate
disposizioni del trattato con riferimento a tale Stato (art. 2.1 lett. d).

Le riserve intervengono solo nei trattati multilaterali, poiché in quelli bilaterali la proposta di uno Stato di
limitare nei propri confronti l’applicazione di una disposizione costituirebbe, di fatto, una proposta di
modifica.
La Convenzione di Vienna ha adottato agli artt. 19-23 alcune regole riguardanti le riserve: all’art. 19
permette ad uno Stato di formulare una riserva per iscritto al momento della firma o della manifestazione del
consenso, salvo che il trattato vieti o preveda certe riserve, oppure la suddetta è incompatibile con il suo
oggetto o scopo; all’art. 20.1: richiede che la riserva venga accettata dalle altre parti salvo che sia autorizzata
in modo esplicito dal trattato; all’art. 20.2 l’accettazione deve provenire da tutte le altre parti quando risulti
dal numero limitato di Stati che hanno partecipato al negoziato necessario il consenso generale per far si che
il trattato venga applicato nella sua interezza. L’accettazione può avvenire anche solo da alcuni Stati, ma in
questo caso la parte che ha depositato la riserva diviene parte del trattato nei rapporti solo con loro. La
riserva prende effetto dalla prima accettazione; all’art.20.4 lett. b) gli Stati possono sollevare obiezioni alla
riserva, ma il trattato entra in vigore ugualmente con lo Stato autore della riserva, salvo che l’obiezione
esprima anche una volontà contraria all’entrata in vigore del trattato nei rapporti con questo Stato.

L’effetto della riserva è quello di limitare o modificare nel senso indicato la portata del trattato nei rapporti
reciproci tra lo Stato autore della riserva e gli Stati che la accettano, mentre non ha alcun effetto nei rapporti
tra questi ultimi Stati tra loro.
Quanto ai rapporti tra Stato autore della riserva e lo Stato che solleva obiezioni, se quest’ultimo ha accettato
l’entrata in vigore del trattato, tra loro la disposizione alla quale è apposta la riserva non si applica nei
rapporti reciproci (art. 21).

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3.7.1 La prassi successiva

La disciplina delle riserve contenuta nella Convenzione di Vienna è parsa presto imprecisa, tanto da portare
alla Commissione del Dir.Int. a riprendere i lavori. I punti più controversi, sui quali si è formata una prassi
successiva alla Convenzione, riguardano:
a. La definizione delle riserve e la distinzione tra riserve e dichiarazioni interpretative;

b. Il regime delle riserve nei trattati in materia di diritti umani;


c. Gli effetti di una successione tra Stati sulle riserve e obiezioni.

3.8 Le cause d’invalidità dei trattati

Nel Dir.Int. costituiscono cause d’invalidità dei trattati alcune circostanze che attengono alla manifestazione
del consenso o al momento della conclusione rendendolo nullo.
Accanto alla violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare, la Convenzione di Vienna prevede
la manifestazione del consenso da parte del rappresentante al di là dei poteri a lui conferiti (art. 47); l’errore
(art. 48); il dolo (art. 49); la corruzione del rappresentante (art. 50); la violenza sul rappresentante o sullo
Stato (artt. 51-52); la contrarietà a norme di jus cogens (art.53).

Le cause di invalidità possono essere invocate solo con riguardo al tratta nel suo complesso, salva diversa
pattuizione, e comunque purché la causa di invalidità investa solo alcune clausole del trattato, che siano
separabili dal resto. Questa possibilità è esclusa per i trattati viziati da violenza e da contrasto con norme di
jus cogens.

Qualora siano stati compiuti atti in applicazione di un trattato nullo, ogni parte può chiedere alle altre che sia
ristabilita la situazione precedente al compimento di tali atti.
Gli atti compiuti in buona fede in esecuzione ad un trattato nullo, non sono considerati illeciti per questo solo
motivo.

Alcuni vizi del consenso possono essere invocati solo dallo Stato il cui consenso è viziato, mentre altri, per la
loro natura e gravità, travolgono il trattato indipendentemente dalle richieste di tale Stato [dolo, corruzione, o
violenza].
Gli articoli 65 e ss. della Convenzione di Vienna istituiscono una procedura per far valere l’invalidità del
trattato, che vincola solo gli stati a lei partecipanti.

3.8.1 La violazione da parte del rappresentante dello Stato dei limiti stabiliti nei pieni poteri circa la
manifestazione del consenso

Qualora un atto relativo alla conclusione di un trattato sia compiuto da un soggetto non autorizzato a tal fine
[lo Stato, in tutte le sue fasi, è rappresentato dai plenipotenziari] tale atto non ha effetto, salvo che sia
successivamente confermato dallo Stato in questione (art. 8).
Se il consenso dello Stato è compiuto dal rappresentante che manifesta tale consenso al di fuori dei pieni
poteri attribuiti, cioè senza tener conto delle restrizioni o limiti relativi proprio al consenso, il consenso dello
Stato dovrà ritenersi validamente prestato, a meno che la restrizione non sia stata comunicata, agli altri Stati,
prima che tale consenso fosse espresso (art. 47).

3.8.2 L’errore

Ai sensi dell’art. 48 Convenzione di Vienna, uno Stato può invocare l’errore, come vizio del proprio
consenso, solo se si tratta di un errore relativo ad un fatto o ad una situazione che lo Stato stesso riteneva
esistente al momento della conclusione del trattato e che costituiva la base essenziale del suo consenso.

Questa disposizione è molto rara: la maggior parte dei casi, l’errore ha riguardato la predisposizione di
mappe e cartine geografiche. Se un errore non riguarda una circostanza sostanziale, il trattato non è nullo, ma
po’ essere corretto dalle parti con una procedura concordata o con quella dell’art. 79.

3.8.3 Il dolo e la corruzione

Art. 49 Dolo: non è frequente nella prassi internazionale; la Commissione del Dir.Int. ha lasciato alla prassi il
compito di precisare lo scopo e l’ambito di applicazione.

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Art. 50 Corruzione del rappresentante: secondo la Commissione del Dir.Int. , essa riguarda il caso di atti volti
in modo specifico ad esercitare un’influenza sostanziale sulla manifestazione del consenso del rappresentante
che altrimenti non l’avrebbe preStato o non in quei termini.

3.8.4 La violenza sullo Stato e sul rappresentante

Gli artt. 51 e 52 riguardano due diverse ipotesi di violenza. L’art. 51 riguarda i casi di violenza contro il
rappresentante dello Stato: attraverso atti o minacce rivolti direttamente contro di lui (sono rare); il consenso
è privo di ogni effetto giuridico (nullo).
L’art. 52 riguarda i casi di violenza contro lo Stato: attraverso la minaccia o l’uso della forza in violazione
dei diritti internazionali contenuti nella Carta delle Nazioni Unite. La conclusione di tale trattato è nullo.

3.8.5 Il contrasto con norme di jus cogens

Infine, l’art. 53 pone una causa di invalidità del trattato che riguarda il trattato all’inizio, ma che riguarda il
contenuto del trattato anziché il consenso. Essa sancisce un limite alla libertà degli Stati, che non possono
stipulare Trattati in contrasto con una norma imperativa del Dir.Int. generale (jus cogens). Esempi della
Commissione di Dir.Int.:

1. trattato comportante l’uso della forza in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite;
2. il compimento di un crimine internazionale [crimina iuris gentium];
3. la complicità nella commissione di atti come la tratta degli schiavi, la pirateria, il genocidio, la violazione
dei diritti umani;
4. Se è Stato compiuto l’atto sulla base di una disposizione contraria ad una norma jus cogens, le parti
devono eliminare tutte le conseguenze. (art. 71.1)

3.9 Le cause d’estinzione e di sospensione dei trattati

A differenza delle cause di invalidità, le cause d’estinzione e di sospensione dei trattati operano,
diversamente dalle cause di invalidità, in un momento successivo alla stipulazione, cioè al verificarsi di una
situazione o di una circostanza che impedisce che un trattato pur valido continui a produrre i suoi effetti tra
tutte le parti contraenti o solo con alcune di loro.

Questo può avvenire per una manifestazione espressa dagli stati volta a porre termine o a sospendere il
trattato con diverse forme e modalità (artt. 54-59), per l’effetto dell’inadempimento di una o più parti (art.
60), per l’impossibilità sopravvenuta (art. 61), per il mutamento fondamentale delle circostanze (art. 62), per
la sopravvenienza di una nuova noma jus cogens (art. 64).

Le cause d’estinzione e di sospensione dei trattati sono regolate in via esclusiva dalla volontà espressa dalle
parti al trattato, altrimenti dalle disposizioni della Convenzione di Vienna (art. 42.2). Uno Stato non può far
valere le sue cause d’estinzione e di sospensione quando ha accettato in modo esplicito di mantenere in
vigore il trattato (art. 45).

L’estinzione, salvo che le parti non stabiliscano in modo diverso, le libera dall’obbligo di continuare ad
applicare il trattato (art. 70).
Se l’estinzione è dovuta ad una nuova norma jus cogens, tali diritti o obblighi possono permanere solo se non
sono in contrasto con la nuova norma imperativa (art. 71.2).

3.9.1 L’estinzione e la sospensione per effetto della volontà degli Stati; la denuncia e il recesso

Se il trattato contiene disposizioni specifiche relative all’estinzione alla denuncia e al recesso degli Stati
partecipanti, la procedura eventualmente prevista, dovrà essere seguita. In mancanza sarà necessario il
consenso di tutte le parti e previa consultazione con gli Stati contraenti (art. 54).
Se il trattato non contiene disposizioni specifiche relative all’estinzione, alla denuncia e al recesso, si ritiene
che essi non sono ammessi, salvo che le parti intendevano ammetterli oppure tali diritti sono dedotti nel
trattato. In questo caso la Convenzione di Vienna dispone che la dichiarazione prenda effetto dopo 12 mesi
(art. 56). Esempio: il Patto sui diritti civili e politici non può essere estinto né denunciato dalle parti.

Se il numero degli Stati che intendono fare la denuncia o il recesso dal trattato superano il numero delle parti
contraenti ciò non comporta, di per se, l’estinzione del trattato.

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Il trattato può estinguersi [in modo implicito] se viene stipulato un nuovo trattato dagli Stati contraenti
avente la stessa materia (art. 59.1): in questo caso il nuovo accordo si sostituisce al primo che lo estingue.

L’art. 30.3 concerne, invece, il caso in cui gli Stati stipulano un nuovo accordo senza voler estinguere quello
precedente: in questo caso il vecchio accordo continuerà ad applicarsi perché non è incompatibile con quello
successivo.
L’art. 30.4 dispone che, se al nuovo accordo partecipano solo alcuni Stati i rapporti tra gli Stati che sono
parte ad entrambi gli accordi sono disciplinati da accordo-precedente e accordo-successivo, mentre i rapporti
tra uno Stato parte entrambi i trattati ed uno Stato parte solo ad uno di essi sono soggetti al trattato al quale
partecipano entrambi.

L’emendamento consiste nella modifica del trattato originario che viene modificato tra tutti gli Stati
partecipanti. Lo stesso trattato può indicare le modalità e le procedure per adottare le modifiche. Se il trattato
non indica nulla, secondo la Convenzione, la proposta di modifica deve essere notificata (comunicata) a tutti
gli Stati contraenti che hanno diritto alla decisione alla modifica e al negoziato che porterà all’accordo per
l’emendamento. (art. 40.2). Se l’accodo dell’emendamento entra in vigore solo tra alcuni Stati, si applica
l’art. 30.4.

Ogni Stato che divenga parte del trattato dopo l’entrata in vigore dell’accordo di emendamento, diventa parte
del trattato emendato e contemporaneamente parte del trattato non emendato (art. 40.5)
È possibile che alcuni Stati si accordino per modificare un trattato nei reciproci rapporti se tale possibilità e
prevista o se non è vietata dal trattato, purché la modifica non pregiudichi l’oggetto e lo scopo del trattato. In
questo caso gli stati possono stipulare un accordo inter se devono notificare alle alte parti la loro intenzione e
contenuto delle modifiche proposte ( art. 41).

Quanto detto per l’estinzione volontaria vale in gran parte anche per la sospensione. Se il trattato contiene
disposizioni specifiche relative alla sospensione, questa potrà avvenire secondo la procedura eventualmente
prevista, oppure in mancanza di tale procedure, con il consenso di tutte le parti e previa consultazione con gli
stati contraenti (art.57).

Il trattato può essere sospeso se viene stipulato un nuovo trattato che contenga disposizioni incompatibili con
il precedente. Infine due o più Stati possono stipulare trattati, accordi inter se, volti a sospendere reciproci
rapporti.

3.9.2 L’estinzione e la sospensione dei trattati come conseguenza della violazione da parte di uno o più
Stati partecipanti

Per quanto non sia controversa l’esistenza del principio generale inadimplenti non est adimplendum
[all'inadempiente non è dovuto l'adempimento] secondo il quale la violazione di una norma in un trattato, da
parte di uno Stato, legittima gli altri contraenti a porre termine al trattato o a sospendere l’adempimento dei
propri obblighi nei confronti del primo, vi è divergenza quanto alle condizioni alle quali tali reazioni sono
sottoposte.

La Convenzione di Vienna esclude qualsiasi effetto automatico dell’inadempimento e prevede l’estinzione


del trattato solo in caso di violazione di norme importanti, distinguendo gli accordi bilaterali da quelli
multilaterali, e lasciando liberi gli Stati di predisporre qualsiasi diversa disciplina nel testo del trattato stesso.

Secondo la Corte internazionale di Giustizia l’art. 60 costituisce, sotto molti profili, una norma di
codificazione del diritto generale.
Per poter rilevare, la violazione deve avere carattere “sostanziale”, deve cioè consistere nel ripudio
pretestuoso del trattato in quanto non autorizzato dalla Convenzione di Vienna o nella violazione di una
disposizione essenziale per il raggiungimento dell’oggetto e dello scopo del trattato [art. 60.3]. Le violazioni
minori del trattato non portano all’estinzione, ma legittimano in ogni caso l’adozione di misure di ritorsione
o rappresaglia.

Quanto agli accordi bilaterali, l’ art. 60.1 dispone che in caso di violazione sostanziale da parte di uno dei due
Stati, l’altra parte può invocare tale violazione come motivo di estinzione o di sospensione totale o parziale
della sua applicazione. Tuttavia l’inadempimento “bilaterale” non porta necessariamente all’estinzione del
trattato.

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Più complessa risulta la disciplina delle conseguenze della violazione di un accordo multilaterale: è previsto
che tutti gli altri Stati possono decidere all’unanimità di sospendere o estinguere il trattato tra loro e lo Stato
colpevole delle violazioni (art. 60.2.a); in secondo luogo, uno Stato la cui posizione sia particolarmente lesa
dalla violazione, può chiedere la sospensione o l’estinzione del trattato nei rapporti bilaterali con lo Stato
colpevole della violazione (art. 60.2.b); oppure se la violazione muta completamente la posizione di ciascun
Stato parte al trattato, ogni Stato diverso da quello che ha commesso la violazione può chiederne la
sospensione totale o parziale nei propri confronti (art. 60.2.c).

L’art. 60.5 esclude che i paragrafi 1-3 possano applicarsi alle disposizioni contenute nei trattati sulla
protezione della persona umana.

3.9.3 L’estinzione del trattato per impossibilità sopravvenuta

La Convenzione prevede la possibilità di chiedere l’estinzione di un trattato o di denunciarlo quando la


scomparsa o la distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione del contratto, l’abbiano resa
impossibile (inabissamento di un’isola, prosciugato un fiume, distrutta una diga). L’impossibilità, non deve
derivare dalla violazione di un obbligo derivante dal trattato e non deve derivare dalla violazione di un
obbligo internazionale.

Ai sensi dell’art. 61, se l’impossibilità è temporanea, si può richiedere la sospensione del trattato.

3.9.4 L’estinzione del trattato per il mutamento fondamentale delle circostanze

L’art. 62 codifica il principio di diritto generale rebus sic stantibus, che considera causa d’estinzione o
sospensione di un trattato il mutamento fondamentale delle circostanze, purché siano state la base per il
consenso del trattato e che il mutamento fondamentale delle circostanze cambi gli obblighi de trattato.

Il mutamento fondamentale delle circostanze non può derivare dalla violazione di un obbligo derivante dal
trattato o da qualsiasi altro obbligo internazionale.
In teoria, la guerra sospende gli effetti degli accordi in vigore tra gli stati belligeranti, ma, nella prassi, la
clausola rebus sic stantibus si applica.

3.9.5 La sopravvenienza di una nuova norma di jus cogens


L’art. 64 della Convenzione di Vienna prevede che lo sviluppo di una nuova norma imperativa jus

cogens, costituisca una causa d’estinzione del trattato. In questo caso il trattato è nullo.
3.9.6 La procedura per far valere una causa di invalidità, estinzione o sospensione di un

trattato

La Convenzione di Vienna istituisce una procedura per far valere le cause di invalidità, estinzione e
sospensione del trattato agli artt. 65-66-67. Secondo la Corte di giustizia UE, non si tratta di norme di
codificazione, ma norme di Dir.Int. consuetudinario che contengono principi di procedura.
La parte che intende far valere una delle tre cause, deve comunicare la sua pretesa per iscritto alle altre parti.
Se entro tre mesi non ci sono state obiezioni, lo Stato può adottare la misura in questione attraverso uno
strumento emanato dal Capo dello Stato o dal capo del governo o ministro degli esteri o da un rappresentante
munito di pieni poteri.

Se ci sono stare obiezioni, le parti devono cercare una soluzione alla controversia secondo l’art. 33 della
Carta delle Nazioni Unite o altri strumenti applicabili nelle relazioni reciproche.

3.10 La successione degli Stati nei trattati: le vicende della sovranità territoriale

La Convenzione di Vienna del 1978, è stata specificatamente stipulata con riguardo alle questioni che si
possono porre in relazione ad un trattato in seguito a una successione di Stati. I mutamenti che uno Stato può
subire sul piano della sovranità territoriale possono consistere in:
- Fusione: a due soggetti si sostituisce una nuova entità statale;

- Incorporazione/annessione: quando uno Stato, che cessa di esistere come soggetto internazionale, è
assorbito parzialmente o totalmente in un altro;

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• - Scissione/smembramento: da un unico Stato sorgono 2 o più soggetti distinti;

• - Distacco: parte del territorio di uno Stato crea uno Stato nuovo;
Fusioni e scissioni sono rare, più frequenti sono i casi d’incorporazione e di distacco.
3.10.1 La prassi internazionale: le regole e le eccezioni
La prassi internazionale sembra mostrare l’esistenza di due diversi principi:

- la regola della tabula rasa (in tutti i casi di successione): lo Stato successore è libero da qualsiasi vincolo
derivante da trattati stipulati dallo Stato predecessore in relazione al suo territorio;
- la regola della mobilità delle frontiere dei trattati (in casi si distacco e incorporazione): gli accordi in vigore
per lo Stato incorporante si applicano all’interno dei nuovi e più ampi confini, mentre per lo Stato che deve
ridursi il proprio territorio, si restringerà in modo corrispondente all’ambito di applicazione dei trattati cui è
parte (art. 15).
Fanno eccezione a queste regole i trattati c.d. localizzabili, che istituiscono regimi territoriali specifici
concernenti l’uso o i limiti all’uso dei territori “considerati connessi con i territori in questione”, che
continuano a vincolare lo Stato che succede nell’esercizio della sovranità su quel dato territorio.

4 L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO AL DIRITTO INTERNAZIONALE

4.1 Monismo e dualismo nei rapporti tra Dir.Int. e diritto interno

Con la locuzione “adattamento del diritto italiano al Dir.Int. ” si allude alle diverse tecniche impiegate
nell’ordinamento italiano allo scopo di legittimare e garantire l’operatività, in tale ambito, di norme “esterne”
di derivazione internazionale. In tale accezione l’adattamento presuppone la separazione tra Dir.Int. e diritto
interno e, pertanto, una logica dualistica nella ricostruzione dei rapporti tra essi intercorrenti.

Secondo la dottrina dualista le norme internazionali non sono applicabili ex se nell’ordinamento nazionale,
ove assumono efficacia soltanto a seguito di un procedimento [di adattamento] volto ad assicurarne il rilievo
e l’operatività sul piano interno. Secondo tale dottrina (Heinrich Triepel), il diritto interno e il Dir.Int.
costituiscono due ordinamenti giuridici originari ed autonomi, separati e distinti. La volontà dello Stato e
quella della Comunità internazionale sono diverse. I rapporti interni dello Stato e i rapporti tra Stati sono
diversi..

Secondo la dottrina monista (Hans Kelsen): il Dir.Int. e i diritti nazionali dei singoli Stati devono essere
riportati ad un sistema unitario di norme.

4.1.1 L’orientamento dualista seguito dalla giurisprudenza italiana

La giurisprudenza italiana ha adottato l’impostazione dualista nella descrizione dei reciproci rapporti tra
Dir.Int. e diritto interno. Tale impostazione si evidenzia nelle decisioni nelle quali viene precisato che i suoi
destinatari immediati e diretti sono esclusivamente gli Stati che hanno stipulato il trattato nel quale la norma
internazionale è stata trasmessa.

4.2 Il principio della “indifferenza” del diritto interno rispetto al Dir.Int. che non abbia costituito
oggetto d’idonee procedure d’adattamento

Prima della riforma con la legge cost. n. 3/2001, le decisioni più significative riguardanti il problema dei
rapporti tra ordinamento internazionale e ordinamento interno si avvicinano alla tradizione dualista. Questa
tradizione postula l’irrilevanza del Dir.Int. per il diritto interno finché non intervenga “l’adattamento”, cioè
l’adozione della norma interna necessaria all’adempimento degli obblighi che fanno carico all’Italia in virtù
del Dir.Int..

Affinché il contenuto della convenzione internazionale s’inserisca nell’ordinamento interno, è necessario, per
le materie disciplinate da legge, un analogo atto normativo del Parlamento con cui è impartito il c.d. ordine
d’esecuzione.
L’adattamento è inteso, dalla giurisprudenza, come un procedimento volto a rendere applicabile la norma
internazionale all’interno dell’ordinamento italiano e costituisce una condizione necessaria d’efficacia
nell’ordinamento interno della disciplina concordata in ambito internazionale.

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Prima della riforma, in Italia non c’era una procedura d’adeguamento del nostro ordinamento interno; così la
norma internazionale era considerata “tamquam non esset”, cioè in assenza di un provvedimento legislativo
interno, non può derivare alcun diritto ai cittadini.
Il principio di separazione e d’indifferenza del diritto interno con quello internazionale si riteneva operante
sia nei trattati stipulati attraverso il procedimento solenne (4 fasi: negoziazione, firma, ratifica e scambio
delle ratifiche), sia in quelli conclusi in forma semplificata.

4.2.1 Revisione costituzionale e portata dell’art. 117, primo comma, Cost.

La nostra Costituzione prevede, all’art. 10, una norma generale di adattamento unicamente con riguardo alle
norme di diritto consuetudinario. Queste ultime, salvo ne venga ravvisato il contrasto con i principi
fondamentali della Cost., vengono recepite in modo permanente, per il tramite dell’art. 10 cost., all’interno
dell’ordinamento italiano, ove assumono il medesimo rango. Un’analoga disposizione non è invece prevista
con riferimento ai trattati internazionali.
Prima della riforma di cui alla Legge Costituzionale n. 3/2001, la mancata esecuzione, sul piano interno, dei
trattati internazionali vincolanti per l’Italia poteva implicare specifiche conseguenze a livello
dell’ordinamento internazionale, impegnando eventualmente la responsabilità internazionale dello Stato nei
confronti delle altre parti contraenti; tuttavia non era prevista la violazione di alcun obbligo costituzionale
qualora non si fosse adempiuto all’obbligo di attuazione degli obblighi internazionali sottoscritti.

Con riferimento al principio dell’indifferenza, la mancanza di adozione delle norme di adattamento


necessarie a dare efficacia nell’ordinamento interno a convenzioni internazionali stipulate dall’Italia non
comportava violazione dei precetti costituzionali.
Con la riforma del Titolo V Parte II della Cost., il legislatore deve rispettare anche i vincoli derivanti dagli
obblighi internazionali:

- Art. 117 Cost.: La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Si tratta di una norma che pone delicati problemi interpretativi su cui è necessario soffermarsi.

4.2.2 Art. 117, primo comma, e parziale “superamento del principio dell’indifferenza”

I profili problematici connessi all’interpretazione dell’art.117. comma 1, Cost., non sono stati superati dalla
L. 5 giugno 2003 n. 131, recanti disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della repubblica alla legge
Cost. 3/2001. L’art. 1 della legge di adeguamento dispone:
«Costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’articolo 117, primo
comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di Dir.Int. generalmente riconosciute, di cui
all’articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’articolo 11
della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali».

Al riguardo occorre precisare che i trattati internazionali costituiscono fonte di “obblighi internazionali”
quando risultano soddisfare 2 condizioni:
- Il trattato deve essere in vigore sul piano internazionale;
- Lo stesso trattato deve essere vincolante per l’Italia in quanto siano state completate le procedure richieste a
tal fine dal Dir.Int.

Sono pertanto un vincolo per il legislatore nazionale gli accordi in vigore, rispetto ai quali l’Italia ha
manifestato il proprio consenso ad obbligarsi nel rispetto delle norme internazionali.
Un problema per il legislatore italiano è capire se è oggetto di rinvio agli obblighi internazionali (in base
all’art. 117 Cost.) siano tutti i trattati internazionali in vigore in Italia, ovvero soltanto quei trattati che oltre a
vincolare il nostro Paese sul piano internazionale, abbiano ricevuto attuazione nell’ordinamento interno,
mediante l’adeguamento (pacta recepta).

Il primo comma dell’art. 117 Cost., impone al legislatore di:


- legiferare non in contrasto con gli accordi internazionali in vigore per il nostro Paese (un obbligo positivo
di adempimento a carico del legislatore);
- dare esecuzione agli accordi che presentano le caratteristiche indicate.
In caso di inadempimento all’obbligo di adottare le norme internazionali vincolanti all’interno
dell’ordinamento interno, nascono i problemi di “azionabilità”, che consistono nel sanzionare comportamenti
totalmente omissivi da parte degli organi dello Stato.

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4.3 Il principio relativo alla (tendenziale) correlazione tra vigore nei rapporti tra Stati e applicabilità
in ambito interno della norma d’origine internazionale

L’applicazione all’interno del diritto interno della disciplina prevista da norme internazionali è condizionata,
oltre che dall’adozione di idonee misure di adeguamento del diritto interno, dall’entrata - e dalla preminenza
-, in vigore di tale disciplina nell’ordinamento internazionale.
Per garantire la conoscibilità degli accordi bilaterali e multilaterali ai quali l’Italia è vincolata sul paino delle
relazioni internazionali, compresi quelli stipulati in forma semplificata, la L. 839/84 ne prevede la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

In linea di principio, tuttavia, una norma interna può comunque anticipare l’applicazione della disciplina
internazionale non ancora in vigore, ovvero estenderne l’ambito materiale o personale di operatività.
Per la sua applicabilità, la norma internazionale deve restare in vigore nell’ordinamento internazionale.

4.3.1 L’eccezione all’operatività del principio in esame in caso di norme internazionali che abbiano
costituito oggetto di adattamento in via ordinaria

La regola enunciata – relativa alla “normale” correlazione tra vigore sul piano internazionale e applicabilità
sul piano interno delle norme di origine internazionale - incontra un’importante eccezione nel caso in cui
l’adeguamento del diritto italiano sia avvenuto attraverso il procedimento c.d. ordinario. Tale procedimento
consiste nella riformulazione delle norme internazionali mediante disposizioni interne emanate ad hoc, che
determinano la totale “nazionalizzazione” delle norme internazionali.

4.4 Il rispetto, da parte dello Stato, dei vincoli che gli fanno carico in virtù del Dir.Int.: obblighi di
mezzi o di risultato?

L’individuazione delle tecniche di attuazione, da parte degli Stati degli obblighi a loro carico in virtù del
Dir.Int. è di regola rimessa alla loro libera determinazione. Il Dir.Int. si limita a richiedere ai suoi destinatari
che venga conseguito un determinato risultato, senza precisare modalità.
Queste indicazioni riguardano sia norme consuetudinarie, sia norme d’attuazione di convenzioni recanti
disposizioni self-executing, come avviene nel caso di convenzioni di diritto uniforme (queste convenzioni
ordinano alle Parti contraenti l’obbligo di introdurre modifiche dei rispettivi ordinamenti interni idonee a
rendere applicabile la disciplina concordata in ambito internazionale nei termini e con effetti unitari da essa
stessa “voluti”).

4.4.1 L’obbligo, a carico degli Stati, di garantire interpretazione e applicazione “uniformi” alle norme
d’origine internazionale.

In vista di un puntuale adempimento dell’obbligo di garantire il risultato di cui la norma internazionale


costituisce espressione, la giurisprudenza ha affermato che, nel nostro ordinamento, c’è un principio generale
volto a sancire l’obbligo di interpretare la disciplina internazionale in base ai criteri propri dell’ordinamento.

La Cassazione ha affermato la necessità di interpretare le norme oggetto di attuazione secondo i canoni


propri dell’ordinamento internazionale, e pertanto occorre riferirsi alla Convenzione di Vienna che, agli
articoli 31, 32 e 33 codifica norme di Dir.Int. generale per l’interpretazione dei trattati.
La nostra Cassazione, ha rilevato la necessità di non cedere alla tentazione di letture in chiave
“unilateralistica” delle norme internazionali: tutto ciò per assicurare il corretto adempimento degli obblighi
internazionali e di prevenire eventuali azioni di responsabilità avviate contro l’Italia da parte degli altri Stati
contraenti.

Il mancato conseguimento del risultato alla base della norma di Dir.Int., determina un illecito, fonte di
responsabilità dello Stato pur in presenza di un comportamento in parte idoneo a permettere la piena
operatività, nel suo ordinamento interno, della norma internazionale medesima.

4.5 Procedimento ordinario e procedimento speciale d’adattamento del diritto italiano al Dir.Int.

Il Dir.Int. non indica quali meccanismi gli Stati devono adottare per provvedere a adeguare nei rispettivi
ordinamenti interni gli obblighi internazionali.
Nel nostro ordinamento italiano, si provvede all’attuazione degli obblighi internazionali, che fanno carico
allo Stato, mediante due diverse tecniche:

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- procedimento ordinario: consiste nel riprodurre le norme internazionali, con legge o altro atto dotato di
forza normativa adeguata ai loro contenuti, riformulandole direttamente e materialmente nell’ordinamento
nazionale mediante norme interne ad hoc. Con questo procedimento la norma viene “nazionalizzata”,
eliminando il suo collegamento con l’ordinamento internazionale. Tale norma viene materialmente
incorporata nell’ordinamento nazionale. Il legislatore, in questo procedimento, detta delle disposizioni
“materiali” volte ad adattare l’ordinamento interno, in attuazione degli obblighi assunti sul piano
internazionale. Le norme internazionali subiscono una trasformazione in norme interne attraverso il
procedimento ordinario d’adattamento.

- procedimento speciale: consiste nel disporre un rinvio a norme internazionali, ordinando la loro
osservanza, senza alcuna riformulazione diretta delle medesime nell’ordinamento nazionale. Con questa
tecnica, le norme internazionali non subiscono una trasformazione in norme interne. Quando si ricorre a
questo procedimento, l’ordine di esecuzione è espresso con la formula «piena ed interna esecuzione è data
a».

Conseguentemente, le norme che ne costituiscono l’oggetto preservano la loro “matrice internazionale” e la


loro effettiva portata viene accertata dal giudice nel momento in cui occorre farne concreta applicazione.
Allorché di procede all’adattamento mediante procedimento ordinario, invece la norma internazione oggetto
di recepimento viene “nazionalizzata”, recidendo ogni suo collegamento con l’ordinamento internazionale.
Tale norma viene materialmente incorporata nell’ordinamento nazionale ed è quindi omologata, per tale via,
alle norme autonomamente adottate dal legislatore italiano.

Nel caso del procedimento ordinario il legislatore detta le disposizioni “materiali” volte ad adeguare
l’ordinamento interno, in attuazione degli obblighi internazionali assunti. Al contrario di quanto avviene nel
caso del procedimento speciale, quando si ricorre al procedimento ordinario le norme internazionali
subiscono una vera e propria “trasformazione” in norme interne.

4.5.1 Norme internazionali non self-executing e necessità del ricorso as una tecnica “mista” di
adattamento

Il ricorso al procedimento speciale di adattamento, tramite il rinvio alle norme internazionali, ha evidenti
vantaggi. Quando le norme internazionali non sono self-executing, cioè non dettano “una disciplina del tutto
completa ed autosufficiente”, e sono prive, quindi, della compiutezza normativa necessaria affinché sia
possibile una loro “applicazione immediata”, l’impiego del procedimento speciale appare insufficiente allo
scopo di garantire piena attuazione nell’ordinamento nazionale. Si tratta di un fenomeno assimilabile a quello
derivante dalle norme costituzionali programmatiche.

In caso di norme internazionali non self-executing si pone la necessità della formulazione, da parte del
legislatore interno, anche di norme materiali di adeguamento.
L’esecuzione interna recante norme non self-executing può richiedere l’impiego congiunto di diverse
modalità di adattamento.

In presenza di un ordine d’esecuzione di un trattato, dovranno essere adottate disposizioni “materiali”


d’adeguamento riguardo alle norme non self-executing in lui contenute. L’ordine d’esecuzione è sempre
necessario perché le disposizioni di un trattato internazionale possano essere recepite nell’ordinamento
statale, e che lo stesso trattato contenga elementi dai quali si può ricavare norme complete. Non è, infatti,
ammissibile l’immissione nell’ordinamento interno di norme il cui contenuto non è preciso e dove la
determinazione del contenuto è rimessa all’interprete: in tali casi si ricorre al procedimento ordinario di
adattamento.

4.6 Il “trasformatore automatico” delle norme internazionali generalmente riconosciute previsto


dall’art. 10, primo comma, Cost.

Le norme di Dir.Int. generalmente riconosciute [consuetudinarie] costituiscono oggetto del rinvio dall’art.
10, primo comma, Cost.
L’art. 10. Cost. dispone «L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del Dir.Int. generalmente
riconosciute».

Questa è l’unica norma d’adattamento di portata generale prevista dal nostro ordinamento. S’intende per
“norma d’adattamento” una disposizione volta direttamente a rendere applicabile in ambito interno la

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disciplina d’origine internazionale.


Ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost., le regole di Dir.Int. generale (cioè tutte le regole di condotta aventi
per destinatari tutti i membri della società internazionale) sono recepite automaticamente dall’ordinamento
interno e hanno immediata applicazione.

L’art. 117, primo comma, Cost., dopo la riforma della legge Cost. 3/2001, non è una norma d’adattamento,
bensì una “norma sulla produzione giuridica interna” volta a fissare i limiti all’esercizio di Stato e Regioni
della loro potestà legislativa.
Art. 117. Cost.: La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Secondo la Costituzione di Weimar del 1919, le norme di Dir.Int. generale costituiscono “parte integrante”
dell’ordinamento statale.
Secondo la nostra Costituzione, è l’ordinamento italiano a conformarsi, cioè a modificarsi, alle norme
internazionali.

4.6.1 Esclusione dell’operatività dell’art. 10, primo comma, Cost., alla stregua di norma d’adattamento
applicabile anche con riguardo ai trattati internazionali

La giurisprudenza ha escluso la tesi riguardante il “trasformatore permanente” previsto dal primo comma
dell’art. 10 Cost., recependo nell’ordinamento italiano la norma consuetudinaria pacta sunt servanda, la
quale funzionerebbe come norma di adattamento anche in relazione ai trattati.
Al contrario, il nostro ordinamento si è orientato con la decisione della Corte costituzionale che ha escluso
che l’art. 10, primo comma, Cost., possa essere invocato per giustificare l’operatività nell’ordinamento
interno della disciplina prevista dei trattati internazionali di cui l’Italia è parte.

La decisione del Tribunale di Napoli, 22 aprile 1964, n. 1990: l’art. 10 Cost. istituisce un dispositivo di
adattamento automatico dell’ordinamento giudico italiano alle norme di Dir.Int. generale che non si estende
alle norme pattizie.
L’adattamento automatico dell’ordinamento italiano ai trattati internazionali non può attuarsi attraverso la
regola della pacta sunt servanda, perché questa non è una norma suscettiva di esecuzione nell’ordine interno,
ma è un principio di carattere generale che preesiste nell’ordinamento internazionale e che assume come
propri destinatari soltanto gli Stati in quanto soggetti di Dir.Int.

4.7 L’adattamento dei trattati internazionali tramite ordine d’esecuzione

Al fine dell’adeguamento del diritto italiano alla disciplina prevista dai trattati, si utilizza la tecnica
dell’adattamento in via ordinaria ovvero [più di frequente] quella “speciale”, fondata sull’ordine
d’esecuzione.
Il procedimento speciale di adattamento, consiste nel rinvio a convenzioni internazionali formulato
nell’ordine di esecuzione. Questo ha delle somiglianze con la tecnica impiegata dall’art.10, primo comma,
Cost., che si differenzia però per un aspetto essenziale:

- Il rinvio fatto dall’art. 10 ha carattere generale;


- Il rinvio fatto dal legislatore interno tramite l’ordine d’esecuzione si riferisce solo al singolo trattato, lo
stesso richiamato dall’ordine d’esecuzione.
L’ordine di esecuzione è l’atto legislativo mediante il quale lo Stato, per dare piena esecuzione al trattato,
rinvia in blocco alle norme in esso contenute, inserendole in tal modo nel proprio ordinamento.
La caratteristica del procedimento speciale è quella di affidare all’interprete il compito di determinare quali
modificazioni giuridiche siano necessarie per rendere completo l’adattamento: in sostanza, è l’interprete che,
in base all’ordine di esecuzione, deve stabilire quali siano state le variazioni dell’ordinamento statale
venutesi a determinare per effetto dell’adattamento.
Con riguardo ai trattati per la ratifica dei quali, ex art. 80 Cost. [Le Camere autorizzano con legge la ratifica
(conferma, convalida) dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o
regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi] è
richiesta una preventiva autorizzazione, formulata con legge; l’ordine di esecuzione è, normalmente,
contestuale all’autorizzazione. Nei casi non contemplati dall’art. 80 Cost., la scelta dello strumento interno
con il quale formulare l’ordine di esecuzione dipende dal livello al quale, se necessarie, vanno apportate le
modifiche all’ordinamento italiano.

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4.7.1 Caratteristiche ed effetti del rinvio ai trattati internazionali formulato nell’ordine di esecuzione
ad essi relativo

L’ordine d’esecuzione dispone un rinvio alla disciplina prevista nelle convenzioni internazionali che ne
costituiscono l’oggetto [i trattati e le convenzioni internazionali hanno per oggetto di obbligare i soggetti
contraenti poiché tali, cioè come persone di Dir.Int. ].
La disciplina pattizia oggetto di rinvio presenta la propria “matrice internazionale” e determina a livello
dell’ordinamento interno richiamante, soltanto le modifiche strettamente necessarie a garantire
l’adempimento degli obblighi assunti dallo Stato attraverso la conclusione del trattato. L’ordine di esecuzione
produce tutte le norme interne necessarie e indispensabili perché lo Stato possa adempiere gli obblighi sul
piano internazionale. Le norme interne preesistenti verranno sostituite da quelle previste dalla convenzione
internazionale soltanto quando:

• - Volontà da parte degli Stati contraenti, per ragioni d’uniformità;

• - Per abrogazione dovuta ad incompatibilità, quando la disciplina prevista dalla convenzione regola
esaustivo le situazioni da escludere qualsiasi applicazione residuale del diritto comune.

4.8 Il ruolo degli enti sub-statali nella fase di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali: la
disciplina costituzionale in materia

L’art. 117 Cost., dopo la legge cost. 3/2001, contiene diverse disposizioni riguardanti le competenze
riconosciute alle Regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano in materia di rapporti internazionali.
Alcune disposizioni sono innovative, come l’ultimo comma dell’art. 117:
«Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali
interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato».

Le innovazioni non mettono in discussione il principio secondo il quale va esclusa la soggettività


internazionale degli enti sub-statali, infatti, soltanto lo Stato è soggetto nell’ordinamento internazionale ed ad
esso vengono imputati in tale ordinamento gli atti delle Regioni. Le limitazioni poste all’autonomia delle
Regioni sono legittime, anche nelle materie di loro competenza: il nuovo testo prevede in proposito all’Art.
117 Cost., comma quinto:

«Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano
alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e
all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso
di inadempienza».

Art. 120 com. 2 Cost.: Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle
Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa
comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono
la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La
legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio
di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.

4.8.1 La partecipazione regionale alla “fase discendente” del Dir.Int. nella normativa di attuazione del
quinto comma dell’art. 117 Cost.

Nel nostro ordinamento si è affermata la competenza regionale a concludere accordi internazionali nei limiti
delle loro materie attribuite.
Il d.lgs. 112/1998, che disciplina il conferimento di funzioni e compiti amministrativi alle Regioni e agli enti
locali, stabilisce all’art. 2 che: spettano allo Stato i compiti preordinati ad assicurare l’esecuzione a livello
nazionale degli obblighi derivanti dagli accordi internazionali e ogni altra attività d’esecuzione è esercitata
dalle Regioni e enti locali, secondo le attribuzioni previste dalle norme vigenti.

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Ultimo comma, art. 117 Cost., assegna un ruolo attivo alle Regioni in sede di attuazione degli accordi
internazionali conclusi nelle materie di loro competenza, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da
legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di adempienza.

Le Regioni e le Province autonome, per l’attuazione e l’esecuzione degli accordi internazionali nelle loro
materie competenza, devono comunicare in modo preventivo al Ministero degli affari esteri ed alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri.

4.9 L’attuazione delle fonti c.d. di terzo grado (diverse da quelle della Comunità e dell’Unione
europea) nella prassi seguita dalla giurisprudenza italiana

Per quanto riguarda l’adattamento agli atti adottati da organizzazioni internazionali ed enti, diversi dalla
Comunità ed Unione Europea, si ripropone l’alternativa tra procedimento ordinario e procedimento speciale
di adattamento.
La particolarità delle fonti c.d. di terzo grado (atti emanati da organizzazioni internazionali in base ai propri
statuti) consiste nell’univoco orientamento della prassi a condizionare la loro efficacia nell’ordinamento
interno all’adozione di norme ad hoc da parte del legislatore italiano volte al recepimento diretto della
disciplina in essa contenuta.

4.9.1 Critica della prassi favorevole al ricorso generalizzato al procedimento d’adattamento in via
ordinaria in caso di fonti previste dai trattati

Parte della dottrina censura l’orientamento della giurisprudenza in ambito nazionale circa l’adozione delle
norme ad hoc di adeguamento in via ordinaria. In particolare, viene sottolineato l’argomento che riguarda la
volontà del legislatore che ha autorizzato a ratifica e ha ordinato l’esecuzione di un trattato il quale produce
l’effetto di rendere operative e vincolanti nell’ordinamento statale tutte le disposizioni contenute nel trattato
medesimo, comprese quelle che istituiscono fonti di terzo grado e quelle che prevedono l’obbligo per gli stati
contraenti a rispettarle.

4.10 L’adeguamento del diritto italiano al diritto derivato dall’UE

Nel caso del diritto comunitario e dell’UE, le fonti previste dai trattati istitutivi vengono indicate come
“diritto derivato”. Sono riconducibili a tale espressione le diverse fonti contemplate dall’art. 288 TFUE,
ovvero “regolamenti, direttive e decisioni” quali atti a carattere giuridico vincolante, nonché
“raccomandazioni e pareri”, che sono privi di carattere vincolante.

In linea di principio di ritiene che l’ordine di esecuzione formulato dalla legge ordinaria con la quale si è
proceduto all’adeguamento del diritto interno ai trattati istitutivi sia idoneo anche a garantire l’adattamento
alle fonti di diritto derivato ivi previste, quanto meno nelle ipotesi in cui esse siano self- executing. Pertanto
norme interne di trasposizione debbono essere adottate soltanto in caso di regolamenti “incompleti”.

Pertanto il recepimento in ambito nazionale è la regola, mentre nel caso delle direttive e per le decisioni che
non abbiano diretta applicabilità devono essere adottate norme di trasposizione.

4.10.1 Fase “discendente” del diritto dell’UE e ruolo delle regioni

Una quadro normativo in certa misura analogo a quello descritto in relazione al Dir.Int. disciplina la
partecipazione delle Regioni e Provincie autonome alla “fase discendente” del diritto dell’UE.

4.11 Le norme risultanti dall’adattamento al Dir.Int. nella gerarchia delle fonti interne

Nell’ordinamento italiano, per le norme generate dall’adattamento del diritto interno al Dir.Int. , si è
affermato un principio generale a livello giurisprudenziale: esso attiene al rango (livello) che tali norme
assumono nell’ambito della gerarchia delle fonti interne. Il livello di tali norme di adattamento coincidono
con quello dello stesso strumento normativo con il quale si è provveduto ad “immettere”, nell’ordinamento
interno, la disciplina internazionale.

L’adattamento delle norme internazionali pattizie avviene per ogni singolo trattato con un atto ad hoc
consistente nell’ordine di esecuzione adottato di regola con legge ordinaria.

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In applicazione di tale principio, le norme internazionali “consuetudinarie”, una volta trasportate


nell’ordinamento interno tramite l’art. 10 Cost., operano sul piano costituzionale.

La Corte Cost., nel richiamarsi al consolidato principio della coincidenza del rango assunto dalle norme
internazionali prodotte o immesse a seguito dell’adattamento con quello proprio del tramite adeguativo
interno, non ha mancato di sottolineare la possibilità di sottoporre al vaglio di legittimità costituzionale
quelle oggetto di rinvio ad opera dell’art. 10 Cost.

4.11.1 Le norme risultanti dall’adattamento al Dir.Int. nella gerarchia delle fonti interne mediante il
procedimento speciale d adeguamento dei trattati

Il principio generale della correlazione tra il rango dello strumento adeguativo e quello assunto dalle norme
prodotte a seguito della trasposizione in ambito interno, è destinato ad operare, non solo con riferimento alle
norme consuetudinarie [cui il nostro ordinamento si adegua tramite l’art. 10 Cost.] ma anche con riguardo a
quelle previste in accordi internazionali. Conseguentemente anche le norme pattizie possono assumere una
rilevanza costituzionale, laddove l’adattamento venga operato per tramite di una legge costituzionale.

4.11.2 La “copertura costituzionale” dell’adattamento al diritto dell’UE di rango primario: artt. 11 e


117 Cost.

Per quanto riguarda l’adattamento al diritto dell’UE, occorre ricordare che la giurisprudenza è pervenuta a
formulare soluzione diverse rispetto a quelle sopra considerate. Anche su pressione della Corte di giustizia
europea, anche per il diritto UE, si è giunti a una soluzione analoga a quella per il Dir.Int. generale, ossia
quella fondata sull’idoneità delle fonti comunitarie ad incidere sulle norme costituzionali interne, con il solo
“contro-limite” dei principi supremi dell’ordinamento.

4.12 Rapporti tra norme di diritto consuetudinario e norme interne, incompatibili con le prime

La giurisprudenza si è imbattuta nel problema dei rapporti tra le norme risultanti dall’adattamento del Dir.Int.
e le norme interne adottate autonomamente dal legislatore in contrasto con le prime.
Nelle ipotesi nelle quali il problema è stato riscontrato, è Stato enunciato il principio secondo il quale si
dichiara l’incostituzionalità delle disposizioni interne incompatibili con quelle di adeguamento del nostro
sistema alle norme di Dir.Int. generalmente riconosciute.

La Corte, in una famosa decisione, ha affermato la prevalenza a titolo di “specialità” rispetto alle disposizioni
interne di rango costituzionale delle norme risultanti dall’adattamento al diritto consuetudinario [sent.
48/1978].

4.12.1 Il contrasto delle norme di diritto consuetudinario con i principi qualificanti e irrinunciabili
dell’assetto costituzionale dello Stato

L’antinomia tra norme interne e norme internazionali provviste delle caratteristiche di cui all’art. 10 Cost.,
assume particolari connotazioni quando l’ipotizzata violazione dell’ordinamento ad opera di norme ad esso
“esterne” suscettibili di assumere rango primario in tale ambito riguarda “principi qualificanti e irrinunciabili
dell’assetto costituzionale dello Stato”. In tal caso l’accertamento è in capo alla Corte Costituzionale.

4.13 Antinomie tra trattati internazionali e diritto interno: il ruolo del giudice comune e della Corte
Costituzionale

Il tema dell’incidenza, sull’ordinamento italiano, delle norme previste dai trattati internazionali è Stato
oggetto di vivo interesse.
Nelle ipotesi di contrasto tra norme CEDU e norme interne, dimostratosi “irriducibile” in quanto “resistente”
al tentativo del giudice comune di porvi rimedio mediante un’interpretazione “convenzionalmente orientata”
delle disposizioni nazionali, viene assegnato un ruolo centrale alla Corte Costituzionale. In tali circostanze il
giudice comune è tenuto a sottoporre la questione al vaglio del Giudice delle Leggi che – se del caso –
utilizzerà la CEDU, a norma dell’art. 117 com. 1 Cost., alla stregua di parametro interposto nel giudizio di
costituzionalità.

La soluzione di cui sopra riguarda le ipotesi di “insanabile conflitto” tra la normativa posta dal trattato ed il
diritto interno. Essa non si presta pertanto ad essere estesa tout court ai casi nei quali emerge “solo”

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l’esigenza di coordinare l’ambito di operatività riservato a due ordini di disciplina.


In tali circostanze la norma internazionale è diversa ma non contraria rispetto a quella interna; il compito del
giudice [e dell’interprete] appare differente da quello che gli compete nei casi di incompatibilità assoluta tra
fonti internazionali e fonti interne. In tali ipotesi la disciplina del diritto interno continua a permanere in
vigore: non pare precluso in tali ipotesi il coordinamento tra le fonti.

4.13.1 L’arretramento della Corte Cost. in caso di antinomia tra diritto interno e disposizioni CEDU e
fonti derivate self-executing

Con riguardo, in caso di antinomie tra diritto interno e norme CEDU nonché le fonti da essi derivate, si è
pervenuti a soluzioni significativamente diverse rispetto a quelle adottane a proposito delle norme
internazionali di origine pattizia.
Poiché l’adattamento ai trattati “comunitari” è avvenuto tramite legge ordinaria, per lungo tempo si è
riconosciuto al giudice comune di poter disapplicare norme interne in contrasto con disposizioni di tali
trattati, soltanto se antecedenti alle norme di adeguamento di quest’ultimi.

Con la sentenza Granital [n. 170/84] le norme interne non conformi a norme dell’UE [antecedenti o
successive] dotate di retta applicabilità e/o effetto diretto vengono considerate non applicabili sulla base di
una valutazione affidata direttamente al giudice comune, salvo il limite del rispetto dei principi fondamentali
dell’assetto costituzionale dello Stato.

Tale potere in capo al giudice comune è Stato riconosciuto, con sentenze successive, anche in caso di
antinomia tra norme interne e norme previste dai trattati, alle sentenze interpretative della Corte di giustizia e
alle direttive.

4.13.2 Le ipotesi nelle quali il ruolo della Corte Cost. è ancora attuale

Il rimedio – saldamente ancorato all’art. 11 Cost. – da attivare nelle ipotesi nelle quali il giudice comune
ravvisi l’incompatibilità tra norme interne e norme dell’UE prive di effetti diretti è costituito, invece, dalla
prospettazione, dinnanzi alla Corte Cost., di una questione incidentale, volta a far dichiarare l’illegittimità
delle norme interne confliggenti.

4.14 La “specialità” delle norme risultanti dall’adattamento ai trattati internazionali

Prima della riforma introdotta dalla L. Cost. 3/2001, il coordinamento tra la disciplina desumibile da un
trattato internazionale vincolante per l’Italia e quella di origine nazionale veniva assicurato sul piano
interpretativo ricorrendo al criterio della “specialità”, utilizzato per risolvere le anatomie tra norme risultanti
dall’adattamento ai trattati e norme di origine interna.

Il carattere “speciale” delle norme risultanti dall’adattamento del diritto interno alle convenzioni è Stato
affermato dalle loro caratteristiche: queste norme sono speciali perché dotate di apposite regole di
applicazione.

4.14.1 L’interesse dello Stato al rispetto degli obblighi internazionali

Tra gli ulteriori argomenti utilizzati dalla giurisprudenza per garantire l’applicazione delle norme di
adattamento alle convenzioni internazionali conformemente agli impegni assunti dall’Italia nei confronti
degli altri stati contraenti, c’è quello dell’interesse generale dello Stato ad un puntuale adempimento degli
obblighi internazionali che gli fanno carico.

Valorizzando tale argomento si esclude che la volontà di violare il trattato possa desumersi dalla successiva
adozione di norme interne, da parte del legislatore nazionale.
Altro argomento di interesse dello Stato è l’osservanza delle norme di derivazione pattizia con riferimento a
quelle previste dalle convenzioni in materia di diritti umani.

4.15 Incompatibilità tra norme previste da trattati e norme interne e giudizio di costituzionalità

In caso di conflitto insanabile per via interpretativa tra norme previste da un trattato e norme di diritto
interno, il giudice comune è tenuto ad investire della questione la Corte Cost. nell’ambito di tale giudizio le

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disposizioni di origine internazionale acquisiscono il valore di “norme interposte”: in ragione della propria
struttura, il parametro contemplato dall’ art. 117 com. 1 Cost. è destinato a

divenire operativo soltanto mediante richiamo alle disposizioni che, di volta in volta, definiscono la portata
attuale e concreta degli obblighi derivanti dagli accordi internazionali.

4.15.1 Le “fasi” del giudizio dinanzi alla Corte

In base a quanto desumibile dalle sent. 348 e 349 del 2001, sembra possibile individuare tre distinte fasi
nell’ambito del giudizio di costituzionalità in cui entri in gioco una norma pattizia, in quanto norma
interposta ex art. 117 Cost.
Vi è una prima fase nel corso della quale la Corte Cost. deve verificare che non vi sia davvero spazio per
superare sul piano interpretativo il contrasto tra norme [la soluzione interpretativa “internazionalmente
orientata spetta innanzi tutto al giudice comune].

Accertato che il contrato ipotizzato dal giudice rimettente sia effettivamente “insanabile”, risultando ad ogni
effetto preclusa un’interpretazione “convenzionalmente conforme” della norma interna sottoposta al vaglio
di legittimità, spetta alla Corte, nell’ambito della seconda fase, verificare la compatibilità con la Costituzione
delle norme di derivazione pattizia.

Nel caso che la funzione di integrazione del parametro sia svolta dalle norme CEDU, è necessario tener
conto della peculiarità di tale disciplina: infatti non si tratta solo di accertare la compatibilità di tali norme,
nel particolare significato attribuito loro dalla Corte di Strasburgo, con tutto il testo costituzionale, ma di
operare anche un “ragionevole bilanciamento” tra i vincoli derivanti dalla giurisprudenza internazionale e
l’eventuale esigenza di tutelare interessi costituzionalmente protetti. La terza “fase” del giudizio di
costituzionalità, infine, ha luogo una volta accertata la conformità a Costituzione della norma “interposta” ed
è incentrata sulla verifica della compatibilità, rispetto a quest’ultima, della norma interna censurata, di cui
pertanto, – se del caso, andrà dichiarata l’illegittimità.

4.16 Il sindacato di costituzionalità sulle norme risultati dall’adattamento al Dir.Int. ed i parametri di


giudizio impegnati dalla Corte

Nel caso venga ipotizzato il contrasto tra norme risultanti dall’adattamento al Dir.Int. e norme o principi
costituzionali, il sindacato di legittimità avrà ad oggetto la norma interna per il tramite della quale è stata
“recepita” nell’ordinamento interno statale la norma di origine internazionale.
In tale ipotesi il sindacato di costituzionalità “accentrato”, avente ad oggetto l’ordine di esecuzione, può
concludersi affermando l’illegittimità limitatamente alla parte in cui tale atto consente l’ingresso,
nell’ordinamento interno, di specifiche disposizioni contrarie a norme o principi costituzionali, senza che sia
necessario espungere dall’ordinamento interno l’intero trattato internazionale.

La Corte costituzionale ha il compito di accertare l’eventuale contrasto alle norme risultanti dall’adattamento
al Dir.Int. con “i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale dello Stato” e “dei diritti inalienabili
della persona”.

4.16.1 La verifica in ordine alla compatibilità di norme d’origine interna con norme d’esecuzione di
convenzioni internazionali.

Nell’ipotesi in cui le norme adottate dal legislatore nazionale siano in contrasto con le norme risultanti
dall’adattamento a convenzioni internazionali, il problema è Stato risolto dalla recente riforma del Titolo V
della Costituzione, il quale pone l’obbligo al giudice di sollevare una questione di legittimità costituzionale
in via incidentale per violazione da parte della disposizione legislativa interna.

4.17 Ancora sul vincolo, per il legislatore italiano, al rispetto degli “obblighi internazionali”, a norma
dell’art. 117, primo comma, Cost.

Secondo l’orientamento preferibile l’art. 117, primo comma, Cost. non modifica il sistema d’adeguamento
dell’ordinamento interno al Dir.Int. e va inteso come una norma d’adattamento ma una norma sulla
produzione giuridica, cioè come norma sull’adattamento.
Dopo la riforma, le norme risultanti dall’adattamento ai trattati acquisiscono il valore di “norme interposte”,
cioè di norme di cui la Costituzione prescrive il rispetto da parte del legislatore. In caso di violazione di tali

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norme da parte di disposizioni interne incompatibili, la Corte costituzionale prende in esame l’illegittimità
delle norme interne incompatibili.

L’art. 117, primo comma, Cost. mette a carico del legislatore 2 vincoli:

• - Negativo: divieto di adottare disposizioni in contrasto con gli obblighi internazionali;

• - Positivo: garantire l’adempimento dei medesimi obblighi sul piano interno.

5 SOVRANITÀ TERRITORIALE, “JURISDICTION” E REGOLE DI IMMUNITÀ

5.1 La garanzia dell’esclusività del potere di governo dello Stato ad opera del Dir.Int.

L’indipendenza (o sovranità esterna) e la sovranità interna rappresentano condizioni, o presupposti, necessari


perché ad uno Stato possa venir attribuita la piena soggettività internazionale.
Si è anche visto che è generalmente è ammessa la presenza, nell’attuale Dir.Int. generale, di alcuni principi
fondamentali che affermano valori quali l’eguaglianza degli Stati e il non intervento negli affari interni o
esterni di un altro Stato.

Il Dir.Int. generale tutela con apposite norme funzioni di governo degli Stati, attribuendo a ciascuno di essi il
potere esclusivo di svolgere le proprie funzioni sovrane nell’ambito del proprio territorio e nei confronti della
propria comunità. In questo modo l’ordinamento internazionale garantisce ad un ente statale lo svolgimento
indisturbato delle proprie funzioni nei confronti di tutti gli altri soggetti. Allo Stato viene conferito, dal
Dir.Int. generale, il potere di esercitare le proprie funzioni di governo e la propria attività di gestione
d’interessi collettivi in modo esclusivo, ossia ad esclusione di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento. Tale
carattere d’esclusività investe tutte le attività sovrane attinenti all’esercizio delle funzioni di governo di una
data comunità. Le funzioni possono essere: legislativa, amministrazione, giurisdizione.

Per indicare l’insieme del contenuto della situazione giuridica soggettiva attribuita agli stati, la dottrina
italiana utilizza l’espressione “sovranità territoriale”.
Diversa è la terminologia dei paesi anglosassoni: “territorial sovereignty” per indicare il diritto sul territorio,
e “jurisdiction” riguardante il Dir.Int. riconosciuto a ciascun Stato allo svolgimento in via esclusiva delle
proprie funzioni sovrane.

Nel senso sopra indicato, la nozione di jurisdiction non può essere fatta coincidere con quello che
giurisdizione italiana: il primo comprende, oltre la funzione giurisdizionale in senso proprio, anche tutto ciò
che esprime la nozione di amministrazione e il potere legislativo.
Nella prassi internazionale, in alcune sentenze, vengono specificate, in positivo e negativo, le caratteristiche
della sovranità territoriale:

- Sovranità nei rapporti tra Stati significa indipendenza. Indipendenza rispetto ad una porzione del globo è il
diritto di esercitarvi le funzioni statali ad esclusione di qualsiasi altro Stato.
- Tra gli stati indipendenti, il rispetto della sovranità territoriale costituisce una delle basi essenziali dei
rapporti internazionali.

- Nel Trattato del Laterano: l’Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e l’esclusiva ed assoluta
potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano.

5.1.1 La portata specifica della protezione internazionale del potere di governo dello Stato e dei
correlativi obblighi.

I contorni della norma internazionale che dispone la protezione internazionale del potere di governo dello
Stato sono chiari per quanto riguarda l’obbligo agli Stati di astenersi dal compimento di qualsiasi attività
comportante svolgimento di pubbliche funzioni in territorio altrui. Il compimento di tale attività spetta allo
Stato territoriale, se lo svolgimento di tale attività avviene da parte di un altro Stato in quel territorio, questo
viola il diritto di sovranità riservato allo Stato territoriale. Il consenso dello Stato territoriale di un’attività di
un altro Stato rappresenta una causa d’esclusione dell’illiceità. Del tutto diversa è la situazione, quando uno

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Stato svolga le proprie funzioni pubbliche nel proprio territorio, ma queste comportino riferimento a fatti e
situazioni che si siano verificato o si verificheranno nel territorio di un altro Stato.

Si parla spesso nella prassi d’applicazione extra-territoriale di leggi o d’esercizio extra-territoriale di


giurisdizione. Queste non comportano alcuna violazione della norma internazionale. La Corte permanente di
giustizia internazionale in una famosa sentenza “il Dir.Int. non vieta a uno Stato di esercitare nel proprio
territorio la propria giurisdizione in ogni questione in cui si tratta di fatti avvenuti all’estero”.

A fronte di differenti indirizzi della prassi non uniformi, si può ritenere che esista una netta tendenza a
considerare come oggetto di tutela ad opera della norma internazionale generale della sovranità (o
jurisdiction) tutta quell’attività statale che si manifesta nell’attuazione dell’ordinamento giuridico del quale
lo Stato è gestore. In ipotesi di interferenza, anche in attività normative, amministrative e giurisdizionali
compiute da un altro Stato nel suo territorio possono creare violazione del diritto sovrano dello Stato. Ciò si
crea in presenza di due differenti situazioni:

a) Estensione e applicazione, da parte dello Stato, di proprie normative interne a comportamenti avvenuti nel
territorio d’altri Stati: il criterio su cui esse si fondano è la nazionalità del soggetto e l’esercizio del potere da
parte del primo Stato porta ad imporre comportamenti in violazione degli ordinamenti degli altri stati e degli
interessi essenziali da essi tutelati.

b) Quando uno Stato emette atti pubblici per la regolamentazione della vita sociale della comunità: questi atti
sono opponibili a tutti gli altri Stati. È illecito il comportamento di altri Stati che pretendono di sottoporre a
sindacato il contenuto di tali atti. Operano in questo caso le regole internazionali che garantiscono agli stati
l’immunità giurisdizionale in relazione ai loro atti jure imperii.

5.2 L’immunità della giurisdizione degli Stati e dei loro organi: classificazione

Tradizionalmente di sono identificate tre differenti tipologie di immunità statale:


1. immunità statale in senso stretto, che spetta a tutti gli Stati [e alle loro articolazioni interne] i quali non
possono essere sottoposti a giudizio davanti ai tribunali di un paese straniero in relazione agli atti compiuti
nell’esercizio della potestà d’imperio (immunità dalla giurisdizione di cognizione) e ai beni destinati
all’assolvimento di detta funzione (immunità dalla giurisdizione esecutiva).
2. immunità funzionale o ratione materiae che spetta a tutti gli individui-organi dello Stato non possono
essere sottoposti alla giurisdizione dei tribunali stranieri in relazione all’attività svolta in esecuzione delle
funzioni loro affidate.
3. immunità personale o ratione personae che spetta a determinati individui-organi dello Stato non possono
essere sottoposti alla giurisdizione dei tribunali stranieri in relazione all’attività svolta al di fuori di ogni
incarico ufficiale.

5.2.1 Immunità statale in senso stretto: immunità dalla giurisdizione di cognizione.

L’immunità degli Stati dalla giurisdizione di cognizione rappresenta una regola consuetudinaria, che si
sostanzia nel principio “par in parem non habet indicium”: gli enti sovrani non possono essere convenuti in
giudizio davanti ai tribunali di un paese straniero, salvo il loro consenso. L’immunità degli Stati alla
giurisdizione è illimitata sotto il punto di vista soggettivo, ma limitata secondo il punto di vista oggettivo.

Secondo il punto di vista soggettivo, l’immunità giurisdizionale spetta a tutti gli Stati dotati dei caratteri di
soggettività: sovranità esterna o indipendenza e sovranità interna. In questo caso l’immunità spetta
all’apparato centrale e a tutte le strutture e enti a cui è attribuito l’esercizio di funzioni sovrane.

5.2.2 Dall’immunità assoluta all’immunità ristretta, all’assenza di una regola sull’immunità?

Per quanto concerne i limiti che la regola dell’immunità statale incontra da un punto di vista oggettivo,
occorre precisare che essi sono venuti delineandosi nei primi decenni del secolo scorso.

Originariamente, il principio che vede gli Stati immuni dalla giurisdizione non conosceva, alcuna deroga
[ancora oggi alcuni Stati continuano a far riferimento alla teoria dell’immunità assoluta].
Alla fine dell’800, la situazione cambia a conclusione della prima guerra mondiale; grazie alla
giurisprudenza belga ed italiana l’immunità viene “ristretta” ai casi in cui lo Stato agisca nell’ambito dei
propri poteri di imperio.

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Il principio si è ormai affermato anche nell’ambito dei paesi della common law. Seconda tale immunità
relativa, lo Stato o gode dell’immunità dalla giurisdizione solamente per gli atti jure imperii (attraverso i
quali si esplica il potere di imperio) o non ne usufruisce in relazione agli atti jure privatorum ( atti posti in
essere con finalità privatistiche). L’immunità viene così “ristretta” ai casi in cui lo Stato agisca nell’ambito
dei propri poteri di imperio [iure imperii].

Se lo Stato o un ente pubblico straniero agisce contro un privato cittadino, la giurisdizione dello Stato
ospitante non può essere esclusa.
Lo Stato straniero gode dell’immunità per gli atti compiuti nell’esercizio di una funzione sovrana anche in
casi particolari:

• - violazione diritti fondamentali del singolo;

• - atti idonei a minacciare l’incolumità e la salute dei cittadini.


L’applicazione dell’immunità statale ha creato dei problemi alla giurisprudenza interna degli paesi di
civil law perché non è sempre facile la distinzione tra attività jure privatorum e jure imperii.
Nei paesi della common law per evitare il sorgere di problemi di distinzione, si è evitato di lasciare
alla magistratura il compito di individuare le categorie di atti in relazione alle quali lo Stato straniero
gode dell’immunità. Si è adottato il c.d. metodo della lista, è un’elencazione specifica delle
controversie concernenti le attività privatistiche, in relazione alle quali lo Stato straniero non gode
dell’immunità. Tale lista è contenuto nel State Immunity Act britannico del 1978: “uno Stato è
immune dalla giurisdizione dei tribunali del Regno Unito salvo quanto stabilito nelle seguenti
disposizioni di questa legge”, e nelle disposizioni successive si rinviene a una lista di casi in cui lo
Stato straniero non gode dell’immunità.

5.2.3 La commissione di crimina juris gentium

La regola dell’immunità nella versione ristretta [o divieto di intrusione negli affari interni] non ha,
tradizionalmente conosciuto eccezioni; questo anche in casi del tutto peculiari, in cui venissero violati diritti
fondamentali dei singoli. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha precisato che il principio
dell’immunità statale per attività iure imperii non sia derogabile neppure nel caso di violazioni di norme
primarie di Dir.Int. [es. divieto di tortura].

Nel 2004 la giurisprudenza italiana si è tuttavia segnalata per l’introduzione di una limitazione all’immunità
statale. La corte di Cassazione ha individuato una precisa eccezione all’immunità degli Stati esteri per
attività jure imperii connesse a crimini internazionali: il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana,
assume il valore di principio fondamentale dell’ordinamento internazionale e, pertanto, la loro violazione fa
si che possa essere negata l’immunità allo Stato straniero in ipotesi di commissione di crimina juris gentium.

È opportuno precisare che tale conclusione, fatta propria dalla Corte di Cassazione, non appare così pacifica
nell’attuale stadio di sviluppo del diritto consuetudinario.
Nella controversia tra Italia e Germania in merito ai crimini di guerra commessi durante la seconda guerra
mondiale, la Corte Internazionale di Giustizia ha sancito che:

1. L’immunità della giurisdizione civile degli stati esteri non viene meno a fronte di violazioni
particolarmente gravi e qualificate di diritti fondamentali o del diritto umanitario;

2. Non sussiste un’ipotesi di contrasto tra norme ius cogens ed immunità, posto che quest’ultima si
caratterizza per essere una norma processuale che limita la competenza degli stati e non investe dunque il
merito della controversia;
3. Che non esistono prove di evoluzione del diritto consuetudinario che subordinano l’operatività della regola
dell’immunità.

5.2.4 Le convenzioni internazionali: la Convenzione di New York del 2004

Per superare le divergenti soluzioni elaborate nell’ambito dei paesi membri della Comunità internazionale in
merito al tema dell’immunità statale, sono stati predisposti appositi strumenti. Il più significativo è la
Convenzione sull’immunità degli Stati e dei loro beni (ONU) del 2004: tale documento si apre con una

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norma che dispone “uno Stato gode dell’immunità, per quanto riguarda la sua persona e i suoi beni, dalla
giurisdizione dei tribunali di un altro Stato contraente fermo restando le disposizioni del presente articolo”;
segue poi una lista in cui s’identificano le controversie in relazione alle quali lo Stato non può invocare
l’immunità.

La Convenzione di New York è stata modellata sulla base della Convenzione europea sull’immunità degli
Stati (Consiglio d’Europa) approvata a Basilea [1972], che accoglie il criterio della lista, ma apre con un
elenco di articoli in cui si indicano le situazioni in cui uno Stato non può invocare l’immunità.

5.2.5 Immunità statale e rapporti di lavoro subordinato

L’applicazione del criterio di distinzione tra jure imperii e jure privatorum è frequente in materia di rapporti
di lavoro subordinato. Affermare la sussistenza dell’immunità in cui il lavoratore dipendente di uno Stato
straniero sia impiegato, nell’ambito di un’attività pubblicistica, significa riconoscere sempre l’immunità:
questo perché è inevitabile una partecipazione diretta o indiretta di qualunque lavoratore alla corretta
esecuzione di una funzione pubblicistica. Di conseguenza, il lavoratore subordinato alle dipendenze di uno
Stato estero o di un ente pubblico straniero non potrebbe mai instaurare una controversia nello Stato in cui
presta la propria attività lavorativa. Nel passato, la giurisprudenza italiana aveva riconosciuto l’immunità
degli stati stranieri, chiamati in causa da dipendenti italiani, per inadempimento relativi ad attività ausiliarie,
eseguite nell’ambito di contratti di lavoro localizzati in Italia: erano attività inerenti a funzioni sovrane in
relazione a bibliotecari, contabili, centralinisti. Come reazione si è proposto di abbandonare tale criterio
d’immunità, facendo riferimento esclusivamente al luogo del rapporto di lavoro e alla cittadinanza del
lavoratore. Secondo la Convenzione europea del 1972: “uno Stato contraente non può invocare l’immunità
dalla giurisdizione davanti al tribunale di un altro Stato contraente, se il procedimento riguarda un contratto
di lavoro concluso tra lo Stato e una persona fisica, nel caso in cui il lavoro deve essere eseguito sul
territorio dello Stato del foro”.

La Suprema corte precisa che lo Stato straniero può essere citato in giudizio davanti ai tribunali nazionali del
cittadino italiano che svolge il lavoro in Italia, solamente quando la relativa attività risulti ausiliaria rispetto
allo svolgimento delle funzioni sovrane: “i rapporti di lavoro di cittadini italiani con gli Stati esteri non si
sottraggono alla giurisdizione del giudice italiano quando abbiano ad oggetto prestazioni manuali o
accessorie delle attività di tipo pubblicistico dell’ente sovrano estero”.

I tribunali a cui ci si rivolge in relazione ad una causa di lavoro che vede opposto un cittadino del foro ad uno
Stato straniero, potranno condannare quest’ultimo al pagamento della mensilità e delle indennità non
corrisposte, ma non sono legittimati ad andare oltre, intromettendosi all’interno di una organizzazione di un
altro Stato, ad esempio la riassunzione del dipendente licenziato anche nel caso che questo sia Stato
licenziato in modo illegittimo.

5.2.6 L’immunità della giurisdizione esecutiva

Oltre a non poter essere citati in giudizio di fronte ai tribunali di un paese straniero nella fase di cognizione,
gli Stati non possono essere sottoposti a procedimenti esecutivi all’estero.
E come l’immunità della giurisdizione di cognizione che è garantita in una versione limitata, anche
l’immunità dell’esecuzione forzata è accolta in versione ristretta, perché questa riguarda i beni destinati
all’espletamento di una funzione pubblica, mentre non interessa i beni detenuti dallo Stato a titolo privato.

Ci sono due elementi caratterizzanti per quanto riguarda l’immunità degli Stati dalla giurisdizione esecutiva
dello Stato del foro per i beni pubblici. Il primo riguarda la necessità di operare un’apposita rinuncia da parte
dello Stato che intenda sottoporsi a giudizio esecutivo. Se uno Stato rinuncia all’immunità dalla giurisdizione
di cognizione e si sia volontariamente sottoposto al giudizio dei tribunali stranieri, non per questo sarà
sottoposto ad un procedimento di esecuzione che abbia ad oggetto beni destinati all’espletamento della
funzione pubblica, perché occorre un’altra rinuncia distinta dalla precedente: Secondo la convenzione di
New York 2004 “nessuna misura esecutiva (pignoramento, sequestro, misure esecutive,...) contro i beni di
uno Stato può essere adottata in un procedimento davanti ad un tribunale di un altro Stato se non nei casi in
cui: a) lo Stato abbia espressamente acconsentito all’adozione di tali misure: tramite accordo
internazionale; tramite accordo di arbitrato o contratto scritto; tramite dichiarazione davanti al tribunale”.

In secondo luogo la regola sull’immunità di cognizione rispetto a quella dell’immunità esecutiva ha avuto
un’ evoluzione differenziata nel corso del tempo. Prima, l’immunità dall’esecuzione era “assoluta”, poi nella

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seconda metà del ventesimo secolo, la regola dell’immunità “ristretta” della giurisdizione esecutiva è venuta
ad imporsi in via definitiva. Tale regola ha trovato attuazione anche nella disciplina italiana [L. 1262/1926]:
“non può procedersi a sequestro e pignoramento, di vendita ed in genere ad atti esecutivi sui beni mobili e
immobili, navi, crediti, titoli, di un altro Stato estero, senza l’autorizzazione del Ministro ella giustizia”.

Per quanto riguarda i beni non destinati all’esercizio di funzioni pubbliche, il requisito dell’autorizzazione
ministeriale impedisce il normale esplicarsi della giurisdizione italiana, limitando il diritto fondamentale
garantito dall’art.24 Cost., cioè il diritto d’azione [art. 24. Cost.: Tutti possono agire in giudizio per la tutela
dei propri diritti e interessi legittimi].

5.3 L’immunità funzionale.

È difficile individuare i contorni del diritto consuetudinario relativo all’immunità funzionale, ossia
individuare le norme che garantiscono l’esenzione dalla giurisprudenza del foro a favore degli individui-
organi che operano nell’esercizio delle mansioni loro affidate da uno Stato estero.
Uno dei principali problemi riguarda il verificare quali atti possono dirsi compiuti nell’esercizio di un
incarico ufficiale [solo in questo caso si parla di immunità funzionale] e quali atti appartengono alla sfera
privata dell’agente.

Al riguardo, appaiono utilizzabili due criteri: uno tendente ad avvalorare la nozione di “atto compiuto
nell’esercizio delle funzioni”; l’altro favorevole a riconoscere la qualifica di “atto ufficiale” in un maggior
numero di ipotesi, estendendo, in tal modo, i confini dell’immunità funzionale.
Utilizzando il primo criterio, si ritiene compiuto nell’esercizio delle mansioni ufficiali solamente il
comportamento realizzato per finalità pubblicistiche, senza specificare gli strumenti adottati dall’agente.
L’organo non può avvalersi dell’immunità funzionale nei casi in cui egli ha agito per realizzare un interesse
privato.

Esempio: l’Hause of Lords nella decisione c.d. Pinochet I, doveva stabilire se potesse essere concessa
l’estradizione dell’ex Capo dello Stato per i reati di tortura e presa di ostaggi, relativi al periodo in cui
Pinochet era Presidente del Cile. Era determinante verificare quali “atti compiuti nell’esercizio delle
funzioni” e quali atti attinenti alla sfera privata. Solo in quest’ultimo caso era possibili negare l’immunità
funzionale e ritenendo così Pinochet perseguibile dai tribunali spagnoli. In questa causa, la Suprema Corte
inglese giudicò Pinochet colpevole non perché furono utilizzati gli strumenti pubblicistici non idonei, ma per
le finalità per le quali i reati erano stati realizzati. Nella decisione si è seguito un criterio più estensivo
riguardante l’immunità funzionale nella valutazione della nozione “atto compiuto nell’esercizio delle
funzioni”. Ai fini del riconoscimento dell’immunità funzionale, deve ritenersi compiuto nell’esercizio delle
mansioni ufficiali, l’atto il quale presenti un qualunque collegamento diretto o indiretto con la funzione cui
l’organo è preposto.

Utilizzando il secondo criterio si considera “ufficiale” l’atto posto in essere attraverso l’impiego di strumenti
pubblicistici a disposizione dell’individui-organo in ragione della propria qualifica, anche quando il
comportamento tenuto dall’agente si concretizzi in un reato che esula dai compiti ufficiali attenendo
esclusivamente alla sfera privata del soggetto; e ancora si ritiene garantito dall’immunità funzionale il
comportamento dell’individuo organo che non si è attenuto agli ordini superiori o abbia agito in eccesso di
potere purché la sua azione si riportabile all’ambito delle mansioni assegnate.

A questo punto bisogna verificare l’esistenza ed i limiti di operatività della regola.


È importante chiarire che c’è l’impossibilità per i tribunali interni di giudicare i soggetti che abbiano agito
dietro incarico ufficiale di uno Stato straniero. La regola viene fatta discendere:
1. rispetto dell’organizzazione interna degli Stati stranieri: impossibilità di far valere la responsabilità di un
agente straniero di fronte ai tribunali dello Stato territoriale, dal momento che l’attività da questi compiuta
sarebbe direttamente addebitabile al paese di appartenenza.
2. divieto di intromissione nella vita costituzionale degli ordinamenti stranieri: lo Stato è l’unico soggetto cui
spetta la sovranità interna e la potestà di comandare e giudicare i propri agenti che abbaino commesso atti
illeciti.
3. regola dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione: con tale regola di immunità, impedisce di giudicare le
attività jure imperii poste in essere dagli Stati stranieri.
4. regola consuetudinaria internazionale: impossibilità per i tribunali interni di giudicare gli individui- organi
statali laddove questi abbiano agito nel compimento di un mandato ufficiale.

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L’agente che abbia compiuto un determinato atto illecito nell’esercizio di un incarico ufficiale non potrà
essere chiamato a rispondere né durante il periodo alla carica, né successivamente alla scadenza del mandato.

5.3.1 I limiti (oggettivi) della regola dell’immunità funzionale

L’immunità funzionale garantita agli agenti di Stati stranieri incontra alcuni limiti in relazione:
1. al compimento di determinati atti illeciti, la cui punibilità ad opera dei tribunali interni è espressamente
sancita in apposite convenzioni internazionali. Le regole sull’immunità non rappresentano disposizioni jus
cogens. Esse hanno carattere flessibile e possono essere derogate da una regolamentazione pattizia
divergente. Esempio: la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto del genocidio stabilisce
che gli autori di genocidio vengano sottoposti alla giurisdizione dei tribunali interni dei paesi contraenti sia
che essi ricoprano la carica di governanti o funzionari pubblici e individui privati. Ciò porta a sottolineare
che l’immunità funzionale decade di fronte alle norme pattizie le quali sanciscono la giurisdizione dei
tribunali interni su determinati crimini anche verso pubblici ufficiali che abbiano agito nell’ambito delle
proprie mansioni loro affidate da uno Stato estero.
2. alle attività poste in essere dagli individui-organi nell’ambito di missioni non autorizzate, cioè non
preventivamente concordate tra lo Stato di appartenenza e lo Stato territoriale. In tali circostanze si rileva una
prassi al quanto variegata: si pensi ai casi di raid aerei, intrusioni terrestri, violazione spazi marini. In linea di
massima i militari sono sottoposti a misure provvisorie restrittive della libertà personale e vengono liberati
quando la lite sia stata definita a livello internazionale, tra Stato del foro e Stato di loro appartenenza.
Solitamente i giudici interni non puniscono l’agente se lo Stato di invio si assume la responsabilità della
missione. Se invece l’individuo-organo si rende responsabile di un illecito distinto e ulteriore, viene
sanzionato l’agente che ha compiuto l’illecito [non vale la regola dell’assorbimento].

3. connessa alla tematica di cui sopra è la possibilità di ritenere superata la regola dell’immunità funzionale
nel caso in cui l’agente statale si renda autore di crimini internazionali. Sono i c.d. crimina juris gentium. La
commissione di un crimine internazionale comporta l’assoggettamento del suo autore alla giurisdizione delle
corti interne e internazionali.

5.3.2 La dottrina dell’Act of State

È una dottrina utilizzata nei paesi della common law secondo la quale il potere giudiziario non è competente
a valutare la legittimità degli atti stranieri in cui si sostanzia l’esercizio di funzioni sovrane. Quando il
giudice di un paese anglosassone si trova a dovere decidere una controversia per la cui soluzione abbia
rilievo la valutazione della legittimità di un atto pubblico straniero, esso applica la teoria dell’Act of state
(atto di Stato).

5.4 L’immunità personale

La terza tipologia d immunità statale è rappresentata dall’immunità ratione personae, che spetta a taluni
individui-organi dello Stato in relazione agli atti compiuti al di fuori dei propri incarichi ufficiali.
I suddetti soggetti possono godere di un’esenzione pressoché totale dalla giurisdizione degli Stati stranieri,
dal momento che quando agiscono nell’ambito del proprio mandato sono garantiti dall’immunità funzionale,
mentre quando operano come privati godono dell’immunità personale. L’immunità personale non è, tuttavia,
una prerogativa attribuita ad un determinato soggetto al fine di garantirlo nelle proprie posizioni soggettive,
ma rappresenta uno strumento necessario al fine di consentire la piena esplicazione delle funzioni assegnateli
dallo Stato di appartenenza.

L’immunità personale si presenta come una prerogativa soggettivamente (a), oggettivamente (b) e
temporalmente (c) limitata.
a. l’immunità personale spetta solo a determinati soggetti: diplomatici, Capi di Stato, di Governo, Ministri
degli esteri.

b. L’immunità personale si differenzia da quella funzionale perché copre l’agente che operi al di fuori delle
proprie funzioni ufficiali. Detta immunità è assoluta per quanto riguarda la giurisdizione penale: il soggetto
che gode dell’immunità personale in caso di reato non può essere chiamato in giudizio. È limitata per la
giurisdizione civile: i diplomatici, i Capi di Stato, di Governo e il Ministro degli esteri possono essere citati
in giudizio davanti ai tribunali stranieri.

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c. L’immunità personale è temporaneamente limitata ai soggetti durante il loro permanere alla carica. Quindi
c’è la possibilità di perseguire l’agente straniero una volta che sia cessato il suo mandato.

5.4.1 L’inviolabilità personale

I diplomatici, i Capi di Stato, di Governo e Ministri degli Esteri, oltre a godere dell’immunità personale,
godono anche della c.d. inviolabilità personale, per garantire la quale gli Stati ospitanti sono gravati da
precisi obblighi di fare e di non fare. L’inviolabilità impedisce agli Stati stranieri di assoggettare i diplomatici
a misure repressive e coercitive che limitino la loro libertà personale. Gli Stati ospitanti hanno un obbligo
speciale di protezione delle persone che godono dell’inviolabilità. Detti obblighi sono codificati nella
Convenzione di Vienna del 1961 e spettano anche in caso di conflitto armato. L’inviolabilità personale spetta
anche ai consoli, anche se non in forma del tutto assoluta. Il diplomatico e il console hanno altre due
prerogative:
- inviolabilità domiciliare: protegge da qualunque intrusione da parte dello Stato ospitante, sia i locali
dell’ambasciata e del consolato, sia quelli impiegati dal diplomatico per la sua abitazione privata.

- immunità fiscale: copre le imposte personali dirette.

5.5 L’immunità dei soggetti diversi dagli Stati: Ordine di Malta e Santa Sede

L’identificazione delle regole sull’immunità della giurisdizione è divenuta, oggigiorno, ancora più complessa
a fronte della comparsa sulla scena internazionale di nuovi soggetti, diversi dagli Stati, dotati di personalità
giuridica. Si pensi all’Ordine Militare di Malta e alla Santa Sede, che sono soggetti differenti dagli Stati.

Come gli Stati, tali soggetti godono delle immunità giurisdizionali, sia in riferimento all’istituzione nel suo
complesso, sia in riferimento e agli organi cui si compone la loro struttura.

5.5.1 Le organizzazioni internazionali

Maggiori problemi vi sono per quanto riguarda l’accertamento delle immunità spettanti alle organizzazioni
internazionali. Queste godono di una personalità giuridica internazionale purché risultino dotate:
1. di una struttura organizzativa adeguata a realizzare la missione definita nel trattato istitutivo;

2. di autonomia decisionale rispetto alle determinazioni degli stati membri.


La soggettività internazionale cui godono le organizzazioni non ricopre l’ampiezza identica rispetto a quella
attribuita agli Stati, essendo riconosciuta entro i limiti strettamente funzionali allo volgimento della loro
missione. Entro questi limiti sembra debbano riconoscerai anche i privilegi e le immunità spettanti alle
organizzazioni. La questione si risolve:
- tramite specifiche disposizioni specificate nel trattato istitutivo o di accordi successivi che l’organizzazione
conclude con stati membri o stati terzi.
- Se dette previsioni mancano, si fa riferimento al Dir.Int. generale: così come è riconosciuta la personalità
delle organizzazioni internazionali entro i limiti adeguati dalla loro missione, allo stesso modo l’immunità
dalla giurisdizione di cui esse godono è circoscritta solo nell’ambito dell’espletamento delle funzioni loro
assegnate.

5.5.2 L’immunità dei funzionari delle organizzazioni

Se l’organizzazione internazionale non può avvalersi delle stesse regole di immunità degli Stati, anche per i
funzionari delle organizzazioni non possono invocare tale immunità. I funzionari ONU godono dei privilegi
e delle immunità necessari per l’esercizio indipendente delle loro funzioni inerenti all’organizzazione. I
rappresentanti degli stati membri presso l’ONU, i funzionari e gli esperti che effettuano missioni per le
Nazioni Unite godono dell’immunità dalla giurisdizione per atti compiuti nell’esercizio delle funzioni.

5.6 Immunità giurisdizionale e diritto d’azione: la teoria della soddisfazione per equivalenti

Le regole relative all’immunità dalla giurisdizione rappresentano principi fondamentali nel contesto delle
relazioni internazionali, tali da giustificare anche il sacrificio di una prerogativa tipica della sovranità statale,
quale l’esercizio della funzione giurisdizionale. Detto sacrificio comporta la limitazione di un diritto
fondamentale garantito dalla Costituzione a tutti i soggetti privati: è il diritto di agire in giudizio per la difesa
dei propri diritti e dei propri interessi, tutelato dall’art. 24 Cost. e il cui esercizio è impedito dall’esistenza

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delle regole sull’immunità [Art. 24 Cost.: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legittimi].
Laddove si assista ad un contrasto tra regole d’immunità e diritto individuale d’azione, al singolo impedito
nell’esercizio del proprio diritto all’interno del foro, deve essere garantito l’accesso ad un organo
giurisdizionale straniero, dotato di adeguate garanzie di imparzialità e indipendenza, nonché capace di
giudicare la lite osservando appropriate regole di procedura. La deroga dalla giurisdizione nazionale è
soddisfatta “per equivalenti” all’esterno del foro. L’immunità giurisdizionale non può derogare ma
determinare una sorta di affievolimento nella tutela del diritto d’azione. La tutela del diritto di azione
spettante ai singoli è garantita nel caso in cui l’immunità spetti ad uno Stato o ad un suo organo, dotato di
tribunali capaci di accogliere ricorsi individuali. Il problema si pone con le organizzazioni internazionali se
non sono dotate di un apparato giurisdizionale.

_______________________________FINE PRIMA PARTE PARZIALE__________________________

6 RISOLUZIONE PACIFICA E PREVENZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI

6.1 Definizione delle controversie internazionali, loro natura e obbligo degli Stati di risolvere
pacificamente

Anche nel Dir.Int. si è sviluppato un sistema di risoluzione delle controversie. Secondo una definizione della
Corte permanente di giustizia internazionale, “la controversia è un disaccordo su questioni di fatto o di
diritto,o un conflitto di interessi o punti di vista giuridici esistente tra due soggetti”. La soluzione delle
controversie internazionali era inizialmente basata sull’uso della forza, poi ha subito delle trasformazioni con
l’affermarsi dell’obbligo degli Stati a risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in
maniera che la pace e la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo.

Tale obbligo è Stato rafforzato dalla nota Dichiarazione relativa ai principi di Dir.Int. sulle relazioni
amichevoli e la cooperazione tra stati approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1970. Essa
prevede che gli Stati devono cercare una risoluzione alle controversie tra loro insorte mediante mezzi pacifici
e in caso di fallimento di detti mezzi, hanno l’obbligo di cercare una composizione mediante altri mezzi da
essi concordemente individuati. L’obbligo di evitare l’uso della forza, e quindi della guerra, è abbastanza
recente per risolvere le controversie tra Stati. A differenza degli ordinamenti interni, non esiste un potere
“superiore” in grado di imporre agli Stati tra i quali pende la controversia né per risolverla, né i contenuti per
la sua risoluzione.

6.1.1 Sviluppi nel sistema di risoluzione delle controversie: erosione del volontarismo e incremento dei
fori internazionali e problemi di coordinamento

L’evoluzione del Dir.Int. moderno ha investito anche il sistema di risoluzione delle controversie in vista
dell’aumento dei soggetti e degli attori operanti nella sfera internazionale. Ciò si deve alla progressiva
privatizzazione dei rapporti internazionali determina l’aumento di attori individuali portatori di interessi
rilevanti speso suscettibili di determinare controversie tra Stati, all’espandersi dell’ambito di operatività della
materia ma pure alla trasformazione delle controversie internazionali. In primo luogo la progressiva
“privatizzazione” anche dei rapporti internazionali determina l’affacciarsi di importanti attori, portatori di
interessi rilevanti, spesso suscettibili di determinare controversie tra gli Stati [multinazionali]. Ciò comporta
anche l’aumento della dimensione e dell’importanza “transazionale” delle controversie.

In secondo luogo, il volontarismo del sistema di risoluzione delle controversie risulta ridimensionato dal
crescente condizionamento posto agli Stati dalla loro appartenenza ad un comunità “globale” e dalla
diffusione di mezzi di pressione che la Comunità internazionale sono in grado di sviluppare al fine di indurre
gli stati a conformarsi al sistema di valori che comprende anche l’adesione a mezzi di risoluzione dalle
controversie basati su determinati principi.

Questa evoluzione presenta delle conseguenze di rilievo si è rafforzata l’opportunità di devolvere a


soggetti specificamente competenti l’eventuale risoluzione delle controversie internazionali; sono stati creati
numerosi tribunali internazionali, con conseguente perdita di centralità degli organi giurisdizionali

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riconosciuti come “fori” competenti alla risoluzione pacifica delle controversie tra Stati. Inoltre la creazione
di fori tecnici o specializzati presenta il vantaggio di “depoliticizzare” le controversie internazionali e
rafforzare il ruolo del diritto nella soluzione delle controversie. Questa è anche la ragione per la quale,
quanto più dettagliate e tecniche sono le norme contenute nei trattati, e tanto è più frequente la previsione al
loro interno di meccanismi per la risoluzione di eventuali controversie.

Peraltro, la proliferazione dei fori internazionali può produrre effetti indesiderati: ciascun giudice può
sviluppare una propria giurisprudenza svincolata dagli altri; si possono creare problemi di coordinamento,
qualora più tribunali si riconoscano competenti a conoscere di una medesima controversia; infine il
fenomeno del c.d. forum shopping, con potenziali conflitti e comunque incertezze nell’esercizio della
funzione giurisdizionale internazionale.

6.1.2 Gli effetti della globalizzazione sull’ambito di applicazione del diritto interno e sulle controversie
internazionali

Anche la Globalizzazione stimola una domanda di risoluzione delle controversie connotata da elementi di
internazionalità o transnazionalità.
Quando gli Stati non sono in grado di costituire, a livello internazionale “fori” competenti alla risoluzione
delle controversie, esse vengono gestite e risolte mediante ricorso alle giurisdizioni nazionali.

Ciò comporta, necessariamente, l’esercizio della sovranità, o del potere, di uno Stato nei confronti di altri
Stati interessati alla fattispecie di cui trattasi, con esiti non sempre condivisi.
Tali considerazioni non valgono, in generale, qualora gli Stati esercitino la giurisdizione nei confronti di
imprese straniere che operano nei loro mercati, o nei confronti di individui che si trovino sul loro territorio.

Ciò detto restano tutt’ora problematiche altre ipotesi di giurisdizione extraterritoriale: l’esercizio della
giurisdizione nei confronti di [ex] Capi di Stato e di governo sospettati di crimini contro l’umanità, ecc.

6.1.3 L’uso della forza per risolvere controversie inerenti a profili di sicurezza nazionale.

L’evoluzione e l’aumento dei sistemi pacifici di risoluzione delle controversie internazionali non sembra
tuttavia valere per quelle che investono profili di sicurezza nazionale o minacciano la pace. Sia per la
sicurezza nazionale e per la minaccia della pace, il sistema si sta evolvendo nel comportare più
frequentemente ricorso all’uso della forza, e ad un declino delle soluzioni attraverso attività giurisdizionali.

Diversi fattori concorrono all’affermarsi di questa situazione. In primo luogo, l’emersione di obblighi erga
omnes la cui violazione da parte di uno Stato fa sorgere la pretesa di tutti gli altri di porvi fine. In secondo
luogo l’espansione dell’attività del Consiglio di Sicurezza in tema di sicurezza collettiva. In terzo luogo, un
generalizzato fenomeno di disgregazione del potere centrale di molti Stati, cui corrisponde non solo la
diffusione di c.d. Stati falliti, ma anche la costituzione di entità di difficile qualificazione [Daesh] che
esercitano di fatto un controllo su vaste aree del territorio.

Mentre in passato questi fenomeni erano “circoscritti e qualificabili come guerre civili”, oggi la situazione
appare molto più frastagliata e disomogenea.
In questa situazione si è assistito ad un maggior uso della forza anche al di fuori del sistema delle NU, da
parte di numerosi Stati. Il seppur maggior dinamismo dell’applicazione del Capito VII della Carta NU e il
conseguente aumento delle operazioni di peace-keeping non riduce affatto – anzi per certi aspetti rende meno
scabrose – iniziative degli Stati implicanti l’uso della forza condotte fuori dagli schemi e sotto l’egida delle
NU.

In tale contesto gli strumenti diplomatici sono l’unico possibile mezzo pacifico di risoluzione delle
controversie di cui gli Stati possono disporre in situazioni di questo tipo. Ma anche qui vi sono grandi
difficoltà nell’individuare le “parti” della controversia e spesso nell’impossibilità di riconoscere come
“controparti” molti degli altri attori protagonisti.

6.2 I c.d. mezzi diplomatici di risoluzione delle controversie: il negoziato

Con i mezzi diplomatici, gli Stati e gli altri soggetti internazionali cercano di risolvere la controversia tra loro
insorta cercando di trovare un accordo.
Uno dei mezzi diplomatici più usato nella prassi è il negoziato, cui partecipano solo i soggetti parti della

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controversia, senza interevento e presenza di terzi. Il negoziato non individua una parte “vincitrice” e una
parte “sconfitta”. È uno strumento apprezzabile in caso di un numero elevato di parti in causa o nei casi di
rapporti bilaterali quando vi sia un equilibrio tra le parti.

6.2.1 Il rapporto tra il negoziato e gli altri mezzi di risoluzione pacifica delle controversie.

Si discute se, all’insorgere di una controversia, esista un obbligo degli Stati a ricorrere al negoziato, prima di
tentare altre vie di soluzione.
Secondo la Corte internazionale di giustizia, le parti sono obbligate ad intraprendere negoziati al fine di
arrivare ad un accordo.

Ad esempio la Convenzione sul Diritto del Mare del Nord prevede che gli Stati contraenti procedano ad una
consultazione sulla soluzione della controversia attraverso negoziati o altri mezzi pacifici.
In altri casi, sono create commissioni o altri organismi negoziali permanenti proprio per prevenire le
controversie.

6.2.2 Gli obblighi di negoziare prima di agire in autotutela e l’obbligo di negoziare in buona fede

Altra questione è se il negoziato è necessario prima di agire in autotutela, o se comunque, in sede di


svolgimento del medesimo, gli Stati sono tenuti al rispetto di comportamenti ispirati al principio della buona
fede.

6.2.3 Negoziato e prevenzione delle controversie internazionali: i c.d. vertici

L’utilità del negoziato – anche plurilaterale – è tuttavia innegabile pure in chiave di prevenzione
dell’insorgere di controversie.
Con l’intensificarsi dei rapporti internazionali e l’accrescersi delle norme internazionali si è sviluppata una
prassi di incontri frequenti tra i rappresentanti degli Stati. La prassi utilizzata è la c.d. vertici: consente una
più agevole produzione di regole a livello internazionale e limita anche il verificarsi di controversie. Questo
perché le riunioni periodiche hanno la funzione di prevenire l’insorgere delle controversie. Gli incontri al
vertice aiuta l’attività diplomatica e di coordinamento delle varie posizioni degli stati. Esempio di vertice:
G8; G20.

6.2.4 Previsione e risoluzione delle controversie all’interno delle organizzazioni internazionali regionali

La prevenzione e la risoluzione delle controversie all’interno delle organizzazioni internazionali regionali è


diversa da caso a caso. Esempi di tali organizzazioni:
- Comunità europea, Organizzazione degli stati americani, Organizzazione per l’Unità Africana, la NATO e
l’OSCE (organizzazione per la sicurezza e cooperazione europea).

Questa prassi conferma l’inesistenza di un giudice “naturale” al quale gli Stati devono rivolgersi, ma è
riconosciuta la possibilità di garantire l’efficacia ai meccanismi di risoluzione delle controversie mediante la
creazione di “fori” adeguati ai rapporti internazionali.

6.3 Gli altri mezzi diplomatici: buoni uffici, mediazione, conciliazione e commissioni d’inchiesta

Si osserva che i mezzi diplomatici contemplano anche il coinvolgimento di soggetti terzi, ai quali non è
delegato nessun potere di decisione. I terzi possono creare le condizioni per un possibile accordo.

I soggetti terzi possono essere: altri Stati, altri soggetti internazionali, rappresentanti riconosciuti a livello
internazionale (quali ex Capi di Stato).
Il primo di tali mezzi diplomatici è costituito dai buoni uffici, nell’ambito dei quali un terzo cerca di
influenzare le parti in lite tentando di metterle in contatto per portare al tavolo del negoziato. Nell’ambito
della mediazione al terzo è richiesta la sua partecipazione al negoziato dove, talora, propone un’informale
possibile soluzione della controversia. La mediazione non comporta alcun vincolo alle parti.

Un altro strumento utilizzato nella risoluzione delle controversie è la conciliazione: l’attività del conciliatore
è quella di predisporre di una formale proposta per la soluzione della lite. Al termine della procedura di
conciliazione, il conciliatore adotta un verbale di conciliazione nel quale sono contenute osservazioni e

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raccomandazioni alle parti stesse per risolvere la controversia. Non è obbligatorio, per le parti, accettare la
proposta del conciliatore.

Altro mezzo è l’istituzione di commissioni d’inchiesta: quando la controversia implichi un diverso giudizio
dei fatti delle parti in lite, viene nominata una commissione d’inchiesta alla quale è affidato il preciso
compito di accertare esattamente le circostanze dei fatti.

6.3.1 I mezzi diplomatici per la risoluzione delle controversie previsti nel sistema delle Nazioni Unite

All’interno della Nazioni Unite esistono procedure diplomatiche per risolvere le controversie. L'Assemblea
Generale ai sensi dell’art. 14 Carta N.U. “può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi
situazione che, indipendentemente dalla sua origine, essa ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere
generale o le relazioni amichevoli tra nazioni”.

L’art. 34 attribuisce al Consiglio di Sicurezza un generale potere d’inchiesta “su qualsiasi situazione che
possa portare ad un attrito internazionale o dar luogo ad una controversia”, allo scopo di determinare se la
continuazione della controversia o della situazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento
della pace e della sicurezza internazionale.

L’art. 36.1 Carta N.U. stabilisce che “Il Consiglio di Sicurezza può, in qualsiasi fase di una controversia
della natura indicata nell'articolo 33, o di una situazione di natura analoga raccomandare procedimenti o
metodi di sistemazione adeguati”.
L’art. 37 Carta N.U. prevede poi che: “se le parti di una controversia della natura indicata nell'articolo 33
non riescono a regolarla con i mezzi indicati in tale articolo, esse devono deferirla al Consiglio di Sicurezza.
Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che la continuazione della controversia sia in fatto suscettibile di mettere
in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, esso decide se agire a norma
dell'articolo 36, o raccomandare quella soluzione che ritenga adeguata”.

6.4 L’arbitrato: natura e caratteristiche, principali istituzioni arbitrali

L’arbitrato è uno dei mezzi non diplomatici per la risoluzione delle controversie internazionali. L’arbitrio è la
facoltà di valutare e operare secondo la propria volontà e giudizio. L’arbitrato è una pronuncia resa da una
parte terza vincolante per gli Stati che hanno fatto richiesta. Le caratteristiche dell’arbitrato sono:

1. la volontà degli Stati in lite di rimettere al giudizio di arbitri la soluzione della loro controversia;
2. la scelta degli arbitri (=autorità) (non una precostituzione del tribunale arbitrale);
3. risoluzione della controversia mediante norme giuridiche.
Il secondo elemento, in particolare, è ciò che differenzia maggiormente l’arbitrato dai tribunali
internazionali, nonché maggiore libertà nelle forme procedurali.

Allorché si conviene di sottoporre a giudizio di arbitri una determinata questione, gli stati sono soliti
stipulare un compromesso, nel quale vengono identificati gli arbitri, vengono fissate le questioni sulle quali
essi saranno tenuti a pronunciarsi, viene stabilito il diritto applicabile che di norme è quello internazionale, il
termine entro il quale gli arbitri dovranno pronunciare il lodo (= decisione emessa collettivamente e per
iscritto dagli arbitri di una vertenza – controversia), vengono previste le norme procedurali cui gli arbitri
dovranno attenersi.

La Corte Permanente di Arbitrato è stata creata dalla Convenzione dell’Aja del 1899: non è una vera e
propria Corte, ma consiste in una lista di persone designate dagli Stati contraenti che hanno una notoria
competenza in questioni di Dir.Int., della più alta reputazione morale e disponibili ad accettare i doveri di
arbitrato. Quando due Stati parti della Convenzione intendono iniziare una procedura arbitrale riguardante
una controversia insorta tra loro, essi scelgono gli arbitri all’interno della lista. È un meccanismo per rendere
più agevole agli stati contraenti il ricorso all’arbitrio.

Tale istituto si è trasformato, ai giorni nostri, in un’istituzione che, oltre ad assistenza arbitrale, offre
procedure amministrative e altri mezzi diplomatici [mediazione, conciliazione, commissione d’inchiesta].
Altra importante istituzione arbitrale è l’International Centre for Settlement of Investment Disputes (ICSID):
promosso dalla Banca Mondiale e costituito con la Convenzione di Washington del 1965 col compito di
amministrare arbitrati ad hoc. L’ICSID offre un sistema di risoluzione per quanto riguarda un controversia tra
uno Stato contraente e un individuo avente la nazionalità di un altro Stato contraente , originata da un

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investimento. Il sistema ICSID viene utilizzato in sede di stipulazione di accordi bilaterali sugli investimenti.
Le decisioni prese dall’ICSID sono obbligatorie per gli stati aderenti alla Convenzione. L’investitore
straniero, il quale in caso di controversia con lo Stato ospitante l’investimento, non corre il rischio di doversi
assoggettare alla decisione dei tribunali interni dello Stato ospitante.

6.4.1 “Fortuna” dell’arbitrato e i suoi vantaggi

Con il secondo dopoguerra, l’arbitrato ha trovato popolarità anche perché si è intensificata la prassi grazie
degli arbitrati ad hoc, quindi originati da compromessi, e all’inserimento all’interno dei trattati di una
procedura arbitrale come strumento già direttamente previsto per la soluzione delle controversie tra gli stati
contraenti. Le circostanze, che hanno portato ad uno sviluppo dell’arbitrato, sono:

1. flessibilità garantita dal compromesso e alla possibilità di scegliere un arbitrato nel quale vi sono le
caratteristiche idonee della procedura e degli arbitri in funzione alla controversia insorta tra le parti;
2. celerità degli arbitri rispetto ai tribunali internazionali;

3. la natura dell’arbitrio è tecnica e non politica;


4. la possibilità di impiegare l’arbitrato in controversie coinvolgenti anche attori diversi dagli Stati. Le
principali esperienze invalse nella prassi.
L’arbitrato può riguardare controversie tra Stati e soggetti diversi dagli Stati, compresi gli individui. Questa
caratteristica è importante per quanto riguarda le controversie tipiche del Dir.Int. inerenti al trattamento degli
stranieri. In passato tale gestione era codificata nella c.d. protezione diplomatica, oggi meno usata.

6.5 La Corte internazionale di giustizia: struttura e funzionamento

La Corte internazionale di giustizia rappresenta il tentativo più ambizioso e strutturato di creare una
giurisdizione competente a risolvere le controversie tra Stati.
È succeduta alla Corte permanente di giustizia internazionale [1920], la Corte Internazionale di Giustizia
[art. 92 Carta N.U.] costituisce il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite:

“Essa funziona in conformità allo Statuto annesso che e basato sullo Statuto della Corte Permanente di
Giustizia Internazionale e forma parte integrante della presente Carta”.
La Corte internazionale di giustizia ha sede all’Aja, è composta da 15 giudici, aventi ciascuno nazionalità
diversa, eletti dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea Generale [I giudici sono scelti per avere
un’adeguata rappresentatività di tutte le aree geopolitiche]; giudica a maggioranza in sessione plenaria (=
partecipano tutti i membri).

6.5.1 Funzioni della Corte internazionale di giustizia: la competenza consultiva

La Corte esercita una competenza giurisdizionale in senso stretto, e una competenza consultiva. Quest’ultima
è esercitata su istanza dell’Assemblea Generale o del Consiglio di sicurezza: questi possono richiedere alla
Corte pareri su qualsiasi questione di Dir.Int. .
In sede di procedura consultiva, gli Stati possono partecipare senza formulare quesiti. I pareri della Corte non
sono vincolanti per la parte richiedente.

6.5.2 La funzione giurisdizionale. Le parti in giudizio e la loro legittimazione

Per quanto riguarda la funzione giurisdizionale, solo gli Stati possono essere parti di fronte alla Corte.
Possono essere parte anche gli Stati non membri delle N.U. i quali possono richiedere di aderire allo Statuto
(art. 93 Carta NU).
Articolo 93 Carta N.U.: “Tutti i Membri delle Nazioni Unite sono ipso facto aderenti allo Statuto della Corte
Internazionale di Giustizia. Uno Stato non Membro delle Nazioni Unite può aderire allo Statuto della Corte
Internazionale di Giustizia alle condizioni da determinarsi caso per caso dall'Assemblea Generale su
proposta del Consiglio di Sicurezza”.

L’esclusione dei soggetti diversi dagli Stati, vale a dire le organizzazioni internazionali, dalla giurisdizione
della Corte internazionale di giustizia, genera come conseguenza l’adozione dell’arbitrato come unico
strumento a disposizione delle organizzazioni per risolvere eventuali controversie con gli stati o con altre
organizzazioni internazionali.

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6.5.3 Accettazione della giurisdizione della Corte internazionale di giustizia ad opera degli Stati:
trattati, clausola compromissoria, clausole opzionali e altre fattispecie

Benché solo gli stati abbiano diritto di stare in giudizio dinanzi alla CIG, ciò non implica un loro obbligo di
assoggettarsi alla giurisprudenza di quest’ultima, per il quale è invece richiesto, il consenso degli Stati stessi.
La disciplina al riguardo è l’art. 36 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia: “La competenza
della Corte si estende a tutte le controversie che le parti sottopongono alla Corte, a tutti i casi previsti dalla
Carta N.U, a tutti i casi previsti dai trattati e dalle convenzioni in vigore. Gli stati aderenti al presente
Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria la giurisdizione della Corte su
tutte le controversie giuridiche riguardanti: a) l’interpretazione del trattato; b) qualsiasi questione di Dir.Int.
; c) se accertato, qualsiasi atto che può provocare la violazione di un obbligo internazionale; d) la natura e
la misura della riparazione dovuta per violazione di un obbligo internazionale”.

Spesso si trova nei trattati il rinvio alla giurisdizione della Corte internazionale di giustizia per la risoluzione
di controversie riguardanti l’interpretazione e l’applicazione del trattato stesso. Si ha quindi una clausola
compromissoria completa grazie alla quale, con l’insorgere della lite, uno Stato può citare immediatamente
un altro Stato di fronte alla Corte internazionale di giustizia.

Altre volte gli Stati formulano apposite dichiarazioni unilaterali nelle quali è possibile inserire termini e
condizioni [questa è detta clausola opzionale].

6.5.4 I presupposti per la pronuncia della corte: il momento dell’insorgenza della giurisdizione,
l’esistenza della controversia e altri profili

Per accertare l’esistenza della competenza della Corte internazionale di giustizia, il momento determinante è
quello in cui la controversia ha inizio. Secondo la Corte, la sua giurisdizione va determinata al momento in
cui è Stato depositato l’atto introduttivo del giudizio.
Quanto la competenza della Corte discende da un trattato cui sono parti gli Stati in lite, la Corte può
conoscere della controversia solo se essa riguarda fatti accaduti successivamente all’entrata in vigore del
trattato.

Altro profilo è l’esistenza di una controversia tra Stati. La Corte ha chiarito che una controversia può dirsi
esistente quando: a. esiste un disaccordo in punto di fatto o di diritto; b. tale disaccordo riguarda
l’interpretazione o l’applicazione di norme internazionali su cui la CIG abbia giurisdizione; c. il disaccordo
esiste alla data di deposito dell’atto introduttivo.

6.5.5 Assenza di un obbligo degli Stati di sottoporsi al giudizio della Corte internazionale di giustizia.

Perché gli Stati siano sottoposti alla giurisdizione della Corte internazionale di giustizia, è necessaria
un’accettazione da parte di detti stati, quindi non vi è alcun obbligo per gli Stati a comparire dinanzi alla
Corte se essi non vogliano.
Uno dei principi fondamentali dello Statuto della Corte è quello secondo cui essa non può decidere
controversie fra Stati senza il consenso dei medesimi.

L’accettazione da parte di uno Stato della competenza della Corte è richiesta anche qualora si tratti di
accertare, nei suoi confronti, la violazione degli obblighi erga omnes.
La sussistenza o meno della competenza a decidere non ha alcun riflesso sulla responsabilità internazionale
di uno Stato derivante dal compimento di atti a lui imputabili e lesivi di diritti di altri Stati.

6.5.6 L’intervento di Stati terzi.

Nel giudizio dinanzi alla Corte è prevista la possibilità di intervento da parte di Stati terzi, che abbiano un
interesse di natura giuridica suscettibile di essere toccato dalla decisione del caso. Spetta alla Corte decidere
sull’istanza di intervento. Al riguardo, l’ammissibilità dell’intervento viene rigorosamente collegata
all’effettiva rilevanza della questione per lo Stato terzo, e non dipende dalla posizione al riguardo assunta
dagli Stati parte della lite. Il rigore con cui è valutata un’istanza di intervento va tuttavia esaminato alla luce
dell’art. 59 dello Statuto, a norma del quale la decisione della Corte non ha efficacia vincolante se non tra le
parti e relativamente al particolare caso deciso. Tale disposizione, pertanto, determina un equilibrio del
sistema, consentendo al terzo di intervenire, senza tuttavia diventare parte in senso stretto. D’altronde, non è
esclusa l’ipotesi di estendere anche a terzi intervenienti l’efficacia del giudizio, sussistendo i presupposti in

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capo all’interveniente di assumere la qualità di parte in causa. A volte è la stessa Corte ad invitare Stati terzi
ad intervenire, quando sia in discussione l’interpretazione di una convezione di cui siano parti altri Stati oltre
a quelli in causa.

6.5.7 Il giudizio dinanzi alla Corte.

Il giudizio dinanzi alla CIG comprende due fasi, scritta e orale, quest’ultima comprensiva anche
dell’audizione di testimoni ed esperti. L’accertamento dei fatti di causa si svolge secondo usuali standard
processuali. Negli ultimi tempi il ruolo degli esperti si è evoluto, da semplici consulenti delle parti a esperti
indipendenti, ascoltati ed esaminati dalla Corte e le cui dichiarazioni confluiscono poi integralmente nella
motivazione della sentenza. Le dichiarazioni giurate di membri del governo di uno Stato parte della
controversia vengono valutate con cautela dalla Corte, e lo stesso vale per i materiali probatori preparati
specificamente per la causa e provenienti da un’unica fonte, essendo preferibili prove raccolte all’epoca dei
fatti e provenienti da persone aventi conoscenza diretta di questi. Particolare attenzione è data a prove
affidabili che sono fornite da un rappresentante dello Stato, qualora queste riconoscano fatti o condotte
sfavorevoli allo Stato stesso, ovvero a prove la cui correttezza, anche prima dell’inizio della causa, non è
stata contestata da persone imparziali, ovvero a prove ottenute mediante l’interrogatorio di persone
direttamente interessate, poi controinterrogate da parte di giudici preparati a condurre interrogatori ed esperti
nel valutare larghe quantità di informazioni, anche aventi contenuto tecnico. L’oggetto del giudizio si
determina in relazione al contenuto della domanda instaurata, benché sia consentito alle parti, nei limiti del
rispetto del contraddittorio, precisare le proprie domande e svolgere le relative argomentazioni. A questo
riguardo, con la modifica del 2009 delle Practice directions della Corte, sono stati disciplinati con maggior
rigore la redazione delle memorie scritte e la produzione dei documenti, nonché il passaggio tra la fase scritta
e quella orale, in un’ottica di accelerazione e snellimento degli stessi procedimenti.

6.5.8 Le competenze cautelari della Corte.

Art.41, comma 1 Statuto CIG: “la Corte ha il potere di indicare, ove ritenga che le circostanze lo richiedano,
le misure cautelari che debbano essere prese a salvaguardia dei diritti rispettivi di ciascuna parte”. Le misure
cautelari adottate dalla Corte hanno natura vincolante. Questo strumento è usato con una certa frequenza,
anche in assenza di istanza di parte, fermi alcuni presupposti, tra cui innanzitutto l’urgenza di provvedere.
Come precisato nel caso della Giurisdizione sulle Peschiere (Misure provvisorie), deve essere accertata la
necessità che un pregiudizio irreparabile non sia causato ai diritti controversi nell’ambito della causa. Per
altro verso, la misura cautelare non può essere tale da pregiudicare il merito della causa. Specie negli ultimi
anni, la Corte ha affinato la propria giurisprudenza sui presupposti per la concessione di misure cautelari,
precisando che:

A) i diritti fatti valere dalla parte richiedente debbono essere plausibili;

B) debba esistere un nesso tra il diritto fatto valere nel merito e le misure cautelari richieste.

Inoltre, le misure cautelari possono anche essere modificate o revocate in corso di causa, senz’altro
sull’accordo delle parti e forse anche ex officio dalla stessa Corte. Riguardo le misure cautelari possiamo dire
che la loro adozione può prescindere dalla preventiva definizione di questioni pregiudiziali, quali la stessa
accettazione della giurisdizione della Corte da parte degli stati. Emblematico è il caso delle attività militari e
paramilitari in e contro il Nicaragua (vedi appunti).

6.5.9 Efficacia e ruolo prospettico della CIG nel sistema di risoluzione delle controversie tra Stati.

La Corte resta tuttora il giudice più autorevole sulla scena internazionale, ma la sua funzione giurisdizionale
resta comunque diversa rispetto a quella dei giudici interni. A seguito del caso relativo alle attività militari e
paramilitari in e contro il Nicaragua, reso nel 1984, l’accettazione generalizzata della giurisdizione della
Corte da parte dei membri delle Nazioni Unite è stata rimessa in discussione, mettendo così in crisi il
meccanismo fondamentale previsto nella Carta per risolvere pacificamente le controversie tra Stati. Molti
Stati tuttora si riservano di accettare la giurisdizione, ed è ancora frequente il ritiro delle dichiarazioni di
accettazione a seguito di sentenze sfavorevoli. Anche la durata dei giudizi dinanzi alla CIG certamente non
giova all’efficacia dell’istituzione. Soprattutto preoccupa la frequenza con la quale le pronunce della Corte
non vengono rispettate; quanto sopra vale specialmente per le misure provvisorie.

6.6.1 I tribunali internazionali specializzati.

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La CIG non esaurisce il novero dei tribunali internazionali, che anzi in forma permanente o semi-permanente
si sono notevolmente sviluppati. Tale fenomeno riguarda innanzitutto i numerosi tribunali sorti nel settore
della tutela dei diritti umani, come la Corte europea dei diritti dell’uomo, e le altre corti costituite a livello
regionale sulla base dell’esperienza europea, quali la Commissione e la Corte interamericana dei diritti
dell’uomo, e la Commissione e la Corte africana dei dritti dell’uomo. Riguarda anche le Corti penali
internazionali, come i Tribunali per i crimini commessi rispettivamente nella ex Jugoslavia e in Ruanda, e
soprattutto la Corte penale internazionale. Gli organi per la tutela dei diritti dell’uomo hanno propriamente
una funzione di risoluzione delle controversie tra gli Stati e gli individui. Importante è anche il Tribunale
internazionale del diritto del mare. A livello regionale esistono altri tribunali internazionali, tra i quali va
ricordata la Corte di giustizia dell’Unione Europea. Al suo interno la Corte di giustizia è titolare, tra le altre,
di specifiche competenze volte a: far constare l’eventuale violazione da parte di uno Stato membro dei
trattati istitutivi dell’Unione o degli altri obblighi scaturenti in capo a ciascun Stato membro dall’adesione
all’Unione Monetaria; tese a sindacare la legittimità degli atti, di natura vincolante, adottati dalle altre
istituzioni europee, ovvero la mancata adozione, da parte di alcune di tali istituzioni di atti che invece esse
avevano l’obbligo di adottare. In aggiunta, essa può anche svolgere funzioni di natura sostanzialmente
arbitrale, allorché in forza di un compromesso, le sia stato richiesto di risolvere una controversia insorta tra
gli Stati membri in connessione con l’oggetto dei Trattati europei.

6.6.2 La risoluzione delle controversie all’interno dell’OMC.

Un autonomo e complesso sistema di risoluzione delle controversie esiste anche all’interno dell’OMC, ed è
previsto dal Dispute Settlement Understanding, e cioè il trattato multilaterale, cui aderiscono tutti i membri
dell’OMC, che disciplina appunto tali problematiche. Pur con notevoli peculiarità, col DSU può affermarsi
l’avvenuta costituzione di un tribunale competente a decidere controversie commerciali insorte tra Stati parti
dell’OMC. Si osservava che a livello OMC è centrale il ruolo del negoziato e della consultazione tra le parti
quale strumento pregiudiziale per la risoluzione delle controversie, cui può seguire l’intervento dell’OMC
stessa, le cui istituzioni possono offrire i propri buoni uffici o la conciliazione quando il negoziato tra le parti
sia risultato inutile. Allorché questi strumenti non abbiano avuto esito positivo, ciascuna delle parti in lite
può chiedere la costituzione di un panel di esperti cui devolvere la risoluzione della controversia. I panel
sono stabiliti dal Dispute Settlement Body, cui partecipano tutti i membri dell’OMC, anche se è il Segretario
OMC a provvedere, di regola, alla nomina dei tre membri dello specifico panel competenti a risolvere una
data controversia. La nomina del panel comporta quindi l’inizio di una procedura assimilabile ad un
arbitrato; al termine il panel formula un Report che viene adottato dal DSB. Il Report è impugnabile dinanzi
ad un Appellate Body. Quest’ultimo è un tribunale, costituito ancora una volta dal DSB, composto da sette
membri che siedono permanentemente, ed esercita una giurisdizione di mera legittimità sui Report adottati
dai panel. L’appellate Body applica le norme degli Accordi OMC, ed è vincolato alle dichiarazioni
interpretative date a tali Accordi dalla Conferenza Ministeriale dell’OMC e dal Consiglio Generale, organi
nei quali tutti gli Stati parti dell’OMC sono rappresentati. Come per i Report, le decisioni dell’Appellate
Body sono automaticamente adottate dal DSB salva decisione contraria di quest’ultimo, da assumersi per
consenso.

6.6.3 Controversie OMC e interessi sostanziali in gioco: la partecipazione al giudizio di soggetti non
statali.

Le controversie in seno all’OMC, pur sorte tra Stati, per loro natura e oggetto hanno evidenti implicazioni
sulle imprese e sugli individui. In questa prospettiva, benché il tecnicismo giuridico con cui si risolvono le
controversie in seno all’OMC tenda ad accrescere una sorta di accountability del sistema, in chiave
sostanzialmente indipendente da valutazioni politiche o statali, non sempre è detto che tali interessi
sostanziali risultino adeguatamente rappresentati. Al riguardo, con sempre maggiore frequenza si è posto il
problema dell’intervento di altri terzi, in particolare organizzazioni non governative. Così, nel caso Amianto
(sentenza dell’11 marzo 2001), in cui veniva in rilievo la compatibilità col GATT delle misure adottate dalla
allora CE per impedire le importazioni di amianto o prodotti contenenti amianto, e nel quale numerose ONG
avevano presentato memorie a sostegno delle posizioni delle parti statali in lite, l’Appellate Body adottò un
provvedimento, nel quale si indicavano i requisiti delle memorie eventualmente dichiarate ammissibili. Il
problema dell’intervento di ONG si è riproposto dinanzi al panel istituito in occasione del caso Gamberetti
II, relativo a misure statunitensi che restringevano le importazioni di gamberi provenienti da Stati che
consentivano tecniche di pesca non selettive e quindi idonee ad uccidere le tartarughe. I precedenti poc’anzi
ricordati consentono di desumere una cauta apertura nel senso di una più larga partecipazione ai processi
decisionali di questioni non solo di grande portata ed importanza, quali quelle inerenti al rapporto tra
commercio e altri aspetti rilevanti per il diritto internazionale, ma nelle quali non è sicura la

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rappresentatività, in capo agli Stati parti o intervenienti, di tutti i punti di vista rilevanti. Ciò conferma come
la privatizzazione dei rapporti internazionali comporti rilevanti evoluzioni anche nel sistema della
risoluzione delle controversie internazionali.

7 ILLECITO E RESPONSABILITÀ

7.1 L’illecito quale presupposto della responsabilità

Il Dir.Int., così come il diritto interno, contempla regole volte a disciplinare le conseguenze della mancata
osservanza dell’obbligo internazionale. La commissione di un illecito internazionale, sia esso uno Stato o un
altro ente titolare di posizioni giuridiche soggettive, o di un atto internazionalmente illecito è il presupposto
necessario per l’insorgere di una responsabilità a carico di tale soggetto. La sussistenza di una responsabilità
internazionale comporta:

- in primo luogo, la necessaria definizione delle circostanze in cui un comportamento può definirsi illecito;
- in secondo luogo, un approfondimento del contenuto delle conseguenze che derivano dall’atto illecito.

7.1.1 Norme primarie e norme secondarie

Alle regole di Dir.Int., sulla responsabilità degli atti internazionalmente illeciti, si contrappongono le regole
che impongono o definiscono un obbligo la cui violazione fa sorgere la responsabilità.
Le regole che definiscono le condizioni generali affinché un soggetto si considerato, ai sensi del Dir.Int.,
responsabile dell’azione o dell’omissione illecita sono classificate in :

- Norme primarie: definiscono il contenuto dell’obbligazione violata;


- Norme secondarie: definiscono le condizioni generali affinché un soggetto sia considerato responsabile
dell’azione o dell’omissione illecita, a livello internazionale.

7.1.2 Il contenuto della responsabilità

La “responsabilità internazionale” è una relazione che si manifesta nei rapporti tra lo Stato responsabile e lo
Stato leso, o l’intera Comunità Internazionale, in seguito all’atto internazionalmente illecito dello Stato. Il
contenuto di tale relazione è complesso:
- Obbliga allo Stato responsabile di fornire, o al diritto dello Stato leso di pretendere, una riparazione;

- Comporta la soggezione dello Stato responsabile al potere di coercizione, spettane ad altro soggetto, allo
scopo di ottenere l’adempimento, sanzionare il comportamento illecito e il dovere di riparazione.

7.1.3 La fonte della disciplina della responsabilità e la sua codificazione

La disciplina generale della responsabilità internazionale è posta da regole di diritto consuetudinario: non ci
sono regole pattizie che abbiano inteso regolare la materia in via generale. La disciplina generale della
responsabilità internazionale degli Stati per fatti internazionalmente illeciti è stata oggetto di una complessa
opera di codificazione, fatta dalla Commissione del Dir.Int. delle Nazioni Unite, che ha portato all’adozione
di un Progetto di articoli. Tale progetto è adottato dall’Assemblea ONU come guida della pratica e della
giurisprudenza internazionale.

Il Progetto prende solo in considerazione la responsabilità dello Stato, ma una responsabilità per atto illecito
può nascere in capo ad ogni soggetto di Dir.Int. che violi un obbligo internazionale. I soggetti capaci di
essere titolari di posizioni giuridiche soggettive di Dir.Int. sono i possibili destinatati delle norme che
definiscono se un’obbligazione è stata violata e quali sono le conseguenze della violazione: non solo gli stati
ma ad esempio anche le organizzazioni internazionali.

7.2 Gli elementi costitutivi dell’atto internazionale illecito

La violazione del Dir.Int. da parte di uno Stato comporta la sua responsabilità internazionale: “Ogni
violazione da parte di uno Stato di un’obbligazione, di qualsiasi origine, fa sorgere la responsabilità dello
Stato”.
Quando uno Stato commette un atto internazionalmente illecito nei confronti di un altro Stato, la sua
responsabilità internazionale è immediatamente stabilita nei rapporti tra i due Stati.

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Perché esista una responsabilità internazionale occorre verificare le condizioni per le quali un illecito
internazionale può dirsi esistente; ci sono due elementi che sono ritenuti costitutivi dell’illecito:
a. Attribuibilità dell’atto allo Stato ai sensi del Dir.Int.;
b. Violazione di un obbligo internazionale vigente per lo Stato al momento della commissione dell’atto.

I due elementi costitutivi della responsabilità internazionale sono comunemente indicati come “soggettivo” e
“oggettivo”.

7.2.1 Irrilevanza del diritto interno nella qualificazione dell’illecito

La qualificazione di un atto internazionalmente illecito, nonché l’insorgere di una responsabilità quale sua
conseguenza, dipende dal Dir.Int. a prescinde dalla qualificazione dello stesso come lecito ai sensi del diritto
interno.
Un atto non può essere considerato internazionalmente illecito (e non far sorgere una responsabilità) se esso
non comporta la violazione di una norma di Dir.Int., anche se tale atto è in contrasto con le regole di diritto
interno.

Al contrario, lo Stato non può sottrarsi alla responsabilità internazionale se si pone in contrasto con le norme
internazionali: l’atto che viola una norma di Dir.Int. costituisce un illecito anche se lo Stato era obbligato a
compierlo in base al proprio diritto interno.

7.3 L’elemento “soggettivo” dell’illecito: il principio generale d’attribuibilità di un atto allo Stato

Perché una condotta sia considerata internazionalmente illecita e fonte di responsabilità è necessario che essa
sia attribuibile ad uno Stato o a un soggetto internazionale: le azioni dello Stato sono alla fine “umane” e
bisogna quindi verificare quali persone devono essere considerate agenti per conto dello Stato ai fini della
responsabilità internazionale.

Il principio generale d’attribuibilità di una condotta allo Stato è una regola secondo la quale può essere
riferita allo Stato a livello internazionale solo la condotta dei suoi organi (enti individuali o collettivi
attraverso i quali lo Stato si organizza e agisce): un’azione umana può essere considerata come azione dello
Stato se posti in essere dai membri di un organo dello Stato che abbiano agito in tale qualità. Il diritto interno
e la prassi degli Stati sono di primaria importanza per determinare cosa costituisce un organo dello Stato,
anche perché la struttura dello Stato è determinata dal diritto interno e non dal Dir.Int.

Anche se lo Stato ripartisce al suo interno una serie di organi aventi diverse funzioni, ai fini del Dir.Int. lo
Stato è trattato come singola persona giuridica. La condotta, di qualsiasi organo statale, è considerata come
atto dello Stato ai sensi del Dir.Int.: “in base ad una consolidata regola di Dir.Int., che ha natura
consuetudinaria, la condotta di ogni organo di uno Stato deve essere considerato come atto di questo Stato.
La responsabilità internazionale di uno Stato è impegnata dall’azione degli organi e delle autorità
competenti che agiscono in questo Stato qualunque esse siano. Lo Stato è responsabile per gli atti dei suoi
governanti sia che essi appartengano al potere legislativo, esecutivo o giudiziario, nella misura in cui gli atti
sono posti in essere nella loro veste ufficiale”.

La condotta è attribuibile allo Stato se l’organo in questione agisce in veste ufficiale, anche se al di fuori
della sfera di sua competenza. È attribuita allo Stato la condotta dell’ente che non è ritenuto organo dello
Stato, anche se è autorizzato dal diritto interno ad esercitare il potere di governo: sono gli enti “parastatali” e
gli “enti privati” perché partecipano alla funzione di governo.

Ci sono dei casi in cui la condotta illecita di un organo dello Stato fa sorgere la responsabilità di uno Stato
diverso: ciò avviene quando l’organo di uno Stato (un giudice, un reparto dell’esercito) venga posto a
disposizione di un altro Stato. Se un organo di uno Stato è posto a disposizione di un altro Stato e agisce solo
a favore e per conto di quello Stato, la sua condotta viene attribuita allo Stato per il quale agisce. Tale
meccanismo di attribuzione è escluso nelle situazioni in cui l’organo agisce senza il consenso dello Stato al
quale esso strutturalmente appartiene.

7.3.1 Il comportamento dei soggetti estranei all’organizzazione dello Stato: i privati, gli organi di fatto

Si esclude che la condotta posta in essere da privati in quanto tali possa essere considerata come condotta
dello Stato e che, pertanto, dal contrasto tra condotta del privato ed obbligo internazionale dello Stato possa

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sorgere a carico di quest’ultimo una responsabilità internazionale. Al ricorrete di tale circostanza lo Stato può
essere ritenuto responsabile del comportamento dei suoi organi, se questi non abbiano adempiuto all’obbligo
di assicurare la prevenzione e la repressione dei comportamenti privati.

Una responsabilità diretta relativa alla violazione dell’obbligo internazionale commessa dai privati nasce
solo quando uno Stato, approvando a posteriori il comportamento dei privati, lo faccia diventare come
comportamento proprio.
Il comportamento di enti o soggetti privati che non costituiscono un organo dello Stato può essere attribuito
allo Stato quando questo abbia controllato o diretto l’attività dei privati che abbiano agito in condizione di
totale dipendenza dallo Stato.

L’attribuzione allo Stato di comportamenti di enti diversi dai suoi organi può verificarsi quando il privato
abbia agito in sostituzione dello Stato come in caso di calamità naturali.

7.3.2 La complicità nell’illecito internazionale

Alla questione della complicità nell’illecito internazionale sono rivolte quelle regole di Dir.Int. che
definiscono in quale misura uno Stato può essere ritenuto responsabile per l’atto di un altro Stato.
Ci sono casi in cui insorge una responsabilità dello Stato in relazione ad azioni di un altro Stato, quando c’è
una cooperazione o una coercizione nella commissione dell’illecito.

Caso 1): una responsabilità può nascere per uno Stato che aiuta un altro Stato nella commissione di un atto
internazionalmente illecito: in questo caso lo Stato che presta l’assistenza diventa internazionalmente
responsabile per il proprio comportamento se agisce con la consapevolezza che l’atto è illecito.

Caso 2): deve ritenersi internazionalmente responsabile dell’illecito lo Stato che costringe un altro Stato alla
commissione di un atto illecito. Se l’atto non fosse frutto di coercizione, diventa imputabile allo Stato
costretto a commetterlo, perché diventa un comportamento volontario per lo Stato che commette l’illecito.

7.4 L’elemento “oggettivo” dell’illecito: caratteri del comportamento dello Stato

L’elemento “oggettivo” dell’illecito è dato dal contrasto del comportamento tenuto dallo Stato e quello
richiesto dalla norma (obbligo) internazionale :“si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno
Stato quando un atto di quello Stato non è conforme a quanto gli è richiesto da tale obbligo”. Il
comportamento illecito dipende dal contenuto della norma primaria violata. Il

comportamento illecito può consistere nel non avere raggiunto un risultato richiesto: per definire se 70

un comportamento è illecito è necessario determinare il contenuto dell’obbligo che si assume violato.

7.4.1 Irrilevanza dell’origine dell’obbligo internazionale violato

Al fine della qualificazione come illecito dell’atto contrario al diritto non rileva la fonte dell’obbligo
internazionale violato da parte dello Stato. La responsabilità internazionale sorge per violazione di un
obbligo pattizio, o assunto con atto unilaterale, cosi come un obbligo posto da una norma consuetudinaria,
ovvero nascente da altra fonte.

È tuttavia necessario che l’obbligo che si assume come violato vincoli lo Stato al momento in cui viene posto
in essere il comportamento rilevante. In base al principio di “legalità”, allo Stato non può derivare una
responsabilità internazionale “retroattiva”, collegata ad un fatto che, al momento della commissione, non
poteva ritenersi illecito.

Di converso, si ritiene che l’estinzione della norma violata, non faccia venir meno ma responsabilità
internazionale.

7.4.2 Il carattere della norma violata

Nella qualificazione dell’illiceità della condotta dello Stato, non esiste un illecito internazionale a
prescindere dall’importanza maggiore o minore dell’obbligo internazionale violato. La Commissione del
Dir.Int. ha evitato di distinguere le categorie dei diversi fatti illeciti, vale a dire tra crimini e delitti

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internazionali. Le caratteristiche della norma violata sono irrilevanti per la disciplina della responsabilità
dello Stato, ma sono importanti per quanto riguarda le conseguenze derivanti dall’atto illecito.

7.4.3 Il momento di commissione dell’illecito

Il problema di un certo peso è la determinazione del momento in cui un illecito può dirsi compiuto. L’illecito
può avere carattere “istantaneo” o carattere “continuativo”. Non è solo una classificazione teorica, perché in
base alla serietà e al tempo della violazione può avere peso sulla determinazione della riparazione.

Secondo le regole degli Articoli sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti [2001
Risoluzione Assemblea Generale ONU], la violazione di un’obbligazione internazionale per mezzo di un atto
che non si estende nel tempo, si verifica nel momento in cui ha luogo il comportamento dello Stato.

La violazione di carattere continuativo si estende per l’intero periodo in cui il comportamento si svolge e si
pone in contrasto con l’obbligo internazionale.
La violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale attraverso una serie di atti o omissioni
illecite ha luogo nel momento in cui si verifica quell’azione o omissione che è sufficiente a far qualificare
come illecita la serie di azioni o omissioni.

7.5 La colpa nell’illecito internazionale

Si discute se accanto ai due elementi, soggettivo e oggettivo, sia necessaria la presenza dell’elemento
psicologico della colpa. Una questione a lungo dibattuta riguarda la necessità o meno che sussista la colpa
dell’organo statale autore della violazione.
Con ampia generalizzazione si possono distinguere, in riferimento al problema della colpa, tre tipi di
responsabilità:

1. Dolo - si ha quando l’autore dell’illecito ha commesso quest’ultimo intenzionalmente;


2. Colpa grave - avviene quando l’autore ha commesso il fatto con negligenza, trascurando di adottare le
misure necessarie per prevenire il danno.

3. Responsabilità oggettiva o Relativa: si ha quando la responsabilità sorge per effetto del solo compimento
dell’illecito, ma l’autore di quest’ ultimo può invocare, per sottrarsi alla responsabilità una causa di
giustificazione consistente in un evento esterno che gli ha reso impossibile il rispetto della norma.

4. Responsabilità assoluta: sorge automaticamente dal comportamento contrario ad una norma giuridica e
non ammette alcuna causa di giustificazione
Per quanto gli Articoli, non menzionano la colpa tra gli elementi costitutivi dell’illecito, e sembrino
propendere per un regime oggettivo di responsabilità, deve ritenersi che, in Dir.Int. generale, l’elemento della
colpa possegga un certo rilevo [quanto meno negativo] a proposito dell’insorgere della responsabilità
internazionale dello Stato; in tal senso depone una serie di circostanze di esclusione della responsabilità, che
“scusano” l’inadempimento nel caso in cui l’osservanza della norma sia stata impossibile in tal modo di
riconosce come lo Stato che provi [nei casi e nei limiti indicati] l’assenza di colpa possa andare esente da
responsabilità.

7.5.1 Il danno nell’illecito internazionale

Allo stesso modo si discute se un fatto possa qualificarsi internazionalmente illecito solo se esso provoca un
danno, cioè qualche pregiudizio morale o materiale verso un altro soggetto. Qualsiasi violazione di un
obbligo internazionale comporta necessariamente un danno giuridico. È doveroso escludere che il danno
morale o materiale possa essere inteso come elemento costitutivo dell’illecito.

Ciò detto, la presenza o l’assenza di un danno, quale conseguenza di un atto illecito, non è del tutto
irrilevante nella disciplina della responsabilità internazionale, in quanto essa è idonea a condizionarne il
contenuto, in particolare le modalità di riparazione.

7.6 Le circostanze d’esclusione dell’illiceità

Accanto alle regole che definiscono, in positivo, il carattere illecito di un atto, il Dir.Int. contempla norme
che danno rilievo, in negativo, a una serie di fatti, il cui ricorrere, ha l’effetto di interrompere la relazione

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normale tra il verificarsi di un fatto illecito e la responsabilità del soggetto che ne è l’autore. Le circostanze,
che il Progetto esclude il carattere illecito di un atto, sono: il consenso; la legittima difesa (autotutela); la
legittima contromisura; la forza maggiore; l’estremo pericolo (distress); lo Stato di necessità.

È necessario sottolineare i limiti in cui sono circoscritti gli effetti che discendono dal ricorrere di tali
circostanze.
In primo luogo, dalla sussistenza dell’esimente non deriva di per sé l’estinzione dell’obbligo internazionale
violato: da essa consegue solo l’esclusione della responsabilità.

In secondo luogo, il ricorrere della causa di giustificazione non esclude la eventuale sussistenza di un obbligo
di reintegrazione patrimoniale per i danno comunque causato.

7.6.1 Il consenso dello Stato leso

Se si è ottenuto il consenso del soggetto verso cui sussisteva l’obbligo, tale comportamento è causa
d’esclusione dell’illiceità. Il consenso impedisce l’insorgere della responsabilità del soggetto che ha tenuto il
comportamento nei confronti del soggetto che ha dato il consenso.
Il consenso è valido se è Stato dato liberamente e non risultare viziato dalla coercizione o altro fattore.

L’effetto scriminante del consenso è subordinato ad un duplice limite. In primo luogo il fatto altrimenti
illecito deve rimanere nei limiti del consenso. In secondo luogo, il consenso, per poter

essere considerato esclusione dell’illecito deve essere precedente o contemporaneo al fatto. Infine il
consenso non vale a giustificare un comportamento vietato da norme imperative.

7.6.2 La legittima difesa

Il comportamento illecito contrastante con un obbligo internazionale è escluso qualora attraverso tale
comportamento lo Stato abbia inteso evitare il compimento di un fatto illecito nei propri confronti da parte di
un altro Stato o impedire che un illecito già in atto sia portato ad ulteriori conseguenze, ossia se esso
costituisce una misura di “legittima difesa” (o autotutela).

Tale comportamento è lecito se la legittima difesa è adottata nei limiti (tempo, proporzione, portata) indicati
dal Dir.Int. e riconosciuta dalla Carta N.U.

7.6.3 Le contromisure

Un comportamento illecito non fa sorgere una responsabilità internazionale se esso costituisce l’esercizio
legittimo di una contromisura (o rappresaglia) adottata contro il soggetto nei cui confronti l’osservanza
dell’obbligo era dovuta quale reazione, posta in essere a scopo coercitivo ad un precedente illecito di questo
Stato. La contromisura è un’azione che si ritiene negativa.

7.6.4 La forza maggiore

La forza maggiore è un’altra causa di esclusione di illiceità di un atto contrastante con il Dir.Int. La forza
maggiore è una situazione in cui lo Stato in questione è costretto ad agire in modo contrastante con quanto
richiesto da un obbligo cui è soggetto: lo Stato autore del fatto anche se si rende conto che il suo
comportamento lede un diritto spettante ad un altro Stato non è materialmente in grado di impedire l’evento.

Perché una situazione di forza maggiore sia rilevante per escludere l’illecito deve soddisfare tre condizioni:
1. l’atto altrimenti illecito si produce quale conseguenza di una forza irresistibile o di un evento
imprevedibile;

2. tale forza o evento sono esterni alla sfera di controllo dello Stato;
3. essi rendono materialmente impossibile l’adempimento dell’obbligo internazionale.
La forza maggiore deve comportare l’assoluta impossibilità per lo Stato di adempiere l’obbligo
internazionale.

7.6.5 L’estremo pericolo

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L’illiceità di un comportamento non conforme è esclusa se il suo autore, in una situazione di estremo
pericolo (distress), non aveva altro modo ragionevolmente praticabile di salvare la propria vita e le vite di
altre persone affidate alla sua cura.
A differenza del caso di forza maggiore, la persona che agisce in Stato di pericolo, compie volontariamente
un atto in contrasto con il Dir.Int. anche se la libertà di scelta è annullata è proprio dalla situazione d’estremo
pericolo: l’autore del fatto decide di violare la norma perché si ha un male minore rispetto alla perdita di vite
umane.

7.6.6 Lo Stato di necessità

Lo Stato di necessità: se l’adozione del comportamento in astratto illecito era l’unico modo per salvaguardare
un interesse essenziale dello Stato nei cui confronti era dovuto l’obbligo violato o la Comunità nel suo
complesso. La Corte considera che lo Stato di necessità è un motivo riconosciuto dal Dir.Int. consuetudinario
per l’esclusione dell’illiceità di un atto non conforme ad un obbligo internazionale. Lo Stato di necessità può
essere invocato solo se ricorre una serie di condizioni:

- L’adozione del comportamento in astratto illecito sia l’unico modo per salvaguardare un interesse
essenziale dello Stato nei confronti di un grave ed imminente pericolo: non può essere invocato quindi se lo
Stato in questione aveva a disposizione altri mezzi di salvaguardia, anche se più dispendiosi o meno
convenienti.

- L’atto altrimenti illecito non pregiudichi (=rovinare) seriamente un interesse essenziale dello Stato nei cui
confronti era dovuto l’obbligo violato;
- L’atto altrimenti illecito non pregiudichi la Comunità internazionale nel suo complesso: l’interesse che lo
Stato ha inteso di salvaguardare deve avere quindi un rilievo superiore rispetto agli interessi toccati dal
comportamento dello Stato.

È esclusa l’invocazione dello Stato di necessità se lo Stato ha contribuito alla creazione della situazione di
necessità.

7.7 Le conseguenze dell’illecito

Il Dir.Int. indica le regole da seguire in caso di conseguenze della mancata osservanza dell’obbligo
internazionale.
La commissione di un atto illecito, nel quadro in cui le cause di esclusione dell’illiceità non rientrano l’atto,
produce una serie di conseguenze giuridiche in capo al responsabile (soggetto ad obblighi nei confronti di un
altro Stato / gruppo di Stati / l’insieme della Comunità internazionale), a seconda della natura e del contenuto
della norma violata e delle circostanze del caso.

7.7.1 L’obbligo di cessare il comportamento illecito

L’obbligo di cessare il comportamento illecito spetta alo Stato che ha commesso una violazione
dell’obbligazione internazionale, ossia deve porre fine alle violazioni che si estendono nel tempo. Se le
circostanze lo richiedono, lo Stato ha l’obbligo di offrire assicurazioni e garanzie di non ripetizione del
comportamento illecito.

7.7.2 L’obbligo di riparazione

Lo Stato ha l’obbligo di riparare il pregiudizio sia morale che materiale causato con l’atto internazionalmente
illecito. La violazione comporta l’obbligo di riparare in forma adeguata. La riparazione può consistere: nella
restituzione, nel risarcimento e/o nella soddisfazione: “è un principio di Dir.Int. che la violazione di un
impegno comporta l’obbligo di riparare in forma adeguata. La riparazione deve, nella misura del possibile,
cancellare tutte le conseguenze dell’atto illecito e ristabilire della situazione che sarebbe verosimilmente
esistita se detto atto non fosse stato commesso”.

Inoltre l’obbligo integrale di riparazione non è soggetto a limitazioni derivanti dal diritto interno dello Stato
che vi è tenuto.
Lo stato responsabile di un illecito internazionale è obbligato alla restituzione “in forma specifica “(o in
natura), ossia al ristabilimento della situazione che esisteva prima dell’illecito (status quo ante – situazione
antecedente all’illecito).

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Le modalità e le forme di restituzione dipendono dal contenuto della norma violata e dalle caratteristiche
dell’atto illecito.
La restituzione non è una regola assoluta perché vi possono essere situazioni in cui non è materialmente
possibile oppure il beneficio è talmente piccolo da risultare inferiore a quello derivante da altre forme di
riparazione. Il Progetto esclude quando essa sia materialmente impossibile o comporti un onere
sproporzionato in capo al soggetto responsabile.

Se non è possibili restituire in forma specifica, lo Stato può riparare “in equivalente”. Tale forma di
riparazione consiste nel pagamento allo Stato leso di un ammontare monetario, che corrisponde al

valore stimato della restituzione della forma specifica. Tale somma può essere considerata come
“risarcimento del danno”.
Uno Stato leso ha il diritto di ottenere dallo Stato che ha commesso l’atto illecito il risarcimento del danno da
esso causato.

Il risarcimento deve coprire ogni danno diretto e immediato, che sia determinabile dal punto di vista
finanziario: oltre alla perdita patrimoniale che lo Stato leso ha subito (danno emergente), anche il profitto
non conseguito a causa del fatto illecito (lucro cessante)
Soddisfazione: forma di riparazione che è obbligatoria quando le altre modalità (in forma specifica o per
equivalente) non siano sufficienti a rimediare all’illecito commesso dallo Stato. Non è sufficiente se altre
forme di riparazione sono disponibili. La soddisfazione si realizza come riparazione del danno morale subito
dallo Stato vittima dell’illecito, o del danno giuridico. La soddisfazione può consistere in:

• - Riconoscimento della violazione e del carattere obbligatorio della norma violata;

• - In scuse formali o in qualche altra modalità appropriata.

7.7.3 Le conseguenze della violazione di una norma imperativa di Dir.Int. generale.

Ci sono precise conseguenze nel caso in cui uno Stato sia venuto a meno al rispetto di una norma imperativa
di Dir.Int. (es. divieto d’aggressione) e la violazione sia seria. In questo caso c’è un interesse per l’intera
Comunità internazionale al rispetto della norma violata (art. 40-41 Progetto). Infatti bisogna distinguere:

- obbligazioni di uno Stato nei confronti dell’intera Comunità: queste toccano tutti gli stati e vista
l’importanza dei diritti coinvolti tutti gli Stati possono essere ritenuti avere un interesse giuridico alla
protezione; esse sono obbligazioni erga omnes.
- obbligazioni di uno Stato nei confronti di altro Stato.

Le caratteristiche di tali norme influiscono sulla responsabilità di quello Stato che ha violato: in questo caso,
tutti gli Stati sono obbligati di cooperare allo scopo di mettere fine alla violazione, e inoltre il divieto di
riconoscere come legittima la situazione che si è venuta a creare per effetto della violazione.

7.8 La legittimazione ad invocare la responsabilità dello Stato

Definite le condizioni, che fissano le condizioni in base alle quali sorge la responsabilità internazionale e il
contenuto degli obblighi di riparazione che sono a carico dello Stato responsabile, si tratta di individuare lo
Stato nei cui confronti tale obblighi sono dovuti che è legittimato a invocare il rispetto (in altre parole, lo
Stato che ha subito l’illecito da parte di un altro Stato).

L’art. 42 del Progetto riconosce come parte richiedente il rispetto, lo Stato leso, cioè lo Stato nei confronti
del quale era dovuto il comportamento prescritto dalla norma primaria violata. Ciò riguarda per i casi di
trattato bilaterale o che prevede uno Stato in particolare.
Più complessa è la situazione nella quale lo Stato leso non sia uno, ma un gruppo di stati o l’intera Comunità
internazionale. Ciò riguarda i casi di trattati multilaterali. In questi casi: uno Stato potrà essere considerato
“leso” purché la violazione lo tocchi in modo particolare (es. caso di inquinamento che danneggia parte dello
Stato), o perché la natura del danno sia tale da modificare radicalmente la posizione di tutti gli altri Stati (es.
trattati in materia di disarmo: in cui l’adempimento di ogni contraente è condizionato all’adempimento di
tutti gli altri).

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La messa in opera della responsabilità non è automatica: è condizionata da una effettiva “reazione” da parte
dello Stato legittimato ad invocarla (lo Stato leso). Ma, una semplice protesta non è sufficiente. L’art. 43 del
Progetto prevede che lo Stato leso debba dare comunicazione, in forma

scritto o orale, allo Stato responsabile e deve essere specificata la condotta da seguire per far cessare l’atto
illecito e in quale forma di riparazione deve aver luogo.

7.8.1 La responsabilità nei confronti del privato

Non vi è responsabilità internazionale dello Stato verso gli individui. Gli inadempimenti relativi ad eventuali
violazioni da parte degli Stati dei diritti umani riconosciuti agli individui, deve ritenersi che non esiste una
responsabilità nei confronti del privato e, quindi, i singoli non hanno il potere di invocare la responsabilità
internazionale dello Stato responsabile dell’illecito.

7.9 La reazione all’illecito: le contromisure.

La commissione di un atto illecito dà diritto allo Stato danneggiato di adottare contromisure nei confronti
dello Stato responsabile per ottenere la cessazione dell’illecito e la riparazione. Essa comporta la possibilità
che lo Stato leso violi a sua volta un diritto soggettivo dello Stato autore dell’illecito. Come devono essere le
contromisure:

1. sono legittime se adottate in risposta ad un precedente atto illecito internazionale di un altro Stato e dirette
nei confronti di quello Stato.
2. non possono avere come oggetto l’obbligo di astenersi da:

• - minaccia

• - uso della forza stabilita dalla Carta ONU

• - obblighi di protezione dei diritti umani fondamentali

• - obblighi di carattere umanitario che evitano le rappresaglie

• - ogni obbligo nascente da norme imperative di Dir.Int.


3. sono legittime se proporzionate al danno sofferto dallo Stato leso tenuto conto della gravità
dell’atto illecito e dei diritti coinvolti;
4. devono avere durata limitata perché devono terminare non appena lo Stato responsabile ha
adempiuto all’obbligo di riparazione.

7.10 I regimi speciali di responsabilità internazionale


I sistemi giuridici speciali di Dir.Int. sono quei sistemi nei qual le norme primarie sono collegate a speciali
regole secondarie relative alla responsabilità che deriva dalla loro violazione. Sono sistemi chiamati:
sottosistemi, sistemi oggettivi, autonomi, “self-contained” di Dir.Int.

7.11 La responsabilità internazionale di soggetti diversi dagli Stati: la responsabilità internazionale


delle organizzazioni internazionali
Sebbene gli articoli considerino solo la responsabilità dello Stato, una responsabilità per un atto
internazionalmente illecito può insorgere in capo ad ogni soggetto di Dir.Int. che violi un obbligo
internazionale. Possibili destinatari delle norme che definiscono se un’obbligazione è violata sono tutti i
soggetti capaci di essere titolari di posizioni giuridiche soggettive in Dir.Int.

7.12 Il problema della responsabilità senza illecito.

Si discute da tempo se un qualche regime di responsabilità sia ricollegabile allo svolgimento di attività che,
per quanto non costituiscano violazione di norme internazionali, siano idonee a provocare un pregiudizio ad
altro soggetto; di talché, comunque, sorga a carico dello Stato danneggiante un dovere di tenere indenne lo
Stato leso da tali conseguenze pregiudizievoli. Quali esempi di tali attività sono normalmente indicate quelle
altamente pericolose o inquinanti. L’argomento della responsabilità per atto lecito è da tempo all’attenzione
della Commissione del diritto internazionale. Sulla possibilità di configurare un siffatto regime in diritto

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internazionale generale, peraltro, sono stati avanzati seri dubbi: e pertanto essa appare da escludere. Da un
lato, infatti, risulta difficile distinguere la responsabilità senza illecito dalla responsabilità senza colpa;
dall’altro lato, poi, appare opportuno ripensare alla stessa liceità delle attività con effetti transnazionali
dannosi e ai limiti in cui essa è ristretta. In altre parole, la questione sembra più consistere nell’analisi delle
norme primarie, che definiscono gli obblighi di comportamento degli Stati, che svolgersi in relazione ad un
particolare regime di responsabilità risarcitoria. La stessa Commissione del diritto internazionale ha
approvato un progetto di articoli sulla prevenzione di danni transfrontalieri derivanti da attività pericolose, e
quindi, a partire dal 2003, ripreso l’esame delle questioni relative alla responsabilità internazionale in caso di
danno derivante da attività pericolose. In tali principi, in particolare, si è sottolineata la necessità
dell’adozione di misure da parte degli Stati volte ad assicurare, tra l’altro, pronto ed adeguato ristoro alle
vittime del danno transnazionale.

8 L’USO DELLA FORZA E IL SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA DELLE NAZIONI UNITE

8.1 L’uso della forza nelle relazioni internazionali. Ius ad bellum e ius in bello

Nel Dir.Int. classico l’uso della forza e in particolare della forza armata era considerato appartenere alla
struttura tipica della Comunità internazionale come mezzo “fisiologico” per la soluzione delle controversie di
uno Stato sovrano che coesiste con altri Stati sovrani. La posizione egualitaria degli stati nell’ordinamento
internazionale e l’assenza di un ente capace di imporsi come creatore di diritto e regolatore di conflitti, fanno
si che gli Stati ricorrano alla forza armata: la guerra crea una serie di conseguenze giuridiche tipiche di u
particolare stato dell’ordinamento internazionale, che prende il nome di stato di guerra. Fino alla prima
guerra mondiale, la guerra era una procedura lecita in cui gli Stati belligeranti si collocano su un piano
paritario. In quest’ambito, si crea un gruppo di norme che hanno ad oggetto il modo di fare la guerra e il
comportamento dei belligeranti: diritto bellico e diritto umanitario (ius in bello).

8.1.1 L’affermazione del divieto di ricorrere alla forza nei rapporti tra gli Stati nel diritto pattizio e nel
diritto consuetudinario

Con la prima guerra mondiale ci fu una riflessione su come la guerra potesse mettere in pericolo la stessa
sopravvivenza dell’umanità: da qui si prese l’iniziativa di tentare di abolire il ricorso alla forza armata.
Conseguenza: stipulazione del Patto della Società delle Nazioni.
Il Patto aveva molte lacune, che si aggravarono con l’aumento delle tensioni internazionali sfociate nella
seconda guerra mondiale, la quale segnò anche l’insuccesso della Società delle Nazioni, che si sciolse.

In termini più espliciti la rinuncia alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali è contenuta
nel Trattato di Parigi (Patto Briand-Kellogg - 1928) attraverso il quale le parti contraenti rinunciano alla
guerra come strumento di politica internazionale, condannandone il ricorso come strumento per la soluzione
delle controversie internazionali e come strumento di politica nazionale nei loro reciproci rapporti.

Nel Patto Briand-Kellogg non vi era un organo capace di porsi come valida alternativa: nel giro di poco
tempo con tale carenza riscoppiò la guerra.
Successivamente gli Stati vincitori della seconda guerra mondiale crearono e aderirono alla Carta delle
Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1945. tale Carta ha come priorità quella di “salvare le
future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato
indicibili afflizioni all'umanità”.

Coerentemente con tali finalità la Carta, all’art. 1, elenca i fini delle Nazioni Unite che sono, “mantenere la
pace e la sicurezza internazionale”.
L’obiettivo deve essere conseguito associando al divieto [quasi] assoluto di uso della forza da parte degli
Stati, previsto dall’art. 2.4 [“I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o
dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato,sia in
qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”] con l’obbligo per i medesimi di
“risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza
internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo” [art. 2.3]; dall’altro il monopolio dell’uso della
forza è in capo alle Nazioni Unite secondo il modello del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.

Il divieto dell’uso della forza è ribadito in molte “Dichiarazioni” espressa dall’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite. In particolare, la Dichiarazione relativa ai principi di Dir.Int. concernenti le relazioni
amichevoli e la cooperazione fra stati, in conformità della Carta delle Nazioni Unite.

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Il ricorso alla minaccia o all’uso della forza viene qualificato come violazione della Carta, e quindi del diritto
pattizio, ma anche del Dir.Int. generale, riguardante una norma consuetudinaria.

8.2 La nozione di forza vietata

Il divieto di ricorrere alla minaccia o all’uso della forza non è un divieto assoluto: altre norme consentono
eccezionalmente agli Stati di ricorrere alla forza, es. per legittima difesa.
Per “forza”, si deve intendere l’eccezione in senso lato, ovvero non solo quella di forza vietata dalla norma,
ma anche quella che può identificarsi anche come una minaccia, una forza economica, politica o psicologica,
oppure la forza armata.

Il divieto di applicare per gli Stati misure economiche, politiche o di altro tipo, o incoraggiarne l’uso, al fine
di costringere un altro Stato a subordinare l’esercizio dei suoi diritti sovrani è previsto dalla Dichiarazione
per le relazioni amichevoli, ma non come obbligo che discende dal divieto dell’uso della forza. La
coercizione economica o politica potrà costituire illecito internazionale ma non integra gli estremi di uso
della forza vietato agli Stati.

8.2.1 La forza internazionale e la forza interna

La forza armata il cui uso [e la cui minaccia] è oggetto del divieto consuetudinario è la forza internazionale,
ovvero l’uso della forza “nelle relazioni internazionali” dello Stato agente. Tuttavia l’impiego della forza
armata all’interno dei confini dello Stato non è del tutto indifferente al Dir.Int. perché questa situazione può
determinare degli estremi della minaccia alla pace ai sensi dell’art. 39 della Carta, con conseguente
possibilità per il Consiglio di Sicurezza di adottare misure.

Articolo 39 Carta NU: “Il Consiglio di Sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una
violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano
essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale”.

Il divieto di ricorrere alla minaccia e all’uso della forza nelle relazioni internazionali, obbliga lo Stato a fare
ricorso ai mezzi pacifici per la soluzione delle controversie con altri Stati. Il principio che “le parti di una
controversa si sforzino di trovare una soluzione mediante mezzi pacifici”, è sancito all’art. 39.

8.2.2 Il divieto di minaccia dell’uso della forza

La norma vieta oltre all’impiego della forza, anche la semplice “minaccia”, consistente nell’esplicito
annuncio dell’impiego della forza delle armi al verificarsi o meno di un evento o di una certa data. Non si
esclude che la minaccia possa essere avanzata implicitamente e quindi formulata attraverso comportamenti
concludenti, per mezzo dei quali uno Stato evidenzi la sua volontà di ricorrere in futuro alla forza armata.

8.3 Le eccezioni al divieto. La legittima difesa

Al divieto per gli Stati di ricorso alla forza armata è ammessa l’esistenza di un’eccezione che va sotto il
nome di “legittima difesa o autotutela” e che è prevista dalla Carta all’art. 51: “nessuna disposizione del
presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo
un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia
preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.

Il diritto all’autotutela collettiva o individuale è oggetto di una previsione di Dir.Int. generale, come
riconosciuto dall’art. 51 della Carta, riferendosi al si diritto “naturale dello Stato”.
Tanto il diritto consuetudinario, quanto l’art. 51 subordinano la qualificazione della legittima difesa

alla presenza di taluni requisiti: “le misure prese da Membri nell'esercizio di questo diritto di 78

autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in
alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo la presente Carta, al Consiglio di Sicurezza, di
intraprendere in qualsiasi momento quell'azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la
pace e la sicurezza internazionale”.

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8.3.1 La nozione di attacco armato

Secondo il diritto consuetudinario, non ogni ipotesi di “uso della forza” consente l’invocabilità della
legittima difesa, essendo quest’ultima limitata al caso di “attacco armato”: la nozione di attacco armato
sembra comunque richiedere un certo grado di “intensità quantitativa”.
Le maggiori difficoltà definitorie si incontrano nelle ipotesi di aggressione armata indiretta, ovvero nei casi
di imputabilità allo stato del comportamento di soggetti privati. Si rende necessario distinguere le ipotesi di
invio di gruppi di individui armati non appartenenti alle forze regolari dello Stato agente, dal caso della
semplice assistenza a gruppi ribelli interni. In tali casi l’elemento discretivo è, in ultima analisi, dal controllo
effettivo che sul gruppo di individui viene esercitato dallo Stato agente.

8.3.2 La legittima difesa nei confronti di “attori non Statali”

Al di fuori dell’ipotesi di aggressione indiretta, è dubbio se la legittima difesa possa essere invocata per
giustificare interventi militari in relazione ad un attacco proveniente da privati [forze irregolari, terroristi] che
non siano direttamente controllati dallo Stato verso il cui territorio è diretto l’intervento. Tradizionalmente gli
Stati e le NU non hanno mostrato di condividere il ricorso alla legittima difesa per giustificare attacchi armati
contro Stati ritenuti responsabili di ospitare e proteggere forze irregolari presenti sul territorio.

Le modalità e la gravità dell’attacco dell’11 settembre 2001, non hanno indotto il Consiglio di sicurezza a
qualificare tale atto come un “attacco armato” compiuto dallo Stato afgano; tuttavia, nella risoluzione del
Consiglio di Sicurezza, viene ammessa una reazione agli stessi riconducibile al diritto naturale di legittima
difesa.

8.3.3 I requisiti di necessità e proporzionalità

Nonostante il silenzio dell’art. 51 circa le modalità della reazione all’attacco armato, si ritiene che il diritto
consuetudinario consideri legittima una risposta che abbia i requisiti della necessità e della proporzionalità:
la Carta riconosce il diritto di autotutela, ma non contiene alcuna specifica regola, che consenta nell’esercizio
della legittima difesa, solo misure che siano proporzionali all’attacco armato e necessarie per rispondere ad
esso.

Il principio della proporzionalità è riconosciuto anche dalla Corte internazionale di giustizia, che sembra
riconoscere la legittimità del ricorso all’arma nucleare in sede di autotutela, quale “circostanza estrema di
legittima difesa”.
I requisiti di necessità e proporzionalità non devono però essere intesi in senso formalistico o strettamente
temporale [reazione ad attacchi terroristici; prevenire probabili attacchi futuri].

8.3.4 Il requisito temporale

Requisito cui è subordinata la legittima difesa è quello temporale, con riguardo al momento iniziale della
reazione [si richiede che la reazione sia immediata], quanto al momento finale.
Nella Carta il diritto di autotutela è concepito come fase transitoria, fin quando il Consiglio di Sicurezza non
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.

8.3.5 La legittima difesa preventiva

Non rientra nell’autotutela ammessa dal Dir.Int. generale, ma è una pratica consistente nell’anticipare la
reazione armata, per impedire un attacco armato che si reputa probabile nell’immediato futuro (legittima
difesa preventiva). Nella prassi è stata richiamata raramente tale norma preventiva.

8.3.6 La legittima difesa collettiva

L’art. 51 riconosce il diritto di autotutela allo Stato che direttamente subisce l’attacco armato, ma anche verso
gli altri Stati della Comunità internazionale, nei cui confronti l’attacco non è diretto, ma che sono legittimati
ad agire esercitando il diritto di legittima difesa collettiva.
Ovviamente non c’è una norma che permette l’esercizio di autotutela collettiva in assenza di una richiesta da
parte dello Stato che si considera vittima di un attacco armato.

8.3.7 Consenso dell’avente diritto

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Al di fuori della legittima difesa, un’altra causa di giustificazione per l’uso della forza è costituita dal
consenso dell’avente diritto. Infatti lo Stato titolare del diritto di sovranità territoriale, può acconsentirne la
parziale o totale compressione realizzata mediante l’ingresso sul suo territorio di forze militari straniere.
Affinché il consenso possa giustificare l’uso della forza, occorre che esso venga espresso dal governo
realmente rappresentativo dello Stato nei cui territorio avrà luogo l’intervento.

In tal senso, tuttavia, l’accertamento del consenso all’uso della forza in situazioni di guerra civile, deve
essere effettuato con grande cautela.
Infine il consenso non varrà a giustificare un comportamento vietato da norme imperative, le quali, non sono
suscettibili di deroga da parte di trattati internazionali, e che non possono essere violate invocando la
manifestazione di volontà da parte dello Stato leso.

8.3.8 L’intervento umanitario e la responsabilità di proteggere.

In tempi recenti è andato crescendo un dibattito circa l’ammissibilità nel diritto internazionale generale di un
diritto di intervento umanitario in capo agli Stati singolarmente considerati per reagire alla massiccia
violazione dei diritti umani fondamentali, spesso a danno di gruppi etnici o di minoranze, che si verifica nel
territorio di uno Stato terzo, senza che il sovrano territoriale possa o voglia mettere fine a tali violazioni. E’
nota la progressiva contrazione dell’area consegnata al dominio riservato degli Stati, specie a fronte di
violazioni dei diritti fondamentali dell’individuo, il quale ha assunto nell’ordinamento internazionale una
rilevanza mai conosciuta, sia come destinatario di tutela da parte di norme internazionali che obbligano lo
Stato, sia come titolare di posizioni giuridiche soggettive, suscettibili di protezione giurisdizionale,
all’interno di ordinamenti particolari. Distinto è il fenomeno rappresentato dall’affermazione, negli ultimi
decenni, dell’esistenza nell’ordinamento internazionale di obblighi erga omnes suscettibili di operare non più
su di un piano di tradizionale reciprocità nei rapporti tra gli Stati, ma vincolanti l’intera Comunità
internazionale e, correlativamente, suscettibili di essere fatti valere da un qualsiasi Stato agente. Divenendo
la tutela dei diritti fondamentali della persona oggetto di un obbligo erga omnes, la sua massiccia violazione
consente la reazione da parte di qualsiasi Stato della Comunità internazionale laddove il meccanismo di
sicurezza collettiva delle Nazioni Unite non riesca a funzionare. L’esame della prassi non offre tuttavia
elementi tali da indurre l’interprete a rilevare con certezza o a negare con altrettanta sicurezza l’esistenza di
un diritto di intervento umanitario. In molti casi in cui l’intervento armato contribuì a salvare vite umane e a
porre fine ad una situazione di grave degrado per il rispetto dei diritti dell’uomo, gli Stati che lo effettuarono
si astennero dall’invocare espressamente un diritto di intervento umanitario, spesso preferendo ricorrere
all’istituto della legittima difesa, specie allorché l’iniziativa si collocava in una situazione di conflitto tra lo
Stato interveniente e quello territoriale.

Una prima esplicita ammissione di una dottrina dell’intervento umanitario si ha in seguito alla repressione
irachena nei confronti della popolazione curda nel nord dell’Iraq che provocò, nel 1991, l’intervento armato
di Francia, USA e Regno Unito, i quali imposero all’Iraq anche il rispetto di divieti di sorvolo, a tutela delle
popolazioni interessate. Per quanto la repressione della popolazione civile curda fosse stata condannata dal
Consiglio di Sicurezza nei confronti dell’Iraq, ciò non autorizzava l’impiego della forza da parte degli Stati.
Il Regno Unito, conscio delle difficoltà di giustificare l’operato sulla base di un’autorizzazione implicita
all’uso della forza da parte del Consiglio ricordava che l’intervento umanitario senza il consenso dello Stato
interessato può essere giustificato in casi estremi di bisogno umanitario. Tale precedente è pertanto
significativo.

Le ampie contestazioni che gli interventi umanitari hanno finora sollevato rendono difficilmente ipotizzabile
l’attuale configurazione di una norma consuetudinaria che legittimi l’uso della forza a scopi umanitari.
L’impiego della forza a finalità umanitarie è ancora rimesso alla valutazione del Consiglio di Sicurezza che,
peraltro, può non essere in grado di intervenire per la contraria volontà di un Membro permanente. Non è da
escludere che il sistema stia evolvendo verso la creazione di una nuova causa di giustificazione dell’uso della
forza, la cui attualità dece però essere ancora negata. Quand’anche la regola dell’intervento umanitario
dovesse consolidarsi nella pratica, la liceità dell’impiego della forza dipenderà anche dalle modalità con cui
in concreto gli Stati intervenuti se ne avvarranno. Obiettivo dell’intervento umanitario è quello di far cessare,
o di evitare la catastrofe umanitaria, non certo quello di assicurare la pace e la sicurezza internazionale nella
regione, stabilizzando in qualche modo le relazioni internazionali nel Paese interessato o tra i Paesi
interessati, che è, e resta, obiettivo primario del Consiglio di Sicurezza. Più in generale, la discussa
possibilità di configurare un diritto degli Stati di ricorrere unilateralmente alla forza armata di fronte a serie
violazioni di obblighi erga omnes implica l’affidamento alla valutazione unilaterale degli stessi dell’esistenza
della violazione avverso la quale si intende reagire con l’impiego della forza. Al di fuori della figura

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dell’intervento umanitario, una risposta all’esigenza di elaborare strumenti per consentire alla Comunità
internazionale di reagire contro massicce violazioni dei diritti umani fondamentali è stata ricercata nella
dottrina della responsabilità di proteggere.

8.3.9 L’intervento a protezione dei cittadini all’estero.

L’intervento a protezione dei cittadini all’estero è l’intervento che lo Stato compie nel territorio di un altro
Stato per salvare la vita, o comunque i diritti fondamentali, di propri cittadini senza il consenso dello Stato
territoriale. Il presupposto per l’intervento qui in esame è dato dal venir meno dello Stato territoriale agli
obblighi di protezione che ha nei confronti dello straniero e, quindi, dalla violazione di un diritto che è
esclusivo dello Stato che interviene. La prassi sembra orientata nel senso di ammettere l’intervento a
protezione di propri cittadini, per quanto, secondo altre teorie, esso non assurgerebbe ad autonoma causa di
giustificazione dell’uso della forza, essendo piuttosto l’ipotesi coperta da una più ampia interpretazione della
legittima difesa. Tale prassi consente di confermare l’esistenza di una causa di giustificazione autonoma, la
cui operatività resta subordinata ad alcune condizioni: a) attuale pericolo di gravi violazioni a danno di propri
cittadini; b) assenza di protezione adeguata da parte del sovrano territoriale; c) proporzionalità
dell’intervento all’obiettivo di protezione del cittadino.

8.3.10 Stato di necessità, caso fortuito, forza maggiore, estremo pericolo.

Assai incerta, e comunque limitata, è la possibilità di invocare, per giustificare l’uso della forza, di altre
cause esclusione dell’illecito previste dal diritto internazionale generale, quali lo stato di necessità, caso
fortuito, forza maggiore, estremo pericolo. Quanto allo stato di necessità, lo Stato che agisce in situazione di
necessità realizza un comportamento illecito contro uno Stato che non è responsabile della lesione
dell’interesse essenziale a salvaguardia del quale la forza viene impiegata. La possibilità di invocare lo stato
di necessità è peraltro subordinata alla sussistenza di condizioni rigorose. Queste condizioni non risultano
soddisfatte nel caso dell’uso della forza. Infatti, non soltanto il divieto di uso della forza nelle relazioni
internazionali è sancito da una norma imperativa, ma soprattutto esso mira a salvaguardare proprio un
interesse da reputarsi essenziale per lo Stato nei cui confronti la forza viene usata e per la Comunità
internazionale nel suo complesso. Ciò vale ad escludere la possibilità di invocare lo stato di necessità in
relazione all’impiego della forza armata nei confronti di un altro Stato. Eccezionalmente, la giustificazione in
esame potrà escludere l’illiceità di comportamenti marginali rispetto ai quali il bilanciamento degli interessi
contrapposti dovrà essere effettuato con estrema cautela. Con riferimento al caso fortuito e alla forza
maggiore, si tratta di giustificazioni che sono difficilmente invocabili nel cado del ricorso alla forza armata,
la quale, in generale, presuppone la volontà del suo impiego nelle relazioni internazionali. Quanto infine
all’estremo pericolo, è stata avanzata la sua possibile idoneità a giustificarne l’uso della forza a tutela dei
diritti fondamentali della persona umana. In ogni caso il suo ambito di applicazione è comunque limitato
dalla necessità che l’impiego della forza avvenga per salvare la vita del soggetto che agisce ovvero di
persone affidate alla cura del medesimo.

8.4 Il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite e Consiglio di Sicurezza.

Le Nazioni Unite sono un’organizzazione internazionale di cui sono attualmente membri centonovantatre
Stati. I tre principali obbiettivi dell’Organizzazione sono:

• - mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (art. 1.1 Carta);

• - promozione del principio di autodeterminazione dei popoli (art. 1.2 Carta);

• - protezione dei diritti dell’uomo (art. 1.3 Carta).


“Art. 1 I fini delle Nazioni Unite sono: 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a
questo scopo: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e
per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici,
ed in conformità ai principi della giustizia e del Dir.Int., la composizione o la soluzione delle
controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace. 2.
Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell'eguaglianza
dei diritti e dell'auto-determinazione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace
universale. 3. Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali
di carattere economico, sociale culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il
rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso,

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di lingua o di religione. 4. Costituire un centro per il coordinamento dell’attività delle nazioni volta
al conseguimento di questi fini comuni”.
Nell’ambito della Carta, l’organo cui è affidata la “responsabilità principale” del mantenimento della
pace e della sicurezza è il Consiglio di Sicurezza: ad esso è conferito il potere di adottare misure
anche implicanti l’uso della forza “per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale”.

“Art. 24: 1. Al scopo di assicurare un'azione pronta ed efficace da parte delle Nazioni Unite, i Membri
conferiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale, e riconoscono che il Consiglio di Sicurezza, nell'adempiere i suoi compiti inerenti a
tale responsabilità, agisce in loro nome”.

La composizione del Consigli di Sicurezza è specificata all’art. 23:

“1. Il Consiglio di Sicurezza si compone di quindici Membri delle Nazioni Unite. La Repubblica di Cina, la
Francia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Regno Unito di Gran Bretagna e l’Irlanda
Settentrionale e gli Stati Uniti d’America sono Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. L’Assemblea
Generale elegge dieci altri Membri delle Nazioni Unite quali Membri non permanenti del Consiglio di
Sicurezza, avendo speciale riguardo, in primo luogo, al contributo dei Membri delle Nazioni Unite al
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ed agli altri fini dell’Organizzazione, ed inoltre ad
un’equa distribuzione geografica. (2) I Membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza sono eletti per un
periodo di due anni. Tuttavia nella prima elezione successiva all’aumento da 11 a 15 del numero dei Membri
del Consiglio di Sicurezza, due dei quattro Membri aggiuntivi saranno scelti per il periodo di un anno. I
Membri uscenti non sono immediatamente rieleggibili”.

Dal punto di vista dello status giuridico; la più rilevante differenziazione tra le due categorie di componenti
risiede nel diritto di voto in seno al Consiglio di Sicurezza: i membri permanenti [aventi diritto di veto]; e i
membri non permanenti.
Il Principio maggioritario per le decisioni è disciplinato all’art. 27:

“1. Ogni Membro del Consiglio di Sicurezza dispone di un voto. 2. Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su
questioni di procedura sono prese con un voto favorevole di nove Membri. 3. Le decisioni del Consiglio di
Sicurezza su ogni altra questione sono prese con un voto favorevole di nove Membri, nel quale siano
compresi i voti dei Membri permanenti: tuttavia nelle decisioni previste dal Capitolo VI e dal paragrafo 3
dell'articolo 52, un Membro che sia parte di una controversia deve astenersi dal voto”.

Questa è la c.d. formula di Yalta, per effetto della quale l’adozione di una delibera non meramente
procedurale è subordinata al voto favorevole dei Cinque Membri permanenti [a ciascuno dei quali è
riconosciuto un potere di veto].
La prassi dell’organizzazione ha mitigato la portata della regola, finendo con ammettere la validità delle
deliberazioni adottate con l’astensione di uno o più membri permanenti, rendendo così possibile il
perfezionamento del consenso a livello giuridico, pur permanendo un dissenso a livello politico.

È opportuno ricordare che dalla caduta del muro di Berlino, il Consiglio di sicurezza ha assunto un ruolo,
almeno sul piano formale, più interventista nella gestione delle crisi internazionali.

8.4.1 Il ruolo dell’Assemblea Generale e degli altri organi delle Nazioni Unite.

Nella materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, può assumere il ruolo del
Consiglio un altro organo delle Nazioni Unite, cioè l’Assemblea Generale. Ne fanno parte tutti i membri
dell’Organizzazione con un massimo di 5 rappresentanti per ogni Stato e hanno diritto ad un solo voto.

La composizione dell’Assemblea è disciplinata all’art. 9:

1. L'Assemblea Generale si compone di tutti i Membri delle Nazioni Unite. 2. Ogni Membro ha non più di
cinque rappresentanti nell'Assemblea Generale”.
Mentre le funzioni e poteri sono previsti all’art. 10:
“L'Assemblea Generale può discutere qualsiasi questione od argomento che rientri nei fini del presente
Carta, o che abbia riferimento ai poteri ed alle funzioni degli organi previsti dal presente Carta o, salvo
quanto disposto dall'articolo 12, può fare raccomandazioni ai Membri delle Nazioni Unite od al Consiglio di

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Sicurezza, o agli uni ed all'altro, su qualsiasi di tali questioni od argomenti”. L’Assemblea Generale non ha
il potere di adottare atti giuridici obbligatori (tranne che per la competenza in materia di bilancio) essendo i
poteri dell’Assemblea limitati alla sola formulazione di raccomandazioni, quindi atti non obbligatori, sia per
i Membri sia per il Consiglio di Sicurezza.

Inoltre l’art. 11 com. 2:

“L'Assemblea Generale può discutere ogni questione relativa al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale che le sia sottoposta da qualsiasi Membro delle Nazioni Unite”.
La Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto legittima la competenza dell’assemblea generale ad adottare
o raccomandare misure coercitive (obbligatorie) finalizzate al mantenimento della pace e della sicurezza.
Qualsiasi questione del genere (mantenimento della pace e della sicurezza) per cui si renda necessaria
un'azione deve essere deferita (sottoposta) al Consiglio di Sicurezza da parte dell'Assemblea Generale, prima
o dopo la discussione.

Altri organi dell’Organizzazione sono:


1. Segretario Generale: è nominato dall’Assemblea su proposta del Consiglio di sicurezza, è l’organo
esecutivo dell’organizzazione;
2. Corte internazionale di giustizia: è il principale organo giudiziario delle NU; è composta da 15 giudici con
mandato di 9 anni; ha sia la competenza contenziosa per la soluzione delle controversie tra Stati, sia una
funzione consultiva in quanto può dare pareri su qualsiasi questione giuridica all’Assemblea generale o al
Consiglio di sicurezza o ad altri organi su autorizzazione dell’assemblea; i pareri non sono però né
obbligatori, né vincolanti. Nella materia del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale alla
Corte non spetta particolari funzioni.

8.5 Gli atti del Consiglio di Sicurezza nell’ambito del Capitolo VII della Carta.

I poteri del Consiglio di sicurezza consistono accertamento dell'esistenza di una minaccia alla pace, di una
violazione della pace, o di un atto di aggressione, fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere
prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.

La costatazione di una delle tre situazioni sopra descritte è prodromica ad un intervento attivo nella crisi, che
può manifestarsi:
- misure provvisorie: finalizzate ad evitare ulteriori aggravamenti della situazione. Una tipica misura
provvisoria è il “cessate il fuoco” [Art. 40: Al scopo di prevenire un aggravarsi della situazione, il Consiglio
di Sicurezza prima di fare le raccomandazioni o di decidere sulle misure previste all'articolo 41, può invitare
le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili].

- misure non implicanti l’uso della forza armata: il Consiglio può raccomandare o decidere l’adozione di
misure sanzionatorie nei confronti di uno Stato non implicanti l’uso della forza armata [Art. 41: Il Consiglio
di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l'impiego della forza armata, debbano essere adottate
per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure].

- misure implicanti l’uso della forza armata: se le misure non implicanti l’uso della forza armata sono
valutate inidonee, il Consiglio può intraprendere misure implicanti l’uso della forza armata [Art. 42: Se il
Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell'articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate
inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per
mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale].

L’articolo prevede le ipotesi del ricorso alla forza contro uno Stato colpevole di aggressione,

minaccia o violazione della pace internazionale oppure anche all’interno di uno Stato (guerra civile). 82

Il Consiglio, infatti, può eseguire azioni di polizia internazionale, mediante delibere operative, con le quali
non esorta, ma agisce direttamente. Le modalità dell’azione del Consiglio di Sicurezza si formano sulla base
di accordi.

8.6 L’accertamento della minaccia alla pace, della violazione della pace e dell’atto di aggressione.

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Il Consiglio di Sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un
atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli
articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Assumono così rilievo tanto
situazioni “internazionali”, quali un crescente stato di tensione tra due Stati, quanto situazioni puramente
“interne”, anch’esse idonea a produrre un turbamento della pace e della sicurezza internazionale della
regione.

La minaccia alla pace è una nozione estesa e dai contorni indefiniti, ravvisabile senza dubbio nella violazione
di obblighi internazionali erga omens, quali:

• - Politica di segregazione razziale;

• - Rovesciamento di un governo;

• - Massiccia violazione dei diritti umani all’interno dello Stato

• - Terrorismo internazionale.

8.7 Le misure provvisorie

Accertata la sussistenza di una situazione contemplata all’art. 39 della Carta, il Consiglio di Sicurezza può
“invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o
desiderabili” [art. 40].
Le misure provvisorie hanno una tipica finalità cautelare, nel senso che non mirano a pregiudicare la
soluzione definitiva della controversia.

Le misure provvisorie devono essere adottate prima di fare le raccomandazioni o di decidere sulle misure
previste all'articolo 41, e quindi dovrebbero essere antecedenti all’adozione di misure sanzionatorie.
Le misure provvisorie non hanno carattere vincolante e come tali devono essere qualificate come
“raccomandazioni” ai sensi dell’art. 39. L’assenza di un carattere vincolante è precisato nell’art. 40 secondo
cui il Consiglio “può invitare le parti interessate ad ottemperare” alle misure provvisorie. Ovviamente, il
mancato accogliemmo della misura raccomandata verrà tenuto “in debito conto” dal Consiglio ai fini delle
successive valutazioni.

8.8 Le misure non implicanti l’uso della forza

Nelle situazioni di minaccia alla pace, violazione della pace o di aggressione, il Consiglio è abilitato ad
adottare misure a carattere sanzionatorio verso il soggetto responsabile della minaccia o della violazione.
L’art. 41 prende in considerazione le misure “non implicanti l’uso della forza armata” (short of war).
L’assenza al ricorso all’uso della forza armata è la sola caratteristica che la norma impone alle misure ex art.
41.

La prassi evidenzia un frequente ricorso al blocco, totale o parziale, delle relazioni economiche del Paese
interessato, attraverso forme di embargo (vengono sospesi i rapporti commerciali con determinati paesi in
occasione di crisi internazionale).
Le minacce alla pace rappresentate dal terrorismo internazionale hanno chiesto da parte del Consiglio di
Sicurezza l’adozione di misure non implicanti l’uso della forza armata, ma misure finalizzate a distruggere le
risorse finanziarie che alimentano le attività delle organizzazioni terroristiche.
Le misure non implicanti l’uso della forza possono essere sia delle raccomandazioni che delle decisioni
vincolanti per gli Stati membri. Il Consiglio può decidere quali misure devono essere adottate.

[Art. 25: I Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di
Sicurezza].

8.8.1 I tribunali penali internazionali

Misura fortemente atipica rispetto alla prassi dell’art. 41 è l’istituzione di due tribunali penali internazionali
per giudicare i responsabili di gravi violazioni di diritto umanitario internazionale commesse nel territorio
della ex Jugoslavia e nel Ruanda:

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• - Tribunale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia;

• - Tribunale internazionale per il Ruanda.

8.9 Le misure implicanti l’uso della forza.

Secondo la prospettiva della gradualità, nel caso in cui le misure non implicanti l’uso della forza siano
inidonee a conseguire l’obiettivo di mantenere o restaurare la pace, il Consiglio può adottare misure
implicanti l’uso della forza armata in base all’art. 42: Il Consiglio può intraprendere, con forze aeree, navali
o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.
Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o
terrestri di Membri delle Nazioni Unite.

8.9.1 Il ricorso alla forza “autorizzata”

La fine della Guerra Fredda ha dato vita ad una prassi apparentemente incompatibile con il sistema degli art..
43 e seguenti, consistente in un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza agli Stati Membri ad usare la forza
per conseguire l’obiettivo indicato dal Consiglio medesimo.
La Carta prevede l’autorizzazione all’uso della forza solo per le organizzazioni internazionali a carattere
regionale (es. NATO) le cui finalità siano conformi ai fini e ai principi delle Nazioni Unite. Nella prassi,
l’autorizzazione è diretta agli Stati i quali impiegano la forza militare non sotto il controllo del Consiglio, ma
vengono stabilite autonomamente le modalità operative.

La prassi ha evidenziato che gli Stati ricorrono a tale metodo non solo a fronte di violazioni di obblighi erga
omnes, ma anche nelle ipotesi di violazioni al divieto dell’uso della forza.

8.9.2 L’inammissibilità di un’autorizzazione implicata

L’autorizzazione deve essere formulata esplicitamente dal Consiglio. Nelle situazioni di minaccia alla pace o
violazione della pace, non possono essere interpretate come contenenti un’autorizzazione implicita agli Stati
ad utilizzare la forza.

8.10 Le misure di peace-keeping

Di fronte all’impossibilità di funzionamento del meccanismo prefigurato dagli artt. 43 e 47, generata
soprattutto dalle difficoltà registrate dalla politica internazionale durante la Guerra Fredda, le NU hanno
elaborato modelli alternativi di intervento per fronteggiare le crisi internazionali.
Tra questi modelli spiccano le c.d. operazioni di peace-keeping [caschi blu], che esordirono tra gli
schieramenti armati di Egitto e Israele nel conflitto del 1956.

Per le forze di peace-keeping l’uso delle armi è generalmente vietato, salvo il ricorrere di situazioni di
legittima difesa. L’intervento di tali forze è subordinato al consenso dello Stato territoriale e il suo contegno è
improntato alla massima neutralità. La composizione è formata da contingenti messi a disposizione dagli
Stati, su richiesta del Segretario generale, previa stipulazione di accordi. Dal punto di vista della catena di
comando l’operazione è deliberata dal Consiglio di Sicurezza che ne mantiene la responsabilità politica e
incarica il Segretario Generale per la sua attuazione.
A partire dagli anni novanta, in relazione alla maggiore vitalità del Consiglio di Sicurezza, il ricorso al
modello di peace-kepping è andato crescendo di intensità e assumendo modalità inedite.

Sono state così individuate operazioni di prima, seconda e terza generazione, ovvero, operazione di Post-
conflict peace-building e di paece enforcement, che si affiancano a quelle tradizionali. La distinzione è data,
nella c.d. operazioni di seconda generazione, da un mandato che investe, oltre ad obiettivi di tipo militare,
anche finalità di ordine sociale e umanitario [anche l’organizzazione di libere elezioni]. Nel peace-keeping di
terza generazione, il mandato non è più quello di meramente garantire, attraverso la presenza militare
inattiva, il cessate il fuoco, ma di conseguire la pacificazione di un’area ovvero un obiettivo di soccorso
umanitario anche attraverso l’impiego della forza armata.

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Concludendo si può affermare che l’emersione degli obblighi erga omnes e la discussa legittimità di azioni
degli Stati nell’interesse collettivo della dell’intera Comunità internazionale dà luogo all’affermarsi di un
certo unilateralismo nella gestione delle crisi, il quale ha inciso nel rapporto tra gli Stati e le NU sotto diversi
punti di vista.

Da un lato, ha introdotto la prassi delle autorizzazioni all’uso della forza da parte degli Stati al di fuori del
Comando ONU, sino ad ammettere deleghe in bianco, dall’altro va creando nuovi modelli di peace-keeping,
sempre più incisivi, che spesso si affiancano all’azione unilaterale, per la realizzazione di valori che vanno al
di là della mera affermazione della pace.

9 L’INDIVIDUO E LA TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI.

SEZ. PRIMA - La condizione giuridica dell’individuo e la tutela dei suoi diritti.

9.1 La personalità internazionale dell’individuo:tradizione ed evoluzione

Il tema della personalità e condizione giuridica dell’individuo nel Dir.Int. è tradizionalmente esaminato come
uno dei profili problematici della teoria dei soggetti ovvero come il tema principale intorno al quale ruota la
teoria dei diritti dell’uomo nel Dir.Int.
La rilevanza assunta dalla tutela dei diritti dell’uomo connessa al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale, ha come conseguenza l’affermazione della personalità internazionale dell’individuo o di una
personalità limitata, circoscritta alla soddisfazione di esigenze peculiari, manifestatasi nell’evoluzione del
Dir.Int., che protegge e sanziona direttamente, senza la necessità di intermediazione dello Stato, i diritti
dell’uomo. Si tratta di una titolarità di diritti o personalità funzionale, che ritiene soddisfatta la protezione
non solo sul piano sostanziale, ma anche su quello giurisdizionale, diversamente dall’orientamento che nega
all’individuo una personalità a livello internazionale generale.

9.1.1 Metodo di indagine

L’indagine che segue assume come punto di riferimento la tutela dei diritti della persona e la distinzione del
Dir.Int. umanitario e di quello dei diritti dell’uomo.
La condizione dell’individuo è oggetto di un insieme di strumenti internazionali che tutelano i diritti della
persona a livello internazionale universale o regionale, così definendo uno status o condizione dell’individuo
sufficientemente precisa.

Alle considerazioni di tipo sostanziale si aggiungono quelle giurisdizionali, ovvero quelle relative alla tutela
giudiziaria e processuale dei diritti in questione.
Il vasto movimento internazionale a favore della perseguibilità e punibilità dei crimini internazionali, lesivi
dei diritti fondamentali, ha condotto all’istituzione di tribunali penali internazionali.

9.2 La protezione dell’individuo: “diritto umanitario”e “diritti dell’uomo”

Le norme internazionali di diritto umanitario e dei limiti dell’uomo, pur avendo identità di scopo e matrici
ideali comuni, si sono sviluppate in tempi diversi.

9.2.1 La nozione di Dir.Int. umanitario

Il Dir.Int. umanitario, si può definire come l’insieme di norme consuetudinarie e patrizie che hanno per
oggetto la limitazione della violenza bellica [c.d. diritto dell’Aja] e la protezione delle vittime di guerra [c.d.
diritto di Ginevra].
L’elaborazione di queste norme è nata con lo scopo di regolare la condotta dei belligeranti proibendo loro di
ricorrere a quei metodi e mezzi di guerra che causano danni superflui senza giustificazioni di carattere
militare.

L’esigenza di porre al centro del diritto umanitario, la protezione della persona è sorta dopo la seconda guerra
mondiale e cioè quando la comunità internazionale, ha inteso adottare strumenti, volti a prevenire il ripetersi
di gravi violenze.
La codificazione, incentrata sulla limitazione della violenza bellica, che precede i conflitti mondiali, trova la
sua massima espressione nella Conferenza dell’Aja del 1899 e del 1907. Risalgono alla conferenza del 1899
varie convenzioni fra le quali, la convenzione per il regolamento pacifico delle controversie internazionali.

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La Convenzione d Ginevra del 1864 è la prima cui si deve la promozione ed elaborazione delle successive
convenzioni e protocolli sulla protezione dei feriti e malati nella guerra terrestre, tra cui: quella relativa
all’assistenza dei feriti e malati di guerra; quella sul divieto dell’impiego di gas asfissianti, tossici e armi
batteriologiche.
La distinzione tra diritto dell’Aja e diritto di Ginevra sta nel fatto che il diritto dell’Aja riguarda l’attività
militare, mentre il diritto di Ginevra riguarda l’assistenza e accoglienza dei feriti. Distinzione che però non
sembra essere più attuale ed adeguata in quanto ha perso significato e utilità.

9.2.2 La nozione dei diritti dell’uomo

I diritti umani, o “diritti dell’uomo” hanno trovato un iniziale riconoscimento negli ordinamenti nazionali
che, a partire dalla fine del ‘700, hanno riconosciuto ai singoli individui dei diritti cui corrispondono obblighi
dello Stato.
Grazie ad alcune codificazioni, come la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e
delle libertà fondamentali, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Carta Africana dei diritti
dell’uomo e dei popoli, i diritti dell’uomo hanno superato l’originaria collocazione negli ordinamenti interni
cessando di appartenere alla sfera della giurisdizione esclusiva, ponendosi su di un piano interstatale e
imponendo obblighi alla reciprocità della concessione e godimento.

La Dichiarazione adottata a conclusione della conferenza mondiale dei diritti dell’uomo [1993 Vienna]
esprime una valutazione complessiva secondo la quale, “tutti i diritti dell’uomo sono universali,
indissociabili, interdipendenti e intimamente connessi. La Comunità internazionale deve trattare i diritti
dell’uomo in modo globale, corretto ed equilibrato, riconoscendo la stessa importanza. È dovere degli Stati,
quale che sia il loro sistema politico, economico e culturale, promuovere e proteggere tutti i diritti dell’uomo
e le libertà fondamentali”.

9.3 L’ambito di applicazione delle norme in materia

L’ambito di applicazione delle norme umanitarie, sotto il profilo temporale e soggettivo.

9.3.1 Ambito temporale soggettivo.

Per quanto riguarda questo profilo, si afferma che il diritto umanitario si applica in tempo di guerra mentre i
diritti dell’uomo si applicano in tempo di pace. Questa distinzione è semplicistica, poiché i diritti umani
hanno carattere generale rispetto al diritto umanitario in tempo di guerra. Sotto il profilo soggettivo, la
disciplina dei diritti umani investe i rapporti che intercorrono tra Stato e persone (suoi cittadini) poiché essa
ha lo scopo di tutelare l’individuo nei confronti del governo dello Stato stesso. L’individuo, beneficiario delle
norme di entrambe i sistemi, viene in rilievo sotto vari aspetti. Infatti, nel caso di diritti umani, gli sono
attribuiti diritti “Attivi” o soggettivi, che può vedere tutelati o ottenerne garanzia e rispetto. Gli stranieri, poi,
possono ottenere la tutela dei propri diritti attraverso l’istituto della protezione diplomatica.

Con l’espressione Diritto Umanitario, invece si considera l’individuo come Soggetto Passivo proteggendolo
in quando Vittima nell’ambito dei conflitti armati.

9.3.2 Il riconoscimento di diritti allo Straniero

Questo è uno dei profili più significativi dell’evoluzione dei diritti dell’uomo. La maggiore considerazione
per questa materia ha inciso in ambito soggettivo che non prevedeva nessun obbligo per uno Stato nei
confronti dello Straniero (obbligo di protezione diplomatica), obbligo inteso solo nei confronti dei propri
cittadini.

9.3.3 La protezione Diplomatica

Una visione moderna che tiene conto dei diritti dell’individuo, che pur rivolgendosi al proprio Stato perché
faccia valer i propri interessi e diritti nei confronti dell’altro Stato che li abbia violati, è affermata in epoca
recente dalla Corte Internazionale che conferma l’evoluzione di questo istituto. Secondo tale Corte, lo Stato,
deve essere considerato un giudice che decide se concedere la protezione dello straniero, in quale misura lo
farà e quando cesserà tale protezione.
L’evoluzione dell’istituto delle protezione diplomatica viene confermata anche dal progetto di articoli sulla
protezione diplomatica, adottato nell’ambito del processo di codificazione delle norme di Dir.Int. promosso

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dalla Commissione di Dir.Int. delle N.U. dove si tiene conto dei diritti della persona in quanto tale, piuttosto
che di quelli del cittadino o del paese di appartenenza di esso.

Secondo un’impostazione tradizionale, l’esercizio della protezione diplomatica in caso di violazione di un


diritto commessa da uno Stato straniero all’estero nei confronti del cittadino costituiva una prerogativa
statale che veniva esercitata dallo Stato di origine. Oggi tale impostazione è cambiata e l’individuo in quanto
tale è destinatario diretto di alcune norme primarie del Dir.Int. generale e speciale, che ne tutelano la
posizione sia nei confronti dello Stato d’origine, sia di quello straniero.

9.3.4 Il riconoscimento di diritti civili, politici, economici e sociali: diritti essenziali, diritti economici e
sociali

La lettura in chiave “moderna” dei diritti dello straniero, ovvero la definizione dello standard di trattamento
dello straniero, è influenzata dal Dir.Int. dei diritti dell’uomo che integra o si sostituisce alle norme di
trattamento.
L’elaborazione della condizione dello straniero si è evoluta grazie al rilievo attribuito al principio di non
discriminazione, che insieme a quello dell’uguaglianza rappresenta uno dei principi cardine del sistema
internazionale dei diritti umani.

Il sistema dei diritti umani si basa sulla premessa che tutte le persone debbano godere di tutti i diritti umani,
essendo ammesse eccezioni solo nelle ipotesi in cui la distinzione tra cittadini e non cittadini sia funzionale
ad uno scopo legittimo.

9.3.5 Diritti essenziali e diritti del migrante

Non tutti i diritti civili, politici e sociali sono “diritti dell’uomo” riconosciuto allo straniero, distinguendo i
diritti civili (essenziali) che corrispondono a valori universalmente riconosciuti indipendentemente dallo
status o dalla qualifica dell’individuo, dagli altri diritti civili e cioè da quelli di natura economica e sociale,
restando comunque esclusi quelli politici [tipica espressione del rapporto fra lo Stato e il proprio cittadino].

Vengono riconosciuti come diritti essenziali, il diritto alla vita, alla sicurezza, alla libertà della persona, ma
anche il diritto a non essere ridotto in schiavitù, a non essere sottoposto a tortura a trattamenti crudeli,
disumani e degradanti.
Un aspetto di crescente attenzione nella definizione dei diritti essenziali riguarda lo status del migrante
irregolare. Malgrado il potere sovrano di controllare le frontiere, viene sempre più affermandosi un nucleo di
diritti che non possono essere “compressi” dallo Stato per finalità di politica migratoria, a maggior ragione se
si tratta di applicare misure limitative della libertà personale. In tali casi la tendenza è quella di far prevalere
la protezione umanitaria e la natura essenziale di tali diritti.

9.3.6 Diritti economici e sociali: limiti

Poiché è prerogativa di ogni paese la facoltà di disciplinare sia il proprio sistema economico, sia l’accesso
attivo al lavoro il loro riconoscimento allo straniero, è subordinato alla presenza di disposizioni presenti negli
ordinamenti nazionali o in norme patrizie.
Il diritto di proprietà del singolo, da un lato, e il diritto dello Stato di espropriare e nazionalizzare per
determinate finalità, rappresentano un esempio di diversa valutazione di interessi individuali e collettivi, ove
rilevano, a seconda delle circostanze storiche e temporali, le diverse impostazioni ideologiche e politiche.
Tale diversa impostazione si rileva tra la matrice dei diritti dell’uomo propria dei paesi occidentali, rispetto a
quella dei paesi socialisti e dei paesi in via di sviluppo.

9.3.7 I diritti erga omnes

La distinzione tra diritti di diversa natura e diverso contenuto, è delineata dalla giurisprudenza internazionale
trattandosi di distinzione fra obblighi individuali dello Stato e obblighi generali (erga omnes) nei confronti
dell’intera comunità internazionale nel suo insieme.
Quando gli interessi della persona sono di natura essenziale o di fondamentale importanza, quali il diritto alla
vita e alla libertà, le norma che li proteggono “sono in qualche modo simili alle norme di Dir.Int. concernenti
la protezione dei diritti dell’uomo”.

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Sull’esistenza di questi obblighi erga omnes, si è pronunciata la Corte Internazionale di Giustizia definendo
un nucleo essenziale di diritti universalmente riconosciuti.

9.4 Le strutture e i meccanismi di controllo per garantire l’effettività dei diritti umani

Il tema dei meccanismi che garantiscono il rispetto dei diritti dell’uomo e degli strumenti che garantiscono
l’effettiva azionabilità degli stessi, rappresenta l’aspetto dinamico ed evolutivo, consentendo la verifica della
rilevanza e dell’applicabilità effettiva di tali diritti. Esso rappresenta anche l’aspetto problematico per
l’ordinamento internazionale che, se da un lato ha attribuito diritti autonomi sul piano sostanziale, non và
però oltre, mancando di un’autonomia sul piano processuale e delle garanzie.

9.4.1 L’attività delle Nazioni Unite: a) la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; b) i patti
internazionali; c) altri atti

L’atto che segna una grande svolta nella materia dei diritti umani, è lo Statuto delle Nazioni Unite con
l’affermazione di quei diritti che il nazismo e la seconda guerra mondiali, avevano violato. Infatti, l’art. 1
della Carta indica quali sono i fini delle Nazioni Unite, e cioè il mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale, la decolonizzazione in campo economico e politico, e la tutela dei diritti dell’uomo.

La prassi dell’Organizzazione ha dimostrato come la materia non abbia una propria autonomia, ma sia
strumentale agli scopi dell’Organizzazione stessa: il rispetto dei diritti dell’uomo, è un fattore che
condizionalo sviluppo economico e sociale degli Stati più poveri o quale presupposto per
l’autodeterminazione dei popoli. Proprio per questa “trasversalità” la materia non è più di competenza
esclusiva dell’Assemblea Generale o del Comitato economico e sociale.

È importante anche sottolineare che qualora la violazione dei diritti dell’uomo sia motivo di minaccia alla
pace, non può essere escluso l’intervento del Consiglio di sicurezza in virtù del VII Capitolo della Carta.

9.4.2 La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

Punto centrale dell’attività promossa dalle Nazioni Unite, è la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo,
adottata il 10 dicembre 1948. Tale Dichiarazione, poggia su quattro pilastri:
1. DIRITTI DELLA PERSONA (diritto alla vita, all’uguaglianza);
2. DIRITTI CHE SPETTANO ALLA PERSONA NEI SUOI RAPPORTI CON I GRUPPI SOCIALI AI
QUALI PARTECIPA (diritto alla riservatezza della propria vita, di sposarsi, di proprietà);

3. DIRITTI POLITICI(libertà di pensiero);


4. DIRITTI CHE SI ESERCITANO NEL CAMPO ECONOMICO E SOCIALE (diritto al lavoro, ad un equa
retribuzione).
La Dichiarazione, sottolinea che la libertà e i diritti possono essere pienamente realizzati solo se verrà
instaurata una struttura sociale che ne permetta lo sviluppo. Per quanto di natura non vincolante, tale
dichiarazione rappresenta la base giuridica e politica degli atti di diritto umanitario successivi. Essa
costituisce un punto di riferimento della prassi comunitaria internazionale, promuovendo e stimolando
iniziative che, nel quadro delle organizzazioni internazionali e regionali, sono tradotte in norme obbligatorie.

9.4.3 I patti internazionali

I due Patti internazionali, del 1966, rispettivamente sui “diritti civili, politici” e sui “diritti sociali ed
economici” hanno lo scopo di individuare una soglia minima di tutela di questi diritti, ferma restando la
prevalenza di norme interne o internazionali, più rigide, e dunque più favorevoli alla tutela dei diritti della
persona. Entrambi i Patti, sanciscono all’art. 1 il diritto all’autodeterminazione per tutti i popoli, all’art. 2
il divieto alla discriminazione e all’art. 3 l’uguaglianza fra uomo e donna.

Il Patto sui diritti civili e politici istituisce il Comitato dei diritti dell’uomo, organo di controllo
sull’esecuzione degli obblighi convenzionali. Questo comitato, in particolare, esamina il rapporto che ogni
Stato contraente deve presentare periodicamente, indicando i motivi di eventuali divergenze della
legislazione interna rispetto alle disposizioni del Patto. Al termine dell’esame il comitato formula i rapporti e
lo stato può a sua volta replicare alle osservazioni.

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Il profilo più interessante è rappresentato dal diritto del singolo di proporre ricorso contro uno Stato
inadempiente. La prassi del Comitato assume valore e significato rilevante nel quadro degli obblighi
internazionali assunti dagli Stati nel sistema delle N.U. in quanto esso contribuisce a definire meglio il
nucleo dei diritti fondamentali riconosciuti all’individuo.

9.4.4 Altri patti

Le attività delle N.U. a favore dei diritti dell’uomo, consiste anche nel promuovere l’elaborazione di
convenzioni da sottoporre alla rettifica degli Stati.
Alle convenzioni, poi, si aggiungono le Dichiarazioni dei Principi il cui contenuto rispecchia una
convinzione condivisa da un significativo numero di Stati. Fra le Convenzioni più note, si ricordano quelle
per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e sull’eliminazione e repressione del crimine
di apartheid; la convenzione dei diritti politici della donna e quella su l’eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della stessa; la Convenzione per le repressione sulla tratta di esseri umani e
dello sfruttamento della prostituzione.

9.4.5 Le convenzioni di carattere regionale: la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo

Questa convenzione, è una delle forme più evolute per la protezione dei diritti dell’uomo. La CEDU
attribuisce competenze sia alla Corte Europea [quale organo giudiziario cui si rivolgono gli Stati e gli
individui che lamentino violazioni] sia al Comitato dei Ministri, quale organo esecutivo avente il compito di
sorvegliare che le sentenze della Corte siano rispettate.

Il ricorso individuale [a seguito dell’entrata in vigore del Protocollo n. 11] non è più soggetto all’accettazione
da parte degli Stati, ai quali si impone senza possibilità di deroga alcuna.
Il Protocollo n. 14 [che modifica il sistema di controllo della Convenzione] introduce vari emendamenti alla
CEDU, creando un sistema di filtro per i ricorsi individuali relativi a questioni irricevibili o ripetitive. Il
Comitato dei Ministri, inoltre, viene legittimato a chiedere alla Corte una interpretazione delle sentenze ed
avvia una procedura di infrazione contro lo Stato inadempiente.

La convenzione e i protocolli, proteggono non solo i diritti civili e politici tradizionali ma anche quei profili
o aspetti connessi, di carattere economico e sociale, di cui bisogna tener conto dell’interpretazione del
contenuto dei diritti.

La specifica funzione di tutelare i diritti economico-sociali attraverso un sistema di reclami collettivi, è


svolta dalla Carta sociale del 1961 successivamente modificata dalla carta sociale riveduta del 1996.
Qualche considerazione merita il sistema di controllo sull’esecuzione delle sentenze da parte del Comitato
dei Ministri, a garanzia dell’effettività del rimedio offerto dalla Convezione, e dell’effettività del godimento
dei diritti. Le sentenze non sono immediatamente esecutive negli ordinamenti giuridici nazionali, ma
vincolano gli Stati contraenti che, devono conformarsi.

Il Comitato controlla, in primo luogo, che lo Stato abbia versato alla parte lesa l’equa soddisfazione. In
secondo luogo gli Stati, come emerge dalla prassi del Comitato dei Ministri, hanno l’obbligo di adottare le
misure necessarie a rimuovere gli effetti della violazione e di adottare misure di carattere generale al fine di
impedire il verificarsi di violazioni analoghe, come ad esempio la modifica di una legge. È comunque lo
stesso Comitato che valuta il carattere adeguato delle misure adottate: in caso di inadempimento, il Comitato,
esercita nei confronti dello Stato una prima pressione politica, poi adotta una risoluzione interlocutoria con
cui constata la mancata esecuzione degli obblighi convenzionali aprendo “un caso”. Qualora lo Stato
mantenga a lungo il proprio inadempimento, si espone alla possibile contestazione della violazione dei
principi fondamentali propri dell’organizzazione proclamati dall’art. 3 dello Statuto del Consiglio di Europa
e può incorrere a delle sanzioni.

9.4.6 Altre convenzioni ed atti: la convenzione americana; la carta africana; la carta araba.

La Convenzione americana sui diritti dell’uomo, adottata nel corso della Conferenza interamericana tenutasi
a San José di Costa Rica il 22 novembre 1969, rivede dei doveri a carico dell’individuo, essenzialmente
verso la famiglia, la comunità e l’umanità, in ciò differenziandosi non solo dalla CEDU, ma anche dagli
strumenti internazionali umanitari, che non contengono simili previsioni. Un protocollo estende i diritti
protetti ai diritti economici, sociali e culturali, adempiendo alla stessa funzione della Carta sociale e

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riprendendo la tradizionale divisione che contraddistingue i Patti internazionali delle Nazioni Unite. Il
sistema, che si fonda su una Commissione e una Corte è simile a quello della CEDU prima della riforma
introdotta con il protocollo n.11. L’accesso alla Corte consente, una volta accertata la ricevibilità del ricorso,
la partecipazione diretta alle persone vittime della violazione, ai familiari delle stesse e loro rappresentanti,
nelle varie fasi della procedura.

La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata il 27 giugno 1981 si ispira ai testi convenzionali
ricordati, occupandosi in particolare dei diritti dei popoli, e fra questi dell’autodeterminazione, della libera
disponibilità delle risorse naturali, dello sviluppo economico, sociale e culturale nonché del diritto ad un
ambiente soddisfacente. Il sistema è quello di una Commissione e di una Corte. La competenza della Corte è
assai vasta, perché può giudicare sulla violazione non solo dei diritti contenuti nella Carta, ma di quelli
contenuti in qualunque altro strumento internazionale rilevante, ratificato dagli Stati interessati ovvero da
quelli ritenuti responsabili. I ricorsi degli individui e degli Stati sono rivolti alla Commissione: questa e gli
Stati possono adire la Corte, ma anche gli individui, i gruppi di individui, le organizzazioni non governative,
aventi status consultivo presso la Commissione possono presentare un ricorso alla Corte a condizione, però,
che lo Stato convenuto ne abbia accettato, con apposita dichiarazione, la competenza. Un protocollo alla
Carta riguarda i diritti della donna, proponendosi di riconoscere specifiche garanzie in favore delle donne
africane. La Carta prevede il divieto di discriminazioni per varie ragioni tra cui quelle fondate sul sesso, e più
specificamente impone agli Stati contraenti il rispetto degli obblighi internazionali per la tutela dei diritti
della donna e dei minori. Tali previsioni sono apparse inadeguate, ritenendo, in particolare, che i rinvii ai
costumi e ai valori della società africana, senza distinzione, contenuti nella Carta africana, potessero
legittimare alcune pratiche di cui le donne sono spesso vittime in Africa. Il protocollo dovrebbe colmare la
lacuna, condannando espressamente qualunque violenza contro le donne e le pratiche nefaste, intese come
qualsiasi comportamento o pratica che lede i diritti fondamentali della donna, quali il diritto alla vita, alla
salute, all’educazione, alla dignità e all’integrità fisica.

I paesi arabi diedero vita attraverso il Patto della Lega Araba ad un Comitato e quindi ad una Commissione
regionale araba permanente dei diritti dell’uomo della Lega Araba, affidandole una funzione di promozione e
protezione dei diritti dell’uomo e di coordinamento delle attività intraprese dai Paesi arabi. Nel 1990 venne
adottata la Dichiarazione dei diritti e doveri fondamentali dell’uomo nell’Islam e nel 1994 una Carta araba
dei diritti dell’uomo adottata dalla Lega (mai entrata in vigore, in mancanza di un numero sufficiente di
ratifiche da parte degli Stati). La Carta venne quindi sostituita da un nuovo testo, di più ampio contenuto e
finalità, proponendo un più elevato standard di protezione e un sistema di controllo. Quanto al primo profilo,
alcuni limiti e perplessità restano, con riferimento sia al divieto di discriminazioni, sia al sistema dei
controllo del rispetto dei diritti. Viene previsto un obbligo degli Stati a presentare dei rapporti al Segretario
generale della Lega sulle misure di esecuzione adottate; viene istituito un Comitato arabo dei diritti
dell’uomo che prende in esame tali rapporti e può formulare osservazioni e raccomandazioni. Nel 2014 il
Consiglio della Lega Araba ha adottato lo statuto istitutivo della Corte araba dei diritti dell’uomo. I
movimenti e le agitazioni popolari della Primavera araba, sorti in opposizione a regimi autoritari e in
rivendicazione di maggiore democrazia e diritti, hanno infatti dato l’impulso ad un’esigenza di riforma del
sistema regionale di cooperazione e, in particolare, del meccanismo di tutela dei diritti umani ivi previsto.
L’iniziativa di istituire una corte dei diritti umani nel contesto regionale arabo, se da un lato è stata valutata
positivamente e considerata come un potenziale passo avanti per la tutela dei diritti in un sistema che
presenta ancora gravi lacune, dall’altro lato ha suscitato diffuse critiche e perplessità. Lo Statuto, in
particolare, presenta rilevanti criticità soprattutto quanto alla giurisdizione e ai poteri della Corte, alle
garanzie di indipendenza, imparzialità e professionalità dei giudici nonché alla scarsa trasparenza delle
modalità di loro selezione e nomina, alle garanzie procedurali di accesso alla giustizia e all’effettività della
tutela giurisdizionale, nonché ai meccanismi di controllo ed eventuale sanzione circa la mancata esecuzione e
rispetto delle sentenze. Manca in particolare la previsione di un ricorso diretto su base individuale per il
soggetto vittima di una violazione dei propri diritti.

9.4.7 La tutela dei diritti dell’uomo nell’Unione Europea.

L’Unione europea non si pone quale obiettivo la tutela dell’individuo, bensì essenzialmente l’integrazione
economica e, progressivamente, politica dei Paesi membri. I trattati istitutivi delle Comunità europee non
contenevano alcuna norma che imponesse alle istituzioni comunitarie e alle parti contraenti l’obbligo di
rispettare i diritti fondamentali dell’uomo, ma solo dei principi quali la libera circolazione delle merci, delle
persone, dei servizi e dei capitali, il divieto di discriminazione a motivo della nazionalità: principi e libertà
strumentali, dunque, alla creazione di un mercato unico. In altre parole, l’individuo non rilevava in quanto
persona, ma in quanto entità economica. Il limite di questa impostazione fu ben presto evidente. Poiché

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infatti l’ordinamento comunitario riconosce oltre alla soggettività degli Stati anche quella degli individui,
incidendo sullo status giuridico di questi, in mancanza di una norma precisa che imponga il rispetto dei diritti
fondamentali della persona umana, i cittadini degli Stati membri erano privi di tutela nei confronti degli atti
comunitari che violavano tali diritti. La Corte di giustizia in una delle sentenze afferma che la Comunità
costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale
gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come
soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini. La Corte è dunque il garante dei diritti
fondamentali, essendo competente a conoscere degli atti delle istituzioni comunitarie nell’esercizio delle loro
funzioni, degli atti adottati dagli Stati membri per dare attuazione ad un atto comunitario e delle
giustificazioni, fondate sul rispetto dei diritti fondamentali, addotte da uno Stato membro per legittimare una
misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto comunitario. Le Corti costituzionali italiana e tedesca,
che avevano ravvisato nel sistema comunitario una possibile lacuna nella tutela dei diritto fondamentali,
prendevano atto di tale ruolo garante e della funzione della Corte di giustizia, e limitavano pertanto
l’esercizio della rispettiva competenza a quei casi in cui l’interpretazione ed applicazione del diritto
comunitario sarebbe potuta venire in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale o con
i diritti inalienabili della persona. Se si esclude un richiamo, nel preambolo dell’Atto unico europeo alla
CEDU, alle costituzioni degli Stati membri e alla Carta sociale europea, è con il trattato sull’UE che la tutela
dei diritti fondamentali trova espressa enunciazione sul piano normativo. Infine le variazioni apportate ai
trattati di Amsterdam e Lisbona consentono al Consiglio di contrastare e sanzionare, con la sospensione di
alcuni diritti, una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro degli stessi principi. Il sistema,
così configurato, conferiva al requisito del rispetto della democrazia, della libertà e dei diritti fondamentali
un ruolo costituzionale e fondante dell’integrazione comunitaria, sia per gli Stati membri e per quelli che lo
diverranno, sia per le istituzioni comunitarie stesse, vincolate, non meno degli Stati, al rispetto dei diritti
dell’individuo. La codificazione di tali diritti si è realizzata con la proclamazione della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione da parte del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione. Lo scopo
della Carta è quello di rendere più visibili e rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce
dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici.

9.4.8 Il ricorso ad organi giurisdizionali internazionali. Le ragioni della loro istituzione.

La necessità di creare un controllo giurisdizionale sempre più diffuso ha trovato espressione in quel vasto
movimento internazionale che ha inteso e intende punire, oltre ai crimini di guerra, il genocidio, i crimini
contro l’umanità e quelli contro la pace. La creazione di organi giurisdizionali internazionali si è imposta sia
per la gravità dei crimini commessi, sia per l’inadeguatezza degli organi nazionali di porre in essere
un’efficace azione repressiva. I Tribunali di Norimberga e di Tokyo sono gli esempi più significativi di
organi giurisdizionali internazionali, istituiti in un particolare momento storico, per volontà delle potenze
vincitrici della seconda guerra mondiale, con lo scopo di giudicare i crimini commessi dai tedeschi e dai
giapponesi. Il carattere internazionale di detti organi deriva dall’essere stati istituiti con accordo
internazionale da parte delle potenze vincitrici, rappresentando organi comuni alle stesse, non già organismi
autonomi quali i più recenti, promossi dalle Nazioni Unite. I tribunali internazionali di guerra giudicavano su
reati non tradizionalmente compresi fra i crimini di guerra, gli atti istitutivi prevedendo la competenza anche
per i crimini contro l’umanità e la pace, estendendosi, così, la competenza sia a fatti commessi prima
dell’inizio delle ostilità belliche, sia a comportamenti criminali tenuti contro la popolazione, non soltanto
contro i nemici.

9.4.9 I tribunali penali internazionali.

Si ricordano il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia e quello per il Ruanda. In virtù delle
risoluzioni del Consiglio di sicurezza n. 827 (1993) e n. 955 (1994) al primo tribunale veniva affidato il
compito di giudicare le persone responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario
commesse nel territorio della ex Jugoslavia a partire dal gennaio 1991; al secondo, il compito di giudicare le
persone responsabili dei crimini commessi durante la guerra civile nel territorio del Ruanda tra il 1° gennaio
1994 e il 31 dicembre 1994. Ai due tribunali ad hoc se ne sono aggiunti altri, in epoca più recente, che si
propongono di accertare la responsabilità penale individuale in determinate aree e con riferimento a
specifiche situazioni. Il tratto comune a tali, recenti esperienze giurisdizionali risiede nelle finalità che le
stesse si propongono: contribuire alla promozione dei valori fondamentali della Comunità internazionale
attraverso l’applicazione di sanzioni, esercitando anche funzione di prevenzione, l’una e l’altra necessaria
nelle complesse fasi di ricostruzione post-bellica. Si ricorda, in particolare, la Corte speciale per la Sierra
Leone, istituita in virtù di un accordo fra le Nazioni Unite e il Governo di detto Stato nel 2002. Oltre ai due
tribunali ad hoc ed alla Corte speciale per la Sierra Leone, che ai primi si può assimilare per caratteristiche e

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funzioni, si possono ricordare due giurisdizioni la cui natura internazionale è discutibile, pur presentando
alcuni elementi di internazionalità. Si tratta delle Camere straordinarie per la Cambogia, istituite nel 2003 per
processare i responsabili dei crimini commessi in quel Paese durante la dittatura dei Khmer rossi. Le Camere
sono una giurisdizione interna a quello Stato, ma l’internazionalità è rappresentata dalla presenza di giudici
internazionali che siedono accanto a quelli cambogiani, dall’esistenza di un Procuratore di nomina
internazionale accanto ad uno cambogiano e dagli accordi intercorsi con le N.U. votati per la definizione
della struttura, della giurisdizione e della competenza delle Camere. Presenta invece elementi peculiari il
Tribunale speciale per il Libano, istituito a seguito degli attentati terroristici del febbraio 2005 che costarono
la vita, tra gli altri, all’ex premier libanese Hariri. La natura internazionale del Tribunale, per quanto
dibattuta, è da ricercare nella sua costituzione, essendo essa riferibile ad un accordo tra le N.U. e il governo
libanese. Per quel che riguarda la competenza del Tribunale, essa poggia esclusivamente sulla legislazione
penale nazionale libanese e, quindi, sotto questo profilo difetta di natura internazionale. Al diritto
internazionale, comunque, le sue decisioni si ispirano e si conformano. Un altro tribunale con elementi di
internazionalità, perchè istituito in virtù di un accordo, stipulato nel 1998 fra Libia, Regno Unito, USA, e
perchè oggetto di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle N.U.,è quello creato, all’Aja, per il caso
Lockerbie. Composto da giudici scozzesi, ha giudicato, in base alla legge scozzese, sull’attentato compiuto
da agenti del Governo libico, che causò l’esplosione dell’aereo della Pan America in volo sopra la città di
Lockerbie in Scozia. In altri casi, per prevenire crimini di guerra e contro l’umanità, sono stati creati degli
organi da parte di Amministrazioni transitorie istituite dalle Nazioni Unite, come a Timor Est e in Kosovo. Ai
giudici dei tribunali nazionali sono stati affiancati dei giudici stranieri, designati da tali Amministrazioni, con
il compito di giudicare sui crimini applicando il diritto internazionale e quello interno dello Stato. Nella
prassi degli ultimi anni sono riscontrabili altre esperienze giurisdizionali che, pur non presentando caratteri di
internazionalità, si ispirano largamente alle giurisdizioni prima ricordate. Si tratta del Tribunale penale
supremo iracheno e della Camera per i crimini di guerra della Bosnia Erzegovina. Il primo è stato istituito
dall’Autorità transitoria di governo a seguito della destituzione di Saddam Hussein in Iraq. Per quanto la
competenza del Tribunale ricalchi il modello delle giurisdizioni internazionali penali, la natura internazionale
sembra potersi escludere, sia per il carattere esclusivamente interno dell’organo, sia per lo scarso
coinvolgimento della comunità internazionale. Similmente, la Camera per i crimini di guerra della Bosnia
Erzegovina è un organo interno a quello dello Stato, essendo una camera speciale istituita presso la Corte di
Stato. Essa prosegue a livello nazionale il lavoro svolto dal Tribunale per l’ex Jugoslavia. L’istituzione dei
tribunali penali internazionali rappresenta un importante sviluppo del diritto umanitario e del diritto penale
internazionale. Nell’ordinamento internazionale trova attuazione, per la prima volta, una concreta sottrazione
di sovranità allo Stato, alla sua potestà punitiva sugli individui mediante l’esercizio della giurisdizione
estesa, solo in casi limitati, in senso universale nei confronti di autori di crimini ovunque commessi. Gli Stati
hanno riconosciuto la necessità di sottoporre a processo internazionale gli autori di gravi crimini creando
organismi ad hoc cui trasferire la propria ordinaria funzione giurisdizionale, impegnandosi a cooperare con
detti organismi affinchè l’esercizio di tale funzione sia effettiva.

9.5.1 In particolare, la Corte penale internazionale.

L’istituzione della Corte penale internazionale si colloca in questo positivo processo di trasformazione della
giurisdizione penale. Lo Statuto della Corte definisce la Corte come istituzione permanente, avente una
giurisdizione di carattere generale: essa, giudica sui crimini più gravi nel contesto internazionale, riguardanti
la Comunità internazionale nel suo insieme. Si tratta di crimini internazionali dell’individuo, quali il
genocidio (art. 6), i crimini contro l’umanità (art. 7), i crimini di guerra (art. 8) e l’aggressione (art. 5). Sono
invece esclusi dalla giurisdizione alcuni crimini, definiti treaty crimes, quali i crimini consistenti in atti di
terrorismo e di traffico illecito di stupefacenti, ritenendo che la cooperazione internazionale per la
repressione di tali reati sia già efficacemente prevista in trattati internazionali. La Corte ha, come si è detto,
una competenza generale, distinta da quella dei tribunali ad hoc, che mantengono comunque la loro
competenza specifica. Essa esercita, diversamente da detti tribunali, una competenza complementare rispetto
a quella di un tribunale nazionale, potendo cioè giudicare solo quando questo non intenda o sia
effettivamente incapace di svolgere correttamente l’indagine o di iniziare il processo. Pur nella difficoltà di
determinare quando i tribunali interni, alla luce dei principi del giusto processo riconosciuti al diritto
internazionale, si sottraggono all’obbligo di giudicare l’individuo e non consentano, quindi, l’esercizio della
giurisdizione da parte della Corte, non v’è dubbio che l’impunità è in qualunque modo esclusa, anche
nell’ipotesi in cui uno Stato dichiarasse di non accettare la giurisdizione della Corte per il periodo previsto e
consentito di sette anni, essendo lo Stato stesso a dover esercitare la giurisdizione per quel periodo. I
tribunali ad hoc hanno invece la precedenza sui tribunali nazionali, che debbono astenersi dal giudicare se
viene richiesto loro il trasferimento del processo. Vari sono i limiti posti all’esercizio della giurisdizione: essi
discendono dall’applicabilità dello Statuto ai crimini commessi dopo la sua entrata in vigore; dall’essere stati

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commessi dai cittadini di Stati che ne sono parte o nel territorio degli stessi; dall’essere avviato e promosso,
il procedimento su iniziativa di uno Stato parte ovvero del Consiglio di sicurezza che sottopongono una
situazione al Procuratore presso la Corte; dalla necessità che il procuratore, il quale proceda, invece, d’ufficio
avviando le indagini. Limiti sono rappresentati, ancora, dal non potersi celebrare il processo in contumacia
dall’imputato e dal potere di blocco delle indagini e dell’azione penale da parte del Consiglio di Sicurezza
che può chiedere alla Corte di non iniziare, o perseguire il procedimento per la durata di dodici mesi.
Possono, così, determinarsi situazioni di conflitto fra Corte e Consiglio di Sicurezza, anche su iniziativa di un
membro permanente che non abbia ratificato lo Statuto, quale in particolare gli Stati Uniti, che non accettano
la giurisdizione della Corte, al punto che, pur apposta la firma allo Statuto, ne hanno deciso il ritiro, e al fine
di evitare che gli appartenenti alle proprie forze armate impegnate in operazione potessero essere consegnati
agli Stati, parti dello Statuto, alla Corte per essere processati, si sono attivati nel concludere accordi bilaterali
con vari Stati per evitare tale conseguenza. Potenziali conflitti tra Corte e Consiglio di Sicurezza potrebbero
sorgere anche con riguardo alla procedura per avviare un’indagine sul nuovo crimine di aggressione.

9.5.2 Il ricorso ad organi giurisdizionali nazionali.

Gli organi giurisdizionali internazionali si propongono di realizzare obiettivi non diversi da quelli nazionali
che perseguono i crimini internazionali contro l’umanità in virtù del principio di universalità della
giurisdizione penale. Quando i fatti penalmente rilevanti sono di carattere universale, trascendendo gli
interessi del singolo Stato, ovvero si tratta di crimini internazionali, il diritto consuetudinario attribuisce agli
Stati la facoltà di agire, pur in assenza di qualsiasi altro collegamento. Il criterio dell’universalità della
giurisdizione penale può tuttavia subire limiti, di carattere convenzionale, come quello della presenza sul
territorio nazionale del presunto criminale; altro limite può essere la qualità della persona, protetta
dall’immunità qualora sia un Capo di Stato o di Governo o un Ministro. La giurisprudenza interna e
internazionale è tuttavia orientata ad escludere l’esenzione della giurisdizione penale a fronte di atti
gravemente lesivi della dignità della persona. L’universalità della giurisdizione civile, sussistendo le
medesime gravi violazioni, è stata affermata dalla giurisprudenza statunitense, estendendo, quindi, la
valutazione già espressa quanto alle iniziative penali.

9.5.3 Diritti dell’uomo, giustiziabilità e sovranità dello Stato. Considerazioni finali.

La necessità di perseguire le violazioni dei diritti dell’uomo trova espressione, come si è ricordato, sia negli
strumenti più recenti che creano organi di giustizia penale internazionale con il compito di giudicare sulla
responsabilità personale dell’individuo, sia nel riconoscere ai giudici nazionali la legittimità ad esercitare la
giurisdizione nell’interesse della Comunità internazionale. La finalità umanitaria è anche invocata per
giustificare ingerenze o interventi, per prevenire o reprimere le violazioni dei diritti umani. La legittimità
dell’intervento umanitario, al fine di proteggere la vita delle persone e i loro diritti essenziali, o al fine di
prevenire o far cessare le gravi violazioni commesse da uno Stato, è invero oggetto di discussione, con
riferimento a quelle norme della Carta delle N.U. che vietano l’uso della fora salvo eccezioni. Le azioni
terroristiche compiute in epoca più recente da organizzazioni sostenute o finanziate, pur indirettamente, da
Stati, ripropone il problema non solo in termini teorici, ma pragmatici: la globalizzazione dell’attuale società
internazionale ha profondamente mutato la Comunità internazionale stessa nella sua struttura, nelle relazioni
fra Stati, individui, gruppi, enti, organizzazioni. In tale contesto la tutela dei diritti dell’individuo è divenuta,
sempre più tema centrale del diritto internazionale, le forme e modi di pregiudizio o attacco essendosi
evolute, insieme alla trasformazione della Comunità internazionale e del suo assetto giuridico e politico.

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