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Istituzioni di diritto internazionale - carbone, luzzatto

Diritto privato comparato (Università degli Studi di Milano)

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Sergio M. Carbone
Riccardo Luzzatto

ISTITUZIONI DI
DIRITTO
INTERNAZIONALE

Quinta edizione

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CAPITOLO I
I SOGGETTI E GLI ATTORI NELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
di Sergio M. Carbone

La personalità giuridica degli stati di diritto internazionale


Nel diritto internazionale i soggetti primari della disciplina di diritto comune sono enti collettivi, mentre gli individui non
sono in genere titolari di situazioni giuridiche da loro direttamente azionabili nell’ambito della comunità internazionale.
Ciò si riflette sull’attribuzione della personalità giuridica internazionale agli stati, che costituiscono il nucleo sociale più
significativo della comunità internazionale.
Il diritto internazionale non prescrive precisi assetti organizzativi e/o modalità procedimentali a proposito sia degli stati
che degli enti collettivi infrastatali operanti in campo internazionale al fine dell’attribuzione della personalità giuridica: si
limita a prendere atto della loro esistenza e della loro effettività operativa.
Il diritto internazionale dell’era moderna ha origine proprio quando, nel XVII secolo, gli stati si affermano storicamente
quali enti dotati di un determinato popolo e territorio, oltre che caratterizzati da indipendenza e sovranità, senza che tali
requisiti debbano essere accertati a fini costitutivi della loro capacità giuridica. Ciò che rileva è che lo stato risulti
effettivamente in grado di garantire la sicurezza e realizzare la solidarietà tra individui che sono ricompresi nella sua
popolazione di cui assicura il governo all’interno di uno specifico territorio.
I popoli risultano così uniti in varie comunità organizzate in vari stati secondo la fattualità che si afferma caratterizzata
dalle loro più diverse origini, tradizioni e specifiche modalità in virtù delle quali realizzano la loro indipendenza e
sovranità e al tempo stesso riconoscono le potenzialità dell’individuo al loro interno e verso l’esterno.
Si tratta di valori e situazioni che Impero e Papato nel XVII secolo non erano più in grado di soddisfare, tanto che già
Grozio precisa la loro inadeguatezza rispetto alle esigenze dei tempi. Il momento iniziale di questo periodo storico è
indicato nella conclusione del Trattato di Westfalia nel 1648, in occasione del quale lo stato consolida la propria
indipendenza rispetto al papa e rispetto all’imperatore, dei quali si disconosce qualsiasi supremazia, ed afferma il proprio
dominio esclusivo su un territorio e sulla relativa popolazione, con eliminazione dei vari centri di potere che si erano
precedentemente formati.
Sovranità esterna o indipendenza (da qualsiasi altro ente o sistema normativo) e sovranità interna (governo su territorio
e popolazione) dello stato riassumono, da un lato, le peculiarità ed esigenze da soddisfare attraverso i meccanismi
previsti dal diritto internazionale e, dall’altro, gli elementi costitutivi dello stato quale soggetto di diritto internazionale.
Si deve quindi trattare di enti che nella fattualità storica risultano dotati di un ordinamento originario, con poteri di
governo su un determinato territorio e su una particolare popolazione, le cui funzioni e competenze si affermano nella
fattualità storica secondo un criterio di effettività che li legittima al loro interno: il diritto internazionale si limita a prendere
atto della loro esistenza e provvede a tutelare tali loro prerogative insieme all’esercizio dei relativi poteri nelle reciproche
relazioni esterne.
La struttura della comunità internazionale
Il diritto internazionale non attribuisce quindi la sovranità agli stati né prevede le modalità per l’accertamento costitutivo
della legittimità relativa all’esercizio della sovranità e della originarietà del loro ordinamento, ma si limita a verificare la
presenza fattuale di requisiti e la conseguente personalità giuridica, garantendo una specifica disciplina rivolta a
preservare tali loro caratteristiche e a rendere compatibile il relativo esercizio facendolo coesistere con quello degli altri
stati. In questa prospettiva si conferma che le caratteristiche relative agli elementi costitutivi della personalità giuridica
internazionale dello stato giustificano le peculiarità dei contenuti del diritto internazionale e le esigenze in funzione delle
quali esso esiste ed è destinato a produrre i suoi effetti.
Il diritto internazionale è sovraordinato rispetto agli ordinamenti degli stati, ma al tempo stesso gli ordinamenti statali non
devono considerarsi dipendenti dall’ordinamento internazionale: è immutata la struttura paritaria dell’ordinamento
internazionale, la cui caratteristica principale consiste nel garantire autonomia e indipendenza tra gli stati.
È vero che l’autonomia degli stati tende ad essere progressivamente ridotta dall’evoluzione attuale del diritto
internazionale, erosiva di alcune competenze relativamente alle quali le determinazioni e la sovranità degli stati
subiscono vincoli e condizionamenti, ma è anche vero che tali condizionamenti non pregiudicano il rilievo per cui ogni
stato e ogni ordinamento statale autolegittima la sovranità e la indipendenza: ogni stato trova in se stesso la fonte che ne
origina l’esistenza e legittima l’attribuzione della personalità giuridica internazionale, con la conseguente operatività delle
norme di diritto internazionale a tutela del rispetto dell’esercizio della sua sovranità sul territorio e sulla relativa
popolazione in esso insediata.
Gli aspetti qualificanti della personalità giuridica internazionale sono dunque che si deve trattare di stati dotati di
indipendenza, di una popolazione permanente, di uno specifico ambito territoriale e di un ente di governo effettivo.
La sovranità esterna o “indipendenza giuridica”
L’“indipendenza” dello stato deve intendersi ed essere valutata in termini di indipendenza giuridica, cioè di indipendenza
dell’ordinamento giuridico dello stato rispetto ad altri ordinamenti o sistemi normativi. In questo senso si tratta di
verificare l’originarietà del suo ordinamento giuridico che deve quindi trovare in se stesso la fonte della sua legittimità e
non deve dipendere dall’ordinamento di un altro stato o dall’ordinamento di qualsiasi gruppo di stati.
Le situazioni in cui la dipendenza da enti esterni esclude l’indipendenza giuridica dello stato
Le restrizioni della libertà degli stati imposte dal diritto internazionale consuetudinario o dipendenti da impegni assunti
volontariamente o di fatti esistenti nei confronti di un altro stato, non incidono sulla sua indipendenza intesa nel
significato indicato ai fini dell’attribuzione della personalità giuridica: di per sé esse non incidono sulla sua sovranità
esterna. Solo quando esse si trasformano in vincoli che pongono uno stato sotto una vera e propria autorità legale di un
altro stato, con un’intensità tale da impedire la sua autonomia decisionale, si potrà ritenere che questa circostanza

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pregiudichi la sua indipendenza in modo da essere rilevante ai fini di escludere la sua personalità giuridica
internazionale. Tale dipendenza comporta che in uno stato vengano adottate decisioni, atti normativi e/o giurisdizionali
sulla scorta di determinazioni assunte o dipendenti da enti autoritativi ad esso esterni e estranei al suo ordinamento;
oppure si deve trattare di situazioni in cui l’esercizio di una delle attività sovrane dello stato è affidato all’autorità di un
altro stato che controlla le sue scelte politiche.
Risulta però irrilevante la sola influenza che di fatto uno stato esercita rispetto ad un altro se questa opera secondo criteri
che non privino lo stato della sua autonomia decisionale; altrettanto priva di significato rispetto alla determinazione
dell’indipendenza di uno stato risulta essere la presenza di limitazioni alle sue libertà conseguenti a trattati da esso
conclusi, in quanto sono solo restrizioni convenzionali delle libertà dello stato che non lo privano di autonomia decisionale.
La presenza del requisito dell’indipendenza è peraltro stata disconosciuta in alcune situazioni in cui l’ente governativo di
uno stato, il cui ordinamento appare formalmente indipendente, è totalmente condizionato dall’autorità di un altro stato
per propria volontà in virtù di impegni specificamente assunti.
Vi sono quindi alcuni casi in cui la dipendenza di uno stato è talmente significativa da ricondursi ad una dipendenza
rilevante anche ai fini giuridici in cui l’autonomia decisionale conseguente all’originarietà del suo ordinamento è inesistente.
Gli stati membri di stati federali e il loro difetto di sovranità esterna
Non possono considerarsi dotati di personalità giuridica internazionale per difetto di indipendenza gli stati membri di stati
federali, i Lander, i cantoni e maggior ragione le regioni: essi, pur dotati di qualche autonomia anche relativamente alla
conclusione di accordi internazionali, non sono in grado di instaurare tali rapporti quali attività di un distinto soggetto
rispetto allo stato federale o stato a cui appartengono. È l’ordinamento federale o dello stato unitario il sistema normativo
da cui dipende l’indicata autonomina e il relativo esercizio, subordinati a precise condizioni di validità (anzi, in alcuni casi
si richiede persino uno specifico consenso preventivo o successivo del governo centrale, essendo lo stato unitario che di
tali atti resta responsabile nei confronti degli altri stati).
Anche nei casi in cui le norme costituzionali riconoscono in alcune materie la possibilità di esercitare alcuni poteri esterni
agli stati federati o alle regioni, si riscontra che ciò avviene nel quadro di garanzia e coordinamento predisposto dai
poteri dello stato centrale oltreché nella salvaguardia della competenza esclusiva del potere centrale in politica estera.
Quindi devono essere considerati come privi di personalità giuridica in quanto difettano del requisito dell’indipendenza
anche nei casi in cui è loro riconosciuto l’esercizio di un potere estero, sempre subordinato al potere centrale dello stato.
La sovranità interna: la triade popolo-governo-territorio
Per quanto riguarda la sovranità interna che deve caratterizzare lo stato per acquisire la personalità giuridica
internazionale, essa comporta necessariamente la presenza di una comunità che consiste di un territorio e di una
popolazione governata da un’autorità politica organizzata.
Tradizionalmente la “popolazione” consiste in un insieme di individui che convivono stabilmente nell’ambito di spazi con
caratteristiche di comunità dotata di una propria e particolare coscienza politica, pur potendo appartenere a differenti
culture, ordini o religioni. Gli spazi di comune convivenza devono necessariamente identificarsi in uno specifico territorio,
consistente in una parte di superficie terreste venuta a esistenza in modo naturale, alla quale non può essere assimilata
una piattaforma artificiale costruita in spazi marittimi non soggetti alla sovranità di alcuno stato.
Non è necessario che lo specifico territorio abbia frontiere definitivamente stabilite e assolutamente certe: è sufficiente
che esista una sicura e effettiva base territoriale anche se con limiti esterni ancora non determinati (es. stato di Israele);
neppure è necessario che gli spazi di territorio abbiano un’estensione particolare, essendo sufficienti anche ambiti
territoriali di ridotte dimensioni.
Ciò che rileva è la presenza di un’autorità politica organizzata in grado di esercitare le funzioni sovrane con
caratteristiche di effettività e al tempo stesso adeguatamente rappresentativa della popolazione insediata nell’ambito del
territorio di cui si dà carico di tutelare i relativi interessi. Si vuole soddisfarle l‘esigenza che un determinato ambito
spaziale sia sotto il controllo e la tutela di un’autorità di governo che si dia cura e operi nell’interesse dei componenti
della comunità, pertanto tale autorità di governo dovrà operare alle condizioni richieste e nei limiti previsti dal diritto
internazionale, con particolare riguardo ai rapporti con gli altri stati.
Si tratta dunque di verificare l’effettiva potestà di imperio e di governo dell’autorità giuridica, che deve essere in grado di
gestirne l’esercizio sul territorio di sua appartenenza e sulla popolazione che vi si trova: ciò che interessa è l’effettivo
esercizio di tutte le funzioni sovrane su un territorio e su una popolazione, a prescindere dai criteri attraverso i quali si è
consolidata la titolarità e l’effettività dell’esercizio di ali funzioni, che deve risultare esclusivo con riferimento al territorio
sia alla popolazione dello stato. Il diritto internazionale ha progressivamente dato rilevanza nella determinazione non
solo alla titolarità, ma anche all’esercizio delle funzioni sovrane.
Sulla base di quanto detto, si comprendono le ragioni per le quali, per i failed states, si è messo in dubbio il
mantenimento della loro personalità giuridica allorché si constata la loro sopravvenuta incapacità di governare un
determinato territorio e di rappresentare la popolazione: in questi casi è emersa una pratica favorevole ad accertare con
minor rigore il requisito della presenza o del mantenimento di una autorità politica su un territorio e sulla sua popolazione
al fine di accertare la personalità giuridica internazionale di uno stato; la comunità internazionale si è anche rivelata
disponibile a porre in essere tecniche per favorire lo sviluppo e l’affermazione di tale effettività, eliminandone le carenze
e gli eventuali limiti operativi (fenomeno di states-building, aiuto all’affermazione di una autorità di governo effettiva su un
territorio e su una popolazione alla presenza di un modello organizzativo di uno stato ispirato a principi democratici e al
rispetto dei diritto dell’uomo).
Gli ulteriori potenziali requisiti: il rispetto dei diritti dell’uomo e del principio di autodeterminazione
Il potere di governo sul territorio e sulla popolazione deve manifestarsi nel rispetto dei diritti dell’uomo, tanto che la
violazione su ampia scala di tali diritti legittima l’intervento da parte di altri stati e l’uso della forza per garantirne il
rispetto. Si va sempre più affermando l’idea che il potere di governo e di imperio debba essere legittimato dal diritto

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all’autodeterminazione interna dei popoli, di conseguenza vi è il divieto di ricorrere a qualsiasi misura coercitiva
suscettibile di privare i popoli del loro diritto di autodeterminazione, espresso ancora più chiaramente nell’atto finale di
Helsinki del 1975. Ciò ha consentito di legittimare aiuti e interventi rivolti a favorire la creazione di nuovi stati invocando
proprio l’esigenza di garantire l’autodeterminazione di popolazioni sottoposti a dominazione coloniale o ad occupazione
di uno stato estero o a fenomeni di apartheid. In ogni altra situazione la pratica internazionale è assai ambigua nel
riconoscere l’ambito e le condizioni di esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli, soprattutto allorché si tratta di
valutare in concreto le condizioni in presenza delle quali la secessione con costituzione di un nuovo stato possa
rappresentare un rimedio legittimo rispetto ai trattamenti discriminatori non giustificati o contrari ai diritti dell’uomo.
Solo in questo modo l’autodeterminazione dei popoli esprime un principio fondamentale di diritto internazionale, che si
sta delineando secondo modalità e criteri più precisi di esercizio; esso viene ad assumere connotazioni più definite
anche per le modalità di governo dei territori, fornendo elementi che consentono di verificare la presenza di un’adeguata
garanzia di rappresentatività dell’intera popolazione stabilita in tali ambiti spaziali.
La presenza di un sistema rappresentativo della popolazione presente in un territorio tende ad assumere un sempre più
preciso significato e una qualche rilevanza anche giuridica nella valutazione della personalità giuridica internazionale di
uno stato.
Prassi recente e limiti al diritto alla autodeterminazione dei popoli
L’adeguata rappresentatività politica delle autorità pubbliche dotate del potere di imperio su un determinato territorio e la
loro legittimazione secondo corretti criteri di autodeterminazione dei popoli, costituiscono circostanze che solo di recente
hanno assunto rilevanza ai fini della soggettiva nazionale degli stati.
La pratica internazionale ha evidenziato che il principio di autodeterminazione è a volte usato a sproposito, ad esempio nel
caso dell’autodeterminazione della popolazione della Crimea a favore della sua riunificazione con la Russia. È escluso che
il principio di autodeterminazione possano essere assegnati effetti retroattivi tali da incidere negativamente sulla
personalità giuridica internazionale di enti statali che sono già affermati come soggetti della comunità internazionale, pur in
difetto di una specifica determinazione democratica da parte della popolazione; tantomeno il principio potrà consentire di
sottoporre a revisione situazioni territoriali definite a seguito degli eventi bellici del secolo scorso.
Si deve ritenere che pur esistendo nella comunità importanti fermenti rivolti ad affermare l’operatività dei valori
dell’autodeterminazione dei popoli, ciò che rileva ai fini della personalità giuridica degli stati è da ricondurre alla presenza
di un’organizzazione dotata di potere effettivo e indipendente in grado di esercitarlo su una comunità territoriale.
È in questa prospettiva che una parte della dottrina afferma che il popolo non può essere considerato titolare di situazioni
giuridiche da esso direttamente tutelabili in virtù di garanzie proprie dell’ordinamento internazionale. Infatti, il diritto
internazionale ha lo scopo di preservare e tutelare esigenze delle organizzazioni collettive e non dei popoli.
Il riconoscimento: suo valore meramente dichiarativo
È vero che l’acquisto della personalità giuridica internazionale avviene in presenza del fattuale riscontro degli elementi
costitutivi dello stato, a prescindere da qualunque procedimento formale accertativo di tali elementi. Ed è anche vero che
il riconoscimento di uno stato ha un valore meramente dichiarativo della sua personalità giuridica internazionale.
Ma è anche vero che il riconoscimento ha effetto di poter essere invocato come prova presuntiva sia della sussistenza
degli elementi costitutivi della personalità internazionale, sia della volontà degli stati di intrattenere rapporti giuridici
rilevanti con lo stato. Dunque, l’esistenza fattuale di un ente-stato dotato dei caratteri attributivi della personalità giuridica
internazionale è sufficiente al riguardo. L’eventuale riconoscimento non incide sull’attribuzione della personalità giuridica
di uno stato e dei conseguenti diritti ed obblighi previsti la diritto internazionale, salvo quelli che presuppongono
l’instaurarsi di rapporti amichevoli e l’avvio di forme più o meno intense cooperazione volontaria.
La posizione dello stato non riconosciuto nella comunità internazionale
Anche uno stato non riconosciuto, purché dotato delle caratteristiche precedentemente indicate: non può essere oggetto
di atti di aggressione ed il suo territorio non può essere considerato terra nullius e ha inoltre diritto di vedere riconosciute
le immunità previste dal diritto internazionale e in particolare l’immunità dell’esercizio della giurisdizione penale a favore
dei suoi vertici istituzionali.
Lo stato non riconosciuto non può però pretendere di far valere, nei confronti degli stati che non lo riconoscono, alcun
diritto ad attivare i procedimenti di formazione volontaria delle norme di diritto internazionale al fine di instaurare rapporti
di collaborazione: questa situazione lo pone dunque in una posizione di oggettiva debolezza e precarietà.
Si deve comunque escludere che tale effetto si estenda anche ad alcuni atti di tipo sanitario a favore delle popolazioni di
stati non riconosciuti, il cui compimento è sempre dovuto e non si esclude che possano essere fatti valere diritti e
obblighi compresi in accordi e trattati internazionali multilaterali di cui siano parti alcuni stati che pur reciprocamente non
si riconoscono.
Il riconoscimento e il mancato riconoscimento opera come strumento di politica internazionale, pur nella piena
consapevolezza dell’inidoneità ad incidere sull’attribuzione della personalità giuridica degli stati: si evita così di
riconoscere stati al fine di rimarcare il dissenso politico nei confronti del loro regime e la volontà di non collaborare con
essi, mentre si riconoscono stati pur privi di alcuni elementi essenziali ai fini della loro personalità giuridica internazionale
al fine di favorire la politica di collaborazione con stati da cui dipendono o da cui sono controllati.
Il riconoscimento è impiegato nelle relazioni internazionali quale “biglietto di ammissione” ad effettivi e intensi rapporti
internazionali convenzionali e ai normali rapporti dipelatici e consolari; pertanto in difetto della manifestata volontà
politica da parte di altri stati di intrattenere rapporti di collaborazione attraverso il riconoscimento di uno stato, questo
rischia non solo di non poter attuare le proprie potenzialità di sviluppo economico e di non poter far valere i propri diritti
ma di vederli irrimediabilmente pregiudicati con rischio della sua stessa indipendenza e sovranità e della sua personalità
giuridica. In conclusione, il riconoscimento non incide sull’attribuzione della personalità giuridica internazionale degli
stati, ma favorisce la prova della presenza degli elementi costitutivi di tale personalità ed è un atto essenziale al fine di

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permettere una loro effettiva partecipazione alla comunità internazionale attraverso l’attivazione di rapporti di
collaborazione e assistenza interstatale.
La personalità degli enti diversi dagli stati: gli Insorti, i Movimenti di Liberazione Nazionale e le organizzazioni antisistema
Si è riscontrata una progressiva riduzione dell’assolutezza della sovranità degli stati e dell’esclusività del relativo
esercizio sulle loro popolazioni e sul territorio. In tale contesto hanno assunto un sempre più rilevante ruolo alcuni enti o
organizzazioni collettive dotati di effettività e indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici oltreché finalizzati a
realizzare valori riconosciuti o loro attribuiti dalla comunità internazionale o da alcuni suoi componenti.
Proprio in funzione della diversità di tali enti rispetto agli stati, è rimodellata la disciplina di diritto internazionale comune
per adattarla alle loro caratteristiche, in quanto destinata ad operare nei loro confronti.
La loro personalità giuridica internazionale produce effetti non necessariamente coincidenti con quelli assegnati agli stati.
Tra tali organizzazioni collettive assumono un’importanza sempre più significativa, anche in funzione del progressivo
affermarsi nell’ambito della comunità internazionale di una coscienza favorevole al principio di autodeterminazione dei
popoli, gli insorti soprattutto quando sono espressione di movimenti di liberazione nazionale: si tratta di entità
organizzate rappresentative delle istanze di autodeterminazione delle popolazioni dei cui interessi si propongono come
enti esponenziali, pur non essendo riconducibili a vere e proprie organizzazioni di tipo statuale in seno alla comunità
internazionale. Al fine di esercitare queste funzioni rappresentative e avvantaggiarsi della protezione offerta dal diritto
internazionale, tali enti devono esercitare un controllo effettivo sulla popolazione delle cui istanze sono portatori (anche
se nei confronti dei comitati di liberazione nazionale tale elemento costituivo della personalità giuridica è valutato con
minor rigore). Anche per gli insorti il controllo sulla popolazione non è richiesto con caratteristiche di stabilità e modalità
organizzative assimilabili a quelle di una vera e propria organizzazione statale: si deve comunque garantire la presenza
di un comando responsabile e che operi con modalità tali da permettere di condurre operazioni continue e concertate
come indicato dal protocollo addizionale alla convenzione di Ginevra del 1949.
Quanto indicato ha reso ancora più complicato decifrare esattamente fenomeni solo in parte riconducibili alla tradizionale
configurazione degli insorti: si tratta di enti dotati di struttura sociale assimilabile a quella di uno stato, non identificabile
con il territorio e la popolazione di uno stato già esistente, con obiettivo di realizzare operazioni armate rivolte a
perseguire finalità universalistiche destabilizzanti gli attuali equilibri interstatali della comunità internazionale.
Il caso della Palestina
Risulta complesso identificare l’esatto momento in cui movimenti insurrezionali acquistano la personalità giuridica
internazionale a causa della difficoltà di riscontrare obiettivamente le circostanze che ne legittimano l’attribuzione: ai fini
della prova di tale circostanze, risulta però comunque rilevante la loro partecipazione alle relazioni internazionali e
all’attività delle organizzazioni internazionali rilevanti ai fini da essi perseguiti, allorché in tali sedi operino come enti dotati
di una relativa indipendenza. È quanto avvenuto a proposito dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP),
di cui si è inizialmente disconosciuta rilevanza, per affermare successivamente una sua limitata soggettività internazionale
idonea a garantirle un locus standi all’interno della comunità internazionale, al fine limitato di discutere su basi di perfetta
parità con gli stati territoriali, i modi e i tempi della autodeterminazione dei popoli ritenuta norma consuetudinaria a
carattere cogente.
In tale prospettiva l’ONU ha assegnato all’OLP lo status di observer e successivamente, con il riconoscimento della sua
denominazione in “Palestina”, il diritto di adottare documenti da far circolare come documenti ufficiali delle NU; a seguito
dell’esercizio sempre più stabilizzato della sua sovranità sul territorio palestinese e del riscontro della sua
rappresentatività popolare confermata a seguito delle elezioni democratiche del ’96, non si è avuta esitazione
nell’estendere gli effetti conseguenti alla personalità internazionale della Palestina al suo diritto di partecipare a qualsiasi
discussione in sede di assemblea generale, di replicare qualsiasi intervento, di presente proposta di risoluzioni e
decisioni per la Palestina, etc.
I diritti attribuiti agli insorti: altri esempi
In ogni caso, l’acquisto della personalità giuridica internazionale da parte degli insorti in presenza delle circostanze
ricordate comporta l’estensione nei loro confronti dei privilegi conseguenti l’applicazione delle principali norme di diritto
umanitario di guerra e di quelle relative ai conflitti armati, con specifico riferimento alle norme delle convenzioni di
Ginevra del 1949. Un’altra situazione conseguente alla personalità giuridica degli insorti riguarda i casi i cui questi
prendono con la forza il possesso di una nave battente bandiera dello stato contro il quale operano: in tal caso si
riconosce libertà d’azione alle navi ribelli ed un obbligo di non-interferenza da parte di stati terzi sulla condotta di tali navi
e del governo contro il quel le navi sono dirette. Le navi di cui gli insorti hanno preso il possesso non possono quindi
essere catturate per ordine del governo di un altro stato, né possono ricevere assistenza nei porti di altri stati in quanto
questi si espongono ad essere accusati di interferire illegittimamente nel conflitto tra gli insorti e lo stato di appartenenza.
Lo speciale e limitato status dei Movimenti di Liberazione Nazionale e quello dell’ISIS
In difetto degli elementi costitutivi indicati, i Movimenti di Liberazione Nazionale non hanno uno status nell’ambito della
comunità internazionale tale da garantire loro diritti identici a quelli attribuiti agli stati.
In realtà, in difetto di un controllo effettivo su un territorio e su una popolazione delle cui istanze sono portatori o di un
ente di comando responsabile, tali movimenti possono solo essere ascoltati nelle varie sedi internazionali in cui si
dibattono i temi relativi alle popolazioni e ai territori di cui essi si pongono come interpreti delle istanze autonomistiche;
ed in queste occasioni potranno godere solo di alcuni privilegi previsti dal diritto internazionale che non hanno
un’intensità e un’estensione tale da essere assimilati a corrispondenti diritti attribuiti agli stati (esempio del fronte
popolare per la liberazione del Sahara occidentale).
Molto più complessa è la valutazione della situazione, nell’ambito del diritto internazionale, di quegli enti rivolti ad
operare secondo una logica anti-sistema in virtù di un ampio impiego di atti di violenza e senza alcuna sensibilità per il
rispetto dei diritti umani universali. Tanto più difficile risulta la valutazione anche in considerazione del fatto che i predetti

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enti risultano localizzati in territori appartenenti a stati che non sono in grado di impedirla. Di tali fenomeni uno dei più
significativi è il califfato dell’ISIS, autoproclamatosi Stato Islamico, che opera da sedi ottenute in virtù di limitate
occupazioni territoriali localizzate prevalentemente in Libia, Siria e Iraq.
Si è dibattuto e tuttora si dibatte se a tale ente debba essere attribuita soggettività nazionale, anche se in ogni caso si
ritiene che sia tenuto a rispettare gli obblighi erga omnes previsti dal diritto internazionale, tanto che nei suoi confronti
direttamente le NU non hanno esitato a denunciarne la violazione e a invocare al riguardo l’utilizzo della forza per la
relativa repressione.
Il Sovrano Ordine Militare di Malta e la Santa Sede
L’insieme dei privilegi conseguenti all’attribuzione della personalità giuridica degli stati sono estesi ad altri enti e
organizzazioni collettive dotate di effettiva e indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici, in funzione del loro ruolo
riconosciuto ed esercitato nelle relazioni internazionali. Si tratta di enti collettivi diversi dagli stati, ma nel passato dotati
dei caratteri propri degli stati, che tutt’ora perseguono valori e fini che la comunità internazionale riconosce come propri.
Tra tali enti sono significativi la Santa Sede e il Sovrano Ordine Militare di Malta.
In realtà, è proprio all’interno dell’ordinamento italiano che la personalità giuridica di tali enti si manifesta, con particolare
evidenza attraverso il riconoscimento a loro favore in una misura assai ampia di posizioni soggettive tutelate dal diritto
internazionale.
Il SOM di Malta è un ente sorto per fini militari e di assistenza sanitaria che manifestò la sua autonomia e indipendenza dal
XIV secolo, quando si dotò di una vera e propria sovranità territoriale su Rodi e Malta persa poi alla fine del XVIII sec, tale
ente riuscì però a mantenere la propria autonomia e indipendenza proseguendo la sua attività nel settore dell’assistenza
sanitaria nella sua sede a Roma, lasciando invariati i propri rapporti diplomatici con molti stati europei.
L’esigenza di conservare a tale ente la personalità giuridica internazionale anche dopo la perdita della sovranità territoriale
ha potuto essere soddisfatta in quanto si è rilevato che è portatore di un ordinamento giuridico originario indipendente.
È in virtù della riconosciuta esigenza di garantire il perseguimento dei suoi fini, in quanto tradizionalmente condivisi e
valorizzati come essenziali dalla comunità internazionale, che si sono mantenuti a suo favore privilegi assimilabili a quelli
attribuiti agli stati (tali privilegi pertanto riguardano solo gli atti, i beni e le persone che ne sono organi).
La ratio alla base dell’attribuzione della personalità internazionale al SOM di Malta vale a maggior ragione con
riferimento alla Santa Sede. In realtà, pur essendo discutibile l’essere un vero e proprio stato lo Stato della Città del
Vaticano, si è sempre ammesso che la Santa Sede gode della sovranità nelle relazioni internazionali quale caratteristica
relativa alla sua natura, in conformità alle sue tradizioni e alle richieste ella sua missione nel mondo. Infatti, la Chiesa
Cattolica, con la Santa Sede che n’è l’ente esponenziale, opera nella pratica dei rapporti internazionali quale struttura
organizzativa autonoma con un proprio ordinamento giuridico dotato di caratteristiche di originarietà e indipendenza.
La Santa Sede e lo Stato della Città del Vaticano godono quindi della maggior parte dei diritti e dei privilegi che
attraverso la personalità giuridica vengono attribuiti e garantiti agli stati: essa può intrattenere rapporti internazionali con
gli stati e con le organizzazioni internazionali, gode delle immunità previste, conclude trattati internazionali, ottiene il
riconoscimento negli ordinamenti statali degli effetti dei suoi atti normativi e partecipa ad organizzazioni internazionali i
cui scopi siano funzionali alla sua missione.
Le organizzazioni internazionali intergovernative
L’ordinamento internazionale impone obblighi e garantisce il trattamento privilegiato, conseguente all’attribuzione della
personalità giuridica, anche alle organizzazioni internazionali create dagli stati in virtù di accordi internazionali rivolti a
perseguire collettivamente fini e valori internazionalmente rilevanti che senza adeguato supporto internazionale non
possono realizzare con la necessaria adeguatezza.
Il fenomeno trova le sue iniziali manifestazioni sin dalla fine del XIXsec, ma è stato dopo la seconda guerra mondiale che
si è affermato il ruolo delle organizzazioni internazionali intergovernative con la precisa attribuzione, in ambito
internazionale, di uno status, di obblighi e di una serie di privilegi riconducibili alla personalità giuridica internazionale.
Le organizzazioni internazionali, diversamente dagli stati, non sono dotate di una competenza generale: sono governate
dal principio di specialità, cioè ad esse è attribuita una personalità internazionale con diritti, obblighi e poteri parametrati
in funzione del perseguimento degli interessi comuni che gli stati hanno affidato loro, nei limiti delle attribuzioni e dei
poteri che hanno loro assegnato. In realtà nel passato gli obblighi e i privilegi riconosciuti a tali enti dal diritto
internazionale generale e dai loro atti costitutivi erano ricondotti direttamente in capo agli stati partecipi della costituzione
e del loro funzionamento: si enfatizzava così il loro ruolo di organi comuni degli stati partecipi della loro creazione.
Omai però tali organizzazioni internazionali si sono affermate con caratteristiche di autonomia e di funzioni ad esse
proprie, non vi sono più quindi incertezze sul fatto che la loro personalità giuridica internazionale sia distinta da quella
degli stati membri. A tal principio si è ispirata anche la giurisprudenza italiana, rilevando che una organizzazione
internazionale deve risultare dotata di organi sociali non solo distinti dagli stati, ma neppure riconducibili ad organi
comuni a tali stati. Si deve trattare di organi propri dell’organizzazione internazionale che devono a) essere dotati di
un’adeguata autonomia distinta da quella degli enti membri e b) avere una propria missione ben definita con effettiva
attribuzione delle relative competenze nei cui limiti corrisponde la titolarità di uno specifico status nella comunità
internazionale.
I caratteri della personalità giuridica delle organizzazioni internazionali
I caratteri appena indicati e la loro rilevanza sono stati precisati perché se ne è verificata la rilevanza a proposito
dell’ONU, da parte della CIG in un caso famoso: si trattava di stabilire se le NU godessero del diritto di essere risarcite
del danno provocato a seguito della violazione degli obblighi relativi al trattamento e alla protezione internazionalmente
dovuta ad un loro agente. In tale occasione si è osservato in base al requisito a) che la pratica ha confermato il carattere
dell’adeguata autonomia dell’organizzazione, che occupa una posizione distinta dai suoi membri e ai quali deve
ricordare il rispetto di certi obblighi. Per il requisito b) si è precisato che l’organizzazione è stata destinata ad esercitare

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funzioni e a godere di diritti che possono spiegarsi solo se ad essa è attribuita la personalità internazionale e la capacità
di agire sul piano internazionale.
In presenza di questi requisiti, in virtù del principio di specialità, le organizzazioni internazionali non sono dotate di una
personalità internazionale con effetti identici a quelli attribuiti agli stati a causa dell’impossibilità di porre su un piano di
parità assoluta stati e organizzazioni internazionali, pertanto a loro soggettività giuridica internazionale non basta ad
equipararla ad uno stato esteso tanto da assicurare la loro immunità giurisdizionale.
La personalità delle organizzazioni quindi opera ed è prevista dal diritto internazionale entro limiti funzionali allo
svolgimento della loro missione secondo la disciplina ricavabile dagli impegni che si sono assunti gli stati nell’ambito del
loro statuto costitutivo e secondo le modalità indicate tenuto conto degli accorti di sede.
Si tratta quindi di una personalità internazionale che consente alle varie organizzazioni internazionali di essere titolari di
quelle situazioni giuridiche e di quella somma di privilegi garantiti dal diritto internazionale essenziali per consentire lo
svolgimento della loro attività nell’ambito della comunità internazionale, al fine di permettere agli organi istituzionali
dell’ente di intrattenere i rapporti giuridici necessari per operare efficacemente (capacità ristretta).
Si esclude che qualsiasi organizzazione internazionale possa atteggiarsi a super-stato, si esclude che qualsiasi
organizzazione internazionale sia in grado di sovrapporre la propria struttura organizzativa a quella che caratterizza la
comunità internazionale modificandola nel senso di garantire un accentramento e verticalizzazione delle funzioni creative
e di attuazione del diritto internazionale. Peraltro in alcuni casi, se l’ONU riscontra gravi crimina iuris gentium o la
violazione di obblighi erga omnes tende ad assumere il ruolo e la funzione di un vero e proprio organo materiale
dell’intera comunità internazionale. In tal senso essa opera come ente rivolto a garantire, attraverso interventi legittimati
dal diritto internazionale generale piuttosto che dal suo statuto, l’effettività delle garanzie e della tutela di norme che
prevedono obblighi a carico degli stati nei confronti della comunità internazionale nella sua interezza.
Il valore delle disposizioni contenute negli statuti o negli accordi di sede
Secondo i principi indicati della capacità ristretta delle organizzazioni internazionali rispetto a quella attribuita agli stati,
sono formulate e attuate disposizioni ad hoc nei loro statuti e in specifici accordi relativi al loro status giuridico, da cui è
possibile ricavare i limiti entro cui opera la loro personalità giuridica internazionale.
Tali disposizioni hanno una mera portata descrittiva e narrativa. Si tratta soltanto della dichiarata intenzione degli stati
membri di garantire la partecipazione dell’organizzazione internazionale alle relazioni internazionali godendo della
somma dei privilegi riconosciuti a favore degli stati nella misura necessaria al perseguimento dei suoi fini istituzionali.
La personalità giuridica di diritto interno delle organizzazioni internazionali
Quanto detto sulla personalità giuridica internazionale delle organizzazioni internazionali non deve essere confuso con la
loro personalità giuridica di diritto interno. A tal proposito, le disposizioni previsti nei trattati istitutivi hanno una vera e
propria efficacia normativa nel determinare i caratteri e gli effetti di tale personalità alla quale consegue nel diritto interno
di ogni stato membro la capacità dell’organizzazione internazionale di concludere contratti, di acquistare beni mobili ed
immobili, di stare in giudizio. Anche nei casi in cui l’accordo istitutivo di una organizzazione internazionale nulla disponga
espressamente, non vi sono mai stati problemi o incertezze da parte dei giudici interni e/o da parte delle autorità
amministrative degli stati membri nel riconoscere a suo favore il trattamento riservato alle persone giuridiche di diritto
interno nella misura in cui risulta funzionale al perseguimento dei suoi scopi sociali.
Analogo trattamento è riservato anche ad organizzazioni internazionali di cui siano membri solo stati terzi rispetto allo
stato in cui operano.
La personalità giuridica degli individui
Nel diritto internazionale classico e nelle recenti tendenze
È vero che molte norme di diritto internazionale prevedono una disciplina di rapporti giuridici o di situazioni giuridiche
soggettive di cui sono destinatari gli individui, secondo criteri e con modalità tali che ne consentono la diretta e
immediata applicazione e attuazione nei loro confronti; ma è vero anche che, secondo l’impostazione tradizionale del
diritto internazionale, tale applicazione ed attuazione può avvenire solo per il tramite degli stati e nell’ambito degli
ordinamenti statali. Da tale impostazione consegue che, pur in presenza di norme di diritto internazionale idonee a
compiutamente regolare situazioni giuridiche individuali o rapporti interindividuali, esse possono essere fatte valere da
parte degli individui all’interno degli ordinamenti statali solo allorché siano state volute come tali da parte degli stati
contraenti e siano effettivamente attuate in esecuzione del corrispondente obbligo internazionale da parte e nell’ambito
degli ordinamenti statali. Gli individui, anche nei casi in cui siano beneficiari sostanziali delle situazioni giuridiche create
dalle norme di diritto internazionale indicate, sono in grado di ottenerne l’attuazione innanzi ai giudici nazionali solo
nell’ambito degli ordinamenti degli stati adempienti a quanto indicato nel secondo punto. Al tempo stesso gli individui,
nella maggior parte dei casi, non sono in grado di far valere in alcun modo, in ambito internazionale, l’inadempimento
che ha provocato la lesione dei contenuti previsti a loro favore, non essendo in grado di avvalersi delle garanzie e degli
strumenti giurisdizionali previsti dal diritto internazionale, normalmente azionabili solo dagli stati.
Le ragioni e la logica che ne sono a fondamento continuano ad essere fortemente sentite in ambito internazionale: gli
stati sono restii a riconoscere, direttamente ed immediatamente a favore degli individui, diritti ed obblighi previsti da
norme internazionali se non in quanto essi siano entrati a far parte attraverso varie modalità dei loro ordinamenti
nazionali. Due recenti fenomeni hanno però modificato parzialmente la situazione e l’ottica appena indicata.
In primo luogo, l’affermarsi di una responsabilità penale personale direttamente prevista, e giurisdizionalmente
azionabile, nell’ambito dell’ordinamento internazionale direttamente nei confronti degli individui che commettono
determinati comportamenti considerati crimina iuris gentium (anche se i comportamenti sono adottati dagli individui nella
loro qualità di organi di enti dotati di personalità internazionale).
In secondo luogo, si riscontra l’affermarsi di una disciplina di comportamenti e la previsione di obblighi posti a carico degli
enti dotati di personalità giuridica internazionale non più funzionali alla reciproca tutela della loro autonomia, indipendenza

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e sovranità a soddisfazione delle esclusive esigenze dei governanti, bensì alla diretta protezione di alcuni fondamentali
diritti dei governati: ne sono testimonianza la progressiva affermazione di un vero e proprio diritto internazionale unitario e
di corrispondenti forme di tutela, anche giurisdizionale, direttamente previste anche a favore degli individui ed operanti in
ambito internazionale. Anche in ambito internazionale, si inizia dunque ad affermare una concezione individualistica della
società, portando l’individuo al centro dei diritti e degli obblighi verso l’intera comunità internazionale.
I crimina iuris gentium e la diretta responsabilità degli individui
Per quanto riguarda la presenza di norme a contenuto tale da comportare obblighi specificamente e direttamente previsti
a carico degli individui, già nel passato alcuni comportamenti degli individui erano valutati da parte del diritto
internazionale come crimini di cui anch’essi, oltre allo stato, assumevano diretta responsabilità internazionale.
Peraltro, anche in tali casi, le norme indicate potevano trovare concreta attuazione nei confronti degli individui
responsabili dei comportamenti criminali solamente entro gli ordinamenti statali, tanto che al fine di rendere effettiva la
sanzionabilità è stato previsto un vero e proprio obbligo da parte degli stati, con corrispondente diritto degli altri, di
perseguire i colpevoli o di consegnarli ad uno degli stati nei quali tali comportamenti prevedono una condanna.
In questi ultimi decenni si è però affermata la rilevanza e diretta applicazione nei confronti degli individui delle norme che
sanzionano alcuni specifici crimina iuris gentium: si sono così affermate norme internazionali che non solo disciplinano
ma provvedono anche a sanzionare direttamente gli individui per alcuni specifici comportamenti criminali attraverso
autonomi strumenti procedimentali istituiti ad hoc. In tale contesto si precisa anche la preclusione della possibilità, per gli
individui imputati di tali comportamenti criminali, di avvalersi degli istituti di diritto internazionale limitativi dell’effetto
procedimentale o sanzionatorio, distinguendo così nettamente l’eventuale responsabilità dello stato rispetto a quella
diretta degli individui coinvolti in comportamenti riconducibili ai crimina iuris gentium.
Tali principi sono stati progressivamente affinati e precisati sino alla formulazione più evoluta accolta nello statuto del
tribunale penale per la ex Jugoslavia. Nello stesso senso sono formulate anche le corrispondenti disposizioni dello
statuto della corte penale internazionale.
Nessun dubbio quindi che attualmente il diritto internazionale prevede una disciplina della responsabilità di individui,
distinta da quella degli stati di cui sono organi, con riguardo ad alcuni comportamenti specificamente vietati anche nei
loro confronti e che, nell’ambito dello stesso ordinamento internazionale, esistono istituzioni e operano specifici strumenti
processuali rivolti a consentire di giudicare e sanzionare tali comportamenti.
La tutela internazionale dei diritti degli individui
All’affermarsi di obblighi e di procedimenti internazionali direttamente operanti nei confronti degli individui corrisponde
anche il definitivo consolidamento di diritti con relative garanzie procedimentali previsti dal diritto internazionale a favore
degli individui ed autonomamente azionabili da questi con un maggiore grado di intensità ed effettività.
Si tratta del progressivo consolidarsi nell’ambito dell’ordinamento internazionale di sistemi normativi e giurisdizionali
specificamente rivolti a garantire, da un lato, la titolarità a favore degli individui di situazioni giuridiche soggettive
disciplinate da norme internazionali formulate secondo criteri idonei a produrre effetti diretti a protezione dei loro interessi
individuali e, dall’altro, la presenza di adeguati strumenti processuali internazionali specificatamente destinati a
garantirne l’applicazione a favore degli individui anche nei confronti degli stati di loro appartenenza.
Sulla scorta di tali circostanze, si è affermato che il diritto internazionale ha assunto una portata democratica, avendo
allargato la sua componente soggettiva e la sua tutela diretta anche a favore degli individui, ciò si riscontra con
particolare riguardo ai diritti dell’uomo: gli individui vengono infatti riconosciuti come diretti titolari di situazioni giuridiche
protette nell’ordinamento internazionale e possono giovarsi anche di specifici procedimenti istituiti e direttamente
disciplinati dal diritto internazionale per la loro tutela giurisdizionale.
La personalità giuridica limitata dell’individuo
Di fronte a tale evoluzione del diritto internazionale sembra pertanto possibile riconoscere una -pur limitata- personalità
internazionale degli individui circoscritta alle situazioni indicate, si tratta però di una personalità giuridica particolare
rispetto alla personalità di diritto comune di cui gli stati sono i naturali destinatari: gli individui potranno far valere in
ambito internazionale, entro dei limiti e a determinate condizioni, solo alcune situazioni giuridiche con i corrispondenti
obblighi e diritti, oltre che nell’ambito di particolari procedimenti specificamente previsti al riguardo dallo stesso diritto
internazionale. Gli individui possono far valere nei confronti degli stati solo quei limitati diritti specificamente previsti a
loro favore azionando le relative garanzie e procedure internazionali.
Per converso, si riscontrano speciali normative e/o provvedimenti adottati in ambito internazionale in virtù dei quali gli
individui ne risultano i diretti destinatari e in forza di tali circostanze è stato possibile giungere all’erogazione diretta nei
loro confronti di sanzioni o di condanne (tanto che, a questo riguardo, sono istituiti specifici organismi operanti nel diritto
internazionale rivolti esclusivamente ad accertare la sanzionabiltà di comportamenti individuali).
Non si può fare a meno di riscontrare che l’attuale stadio di evoluzione del diritto internazionale si caratterizza nel
perseguire la protezione dei diritti dell’individuo che, in alcune situazioni, è in grado di giovarsi direttamente della tutela
che gli viene garantita dal diritto internazionale (assicurata non solo in virtù dell’operatività dei tradizionali istituti affidati
alla gestione e alle iniziative dello stato di appartenenza dell’individuo, ma anche in virtù di specifici strumenti giuridici e
giurisdizionali previsti a suo favore).
La sintesi e la conclusione provvisoria
Si può concludere che la normativa di diritto internazionale generale, all’opposto di quanto avviene negli ordinamenti
statali, è normalmente formulata e prevista avendo come naturali destinatari enti statali e organizzazioni collettive tra cui
rilevano quelle interstatali oltre ad alcuni enti. Però anche i popoli e le minoranze oltre che gli enti esponenziali che
tutelano le loro legittime aspettative risultano titolari di situazioni giuridiche direttamente previste e garantite nella
normativa di diritto internazionale a carattere speciale in funzione e nei limiti della operatività della quale anche gli
individui è attribuita circoscritta personalità giuridica in diritto internazionale.

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Le tendenze evolutive della struttura interstatale della comunità internazionale


La più recente evoluzione della comunità internazionale mette in evidenza il progressivo ampliamento della sua base
oggettiva e della tutela di situazioni giuridiche conseguenti all’attribuzione, pur a limitati fini e riguardo a specifiche
situazioni giuridicamente protette, della personalità giuridica a soggetti diversi dagli stati.
In tal senso devono essere riqualificati anche i diritti e gli obblighi previsti dall’ordinamento internazionale destinati ad
operare non solo nei confronti e a vantaggio degli stati.
Non stupisce pertanto che nella comunità internazionale si riscontri una sempre maggiore presenza di ulteriori soggetti
privi di una completa personalità giuridica internazionale, ma in grado di incidere in misura crescente nell’elaborazione e
attuazione delle norme internazionali, i cui contenuti sono sempre più difficilmente da intendere come rivolti alla sola
tutela di interessi e situazioni la cui titolarità spetta ai soli stati.
Il fenomeno della globalizzazione ha messo in discussione le stesse fondamenta della struttura interstatale della
comunità internazionale e gli stessi equilibri macroeconomici alla base dei rapporti internazionali: la dimensione globale
di alcuni fenomeni e la conseguente delocalizzazione dei relativi rapporti giuridici, hanno evidenziato l’assoluta
inadeguatezza ad affrontarli da parte di una comunità internazionale esclusivamente interstatale.
Non si tratta più di garantire solamente l’indipendenza e il rispetto della sovranità territoriale degli stati; i mutamenti e le
caratteristiche dei relativi fenomeni che hanno provocato la globalizzazione trascendono la capacità di qualsiasi stato di
affrontarli individualmente e richiedono regole ed istituti adeguati al loro carattere transnazionale oltre che a reprimere le
devianze comportamentali direttamente nei confronti di individui e imprese, tanto più in presenza di più significativi e
rilevanti obblighi erga omnes, i cui beneficiarsi non sono solo gli stati ma anche individui e imprese.
In realtà, non sono ancora chiari la misura e gli effetti di tali mutamenti, tanto più che la globalizzazione può rappresentare
solo l’inizio di una vera e propria rivoluzione della struttura organizzativa e della base sociale della comunità internazionale.
Si assiste ad una asimmetria fra attività non più riconducibili ai confini nazionali e regole internazionali ancora fondate
sull’adeguatezza della sovranità statale ad affrontare e controllare gli effetti di ogni fenomeno sociale; è il fine di superare tali
asimmetrie e consentire l’evoluzione della comunità internazionale verso modelli organizzativi adeguati (i più significativi
sono i modelli di organizzazioni internazionali rilevanti per il settore economico) alla soddisfazione della società e delle sue
componenti che caratterizza il suo più recente sviluppo normativo.
Si percepisce comunque che la comunità internazionale è destinata a non essere più stato-centrica e gestita da soli stati
secondo un modello organizzativo da cui essa ha tratto le origini nel XVII sec: dallo status di sovranità assoluta e
indipendenza degli stati e da regole rivolte esclusivamente a garantire la salvaguardia di tali caratteri, si passa ad una
condizione di sempre più intensa interdipendenza delle comunità statali e dei loro popoli; emergono inoltre obblighi erga
omnes rivolti a tutti gli stati di cui ognuno di essi ha diritto di pretendere il rispetto anche con mezzi coercitivi.
D’altro canto, emergono anche norme specificamente rivolte a creare e a riconoscere la presenza in ambito internazionale
non solo di principi e valori globali universali, ma anche di norme che compiutamente ne elaborano e ne positivizzano i
contenuti secondo formulazioni direttamente operanti sia nei confronti degli stati, sia nei confronti di soggetti diversi da essi
e nei confronti di individui e imprese. Ci si trova di fronte a regole sempre più complesse e a contenuti materiali sempre più
ampi caratterizzati da un effettivo allargamento progressivo dei loro destinatari e dalla maggiore partecipazione alla loro
elaborazione da parte di esponenti dei vari interessi sostanziali coinvolti dalla relativa normativa.
Tale rilievo non significa che la comunità e il diritto internazionale si siano già trasformati in un sistema sociale e
normativo compiutamente inclusivo anche di popoli, imprese e individui.
Evoluzione dei sistemi di cooperazione tra stati e presenza di nuovi attori in ambito internazionale
In tale contesto emerge il mutato ruolo degli individui e delle imprese multinazionali oltre che la specifica rilevanza delle
organizzazioni internazionali. A queste ultime è attribuita una personalità giuridica sempre più estesa con effetti sempre
più significativi sulle relazioni internazionali e, proprio attraverso la loro evoluzione e il loro sviluppo si è riscontrato, il
passaggio da rapporti del commercio internazionale diretti da meccanismi interstatali, ad un sistema istituzionalizzato
della disciplina dei rapporti economici internazionali nell’ambito di specifiche organizzazioni internazionali dotate di
precisi poteri normativi, sanzionatori e giurisdizionali oltreché di personalità giuridica internazionale.
Ciò che ha qualificato i mutamenti della composizione della comunità internazionale nella direzione indicata è la
partecipazione ai processi di elaborazione normativa internazionale e i relativi meccanismi di garanzia, di attori non
ancora dotati di personalità giuridica internazionale (soggetti ed enti privi di una struttura governativa ma in grado di
avviare e condurre un diverso procedimento di elaborazione normativa internazionale rispetto a quello tradizionale).
Tra essi assumono importanza le Organizzazioni non governative (ONG) e le imprese multinazionali (IMN), le prime
particolarmente rappresentative degli interessi pubblicistici della società civile universale e, le seconde, degli interessi
produttivi di un sistema economico-finanziario globale coerente con modelli organizzativi idonei a massimizzare
l’efficienza e l’aumento del valore. Tale loro ruolo è stato qualificato come fondamentale al fine di avviare l’attuazione del
principio democratico sul piano internazionale e di perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile dalla comunità
internazionale. Non stupisce quindi riscontrare una sempre più larga ed efficace partecipazione delle ONG
all’elaborazione della normativa internazionale, la Carta delle NU prevede infatti che abbiano un consultative status.
La presenza delle ONG rileva non solo nell’elaborazione e attuazione di norme internazionali, ma anche nell’ambito di
procedimenti giurisdizionali, arbitrali e paragiurisdizionali relativi a controversie in cui gli interessi che esse perseguono
sono coinvolti. Tanto che, nei casi in cui esse non possono essere parti attive, si riconosce loro la posizione di amicus
curiae così che l’organo decisionale ne ritenga utile la presenza in giudizio.
Il ruolo delle imprese multinazionali
In un sistema globalizzato è sempre più significativo anche il ruolo delle IMN nella determinazione della disciplina di
diritto internazionale. Tale ruolo è ancor più accentuato con riferimento alle regole internazionali relative alla circolazione
ed agli effetti di alcuni strumenti finanziari di cui soprattutto si avvalgono le IMN per i propri investimenti, tanto che da tali

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regole gli stessi stati non possono prescindere. Sono pertanto sempre più evidenti scenari normativi in cui le IMN
risultano attori e destinatari di regole delle quali il diritto e la comunità internazionale non possono fare a meno di tenere
in considerazione. Per converso, appare sempre più necessario che le IMN risultino direttamente assoggettate ad alcuni
principi di diritto internazionale relativi alla tutela dei diritti dell’uomo, alla salvaguardia dei diritti sociali dei lavoratori e al
rispetto di alcuni valori propri degli stati nel cui ambito si producono gli effetti dei loro comportamenti.
È significativo lo sforzo operato in tal senso nell’ambito della UE, allo scopo di definire un preciso quadro giuridico delle
norme internazionali della cui applicazione le imprese europee devono rendersi garanti e il cui mancato rispetto fa
sorgere nei loro confronti una responsabilità sociale invocabile in ambito internazionale (la cui natura ed estensione ha
ancora confini non definiti, ma che può essere ricondotta al rispetto dei diritti umani e alla disponibilità ad affrontare
costruttivamente la soluzione dei problemi e degli effetti negativi eventualmente conseguenti a loro comportamenti).
Gli stati dell’OECD hanno fornito specifici parametri di comportamento direttamente rivolti alle IMN al fine di rinforzare la
reciproca fiducia tra le imprese e le società in cui esercitano le loro attività: le IMN sono state sottoposte direttamente a
sanzioni adottate secondo provvedimenti previsti da norme internazionali proprio in quanto destinatarie di alcuni obblighi
di diritto internazionale oltre che dalle eventuali conseguenti sanzioni, senza alcuna intermediazione, degli stati a vario
titolo interessati alla loro attività.
Ne risulta una situazione in cui le IMN pur prive di personalità giuridica internazionale non solo partecipano attivamente
alla formazione delle norme internazionali che le riguardano, ma assumono anche un ruolo di interlocutore diretto degli
stati e delle organizzazioni internazionali nella concreta attuazione di tali norme nell’ambito di veri e propri rapporti
internazionali. Sono anche in grado di partecipare a procedimenti giurisdizionali e arbitrali in cui far valere violazioni di
garanzie e diritti previsti direttamente a loro favore da norme internazionali. In presenza di violazione da parte di una di
esse di standard internazionalmente adottati in specifiche norme di diritto internazionale o elaborate da organizzazioni
internazionali è possibile far valere direttamente nei loro confronti le relative responsabilità in virtù di meccanismi e
strumenti internazionali, a prescindere dalla specifica disciplina nazionale al riguardo applicabile.
Diritto internazionale e globalizzazione
Si può conclusivamente osservare che la globalizzazione si pone come un momento di discontinuità rispetto al processo
di internazionalizzazione che ha caratterizzato la struttura della comunità internazionale negli ultimi quattro secoli: si
tratta di un processo che tende a trasformare l’organizzazione delle relazioni economiche e sociali, ampliando l’ambito
materiale della disciplina internazionale dei rapporti rilevanti e rendendo più interconnesse le varie comunità statali, con
progressivo depotenziamento dell’assolutismo della loro sovranità.
Tale disciplina risulta anche positivizzata attraverso la mediazione di norme la cui adozione è affidata ad enti o agenzie
qualificati per loro professionalità, indipendenza e rappresentatività dell’ambito sociale al quale è rivolta la loro attività.
A tali enti la comunità internazionali o le organizzazioni internazionali affidano provvedimenti urgenti a carattere
individuale, riguardanti specifici servizi o prodotti al fine di garantire il corretto funzionamento del mercato al quale si
rivolge la loro attività. Essi garantiscono esperti e istituzioni in grado di decidere con autonomia e indipendenza in modo
efficiente, come richiede la necessità di governo di una società globalizzata.
L’importanza delle attribuzioni affidate a questi enti nei processi normativi internazionali ha provocato rilievi critici, tanto
che alcuni hanno denunciato effetti potenzialmente idonei a rendere il diritto internazionale subalterno al capitalismo
finanziario e del mercato, evocando l’esigenza di invertire tale tendenza a favore del recupero da parte degli stati di
alcune funzioni svolte dagli enti caratterizzati nel senso indicato. Il fenomeno evolutivo del diritto e dell’organizzazione
internazionale appena descritto appare peraltro ormai difficilmente reversibile. Ne risultano una precisa tendenza e
un’esigenza di cui la comunità assume maggiore consapevolezza alla ricerca di adeguate soluzioni per soddisfarla.
a) La tendenza è verso una struttura della comunità internazionale nella quale, da un lato, l’indipendenza e la
sovranità territoriale degli stati risultano allentati e, dall’altro, la disciplina internazionale dei rapporti economici e
sociali si estende grandemente dipendendo non solo dagli stati, ma da una pluralità di altri soggetti e attori il cui
coordinamento spetta in misura sempre maggiori ad organizzazioni internazionali. Si tratta di un’evoluzione verso
un sistema internazionale in cui sono destinati ad operare con sempre maggiore intensità principi norme, istituti e
garanzie nella cui elaborazione ed attuazione tutti i decisori globali non debbono tener conto solo dei loro immediati
interessi, ma di quelli più generali dell’intera comunità internazionale.
b) Da tale considerazione emerge anche l’esigenza che tutti gli enti, a vario titolo partecipi dei vari processi decisionali
che incidono sugli equilibri economici e sociali che caratterizzano la comunità internazionale, debbano rendere
conto e giustificare i loro comportamenti non solo nei confronti dei loro immediati referenti diretti. Solo attraverso la
soddisfazione di tale esigenza si può immaginare che la globalizzazione trasformi la struttura della comunità
internazionale in modo coerente con le esigenze di un incontro costruttivo e non conflittuale tra culture nel rispetto
delle varie identità. La globalizzazione non potrà essere dissociata dallo sviluppo di modalità operative
maggiormente democratiche diverse da quelle di una governance modellata e funzionante esclusivamente secondo
criteri propri degli enti che operano nel, e per, il mercato. Dovranno essere individuate modalità operative rivolte a
garantire un vero e proprio government dei fenomeni rilevanti in ambito internazionale ed idonee a favorire
soluzioni in materia di politica economica rivolte a soddisfare le esigenze, non solo dei singoli stati coinvolti, ma
anche di tutte le componenti sociali che in modo sempre più significativo sono presenti nel diritto internazionale.
In questa prospettiva dovranno essere favoriti anche organismi ed enti a base regionale, organizzativamente
caratterizzati nel senso indicato, per mantenere e rinsaldare il rapporto tra sovranità e territorio che l’erosione del
potere dei singoli stati tende a compromettere.

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CAPITOLO II
IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE E LE SUE FONTI
di Riccardo Luzzato

Il diritto internazionale
Nell’ambito della società universale del genere umano si è venuto a sviluppare un nucleo di principi e di norme di
carattere non scritto dotati di alcune specifiche e peculiari caratteristiche:
a. Tale complesso di norme e principi non ha la funzione di regolare nel suo insieme il comportamento dei soggetti
che compongono la società universale nei rapporti che si instaurano tra loro o tra loro e i centri di potere: la loro
funzione è di regolare giuridicamente i rapporti che si instaurano tra i vari centri di potere, ovvero tra gli stati.
In questa prospettiva è giustificato dire che il diritto internazionale pubblico è il diritto della comunità degli stati,
tuttavia non si deve presuppore che tale comunità sia priva di ogni collegamento con la società civile del genere
umano. La comunità internazionale deve pertanto essere individuata nella sfera di relazioni sociali tra stati, ma
sempre nell’ambito della società universale del genere umano.
b. Il diritto internazionale, inteso come diritto della comunità internazionale nel senso ora precisato, sta nel carattere
autonomo di tale diritto: in quanto risultante da regole poste in essere per disciplinare i rapporti tra enti sovrani,
esso non può non essere riconducibile alla condotta o alla volontà di tali enti; generalmente si ha dunque
coincidenza tra creatori e destinatari delle norme internazionali. Però, a seconda del tipo di fatti che ai quali è
riconducibile la formazione del diritto internazionale, può variare la sfera dei destinatari della norma stessa e quindi
il suo ambito di efficacia (fenomeno pattizio, dominato dal principio della relatività degli effetti dei trattati
internazionali -che valgono solo tra chi li sottoscrive- che dà luogo al diritto internazionale particolare).
Caratteri essenziali del diritto internazionale generale
Le norme internazionali appartenenti al diritto internazionale generale (o comune) non sono il prodotto di atti di volontà
dei soggetti intesi a porle in essere, ma si formano nell’ambiente sociale di convivenza degli stati quale conseguenza
dell’operare di fatti diversi.
La norma generale viene ad esistenza se ed in quanto esprime una regola di condotta spontaneamente seguita dalla
comunità internazionale nel suo insieme: le norme generali trovano dunque il loro fondamento ultimo in un fatto sociale,
ovvero nel riconoscimento spontaneo come diritto, da parte dei soggetti, delle regole di condotta che esse enunciano.
Connotato essenziale del diritto internazionale generale è il suo carattere di diritto non scritto: il momento della creazione
è un tutt’uno con quello dell’attuazione. La traduzione delle norme in forma scritta è possibile, ma non può essere
inserita nel processo creativo della norma; anche quando la redazione per iscritto avviene ai fini della codificazione del
diritto, la traduzione in formule scritte rimane un fenomeno distinto dalla norma.
Nella realtà contemporanea, il diritto internazionale generale si manifesta nella consuetudine e nei principi generali di diritto.

LA CONSUETUDINE INTERNAZIONALE
Le norme consuetudinarie internazionali sono viste come la risultante di due elementi:
- Elemento di carattere oggettivo (o materiale): la ripetizione costante e conforme di un determinato comportamento,
considerato come doveroso, permesso o vietato dalla norma;
- Elemento di carattere soggettivo (o psicologico): la convinzione che il comportamento corrisponda a quanto previsto
dalla norma (opinio iuris).
Se, riguardo alla consuetudine, questa è l’impostazione prevalente, tuttavia non mancano coloro che riducono la nozione di
consuetudine al solo elemento materiale o solo a quello psicologico. La svalutazione dell’elemento soggettivo risponde
all’idea che esso non può essere rilevante sino al momento in cui la norma non sia venuta ad esistenza in virtù della
costante ripetizione della condotta, tuttavia, a questo punto, esso non aggiungerebbe nulla di più al fenomeno già compiuto.
La svalutazione dell’elemento oggettivo, al contrario, individua nella sola convinzione che il comportamento corrisponda alla
legge l’elemento capace di spiegare l’affermazione dell’obbligatorietà delle regole di condotta attraverso il riconoscimento da
parte dei soggetti. Guardando al fenomeno consuetudinario da un punto di vista puramente teorico, si può convenire che
l’elemento che ne giustifica, dal punto di vista giuridico, la capacità di creare regole di condotta vincolanti per i soggetti, va
rinvenuto nel fattore psicologico, ovvero nel riconoscimento della giuridicità della regola.
Tuttavia, tenendo presente che nel diritto non scritto il momento della creazione coincide con quello dell’attuazione della
regola di condotta, la concreta realizzazione della condotta e l’intento psicologico chela la guida sono tra loro strettamente
connessi, e difficilmente distinguibili nella pratica. La distinzione acquista però rilevanza nel momento dell’accertamento
giudiziale della norma consuetudinaria.
L’accertamento giudiziale delle norme consuetudinarie
In questa prospettiva, va tenuto presente innanzitutto l’art. 38 dello statuto della corte internazionale di giustizia: pur
trattandosi di una norma con la quale sono indicate le regole sulle quali la corte deve fondare la propria decisione, è molto
importante anche per la ricostruzione complessiva del sistema.
La descrizione che l’art. 38 fa della consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accertata come diritto,
è chiaramente ispirata all’idea della presenza di entrambi gli elementi tradizionali della consuetudine. A tale descrizione la
giurisprudenza internazionale, si è sempre mantenuta fedele quando si è trovata a dover accertare l’esistenza e il contenuto
di una data regola di diritto internazionale consuetudinario, avendo cura di precisare che la presenza di una pratica diffusa
non è di per sé sufficiente per affermare l’esistenza della norma consuetudinaria se non è accompagnata dalla convinzione
della giuridica obbligatorietà del comportamento.
Così è avvenuto nel caso della Delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord, sul quale la corte si è
pronunciata nel 1969, dovendo accertare se il principio dell’equidistanza, stabilito dall’art. 6 della Convenzione di Ginevra

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del 1958, sulla piattaforma continentale fosse divenuto parte del diritto internazionale consuetudinario. Tale principio è stato
ribadito anche nel 1996, quando la corte si è dovuta pronunciare sull’esistenza di una norma consuetudinaria che qualifichi
come illeciti la minaccia o l’impiego di armi nucleari e nel 2012, nel caso delle immunità giurisdizionali dello stato.
La determinazione e l’accertamento di una regola di diritto internazionale consuetudinario dovrebbero aver luogo sulla base
di un riscontro positivo dell’esistenza di uno o più fattori idonei a realizzare la formazione della norma che si tratta di
identificare. L’esame della giurisprudenza evidenzia peraltro la frequente presenza di situazioni nelle quali l’esistenza della
regola consuetudinaria in concreto applicata non risulta accertata sulla base di una valutazione accurata degli elementi
rilevanti a questo fine, quanto piuttosto individuata con procedimenti di carattere deduttivo attinenti alla ricostruzione del
contenuto e della portata della norma applicata in relazione alla sua collocazione nell’ambito del sistema giuridico
internazionale e dei rapporti con le altre norme dello stesso sistema; ciò contribuisce ad assicurare l’unitarietà e la coerenza
sistematica dell’ordinamento.
Elemento oggettivo ed elemento soggettivo della consuetudine nella pratica giurisprudenziale
Se la sola constatazione di una pratica non è stata ritenuta sufficiente a dimostrare l’esistenza della norma
consuetudinaria, nemmeno la mera affermazione di un’opinio iuris può essere considerata idonea a giustificare la
presenza di una norma consuetudinaria, se essa non si traduce in una pratica corrispondente. Anche tale esigenza di
un’effettiva corrispondenza di quanto affermato sul piano astratto a ciò che viene davvero tradotto in pratica dai soggetti
delle relazioni internazionali è stata sottolineata dalla corte internazionale di giustizia.
Bisogna aggiungere che la stretta connessione che esiste fra i due elementi delle norme consuetudinarie spiega come,
variando le circostanze di formazione di una norma, possa variare anche il modo di atteggiarsi di ciascuno di essi: si
pensi all’ipotesi norme consuetudinarie sorte al fine di regolare le relazioni tra stati in materie nuove, in precedenza rive
di regolamentazione; tali regole hanno la caratteristica di essersi sviluppate molto velocemente, ciò ha fatto sì che:
- Da una parte la pratica dei soggetti si sia manifestata con particolare intensità e frequenza nella fase iniziale
portando così rapidamente all’affermazione della regola;
- Dall’altra che l’elemento soggettivo, più che in consapevolezza di tenere un comportamento previsto o richiesto
dalla norma, si traduce in una precisa direzione della volontà e dell’azione di certi soggetti, intese a far sì che la
regola voluta trovi le condizioni necessarie per la sua affermazione.
Anche la pratica giurisprudenziale dà atto della possibilità che una norma consuetudinaria venga a formarsi in un lasso
di tempo relativamente breve, deve tuttavia concorrere l’atteggiamento di tutti gli stati i cui interessi siano specificamente
posti in gioco.
La stretta dipendenza tra elemento materiale ed elemento psicologico della consuetudine può assumere rilievo in una
direzione ancora diversa: si tratta qui di considerare le caratteristiche che la pratica degli stati deve presentare per dare
origine ad una regola consuetudinaria; a questo proposito si parla normalmente di pratica ripetuta, costante ed uniforme,
che risulta da comportamenti fra loro simili e coerenti. Questo requisito va però preso in considerazione e determinato in
vista della valutazione della pratica in correlazione con l’elemento soggettivo, e non semplicemente ricercando una
meccanica corrispondenza di comportamenti ripetuti, che può anche mancare.
I fatti rilevanti per la formazione delle norme consuetudinarie
Va innanzitutto sottolineato che la determinazione degli elementi rilevanti per la formazione delle norme consuetudinarie
non può obbedire a alcun criterio di natura formale poiché si tratta di accertare un fatto sociale. Inoltre, i fatti idonei a
determinare la formazione di una norma internazionale consuetudinaria vanno ricercati ed individuati unitariamente,
senza poter distinguere nettamente quelli attinenti all’elemento materiale e quelli attinenti all’elemento psicologico, in
quanto sono due profili strettamente collegati tra loro.
L’interprete deve dunque rivolgere la propria attenzione a una molteplice varietà di manifestazioni riconducibili agli stati,
nell’ambito delle quali, solo per comodità, possono essere distinte diverse categorie di fatti. Un tentativo di elencazione
degli elementi rilevanti ai fini dell’identificazione delle norme consuetudinarie è stato recentemente intrapreso dalla
commissione di diritto internazionale, vengono così in considerazione:
- La prassi diplomatica: tutte le espressioni di punti di vista, intenzioni, richieste, pretese che prendono posto nella
corrispondenza diplomatica tra i vari stati. Si tratta delle forme nelle quali gli organi delle relazioni internazionali
degli stati provvedono a manifestare il proprio atteggiamento sulle più varie questioni che sorgono nel concreto
sviluppo delle relazioni internazionali. Queste manifestazioni rappresentano l’espressione più immediata delle
posizioni degli stati sulle varie questioni e contribuiscono ad illuminare i vari aspetti delle situazioni discusse.
- Gli atti e i comportamenti degli stati: il catalogo delle forme è aperto, possono quindi rientrare in questa categoria gli
atti legislativi, amministrativi e giurisdizionali, sulla base della posizione gerarchica e della funzione dell’organo
statale che agisce nel quadro dell’ordinamento interno dello stato. In particolare, per quanto riguarda gli atti
giurisdizionali, si può ricordare l’ipotesi dell’applicazione da parte dei giudici nazionali delle norme consuetudinarie
relative all’immunità degli stati stranieri dalla legislazione interna.
Ai fini della rilevazione della prassi internazionale, negli ultimi anni, è stata fortemente significativa la diplomazia
multilaterale, il cui rilievo è accresciuto con il moltiplicarsi delle organizzazioni internazionali contemporanee che
permettono periodiche occasioni di dibattito consentendo di rilevare contestualmente gli atteggiamenti di una pluralità di
soggetti e i loro punti di vista, così da accelerare il processo formativo dei vari elementi della consuetudine.
- La giurisprudenza e la dottrina internazionale: non si tratta di riconoscere a queste la qualità di fonti del diritto
anche perché l’art. 38 dello statuto li definisce come mezzi sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche.
Sebbene il vincolo non sia giuridico, dottrina e giurisprudenza nella pratica sono rilevanti ai fini della ricostruzione
complessiva del diritto internazionale.

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- I trattati internazionali: essi rappresentano in primo luogo elementi della prassi degli stati, in secondo luogo atti
specificatamente intesi alla posizione di norme giuridiche. In quanto elementi della prassi, il fatto che determinate
regole di condotta si trovino frequentemente ripetute nella prassi convenzionale di più stati può costituire la prova
che tali regole valgono anche come norme consuetudinarie (quindi con efficacia generale) e che i trattati ne
rappresentano solo la riaffermazione; oltre alla mera ripetizione occorre però anche la dimostrazione che ciò
corrisponda alla convinzione che si tratta di comportamenti obbligatori, convinzione che si ricava dagli
atteggiamenti degli stati stessi. Sotto un secondo profilo, una regola stabilita dai trattati può, inizialmente, essere
posta in essere ai fini della modifica del diritto preesistente, ma venire a generalizzarsi in un momento successivo,
in quanto punto di riferimento della pratica degli stati dopo la stipulazione del trattato (situazione ricorrente negli
accordi conclusi ai fini di codificazione).
Il significato attuale del fenomeno consuetudinario
Quanto è stato esaminato fino ad ora dimostra che il fenomeno consuetudinario internazionale presuppone un notevole
grado di omogeneità della base sociale che lo esprime, infatti il venir meno di tale omogeneità provoca una crisi delle
regole consuetudinarie che può essere superata solo attraverso l’intervento di qualche potere capace di imporre
autoritativamente una nuova regolamentazione giuridica che prenda il posto di quella ormai priva del necessario
consenso sociale. Una tale crisi è stata subita dal diritto consuetudinario internazionale nel XX secolo, a causa di una
serie di fenomeni (come le due guerre mondiali e la guerra fredda) che hanno prodotto un movimento di contestazione di
buona parte del diritto consuetudinario esistente, la cui conseguenza è stata la tendenza alla sostituzione di gran parte
delle regole consuetudinarie vigenti con norme nuove. Questa tendenza è venuta ad essere canalizzata attraverso i
meccanismi previsti dalle Nazioni Unite e si è tradotta nel fenomeno della codificazione ed in quello dell’emanazione da
parte dell’assemblea generale dell’Organizzazione delle dichiarazioni di principi.
Oggi la frattura si è in buona parte ricomposta, nel suo complesso il fenomeno consuetudinario ha retto alla prova e
confermato la sua capacità di adeguarsi alle nuove situazioni anche grazie al concorso del processo di codificazione e
delle dichiarazioni di principi effettuate dall’assemblea generale. Il diritto internazionale ha così potuto mantenere il suo
carattere di diritto “di autonomia”, utilizzando però ai propri fini il sostegno istituzionale dell’organizzazione universale.
Le contestazioni delle norme consuetudinarie e il loro rilievo
La mancanza di omogeneità e la frammentazione della base sociale internazionale in una pluralità di gruppi eterogenei,
oltre a porre in crisi il fenomeno consuetudinario, può provocare il venir meno per desuetudine di norme non più
rispondenti all’opinio degli appartenenti ai suddetti gruppi. Un simile fenomeno si è manifestato a partire dagli anni ’50,
portando alla scomparsa di regole in precedenza vigenti.
Si deve però negare che la contestazione di una determinata regola consuetudinaria proveniente da un solo soggetto
valga di per sé a renderla inopponibile a chi muove tale contestazione, consentendogli di sottrarsi all’osservanza della
regola: tale comportamento consiste in una violazione della norma, al più potrà rappresentare l’inizio di un processo
destinato a risultare in un fenomeno di desuetudine. Va in particolare negato che uno stato possa sottrarsi
all’applicazione di una norma consuetudinaria quando abbia inequivocabilmente manifestato il proprio atteggiamento
contrario sin dall’inizio della sua fase di formazione. Appare da escludere l’esistenza di un’eccezione
consuetudinariamente stabilita al carattere vincolante di una norma consuetudinaria che sia di per sé accertabile.
La codificazione delle norme consuetudinarie
Tenuto conto dei caratteri tipi delle norme consuetudinarie, in particolare di essere norme non scritte, si può
comprendere come sia stata avvertita la necessità di una traduzione del loro contenuto in forma scritta; una vera e
propria opera di codificazione tuttavia è resa impossibile dalla mancanza di un ente fornito del potere giuridico
necessario. Quando si parla di codificazione del diritto internazionale generale ci si riferisce quindi al ricorso al trattato
internazionale, ma anche questo strumento è riferibile agli stessi soggetti che risulteranno destinatari dei relativi obblighi
e non ad un ente superiore e la sua efficacia soggettiva è limitata a coloro che ne divengono parti.
L’opera di codificazione può dunque tradursi soltanto nella conclusione di trattati internazionali che riproducano il
contenuto delle norme consuetudinarie, operando però soltanto nei confronti dei soggetti che intendano divenirne parti.
Pur con questi limiti intrinsechi, l’importanza dell’opera di codificazione emerge anche sotto un secondo profilo, quello
dell’adeguamento del diritto generale alle nuove esigenze.
L’opera delle Nazioni Unite per la codificazione
Esaminando i procedimenti concretamente utilizzabili ai fini della codificazione e i loro più importanti risultati, particolare
attenzione si deve rivolgere all’attività dell’ONU, non mancano peraltro esempi più antichi di codificazione del diritto
internazionale in determinate materie, come quella bellica e umanitaria.
L’art. 13 dello statuto dell’ONU prevede una competenza dell’assemblea generale a intraprendere studi e fare
raccomandazioni allo scopo anche di incoraggiare la codificazione del diritto internazionale. Con apposita risoluzione è
stata dunque istituita la commissione del diritto internazionale con la funzione di codificazione e sviluppo progressivo del
diritto internazionale, come indicato dall’art. 15 del suo statuto.
All’attività di quest’organo, composto da esperti che ne fanno parte a titolo individuale e non in rappresentanza degli
stati, è dovuta buona parte dell’attività di codificazione finora svolta. Altre volte però l’assemblea può incaricare altri
organi di predisporre studi e progetti intesi alla redazione di testi da sottoporre agli stati per l’approvazione.
In entrambi i casi il procedimento pur non essendo formalmente regolato nei suoi passaggi, è sicuramente molto complesso.
Tra i principali risultati della commissione di diritto internazionale si ricordano le quattro Convenzioni di Ginevra in
materia di diritto del mare (sostituite dalla convenzione di Montego Bay), quelle sulle relazioni diplomatiche e consolari,
quella sulle missioni speciali, sul diritto dei trattati tra stati o organizzazioni internazionali e quella della successione tra
stati in materia di trattati. Vanno poi ricordate i due progetti di articoli in materia di responsabilità degli stati e delle
organizzazioni internazionali per fatti internazionalmente illeciti.

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Il significato e la portata degli accordi di codificazione


Quando un accordo inteso alla codificazione del diritto internazionale generale viene stipulato, si tratta di determinarne
gli effetti ed i rapporti con il diritto generale preesistente.
Da un punto di vista formale, non vi è dubbio che l’accordo è capace di produrre tutti, ma soltanto, gli effetti che gli
competono in quanto trattato internazionale e che il solo fatto che intenda codificare il diritto generale non può attribuirgli
alcun effetto diverso o ulteriore. L’accordo quindi vincola solo i soggetti che siano divenuti parte, il diritto generale
continua invece ad esistere ed essere applicato nei rapporti fra stati non contraenti e fra questi e gli stati contraenti.
Ma quale può essere il rapporto fra l’accordo di codificazione e il diritto internazionale? La giurisprudenza della corte
internazionale di giustizia, nella sentenza sul caso della Delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord,
ha distinto tre ipotesi:
a. L’accordo può limitarsi a tradurre in forma scritta il contenuto di una norma generale già esistente, la norma
continuerà così a valere e ad applicarsi nel suo significato e nella sua portata originari: l’effetto proprio dell’accordo
avrà carattere meramente dichiarativo;
b. L’accordo può intervenire a completare un processo di formazione della norma consuetudinaria già in corso,
costituendone così il momento di cristallizzazione: il processo di definizione e consolidamento della norma generale
viene perfezionato e concluso dall’adozione dell’accordo;
c. L’accordo può contenere norme nuove rispetto al diritto preesistente che costituiscono il punto di partenza di un
processo destinato a tradursi nella creazione di una nuova norma generale.
In primo luogo, queste tre ipotesi possono verificarsi anche separatamente l’una dall’altra, con riferimento a norme
diverse contenute in uno stesso accordo di codificazione. In secondo luogo, il problema del rapporto con la norma
generale esistente e dell’influenza sull’eventuale formazione di una nuova norma può porsi non soltanto con riferimento
ad un risultato del processo di codificazione già compiuto, ma anche riguardo ad un progetto non ancora tradotto in
accordo.
Le dichiarazioni di principi dell’assemblea generale dell’ONU
Un altro fenomeno capace di influire sul processo formativo di norme internazionali consuetudinarie, con aspetti e
conseguenze simili a quelli degli accordi di codificazione, è rappresentato dalle dichiarazioni di principi dell’assemblea
generale dell’ONU. Si tratta, da un punto di vista formale, di risoluzioni adottate dall’assemblea che hanno valore di semplici
raccomandazioni e sono prive di efficacia obbligatoria per gli stati membri; rispetto alle altre risoluzioni, il loro carattere
rilevante sta nella generalità e nella rilevanza dei principi proclamati e nella particolare solennità della loro enunciazione.
Il ricorso a tali dichiarazioni divenne molto frequente a partire dagli anni ’60 in quanto gli stati appena divenuti
indipendenti, sostenuti dal blocco socialista, vi vedevano uno strumento capace di provocare un superamento del diritto
internazionale classico e la sua sostituzione con regole ispirate a nuovi principi. Negli anni recenti questo impulso si è in
gran parte esaurito.
Se dal punto di vista formale le dichiarazioni sono prive di valore obbligatorio in base alle norme che le regolano, non
può ritenersi che un’efficacia vincolante possa esser loro riconosciuta in base ad altri principi, ad esempio come risultato
di una regola consuetudinaria formatasi in questo senso nella comunità internazionale. Ciò non significa che alle
dichiarazioni di principi non debba essere attribuito notevole rilievo ai fini della rilevazione del diritto internazionale
generale o nella prospettiva della sua evoluzione; a questo riguardo possono ripetersi le considerazioni che la corte
internazionale di giustizia ha svolto nella sentenza sul caso della Delimitazione della piattaforma continentale del Mare
del Nord riguardo al fenomeno della codificazione (in entrambi i casi, comunque, occorre ribadire che si tratta di
fenomeni che non possono assumere il carattere di fonti del diritto generale).
Le moderne trasformazioni nel processo di formazione delle norme consuetudinarie
Tanto gli accordi di codificazione quanto le dichiarazioni di principi dell’assemblea generale, si inseriscono nel quadro
della prassi internazionale degli stati: i primi in quanto risultato del negoziato e della stipulazione di accordi, i secondi in
quanto esito di attività poste in essere nel quadro della diplomazia multilaterale.
Rispetto alle manifestazioni più tradizionali della prassi, si distinguono però per il fatto di essere specificatamente intesi
alla rilevazione e all’enunciazione di norme e di principi aventi carattere ed efficacia generale. Ne seguono significative
differenze riguardo la fisionomia del processo di formazione delle norme generali: l’intervento dei due tipi di atti nel
processo di formazione della norma fa sì che quando la norma generale sarà venuta a formarsi essa avrà come punto di
riferimento la regola scritta enunciata nell’accordo o nella dichiarazione. Certamente la norma consuetudinaria sarà il
risultato di diurnitas ed opinio, ma non vi è dubbio che tali elementi si saranno sviluppati in atti direttamente riferiti a
norme già interamente formulate che non rappresentano le regole consuetudinarie, ma certo ne costituiscono la base.
Le consuetudini regionali e locali
Norme consuetudinarie internazionali possono venire a formarsi tra due o più stati in modi e presupposti analoghi a
quelli esaminati; la sfera di efficacia di queste norme non scritte deve essere ovviamente ristretta agli stati ai quali i
comportamenti sono riferibili. Tali norme consuetudinarie possono venire a formarsi fra stati geograficamente confinati o
fra stati legati da vincoli pattizi.
L’elemento consensuale assume in caso di consuetudine puramente locale un ruolo determinante, in quanto questa non
potrebbe essere invocata nei confronti di uno stato che non vi abbia aderito con il proprio atteggiamento. Più che al
fenomeno della consuetudine generale, tale elemento assimila piuttosto la consuetudine locale al fenomeno dell’accordo
tacito.

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I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO


Tale denominazione ricomprende due fenomeni distinti, che assumono rilievo diverso sul piano dell’ordinamento
internazionale: si parla di principi generali di diritto da un lato, per indicare i caratteri fondamentali e le regole generali
che si ricavano in via induttiva dalle regole espresse dal sistema; dall’altro, per richiamare i principi generali di diritto
riconosciuti dalle nazioni civili ai quali fa riferimento l’art. 38 n.1 della corte internazionale di giustizia.
I principi generali dell’ordinamento internazionale
Esistono, nell’ambito del diritto internazionale generale, alcuni principi generali che esprimono immediatamente certe
specifiche caratteristiche della struttura del sistema giuridico nel quale la società internazionale è organizzata; tali
principi possono essere considerai come ricavati in via induttiva da varie regole consuetudinarie e partecipano dei
caratteri propri di queste quanto ai loro elementi costitutivi e al loro valore formale: non esistono quindi differenze di
posizione gerarchica delle due categorie di regole, tuttavia è opportuno attribuire ai principi di cui si parla una posizione a
sé stante, alcuni parlano addirittura di tali principi definendoli “principi costituzionali” dell’ordinamento internazionale.
Nell’ambito dei principi generali, si possono distinguere:
- Principi generali che attengono alla disciplina degli aspetti formali fondamentali dell’ordinamento, come quelli che
attengono ai soggetti e alle fonti: va sottolineato in questo caso il ruolo del principio che attribuisce all’accordo dei
soggetti l’idoneità a porre in essere norme giuridiche internazionali (pacta sunt servanda);
- Principi generali che hanno carattere materiale, in quanto riguardano direttamente la regolamentazione delle
relazioni internazionali, in questo caso è opportuno richiamare l’enunciazione che ne è fatta dall’assemblea
generale dell’ONU con la dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli
e la cooperazione fra gli stati, in conformità alla carta dell’ONU:
× Il principio dell’eguaglianza sovrana degli stati
× Il principio dell’autodeterminazione dei popoli
× Il principio di non intervento negli affari interni o esteri di un altro stato
× Il principio del divieto di minaccia o dell’uso della forza
× Il principio relativo all’obbligo di soluzione pacifica delle controversie internazionali
× Il principio relativo all’obbligo degli stati di cooperare reciprocamente, in conformità con la carta dell’ONU
× Il principio relativo all’obbligo di adempiere in buona fede agli obblighi assunti in conformità con la carta dell’ONU
Non si trova enunciato nella dichiarazione alcun principio specifico riguardante il rispetto dei diritti umani
fondamentali, è tuttavia generalmente ammesso che un principio che vieta le gross violations debba essere ormai
considerato esistente. È infine importante tener conto che i principi sono fra di loro collegati nella loro
interpretazione ed applicazione. In ogni caso, quanto detto non significa che i soli principi generali individuabili
siano quelli enunciati dalla dichiarazione, la giurisprudenza internazionale si è infatti riferita ad altri principi, come:
× Considerazioni elementari di umanità, principio della libertà di traffico marittimo e l’obbligo di ogni stato di non
permettere consapevolmente l’uso del proprio territorio per atti contrari al diritto di altri stati
× Principi generali di diritto umanitario
× Principio generale dell’uti possidetis
× Principio della sovranità permanente sulle risorse naturali quale principio del diritto internazionale consuetudinario
× Principio della prevenzione in materia di ambiente
I principi generali degli ordinamenti giuridici interni e il loro rilievo a livello internazionale
Tutt’altro significato hanno i principi generali sorti ed accettati nell’ambito degli ordinamenti giuridici interni degli stati, dei
quali fa menzione l’art. 38 n. 1 dello statuto internazionale della corte di giustizia parlando di principi riconosciuti dalle
nazioni civili. Si tratta in questo caso di principi validi sul piano del diritto interno degli stati ed accolti dalla maggioranza
di questi nell’ambito dei propri sistemi giuridici.
Sin dall’inizio dello sviluppo dell’ordinamento giuridico internazionale è prevalsa la tendenza degli interpreti e dei giudici
di integrarne il contenuto con i principi e i valori desunti dagli ordinamenti interni, questo è comprensibile considerando il
carattere limitato della disciplina del diritto internazionale generale e tenendo conto del fatto che tali principi tendevano
ad essere dedotti da valori assoluti e universali.
Tenendo conto che i principi generali comuni agli ordinamenti statali esprimono valori riconosciuti ed accolti nell’ambito
delle società organizzate a stato, delle quali tali ordinamenti sono espressione, non può stupire che tali principi trovino
automaticamente riconoscimento anche nelle relazioni interstatali, a livello di ordinamento giuridico che regola
quest’ultime. Tale sistema trova sostegno nella società universale, di cui quelle organizzate a stato sono solo parziali
articolazioni, e la mancanza di istituzioni politico-giuridiche comuni a livello interindividuale non esclude che i valori
comuni alle società e agli ordinamenti statali trovino immediato riscontro e riconoscimento a livello internazionale.
In questa prospettiva, le norme che richiamano i principi generali di diritto interno hanno essenzialmente valore
ricognitivo di un fenomeno che trova la propria spiegazione nella stessa struttura di fondo del sistema giuridico.
La funzione integrativa dei principi generali di diritto interno
In virtù dell’appartenenza ad un comune ambiente di civiltà giuridica, i principi generali degli ordinamenti interni operano
dunque anche in ambito internazionale. Essi operano, in particolare, nel senso di integrare tale regolamentazione, sia
nel senso di completare il tessuto connettivo rappresentato dalle regole elaborate direttamente in ambito internazionale,
che in quello di meglio specificare portata e significato di tali regole nel caso in cui questi siano poco chiari.
Il rilievo dei principi considerati assume importanza nella prospettiva di un’interpretazione evolutiva delle norme
internazionali, in particolare tutte le volte in cui l’interprete si trovi di fronte al compito di adeguare l’interpretazione delle
norme vigenti alle mutate condizioni sociali, o di applicare nuove regole internazionali in settori che siano oggetto di
disciplina recente.

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Determinazione dei principi generali e le loro condizioni di utilizzabilità


Perché i principi generali riconosciuti dagli ordinamenti giuridici interni possano essere assunti quali fonti di diritto
internazionale generale, è necessario che ricorrano alcune condizioni:
a. Deve trattarsi effettivamente di un principio generale, ovvero una regola generale che esprime caratteri essenziali
di un determinato settore normativo o istituto giuridico, ricavabile in via induttiva dalle regole che disciplinano
quest’ultimi, ne rimangono perciò escluse le regole che esprimono normative di dettaglio.
b. Un principio deve essere generalmente riconosciuto dagli ordinamenti giuridici interni, altrimenti esso non può
considerarsi riconosciuto dai soggetti dell’ordinamento internazionale e quindi non può nemmeno venire a far parte
del diritto internazionale generale.
c. In generale, non vi è alcuna limitazione quanto alla materia in cui un certo principio può essere richiamato, tuttavia
un determinato principio generale sviluppato e riconosciuto dai sistemi interni può essere considerato operante nel
diritto internazionale solo se riguarda settori e materie già oggetto di autonoma regolamentazione sul piano
internazionale, e sia compatibile con le specifiche caratteristiche di tale disciplina.
Ipotesi di utilizzazione dei principi generali
- In materia processuale: il principio per cui nessuno può essere giudice in causa propria, il principio relativo
all’efficacia della cosa giudicata dalle decisioni rese da organi giurisdizionali, il principio dell’eguaglianza delle parti
nel processo;
- In materia di obbligazioni: il principio per cui il risarcimento del danno deve comprendere sia il danno emergente
che il lucro cessante, il principio per cui la violazione delle obbligazioni pecuniarie comporta il diritto del creditore al
pagamento degli interessi di mora, il principio dell’integrale riparazione in caso di violazione di obbligazioni
internazionali;
- In materia di interpretazione di atti: il principio dell’interpretazione contra proferentem, il principio per cui una norma
deve essere interpretata nel quadro complessivo del sistema giuridico esistente al momento dell’interpretazione, il
principio della conservazione degli atti;
- In materia penale: l’Italia ha escluso la possibilità di applicare il principio del ne bis in idem nei rapporti fra le
giurisdizioni di vari stati.

IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE


Significato e contenuto del diritto internazionale generale
Considerando la struttura complessiva dell’ordinamento giuridico internazionale, il diritto generale assume il significato di
insieme di principi e regole comuni a tutti gli stati che esprimono i valori condivisi dalla generalità di essi e riconducono
ad unità logica e giuridica i vari sottosistemi risultanti dalla molteplicità dei complessi normativi di carattere pattizio.
Nello stesso tempo, il diritto generale rappresenta, nell’ottica della costruzione dell’ordinamento, il fondamento ultimo
della validità di tutte le altre norme che ne fanno parte: appartiene infatti al diritto generale la norma, di carattere
consuetudinario, che stabilisce l’obbligatorietà dei trattati.
Guardando al contenuto del diritto internazionale generale, si nota come al suo valore corrisponde una notevole
limitazione quanto all’ampiezza dei settori che ne sono oggetto, la cosa si spiega facilmente se si pensa al fatto che il
diritto generale rappresenta la sintesi in termini giuridici dei valori condivisi da tutta la comunità internazionale, che non
può non portare alla restrizione della sfera entro la quale tale sintesi è possibile.
Il nucleo essenziale delle norme che fanno parte del diritto internazionale è ancora costituito dalle regole che tutelano il
potere di ogni stato nei confronti di tutti gli altri e ne determinano i limiti per quanto riguarda la sua esplicazione nelle
varie cerchie spaziali e in relazione alle varie categorie di soggetti.
In questo ambito complessivo, nel corso degli ultimi decenni, sono venuti alla luce una serie di elementi che hanno inciso
in modo molto significativo sul carattere “individualistico” che risulta dall’assetto tradizionale; occorre accennare a due
elementi che rilevano in questo senso:
- Lo ius cogens internazionale
Nonostante il carattere primario proprio del diritto generale dal punto d vista della costruzione logica e giuridica
dell’ordinamento, tale caratteristica non si traduce in un valore gerarchicamente superiore delle norme che ne
fanno parte rispetto alle altre. Al contrario, le norme generali sono normalmente considerate di carattere flessibile,
nel senso che è possibile derogarvi in via pattizia. A questo principio non venivano tradizionalmente riconosciute
eccezioni, tranne nel caso i trattati contra bonos mores, ossia contrari ai principi elementari di carattere etico,
relativi al trattamento della persona umana o al riconoscimento dei requisiti minimi di sussistenza per uno stato: in
questi casi il trattato si riteneva invalido. Nel corso degli ultimi decenni, però si è pervenuti all’individuazione di una
serie di principi propri e specifici del diritto internazionale ai quali si attribuisce un valore fondamentale che si
traduce nella loro inderogabilità e quindi nell’invalidità dei trattati che si ponessero in contrasto. Ne è risultata la
formulazione di un’apposita norma inserita nella convenzione di Vienna, l’art. 53, nel quale risulta però evidente la
mancanza di qualsiasi criterio idoneo a permettere la sicura identificazione delle norme imperative di cui si tratta; gli
indirizzi prevalenti nella prassi e nella dottrina indicano quali principi di diritto cogente quelli posti alla base dello
statuto dell’ONU. Non vi può essere dubbio che a categoria delle norme imperative appartiene ormai al diritto
internazionale generale, che quindi va così oltre il tradizionale carattere individualistico per dare tutela a valori
fondamentali propri dell’intera comunità internazionale, facendo emergere un nuovo concetto di “ordine pubblico
internazionale”.
- Le obbligazioni erga omnes
Tradizionalmente, le norme del diritto internazionale sono fondate sulla reciprocità, nel senso che, tutelando
interessi propri dei singoli stati, esse instaurano rapporti giuridici articolati su diritti e obblighi spettanti a ciascuno
stato nei confronti di ciascuno degli altri. Negli ultimi decenni è però emersa la diversa nozione di obblighi che si

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instaurano, non solo nei confronti di un solo stato, ma nei confronti della comunità internazionale nel suo insieme.
Lo schema formale delle norme internazionali che stabiliscono obbligazioni erga omnes sottolinea il carattere
indivisibile degli obblighi e dei beni giuridici tutelati e si presta bene ad inquadrare le situazioni nascenti dallo ius
cogens, esso va quindi tenuto presente anche in relazione alle norme imperative e alle nuove esigenze e ai nuovi
valori che queste intendono tutelare. Collegato è poi il tema della legittimazione a far valere le conseguenze della
violazione delle obbligazioni erga omnes, oggetto del lavoro della commissione del diritto internazionale culminato
nel Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli stati, approvato nel 2001.
Altre fonti di norme internazionali
Pur non venendo esse a far parte del diritto internazionale generale, vi sono altre fonti di norme internazionali
riconducibili a tale diritto, anche se non idonee a dar vita a norme generali.
Direttamente prevista da regole del diritto generale è l’efficacia obbligatoria della promessa unilaterale, che costituisce una
dichiarazione di uno stato di adottare un certo comportamento nei confronti di altri soggetti, la cui conseguenza è
l’obbligatorietà del comportamento, indipendentemente da qualsiasi reciprocità: data la coincidenza tra fonti di obbligazioni
e fonti di norme nel diritto internazionale, la promessa è fonte di norme giuridiche vincolanti per lo stato che le fa.
È opportuno ricordare che la promessa unilaterale viene menzionata spesso nell’ambito della categoria generale degli
atti unilaterali, ma solo la promessa può essere considerata fonte di norme.
Le fonti previste dai trattati
Ancora più indirettamente possono essere ricondotte nel diritto internazionale generale le fonti costituite da certi atti
emanati da determinate organizzazioni internazionali in base ai propri statuti. Si tratta di atti previsti come obbligatori
dalle norme di tali statuti, che perciò trovano il loro fondamento in tali norme a carattere pattizio.
I casi in cui ciò accade non sono molto frequenti nella realtà contemporanea, ma rivestono notevole significato: ipotesi
più significativa è quella della UE e della comunità europea.
Un cenno va riservato all’ipotesi della sentenza pronunciata ex aequo et bono da giudici internazionali, sempre che le
parti attribuiscano loro il potere di farlo. In casi del genere la sentenza fondata sull’equità, in quanto prescinde dal diritto
vigente, acquista significato e valore di fonte di nuove norme vincolanti per le parti in causa.
La soft law in diritto internazionale
A rigore, la soft law non appartiene alla tematica delle fonti, però sempre più spesso si fa riferimento a questa nozione in
rapporto alle vere e proprie fonti.
La categoria della soft law comprende una molteplicità di atti e manifestazioni della prassi che hanno in comune
l’assenza di effetti giuridici vincolanti. Si tratta dunque di proposizioni aventi la stessa struttura logica delle vere e proprie
norme giuridiche vincolanti, un dato comportamento viene infatti considerato doveroso al verificarsi di determinati
presupposti. Peraltro, tale doverosità si colloca ad un livello diverso da quello dell’obbligo giuridico.
Il fenomeno della soft law ha avuto una notevole diffusione a livello internazionale, il suo ruolo può essere apprezzabile
tutte le vote che, in determinate materie, l’enunciazione di regole di condotta non giuridicamente vincolanti rappresenti in
concreto l’unica possibilità di definire standard di comportamento.
Nell’ambito della soft law si possono ricondurre le più varie manifestazioni della prassi, come gli accordi di natura
politica, le risoluzioni dell’assemblea dell’ON, i codici di condotta, le guidelines e i core principles.
Date le caratteristiche proprie della soft law, nulla esclude che le regole di comportamento che ne fanno parte siano
dotate di una certa idoneità ad acquisire una vera e propria efficacia normativa: è possibile che parti di testi di soft law si
evolvano e divenendo elementi di norme consuetudinarie o di accordi internazionali, o che siano conclusi accordi aventi
per contenuto quello di testi originariamente non vincolanti. Altra possibilità è che la soft law divenga la base di
comportamenti di istituzioni internazionali dotate del potere di condizionare l’applicazione di determinate norme agli stati
al rispetto dei principi di soft law. Infine, le regole di soft law possono divenire vincolanti in seguito alla loro applicazione
da parte delle autorità competenti all’interno dell’ordinamento statale.

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CAPITOLO III
L’ACCORDO NEL SISTEMA DELLE FONTI E IL DIRITTO DEI TRATTATI
di Stefania Bariatti

L’accordo nel sistema delle fonti del diritto internazionale


L’accordo (o trattato) può definirsi come l’incontro delle volontà di due o più stati, o altri soggetti dell’ordinamento
internazionale, che acconsentono ad assumere obblighi e diritti reciproci, regolati dal diritto internazionale, in relazione a
una determinata materia e a rispettarli in buona fede.
Il fondamento della giuridicità dell’accordo come fonte di norme pattizie (o convenzionali), che vincolano solo i contraenti, è
costituito secondo molti dalla regola generale pacta sunt servanda; manca nell’ordinamento internazionale una procedura
di applicazione generale che garantisca l’adempimento delle norme pattizie e che sanzioni le eventuali violazioni.
Con il termine “trattato” si è soliti indicare anche la disciplina convenuta tra le parti, la regolamentazione concreta della
materia oggetto dell’accordo, nonché in una terza accezione, il testo nel quale è incorporata (indipendentemente dal
titolo che viene prescelto: trattato, convenzione, accordo, carta, statuto, protocollo, concordato, memorandum, atto).
I trattati possono essere costituiti da un solo documento o da più strumenti, che possono essere redatti in momenti diversi.
La libertà degli stati nel determinare il contenuto dei trattati e i suoi limiti
Gli stati sono liberi quanto alla materia oggetto del trattato e alla natura delle norme in esso contenute.
Gli stati utilizzano infatti i trattati nei settori più vari e il numero delle norme pattizie è in continua crescita anche perché lo
sviluppo delle relazioni internazionali non può -o non vuole- attendere i tempi spesso lunghi necessari per la formazione
di norme generali; l’accordo permette inoltre una disciplina particolareggiata e precisa delle relazioni tra le parti.
Esso permette infine l’organizzazione della cooperazione degli stati anche in forme istituzionali che, a loro volta, possono
essere fonte di norme ulteriori, come avviene nei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali.
Sotto il profilo del contenuto dei trattati, l’unico vincolo posto dal diritto internazionale è costituito dal rispetto delle norme
di ius cogens, che non possono essere derogate mediante trattato.
Gli effetti delle norme pattizie
I trattati sono fonte di obbligazioni tra i soli stati contraenti, che possono dunque pretenderne l’adempimento reciproco (le
norme pattizie differiscono dalle norme consuetudinarie, che vincolano la generalità degli stati: nei casi di accordo di
codificazione, gli stati terzi che tengono un comportamento conforme a una norma ivi contenuta con carattere di codificazione
stanno adempiendo a un obbligo imposto dal diritto consuetudinario, che è solo riflesso nella norma di codificazione).
Si è discusso circa la possibilità che i trattati multilaterali ad ampia partecipazione avessero un valore legislativo o quasi
legislativo (law-making treaties) come gli accordi di codificazioni più risalenti; gli stati hanno poi anche stipulato accordi
destinati ad avere effetti di carattere generale o erga omnes, in quanto istitutivi di regimi internazionali o di status
internazionalmente riconosciuti: i primi non sembravano avere una particolare resistenza alle modifiche o alla pattuizione
di deroghe, quanto ai secondi viene sempre tenuta ben distinta la posizione degli stati contraenti da quella degli stati
terzi, che sono ritenuti i meri beneficiari delle disposizioni contenute nel trattato (la massima pacta tertiis nec nocent
neque prosunt, che esclude la possibilità di creare obblighi o diritti a carico o a favore di stati terzi senza il loro consenso,
non conosce eccezioni).
I rapporti tra norme generali e norme pattizie
Le norme pattizie, per contrapporle a quelle generali, sono definite come norme particolari o speciali e sul principio di
specialità rispetto al diritto generale si fondano i reciproci rapporti quando coincida il loro oggetto.
Il fatto che una norma generale costituisca il fondamento dell’obbligatorietà dei trattati non attribuisce una posizione di
preminenza o superiorità al diritto consuetudinario, anzi, molto spesso gli stati stipulano un trattato proprio per introdurre
nei rapporti tra loro una regola diversa da quella che si applica nei rapporti generali (prevalenza è riflessa nella
formulazione dell’art. 38 dello statuto della CIG, nel quale le convenzioni generali e particolari in vigore tra gli stati parte
alla controversia vengono menzionate prima della consuetudine internazionale).
L’assenza di gerarchia non esclude peraltro che una norma generale successiva prevalga su una norma convenzionale
precedente: la prassi degli stati contraenti ove porti alla formazione di una consuetudine può modificare la disciplina pattizia.
La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati: codificazione o sviluppo progressivo?
I trattati sono sottoposti a una serie di norme internazionali che ne disciplinano i requisiti di validità ed efficacia, il
procedimento di formazione, l’interpretazione, gli effetti delle modifiche, le cause di invalidità, sospensione ed
estinzione. La maggior parte di esse sono state codificate nella Convezione sul diritto dei trattati, adottata il 22 maggio
1969 dalla speciale conferenza delle NU a Vienna. In realtà la convenzione di Vienna contiene norme di sviluppo
progressivo, sulle quale non si era ancora formato un consenso generalizzato degli stati, tanto che l’opposizione nei
confronti queste norme ha portato alla ratifica della Convenzione solo nel 1980.
A sottolineare la doppia natura delle norme in essa contenute, la convenzione si applica solo ai trattati stipulati dopo la
sua entrata in vigore: se molte tra le sue disposizioni si sono affermate e sono state applicate anche prima della sua
entrata in vigore come espressione di norme generali, altre disposizioni, allora considerate di sviluppo progressivo,
non sono riuscite ad affermarsi e sono oggi superate dalla prassi (sembra infatti che in alcuni settore specifici, come la
protezione dei diritti umani, si stiano sviluppando regole diverse rispetto a quelle che valgono per la genericità dei
trattati, in quanto particolari esigenze rendono più opportune norme speciali).
In generale, a distanza di più di 30 anni dalla sua adozione, l’ampia partecipazione raggiunta e il costante riferimento
da parte della prassi e della dottrina senza particolari opposizioni, fanno ritenere che la quasi totalità delle disposizioni
contenute nella Convenzione di Vienna ben esprima il convincimento degli stati in materia di diritto dei trattati.
L’ambito di applicazione della convenzione di Vienna

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Si riferimento alla Convenzione di Vienna nell’esame delle norme in materia, anche se essa non si applica a tutti i trattati,
ma solo agli accordi fra stati (a), stipulati per iscritto (b) e retti da diritto internazionale (c), quale che ne sia l’oggetto, ed
esplicitamente anche ai trattati istitutivi di organizzazioni internazionali (d).
a. La Convenzione di Vienna del 1969 disciplina solo i trattati tra stati indipendenti, con ciò non vuole escludere che
altre entità possano stipulare trattati soggetti alle norme consuetudinarie in materia. I trattati stati-organizzazioni
internazionali e quelli tra organizzazioni internazionali sono oggetto di una successiva Convenzione, stipulata a
Vienna nel 1986, che tiene conto delle particolarità connesse alle caratteristiche delle organizzazioni internazionali
e riproduce le disposizioni di quella del 69. Non sono invece trattati, ma contratti internazionali, e non sono quindi
sottoposti al diritto internazionale, gli accordi conclusi da stati e società straniere (come i contratti sullo sfruttamento
delle risorse naturali di uno stato).
b. Non esistono norme internazionali che impongano condizioni di forma per la conclusione dei trattati, peraltro la
forma scritta è la più utilizzata e molte regole generali hanno un contenuto che sembra meglio applicarsi agli
accordi scritti. Si sottolinea però che il fatto che la Convenzione di Vienna non si applichi agli accordi conclusi in
forma non scritta non significa che questi siano sottratti alle norme consuetudinarie sul diritto dei trattati.
c. Non tutti gli accordi tra stati sono soggetti al diritto internazionale: da un lato, gli stati concludono talvolta accordi
regolati dalle norme interne di uno di essi (come avviene quando creano imprese internazionali costituite secondo
un diritto nazionale), dall’altro, gli atti che rientrano nella soft law sono sottratti al diritto internazionale in quanto non
creano obblighi e diritti reciproci.
d. I trattati istitutivi di organizzazioni internazionali rientrano nell’ambito di applicazione della convenzione, che utilizza
i termini applicabili anche ad essa.
La procedura di formazione del trattato
I pieni poteri
Nelle diverse fasi della procedura che porta alla formazione del trattato, gli stati sono rappresentati dai plenipotenziari,
persone espressamente autorizzate dall’organo statale competente a negoziare, adottare, autenticare e /o firmare il
testo del trattato e ad esprimere il consenso dello stato. Il documento che identifica il rappresentante e indica l’ampiezza
dei poter a lui attribuiti nel caso specifico si chiama “pieni poteri” e deve essere esibito dai rappresentanti degli altri stati
o depositato presso il segretariato dell’organizzazione nell’ambito del quale un trattato viene concluso (a meno che la
prassi degli stati interessati non mostri che essi avevano inteso considerare una determinata persona come
rappresentante dello stato senza la presentazione dei pieni poteri). Qualora un atto relativo alla conclusione di un trattato
sia compiuto da un soggetto non autorizzato, tale atto non avrà effetto, salvo ratifica dello stato.
Alcune categorie di persone sono esentate dalla presentazione dei pieni poteri, in quanto godono dei pieni poteri impliciti
per effetto della funzione che svolgono nell’apparato dello stato, per tutte o solo per alcune fasi della procedura di
conclusione (capi di stato, capi di governo e dei ministri degli affari esteri, capi di missione diplomatica, etc).
Le fasi della procedura che porta alla stipulazione di un trattato sono diverse a seconda che si tratti di accordi in forma
semplificata o in forma solenne (la scelta della procedura non dipende dal numero di stati coinvolti).
La Convenzione di Vienna propone alcune regole procedurali, che possono essere derogate dagli stati; le regole di
procedura contenute nella convenzione di Vienna non si applicano però ai trattati di codificazione, per i quali si seguono
procedure complesse, originate dai lavori della commissione del diritto internazionale delle NU.
La forma solenne: negoziato, adozione e autenticazione del testo
La forma solenne prevede una prima fase di negoziato, seguita poi dall’adozione del testo e dalla sua autenticazione.
La conferenza degli stati che partecipano al negoziato, o le regole dell’organizzazione nel cui ambito questo venga
promosso, possono determinare le modalità di svolgimento della procedura e le maggioranze necessarie per la
votazione dei singoli articoli e del testo nel suo complesso (la convenzione di pone quale regola generale l’unanimità, ma
prevede che nel caso di una conferenza internazionale, che presuppone la presenza di un numero rilevante di stati, il
testo sia a maggioranza dei 2/3). Nella prassi più recente si è poi affermata la procedura per consensus, una modalità di
espressione della volontà degli stati che prescinde dal voto formale e che permette di adottare il testo in assenza di
obiezioni espresse.
L’autentificazione, che fissa in modo definitivo il contenuto del testo del trattato, può avvenire secondo modalità stabilite
nel testo stesso o convenute fra gli stati o, in mancanza, dalla firma ad referendum o dalla parafatura da parte dei
plenipotenziari, alla quale segue la firma definitiva, che può essere apposta in un solo luogo e in un solo momento per
tutti gli stati che hanno partecipato al negoziato, oppure il trattato può rimanere aperto alla firma in più luoghi e anche per
periodi di tempo piuttosto lunghi. I trattati possono essere negoziati e autenticati in più lingue, ogni versione potrà avere
lo status di testo autentico se così convengono gli stati, altrimenti potrà trattarsi di versioni ufficiali, cioè testi firmati dagli
stati ma non accettati come autentici, o di traduzioni non ufficiali, preparate da una o più parti.
Indipendentemente dalle versioni linguistiche, il principio di uguaglianza degli stati comporta l’uguaglianza dei testi
autentici che fanno parimenti fede, salvo che gli stati abbiano indicato che un testo debba prevalere sugli altri.
Nei trattati stipulati in forma solenne, la manifestazione del consenso dello stato a obbligarsi al trattato si esprime in un
momento successivo rispetto alla firma, quando siano stati esauriti eventuali procedimenti interni di controllo o raccolte le
autorizzazioni da parte di altri organi o istituzioni dello stato prescritte da norme interne.
La convenzione di Vienna menziona in proposito la ratifica, l’accettazione, l’approvazione o l’adesione: le prime tre
coincidono e indicano la manifestazione del consenso da parte di uno stato che ha partecipato al negoziato e ha adottato
e firmato il testo con riserva di ratifica successiva, l’adesione riguarda invece gli stati che vogliano partecipare al trattato
in un momento successivo alla firma, i quali possono eventualmente depositare il proprio consenso anche prima
dell’entrata in vigore internazionale (l’adesione è possibile solo per i trattati aperti, che permettono la partecipazione di

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altri stati in modo esplicito o implicito). Secondo la terminologia della convenzione di Vienna, con la manifestazione del
consenso uno stato diventa contraente di un trattato, indipendentemente dal fatto che il trattato stesso sia entrato in
vigore; uno stato parte è invece uno stato nei cui confronti il trattato è in vigore.
Quando un trattato viene stipulato da un’organizzazione internazionale, per determinare l’organo o l’istituzione competente
si deve far riferimento alle norme del trattato istitutivo, al diritto derivato e alla prassi dell’organizzazione stessa. Il controllo
di legittimità sull’atto che investe anche il rispetto dei limiti posti nel trattato istitutivo all’attività dell’organizzazione (principio
di attribuzione delle competenze), sarà effettuato secondo le procedure eventualmente previste.
Le modalità e i tempi per l’entrata in vigore dei trattati sono molto vari e sono generalmente stabiliti nelle disposizioni finali
del trattato. Nel periodo tra la firma e l’entrata in vigore, gli stati sono tenuti a comportarsi in buona fede per non porre nel
nulla l’entrata in vigore del trattato, salvo che essi non dichiarino esplicitamente di non volervi partecipare o aderire.
Quando il trattato è stato stipulato nell’ambito di una organizzazione o di una conferenza internazionale, il segretario
generale o lo stato ospitante sono designati quali depositari di tutti gli strumenti di ratifica, accettazione, approvazione o
adesione degli stati e devono comunicare a tutti gli stati firmatari, e poi agli stati aderenti, l’avvenuto deposito del
consenso degli altri stati. Gli stati possono stabilire che un trattato, o parte delle sue disposizioni, si applichino in via
provvisoria prima dell’entrata in vigore. I trattati in vigore devono essere trasmessi al segretario generali delle NU per la
registrazione. L’effetto della registrazione consiste nella possibilità di invocarli davanti agli organi delle NU.
La forma semplificata
La forma semplificata di stipulazione viene adottata solitamente per gli accordi bilaterali, per quelli conclusi tra gruppi
ristretti di stati e che riguardano questioni di carattere tecnico o amministrativo, o per i trattati segreti: in questi casi, la
firma del testo o lo scambio dei documenti o degli strumenti contenenti il trattato, secondo quanto stabilito dagli stessi
stati, costituisce la manifestazione del consenso. È necessario però, nel primo caso, che i pieni poteri indichino la
volontà dello stato di attribuire tale effetto alla firma del rappresentante. L’entrata in vigore coincide con la firma o lo
scambio degli strumenti contenenti il trattato, ma gli stati possono stabilire anche un momento successivo.
Anche gli accordi in forma semplificata devono essere registrati presso le NU.
La competenza a stipulare nell’ordinamento italiano
Ogni stato determina quali organi abbiano il potere di manifestare il consenso solenne a obbligarsi mediante trattato,
attraverso disposizioni contenute nella costituzione (che spesso comportano il concorso dell’attività di più organi) volte a
garantire il controllo del parlamento sull’attività dell’esecutivo e sulla gestione delle relazioni internazionali, nonché il
controllo dell’esecutivo sull’attività del plenipotenziario.
Il diritto internazionale non pone vincoli in proposito, ma disciplina le conseguenze del mancato rispetto di tali disposizioni.
I trattati in forma solenne
Per quanto concerne gli accordi in forma solenne, la costituzione attribuisce il potere di ratifica (e si ritiene anche di
adesione) al Presidente della Repubblica, anche l’atto di ratifica risponde alla regola generale per cui deve essere
controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità e hanno il potere di iniziativa.
L’art. 87cost prevede che la ratifica sia sottoposta ad autorizzazione preventiva da parte delle Camere nei casi indicati
dall’art. 80cost (trattati di natura politica e che comportano modificazioni di leggi e per alcuni tipi di trattati identificati
secondo il contenuto specifico), questa disposizione permette al parlamento di controllare che il governo non assuma
obblighi internazionali scavalcandone le competenze.
La legge di autorizzazione alla ratifica deve essere approvata con la procedura normale e non può essere sottoposta a
referendum. L’autorizzazione parlamentare non produce però alcun obbligo a carico del governo, che può rinviare sine
die il deposito della ratifica (che comporta la manifestazione della volontà sul piano internazionale). Nella prassi italiana
l’autorizzazione viene richiesta dal governo al parlamento solo per la ratifica o l’adesione e non anche per la denuncia o
il recesso dal trattato.
Un problema particolare riguarda la competenza a formulare le riserve nel caso di trattati soggetti ad autorizzazione
parlamentare, se cioè il governo sia vincolato alle riserve decise dal parlamento, se possa depositarne solo alcune o
aggiungerne altre: mentre la prima ipotesi sembra non essersi mai verificata, il governo ha formulato diverse riserve
aggiuntive e tra le soluzioni poste in dottrina sembra preferibile quella secondo la quale le riserve del solo governo sono
valide al pari di quelle del solo parlamento.
Gli accordi in forma semplificata
Il potere di concludere accordi in forma semplificata spetta al governo per effetto di una delega implicita da parte del
Presidente della Repubblica. La nostra costituzione non ne parla, ma secondo la dottrina prevalente sono gli accordi in
forma semplificata sono ammessi per tutte le materie diverse da quelle per le quali l’art. 80 prevede l’autorizzazione
parlamentare. L’unico limite che viene posto al governo per stipulare questi accordi è stato ritenuto discendere da un
divieto costituzionale implicito alla conclusione di trattati segreti, non ha tutavia suscitato reazioni o ricorsi alla corte
costituzionale l’affermazione del segreto di stato sugli atti, documenti, notizie e attività la cui diffusione sia idonea a
recare danno all’integrità della repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali.
I poteri delle regioni in relazione alla stipulazione di trattati
La modifica dell’art. 117cost della legge 3/2001 ha mutato l’ambito di competenza dello stato e delle regioni sia sul piano
materiale, sia sul piano del potere di stipulare trattati internazionali.
Fino ad allora il potere di rappresentare lo stato era concentrato nel governo e le regioni potevano concludere, nelle
materie di loro competenza, solo accordi o intese prive dello status di fonti di norme internazionali, dai quali dunque non
scaturivano obblighi per lo stato. Sulla base di una giurisprudenza di corte costituzionale più aperta alle richieste
regionali era stato adottato nel 1994 un dpr che permetteva alle regioni, nelle materie di loro competenza e previo
assenso del governo, di stipulare anche veri e propri trattati il cui inadempimento poteva far sorgere la responsabilità

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dello stato. L’art. 117cost nella versione del 2001 ha mutato profondamente i rapporti tra stato e regioni, definendo in
diversamente le competenze e attribuendo alle regioni il potere di stipulare trattati nelle materie di loro competenza.
La norma distingue tra “accordi con stato” e “intese con enti territoriali interni ad altro stato” e ha trovato nell’art. 6 della
legge 131/2003 la definizione delle proprie modalità di applicazione.
L’art. 6.1 attribuisce alle regioni il potere di concludere intese volte a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale
con enti territoriali interni ad altro stato e a svolgere attività di mero rilievo internazionale, dandone comunicazione prima
della firma alla Presidenza del Consiglio e al ministro degli affari esteri; in mancanza di osservazioni pervenute entro 30
giorni dei ministri, regioni e province autonome possono firmare l’intesa, sebbene non possano comunque assumere
obblighi dai quali derivino vincoli e oneri finanziari per lo stato o valutazioni relative a politica estera.
Più limitati appaiono i poteri delle entità periferiche in relazione alla stipulazione di accordi con stati, che l’art. 6.2
circoscrive agli accordi esecutivi e applicativi di accordi internazionali regolarmente entrati in vigore, agli accordi di natura
tecnico-amministrativa e agli accordi di natura programmatica finalizzati a favorire il loro sviluppo economico, sociale e
culturale, nel rispetto della costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, dagli obblighi internazionali e
dalle linee e dagli indirizzi di politica estera italiana nonché, nelle materie di cui all’art. 117. 3cost, dei principi fondamentali
dettati dalle leggi dello stato. La comunicazione preventiva riguarda la fase delle trattative, che possono essere soggette a
principi e criteri dettati dal ministero degli affari esteri. La firma dell’accordo è soggetta all’attribuzione di pieni poteri da
parte del ministero secondo il diritto internazionale e la convenzione di Vienna, pena la nullità dell’accordo. Sembra che gli
accordi regionali non siano soggetti ad autorizzazione parlamentare sia perché costituirebbe una forma di controllo
sull’attività regionale non prevista dalla costituzione, sia perché gli accordi stipulati dalle regioni non dovrebbero poter
toccare le materie dell’art. 80cost. La responsabilità in caso di inadempimento delle regioni spetta allo stato e l’art. 8 della
legge 131/2003 prevede un meccanismo di sostituzione dello stato alla regione inadempiente.
Le conseguenze del mancato rispetto delle norme interne sulla competenza a stipulare nell’ordinamento internazionale e
nell’ordinamento italiano
Qualora vengano violate le norme costituzionali sulla competenza a stipulare, perché l’atto di ratifica proviene da un
organo incompetente o non siano state rispettate le procedure interne, la convenzione di Vienna prevede all’art. 46 che
uno stato possa far valere tale violazione come vizio del proprio consenso e dunque come motivo di invalidità del
trattato. Si deve però trattare di una violazione manifesta e deve riguardare una norma di diritto interno di importanza
fondamentale. Si tratta di una soluzione “internazionalistica” che non fa dipendere la validità del consenso sul piano
internazionale da norme o prassi interne che potrebbero non essere note agli altri stati e che è coerente con il principio
secondo il quale uno stato non può invocare il proprio diritto interno per giustificare l’inadempimento di un obbligo
internazionale (codificato con riferimento all’adempimento degli obblighi derivanti dai trattati, all’art. 27 della
convenzione, che menziona quale unica eccezione l’art. 46).
La prassi internazionale è rara, mentre vi sono casi di giudici nazionali che non applicano i trattati conclusi dai governi in
violazione delle norme interne sulla competenza. Il problema si pone nel nostro ordinamento in relazione ai casi in cui il
governo stipuli in forma semplificata dei trattati per i quali l’art. 80cost impone l’autorizzazione parlamentare; la prassi
non è univoca: in alcuni casi il governo ha presentato il trattato al parlamento in un momento successivo ottenendo
l’autorizzazione alla ratifica o un atto di attuazione, mentre in altri casi, relativi ad accordi di cooperazione in materia
militare o volti alla concessione di basi militari, il governo non ha mai richiesto l’autorizzazione parlamentare ma tali
accordi sono stati rispettati dalle parti e non è mai sorta alcuna questione sulla loro validità.
L’interpretazione dei trattati
Il valore delle regole codificate nella convenzione di Vienna
Fino alla conclusione della Convenzione di Vienna esisteva qualche incertezza in dottrina sul valore delle regole
internazionali interpretative che, secondo alcuni, erano vere norme di carattere generale vincolanti per l’interprete,
mentre secondo altri erano meri canoni esegetici, principi di logica e buon senso, non vincolanti ma utili a guidare
l’interprete nell’accertamento del significato delle espressioni utilizzate dagli stati contraenti. La commissione del diritto
internazionale ha, da parte sua, individuato alcuni principi generali nei quali ha riconosciuto vere e proprie regole
generali vincolanti sull’interpretazione dei trattati, che poi sono state codificate dalla Convenzione agli artt. 31-33.
Questa conclusione sembra confermata non solo dall’unanimità che tali regole hanno ottenuto al momento della loro
adozione da parte della conferenza, ma anche e soprattutto dall’applicazione costante da parte di organi internazionali
giurisdizionali, accompagnata dall’affermazione esplicita della loro obbligatorietà. Quanto al metodo esegetico, si è
affermata una tendenza a svincolare il testo dalla volontà espressa durante i negoziati a favore del metodo oggettivo,
che privilegia il dato testuale: si viene così incontro alle esigenze degli stati che intendono aderire a un trattato senza
aver partecipato alle trattative.
La regola generale di interpretazione e il contesto del trattato
Il metodo esegetico codificato nella Convenzione ha dunque natura oggettiva (il testuale può essere considerato
established law). Il primo elemento del procedimento interpretativo è costituito dalla ricerca del significato letterale del
testo in base all’art. 31.1, che dispone che un trattato deve essere interpretato in buona fede, secondo il significato
naturale dei termini utilizzati nel loro contesto, alla luce del suo oggetto e del suo scopo.
Si tratta però di un oggettivismo qualificato che presenta numerosi correttivi, a partire dal riferimento alla buona fede, che
permette di collegare opportunamente il momento interpretativo al momento applicativo e dunque al rispetto degli
obblighi assunti.
Il significato naturale dei termini deve però essere determinato nel quadro del contesto generale del trattato (insieme del
testo comprensivo di preambolo e allegati oltre agli eventuali accordi relativi al trattato stipulati tra tutti gli stati al
momento della conclusione del trattato e agli strumenti predisposti da uno o più stati relativi al trattato).

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Gli strumenti primari di interpretazione


L’art. 31.3 impone di tenere in considerazione:
a. Ogni accordo successivo al trattato sull’interpretazione o l’applicazione del trattato: questo caso riguarda l’ipotesi in
cui gli stati specifichino il significato o l’applicazione di un termine o di una disposizione mediante un accorso
esplicitamente concluso a questo fine, non vincolato alla forma del trattato interpretato e che obbliga gli stati a non
discostarsi dall’interpretazione convenuta.
b. La prassi successiva che dimostri l’accordo delle parti relativamente all’interpretazione delle sue disposizioni: data
la coincidenza dei soggetti che emanano le norme, le interpretano e le applicano, propria dell’ordinamento
internazionale, si tratta di un elemento di accettazione del significato della norma applicata che costituisce la
manifestazione oggettiva del consenso degli stati sul significato e la portata del trattato; la prassi deve comunque
essere concordante, comune e costante, univoca e ripetitiva e deve comprendere atti, dichiarazioni o
comportamenti degli stati parte al trattato: non è necessario che ognuno di essi abbia contribuito al suo formarsi, è
sufficiente che l’abbia accettata.
c. Ogni regola di diritto internazionale applicabile nelle relazioni tra le parti: si tratta del contesto dei rapporti
internazionali tra gli stati contraenti in cui il trattato si inserisce ed è destinato ad operare. Si farà riferimento non
solo al tessuto normativo del diritto generale, ma anche ai trattati in vigore tra le parti nella stessa materia o in
materie affini, siano essi precedenti o successivi al trattato considerato.
Un elemento che mitiga l’oggettività del metodo codificato nella convenzione di Vienna a favore di metodi meno
formalistici è dato dal ruolo attribuito all’oggetto (effetto giuridico) e allo scopo del trattato: vengono così in
considerazione la volontà degli stati e la funzione del trattato e si ammette in una certa misura l’interpretazione in chiave
teleologica e funzionale. Questi elementi concorrono al pari degli altri e non hanno una posizione di preminenza.
Più ampio è l’effetto dell’art. 31.4, che permette agli stati di utilizzare un significato speciale per i termini del trattato,
destinato a prevalere sul significato oggettivo: è infatti possibile che le parti in quel contesto e a quel fine abbiano inteso
attribuire a un termine un significato tecnico o particolare che costituisce per loro il senso ordinario, in quanto lo
ritengono più opportuno al fine della regolamentazione pattuititi. Tale significato speciale, che deve essere provato dalla
parte che vuole farlo valere, potrà risultare dal contesto, dall’oggetto e dallo scopo del trattato o dagli altri strumenti
primari indicati dall’art. 31, ma più facilmente desunto dai mezzi complementari dell’art. 32.
Gli strumenti complementari di interpretazione
L’art. 32 permette il ricorso ad altri strumenti esegetici quando si voglia trovare conferma ulteriore del risultato al quale si
è giunti sulla base della regola dell’art. 31 o quanto l’utilizzazione di questa non abbia eliminato i dubbi sul significato del
testo. Tra i mezzi complementari l’art. 32 cita i lavori preparatori del trattato, cioè i negoziati in senso ampio, come
documentati per iscritto nei resoconti di seduta o i lavori di gruppi esperti che li precedono e le circostanze della sua
conclusione, o le vicende storiche che hanno portato alla conclusione del trattato, compresi i motivi.
Ciò non esclude che possano essere utilizzati strumenti diversi, come la prassi successiva unilaterale che non rientra
nell’art. 31.1 o alcuni principi generali che costituiscono regole tecniche del ragionamento interpretativo (in particolare,
pare ammissibile il ricorso all’analogia). Altri canoni ermeneutici trovano espressione nel principio di buona fede della
regola generale. Quanto all’interpretazione restrittiva o estensiva -che costituiscono il risultato del processo ermeneutico
e non un metodo- se fino a qualche tempo fa si riteneva di dover contenere le limitazioni di sovranità assunte dagli stati
mediante trattato e dunque preferire l’interpretazione che limitasse la portata degli obblighi, si sta affermando una
posizione più flessibile che privilegia la considerazione dello scopo del trattato.
L’art. 32 infine non prende posizione sull’opponibilità dei lavori preparatori agli stati aderenti al trattato che era stata
esclusa da alcune decisioni internazionali: la soluzione dipenderà dal caso concreto e dall’accessibilità dei lavori
preparatori, in generale la buona fede impedisce che possano essere opposti i lavori preparatori dei quali uno stato non
abbia potuto prendere conoscenza.
L’interpretazione dei trattati in più lingue
La convenzione di Vienna si occupa anche dei trattati in più lingue per i quali dispone che, indipendentemente dalle
versioni linguistiche in cui il testo è redatto e autenticato, il principio di uguaglianza degli stati comporta l’uguaglianza dei
testi autentici, salvo che gli stati abbiano indicato che un testo debba prevalere sugli altri.
In mancanza di tale volontà espressa, l’unità del trattato comporta che si debbano applicare gli artt. 31 e 32, sulla base
della presunzione che tutte le versioni abbiano lo stesso significato. Ogni sforzo deve essere effettuato per trovare un
significato comune, attraverso la conciliazione dei testi e l’accertamento delle volontà delle parti contraenti ricorrendo ai
normali strumenti interpretativi. Ove si concluda che le diverse versioni linguistiche hanno significati diversi, l’art. 33
impone che si dia la preferenza al significato che meglio riconcilia i testi alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato.
Si tratta di individuare, sulla base della natura del trattato e del contesto particolar in cui il termine viene utilizzato, il
significato che rispetti l’armonizzazione dei testi, disposta dall’art. 33 e che elimini ogni divergenza tra di essi.
L’interpretazione dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali
La flessibilità del metodo codificato nella convenzione di Vienna risulta evidente ove si tratti di interpretare i trattati
istitutivi di organizzazioni internazionali, nei quali l’aspetto teleologico risulta prevalente nella prospettiva della vita e dello
sviluppo dell’attività di tali enti, soprattutto quando sia attribuita a un organo apposito la competenza a interpretare il
trattato in modo vincolante per gli stati membri e l’organizzazione stessa.
Se si guarda alla prassi di diverse organizzazioni internazionali, si nota come il richiamo alle regole contenute nella
convenzione di Vienna e al diritto internazionale generale non ha impedito la piena utilizzazione della teoria dei poteri
impliciti, ampiamente riconosciuta in ambito internazionale, in quanto costituisce un’applicazione particolare del principio
di effettività ai trattati istitutivi di organizzazioni internazionali per far fronte allo sviluppo dell’attività di queste senza dover
modificare mediante nuovi accordi il trattato istitutivo.

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Le riserve ai trattati
La convenzione di Vienna e la prassi successiva
La natura e l’ambito di applicazione delle norme pattizie comporta che le regole convenute dagli stati si applichino nei
reciproci rapporti in modo uniforme. In realtà, l’aumento del numero degli stati e la volontà di ottenere la più ampia
partecipazione possibile a un trattato hanno comportato un uso sempre maggiore e più liberale delle riserve, dichiarazioni
unilaterali depositate dallo stato al momento della firma o della manifestazione del consenso, che escludono o modificano
l’effetto di determinate disposizioni del trattato con riferimento a tale stato.
Le riserve intervengono solo nei trattati multilaterali (in quelli bilaterali la proposta di uno stato di limitare nei propri
confronti l’applicazione di una disposizione costituirebbe una proposta di modifica che la controparte dovrebbe accettare).
La convenzione di Vienna ha adottato, agli artt.19-23, alcune regole che riprendono in gran parte l’impostazione data
dalla CIG. La convenzione permette infatti a uno stato di formulare una riserva per iscritto al momento della firma o della
manifestazione del consenso, salvo che il trattato in questione la vieti o preveda solo certe riserve e quella proposta non
rientri tra queste, oppure se la riserva sia incompatibile con il suo oggetto e il suo scopo. L’art. 20 richiede che la riserva
venga accettata dalle altre parti, salvo che sia autorizzata esplicitamente nel trattato. L’accettazione, alla quale è
equiparata l’assenza di obiezioni entro 12 mesi, deve provenire da tutte le altre parti quando risulti che l’applicazione del
trattato costituisce una condizione essenziale del loro consenso. Negli altri casi e in assenza di disposizioni espresse nel
trattato, l’accettazione può provenire da alcuni stati soltanto, e comporta che la parte che ha depositato la riserva
divenga parte del trattato nei rapporti con essi. La riserva prende effetto dalla prima accettazione.
Gli altri possono anche sollevare obiezioni alla riserva, ma il trattato entra in vigore comunque con lo stato autore della riserva,
salvo che l’obiezione esprima anche una volontà contraria all’entrata in vigore del trattato nei rapporti con questo stato.
L’effetto della riserva è dunque di limitare o modificare il senso indicato la portata del trattato nei rapporti reciproci tra lo
stato autore della riserva e gli stati che la accettano, mentre non ha alcun effetto nei rapporti di questi ultimi tra loro: per
essi il trattato varrà nella sua interezza. Quanto ai rapporti tra lo stato autore della riserva e lo stato che solleva obiezioni,
se questo ha accettato che il trattato entri in vigore tra loro, la disposizione alla quale è apposta la riserva non si applica
nei rapporti reciproci (art. 21).
La disciplina delle riserve contenuta della convenzione di Vienna è parsa imprecisa e lacunosa, tanto che la commissione
del diritto internazionale ha ripreso i lavori in materia a partire dal 1994, anche con riferimento alle convenzioni del 1986
sui trattati stipulati dalle organizzazioni internazionali e del 1978 sulla successione degli stati nei trattati.
I punti più controversi sui quali si è formata una prassi interessante successiva alla convenzione, riguardano la
definizione delle riserve e la distinzione tra riserve e dichiarazioni interpretative, il regime delle riserve nei trattati in
materia di diritti umani e gli effetti di una successione tra stati sulle riserve e le obiezioni.
Limitatamente ai primi due gruppi, si osserva come le riserve possono avere contenuto sostanziale o riguardare solo
l’interpretazione di una disposizione, nel senso che lo stato si ritiene a essa vincolato, ma con il significato indicato nella
riserva indicata. Gli stati tendono a presentare dichiarazioni interpretative soprattutto quando il trattato esclude qualsiasi
riserva o una riserva del tipo proposto. Sono escluse le riserve a carattere generale (caso Belilos).
La prassi successiva relativa ai trattati sulla protezione dei diritti umani sembra andare nella stessa direzione per favorire
la partecipazione degli stati, ma è accompagnata da numerose affermazioni sull’inapplicabilità delle regole contenute
nella convenzione di Vienna a questi trattati. Particolare importanza in proposito rivestono i commenti presentati nel
1994 dal Comitato sui diritti civili e politici, istituito dal Patto del 1966, che non contiene alcuna disposizione in materia di
riserve. Il comitato affermò che la situazione dei trattati era diversa in materia di diritti umani, che sono stipulati a
beneficio di soggetti all’interno della loro giurisdizione, di conseguenza, le disposizioni del Patto che corrispondono a
norme di diritto internazionale generale non possono essere oggetto di riserve. Il comitato affermò altresì che riserve alle
disposizioni inderogabili del patto non sarebbero compatibili con l’oggetto e lo scopo del patto stesso, al pari di quelle
che ne impedirebbero il funzionamento dei meccanismi di garanzia predisposti dal patto.
Peraltro, non tutti gli stati concordano con questa impostazione e ritengono che la soluzione debba essere trovata nella
convenzione di Vienna, nel senso dell’inapplicabilità del trattato nei confronti dello stato che apponga una riserva
incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. Le reazioni degli stati alle proposte della commissione del diritto
internazionale e i lavori in corso in altre organizzazioni non danno soluzioni univoche, anche se la dottrina ha accolto le
affermazioni dell’integrità dei trattati in materia di diritti umani.
Le cause di invalidità dei trattati
Nel diritto internazionale costituiscono cause di invalidità dei trattati alcune circostanze che attengono alla manifestazione
del consenso dello stato o intervengono al momento della conclusione e rendono nullo il trattato ex tunc.
La convenzione di Vienna prevede come cause di invalidità: la violazione di norme interne sulla competenza a stipulare, la
manifestazione del consenso da parte del rappresentante al di là dei poteri a lui conferiti, l’errore, il dolo, la corruzione del
rappresentante, la violenza sul rappresentante o sullo stato e la contrarietà a norme di ius cogens.
Per gli stati contraenti nella convenzione di Vienna e per i trattati stipulati dopo la sua entrata in vigore queste disposizioni
hanno carattere esclusivo ed esauriscono le cause di invalidità che possono essere invocate.
Le cause di invalidità possono essere invocate solo con riguardo al trattato nel suo complesso, salva diversa pattuizione
contenuta nel trattato stesso o convenuta tra le parti, purché la causa di invalidità investa solo alcune clausole del
trattato che siano separabili dal resto e non abbiano costituito per le altre parti una base essenziale del loro consenso e
purché non sia ingiusto continuare ad applicare il resto del trattato (possibilità esclusa però per i trattati viziati da
violenza e da contrasto con norme di ius cogens). Qualora siano stati compiuti atti in applicazione di un trattato nullo,
ogni parte può chiedere che sia ristabilita la situazione che si sarebbe avuta se tali atti non fossero stati compiuti; gli atti
compiuti in buona fede in esecuzione di un trattato nullo non sono considerati illeciti (ciò non vale nei confronti di chi ha
commesso dolo, corruzione o violenza).

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Alcuni vizi del consenso possono essere invocati solo dallo stato il cui consenso è viziato, mentre altri per la loro natura
e gravità travolgono il trattato indipendentemente dalla richiesta di tale stato. In relazione ai primi uno stato decade dal
diritto di far valere l’invalidità quando abbia esplicitamente accettato di considerare il trattato come valido o si debba
desumere dal suo comportamento che abbia prestato acquiescenza alla sua validità.
Gli artt. 65ss della Convenzione di Vienna istituiscono una nuova procedura per far valere l’invalidità del trattato.
- La violazione da parte del rappresentante dei limiti stabiliti nei pieni poteri circa la manifestazione del consenso
Qualora un atto relativo alla conclusione di un trattato sia compiuto da un soggetto non autorizzato a tal fine, l’atto non
ha effetto salvo che sia successivamente confermato dallo stato. L’art. 47 della Convenzione di Vienna concerne
invece la diversa ipotesi del rappresentante che manifesti il consenso dello stato al di fuori dei pieni poteri ricevuti,
senza tener conto dei limiti o restrizioni specifiche e relative proprio al consenso: in linea di principio tali restrizioni
possono essere opposte agli altri stati contraenti solo se sono state loro notificate prima che il consenso viziato sia
stato espresso (ipotesi che può verificarsi solo in relazione ad accordi in forma semplificata).
- L’errore
Ai sensi dell’art. 48 della Convenzione, uno stato può invocare l’errore quale vizio del proprio consenso solo se si tratta
di un errore relativo a un fatto o a una situazione che lo stato stesso riteneva esistente al momento della conclusione del
trattato e che costituiva una base essenziale del consenso. Si tratta di una disposizione applicata raramente nella prassi.
La disposizione codifica una norma pacifica di diritto generale, secondo la quale uno stato non può invocare l’errore
quale vizio del proprio consenso se la parte che lo invoca ha contribuito con il proprio comportamento all’errore o
avrebbe potuto evitarlo, o se le circostanze erano tali che lo stato avrebbe dovuto rendersi conto della possibilità di un
errore. Un errore che non concerne una circostanza essenziale o che abbia natura meramente redazionale non inficia la
validità del trattato, ma può essere corretto dalle parti secondo procedura concordata o dell’art. 79 della convenzione.
- Il dolo e la corruzione
Anche il dolo non è frequente nella prassi, tanto che la commissione del diritto internazionale non ha ritenuto di
doverlo definire in modo dettagliato, ma ha lasciato alla prassi il compito di precisarne lo scopo e l’ambito di
applicazione. La corruzione del rappresentante riguarda il caso di atti volti in modo specifico a esercitare
un’influenza sostanziale sulla manifestazione del consenso del rappresentante che altrimenti non l’avrebbe prestato
o non l’avrebbe prestato in quei termini (non rientrano cortesie o favori dimostrati al rappresentante).
- La violenza sullo stato e sul rappresentante
Gli artt. 51 e 52 riguardano due ipotesi di violenza, rivolta contro il rappresentante dello stato e contro lo stato.
I casi di violenza contro il rappresentante, attraverso atti o minacce, rivolti direttamente contro di lui sono rari.
La violenza contro lo stato, in realtà, fino alla Carta delle NU non era considerata motivo di invalidità dei trattati.
L’art. 52 della Convenzione, che dunque codifica un principio affermatosi solo in tempi recenti, richiama la minaccia
o l’uso della forza in violazione dei principi di diritto internazionale incorporati nella Carta e fa dipendere il proprio
ambito di applicazione dall’interpretazione di questa: evidentemente esso non riguarda i trattati stipulati sotto la
minaccia o l’uso della forza in conformità con la Carta, quando sia esercitata o autorizzata dalle NU.
In caso di violenza, l’invalidità del trattato non dipende dal fatto che lo stato vittima della violenza invochi il vizio del
proprio consenso (la commissione del diritto internazionale ha ritenuto di parlare in questi casi di nullità anziché di
invalidità del trattato). Una volta terminata la violenza, lo stato potrà valutare se concludere un nuovo accordo.
Non è discussa invece la validità dei trattati di pace conclusi dallo stato sconfitto ancora sotto la pressione dell’uso
della forza bellica da parte dei vincitori, né ha avuto seguito la dottrina sovietica dei “trattati ineguali” che sarebbero
viziati per squilibrio di forza e potere. La conferenza che portò alla Convenzione di Vienna adottò anche una
dichiarazione sul divieto dell’uso della forza militare, politica ed economica nella conclusione dei trattati, che per
non è presente nel testo della Convenzione.
- Il contrasto con norme di ius cogens
L’art. 53 pone una causa di invalidità che colpisce il trattato ab initio, ma riguarda il contenuto del trattato anziché il
consenso delle parti. Essa sancisce un limite alla libertà degli stati che non possono stipulare trattati che
contrastino con norme inderogabili di diritto internazionale generale, cioè con le norme di ius cogens. In presenza di
questa causa di invalidità, le parti devono eliminare le conseguenze di qualsiasi atto compiuto sulla base di una
disposizione contraria a una norma di ius cogens e rendere conformi a essa i reciproci rapporti.
Le cause di estinzione e di sospensione dei trattati
A differenza delle cause di invalidità, le cause di estinzione e di sospensione dei trattati operano in un momento
successivo alla stipulazione, al verificarsi di una situazione o di una circostanza che impedisce che un trattato valido
continui a produrre i suoi effetti tra tutte le parti contraenti o solo tra alcune. Ciò può avvenire per una manifestazione
espressa di volontà degli stati o per effetto dell’inadempimento di una più parti, dell’impossibilità sopravvenuta,
mutamento fondamentale delle circostanze o della sopravvenienza di una nuova norma di ius cogens.
L’estinzione e la sospensione dei trattati sono regolate in via esclusiva dalla volontà espressa dalle parti al trattato o
dalle disposizioni della Convenzione, nella misura in cui costituiscono codificazione del diritto esistente (anche in questo
caso è possibile separare alcune clausole dal complesso del trattato).
Uno stato non può far valere le cause di estinzione o sospensione degli artt. 60 e 62 quando abbia esplicitamente
accettato di mantenere in vigore il trattato o si debba desumere dal suo comportamento che abbia prestato
acquiescenza alla continuazione della sua applicazione.
L’estinzione del trattato, salva diversa pattuizione, le libera dall’obbligo di continuare ad applicare il trattato e non
pregiudica alcun diritto o obbligo, né alcuna situazione giuridica soggettiva delle parti che sia sorta durante il periodo di
applicazione del trattato. Se l’estinzione è dovuta alla formazione di una nuova norma di ius cogens, però tali diritti
obblighi o situazioni giuridiche possono permanere solo se non sono in contrasto con la norma imperativa.

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- L’estinzione e la sospensione per effetto della volontà degli stati: denuncia e recesso
Qualora un trattato contenga disposizioni specifiche relative all’estinzione, alla denuncia o al recesso degli stati
partecipanti, la procedura eventualmente prevista dovrà essere seguita. In mancanza sarà necessario il consenso
di tutte le parti e la consultazione con gli altri stati contraenti.
Nel silenzio del trattato, invece, quanto all’ammissibilità dell’estinzione, della denuncia del recesso si ritiene che
questi non siano possibili, salvo che risulti che le parti intendevano ammetterli oppure il diritto di denuncia o
recesso possa essere dedotto dalla natura del trattato. In questo caso la convenzione di Vienna dispone che la
dichiarazione prenda effetto dopo 12 mesi.
Mentre la denuncia o il recesso da parte di un numero di stati tale per cui il numero delle parti contraenti scenda al
di sotto di quello che era stato necessario per la sua entrata in vigore non comporta di per sé l’estinzione del
trattato, un trattato può estinguersi anche per la stipulazione da parte di tutti gli stati contraenti di un nuovo trattato
sulla stessa materia, quando siano incompatibili o vi sia implicita volontà di sostituirlo. Questa disposizione va letta
in relazione agli artt. 30, 40, 41 che disciplinano rispettivamente l’applicazione di trattati successivi sulla stessa
materia e l’emendamento di trattati multilaterali, anche se i reciproci confini non sono sempre chiari. L’art. 30
disciplina il caso in cui gli stati stipulino un nuovo accordo senza però voler estinguere quello precedente, che
quindi continuerà ad applicarsi per quanto compatibile con quello successivo. Ove partecipino solo alcuni stati, i
rapporti tra gli stati che sono parte a entrambi sono disciplinati secondo la regola enunciata, mentre i rapporti tra
uno stato parte ad entrambi e uno parte solo di uno di essi sono soggetti al trattato dove partecipano entrambi.
L’emendamento, invece, consiste nella modifica di un trattato tra tutti gli stati partecipanti: salvo diverse pattuizioni,
la convenzione di Vienna dispone che la proposta di modifica sia notificata a tutti gli stati contraenti, che hanno il
diritto di partecipare alla decisione sull’opportunità della modifica e al negoziato che porterà all’accordo
sull’emendamento (qualora l’accordo di emendamento entri in vigore solo tra alcuni stati, si applica l’art. 30.4).
È possibile che alcuni stati soltanto si accordino per modificare un trattato nei reciproci rapporti, se tale possibilità è
prevista o se non è vietata, purché la modifica non pregiudichi i diritti né l’adempimento degli obblighi degli altri stati
e non riguardi una disposizione del trattato la cui deroga metterebbe in pericolo la realizzazione dell’oggetto e dello
scopo del trattato. A questo fine gli stati che intendono stipulare un accordo tra loro devono notificare alle altre parti
l’intenzione e il contenuto delle modifiche.
Quanto si è detto per l’estinzione volontaria vale anche per la sospensione per effetto della volontà delle parti.
- L’estinzione o sospensione dei trattati come conseguenza della violazione da parte di uno o più stati partecipanti
Per quanto non sia controverso l’esistenza del principio generale secondo il quale la violazione di una norma
contenuta in un trattato da parte di uno stato legittima gli alti contraenti a porre termine al trattato o a sospendere
l’adempimento dei propri obblighi nei confronti del primo, vi è divergenza quanto alle condizioni alle quali tali
reazioni sono sottoposte. La Convenzione di Vienna esclude qualsiasi effetto automatico dell’inadempimento e
prevede l’estinzione del trattato solo in caso di violazione di norme importanti nell’economia generale del trattato
stesso, distinguendo gli accordi bilaterali da quelli multilaterali e lasciando comunque liberi gli altri stati di
predisporre qualsiasi diversa disciplina nel testo del trattato stesso. Per poter rilevare, la violazione deve avere
carattere sostanziale, deve cioè consistere nel ripudio pretestuoso del trattato in quanto non autorizzato dalla
convenzione di Vienna o nella violazione di una disposizione essenziale per il raggiungimento dell’oggetto e dello
scopo del trattato; violazioni minori del trattato non portano all’estinzione ma comportano responsabilità
internazionale dello stato e legittimano l’adozione di misure di ritorsione o rappresaglia.
Quanto agli accordi bilaterali, l’art. 60.1 dispone che in caso di violazione sostanziale da parte di uno dei due stati,
l’altra parte può invocare tale violazione come motivo di estinzione o di sospensione totale o parziale della sua
applicazione. L’inadempimento da parte di entrambi non porta necessariamente all’estinzione.
Più complessa risulta la disciplina delle conseguenze della violazione di un trattato multilaterale: in primo luogo, è
previsto che tutti gli altri stati possano decidere all’unanimità di sospendere o estinguere il trattato nei rapporti tra
loro e lo stato colpevole; in secondo luogo, uno stato la cui posizione sia particolarmente lesa dalla violazione può
chiedere la sospensione o l’estinzione del trattato nei rapporti bilaterali con lo stato colpevole della violazione
stessa, oppure qualora la violazione muti radicalmente la posizione di ognuno degli stati parti dal trattato stesso,
ogni stato diverso da quello che ha commesso la violazione può chiederne la sospensione totale o parziale.
L’art. 60.5 esclude che i paragrafi 1-3 possano applicarsi alle disposizioni contenute nei trattati sulla protezione
della persona umana e alle disposizioni che vietano qualsiasi rappresaglia contro le persone ivi protette.
- L’estinzione del trattato per impossibilità sopravvenuta
La Convenzione di Vienna prevede la possibilità di chiedere l’estinzione del trattato o di denunciarlo quando la
scomparsa o la distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione del trattato l’abbiano resa
possibile. Questa situazione non deve però derivare dalla violazione, da parte dello stato che la invoca, di un
obbligo derivante dal trattato o di un altro obbligo internazionale nei confronti di una delle parti al trattato.
Se l’impossibilità è solo temporanea, essa può giustificare la richiesta di sospensione dell’applicazione del trattato.
In linea di principio, la rottura delle relazioni diplomatiche o consolari fra le parti di un trattato non giustifica
l’estinzione del trattato poiché le comunicazioni tra gli stati possono continuare anche attraverso terzi stati e le
relazioni diplomatiche non costituiscono un mezzo o un oggetto essenziale per l’applicazione del trattato.
- Estinzione del trattato per il mutamento fondamentale delle circostanze
L’art. 62, che codifica il principio di diritto generale rebus sic stantibus, considera quale causa di estinzione o
sospensione di un trattato il mutamento fondamentale delle circostanze, purché queste abbiano costituito la base
essenziale del consenso delle parti a vincolarsi al trattato e il mutamento trasformi radicalmente la portata degli
obblighi che restano ancora da adempiere in base ad esso. Tuttavia, uno stato non può invocare il mutamento
fondamentale delle circostanze se esso deriva dalla violazione di un obbligo derivante dal trattato o di qualsiasi

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altro obbligo internazionale a opera dello stesso stato, nei confronti di qualsiasi altra parte del trattato.
Si ritiene che la guerra abbia l’effetto di sospendere gli accordi in vigore tra gli stati belligeranti, almeno fino al
termine delle ostilità; la prassi è invece incerta sull’estinzione di tali trattati alla fine della guerra: pare preferibile
l’opinione secondo la quale la clausola rebus sic stantibus si applica anche in questo caso e si deve accertare per
ogni trattato se la guerra abbia modificato le circostanze in modo fondamentale. La regola non può essere invocata
per gli accordi di confine, poiché si ritené che si tratti di accordi a esecuzione istantanea, che esauriscono i propri
effetti con la definizione del confine stesso e il cui rispetto attiene al rispetto dell’ambito territoriale reciproco.
- La sopravvenienza di una nuova norma di ius cogens
La Convenzione prevede all’art. 64 che lo sviluppo di nuova norma di ius cogens costituisca una causa di
estinzione del trattato. La CIG ha affermato che la contrarietà a nuove norme imperative non costituisce una causa
automatica di estinzione, almeno quando gli stati hanno la possibilità di modificare il trattato per renderlo ad esse
conforme.
La procedura per far valere una causa di invalidità, estinzione o sospensione di un trattato
La convenzione istituisce anche una procedura complessa per far valere una delle cause agli artt. 65-67.
Secondo la convenzione, la parte che intenda fa valere una causa di invalidità, estinzione o sospensione deve notificare
la sua pretesa per iscritto alle altre parti. In mancanza di obiezioni entro un periodo di almeno 3 mesi, lo stato può
adottare la misura in questione, che deve essere contenuta in uno strumento emanato dal capo dello stato, dal capo del
governo o dal ministro degli esteri o da un rappresentante munito dei pieni poteri. Qualora vengano sollevate obiezioni,
le parti devono cercare una soluzione della controversia secondo l’art. 33 della Carta ONU.
Se non è stata raggiunta una soluzione entro 12 mesi, la convenzione distingue le controversie concernenti l’invalidità o
l’estinzione per contrasto con norme di ius cogens dalle altre: le prime possono essere sottoposte ad arbitrato con
l’accordo di tutte le parti o alla CIG con ricorso unilaterale, e le decisioni avranno effetto vincolante per le parti; le altre
sono sottoposte a una procedura di conciliazione obbligatoria prevista e disciplinata nell’allegato alla convenzione, che si
attiva su domanda al segretario generale delle NU e si consolida con un rapporto vincolante.
La successione degli stati nei trattati: le vicende della sovranità territoriale
La convenzione di Vienna esclude di occuparsi delle questioni che si possono porre in relazione a un trattato in seguito a
una successione di stati, a esse è dedicata un’apposita convenzione, conclusa a Vienna nel 1978 ed entrata in vigore 20
anni dopo, tra un numero molto ristretto di stati (no Italia), che contiene disposizioni complesse e dettagliate che non
sembrano completamente conformi alla prassi internazionale. Le vicende che può subire uno stato sul piano dei
mutamenti della sovranità territoriale possono consistere in una fusione, un’incorporazione oppure con una scissione o un
distacco. Mentre fusioni e scissioni sono rare nella prassi, molto frequenti sono stati i casi di incorporazione e di distacco.
La prassi internazionale: regole ed eccezioni
La prassi internazionale sembra dimostrare l’esistenza di due diversi principi che hanno un ambito di applicazione molto chiaro.
1. La regola della tabula rasa, secondo la quale lo stato successore è libero da qualsiasi vincolo derivante da trattati
stipulati dallo stato predecessore in relazione al suo territorio. Possono seguire dichiarazioni unilaterali di
successione da parte del primo stato, accordi bilaterali tra i due per liberare il secondo dagli obblighi derivanti da tali
trattati e accordi con stati parti a quei trattati che lo stato successore intende mantenere in vigore: la comunità nel
rispetto dei diritti e degli obblighi convenzionali che erano in vigore sul territorio in questione è la conseguenza di
manifestazioni di volontà ad hoc o accordi da parte degli stati interessarsi. La regola della tabula rasa è stata prevista
solo per gli stati di nuova indipendenza, mentre negli altri casi di successione, gli stati sono sottoposti al principio di
continuità con una serie di disposizioni che vengono ritenute di sviluppo progressivo.
2. La regola della mobilità delle frontiere dei trattati, in caso di distacco e di incorporazione, secondo la quale gli accordi in
vigore per lo stato incorporante si applicano all’interno dei nuovi e più ampi confini, mentre per lo stato che vede ridursi
il proprio territorio si restringerà in modo corrispondente anche l’ambito di applicazione dei trattati ai quali è parte.
Qualora la parte di territorio distaccatati diventi un nuovo stato si applica nuovamente la regola della tabula rasa.
A queste regole fanno eccezione i trattati localizzabili, che istituiscono regimi territoriali specifici concernenti l’uso o i limiti
all’uso di territori considerati connessi con i territori in questione, che continuano a vincolare lo stato che succede
nell’esercizio della sovranità su quel dato territorio. Questo principio è codificato all’art. 12 della Convenzione di Vienna
del 1978, che prevede come unica eccezione gli accordi di concessione di basi militari (a cui vanno aggiunti anche i
trattati di natura prevalentemente politica). È preferibile ritenere che gli accordi di confine, anch’essi considerati
un’eccezione alle regole sulla successione, non siano pregiudicati da questa non tanto perché sono accordi localizzabili
ma piuttosto in quanto hanno già esaurito i propri effetti con la determinazione dell’ambito della sovranità territoriale dello
stato. La CIG ha affermato la natura consuetudinaria della regola dell’art. 12.
Una seconda eccezione sembra in via di formazione e riguarda i trattati in materia di diritti dell’uomo, dei quali si richiede
il rispetto da parte dello stato successore indipendentemente dagli eventi che hanno portato all’avvicendamento nella
sovranità sul territorio.

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CAPITOLO IV
L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO AL DIRITTO INTERNAZIONALE (E DELLA UE)
di Paola Ivaldi

Monismo e dualismo nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno


Con “adattamento del diritto italiano al diritto internazionale” si allude alle diverse tecniche impiegate nell’ordinamento
italiano allo scopo di legittimare e garantire l’operatività, al suo interno, di norme esterne, di derivazione internazionale.
In questa accezione, l’adattamento presuppone la separazione tra i due diritti e quindi una logica dualista nella
ricostruzione dei rapporti tra essi intercorrenti.
Secondo la tesi dualista, le norme internazionali non sono applicabili ex se nell’ordinamento nazionale, in quanto
assumono efficacia soltanto dopo un procedimento di adattamento volto ad assicurare il rilievo e l’operatività sul piano
interno. Prima di affrontare il tema dell’adattamento, è necessario distinguere:
- Concezione dualista (Triepel): il diritto interno e quello internazionale costituiscono due ordinamenti giuridici
originari ed autonomi, separati e distinti. Tale conclusione è giustificata:
a. Dalla diversa volontà che pone i due ordinamenti: nell’ordinamento interno la volontà dello stato, in quello
internazionale, la volontà della comunità internazionale;
b. Dalla diversa specie dei rapporti disciplinati: nell’ordinamento interno i rapporti interni allo stato, in quello
internazionale i rapporti tra stati.
Tuttavia, in aggiunta all’ordinamento internazionale vi sono tanti ordinamenti quanti gli stati, la logica andrebbe
dunque più precisamente definita pluralista.
- Concezione monista: il diritto interno e quello internazionale vanno riportati, in considerazione del loro comune
fondamento di validità, ad un sistema normativo unitario, con esclusione di ogni reciproca indipendenza.
Da tale premessa condivisa, si sono sviluppate però due diverse formulazioni:
a. Variante internazionalistica (Kelsen e Scuola di Vienna): il principio unitario si rintraccia nella norma fondamentale di
diritto internazionale che sancisce l’obbligatorietà degli accordi e delle consuetudini internazionali;
b. Variante statalista: incentrata sul principio della sovranità dello stato, il diritto internazionale è parte del diritto statale.
L’approccio dualista tradizionalmente seguito dalla giurisprudenza italiana
L’impostazione dualista della giurisprudenza italiana si evidenzia, ad esempio, nelle decisioni in cui viene precisato che,
anche quando la norma internazionale ha per oggetto la disciplina di rapporti tra singoli individui, i suoi destinatari
immediati e diretti sono esclusivamente gli stati che hanno stipulato il trattato contenete la norma internazionale.
L’impostazione dualista è stata confermata dalla corte costituzionale anche nelle sentenze pronunciate in tema di diritto
italiano e diritto dell’unione europea.
Il principio “dell’indifferenza” del diritto interno rispetto al diritto internazionale non oggetto di procedure di adattamento
Nella prospettiva dualista della giurisprudenza italiana, l’adattamento è stato inteso come un procedimento volto a
rendere applicabile la norma internazionale all’interno dell’ordinamento italiano e a giustificarne, al contempo,
l’operatività in tale ambito. L’adattamento costituisce quindi condizione necessaria di efficacia nell’ordinamento interno
della disciplina concordata a livello internazionale.
Prima del 2001 dunque la norma internazionale, pur vincolante nell’ambito delle relazioni con gli atri stati, veniva
considerata, in mancanza di idonea procedura di adeguamento, come se non esistesse, sia dal punto di vista dei privati
che degli organi dello stato. Il tradizionale principio della separazione tra ordinamento interno e internazionale e della
conseguente indifferenza del diritto interno rispetto a quello internazionale non oggetto di adeguamento si riteneva
operante non solo in caso di trattati stipulati attraverso il procedimento solenne, ma anche con riguardo a quelli conclusi
in forma semplificata.
Revisione costituzionale e portata dell’art. 117.1cost
L’art. 10.1cost prevede una norma generale di adattamento unicamente con riguardo alle norme di diritto
consuetudinario che, salvo il contrasto con i principi costituzionali, sono recepite in modo permanente all’interno
dell’ordinamento italiano, dove assumono il medesimo rango della norma che ha proceduto all’adattamento (quindi
costituzionale); un’analoga disposizione non è invece prevista per i trattati internazionali.
Prima della riforma del 2001, la mancata esecuzione sul piano interno dei trattati vincolanti per l’Italia poteva comportare
conseguenze come la responsabilità internazionale dello stato nei confronti degli altri contraenti ma, in ossequio della tesi
dualista, non era altresì ipotizzabile la violazione di alcuna norma costituzionale che sancisse l’obbligo di garantire attuazione
agli obblighi internazionali assunti dal nostro paese. Occorre un riesame della questione alla luce del nuovo art. 117.1cost?
L’art. 117.1cost non si presta ad essere considerato alla stregua di una norma di adattamento in riferimento ai trattati
produttiva di effetti analoghi a quelli dell’art. 10cost; in materia di trattati, si confermano pertanto le tecniche di
adattamento consolidate dalla prassi prima della riforma.
Tuttavia, ciò non implica una totale adesione all’orientamento seguito dalla nostra giurisprudenza prima della riforma:
pare giustificato dubitare della coerenza con i principi desumibili dall’art. 117.1cost dell’irrilevanza (dal punto di vista del
diritto interno) degli obblighi assunti attraverso la stipulazione di un obbligo internazionale finché non si sia proceduto
all’adattamento. Tale affermazione contrasta infatti con l’interpretazione dell’art. 117.1cost che desume, nella parte in cui
prevede espressamente la necessità di garantire i vincoli internazionali, un obbligo positivo a carico del legislatore:
quest’ultimo dovrebbe ritenersi vincolato a porre in essere tutti gli adempimenti dei quali ravvisi l’esigenza al fine di
consentire al trattato di spiegare gli effetti che gli sono propri, in adesione agli impegni assunti dallo stato in ambito
internazionale. Sembra difficile sostenere infatti che tra i limiti derivanti dagli obblighi internazionali non vi sia quello che
impone a ciascun contraente l’obbligo di rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono all’esecuzione del trattato.

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Alla soluzione dei problemi che sorgono dalla dubbia interpretazione dell’art. 117.1cost non ha dato soluzione neppure la
legge 131/2003 recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della repubblica alla legge costituzionale 3/2001.
Occorre precisare che i trattati internazionali costituiscono fonte di obblighi internazionali, ai sensi dell’art. 117.1cost, a
condizione che il trattato sia in vigore sul piano internazionale e che sia vincolante per l’Italia in quanto completate le
procedure necessarie: sono pertanto vincolo per il legislatore nazionale gli accordi in vigore rispetto ai quali l’Italia abbia
manifestato il proprio consenso ad obbligarsi in conformità delle norme internazionali.
Un profilo problematico, ancora insoluto, è quello che attiene alla possibilità di individuare una condizione ulteriore cui
subordinare il vincolo del legislatore: ci si chiede se costituiscano oggetto del rinvio agli obblighi internazionali tutti i
trattati internazionali in vigore per l’Italia o soltanto quelli che, oltre a vincolar il nostro paese sul piano delle relazioni
internazionali, abbiano ricevuto attuazione nell’ordinamento interno mediante idonee misure di adeguamento.
La tesi massimalista include tra gli obblighi internazionali di cui all’art. 117.1cost tutti i trattati, compresi gli accordi
conclusi in forma semplificata, a prescindere dal loro recepimento. Si tratta però di un’interpretazione che può sembrare
eccessiva, soprattutto in quanto non sembra accordarsi con l’art. 80cost che, prescrivendo l’adozione della legge di
autorizzazione alla ratifica dei trattati che prevedono modificazioni di leggi in vigore, fa apparire a fortiori necessario il
passaggio parlamentare affinché un trattato internazionale sia idoneo a produrre vincoli per il legislatore futuro.
Per quanto riguarda gli accordi riconducibili all’art. 117.1cost, è ragionevole desumere da tale disposizione non solo il
vincolo di non legiferare in contrasto agli accordi internazionali in vigore per il nostro paese, ma anche quello di dare
esecuzione agli accordi che soddisfano le condizioni necessarie.
L’art.117.1cost, nella parte in cui prevede espressamente la necessità di garantire il rispetto dei vincoli internazionali,
sancisce altresì implicitamente un obbligo positivo di adempimento a carico del legislatore? Sì.
Il principio relativo alla (tendenziale) correlazione tra vigore nei rapporti tra stati e applicabilità in ambito interno della
norma di origine internazionale
Dal punto di vista del diritto interno, la piena applicazione della disciplina prevista da norme internazionali è condizionata,
oltre che all’adozione di misure di adeguamento, anche dall’entrata e dalla permanenza in vigore di tale disciplina nel
suo ordinamento d’origine, ovvero quello internazionale.
Per garantire la conoscibilità degli accordi ai quali l’Italia è vincolata sul piano delle relazioni internazionali, ne è prevista
la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, annualmente è inoltre prevista una pubblicazione del ministro degli esteri,
allegata alla Gazzetta, recante la situazione delle convenzioni internazionali vigenti per l’Italia.
Nel caso di adattamento speciale di un trattato, l’atto interno recante l’ordine di esecuzione non comporta l’applicabilità
della disciplina convenzionale prima che questa entri in vigore nell’ordinamento internazionale, anche se una norma
interna può anticipare l’applicazione della disciplina internazionale non ancora vigente.
La normale correlazione tra vigore sul piano internazionale e applicabilità sul piano interno delle norme di origine
internazionale incontra un’eccezione nel caso in cui l’adeguamento del diritto italiano sia avvenuto attraverso il
procedimento ordinario, consistente nella riformulazione delle norme internazionali mediante disposizioni interne
emanate ad hoc, che determina la totale “nazionalizzazione” delle prime.
Il rispetto, da parte dello stato, dei vincoli che gli fanno carico in virtù del diritto internazionale: obblighi di mezzi o di risultato?
Generalmente l’individuazione delle tecniche di attuazione, da parte degli stati, degli obblighi internazionali a loro carico
è rimessa alla loro libera determinazione: normalmente il diritto internazionale si limita a richiedere ai suoi destinatari che
sia conseguito un determinato risultato di cui la norma internazionale è espressione, senza precisare le modalità o il
tramite attraverso cui realizzarlo. Questo concerne non solo il caso in cui all’origine degli obblighi vi sia una norma
consuetudinaria, ma anche quello in cui il vincolo consiste nel dare attuazione ad accordi recanti disposizioni self-
executing, che prescrivono l’obbligo di introdurre modifiche negli ordinamenti, lasciando comunque libertà di scelta in
ordine al livello al quale operare le modifiche. In quest’ultimo caso però gli stati sono esposti a responsabilità
internazionale quando, pur avendo adempiuto agli obblighi adeguando la normativa interna a quella prevista dalla
convenzione, consentano o tollerino violazioni significative e sistematiche degli obblighi assunti.
L’obbligo, a carico degli stati, di garantire interpretazione e applicazione uniformi alle norme di origine internazionale
In vista di un puntuale adempimento dell’obbligo di garantire il risultato di cui la norma internazionale costituisce
espressione, la giurisprudenza ha sottolineato il vincolo specifico a fornire un’interpretazione della disciplina di origine
internazionale in virtù dei criteri propri dell’ordinamento nel quale essa si è formata (Convenzione di Vienna del 1969).
La nostra cassazione ha però evidenziato la necessità di non cedere alla tentazione di letture in chiave unilateralistica
delle norme internazionali, allo scopo di garantire un’applicazione ovunque uniforme.
Il mancato conseguimento del risultato alla base della norma di diritto internazionale determina un illecito fonte di
responsabilità per lo stato, pur in presenza di un comportamento di quest’ultimo astrattamente idoneo a permettere la
piena operatività, nel suo ordinamento, della norma internazionale.
Procedimento ordinario e procedimento speciale di adattamento
Nel nostro ordinamento si provvede all’attuazione degli obblighi internazionali mediante due tecniche:
- Il procedimento ordinario: consiste nel riprodurre le norme internazionali riformulandole direttamente e
materialmente nell’ordinamento nazionale mediante norme interne ad hoc. In questo caso viene reciso ogni suo
collegamento della norma con l’ordinamento internazionale, in quanto materialmente incorporata nell’ordinamento
nazionale e quindi omologata alle norme autonomamente adottate dal legislatore italiano e questo può non essere
sufficiente a rendere del tutto conforme l’ordinamento interno a quello internazionale.
- Il procedimento speciale: consiste nel disporre un rinvio a norme internazionali, ordinando la loro osservanza,
senza alcuna riformulazione diretta delle medesime nell’ordinamento nazionale. In questo caso il legislatore
dispone un rinvio formale e mobile nei confronti delle norme internazionali di cui si deve garantire l’applicazione e le

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norme che ne costituiscono l’oggetto preservano la loro matrice internazionale e la loro effettiva portata viene
accertata dal giudice nel momento in cui bisogna farne concreta applicazione. Tali norme determinano poi,
all’interno dell’ordinamento nazionale, solo le modifiche strettamente necessarie a garantire il puntuale
adempimento degli obblighi.
Norme internazionali non self-executing e necessità del ricorso ad una tecnica “mista” di adattamento
Evidenti sono i vantaggi connessi al ricorso al procedimento speciale di adattamento, ma quando le norme internazionali
non sono self-executing (non dettano una disciplina del tutto completa e autosufficiente) non è possibile una loro
applicazione immediata, quindi il rinvio risulta insufficiente allo scopo di garantire la loro puntuale attuazione ed effettiva
operatività nell’ordinamento nazionale.
Nel caso di norme non self-executing si pone necessaria la formulazione, da parte del legislatore interno, anche di
norme materiale di adeguamento. L’esecuzione interna di un trattato recante norme non self-executing può richiedere
dunque l’impiego congiunto di modalità diverse di adeguamento.
Tuttavia, alle norme non immediatamente applicative, recepite senza ulteriore disciplina di adattamento, non deve
essere disconosciuto ogni effetto a livello interno, esse hanno infatti una funzione orientativa dell’interpretazione del
diritto esistente.
Il “trasformatore permanente” delle norme internazionali generalmente riconosciute previsto dall’art. 10.1cost
Le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute costituiscono l’oggetto del rinvio disposto dall’art. 10.1cost.
L’art. 10.1cost costituisce l’unica norma di adattamento di portata generale prevista nel nostro ordinamento e dunque
provvede a garantire l’operatività, nell’ambito dell’ordinamento italiano, delle norme internazionali non scritte a carattere
generale, nel loro contenuto autentico e nel significato proprio dell’ordinamento nelle quali si formano e si evolvono.
Spetta poi al giudice rilevare, caso per caso, il loro contenuto e la loro portata e valutare in quale misura il diritto interno
debba modificarsi allo scopo di adeguarsi a quanto da esse previsto.
Non ha avuto seguito in giurisprudenza la tesi in base al quale il trasformatore permanente previsto dall’art. 10.1cost
funzionerebbe come norma di adattamento anche in relazione ai trattati. Al contrario, l’orientamento consolidato nel
nostro ordinamento è nel senso di escludere che l’art. 10.1cost possa essere invocato per giustificare l’operatività,
nell’ordinamento interno, della disciplina prevista nei trattati.
L’adattamento ai trattati internazionali tramite l’ordine di esecuzione
Al fine dell’adeguamento italiano alla disciplina prevista dai trattati si utilizza la tecnica di adattamento in via ordinaria, o
più frequentemente quella in via speciale, fondata sull’ordine di esecuzione. Quest’ultima tecnica presenta elementi di
analogia con quella impiegata dall’art 10.1cost, pur differenziandosene per un aspetto essenziale: mentre il rinvio
operato dall’art. 10.1cost ha carattere generale, quello compiuto dal legislatore interno tramite l’ordine di esecuzione si
riferisce solo al singolo trattato richiamato nello stesso provvedimento di esecuzione.
Riguardo ai trattati per la cui ratifica è richiesta ex art. 80cost una previa autorizzazione formulata con legge, l’ordine di
esecuzione è generalmente contestuale tale autorizzazione. Nei casi non contemplati dall’art. 80cost, la scelta dello
strumento interno con il quale formulare l’ordine di esecuzione dipende dal livello al quale vanno apportate le modifiche
all’ordinamento interno.
Caratteristiche ed effetti del rinvio ai trattati internazionali formulato nell’ordine di esecuzione ad essi relativo
L’ordine di esecuzione dispone un rinvio alla disciplina delle convenzioni internazionali che ne sono oggetto, tuttavia non
costituisce un rinvio ricettizio e quindi la disciplina pattizia oggetto del rinvio mantiene l’originario carattere internazionale
ed il trattato in cui è incorporata determina, a livello di ordinamento interno, solo le modifiche strettamente necessarie a
garantire un puntuale adempimento degli obblighi assunti dallo stato.
Le norme interne preesistenti verranno dunque sostituite da quelle internazionali solo quando vi è una volontà dello stato
in tal senso, in generale infatti la norma interna mantiene il suo vigore nell’ambito della sovranità nazionale.
La giurisprudenza tende invece ad escludere la possibilità di abrogazione per incompatibilità dell’atto con il quale è
formulato l’ordine di esecuzione richiamandosi a diversi criteri, innanzitutto a quello di specialità.
Il ruolo degli enti sub-statali nella fase di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali: la disciplina costituzionale
Il riformato art. 117cost contiene diverse disposizioni rilevanti a proposito delle competenze riconosciute in capo alle regioni
in materia di rapporti internazionali: alcune sono innovative rispetto al passato (ultimo comma), altre confermano invece
semplicemente la prassi pregressa (comma 5), già prima della riforma si era infatti affermata nel nostro ordinamento la
competenza regionale a provvedere all’esecuzione degli accordi internazionali, nei limiti delle materie a loro attribuite.
È importante sottolineare che la partecipazione regionale in tema di diritto internazionale non mette in discussione il
principio secondo il quale va esclusa la soggettività internazionale degli enti sub-statali; necessita invece di
adeguamento il principio in base al quale sono legittime le limitazioni imposte all’autonomia delle regioni, anche nelle
materie di loro competenza primaria o esclusiva, dall’esigenza di adempiere agli obblighi internazionali.
La partecipazione regionale alla fase discendente del diritto internazionale nella normativa di attuazione dell’art. 117.5cost
A norma dell’art. 117.5cost è il legislatore ordinario a indicare le modalità con cui le regioni devono assolvere alla
funzione loro assegnata nell’ambito degli accordi internazionali.
Alla luce dell’art. 6.1 della legge 131/2003, l’art. 117.5cost assumerebbe un significato fortemente innovativo se
interpretato come abilitante le regioni a dare esecuzione agli accordi internazionali nelle materie di loro competenza,
indipendentemente da un previo atto statale di immissione: risulterebbe così superato il tradizionale assunto
dell’indifferenza, per gli enti territoriali, dei trattati internazionali non ancora oggetto di atto interno di recepimento da
parte dello stato. L’opinione prevalente sembra tuttavia ancora oggi ribadire l’assunto tradizionale circa la necessità di un
previo recepimento statale con riguardo ai trattati conclusi dallo stato italiano; d’altro canto l’art. 6.1 opera una limitazione

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del proprio campo applicativo circoscrivendo il proprio potere applicativo ai soli accordi internazionali ratificati, così da
escludere indiscriminatamente l’attuazione da parte delle regioni di qualsiasi accordo stipulato in forma semplificata nelle
materie di loro competenza.
Quanto poi al potere governativo di “formulare criteri ed osservazioni” in relazione all’attività regionale, è stato
denunciato il rischio che esso possa incoraggiare una funzione statale di indirizzo e coordinamento non compatibile con
un esercizio pieno ed autonomo della competenza riconosciuta alle regioni, sebbene la corte costituzionale non abbia
ravvisato un’indebita interferenza.
Con riferimento poi all’ipotesi di inadempienza regionale all’obbligo di eseguire gli accordi internazionali, la legge
131/2003 ha reso applicabile, a condizione di compatibilità, la disposizione dettata in attuazione dell’art. 120cost relativa
ad ipotesi di inerzia o inadeguato intervento nell’amministrazione regionale; a tal proposito ci sono state critiche da parte
della dottrina.
L’attuazione delle fonti di terzo grado (diverse da quelle della UE) nella prassi della giurisprudenza italiana
Riguardo all’adattamento agli atti adottati da organizzazioni internazionali ed enti diversi dalla UE, che traggono il loro
fondamento in trattati, si ripropone l’alternativa tra procedimento ordinario e speciale.
Innanzitutto deve essere sottolineata la posizione della corte costituzionale che ha escluso che le risoluzioni dell’assemblea
generale dell’ONU fossero da considerarsi immesse nell’ordinamento interno grazie all’art. 10.1cost.
La peculiarità delle fonti di terzo grado consiste nel pressoché unanime orientamento della prassi a condizionare la loro
efficacia nell’ordinamento interno all’adozione di norme ad hoc da parte del legislatore italiano, volte al recepimento
diretto e materiale della disciplina in esse contenuta.
Si tratta di un approccio adottato per qualche tempo anche con riferimento agli atti della UE di normazione derivata, ma
poi abbandonato.
Critica alla prassi favorevole al ricorso generalizzato al procedimento di adattamento in via ordinaria in caso di fonti
previste dai trattati
Parte della dottrina censura da tempo l’orientamento giurisprudenziale volto a condizionare l’operatività in ambito
nazionale degli atti di organizzazioni internazionali, all’adozione di norme ad hoc di adeguamento in via ordinaria.
Secondo questa parte della dottrina la volontà espressa dal legislatore, allorché ha autorizzato la ratifica ed ordinato
l’esecuzione di un trattato, produce l’effetto di rendere operative e vincolanti nell’ordinamento statale tutte le disposizioni
contenute nel trattato medesimo, comprese quelle che istituiscono fonti di terzo grado, e prevedono al contempo
l’obbligo per gli stati contraenti di rispettare, le conformandosi agli atti prodotti attraverso tali fonti.
Tale orientamento non raccoglie su questo punto un consenso generalizzato, ma è pienamente condiviso quando
sottolinea la necessità che il giudice componga le eventuali antinomie tra diritto interno ed internazionale innanzitutto in
via interpretativa, accordando rilievo ad una sorta di presunzione di conformità del primo rispetto al secondo.
L’adeguamento del diritto italiano al diritto derivato della UE
Nel diritto comunitario e della UE, le fonti previste dai trattati istitutivi vengono indicate come diritto derivato (fonti
contemplate dall’art. 288 TFUE). Si ritiene che l’ordine di esecuzione formulato dalla legge ordinaria con la quale si è
proceduto all’adeguamento del diritto italiano ai trattati istitutivi sia idoneo a garantire anche l’adattamento alle fonti di
diritto derivato, quanto meno nelle ipotesi in cui siano self-executing. Pertanto, norme interne di trasposizione possono e
devono essere adottate solo in caso di regolamenti incompleti, è stata quindi censurata la prassi italiana tendente a
riprodurre in atti interni il contenuto di regolamenti che non richiedevano integrazioni quanto al loro contenuto precettivo.
Il recepimento in ambito nazionale è invece la regola nel caso di direttive e decisioni ex art. 288 TFUE che non abbiano
diretta applicabilità: dal 1989 con la legge La Pergola, sono state elaborate e progressivamente affinate modalità di
sistematica trasposizione di atti non self-executing. In relazione alla fase discendente, la nuova legge 234/2012
contempla due distinti strumenti normativi: la legge di delegazione europea e la legge europea.
Fase discendente del diritto della UE e ruolo delle regioni
la legge 234/2012 prevede una specifica regolamentazione in merito al recepimento, in via decentrata, delle norme
derivate non self-executing. L’art. 40 assegna alle regioni una potestà diretta ed esclusiva nelle materie di competenza
regionale, mentre per quelle di competenza concorrente, i principi generali regolatori che presiedono all’attuazione
vengono definiti annualmente, a livello statale, nell’ambito della legge di delegazione europea.
Alla concreta individuazione delle direttive riservate all’attuazione regionale presiede un’apposita deliberazione della
Conferenza Stato-Regioni. anche riguardo la fase discendente in materia europea, l’interesse dello stato al rispetto degli
obblighi sovranazionali giustifica l’esercizio dei poteri sostitutivi contemplati dall’art. 120.1cost e 41 della legge 234/2012.
La frequenza dei casi in cui occorre procedere in via decentrata al recepimento delle direttive giustifica una disciplina
maggiormente articolata rispetto a quella degli accordi internazionali (convocazione quantomeno annuale della
Conferenza Stato-Regioni e informativa periodica alle capere da parte del governo sullo stato di recepimento delle
direttive da parte delle regioni).
Le norme risultanti dall’adattamento al diritto internazionale nella gerarchia delle fonti interne: il rango delle norme
recepite tramite l’art. 10costo mediante il procedimento speciale di adeguamento dei trattati
A proposito del valore, nell’ordinamento italiano, delle norme risultanti dall’adattamento del diritto interno a quello
internazionale, si è affermato, a livello giurisprudenziale, il principio che il rango che le norme di adattamento al diritto
generale assumono coincide con quello che è proprio dello strumento normativo con il quale si è provveduto ad
immettere nell’ordinamento interno la disciplina internazionale.
La corte costituzionale non ha mancato di sottolineare la possibilità di sottoporre al vaglio di legittimità costituzionale le
norme oggetto di rinvio ad opera dell’art. 10.1cost.

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Il principio della correlazione tra rango dello strumento adeguativo e quello assunto dalle norme prodotte a seguito della
trasposizione in ambito interno, è destinato ad operare non solo in riferimento alle norme consuetudinarie, ma anche
riguardo a quelle previste in accordi internazionali: anche le norme di derivazione pattizia possono così assumente
rilevanza costituzionale laddove l’adattamento venga operato tramite una legge costituzionale; tale soluzione è però
infrequente poiché si usa trasporre i trattati mediante rinvio formulato con leggi ordinarie o regolamenti.
Il principio qui presentato trovava costante affermazione dalla giurisprudenza costituzionale già prima della riforma del
2001 e non risulta totalmente abbandonato nemmeno dopo; tuttavia, alle disposizioni previste in trattati internazionali
vincolanti per l’Italia -in quanto dirette a rendere concretamente operativo il parametro riconosciuto dall’art. 117.1cost-
viene riconosciuta la funzione di norme interposte nel giudizio di costituzionalità.
In applicazione del principio della coincidenza del rango, la giurisprudenza costituzionale ha rilevato l’effetto modificativo
sul contenuto di leggi ordinarie in vigore nel nostro ordinamento dovuto all’operatività in tale ambito ex art. 10.1cost di
disposizioni di adattamento a norme di diritto consuetudinario, successivamente consolidatesi in ambito internazionale.
La corte ha altresì affermato l’illegittimità costituzionale della normativa prevista da una legge ordinaria in contrasto con il
contenuto di una disposizione di diritto internazionale generale, oggetto di rinvio ex art. 10.1cost.
La copertura costituzionale dell’adattamento al diritto comunitario e della UE di rango primario: art. 11 e 117.1cost
Riguardo l’adattamento al diritto della UE, occorre ricordare che la corte costituzionale, per tutta una prima fase, aveva
cercato di affrontare il tema senza discostarsi troppo dalle soluzioni elaborate con riguardo al diritto internazionale di
origine pattizia: è vero che in tali pronunce non si mancava di sottolineare la piena rispondenza dei trattati alle specifiche
finalità indicate dall’art. 11cost, è però altrettanto vero che la corte si richiamava al principio della correlazione del rango.
La corte costituzionale ha però successivamente mutato il suo orientamento e si è così affermata la soluzione fondata
sull’idoneità delle fonti comunitarie ad incidere sulle norme costituzionali interne, con il solo controlimite dei principi
supremi dell’ordinamento. Una tappa importante del processo evolutivo è segnata dalla riforma del titolo V della
costituzione, il nuovo art. 117.1cost si limita peraltro a disciplinare le conseguenze per l’esercizio delle funzioni
legislative, delle limitazioni di sovranità già autorizzate dall’art. 11cost, che offre ancora oggi sicuro fondamento alla
preminenza delle norme della UE provviste di diretta applicabilità e/o effetto diretto e trova conferma in quanto previsto
dall’art. 117.1cost.
Rapporti tra norme di diritto consuetudinario e norme interne incompatibili
La giurisprudenza si è dovuta frequentemente misurare con il problema dei rapporti tra le norme risultanti dall’adattamento
al diritto internazionale e le norme interne, autonomamente adottate dal legislatore, in contrasto con le prime.
Nelle ipotesi in cui il problema si è posto con riferimento alle norme di adattamento al diritto consuetudinario è stato
enunciato il principio secondo cui va dichiarata l’incostituzionalità delle disposizioni interne incompatibili con quelle di
adeguamento del nostro sistema alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute; nella decisione sul caso
Russel, la corte costituzionale ha poi affermato la prevalenza a titolo di specialità delle norme risultanti dall’adattamento
al diritto consuetudinario, rispetto alle disposizioni interne di rango costituzionale (il ragionamento tuttavia non è
convincente, poiché vengono distinte consuetudini nate anteriormente e quelle nate successivamente all’entrata in
vigore della costituzione, riferendo il limite solo alle ultime).
L’antinomia tra norme interne e orme internazionali provviste delle caratteristiche indicate dall’art. 10.1cost, assume
particolari connotazioni quando l’ipotizzata violazione dell’ordinamento nazionale ad opera di norme “esterne” suscettibili
di assumere rango primario in tale ambito riguarda i principi qualificanti ed irrinunciabili dell’assetto costituzionale dello
stato: in questo caso l’accertamento di incompatibilità è accertato in capo alla corte costituzionale (declinazione della
teoria dei controlimiti).
Antinomie fra trattati internazionali e diritto interno: il ruolo del giudice comune e della corte costituzionale
Innanzitutto, la riforma del Titolo V ha colmato un’originaria lacuna strutturale della costituzione, introducendo all’art.
117.1cost una specifica copertura costituzionale dei trattati, Sul tema dell’incidenza, sull’ordinamento italiano, delle
norme previste dai trattati internazionali, è poi intervenuta la giurisprudenza costituzionale con decisioni che hanno posto
al centro dell’attenzione le ipotesi di contrasto, non sanabile in via interpretativa, tra diritto italiano e norme della CEDU.
In queste ipotesi viene assegnato un ruolo centrale della corte costituzionale: il giudice comune infatti è tenuto a
sottoporre la questione al vaglio della corte costituzionale che, se necessario, utilizzerà la CEDU come parametro
interposto nel giudizio di costituzionalità, ex art. 117.1cost.
Questa soluzione riguarda tuttavia solo le ipotesi di insanabile conflitto, non si presta quindi ad essere estesa ai casi nei
quali emerge piuttosto l’esigenza di coordinare l’ambito di operatività riservato a due ordini di disciplina di cui è normale
presupporre la coesistenza all’interno dell’ordinamento nazionale. In queste ipotesi è fisiologico che la disciplina di diritto
interno continui a rimanere in vigore e a trovare residuale applicazione con riferimento alle situazioni e ai rapporti che
fuoriescono dalla sfera di operatività del trattato, non pare pertanto precluso il ricorso alle tecniche affinate in passato per
garantire sul piano interpretativo il coordinamento tra le fonti.
L’arretramento della corte costituzionale in caso di antinomia tra diritto interno e disposizioni dei trattati comunitari (e
fonti derivate) provviste di diretta applicabilità e/o effetto diretto e le ipotesi in cui il suo ruolo è ancora attuale
Con riguardo al ruolo riservato, rispettivamente, al giudice comune e alla corte costituzionale nel caso di antinomie tra
diritto interno e norme di adattamento ai trattati istitutivi e modificativi di Comunità ed Unione europea, nonché fonti da
essi derivati, si è pervenuti a soluzioni diverse da quelle per le norme internazionali di origine pattizia.
Poiché l’adattamento dei trattati comunitari è avvenuto per legge ordinaria, per lungo tempo, è stato riconosciuto al
giudice comune il potere di disapplicare norme interne in contrasto con disposizioni di tali trattati, soltanto se antecedenti
alle norme di adeguamenti di questi ultimi; un più incisivo potere del giudice comune di disapplicazione delle norme
interne incompatibili è stato riconosciuto solo successivamente ed in modo graduale: solo con la sentenza Granital le

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norme interne non conformi alle norme dell’Unione (antecedenti e successive) dotate di diretta applicabilità e/o effetto
diretto vengono considerate non applicabili sulla base di una valutazione affidata direttamente al giudice comune, salvo il
limite del rispetto dei principi costituzionali e della tutela dei diritti inalienabile della persona, il cui accertamento è di
competenza della corte costituzionale.
Il rimedio, ancorato all’art. 11cost, da attivare nelle ipotesi in cui il giudice comune ravvisi un’incompatibilità tra le norme
interne e norme dell’Unione prive di effetti diretti è invece costituito dalla prospettazione, davanti alla corte costituzionale,
di una questione incidentale, volta a far dichiarare l’illegittimità delle norme interne confliggenti. Nell’ambito di tale
controllo, il diritto della UE opera alla stregua di parametro interposto nel giudizio di costituzionalità; questo accade
anche nell’ambito del giudizio in via principale, quando si palesa un contrasto tra tali norme e il diritto interno, anche nel
caso in cui le norme dell’Unione siano provviste di efficacia diretta. In quest’ultimo caso la non applicazione della norma
interna in contrasto non sarebbe una garanzia adeguata al soddisfacimento del dovere di dare pieno e corretto
adempimento degli obblighi comunitari quindi, riscontrata l’antinomia, la corte non procede alla disapplicazione della
legge ma ne dichiara l’illegittimità con effetti erga omnes.
Nei casi in cui il diritto della UE rileva come parametro interposto, si pone il problema di accertarne significato e portata,
interrogando ove necessario la corte di giustizia. Tuttavia fino al 2008 la corte costituzionale aveva escluso la propria
legittimazione ad usare lo strumento del rinvio pregiudiziale, questo orientamento è stato però abbandonato,
riconoscendo in primo luogo che la corte costituzionale, pur nella sua peculiare posizione di organo di garanzia
costituzionale, deve considerarsi ricompresa nella nozione di giurisdizione nazionale, che si desume dall’ordinamento
comunitario e non dalla qualificazione interna dell’organo rimettente.
La “specialità” delle norme risultanti dall’adattamento ai trattati internazionali
Prima della riforma introdotta dalla legge 3/2001, il coordinamento tra disciplina desumibile da un trattato internazionale
vincolante per l’Italia e quella di origine puramente nazionale veniva assicurato sul piano interpretativo ricorrendo al
criterio di specialità: il raccordo, sul piano applicativo, risultava così garantito sul piano meramente interpretativo,
richiamandosi ad una specialità ratione materiae o personarum, ovvero una specialità sui generis che caratterizzerebbe
le norme prodottesi nell’ordinamento interno a seguito del rinvio formulato dall’ordine di esecuzione.
In qualche caso, il carattere speciale delle norme risultanti dall’adattamento del diritto interno alle convenzioni è stato
invece affermato valorizzando le caratteristiche formali e funzionali della stessa disciplina concordata in ambito
internazionale: tali norme sarebbero così speciali perché dotate di apposite regole di applicazione che definiscono la
sfera di operatività della stessa disciplina internazionale.
L’interesse dello stato al rispetto degli obblighi internazionali
Tra gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza per garantire un’applicazione delle norme risultanti dall’adattamento alle
convenzioni internazionali conformemente agli impegni assunto dall’Italia nei confronti degli altri stati contraenti, vi è
quello dell’interesse generale dello stato ad un puntuale adempimento degli obblighi internazionali. Valorizzando tale
argomento si esclude che la volontà di violare il trattato possa desumersi implicitamente dalla successiva adozione, da
parte del legislatore nazionale, di norme interne pariordinate a quelle di adattamento del trattato e con esse incompatibili.
Nella medesima prospettiva è stato utilizzato anche l’argomento dell’interesse costituzionale dello stato all’osservanza di
determinate norme pattizie in ragione del loro particolare contenuto.
Incompatibilità tra norme previste da trattati e norme interne e giudizio di costituzionalità: l’integrazione del parametro di
cui all’art. 117.1cost
In caso di conflitto insanabile per via interpretativa tra norme previste da un trattato e norme di diritto interno il giudice
comune è tenuto ad investire della questione la corte costituzionale, in quest’ambito le disposizioni di origine internazionale
acquisiscono il valore di norme interposte, norme di cui la costituzione prescrive il rispetto da parte del legislatore: il
parametro dell’art. 117.1cost è destinato a divenire operativo solo mediante richiamo alle disposizione che definiscono di
volta in volta la portata attuale degli obblighi derivanti da accordi internazionali in vigore nel nostro ordinamento.
Occorre tuttavia domandarsi se la funzione di integrazione del parametro sia scolta dalle norme pattizie in quanto tali o
dalle norme con le quali si è provveduto all’adattamento del diritto interno alla convenzione volta a volta rilevante: le più
recenti pronunce della corte costituzionale non offrono un contributo decisivo. Questo quesito presenta peraltro
un’indubbia complessità poiché tende in definitiva ad accertare se, nella prospettiva della corte costituzionale, siano
idonei ad integrare il parametro dell’art. 117.1cost tutti i trattati in vigore per l’Italia o solo quelli che, oltre a vincolare il
nostro paese sul piano delle relazioni internazionali, siano stati oggetto di una legge di autorizzazione alla ratifica e di un
provvedimento interno di adeguamento alla disciplina in essi prevista (sembra vi sia favore verso l’opzione che assegna
rilievo alle norme di esecuzione della convenzione).
Le fasi del giudizio dinanzi alla corte costituzionale
In base a quanto desumibile dalle sentenze 348 e 349/2007, sembra possibile individuare tre fasi nell’ambito del giudizio
costituzionale in cui entri in gioco una norma di origine pattizia, in quanto norma interposta ex art. 117.1cost:
- Prima fase: la corte costituzionale deve verificare che non vi sia spazio per superare il contrasto delle norme sul
piano interpretativo; la ricerca di una soluzione interpretativa spetta innanzitutto al giudice comune che deve
promuovere il giudizio incidentale solo allorché non abbia trovato alcuna soluzione. Terminata l’indagine,
pervenendo alla conclusione raggiunta dal giudice comune, spetta alla corte verificare la compatibilità con la
costituzione delle norme di derivazione pattizia. La circostanza che la funzione di integrazione del parametro sia
svolta dalle norme CEDU impone di tener conto delle peculiarità di questa disciplina ovvero del fatto che anche la
giurisprudenza della corte di Strasburgo concorre ad integrare e rendere operativo il parametro costituzionale.

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- Seconda fase: il ruolo della corte costituzionale è duplice, infatti non solo deve accertare la compatibilità delle
norme con tutto il testo costituzionale, ma deve operare anche un ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante
dalla giurisprudenza internazionale e l’eventuale esigenza di tutela di altri interessi costituzionalmente protetti.
× Sotto il primo profilo, il riconoscimento in capo alle norme CEDU (così come interpretate dalla corte di
Strasburgo) di una forza di resistenza passiva superiore a quella inerente alle disposizioni interne di rango
primario in vigore nel medesimo ordinamento, non implica anche garantire alle prime una sorta di esenzione
rispetto al controllo di costituzionalità, che deve essere invece esercitato in modo pieno.
In mancanza di indicazioni contrarie, il vaglio di legittimità delle norme di derivazione pattizia deve essere
operato sia sulla base delle norme costituzionali a carattere sostanziale che con riguardo a quelle di natura
formale. Nell’ambito del giudizio di compatibilità, la corte è altresì tenuta ad accertare ce le norme previste dalla
CEDU, così come interpretate dalla corte di Strasburgo, apprestino alle posizioni giuridiche individuali una tutela
almeno equivalente a quella garantita dalla costituzione.
× Sotto il secondo profilo, viene invece escluso il carattere incondizionatamente vincolante delle pronunce rese
dalla corte europea. Questo principio non vale quando la questione interpretativa si pone, davanti al giudice
comune, nella medesima causa sulla quale si è già pronunciata la corte EDU; negli altri casi invece è solo un
diritto consolidato, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento
del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non
siano espressive di un orientamento divenuto definitivo. Ciò non significa che la corte costituzionale possa
sindacare l’interpretazione delle norme CEDU operata dai giudici di Strasburgo, ma che possa accertare la
prevalenza rispetto al valore internazionalistico sancito dall’art. 117.1cost di altri valori costituzionalmente
garantiti.
Allorché la verifica di compatibilità con l’ordinamento costituzionale italiano abbia dato esito negativo, spetta al
giudice costituzionale dichiarare l’inidoneità della norma di derivazione pattizia ad integrare il parametro e quindi ad
espungerla dall’ordinamento.
- Terza fase: ha luogo una volta accertata la conformità rispetto alla costituzione della norma interposta ed è
incentrata sulla verifica di compatibilità, rispetto a quest’ultima, della norma interna censurata di cui, nel caso, andrà
dichiarata l’illegittimità.
Il sindacato di costituzionalità sulle norme risultanti dall’adattamento al diritto internazionale ed i parametri di giudizio
impiegati dalla corte costituzionale
Nel caso sia ipotizzato il contrasto tra norme risultanti dall’adattamento al diritto internazionale e norme/principi
costituzionali, in sindacato di legittimità avrà ad oggetto la norma interna per il tramite della quale è stata recepita
nell’ordinamento statale la norma di origine internazionale. In proposito va segnalata la decisione della corte
costituzionale per cui il sindacato di costituzionalità accentrato (riservato alla corte costituzionale) avente ad oggetto
l’atto che formula l’ordine di esecuzione può concludersi affermandone l’illegittimità limitatamente alla parte in cui tale
atto consente l’ingresso, nell’ordinamento interno, di specifiche disposizioni contrarie a norme/principi costituzionali,
senza che si renda necessario espungere dall’ordinamento l’intero trattato internazionale.
L’adattamento permanente disposto dall’art. 10cost trova un preciso limite nei principi essenziali e irrinunciabili
dell’ordinamento costituzionale italiano: la norma do diritto internazionale generalmente riconosciuta in contrasto con tali
principi non viene immessa nel sistema interno, restandone esclusa ab origine (la corte costituzionale adotta dunque una
decisione interpretativa di rigetto).
La verifica in ordine alla compatibilità di norme di origine interna con norme di esecuzione di convenzioni internazionali
Problemi delicati si sono posti anche quando in gioco ci sia la valutazione della legittimità costituzionale delle norme
adottate dal legislatore nazionale che si pongono in contrasto con le norme risultanti dall’adattamento a convenzioni
internazionali. Sulla questione, le sentenze 348 e 349/2007 hanno escluso che il giudice comune possa procedere alla
disapplicazione di disposizioni interne, trattandosi di una questione di cui occorre investire la corte costituzionale.
Eccezion fatta per la disapplicazione delle norme incompatibili con il diritto della UE prevede il principio di soggezione
del giudice alla legge e non conosce casi ulteriori di disapplicazione di leggi (al di fuori dei principi che regolano la
successione delle leggi nel tempo) neppure nelle ipotesi di contrasto con fonti sovraordinate.
Ancora sul vincolo, per il legislatore italiano, al rispetto degli obblighi internazionali a norma dell’art. 117.1cost
Secondo l’orientamento preferibile, l’art. 117.1cost non modifica il sistema di adeguamento dell’ordinamento interno al
diritto internazionale e non va inteso come norma di adattamento in riferimento ai trattati; ciò non deve tuttavia indurre a
trascurare la portata innovativa della disposizione: a seguito della riforma infatti le norme risultanti dall’adattamento di
trattati acquisiscono il valore di norme interposte. In caso di violazione di tali norme da parte di disposizioni interne
incompatibili (anteriori o successive rispetto alla legge di esecuzione del trattato) la corte costituzionale è pertanto
chiamata a dichiarare l’illegittimità delle seconde per violazione dell’art. 117.1cost.
L’art. 117cost sembrerebbe prescrivere al legislatore il rispetto di tutti gli obblighi perfezionati in base al diritto
internazionale, indipendentemente dalla loro esecuzione nell’ordinamento internazionale, si tratta peraltro di
un’interpretazione non priva di conseguenze problematiche. Resta tuttavia chiaro che la riforma costituzionale del 2001
ha accentuato notevolmente l’apertura internazionalistica che caratterizza il nostro sistema ed in tale prospettiva si
giustifica l’interpretazione dell’art. 117.1cos volta a porre a carico del legislatore italiano un vincolo non solo negativo,
ovvero il divieto di adottare disposizioni in contrasto con gli obblighi internazionali, ma anche positivo, nel senso di
garantire l’adempimento dei medesimi obblighi sul piano interno.

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CAPITOLO V
SOVRANITÀ TERRITORIALE, “JURISDICTION” E REGOLE DI IMMUNITÀ
di Riccardo Luzzato e Ilaria Queirolo

La garanzia dell’esclusività del potere di governo dello stato ad opera del diritto internazionale
Indipendenza e sovranità rappresentano presupposti necessari perché ad uno stato possa venir attribuita piena
soggettività internazionale. Si è anche visto che è generalmente ammessa la presenza di alcuni principi fondamentali
che affermano valori quali eguaglianza sovrana degli stati e il non intervento negli affari esterni o interni di un altro stato.
Si deve ora sottolineare che il diritto internazionale generale tutela con apposite norme le funzioni di governo degli stati,
attribuendo a ciascuno il potere esclusivo di svolgere le proprie funzioni sovrane nell’ambito del proprio territorio e nei
confronti della propria comunità: allo stato viene infatti conferito dal diritto internazionale generale il potere di esercitare
le proprie funzioni e la propria attività di gestione di interessi collettivi in modo esclusivo. Tale carattere di esclusività
investe tutte le attività sovrane attinenti all’esercizio delle funzioni di governo di una data comunità.
La situazione giuridica soggettiva attribuita agli stati ha carattere di fondamentale importanza, in quanto rappresenta il
principio ordinatore di fondo della comunità internazionale degli stati.
Per designare nel suo insieme il contenuto della situazione giuridica soggettiva attribuita agli stati, si utilizza il termine di
“sovranità territoriale” che comprende il diritto che ciascuno stato ha di svolgere le proprie funzioni e i propri poteri nell’ambito
del proprio territorio, escludendone qualsiasi altro soggetto internazionale. Questo termine esprime in modo unitario tutto
l’insieme di prerogative garantire agli stati dal diritto internazionale, senza alcuna distinzione nell’ambito di queste.
Diversa la terminologia usata nei paesi anglosassoni, dove si tende a distinguere tra “territorial soveregnty” riferita solo al
diritto sul territorio, e una situazione giuridica denominata come “jurisdiction” riguardante il diritto internazionalmente
riconosciuto a ciascuno stato allo svolgimento in via esclusiva delle proprie funzioni sovrane nei confronti dei soggetti
presenti nel territorio.
La portata specifica della protezione internazionale del potere di governo dello stato e dei correlativi obblighi
I contorni della norma internazionalmente descritta nel precedente paragrafo sono chiari per quanto riguarda l’obbligo
imposto agli stati di astenersi dal compimento di qualsiasi attività comportante svolgimento di pubbliche funzioni in
territorio altrui senza il consenso dello stato territoriale; d’altra parte il consenso dello stato territoriale rappresenta una
causa di esclusione dell’illiceità.
Del tutto diversa è la situazione, quando uno stato svolga le proprie funzioni pubbliche nel proprio territorio, ma queste
comportino il riferimento a fatti e situazioni che si siano verificati nel territorio di uno altro stato: non si può dire che sia
venuto a svilupparsi sul piano del diritto internazionale generale un insieme di regole tali da permettere di fondare
l’esercizio della giurisdizione degli stati rispetto a fatti focalizzati all’estero soltanto sull’esistenza di una serie di criteri:
solo sul piano del diritto internazionale convenzionale si può riscontrare un movimento coerente verso l’elaborazione di
una disciplina internazionalmente uniforme della giurisdizione. Sotto un profilo più generale è opportuno sottolineare che
il mancato sviluppo di un insieme coerente di principi in materia di coordinamento delle giurisdizioni sul piano
consuetudinario è collegato alla diffusa ostilità che gli stati dimostrano nei confronti dell’idea che il loro potere
giurisdizionale trovi il proprio fondamento non nell’ordinamento degli stessi stati ma in quello internazionale, venendo
così a dipendere da criteri enunciati da questo.
Si può ritenere, nonostante tutto, che esista una netta tendenza a considerare come oggetto di tutela ad opera della
norma internazionale generale sulla sovranità territoriale tutta quell’attività statale che si manifesta nell’attuazione
dell’ordinamento giuridico del quale lo stato è gestore, nella multiforme attività di regolazione della vita sociale della
comunità nel territorio e di gestione degli interessi collettivi che vi fanno capo. Ne consegue che, in ipotesi di interferenza
qualificata, anche attività normative, amministrative e giurisdizionali compiute da un altro stato nel suo territorio, possono
concretare violazione del diritto sovrano dello stato, se poste in essere con modalità e risultati capaci di portare un
concreto pregiudizio alla possibilità di questo di attuare il proprio ordinamento in una specifica situazione garantendone i
valori essenziali. Conseguenze del genere possono prodursi in due diverse situazioni:
a. Attraverso l’estensione e l’applicazione da parte di uno stato di proprie normative intese a comportamenti avvenuti
nel territorio di altri stati, quando il criterio su cui esse si fondano è la nazionalità del soggetto e l’esercizio del
potere da parte del primo stato porta ad imporre comportamenti in violazione degli ordinamenti degli altri stati e
degli interessi essenziali da essi rappresentati e tutelati.
b. Quando l’attività di regolamentazione della vita sociale della comunità statale abbia già avuto attuazione e concreta
traduzione nell’emanazione di appositi atti pubblici, lo stato che li ha emanati ha diritto che tali atti siano opposti a
tutti gli altri stati, venendo in questo senso riconosciuti in quanto emanati nell’esercizio delle prerogative garantite
dal diritto internazionale generale: è illecito il comportamento degli stati che pretendano di sottoporre a sindacato il
contenuto degli atti stessi, in particolare sottoponendo a giudizio lo stato che ne è autore davanti alle proprie
autorità. Operano in questo senso le regole internazionali che garantiscono agli stati l’immunità giurisdizionale in
relazione ai loro atti iure imperii.
L’immunità dalla giurisdizione degli stati e dei loro organi: classificazione
Tradizionalmente si sono identificate tre diverse tipologie di immunità statale:
- Immunità statale in senso stretto: spetta a tutti gli stati, i quali non possono essere sottoposti a giudizio davanti a
tribunali di un paese straniero in relazione agli atti compiuti nell’esercizio della potestà d’imperio (immunità dalla
giurisdizione cognitiva) e ai beni destinati all’assolvimento di detta funzione (immunità dalla giurisdizione esecutiva);
- Immunità funzionale o ratione materiae: spetta a tutti gli individui-organi dello stato, che non possono essere
sottoposti alla giurisdizione dei tribunali stranieri in relazione all’attività svolta in esecuzione delle funzioni loro
affidate.

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- Immunità personale o ratione personae: spetta a determinati individui-organi dello stato, che non possono essere
sottoposti alla giurisdizione dei tribunali stranieri neppure in relazione all’attività svolta al di fuori di ogni incarico.
Immunità statale in senso stretto: immunità dalla giurisdizione di cognizione
L’immunità degli stati dalla giurisdizione di cognizione ha rappresentato una regola consuetudinaria unanimemente
riconosciuta, identificabile nel tradizionale principio par in parem non habet iudicium, secondo il quale gli enti sovrani non
possono essere convenuti in giudizio davanti ai tribunali di un paese straniero salvo il loro consenso.
Il principio si è giustificato avendo riguardo alla struttura della comunità internazionale, composta da soggetti
indipendenti e sovrani che si confrontano con soggetti di pari grado.
Può affermarsi che tale immunità si presenti come illimitata dal punto di vista soggettivo e limitata dal punto di vista
oggettivo. Per il primo profilo può rilevarsi che l’immunità giurisdizionale spetta a tutti gli stati muniti di sovranità esterna
da qualsiasi altro ente e sovranità interna su territorio e popolazione. Laddove i requisiti in oggetto siano rispettati, e
quindi ci si trovi davanti ad un vero e proprio stato, l’immunità compete non solo all’apparato centrale (istituzioni
esercitanti il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo), ma anche a tutte le strutture e gli enti cui è attribuito
l’espletamento di funzioni sovrane.
Dall’immunità assoluta, all’immunità ristretta, all’assenza di una regola sull’immunità?
Per quanto concerne i limiti che la regola dell’immunità statale incontra dal punto di vista oggettivo, occorre precisare
che essi sono venuti delineandosi nei primi decenni del secolo passato, infatti originariamente il principio che vede gli
stati immuni dalla giurisdizione non conosceva alcuna deroga, concretandosi in una sorta di intoccabilità (non si può
tuttavia negare che ancora oggi alcuni stati continuino a fare riferimento ad una sotta di immunità assoluta).
A parte qualche eccezione, nessun dubbio che sia la teoria dell’immunità ristretta a trovare maggiore consenso in seno
alla comunità internazionale: quando lo stato intensifica la propria presenza nell’economia, servendosi dei comuni
strumenti a disposizione degli operatori privati, comincia ad imporsi una differente prospettiva nell’applicazione e nella
definizione della regola sull’immunità in tutti i casi in cui gli stati operino alla stregua di un qualunque soggetto privato (iure
privatorum), l’immunità viene ristretta ai casi in cui lo stato agisca nell’ambito dei propri poteri di imperio (jure imperii).
L’applicazione della regola sull’immunità ristretta ha creato non pochi problemi alla giurisprudenza interna dei paesi di
civil law, chiamata a delineare una distinzione tra attività iure privatorum e attività iure imperii. Per evitare le difficoltà
interpretative alcuni stati hanno provveduto ad accogliere la regola dell’immunità ristretta in disposizioni normative
interne, capaci di precisare in apposite regole l’ampiezza delle immunità statali e l’individuazione delle relative eccezioni.
Nell’ambito di alcuni paesi di common law si è sottratto alle autorità giudiziarie il compito di individuare le categorie di atti
in relazione ai quali lo stato straniero gode di immunità, provvedendo alla loro individuazione in via legislativa.
A fronte della tecnica interpretativa fondata sulla distinzione tra attività iure privatorum e attività iure imperii si è adottato
il metodo della lista: si è preferito giungere ad un’elencazione specifica delle controversie relative le attività privatistiche
in relazione delle quali uno stato straniero non gode di immunità.
Non si può non sottolineare che la predisposizione di normative interne relative all’immunità porta in sé il germe
dell’affermazione di soluzioni divergenti: è infatti inevitabile che tanto più analiticamente gli stati procedano a delineare
una disciplina dettagliata del fenomeno quanto più le differenze tendano ad accentuarsi; e quanto più significative
appaiono le differenze nell’applicazione della regola sull’immunità statale tanto più incerta diventa la definizione della
regola stessa dal punto di vista del diritto internazionale consuetudinario, il quale presuppone prassi conformi sorrette da
opinio iuris, fino ad arrivare a negare l’esistenza di una norma generale in materia di immunità statale.
In dottrina si è arrivati a precisare che, a fronte della difficoltà di rintracciare una prassi che attesti l’esistenza di una
norma consuetudinaria in materia di immunità ristretta, la regola generale individuabile sia ormai una soltanto: quella che
obbliga tutti gli stati a non interferire, attraverso l’esercizio della propria giurisdizione, nel diritto esclusivo di ogni stato di
esercitare in via esclusiva la propria potestà di governo. Già tale norma vieta agli stati di esercitare la propria
giurisdizione per sottoporre a sindacato atti pubblicistici e sovrani stranieri impedendone gli effetti che sono loro propri
nei rispettivi sistemi di appartenenza, senza bisogno di invocare al riguardo una differente regola di immunità.
La commissione di crimina iuris gentium
La regola dell’immunità nella versione ristretta (o in altre parole il divieto di intrusione negli affari interni) non ha
conosciuto eccezioni, nemmeno in casi in cui venissero violati i diritti fondamentali dei singoli o l’attività dello stato si sia
sostanziata in atti idonei a minacciare l’incolumità e la salute dei cittadini dello stato del foro.
Tale orientamento è stato condiviso non solo a livello di supreme corti nazionali, ma anche a livello di tribunali
internazionali come la corte EDU, la quale ha precisato come il principio dell’immunità statale per attività iure imperii non
sia derogabile neppure in caso di violazione di norme primarie del diritto internazionale.
Dal 2004 la giurisprudenza italiana si è segnalata per l’introduzione di una nuova limitazione all’immunità statale: in un
primo momento la cassazione ha individuato una precisa eccezione all’immunità degli stati estero per attività iure imperii
connesse a crimini internazionali (caso Ferrini), da allora ha seguito un orientamento costante nel negare immunità allo
stato straniero in ipotesi di commissione di crimina iuris gentium.
La suprema corte ha successivamente confermato che lo scenario del diritto internazionale è profondamente mutato
dopo la seconda guerra mondiale per tre fattori:
× Il ruolo rivestito dall’ONU, che ha reso possibile una cooperazione degli stati nella lotta contro i crimini internazionale
attraverso l’istituzione di tribunali sovrannazionali ad hoc e poi di una corte penale internazionale permanente;
× L’approvazione della CEDU, collegata all’istituzione della corte EDU che esercita la sua giurisdizione su ricorso dei
cittadini degli stati contraenti vittime delle violazioni dei diritti e delle libertà sanciti dalla convenzione;
× La creazione della UE, che ha reso possibile l’adozione di una carta dei diritti fondamentali e la creazione di uno
spazio di giustizia nel quale si delinea una integrazione stretta e un regime di riconoscimento reciproco fra gli
ordinamenti giurisdizionali degli stati.

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Secondo il ragionamento della suprema corte questi elementi testimoniano nuove conquiste civili dell’umanità e
configurano un nuovo ordine pubblico internazionale ed europeo, di conseguenza oggi deve escludersi che l’esecuzione
in Italia di una sentenza di uno stato estero con la quale si impone ad un terzo stato estero di risarcire le vittime di
gravissimi crimini di guerra, possa porsi in contrasto con il rispetto dell’ordine pubblico.
Tale conclusione non appare però così pacifica: nella controversia Italia vs Germania, la CIG non ha ritenuto che
potesse desumersi un’evoluzione del diritto internazionale relativo alle immunità nel senso prospettato dallo stato
italiano: l’immunità dalla giurisdizione civile degli stati esteri non viene meno a fronte di violazione particolarmente gravi e
qualificate di diritti fondamentali o del diritto umanitario; non sussiste un’ipotesi di contrasto tra norme di ius cogens ed
immunità, posto che questa si caratterizza per esser norma processuale che limita la competenza degli stati e non
investe il merito della controversia per assicurar impunità allo stato straniero; che la questione processuale concernente
la competenza è preliminare rispetto alla valutazione della gravità della condotta in grado di giustificare una deroga alla
regola dell’immunità e che secondo il diritto internazionale non esistono prove di evoluzione del diritto consuetudinario
che subordinano l’operatività della regola in parola all’esistenza di rimedi di tutela alternativi ed efficaci.
La sentenza della CIG ha indotto il legislatore italiano a modificare la disciplina interna per porre fine alla violazione del
diritto internazionale. A seguito dell’adozione della disciplina è intervenuta la corte costituzionale. Dopo aver confermato
la possibilità di valutare la legittimità costituzionale di norme consuetudinarie del diritto internazionale formatesi prima
dell’entrata in vigore della costituzione, la corte costituzionale affronta nel merito la questione di legittimità costituzionale
limitando la propria analisi al conflitto tra norma internazionale da immettere ed applicare nell’ordinamento interno con i
suoi principi irrinunciabili: in primo luogo, non esclude in ogni circostanza la compatibilità delle regole internazionali
sull’immunità degli stati stranieri con i principi fondanti l’ordinamento costituzionale. Pur ammettendo dunque in linea di
principio la possibilità di ritenere costituzionalmente legittima l’applicazione nell’ordinamento interno delle regole
internazionali in materia di immunità statale, la corte costituzionale si concentra sulle specificità del caso concreto.
In questo senso l’ordinamento nazionale non si adatta alla consuetudine internazionale ricostruita dalla CIG: il rispetto
dei valori costituzionali essenziali condiziona l’operatività dell’art. 10cost.
La corte costituzionale si sofferma sull’obbligo per la repubblica italiana a conformarsi alle decisioni della corte
internazionale di giustizia: essendo la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali uno dei principi supremi
dell’ordinamento costituzionale, non può trovare applicazione la sentenza CIG nella parte che vincola lo stato italiano a
negare la propria giurisdizione in ordine alle azioni di risarcimento danni per crimini contro l’umanità.
Il principio fatto proprio dalla corte è stato ripreso dalla corte di cassazione penale che ha affermato che l’immunità dalla
giurisdizione italiana protegge la funzione di governo ma, non anche i comportamenti che non attengono al corretto
esercizio di tale potestà. Di conseguenza l’immunità non può assicurare copertura ad atti che concretizzano crimini
internazionali, i quali non possono mai giustificare il sacrificio dei diritti inviolabili.
Le convenzioni internazionali: la convenzione di New York del 2004
Per superare le divergenti soluzioni elaborate nell’ambito dei paesi dei membri della comunità internazionale, si sono
predisposti appositi strumenti internazionali dedicati al tema dell’immunità statale. La testimonianza più significativa è la
Convenzione sull’immunità degli stati e dei loro beni adottata il 2 dicembre del 2004 dall’assemblea generale ONU al fine
di codificare il diritto consuetudinario in materia (tuttavia la convenzione non è tuttavia in vigore, non essendosi ancora
raggiunte le 30 ratifiche necessarie).
La convenzione di New York all’art. 5 stabilisce che ogni stato gode dell’immunità dalla giurisdizione dei tribunali di ogni
altro stato contraente, ad eccezione di una serie di casi, modellata sulla Convenzione di Basilea nel 1972 sull’immunità
degli stati in vigore in diversi stati, tra cui non figura l’adesione dell’Italia. Questa si apre con un elenco di articoli in cui si
esplicitano le situazioni in cui uno stato non può invocare l’immunità, l’esistenza della giurisdizione nei confronti degli
stati stranieri rappresenta quindi il criterio generale. Se è vero che l’Italia non ha ratificato il trattato è anche vero che la
giurisprudenza ne ha riconosciuto l’importanza.
Sulla stessa linea si pone anche la convenzione di New York, se si analizza la Parte III contenente l’elenco dei casi in
cui l’immunità non può essere invocata: si tratta di un elenco così ampio e significativo da impedire di poter realmente
considerare il principio immunitario come principio generale, a differenza di quanto sancito dallo stesso art. 5.
Si ripropone dunque il dubbio di verificare se l’ampiezza delle deroghe al principio non ne giustifichi la messa in discussione.
Immunità statale e rapporti di lavoro subordinato
L’applicazione del criterio che fa leva sulla distinzione tra attività iure imperii e attività iure privatorum si rivela
particolarmente complessa in materia di rapporti di lavoro subordinato: non solo per la difficoltà di distinguere tra rapporti
pubblicistici e privatistici, ma per l’insoddisfazione cui porta comunque l’applicazione di tale criterio.
Affermare la ricorrenza dell’immunità tutte le volte in cui il lavoratore dipendente di uno stato straniero sia impiegato
nell’ambito di un’attività pubblicistica, senza ulteriori specificazioni, significa riconoscere quasi sempre l’immunità: questo
perché, sulla base di un’interpretazione estensiva, è inevitabile individuare una partecipazione diretta o indiretta di
qualunque lavoratore alla corretta esplicazione di una funzione pubblicistica.
Si è dunque proposto di abbandonare del tutto il criterio che fa leva sulla partecipazione alle funzioni pubbliche, facendo
riferimento solo al luogo di svolgimento del rapporto e alla cittadinanza del lavoratore. Nell’ambito della Convenzione
europea di Basilea del 1972 non vi è alcun riferimento alla tipologia del lavoro svolto, non rilevando il diritto o indiretto
inserimento del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione dello stato straniero con incarichi di rango elevato ed effettivo
potere decisionale; sulla scorta di tali disposizioni si è mossa la legislazione interna di una serie di stati.
Occorre riconoscere che l’ordinamento italiano non è rimasto indifferente al nuovo ordinamento, pur rivelandosi ancora
condizionato da un’impostazione tradizionale: la cassazione precisa che lo stato straniero può essere citato in giudizio
davanti a tribunali nazionali, dal cittadino italiano che svolge il lavoro in Italia solo allorché la relativa attività risulti
meramente ausiliaria rispetto allo svolgimento delle funzioni sovrane.

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Occorre sottolineare che, anche laddove si riconosca che l’immunità dalla giurisdizione non sussiste, ricorre un limite al
potere del giudice interno di conoscere delle relative controversie, ossia il limite delle prestazioni patrimoniali: i tribunali
aditi in relazione ad una causa di lavoro che vede opposto un cittadino del foto ad uno stato straniero, potranno
condannare questo al pagamento delle mensilità e delle indennità non corrisposte, ma non sono legittimati ad andare
oltre, ingerendosi nella definizione dell’organizzazione di uno stato.
Risulta chiaro come i diritti fondamentali, garantiti da convenzioni internazionali e dal diritto UE, giochino un rilievo
sempre maggiore nel bilanciamento delle regole in materia di immunità nei rapporti di lavoro e accesso alle corti.
L’immunità dalla giurisdizione esecutiva
Oltre a non poter essere citati in giudizio di fronte a tribunali di un paese straniero nella fase di cognizione, gli stati non
possono essere sottoposti a procedimenti esecutivi e cautelari all’estero.
Come l’immunità dalla giurisdizione di cognizione è garantita in una versione limitata, allo stesso modo l’immunità
dall’esecuzione forzata è accolta in una versione ristretta, dal momento che essa riguarda esclusivamente i beni
destinati all’espletamento di una funzione pubblica, mentre non interessa i beni detenuti da uno stato a titolo privato.
Occorre chiarire che questa analogia non significa coincidenza tra le norme: l’immunità degli stati dalla giurisdizione
cautelare ed esecutiva dello stato del foro non rappresenta una semplice appendice dell’immunità dalla giurisdizione di
cognizione. Per comprendere quanto affermato, basti prendere in considerazione due elementi:
1. La necessità di operare un’apposita rinuncia, da parte dello stato che intenda sottoporsi a giudizio esecutivo: anche
uno stato abbia rinunciato all’immunità dalla giurisdizione di cognizione e si sia volontariamente sottoposto al
giudizio di tribunali stranieri, in relazione ad attività iure imperii, non potrà essere sottoposto ad un procedimento di
esecuzione che abbia ad oggetto beni destinati all’espletamento di una funzione pubblica; a tal fine occorre
un’ulteriore rinuncia, distinta e autonoma dalla precedente.
2. L’evoluzione differenziata delle regole sull’immunità della giurisdizione di cognizione e le regole sull’immunità della
giurisdizione di esecuzione: all’imporsi del carattere relativo dell’immunità dalla giurisdizione di cognizione non ha
corrisposto una contemporanea evoluzione del diritto internazionale consuetudinario, che ha continuato ad
affermare il carattere assoluto dell’immunità dall’esecuzione. Solo nella seconda metà del XX secolo la regola
dell’immunità ristretta dalla giurisdizione esecutiva è venuta ad imporsi in via definitiva.
Le complessità che circondano l’esecuzione delle sentenze di condanna dello stato straniero e la necessità di ottenere
una specifica rinuncia all’immunità esecutiva, o di identificare secondo regole di diritto intero i beni non tutelati dal diritto
internazionale, devono essere date alla luce della contemporanea crisi del debito pubblico. Nell’ambito di operazioni di
ristrutturazione del debito sovrano gli stati possono collocare sul mercato secondario titoli di debito, o ottenere
finanziamenti da organizzazioni internazionali; in entrambe le ipotesi si è consolidato nella prassi l’inserimento di una
clausola di rinuncia all’immunità dalla giurisdizione esecutiva. Permane però il problema della determinazione dei beni
sui quali eventuali sentenze di condanna possono essere eseguite: qualora azioni esecutive vengano promosse su beni
destinati a missioni diplomatiche, rileva in primo luogo la natura autonoma dell’immunità diplomatica, la quale richiede
una specifica rinuncia (art. 19bis legge 162/2014, non sono soggette ad esecuzione forzata a pena di nullità rilevabile
d’ufficio le somme a disposizione dei soggetti di cui all’art. 21 della convenzione delle NU).
Appare chiaro come l’eseguibilità di sentenze di condanna dello stato straniero non sarà subordinata ad una valutazione
del giudice nazionale adito in merito alla destinazione pubblica delle somme depositate su conti correnti di missioni
diplomatiche, in quanto rimessa allo stato straniero interessato.
L’immunità funzionale
Complesso risulta individuare i contorni del diritto consuetudinario relativo all’immunità funzionale, ovvero individuare le
norme che garantiscono l’esenzione dalla giurisdizione del foro a favore degli individui-organi che operano nell’esercizio
delle mansioni loro affidate da uno stato estero. Una prima questione sorge a livello definitorio: verificare quali atti
possano dirsi compiuti nell’esercizio di un incarico ufficiale e quali appartengano alla sfera privata dell’agente (di
immunità funzionale si parla solo in relazione ai primi). Appaiono utilizzabili due criteri:
a. Interpretazione restrittiva della nozione: si ritiene compiuto nell’esercizio delle mansioni ufficiali solamente il
comportamento realizzato per finalità pubblicistiche, senza giudicare determinanti gli strumenti di cui l’agente si è servito.
In tale prospettiva non potrà godere dell’immunità funzionale l’organo che abbia agito per realizzare un interesse privato,
del tutto estraneo al proprio ufficio, anche laddove abbia impiegato strumenti pubblicistici.
b. Interpretazione estensiva della nozione: permette di riconoscere la qualifica di atto ufficiale in un maggior numero di ipotesi
L’applicazione del primo criterio, pur giustificata, consentirebbe a qualunque tribunale nazionale di perseguire e
condannare un agente straniero imputandogli di aver commesso un fatto che risulti finalizzato al perseguimento di un
interesse privato, sembra dunque potersi affermare che a fini del riconoscimento dell’immunità funzionale, deve ritenersi
compiuto nell’esercizio delle mansioni ufficiali l’atto il quale presenti un qualunque collegamento diretto o indiretto, con la
funzione cui l’organo è preposto, rilevando anche il solo impiego di strumenti pubblicistici a disposizione dell’individuo-
organo in ragione della qualifica ricoperta. Allo stesso modo si ritiene coperto dall’immunità funzionale il comportamento
dell’individuo organo che non si sia strettamente attenuto agli ordini superiori o abbia agito in eccesso di potere, purché
la sua azione sia riportabile, all’ambito delle mansioni assegnate.
Individuate le categorie di atti coperte dall’immunità funzionale, si tratta di verificare l’esistenza e i limiti di operatività
della regola. Al riguardo occorre chiarire che l’impossibilità per i tribunali interni di giudicare i soggetti che abbiano agito
dietro incarico ufficiale di uno stato straniero viene affermata in dottrina e in giurisprudenza, ma sulla base di
prospettazioni differenti. La regola viene fatta discendere:
× Dall’applicazione di un principio generale dell’ordinamento internazionale: il rispetto dell’organizzazione interna degli
stati stranieri, che impedirebbe di far valere la responsabilità di un agente straniero di fronte ai tribunali dello stato
territoriale, dal momento che l’attività da questi compiuta nell’esplicazione di un mandato ufficiale sarebbe
direttamente addebitabile al paese di appartenenza.

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× Dal divieto di intromissione nella vita costituzionale di ordinamenti stranieri: è lo stato l’unico soggetto cui spetta la
sovranità sulla propria organizzazione interna, compresa la potestà di giudicare e condannare i propri agenti.
× Dalla regola dell’immunità degli stati dalla giurisdizione: nel momento in cui si afferma l’esistenza di una regola
consuetudinaria che impedisce di giudicare le attività iure imperii poste in essere dagli stati stranieri non si può
negare che questa sia in grado di impedire l’esercizio della giurisdizione anche nei confronti del soggetto che
materialmente ha posto in essere dette attività.
× Da una regola consuetudinaria autonoma venuta a formarsi nell’ordinamento internazionale che sancisce
l’impossibilità per i tribunali interni di giudicare gli individui-organi statali laddove questi abbiano agito nel compimento
di un mandato ufficiale.
Secondo parte della dottrina, le diverse possibilità nell’identificare il fondamento della regola sull’immunità funzionale
altro non sarebbero se non la spia dell’impossibilità di ricostruire in merito una disciplina uniforme. Se si tenta di
razionalizzare le decisioni giurisprudenziali a prima vista contrastanti, nonché ricercare i principi comuni nelle posizioni
della dottrina, emerge che le decisioni vertono sull’ambito di operatività dell’immunità funzionale dal punto di vista
oggettivo, ossia dal punto di vista della tipologia e delle caratteristiche degli atti contestati agli agenti stranieri.
Consensi si riscontrano sulla circostanza per cui la regola, dal punto di vista soggettivo, non conosce eccezioni, dal
momento che qualunque individuo-organo che agisca nell’esercizio di funzioni ufficiali gode dell’immunità.
Per quanto riguarda i limiti alla regola dell’immunità funzionale dal punto di vista temporale, nessun dubbio che
l’immunità funzionale sia illimitata nel tempo: l’agente che abbia compiuto un determinato atto illecito nell’esercizio di un
incarico ufficiale non potrà essere chiamato a risponderne né durante il periodo della carica né allo scadere del mandato.
I limiti oggettivi alla regola dell’immunità funzionale
L’immunità funzionale incontra imiti in relazione:
× Al compimento di illeciti la cui punibilità è espressamente sancita in convenzioni internazionali:
× Alle attività poste in essere dagli individui-organi nell’ambito di missioni non autorizzate, non concordate tra lo stato di
appartenenza e lo stato territoriale.
Maggiormente discussa è la possibilità di ritenere superata l’immunità funzionale in un’ulteriore categoria di ipotesi, ossia
con riferimento alla commissione di crimini internazionali.
In relazione alla prima eccezione, preme rilevare che nessun dubbio può essere avanzato sulla circostanza per cui la
regola consuetudinaria sull’immunità funzionale cede il passo di fronte a norme pattizie che sanciscano la giurisdizione
dei tribunali interni su determinati illeciti. In altre occasioni il superamento delle regole sull’immunità è ricostruito alla luce
di una lettura sistematica del trattato, posto che il mantenimento della protezione dell’organo-individuo dalla giurisdizione
penale dello stato procedente risulterebbe incoerente con la disciplina pattizia.
Occorre ricordare che la derogabilità della regola dell’immunità funzionale è espressamente prevista non solo con
riferimento alla giurisdizione delle corti statali, ma anche con riferimento ai tribunali penali internazionali i cui statuti
consentono di perseguire gli autori di determinati crimini, nonostante la loro qualifica di pubblici ufficiali (art. 27 dello
statuto di CPI, tuttavia si evidenziano incertezze nella prassi).
Oltre alle ipotesi di norme internazionali espressamente derogatorie della consuetudine sull'immunità funzionale, agenti
statali che hanno agito su mandato dallo Stato di appartenenza possono essere sottoposti a giudizio da parte di tribunali
stranieri nel caso di missioni non autorizzate. In particolare, non sembra possa essere disconosciuta l’immunità agli
agenti che commettano un illecito civile o penale nell’esercizio di un mandato ufficiale se l’attività contestata sia stata
compiuta nello stato di appartenenza, o all’estero durante lo svolgimento di una missione autorizzata.
In detta prospettiva rappresenterebbe una conferma della regola generale anche la consuetudine codificata nell’ambito
della convenzione di Vienna del 1961 che garantisce l’immunità funzionale agli agenti diplomatici. Per contro, in relazione
alle attività compiute all’estero senza previa autorizzazione dello stato territoriale, si rinviene una prassi non uniforme.
Occorre riconoscere che, in linea di massima, i militari sono sottoposti esclusivamente a misure provvisorie restrittive
della libertà personale e vengono liberati laddove la lite sia stata definita a livello internazionale tra stato del foro e stato
di appartenenza: i giudici interni di regola si attengono al principio dell’assorbimento della responsabilità individuale
nell’ambito della responsabilità statale, evitando di punire l’agente tutte le volte in cui lo stato di invio si sia
espressamente assunto la responsabilità della missione. Non vi è però una giurisprudenza uniforme e questa soluzione
si riferisce ai soli casi in cui l’illecito interno contestato all’agente straniero corrisponde all’illecito internazionale
addebitabile allo stato di appartenenza, infatti nel caso in cui l’individuo-organo si renda responsabile di un illecito
distinto/ulteriore rispetto a quello addebitabile allo stato di appartenenza, i giudici sanzionano direttamente l’agente che
ha compiuto l’illecito. Le decisioni dei tribunali interni e la prassi degli stati sembrano dunque testimoniare l’assenza di
una consuetudine testa a garantire l’immunità funzionale agli individui-organi che abbiano compiuto missioni non
autorizzate in territorio straniero.
Una questione controversa si pone anche con riferimento all’immunità funzionale degli agenti stranieri che compiano
missioni autorizzate nel caso delle extraordinary renditions, ovvero il rapimento e successivo trasferimento di un
soggetto che viene condotto in uno stato terzo per essere sottoposto ad interrogatorio, a giudizio o a pena detentiva.
Strettamente collegata alla tematica in esame è la possibilità di ritenere superata la regola dell’immunità funzionale nel
caso in cui l’agente statale si renda autore crimina iuris gentium: la commissione di un crimine internazionale comporta
l’assoggettamento del suo autore alla giurisdizione delle corti interne laddove l’impossibilità di invocare l’immunità
funzionale è espressamente sancita nell’ambito di una norma internazionale, ma anche dove manca una deroga
espressa è comunque possibile disconoscere l’operatività della consuetudine relativa all’immunità funzionale nei
confronti degli autori di crimini internazionali? La norma sull’immunità dovrebbe cedere il passo rispetto alla norma di ius
cogens che tutela i diritti umani fondamentali. Larga parte della dottrina concorda nel ritenere che, a fronte del
compimento di crimina iuris gentium si sia affermata una norma consuetudinaria tesa ad attribuire giurisdizione
universale e favore dei tribunali interni di tutti gli stati appartenenti alla comunità internazionale e che tale norma sarebbe

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destinata a prevalere sulle regole d’immunità. Una posizione più prudente sembra essere suggerita dalla CIG la quale ha
affermato che né dalla giurisprudenza delle supreme corti nazionali, né dalle regole relative all’immunità o alla
responsabilità penale delle persone che hanno un incarico ufficiale, è dato dedurre che nel diritto internazionale
consuetudinario esiste una qualunque eccezione in relazione alle corti nazionali.
La dottrina dell’Act of State
Al risultato di escludere l’esercizio della giurisdizione nei confronti degli stati e degli organi esteri che agiscano
nell’esercizio di un mandato ufficiale, nei paesi di common law si giunge anche attraverso l’impiego della dottrina dell’Act
of State secondo cui il potere giudiziario non è competente a valutare la legittimità degli atti stranieri in cui si sostanzia
l’esercizio di funzioni sovrane. Quando il giudice di un paese anglosassone si trova a dover decidere una controversia per
la cui soluzione abbia rilievo la valutazione della legittimità di un atto pubblico straniero applica la teoria dell’Act of State.
L’istituto ha carattere procedurale, configurando un’eccezione ai principi sull’esercizio della giurisdizione interna.
Alla sua origine, la dottrina dell’Act of State e si fa risalire ai principi della comitas e alle regole internazionali relative al
divieto di ingerenza negli affari interni, che impediscono ai tribunali interni di valutare la legittimità di atti posti in essere
dallo stato straniero nell’ambito delle prerogative sovrane. Successivamente la dottrina dell’Act of State perde le
connotazioni originarie per venire inquadrata non più nell’ambito del diritto internazionale ma del diritto costituzionale.
In essa si vede una limitazione del potere giudiziario derivante dal principio della separazione tra i poteri interni allo
stato: l’apparato giudiziario non è competente a giudicare la legittimità di un atto di stato straniero perché non è
competente ad agire nella sfera delle relazioni internazionali, di pertinenza dell’esecutivo.
La tendenza attuale è comunque nel senso di un’applicazione restrittiva della regola, al fine di consentire ai giudici interni
di valutare l’eventuale illegittimità degli atti pubblici stranieri. Ed è proprio l’analisi delle limitazioni che la dottrina incontra
a suggerire un riavvicinamento alle regole dell’immunità statale:
1. La dottrina dell’atto di stato impedisce alle corti interne di giudicare la legittimità di atti sovrani attraverso i quali si
manifesta la potestà di imperio degli stati stranieri. Analogamente a quanto stabilito dalle norme sull’immunità statale,
nessun limite è posto ai tribunali nazionali quando si tratta di giudicare liti in cui siano coinvolte attività privatistiche
attribuibili a stati o ad agenti stranieri, senza coinvolgere l’esercizio di una funzione pubblicistica.
2. La dottrina dell’Act of State non viene applicata quando il giudizio sia instaurato su domanda dello stato straniero di
appartenenza dell’agente cui si contesta la commissione dell’illecito. Anche in tale prospettiva si riscontra una
corrispondenza con la regola dell’immunità, sempre rinunciabile da parte dello stato che ne gode, sia quando venga
chiamato in giudizio personalmente sia quando il convenuto venga identificato con un proprio agente.
3. Le corti anglo-americane non si dichiarano incompetenti dove vi sia una legge interna/convenzione internazionale che
espressamente stabilisca la possibilità di perseguire determinati atti, quandanche compiuti da organi statali
nell’esercizio delle loro funzioni. Si discute se l’applicazione della dottrina sia destinata a cedere davanti ad una
violazione grave di una norma internazionale, certa nella sua definizione e di importanza fondamentale.
Dall’analisi delle limitazioni poste alla dottrina dell’atto di stato emerge che le eccezioni alla sua applicazione oltre ad essere
sempre più numerose, vanno a coincidere con le eccezioni relative all’immunità dalla giurisdizione, in particolare con le
regole che pongono limiti oggettivi all’applicazione dell’immunità statale e funzionale.
Immunità personale
La terza tipologia di immunità statale è rappresentata dall’immunità personale che spetta a taluni individui-organi dello
stato in relazione agli atti compiuti al di fuori dei propri incarichi ufficiali: costoro possono fruire di un’esenzione
pressoché totale dalla giurisdizione degli stati stranieri, questo purché appartengano ad uno stato ed agiscano per conto
di esso (immunità funzionale) o ne rappresentino le più alta autorità in materia di politica estera (immunità personale).
L’immunità personale non è una prerogativa attribuita ad un determinato soggetto al fine di garantirlo nelle proprie
posizioni soggettive, ma rappresenta uno strumento necessario al fine di consentire la piena esplicazione delle funzioni
assegnateli dallo stato di appartenenza, spetta infatti allo stato decidere in ordine all’eventuale rinuncia all’immunità.
L’immunità personale si presenta come una prerogativa soggettivamente, oggettivamente e temporalmente limitata.
× Dal punto di vista soggettivo, spetta solo a determinati soggetti: diplomatici, capi di stato e di governo e ministri degli
esteri. L’art. 20 dello State Immunity Act britannico del 1978 stabilisce che le immunità garantite ai diplomatici si
applicano anche al sovrano o ad altro capo di stato estero ma, a prescindere dalla previsione di una specifica estensione
delle regole codificate nella Convenzione di Vienna del 1961, il godimento delle immunità personali anche da parte di
capi di stato e di governo, nonché dei ministri degli esteri è affermato dal diritto internazionale consuetudinario.
× Dal punto di vista oggettivo, l’immunità personale si distingue da quella funzionale perché copre l’agente che opera al di
fuori delle proprie funzioni ufficiali. Detta immunità è assoluta per quanto riguarda la giurisdizione penale: l’unica
reazione legittima dello stato del foro è intimare al soggetto immune l’allontanamento dal paese.
Con riferimento alla giurisdizione civile esistono delle eccezioni: l’immunità personale incontra limiti a riguardo di azioni
reali riguardanti immobili situati nello stato del foro, controversie relative ad una successione nella quale il diplomatico
risulti unico erede, cause inerenti ad attività professionali o commerciali esercitate dal diplomatico al di fuori delle funzioni
ufficiali, domande riconvenzionali presentate nell’ambito di azioni promosse dall’agente diplomatico.
La conseguenza dell’immunità personale non è che l’agente è immune/esente dal rispetto delle norme materiali vigenti
nel foro, semplicemente è impossibile perseguirlo, giudicarlo e condannarlo per gli atti commessi (immunità
giurisdizionale o procedurale). Vi è poi la possibilità di perseguire l’agente straniero una volta cessato il suo mandato.
L’inviolabilità personale
Occorre ricordare che diplomatici, capi di stato e di governo e ministri degli esteri godono anche della inviolabilità
personale, per garantire la quale gli stati ospitanti sono gravati da precisi obblighi di fare e di non fare.
L’inviolabilità impedisce agli stati stranieri di assoggettare i diplomatici a misure repressive e coercitive che limitino la loro
libertà personale, gli stati ospitanti hanno poi un obbligo speciale di protezione delle persone che godono dell’inviolabilità.

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Detti obblighi sono codificati nella Convenzione di Vienna del 1961 e rappresentato principi fondamentali di diritto
internazionale, come testimoniato anche dalla CIG. L’inviolabilità personale spetta anche ai consoli, ex Convenzione di Vienna
del 1963, anche se garantita in forma non assoluta. Per l’agente diplomatico e il console, valgono alcune ulteriori prerogative:
- L’inviolabilità domiciliare protegge da qualunque intrusione da parte dello stato ospitante sia i locali dell’ambasciata e del
consolato sia quelli impiegati dal diplomatico per la sua abitazione privata, inoltre tali locali non possono formare oggetti
di perquisizione sequestro o altra misura esecutiva. Allo stato accreditatario spetta poi uno speciale obbligo di protezione
dei locali, al fine di impedire che essi siano invasi o danneggiati o sia turbata la pace della missione diplomatica.
- L’immunità fiscale copre le imposte personali dirette, pur essendosi avuti casi nella prassi di estensione dei privilegi ad
imposte indirette.
L’immunità dei soggetti diversi dagli stati
Ordine di Malta e Santa Sede
L’identificazione delle regole sull’immunità dalla giurisdizione è divenuta ancora più complessa a fronte della comparsa
sulla scena internazionale di soggetti diversi dagli stati ma pur sempre dotati di personalità giuridica: occorre chiedersi se
la soggettività di cui tali soggetti godono comporti necessariamente il riconoscimento di immunità e privilegi analoghi a
quelle esistenti in relazione agli stati. Il riconoscimento di immunità, anche se non assimilabili a quelle statali, è sembrato
per lungo tempo consolidato in relazione a quei soggetti come per l’Ordine di Malta e la Santa Sede.
Per quanto riguarda la posizione dell’Ordine di Malta basta far riferimento a quanto affermato dalla cassazione, che
riconosce la posizione di soggetto di diritto internazionale mantenuta nell’ordinamento giuridico italiano dal SOM di
Malta, con la conseguente immunità dalla giurisdizione del giudice italiano, che si estende anche a quegli enti di diritto
pubblico dotati di soggettività internazionale.
Anche la Santa Sede ha tradizionalmente goduto di immunità analoghe a quelle degli stati, sia come soggetto
considerato nella sua interezza sia in relazione agli enti centrali attraverso i quali esplica il suo mandato
A tal riguardo viene in considerazione l’art. 11 del trattato del Laterano, per lungo tempo giudicato dalla giurisprudenza
italiana come una specificazione del principio di non ingerenza dello stato italiano negli affari interni di un altro soggetto
di diritto internazionale. Detta impostazione è stata contraddetta dalla stessa cassazione che è giunta a negare validità
dell’equazione non ingerenza=immunità: lo stato italiano pur assumendosi pattiziamente l’obbligo di non ingerenza, ha
conservato la propria sovranità, non subendo limiti all’esercizio della giurisdizione penale per fatti illeciti i cui eventi si
verifichino in territorio italiano e legati da rapporto di causalità con condotte poste in essere in territorio appartenente alla
santa sede.
Le organizzazioni internazionali
Rilevanti questioni suscita l’accertamento delle immunità spettanti alle organizzazioni internazionali, che godono della
personalità giuridica purché risultino dotate di una struttura organizzativa adeguata a realizzare la missione definita nel
trattato istitutivo e di autonomia decisionale rispetto alle determinazioni degli stati membri. La personalità di cui godono
le organizzazioni non ricalca però quella degli stati, essendo riconosciuta entro limiti funzionali allo svolgimento della
missione, limiti nei quali sono quindi riconosciuti anche i privilegi e le immunità. La questione è risolta tramite specifiche
disposizioni incluse nell’ambito del trattato istitutivo, o in accordi successivi conclusi con gli stati membri o con stati terzi,
tuttavia dove dette previsioni mancani occorre fare riferimento al diritto internazionale generale.
Nel passato si è assistito al tentativo di estendere le regole sull’immunità degli stati anche agli altri soggetti della
comunità internazionale, in particolare alle organizzazioni internazionali, ma oggi si propende invece per l'elaborazione di
una regola autonoma, che non ricalchi quella dell’immunità statale: anche l’immunità delle organizzazioni è circoscritta a
quanto necessario all’espletamento delle funzioni assegnate.
Come emerso in giurisprudenza, anche le organizzazioni internazionali possono rinunciare alla propria immunità: la
rinuncia deve essere espressa e chiara.
Allo stato attuale del diritto internazionale, non può quindi affermarsi l’esistenza di una norma consuetudinaria che
garantisca alle organizzazioni internazionali, le medesime immunità di cui godono gli stati e se l’organizzazione di
appartenenza non può avvalersi di dette regole, tantomeno possono invocare l’immunità i funzionari che la
rappresentano. Tanto è vero che in ordine alle immunità spettanti ai funzionari si rintracciano prescrizioni convenzionali
nell’ambito di tutti i trattati istituti delle organizzazioni internazionali, o in trattati ad hoc che l’organizzazione conclude con
gli stati membri o con stati terzi.
Immunità giurisdizionale e diritto d’azione: la teoria della soddisfazione per equivalenti
I principi sull’immunità degli stati e le norme pattizie contenute negli accordi istitutivi delle organizzazioni internazionali
assumono un rilievo determinante dal momento che garantiscono i diversi soggetti dalla scena internazionale
dall’interferenza reciproca nella gestione dei propri affari interni.
Per questo motivo le immunità sono riconosciute e garantite anche a scapito dell’esercizio di prerogative sovrane dello
stato del foro. Le regole relative all’immunità dalla giurisdizione rappresentano norme fondamentali nel contesto delle
relazioni internazionali, tali da giustificare anche il sacrificio di una prerogativa tipica della sovranità statale, quale
l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Occorre però considerare che detto sacrificio comporta la contestuale limitazione di un diritto fondamentale, garantito in
Italia dalla costituzione a tutti i soggetti privati: il diritto di agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e dei propri
interessi ex art. 24cost. Se la giurisprudenza più risalente sembra affermare la supremazia dei principi relativi
all’immunità rispetto ai diritti dei singoli, destinati a soccombere di fronte a particolari esigenze derivanti dalla struttura
della comunità internazionale, occorre dare atto di una posizione più evoluta che asserisce l’impossibilità di sacrificare i
diritti degli individui, anche qualora si intendano far valere regole primarie del diritto internazionale.
In quest’ottica, laddove si assista ad un contrasto tra regole sull’immunità e diritto individuale di azione, deve procedersi
ad un loro contemperamento: la deroga alla giurisdizione nazionale è legittima esclusivamente nell’ipotesi in cui tale

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diritto possa essere soddisfatto per equivalenti all’esterno del foro (al singolo, impedito nell’esercizio del proprio diritto
all’interno del foro, deve essere garantito l’accesso ad un organo giurisdizionale straniero, dotato di adeguare garanzie di
imparzialità e indipendenza e capace di giudicare la lite osservando regole di procedura).
Dunque, l’immunità giurisdizionale non può derogare ma semplicemente determinare una sorta di affievolimento nella
tutela del diritto di azione, il cui esercizio viene reso più difficoltoso in concreto.
Un problema si pone però laddove si verta in tema di immunità spettanti alle organizzazioni internazionali, non
necessariamente munite di un apparato giurisdizionale, tuttavia l’esistenza di organi imparziali, anche non giurisdizionali,
è sufficiente per garantire il principio supremo della tutela giurisdizionale.
L’orientamento in esame sembra raggiunger un equilibrio tra norme internazionali e diritti individuali fondamentali. La sua
bontà sul piano internazionale è stata confermata dalla corte di Strasburgo con riferimento all’art. 6 CEDU, che
garantisce ad ogni persona il diritto ad un equo processo e in particolare il diritto di azione.

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CAPITOLO VI
RISOLUZIONE PACIFICA E PREVENZIONE DELLE CONTROVERSIE TRANSNAZIONALI
di Francesco Munari

Definizione delle controversie internazionali, loro natura e obbligo degli stati di risolverle pacificamente
Secondo la classica definizione della corte permanente di giustizia internazionale nel caso Mavrommatis, una
controversia è un disaccordo su questioni di fatto o di diritto o un conflitto di interessi o di punti giuridici esistente tra due
soggetti. Anche a livello internazionale con il tempo si è sviluppato un sistema di risoluzione delle controversie:
inizialmente caratterizzato dall’uso della forza (guerra), esso ha subito profonde trasformazioni con l’affermarsi
dell’obbligo degli stati di risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, così da non mettere in pericolo la
pace e la sicurezza internazionali.
L’obbligo di evitare l’uso della forza per risolvere le controversie, nonostante il progressivo rafforzamento, presenta
ancora delle eccezioni e soprattutto si inserisce all’interno di un sistema di rapporti internazionali che individua lo stato
come ente sovrano e dove quindi non esiste un potere superiore in grado di imporre agli stati la risoluzione delle
controversie e le modalità. Si comprende dunque che il sistema di risoluzione delle controversie nel diritto internazionale,
nella sua rappresentazione classica, sia rudimentale, volontaristico e basato sulla bipartizione tra mezzi diplomatici e
mezzi arbitrali o giurisdizionali.
Sviluppi nel sistema di risoluzione delle controversie: erosione del volontarismo, incremento dei fori internazionali e
problemi di coordinamento
Negli ultimi decenni, per l’aumento dei soggetti e degli attori operanti nella sfera internazionale, per l’espandersi
dell’ambito di operatività della materia e per la trasformazione delle stesse controversie, il sistema classico di risoluzione
di queste ultime si è grandemente modificato:
1. In primo luogo, la progressiva “privatizzazione” dei rapporti internazionali determina l’affacciarsi di attori individuali
portatori di interessi rilevanti, spesso suscettibili di determinare controversie con gli stati e quindi implicanti la necessità
di una composizione pacifica: le controversie non sono più solo fra stati, ma sempre più spesso tra stati ed imprese.
2. In secondo luogo, il volontarismo risulta ridimensionato dal crescente condizionamento posto agli stati dalla loro
appartenenza ad una comunità globale e dalla necessità di accettarne un sistema di valori che comprende anche
l’adesione a mezzi di risoluzione delle controversie basati su determinati principi.
Questa evoluzione presenta conseguenze di rilievo. A fronte di un tecnicismo e di un ambito di applicazione delle norme
internazionali notevolmente cresciuto, si è rafforzata l’opportunità di devolvere a soggetti specificatamente competenti
l’eventuale risoluzione delle controversie. Ciò ha determinato la proliferazione di tribunali internazionali, con la conseguente
perdita di centralità degli organi giurisdizionali (come la CIG) al tempo costituiti con l’ambizione di divenire in tribunale degli
statu avente una generale competenza a risolvere le controversie internazionali. In linea di principio, la creazione di fori
tecnici/specializzati presenta il vantaggio di depoliticizzare le controversie internazionali e di rafforzare il ruolo del diritto nella
loro risoluzione. La proliferazione dei fori internazionali può produrre anche effetti indesiderati:
× Ciascun giudice può sviluppare una propria giurisprudenza svincolata da altri;
× Si possono creare problemi di coordinamento qualora più di un tribunale sia astrattamente competente a conoscere di
una medesima controversia;
× Non è escluso il fenomeno del forum shopping, i conflitti e comunque incertezze e ritardi nell’esercizio.
Sotto il primo profilo si è notata una spontanea convergenza e un reciproco rispetto alla prassi sviluppata da altre corti,
così da contribuire alla formazione di un corpus di regole giurisprudenziali comuni alla giurisdizione internazionale in
senso ampio. Più difficile è invece la soluzione egli altri problemi poiché le spontanee convergenze dei giudici
internazionali non equivalgono a eliminare qualsiasi divergenza giurisprudenziale rispetto a medesime questioni, spesso
dovuta al diverso sistema di regole che essi devono applicare: ciò dimostra come la materia internazionale richieda
particolari sforzi dell’interprete e del giurista al fine di limitare le incongruenze e le lacune e di cercare elementi unificatori
utili allo sviluppo complessivo della disciplina giuridica dei rapporti internazionali e transnazionali.
Gli effetti della globalizzazione sull’ambito di applicazione del diritto interno e sulle controversie transnazionali
Anche la globalizzazione stimola una domanda di risoluzione delle controversie connotata da elementi di internazionalità
o transnazionalità. Quando gli stati non sono in grado di costruire a livello internazionali fori competenti per la risoluzione
di tali controversie, esse vengono gestite e risolte all’interno degli stessi stati, da parte delle giurisdizioni nazionali e ciò
comporta l’esercizio della sovranità di uno stato nei confronti di altri stati o di individui appartenenti ad altri stati, con
esisti non sempre condivisi o adeguati per i limiti di efficacia delle pronunce statali da eseguirsi negli alti ordinamenti.
Ormai è stata acquisita con certezza la possibilità degli stati di esercitare la giurisdizione nei confronti di imprese straniere
che operano nel loro mercato e nei confronti di individui che hanno contatti con il loro territorio, restano però problematiche
le ipotesi di giurisdizione extraterritoriale; emblematico è l’esercizio della giurisdizione penale nei confronti ex capi dello
stato sospettati di aver commesso crimini contro l’umanità: l’inizio di azioni penali nei confronti di questi soggetti da parte di
giudici nazionali mette in crisi l’istituto delle immunità e può comportare conflitti di diritto internazionale (evitati spesso con
l’istituzione di tribunali penali internazionali per la repressione dei crimini internazionali).
Il ritorno dell’uso della forza per risolvere i conflitti asimmetrici
lo sviluppo dei sistemi pacifici di soluzione delle controversie internazionali non sembra però valere per quelle che
investono profili fi sicurezza nazionale, che minacciano la pace o la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo: con
riguardo ad esse, infatti, per diversi motivi il sistema si sta evolvendo verso un più frequente ricorso all’uso della forza.
In primo luogo, l’emersione di obblighi erga omnes, la cui violazione da parte di uno stato fa sorgere la pretesa di tutti gli
altri di porvi fine e di conseguenza, in secondo luogo, l’espansione dell’attività del consiglio di sicurezza. In terzo luogo,
un generalizzato fenomeno di disgregazione del potere centrale in molti stati, cui corrisponde non solo la diffusione degli

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stati falliti (come Somalia, Libia, Sud Sudan), ma anche la costituzione di entità di difficile qualificazione omogenea che
tuttavia sono in grado di controllare rilevanti aree territoriali (ad esempio lo Stato Islamico) o comunque di impedire
l’esercizio del controllo su vaste aree di territorio da parte del potere centrale; mentre in passato fenomeni del genere
erano circoscritti, oggi la situazione è molto più complessa e spesso risulta costante l’uso della forza anche da stati
appartenenti all’ONU. Talora l’uso della forza è inevitabile: è evidente che l’insorgenza di gruppi che negano qualsiasi
legittimità ai principi basilari di coesistenza pacifica impedisce l’applicazione delle regole di diritto internazionale relative
alla prevenzione e alla risoluzione delle controversie e quindi ne impone la sospensione.
In questa situazione resta largamente praticato l’uso degli strumenti diplomatici, ma anche qui con molte difficoltà.
I mezzi diplomatici di risoluzione delle controversie
Tra i metodi tradizionalmente impiegati per la risoluzione pacifica delle controversie, quelli di carattere diplomatico sono i
più antichi e quelli maggiormente utilizzati. Con i mezzi diplomatici gli stati cercano di risolvere la controversia tra loro
sorta sforzandosi di trovare un accordo, spesso aiutati dall’intervento di terzi (ai quali però non è attribuito alcun potere di
comporre la lite).
Il negoziato
Il primo mezzo diplomatico è il negoziato, cui partecipano esclusivamente i soggetti parti della controversia, senza quindi
l’intervento né la presenza di terzi. Questo strumento è molto utilizzato perché la sua instaurazione è molto agevole e
perché non individua uno sconfitto e un vincitore, preservando così l’integrità e l’equilibrio delle posizioni degli stati.
Si discute se, con l’insorgere di una controversia, esista un obbligo degli stati a ricorrere al negoziato prima di tentare
altre vie; a riguardo la CIG ha precisato che le parti sono obbligate a intraprendere negoziati al fine di arrivare ad un
accordo. In effetti talvolta il negoziato è imposto agli stati come mezzo preliminare necessario attraverso apposite
clausole convenzionali; funzione analoga è svolta anche dalle clausole contenute in numerosi convenzioni internazionali,
che prevedono la giurisdizione della CIG per le questioni che non sono state risolte attraverso il negoziato solo però
quando chi invoca la sua giurisdizione ha promosso un genuino tentativo di negoziare sulle situazioni controverse.
Norme del genere non possono tuttavia essere interpretate nel senso di richiedere alle parti di continuare a negoziare
fino alla risoluzione della lite, una tale interpretazione pregiudicherebbe infatti l’impiego degli altri mezzi di risoluzione
delle controversie internazionali. Ovviamente poi l’impegno a negoziare imposto ad una parte implica la volontà della
controparte a condurre il negoziato, il diniego unilaterale non può precludere all’altro il ricorso alla tutela giurisdizionale.
In altri casi, quando è in gioco la disciplina di questioni particolarmente complesse si è soliti creare commissioni o altri
organismi negoziali permanenti, proprio nell’ottica di prevenire le controversie.
Ciò detto, ove non previsto specificatamente da un trattato, sul piano del diritto internazionale generale non sembra
essersi affermato un onere o un obbligo preventivo di negoziare prima di instaurare una lite arbitrale o giurisdizionale.
Altra questione è invece se il negoziato sia necessario prima di agire in autotutela e se comunque, in sede di
svolgimento del medesimo, gli stati siano tenuti a tenere comportamenti ispirati al principio di buona fede: in entrambi i
casi la risposta è positiva.
L’utilità del negoziato è innegabile anche in chiave di prevenzione dell’insorgere di controversie, ciò spiega lo sviluppo
della prassi di incontri frequenti tra i rappresentanti degli stati, sia nell’ambito delle organizzazioni internazionali che al di
fuori di tali appuntamenti: la prassi relativa ai vertici consente non solo una più agevole produzione di regole a livello
internazionale, ma limita anche il verificarsi di controversie poiché le riunioni periodiche tendono a garantire stabilità alle
relazioni internazionali. In questo contesto, anche l’informalità degli incontri al vertice aiuta l’attività diplomatica e il
coordinamento delle varie posizioni che gli stati fanno poi valere in modo più ufficiale.
Lo stretto rapporto tra prevenzione e risoluzione delle controversie si conferma alla luce di un fenomeno costante a tutte
le organizzazioni internazionali regionali in cu, accanto alla cooperazione tra membri, è sistematica la previsione di
meccanismi diplomatici, arbitrali o giurisdizionali di risoluzione delle controversie. La loro esistenza e le loro funzioni
risultano coerenti anche con l’art. 52 della Carta ONU. Queste organizzazioni hanno sviluppato veri e propri meccanismi
di prevenzione delle controversie tra membri e di gestione negoziale della controversia attraverso la costituzione di
commissioni o l’adozione di documenti. L’efficacia di questi meccanismi è peraltro variabile e in ogni caso non comporta
limitazioni delle prerogative del consiglio di sicurezza nelle materie ad esso riservate.
Questa prassi conferma l’inesistenza, nell’ordinamento internazionale, di un giudice naturale al quale gli stati devono
rivolgersi, si ricorre quindi alla creazione di soluzioni considerate di volta in volta più adeguate.
I mezzi diplomatici contemplano anche il coinvolgimento di soggetti terzi, ai quali non è delegato alcun potere di decidere
e talvolta nemmeno di impostare le modalità o la procedura di risoluzione della controversia. Tali terzi possono anche
svolgere il ruolo di ospite delle parti contrapposte. A seconda dei casi essi sono degli stati o degli altri soggetti
internazionali o anche i loro rappresentanti.
I buoni uffici
Attraverso questo mezzo diplomatico un terzo cerca di influenzare le parti in lite tentando di metterle in contatto e
portarle al tavolo negoziale, eventualmente suggerendo anche un percorso per giungere all’accordo, oppure ospitando le
delegazioni delle parti.
La mediazione
In questo caso al terzo è richiesto lo svolgimento di un compito più attivo che prevede la sua partecipazione al negoziato e
talora la proposizione informale ai contendenti di una possibile soluzione della controversia. La mediazione non determina
alcun vincolo per le parti che possono in ogni tempo rifiutare o interrompere, tuttavia l’efficacia di questo strumento appare
direttamente proporzionale all’influenza e all’autorevolezza del mediatore. Negli ultimi anni nel NU hanno intensificato le
iniziative per sviluppare la mediazione quale strumento fondamentale di peace-keeping e nel 2011 l’assemblea generale ha

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adottato una specifica risoluzione nella quale si invitano gli stati ad ottimizzare l’uso della mediazione e degli altri strumenti di
risoluzione pacifica delle controversie previsti all’art. 33 della Carta ONU.
La conciliazione
Questo strumento è previsto in molti trattati come passaggio facoltativo o obbligatorio per la risoluzione di una
controversia, in cui l’attività del conciliatore si qualifica per la predisposizione di una formale proposta per la risoluzione
della lite. Al termine della procedura di conciliazione infatti, esaminate e valutate le posizioni delle parti, il conciliatore
adotta un verbale di conciliazione nel quale sono contenute le osservazioni e raccomandazioni delle parti stesse per
risolvere la controversia. Resta tuttavia decisiva la non obbligatorietà per le parti di accettare la proposta del conciliatore.
Allorchè la controversia implichi un diverso apprezzamento dei fatti ad opera delle parti in lite, non è infrequente la
nomina di una commissione di inchiesta formata da persone fisiche indipendenti e imparziali designate dalle parti, alle
quali è affidato il compito di accertare esattamente le circostanze di fatto rilevanti. Questo strumento di risoluzione delle
controversie implica che le parti in lite siano d’accordo sull’interpretazione e l’applicazione delle norme regolatrici la
fattispecie e che la disputa inerisca solo ad aspetti di fatto. Ciò tuttavia costituisce anche un limite alla diffusione di
questo meccanismo.
I mezzi diplomatici per la risoluzione delle controversie previsti nel sistema dell’ONU
Procedure diplomatiche per la risoluzione delle controversie esistono anche all’interno del sistema delle NU: oltre ad u
generale potere dell’assemblea di raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che ritenga
suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra le nazioni, la carta ONU dedica l’intero
capitolo VI all’argomento. Così l’art. 34 attribuisce al consiglio di sicurezza un generale potere di inchiesta su qualsiasi
situazione che possa portare ad un attrito internazionale; l’art. 36.1 stabilisce che il consiglio di sicurezza può
raccomandare procedimenti o metodi di sistemazione della controversia adeguati; l’art. 37 prevede l’intervento del
consiglio subordinatamente al verificarsi di alcuni presupposti (tuttavia nella prassi il consiglio ha fatto ampio uso del
proprio potere di suggerire una soluzione, entrando nel merito della stessa).
L’arbitrato
L’arbitrato è il primo dei mezzi non diplomatici conosciuti dal diritto internazionale per la risoluzione delle controversie.
Secondo la corte permanente di giustizia internazionale, le caratteristiche dell’arbitrato sono:
a. La volontà degli stati in lite di rimettere al giudizio di arbitri la soluzione della controversia;
b. La scelta degli arbitri, che quindi non devono preesistere rispetto all’insorgenza della lite;
c. La risoluzione della controversia mediante norme giuridiche.
Di norma, quando si decide di sottoporre al giudizio di arbitri una determinata questione, gli stati sono soliti stipulare un
compromesso, nel quale vengono identificati gli arbitri, vengono fissate le questioni sulle quali essi saranno tenuti a
pronunciarsi, viene stabilito il diritto applicabile (di norma quello internazionale) e il termine entro il quale gli arbitri
dovranno pronunciarsi; sovente il compromesso prevede anche delle norme procedurali cui gli arbitri dovranno attenersi.
L’arbitrato è un istituto piuttosto risalente nel tempo: già le Convenzioni dell’Aja del 1889 e del 1907 per la risoluzione
pacifica delle controversie contenevano norme modello per procedure arbitrali a cui si sarebbe potuto rinviare in sede di
compromesso, venne inoltre creata la Corte Permanente di Arbitrato (CPA) che nel tempo si è trasformata in
un’istituzione che, oltre all’assistenza arbitrale, offre procedure amministrative relative a tutti gli altri mezzi diplomatici di
risoluzione delle controversie.
Altra importante istituzione arbitrale è l’International Centre for Settlement of Investment Disputes (ICSID), promosso
dalla banca mondiale e costituito con la Convenzione di Washington del 1965 sulla risoluzione delle controversie tra stati
ed individui di altri stati, con il compito di amministrare arbitrati in materia di investimenti. La giurisdizione in favore
dell’ICSID viene spesso pattuita in sede di stipulazione di accordi bilaterali sugli investimenti, nell’ottica di assicurare
protezione all’investitore di uno stato che decida di operare nell’altro stato, ponendolo in posizione di parità delle armi.
Essendo i lodi arbitrali ICSID obbligatori per gli stati aderenti alla Convenzioni ed essendo impugnabili in casi molto
limitati, diventano strumenti particolarmente efficaci, tuttavia da qualche anno questo sistema appare sotto pressione.
Sebbene le critiche mosse agli arbitrati su commercio ed investimenti, l’arbitrato rimane un rimedio grandemente
utilizzato dagli stati, tanto che in aggiunta agli arbitrati ad hoc (originati da compromessi e non amministrati da organismi
permanenti), è frequente l’inserimento all’interno di molti trattati della procedura arbitrale quale strumento già previsto
per la risoluzione delle controversie tra stati parti. Alla base della fortuna di questo strumento vi sono diversi elementi:
- La flessibilità garantita dal compromesso e la possibilità di esperire un arbitrato nel quale siano delineate su misura
le caratteristiche della procedura e degli arbitri. Sotto questo profilo si ricorda anche la progressiva “ibridazione” dei
meccanismi arbitrali di risoluzione delle controversie: in molti trattati, in particolare quelli commerciali, si prevede
anche che gli arbitrati interstatali possano svolgersi secondo regole, meccanismi ed istituzioni utilizzate negli
arbitrati internazionali coinvolgenti imprese.
- La maggior celerità degli arbitri rispetto ai tribunali internazionali e la loro maggior propensione a ricercare una
composizione amichevole della lite in corso di arbitrato, in un’ottica non giudiziale delle soluzioni alle controversie.
- La natura eminentemente tecnica più che politica dell’arbitrato: l’eventuale soccombenza di uno stato comporta
così conseguenze politiche minori di quella davanti alla CIG.
- La vasta possibilità di utilizzarlo per risolvere controversie tra stati e attori diversi, compresi gli individui,
caratteristica particolarmente importante per le controversie inerenti al trattamento degli stranieri.
La corte internazionale di giustizia
Rappresenta il tentativo più ambizioso e strutturato di creare una giurisdizione competente a risolvere le controversie tra
stati. Succeduta nel 1946 alla Corte permanente di giustizia internazionale (CPGI), la CIG costituisce il principale organo

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giurisdizionale delle NU. La CIG, con sede all’Aja, è composta da 15 giudici di nazionalità diversa, eletti dal consiglio di
sicurezza e dall’assemblea generale dell’ONU secondo una complicata procedura. La CIG giudica a maggioranza in
sessione plenaria, oppure un camere di consiglio composte da almeno tre giudici. Secondo la prassi anglosassone, è
prevista la possibilità per i singoli giudici di rendere nota la loro eventuale opinione concorrente o dissenziente.
La corte esercita una funzione consultiva, infatti conformemente all’art. 65 dello statuto, la corte può fornire un parere
consultivo su qualsiasi questione di diritto su richiesta i qualsiasi organo autorizzato. È però importante specificare che gli
organi ONU diversi dall’assemblea generale e dal consiglio di sicurezza, nonché le agenzie specializzate, se autorizzate,
possono chiedere un parere soltanto su questioni riguardando il loro ambito di attività; per l’assemblea generale e per il
consiglio di sicurezza la corte ha precisato che per poter richiedere un parere è necessario comunque un collegamento tra
l’attività di tali organi e la questione sulla quale il parere è richiesto.
Alla procedura consultiva possono partecipare gli stati e le organizzazioni internazionali ma anche altri soggetti.
I pareri della corte non sono vincolanti per la parte richiedente; tuttavia essi da un lato, possono esprimere principi utili
all’interpretazione e all’applicazione delle norme internazionali applicabili ad una fattispecie, mentre dall’altro contribuiscono
significativamente all’evoluzione del diritto internazionale e all’affermazione di regole vincolanti sul piano internazionale.
La funzione consultiva può soprattutto consentire alla CIG di esprimere il proprio pensiero rispetto a questioni delicate
nel contest internazionale, delle quali essa potrebbe non essere mai investita in sede di giurisdizione contenziosa, stante
il presupposto dell’accettazione della stessa da parte degli stati interessati. Talvolta peraltro, la funzione consultiva
rischia di alterare gli equilibri previsti dalla Carta NU relativamente alle competenze dei suoi organi, come è avvenuto nel
2010 in occasione del Parere sulla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo.
La corte esercita anche una funzione giurisdizionale in senso stretto, i cui esame è però più complesso.
Innanzitutto va osservato che solo gli stati possono essere posti dinanzi alla corte e che tutti i membri delle NU sono ipso
facto aderenti allo statuto della CIG, benché anche stati non membri possano chiedere di aderire allo statuto (l’adesione
allo statuto comporta la possibilità avere accesso alla corte, senza un automatico assoggettamento alla stessa).
Non hanno invece locus standi gli stati che, al momento dell’instaurazione del giudizio, non erano parti dell’ONU e quindi
non avevano neppure la qualità di parti dello statuto; recentemente peraltro la CIG ha adottato un atteggiamento più
pragmatico in ordine alle conseguenze dell’eventuale discrepanza tra la data di introduzione del giudizio e la data di
adesione degli stati parte della controversia allo statuto della corte.
Per contro, possono stare in giudizio stati la cui effettività è in discussione, quando comunque sono parti di trattati nei
quali la CIG è prevista quale organo per la risoluzione delle controversie scaturenti da tali trattati.
L’esclusione di soggetti diversi dagli stati dalla giurisdizione contenziosa della CIG desta alcune perplessità, soprattutto
in riguardo alle organizzazioni internazionali. L’incapacità di essere parte sostanziale fi un giudizio contenzioso non
preclude alle organizzazioni internazionali, se così richieste dalla corte stessa, di presentare osservazioni
sull’interpretazione di trattati cui esse sono parti.
Benché solo gli stati possano stare in giudizio dinanzi alla CIG, questo non implica un loro obbligo ad assoggettarsi alla
sua giurisdizione, è infatti richiesto il consenso degli stati, esprimibile in vari modi disciplinati dall’art. 36 dello statuto: a
volte la giurisdizione della corte è attribuita da apposite clausole contenute in trattati, altre volte l’accettazione della
giurisdizione è fatta mediante apposite dichiarazioni unilaterali che operano nei confronti degli stati che hanno a loro
volta accettato la giurisdizione della CIG con ka medesima dichiarazione.
Per quanto riguarda l’Italia, la dichiarazione di accettazione è fatta senza limiti di tempo, ma può essere ritirata in
qualsiasi momento con effetto immediato, e riguarda tutte le controversie sorte dopo il suo deposito; non vale tuttavia per
le controversie nei confronti dii quegli stati che hanno accettato la giurisdizione obbligatoria della corte solo in relazione
ad una controversia specifica o che abbiano iniziato una lite davanti alla CIG contro l’Italia prima del decorso di un anno
dalla data di deposito della loro dichiarazione di accettazione della giurisdizione obbligatoria.
La corte ha tuttavia dimostrato di interpretare in modo estensivo l’accettazione della giurisdizione da parte degli stati, ha
così ammesso la possibilità del forum prorogatum, che si verifica quando il consenso alla giurisdizione è ricavato dalla
condotta dello stato davanti alla corte e/o dalle sue relazioni con lo stato ricorrente, purché tale consenso sia certo e
deducibile in modo inequivoco: l’accettazione della giurisdizione successivamente alla proposizione del ricorso costituisce
una modalità di forum prorogatum da tempo disciplinata dall’art. 38.5 delle regole di procedura; in questo caso la corte è
tenuta ad un’analisi in ordine all’estensione del consenso eventualmente prestato dallo stato convenuto. D’altro canto, il
rifiuto della giurisdizione della corte non viene meno quando lo stato convenuto in lite decide di difendersi anche
nell’ambito delle questioni controverse, a condizione che abbia continuato ad opporsi all’accettazione della giurisdizione.
È frequente che, nel formulare la propria dichiarazione unilaterale, gli stati subordinino la giurisdizione della corte alla
condizione di reciprocità, si pone allora la questione dell’ambito di applicazione delle rispettive dichiarazioni; la CIG ha
precisato che: la reciprocità non può consentire ad uno stato di far valere restrizioni alla giurisdizione della corte che
l’altra parte non ha incluso nella propria dichiarazione.
Per accertare l’esistenza della competenza della CIG il momento determinante è quello in cui la controversia ha inizio,
ovvero quando è depositato l’atto introduttivo del giudizio, le circostanze sopravvenute possono incidere solo sul merito.
Quando la competenza della corte discende da un trattato cui sono parte gli stati in lite, la corte può conoscere della
controversia solo se essa riguarda fatti accaduti successivamente all’entrata in vigore del trattato.
Altro profilo rilevante è l’esistenza di una controversia tra gli stati che sussiste quando:
a. Esiste un disaccordo in punto di fatto o di diritto;
b. Tale disaccordo riguarda l’interpretazione o l’applicazione di norme internazionali su cui la CIG abbia giurisdizione
nel caso specifico;
c. Il disaccordo esiste alla data di deposito dell’atto introduttivo
Quindi, a differenza di quanto avviene negli arbitrati o davanti alle giurisdizioni nazionali, la CIG esclude di poter
pronunciare sentenze sul consenso delle parti. Per contro, la corte è competente a decidere anche quando uno stato in

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lite ritenga che un trattato abbia definitivamente risolto la controversia, mentre l’altro stato chieda invece inutilmente di
avviare un negoziato.
L’interesse e la legittimazione ad adire la CIG non sussiste soltanto quando uno stato assume che un altro abbia leso i
suoi interessi o diritti, ma anche quando uno stato assume che un altro abbia violato obblighi erga omnes o obblighi di
natura ambientale scaturenti da accordi internazionali.
Alla necessità che la giurisdizione della CIG sia accettata da parte degli stati corrisponde l’assenza di un loro obbligo a
comparire dinanzi alla corte contro la loro volontà; questo vale anche nel caso in cui la corte, per rendere il proprio
giudizio deve pronunciarsi in via pregiudiziale nei confronti di uno stato che non è parte nel giudizio. Per contro la corte
può esercitare la propria competenza che rispetto a controversie che toccano gli interessi di stati non parti del
procedimento, qualora tali interessi non costituiscano oggetto della decisione e a condizione che l’eventuale
determinazione della responsabilità dello stato non parte costituisca una condizione preliminare perché la corte possa
rendere la propria decisione. Nessuna limitazione alla competenza della corte si determina per effetto della decisione di
uno stato che abbia accettato tale competenza ma decida, nel caso specifico, di restare contumace. La prestazione del
consenso di uno stato rispetto alla competenza della corte è richiesta anche qualora si tratti di accertare nei suoi
confronti la violazione di obblighi erga omnes.
È importante sottolineare che la sussistenza o meno della competenza della CIG a decidere non ha alcun riflesso sulla
responsabilità internazionale di uno stato derivante dal compimento di atti a lui imputabili e lesivi di diritti di altri stati.

Nel giudizio davanti alla corte è prevista la possibilità di intervento da parte di stati terzi che abbiano un interesse di
natura giuridica suscettibile di essere toccato dalla decisione del caso. Spetta alla corte decidere sull’istanza di
intervento: l’ammissione viene rigorosamente ricollegata all’effettiva rilevanza della questione per lo stato terzo e non
dipende dalla posizione assunta a riguardo dagli stati parti della lite. Il rigore con cui è valutata un’istanza di intervento va
tuttavia esaminato alla luce dell’art. 59 dello statuto, a norma del quale la decisione della corte non ha efficacia
vincolante se non tra le parti e relativamente al particolare caso deciso: tale disposizione determina quindi un equilibrio
del sistema, consentendo al terzo di intervenire senza tuttavia diventare parte in senso stretto. Non è però esclusa
l’ipotesi di estendere anche a terzi intervenenti l’efficacia del giudizio, sussistendo i presupposti in capo all’intervenente
di assumere la qualità di parte in causa: a volte è infatti la stessa corte ad invitare stati terzi ad intervenire quando sia in
discussione l’interpretazione di una convenzione di cui siano parti altri stati oltre a quelli in causa ed in tal caso lo stato
viene considerato parte a tutti gli effetti.
Il giudizio dinanzi alla CIG comprende due fasi, una scritta ed una orale. L’accertamento dei fatti di causa si svolge
secondo usuali standard processuali, al riguardo, stante il crescente tecnicismo e la complessità delle norme
internazionali, il ruolo degli esperti ha assunto sempre più importanza, mentre per contro le dichiarazioni giurate dei
membri del governo di uno stato parte della controversia vengono valutate con cautela, così come i materiali probatori
provenienti da un’unica fonte. L’oggetto del giudizio si determina in relazione al contenuto della domanda instaurata,
benché sia consentito alle parti di precisare le proprie domande e svolgere le relative argomentazioni.
A norma dell’art. 41.1 dello statuto, la corte ha il potere di indicare, ove ritenga che le circostanze lo richiedano, le misure
cautelari che debbano essere prese a salvaguardia dei diritti rispettivi di ciascuna parte. Secondo un pacifico
orientamento, le misure cautelari adottate dalla CIG hanno natura vincolante. Questo strumento è usato con una certa
frequenza, anche in assenza di istanza di parte, fermi alcuni presupposti, tuttavia la misura cautelare non può essere
tale da pregiudicare il merito della causa. Negli ultimi anni la corte ha affinato la propria giurisprudenza sui presupposti
per la concessione di misure cautelari, precisando che i diritti fatti valere dalla parte richiedente devono essere plausibili
e che debba esistere un nesso fra diritto fatto valere nel merito e le misure cautelari richieste.
Inoltre, le misure cautelari possono anche essere modificate o revocate in corso di causa.
Di rilievo è anche il fatto che l’adozione delle misure cautelari può prescindere dalla preventiva definizione di questioni
pregiudiziali, come la stessa accettazione della giurisdizione della corte da parte degli stati.
La CIG resta tuttora il giudice più autorevole sulla scena internazionale, ma la sua funzione giurisdizionale resta
comunque diversa rispetto a quella dei giudici interni.
Molti stati si riservano di accettare la giurisdizione ed è ancora frequente il ritiro delle dichiarazioni di accettazione a
seguito di sentenze sfavorevoli. Anche la durata dei giudizi dinanzi alla CIG non giova all’efficacia dell’istituzione.
Preoccupa soprattutto la frequenza con la quale le pronunce non vengono rispettate, specialmente per le misure
provvisorie: è vero che l’art. 94.2 della Carta NU prevede che se una delle parti di una controversia non adempie agli
obblighi che le incombono per effetto di una sentenza della corte, l’altra parte può ricorrere al consiglio di sicurezza che
ha facoltà di fare raccomandazioni o di decidere le misure da prendere perché la sentenza abbia esecuzione, ma tale
norma non risulta attuata.
I tribunali internazionali specializzati
Esistono numerosi tribunali sorti nel settore della tutela dei diritti umani (corte europea dei diritti dell’uomo e altre corti
regionali), le corti penali internazionali (corte penale internazionale). Importante è anche il tribunale internazionale del
diritto del mare (ITLOS), istituito in attuazione alla CNUDM. A livello regionale esistono altri tribunali internazionali, come
la corte di giustizia UE.
La risoluzione delle controversie all’interno dell’OMC
Un autonomo e complesso sistema di risoluzione delle controversie esiste anche all’interno dell’OMC ed è previsto dal
Dispute Settlement Understanding (DSU), il trattato multilaterale cui aderiscono tutti i membri dell’OMC. Con il DSU può
affermarsi l’avvenuta costituzione di un tribunale competente a decidere delle controversie commerciali insorte tra stati parti
dell’OMC, in particolare relativamente all’applicazione delle norme degli accordi multilaterali vigenti all’interno dell’OMC.

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Nello specifico, si osserva che a livello OMC è centrale il ruolo del negoziato e della consultazione tra le parti quale
strumento pregiudiziale per la risoluzione delle controversie, cui può seguire l’intervento dell’OMC stessa, le cui
istituzioni possono offrire i propri buoni uffici o la conciliazione quando il negoziato è risultato inutile.
Allorché questi strumenti non abbiano avuto esito positivo, ciascuna delle parti in lite può chiedere la costruzione di un
panel (stabilito dal Dispute Settlement Body, DSB) di esperti cui devolvere la soluzione della controversia (procedura
simile all’arbitrato), al cui termine viene formulato un report che viene adottato dal DSB salvo che questi mediante
consensus decida di non farlo; il report è impugnabile davanti ad un Appellate Body, un tribunale di 7 membri costituito
dal DSB che applica le norme degli accordi OMCed è vincolato alle dichiarazioni interpretative date a tali accordi dalla
conferenza ministeriale dell’OMC e dal consiglio generale. Anche le decisioni dell’Appellate Body sono automaticamente
adottate dal DSB, salva decisione contraria di questo da assumersi con consensus.
Il sistema di risoluzione delle controversie dell’OMC ha dato buona prova di sé, soprattutto per la sua capacità di
sottrarre le controversie commerciali alla sfera politica e per la normalità con cui le controversie tra membri vengono
risolte mediante decisioni aventi natura arbitrale/giurisdizionale.
Le controversie in seno all’OMC, pur sorte tra stati, per la loro natura e oggetto hanno evidenti implicazioni sulle imprese
e sugli individui, non è però sempre detto che gli interessi sostanziali di questi ultimi siano adeguatamente rispettati.
Mentre l’intervento di stati terzi è consentito nelle forme previste dalle norme procedurali stabilite a livello di DSU, si è
posto il problema dell’intervento di altri terni, in particolare le ONG (caso Amianto e Gamberetti II). Si desume una cauta
apertura nel senso di una più larga partecipazione ai processi decisionali di questioni di grande portata ed importanza,
ma nelle quali non è sicura la rappresentatività, in capo agli stati, di tutti i punti di vista rilevanti.

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CAPITOLO VII
ILLECITO E RESPONSABILITÀ
di Luigi Fumagalli

L’illecito quale presupposto della responsabilità


Il diritto internazionale nel contemplare le regole di condotta, positiva o negativa, assume che il soggetto destinatario degli
obblighi da esse nascenti osservi il comportamento dovuto, contempla tuttavia regole volte a disciplinare le conseguenze
della mancata osservanza dell’obbligo internazionale, previa definizione dei presupposti al cui ricorrere la produzione di tali
conseguenze è condizionata. La commissione da parte di un soggetto internazionale di un atto internazionalmente illecito
è il presupposto necessario per l’insorgere di una responsabilità internazionale a carico di tale soggetto.
Norme primarie e norme secondarie
Alle regole di diritto internazionale sulla responsabilità per atti internazionalmente illeciti si contrappongono le regole che
impongono e definiscono un obbligo la cui violazione fa sorgere la responsabilità. Le regole che definiscono le condizioni
generali affinché un soggetto sia considerato responsabile all’azione o omissione illecita sono definite norme secondarie,
le norme che definiscono il contenuto dell’obbligazione violata sono qualificate come primarie.
Il contenuto della responsabilità
L’espressione responsabilità internazionale, intesa in senso stretto, copre la nuova relazione giuridica che sorge nei
rapporti tra lo stato responsabile e lo stato leso in seguito all’atto internazionalmente illecito dello stato.
Tale relazione ha un contenuto complesso: non è limitata all’obbligo incombente allo stato responsabile di fornire (o al
diritto dello stato leso di pretendere) una riparazione, ma comporta anche la soggezione del primo al potere di
coercizione spettante ad altro soggetto, allo scopo di ottenere l’adempimento, sia dell’obbligo primario che del dovere di
riparazione, e di sanzionare il comportamento illecito.
La fonte della disciplina della responsabilità e la sua codificazione
La disciplina generale della responsabilità internazionale è posta da regole di diritto internazionale consuetudinario: non
sussistono regole pattizie che abbiano inteso regolare la materia in via generale. Ma allo stesso tempo deve essere
rilevato come la disciplina generale della responsabilità internazionale degli stati per fatti internazionalmente illeciti è
stata oggetto di una complessiva opera di codificazione, curata dalla commissione del diritto internazionale delle NU,
sfociata nell’adozione di un progetto di articoli nel 2001. La questione della responsabilità dello stato venne indicata tra le
materie suscettibili di codificazione già alla prima sessione della commissione di diritto internazionale del 1949.
Sebbene la disciplina della responsabilità dello stato, quale codificata dagli articoli, appaia essere espressione
paradigmatica del diritto internazionale in materia, deve segnalarsi come la questione della responsabilità delle
organizzazioni internazionali per atti internazionalmente illeciti è stata oggetto di studio specifico da parte della
commissione del diritto internazionale, sfociato nell’adozione in seconda lettura nel 2011 di un progetto di articoli.
Gli elementi costitutivi dell’atto internazionalmente illecito
La violazione del diritto internazionale da parte di uno stato comporta la sua responsabilità internazionale.
Per stabilire l’esistenza di una responsabilità internazionale occorre verificare le condizioni subordinatamente alle quali
un illecito internazionale può dirsi esistente. A tal fine si identificano due elementi:
1. La possibilità di attribuire l’atto allo stato ai sensi del diritto internazionale;
2. La violazione di un obbligo internazionale vigente per lo stato al momento della commissione dell’atto.
I due elementi sono usualmente designati come soggettivo e oggettivo, tuttavia si segnala che tale aggettivazione deve
essere utilizzata con cautela, in quanto essa appare essere possibile fonte di equivoci.
Irrilevanza del diritto interno nella qualificazione dell’illecito
La qualificazione di un atto come internazionalmente illecito, nonché l’insorgere di una responsabilità quale sua
conseguenza, dipende dal diritto internazionale e dunque prescinde dalla qualificazione dello stesso come lecito ai sensi
del diritto interno. Da questa affermazione consegue innanzitutto che un atto non può essere considerato come
internazionalmente illecito se esso non comporta la violazione di una norma di diritto internazionale. In secondo luogo,
quanto affermato implica che lo stato non può, invocando la conformità della propria condotta alle proprie diposizioni
interne, sottrarsi alla responsabilità internazionale se essa si pone in contrasto con un obbligo internazionale: l’atto che
viola una norma di diritto internazionale costituisce un illecito anche se lo stato era obbligato a compierlo in base al
proprio diritto interno.
L’elemento soggettivo dell’illecito: il principio generale di attribuibilità di un atto allo stato
Affinché una condotta possa essere caratterizzata come internazionalmente illecita e fonte di responsabilità
internazionale è dunque in primo luogo necessario che essa sia attribuibile allo stato. Poiché le azioni dello stato sono
azioni umane, la questione diventa quindi quella di verificare quali persone devono essere considerate agenti per conto
dello stato ai fini della responsabilità internazionale.
Il principio generale di attribuibilità di una condotta allo stato è espresso dalla regola secondo la quale può essere riferita
allo stato, dal punto di vista del diritto internazionale, solo la condotta dei suoi organi, ossia di quegli enti individuali o
collettivi attraverso i quali lo stato si organizza e agisce: in linea di principio un’azione umana può essere considerata
come azione dello stato quale soggetto di diritto internazionale, solo se posta in essere dai componenti di un organo
dello stato che abbiano agito in tale qualità.
L’attribuzione di una condotta allo stato quale soggetto di diritto internazionale è basata su criteri determinati dal diritto
internazionale, tuttavia il diritto interno e la prassi di ogni stato sono di primaria importanza al fine di determinare cosa
costituisce un organo di uno stato, poiché la struttura dello stato è stabilita dal diritto interno e non dal diritto internazionale.

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Per quanto lo stato si ripartisca al suo interno in una serie di organi differenti, ai fini del diritto internazionale lo stato è
trattato come una singola persona giuridica; pertanto la condotta di qualsiasi organo statale viene considerata come atto
dello stato ai sensi del diritto internazionale. La condotta è attribuibile allo stato se, nel caso concreto, l’organo in
questione agisce in veste ufficiale, anche se al di fuori della sfera di competenza in cui secondo il diritto interno può
esercitare i suoi poteri. L’esistenza di una violazione attribuibile allo stato prescinde dalla circostanza che l’organo o
autorità abbia violato disposizioni di diritto interno o superato i limiti del suo potere: è dunque è irrilevante per
l’attribuzione della condotta allo stato la circostanza che il personale abbia agito in contrasto con le istruzioni ricevute.
Allo stesso tempo può essere attribuita allo stato la condotta dell’ente che non può essere ritenuto organo dello stato,
ma che è autorizzato dal diritto interno ad esercitare elementi di potere di governo (enti parastatali o enti privati che
conservano poteri di regolamentazione, come le compagnie aeree): la giustificazione di tale attribuzione nasce dalla
partecipazione di tali enti alla funzione di governo e come tale segna anche i limiti in cui l’azione dell’ente può essere
considerata come condotta dello stato.
Per quanto, in linea generale, la condotta di un organo impegni solo la responsabilità internazionale dello stato al quale
esso appartiene, possono verificarsi casi in cui la condotta illecita di un organo di uno stato fa sorgere la responsabilità di
uno stato diverso: ciò avviene allorché l’organo di uno stato venga posto a diposizione di un altro stato e questo organo
agisca solo a favore e per conto di stato cui è stato messo a disposizione. Ovviamente da tale meccanismo di
attribuzione sono escluse le situazioni in cui l’organo agisce senza il consenso dello stato le cui funzioni sono eserciate o
sulla base di istruzioni dello stato al quale esso strutturalmente appartiene.
Il comportamento dei soggetti estranei all’organizzazione dello stato: i privati, gli organi di fatto
Il rilievo assegnato in diritto internazionale alla sussistenza di un legame organico tra soggetto che agisce e stato cui
l’azione è attribuita esclude che la condotta posta in essere da privati in quanto tali possa essere considerata come
condotta dello stato e che pertanto, dal contrasto tra condotta del privato e obbligo internazionale dello stato, possa
sorgere a carico di quest’ultimo una responsabilità internazionale.
Al ricorrere di tale circostanza lo stato può essere ritenuto responsabile solamente del comportamento dei suoi organi che
non abbiano preso le misure necessarie per prevenire o punire il fatto dei privati: una responsabilità diretta sorge solo
allorché lo stato, approvando o ratificando a posteriori il comportamento dei privati, lo faccia proprio. La circostanza che un
comportamento sia posto in essere da persone che non sono formalmente inquadrabili nell’organizzazione dello stato
dunque non esclude l’attribuibilità allo stato di quel comportamento. Ciò avviene, secondo la CIG:
a. Nel caso in cui persone, gruppi di persone o enti possono, ai fini della responsabilità internazionale, essere
assimilate a organi dello Stato anche se tale status non deriva dal diritto interno; tale situazione si verifica allorché
questi agiscano sotto la totale dipendenza dello Stato, di cui in definitiva diventano strumento. Tale forma di
assimilazione ha peraltro carattere eccezionale poiché richiede la prova di un grado di controllo particolarmente
stretto sulle persone in questione e finisce per attribuire all’organo di fatto la stessa posizione dell’organo di diritto,
tanto che l’assieme dei suoi comportamenti risulta attribuibile allo stato anche ove abbia agito in assenza di
istruzioni o contro di esse.
b. Nel caso in cui vi siano comportamenti di persone non inquadrabili, né de iure né de facto, nell’organizzazione dello
stato che risultano comunque attribuibili a questo. Tale situazione si verifica quando lo stato abbia dato istruzioni di
tenere la condotta contraria all’obbligo o tale condotta sia stata adottata sulla base di istruzioni o sotto la direzione
o il controllo dello stato (a tale fattispecie può essere ricondotta la situazione dello stato sponsor di atti di terrorismo
internazionale); ragione di tale regola è impedire che lo stato si sottragga alla respo internazionale utilizzando
privati per il compimento di atti che non potrebbero essere compiuti. A parere della CIG, affinché si abbia
attribuzione di un comportamento allo stato non basta che questo eserciti sul gruppo di cui fa parte l’individuo un
controllo generale, si richiede la prova di un controllo effettivo sull’azione durante la quale l’illecito è stato
commesso. Lo stesso fenomeno può verificarsi infine allorché il privato abbia agito in sostituzione dello stato, come
in caso di calamità naturali, quando le autorità sono venute meno o non sono in grado di operare. Allo stesso modo
può essere attribuita allo stato l’attività di un movimento insurrezionale se e quando esso assume le funzioni di
nuovo governo dello stato.
La complicità nell’illecito internazionale
Alla questione della complicità nell’illecito internazionale sono rivolte quelle regole di diritto internazionale che
definiscono in quale misura uno stato può essere ritenuto responsabile per l’atto di un altro stato.
In generale uno stato è responsabile solo per le azioni ad esso attribuibili, tuttavia possono esserci casi in cui insorge
una responsabilità dello stato in relazione ad azioni di un altro stato, allorché vi sia una cooperazione o una coercizione
nella commissione dell’illecito.
In una prima direzione, una responsabilità può insorgere per lo stato che aiuta o assiste un altro nella commissione di un
atto internazionalmente illecito: lo stato aiutante diventa internazionalmente responsabile per il proprio comportamento
se agisce con la consapevolezza delle circostanze dell’atto illecito.
In una seconda direzione, deve ritenersi internazionalmente responsabile dell’illecito lo stato che costringe un altro alla sua
commissione, nel caso in cui quell’atto, se non fosse frutto di coercizione sarebbe un atto illecito dello stato costretto a
commetterlo e se agisce con la consapevolezza delle circostanze dell’atto: all’esclusione della responsabilità in capo allo stato
che sotto coazione commette un illecito, si accompagna la responsabilità dello stato che ha cagionato tale commissione.
L’elemento oggettivo dell’illecito: caratteri del comportamento dello stato
Il secondo elemento, definito oggettivo, costitutivo dell’illecito è dato dal contrasto tra il comportamento in concreto tenuto
dallo stato e quello richiesto dalla norma internazionale, ossia dalla violazione di un obbligo internazionale.
La definizione del comportamento illecito dipende dal particolare contenuto della norma primaria violata: a seconda delle
prescrizioni di questa, la condotta dello stato contrastante con l’obbligo internazionale può consistere in azioni o in omissioni.

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L’irrilevanza dell’origine dell’obbligo internazionale violato


Al fine della qualificazione come illecito dell’atto contrario al diritto non rileva la fonte dell’obbligo internazionale violato da
parte dello stato. La responsabilità internazionale sorge dunque per violazione di un obbligo pattizio o assunto con atto
unilaterale, così come di un obbligo posto da una norma consuetudinaria, o nascente da altra fonte.
È tuttavia necessario che l’obbligo che si assume violato vincoli lo stato al momento in cui viene posto in essere il
comportamento rilevante: in base ad un generale principio di legalità, allo stato non può derivare una responsabilità
internazionale retroattiva, collegata ad un fatto che al momento della commissione, non poteva ritenersi illecito, in quanto
non contrastante con alcun obbligo. Di converso, si ritiene che dal principio derivi anche che l’estinzione della norma
violata, successiva alla violazione, non faccia venire meno la responsabilità internazionale.
Il carattere della norma violata
Nella qualificazione della illiceità della condotta dello stato non rileva la particolare natura della norma violata: sussiste
un illecito internazionale a prescindere dall’importanza dell’obbligo internazionale violato e a prescindere dalla
circostanza che il comportamento prescritto fosse dovuto nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso
o che fosse stabilito da una norma di diritto cogente. La parificazione degli atti illeciti non consente quindi di distinguere
tra categorie diverse di illecito, contemplata nel progetto approvato in prima lettura nel 1996.
La parificazione tra illeciti non significa che le caratteristiche diverse della norma violata siano irrilevanti al fine della
disciplina complessiva della responsabilità dello stato, anzi esse si ripercuotono sulle conseguenze derivanti dall’atto
illecito e in particolare sul contenuto della responsabilità e sulla legittimazione a invocarla.
Il momento di commissione dell’illecito
Problema di un certo rilievo pratico è quello della determinazione del momento in cui un illecito può dirsi compiuto: a tal
proposito si afferma normalmente una distinzione tra illecito di carattere istantaneo o di durata, basata sia sulle
caratteristiche della norma violata che sulle circostanze del caso specifico.
Secondo le regole degli artt.14-15, la violazione di un’obbligazione internazionale per mezzo di un atto che non si
estende nel tempo si verifica nel momento in cui ha luogo il comportamento dello stato, anche se i suoi effetti persistono
nel tempo; la violazione di carattere continuativo si estende invece per l’intero periodo in cui il comportamento si svolge e
si pone in contrasto con l’obbligo internazionale. Nel caso in cui la noma che si assume violata richieda a uno stato di
impedire che un determinato eventi si verifichi, la violazione ha luogo nel momento in cui tale evento si verifica e si
estende per tutto il periodo in cui l’evento si produce e si pone in contrasto con quell’obbligo. La violazione da parte di
uno stato di un obbligo internazionale attraverso una serie di azioni o di omissioni illecite nel loro complesso ha luogo nel
momento in cui si verifica quell’azione/omissione che è sufficiente a far qualificare come illecita la serie di
azioni/omissioni: la violazione è ritenuta estendersi per l’intero periodo dalla prima azione/omissione e perdura per tutto il
periodo in cui le azioni/omissioni sono ripetute e rimangono in contrasto con l’obbligo internazionale.
Problema differente ma parimenti rilevante è quello della definizione del momento in cui l’illecito si perfeziona, per
contrapporre lo stesso ai suoi atti preparatori, per sé non illeciti: tale distinzione appare condizionata dai fatti e dal
contenuto della norma violata.
La colpa nell’illecito internazionale
Si discute se sia necessaria al fine di una qualificazione di una condotta come internazionalmente illecita e fonte di
responsabilità, accanto agli elementi soggettivo-oggettivo, la presenza dell’elemento psicologico della colpa.
Il problema si pone al di là dei casi in cui la particolare norma primaria che si assume violata preveda l’adozione di un
determinato standard di diligenza o disponga un regime oggettivo di responsabilità: in tali situazioni l’atteggiamento
psicologico dell’organo dello stato attiene alla fattispecie della norma e concorre alla stessa definizione dell’antigiuridicità
dell’atto o risulta per definizione escluso.
Per quanto gli articoli, non menzionando la colpa tra gli elementi costitutivi dell’illecito, sembrino propendere per un
regime oggettivo di responsabilità, deve ritenersi che pur di fronte ad una prassi internazionale non univoca, l’elemento
della colpa possegga un certo rilievo a proposito dell’insorgere della responsabilità dello stato: in questo senso depone il
riconoscimento di una serie di circostanze di esclusione dell’illiceità che scusano l’inadempimento nel caso in cui
l’osservanza della norma sia stata impossibile. In tal modo si riconosce come lo stato che provi l’assenza di colpa possa
andare esente da responsabilità.
Il danno nell’illecito internazionale
Allo stesso modo, si discute se un fatto possa qualificarsi internazionalmente illecito solo se esso provoca un danno,
ovvero un qualche pregiudizio, morale o materiale, che possa derivare ad altro soggetto.
In realtà, qualsiasi violazione di un obbligo internazionale comporta necessariamente un danno che consiste nella
violazione dell’ordinamento giuridico, che si verifica anche se non vi è stato un pregiudizio del soggetto nei cui confronti
la violazione è stata commessa. Tuttavia, al di fuori dei casi in cui il danno fa parte della fattispecie illecita, sembra
doversi escludere che il danno inteso quale pregiudizio morale o materiale sia elemento costitutivo dell’illecito.
Ciò detto deve sottolinearsi come la presenza o l’assenza di un danno quale conseguenza dell’atto illecito non sia del
tutto irrilevante nella disciplina della responsabilità internazionale, in quanto essa appare idonea a condizionarne il
contenuto e le modalità di riparazione.
Le circostanze di esclusione dell’illiceità
Il diritto internazionale contempla anche norme che danno rilievo a una serie di fatti il cui ricorrere ha l’effetto di
interrompere la relazione normale tra il verificarsi di un fatto illecito e la responsabilità del soggetto che ne è autore.
Le circostanze riconosciute negli articoli che escludono il carattere illecito di un atto sono: il consenso, la legittima difesa,
il carattere di legittima contromisura, la forza maggiore, l’estremo pericolo e lo stato di necessità.

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Devono comunque sottolinearsi i limiti in cui sono circoscritti gli effetti che discendono dal ricorrere di tali circostanze,
che ne fissano l’ambito di operatività:
1. Dalla sussistenza dell’esimente non deriva di per sé l’estinzione dell’obbligo internazionale violato: da essa
consegue solo l’esclusione di una responsabilità.
2. Il ricorrere della causa di giustificazione non esclude l’eventuale sussistenza di un obbligo di reintegrazione
patrimoniale per il danno causato: sebbene non sorga una responsabilità in senso tecnico lo stato che ha
commesso l’atto altrimenti illecito può essere chiamato a tenere lo stato leso indenne dalle conseguenze
pregiudizievoli del fatto subito.
3. La causa di esclusione dell’illiceità può non essere sufficiente a scusare l’inadempimento di un obbligo discendente
da una norma imperativa di diritto internazionale.
Il consenso dello stato leso
Il consenso, allorché validamente dato, preclude l’insorgere della responsabilità del soggetto che ha tenuto il
comportamento nei confronti del soggetto che ha dato il consenso.
Perché sia valido, il consenso deve essere stato liberamente prestato e non risultare viziato dalla coercizione o altro
fattore, deve essere reale e non meramente presunto, e deve provenire da un ente la cui espressione di volontà sia
idonea a impegnare lo stato. Non possono dunque trovare giustificazione gli interventi compiuti da alcuni stati dietro
l’invito, puramente formale, di autorità prive di reale potere di governo o di governi-fantoccio insediati con la forza dallo
stato interveniente (in ogni situazione di guerra civile l’accertamento del consenso all’uso della forza da parte di un terzo
stato dovrà essere effettuato con grande cautela).
L’effetto discriminante del consenso è subordinato ad un duplice limite:
1. l fatto altrimenti illecito deve rimanere nei limiti del consenso.
2. Il consenso deve essere precedente o contemporaneo al fatto che sarebbe altrimenti illecito: un consenso alla
violazione di un obbligo internazionale, legittimamente dato in momento successivo al comportamento che l’ha
realizzata, costituisce solo una rinuncia al diritto dello stato di ottenere una riparazione.
Accanto a questi limiti specifici bisogna ricordare quello generale ex art. 26 degli articoli: il consenso non vale a
giustificare un comportamento vietato da norme imperative, infatti se attraverso il consenso non è possibile porre in
essere valide deroghe a norme cogenti, la violazione di queste non può essere giustificata sulla base del consenso dello
stato leso. Si sottolinea che la revoca del consenso non è subordinata a particolari formalità.
La legittima difesa
L’illecita di un comportamento contrastante un obbligo internazionale è esclusa quando, attraverso quel comportamento,
lo stato abbia inteso evitare il compimento di un fatto illecito nei propri confronti da pare di un altro stato, o impedire che
un illecito già in atto venga portato ad ulteriori conseguenze, ovvero nei casi in cui costituisce una misura di legittima
difesa o autotutela. L’effetto scriminante di tale comportamento, generalmente implicante l’uso della forza posto in
essere a titolo di legittima difesa, sussiste solo se questa viene adottata nei limiti di tempo, proporzione, portata (art. 21
degli articoli).
Le legittime contromisure
Un comportamento in astratto illecito, in quanto violazione di un obbligo internazionale, non fa sorgere una responsabilità
internazionale se esso costituisce l’esercizio legittimo di una contromisura adottata contro il soggetto nei cui confronti
l’osservanza dell’obbligo era dovuta, quale reazione, posta in essere a scopo coercitivo, ad un precedente illecito di
questo stato. Per definizione infatti il comportamento adottato quale contromisura si pone in contrasto con un diritto
invocabile dal soggetto contro il quale è messa in opera e sarebbe altrimenti illecito. Proprio per tale fatto le condizioni in
base alle quali una contromisura può essere adottata sono definite in modo restrittivo.
La forza maggiore
Ulteriore causa di esclusione dell’illiceità di un atto contrastante con il diritto internazionale è la forza maggiore, ossia il
verificarsi di una situazione in cui lo stato in questione è costretto ad agire in modo contrastante con quanto richiesto da
un obbligo cui è soggetto: l’autore del fatto, pur rendendosi conto che il suo comportamento lede un diritto altrui, non è
materialmente in grado di impedire l’evento.
Una situazione di forza maggiore rilevante quale causa di esclusione dell’illecito ricorre solo se sono contemporaneamente
soddisfatte tre condizioni:
- L’atto illecito si produce quale conseguenza di una forza irresistibile o di un evento imprevedibile;
- Tale forza o evento sono esterni alla sfera di controllo dello stato;
- Essi rendono materialmente impossibile, nelle particolari circostanze del caso, l’adempimento dell’obbligo internazionale.
Per effetto di questi requisiti, alla nozione di forza maggiore non possono essere ricondotte situazioni in cui l’adempimento di
un obbligo è diventato più oneroso: la forza maggiore deve comportare l’assoluta impossibilità per lo stato di adempiere
l’obbligo internazionale.
Tale causa di esclusione non opera quando la situazione di forza maggiore è conseguenza della condotta dello stato che la
invoca. Allo stesso modo, il ricorrere di una causa di forza maggiore non esclude l’illiceità di un atto in contrasto con il diritto
internazionale se lo stato in questione si è assunto l’obbligo di impedire il verificarsi di tale situazione o se ne è assunto il rischio.
L’estremo pericolo
L’illiceità di un comportamento non conforme al diritto è esclusa se il suo autore, in una situazione di estremo pericolo,
non aveva altro modo ragionevolmente praticabile di salvare la propria vita o le vite di altre persone affidate alla sua
cura. A differenza della forza maggiore, la persona che agisce in uno stato di pericolo compie volontariamente l’atto in
contrasto con il diritto internazionale, anche se la libertà di scelta è annullata proprio dalla situazione di estremo pericolo:
l’autore del fatto si rende conto che il suo comportamento non è conforme ad un obbligo che gli incombe e potrebbe

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evitarlo ma decide di violare la norma quale male minore rispetto alla perdita di vite umane.
La possibilità di invocare l’esistenza di estremo pericolo è esclusa nel caso in cui esso sia stato creato dallo stato in
questione o se il comportamento tenuto è probabile fonte di un pericolo comparabile o più grande.
Lo stato di necessità
Lo stato di necessità rappresenta una esimente della responsabilità internazionale solo in casi definiti, la regola infatti
appare essere quella della non invocabilità, salvo che ricorrano specifiche circostanze che la giustifichino.
Lo stato di necessità può dunque essere invocato solo alla presenza di determinate condizioni:
- L’adozione del comportamento in astratto illecito deve essere l’unico modo per salvaguardare l’interesse essenziale
dello stato nei confronti di un grave ed imminente pericolo: lo stato di necessità non può essere invocato se lo stato
in questione aveva a disposizione altri mezzi di salvaguardia, anche se più dispendiosi o meno convenienti.
Il pericolo deve inoltre essere incombente e oggettivamente stabilito, non semplicemente possibile.
- L’atto altrimenti illecito non deve pregiudicare seriamente un interesse essenziale dello stato nei cui confronti era
dovuto l’obbligo violato o la comunità internazionale nel suo complesso: l’interesse che lo stato vuole tutelare deve
avere un rilievo superiore rispetto agli interessi toccati dal comportamento dello stato (tale valutazione comparativa
deve essere fatta in via oggettiva).
A prescindere dal ricorrere di tali condizioni, l’invocabilità dello stato di necessità può essere esclusa dall’obbligo internazionale
in questione. Inoltre, tale invocazione è esclusa se lo stato ha contribuito alla creazione della situazione di necessità.
Le conseguenze dell’illecito
Il diritto internazionale contempla regole volte a disciplinare le conseguenze della mancata osservanza dell’obbligo
internazionale, ossia intese a precisare il contenuto della responsabilità internazionale dello stato. La commissione di un
atto internazionalmente illecito, se non fa di per sé venire meno il carattere vincolante dell’obbligazione violata, produce
una serie di conseguenze giuridiche in capo al responsabile, soggetto ad obblighi nei confronti di un altro stato, di un
gruppo di stati o della comunità internazionale nel suo insieme a seconda della natura e del contenuto della norma
violata e delle circostanze del caso.
- L’obbligo di cessare il comportamento illecito: in primo luogo, tale stato ha l’obbligo di cessare il comportamento
che costituisce la violazione dell’obbligazione internazionale, ossia di porre termine alle violazioni che si estendono
nel tempo. La cessazione del fatto illecito rappresenta tuttavia solo una maniera tardiva di rispettare l’obbligo
violato al cui adempimento lo stato autore dell’illecito è tenuto, quindi essa è condizionata alla circostanza che la
regola violata sia ancora in vigore ed è dovuta a prescindere da qualsiasi richiesta dello stato leso. Se le
circostanze lo richiedono, lo stato ha l’obbligo di offrire assicurazioni e garanzie di non ripetizione del
comportamento illecito, quale rafforzamento della norma primaria e corollario della cessazione della sua violazione.
- L’obbligo di riparazione: lo stato ha l’obbligo di riparare integralmente il pregiudizio morale e materiale, causato con
l’atto internazionalmente illecito. La riparazione può consistere nella restituzione, nel risarcimento e/o nella
soddisfazione: in ogni caso la riparazione deve cancellare tutte le conseguenze dell’atto illecito e ristabilire la
situazione che sarebbe esistita se l’atto non fosse stato commesso. Inoltre, l’obbligo di integrale riparazione non è
soggetto a limitazioni derivanti dal diritto interno dello stato che vi è tenuto.
In via di regola generale, lo stato responsabile dell’illecito internazionale è obbligato alla restituzione in forma
specifica (o in natura), ossia al ristabilimento della situazione che esisteva prima dell’illecito, ne consegue che
modalità e forme della restituzione dipendono dal contenuto della norma violata e dalle caratteristiche dell’atto
illecito (sotto tale profilo bisogna rilevare che talvolta non è agevole operare una distinzione tra cessazione
dell’illecito e restituzione). Per quanto la restituzione costituisca la forma di riparazione dovuta in via prioritaria,
l’obbligo di fornirla non è assoluto, poiché spesso si verificano situazioni in cui essa non è materialmente possibile
oppure in cui il beneficio che essa produce è così piccolo da risultare inferiore a quello derivante da altre forme di
riparazione: pertanto gli articoli la escludono quando essa sia materialmente impossibile o comporti un onere
sproporzionato in capo al soggetto responsabile rispetto al beneficio che da essa derivi per lo stato leso piuttosto
che dal risarcimento.
Qualora il danno non possa essere integralmente riparato con la restituzione, la riparazione deve avere la forma del
risarcimento, della soddisfazione o di entrambi. Se non è possibile ristabilire la situazione che sarebbe sussistita se
l’atto illecito non fosse stato commesso lo stato è tenuto alla riparazione per equivalente (pagamento allo stato leso
di un ammontare monetario, che corrisponde al valore stimato della restituzione in forma specifica, a tale somma si
aggiunge il risarcimento del danno per le perdite subite, nella misura in cui tali perdite non risultino già coperte dalla
restituzione in natura o dal pagamento che ne prende il posto). Il risarcimento deve coprire ogni danno diretto e
immediato di carattere materiale e morali, collegato all’illecito da nesso causale ininterrotto che sia determinabile
dal punto di vista finanziario, includendo oltre alla perdita patrimoniale che lo stato leso ha subito (danno
emergente), anche il profitto non conseguito a causa del fatto illecito (lucro cessante).
Nella determinazione della misura del risarcimento, la CIG tiene conto della prassi di altre corti, tribunali e
commissioni internazionali. Il risarcimento inoltre includerà eventualmente gli interessi. Gli indennizzi per il danno
morale hanno lo scopo di riconoscere che una violazione ha prodotto tale danno e sono stabiliti in modo da
riflettere approssimativamente la gravità del danno: non hanno e non devono avere finalità di fornire una
consolazione economica o un arricchimento. Dal carattere della reintegrazione patrimoniale di tale forma di
riparazione consegue che deve essere considerata estranea al diritto internazionale vigente ogni forma di
risarcimento avente scopo o misura punitivo.
La soddisfazione costituisce una forma di riparazione che appare dovuta laddove le altre modalità non siano idonee
a rimediare all’illecito commesso dallo stato (essa non è sufficiente se altre forme di riparazione sono disponibili).

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La soddisfazione si realizza come riparazione del danno morale subito dallo stato che è vittima dell’illecito, o del
danno giuridico consistente nella rottura della legalità internazionale implicata dalla violazione di un obbligo
internazionale. In corrispondenza a tale duplice funzione, la soddisfazione può consistere sia nel riconoscimento o
nella dichiarazione giudiziale della violazione e del carattere obbligatorio della norma violata, sia in espressione di
rincrescimento, in scuse formali o in qualche altra modalità appropriata. In ogni caso deve sussistere una
proporzione tra offesa e soddisfazione, che non può assumere forme umilianti per lo stato obbligato.
Le conseguenze della violazione di una norma imperativa di diritto internazionale generale
I caratteri della norma violata, per quanto non incidano sulla qualificazione dell’illiceità del comportamento contrario al diritto
internazionale, appaiono idonei a condizionare il contenuto delle obbligazioni che derivano dall’illecito.
In particolare, specifiche conseguenze derivano nel caso in cui lo stato sia venuto meno al rispetto di un obbligo nascente
da una norma imperativa di diritto internazionale generale e la violazione sia seria: in tale situazione, sussiste un interesse
per l’intera comunità internazionale al rispetto della norma violata.
Oltre che influire sul regime della legittimazione ad invocare la responsabilità dello stato che le ha violate, le caratteristiche
di tali norme incidono sul contenuto della responsabilità dello stato, poiché ad essa è collegato l’obbligo per tutti gli stati di
cooperare allo scopo di mettere fine, usando mezzi legittimi, alla violazione nonché il divieto di riconoscere come legittima la
situazione creatasi per effetto della violazione e di rendere aiuto o assistenza per il suo mantenimento.
La legittimazione ad invocare la responsabilità dello stato
Definite le regole che fissano le condizioni in base alle quali sorge la responsabilità internazionale e il contenuto degli
obblighi che incombono allo stato responsabile, si tratta di individuare lo stato nei cui confronti tali obblighi sono dovuti e
che è legittimato a invocarne il rispetto.
Principio generale è che tale legittimazione spetta allo stato leso, ossia quello nei cui confronti era dovuto il
comportamento prescritto dalla norma primaria violata e che ha visto pregiudicati i diritti da essa nascenti.
L’individuazione dello stato leso è però più complessa nel caso di violazione di una norma, consuetudinaria o stabilita in
un trattato multilaterale, che obbliga ad un comportamento dovuto nei confronti di un gruppo di stati o addirittura
dell’intera comunità internazionale; in tal caso, uno stato potrà essere considerato leso, ancorché un comportamento non
fosse specificamente dovuto nei suoi confronti, purché la violazione lo tocchi in modo particolare o abbia natura tale da
modificare radicalmente la posizione di tutti gli altri stati nei cui confronti sussisteva l’obbligo in relazione dell’ulteriore
suo adempimento.
Uno stato diverso dallo stato leso può invece invocare la responsabilità di un altro stato solo se l’obbligo sussisteva nei
confronti di un gruppo di stati, incluso quello che invocava la responsabilità, ed era inteso a proteggere un interesse
collettivo del gruppo, oppure era dovuto nei confronti dell’intera comunità internazionale.
Sebbene la responsabilità sorga quale automatico effetto giuridico dalla commissione dell’illecito, la sua messa in opera
è condizionata ad un’effettiva reazione dello stato legittimato ad invocarla; tale invocazione deve necessariamente
consistere in passi, in qualche misura, formarle: una semplice protesta non appare sufficiente. Gli Articoli prevedono che
lo stato che intende invocare la responsabilità internazionale di un altro stato debba darne comunicazione allo stato la
cui responsabilità è messa in gioco, specificando la condotta che si ritiene che lo stato responsabile debba tenere per far
cessare l’atto illecito e in quale forma la riparazione deve aver luogo.
La necessità di una reazione all’illecito è resa evidente anche dalla possibilità che il diritto di invocare la responsabilità
venga meno, ciò avviene se lo stato leso vi ha rinunciato o se si può ritenere che esso ha prestato acquiescenza al venir
meno della pretesa.
La responsabilità nei confronti del privato
Al di fuori di particolari sistemi normativi e giurisdizionali specificamente rivolti a garantire agli individui, beneficiari di obblighi
assunti dagli stati, deve rilevarsi che gli obblighi nascenti dall’illecito internazionale sono sempre e soltanto obblighi di
soggetti dell’ordinamento giuridico internazionale verso altri soggetti dello stesso ordinamento: non vi è responsabilità
internazionale dello stato verso individui.
In altre parole, a meno che siano esperibili da parte dei singoli quei particolari meccanismi volti a far valere in una adeguata
sede processuale internazionale gli inadempimenti relativi ad eventuali violazioni da parte degli stati dei diritti umani
riconosciuti a loro favore, deve ritenersi che non sussista una responsabilità nei confronti del privato e che quindi i singoli
non abbiano il potere di invocare la responsabilità internazionale dello stato, per trarne le conseguenze da essa derivabili.
La reazione all’illecito: le contromisure
La commissione di un atto illecito dà diritto allo stato danneggiato di adottare, allo scopo di ottenere la cessazione
dell’illecito e la riparazione, contromisure nei confronti dello stato responsabile: essa comporta la possibilità che lo stato
leso violi a sua volta un diritto soggettivo dello stato autore dell’illecito. Le contromisure:
1. Sono legittime solo se sono adottate in risposta ad un precedente atto illecito internazionale di un altro stato e
dirette nei confronti di quello stato, quindi solo se consistenti nel non-adempimento di obbligazioni cui lo stato
danneggiato era tenuto nei confronti dello stato responsabile e solo se compatibili con la possibilità di adempiere in
un secondo momento all’obbligazione in questione (poiché la contromisura è intesa ad indurre lo stato responsabile
ad adempiere all’obbligo internazionale, essa deve essere reversibile).
2. Non possono avere come oggetto l’obbligo di astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza stabilito dalla Carta
ONU, gli obblighi di protezione dei diritti umani fondamentali, gli obblighi di carattere umanitario che vietano le
rappresaglie, ogni obbligo nascente da norme imperative di diritto internazionale generale. Inoltre, secondo quanto
previsto dagli Articoli, l’adozione di contromisure non fa venire meno gli obblighi nascenti da procedure di soluzione
delle controversie applicabili nei rapporti tra lo stato danneggiato e lo stato responsabile, nonché quelli relativi al
rispetto del personale, dei luoghi, degli archivi e dei documenti coperti da immunità diplomatica o consolare.

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3. Sono legittime solo se proporzionate al pregiudizio sofferto dallo stato leso, tenuto conto della gravità dell’atto
illecito e dei diritti coinvolti.
4. Hanno durata limitata nel tempo, poiché devono terminare non appena lo stato responsabile ha adempiuto
all’obbligo di riparazione. In ogni caso devono essere sospese senza ritardo se l’illecito è cessato e la controversia
è stata sottoposta ad una corte o tribunale competente a risolverla in maniera vincolante.
Al di fuori di un caso di urgenza l’adozione di contromisure è subordinata alla messa in opera di alcuni adempimenti
preventivi: lo stato danneggiato deve aver richiesto allo stato responsabile di fornire piena riparazione e resa nota la sua
intenzione di adottare contromisure, offrendo la propria disponibilità a un negoziato.
I regimi speciali di responsabilità internazionale
Accanto al sistema generale della responsabilità internazionale, deve essere rilevata l’esistenza di sistemi giuridici
speciali di diritto internazionale nei quali le norme primarie sono collegate a speciali regole secondarie relative alla
responsabilità che deriva dalla loro violazione, in modo tale che la violazione delle norme primarie appartenenti al
sottosistema comporta le conseguenze da questo previste e non le conseguenze generali.
Di natura prevalentemente pattizia o riferibili ai sistemi della organizzazione internazionale, la costruzione di tali sistemi
appare ammissibile (art. 55 degli Articoli) considerando il carattere derogabile delle norme sulle conseguenze dell’illecito,
nonché la possibilità che con un trattato le parti, così come possono stabilire obblighi primari della più diversa natura e
portata, possono anche disciplinare le conseguenze della violazione degli obblighi da esse posti, distinte da quelle
previste dal diritto internazionale generale. Tale costruzione è stata affermata nella giurisprudenza internazionale.
La responsabilità internazionale di soggetti diversi dagli stati: la responsabilità delle organizzazioni internazionali
Sebbene gli Articoli considerino solo quella dello stato, una responsabilità per un atto internazionalmente illecito può
insorgere in capo ad ogni soggetto di diritto internazionale che violi un obbligo internazionale, come anche le
organizzazioni internazionali, che possono essere ritenute responsabili per le conseguenze dannose derivanti da atti dei
propri agenti. Ciò non significa però che le stesse regole di diritto internazionale che definiscono la responsabilità degli
stati si applichino di per sé anche alla responsabilità internazionale deli altri soggetti.
La questione della responsabilità delle organizzazioni internazionali per atti internazionalmente illeciti è stata fatta
oggetto di studio specifico da parte della commissione del diritto internazionale per giungere alla elaborazione delle
regole ad essa relative codificate nel progetto di articoli approvati il 3 giugno 2011.
Il progetto affronta anche un diverso aspetto, particolarmente problematico, del regime della responsabilità internazionale:
quello dei rapporti tra condotta dell’organizzazione e condotta degli stati membri e quindi tra responsabilità degli stati
membri e respo dell’organizzazione stessa. Il problema ha assunto una rilevante dimensione pratica in relazione alle
operazioni di peace-keeping, imprese dalle NU attraverso forze di pace fornite dagli stati membri, poste sotto il comando
del segretario generale, ma che per alcuni aspetti organizzativi e disciplinari, restano inquadrate nell’organizzazione
militare dello stato di appartenenza: la questione che si è posta è quella dell’attribuibilità alle NU del comportamento illecito
posto in essere da tali truppe, o dalla permanenza di una responsabilità dello stato cui il contingente appartiene.
La corte EDU si è occupata del tema sottolineando che esigenze di certezza del diritto internazionale impongono
soluzioni univoche per giungere a porre l’accento sul legame organico del contingente militare con l’ONU.
Nessuna soluzione sul tema è stata offerta in sede di codificazione della responsabilità internazionale degli stati: l’art. 57
degli Articoli conferma espressamente infatti che questi non pregiudicano qualsiasi questione relativa alla responsabilità
secondo il diritto internazionale di uno stato per il comportamento di un’organizzazione internazionale.
A tale lacuna ha ora inteso porre rimedio il progetto di articoli sulla responsabilità internazionale delle organizzazioni
internazionali, il quale si applica alla responsabilità di uno stato per un atto internazionalmente illecito in connessione alla
condotta di un’organizzazione internazionale. Il tema dei rapporti tra organizzazione internazionale e stato membro ai fini
della responsabilità internazionale è invero affrontato nel progetto in due direzioni:
- Il primo aspetto riguarda l’attribuibilità all’organizzazione internazionale dei comportamenti dei suoi stati membri. In
base agli artt. 14-17 del progetto l’organizzazione internazionale è responsabilità per la condotta dello stato
membro:
× Se l’aiuta o assiste nella commissione dell’illecito, allorché siffatta assistenza sia prestata con la
consapevolezza delle circostanze dell’illecito e la condotta sarebbe illecita se fosse direttamente tenuta
dall’organizzazione;
× Se nelle medesime circostanze questa esercita una direzione o un controllo sulle attività dello stato;
× Se essa costringe lo stato membro ad adottare un comportamento internazionalmente illecito.
In ogni caso l’organizzazione internazionale incorre in responsabilità se aggira un obbligo ad essa incombente
attraverso decisioni vincolanti o anche autorizzazioni che impongano o consentano agli stati membri quelle azioni
che sarebbero illecite se compiute dall’organizzazione.
- Il secondo aspetto riguarda le conseguenze per gli stati membri dell’atto internazionalmente illecito commesso
dall’organizzazione. Il progetto di articoli affronta la questione sotto due ulteriori profili:
× In primo luogo, si considerano gli effetti per gli stati membri dell’obbligo, incombente all’organizzazione
responsabile di un illecito, di fornire una riparazione al soggetto leso: l’art. 40 pone a carico dell’organizzazione
l’obbligo di adottare tutte le misure appropriate secondo le regole organizzative allo scopo di fare in modo che
gli stati membri forniscano ad essa i mezzi necessari ad un’effettiva soddisfazione degli obblighi incombenti nei
confronti dello stato leso e allo stesso tempo conferma l’obbligo a carico degli stati membri di fornire mezzi.
× In secondo luogo, si pongono regole che attribuiscono una responsabilità allo stato che abbia aiutato o assistito
diretto o controllato o costretto un’organizzazione internazionale nel compimento di un atto che sarebbe stato
illecito se compiuto dallo stato membro. Allo stesso tempo si conferma anche, sulla scorta di quanto affermato
dalla corte EDU, che il trasferimento di competenze ad un’organizzazione internazionale non fa venire meno la
responsabilità internazionale di uno stato per tutte le azioni/omissioni dello stato in violazione di un trattato,

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anche se determinati dall’esigenza di adempiere un obbligo internazionale nascente dalla appartenenza alla
organizzazione internazionale. In altre parole, uno stato non può sottrarsi ad un obbligo internazionale
trasferendo una competenza ad un’organizzazione internazionale: esso rimarrà responsabile anche per i
comportamenti dell’organizzazione se la induce a tenere comportamenti che se commessi dallo stato,
sarebbero internazionalmente illeciti. Infine, uno stato è responsabile a titolo sussidiario per un atto
internazionalmente illecito connesso dall’organizzazione di cui è membro, se ha accettato una responsabilità
verso il soggetto leso o lo ha indotto a fare affidamento sulla sua responsabilità.
Il problema della responsabilità senza illecito
Deve segnalarsi che si discute da tempo se un qualche regime di responsabilità sia ricollegabile allo svolgimento di
attività che siano idonee a provocare un pregiudizio ad altro soggetto, cosicché sorga a carico dello stato danneggiante
un dovere di tenere indenne lo stato leso da tali conseguenze pregiudizievoli.
Sulla possibilità di configurare un siffatto regime in diritto internazionale generale sono stati avanzati seri dubbi, appare
quindi da escludere: da un lato infatti risulta difficile distinguere la responsabilità senza illecito dalla responsabilità senza
colpa, dall’altro lato poi appare opportuno ripensar alla stessa liceità delle attività con effetti transazionali dannosi e ai
limiti in cui essa è ristretta. La questione sembra più consistere nell’analisi delle norme primarie che definiscono gli
obblighi di comportamento degli stati che svolgersi in relazione ad un particolare regime di responsabilità risarcitoria.

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CAPITOLO VIII
L’USO DELLA FORZA E IL SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA DELLE NAZIONI UNITE
di Massimo Condinanzi e Zeno Crespi Reghizzi

L’uso della forza nelle relazioni internazionali: ius ad bellum e ius in bello
Nel diritto internazionale classico, l’uso della forza veniva considerato un mezzo fisiologico per la soluzione delle
controversie inerente alla natura di stato sovrano, che coesiste a fianco di altri stati egualmente sovrani. La posizione di
supremazia di cui gode lo stato nei confronti dei soggetti dell’ordinamento interno giustifica il monopolio dell’uso della
forza; specularmente, la posizione giuridicamente egualitaria degli stati nell’ordinamento internazionale e l’assenza di un
ente in grado di imporsi quale creatore del diritto e regolatore dei conflitti spiegano il diritto degli stati di ricorrere alla
forza armata, in particolare alla guerra, innescando così una serie di conseguenze giuridiche tipiche dello stato di guerra.
Nel XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale, la guerra è una procedura lecita in cui i belligeranti, per il diritto
internazionale, si collocano su un piano paritario; in questo contesto giuridico si crea un corpus di norme che hanno ad
oggetto il modo di fare la guerra e il comportamento dei belligeranti (ius in bello).
Nell’attuale fase si evoluzione del diritto internazionale, in cui l’impiego della forza è sottoposto a rigide condizioni, la
valutazione di liceità/illiceità del comportamento di un stato che ricorre alle armi dipenderà dal diritto relativo all’uso della
forza quanto al diritto applicabile nei conflitti armati, che disciplina la condotta delle ostilità.
L’affermazione del divieto di ricorrere alla forza nei rapporti tra gli stati nel diritto pattizio e nel diritto consuetudinario
L’evoluzione tecnologica e la correlata progressione degli armamenti fecero della prima guerra mondiale un’occasione di
riflessione su come la guerra potesse mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità, prese corpo quindi il
primo tentativo di abolire il ricorso alla forza armata: venne stipulato il Patto della Società delle Nazioni (1920), con cui
all’art. 10 i membri si impegnano a rispettare e proteggere contro ogni aggressione esterna l’integrità territoriale e
l’attuale indipendenza politica di tutti i membri della società. Non si trattò peraltro di una rinuncia assoluta alla guerra
poiché il conseguimento della pace e della sicurezza andavano perseguiti anche attraverso l’impegno di non ricorrere, in
determinati casi, alle armi. Gli stati membri si obbligavano a sottoporre la controversia ad un regolamento arbitrale o
giudiziale o al Consiglio delle Società, avuta la decisione però l’obbligo degli stati si riduceva ad una moratoria, non
potendo ricorrere alle armi prima del decorso di 3 mesi. Le lacune del patto vennero presto evidenziate dalla sempre
maggiore tensione tra gli stati, sfociata poi nella seconda guerra mondiale, che segnò quindi l’insuccesso della società
delle nazioni, sciolta nell’aprile 1946.
In termini più espliciti, la rinuncia alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali è contenuta nel Trattato di
Parigi del 1928 (Patto Briand-Kellogg), attraverso cui le parti contraenti rinunciavano alla guerra per la soluzione delle
controversie internazionali e ne condannavano l’impiego come strumento di politica nazionale nei loro reciproci rapporti:
se la considerazione della guerra come illecito, è vero anche che è stato predisposto alcun organo o procedimento
capace di porsi come valida alternativa.
Il sistema concepito dagli stati vincitori della seconda guerra mondiale, che si tradurrà nella Carta delle Nazioni Unite del
1945, ha come prima finalità quella di salvare le future generazioni dal flagello della guerra: anche l’art. 1 nell’elencare i
fini dell’organizzazione considera innanzitutto il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale, obiettivo che
deve essere conseguito associando al divieto (quasi) assoluto di uso della forza, da un lato l’obbligo di risolvere le
controversie con mezzi pacifici, dall’altro affidando il monopolio dell’uso della forza alle NU.
Il divieto di uso della forza è contenuto in alcune dichiarazioni di principi dell’assemblea generale ONU, come la
Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli stati in
conformità della Carta ONU, in cui il ricorso alla minaccia o alla forza viene qualificato come violazione non solo della carta
(e quindi del diritto pattizio obbligatorio per i soli contraenti), ma del diritto internazionale, configurando così l’obbligo di
astenersi dal comportamento vietato come norma consuetudinaria, vincolante l’intera comunità internazionale.
Di questo avviso anche la Dichiarazione di Manila sul regolamento pacifico delle controversie internazionali.
L’importanza delle dichiarazioni di principi dell’assemblea generale delle NU ai fini della rilevazione della norma
consuetudinaria ha trovato conferma, con riferimento all’uso della minaccia e della forza, nella sentenza della corte
internazionale di giustizia nel caso delle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua: la corte
considera il divieto dell’uso della forza come prescritto da una norma di diritto cogente, quindi inderogabile se non
attraverso disposizioni dotate dello stesso carattere.
La nozione di forza vietata
Innanzitutto, bisogna specificare che il divieto di ricorrere alla minaccia o alla forza non è assoluto: altre norme
consentono, seppur eccezionalmente (come nei casi di legittima difesa), agli stati di ricorrere alla forza. Non sembra
invece deducibile invece la possibilità di uso legittimo della forza da parte degli stati per il conseguimento di obiettivi
genericamente compatibili con i fini della carta, al di fuori delle norme che lo consentono specificatamente.
Il sistema della carta ONU coesiste però con quello del diritto internazionale generale, il quale non esclude possano
ravvisarsi norme o principi che ammettono, al ricorrere di determinate condizioni, l’uso della forza anche per obiettivi
diversi ed ulteriori rispetto al respingimento di un attacco armato.
In secondo luogo, occorre definire cosa si intende per “forza”, se l’espressione in senso lato o quella in senso più
ristretto: la tesi più diffusa è che la carta proibisca solo il ricorso alle armi, così come confermato anche dal Preambolo e
dall’analisi dei lavori preparatori della Conferenza di San Francisco.
La coercizione economica e politica potrà costituire illecito internazionale sotto altri profili, fino ad integrare gli estremi
della minaccia alla pace che giustifica il ricorso al sistema di sicurezza collettiva nelle NU, ma non integra gli estremi di
uso della forza vietato agli stati.

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La forza internazionale e la forza interna


La forza armata il cui uso è oggetto del divieto consuetudinario è la forza internazionale, rimane però così senza rilievo
l’uso che lo stato faccia della forza armata all’interno dei suoi confini. In realtà l’impiego della forza nei confini dello stato
non è del tutto indifferente per il diritto internazionale, potendo costituire illecito perché contrario ad alcune norme o
potendo determinare una situazione in cui si ravvisino gli estremi della minaccia alla pace, con conseguente possibilità
per il consiglio di sicurezza di adottare misure.
Il divieto di ricorrere alla minaccia o all’uso della forza nelle relazioni internazionali ha come corollario l’obbligo per lo
stato di fare ricorso ai mezzi pacifici per la soluzione delle controversie con gli altri stati. La riconducibilità del principio al
diritto internazionale è confermata anche da Dichiarazioni di principi dell’assemblea generale.
Il divieto di minaccia dell’uso della forza
La norma vieta anche la semplice minaccia della forza, consistente nell’esplicito annuncio dell’impiego della forza delle
armi al verificarsi o meno di un certo evento, oppure ad una certa data. Non si esclude che la minaccia possa essere
avanzata implicitamente e quindi formulata attraverso comportamenti concludenti, tuttavia il comportamento degli stati di
rafforzare il proprio potenziale bellico è stato ritenuto dalla CIG conforme al diritto internazionale generale e quindi non
integrante gli estremi della minaccia vietata.
Con riferimento all’armamento nucleare, la corte ha precisato che la sussistenza di una minaccia vietata non dipende dal
tipo di arma il cui impiego è minacciato ma piuttosto dalla liceità del ricorso alla forza, ammettendo così implicitamente la
legittimità della minaccia dell’impiego di armi nucleari a fini dissuasivi, sia pur in situazioni estreme.
Le eccezioni al divieto: la legittima difesa
È pacificamente ammessa l’esistenza di una fondamentale eccezione al divieto di ricorso alla forza armata: la legittima
difesa (o autotutela), prevista all’art. 51 della Carta. Nell’ordinamento internazionale, che non conosce la realizzazione
coattiva delle posizioni giuridiche da parte di un ente in posizione di supremazia rispetto ai consociati, l’autotutela
risponde ad un’esigenza logica del sistema.
Sia il diritto consuetudinario che l’art. 51 subordinano la legittima difesa nell’uso della forza a condizioni che dovranno
essere verificate rigorosamente. Tali condizioni, nel sistema pattizio e in quello generale, non sono peraltro del tutto
disgiunte: che l’art. 51 qualifichi l’autotutela come un diritto naturale, confermandone così la sussistenza anche nel diritto
consuetudinario, crea una sorta di interdipendenza tra le condizioni imposte dai due sistemi.
Nel sistema della carta, la legittima difesa è poi condizionata a requisiti ulteriori, strettamente funzionali al ruolo che il
consiglio di sicurezza è chiamato a svolgere per il mantenimento della pace.
La nozione di “attacco armato”
Non ogni ipotesi di uso della forza consente l’invocabilità della legittima difesa, essendo questa limitata al caso
dell’attacco armato. La nozione di attacco armato sembra richiedere un certo grado di intensità quantitativa capace di
distinguerlo da ipotesi minori di impiego della forza nelle relazioni internazionali. L’art. 3 della risoluzione dell’assemblea
generale sulla definizione dell’aggressione enumera una serie di ipotesi idonee ad integrare la fattispecie di aggressione.
Le maggiori difficoltà definitorie riguardano l’ipotesi di aggressione armata indiretta: il problema consiste
nell’identificazione dell’elemento soggettivo dell’illecito e quindi dei casi di imputabilità allo stato del comportamento di
soggetti privati. Occorre distinguere l’ipotesi dell’invio di gruppo di individui armati non appartenente alle forze regolari
dello stato agente, considerata oggetto del divieto di attacco armato, dalla semplice assistenza a gruppi ribelli,
considerabile come una minaccia dell’uso della forza, come impiego dell’uso della forza o al massimo come un
intervento negli affari interni dello stato. L’elemento discretivo è quindi rappresentato dal controllo che sul gruppo di
individui esercita lo stato agente.
La legittima difesa nei confronti di attori non statali
Al di fuori dell’ipotesi dell’aggressione indiretta è dubbio se la legittima difesa possa essere invocata per giustificare
interventi militari in reazione ad un attacco proveniente da privati che non siano direttamente controllati dallo stato verso
cui il territorio è diretto l’intervento. Tradizionalmente gli stati e le NU hanno mostrato di non condividere il ricorso alla
legittima difesa per giustificare attacchi armati contro stati vicini ritenuti responsabili di ospitare, proteggere o cooperare
con forze irregolari presenti sul territorio. L’attentato terroristico soltanto laddove possieda le caratteristiche oggettive per
essere considerato un caso di impiego della forza armata può essere ricondotto allo stato che ospita, protegge o assiste
i gruppi terroristici: il consiglio di sicurezza non ha considerato un attacco armato da parte dello stato afgano l’attentato
dell’11 settembre o l’assistenza di cui godono i terroristi che lo hanno compiuto, ma si è limitato a riconoscer il diritto
naturale di autodifesa a fronte di attacchi terroristici, definiti come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale.
Non è peraltro esente da una certa contraddittorietà laddove, evitando di qualificare gli attacchi terroristici come attacchi
armati, ammette tuttavia una reazione agli stessi riconducibile al diritto naturale di legittima difesa, facendo così supporre
che questa eccezione sia invocabile anche di fronte a violazioni della pace e della sicurezza internazionale non qualificabili
come attacco armato vero e proprio. Tale inquadramento è però estraneo alle categorie della Carta potendo forse trovare
spiegazione in una sorta di riconoscimento della possibilità di reagire unilateralmente a tutela del valore rappresentato dalla
lotta al terrorismo internazionale, oggetto di un obbligo erga omnes in via di affermazione.
Merita di essere ricordato che, dove uno stato ha agito militarmente aggredendone un altro al quale imputava la
responsabilità di sostenere gruppi terroristici responsabili di attentati, in assenza della prova del diretto e sostanziale
coinvolgimento dello stato aggredito, l’aggressione è stata condannata dal consiglio di sicurezza o dall’assemblea generale.
Indubbiamente, le nuove modalità che rivestono gli attentati alla pace, realizzati sempre più spesso da movimenti non
direttamente ricollegabili ad uno stato, hanno contribuito ad incrinare la solidità del concetto di legittima difesa.
Recentemente la legittima difesa (sia individuale che collettiva) è stata invocata quale giustificazione per gli interventi
militari compiuti dagli USA contro l’ISIS: l’intervento contro le forze dell’ISIS localizzate in territorio iracheno non pone
problemi di legittimità essendo stato espressamente richiesto dal governo di tale stato, nel caso della Siria invece, in

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assenza di richieste di aiuto da parte dello stesso governo, l’uso della forza è stato giustificato a titolo di legittima difesa;
il principale ostacolo a questa ricostruzione è però il fatto che l’uso della forza si rivolge contro uno stato al quale non è
imputabile però nessun attacco armato, non esercitando il governo siriano alcun controllo sulle forse dell’ISIS.
A fronte di ciò, vari paesi hanno invocato la unwilling or unable doctrine secondo cui gli stati devono potersi difendere
quando il governo dello stato dove la minaccia è localizzata non è in grado o non vuole impedire l’utilizzo del proprio
territorio come base per gli attacchi. In un primo momento il consiglio di sicurezza si è limitato ad imporre sanzioni
all’ISIS e a raccomandare agli stati di adottare normative per impedire ogni forma di finanziamento o reclutamento, tali
misure si sono però rivelate insufficienti, perciò (soprattutto dopo gli attacchi in Francia del novembre 2015) ha adottato
una risoluzione ambigua: alcuni elementi fanno ritenere che essa non contenga un’autorizzazione all’uso della forza, ma
piuttosto una generica legittimazione politica dell’intervento militare contro l’ISIS.
Resta però aperta la qualificazione giuridica dell’intervento. Per poter invocare la legittima difesa occorrerebbe fondarsi
sulla dottrina unwilling or unable, tuttavia sussistono dubbi circa la corrispondenza di tale dottrina all’istituto della
legittima difesa come regolato dall’art. 51 o dal diritto consuetudinario attualmente vigente. In alternativa, l’intervento
militare potrebbe forse spiegarsi quale reazione collettiva contro un grave illecito erga omnes tale da minacciare l’intera
comunità internazionale: in quest’ottica, le azioni militari sarebbero riconducibili all’obbligo di tutti gli stati di cooperare
per porre fine a tale illecito e come tali non sarebbero precluse dalla mancata richiesta di assistenza o dal mancato
consenso dello stato sul cui territorio esse si svolgono.
I requisiti di necessità e proporzionalità
Nonostante il silenzio dell’art. 51 circa le modalità della reazione all’attacco armato, si ritiene che il diritto consuetudinario
consideri legittima una risposta che abbia i requisiti della necessità e della proporzionalità, che non devono essere intesi
in senso eccessivamente formalistico o strettamente fenomenologico.
Così, ritenendo ammissibile la reazione difensiva conto l’attacco terroristico ormai compiuto, il requisito della necessità
va correlato all’esigenza di prevenire probabili attacchi futuri, dovendo altrimenti concludersi che la reazione non è mai
necessaria per il semplice fatto che l’attacco è ormai esaurito. Allo stesso modo, riguardo proporzionalità non si può
pretendere che la reazione avvenga con le stesse armi o con l’impiego di uno stesso numero di combattenti.
L’essenziale è che la reazione abbia la finalità di porre fine e respingere l’attacco nemico e non possieda invece finalità
retributive.
Il requisito temporale
Ulteriore requisito è quello temporale, con riguardo tanto al momento iniziale della reazione, quanto al suo momento finale.
Sotto il primo profilo si richiede che la reazione sia immediata, pur essendo una condizione che deve essere intesa in
relazione al bene protetto. Con riferimento al secondo profilo, va osservato che nel sistema della Carta, il diritto di
autotutela è concepito come una fase transitoria, suscettibile di proseguire soltanto finché il consiglio di sicurezza non
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale; la facoltà di agire in autotutela verrà
meno solo allorché, in concreto, le misure di sicurezza adottate dal consiglio di sicurezza, si riveleranno idonee a porre
fine all’aggressione. Il ricorso all’autotutela ex art. 51 è invece sempre precluso una volta che il consiglio abbia adottato
misure implicanti l’uso della forza ai sensi dell’art. 42: in questi casi le NU si riappropriano del diritto di ricorrere alla forza
armata per il perseguimento della pace e della sicurezza internazionale, anche riguardo alla definizione dell’intensità e
delle modalità d’azione, che avrà come obiettivo minimo la cessazione dell’aggressione, ma potrà estendersi anche al
ristabilimento della pace nella zona interessata dal conflitto (finalità preclusa agli stati agenti in autotutela) .
La legittima difesa preventiva
Non rientra nell’autotutela ammessa dal diritto internazionale generale e dall’art. 51 la pratica consistente nell’anticipare
la soglia temporale della reazione armata, per impedire un attacco armato che si reputa probabile nell’immediato futuro.
Nella prassi più recente, gli stati raramente hanno invocato la legittima difesa preventiva, preferendo giustificare l’azione
anticipata ampliando la nozione di attacco armato, anticipandone così la soglia temporale di inizio.
La legittima difesa collettiva
L’art. 51 della carta riconosce il diritto di autotutela non solo in capo allo stato che direttamente subisce l’attacco armato,
ma anche n capo agli altri stati della comunità internazionale, nei confronti dei quali l’attacco non è diretto, ma che sono
egualmente legittimati a reagire, esercitando così il diritto di legittima difesa nella sua dimensione collettiva.
La regola della Carta corrisponde al diritto internazionale consuetudinario, come la CIG ha riconosciuto, condizionando
peraltro la reazione degli stati terzi ad una richiesta di intervento da parte dello stato direttamente attaccato, al quale è
rimesso l’accertamento di essere vittima di un attacco armato. L’esigenza della richiesta è finalizzata a scongiurare che
stati terzi pongano in essere attacchi armati offensivi camuffandoli con pretese difensive, tuttavia questo requisito deve
essere inteso in modo non necessariamente formalistico.
Il riconoscimento della dimensione collettiva della legittima difesa implica l’attribuzione agli stati del diritto di agire
unilateralmente, e quindi al di fuori del sistema di sicurezza collettiva delle NU, per l’attuazione di una coercitiva del
diritto riconosciuto da una norma imperativa del diritto internazionale, quale è quella che vieta l’aggressione armata nei
confronti di un altro stato, e dalla quale discendono obblighi erga omnes.
È stato rilevato così che l’art. 51 rilevi un modello per le ipotesi di attuazione anche di obblighi erga omnes che la Carta
non prenderebbe in considerazione perché affermatisi nel diritto consuetudinario successivamente alla sua adozione: il
ricorso unilaterale alla forza armata acquisterebbe pertanto un ambito di applicazione più ampio, comprensivo di tutte le
ipotesi di seria violazione di un obbligo erga omnes, consentito dal diritto internazionale generale e laddove il sistema di
sicurezza collettiva non possa concretamente operare.
In questi casi, gli stati godrebbero di priorità rispetto al sistema della Carta nella gestione della reazione al crimine
internazionale e la loro azione non dovrebbe essere inquadrata nel divieto di uso della forza, ma esclusivamente nelle
regole di diritto internazionale generale.

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Il consenso dell’avente diritto


Oltre alla legittima difesa, un’altra causa di giustificazione per l’uso della forza è costituita dal consenso dell’avente
diritto: lo stato, titolare del dritto di sovranità territoriale, può acconsentire la compressione realizzata con l’ingresso nel
suo territorio di forze militari straniere.
Affinché il consenso possa giustificare l’uso della forza, occorre che venga espresso dal governo realmente
rappresentativo dello stato nel cui territorio l’intervento avrà luogo, altrimenti la manifestazione di volontà tesa ad
acconsentire l’intervento non avrà alcuna efficacia; in ogni situazione di guerra civile l’accertamento del consenso all’uso
della forza da parte di un terzo stato dovrà dunque essere effettuato con la massima cautela.
Il consenso non varrà a giustificare un comportamento vietato da norme imperative le quali, non suscettibili di deroga
mediante il consenso che si esprime in un trattato internazionale, non possono essere violate invocando la scriminante
della manifestazione di volontà dello stato leso.
L’intervento umanitario e la responsabilità di proteggere
In tempi recenti è cresciuto il dibattito circa l’ammissibilità, nel diritto internazionale generale, di un diritto di intervento
umanitario in capo agli stati singolarmente considerati, per reagire alla violazione di diritti umani fondamentali che si
verifica nel territorio di uno stato terzo, senza che il sovrano territoriale chieda di mettere fine a tali violazioni.
È un problema che non può essere apprezzato isolatamente, essendo in connessione con le altre linee evolutive
dell’ordinamento internazionale.
È nota la progressiva contrazione dell’area di dominio riservata agli stati, specie a fronte di violazioni dei diritti
fondamentali dell’individuo, il quale specularmente ha assunto nell’ordinamento internazionale una rilevanza mai
conosciuta. Distinto, seppur correlato, è il fenomeno rappresentato dall’affermazione dell’esistenza nell’ordinamento
internazionale di obblighi erga omnes vincolanti l’intera comunità internazionale e suscettibili di essere fatti valere da
qualsiasi stato agente uti universi. Divenendo la tutela dei diritti fondamentali della persona oggetto di un obbligo erga
omnes, la sua massiccia violazione consente di la reazione da parte di qualsiasi stato della comunità internazionale
agente nell’interesse della medesima, anche attraverso l’uso della forza, quando il meccanismo di sicurezza collettiva
delle NU non funziona.
Di tale fenomeno si prospettano dunque ricadute normative anche sul piano delle cause di giustificazione dell’illecito,
l’esame della prassi non offre tuttavia elementi tali da indurre l’interprete a rilevare/negare con certezza l’esistenza di un
diritto di intervento umanitario. In molti casi l’intervento armato contribuì a salvare vite e a porre fine a situazioni di
degrado, gli stati che lo effettuarono si astennero però dall’invocare espressamente un diritto all’intervento umanitario,
preferendo ricorrere spesso all’istituto della legittima difesa, specie quando l’iniziativa si collocava in una situazione di
conflitto tra lo stato intervenente e quello territoriale.
Le ampie contestazioni che gli interventi umanitari hanno finora sollevato e il carattere relativamente recente della prassi
rendono difficilmente ipotizzabile l’attuale configurazione di una norma consuetudinaria che legittimi l’uso della forza a
scopi umanitari. L’impiego della forza a finalità umanitarie è ancora rimesso alla valutazione del consiglio di sicurezza
(che può non essere in grado di intervenire a causa del veto imposto da uno dei membri permanenti). Non è però da
escludere che il sistema si stia evolvendo verso la creazione di una nuova causa di giustificazione dell’uso della forza.
Quando anche la regola dell’intervento umanitario dovesse consolidarsi, la liceità dell’impiego della forza dipenderà
anche dalle modalità con cui gli stati intervenuti se ne avvarranno: obiettivo dell’intervento è di far cessare la crisi
umanitaria, non quello di assicurare la pace, stabilizzando le relazioni internazionali di quel paese (obiettivo precipuo del
consiglio di sicurezza); la regola incontrerà dunque comunque i limiti della necessità e della proporzionalità rispetto
all’obiettivo, sebbene l’apprezzamento di tali parametri sarà rimesso alla valutazione unilaterale dei singoli stati il che
potrebbe comportare il rischio di abusi.
Più in generale, la possibilità di configurare un diritto degli stati di ricorrere unilateralmente alla forza armata di fronte ad
una serie di violazioni di obblighi erga omnes implica l’affidamento alla valutazione unilaterale degli stessi dell’esistenza
della violazione, situazione che può velocemente degenerare.
Una risposta all’esigenza di elaborare strumenti per consentire alla comunità internazionale di reagire contro massicce
violazioni dei diritti umani fondamentali è stata ricercata nella dottrina della responsabilità di proteggere (responsability to
protect) che, nella formulazione originaria, poggia sul principio per cui la sovranità degli stati implica responsabilità di
protezione della propria popolazione e nel caso in cui uno stato non intenda/riesca a rimuovere la guerra
interna/insurrezione che reca pregiudizio alla propria popolazione, il principio di non ingerenza cede a favore della
responsabilità internazionale di proteggere.
Accogliendo tale dottrina, l’assemblea generale dell’ONU, ha sottolineato da un lato, la responsabilità di ogni stato di
proteggere le propria popolazione e, dall’altro, la responsabilità della comunità internazionale, attraverso le NU, di
utilizzare idonei mezzi pacifici per aiutare e proteggere le popolazioni vittime di crimini di guerra o genocidi.
Tali principi sono stati solennemente riaffermati dal consiglio di sicurezza nella risoluzione n. 1674/2006 e sono stati
oggetto di un rapporto del segretario generale Ban Ki-Moon nel 2009.
I documenti a riguardo non sono però privi di ambiguità quanto all’aspetto consistente nell’ammettere che la responsabilità
di proteggere possa giustificare interventi militari unilaterali contro uno stato che venga meno ai propri doveri di protezione.
Non pare che una soluzione in tal senso sarebbe conforme al diritto internazionale attualmente vigente.
L’intervento a protezione dei cittadini all’estero
L’intervento che lo stato compie nel territorio di un altro stato per salvare la vita o i diritto fondamentali dei propri cittadini
senza il consenso dello stato territoriale, si distingue dall’intervento umanitario dal punto di vista della norma primaria
violata: nel caso dell’intervento umanitario l’obbligo violato è uno erga omnes, mentre nell’altro caso lo stato interviene in
risposta alla violazione degli obblighi di protezione dello straniero, diritto esclusivo dello stato che interviene.

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Prima dell’entrata in vigore della Carta delle NU, si riconosceva l’esistenza di una norma di diritto internazionale generale
a favore dell’intervento in analisi; anche successivamente la prassi sembra orientata nel senso di ammettere l’intervento
a protezione dei propri cittadini sebbene, secondo alcune teorie, non assurgerebbe ad autonoma causa di giustificazione
dell’uso della forza. Nei casi in cui è stato condannato dall’assemblea generale, ciò è probabilmente imputabile alle
dimensioni sproporzionate che esso ha assunto nel caso concreto rispetto alla semplice protezione dei propri cittadini.
La prassi consente di confermare l’esistenza di una causa di giustificazione autonoma, la cui operatività resta però
subordinata ad alcune condizioni (Waldock’s criteria):
a. Attuale pericolo di gravi violazioni a danno dei propri cittadini;
b. Assenza di protezione adeguata da parte del sovrano territoriale;
c. Proporzionalità dell’intervento all’obiettivo di protezione del cittadino.
La mancanza delle prime due condizioni non consente allo stato di intervenire, il mancato rispetto del principio di
proporzionalità (spesso dovuto a finalità ulteriori) implica la violazione del divieto dell’art. 2.4 della Carta.
Stato di necessità, caso fortuito, forza maggiore, estremo pericolo (distress)
Assai incerta -e comunque limitata- è la possibilità di invocare, per giustificare l’uso della forza, di altre cause previste dal
diritto internazionale generale.
- Stato di necessità: ravvisabile nei casi in cui uno stato compia l’illecito nei confronti di un altro stato per far fronte ad
un pericolo grave ed imminente per un suo interesse essenziale. Il suo tratto distintivo risiede nel fatto che lo stato
che agisce in una situazione di necessità realizza un comportamento illecito contro uno stato che non è
responsabile della lesione dell’interesse essenziale a salvaguardia del quale la forza viene impiegata. La possibilità
di invocare lo stato di necessità è però subordinata al fatto che il comportamento illecito non deve pregiudicare un
interesse essenziale dello stato nei cui confronti era dovuto l’obbligo violato, esso inoltre non opera in relazione ad
obblighi posti da una norma di ius cogens. Queste condizioni non risultano soddisfatte nel caso dell’uso della forza.
- Caso fortuito e forza maggiore: sono giustificazioni che, presupponendo l’assenza di qualunque volontà colpevole
in capo all’individuo-organo, sono difficilmente invocabili nel caso del ricorso alla forza armata.
- Estremo pericolo: è stata avanzata la sua possibile idoneità a giustificare l’uso della forza a tutela dei diritti
fondamentali, il suo ambito di applicazione rimane però limitato dalla necessità che l’impiego della forza avvenga
per salvare la vita del soggetto che agisce, oppure di persone affidate alla sua cura.
Il sistema di sicurezza collettiva delle NU e il Consiglio di Sicurezza
L’ONU conta attualmente 193 membri, i principali obiettivi sono:
1. Il mantenimento della pace
2. La promozione del principio di autodeterminazione dei popoli
3. La protezione dei diritti dell’uomo
Il mantenimento della pace rappresenta la principale finalità, cui la Carta subordina gli altri obiettivi.
Nel sistema della Carta, il divieto dell’uso della forza (art. 2.4) si articola in un complesso di disposizioni che dovrebbero
assicurarne concreta efficacia; corollario del divieto è così l’attribuzione alla stessa ONU sia di funzioni conciliative che del
potere di adottare misure coercitive nei confronti degli stati.
L’organo a cui è affidata la responsabilità principale del mantenimento della pace è il consiglio di sicurezza, l’unico a poter
adottare misure, anche implicanti l’uso della forza, per mantenere la pace.
Il consiglio di sicurezza è un organo che nella sua composizione riflette l’equilibrio planetario successivo alla seconda
guerra mondiale: è composta da 15 membri delle NU, 10 dei quali non permanenti, ma eletti ogni due anni
dall’assemblea generale (5 eletti tra gli stati dell’Africa e dell’Asia, 1 tra quelli dell’Europa orientale, 2 tra gli stati
dell’America Latina, 1 tra gli stati dell’Europa occidentale e altri stati). I 5 membri permanenti sono indicati dall’ art. 23
della Carta e sono: Repubblica di Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti.
Dal punto di vista dello status giuridico, la principale differenza tra le due categorie di membri risiede nel diritto di voto,
disciplinato dall’art. 27: la regola generale è il principio maggioritario, tuttavia viene introdotta una distinzione tra le
questioni di procedura, in cui basta il voto favorevole di 9 membri, e ogni altra questione, in cui serve il voto favorevole di
9 membri compresi i voti dei membri permanenti. Si tratta della formula di Yalta, con cui l’adozione di una delibera non
meramente procedurale del consiglio di sicurezza è subordinata al voto favorevole dei 5 membri permanenti, a cui
dunque è riconosciuto il potere di veto; peraltro la prassi ha mitigato la portata della regola, finendo con ammettere la
validità di deliberazioni adottate con l’astensione di uno o più membri permanenti.
La pratica, che in dottrina è stata qualificata come una vera e propria consuetudine modificativa della carta, ha favorito
l’attività del consiglio, anche se la pratica delle astensioni non contribuisce a rafforzare l’autorevolezza delle sue
deliberazioni, e di conseguenza l’ottemperanza degli stati.
Più in generale, la struttura e le regole di funzionamento del consiglio di sicurezza proiettano l’immagine di una comunità
internazionale non più corrispondente alla realtà; ciò spiega le iniziative, sin dalla fine della guerra fredda, con cui si è
chiesto al segretario generale di invitare gli stati a presentare osservazioni scritte per una riforma del consiglio di sicurezza
Nel 2015, i rappresentanti di Francia e Messico hanno presentato la Dichiarazione politica sulla sospensione del veto in
caso di atrocità di massa, con cui proponevano ai membri permanenti di impegnarsi a non esercitare il veto nei confronti
di progetti di risoluzioni miranti ad impedire/porre termine a genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra: oltre alla
Francia nessuno altro membro permanente risulta tra i firmatari.
In ogni caso, dal 1990, il consiglio di sicurezza ha fortemente accresciuto la propria attività, assumendo un ruolo più
interventista nella gestione delle crisi internazionali, ad un approfondita analisi non dovrebbe però sfuggire che alcuni dei
membri permanenti tendono ad orientare il ruolo del consiglio di sicurezza verso interventi rispetto a situazioni critiche
non sempre pacificamente riconducibili ai necessari presupposti della rottura e della minaccia della pace internazionale.

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Il ruolo dell’Assemblea Generale e degli altri organi nell’ONU


Dell’assemblea generale fanno parte tutti i membri dell’ONU, con un massimo di 5 rappresentanti per stato che hanno
comunque il diritto ad un solo voto. La sua competenza si estende a qualsiasi questione o argomento che rientri nei fini
della Carta o che abbia riferimento ai poteri e alle funzioni degli organi previsti dalla Carta. All’ampiezza della
competenza per materia non si accompagna però il potere di adottare atti giuridici obbligatori, essendo i poteri
dell’assemblea limitati alla formulazione di raccomandazioni dirette ai membri e/o al consiglio di sicurezza.
Nella materia della pace e della sicurezza internazionale, l’assemblea può discutere ogni questione che le sia sottoposta
da qualsiasi membro delle NU e può formulare raccomandazioni agli stati interessati, a meno che in relazione ad una
specifica situazione o controversia il consiglio di sicurezza stia esercitando le sue funzioni.
La competenza dell’assemblea generale ad adottare o raccomandare misure coercitive finalizzate al mantenimento della
pace e della sicurezza è stata ritenuta legittima dalla CIG, riportandola alle funzioni conciliative dell’assemblea e
rilevando che in materia di azioni coercitive nei confronti di uno stato che abbia minacciato/violato la pace, la
responsabilità conferita al consiglio è principale ma non esclusiva, si tratta in ogni caso di un potere difficilmente
conciliabile con l’art. 11.2. tale inconciliabilità però sussiste con riferimento all’adozione di vere e proprie azioni da parte
delle NU, mentre fuori da questa ipotesi è ormai acquisita la conformità all’art. 12 di una sorta di parallelismo di
competenza tra consiglio e assemblea con riferimento al mantenimento della pace. Si rileva poi che il limite che
l’assemblea incontra nell’esercizio delle funzioni da parte del consiglio è dettato solo con riferimento all’adozione di
raccomandazioni, e non anche con riguardo ad iniziative dell’assemblea non dotate di rilevanza esterna, come la
richiesta di un parere consultivo alla CIG ai sensi dell’art. 96.
Al vertice dell’apparato amministrativo delle NU vi è il segretario generale, nominato dall’assemblea su proposta del
consiglio di sicurezza, con funzioni amministrative e funzioni politiche che altri organi eventualmente gli affidino; nella
materia del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è la stessa Carta che gli attribuisce il potere di
attirare l’attenzione del consiglio di sicurezza su qualunque questione che possa minacciare il mantenimento della pace
e della sicurezza internazionale.
Principale organo giudiziario delle NU è la CIG, regolata da uno statuto, è composta da 15 giudici che siedono a titolo
personale per mandato di 9 anni rinnovabile. Essa è chiamata ad esercitare una competenza contenziosa per la
soluzione delle controversie tra stati e una competenza consultiva attraverso la formulazione di pareri su qualunque
questione giuridica a richiesta dell’assemblea o del consiglio. Gli altri organi delle NU e gli istituti specializzati possono
egualmente chiedere pareri alla corte autorizzati e limitatamente a questioni giuridiche che sorgano nell’ambito delle loro
attività. Con riferimento al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e quindi all’uso della forza, la
competenza della corte non subisce limitazioni per il carattere spiccatamente politico delle controversie.
Gli atti del Consiglio di Sicurezza nell’ambito del capitolo VII della Carta
I poteri del consiglio di sicurezza nel quadro del capitolo VII della Carta consistono innanzitutto nell’accertamento
dell’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione. La constatazione di una
delle tre situazioni consente un intervento attivo nella crisi che può manifestarsi con l’adozione di misure provvisorie
finalizzate ad evitare ulteriori aggravamenti della situazione, successivamente il consiglio può raccomandare o decidere
l’adozione di misure sanzionatorie ma non implicanti l’uso della forza armata, solo se queste si sono rilevate inidonee al
mantenimento/ristabilimento della pace potrà agire usando la forza armata. Nell’esercizio delle competenze cui agli artt.
41-42, può formulare raccomandazioni e ricorrere a decisioni vincolanti per gli stati.
L’accertamento della minaccia alla pace, della violazione della pace e dell’atto di aggressione
L’accertamento di una situazione di fatto in cui si concreta l’esistenza di una minaccia/violazione della pace e di un atto
di aggressione è effettuato dal consiglio sulla base di valutazioni ampiamente discrezionali: assumono così rilievo tanto
situazioni internazionali quanto situazioni meramente interne ad uno stato, anch’esse comunque idonee a condurre ad
un turbamento della pace e della sicurezza internazionali nella regione. La rilevanza di situazioni ancora meramente
interne trova conferma con riferimento alle misure coercitive adottate ai sensi del capitolo VII della Carta, nel fatto che ad
esse non può essere opposto il limite del rispetto della competenza interno dello stato (art. 2.7 Carta).
La politica di segregazione razziale, il rovesciamento di un governo legittimamente in carica, le situazioni di massiccia
violazione dei diritti umani all’interno di uno stato e il terrorismo internazionale sono considerati una minaccia alla pace.
La minaccia alla pace è quindi una nozione estesa ed indefinita, ravvisabile senza dubbio nelle violazioni di obblighi
internazionali erga omnes. La dilatazione della nozione di minaccia alla pace è il risultato dell’atteggiamento
particolarmente attivo del consiglio di sicurezza a partire dai primi anni ’90, consistente nell’ammettere che la minaccia
possa discendere anche dalla violazione di un obbligo non relativo all’uso della forza; in altri casi la minaccia è stata
ravvisata anche laddove non era configurabile la violazione di un obbligo internazionale, sussistendo comunque un
pericolo di turbamento dell’ordine pubblico tale da poter generare un problema di sicurezza internazionale.
Meno indeterminate sono le nozioni di “violazione della pace” e di “atto di aggressione”, entrambe caratterizzate
dall’impiego della violenza bellica nelle relazioni internazionali; il consiglio di sicurezza ha fatto raramente uso a tali
definizioni, limitandole a situazioni di invasioni di un territorio da parte di forze armate di un altro paese.
La nozione di “aggressione” è ricavabile anche dalla risoluzione 3314/1974 sulla Definizione dell’aggressione, ricordando
però che la valutazione del consiglio non è vincolata dalle ipotesi definitorie che compaiono nella risoluzione, potendo
ritenere che uno degli atti espressamente individuati non costituisca nel caso di specie un atto di aggressione o al
contrario che un atto non considerato dalla Definizione integri invece gli estremi dell’aggressione.
Le misure provvisorie
Accertata la sussistenza di una situazione contemplata dall’art. 39 della Carta, il consiglio può invitare le parti interessate
ad ottemperare alle misure provvisorie che consideri necessarie. Le misure provvisorie hanno una finalità cautelare: la
loro adozione non mira a pregiudicare la soluzione definitiva della controversia, ma semplicemente a scongiurare

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l’aggravarsi della situazione. Dal punto di vista logico le misure cautelari dovrebbero essere adottate prima delle misure
sanzionatorie, nei fatti però la cronologia può essere superata dalla valutazione del consiglio.
Dal punto di vista sostanziale, le misure provvisorie hanno un contenuto atipico, la norma pone solo il limite di non
pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate. Nei casi di flagrante violazione della pace, come nel
caso di un attacco armato o di un’invasione con occupazione militare del territorio altrui, la misura cautelare è talvolta
preceduta dalla constatazione della responsabilità internazionale di uno dei due contraenti.
Dal punto di vista formale, le misure provvisorie non hanno efficacia vincolante, devono quindi essere qualificate come
raccomandazioni: l’assenza della vincolatività discende dallo stesso art. 40; ovviamente il mancato accoglimento della
misura verrà tenuto in debito conto dal consiglio ai fini delle successive valutazioni in ordine all’eventuale adozione di
misure coercitive.
Le misure non implicanti l’uso della forza
L’accertamento delle situazioni di minaccia alla pace, di violazione della pace o di aggressione, abilita il consiglio ad
adottare misure a carattere sanzionatorio o normativo nei confronti del soggetto responsabile: l’art. 41 della Carta prende
in considerazione le misure non implicanti l’impiego della forza armata che possono presentare contenuto assi vario,
purché diretto a costringere -senza l’impiego delle armi- lo stato responsabile ad ottemperare alla decisione del consiglio.
L’elencazione dei possibili contenuti che compare nello stesso art. 41 è da ritenersi meramente esemplificativa.
La prassi evidenzia un frequente ricorso al blocco delle relazioni economiche del paese interessato attraverso l’embargo.
Ai sensi dell’art. 41 vengono stabilite talvolta misure con cui il consiglio chiede agli stati membri di non riconoscere alcun
effetto giuridico alle situazioni create dalla violazione della pace ed agli atti compiuti nei territori conquistati al seguito di
tale violazione.
Le minacce rappresentate dal terrorismo internazionale hanno richiesto l’adozione di misure non implicanti l’uso della forza
finalizzate ad annientare le risorse finanziare che alimentano l’attività delle organizzazioni terroristiche; ’individuazione dei
sospetti terroristi destinatari di tali sanzioni avviene mediante l’iscrizione in apposite liste sulla base di informazioni
segrete. Tale procedimento altamente discrezionale ha però sollevato problemi di rispetto dei diritti umani fondamentali, a
tali inconvenienti il consiglio ha ovviato con l’introduzione un’apposita procedura di cancellazione e stabilendo che gli stati,
nel proporre nominativi da inserire nelle liste, debbano fornire informazioni dettagliate sul motivo dell’inserimento.
Le misure non implicanti l’uso della forza possono essere oggetto tanto di una raccomandazione quanto di una decisione
vincolante gli stati membri.
I tribunali penali internazionali
Misura fortemente atipica rispetto alla prassi applicativa dell’art. 41 è l’istituzione di due tribunali penali internazionali per
giudicare i responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse nel territorio dell’ex Jugoslavia e
in Ruanda. L’atipicità della misura ha suscitato un vasto dibattito dottrinale circa il suo fondamento giuridico, da taluni
individuato nell’art. 42, da altri non riconducibile al capitolo VII della Carta.
Le misure implicanti l’uso della forza
Nel caso in cui le misure non implicanti l’uso della forza si rivelino inidonee a conseguire l’obiettivo di mantenere/restaurare
la pace, il consiglio in base all’art. 42 può intraprendere ogni azione che sia necessaria. Va peraltro subito osservato che per
la legittima adozione delle misure belliche, non è richiesto il previo esperimento delle misure non implicanti l’uso della forza:
la norma si limita a richiedere un giudizio del consiglio circa l’inadeguatezza -in astratto o in concreto- delle misure pacifiche.
La prospettiva di gradualità costituisce un limite al potere del consiglio solo nel senso di porre l’uso della forza come
estrema ratio per la soluzione di una situazione di minaccia/violazione della pace, confermando così indirettamente il
valore del principio del divieto dell’uso della forza: al di fuori della legittima difesa, il solo caso di legittimo impiego della
forza armata è quello previsto dalle azioni ex art. 42, la cui decisione è di competenza del consiglio.
Il monopolio del consiglio nella gestione della forza avrebbe dovuto estendersi non solo alla decisione dell’azione, ma
anche alla sua attuazione concreta, sul piano strettamente operativo: gli artt. 43-47 prevedono un sistema basato
sull’impiego di forze armate nazionali, ma sotto un comando internazionale facente capo al consiglio, coadiuvato da un
comitato si stato maggiore composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del consiglio. Tuttavia, gli accordi
finalizzati a rendere operativo tale sistema non sono mai stati conclusi, sebbene fossero oggetto di un vero e proprio
obbligo de contrahendo.
Il ricorso alla forza “autorizzata”
La fine della contrapposizione tipica della guerra fredda, che aveva pressoché bloccato l’attività del consiglio, ha dato
vita ad una prassi apparentemente incompatibile con il sistema degli art. 43ss, consistente in un’autorizzazione del
consiglio di sicurezza agli stati membri ad usare la forza per conseguire l’obiettivo indicato dal consiglio medesimo.
Lo schema è molto diverso da quello previsto dalla Carta, che conosce lo strumento dell’autorizzazione all’uso della
forza, ma solo a vantaggio di organizzazioni internazionali a carattere regionale le cui attività siano conformi a fini e
principi delle NU. In questa prassi, invece, l’autorizzazione è diretta agli stati che quindi impiegano la forza militare non
sotto il diretto controllo del consiglio, ma stabilendo autonomamente le concrete modalità operative, gli obiettivi, i tempi e
tutti i restanti aspetti tecnici; il solo vincolo sarà rappresentato dalla finalità che il consiglio indica.
In pratica, il consiglio si lita a rimuovere un ostacolo all’impiego della forza armata da parte degli stati che, in deroga al divieto
ex art. 2.4, tornano liberi nell’esercizio delle ius ad bellum con il solo limite del rispetto dell’obiettivo stabilito dal consiglio.
Alla forza armata autorizzata si è fatto ricorso anche per garantire la corretta applicazione di misure non implicanti l’uso
della forza: tale soluzione non è illegittima, almeno laddove la violazione della sanzione economica fornisca la prova
della sua inadeguatezza ad assicurare l’obiettivo di ristabilimento/mantenimento della pace.
Il modello dell’autorizzazione fa sorgere perplessità sotto l’aspetto del controllo delle operazioni militari che, di fatto, è
consegnato interamente agli stati, i quali si limitano a tenere informato il consiglio delle loro scelte, spesso non
totalmente compatibili con la sola restaurazione della pace: ciò accade in modo evidente quando la delega del consiglio

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è una delega in bianco. Le autorizzazioni agli stati all’impiego della forza sono state variamente valutate in dottrina, la
prassi ha comunque evidenziato come gli stati considerino tale modello implicitamente riconducibile al sistema della
Carta, ricorrendo ad esso non solo a fronte di violazioni di obblighi erga omnes non considerati dalla carta, ma anche
nelle ipotesi di violazioni al divieto dell’uso della forza.
L’inammissibilità di un’autorizzazione implicita
Indispensabile è in ogni caso che l’autorizzazione ci sia e che sia formulata esplicitamente dal consiglio, non potendo
trovare fondamento giuridico le tesi che vorrebbero ricavare la legittimità dell’uso della forza da un’autorizzazione
implicita del consiglio di sicurezza, che si è preteso ravvisare in situazioni differenti.
La prima ipotesi è quella di una risoluzione del consiglio che si limiti a constatare una minaccia della pace senza nulla
disporre in ordine all’uso della forza armata. Altra ipotesi di autorizzazione implicita all’uso della forza si pretende di
ravvisare nella mancata approvazione da parte del consiglio di una proposta di risoluzione.
Più in generale, le constatazioni del consiglio circa l’esistenza di una minaccia alla pace non possono essere interpretate
come contenenti un’autorizzazione implicita agli stati ad usare la forza; non diversamente vale per le risoluzioni che
recano genericamente la menzione del diritto di legittima difesa.
Le manifestazioni di forza militare al di fuori dell’autorizzazione del consiglio possono trovare giustificazione non nel
sistema della Carta, ma al massimo nel diritto internazionale generale laddove siano rilevabili norme consuetudinarie
che ammettono eccezioni all’uso della forza, ulteriori rispetto alla legittima difesa, in nome di principi non considerati
dalla Carta ma che non ne contraddicono i fini.
Le misure di peace-keeping
Di fronte all’impossibilità del funzionamento del meccanismo prefigurato dagli artt. 43-47 della Carta, le NU hanno
elaborato modelli alternativi di intervento per fronteggiare le crisi internazionali nel cui ambito venivano pregiudicate la
pace e la sicurezza internazionale. Tra questi modelli spiccano le operazioni di peace-keeping, che si caratterizzano per
l’impiego di forze armate la cui funzione è limitata alla garanzia dell’attuazione del cessate il fuoco, scongiurando così la
ripresa delle ostilità. L’uso delle armi è normalmente vietato alla forza di peace-keeping, salvo per legittima difesa.
L’intervento della forza delle NU è subordinato al consenso dello stato territoriale e il su contegno è caratterizzato dalla
rigorosa neutralità rispetto alle parti in conflitto.
La forza di peace-keeping è composta da contingenti messi a disposizioni dagli stati su richiesta del segretario generale
e dietro la conclusione di accordi ad hoc. L’operazione è deliberata dal consiglio, che ne mantiene la responsabilità
politica ed incarica il segretario generale di darvi attuazione; il segretario nomina un comandate che assume la direzione
militare dell’operazione ; ciascun contingente nazionale è guidato da un comandate nazionale.
A partire dall’inizio degli anni ’90 il ricorso al modello del peace-keeping è andato crescendo d’intensità e assumendo
modalità prima inedite. In dottrina, ma anche da parte delle NU, si sono proposte classificazioni del nuovo e diversificato
panorama di peace-keeping operations, individuando operazioni di prima, seconda e terza generazione, ovvero di post-
conflict peace-keeping e di peace-enforcement, oltre che di peace-keeping.
La distinzione è data, nelle operqzioni di seconda generazione, da un mandato che investe oltre ad obiettivi di tipo
militare, anche finalità di ordine sociale e umanitario e anche, in senso lato, politico. Nel peace-enforcement il mandato
non è più quello di meramente garantire il cessate il fuoco, ma di conseguire la pacificazione in un’area, oppure un
obiettivo di soccorso umanitario anche attraverso l’impiego della forza armata.
La distinzione tra missioni di peace-keeping e di peace-enforcement non risulta sempre agevole dal momento che
talvolta alle forze di interposizione presenti in situazioni di guerra civile sono stati successivamente affiancati contingenti
aventi lo specifico compito di ristabilire il controllo del governo legittimo sul territorio, anche attraverso la forza nei
confronti dei secessionisti.
Però, la commistione all’interno di un’unica missione internazionale di funzioni di mantenimento della pace, in regime di
neutralità rispetto alle parti in conflitto, e funzioni di sostegno militare al governo territoriale comporta il rischio di
confondere i diversi modelli di intervento delle NU nei contesti di conflitto armato interno, minandone l credibilità e
compromettendo l’obiettivo di ristabilire la pace e di protegger i civili.
La multiforme evoluzione della prassi ha aggravato i problemi di identificazione della base giuridica delle operazioni di
peace-keeping all’interno della carta: la base giuridica più corretta sembra essere l’art. 42, è peraltro vero che il modello
originario di peace-keeping (di prima generazione), che non consente l’impiego della forza armata se bon per legittima
difesa, può forse essere ricondotto più propriamente ad una consuetudine modificativa -in senso estensivo- del capitolo
VI della Carta.
Va peraltro sottolineato che l’evoluzione del peace-keeping attraverso la frantumazione del modello originario è coerente
con un certo modo di leggere l’evoluzione dell’ordinamento internazionale anche dal punto di vista normativo.
L’emersione degli obblighi erga omnes e la correlata legittimità di azioni degli stati nell’interesse collettivo della comunità
internazionale dà luogo all’affermarsi di un certo unilateralismo nella gestione delle crisi, che ha inciso sui rapporti degli
stati con le NU: da un lato, ha introdotto la prassi delle autorizzazioni all’uso della forza da parte degli stati e fuori dal
comando dell’ONU, dall’altro va creando nuovi modelli di peace-keeping che spesso si affiancano all’azione unilaterale,
per la realizzazione di valori che vanno al di là della mera affermazione della pace.

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CAPITOLO IX
L’INDIVIDUO E LA TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI
di Bruno Nascimbene

SEZIONE I: la condizione giuridica dell’individuo e la tutela dei suoi diritti


La personalità internazionale dell’individuo: tradizione ed evoluzione
Il tema della personalità e condizione giuridica dell’individuo nel diritto internazionale è tradizionalmente esaminato come
uno dei profili problematici della teoria dei soggetti, ovvero come il tema principale attorno a cui ruota la tutela dei diritti
dell’uomo nel diritto internazionale. L’esame dei due profili è difficilmente distinguibile se si ritiene che il primo è
ampiamente influenzato dal secondo e che le conclusioni cui perviene la dottrina a favore della personalità internazionale
dell’individuo sono influenzate dall’incidenza nella comunità internazionale della tutela di diritti della persona.
Gli studi recenti sottolineano l’insoddisfazione della teoria tradizionale che qualifica come soggetti del diritto
internazionale gli enti e le organizzazioni collettive dotate di sovranità, autonomia, indipendenza, quali gli stati e le
organizzazioni internazionali di stati. La distinzione tra diritto interno, che ha come destinatari gli individui, e
diritto/ordinamento internazionale, in cui gli stati sono destinatari e attori, è ancor oggi prevalente; si confrontano poi
ancora le teorie dualiste e moniste.
L’insoddisfazione per la soluzione offerta dal diritto internazionale classico si fonda su diversi elementi, riassunti nei
mutamenti della composizione e struttura della comunità, non più stato-centrica, ma individuo-centrica.
Per effetto di determinante convenzioni internazionali vengono introdotte valutazioni nuove rispetto alla tradizione: tali
convenzioni si pongono l’obiettivo di tutelare gli individui singolarmente (o in formazione collettiva o aggregazioni)
riconoscendo loro diritti sostanziali e garanzie di carattere giurisdizionale, rendendoli effettivi. Medesimo effetto che si è
ottenuto con la previsione di una responsabilità penale personale dell’individuo che commette crimina iuris gentium, oggi
punibili e giustiziabili secondo norme e procedure di diritto internazionale. La conseguenza è infatti l’affermazione della
personalità internazionale dell’individuo o quantomeno di una personalità limitata, circoscritta alla soddisfazione di
esigenze peculiari.
La protezione dell’individuo: diritto umanitario e diritti dell’uomo
Le norme internazionali di diritto umanitario e dei diritti dell’uomo, pur avendo identità di scopo e matrici filosofiche e
ideali comuni, si sono sviluppate in tempi e modi diversi.
× Il diritto internazionale umanitario è l’insieme delle norme consuetudinarie e pattizie che hanno per oggetto la limitazione
della violenza bellica e la protezione delle vittime di guerra. Queste norme sono nate per regolare la condotta dei
belligeranti, proibendo loro di ricorrere a quei metodi e mezzi di guerra che causano danni superflui senza giustificazione,
infatti l’esigenza di porre al centro la protezione della persona è nata solo dopo la seconda guerra mondiale.
La codificazione che precede i conflitti mondiali trova la sua espressione nella Conferenza dell’Aja del 1899 e del
1907. Peraltro, l’evoluzione normativa ha significativa espressione nella clausola Martens, inserita nel preambolo
della IV Convenzione dell’Aja del 1907, che dà atto e intende supplire alla non completezza delle codificazioni,
riconoscendo l’esistenza di norme umanitarie non scritte, applicabili al fine di limitare l’inutile violenza bellica.
Il secondo gruppo di norme riconducibili alla nozione di diritto umanitario, che ha oggetto la protezione delle vittime di
guerra, è indicata con l’espressione “diritto di Ginevra”: la Convenzione di Ginevra del 1864 sulla protezione di feriti e
malati nella guerra terrestre ha dato origine al movimento internazionale della croce rossa, vi è poi la convenzione
del 1906 sull’assistenza dei feriti e malati in guerra, il protocollo del 1925 sul divieto dell’impiego in guerra di gas e di
armi batteriologiche. Nel 1949 furono inoltre concluse 4 convenzioni cui si aggiunsero nel 1977 due protocolli.
La distinzione fra diritto dell’Aja e di Ginevra, per quanto corretta sotto il profilo sistematico, non sembra essere più attuale:
queste due branche del diritto applicabile nei conflitti armati hanno infatti sviluppato ei rapporti internazionali così stretti
che sono considerate come elementi che hanno dato vita ad un unico sistema, il diritto internazionale umanitario.
× I diritti umani (o diritti dell’uomo) hanno trovato iniziale riconoscimento negli ordinamenti nazionali che, a partire dal
‘700, hanno riconosciuto ai singoli dei diritti cui corrispondono obblighi di stato. Le gravi violazioni dei diritti della
persona commesse all’epoca della seconda guerra mondiale spinsero la comunità internazionale a farsi promotrice
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, cui seguirono altri importanti documenti: diritti dell’uomo
riuscirono così a superare l’originalità della collocazione negli ordinamenti interni, cessando di appartenere alla sfera
della giurisdizione esclusiva, per porsi su un piano interstatale o internazionale, imponendo obblighi non condizionati
alla reciprocità della concessione o godimento.
Di diverso contenuto sono le categorie di diritti che gli strumenti internazionali contemplano, infatti pur essendovi un
nucleo di diritti comune, come il diritto alla vita e alla tutela della persona, si distinguono:
× Diritti di prima generazione: diritti civili e politici
× Diritti di seconda generazione: diritti economici e sociali
× Diritti di terza generazione: diritti dei popoli (es. diritto alla pace e allo sviluppo).
Si distinguono i diritti individuali da quelli collettivi, ossia si prendono in considerazioni i diritti in relazione ai doveri
dello stato. Così, a seconda dell’obbligo di facere o non facere dello stato, affinché i diritti civili possano essere
garantiti, occorre un comportamento di astensione dello stato nei confronti dell’individuo. Parimenti, affinché i diritti
politici possano essere garantiti, occorre una struttura istituzionale e un intervento dello stato, seppur diverso da
quello richiesto per i diritti economici, sociali e culturali. Per quanto possano essere diversamente classificati, con la
Dichiarazione conclusiva della Conferenza mondiale dei diritti si è ritenuto che tutti i diritti dell’uomo sono universali,
indissociabili, interdipendenti e intimamente connessi.

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L’ambito di applicazione delle norme in analisi


Per quanto riguarda il profilo temporale, il diritto umanitario si applica in tempo di guerra o di conflitto armato, mentre i
diritti umani trovano applicazione in tempo di pace.
Questo criterio è però semplicistico e non del tutto esatto, poiché i diritti umani hanno natura generale rispetto ai primi e
quindi, come disposto anche dall’art. 4 del Patto sui diritti civili e politici del 1966 e dalla CEDU, sono previste deroghe
alla tutela dei diritti fondamentali in caso di guerra, stato di emergenza od altra calamità pubblica che minacci la vita della
nazione, fatto salvo per i diritti assoluti della persona, mai derogabili né sospendibili.
Quanto al profilo soggettivo, la disciplina dei diritti umani investe i rapporti che intercorrono tra lo stato e le persone,
poiché si pone come scopo la tutela dell’individuo nei confronti del governo dello stato stesso, le regole del diritto
umanitario si impongono invece ai belligeranti.
L’individuo beneficiario delle norme di entrambi i sistemi viene in rilievo sotto profili diversi: nel caso dei diritti umani gli
sono attribuiti diritti attivi (o soggettivi) che può vedere tutelati o può ottenerne la garanzia e rispetto; il diritto umanitario
tende invece a considerare l’individuo come soggetto passivo, proteggendolo in quanto vittima nell’ambito di conflitti
armati, sia internazionali, sia interni. Si tratta quindi di due profili diversi, ma complementari, di tutela dell’individuo: diritti
soggettivi/attivi per diritti umani e diritti oggettivi/passivi per il diritto umanitario.
Riconoscimento di diritti allo straniero e protezione diplomatica
Il riconoscimento di diritti allo straniero è uno dei profili più significativi dell’evoluzione dei diritti dell’uomo, l’obbligo di
protezione diplomatica era infatti sempre stato inteso solo nei confronti del proprio cittadino.
L’impostazione tradizionale, che corrisponde all’assetto stato-centrico della comunità internazionale, è affermata dalla
corte permanente di giustizia internazionale e dalla CIG, secondo le quali lo stato deve essere considerato come giudice
esclusivo nel decidere se e a chi concedere la propria protezione.
Una visione più moderna, che tiene conto dei diritti dell’individuo che però si deve comunque rivolgere al proprio stato
perché faccia valere i propri interessi e i propri diritti nei confronti dell’altro stato che li abbia violati, è affermata in epoca
più recente anche dalla CIG, che ha confermato un’evoluzione in corso dell’istituto accogliendo la tesi della Germania
che lamentava la violazione da parte degli USA dell’art. 36 della convenzione di Vienna del 1963: il diritto sostanziale
dell’individuo appare distinto e tutelabile in via autonoma, anche se il diritto o la legittimazione processuale davanti alla
corte appartiene solo allo stato.
L’evoluzione in corso dell’istituto della protezione diplomatica è confermata anche dal progetto di articoli sulla protezione
diplomatica, adottato nel 2006, nell’ambito del processo di codificazione delle norme di diritto internazionale promosso
dalla commissione di diritto internazionale, ove si tiene conto dei diritti della persona in quanto tale, piuttosto che di quelli
del cittadino o del paese di appartenenza. L’assemblea generale ONU nel 2013 ha istituito un working group on
diplomatic protection incaricato di esaminare la possibilità di elaborare una convenzione a partire dal progetto del 2006,
anche alla luce delle osservazioni fornite dai governi nazionali e del dibattito svoltosi in seno alle varie sessioni di lavoro
dell’assemblea. Significative appaiono le considerazioni contenute nel commentario al progetto, che mettono in evidenza
la progressiva evoluzione della posizione diplomatica.
Secondo un’impostazione tradizionale, l’esercizio della protezione diplomatica in caso di violazione di un diritto
commessa all’estero da uno stato straniero nei confronti del cittadino costituiva una prerogativa statale che veniva
esercitata dallo stato di organi sulla base di una finzione: la protezione dei diritti del cittadino era assicurata fingendo che
la violazione fosse stata perpetrata ai danni dello stato stesso. Oggi, in quanto l’individuo è destinatario diretto di alcune
norme primarie del diritto internazionale generale e speciale che ne tutelano la posizione nei confronti sia dello stato di
origine sia di quello straniero allorché l’individuo si trovi all’estero, l’impostazione è cambiata; la commissione di diritto
internazionale ha mutato il testo dell’art. 1 del progetto, che riconosceva l’esercizio di un diritto spettante allo stato,
cosicché nella formulazione attuale la disposizione lasci aperta la questione se la protezione diplomatica sia esercitata
dallo stato di origine a tutela di un proprio diritto o di un diritto del cittadino o di entrambi.
L’art. 8 del progetto viene anch’essa qualificata come norma di sviluppo progressivo del diritto internazionale in quanto
consente l’esercizio della protezione diplomatica anche nei confronti del non cittadino qualora questo sia apolide o
rifugiato (su questo profilo la CIG sembra tuttavia continuare ad adottare un approccio tradizionale).
Un aspetto rilevante del progetto di articoli riguarda poi la possibilità di intervento in caso di grave violazione dei diritti
umani: sebbene l’art. 2 riconosca che l’esercizio della protezione diplomatica spetti allo stato, che può decidere
discrezionalmente se intervenire, il commentario rileva che sarebbe possibile ravvisare in capo allo stato alcuni obblighi
di protezione dei propri cittadini che siano vittime di una grave violazione dei diritti umani. L’art. 19 formula pertanto una
raccomandazione rivolta allo stato a prendere nella dovuta considerazione la possibilità di intervenire, qualora si sia
verificato un pregiudizio importante per il proprio cittadino.
Il tema della protezione diplomatica e consolare ha ricevuto crescente attenzione anche nell’UE. L’istituto della
protezione diplomatica, che si caratterizza come un diritto derivante dalla cittadinanza dell’unione, è stato introdotto
insieme a quest’ultima dal trattato di Maastricht. A seguito del trattato di Lisbona del 2009 esso è previsto all’art. 20 e 23
TFUE. L’art. 23 dispone che ogni cittadino UE gode, nel territorio di un paese terzo nel quale lo stato membro di cui ha la
cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi stato membro,
alle stesse condizioni dei cittadini di detto stato. La tutela diplomatica e consolare è espressamente riconosciuta quale
diritto fondamentale del cittadino dell’unione all’art. 46 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione. Un altro passo in
avanti è stato compiuto con l’adozione nel 2015 della direttiva UE 637/2015 del consiglio sulle misure di coordinamento
e cooperazione per facilitare la tutela consolare dei cittadini dell’unione non rappresentati in paesi terzi.
Il riconoscimento di diritti civili, politici, economici e sociali e limiti
La lettura in chiave moderna dei diritti dello straniero è significativamente influenzata dal diritto internazionale dei diritti
dell’uomo, che integra o si sostituisce, ove necessario, alle norme sul trattamento. L’orientamento della dottrina è
prevalente in tal senso, sottolineando l’apporto degli strumenti internazionali sui diritti umani, a partire dallo statuto delle

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NU e dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; una sorta di sintesi di tale orientamento è la risoluzione
dell’assemblea generale delle NU 40/144 del 1985.
La condizione dello straniero sembra essersi evoluta grazie all’importanza del principio di non discriminazione che,
insieme a quello di uguaglianza, rappresenta uno dei cardini del sistema internazionale dei diritti umani. Inserito nella
dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nella Carta ONU, il divieto di discriminazione ha trovato espresso
riconoscimento in tutti gli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani e viene sempre più spesso impiegato per
valutare la possibilità e la legittimità di limitazioni apposte alla condizione dello straniero.
Diritti essenziali e diritti del migrante
L’attenzione per il sistema dei diritti dello straniero è confermata dalla nomina da parte della commissione, di un relatore
speciale per i diritti umani dei migranti con il compito di verificare e controllare la condotta degli stati in materia di tutela
dei diritti umani, inviare comunicazioni ai governi, effettuare visite, condurre studi tematici.
La situazione dei migranti appare sotto vari aspetti differente rispetto a quella degli stranieri, che possono trovarsi solo
provvisoriamente sul territorio di uno stato diverso da quello di origine: i migranti mirano a risiedere nei paesi di
immigrazione per un periodo prolungato, se non addirittura in modo stabile, si pone dunque il problema relativo al
godimento di posizioni giuridiche collegate alla residenza stabile in uno stato.
I rapporti annuali presentati nel corso di un decennio all’assemblea generale hanno messo in luce gli aspetti più critici
nell’evoluzione del tema: la percezione dei migranti è caratterizzata da crescenti sentimenti di xenofobia e razzismo e
spesso si fa uso della detenzione e strumenti punitivi (anche -e soprattutto- nella UE).
Non tutti i diritti civili, politici economici e sociali sono diritti dell’uomo riconosciuti allo straniero: si distinguono infatti i
diritti civili essenziali, che corrispondono a valori universalmente riconosciuti e a fronte dei quali è irrilevante lo status o la
qualifica dell’individuo, dagli altri diritti civili, in particolare da quelli di natura economica o sociale. Alcune limitazioni di
questi diritti appaiono però in contrasto con il diritto internazionale dei diritti umani e non sembrano quindi giustificabili.
Sono diritti essenziali: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla libertà della persona, ma anche il diritto a non essere ridotto in
schiavitù a non essere sottoposto a tortura, a trattamenti o punizioni crudeli, disumane e degradanti, all’inviolabilità della
vita privata, libertà di pensiero, di comunicazione, religione, riconoscimento della personalità e capacità giuridica.
Un aspetto cui viene prestata crescente attenzione nella definizione dei diritti essenziali riguarda lo status del migrante
irregolare. Malgrado il potere sovrano dello stato di controllare le frontiere e l’ingresso degli stranieri nel territorio
nazionale e di esercitare un necessario controllo sull’immigrazione, viene affermandosi il riconoscimento di un nucleo
indefettibile di diritti che non possono essere compressi dallo stato per finalità di politica migratoria: la tendenza è di far
prevalere la protezione umanitaria e la natura essenziale di tali diritti.
Diritti economici e sociali
Diversa è la condizione dei diritti economici e sociali. Poiché prerogativa di ogni paese è la facoltà di disciplinare sia il
proprio sistema economico, sia l’accesso alle attività di lavoro/commerciali/industriali e di investimento, sia la
stipulazione di accordi economici e commerciali, il riconoscimento di tali diritti allo straniero resta subordinato alla
presenza di disposizioni negli ordinamenti nazionali o in norme pattizie.
Il diritto di proprietà del singolo e il diritto dello stato di espropriare e nazionalizzare per determinate finalità,
rappresentano un esempio di diversa valutazione di interessi individuali e collettivi, in cui importanza rilevante assumono
le modalità in cui ogni singolo stato interviene nell’economia del paese, nonché la diversa impostazione ideologica e
politica posta a base delle riforme. Il riflesso di queste differenti concezioni è emerso nel momento in cui uno stato per
motivi pubblici procede all’esproprio o alla nazionalizzazione di un bene dello straniero: posta la liceità dell’azione dello
stato, la questione controversa riguarda la sussistenza di un obbligo all’indennizzo, del quantum e del quomodo
(specialmente nel caso della nazionalizzazione). L’assenza di una soluzione univoca sulla questione è essenzialmente
da imputare allo scontro tra le posizioni ideologiche politica degli Stati.
I paesi in via di sviluppo, nel rivendicare l’esistenza di un nuovo ordine economico internazionale, affermano un diritto
sovrano sulle proprie risorse naturali e quindi procedono alla nazionalizzazione al controllo e alla regolamentazione degli
investimenti degli stranieri in vista di una più equa distribuzione delle ricchezze affermando l’irrilevanza sia della
presenza di un pubblico interesse e di un obbligo di non discriminazione, sia di limiti e condizioni poste dal diritto
internazionale, quantificando l'indennizzo soltanto in base alle proprie leggi e regolamenti e ad ogni circostanza che esso
giudichi pertinente. L’art. 1 della carta stabilisce infatti il diritto di ogni stato sovrano e inalienabile di scegliere il proprio
sistema economico e il proprio assetto politico sociale e culturale, in armonia con la volontà del suo popolo, senza
interferenze esterne, coercizioni o minacce di alcun genere la carta precisa che ogni stato ha il diritto di nazionalizzare,
espropriare trasferire la proprietà di beni stranieri con indennità adeguata, tenuto conto delle proprie leggi e regolamento
e di tutte le circostanze.
I diritti erga omnes
La distinzione fra diritti di diversa natura e contenuto è ben delineata dalla giurisprudenza internazionale: si tratta in
particolare della distinzione tra obblighi individuali dello stato e obblighi erga omnes nei confronti della comunità
internazionale nel suo insieme. Quando gli interessi della persona sono di natura essenziale o di fondamentale
importanza (quali il diritto alla vita e alla libertà), le norme che li proteggono sono simili alle norme di diritto internazionale
concernenti la protezione dei diritti dell’uomo.
Sull’esistenza di obblighi erga omnes o di natura fondamentale, tutelati dagli strumenti internazionali umanitari, si è
pronunciata la corte internazionale di giustizia, definendo il nucleo essenziale di diritti universalmente riconosciuti.
Le strutture e i meccanismi di controllo per garantire l’effettività dei diritti umani
In tema dei meccanismi che garantiscono il rispetto dei diritti dell’uomo, delle garanzie e degli strumenti e dell’effettiva
azionabilità degli stessi, rappresenta l’aspetto dinamico o evolutivo del tema più generale, rappresenta tuttavia anche

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l’aspetto problematico per quell’orientamento, favorevole al riconoscimento della personalità internazionale dell’individuo
che non va però oltre negando autonomia sul piano processuale e delle garanzie.
L’attività delle Nazioni Unite
L’atto che segna una svolta importante anche nella materia dei diritti dell’uomo è lo statuto delle NU, con la solenne
affermazione di quei diritti che il nazismo e la seconda guerra mondiale avevano violato.
L’art. 1 della Carta indica quali fini delle NU il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la
decolonizzazione in campo economico e politico, la tutela dei diritti dell’uomo. La prassi dell’organizzazione ha
dimostrato come la materia non abbia una propria autonomia, ma sia strumentale agli altri scopi dell’organizzazione.
Per questa trasversalità la materia non è più di competenza esclusiva dell’assemblea generale o del comitato economico e
sociale assistito dalla commissione per i diritti umani (divenuto nel 2006 consiglio dei diritti dell’uomo). Qualora la violazione
dei diritti dell’uomo sia motivo di minaccia alla pace, non può essere escluso l’intervento del consiglio di sicurezza.
La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
È la pietra miliare dell’attività delle NU, adottata nel 1948, che poggia su 4 pilastri: i diritti della persona; i diritti che
spettano all’individuo nei suoi rapporti sociali ai quali partecipa; i diritti politici; i diritti che si esercitano nel campo
economico e sociale. La dichiarazione sottolinea che le libertà e i diritti potranno essere pienamente realizzati solo se
verrà instaurata una struttura sociale che ne permetta lo sviluppo. Vengono inoltre posti limiti all’esercizio delle libertà,
attuate nel rispetto delle esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica,
senza confliggere con i fini e i principi delle NU e senza pregiudicare i diritti e le libertà enunciati nella dichiarazione.
Per quanto di natura non vincolante, la dichiarazione rappresenta la base giuridica e politica degli atti di diritto umanitario
successivi sia a livello universale (Patti internazionali del 1966) che a livello regionale (convenzione europea, quella
americana e quella africana). Essa costituisce un punto di riferimento della prassi della comunità internazionale,
promuovendo e stimolando iniziative che sono tradotte in norme obbligatorie.
L’assemblea generale ha anche istituito un alto commissario per i diritti dell’uomo, attribuendogli il compito di
promuovere e coordinare l’azione delle NU, delle istituzioni specializzate e degli organi che si occupano della materia.
Un organismo omologo, denominato commissario ai diritti dell’uomo è stato poi istituito nel consiglio d’Europa.
I patti internazionali
I due patti internazionali del 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti sociali, economici e culturali hanno lo scopo di
individuare una soglia minima di tutela di questi diritti, ferma restando la prevalenza delle norme interne o internazionali,
più rigide e più favorevoli alla tutela dei diritti della persona. Entrambi sanciscono all’art. 1 il diritto all’autodeterminazione
per tutti i popoli, il divieto di discriminazione e il principio dell’uguaglianza fra uomini e donne.
La scelta di predisporre due testi è da ricercare essenzialmente in ragioni di carattere politico: in fase di elaborazione
emerse la maggior difficoltà a porre agli stati vincoli di immediata osservanza in materia economica, sociale e culturale
rispetto ai diritti civili e politici, conseguentemente diverso è il sistema di controllo elaborato per garantire il rispetto degli
obblighi convenzionali sanciti dai due testi.
Il patto sui diritti civili e politici istituisce il comitato dei diritti dell’uomo, organo di controllo sull’esecuzione degli obblighi
convenzionali che esamina il rapporto che ciascuno stato contraente deve presentare periodicamente, indicando i motivi
di eventuali divergenze della legislazione interna rispetto alle disposizioni del patto. Al termine dell’esame il comitato può
formulare rapporti e osservazioni generali a cui lo stato può replicare. Qualora gli stati abbiano accettato la competenza
del comitato a ricevere e esaminare comunicazioni (una sorta di ricorso) di uno stato contro un altro che abbia violato il
patto, il comitato favorisce una soluzione amichevole e redige un rapporto. In caso contrario designa una commissione di
conciliazione ad hoc. Il profilo più interessante è rappresentato dal diritto del singolo di proporre ricorso contro uno stato
inadempiente: il protocollo facoltativo al patto riconosce la competenza del comitato a ricevere e esaminare
comunicazioni provenienti da individui (cittadini e non) dello stato parte contraente del patto e del protocollo, riguardanti
la violazione di qualsiasi diritto enunciato nel patto stesso. Il diritto della persona è sottoposto a varie condizioni e viene
soddisfatto con l’esame e la trasmissione delle decisioni prese, oltre che alla persona riconosciuta vittima della
violazione denunciata, allo stato contro cui è stata presentata la comunicazione.
La prassi o giurisprudenza del comitato, pur non avendo carattere giuridicamente vincolante e pur prestando i limiti
intrinsechi, assume un indubbio valore e significato nel quadro degli obblighi internazionali degli stati nel sistema delle
NU: contribuisce a meglio definire il nucleo dei diritti fondamentali riconosciuti all’individuo, i rapporti con altri strumenti
internazionali e con le garanzie previste negli ordinamenti nazionali.
Il patto sui diritti e economici, sociali e culturali conferma anche sotto il profilo delle garanzie, la diversa natura, rispetto
all’altro patto: esso non è sottoposto ad uno speciale controllo bensì a quello tradizionale che obbliga gli stati contraenti
a presentare dei rapporti, ad intervalli temporali, al consiglio stesso per il tramite del segretario generale delle NU.
Il consiglio può trasmetterli alla commissione per i diritti umani a fini di studio e perché formuli raccomandazioni di ordine
generale, oppure presentare all’assemblea generale rapporti contenenti raccomandazioni di carattere generale, nonché
riassunti delle informazioni ricevute dagli stati contraenti. Nel dicembre 2008 l’assemblea generale ONU ha adottato il
protocollo facoltativo che introduce un meccanismo di reclamo individuale simile a quello previsto dal protocollo
facoltativo del patto sui diritti civili e politici. Anche in questo caso la presentazione di una comunicazione, da parte di
individui o gruppi di individui è subordinata al previo esaurimento delle vie di ricorso interne e non sono ammesse
comunicazioni anonime o riferite a situazioni antecedenti la sua entrata in vigore. Il comitato per i diritti economici, sociali
e culturali cui spetta l’esame dei reclami può richiedere informazioni e formulare raccomandazioni.
Gli altri atti
L’attività delle NU a favore dei diritti dell’uomo consiste anche nel promuovere l’elaborazione di convenzioni da
sottoporre alla ratifica degli stati. L’osservanza delle disposizioni contenute nei vari testi è affidata a comitati, incaricati di

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esaminare i rapporti periodicamente presentati dagli stati o i ricorsi, comunicazioni, petizioni da parte degli individui.
Oggetto di disciplina convenzionale è la protezione contro le varie forme di discriminazione prevedendo forme di tutela e
garanzia per le categorie più deboli o meno protette. Alle convenzioni si aggiungono le dichiarazioni di principi, il cui
contento rispecchia una convinzione condivisa da un significativo numero di stati. Fra le convenzioni più note si
ricordano quelle per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e sulla repressione del crimine di
apartheid; la convenzione sui diritti politici della donna e quella per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei
confronti della stessa; la convenzione relativa alla schiavitù e il protocollo di modifica; la convenzione per la repressione
della tratta di esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione; la convenzione sui diritti del fanciullo, quelle sullo
status ei rifugiati, sullo status degli apolidi, sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro
famiglie; la convenzione per i diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie; convenzione per i diritti delle
persone con disabilità. Fra le molte dichiarazioni, adottate con risoluzioni dell’assemblea generale, si ricordano quella sul
genocidio, sull’indipendenza dei popoli coloniali, sulla sovranità sulle risorse naturali, sulla eliminazione della
discriminazione razziale, sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche, religiose o linguistiche.
Le convenzioni di carattere regionale: la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
La CEDU è una delle forme più evolute per la protezione dei diritti dell’uomo, essa attribuisce competenze sia alla corte
europea, quale organo giudiziario cui si rivolgono gli stati e gli individui che lamentino la violazione dei diritti e libertà, sia
al comitato dei ministri, quale organo esecutivo avente il compito di sorvegliare che le sentenze della corte siano
rispettate, e quindi eseguite, da parte dello stato convenuto in giudizio. Il protocollo n.16 attribuisce alla corte anche la
funzione consultiva circa l’interpretazione e l’applicazione della CEDU, potendo rendere pareri motivati su richiesta degli
organi giurisdizionali di vertice di uno stato. Il ricorso individuale del protocollo n.11 del 1998 non è più soggetto
all’accettazione da parte degli stati, ai quali si impone senza possibilità di deroga: la giurisdizione della corte è piena.
Il protocollo n.14, che modifica il sistema della convenzione, introduce vari emendamenti alla CEDU, creando sia un
sistema di filtro per i ricorsi individuali relativi a questioni manifestatamente irricevibili o ripetitive (prevedendo un nuovo
criterio di ricevibilità, rappresentato dal grave pregiudizio subito dal ricorrente), sia un sistema di controllo sull’esecuzione
delle sentenze da parte degli stati. Il comitato dei ministri viene non solo legittimato a chiedere alla corte un’interpretazione
delle sentenze, ma ad avviare davanti alla stessa una procedura di infrazione contro lo stato inadempiente.
La corte assicura la garanzia collettiva dei diritti su iniziativa di uno stato o di un individuo: quest’ultimo è il profilo più
rilevante della convenzione, che garantisce alla persona la legittimazione processuale a far valere la violazione di un
diritto. Al diritto sostanziale corrisponde dunque il diritto processuale o di azione, idoneo a farlo valere autonomamente e
direttamente assicurando una piena giustiziabilità del diritto.
La cooperazione istituzionalizzata fra paesi europei che presentano sistemi giudici comuni garantisce, attraverso il
ricorso individuale alla corte, un controllo giurisdizionale sugli obblighi assunti dagli stati a seguito della ratifica della
convenzione. Essa è qualificata come uno strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo e come mezzo per
promuovere e conservare gli ideali e i valori di una società democratica.
La convenzione e i protocolli proteggono non solo i diritti civili e politici tradizionali, ma quei profili o aspetti connessi di
carattere economico e sociale di cui bisogna tener conto nell’interpretazione del contenuto di detti diritti. Uno strumento
ad hoc, cioè la Carta sociale, successivamente modificata dalla Carta sociale riveduta, ha la specifica funzione di
tutelare i diritti economici-sociali, consentendone il controllo attraverso un sistema di reclami collettivi.
Qualche rilievo merita il sistema di controllo sull’esecuzione delle sentenze da parte del comitato dei ministri a garanzia
dell’effettività del rimedio offerto dalla convenzione e dell’effettività del godimento dei diritti: le sentenze non sono
immediatamente esecutive negli ordinamenti giuridici nazionali, ma vincolano gli stati contraenti che devono conformarsi.
Il comitato controlla, in primo luogo, che lo stato abbia versato alla parte lesa la somma corrispondente all’equa
soddisfazione, conseguente alla sentenza che accerta la violazione. Si tratta di un eventuale risarcimento del danno
morale e materiale (e del rimborso delle spese di procedura) qualora non sia possibile una restitutio in integrum.
Gli stati hanno l’obbligo di adottare le misure necessarie a rimuovere gli effetti della specifica violazione nonché l’obbligo
adottare misure di carattere generale al fine di impedire il verificarsi di violazioni analoghe. In caso di inadempimento, il
comitato esercita nei confronti dello stato prima una pressione politica, poi adotta una risoluzione interlocutoria con cui
constata la mancata esecuzione degli obblighi convenzionali, aprendo un caso. Solo quando il comitato si ritiene
soddisfatto definisce il caso mediante una soluzione finale, dando atto delle misure adottare e dell’avvenuta esecuzione
della sentenza. Qualora lo stato mantenga il proprio inadempimento si espone alla possibile contestazione della
violazione dei principi fondamentali propri dell’organizzazione proclamati nel art. 3 dello statuto del consiglio d’Europa e
può incorrere nelle sanzioni della sospensione dei diritti di rappresentanza e dell’espulsione.
Il protocollo n.14 fornisce più incisivi poteri al comitato quanto all’esercizio dei suoi poteri di controllo e esecuzione: esso
è legittimato non solo a chiedere alla corte, a maggioranza dei 2/3, l’interpretazione di una sentenza, se questa pone
difficoltà interpretative, ma anche a procedere contro lo stato che rifiuta di dare esecuzione alla sentenza, dopo averlo
diffidato ad adempiere. La sentenza che accerti la violazione non comporta sanzioni pecuniarie, ma assume una
significativa rilevanza politica, poiché l’inadempimento contrasta con gli obblighi stessi assunti dallo stato in quanto
membri del consiglio d’Europa.
Altre convenzioni e atti
La Convenzione americana
All’esperienza europea si è ispirata la convenzione americana sui diritti dell’uomo, adottata nel corso della conferenza
interamenticana si San José di Costa Rica nel 1969, a sua volta ispirata alla dichiarazione americana dei diritti e dei doveri
dell’uomo. La convenzione prevede dei doveri a carico dell’individuo, verso la famiglia, la comunità e l’umanità. Un
protocollo estende i diritti protetti ai diritti economici, sociali e culturali, adempiendo alla stessa funzione della Carta sociale
e riprendendo la tradizionale divisione che contraddistingue i patti internazionali delle NU. Il sistema, che si fonda su una
commissione e una corte, è simile a quello della CEDU prima della riforma del protocollo 11. L’accesso alla corte è

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riconosciuto alla commissione e agli stati, una modifica al regolamento interno della corte consente, una volta accertata la
ricevibilità del ricorso, la partecipazione diretta alle persone vittime della violazione, familiari e rappresentanti.
La Carta africana
La carta africana del 1981 si occupa dei diritti dei popoli come il diritto dell’autodeterminazione, della libera disponibilità
delle risorse naturali, dello sviluppo economico, sociale e culturale nonché del diritto ad un ambiente soddisfacente.
Il sistema è quello di una commissione e di una corte. La competenza per materia della corte è vasta: può giudicare sulla
violazione non solo dei diritti contenuti nella carta, ma di quelli contenuti in qualunque altro strumento internazionale
rilevante, ratificato dagli stati interessati o da quelli ritenuti responsabili. I ricorsi degli individui e degli stati sono rivolti alla
commissione: questa e gli stati possono adire alla corte; ma anche gli individui, i gruppi di individui, le organizzazioni non
governative, aventi status consultivo presso la commissione possono presentare un ricorso alla corte a condizione che lo
stato convenuto ne abbia accettato la competenza. Un protocollo alla carta riguarda i diritti della donna, proponendosi di
riconoscere specifiche garanzie in favore delle donne africane. La carta prevede il divieto di discriminazioni ed impone
agli stati contraenti il rispetto degli obblighi internazionali per la tutela dei diritti della donna e dei minori. Tali previsioni
sono però apparse inadeguate, ritendendo che i rinvii ai costumi e ai valori della società africana contenuti nella carta
potessero legittimare alcune pratiche si cui le donne sono vittime. Il protocollo dovrebbe colmare la lacuna, condannando
qualsiasi violenza contro le donne e le pratiche nefaste.
La Carta araba
Un sistema analogo a quelli indicata non è presente nei paesi arabi, pur avendo questi dato vita, attraverso il Patto della
Lega Araba, ad un comitato e ad una commissione regionale araba permanente dei diritti dell’uomo, affidandole una
funzione di promozione e protezione dei diritti dell’uomo e il coordinamento delle attività intraprese dai paesi arabi.
Nel 1990 venne adottata la Dichiarazione dei diritti e doveri fondamentali dell’uomo nell’Islam e nel 1994 una Carta
araba dei diritti dell’uomo, adottata dalla Lega, sostituita nel 2004 da un nuovo testo di più ampio contenuto e finalità,
proponendo un più elevato standard di protezione e un sistema di controllo. Quanto al primo profilo, alcuni limiti e
perplessità restano, con riferimento sia al divieto di discriminazioni, sia al sistema di controllo del rispetto dei diritti.
Viene previsto un obbligo degli stati a presentare dei rapporti al segretario generale della Lega sulle misure di
esecuzione adottate e viene istituito un comitato arabo dei diritti dell’uomo che prende in esame tali rapporti e può
formulare osservazioni e raccomandazioni. Nel 2014 il consiglio della Lega Araba ha adottato lo statuto istitutivo della
corte araba dei diritti dell’uomo. I movimenti e le agitazioni popolari della primavera araba sorti in opposizione a regimi
autoritari e in rivendicazione di maggiore democrazia e diritti, hanno dato l’impulso ad una esigenza di riforma del
sistema regionale di cooperazione e del meccanismo di tutela dei diritti umani ivi previsto.
L’iniziativa di istituire una corte dei diritti umani nel contesto regionale arabo se da un lato è stata salutata positivamente
e considerata come potenziale passo in avanti per la tutela dei diritti in un sistema che presenta ancora gravi lacune,
dall’altro ha suscitato diffuse critiche e perplessità. Lo statuto presenta rilevanti criticità quanto alla giurisdizione e ai
poteri della corte, alle garanzie di indipendenza, imparzialità e professionalità dei giudici nonché alla scarsa trasparenza
delle modalità di loro selezione e nomina, alle garanzie procedurali di accesso alla giustizia e all’effettività della tutela
giurisdizionale nonché ai meccanismi di controllo e eventuale sanzione circa la mancata esecuzione e rispetto delle
sentenze. Manca in particolare la previsione di un ricorso diretto su base individuale per il soggetto vittima di una
violazione dei propri diritti, essendo la possibilità di ricorrere alla corte rimessa solo agli stati.
La tutela dei diritti dell’uomo nella UE
La UE non si pone quale obiettivo la tutela dell’individuo, ma l’integrazione economica e politica dei paesi membri.
I trattati istitutivi delle comunità europee non contenevano infatti alcuna norma che imponesse alle istituzioni comunitarie
e alle parti contraenti l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali dell’uomo, ma solo dei principi quali la libera circolazione
delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, il divieto di discriminazione a motivo della nazionalità: principi e
libertà strumentali alla creazione di un mercato unico.
Il limite di questa impostazione fu però evidente: poiché l’ordinamento comunitario riconosce oltre alla soggettività degli
stati anche quella degli individui, incidendo sullo status giuridico di questi, in mancanza di una norma precisa che
imponesse il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, i cittadini degli stati membri erano privi di tutela nei
confronti degli atti comunitari che violavano tali diritti.
La corte di giustizia è il garante dei diritti fondamentali, essendo competente a conoscere degli atti delle istituzioni
comunitarie nell’esercizio delle loro funzioni, degli atti adottati dagli stati membri per dare attuazione ad un atto
comunitario e delle giustificazioni, fondate sul rispetto dei diritti fondamentali, addotte da uno stato membro per
legittimare una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto comunitario.
Se si esclude un richiamo, nel preambolo dell’atto unico europeo, alla CEDU, alle costituzioni degli stati membri e alla
carta sociale europea, è con il trattato sulla UE di Maastricht che la tutela dei diritti fondamentali trova espressa
enunciazione sul piano normativo, sancendo l’impegno della UE a rispettare i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU.
Il trattato di Amsterdam modificava poi l’art. 6 del TUE introducendo il paragrafo 1 che pone principi della libertà,
democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello stato di diritto a fondamento
dell’unione. L’importanza di tale affermazione è più evidente se correlata a quanto disposto dall’art. 49 del TUE che
impone agli stati che intendono aderire alle comunità il rispetto di detti principi e dall’art. 7 TUE e 309 Trattato CE, i quali
introducono la possibilità per il Consiglio di constatare e sanzionare con la sospensione di alcuni diritti una violazione
degli stessi principi grave e persistente da parte di uno stato membro. Il sistema conferiva al requisito del rispetto della
democrazia, della libertà e dei diritti fondamentali, un ruolo costituzionale e fondante dell’integrazione comunitaria sia per
gli stati membri e per quelli che lo diverranno, sia per le istituzioni comunitarie vincolate al rispetto dei diritti dell’individuo.
La codificazione di tali diritti si è realizzata con la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali della UE da parte del
parlamento europeo, del consiglio e della commissione. L’effettiva portata della carta è sancita dal trattato di Lisbona: la

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Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati e l’unione riconosce i diritti, le libertà e i principi da essa sanciti. Scopo
della Carta è di rendere più visibili e rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del
progresso e degli sviluppi scientifici e tecnologici.
Con riferimento all’ambito di applicazione della Carta, il TUE all’art. 6.2 chiarisce che le norme contenute in essa non
estendono in alcun modo le competenze dell’unione, per la quale vige il principio delle competenze di attribuzione (confermato
dall’art. 51 della Carta, secondo cui essa non estende l’ambito di applicazione del diritto UE al di là delle competenze della
stessa né introduce competenze nuove o compiti nuovi, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati)
Insomma, la Carta non amplia la competenza della corte di giustizia o di qualunque altro tribunale nazionale a ritenere
che le leggi, i regolamenti, gli atti ammnistrativi e la prassi interna di detti stati non siano conformi ai diritti che essa
riafferma; ciò implica che né la corte di giustizia, né gli organi giurisdizionali interni dovranno mai pronunciarsi sulla
compatibilità delle norme interne con quanto contenuto nella carta. Anche a prescindere dal valore vincolante della Carta
di per sé si ritiene che gli stati siano già vincolati dal suo contenuto attraverso i principi generali richiamati nel trattato
dell’unione e che la corte potrà considerarli e applicarli anche senza alcun riferimento esplicito alla carta.
La necessità di una definizione che conferisca certezza quanto al rispetto per tutti appare evidente anche dagli ostacoli
incontrati nell’ipotesi di adesione dell’unione alla CEDU. La corte di giustizia ha confermato le difficoltà circa l’adesione,
sottolineando in particolare la specificità e autonomia dell’ordinamento giuridico dell’unione, con la conseguente
esigenza di salvaguardarne le peculiari caratteristiche nonché di preservare il primato, l’unità e l’effettività del diritto
dell’unione. Il tema dell’adesione resta dunque aperto sia sotto il “profilo Unione”, sia sotto il profilo CEDU.
Quanto alle competenze delle corti appartenenti ai due diversi sistemi si osserva che corte di giustizia e corte EDU
hanno competenze ed operano in ambiti diversi, la prima potendo privilegiare quelli propri del diritto sostanziale
dell’unione rispetto ai diritti fondamentali. Non già valutandoli nel quadro di una gerarchia di diritti, ma nell’ambito
dell’applicabilità materiale delle norme, trovando applicazione quelle specifiche dell’unione rispetto a quelle generali.
Anche la corte europea, chiamata a giudicare su atti comunitari presuntivamente in contrasto con la CEDU, mette in
evidenza la problematicità e delicatezza dei rapporti non solo fra le due corti, ma fra i due diversi sistemi: l’unione e le
comunità del passato non possono essere chiamate a rispondere avanti alla corte europea, in mancanza di una formale
adesione alla convenzione ed è parimenti escluso che a rispondere possa essere l’insieme o complesso di tutti gli stati
membri. La giurisdizione della corte europea sugli atti dell’unione e nei confronti della stessa è esclusa, ma i singoli stati
che hanno adottato l’atto possono essere chiamati a rispondere singolarmente della violazione, non essendo esonerati
dalla responsabilità di rispettare la convenzione. Il ruolo della convenzione, intesa come strumento costituzionale
dell’ordine pubblico europeo nell’ambito dei diritti dell’uomo, sarebbe tale da farla prevalere sull’interesse della
cooperazione internazionale. Tale orientamento è stato confermato con la giurisprudenza Dublino. La corte afferma che
una violazione di disposizioni rilevanti della CEDU a tutela dello straniero migrante non è giustificabile alla luce
dell’esecuzione degli obblighi previsti dal sistema Dublino. Uno stato membro non può meccanicamente applicare la
normativa Dublino e trasferire dei migranti in un altro stato membro senza aver prima verificato che lo stesso offra
condizioni di accoglienza compatibili con la CEDU, nonché garanzie sufficienti che permettano di evitare che la persona
interessata venga espulsa verso il suo paese di origine.

SEZIONE II: i tribunali penali internazionali e il controllo di giurisdizione


Il ricorso ad organi giurisdizionali internazionali: le ragioni della loro istituzione
La creazione di organi giurisdizionali internazionali si è imposta sia per la gravità dei crimini commessi, sia per
l’inadeguatezza degli organi nazionali di porre in essere un’efficace azione repressiva.
I tribunali di Norimberga e di Tokyo sono gli esempi più significativi di organi giurisdizionali internazionali, istituiti in un
particolare momento storico per volontà delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale con accordo internazionale,
rappresentando organi comuni alle stesse e non organismi autonomi come i più recenti promossi dalle NU.
I tribunali internazionali di guerra giudicavano su reati non tradizionalmente compresi fra i crimini di guerra, essendo
competenti anche per i crimini contro l’umanità e la pace: la competenza veniva così estesa sia a fatti commessi prima
dell’inizio delle ostilità belliche, sia a comportamenti criminali tenuti contro la popolazione e non soltanto contro i nemici.
Veniva insomma affermata la responsabilità penale dell’individuo nei confronti della comunità internazionale: i comportamenti
dell’individuo venivano repressi e puniti indipendentemente dalla qualità di organo di stato rivestita dallo stesso.
I tribunali penali internazionali
In epoca più recente, promossi dalle NU, sono stati creati organi giurisdizionali con competenze sia specifiche che di
carattere generale.
a. Quanto ai primi, si ricordano il tribunale internazionale per la ex Jugoslavia e quello per il Ruanda: al primo
tribunale, con sede all’Aja, veniva affidato il compito di giudicare le persone responsabili di gravi violazioni del diritto
internazionale umanitario commesse nel territorio della ex Jugoslavia a partire dal 1991; al secondo, con sede ad
Arusha, il compito di giudicare le persone responsabili dei crimini commessi durante la guerra civile in Ruanda nel
1994. Il tribunale del Ruanda ha cessato la sua attività nel 2015, in oltre 20 anni ha processato e condannato
decine di imputati per genocidio e altri reati di guerra e contro l’umanità: per la prima volta dopo Tokyo e
Norimberga sono stati condannati da un tribunale internazionale capi di stato e di governo.
b. In epoca più recente si sono aggiunti altri tribunali ad hoc che si propongono di accertare la responsabilità penale
individuale in determinate aree e con riferimento a specifiche situazioni: il loro carattere internazionale varia a
seconda che siano istituiti in virtù di un trattato internazionale, abbiano componenti designati da organi
internazionali o siano istituiti da amministrazioni internazionali. Il tratto comune a tali esperienze giurisdizionali
risiede nelle finalità che si pongono, ovvero di contribuire alla promozione dei valori fondamentali della comunità
internazionale attraverso l’applicazione di sanzioni, esercitando anche funzione di prevenzione.
Si ricorda in particolare la corte speciale per la Sierra Leone, con sede a Freetown, istituita in virtù di un accordo fra

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NU e lo stesso stato, con competenza sia sulle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario che sulla
violazione delle leggi dello stesso paese. È stato poi istituito il residual special court for Sierra Leone, per
accompagnare la corte nello svolgimento dei compiti residuali.
c. Si possono poi ricordare due giurisdizioni la cui natura internazionale è discutibile: si tratta delle camere
straordinarie per la Cambogia, istituite nel 2003 per processare i responsabili dei crimini commessi nel paese
durante la dittatura dei Khmer rossi. Le camere sono una giurisdizione interna allo stato, ma l’internazionalità è
rappresentata dalla presenza di giudici internazionali, dall’esistenza di un procuratore di nomina internazionale
accanto ad uno cambogiano e degli accorsi intercorsi con le NU per la definizione della struttura, della giurisdizione
e della competenza per materia (le camere sono competenti per indagare non solo sui crimini elencati nel codice
cambogiano, ma anche su crimini internazionali).
Presenta elementi peculiari il tribunale speciale per il Libano, istituito a seguito degli attentati terroristici del 2005: la
natura internazionale, per quanto dibattuta, è da ricercare nella sua costituzione riferibile ad un accordo tra governo
libanese e NU, il tribunale è inoltre composto prevalentemente da personale di nomina internazionale, tuttavia la
competenza del tribunale poggia esclusivamente sulla legislazione penale libanese (sebbene le sue decisioni si
ispirino e si conformino al diritto internazionale).
d. Un altro tribunale con elementi di internazionalità, poiché istituito in virtù di un accordo, stipulato nel 1998 tra Regno
Unito, Libia e USA, e perché oggetto di una risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU è quello creato all’Aja
per il caso Lockerbie. Composta da giudici scozzesi, ha giudicato, in base alla legge scozzese, sull’attentato
compito da agenti libici che causò l’esplosione di un aereo della Pan America in volo sopra Lockerbie, in Scozia.
e. In altri casi, per prevenire crimini contro la guerra e contro l’umanità, sono stati creati da parte di amministrazioni
transitorie istituite dalle NU, come a Timor est e in Kosovo. Ai giudici nazionali sono stati affiancati giudici stranieri,
designati da tali amministrazioni, con il compito di giudicare sui crimini applicando il diritto internazionale e quello
interno. A prescindere dalla forma, nel 2015 sono stati istituiti due nuovi organismi per la repressione dei crimini
commessi dall’esercito di liberazione del Kosovo tra il 1998 e il 2000: le Specialist Chambers (SP) e lo Specialist
Prosecution’s Office (SPO), istituiti in base al diritto interno della Repubblica del Kosovo ma sulla base dei
precedenti negoziati e dorme di collaborazioni con la UE.
f. Nella prassi degli ultimi anni sono riscontrabili altre esperienze giurisdizionali che, pur non presentando caratteri di
internazionalità, si ispirano largamente alle giurisdizioni prima ricordate: il tribunale supremo iracheno e la camera
per i crimini di guerra della Bosnia Erzegovina. Il primo è stato istituito dall’autorità transitoria di governo dopo la
destituzione di Saddam Hussein, per quanto la competenza del tribunale ricalchi il modello delle giurisdizioni
internazionali penali, la natura internazionale sembra potersi escludere sia per il carattere esclusivamente interno
dell’organo che per lo scarso coinvolgimento della comunità internazionale. Similmente, la camera per i crimini di
guerra della Bosnia Erzegovina è un organo interno dello stato che prosegue a livello nazionale il lavoro svolto dal
tribunale per l’ex Jugoslavia.
L’istituzione dei tribunali penali internazionali rappresenta un importante sviluppo del diritto umanitario e del diritto penale
internazionale. Nell’ordinamento internazionale trova per la prima volta attuazione una concreta sottrazione di sovranità
allo stato, alla sua potestà punitiva sugli individui mediante l’esercizio della giurisdizione estesa, in casi limitati, in senso
universale nei confronti di autori di crimini ovunque commessi. Gli stati hanno insomma riconosciuto la necessità di
sottoporre a processo internazionale gli autori di gravi crimini creando meccanismi ad hoc cui trasferire la propria
funzione giurisdizionale.
In particolare, la corte penale internazionale
La lunga gestazione di un progetto per istituire una corte penale internazionale è la prova delle difficoltà di trovare consenso
sulla creazione di un organo giurisdizionale con competenze generali o universali. Lo statuto della corte (adottato nel 1998,
in vigore dal 2002) la definisce come un’istituzione permanente avente giurisdizione di carattere generale, più precisamente
giudica sui crimini più gravi nel contesto internazionale riguardanti la comunità internazionale nel suo insieme: si tratta di
crimini internazionali dell’individuo, come genocidio, crimini conto l’umanità, crimini di guerra e aggressione.
Sono invece esclusi dalla giurisdizione alcuni crimini, i treaty crimes, consistenti in atti di terrorismo e di traffico illecito di
stupefacenti, ritenendo che la cooperazione internazionale per la repressione di tali reati sia già efficacemente prevista
nei trattati internazionali.
La corte, come detto, ha una competenza generale, distinta da quella dei tribunali ad hoc, che mantengono comunque la
loro competenza specifica. Essa esercita, diversamente da questi, una competenza complementare rispetto a quella di
un tribunale nazionale potendo cioè giudicare solo quando questo non intenda o sia incapace di svolgere correttamene
l’indagine o iniziare il processo. Pur nelle difficoltà, non ci è dubbio che l’impunità è in qualunque modo esclusa, anche
nell’ipotesi in cui uno stato dichiarasse di non accettare la giurisdizione della corte per il periodo previsto e consentito di
7 anni., essendo lo stato stesso a dover esercitare la giurisdizione per quel periodo. I tribunali ad hoc hanno invece la
precedenza su quelli nazionali, che devono astenersi dal giudicare se viene richiesto loro il trasferimento del processo.
Vari sono i limiti posti all’esercizio della giurisdizione: essi discendono dall’applicabilità dello statuto ai crimini commessi
dopo la sua entrata in vigore, dall’essere stati commessi da cittadini di stati che ne sono parte o nel territorio degli stessi,
dall’aver avviato e promosso il procedimento su iniziativa si uno stato parte o del consiglio di sicurezza che
sottopongono una questione al procuratore presso la corte, dalla necessità che il procuratore che procede d’ufficio sia
autorizzato dalla camera preliminare a procedere. I limiti sono rappresentati ancora dal non potersi celebrare il processo
in contumacia dell’imputato ed al potere di blocco delle indagini e dell’azione penale da parte del consiglio di sicurezza.
Possono così crearsi situazioni di conflitto tra la corte e il consiglio, anche su iniziativa di un membro permanente che
non abbia ratificato lo statuto. Potenziali conflitti tra corte e consiglio potrebbero sorgere anche con riguardo alla
procedura per avviare un’indagine sul nuovo crimine di aggressione.

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Il ricorso ad organi giurisdizionali nazionali


Gli organi giurisdizionali internazionali si propongono di realizzare obiettivi non diversi da quelli nazionali che perseguono
crimini internazionali contro l’umanità in virtù del principio di universalità della giurisdizione penale. Quando i fatti
penalmente rilevanti sono di carattere universale, trascendono gli interessi del singolo stato, ovvero se si tratta di crimini
internazionali, il diritto consuetudinario attribuisce agli stati la facoltà di agire, pur in assenza di qualsiasi altro
collegamento. Alcuni stati hanno fatto proprio tale principio, affermando con leggi interne l’universalità della giurisdizione
penale per i crimina iuris gentium. Il criterio dell’universalità della giurisdizione penale può tuttavia subire limitazioni, di
carattere convenzionale, come quello della presenza sul territorio nazionale del presunto criminale o la qualità della
persona, protetta dall’immunità qualora sia capo di stato, di governo o un ministro.
La giurisprudenza interna ed internazionale è tuttavia orientata ad escludere l’estensione della giurisdizione penale a
fronte di atti gravemente lesivi della dignità della persona,
la mancanza di titoli tradizionali di giurisdizione non è d’ostacolo per gli organi giurisdizionali nazionali, nel tutelare i diritti
dell’individuo, in base a norme tanto internazionali quanto interne, in un contesto che vede affermati, invero, gli stessi
valori fatti propri dai tribunali internazionali. Il progressivo ampliamento dello strumento ha suscitato tuttavia un vivace
dibattito tuttora in corso.
Diritti dell’uomo, giustiziabilità e sovranità dello stato: considerazioni finali
La necessità di perseguire le violazioni dei diritti dell’uomo trova espressione sia negli strumenti più recenti che creano
organi di giustizia internazionale con il compito di giudicare sulla responsabilità personale dell’individuo, sia nel
riconoscere ai giudici nazionali la legittimità ad esercitare la giurisdizione nell’interesse della comunità internazionale.
La finalità umanitaria è anche invocata per giustificare ingerenze o interventi -anche armati- e per prevenire/reprimere
violazioni di diritti umani, tuttavia la legittimità dell’intervento umanitario è stato oggetto di discussione.
Inoltre, la globalizzazione dell’attuale società internazionale ha profondamente mutato la comunità internazionale nella
sua stessa struttura, nelle relazioni fra stati, individui, gruppi, enti e organizzazioni.
In tale contesto, la tutela dei diritti dell’individuo è divenuta tema centrale del diritto internazionale. Malgrado la rilevanza
assunta dagli strumenti internazionali per la garanzia dei diritti della persona e malgrado l’orientamento favorevole, la
personalità internazionale dell’individuo è ancora oggi da escludere; i dati della prassi possono suggerire soluzioni nuove
e diverse, come quella di una personalità limitata o non ancora affermata ma in corso di formazione.

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