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Riassunto di diritto costituzionale Pisaneschi

Diritto costituzionale (Università degli Studi di Siena)

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Andrea Pisaneschi

Riassunto del libro di


DIRITTO COSTITUZIONALE

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https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti
PARTE I
LA COSTITUZIONE

CAPITOLO I
COSTITUZIONE E POTERE COSTITUENTE

1. La Costituzione: prime definizioni

Costituzione può essere qualificata come quell'insieme di norme che costituiscono il fondamento
di un ordinamento statale e occorre che questo insieme di norme sia dotato di determinate
caratteristiche di contenuto e di forma per essere qualificato come Costituzione, differenziandosi
da altri atti normativi che invece Costituzione non sono.

A questo punto la definizione di Costituzione in senso meramente giuridico si incrocia con la


storia e con l'evoluzione della società; è infatti l’evoluzione storica che attribuisce a quell'insieme
di norme, le caratteristiche che differenziano le Costituzioni da altri atti normativi che non
possiamo definire come tali.

Normalmente, per definire una Costituzione, si fa riferimento a quattro elementi principali: due la
caratterizzando da un punto di vista della forza, e altri due dal punto di vista della sostanza o del
contenuto. si ritiene infatti che una Costituzione moderna sia caratterizzata da quell'insieme di
norme che costituiscono il fondamento dello stato, stabili nel tempo, superiori rispetto alle altri
norme giuridiche (forza), che contengono principi e valori generalmente condivisi in tema di diritti
fondamentali, nonché un modello organizzativo nella distribuzione dei poteri dello stato
(sostanza). Elementi formali (di forma) ed elementi sostanziali (contenuto) contribuiscono
dunque a identificare la costituzione.

Analizziamo gli elementi caratterizzanti sopra individuati:

STABILITÀ - Significa capacità della Costituzione di durare nel tempo, ovvero non è volta a
regolare equilibri transitori.

SUPERIORITÀ - Significa maggiore forza rispetto alle altre norme che compongono un
ordinamento giuridico. Una Costituzione è superiore perchè tutte le altre norme devono
rispettarla in quanto norma fondamentale dello stato.

VALORI E PRINCIPI GENERALMENTE CONDIVISI - Le norme costituzionali esprimono principi


che la gran parte dei cittadini, considerano come propri.

MODELLO ORGANIZZATIVO NELLA DISTRIBUZIONE DEI POTERI DELLO STATO - Contiene


un modello di organizzazione del potere pubblico di vertice, disciplinandolo e limitandolo ( poiché
le Costituzioni nascono proprio come strumenti di limitazione del Sovrano e per organizzare e
bilanciare i poteri dello Stato).

[Nel momento in cui la Costituzione diviene espressione del potere costituente, cioè della
volontà consapevole di un popolo, essa è espressione di un atto (manifestazione di volontà) e
non di un fatto (un mero comportamento), perciò, in quanto manifestazione di volontà, è spesso
collegata la forma scritta. Inoltre la forma scritta conferisce alla Costituzione un rafforzamento

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della sua stabilità, cosicché può dirsi che da un punto di vista storico le Costituzioni moderne
tendono ad assumere la forma scritta.]

Questi quattro elementi sono intimamente legati tra loro. In definitiva, i requisiti relativi alla
"forza" della Costituzione e i requisiti relativi alla "sostanza" della Costituzione, requisiti che
concettualmente devono essere tenuti distinti, sono però tra loro legati.

Le norme costituzionali differiscono da tutte le altre norme anche per il loro contenuto, infatti la
Costituzione deve contenere principi sufficientemente generali da essere ampiamente condivisi
e da poter durare a lungo del tempo, a differenza delle altre norme che servono a regolare fatti
concreti della vita. Le norme costituzionali hanno dunque caratteristiche di generalità
sconosciute alle altre norme, e sono dotate, inoltre di un elevato livello di flessibilità, per potersi
adattare a situazioni storiche, sociali o politiche diverse rispetto al momento nel quale la
Costituzione è stata approvata.

Gli ordinamenti giuridici prerivoluzionari non conoscevano Costituzioni nel senso ora
determinato. I documenti definiti "costituzionali" prima della rivoluzione francese erano perlopiù
accordi transitori tra monarchia, nobiltà e clero, accordi che riconoscevano alcuni diritti degli uni
nei confronti degli altri (per esempio: l'inglese Magna Charta libertatum del 1215; il Bill of rights
del 1689). In questi accordi mancano tutti e quattro i presupposti che sono gli elementi
caratterizzanti la Costituzione in senso moderno.

2. L'origine della Costituzione come limite al potere: potere costituente e poteri costitutivi

Le condizioni per la nascita di una Costituzione in senso moderno si verificarono per la prima
volta nella storia con la rivoluzione francese e la rivoluzione americana, che portarono sulla
scena costituzionale il popolo, vero autore delle Costituzioni post-rivoluzione di fine settecento.
Le Costituzioni di questo periodo furono elaborate da organismi rappresentativi (le convenzioni o
le Assemblee Costituenti), ritenute titolari, in autonomia e senza negoziazioni con altri organi, del
potere costituente, cioè del potere di darsi una nuova costituzione. L'esercizio di questo potere è
ciò che attribuisce ad un documento la natura di Costituzione in senso proprio.
Attraverso l'esercizio del potere costituente, incardinato in un unico organo (Assemblea
Costituente), la Costituzione che ne scaturisce sarà volta a dettare principi condivisi, che in
ragione delle generale condivisione, a loro volta sono considerati stabili. Inoltre, l'esercizio del
potere costituente fornisce la giustificazione della superiorità della Costituzione rispetto alle altre
norme.

Con l'approvazione della Costituzione il potere costituente si estingue, mentre i poteri che
derivano dalla Costituzione sono poteri definibili come costituiti, nel senso che trovano
fondamento e legittimazione nella costituzione ( cioè gli altri poteri non sono più originari ma
derivati, perchè conseguono dalla Costituzione).

I principi del costituzionalismo moderno:

a) la Costituzione è la legge fondamentale e suprema della Nazione. Questo implica che non è
modificabile con i mezzi ordinari. Vi è in questo ragionamento l'idea della superiorità della
costituzione in quanto conseguenza dell'esercizio del potere costituente.
b) Da ciò consegue che una legge che si pone in contrasto con la Costituzione è invalida. Vi è
in questo ragionamento l'idea che la legge, potere costituito, è inferiore alla costituzione.
c) Da ciò consegue ancora che qualora il giudice debba applicare una legge contrastante con
la Costituzione, la legge non può essere applicata. Vi è in questo ragionamento l'idea della
giustizia costituzionale, nel senso che, quando vi è una Costituzione superiore,

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necessariamente l'ordinamento deve prevedere un organo che abbia il potere di
giudicare se una legge è contrastante con la costituzione.

Questi tre elementi sono tutti principi connaturati con il costituzionalismo moderno.

3. La costituzione nelle monarchie dualistiche e nel primo dopoguerra

le Costituzioni di questo periodo sono definibili come DUALISTICHE, perchè la sovranità è


contrastata tra il Re e una determinata classe sociale, infatti nel periodo pre-rivoluzione francese
i sovrani concedono le Costituzioni alla borghesia, cosicché le Costituzioni diventano strumenti
di limitazione del potere Sovrano. Queste Costituzioni pretendono di disciplinare l'ordinamento
dello Stato, l'organizzazione dei poteri e alcuni diritti di libertà ma nonostante ciò sono carenti dei
presupposti per essere considerate Costituzioni nel senso moderno del termine.

Queste Costituzioni in primo luogo non sono il frutto dell'esercizio del potere costituente, in
secondo luogo non è dalla Costituzione che deriva il potere, ma al contrario è dato per implicito
che il POTERE PREESISTENTE NEL RE e quest'ultimo si limita semplicemente a sottoporlo ad
alcune limitazioni attraverso lo strumento costituzionale. Ciò implica che il potere incardinato nel
Sovrano è superiore rispetto alla Costituzione stessa, e il potere del sovrano non è un potere
costituito poiché non deriva dalla Costituzione ma preesiste a essa. Se il potere del Sovrano
preesiste alla alla Costituzione, infatti, la Costituzione deriva dal Sovrano, che come la concede
la può allo stesso tempo revocare. In terzo luogo, e come conseguenza, le Costituzioni
ottocentesche non hanno quel carattere di superiorità tipico delle Costituzioni moderne e in
quarto luogo, se la Costituzione non è superiore, non può esistere un sistema di giustizia
costituzionale.

In definitiva, queste Costituzioni avevano solo il contenuto definibile come costituzionale, ma non
la forza o la forma, né gli strumenti di garanzia

Anche le Costituzioni del primo dopoguerra presentano caratteri di dualismo e di sovranità


indecisa, poiché si basavano, in sostanza, sul permanere di un equilibrio complesso tra due
forze opposte. E questo equilibrio era necessariamente transitorio, con la conseguenza che la
Costituzione era a sua volta fisiologicamente instabile.

4. Le Costituzioni contemporanee e la rigidità come tratto caratterizzante

Le Costituzioni che si affermano dopo la seconda guerra mondiale e dopo le dittature fascista e
nazista presentano un carattere nuovo. La guerra mondiale e la inesistenza di un ordine
giuridico pregresso al quale fare riferimento, aveva invece condotto ad una situazione nella
quale era la stessa società che doveva essere ricostruita, con la conseguenza che la
Costituzione doveva svolgere il compito sia di rifondare l'ordinamento giuridico dello Stato, sia di
indirizzare, in qualche misura, anche la ricostruzione della società.

Le Costituzioni, per conseguenza, si allungano molto, ricomprendendo valori e principi comuni a


tutte le forze politiche, e soprattutto divengono anche programmi sociali, all'interno dei quali
ciascuno forza politica esercita un ruolo e fa propria una parte del programma. Questi modelli
costituzionali sono detti dello STATO PLURALISTA, poiché sono caratterizzati da una pluralità di
forze politiche, da una pluralità di valori e interessi, che convivono all'interno della Costituzione.

Il cambiamento rispetto alle Costituzioni dell'ottocento e del primo dopoguerra è evidente. Infatti
quest'ultime si fondavano sull'esistenza di un potere "ultimo", che la Costituzione poteva servire
a limitare, regolare e confinare ma che non poteva essere comunque eliminato. Nelle
costituzioni contemporanee questo potere non c'è più: tutte le componenti politiche e sociali

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hanno accettato il compromesso costituzionale e sono parte dell'accordo, ciò non significa
comunque che non vi siano conflitti tra parti sociali o forze politiche ma significa che il conflitto
non è distruttivo come lo era un tempo.

Questa situazione, che è storica e sociale ma non ancora giuridica, produce conseguenze
giuridiche sulle caratteristiche della Costituzione.
In primis visto che nessuna delle forze politiche e sociali si ritiene detentrice del potere ultimo, la
Costituzione può svolgere il ruolo di garantire quel nuovo sistema sociale e qual nuovo
ordinamento giuridico. Per svolgere questa funzione, deve essere anche necessariamente
superiore ai poteri che essa stessa disciplina (poteri costituiti).
Inoltre occorre invece garantire la superiorità della Costituzione attraverso regole giuridiche, che
prevedono la possibilità di una sua modificazione attraverso un procedimento particolare,
aggravato e complesso. Le Costituzioni diventano pertanto rigide, cioè hanno la possibilità di
essere modificate solo con un procedimento speciale e aggravato. La rigidità costituisce dunque
una garanzia che possiamo definire formale e procedimentale della Costituzione.

Superiorità e rigidità sono dunque due concetti simili, ma non esattamente coincidenti.
La superiorità della Costituzione è conseguenza dell'esercizio del potere costituente. Tutti gli atti
che vengono dopo la Costituzione sono costituiti e quindi inferiori, perchè nella Costituzione
trovano la loro fonte di legittimazione: la superiorità è dunque un concetto collegato alla natura e
non alla sua forma.
La rigidità afferisce invece alle regole procedimentali per modificare la Costituzione al fine di
renderne più complessa la eventuale modifica: è dunque una garanzia sia della superiorità che
della stabilità nel tempo della Costituzione.

La giustizia costituzionale deriva logicamente dalla superiorità e dalla rigidità della Costituzione.
Se la legge deriva dalla Costituzione ne deve rispettare il contenuto, se non rispetta il contenuto
significa che essa modifica la Costituzione. Ma la Costituzione, che è superiore, non può essere
modificata da un potere costituito. Inoltre la Costituzione è rigida, cioè può essere modificata
solo con un procedimento aggravato diverso da quello per approvare le leggi. Dunque una
legge, approvata con un procedimento ordinario, non può modificare la Costituzione. Occorre
quindi un sistema che consenta di giudicare sulla legittimità di una legge nei confronti della
Costituzione.

5. Prime distinzioni di sintesi: Costituzioni flessibili e rigide, Costituzioni lunghe e brevi,


formali e materiali

Le Costituzioni possono essere innanzitutto flessibili o rigide.


Sono Costituzioni flessibili quelle che sono modificabili attraverso una legge ordinaria e che non
prevedono quindi un procedimento aggravato per la loro modifica, a differenza delle Costituzioni
rigide. Le prima erano presenti nei periodi di accentuato dualismo e di lotta per la sovranità,
mentre nel dopoguerra, venuta meno la lotta per la sovranità, le Costituzione diventano lo
strumento per garantire il "nuovo patto sociale" e dunque vengono rese rigide.

Le Costituzioni possono essere bravi o lunghe a seconda che abbiano un numero limitato o
meno di articoli. Le Costituzioni brevi sono tipiche di un modello dualistico, in cui non si
intendeva delineare un assetto complessivo della struttura sociale. Le Costituzioni lunghe sono
invece tipiche della società contemporanea e sono collegate anche al modificarsi della forma di
stato. In primo luogo queste Costituzioni intendono determinare un assetto organico della
società. Esse sono infatti Costituzioni nate da un accordo complessivo tra tutte le forze politiche
e sociali e dunque designano un modello complessivo di organizzazione del potere e del
sistema dei diritti nel quale tutti possono riconoscersi. In secondo luogo esse sono collegate al
nascere dello Stato sociale contemporaneo. Quando lo Stato assume il compito di rimuovere e

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pareggiare le differenze materiali tra i cittadini (art. 3 comma 2 della Costituzione "principio di
eguaglianza sostanziale") per raggiungere questo obbiettivo devono essere svolti nuovi compiti
e funzioni. Le Costituzioni si allungano quindi al sociale e alla determinazione di "valori" che lo
Stato deve perseguire.
In terzo luogo le Costituzioni contemporanee non si limitano normalmente a dettare norme di tipi
"VERTICALE", cioè relative al solo rapporto Stato-cittadino, ma dettano anche norme di tipo
"ORIZZONTALE" cioè relative ai rapporti tra i cittadini. Anche questa evoluzione, che provoca un
ulteriore allungamento della Costituzione è conseguenza del modello di Stato sociale, del
principio di eguaglianza materiale, e dei fini di pareggio che lo stato si prefigge.
Per conto bisogna avere attenzione alle Costituzioni troppo lunghe, infatti non devono
disciplinare fattispecie concrete come il codice civile, ma devono bensì stabilire le cornici di
principi e valori all'interno della quale si collocheranno le altre norme.

La Costituzione si distingue tra Costituzione formale e Costituzione materiale. La prima è data


dall'intero sistema di norme costituzionali. È la Costituzione scritta in tutti gli articoli che la
compongono, e che può essere modificata solo attraverso un procedimento di revisione
costituzionale. La seconda può essere intensa in senso stretto o in senso largo. La Costituzione
materiale in senso stretto è quella parte della Costituzione cui le forze politiche dominanti danno
attuazione e ritengono di dover applicare in un determinato periodo storico. La Costituzione
materiale in senso largo può essere definita come il substrato storico e sociale che, in qualche
misura, "sta sotto" la Costituzione, la rende legittima e applicabile.

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CAPITOLO II
ALLE ORIGINI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

1. Lo Statuto albertino e la sua evoluzione

La prima "Costituzione" italiana risale al 1848 quando Carlo Alberto di Savoia fu costretto a
promulgare una carta costituzionale nel Regno di Sardegna. Questa carta costituzionale, detta
Statuto albertino, fu poi estesa al Regno d'Italia dopo il 1861, e rimase formalmente in vigore
fino al 1948 (infatti non fu applicata nel periodo fascista e nel periodo transitorio tra la fine della
seconda guerra mondiale e l'approvazione della Costituzione), quando fu approvata la
Costituzione italiana. In questo periodo si verificarono molti cambiamenti nel paese, sociali e
politici, che nel tempo produssero interpretazioni diverse di quella carta costituzionale. Da una
prima fase nella quale lo Statuto delineava una classica monarchia costituzionale, si passò a
una fase finale nella quale essa parve avvicinarsi ad una monarchia parlamentare.

Lo Statuto albertino era la tipica carta costituzionale concessa dal Sovrano, non era quindi una
carta espressione del potere costituente ma una classica Costituzione liberale o dualistica: era
infatti flessibile e breve. Delineava un modello di monarchia costituzionale, incentrato sui poteri
del Sovrano, sia pure limitati in parte dal Parlamento. Sulla carta, infatti il Sovrano era titolare
della gran parte dei poteri, potendo intervenire praticamente su tutti gli altri organi dello Stato.
In primo luogo il re nominava e revocava i ministri, ma il potere di nomina unito a quello di
revoca determinava un rapporto fiduciario tra questi organi. I ministri erano responsabili verso il
Re e non verso il Parlamento, come accade invece normalmente nelle forme di Governo
parlamentari.
In secondo luogo il Parlamento era composto da due Camere, ma il Senato del Regno non era
elettivo bensì composto da membri nominati a vita dal Sovrano.
In terzo luogo, anche se il potere di fare le leggi era in capo al Parlamento, il Sovrano aveva nei
confronti delle leggi un potere di "sanzione", cioè di blocco della legge, la quale non poteva
entrare in vigore senza la sua firma, questo perchè si riteneva che la legge non era l'espressione
della volontà popolare ma un accordo contrattuale tra il Sovrano e il Parlamento.
In quarto luogo il Re convocava e scioglieva il Parlamento, che appariva così un organo
ausiliario del Sovrano piuttosto che l'organo rappresentativo della sovranità popolare.
Dal punto di vista del sistema delle libertà la carta prevedeva poche norme, infatti le libertà del
cittadino erano trattate solo in nove articoli, inoltre l'intero sistema delle libertà era disciplinato in
modo molto generico.

Lo Statuto ebbe una evoluzione, infatti segui un percorso favorevole al Parlamento. Lo Statuto
infatti si basava sul principio di separazione tra Governo e Parlamento, dipendendo il Governo
dalla fiducia del Re e non dal Parlamento. Nel tempo tuttavia il Governo comprese che, se
voleva portare avanti la propria politica, doveva spiegarne le ragioni in Parlamento: quest'ultimo
infatti non poteva approvare le leggi che il Governo proponeva.
Si invalse così la prassi, per i Governi che venivano nominati dal Sovrano e che dunque
avevano la fiducia del Re, di ottenere anche la fiducia del Parlamento: il Governo esponeva un
proprio programma in Parlamento rispetto al quale riceveva la fiducia. La separazione tra
Governo e Parlamento, scritta nello statuto, era venuta meno, e il rapporto di fiducia,
originariamente costruito tra Re e Governo, si era trasformato in un rapporto di fiducia tra
Governo e Parlamento. Conseguentemente altri poteri del Sovrano si affievolirono, infatti il re
non aveva più la piena libertà di scegliere i ministri tra le persone di sua propria ed esclusiva
fiducia, poiché doveva scegliere come ministri persone che potevano anche avere la fiducia del
Parlamento. Si affievolì di conseguenza anche il potere di revoca.

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Il doppio appoggio del Re e del Parlamento che il Governo aveva conquistato, ebbe poi l'effetto
di rafforzare i poteri di quest'ultimo nei confronti del Sovrano. Il potere di scioglimento anticipato,
che lo Statuto aveva disciplinato come un potere discrezionale del Sovrano, si trasformò in un
potere governativo. Divenne di fatto il Governo a decidere se sciogliere o meno le Camere,
poiché era divenuto il Governo il vero interlocutore politico del Parlamento. Così se le Camere
erano contrarie ad approvare gli atti proposti dall'esecutivo, il Governo poteva minacciare lo
scioglimento, o addirittura sciogliere le Camere per ottenere una Camera la cui composizione
fosse più in linea con il con la propria politica.
Il Governo ottenne inoltre il potere "sostanziale" di nominare i membri del Senato, anche la
trasformazione di questo potere era conseguenza del mutato equilibrio nei rapporti relazionali tra
Governo e Parlamento. Se il Governo doveva avere la fiducia del Parlamento, se lo poteva
sciogliere, evidentemente era anche interessato a che la sua composizione fosse in linea con la
politica governativa.

2. Il periodo fascista

Lo Statuto albertino fu di fatto travolto dall'instaurarsi della dittatura fascista. Il regime fascista si
instaurò giuridicamente con un colpo di Stato legittimato dal Sovrano. A seguito della marcia su
Roma il 28 ottobre del 1922, il Re affidò infatti a Mussolini, capo del fascismo, l'incarico di primo
ministro. [ Si trattava tuttavia di una probabile violazione dello Statuto, perchè in primo luogo il
Re si era rifiutato di firmare il decreto di stato di assedio che il Governo legittimo gli aveva
sottoposto, e in secondo luogo aveva nominato primo ministro il rappresentante di un partito,
allora minoritario nel Parlamento, a seguito di un atto di forza e di una vera e propria
autodesignazione.]
Dopo la nomina di Mussolini a primo ministro furono smantellate le istituzioni della monarchia
costituzionale. Nel 1924 furono effettuate le elezioni sulla base di una legge, la cosiddetta legge
Acerbo, nei due anni che vanno del 1925 al 1926 furono distrutte le istituzioni parlamentari che
faticosamente si erano create in via di prassi nel periodo liberale.
Con la legge 24 dicembre 1925 n. 2263 sulle attribuzioni e prerogative del capo del Governo fu
stabilito che quest'ultimo diveniva un superiore gerarchico rispetto agli altri ministri, che le
Camere non potevano più porre la mozione di sfiducia per censurare l'operato del Governo, che
nessun oggetto poteva essere messo all'ordine del giorno delle Camere senza il consenso del
capo del Governo. Con la successiva legge n.100 del 1926, fu ampliato a dismisura il potere del
Governo di emanare atti con forza di legge e regolamenti senza passare dal Parlamento.
L'autorità del Governo fu poi ulteriormente incrementata con la cosiddetta costituzionalizzazione
del "Gran Consiglio del fascismo". Attraverso questa legge il massimo organo del partito
diventava un organo dello Stato, direttamente dipendente dal capo del Governo.
A questo punto le istituzioni parlamentari erano di fatto già cancellate, così la soppressione della
Camera dei Deputati e l'instaurazione in sua vece della camera dei fasci e delle corporazioni,
avvenuta nel 1939.

L'inizio della caduta del fascismo può collocarsi nella famosa notte del 24 luglio del 1943,
quando il Gran Consiglio del fascismo votò un ordine del giorno che sostanzialmente esautorava
Mussolini. Con tale ordine si dichiarò che era necessario il ripristino delle funzioni statali, e si
invitò il Re a riassumere i poteri che aveva in base allo Statuto. Il giorno dopo il Re revocò
Mussolini da primo ministro, ne ordinò l'arresto e nominò il Maresciallo Badoglio primo ministro.

3. Il periodo transitorio

Gli anni che andarono dall’otto settembre del 1943, data dell’armistizio, sino all’entrata in vigore
della Costituzione, furono caratterizzati da un ordinamento giuridico definibile come “transitorio”.
Tornare indietro allo Statuto avrebbe infatti significato legittimare nuovamente e pienamente le
istituzioni monarchiche, mentre i partiti antifascisti erano caratterizzati, invece, da ideologie

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repubblicane. I sei partiti politici antifascisti (partito liberale, partito democratico del lavoro, partito
della democrazia cristiana, partito di azione, partito socialista di unità proletaria, partito
comunista italiano) riuniti nei Comitati di Libertà Nazionale (CLN) posero sin da subito la
questione istituzionale, cioè il passaggio da una monarchia fortemente compromessa con il
regime fascista, alla forma repubblicana.

Nel 1944, fu stipulato il cosiddetto “patto di Salerno”, con cui il Re si sarebbe ritirato a vita
privata, nominando il figlio luogotenente del Regno, mentre finita la guerra, una Assemblea
Costituente avrebbe deciso sia sulla riforma di Stato (Monarchia o Repubblica), sia sul nuovo
assetto costituzionale.
La prima parte del patto fu messa in atto subito dopo la liberazione di Roma.
Il decreto legge 25 giugno 1944 stabiliva il deferimento della scelta istituzionale ad una
Assemblea Costituente da eleggersi direttamente alla fine della guerra, mentre il Comitato di
Liberazione Nazionale, il Governo in carica e il luogotenente, si impegnavano a non compiere
atti che potessero pregiudicare la questione istituzionale (la cosiddetta “tregua istituzionale”).
Con un successivo decreto luogotenenziale 16 marzo 1946 queste scelte furono poi modificate:
si sottrasse infatti la scelta sulla forma di Stato (Monarchia o Repubblica) all’Assemblea
Costituente, per attribuirla direttamente alla volontà popolare attraverso un referendum. Fu
stabilito altresì che la funzione legislativa non sarebbe stata esercitata dalla stessa Assemblea
Costituente, come prima determinato, ma bensì dal Governo.

Il referendum istituzionale avrebbe dovuto tenersi il 2 di giugno del 1946. Nel maggio Vittorio
Emanuele III, che con il patto di Salerno si era ritirato in maniera definitiva dalla vita pubblica,
abdicò in favore del figlio Umberto, ponendo così in essere un atto che non poteva compiere,
poiché non aveva più poteri e quindi non poteva abdicare. Violò così la tregua istituzionale, ma
nonostante questo atto fosse illegittimo Governo e partiti dei Comitati di Liberazione Nazionale
non si opposero, infatti il rischio di un conflitto e il rinvio del referendum istituzionale era troppo
grande.

Il referendum istituzionale si svolse regolarmente e la Repubblica vinse sia pure con uno scarto
non enorme (12.717.923 voti contro 10.719.284).

4. L’Assemblea Costituente

Il decreto luogotenenziale del marzo 1946, che attribuiva la questione istituzionale ad un


referendum popolare e sottraeva alla Assemblea Costituente il potere di fare le leggi, fu da molti
interpretato come un colpo di coda della monarchia. In particolare, l’attribuzione di questo potere
all’Assemblea Costituente, era stato considerato da alcuni come un mezzo necessario per porre
in essere immediatamente in Italia, insieme alla entrata in vigore della Costituzione, quelle
riforme in senso sociale che la Costituzione stessa implicitamente prevedeva. La sottrazione di
quel potere fu allora considerato come limitante, perchè avrebbe impedito di compiere quella
“rivoluzione sociale” di cui si riteneva l’italia avrebbe avuto necessità.
In realtà, e a posteriori, ciò ebbe effetti positivi sulla nascita della Costituzione, contribuendo a
creare un clima di distacco all’interno dell’Assemblea rispetto alle vicende politiche del paese.
Staccata dalla politica e dalla questione istituzionale che divideva l’Italia, l’Assemblea
Costituente poteva concentrarsi su una Costituzione in grado di guardare lontano.

Con la elezione dell’Assemblea Costituente, inoltre, si concludeva un periodo storico ed un


modello politico e se ne prova un’altro. Il paese era fortemente diviso. La repubblica aveva vinto,
ma circa 10.000.000 di elettori avevano votato per la monarchia.

L’obbiettivo pregiudiziale della Costituzione era prima sociale che giuridico, perchè occorreva
prioritariamente contenere le disomogeneità allo scopo di evitare conflitti sociali e derive

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autoritarie. La Costituzione doveva quindi prevedere un sistema articolato di diritti ed uno Stato
che fosse in grado di intervenire per equilibrare le forti disuguaglianze sociali ed economiche.
Occorreva poi un sistema articolato di protezione dei diritti delle minoranze, proprio a tutela di
una società divisa, ed un sistema di garanzie per evitare che una maggioranza contingente
potesse prendere il sopravvento sull’altra parte.

L’Assemblea Costituente, nel giugno del 1946, non disponeva di un progetto, quantomeno
iniziale, di Costituzione. Per redigere un progetto iniziale di discussione fu istituita una
commissione, detta Commissione dei 75, composta proporzionalmente rispetto ai gruppi
parlamentari. La Commissione fu divisa in tre sottocommissioni: la prima per i diritti e i doveri dei
cittadini, la seconda per l’organizzazione costituzionale dello Stato, la terza per i lineamenti
economici e sociali.

Ma quali erano le linee guida della Costituzione?


Il punto di partenza è dato dal carattere democratico dello Stato repubblicano, con la
conseguenza che la sovranità è attribuita al popolo. Anche la sovranità popolare è tuttavia
limitata poiché il popolo la esercita, come recita l’art. 1 “nelle forme e nei limiti della
Costituzione”. Dunque, come nelle costituzioni dell’età contemporanea, la sovranità non
preesiste alla Costituzione, ma da essa deriva ed è limitata.

La priorità del popolo rispetto allo Stato è ulteriormente declinata nella prima parte della
Costituzione, che è improntata ad un modello a socialità progressiva o a piramide invertita. La
Costituzione doveva trattare dei diritti della persona, che poi si allargavano all’interno delle
associazioni, per poi trarre quelle particolari associazioni che hanno particolari riflessi nella vita
politica (partiti e sindacati), e solo dopo trattare della forma di Governo, per poi concludersi con
le garanzie della Costituzione.

Per quello che concerne la secondo parte della Costituzione, relativa alla forma di Governo, non
vi furono alternativa realistiche alla forma di Governo di tipo parlamentare.
Le ragioni di questa scelta erano del resto numerose e incontrovertibili. In primo luogo
certamente la cultura di origine liberale di una parte considerevole dei costituenti, spingevano
verso un modello in parte già sperimentato nel periodo statuario e razionalizzato nella
Costituzione francese della III Repubblica. Questo modello necessitava di essere modernizzato,
razionalizzato, reso più efficiente e garantito, ma poteva costituire un punto di partenza comune.
In secondo luogo la scelta di questa forma di Governo era ampiamente giustificata dalle
caratteristiche politiche e sociali dell’Italia del dopoguerra.
Per definire il “tipo” di forma di Governo parlamentare il 3 settembre del 1946 fu votato un ordine
del giorno, il cosiddetto ordine del giorno Perassi. In questo ordine del giorno si partiva dal
presupposto che la forma di Governo italiana sarebbe stata caratterizzata da un sistema partitico
a multipartitismo estremo; che il sistema elettorale sarebbe stato certamente un sistema
elettorale di tipo proporzionale; che conseguentemente le crisi di Governo sarebbero state
frequenti; che occorreva quindi un modello parlamentare con strumenti di stabilizzazione del
governo.

Accanto alla forma di Governo si ritenne poi necessario prevedere un sistema articolato di
autonomia territoriali. Le autonomie territoriali erano viste in funzione di contrappeso rispetto al
governo centrale, e come strumento per avvicinare la decisione politica ai cittadini.
I Comuni e le Province, come meri enti di decentramento amministrativo esistevano già. Ad essi
si ritenne opportuno aggiungere un terzo livello che si collocasse tra i Comuni, le Province e lo
Stato. Questo nuovo livello, le Regioni, che avrebbe dovuto essere non solo amministrativo ma
anche politico (cioè con la possibilità di approvare leggi e non solo atti amministrativi), era
tuttavia sconosciuto alla tradizione costituzionale italiana.

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Infine, posto che la Costituzione doveva essere rigida, a garanzia dei diritti fondamentali e del
sistema pluralistico che la Costituzione aveva posto in essere, occorreva un sistema di giustizia
costituzionale che tal rigidità potesse controllare. La scelta di un organo deputato allo
svolgimento della giustizia costituzionale, cioè al controllo delle leggi rispetto alla Costituzione,
ricadde sulla Corte costituzionale.

5. Il congelamento della Costituzione e il suo successivo disgelo

La Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio del 1948. La prima legislatura dell’Italia


repubblicana, infatti, non fu tesa all’attuazione della Costituzione, ma al contrario fu
caratterizzata da quello che Calamandrei chiamò “l’ostruzionismo della maggioranza”, cioè dalla
volontà della maggioranza governativa di non rendere concretamente applicabili alcune delle
norme costituzionali. Molti degli istituti “nuovi” della Costituzione, segnatamente quelli di
garanzia, necessitavano infatti di leggi ordinarie per poter essere completati e resi operativi.
La Corte costituzionale (istituita poi nel 1956) necessitava di leggi per essere attuata, così come
il referendum popolare (istituito poi nel 1970), così come il Consiglio superiore della magistratura
(istituito poi nel 1958), così come il sistema regionale (istituito poi nel 1970). Queste leggi furono
approvate in anni molto posteriori alla entrata in vigore della Costituzione.

Infine è vero che la Costituzione era entrata in vigore, ma nessuno aveva abrogato la
legislazione fascista ancora vigente. La Corte di Cassazione elaborò una distinzione tra le
norme della Costituzione distinguendo tra norme precettive (immediatamente applicabili) e
norme programmatiche, considerate non applicabili ma solo programmi che il legislatore
avrebbe dovuto attuare. Poiché la gran parte delle norme sui diritti fondamentali era considerata
programmatica, di fatto alla parte più innovativa e garantistica della Costituzione veniva sottratto
il valore giuridico.

Il c.d. “disgelo della Costituzione” iniziò nel 1955, quando fu eletto Presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi, che indicò l’attuazione della Costituzione come obbiettivo principale da
perseguirsi. Nel 1956 fu resa operativa la Corte Costituzionale, la quale, sconfessò radicalmente
l’indirizzo giurisprudenziale tenuto sino ad allora dalla Corte di cassazione, riconoscendo che
tutte le norme costituzionali possono determinare l’illegittimità costituzionale delle norme
legislative contrastanti.

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CAPITOLO III
COSTITUZIONE E PROCEDIMENTO DI REVISONE

1. Caratteri essenziali della Costituzione italiana: una sintesi

La Costituzione italiana presenta tutti i caratteri classici delle Costituzioni contemporanee.


È in primo luogo una Costituzione definibile come fonte superiore in quanto espressione del
potere costituente. È una Costituzione rigida, poiché è previsto un procedimento aggravato per
la sua modificazione, disciplinato nell’art. 138. È una Costituzione lunga, perchè non vi sono
trattati solamente i diritti classici di libertà e l’organizzazione della forma di Governo, ma, oltre a
contenere un ampliamento dei diritti di libertà e i nuovi diritti c.d. “sociali”, vi si rinvengono norme
di natura non solamente verticale (che disciplinano il rapporto tra lo Stato e il cittadino), ma
anche di natura orizzontale, che disciplinano cioè il rapporto tra i cittadini. È infine una
Costituzione sociale perchè molte norme contenute all’interno della Costituzione determinano
un programma di mutamento della società, prevedono anche interventi dello Stato allo scopo di
attuare questo programma.

2. I caratteri essenziali delle norme contenute nella Costituzione

Ancorché le norme costituzionali siano qualificabili come norme giuridiche, esse non hanno tutte
la stesse caratteristiche tipologiche, non svolgono tutte le stesse funzioni, e dunque non hanno
tutte la medesima efficacia. Queste diverse funzioni si riflettono sulla struttura delle norme e
quindi sulla loro efficacia.

Le norme contenute nella Costituzione possono essere distinte preliminarmente in norme ad


efficacia diretta e norme ad efficacia indiretta.
Le norme ad efficacia diretta sono quelle disposizioni costituzionali la cui la cui struttura è
sufficientemente completa da poter essere applicata senza la necessità dell’interposizione del
legislatore. Esse possono essere utilizzate (e applicate) direttamente dai giudici, dalla Pubblica
Amministrazione, dai privati. La diretta applicabilità delle norme costituzionali costituisce una
caratteristica tipica delle Costituzioni contemporanee. Si considerino ad esempio l’artt. 30
1°comma e 36, il cui scopo è di porre un precetto sufficientemente determinato, che non
necessita di specificazioni ulteriori, e che quindi è direttamente applicabile. È opportuno riflettere
sul fatto che queste norme, c.d. direttamente applicabili della Costituzione, svolgono una doppia
funzione. Esse operano come una norma di una fonte ordinaria, quando debbono essere
applicate in un caso concreto, ma costituiscono anche parametri di legittimità costituzionale, nel
giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, quando vi sia una legge che preveda norme
incompatibili con la disposizione costituzionale. In relazione a questo ultimo profilo, si dice allora
che esse svolgono anche una funzione invalidante, poiché la legge che prevede norme contrarie
alla Costituzione è illegittima.
Le norme ad efficacia indiretta sono invece quelle norme costituzionali che che necessitano di
essere attuate attraverso una ulteriore attività normativa. Esse costituiscono una ampia
categoria, e infatti possono distinguersi in norme ad efficacia differita, norme di principio, norme
programmatiche.
- Norme ad efficacia differita sono costituite da quelle disposizioni costituzionali che rinviano,
per la loro attuazione, ad un’altra fonte. Un esempio è dato dall’art. 75 che disciplina l’istituto
del referendum, dove all’ultimo comma tale articolo prevede “la legge determina le modalità di
attuazione del referendum”. Analogamente la Costituzione prevede che le norme per la
costituzione ed il funzionamento della della Corte costituzionale siano previste con la legge
ordinaria (art. 136 2° comma).
- Le norme di principio invece pongono regole molto generali che possono applicarsi ad un
numero indefinito di casi. La funzione principale delle norme di principio è quella di “guidare” il

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legislatore ad applicare il principio, per trasformare regole molto generali in una o più
fattispecie normative astratte. Sono norme di principio gli artt. 13, 14 e 24. Le norme di
principio svolgono quindi essenzialmente una funzione invalidante nei confronti di una legge
che contenesse disposizioni contrarie al principio.
- Le norme programmatiche, infine, sono norme ancora più generali delle norme di principio.
Mentre il principio individua ed enuclea un valore già esistente, il programma prevede un fine,
peraltro molto generale, da raggiungere. Ad esempio il 1° comma dell’art. 4, oppure l’art. 3 2°
comma. Queste norme hanno in primo luogo un efficacia invalidante, poiché possono
costituire un parametro per un giudizio di legittimità costituzionale una legge quando questa
contenta previsioni che siano evidentemente contrarie contro il programma enunciato. Le
norme programmatiche svolgono inoltre anche una funzione che potrebbe essere definita
come di “stimolo e moderazione politica”, poiché servono a collocare il dibattito tra
maggioranza e opposizione all’interno di obiettivi già determinati da una maggioranza
costituzionale.

3. Il procedimento di revisione costituzionale

La rigidità della Costituzione trova il suo punto di riferimento formale nell’art. 138, che stabilisce il
procedimento per modificare la Costituzione. Tale procedimento è principalmente finalizzato ad
evitare che la riforma della Costituzione possa avvenire per volontà della sola maggioranza di
Governo: posto che la Costituzione contiene principi condivisi da maggioranza e minoranza, e
dunque costituisce garanzia per entrambi, non può essere modificata da una sola parte. L’art.
138 stabilisce quindi un procedimento aggravato (rispetto al procedimento ordinario per
l’approvazione delle leggi) per modificare la Costituzione, con la previsione di tempi più lunghi,
maggioranze più elevate, eventuale intervento diretto del popolo.
La norma infatti recita: “

Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive
deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera
nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano
domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a
referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a
maggioranza di due terzi dei suoi componenti.”

Per l’approvazione delle leggi di revisione occorrono dunque:


a) due deliberazioni ad intervallo non minore di 3 mesi da parte di ciascuna Camera. L’intervallo
di almeno tre mesi tra una deliberazione e l’altra costituisce il c.d. periodo di riflessione,
periodo che allunga il procedimento, aggravandolo. Nella seconda deliberazione occorre
almeno la maggioranza assoluta (la metà più uno dei componenti della Camera, mentre la
maggioranza semplice con la quale si approvano le leggi ordinarie è costituita dalla metà più
uno dei presenti). Se tale maggioranza non viene raggiunta, il procedimento decade.
b) Se nella seconda votazione la legge viene approvata a maggioranza dei due terzi dei sui
componenti il procedimento è concluso. La legge viene promulgata e pubblicata nelle
forme ordinarie e quindi entra in vigore.
c) Se viceversa nella seconda votazione si raggiunge la maggioranza assoluta ma non la
maggioranza dei due terzi, la legge viene pubblicata perchè può essere richiesto, entro tre
mesi, un referendum da parte di un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila
elettori o cinque consigli regionali. La pubblicazione delle legge costituisce una
pubblicazione atipica, poiché mentre ordinariamente l’istituto della pubblicazione segue la
fase della promulgazione da parte del Presidente della Repubblica e segna il momento della
entrata in vigore della legge, in questo caso non vi è promulgazione, perchè la pubblicazione
è effettuata solo al fine della proposizione del referendum.

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Il referendum è proposto allo scopo di approvare la legge di revisione costituzionale, e infatti
se la maggioranza dei voti validi non si esprime favorevolmente, la legge non viene
promulgata. Il referendum approvativo costituisce la garanzia più importante della rigidità
costituzionale. La possibilità di richiedere il referendum costituisce un potere che la
Costituzione attribuisce alle minoranze (1/5 dei membri di una Camere, 500.000 elettori).
Il voto popolare nel referendum costituzionale costituisce una evidente evocazione del
potere costituente, è il popolo infatti che “approva” il progetto di riforma della Costituzione
attraverso il suo voto diretto, espresso con lo strumento referendario. Non si darà luogo al
referendum nel caso in cui la legge sia stata approvata nella seconda votazione a
maggioranza dei due terzi.

4. Limiti logici della revisione costituzionale

L’art. 138 garantisce la rigidità della Costituzione. Ma cosa della Costituzione può essere
modificato attraverso il procedimento di revisione costituzionale?
Il punto di partenza del ragionamento è dato dalla natura del procedimento di cui all’art. 138
della Costituzione: il procedimento di revisione è un procedimento costituito e non invece
costituente. Non è un procedimento costituente perchè presuppone l’esistenza della
Costituzione. Se tuttavia il potere di revisione della Costituzione è un potere costituito, attraverso
l’esercizio di questo potere si può modificare la Costituzione, ma non sostituirla integralmente
con una nuova costituzione, poiché per avere una nuova Costituzione occorrerebbe esercitare
il potere costituente. All’esito del processo di revisione dovrà dunque ancora esistere la
precedente Costituzione, sia pure modificata attraverso la legge di revisione.
Il problema si sposta allora nel determinare quando è che la modifica della Costituzione porta ad
una “nuova” Costituzione, e quando invece la modifica della Costituzione produce un
cambiamento ma all’interno della stessa costituzione. In altre parole quale è il contenuto
essenziale di una Costituzione, tanto che modificato quello la Costituzione è considerabile come
nuova, e quale è invece quella, o quelle parti della Costituzione, la cui modifica non determina
un nuova Costituzione.

5. Contenuto essenziale della Costituzione ovvero i limiti impliciti alla revisione

Si può fare una distinzione per distinguere i principi fondamentali della Costituzione dalla
attuazione di questi principi. I primi costituiscono quella parte della Costituzione che non è
suscettibile di revisione, in quanto contenuto essenziale e caratterizzante della Costituzione
stessa, mentre i secondi non ne costituiscono il contenuto essenziale e quindi possono essere
oggetto di revisione. Anche la prima parte della Costituzione, riferita ai diritti fondamentali può
essere oggetto di revisione, purché vengano salvaguardati i principi fondamentali ivi espressi.
Da decisioni costituzionali deriva la conferma che il limite alla revisione della Costituzione, o
altrimenti detto il contenuto essenziale non modificabile della Costituzione, non lo si trova in parti
della Costituzione che non sarebbero mai rivedibili a differenza di altre, o in specifiche norme
costituzionali che non sarebbero mai toccabili dalla revisione, ma al contrario nei principi
fondamentali che la Costituzione esprime.
Dalla esistenza di principi fondamentali non modificabili attraverso il procedimento di revisione
consegue che, se un legge di revisione della Costituzione modificasse tale principi, essa
sarebbe a sua volta incostituzionale, e quindi soggetta al giudizio di legittimità costituzionale da
parte della Corte costituzionale.

Un problema specifico riguarda poi la questione se, attraverso una legge di revisione, approvata
con il procedimento di cui all’art.138, possa modificarsi l’art. 138 stesso. Questo procedimento è
stato dai più ritenuto legittimo in considerazione del fatto che la rigidità della Costituzione
sarebbe comunque rispettato.

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6. L’art. 139 della Costituzione tra limite esplicito e limite implicito

L’ultimo articolo della Costituzione, il 139, indica poi un ulteriore limite alla revisione della
Costituzione, che è definito normalmente come un limite esplicito. Secondo l’art. 139 della
Costituzione, infatti, “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” e
la ragione di questa limitazione espressa è evidente: la forma di Stato repubblicana è
contrapposta alla forma di Stato monarchica, in conseguenza dell’esito del referendum del 1946,
che aveva scelto la Repubblica invece della monarchia. La Repubblica, come forma di Stato, si
basa infatti a sua volta su una sere di principi che non possono essere modificati in quanto ad
essa connaturati (es. principio democratico rappresentativo, diritto ad associarsi in partiti, diritti di
espressione del pensiero..). L’eliminazione di questi principi costituirebbero alla fine una modifica
della forma repubblicana, cosicché può correttamente sostenersi che l’art. 139 della Costituzione
contiene anche dei limiti impliciti alla revisione, limiti che si sostanziano nella non modificabilità
di quegli istituti che sono connaturati ad una forma di Stato di tipo democratico rappresentativo.

7. Le altre leggi costituzionali

La Costituzione non stabilisce che soltanto le leggi di revisione siano approvate con il
procedimento di cui all’art. 138, ma che con quel procedimento siano approvate anche le “altre
leggi costituzionali”. L’art. 138 differenzia dunque, concettualmente, le leggi di revisione dalle
leggi costituzionali che di revisione non sono, fermo restando che per entrambe le categorie di
leggi il procedimento previsto per la loro approvazione è quello aggravato, disciplinato dallo
stesso art. 138.

Quale è dunque la differenza tra le leggi che modificano la Costituzione e le altre leggi
costituzionali?
Le leggi di revisione sono quelle leggi che modificano la Costituzione, mentre le altre leggi
costituzionali non modificano la Costituzione, ma in qualche misura la completano, sia pure, si
potrebbe dire “dal di fuori”, senza cioè entrare a far parte del testo della Costituzione formale.
Vi sono molti casi infatti nei quali la Costituzione prevede che una determinata materia sia
disciplinata attraverso un legge costituzionale (riserve costituzionale). Ad esempio l’art. 137 della
Costituzione, a proposito della Corte costituzionale, stabilisce che sia una legge costituzionale a
stabilire le condizioni, le forme, i termini di proponibilità ed i giudici di legittimità costituzionale e
le garanzie di indipendenza di giudici della Corte. Si tratta di una legge che integra la
Costituzione, poiché senza di essa la Corte costituzionale non potrebbe operare.

Vi sono in verità anche dei casi nei quali, pur in presenza di una riserva costituzionale che rinvia
la materia ad una legge costituzionale, l’effetto finale di quella legge non è quella di integrare la
Costituzione, ma sostanzialmente di modificarla, come per esempio l’art. 132 1° comma della
Costituzione.

8. La adattabilità delle Costituzioni rigide: le consuetudini costituzionali, le convenzioni


della costituzione e la prassi.

La dottrina ha sempre distinto tra consuetudini costituzionali e convenzioni costituzionali.


La consuetudine costituzionale è caratterizzata da comportamenti, ritenuti nel tempo, posti in
essere da organi costituzionali, che quegli stessi organi costituzionali consideravano come
vincolanti.
La convenzione della Costituzione, invece, può essere definita come un comportamento ripetuto
nel tempo, posto in essere da organi costituzionali, applicativo di norme giuridiche, che diviene
vincolante sin tanto che permangono i presupposti di fatti che hanno dato luogo a quei
comportamenti.
La distinzione sta in questo: la consuetudine costituzionale sorge dal comportamento di un

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organo costituzionale, mentre la convenzione nascerebbe comunque da un accordo, sia pure
implicito, tra più organi costituzionali. Inoltre la consuetudine creerebbe una norma da un mero
comportamento, mentre nel caso della convenzione il comportamento, creativo della norma,
conseguirebbe dalla applicazione di una norma costituzionale già esistente.

Dalle convenzioni della Costituzione si suole distinguere la c.d. prassi.


La differenza è anche in questo caso assai sottile: mentre le convenzioni della Costituzione
costituiscono comportamenti ripetuti nel tempo che creano norme, la prassi costituisce
l’applicazione concreta e ripetuta nel tempo di una norma costituzionale. La prassi cioè, a
differenza delle consuetudini e delle convenzioni, non crea norme, perchè si sostanzia in un
comportamento interpretativo di norme esistenti.

Le convenzioni della Costituzione, ed anche le prassi, svolgono la importante funzione di


rendere una Costituzione rigida adattabile al modificarsi della Costituzione materiale.

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CAPITOLO IV
VERSO LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE

1. La Costituzione del 1948: un bilancio storico

La Costituzione aveva il fine principale di garantire la democrazia e la coesione sociale in un


momento storico nel quale questi valori fondamentali erano tutt’altro che sicuri e garantiti. I
modello che si cercava di raggiungere era infatti quello di una democrazia non maggioritaria ma
pluralista, all’interno della quale il potere di decidere fosse sempre bilanciato da un controbattere
di controllo e di garanzia.

Può certamente dirsi che la Costituzione italiana ha raggiunto gli obbiettivi che ad essa erano
stati assegnati, e principalmente quella di traghettare il paese verso una democrazia compiuta,
da una fase nella quale questo passaggio era tutt’altro che scontato. Ha anche raggiunto
l’obbiettivo di garantire un sistema di libertà che è ormai penetrato nel paese. Gli anni anni
migliori della Costituzione sono stati quelli che vanno dalla metà degli anni ’50 sino agli anni ’70,
quando essa è stata capace di assorbire possibili derive antidemocratiche, rafforzare i diritti di
libertà, garantire una crescita economica estendendo allo stesso tempo le garanzie dei diritti alle
classi più deboli.

Il funzionamento della forma di governo ha mostrato alcune crepe a partire dalla metà degli anni
’70. Le debolezze dei Governi e le continue crisi non garantivano una continuità dell’indirizzo
politico; la mancanza di stabilità e forza dei Governi produceva l’utilizzazione di strumenti
normativi eccezionali, quali il decreto legge, che divenivano mezzi ordinari di normazione;
l’ambiguità del modello del decentramento regionale, con le regioni che erano certamente
qualcosa più di enti di decentramento amministrativo, ma qualcosa di molto meno di enti in
grado di sviluppare una propria politica, sembrava necessitare di una rivisitazione.
A cavallo tra il 1999 e il 2001 andò invece in porto la riforma del sistema regionale che
prevedeva un notevole - finanche eccessivo - rafforzamento delle competenze delle Regioni. La
riforma ha prodotto un elevatissimo livello di contenzioso tra lo Stato e le Regioni sul riparto delle
competenze.

2. Ragioni a favore e a sfavore del cambiamento

In primo luogo con la modifica costituzionale si abbandona la propria storia, un lungo processo
di identificazione di un corpo sociale nel quale la Costituzione ha recitato un ruolo importante. In
secondo luogo, quando si cambia una Costituzione, tutte le implicazioni del cambiamento non
sono affatto evidenti nel momento in cui il processo di cambiamento avviene. Si tratta di un
processo che prende molto tempo e i cui esiti non sono prevedibili con il semplice cambiamento
della norma. Infine il processo di cambiamento di una Costituzione è estremamente delicato,
poiché gli istituti sono legati tra loro, cosicché, quando si modifica una parte, bisogna avere
contezza degli effetti che questi cambiamenti generano sulle altre.

Detto questo, tuttavia, non è neppure vero che la Costituzione non debba essere mai modificata
o “aggiornata”. Vi sono momenti storici nei quali le crisi sociali, le crisi economiche, le crisi dei
partiti, producano inevitabilmente una crisi delle istituzioni rappresentative e per conseguenza
delle norme costituzionali che le fondano. Quando questo accade il rischio di un distacco tra la
Costituzione e la società è molto elevato, e quello che era stata la vera forza della Costituzione -
la capacità di tenere uniti in presenza di valori condivisi - rischia di venire meno. La modifica
della Costituzione risponde allora ad una esigenza sociale di cambiamento che consente di
ritrovare la coesione e i riferimenti perduti.

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Nel caso italiano, per la verità, non è troppo difficile individuare le carenze storiche del sistema.
In linea molto generale e semplificative, può dirsi che gli strumenti per rafforzare, stabilizzare, e
rendere coerente l’indirizzo politico del sistema, non sono particolarmente considerati nel testo
costituzionale.
In primo luogo è ben noto che già nella Costituzione del 1948 il Governo nasceva debole. La
Costituzione non aveva posto né meccanismi di stabilizzazione del Governo, né di rafforzamento
del Presidente del Consiglio, né di rinforzo del Governo in Parlamento, tutti principi per la verità
compatibili con la forma di governo parlamentare.
In secondo luogo, anche il modello del bicameralismo paritario non conosce guai nei sistemi
costituzionali. Infatti dove vi è un sistema bicamerale si tende a differenziare la seconda Camera
per composizione e competenze, mentre nel nostro ordinamento la seconda Camera, svolge
principalmente la funzione di Camera di riflessione.
In terzo luogo anche il sistema regionale era nato molto incerto nella Costituzione. Dopo molti
anni di inalazione le regioni furono rese operative nel 1970 nel quadro di un sistema di
competenze assai confuso; solo tra il ’99 e il 2001 sono state oggetto di una riforma
costituzionale che voleva aumentarne il ruolo e le competenze.

3. Le linee fondo della riforma approvata dal Senato

L’obbiettivo della riforma è quello di una semplificazione dei processi decisionali e di qualche
rafforzante del potere decisionale del Governo. Il progetto si basa su quattro direttrici di fondo:
a) il rafforzamento di alcuni poteri del Governo in Parlamento, al fine di favorire la stabilità
dell’azione di Governo;
b) una semplificazione del modello delle autonomie, ed anche nella sostanza, un suo
ridimensionamento;
c) il passaggio da un sistema bicamerale perfetto ad un sistema bicamerale differenziato,
all’interno del quale il Senato svolge funzioni diverse rispetto alla Camera e quindi ha anche
composizione diversa;
d) il rafforzamento, in funzione di bilanciamento, di alcuni organi di garanzia per compensare i
maggiori poteri del Governo e la perdita della seconda Camera come Camera di riflessione.

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PARTE II
FONTI DEL DIRITTO

CAPITOLO I
NORME GIURIDICHE E FONTI DEL DIRITTO

1. Ordinamento ed ordinamenti giuridici

La Costituzione pone norme che disciplinano i poteri dello Stato e i diritti fondamentali dei
cittadini, costituendo le basi dell'ordinamento giuridico dello Stato. È ora necessario precisare il
concetto di ordinamento giuridico, di Stato e di norma giuridica.
Un ordinamento giuridico è costituito da un gruppo sociale organizzato, ordinato secondo
determinate regole. Non ogni gruppo sociale costituisce tuttavia un ordinamento, poiché un
ordinamento giuridico è dotato dei seguenti necessari requisiti:

a) la stabilità del gruppo sociale, intesa come dimensione temporale durevole di quel gruppo;

b) l'organizzazione, intesa come distribuzione di funzioni, competenze, diritti e doveri, in


sostanza esistenza di regole che disciplinano la vita del gruppo sociale e che sono
considerate come vincolanti.

La stabilità nel tempo serve a distinguere l'esistenza di un gruppo sociale da altri elementi
episodici di aggregazione umana. L’elemento della stabilità, infatti, può realizzarsi solo quando in
un gruppo sociale si radichino interessi generali che, in quanto appartenenti all'intero gruppo,
siano durevoli nel tempo. Il radicamento di interessi generali produce dunque la stabilità, che a
sua volta costituisce il presupposto per la produzione di regole. Quando infatti un gruppo sociale
diviene stabile, occorrono strumenti organizzativi per proteggere giuridicamente gli interessi
facenti capo al gruppo. Le regole stabiliscono gli obbiettivi, le procedure per il soddisfacimento
degli interessi, i compiti degli associati, ecc., determinando quindi una organizzazione giuridica.
In definitiva ogni gruppo sociale stabile può dettare regole che sono giuridicamente vincolanti
per coloro i quali fanno parte di quel gruppo sociale, e dunque può costituire un ordinamento
giuridico. Gli ordinamenti giuridici, allora, possono essere tanti quanti sono i gruppi organizzati
che presentano i requisiti sopra indicati: secondo questa concezione, lo Stato costituisce
l'ordinamento giuridico di livello più alto, più stabile, e le cui regole sono dotate di maggiore
forza.
La differenza tra ordinamento statale e altri ordinamenti è dunque prevalentemente qualitativa
ma non ontologica. Lo Stato è infatti legittimato a produrre regole in quanto ordinamento
giuridico, nato come gruppo sociale stabile, e non in virtù di una sovranità originaria che lo
differenzia dagli altri ordinamenti giuridici.
La ricostruzione teorica qui riportata, denominata "teoria della pluralità degli ordinamenti
giuridici", si basa sul principio della socialità del diritto, e cioè sull'idea che l'esistenza del diritto
come sistema di regole è connaturale alla stessa esistenza di una società.

2. Le norme giuridiche

La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici trova peraltro una ulteriore conferma
allorquando si vada ad analizzare i caratteri delle norme giuridiche. Dalla analisi delle
caratteristiche delle norme, emerge infatti che esse non necessariamente debbono essere poste
dallo Stato, ma possono essere poste in essere anche da altri ordinamenti.

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La norma giuridica costituisce la tipizzazione astratta di un comportamento concreto, ed è
caratterizzata dalla esteriorità la generalità e l'astrattezza, la coercibilità e la previsione di una
sanzione. Se analizziamo singolarmente questi caratteri possiamo facilmente vedere come essi
sono tipici non soltanto delle regole poste dallo Stato, ma anche di regole poste da ordinamenti.

a) L'esteriorità
Esteriorità significa che la norma è prodotta da un soggetto esterno a colui il quale deve
rispettarla, e da questo elemento deriva la distinzione tra regole giuridiche e regole morali. Le
regole morali, infatti, si distinguono da quelle giuridiche per essere autonome (cioè non imposte
da altri), nonché per la loro assolutezza ed universalità, mentre, come si è detto, la regola
giuridica è esterna al soggetto e contrapposta alla sua volontà. Peri il diritto, infatti, ciò che conta
è la conformità dell'azione all'astratta previsione normativa, mentre sono irrilevanti le ragioni per
le quali il soggetto intende conformarsi alla previsione in questione.

b) Generalità ed astrattezza
Normalmente per generalità si intende la capacita della norma di regolare fatti o comportamenti
senza riferimento a situazioni o soggetti determinati, mentre per astrattezza si intende la
ripetibilità della regola per un tempo indeterminato. Questi caratteri svolgono una funzione di
garanzia nei confronti dei destinatari della norma.
Il pensiero di Rousseau tende a collegare la generalità alla tutela dell’uguaglianza, mentre per
Montesquieu la generalità e la astrattezza della norma servono a garantire la libertà del singolo
e la limitazione del potere. Se la norma è generale ed astratta, infatti, ciò limita la possibilità di
“ingiustizie" e discriminazioni da parte dell'autorità nei confronti di singoli cittadini.
Se la norma non è indirizzata ad una persona singola, ma ad una generalità di persone ed
inoltre è astrattamente ripetibile, ciascuno è garantito di un trattamento eguale.
Generalità ed astrattezza costituiscono tuttora una categoria fondamentale per distinguere ciò
che è normativo da ciò che non è. Mentre infatti la attività del disporre comporta il prevedere
fattispecie generali ed astratte, l’attività del provvedere implica attuare quella fattispecie generali
ed astratte. La sentenza del giudice, nella misura in cui applica ad una fattispecie concreta la
fattispecie astratta prevista dalla norma, compie una operazione di sussunzione della fattispecie
concreta nella fattispecie astratta.

c) Coercibilità e sanzione
Secondo la teoria tradizionale le norme giuridiche sono poi dotate del carattere della coattività,
nel senso che sono suscettibili di attuazione forzata e sono garantite nella ipotesi di
trasgressione, da una sanzione.
Il fatto che non vi sia una sanzione non implica tuttavia che questa tipologia di norme non sia
cogente e che non debba essere rispettata. Il mancato rispetto della norma, anziché
l’irrogazione di una sanzione, provocherà tuttavia l’effetto negativo implicito nella norma stessa.

3. Dalla disposizione alla norma: l'attività di interpretazione

Si è sino ad ora parlato, in senso generale di norme, ma la definizione giuridica corretta


dell'enunciato che presenta le caratteristiche descritti nel paragrafo precedente è quella di
disposizione. La disposizione, infatti, contiene l’enunciato astratto, mentre la norma è costituita
dalla disposizione nel momento in cui ad essa, attraverso l’attività di interpretazione, viene
attribuito un preciso significato in funzione della sua applicazione ed una fattispecie concreta.

L'interpretazione può essere dunque definita come quella attività intellettuale attraverso la quale,
partendo dagli enunciati contenuti in una disposizione, si giunge poi alla determinazione del loro
significato concreto, cioè alla norma.
Nello svolgimento di questa attività l’interprete “aggiunge” sempre qualcosa alla disposizione sia
per renderla coerente con altre disposizioni, sia per adeguarla alla fattispecie concreta, posto

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che quasi sempre quest’ultima non coincide con la fattispecie astratta delineata nella
disposizione.
Poiché questa attività viene principalmente svolta da organi che non hanno prodotto le norme (la
interpretazione è normalmente effettuata dai giudici), e come si diceva essa è esperita a valle
del momento produttivo della disposizione, la ampiezza concessa dall'ordinamento alla
interpretazione produce riflessi anche nei rapporti tra i poteri, e quindi anche sull'assetto
complessivo della forma di Governo.
In genere, infatti, può rilevarsi che tanto più lo Stato è chiuso ed autoritario, tanto meno
l’ordinamento concede la possibilità di interpretare in maniera evolutiva le disposizioni prodotte
dallo Stato medesimo. All’opposto si affermò nei primi del novecento in Germania, la scuola del
c.d. "diritto libero" i cui fautori auspicavano l'attribuzione ai giudici di vari poteri creativi sino al
punto di variare o correggere le norme secondo le esigenze del caso. Con questi esempi si
mostra come attraverso il tema dell'interpretazione l'ordinamento ricerchi un difficile equilibrio tra
la funzioni della produzione normativa e la funzione applicativa della norma.

3.1 interpretazione giudiziale e interpretazione autentica

Chi sono i soggetti deputati all’interpretazione?


Nel nostro ordinamento l’interpretazione è prevalentemente giudiziale, cioè esperita dai giudici
durante l’applicazione di una norma ad una fattispecie concreta, o autentica, cioè esperita dallo
stesso organo che ha approvato la disposizione normativa. Vi è poi la c.d. interpretazione
dottrinale, cioè l'interpretazione effettuata dagli studiosi della materia, che tuttavia ha un rilievo
giuridico-pratico nella misura in cui sia recepita dalla giurisprudenza, o nella misura in cui sia in
grado di sollecitare la giurisprudenza ad assumere determinate interpretazioni.

Prima di parlare della interpretazione giudiziale occorre chiarire in quale sistema di produzione
del diritto il nostro ordinamento si collochi. I modelli storici di produzione del diritto, infatti, sono
essenzialmente due: il sistema della formulazione giudiziaria, tipico degli ordinamenti
anglosassoni, e il sistema a formulazione legislativa, tipico degli ordinamenti di derivazione
romanistica come il nostro.
Nel primo sistema gli interventi dello Stato nella produzione di norme sono alquanto limitati. Le
"regole" provengono dalla soluzione giudiziale di casi concreti, poiché il giudice, nel risolvere
una controversia, crea un "precedente". Progressivamente il numero dei precedenti aumenta
tanto che si crea un sistema nel quale il diritto deriva principalmente dalla stratificazione delle
decisioni dei giudici che risolvono casi.
Nel secondo sistema invece il diritto non origina dalla soluzione del caso concreto, ma da
manifestazioni di volontà attraverso le quali vengono delineate ex ante le c.d. fattispecie astratte,
all'interno delle quali dovranno essere collocati i casi della vita (le fattispecie concrete). Spetterà
dunque al giudice applicare la disposizione alla fattispecie concreta, attraverso una attività di
interpretazione che è sempre necessaria per adattare la previsione normativa al caso concreto.
Nello svolgere questa attività i giudici sono sempre liberi di interpretare la legge, non essendo
vincolati ai precedenti, sia pure con il limite (non giuridico) del rispetto della giurisprudenza della
Corte di Cassazione, e in particolare della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione.
La interpretazione giudiziale è per sua stessa natura una interpretazione dinamica, perché
collegata alla applicazione di una norma astratta ad uno e poi a molti casi della vita che non
sono mai eguali a sé stessi.
L’interpretazione autentica è invece l’interpretazione del legislatore. È il legislatore stesso che
attribuisce alla norma, normalmente a posteriori e attraverso l'approvazione di un'altra norma, un
determinato significato. Questo tipo di interpretazione tende a cristallizzare il significato della
disposizione al momento della emanazione della norma di interpretazione autentica, poiché il
giudice difficilmente potrà discostarsi da una norma che ne interpreta una precedente

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3.2 La volontà del legislatore: interpretazione analogica, interpretazione adeguatrice

Le regole sulla interpretazione nel nostro ordinamento, sono dettate dagli artt. 12 - 14 delle
Disposizioni sulla legge in generale" del codice civile, altrimenti dette “Preleggi”.
L’art. 12, intitolato “l’interpretazione della legge”, recita al 1° comma: “nell’applicare la legge non
si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole
seconda la connessone di esse, e dalla intenzione del legislatore”. La disposizione individua
dunque in primo momento nell’attività interpretativa: la valutazione della intenzione del
legislatore e la valutazione dello scopo delle disposizioni (la c.d. ratio legis). Si tratta della
interpretazione c.d. soggettiva, perchè si fa riferimento alla volontà del legislatore per
interpretare le norme che egli stesso ha posto (la intenzione del legislatore); si tratta della
interpretazione c.d. oggettiva perché si fa riferimento al significato proprio delle parole,
indipendentemente, in questo caso, dalla volontà del legislatore (non si può ad essa attribuire
altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse).

Nel primo caso (interpretazione soggettiva), si guarda ad un legislatore concreto ed anche


storicamente identificato (quel legislatore che ha prodotto la norma in quel determinato momento
storico). Costituiscono infatti strumenti per la interpretazione soggettiva di un atto normativo i
lavori preparatori, il dibattito parlamentare, e in generale tutto quanto è idoneo a ricostruire la
volontà del soggetto che ha approvato il testo normativo in quel determinato momento. Nel
secondo caso (interpretazione oggettiva), si fa invece riferimento ad una sorta di legislatore
astratto, come sarebbe colui il quale pone le norme nel momento in cui queste debbono essere
interpretate. Queste due attività, interpretazione soggettiva ed interpretazione oggettiva,
debbono essere svolte congiuntamente dall'interprete.

Il 2° comma dell'art. 12 individua poi due ulteriori modi di interpretazione che hanno lo scopo di
colmare le c.d. lacune normative, quando cioè l'ordinamento non preveda una regola espressa
per una determinata fattispecie. L'art. 12 recita infatti: "se una controversia non può essere
decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o
materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali
dell'ordinamento dello Stato".

Si tratta nel primo caso della c.d. analogia legis e nel secondo caso della c.d. analogia iuris.
Quando in relazione ad una fattispecie concreta non vi è una norma che disciplina
espressamente e direttamente quella determinata fattispecie, deve farsi ricorso alle disposizioni
che regolano casi simili o materie analoghe (analogia legis). Quando ancora non sia possibile
applicare alla fattispecie norme che regolano casi analoghi, si deve fare riferimento ai principi
generali dell'ordinamento dello Stato (analogia iuris).
Il riferimento ai principi generali dell’ordinamento, se consente con difficoltà la copertura di vuoti
normativi, è tuttavia rilevante per interpretare le norme legislative esistenti secondo i principi
costituzionali, attraverso una ulteriore forma di interpretazione, avvalorata dalla Corte
costituzionale, che viene definita interpretazione adeguatrice.
Questo tipo di interpretazione si basa sull’assunto che legge e Costituzione non devono essere
interpretate separatamente, ma al contrario che la legge deve essere interpretata a luce della
Costituzione. Tra due interpretazioni di una norma legislativa, una conforme ai principi
costituzionali e l'altra non conforme, il giudice deve scegliere la prima, e non invece sollevare la
questione di legittimità costituzionale della legge davanti alla Corte costituzionale perché non
conforme a Costituzione.

3.3 Leggi penali, speciali ed eccezionali

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Le modalità di interpretazione delle norme penali (cioè le norme che prevedono reati e le pene
conseguenti), sono determinate attraverso previsioni poste dalle preleggi, dalla Costituzione, e
dal codice penale.

L'art. 14 delle "Disposizioni sulla legge in generale" recita infatti: "Le leggi penali e quelle che
fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse
considerati'. La norma introduce il c.d. principio di stretta interpretazione per le leggi penali,
che comporta che in questa materia sia fatto divieto di interpretazione analogica. L'art. 25 della
Costituzione (che ritroveremo trattando il problema della irretroattività della legge penale), d'altra
parte, stabilisce il principio della riserva di legge in materia penale: "nessuno può essere punito
se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". Solo la legge è
abilitata a determinare fattispecie di reato, e non invece fonti aventi grado inferiore alla legge.
Infine l'art. 1 del codice penale prevede che "nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente preveduto dalla legge come reato né con pene che non siano da essa stabilite’".
Anche questa norma esprime il principio di stretta legalità al quale è sottoposto il diritto penale,
poiché il fatto deve essere espressamente previsto dalla legge come reato.

Il principio di stretta interpretazione in materia penale deriva dal combinato disposto di queste
disposizioni. Poiché nella materia penale vige la regola che la legge deve espressamente
indicare la fattispecie che costituisce il reato, nonché la determinazione della pena, è implicito
che in questa materia non possa invece applicarsi il procedimento analogico. La interpretazione
analogica infatti postula proprio l'assenza di una disposizione che regola una fattispecie, e la
possibilità di applicare, per colmare il vuoto, una disposizione che regola un caso simile.
Il principio della riserva di legge in materia penale ed il correlato principio c.d. di stretta
interpretazione, costituiscono strumenti di garanzia in una materia particolarmente delicata,
perché incidente sulla libertà del cittadino. Queste previsioni sono finalizzate da una parte a
garantire che sia il Parlamento a stabilire reati e pene, e dall'altra parte a limitare il potere
discrezionale del giudice di estendere - come avviene con l'analogia - una previsione normativa
ad altre fattispecie. Se non vi è una espressa previsione normativa che regola una determinata
condotta, ciò significa che quella condotta è lecita e non può applicarsi ad essa una norma
penale che si riferisce ad una condotta simile. Oltre che per le leggi penali la interpretazione
analogica è esclusa, dall'art. 14 delle "disposizioni sulla legge in generale", anche per quelle
leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi.
Da questa norma si sono tratte implicitamente due categorie di leggi, per le quali è escluso il
metodo analogico: le leggi speciali, che farebbero eccezioni a regole generali, e le leggi
eccezionali che farebbero eccezione ad altre leggi.
Si può dire però che per legge speciale o eccezionale - dando ad esse il medesimo significato -
si intende una legge che deroga, in modo significativo, a leggi i cui principi sono generalmente
considerati come generali (ad esempio, la legge che ha sospeso in seguito al terremoto
dell'Abruzzo il pagamento delle tasse per i cittadini terremotati, costituisce un caso classico di
legge speciale o eccezionale, poiché essa deroga alla norma che impone a tutti i cittadini di
pagare le tasse).

4. Fonti del diritto: distinzioni preliminari

Si definiscono quindi fonti normative tutti quegli atti o fatti mediante i quali vengono poste norme
giuridiche. Per esemplificare, una legge approvata dal Parlamento contiene norme giuridiche,
ma è un atto diverso e distinto dalle norme che contiene. La legge è a sua volta una fonte del
diritto. Del pari un regolamento del Governo contiene norme giuridiche, e, pur avendo una forma
ed una forza diversa rispetto alla legge, è anche esso una fonte del diritto.
Le fonti del diritto si distinguono, preliminarmente, in fonti atto e fonti fatto.
Le fonti atto sono quelle fonti che provengono da un atto, cioè da una manifestazione di volontà

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espressa, come la legge che esprime la volontà del Parlamento.
Le fonti fatto provengono da un fatto, cioè da un comportamento materiale, e sono definite
consuetudini. La consuetudine è tradizionalmente caratterizzata da un comportamento ripetuto
nel tempo (elemento oggettivo), al quale si aggiunge la convinzione della sua forza vincolante
(elemento soggettivo, altrimenti detta opinio iuris).
Le “Disposizioni preliminari al codice civile”, delineando la gerarchia delle fonti, pongono
infatti la consuetudine all'ultimo posto nel sistema delle fonti. Inoltre, tracce della consuetudine si
trovano nel codice civile, dove è previsto che in materia contrattuale gli usi possono anche
integrare il contenuto del contratto.
Le fonti poi si distinguono ulteriormente in fonti di produzione, fonti sulla produzione, e fonti di
cognizione.
Sono fonti di produzione tutte le fonti che contengono diritto oggettivo, cioè norme giuridiche
destinate ad essere applicate nei confronti dei terzi. Esse, come si dirà, sono assai numerose e
sono certamente cresciute di numero nello Stato contemporaneo pluralista.
Sono invece fonti sulla produzione quelle fonti che contengono norme per produrre altre
norme. Esse dunque non costituiscono diritto oggettivo in quanto non sono destinate a regolare
o disciplinare il comportamento di terzi, ma servono solamente a porre le regole per produrre
fonti di produzione.
Anche le fonti sulla produzione sono numerose. Molte norme della Costituzione costituiscono
fonti sulla produzione: si pensi agli artt. 70 e ss. che disciplinano il procedimento legislativo, o
altre norme costituzionali che disciplinano il procedimento per produrre altre fonti, quali gli artt.
76 (decreto legislativo), 77 (decreto legge), ecc. Peraltro le fonti sulla produzione non sono
solamente fonti costituzionali, ma possono essere sia fonti legislative ordinarie (ad esempio la
legge n. 400 del 1988 e successive modifiche che prevede il procedimento per la approvazione
dei regolamenti governativi), sia fonti diverse da quelle legislative (molte norme dei regolamenti
parlamentari sono fonti sulla produzione perché prevedono modalità per approvare leggi o altri
atti normativi).
Le fonti di cognizione costituiscono gli strumenti nei quali reperire le fonti del diritto: la
Gazzetta ufficiale dello Stato Italiano, dove sono pubblicati tutti gli atti normativi dello Stato,
piuttosto che i Bollettini Ufficiali della Regione, dove sono pubblicati gli atti normativi regionali
costituiscono fonti di cognizione. Per quanto ovvio le fonti di cognizione in sé non contengono
norme, ma costituiscono lo strumento operativo per individuare e conoscere le fonti.

5. Il pluralismo delle fonti nello Stato contemporaneo

Tuttavia, onde non confondere concetti diversi, è opportuno distinguere preliminarmente tra
"quantità" della produzione normativa e "quantità" delle fonti.
Quando si parla di quantità di norme il problema è capire quando e perché un determinato
comportamento deve essere regolato da norme giuridiche e non lasciato nel giuridicamente
indifferente o nella libera de- terminazione dell'autonomia privata. Quando si parla di quantità di
fonti si fa invece riferimento ad un momento successivo al primo, e cioè alla ragione per la quale
le norme debbono essere collocate in fonti diverse e perché queste fonti sono molte.

In definitiva tanto più lo Stato si caratterizza come Stato sociale, tanto maggiormente ciò che fa
parte dell'indifferente giuridico o dell'autonomia privata tende ad essere normato. Inoltre, tanto
più l'organizzazione sociale ed economica di uno Stato è complessa ed articolata, tanto maggiori
sarà la quantità delle norme che tendono a perequare, disciplinare situazioni diverse, regolare i
mercati.
Da questo fenomeno della iperproduzione normativa, caratteristica della gran parte degli Stati
contemporanei, deve poi distinguersi, come si diceva, il fenomeno ulteriore del pluralismo delle
fonti. Non solo le norme sono tante, ma sono moltissime anche le fonti, sia di produzione che
sulla produzione.

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La ragione, anche in questo caso, è da rinvenirsi nella forma di Stato e nelle caratteristiche delle
Costituzioni contemporanee. La numerosità delle fonti è infatti conseguenza del pluralismo
sociale ed istituzionale, caratteristico delle Costituzioni contemporanee, all'interno delle quali la
esistenza di tonti diverse serve sia ad equilibrare e bilanciare l’organizzazione della forma di
Governo, sia a tutelare specifici interessi. Il Parlamento, ad esempio, approva leggi ordinarie,
leggi di revisione della Costituzione, ma anche leggi costituzionali che sono previste dalla stessa
Costituzione; approva inoltre regolamenti parlamentari che garantiscono la sua autonomia. II
Governo a sua volta produce moltissime fonti, come altre fonti sono prodotte dal sistema di
decentramento autonomistico (Regioni, Provincie, Comuni). Le ed. Autorità indipendenti o
regolatrici dei mercati producono fonti che si applicano nei mercati regolati, e così via.
Nel nostro ordinamento non esiste una identificazione completa delle fonti. Alcune sono previste
in Costituzione, altre in leggi ordinarie, ma non vi i è un testo dove si trovi una elencazione
completa delle fonti. Esse pertanto devono essere ricavate interpretativamente dai vari testi
normativi che le contengono.
Una indicazione delle fonti del diritto - con mero valore storico - la si rintraccia infatti solamente
nell'art. 1 delle "Disposizioni sulla legge in generale” che contiene alcune norme sulle fonti del
diritto e sulla applicazione della legge.
L’art. 1 recita che sono fonti del diritto le leggi, i regolamenti, le norme corporative, gli usi, ma è
evidente come questa norma abbia oggi poca utilità. Essendo stata approvata prima del testo
costituzionale non è indicata tra le fonti la Costituzione né le altre fonti di livello costituzionale e
neppure gli atti con forza di legge (decreti legge e decreti legislativi).

6. come l’ordinamento ricompone ad unità un sistema pluralistico di fonti: il principio di


gerarchia

Se un sistema di fonti articolato è garanzia del pluralismo sociale ed istituzionale d'altra parte un
sistema troppo articolato può incidere sulla certezza del diritto nella misura in cui l'ordinamento
non sia dotato di regole che servano ad evitare conflitti tra norme.
In sostanza un ordinamento giuridico non può contenere al suo interno norme tra loro
contraddittorie senza prevedere come risolvere tali contraddittorietà, pena la stessa stabilità
dell'ordina mento, la violazione del principio di certezza del diritto, la violazione del principio
dell'affidamento del cittadino.Il primo principio per risolvere contrasti tra fonti diverse è un
principio immanente alla struttura stessa degli ordinamenti giuridici (è dunque un principio logico
prima che derivante da specifiche norme). Il principio è che nessuna fonte può istituire altre
fonti aventi forza superiore o pari alla fonte di origine, intendendosi poi per forza la capacità di
modificare altre fonti e di resistere alla modifica.
Ogni fonte può infatti prevedere altre fonti - può essere cioè anche fonte sulla produzione oltre
che di produzione - ma la fonte "seconda non può avere la forza di modificare la prima.
Proseguendo, la fonte "seconda" può istituire altre fonti che però non avendo la forza di
modificare la fonte che la ha istituita saranno "terze" e così via.
Da questi principi, che come si diceva derivano da un ragionamento logico, si ricavano due
conseguenze giuridiche, la prima delle quali è che la forza di una fonte deriva dalla sua forma.
La forma di una fonte è a sua volta conseguenza del procedimento seguito per la sua
approvazione: ad esempio la forza di una legge è conseguenza dell'approvazione di quell'atto da
parte del Parlamento con il procedimento di cui agli artt. 70 e ss. della Costituzione, la forza di
un decreto legge deriva dall’approvazione di quell'atto con le regole di cui all'art. 77 della
Costituzione. La seconda conseguenza si sostanzia nella esistenza di un principio la c. d. di
gerarchia delle fonti: le fonti sono collocate in una scala gerarchica al cui vertice si trova la
Costituzione - fonte delle fonti - e quindi al di sopra della stessa scala, e poi al primo posto la
legge e le fonti che hanno la forza della legge, al secondo posto le fonti che possono essere
istituite dalla legge, cioè i regolamenti, al terzo posto le fonti istituite dai regolamenti, ed infine al
quarto grado le fonti fatto.

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Dal principio di gerarchia consegue ancora che la fonte di grado inferiore, non potendo
modificare quella superiore, deve porre norme che non siano in contrasto con le prime. Se infatti
la fonte inferiore ponesse norme contrastanti con quella superiore essa sarebbe non
validamente posta e quindi illegittima. Vedremo poi che se è la legge a porre norme
contrastanti con le norme superiori, cioè con la Costituzione, esiste un giudizio particolare, detto
di legittimità costituzionale, davanti ad un organo ad hoc quale la Corte costituzionale, finalizzato
ad invalidare la legge illegittima. Se invece è una norma di secondo grado a porre norme
contrastanti con la legge, i giudici della giurisdizione amministrativa (Tribunali amministrativi
Regionali e Consiglio di Stato in grado di appello) sono legittimati a dichiarare la illegittimità della
norma.
La dichiarazione di illegittimità della norma, conseguenza della sua invalidità, comporta la
perdita di efficacia della norma dichiarata invalida con effetto retroattivo (ex tunc). Anche
questo effetto risponde ad una esigenza logica: poiché la norma non poteva essere posta essa
era invalida nel momento in cui è entrata in vigore. La retroattività della dichiarazione di
illegittimità ha quindi la funzione di eliminare gli effetti che la norma invalida ha prodotto dal
momento della sua entrata in vigore sino al momento della dichiarazione di illegittimità.
Il principio di gerarchia svolge la funzione di ricondurre ad unità, almeno da un punto di vista
teorico-formale, l'ordinamento giuridico, orientandolo verso la Costituzione, che costituisce la
norma base, e che quindi, attraverso il meccanismo gerarchico gradualistico, condiziona a
cascata tutto il sistema delle fonti.
Il principio di gerarchia quindi costituisce anche una applicazione del principio di legalità e di
costituzionalità, poiché esso conduce necessariamente al rispetto della legge e della
Costituzione.

7. Il principio di competenza

Accanto al criterio della gerarchia si afferma allora un altro criterio per ricomporre il sistema delle
fonti in unità, il criterio della competenza, che risponde alla esigenza di garantire spazi
normativi indipendenti a soggetti costituzionalmente autonomi.
Il principio di competenza significa che allorquando la Costituzione attribuisce la normazione
di una materia ad una determinata fonte, solo quella fonte è competente a disciplinare la
materia. Perché sia applicabile il principio di competenza occorre dunque una norma che
attribuisca una sfera di competenza ad un soggetto, il quale diviene quindi titolare di un ambito
di competenza riservato, all'interno del quale può emanare quella fonte che la Costituzione ha
previsto.
Un caso chiaro di applicazione del principio di competenza lo ritroviamo nel sistema regionale.
Se le Regioni sono enti dotati di autonomia politica e non solo amministrativa, se cioè nell'ambito
delle loro competenze costituzionalmente attribuite esse possono porre in essere fonti primarie,
le fonti da esse prodotte non potrebbero essere sottoposte al principio gerarchico poiché questo
significherebbe negarne l’autonomia. Un altro esempio "classico" dell'applicazione del principio
di competenza riguarda la fonte regolamento parlamentare.
Il principio di competenza, a differenza del principio gerarchico che agisce verticalmente, agisce
orizzontalmente, poiché il rapporto tra la fonte e che disciplina la materia riservata e le altre fonti
si pone non in termini di forza ma in termini di reciproca esclusione. Ne consegue che se una
fonte andasse a disciplinare una materia riservata ad altra fonte essa sarebbe invalida perché
emanata in assenza di competenza.

8. Sintesi di alcune categorie giuridiche emerse: validità, legittimità, annullamento di una


fonte

Da quanto abbiamo descritto nei paragrafi relativi al principio di gerarchia e al principio di


competenza, emergono alcune categorie giurie che è opportuno richiamare e sintetizzare. Dal
principio gerarchico, che consiste nella superiorità di una fonte rispetto ad un’altra, e dal

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principio di competenza, che significa esclusione di una o più fonti in determinata materia,
derivano le regole sulla validità delle fonti.
La validità e un istituto generale del diritto che consiste nella conformità di un atto alle norme
procedimentali che lo regolano. Nell'ambito del principio di gerarchia la fonte inferiore deve
essere conforme alla fonte superiore, nel senso che deve rispettare le modalità procedimentali
che la fonte superiore ha previsto per la sua approvazione. Del pari, nell’ambito del principio di
competenza, una fonte che disciplini l’ambito di competenza riservato ad un’altra fonte è invalida
perchè non ha rispettato la norma procedimentale prevista.
Una fonte invalida è anche una fonte illegittima, ma il concetto di illegittimità è più ampio di
quello di invalidità: infatti vi possono essere fonti valide (che hanno rispettato le regole
procedurali per la loro approvazione) che sono però illegittime.
Legittimità significa infatti sia che la fonte inferiore deve rispettare le regole procedimentali per la
sua approvazione (come si è visto), sia che deve rispettare le regole sostanziali contenute nella
fonte superiore.

Una fonte illegittima può essere annullata, cioè può essere dichiarata ila parte di un giudice la
sua perdita di efficacia. L annullamento non è una categoria riferibile alla natura della fonte
(come la invalidità o la illegittimità) ma è conseguenza della pronuncia di un giudice, alla quale è
collegato normalmente un effetto retroattivo.

9. La successione delle fonti nel tempo

Gerarchia e competenza svolgono quindi la funzione di ricondurre ad unità un sistema di fonti


avente forza diversa.
Alle fonti che hanno la stessa forza, invece, non può applicarsi il principio di gerarchia o di
competenza. Esse si rinnovano applicando il principio cronologico: la fonte successiva abroga
la fonte di pari grado anteriormente posta (lex posterior abrogat priori). Questo principio
risponde alla esigenza di rinnovare l'ordinamento
Il meccanismo abrogativo, tuttavia, non produce la invalidità della fonte abrogata, ma solo la sua
perdita di efficacia dal momento della entrata in vigore della norma che produce l'abrogazione.
Le ragioni di questo diverso trattamento giuridico sono logiche: la norma invalida non doveva
essere posta e l'effetto retroattivo connesso alla dichiarazione di annullamento ha lo scopo di
sanare, sia pure a posteriori, una antinomia che si è verificata all'interno dell'ordinamento. La
norma abrogata, invece, era una norma perfettamente valida sin tanto che l'ordinamento non ha
compiuto una scelta diversa. Solo in quel momento essa perde efficacia, ma tale perdita di
efficacia non ha alcun effetto retroattivo e vale solo per il futuro.
Da questa considerazione deriva un altro effetto importante connesso al meccanismo
abrogativo. L'abrogazione infatti non elimina la norma, ma ne circoscrive temporalmente
l'efficacia: essa continua ad essere applicata a tutti i rapporti sorti sotto la vigenza di quella
norma.
Il nostro ordinamento disciplina, all'art. 15 delle "Disposizioni sulla legge in generale", tre tipi di
abrogazione:
a) "Le leggi non sono abrogate che per dichiarazione espressa del legislatore" abrogazione
espressa;
b) "per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti" abrogazione tacita;
c) "perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore"
abrogazione implicita.
Il primo caso è il più semplice: vi è abrogazione espressa quando la fonte contiene in un articolo
(di solito quello finale), una espressione nella quale si dice "sono abrogate le seguenti
disposizioni", con la successiva puntuale indicazione delle norme che si intendono
espressamente abrogare.
Nel caso dell'abrogazione tacita la fonte successiva non indica espressamente le disposizioni
che si intendono abrogare, ma si limita semplicemente a porre delle norme il cui contenuto è

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incompatibile con norme precedenti.

Con l'abrogazione implicita, l'abrogazione consegue invece al fatto che la nuova fonte regola, in
maniera diversa, l'intera materia già regolata da una fonte precedente.
Come si diceva i modelli più frequentemente utilizzati nel nostro ordinamento sono quelli della
abrogazione tacita e della abrogazione implicita. L'utilizzazione frequente di questi modelli,
tuttavia, produce una maggiore incertezza del diritto rispetto alla utilizzazione della abrogazione
espressa.
L'abrogazione tacita e l'abrogazione implicita spostano infatti a valle, cioè al momento
applicativo, il problema di determinare quale è la norma esistente nell'ordinamento.
L'ordinamento giuridico diviene dunque più complesso (perché le norme non sono
espressamente ma solo tacitamente abrogate) e più incerto, poiché sino al momento in cui una
disposizione deve essere applicata ad una fattispecie concreta non ci è sicurezza sulla vigenza
o meno di una norma.
Governi stabili e maggioranze forti possono permettersi modelli abrogativi espressi, perché
normalmente sono porta- tori di un indirizzo politico stabile, dove questi giudizi di valore non
rischiano di creare fratture all'interno delle forze di maggioranza.
Nella abrogazione tacita o implicita, al contrario, si regola la materia ma non si dice quali
disposizioni sono abrogate. Non vi è cioè un confronto chiaro di politiche regolatone diverse, e
non vi è un giudizio di valore sulla normativa precedente. La nuova normativa semplicemente
entra in vigore: spetterà poi agli organi che debbono applicarla decidere quali norme sono
incompatibili con le nuove disposizioni. Questo modo di procedere è tipico di Governi deboli
basati su maggioranze instabili, le cui linee di indirizzo politico sono maggiormente
compromissorie.

10. Il principio di irretroattività della legge

Le fonti, tutte le fonti, normalmente acquistano efficacia dopo la pubblicazione ed hanno effetto
per tutte le fattispecie che si realizzeranno dal momento della entrata in vigore della fonte in
avanti. Come si dice esse hanno efficacia ex nunc (cioè da ora), e non ex tunc (cioè da allora,
retroattivamente). La retroattività di una fonte, al contrario, significa che quella fonte può
disciplinare fattispecie-comportamenti posti in essere anteriormente alla entrata in vigore della
norma.
Il principio di irretroattività costituisce un principio consolidato dello Stato di diritto. Esso è infatti
collegato al principio della certezza del diritto (poiché il cittadino deve poter porre in essere
comportamenti in un quadro normativo conosciuto e non modificato a posteriori), al principio
dell'affidamento del cittadino nei confronti dello Stato (che viene meno se un comportamento
viene regolato in un certo modo e poi a posteriori in maniera diversa), in definitiva al principio
che il cittadino nello Stato di diritto non è sottoposto al libero arbitrio dello Stato, ma alle regole
che lo Stato stesso pone, regole che debbono essere conosciute o quantomeno conoscibili
(cosa che non si verifica per le nonne retroattive).
Nel nostro ordinamento, tuttavia, il principio di irretroattività della legge non è sancito a livello
costituzionale (vedremo tra un momento cosa afferma la Costituzione al proposito) ma è
disciplinato solamente nell'art. 11 delle "Disposizioni sulla legge in generale" dove si legge: "la
legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Da un punto di vista
strettamente giuridico, quindi, questa norma non può imporre alla legge un divieto assoluto di
retroattività. L'art. 11 delle preleggi, infatti, da un punto di vista formale, altro non è se non una
legge ordinaria, che pertanto non può vincolare una altra legge ordinaria. Viceversa, poiché l'art.
11 è contenuto in una legge ordinaria, le fonti inferiori alle leggi non possono essere retroattive
poiché altrimenti sarebbero invalide. Ad esempio, un regolamento del Governo non potrebbe
essere retroattivo perché sarebbe contrario all'art. 11, che è una fonte superiore.
La Costituzione, che potrebbe porre un vincolo insuperabile alla possibile retroattività della legge
(se infatti vi fosse una esplicita previsione costituzionale al proposito la legge retroattiva sarebbe

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ovviamente incostituzionale) non prevede invece un generale principio di irretroattività. Il
2°comma dell'art. 25 recita infatti: "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che
sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La Costituzione, cioè, si limita a disciplinare il
principio di irretroattività in relazione alle leggi penali, stabilendo che la legge che prevede una
sanzione penale deve essere necessariamente entrata in vigore prima del fatto commesso (e
dunque non può essere retroattiva). Con la conseguenza che se vi fosse una legge penale
retroattiva, essa sarebbe incostituzionale. Questo principio di irretroattività della legge penale
deve poi essere integrato con il principio opposto della retroattività della legge penale più
favorevole al reo.
L'art. 2 del codice penale stabilisce infatti che "nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo la legge posteriore, non costituisce reato". Se cioè una legge abroga una fattispecie di
reato, questa legge si applica retroattivamente. Tale previsione è poi estesa dal 3° comma dello
stesso articolo alle ipotesi di mitigazione della pena, stabilendo che se la legge successiva (che
stabilisce la pena) è più favorevole al reo rispetto alla legge precedente, essa si applica
retroattivamente.
Al di là di queste ipotesi relative alla irretroattività della legge penale e alla retroattività della
legge penale favorevole al reo, tuttavia e come si è già rilevato, la Costituzione non pone
limitazioni alla retroattività della legge. Infatti, ancorché la retroattività di una legge possa essere
considerata un fenomeno contrario allo Stato di diritto, le leggi retroattive sono in qualche misura
ineliminabili allorquando si tratti di tutelare obbiettivi interessi generali.

11. Il nucleo di resistenza alla retroattività: rapporti esauriti, diritti quesiti, principio
dell'affidamento

Se dunque la legge può essere retroattiva, quali sono i limiti alla sua retroattività? Sulla base del
fatto che una legge ordinaria, sin tanto che non viola la Costituzione, ha sostanzialmente potere
illimitato, deve ritenersi che i rapporti c.d. esauriti non siano modificabili dalla legge retroattiva.
I rapporti esauriti, sono tutte quelle situazioni divenute intangibili, perché non più azionabili in
giudizio. I casi classici di rapporti esauriti sono il giudicato, quando cioè un giudizio ha esani no
min i gradi di giudizio o comunque è stata pronunciata una sentenza definitiva; oppure quando il
diritto è prescritto, sicché esso non può essere più esercitato; oppure quando ancora l’esercizio
di un diritto è soggetto ad un termine di decadenza ed esso è spirato.
Al di là dei rapporti esauriti, si nota un tentativo da parte della Corte costituzionale di collegare il
divieto di retroattività al principio di tutela dell’affidamento del cittadino, che non può essere leso
da disposizioni retroattive che trasmodino in na disciplina irrazionale di una situazione
sostanziale fondata su leggi anteriori.

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CAPITOLO II
LA CENTRALITÀ DELLA LEGGE
NELLA COSTITUZIONE

1. La centralità della legge nella Costituzione: il principio della presenza della legge

In ogni modello costituzionale la legge occupa la prima posizione nel sistema gerarchico delle
fonti, perchè espressione del Parlamento. Sulla base del principio di separazione dei potere
spetta infatti all’organo legislativo disporre norme generali ed astratte, mentre spetta al Governo
e alla Amministrazione provvedere in concreto per attuare quelle disposizioni. La distinzione tra
disporre e provvedere è anche ciò che distingue la norma giuridica - generale e astratta - dal
provvedimento amministrativo - puntuale e concreto - e costituisce la prima ragione del primato
della legge sulle altri fonti. Generalità e astrattezza della legge, inoltre, costituiscono requisiti
implicitamente collegati alla tutela del principio di uguaglianza.
Inoltre dato che gli Stati sono definibili come Stati sociali, e perseguono anche il fine di
rimuovere le diseguaglianze all'interno della società (ed. eguaglianza sostanziale), la generalità
e l'astrattezza della legge non è sufficiente per raggiungere tale obbiettivo. Generalità e
astrattezza costituiscono infatti una garanzia for- male dell'eguaglianza: trattare tutti in maniera
eguale non comporta affatto la rimozione delle diseguaglianze esistenti, che invece, ed al
contrario, possono essere rimosse proprio attraverso un trattamento normativo di- versificato
laddove le situazioni siano diverse. Per perseguire questo scopo lo Stato sociale tende dunque a
produrre leggi che potremmo definire a generalità e astrattezza attenuata, perché spesso
riferibili a situazioni particolari, o a determinate categorie di cittadini.
Per questo insieme di ragioni, in senso generale storiche e collegate alla funzione garantistica
della legge, la Costituzione del 1948 considera la legge come la fonte più importante e
condizionante le altre fonti. Questa collocazione ha svariate conseguenze giuridiche: al primato
della legge sono collegati infatti il principio di preferenza della legge, il principio di legalità, le
riserve di legge. Preferenza significa che la legge è una fonte tendenzialmente a competenza
generale, nel senso che non incontra limiti di materia, fatto salvo per quelle materie che la
Costituzione attribuisce espressamente ad altra fonte.

2. Un primo effetto della centralità della legge: il principio di legalità nella sua generale
accezione

Il principio di legalità costituisce uno dei cardini fondamentali dello Stato di diritto. Nel suo
significato fondamentale legalità significa che il potere amministrativo e sottoposto alle leggi, e
che quindi queste ultime costituiscono un vincolo alle modalità di esercizio del potere
amministrativo. L'apparato pubblico dello Stato (Governo, Pubblica Amministrazione), non può
dunque porre in essere atti se non in applicazione di norme giuridiche che, in qualche misura,
vincolano l'esercizio del potere, rendendolo prevedibile, e, almeno in teoria, controllabile.
Gli atti della Pubblica Amministrazione debbono dunque trovare fondamento nella legge perché
la legge è in qualche misura espressione degli interessi dei cittadini stessi, cosicché principio di
legalità, stato democratico, garanzia nei confronti del potere esecutivo, sono tra loro
strettamente legati. Nella nostra Costituzione, tuttavia, non vi è alcuna norma che
espressamente faccia riferimento al principio di legalità.
Nondimeno il principio di legalità è da considerarsi implicito nella Costituzione. Esso affonda le
sue radici nel principio democratico, codificato neU'art. 1 della Costituzione, nel principio di
supremazia della legge, delineato negli artt. 70 e ss., nel principio che il Governo non ha una
legittimazione originaria, ma derivata e conseguente al rapporto di fiducia con il Parlamento
come previsto nell'art. 92, nell'art. 101 che prevede che "i giudici sono soggetti soltanto alla
legge".

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2.1. Legalità formale e legalità sostanziale
Diviene importante determinare "l'intensità" di questo principio, o in altre parole, "quanto" la
legge debba vincolare la Pubblica Amministrazione.
In genere il principio di legalità può essere inteso:
a) come non contrarietà alla legge degli atti emanati dalla Pubblica Amministrazione. In
questo caso il significato del principio di legalità è inteso in senso molto debole, poiché la
Pubblica Amministrazione potrà sempre emanare atti anche laddove manchi una legge,
purché questi non contrastino con le norme legislative;
b) come necessità di una norma legislativa che attribuisca alla Pubblica Amministrazione
il potere di produrre norme. In questo caso la legalità è intesa in senso più forte, poiché
occorre sempre una legge che determini e attribuisca il potere di emanare nonne. Questo
"tipo" di legalità è detta legalità formale, perché si sostanzia nella mera attribuzione del
potere, non richiedendosi infatti che la legge ponga alcun vincolo di contenuto nei confronti
degli atti emanati dal potere esecutivo;
c) come necessità di una norma legislativa che, oltre ad attribuire alla Pubblica
Amministrazione il potere di produrre norme, ne vincoli il con- tenuto. La legalità in questo
caso è detta sostanziale, poiché la legge non si limita ad attribuire il potere, ma, stabilendo
vincoli di contenuto nei confronti degli atti secondari, limita l'esercizio del potere
discrezionale della Pubblica Amministrazione.
Il significato attribuito al principio di legalità ha un notevole impatto sul sistema delle garanzie per
il cittadino.
Se si accogliesse il significato espresso sub a) gli atti della Pubblica Amministrazione, emanati in
assenza di una norma legislativa che attribuisca il potere, sarebbero sindacabili solo in presenza
di un contrasto con le fonti superiori. Non vi sarebbe infatti alcuna norma legislativa a
circoscrivere e delimitare il potere della Pubblica Amministrazione.
Se si accogliesse il significato sub b), cioè del principio di legalità in senso formale, gli stessi atti
della Pubblica Amministrazione sarebbero sindacabili, oltre che per contrasto con le norme
costituzionali, nel solo caso in cui la Pubblica Amministrazione emanasse atti al di fuori della
propria competenza, (vizio di incompetenza).
Se si accogliesse il significato sub c), cioè del principio di legalità in senso sostanziale, gli atti
della Pubblica Amministrazione sarebbero sindacabili, oltre che per il vizio di incompetenza,
anche per altri vizi di legittimità relativi al contrasto di contenuto tra la norma emanata dalla
Pubblica Amministrazione e la norma legislativa.
In relazione al nostro ordinamento, escluso il significato debolissimo di cui sub a) si è a lungo
discusso se la legalità dovesse intendersi in senso formale o sostanziale.
La Corte costituzionale ha ritenuto che il principio di legalità debba intendersi in entrambi i sensi
(formale e sostanziale).

3. Le riserve di legge: garanzia dei diritti e limitazione del potere esecutivo

Se il principio di legalità costituisce un vincolo all'esercizio dell'attività discrezionale del Governo


e della Pubblica Amministrazione, con la riserva di legge la Costituzione esclude invece che
certe materie siano regolate da una fonte diversa dalla fonte legislativa. Con la riserva di legge,
si dice usualmente, la Costituzione attribuisce la competenza a disciplinare una certa
materia alla fonte legge.
In verità questa definizione non e del tutto precisa: la legge nella nostra Costituzione ha già la
competenza i disciplinare qualunque materia - principio di preferenza della legge - salvo che la
Costituzione gli imponga dei limiti (come accade per le leggi costituzionali o i regolamenti
parlamentari ed anche le leggi regionali). Dunque la riserva di legge non svolge la sola funzione
di attribuire alla legge una competenza che essa non avrebbe (perché la competenza esiste già)
ma ha bensì lo scopo ulteriore di attribuire alla legge l'obbligo di disciplinare quella materia -
qualora essa debba essere normata - e di escludere da quella stessa materia l'intervento da
parte di altre fonti.

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Quando la Costituzione pone una riserva di legge, ciò significa dunque che quella materia non
può essere disciplinata da nessuna altra fonte se non dalla legge. Dall'obbligo posto in capo alla
legge di disciplinare la materia riservata consegue di riflesso, per le fonti secondarie, un obbligo
negativo di non intervento. La ratio della riserva di legge consiste infatti nell'escludere che nelle
materie riservate possa intervenire una fonte secondaria come il regolamento governativo.
La Costituzione è ricca di riserve di legge collocate specialmente nella prima parte relativa ai
diritti fondamentali. Attraverso la riserva di legge la Costituzione riconosce e quindi
costituzionalizza un determinato diritto, attribuendo contemporaneamente alla fonte legge la
disciplina di dettaglio della materia e il potere di porre limitazioni al suo esercizio. Ad esempio
l'art. 13 della Costituzione recita: "La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma
alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione, né qualsiasi altra restrizione della libertà
personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla
legge".
Nei soli casi e modi previsti dalla legge costituisce la riserva di legge, con ciò intendendosi che
la materia della limitazione della libertà personale è riservata alla legge. Formulazione analoga
la ritroviamo nell'art. 14 relativo alla libertà di domicilio: "il domicilio è inviolabile. Non vi si
possono eseguire ispezioni e perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi stabiliti dalla legge
secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale". Anche in questo caso nei soli
casi e modi stabiliti dalla legge costituisce la riserva di legge, poiché la limitazione al diritto
costituzionalmente riconosciuto può avvenire solo attraverso la legge.
In questo contesto la riserva di legge tende invece a trasformarsi in strumento di
garanzia delle minoranze parlamentari: esse possono dissentire dal contenuto di una
legge sino a bloccarne l'approvazione, o comunque possono indurre la maggioranza ad
una sua modifica.
In definitiva, il principio di preferenza della legge, il principio di legalità, la previsione di
riserve di legge, costituiscono un limite al potere del Governo e della Pubblica Amministrazione
derivante dal carattere rappresentativo del Parlamento, ma con accezioni e finalità diverse.
Il principio della preferenza della legge implica la competenza generale di questa fonte. Essa è
finalizzata a disporre, cioè a porre norme generali ed astratte, ma nulla le vieta di poter anche
provvedere, cioè di adottare con la forma della legge atti che sono invece determinati e concreti
(cioè sostanzialmente atti amministrativi).
Il principio di legalità svolge la funzione di limitare la discrezionalità del potere dell'esecutivo
(Governo e Pubblica Amministrazione) dato che la legge deve sia attribuire il potere sia
vincolarne l'esercizio.
La riserva di legge invece svolge la funzione, diversa, di escludere da una determinata materia
la normazione derivante da una fonte secondaria.

3.1. Riserve di legge e atti con forza di legge

Si è sino ad ora trattato della riserva di legge contrapponendo la legge del Parlamento alle fonti
secondarie e segnatamente al regolamento del Governo. Ma poiché il nostro sistema
costituzionale non prevede solo la legge a livello delle fonti primarie, ma anche altri atti "aventi
forza di legge" di natura governativa, quali i decreti legge (art. 77) e i decreti legislativi (art. 76), è
lecito domandarsi se la riserva di legge escluda la possibilità che tali fonti di provenienza
governativa - ancorché con "forza di legge" - possano disciplinare la materia riservata.
L'argomento prevalente a favore della possibilità per gli atti con forza di legge di intervenire
nelle materie riservate, sta nel fatto che vi è sempre un intervento della legge, che nel decreto
legislativo è a monte attraverso la legge di delegazione, mentre nel decreto legge è a valle
attraverso la legge di conversione. La prassi costante, che considera gli atti con forza di legge
del Governo legittimati a disciplinare le materie riservate alla legge, ha comunque posto un
punto fermo sulla questione.

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3.2 riserve assolute, rinforzate, relative

Le riserve di legge si distinguono in riserve di legge assolute, rinforzate, relative.


Sono riserve di legge assolute quelle riserve che attribuiscono solo alla legge la disciplina
puntuale della materia riservata. Esse escludono categoricamente la possibilità di un intervento
integrativo da parte del regolamento governativo. Nel caso delle riserve assolute, infatti, siamo
nel "cuore" delle libertà fondamentali, dove l'esigenza di garanzia è avvertita in maniera così
forte dalla Costituzione da non consentire neppure un intervento di integrazione che non sia
effettuato con atto avente forza di legge. L'esempio classico è il già citato art. 13 della
Costituzione dedicato alla libertà personale, "ha libertà personale è inviolabile. Non è ammessa
forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione, né qualsiasi altra restrizione della
libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti
dalla legge". Quando la Costituzione afferma che l'intervento in materia di limitazione della
libertà personale può avvenire nei soli casi e modi previsti dalla legge, questa statuizione
vuol significare che nessuna altra fonte può intervenire a disciplina- re la materia. La legge deve
essere completamente pervasiva e la materia integralmente disciplinata da una fonte primaria.
La riserva di legge rinforzata prevede non solo che una determinata materia sia disciplinata
dalla legge, come nella riserva di legge assoluta, ma anche che la legge debba rispettare
determinati vincoli costituzionali. La riserva di legge rinforzata è dunque possibile in presenza di
una Costituzione rigida, che essendo fonte superiore alla legge, può vincolare quest'ultima a
perseguire fini o a rispettare obblighi. Un esempio classico della riserva di legge rinforzata si
rinviene nell'art. 16 della Costituzione, dedicato alla libertà di circolazione. Recita la norma:
"Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale,
salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza".
Oltre a prevedere una riserva di legge in ordine alla limitazione alla libertà di circolazione, la
Costituzione pone in questa norma anche un rinforzo: le limitazioni debbono avvenire in via
generale e per i motivi indicati nella stessa Costituzione, cioè per ragioni di sanità o di
sicurezza.
La riserva di legge relativa si ha, al contrario, quando la Costituzione riserva alla legge la
disciplina di una determinata materia, ma consente altresì che quella disciplina sia integrata da
una fonte secondaria. La Corte costituzionale ha in varie decisioni ammesso la esistenza di
questa forma di riserva, anche se la demarcazione tra ciò che deve essere contenuto nel- la
legge e ciò che può essere lasciato al regolamento rimane un dato incerto. In linea generale può
comunque dirsi che nei casi di riserva relativa spetta alla legge stabilire le linee fondamentali
della materia da regolarsi, mentre spetta al regolamento integrare quelle linee.
Le riserve di legge relative si rinvengono in quella parte della Costituzione che non tratta
propriamente dei diritti fondamentali, e dunque dove le esigenze di garanzia sono considerate in
qualche misura inferiori. Un esempio classico di riserva di legge relativa la si ritrova nell'art. 23
della Costituzione che stabilisce che: "nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se
non in base alla legge". La riserva sarebbe relativa perché la Costituzione, in questo caso,
effettua un riferimento alla legge in termini generali.
Altro esempio di riserva di legge relativa si rinviene nell'art. 97 della Costituzione dedicato alla
Pubblica Amministrazione, dove si afferma che "i pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge". Anche in questo caso la espressione "secondo disposizioni di legge"
consente un intervento integrativo della fonte secondaria.

4. Il procedimento legislativo: gli obbiettivi costituzionali

La centralità della legge nel sistema costituzionale delle fonti è ben rappresentata anche dal
trattamento costituzionale del procedimento legislativo. Gli articoli della Costituzione che vanno
dal 70 al 74 si occupano infatti del procedimento legislativo, delineando, sia pure nelle linee
generali, i momenti fondamentali del procedimento e le sue possibili varianti.
Mentre la Costituzione determina le linee generali del procedimento e le sue fasi, le regole di

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dettaglio sono stabilite nei regolamenti parlamentari, che sono fonti espressione dell'autonomia
del Parlamento, approvate da ciascuna Camera a maggioranza assoluta. Come recita infatti
l'art. 72 della Costituzione "ogni disegno di legge presentato ad una Camera è, secondo le
norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa che
l'approva articolo per articolo e con votazione finale". Il procedimento legislativo è dunque
costituzionalizzato nelle linee generali, a testimonianza del fatto che la posizione di primato della
legge è garantita anche attraverso la determinazione costituzionale delle fasi che conducono alla
approvazione della legge.
Il procedimento legislativo serve a selezionare interessi, a bilanciare le posizioni tra
maggioranza e minoranza, a garantire, per quanto possibile, che il prodotto finale sia
espressione di una corretta sintesi degli interessi in gioco all'interno del quadro costituzionale.
Può dunque dirsi che, at- traverso la determinazione delle linee fondamentali del procedimento,
la Costituzione effettui una prima selezione degli interessi ai quali dare voce nella sequenza
degli atti, determinando allo stesso tempo la cornice normativa all'interno della quale il
regolamento parlamentare dovrà porre le norme procedurali.
Le scelte di fondo che la Costituzione ha effettuato in tema di procedimento legislativo possono
essere così riassunte:
la scelta del bicameralismo perfetto. L'art. 70 recita che "la funzione legislativa è esercitata
collettivamente dalle due Camere". Ciò significa che legge deve essere approvata da entrambe
le Camere nello stesso testo;
la scelta di non privilegiare i poteri del Governo all'interno del procedimento;
la scelta della tutela delle minoranze nel corso del procedimento.
La prima scelta è conseguenza del modello bicamerale paritario che informa la forma di
Governo parlamentare italiana della Costituzione del 1948 che si rispecchia principalmente - ma
non esclusivamente - nell'eguale rompetene delle due Camere nella approvazione di una legge.
Le ragioni dell'intervento di una seconda Camera nel procedimento legislativo, astrattamente
possono essere diverse.
La seconda Camera può servire per portare nel procedimento legislativo competenze ed
interessi particolari rispetto a determinate categorie di leggi.
Quando invece la Costituzione non attribuisce alcuna competenza diversa alla seconda Camera
né le attribuisce una diversa rappresentatività, la funzione della seconda Camera è normalmente
quella di allargare la rappresentanza in funzione di stabilizzazione del sistema politico.
Nella Costituzione del 1948 la seconda Camera non ha riserve di competenza (come invece
nelle forme di Stato federali); non rappresenta interessi diversi rispetto agli interessi
rappresentati nella Camera dei Deputati che possano in qualche modo specializzarla. Cosicché
la previsione della doppia lettura ha principalmente la funzione di produrre una ulteriore
riflessione" sul testo legislativo, allo scopo di ingenerare una maggiore ponderazione della legge
ed una più articolata dialettica parlamentare. Il bicameralismo paritario è attualmente oggetto di
una proposta di revisione i costituzionale.
Il secondo principio al quale si ispira il procedimento legislativo nella Costituzione del 1948, e
certamente quello della parità delle armi tra Governo e Parlamento.
In generale, nelle forme di Governo parlamentari, è riconosciuta una qualche preminenza del
Governo nel procedimento legislativo. Spetta infatti al Governo portare avanti, attraverso
l'approvazione di leggi, l'indirizzo politico così come è stato definito nel programma sul quale il
Parlamento ha espresso la fiducia.

La terza grande scelta effettuata in Costituzione concerne la previsione di norme a tutela delle
minoranze all’interno del procedimento. Come vedremo, infatti, spetta alla minoranza
eventualmente chiedere di trasformare il procedimento legislativo decentrato in procedimento
ordinario, e questo potere è molto rilevante perchè attribuisce alle minoranze anche un certa
possibilità di determinare 1 tempi del procedimento legislativo. La trasformazione del
procedimento da decentrato a ordinario allunga infatti significativamente i tempi per

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l'approvazione di un progetto di legge, cosicché l'utilizzazione di questa facoltà può costituire
anche uno strumento di "ostruzionismo" parlamentare per le forze di minoranza.
All'interno della struttura costituzionale questo modello ha una sua oggettiva coerenza, poiché si
lega con il principio della riserva di legge, con principio di preferenza della legge, con il principio
di legalità, dove la legge svolge questa funzione di garanzia connessa al suo carattere
largamente rappresentativo.
Il procedimento legislativo è tradizionalmente scomposto in varie fasi che sono: la fase
dell'iniziativa; la fase decisoria; la fase integrativa del efficacia: la fase conoscitiva.

4.1. La fase della iniziativa

La fase della iniziativa costituisce il momento iniziale del procedimento si sostanzia nella
presentazione, a una delle due camere, di un disegno di legge redatto in articoli. L'attribuzione
della titolarità dell'iniziativa legislativa (chi cioè può presentare un disegno di legge) ad un
organo piuttosto che ad un altro, costituisce una scelta di rilievo, poiché attraverso questa scelta
avviene la prima selezione degli interessi che saranno rappresentati nel progetto di legge.
La Costituzione ha attribuito il potere di iniziativa al Governo; ai singoli parlamentari; a 50.000
elettori; a ciascun Consiglio regionale; al Coniglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL).

a) L'iniziativa governativa

L’iniziativa del Governo, in una forma di Governo parlamentare, costituisce l'iniziativa più
importante, qualitativamente ed anche quantitativamente. È il Governo infatti che deve attuare il
programma attraverso la proposta di progetti di legge al Parlamento.
La proposta di un progetto di legge governativo e a sua volta conseguenza di un procedimento
che si articola in vari momenti: l'iniziativa del ministro competente o del Presidente del Consiglio,
la delibera del Consiglio ilei ministri che approva il disegno di legge, l'autorizzazione del
Presidente della Repubblica alla presentazione del disegno di legge alle Camere.

La Costituzione non attribuisce alcuna priorità all'iniziativa governati va rispetto ad iniziative


derivanti da altri organi, anche se qualche elemento correttivo a questa impostazione è stata poi
introdotta dai regolamenti parlamentari. In particolare, sulla base dei regolamenti parlamentari, il
Governo ha la possibilità di incidere sulla programmazione dei lavori in Parlamento, indicando le
priorità e dando indicazioni sui progetti ai quali assegnare priorità. Si tratta di un potere di un
certo rilievo, poiché consente al Governo, se non di poter contare su tempi certi per
l'approvazione di una legge, quantomeno di poter incidere sulla programmazione dei lavori
parlamentari in maniera da inserire il disegno di legge nella programmazione dei lavori. Inoltre,
quando il Governo annuncia di voler presentare un proprio disegno di legge su di una materia
già oggetto di esame in commissione, questa può differire o sospendere la discussione fino alla
presentazione del progetto governativo.

b) L'iniziativa parlamentare

La Costituzione attribuisce poi l'iniziativa a "ciascun membro della Camere”.


Si tratta di un tipo di iniziativa presente in quasi tutte le Costituzioni contemporanee e tuttavia
molto spesso filtrata attraverso regole che tendono a far sì che l'iniziativa parlamentare, per
poter andare avanti, sia fatta propria dalla Camera di appartenenza.
L'iniziativa del singolo parlamentare, infatti, è spesso slegata dal programma di Governo, è
sporadica e frequentemente connessa con gli interessi particolari del deputato o del senatore in
relazione al proprio collegio di appartenenza. Se questo è vero, deve anche ricordarsi però che
alcune leggi importanti, slegate dall'indirizzo politico ma connesse ai diritti civili sono state frutto
di iniziativa parlamentare, ancorché poi condivise da gruppi parlamentari.

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I disegni di legge di iniziativa parlamentare non godono di alcuna priorità, salvo che il progetto di
legge sia "fatto proprio" dal gruppo di appartenenza.

c) L’iniziativa popolare

Il popolo costituisce una "cenerentola" tra i soggetti titolari dell'iniziativa legislativa. In un sistema
democratico rappresentativo, infatti, l’iniziativa legislativa diretta da parte del popolo ha ben
poche possibilità di andare avanti nel percorso parlamentare. Se infatti l'iniziativa in questione è
condivisa dalla maggioranza, essa sarà fatta propria dal Governo, se è condivisa da alcuni partiti
dell'opposizione è assai più agevole che essa venga presentata attraverso una iniziativa
parlamentare fatta propria da un gruppo parlamentare. La norma costituzionale, che prevede
l'iniziativa popolare attraverso la sottoscrizione da parte di 50.000 elettori di un progetto redatto
in articoli, costituisce un "omaggio" alla democrazia diretta. Nondimeno però l'iniziativa
legislativa popolare, se non fatta propria dal Governo né trasferita in progetti di legge di origine
parlamentare, ha ben poche possibilità di concludersi con la approvazione di una legge.

d) L’iniziativa regionale

Come recita l'art. 121 della Costituzione il Consiglio regionale può fare proposte di legge alle
Camere. L'iniziativa regionale costituisce uno dei tanti i riferimenti alle Regioni che la
Costituzione ha collocato in parti del testo relativi allo Stato apparato, in omaggio al principio
dello Stato regionalista e dunque della partecipazione delle Regioni anche alla "vita" dello Stato
centrale. Essa ha avuto un certo successo nella prima fase di attuazione delle Regioni,
attraverso la presentazione contemporanea da parte di più Regioni di progetti di legge identici,
anche allo scopo di influenzare progetti concorrenti di iniziativa par lamentare e governativa.
Dopo questa fase iniziale, tuttavia, l’iniziativa regionale si è progressivamente spenta.
c) L'iniziativa del CNEL
Tra i vari rami secchi dell'iniziativa legislativa il CNEL costituisce probabilmente il ramo più secco
di tutti. L'iniziativa del CNEL rappresenta una idea, oggi un po' antiquata, soprattutto per lo
scarso rilievo dell'organo nella vita istituzionale, di far partecipare al procedimento legislativo un
organo consultivo in materia di economia e lavoro. Ben altri oggi sono gli organi che potrebbero
dare un contributo importante in tema di progetti di legge in materia economica. Basti pensare
all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, il cui intervento all'interno del
procedimento legislativo potrebbe avere una sua utilità per portare aventi progetti di legge prò
concorrenza. Ma l'Antitrust non esisteva nel 1948 (è stata in effetti costituita nel 1990) e la
Costituzione rispecchia, in questo, il sistema degli organi di allora e gli interessi che all'epoca si
ritenevano predominanti. Il progetto di revisione costituzionale in caso di approvazione prevede
l'abolizione del CNEL.

4.2. La fase decisoria: il procedimento in sede referente o ordinario

Per approvare una legge la Costituzione prevede tre tipi di procedimenti: il procedimento in
sede referente o ordinario, il procedimento in sede deliberante e il procedimento in sede
redigente. Questi procedimenti si collocano nella fase decisoria, perché, al termine di questa
fase, la legge è approvata anche se non è ancora perfetta.
Ogni tipo di procedimento decisorio è a sua volta diviso in quattro fasi, come indicato dall'art. 72
della Costituzione: la fase istruttoria; la fase dell’esame delle linee generali; la fase dell’esame e
dell'approvazione degli articoli; la fase dell'approvazione finale. Il procedimento in sede referente
è caratterizzato dal fatto che le quattro fasi sopra delineate si svolgono prima all'interno di una
commissione parlamentare, e poi davanti alla Camera e al Senato.
Il procedimento segue dunque il seguente percorso.

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Una volta che il progetto di legge è pervenuto al Presidente di una delle Camere questi lo deve
assegnare ad una commissione competente per materia. Le commissioni sono composte in
modo da rispecchiare la pre- senza dei gruppi parlamentari e conseguentemente la proporzione
delle forze politiche in Parlamento. Esse sono anche suddivise per competenze, in modo da
rispecchiare l'organizzazione dei ministeri. Anche la scelta del procedimento da seguire spetta al
Presidente della Camera, che è dunque titolare di poteri di rilievo e non meramente
organizzatori.
Dopo che il progetto di legge è stato assegnato alla commissione competente per materia
inizia la fase istruttoria del procedimento legislativo.
La fase istruttoria ha la funzione di predisporre un testo da sottoporre alla Camera era nel quale
siano palesi le ragioni della normativa, dare la possibilità eventualmente di unificare in un unico
testo altri progetti di legge che hanno medesimo od analogo oggetto, se occorre raccogliere
pareri da parte di altre commissioni.
Nella commissione si svolge prima una discussione sulle linee generali del progetto di legge, alla
quale segue poi un voto. Quindi seguono la discussione e la votazione articolo per articolo, con il
voto anche sugli eventuali emendamenti che siano stati proposti agli articoli, infine viene poi
votato il testo nel suo complesso insieme ad una relazione finale che verrà presentata dal
relatore in aula.
In aula il procedimento ripete sostanzialmente le fasi già seguite in i commissione. Alla Camera
viene presentata la relazione generale sul progetto di legge, che serve ad introdurre una
discussione sulle linee generali.
Questa discussione può anche concludersi con un voto di "non passaggio agli articoli", il che
significherebbe una chiusura immediata del procedimento con "bocciatura" del progetto di legge
prima del voto sugli articoli. Se viceversa, come di solito avviene, non vi e un voto preclusivo, il
procedimento prevede la discussione articolo per articolo con voto anche sugli emendamenti
presentati e con voto finale su ogni articolo. Si tratta di una fase importante ed anche delicata,
perché è nella possibilità di emendare gli articoli che si esercita il potere legislativo del
Parlamento.
Dopo la votazione articolo per articolo si passa quindi alla votazione finale del testo legislativo,
così come esso risulta a seguito dell'approvazione degli articoli.
Quando un testo è approvato nella sua versione definitiva da una Camera deve essere inviata
all'altra Camera, in virtù del principio del bicameralismo paritario. La seconda Camera, che è
sovrana nello scegliere il tipo di procedimento - esso dunque può essere anche diverso rispetto
a quello seguito dalla prima Camera - deve comunque approvare nuovamente il testo. Se il testo
finale approvato è identico al primo la fase dell'approvazione è conclusa. Se viceversa il testo si
discosta anche di un solo articolo questo viene rinviato nuovamente all'altra Camera, che, sia
pure limitatamente alla parte modificata, procede ad un nuovo esame ed approvazione per poi
rinviarlo all'altra Camera sino al momento in cui non vi sia un testo eguale da parte di entrambe
le Camere (la cosiddetta "navette" parlamentare).

4.3. Il procedimento in sede deliberante o in commissione

La Costituzione all'art. 72 ha poi stabilito che i regolamenti parlamentari possono determinare i


casi e le forme nei quali un progetto di legge può essere assegnato ad una commissione perché
lo approvi definitivamente. La Costituzione prevede cioè la possibilità di un procedimento molto
più rapido per l'approvazione di un progetto di legge, procedimento che si basa sulla semplice
attribuzione del progetto ad una commissione (competente per materia), che non ha solo il
compito di istruire il pro- getto, ma anche quello di approvarlo definitivamente senza passare
dalla Camera. Se tuttavia il procedimento è più rapido del procedimento ordinario, esso per
contro è assai meno garantistico. In commissione vengono spesso approvate leggi di poco
rilievo politico, leggi microsezionali, leggi provvedimento, definite normalmente come “leggine".
La scelta del procedimento in sede deliberante è effettuata dal Presidente dell'Assemblea, ed è
possibile quando un progetto di legge "riguardi questioni che non hanno speciale rilevanza di

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ordine generale" o "qualora rivestano particolare urgenza" (art. 92 reg. camera). Tuttavia la
Costituzione considera il procedimento legislativo in sede decentrata come una eccezione al
procedimento ordinario, ed infatti prevede sia ipotesi nelle quali esso è escluso, sia possibili
garanzie per il suo abbandono e la sua conseguente remissione al procedimento ordinario.
Le ipotesi di esclusione di questo procedimento sono previste dall'art. 72 4° comma, che pone
una riserva di procedimento ordinario, denominata "riserva di legge di assemblea" per alcune
categorie di leggi. Queste leggi sono le leggi in materia costituzionale, le leggi in materia
elettorale, le leggi di delegazione legislativa, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati
internazionali, le leggi di approvazione dei bilanci. Si può dire che queste leggi sono escluse dal
procedimento decentrato in conseguenza della loro natura di leggi di particolare importanza per
l’indirizzo politico, o di controllo sul Governo, o di garanzia per l’ordinamento.
Oltre a queste leggi, riservate dalla Costituzione al procedimento ordinario, vi sono altre tipologie
di leggi che i regolamenti parlamentari escludono al procedimento in sede deliberante. Queste
leggi sono le leggi di conversione dei decreti legge, i disegni di legge finanziaria, le leggi rinviate
alle Camere dal Presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74 della Costituzione. Inoltre, sotto
il profilo delle garanzie, la Costituzione prevede che un progetto di legge attribuito alla sede
deliberante possa essere "rimesso" all'assemblea quando lo chiedano un quinto dei componenti
la commissione o un decimo dei componenti della Camera (cioè sostanzialmente una minoranza
parlamentare) oppure il Governo.

4.4. Il procedimento in sede redigente

Il procedimento in sede redigente è previsto dai regolamenti parlamentari e non dalla


Costituzione. E detto anche misto, perché in qual the modo mette insieme le caratteristiche del
procedimento in sede deliberante con quelle in sede referente, ed è delineato dai regolamenti di
Camera e Senato in maniera significativamente diversa.
Al Senato costituisce un vero e proprio terzo procedimento intermedio tra la sede deliberante e
quella referente. In pratica all'aula è riservata sol- tanto la votazione finale del progetto di legge,
mentre discussione e approvazione degli emendamenti è concentrata in commissione. Alla
Camera invece il procedimento redigente è delineato come un sub-procedimento della sede
referente: è infatti la Camera, una volta chiusa la discussione generale, a decidere di affidare la
decisione sugli articoli alla Commissione, riservandosi poi il voto sui medesimi e il voto finale. E
poiché la decisione sulla variante procedimentale spetta alla Camera, è assai difficile che essa si
spogli della propria competenza. Di fatto il procedimento redigente, che nella versione proposta
dal regolamento del Senato ha una sua logica e razionalità, è assai poco usato ed è
praticamente scomparso nelle ultime legislature.

4.5. Un vincolo importante al potere decisionale del Parlamento: la copertura finanziaria


delle leggi

La Costituzione, tuttavia, pone un vincolo positivo espresso alla legge del Parlamento: secondo
l'art. 81 della Costituzione, infatti, "ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve
individuare i mezzi finanziari per farvi fronte". La norma, proposta da Luigi Einaudi in assemblea
costituente, mirava ad assicurare il pareggio del bilancio e il sostanziale equilibrio tra entrate ed
uscite.
Il tema della copertura finanziaria della legge, in correlazione con la necessità di contenere
l'elevato disavanzo dello Stato e con gli obblighi provenienti dall'Unione Europea, è divenuto nel
tempo così importante da condizionare anche la normativa dei regolamenti parlamentari relativa
al procedimento di approvazione della legge. Tutti i disegni di legge di iniziativa governativa,
infatti, debbono essere dotati di una relazione tecnica verificata dal Ministero dell'economia in
ordine alla quantificazione degli oneri e delle coperture.

4.6 La promulgazione

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Una volta che la legge è stata approvata nella stessa identica versione da parte delle due
Camere, essa è giuridicamente perfetta ma non ancora efficace, poiché deve essere promulgata
dal Presidente della Repubblica.
La promulgazione deve avvenire entro un mese dall’approvazione, salvo che in caso di urgenza
le Camere stabiliscano un termine inferiore, ed avviene mediate decreto del Presidente della
Repubblica. Con tale decreto il Presidente attesta che la legge è stata approvata dalle due
Camere, dichiara la propria volontà di promulgarla, e ordina che sia pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana. La promulgazione da parte del Presidente della Repubblica
costituisce uno strumento di controllo sulla legge e non di integrazione della volontà
parlamentare, l'art. 74 infatti recita: "Il Presidente della Repubblica prima di promulgare la legge
può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere
approvano nuovamente la legge questa deve essere promulgata".
Il rinvio presidenziale alle Camere può essere esercitato infatti una sola volta - esso non è
dunque un veto - ed è destinato a cedere a fronte della riapprovazione della legge da parte del
Parlamento. La promulgazione ha dunque lo scopo di consentire al Presidente un controllo sulla
legge (si vedrà tra breve la natura di questo controllo) ma non di sostituire la propria volontà a
quella del Parlamento.

4.6.1. I caratteri del rinvio presidenziale

Il potere di rinvio della legge si inscrive dunque nell'ambito di quei poteri che la Costituzione
assegna al Presidente della Repubblica nella sua funzione di garante della Costituzione. Per
delineare le caratteristiche del potere di rinvio occorre dunque collegare questo istituto con le
funzioni complessive svolte dal Presidente secondo la Costituzione, che si sostanziano
nell'assicurare la regolarità costituzionale con poteri di stimolo, di intervento, di bilanciamento,
allorquando gli altri poteri fuoriescono dall'esercizio delle funzioni costituzionali loro assegnate. Il
potere di rinvio si inscriverebbe dunque nell'ambito di un modello di controllo atipico, perché non
sarebbe un controllo di legittimità in senso stretto né un controllo di merito in relazione alle scelte
legislative, ma bensì un controllo sulla legittimità costituzionale in senso ampio legge, finalizzato
al mantenimento della coerenza dell’ordinamento. Taluni hanno parlato al proposito anche di
“merito costituzionale”, volendo con questa espressione coniugare la natura di un controllo non
politico ma relativo alle norme costituzionali, con l'esistenza d'altra parte di principi, molto ampi,
contenuti in Costituzione, alla cui stregua esercitare il rinvio.

4.7. La pubblicazione

A seguito della promulgazione la legge viene pubblicata, sotto la responsabilità del Ministro di
Grazia e Giustizia, nella raccolta ufficiale de- gli atti normativi della Repubblica italiana e nella
Gazzetta ufficiale della Repubblica. Alla pubblicazione si deve provvedere "subito dopo la
promulgazione" e comunque non oltre trenta giorni da essa. La legge diviene applicabile dopo
un termine, c.d. di vacatio legis, di 15 giorni. Tale termine, che serve a rendere la legge non
solo conoscibile, ma, almeno in teoria, conosciuta, è tuttavia abbreviabile da parte della stessa
legge. Pubblicata la legge e decorso il termine per la vacatio, sorge la presunzione assoluta che
tutti la conoscano, non potendosi invocare per la non applicazione della legge la sua mancata
conoscenza (ignorantia legis non excusat)

5. Il progetto si riforma costituzionale: l’intervento del Senato nel procedimento


legislativo

Il progetto di revisione costituzionale si pone anche l'obbiettivo del superamento del


bicameralismo nel procedimento legislativo. Al contrario della Costituzione del 1948, il progetto
di revisione punta ad evitare per tutte le leggi questa doppia lettura.

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Il progetto di riforma prevede, infatti, che la funzione legislativa è esercitata da entrambe le
Camere solo per alcune leggi, che potrebbero essere definite come leggi bicamerali. Si tratta
delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, delle leggi di
attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di referendum popolare, delle leggi che
autorizzano la ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia all’Unione europea, di alcune
categorie di leggi regionali.

6. Il progetto di riforma: il voto a data certa

La riforma costituzionale in corso di approvazione, oltre al superamento del modello bicamerale


pantano, prevede anche la modifica del principio implicitamente codificato nella Costituzione del
1948, della "parità delle armi” tra gli attori del procedimento legislativo. Si era detto, intatti, che
nel modello costituzionale del 1948 il Governo non era dotato di corsie preferenziali o
strumentali particolari per attirare il proprio programma.
Da questa carenza, tra 1 altro, era derivato un ricorso eccessivo da parte del Governo allo
strumento della decretazione di urgenza e della delegazione legislativa, nonché una
utilizzazione ancora eccessiva della questione di fiducia. Per superare questi aspetti la riforma
disciplina la possibilità di una corsia preferenziale per i progetti di legge di iniziativa del Governo
(o c.d. voto a data certa). Il Governo può, infatti, chiedere alle Camere che un proprio disegno di
legge sia iscritto con priorità all'ordine del giorno, e sottoposto a votazione finale entro 60 giorni
o addirittura entro un termine inferiore, a seconda della complessità della materia. Decorso il
termine, il testo proposto viene posto in votazione, senza modifiche, articolo per articolo e con
votazione finale.
Questo strumento rafforza non di poco i poteri del Governo in Parlamento, che, sulla scia di
modelli costituzionali previsti in altri paesi (ad esempio in Francia) avrebbe quindi la possibilità di
conoscere i tempi per la approvazione dei propri progetti di legge.

7. La destrutturazione della forma della legge: le leggi rinforzate

Come si è detto in premessa, la legge è quella fonte caratterizzata da un punto di vista formale
dall'essere "prodotta" attraverso il procedimento di cui agli artt. 70 e ss. (che abbiamo ora
descritto), e da un punto di vista sostanziale dal contenere norme generali ed astratte. Entrambe
queste caratteristiche tendono tuttavia ad avere rilevanti eccezioni: vi sono casi infatti nei quali,
per espressa previsione costituzionale, la legge presenta elementi di difformità rispetto al
procedimento che abbiamo descritto, e vi sono casi nei quali la legge non contiene norme
generali ed astratte. Nel primo caso le leggi sono dette rinforzate, nel secondo caso sono dette
leggi provvedimento.
La legge rinforzata costituisce quella legge per approvare la quale la Costituzione prevede una
procedura aggravata, senza tuttavia modificare il "tipo" di fonte. La legge rinforzata infatti non è
una legge costituzionale o una legge di revisione della Costituzione, ma è a tutti gli effetti una
legge ordinaria, con la sola caratteristica che il procedimento aggravato pre- visto nella
Costituzione per la sua approvazione le attribuisce una resistenza passiva (capacità di resistere
all'abrogazione) maggiore rispetto alle leggi ordinarie. Da ciò consegue che per abrogare una
legge rinforzata occorrerà un'altra legge avente un pari rinforzo.
La Costituzione prevede modelli diversi di leggi rinforzate. In alcuni casi il rinforzo è
procedimentale, poiché la Costituzione prevede una "fase" ulteriore del procedimento, che
costituisce il rinforzo. Questa fase si sostanzia principalmente nella previsione di “intese”, pareri
da parte di altri organi, momenti di consultazione popolare espressi in varie forme ecc. che si
inseriscono a monte del procedimento legislativo.
Costituisce un esempio di rinforzo per procedimento la legge che regola i rapporti tra lo Stato e
le confessioni diverse dalla confessione cattolica.
La legge che regola i rapporti con lo Stato e le confessioni diverse dalla confessione cattolica è
una legge rinforzata, perché prima dell'inizio del procedimento legislativo occorre acquisire un

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accordo tra lo Stato e le rappresentanze di quelle confessioni in ordine alle modalità della
regolazione dei reciproci rapporti (l'intesa). Il rinforzo sta proprio nella necessita di raggiungere
una intesa anteriormente ali inizio del procedimento legislativo, senza la quale la legge che
pretendesse di regolare i rapporti tra lo Stato e le confessioni acattoliche sarebbe
costituzionalmente illegittima per violazione dell'art. 8 della Costituzione.
In altri casi il rinforzo riguarda non il procedimento ma bensì la maggioranza necessaria per
approvare la legge. Costituisce un caso di rinforzo per maggioranza la legge che prevede
l'amnistia e l'indulto nella attuale sciolina introdotta con modifica costituzionale nell'anno 1992. Si
tratta di due classici atti di clemenza generale (il terzo, la grazie è un provvedimento individuale
del Presidente della Repubblica). L'amnistia estingue il reato mentre l'indulto estingue o riduce la
pena.
L'art. 79 della Costituzione disciplina l'amnistia e l'indulto prevedendo che tali provvedimenti
sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna
Camera in ogni suo artico- lo e nella votazione finale. La maggioranza molto ampia dei due terzi
dei componenti, rispetto alla maggioranza semplice per approvare la legge (metà più uno dei
presenti), costituisce il rinforzo necessario per l'approvazione di questa legge.
In altri casi ancora si riscontra vuoi un rinforzo procedimentale vuoi un rinforzo relativo alla
maggioranza per approvare la legge. Costituisce un esempio di legge rinforzata sia per
procedimento che per maggioranza la legge prevista dall'art. 116 della Costituzione a proposito
della attribuzione di altre competenze alle Regioni. La norma prevede che: "ulteriori forme e
condizioni particolari di autonomia ... possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello
Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui
all'art. 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla
base di intese tra lo Stat e la regione interessata". In questo caso siamo in presenza di vari tipi di
rinforzo: vi è in primo luogo un rinforzo in fase di iniziativa, poiché la iniziativa per questo tipo di
leggi è possibile solo per la Regione interessata, dopo aver sentito tuttavia gli enti locali. Vi è poi
un ulteriore intesa tra lo Stato e la Regione (rinforzo procedimentale) ed infine la legge deve
essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti (rinforzo di maggioranza).

7.1. Perché le leggi rinforzate?

La Costituzione dunque prevede varie tipologie di leggi rinforzate, la ratio delle quali è diversa a
seconda della tipologia di rinforzo. Quando vi è un rinforzo per procedimento, molto spesso la
Costituzione utilizza lo strumento dell'intesa tra lo Stato ed il soggetto o l'ente interessato alla
legge: l'intesa si sostanzia in una sorta di accordo tra lo Stato e l'ente, da effettuarsi prima
dell'inizio del procedimento legislativo, allo scopo di determinare e concordare i punti
fondamentali che dovranno poi essere declinati all'interno dell'atto legislativo. Lo scopo
dell'intesa è quindi quello di attribuire all'ente interessato alla regolazione finale del rapporto, un
potere negoziale del quale non è altrimenti dotato.

In definitiva, quando nel rinforzo procedimentale la Costituzione stabilisce la necessità di una


intesa, ciò è normalmente funzionale alla tutela del pluralismo e a correggere posizioni di
diseguaglianza di partenza tra interessi tutti considerati meritevoli di tutela.
In altri casi il rinforzo procedimentale può essere dato da un "parere", o da un referendum
popolare (come recita l'art. 132 a proposito del distacco di Province e Comuni), che si innesti a
monte della legge. Nella diversità degli strumenti giuridici - parere e referendum - la ratio è
tuttavia la medesima.

Nel caso invece del rinforzo per maggioranza la ratio è ancora diversa. Si tratta infatti di leggi
che non sarebbero strettamente collegabili all'indirizzo politico del Governo in quanto, pur senza
essere leggi costituzionali, impattano fortemente su valori costituzionali tanto da richiedere, per
la loro approvazione, anche il necessario consenso delle forze di opposizione.

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L'esistenza nell'ordinamento di numerose leggi rinforzate indica in- ratti che, allorquando vi siano
interessi particolari meritevoli di particolare tutela, anche la legge perde la sua "forma tipica" per
assumere la struttura più consona alla tutela di quei particolari interessi.

8. La destrutturazione della legge per contenuto: le leggi provvedimento e le leggi "a


basso contenuto di generalità e astrattezza

Le c.d. leggi provvedimento costituiscono una categorie particolare di leggi che differiscono dalle
altre leggi formali, perché non contengono norme generali ed astratte, ma hanno invece un
contenuto concreto e specifico: si tratta di leggi che invece di disporre, provvedono
direttamente su di un caso concreto, svolgendo quindi una attività tipicamente amministrativa.
Le leggi provvedimento sono inoltre autoapplicative, perché non necessitano di essere attuate
dalla Pubblica Amministrazione attraverso la produzione di altre norme. Da un punto di vista
formale e della loro forza le leggi provvedimento sono a tutte gli effetti leggi - ed infatti sono
approvate con il procedimento di cui agli artt. 70 e ss. della Costituzione - mentre da un punto di
vista contenutistico, mancando di generalità e astrattezza, sono assai simili agli atti
amministrativi emanati dalla Pubblica Amministrazione. Si pensi ad esempio alle leggi che
rilasciano concessioni amministrative, oppure assoggettano a vincoli beni determinati: si tratta di
leggi con contenuto particolare, assunto in conseguenza di situazioni particolari, destinate ad
operare, spesso, per un periodo di tempo determinato.
Alcune leggi provvedimento, poi, vengono dette, nel lessico quotidiano, "leggine" anche in
relazione al modesto contenuto politico del quale sono dotate. Si tratta di leggi provvedimento la
cui perdita di generalità ed astrattezza non è conseguenza di situazioni particolari che
necessitano di essere perequate o di situazioni eccezionali che necessitano di essere normate
senza intermediazione da parte della Pubblica Amministrazione, ma che, semplicemente,
rispondono alla "opportunità politica" di tutelare interessi particolari.
Dalle leggi provvedimento debbono essere tenute distinte le leggi che potremmo definire come
"a basso contenuto di generalità e astrattezza", cioè leggi speciali, che disciplinano categorie
particolari di soggetti o di situazioni. Queste leggi differiscono dalle leggi provvedimento perché
sono comunque dotate della caratteristica della generalità, sia pure limitata. Non hanno cioè
caratteristiche puramente provvedimentali e quindi non sono neppure autoapplicative. Pensiamo
alla differenza tra una legge che pone un vincolo di inedificabilità su di un determinato bene
(classica legge provvedimento), rispetto ad una legge che esclude il pagamento delle tasse per
una popolazione terremotata (legge a basso livello di generalità e astrattezza).

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CAPITOLO III
ATTI CON FORZA DI LEGGE
E REGOLAMENTI

1. La regola e l'eccezione: dalla legge del Parlamento ai decreti legge e decreti legislativi

Come si è visto il sistema costituzionale delle fonti è imperniato sulla legge del Parlamento. È la
legge ad essere l’unica fonte a competenza generale; è la legge ad avere ambiti di competenze
che non possono essere invasi da altre fonti (le riserve di legge); è che si basa il principio di
legalità che costituisce una delle garanzie tradizionali dello Stato di diritto. D'altronde il
Parlamento è il titolare del potere legislativo sulla base del principio di separazione dei poteri; la
sovranità popolare si estrinseca attraverso la elezione di rappresentanti del corpo elettorale in
Parlamento, cosicché la legge è espressione indiretta dello stesso corpo elettorale; la forma di
Governo delineata dalla Costituzione è una forma di Governo parlamentare, e dunque è a tutto
ciò conseguente che la Costituzione consideri la legge del Parlamento come fonte "regola".
In Costituzione vi sono però altri atti, approvati dal Governo, definiti atti con forza di legge
perché dotati della stessa "forza" attiva e della stessa resistenza passiva (capacità di abrogare e
capacita di resistere alla abrogazione) della legge del Parlamento. Si tratta di atti che la
Costituzione configura come eccezioni rispetto alla regola (la legge), perché costituiscono una
violazione (in parte) del principio di separazione dei poteri e del principio che gli atti primari sono
emanati da organi direttamente rappresentativi.
Atti con forza di legge emanati dal Governo esistono comunque in tutte le Costituzioni
contemporanee, e per quanto concerne l'Italia esisteva- no anche prima della Costituzione.

Gli atti con forza di legge previsti nella Costituzione sono essenzialmente di due tipi: il decreto
legge e il decreto legislativo. Nel primo caso il presupposto è l'esistenza di una situazione
straordinaria di necessità e di urgenza che legittima l'emanazione di un decreto avente forza di
legge da parte del Governo. Nel secondo caso il presupposto è invece la approvazione, da parte
del Parlamento, di una legge di delegazione che attribuisca, con i vincoli ed i limiti che vedremo,
il potere al Governo di emanare un decreto legislativo con forza di legge. In entrambi i casi si
verifica astrattamente uno "strappo" al modello costituzionale e al principio di separazione dei
poteri, perché Tatto con forza di legge è approvato dal Governo, ma in entrambi i casi la
Costituzione pone regole per ricucire tale strappo.
Nel decreto legge, come si vedrà, vi è infatti un controllo del Parlamento a posteriori (il decreto
legge deve essere convertito con legge del Parlamento). Nel decreto legislativo questo controllo
viene esercitato invece a priori attraverso la legge di delegazione. L'esistenza di questi controlli
e di queste "ricuciture" fanno si che la disciplina costituzionale dei decreti legge e dei decreti
legislativi, pur considerata eccezionale nella Costituzione, sia però coerente con il modello
generale del primato della legge del Parlamento, con la forma di Governo parlamentare, e in
definiti va con il sistema democratico rappresentativo.

2. Il decreto legge nella normativa precostituzionale e nella Costituzione

I decreti legge esistevano anche, sia pure non codificati, nello statuto Albertino, mentre
poi sono stati codificati nella legge n. 100 del 1926. La Costituzione prevede che il
decreto legge sia fondato su requisiti straordinari di necessità e di urgenza, che sia
convertito in legge entro sessanta giorni, che in mancanza di conversione il decreto
decade con effetti retroattivi.
La norma costituzionale che disciplina il decreto legge (art. 77) riprende nelle linee generali il
modello delineato dalla legge n. 100 del 1926, ma vi aggiunge una serie di regole che ne
mettono in evidenza la eccezionalità e la conseguente necessità di un controllo parlamentare

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stringente.
Un primo segnale della eccezionalità di questa fonte la si rintraccia nel 1° comma dell'art. 77,
laddove la Costituzione afferma che "Il Governo non può senza delegazione delle Camere
emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria". Questa eccezionalità è positivamente
sancita nel 2° comma dell'art. 77 che recita: "quando, in casi straordinari di necessità e di
urgenza il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con for- za di
legge, deve il giorno stesso presentarsi alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente
convocate e si riuniscono entro cinque giorni". La Costituzione dunque evidenzia che:
a) i casi straordinari di necessità e di urgenza debbono costituire il presupposto per
l'adozione di un decreto legge;
b) questo atto è un provvedimento provvisorio;
c) una volta adottato il giorno stesso deve essere presentato alla Camere. Se esse sono
sciolte debbono riunirsi nel tempo strettissimo di cinque giorni.
Il senso di questa prima parte della normativa costituzionale evidenzia che la disciplina del
decreto legge è contornata da meccanismi di garanzia che tendono a limitare l'esercizio di
questo potere a pochi casi veramente straordinari, e comunque a garantire informazione e
controllo al Parlamento in tempi strettissimi. Questa "filosofia" della Costituzione è parimenti
confermata nel 3° comma dell'art. 77 che a sua volta recita: "i decreti perdono efficacia sin
dall'inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le
Camere tuttavia possono regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non
convertiti" . La Costituzione prevede quindi un controllo parlamentare che si esercita sul decreto
legge attraverso una legge di conversione (il decreto legge deve essere convertito in legge), e
ciò deve avvenire entro il tempo, assai breve, di due mesi (laddove la legge n. 100 del 1926
aveva previsto un tempo di conversione di due anni). Attraverso la legge di conversione viene
"sanata" la frattura del principio di separazione dei poteri che si era attraverso l'emanazione da
parte del Governo di un atto con forza di legge. In caso di mancata conversione, i decreti legge
infatti perdono efficacia ex fune, cioè retroattivamente, poiché il decreto è come se non fosse
mai stato adottato.
La mancata conversione del decreto legge travolge infatti tutti gli effetti che il decreto legge ha
posto in essere nel suo periodo di vigenza (effetto retroattivo della mancata conversione).
Inoltre, l'effetto retroattivo derivante dalla mancata conversione incontra il limite dei c.d. rapporti
esauriti (rapporti che non possono essere più rimessi in gioco in quanto ormai definiti). Questi
rapporti sono tutti quelli ormai passati in giudicato (cioè definiti con sentenza non più appellabile)
i diritti ormai prescritti o rispetto ai quali sia decorso il termine di decadenza, o comunque quelli
che per la tipologia del rapporto di fatto non sono più azionabili.

2.1. La prassi degenerativa

Il modello costituzionale considera dunque il decreto legge come uno strumento normativo
eccezionale. Con le espressioni "necessità ed urgenza" si sono voluti delineare dei presupposti
larghi, discrezionalmente valutabili dal Governo, nondimeno per legittimare l’uso dei decreto
legge invece del procedimento legislativo ordinario, avrebbe dovuto esservi una situazione
straordinaria che necessitasse di un intervento normativo urgente.
La prassi ha al contrario dimostrato che il decreto legge è stato utilizzato come uno strumento
di normazione assolutamente ordinario. Il presupposto della necessità ed urgenza è divenuto
più che un requisito giuridicamente vincolante, una sorta di formula di rito per giustificare
interventi in campi disparati, oggettivamente privi anche di un "minimo" di urgenza di
provvedere. Si consideri anche che in alcuni casi il Governo ha smentito da solo la stessa
necessità ed urgenza, attuando tardivamente, o solo in parte, le norme contenute nel decreto
(quando il decreto, ad esempio, necessitava di norme regolamentari per la sua esecuzione).
Nella sostanza il decreto legge è divenuto un modo per accelerare il procedimento di formazione
della legge, tanto da divenire una sorta di iniziativa legislativa rinforzata. In effetti spesso il
Governo preferisce, anziché procedere a presentare un disegno di legge in Parlamento, adottare

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un decreto legge, con il vantaggio che esso entra in vigore immediatamente, ed attendere poi la
eventuale conversione da parte delle Camere. Così facendo tuttavia il Parlamento viene ad
essere principalmente occupato da leggi di conversione dei decreti legge, rallentando
ulteriormente il procedimento legislativo ordinario, la sua capacità di produrre leggi, e in
definitiva stimolando il Governo ad adottare altri decreti legge dati i tempi lunghi della
normazione ordinaria.
Il problema dell'eccesso di produzione di decreti legge non è stato runico elemento distorsivo
della norma costituzionale. I Governi hanno anche utilizzato in maniera abnorme la possibilità di
reiterare decreti legge non convertiti dalle Camere. Poiché in effetti nella grandissima parte dei
casi il Parlamento non riusciva a convertire in legge i decreti leggi nel termine di 60 giorni,
quando il decreto legge decadeva il Governo era solito ripresentato.
Questa tecnica produce effetti distorsivi della Costituzione, ingenerando peraltro anche notevole
incertezza del diritto. La Costituzione nell'art. 77 ha infatti sottolineato come il decreto legge
debba essere un provvedimento "provvisorio", ma se questo nel momento della sua decadenza
viene reiterato e così per un numero indefinito di volte, perde il carattere di provvisorietà, per
divenire invece uno strumento di legislazione ordinaria.
La prassi della reiterazione, peraltro, genera effetti distorsivi anche su versante del Parlamento.
La mancata conversione del decreto produce come si sa, effetti retroattivi. Quando il Parlamento
deve convertire un decreto legge, che a seguito di svariate reiterazione è vigente da anni, noi
potrà non porsi il problema degli effetti della mancata conversione sulle situazioni che si sono
create sulla base di quel decreto legge. In altre pare le, negare la conversione di un decreto
legge reiterato moltissime volte provoca problemi rilevanti di certezza del diritto, cosicché il
Parlamene sarà spesso cauto nel negare una tale conversione.
D'altra parte anche il Parlamento, nell'uso e nell'abuso del decreto legge ha contribuito a
snaturare il modello costituzionale. La Costituzione sembra delineare la legge di conversione
come un atto a competenza determinata. Il Parlamento, cioè, converte o non converte, Al
contrario invece il Parlamento ha sempre considerato il decreto legge presentatogli dal Governo
per la conversione come un disegno di legge ordinario, ritenendo quindi di poter proporre
emendamenti nel corso della sua conversione. La possibilità di introdurre emendamenti al
decreto produce tuttavia non pochi problemi in ora ne alla loro efficacia nel tempo.
L'emendamento approvato dal Parlamento deve essere considerato come una mancata
conversione, e dunque con effetto retroattivo giusta la disposizione dell'art. 77 della
Costituzione, oppure è una norma "nuova" che si aggiunge al testo ed allora ha valore dal
momento della pubblicazione della legge di conversione?
Il problema non è affatto semplice. La giurisprudenza ha distinto tra gli emendamenti
soppressivi che avrebbero effetto retroattivo (trattandosi in sostanza di una mancata
conversione) e gli emendamenti aggiuntivi, che non avrebbero invece effetto retroattivo
(trattandosi di una mera "aggiunta" da parte del Parlamento e dunque non una mancata
conversione. Ma anche questa soluzione non è esaustiva, poiché gli emendamenti possono sì
sopprimere semplicemente una norma, ed allora il caso è facile perché si tratta con evidenza di
una mancata conversione, ma possono anche modificarla, ed allora non è affatto facile capire se
si tratta di un emendamento soppressivo o aggiuntivo. Bisognerà ragionare della novità della
nuova norma rispetto al testo ma questo diviene compito dell'inter- prete (solitamente del giudice
che applica la norma) e i margini di discrezionalità sono assai rilevanti, il tutto ingenera, come
ben si comprende, notevole incertezza del diritto.

2.2. I primi tentativi di limitate l'eccesso di decretazione di urgenza: il filtro parlamentare

Agli inizi degli anni '80 il problema dell'abuso del decreto legge e la sua eccessiva utilizzazione
come strumento di legislazione ordinaria, apparivano ormai una deformazione del modello
costituzionale.

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Si ritenne pertanto di intervenire a livello della normativa regolamentare della Camera e del
Senato. In particolare si prevedette una sorta di filtro preliminare anteriore alla legge di
conversione (art. 96 bis del regolamento della Camera). La Commissione affari costituzionali
avrebbe dovuto accertare la sussistenza o meno dei requisiti di necessità e di urgenza e nella
ipotesi in cui i requisiti non fossero stati presenti, il decreto legge, non avrebbe dovuto essere
esaminato dalle Camere per la conversione con l'effetto di provocarne la decadenza. Lo scopo
della norma consisteva nel limitare l'utilizzazione del decreto legge da parte del Governo e
dall'altra parte di bloccare, preventivamente, la conversione di decreti che non avessero i
requisiti costituzionalmente previsti, allo scopo di "liberare" il Parlamento da un eccessivo carico
di leggi di conversione.
Tuttavia fu presto chiaro che il filtro preliminare a ben poco serviva. D'altra parte composizione
proporzionale della Commissione faceva si che la maggiora za della stessa rispecchiasse la
maggioranza di Governo. Ed era probabilmente utopistico pensare che i deputati che tale
commissione componevano, fossero disponibili a "bocciare" l'operato del Governo, tra l'altro con
valutazioni in punto di legittimità. In definitiva l'idea di un filtro preliminare di legittimità del
decreto legge, da valutare in sede di conversione, si è rivelato uno strumento non utile per
limitare l'eccesso di decretazione di urgenza, tanto è vero che dopo alcuni anni non è stato più
utilizzato.

2.2.1. La legge n. 400 del 1988

Non risolto il problema attraverso il filtro preliminare di legittimità posto dalla normativa
regolamentare della Camera, si cercò di cogliere l'occasione della approvazione, nel 1988, della
legge denominata "Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del
Consiglio dei ministri" (legge 23 agosto 1988 n. 400), per cercare di introdurre limitazioni alla
decretazione di urgenza. L'art. 15 della legge n. 400 del 1988 stabilisce infatti diverse ipotesi in
presenza delle quali il decreto legge non può essere adottato, e comunque alcune regole formali
che il decreto legge e la legge di conversione del decreto legge devono rispettare.
La sede formale scelta, tuttavia, una legge ordinaria invece che una legge costituzionale,
costituisce di per sé un ostacolo per porre dei vincoli ad un atto avente pari forza, quale il
decreto legge. Le limitazioni e i vincoli derivanti da una legge ordinaria non possono infatti
produrre effetti giuridicamente vincolanti rispetto ad una fonte di pari grado: le previsioni ivi
contenute possono svolgere una funzione sul piano della responsabilità politica del Governo, ma
non sul piano della legittimità del decreto.
Partendo dai vincoli procedimentali il 1° comma dell'art. 15 prevede che i decreti legge debbono
essere presentati per l'emanazione al Presi- dente della Repubblica con la denominazione
"decreto legge", e con l'indicazione nel preambolo delle circostanze straordinarie e di urgenza
che ne giustificano l'adozione, nonché dell'avvenuta deliberazione del Consiglio dei Ministri. La
previsione ha una notevole importanza: la indicazione nel preambolo delle circostanze
straordinarie di necessità e di urgenza costituisce "la motivazione" del decreto legge; impegna la
responsabilità politica dd Governo che lo ha adottato; consente, sia pure nella misura ampia
tipica della emanazione da parte del Presidente, un controllo "largo" da parie di quest'ultimo
sulla sussistenza dei requisiti.
Inoltre, a norma del 3° comma dello stesso articolo "i decreti devono contenere misure di
immediata applicazione e il loro contenuto deve esserre specifico, omogeneo e corrispondente
al titolo". Anche in questo caso si tratta di una norma che tende a razionalizzare le modalità di
esercizio della decretazione di urgenza.
Questa revisione dovrebbe servire ad evitare la prassi dei c.d. "decreti omnibus”, decreti legge
utilizzati per introdurvi materie di ogni tipo, ed anche la riproposizione di altri decreti decaduti o in
procinto di decadere.
Vi sono poi materie che, secondo l'art. 15, non dovrebbero essere oggetto di normazione
attraverso il decreto legge. In particolare:

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a) non si può, con decreto legge, conferire deleghe legislative ai sensi dell'art. 76 della
Costituzione.
b) Provvedere nelle materie indicate nell'art. 72 4° comma della Costituzione (leggi in materia
costituzionale ed elettorale, delegazione legislativa, autorizzazione a ratificare trattati
internazionali, approvazioni di b lanci e consuntivi). Anche in questo caso la gran parte delle
materie costituiscono limiti logici e costituzionali impliciti alla decretazione di urgenza. Già
detto della delegazione legislativa, anche le leggi di approvazione di bilanci e consuntivi, così
come quelle di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, non possono essere
approvati con decreto legge per la ovvia ragione che si tratta di atti che la Costituzione
configura come di controllo sul Governo da parte del Parlamento.
c) Rinnovare le disposizioni di decreti legge dei quali sia stata negata la conversione in legge
con il voto di una delle due Camere. Si tratta di una previsione che mira a limitare la
reiterazione dei decreti legge. Tuttavia normalmente mente perché il Parlamento non arriva
ad esprimere un voto. Dunque questa norma ha avuto poco effetto nel limitare la reiterazione
dei decreti.
d) Regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. Anche in questo
caso si tratta della codificazione di un principio già esistente. Nel caso di specie è infatti l'art.
77 ultimo comma della Costituzione che riserva alla legge formale del Parlamento la
disciplina dei rapporti giuridici sorti sulla base di precedenti decreti non convertiti.
e) Ripristinare l'efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per
vizi non attinenti al procedimento. Si tratta di una precisazione ampiamente ricavabile dal
dettato costituzionale e dai principi generali. Ripristinare una norma dichiarata illegittima
dalla Corte costituzionale costituirebbe violazione del giudicato costituzionale e potrebbe
legittimare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.
Si può dunque concludere che la legge n. 400 del 1988 non ha avuto un impatto decisivo sulla
questione dell'abuso del decreto legge. Tuttavia essa ha in qualche misura segnato una strada e
posto l'attenzione su di un problema che alla fine solo la Corte costituzionale poteva risolvere.

2.2.2. Gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale

La interpretazione larga dei requisiti di necessità e di urgenza nonché la reiterazione del decreto
legge, possono produrre profili di incostituzionalità del decreto legge. Se infatti il decreto legge
non rispetta i requisiti di necessità e di urgenza potrebbe essere costituzionalmente illegittimo in
relazione all'art. 77 della Costituzione, che tali requisiti pone a fondamento della sua
emanazione; se viene reiterato più volte - e dunque diviene un atto sostanzialmente stabile nel
tempo - esso sembra contrastare ancora con l'art. 77 della Costituzione che qualifica il decreto
legge come un atto "provvisorio".
Il controllo di costituzionalità sulla legittimità di decreti leggi, sia sotto il versante della eventuale
carenza di necessità e di urgenza, che sotto il versante della reiterazione, presenta tuttavia una
serie di problematiche di natura formale e sostanziale che soltanto in tempi relativamente recenti
la Corte costituzionale è riuscita a risolvere. Da un punto di vista formale, infatti, bisogna
ricordare che il decreto legge ha un tempo di vigenza breve (60 giorni), al termine del quale, se
non convertito, decade con effetto retroattivo. E dunque estremamente difficile instaurare, per
meri motivi temporali, un giudizio incidentale nei confronti di questo atto, perché i tempi della
instaurazione di un giudizio di costituzionalità sono necessariamente più lunghi. Né si poteva
facilmente ritenere che i vizi del decreto legge si trasferissero tout court sulla legge di
conversione o sul decreto reiterato. La legge di conversione, infatti, poteva essere considerata
(come in effetti la Corte considerava in una prima fase) una legge nuova, come tale suscettibile
di impugnazione per vizi autonomi, ma non per vizi derivati dal decreto legge che essa aveva
convertito. Ancora un atto nuovo sarebbe il decreto legge eventualmente reiterato.
da un punto di vista sostanziale, poi, il controllo di costituzionalità sui requisiti di
necessità e di urgenza scontava la difficoltà di trasferire, sul piano giuridico, valutazioni

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come appunto “necessità e urgenza” h sono largamente discrezionali, legate a
contingenze determinate, rispetto alle quali la Corte costituzionale tentava ad effettuare
un accentuato self restrain allo scopo di non invadere la valutazione politica del
Governo. Nel tempo, tuttavia la Corte costituzionale ha superato questi scogli di ordine formale
e sostanziale.
In primo luogo la Corte ha superato il problema formale della decadenza del decreto dopo i 60
giorni - e quindi del conseguente venir meno del giudizio di costituzionalità eventualmente
instauratosi su quel decreto - ammettendo la possibilità di trasferire l'oggetto del giudizio sul
decreto reiterato (Corte cost. n. 84 del 1996). Ha ammesso poi la possibilità di sindacare la
legge di conversione del decreto per vizi attinenti al decreto stesso (Corte cost. n. 29 del 1995)
modificando la precedente giurisprudenza secondo la quale la conversione in legge del decreto
legge ne sanava i vizi.
Il superamento di questi ostacoli formali ha consentito l'esplicarsi an- che di un controllo di
natura sostanziale, che, pur attento a non invadere la discrezionalità politica del Governo,
consente di sindacare la utilizzazione del decreto quando esso sia emanato manifestamente al
di fuori dei requisiti costituzionali.
Sul tema della eventuale carenza dei requisiti di necessità e di urgenza, in genere il controllo
della Corte si è limitato a verificare la sua manifesta mancanza, evitando un giudizio
approfondito che avrebbe potuto scivolare in un giudizio di merito di natura politica.
Un ulteriore rilevante contributo è stato dato dalla Corte nel controllo sulla reiterazione
dei decreti legge. A partire dalla fine degli anni '80, quando il fenomeno degenerativo della
reiterazione dei decreti ha iniziato ad assumere carattere patologico, l'atteggiamento della Corte
costituzionale sulla reiterazione dei decreti legge è divenuto progressivamente più stringente.
Con la sentenza n. 360 del 1996 infatti la Corte dichiarò la incostituzionalità della reiterazione.
Con tale sentenza la Corte affermò che il di- vieto di reiterazione "è implicito nel testo
costituzionale" e ciò impedisce che il Governo, in caso di mancata conversione "possa
riprodurre, con un nuovo decreto il contenuto normativo dell'intero testo o di singole disposizioni
del decreto non convertito". La reiterazione, infatti, tende a tra- sformare un atto provvisorio in un
atto tendenzialmente stabile, in violazione dell'art. 77 della Costituzione che ne sancisce
espressamente la provvisorietà.

3. Il progetto di riforma costituzionale: le limitazioni alla decretazione di urgenza

Con il progetto di legge di revisione costituzionale il decreto legge dovrebbe tornare ad essere
un atto emanato dal Governo solo in presenza di requisiti straordinari di necessità e di urgenza.
Dunque l'utilizzazione del decreto legge dovrebbe rimanere confinato ai casi veramente
straordinari e urgenti, che necessitano di un intervento che non può attendere neppure i 60
giorni per l’approvazione del progetto di legge orinatoi con la corsia preferenziale.
Inoltre, allo scopo di limitare e di chiarire ulteriormente la straordinarietà e la eccezionalità
dell'utilizzazione del decreto, il testo della riforma costituzionalizza le limitazioni già poste dalla
legge n. 400 del 1988 e individuate dalla giurisprudenza costituzionale.
In particolare, il nuovo testo dell'art. 77 della Costituzione prevederebbe che il Governo non può,
con decreto legge, disciplinare le materie indicate nell'art. 72 4° comma; reiterare disposizioni
adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei
medesimi; ripristinare l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte
costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento (si tratta, come si è
detto, delle materie già previste nell'art. 15 della legge n. 400 del 1988). I decreti legge debbono
contenere inoltre misure di immediata applicazione e di contenuto specifico; ad evi- tare decreti
legge c.d. omnibus, il contenuto deve essere omogeneo e corrispondente al titolo.

4. La delegazione legislativa

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L'altro strumento previsto dalla Costituzione per attribuire un potere normativo primario al
Governo è la delegazione legislativa. La delegazione legislativa costituisce una species
dell'istituto giuridico della delegazione: attraverso lo strumento della delegazione un soggetto,
titolare di un potere, attribuisce ad altri l'esercizio di quel potere, circoscrivendo, con regole
predeterminate, la sua capacità di agire.

Attraverso lo strumento della delegazione legislativa il Parlamento attribuisce quindi l’esercizio


della funzione legislativa al Governo. L'art. 76 della Costituzione consente infatti che il
Parlamento attribuisca l'esercizio della funzione legislativa al Governo, ma non invece il potere
legislativo, che permane in capo al Parlamento. Poiché il potere rimane al delegante,
quest'ultimo non si spoglia mai del suo potere e dunque, anche una volta attribuita la delega,
potrà decidere di revocarla, di provvedere a normare la stessa materia con legge, di sostituirsi al
delegato. L'art. 76 della Costituzione delinea il modello della delegazione legislativa attraverso
una sequenza di due atti: la legge di delegazione, approvata dal Parlamento, e il decreto
legislativo, approvato dal Governo.
La legge di delegazione è sottoposta ad un vincolo procedimentale e ad un vincolo sostanziale.
Il vincolo procedimentale è determinato dall'art. 72 ultimo comma, che prevede che la legge di
delegazione debba essere approvata con il procedimento legislativo ordinario.
Vi è in questa scelta una ragione di garanzia: trattandosi di un atto che trasferisce l'esercizio
della funzione legislativa al Governo, la Costituzione ha ritenuto di utilizzare per la sua
approvazione il procedimento più garantistico per le minoranze e per l'esercizio del controllo
politico sul contenuto di tale legge.

Il vincolo sostanziale è invece determinato dall'art. 76, che prevede che la legge di delegazione
debba contenere alcuni elementi necessari: essa in- fatti deve contenere principi e criteri
direttivi, deve essere conferita solo per un tempo limitato, e per oggetti definiti. La ratio di
questi limiti sta nel confinare o limitare, per quanto possibile, il potere discrezionale del Governo
nell'approvazione del decreto legislativo. Con la espressione oggetti definiti si vuole indicare
che il Parlamento Jeve provvedere a determinare la materia sulla quale il Governo è abilitato a
intervenire. La Costituzione non pone limitazioni sulle materie delegabili, tuttavia, in
considerazione delle caratteristiche giuridiche dell'istituto della delegazione, si esclude che siano
delegabili quelle leggi che costituiscono strumenti di controllo del Parlamento nei confronti
dell’esecutivo. Se non vi sono imiti di materia, pur con l'eccezione implicita ora descritta,
l'oggetto deve invece essere definito, nel senso che il Parlamento dorrebbe avere “l’onere della
chiarezza”, determinando con precisione gli ambiti che possono essere oggetto di disciplina da
parte del Governo. Il tempo determinato indica che la delega deve avere necessariamente ma
scadenza temporale, dato che una delega senza scadenza temporale costruirebbe più un
trasferimento di competenza che non una delegazione.

Del resto, più il termine per l'esercizio della delega è ravvicinato, maggiore è il controllo del
Parlamento e minore la discrezionalità dell'esecutivo, mentre più il tempo per l'esercizio della
delega è lungo, maggiore è il potere politico attribuito al Governo, potendo quest'ultimo scegliere
quando esercitare la delega in relazione a condizioni politiche e di fatto valutabili
discrezionalmente. Per questa ragione, nel caso che la delega ecceda i due anni di tempo, la
legge n. 400 del 1988, all'art. 14, ha previ- sto la necessità di un parere da parte della
commissione parlamentare competente per materia. Il parere della commissione parlamentare
ha, in effetti, lo scopo di consentire un controllo parlamentare in itinere, controllo che diviene
necessario quanto più il decreto delegato si allontana temporalmente dalla legge di delegazione.
I principi e i criteri direttivi costituiscono lo strumento teoricamente più forte a disposizione del
Parlamento per vincolare la discrezionalità del Governo nell'esercizio della delega. Attraverso i
principi e i criteri direttivi, infatti, il Parlamento determina le linee di fondo alle quali deve ispirar-
si l'esercizio della attività delegata del Governo. Astrattamente per principi dovrebbero intendersi
norme programmatiche, mentre per criteri di- rettivi le finalità da perseguire. Nella sostanza

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tuttavia principi e criteri di- rettivi sono considerati come una endiadi, e come vedremo, la prassi
è assai flessibile nell'interpretare questi requisiti. II decreto legislativo deve essere approvato dal
Consiglio dei Ministri ed emanato dal Presidente della Repubblica con le regole, procedurali e di
forma, previste dall'art. 14 della legge n. 400 del 1988. (Questa norma precisa che essi debbono
recare la denominazione di "decreto legislativo", e contenere, nel preambolo, la deliberazione
del Consiglio dei Ministri e gli altri adempimenti del procedimento previsti dalla legge di
delegazione. La indicazione del nomen "decreto legislativo" è di particolare importanza, perché
molti sono agli atti emanati dal Presidente della Repubblica con la forma del decreto
presidenziale, cosicché è opportuno che la legge ponga l'obbligo di specificare di quale tipo di
decreto si tratti.
L'art. 14 della legge n. 400 risolve anche la questione se entro il termine previsto dalla legge di
delegazione il decreto legislativo debba essere pubblicato o solo emanato. La legge propende
per questa ultima soluzione, stabilendo però, ai fini di garantire il controllo da parte del
Presidente della Repubblica, che il testo del decreto legislativo debba essergli tra- smesso
almeno venti giorni prima della scadenza.

4.1. La progressiva deformazione del modello costituzionale

Secondo il modello costituzionale la delegazione legislativa doveva costituire, per certi versi al
pari del decreto legge, uno strumento di normazione eccezionale, in quanto derogatorio del
principio della divisione dei poteri e del principio che le leggi debbono essere espressione
dell'organo rappresentativo. Mentre il decreto legge era caratterizzato da una situazione di
necessità ed urgenza, la delegazione doveva servire principalmente per normare materie ad
elevato grado di tecnicismo (si pensi ad un co- dice di procedura civile o penale, che ben
difficilmente per la loro complessità potranno mai essere approvati dal Parlamento con il
procedimento legislativo ordinario) e non doveva costituire uno strumento di normazione
ordinario del Parlamento. Inoltre, ancora secondo il modello costituzionale, la delegazione
doveva avere carattere tipicamente duale: a monte doveva esservi la legge di delegazione
approvata dal Parlamento, a valle il decreto legislativo approvato dal Governo.
Nel tempo tuttavia la delegazione legislativa è divenuta uno strumento per normare materie la
cui complessità più che tecnica appariva politica per le quali si voleva evitare la discussione - e 1
possibili emendamenti - del Parlamento. La legge di delegazione, nella sua generalità, poteva
rinviare il problema di una scelta politica complessa al momento della emanazione del decreto
legislativo; quest'ultimo, d'altra parte, veniva approvato in Consiglio dei Ministri, evitando così il
passaggio parlamentare. La delegazione legislativa è divenuta dunque uno strumento di
normazione ordinario (e non eccezionale), ed anche il modello costituzionale nel tempo si è
deformato, perdendo il carattere tipicamente duale previsto nell'art. 76 della Costituzione.
La Costituzione aveva previsto infatti una legge di delegazione indirizzata al Governo con lo
scopo di limitarne la discrezionalità, ed un decreto legislativo che tale legge attuasse, (la dottrina
tendeva quindi a qualificare la legge di delegazione come una "legge meramente formale"', cioè
sola- mente indirizzata al Governo ma non innovativa del diritto oggettivo).
Questo modello è stato tuttavia ben presto disatteso, poiché quasi sempre la legge di
delegazione contiene norme che innovano il diritto oggettivo, con la previsione, in aggiunta,
"anche" di una delega legislativa al Governo. Essa dunque entra in vigore e deve essere
applicata con le regole dettate per ogni legge del Parlamento per la parte direttamente
precettiva, mentre per una altra parte necessita di essere attuata attraverso decreti legislativi del
Governo. Inoltre molto spesso i principi e i criteri di- rettivi risultano non esplicitati all'interno della
delega, ma solo desumibili da altre norme e dal contenuto stesso della delegazione. Si è rotta
così quella struttura formale della legge di delegazione, all'interno della quale la corretta
identificazione dei principi e criteri direttivi costituiva la garanzia principale del controllo
parlamentare.
Infine, accanto al contenuto necessario previsto nell'art. 76 della Costituzione, e per bilanciare la
frequente evanescenza dei principi e criteri di- rettivi, il Parlamento ha spesso aggiunto un

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contenuto "eventuale" alla legge di delegazione. In questo ambito particolare rilevanza ha
assunto la prassi di introdurre stabilmente pareri parlamentari sugli schemi dei decreti delegati.
Questi hanno l'effetto di spezzare il carattere duale del mo- dello costituzionale e di introdurre, al
contrario, una continua concertazione tra Parlamento e Governo nell'attuazione della delega. Il
Parlamento, che nel modello costituzionale aveva la funzione di indirizzare il Governo, tende a
divenire invece una sorta di colegislatore. Piuttosto che indirizzare preferisce intervenire in
itinere attraverso l'intervento delle com- missioni parlamentari, con l'effetto, tuttavia, da una parte
di mescolare indirizzo e gestione, e dall'altra parte di confondere le responsabilità tra i due
organi costituzionali. D'altra parte raramente il potere del Governo si esaurisce con la sola
emanazione di un decreto legislativo. Mollo frequentemente al primo decreto legislativo fanno
seguilo uno o più decreti correttivi che hanno il compito di integrare o correggere il primo. La
delegazione diviene un atto c.d. "polifasico": esso legittima il Governo a intervenire
ripetutamente, sempre sulla base della prima delega, sulla stessa materia, integrando o
correggendo la normativa già entrata in vigore. Ne deriva tuttavia una notevole instabilità del
sistema normativo. I decreti legislativi nascono infatti già in qualche modo "depotenziati",
potendo essere modificati o integrati anche in un arco temporale molto breve.

4.2. La giurisprudenza della Corte costituzionale: il sindacato sulle c.d. norme interposte

Laddove nel decreto legge, come si è visto, il Parlamento esercita un controllo a posteriori
attraverso la legge di conversione, nella delegazione legislativa secondo il modello
costituzionale il controllo è invece svolto a priori attraverso la legge di delegazione. Il controllo
successivo sul decreto legislativo, ed in particolare il controllo sul rispetto da parte di questo
della legge di delegazione, è possibile solo attraverso il giudizio di costituzionalità secondo le
regole previste per il giudizio di legittimità costituzionale, cosicché esso è del tutto eventuale.
Inoltre la violazione da parte del decreto legislativo della legge di delegazione costituisce
violazione di una legge ordinaria e non di una norma costituzionale. E poiché la Corte
costituzionale giudica della legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge nei confronti
della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, essa non potrebbe giudicare del rapporto tra
decreto legislativo e legge di delegazione. La Corte costituzionale ha tuttavia risolto questo
problema attraverso la tecnica del sindacato sulle norme c.d. interposte. Nella sostanza la
violazione da parte del decreto legislativo della legge di delegazione ridonda in una violazione
dell'art 76 della Costituzione, che prevede il rispetto, da parte del decreto legislativo, dei principi
e criteri direttivi posti nella legge di delegazione. La legge di delegazione costituisce così una
norma interposta tra il decreto legislativo e la norma costituzionale, e dunque la violazione della
delega costituisce anche violazione della Costituzione.
Il vizio classico del decreto legislativo rispetto alla legge di delegazione è definito "eccesso di
delega", volendosi con questa definizione evidenziare il caso di un decreto legislativo che non
ha rispettato i principi e i criteri direttivi posti dalla legge di delegazione.

5. I testi unici

Un caso particolare di esercizio della delegazione legislativa è dato dai c.d. testi unici, che
costituiscono raccolte di materiale normativo, prodotto in tempi diversi, ma caratterizzato da
omogeneità della materia. I testi unici rispondono dunque non ad una esigenza di innovazione
normativa, ma di chiarezza e di conoscibilità. Essi cercano di rispondere al problema
dell'eccesso di produzione normativa, e della sua tendenziale incoerenza, attraverso la
razionalizzazione di una normativa relativa ad una determinata materia.
I testi unici vengono normalmente approvati con decreto legislativo da parte del Governo, previa
legge di delegazione del Parlamento, e si è soliti distinguerli in meramente compilativi e
innovativi. Sono meramente com- pilativi quei testi unici che si limitano a raccogliere materiale
normativo esistente e che introducono mere modifiche alle norme in conseguenza della

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operazione di armonizzazione. Sono invece innovativi quei testi unici che, oltre a raccogliere
materiale normativo, utilizzano il momento della ricognizione e razionalizzazione della normativa
esistente per introdurre modifiche alla materia.
Il legislatore inoltre, nell'intento di fornire uno strumento normativo complessivo nel quale siano
riunite sia le norme primarie che le norme secondarie (regolamenti) della materia, con la legge n.
50 del 1999 (c.d. prima legge annuale di semplificazione), ha delineato una nuova figura di testo
unico: il testo unico misto. Questo tipo di testo unico era finalizzato a ricomprendere in un
unico contesto le disposizioni legislative e regolamentari riguardanti materie e settori omogenei,
allo scopo di assicurare, anche con strumenti di delegificazione il coordinamento formale delle
disposizioni vigenti.
L'epoca dei testi unici misti ha avuto tuttavia breve durata, e infatti con la legge n. 229 del 2003 il
testo unico misto è stato sostituito con il c.d. codice di settore. Il codice di settore si propone
l'obbiettivo di riunificare la disciplina legislativa di una determinata materia, proponendone del
pari il riassetto, attraverso lo strumento del decreto delegato. Si tratta per certi aspetti di un
ritorno al "vecchio". Questi testi unici, infatti, sono in parte compilativi e in parte innovativi e
comunque assumono la forza del decreto delegato.

6. I poteri in caso di guerra

Altri atti legislativi del Governo sono gli atti emanabili in caso di guerra, disciplinati dall'art. 78
della Costituzione, che prevede che "le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al
Governo i poteri necessari". Questi atti costituiscono, per certi versi, una via di mezzo tra i
decreti legislativi e i decreti legge. Presentano tratti comuni ai decreti legislativi, perché vi
sarebbe prima un conferimento da parte del Parlamento dei poteri necessari e successivamente
l'emanazione di atti con forza di legge da parte del Governo in forma di decreti legislativi.
Presentano tratti comuni ai decreti legge per- ché al Governo vengono conferiti "i poteri
necessari": si tratta di poteri che possono essere di notevole ampiezza in relazione alle
necessità contingenti della guerra. Nondimeno le differenze con la delegazione legislativa sono
rilevanti: la deliberazione dello stato di guerra non necessariamente deve essere effettuata con
legge, potendosi adottare in questa ipotesi anche un c.d. atto bicamerale non legislativo, inoltre
non vi sono principi e criteri direttivi che vincolano il Governo. D'altra parte, come il Parlamento
attribuisce i poteri, può allo stesso tempo revocarli, mantenendo così sempre la possibilità di un
generale controllo sull'operato del Governo.

7. Il potere regolamentare del Governo: alcune notazioni preliminari

Mentre decreti legge e decreti legislativi sono atti con forza di legge prodotti clal Governo (e per
questa ragione si è visto che essi sono sotto- posti ad una serie di controlli da parte del
Parlamento e ad essi è comunque esteso il controllo di costituzionalità sulle leggi), i regolamenti
governativi costituiscono una fonte secondaria. Essi cioè sono subordinati alla legge e possono
essere emanati dal Governo solamente quando la legge lo preveda.
Probabilmente proprio per questa ragione, unitamente al fatto che il potere regolamentare è
sempre stato considerato un potere implicito del Governo, i riferimenti in Costituzione ai
regolamenti sono assai scarni. L'art. 87 della Costituzione prevede solamente che essi sono
emanati dal Presidente della Repubblica; l'art. 117 (in materia di competenze regionali) prevede
che la potestà del Governo di emanare regolamenti è limitata alle materie nelle quali lo Stato ha
competenza legislativa (principio del parallelismo). Non vi sono altre norme di livello
costituzionale che disciplinano la materia.
Anche nella legislazione ordinaria per lungo tempo non vi sono state norme che disciplinavano
la potestà regolamentare del Governo. Le "Disposizioni sulla legge in generale" del 1942
(disposizioni preliminari al codice civile) all'art. 1 prevedono la esistenza del regolamento e la
sua collocazione al secondo posto nella scala gerarchica delle fonti, e all'art. 3, che il potere

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regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale, ma senza nulla
aggiungere in ordine al procedimento e ai "tipi" di regolamento. Una tipizzazione dei regolamenti
e del procedi- mento era disciplinata per vero nella lontana legge n. 100 del 1926, legge
emanata in periodo fascista con l'intento di rafforzare oltremisura i poteri del Governo (cfr. Parte
I, Cap. II, Par. 2), ma che proprio per questa ragione non poteva essere applicata all'interno di
un modello costituzionale ispirato a principi opposti. Mancava una procedimentalizzazione, una
tipizzazione, e quindi una loro determinazione formale, e mancava soprattutto una “”filosofia”
circa gli obbiettivi che attraverso l’esercizio del potere regolamentare si volevano raggiungere. Il
tema del rapporto tra legge e regolamento costituisce non soltanto un momento fondamentale
nel rapporto tra le fonti del diritto, ma anche un tema centrale nei rapporti tra Governo e
Parlamento e quindi uno snodo improntate per la forma di Governo.

7.1. La legge n. 400 del 1988: filosofia e tipizzazione dei regolamenti

Quando nel 1988 è stata approvata la già citata legge n. 400 "Disciplina dell'attività di Governo e
ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri" si è colta l'occasione per dettare una
normativa che risolvesse i problemi di vuoto normativo che la materia presentava, sia in termini
di procedimento che in termini di forma e di tipologia dei regolamenti governativi. L'art. 17 di
questa legge, infatti, disciplina compiutamente i regolamenti del Governo, non limitandosi a
dettare procedimenti e forma dei regolamenti governativi, ma anche riequilibrando i rapporti tra
legge e regolamento, accentuando i margini di intervento del secondo.
In sintesi si può osservare come la legge n. 400, in relazione al potere regolamentare, si ponga
almeno quattro obbiettivi. In primo luogo essa determinai i tipi di regolamento governativo
superando in questo senso il vuoto normativo sino ad allora esistente; in secondo luogo si
prefigge l'obbiettivo di ampliare il potere normativo secondario dell'esecutivo "incentivando"
altresì il Parlamento ad approvare leggi di principio; in terzo luogo delinea l’istinto della
delegificaazione, finalizzato a trasferire materie attualmente disciplinate dalla legge alla fonte
regolamento; in quarto luogo, anche per compensare questo spostamento di equilibrio verso il
Governo, tipizza il procedimento per l'approvazione dei regolamenti.
L’art 17 distingue in primo luogo tra regolamenti governativi e regolamenti ministeriali e
interministeriali. I primi sono deliberati dall'intero Consiglio dei ministri, mentre i secondi da un
singolo ministro, e gli ultimi da più ministri congiuntamente.
In secondo luogo distingue i regolamenti governativi in regolamenti esecutivi, regolamenti
integrativi attuativi, regolamenti indipendenti, regolamenti organizzativi e regolamenti di
delegificazione.
Da un punto di vista procedimentale i regolamenti governativi sono approvati con decreto del
Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del
Consiglio di Stato che deve pronunciarsi entro 45 giorni dalla richiesta. Il parere del Consiglio di
Stato, che è obbligatorio ma tuttavia non vincolante, ha la funzione di svolgere un controllo
preventivo di legittimità sul testo del regolamento.

7.2. Le caratteristiche e la ratio dei modelli di regolamento

L'art. 17 1° comma alla lettera a) prevede regolamenti per disciplinare l'esecuzione delle leggi e
dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari, i c.d. regolamenti esecutivi. Si tratta
del caso classico di regolamento governativo, finalizzato a rendere concretamente applicabili le
norme generali ed astratte contenute nelle leggi o negli atti aventi forza di legge. Esso è un
regolamento a bassissimo grado di innovazione, poiché ha lo scopo di stabilire le procedure per
rendere applicabili le fonti primarie, collegandosi perciò alla funzione tipica del potere esecutivo.
I regolamenti esecutivi, in quanto non innovativi ma meramente attuativi della legge, possono
intervenire su materie coperte da riserva di legge.
La lettera b) dell'art. 17 disciplina invece un regolamento con caratteristiche diverse dal
regolamento esecutivo. Si tratta di regolamenti, c.d. integrativi-attuativi, finalizzati a disciplinare

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"l'attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi
quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale". In questo regola- mento si coglie
uno degli obbiettivi rilevanti dell'art. 17 della legge n. 400, e cioè l'ampliamento del potere
normativo dell'esecutivo, con parallelo incentivo al Parlamento ad approvare leggi di principio,
allo scopo di porre un rimedio alla eccessiva provvedimentalizzazione della legge. Se infatti la
legge deve contenere norme di principio, tuttavia, occorre che queste siano poi "integrate" ed
"attuate" dal regolamento governativo. La espressione integrazione ed attuazione sta ad indicare
in effetti una diversa attività rispetto alla mera esecuzione di cui al regolamento della lettera a).
Integrazione ed attuazione postulano una attività di completamento della norma legislativa
attraverso l'esercizio di una scelta - di natura discrezionale - da parte del Governo. La
distinzione tra i regolamenti di integrazione - attuazione e i regola- menti di esecuzione è stata
avvalorata anche dal Consiglio di Stato (parere 3 settembre 1998 n. 2251). I primi, pur nel
rispetto delle norme di principio poste dalla legge sono dotati di forza innovativa, mentre i
secondi sono di- retti a specificare il contenuto delle leggi o a determinarne le modalità di
attuazione, senza tuttavia possibilità di ampliarne il contenuto.

Il regolamento integrativo-attuativo, seppure caratterizzato da capacità innovative, è coerente


con le caratteristiche tipiche del regolamento in quanto espressione di un potere normativo
secondario. Il principio di legalità è infatti rispettato dalla legge, che, ancorché contenente sole
norme di principio, costituisce tuttavia la fonte primaria. Il regolamento, sia pure con margini
innovativi anche rilevanti in conseguenza del grado di generalità della legge, non muta il suo
carattere di fonte di grado secondario. Per questa ragione il regolamento integrativo-attuativo
può intervenire su materie coperte da riserva di legge relativa, ma si ritiene che non possa
disciplinare materie coperte da riserva di legge assoluta.

Con il regolamento di cui alla lettera c) siamo invece di fronte ad un modello di regolamento che
pone non pochi problemi teorici. La lettera c) prevede infatti regolamenti per disciplinare le
materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non
si tratti di materie comunque riservate alla legge. Il regolamento viene de- finito come
indipendente perché può essere approvato per disciplinare materie nelle quali non vi sia
disciplina legislativa, ed è dunque "indipendente" dalla legge poiché da tale fonte prescinde.
Questo regolamento pone problemi di ordine teorico sia in relazione al principio di gerarchia
delle fonti, sia in relazione al rispetto del principio di legalità. In effetti, se nella materia
disciplinata dal regolamento manca una fonte primaria, ed essa è disciplinata dal solo
regolamento, quest'ulti- mo risulta essere la sola fonte regolatrice della materia. Il regolamento
non sarebbe dunque definibile come secondario (perché manca la fonte primaria), ma primario
esso stesso. Ne conseguirebbe tuttavia la violazione del principio di legalità, poiché il potere
regolamentare del Governo non sarebbe in alcun modo vincolato dalla legge, e non essendo
sottoposto alla legge, non sarebbe neppure impugnabile, con conseguente limitata tutela delle
posizioni giuridiche soggettive del privato. Inoltre, non trattandosi di un atto con forza di legge,
esso non sarebbe neppure sottoposto al controllo da parte della Corte costituzionale. Pur
trattandosi di questioni teoricamente rilevanti - e comunque non risolte - deve osservarsi che tali
problemi appaiono più teorici che pratici. Il regolamento indipendente infatti può essere emanato
in quelle materie, non riservate alla legge, non disciplinate da legge e non di competenza delle
Regioni. Di fatto è estremamente raro che possa verificarsi una simile concomitanza di fattori.

I regolamenti di cui alla lettera d) possono essere emanati per disciplinare l'organizzazione ed
il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge.
Tali regolamenti, detti organizzativi, hanno la funzione di dettare le regole per l'organizzazione
in- terna dei pubblici uffici. Essi debbono rispettare i principi dettati dalla legge, in considerazione
del fatto che l'art. 97 della Costituzione prevede che "i pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge", stabilendo quindi di una riserva di legge relativa sulla materia. Da un

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punto di vista sostanziale questi regolamenti sono assimilabili ai regolamenti "integrativi-
attuativi", dato che sono dotati di un certo margine di innovazione rispetto alla legge.

7.3.1 regolamenti ministeriali


L'art. 17 3° comma della legge n. 400 prevede poi la categoria dei regolamenti ministeriali. I
regolamenti ministeriali possono essere adottati nelle materie di competenza del ministro
quando la legge espressamente conferisca questo potere, e debbono essere comunicati al
Presidente del Consiglio dei ministri prima della loro emanazione. Sono fonti di terzo grado,
posto che non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.
Anche per essi è necessario il parere del Consiglio di Stato, la registrazione della Corte dei Copti
e la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

7.4. La delegificazione ed i regolamenti delegati o autorizzati

Il 2° comma dell'art. 17 della legge n. 400 ha introdotto nel nostro ordinamento l'istituto della
delegificazione. Con la delegificazione, norme di livello secondario quali i regolamenti, sono
legittimati a disciplinare materie regolate da leggi o da atti con forza di legge. Questi
regolamenti, che debbono seguire un procedimento complesso che si descriverà tra breve,
vengono definiti regolamenti autorizzati o delegati.
L'istituto della delegificazione persegue quello che abbiamo definito come il terzo obbiettivo
dell'art. 17 della legge n. 400: "alleggerire" l'ordinamento giuridico da un eccesso di fonti
primarie, per spostare la disciplina di materie qualitativamente meno importanti sulla fonte
regolamento. Il nostro ordinamento, infatti, è quantitativamente ricchissimo di leggi e di fonti di
livello primario, che tendono a disciplinare anche materie di non elevato rilievo politico, spesso
con eccesso di minuzia e dettaglio. Queste materie non dovrebbero invece essere disciplinate
dalla legge del Parlamento o da un atto con forza di legge, fonti che dovrebbero essere
destinate a trattare questioni di maggiore rilievo politico. Tuttavia, in pre- senza di una elevata
normazione legislativa, il sistema tende a replicare sé stesso, perché per modificare fonti di
livello primario occorrono altre fon- ti di livello primario e dunque non è facile eliminare le leggi.
La delegificazione ha proprio lo scopo di attribuire alla fonte regolamentare quelle materie che
sono già disciplinate dalla legge, delegificando (cioè sottraendo alla legge) molte materie che
potrebbero essere normate da un regolamento. Effettuare questa operazione tuttavia è
tecnicamente non agevole, poiché per il principio di gerarchia delle fonti un regolamento (fonte
secondaria), non può abrogare una fonte di grado primario, co- sicché il 2° comma dell'art. 17
della legge n. 400 ha posto in essere un meccanismo complesso che segue il seguente schema:
a) una legge del Parlamento autorizza l'emanazione di regolamenti su di una determinata
materia (non coperta da riserva di legge);
b) la legge allo stesso tempo stabilisce le norme generali regolatrici del- la materia e dispone
l'abrogazione delle norme vigenti con effetto dalla entrata in vigore delle norme
regolamentari;
c) il regolamento governativo, nel rispetto delle norme generali stabili- te dalla legge, disciplina
la materia, completando così la delegificazione.
In questo modo la abrogazione della legge deriva non dal regolamento (cosa che per ragioni di
gerarchia delle fonti non potrebbe avvenire), ma invece dalla legge. Non si crea un vuoto
normativo, poiché l'abrogazione è differita al momento della entrata in vigore del regolamento. Il
principio di legalità, d'altra parte, appare rispettato, posto che il regolamento è "autorizzato" dalla
legge ed in essa si trovano le norme generali regolatrici della materia che il regolamento deve
rispettare. Come si ricordava nel paragrafo precedente, un caso di delegificazione riguarda
proprio i regolamenti che disciplinano l'organizzazione dei ministeri. La legge 15 marzo 1997 n.
59 ha introdotto nell'art. 17 della legge n. 400 del 1988 un comma, il 4 bis, con il quale è stata
delegificata la materia dell'organizzazione dei ministeri. Ha stabilito dunque principi e criteri
direttivi che debbono essere rispettati e ha attribuito la disciplina della materia ad un
regolamento governativo, da assumersi su proposta del Ministro competente, d'intesa con il

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Presidente del Consiglio dei Ministri e con il Ministro del Tesoro. La delegificazione, per ovvie
ragioni, può effettuarsi soltanto in quelle materie non coperte da riserva assoluta di legge.

7.5. La progressiva destrutturazione della delegificazione

Il modello della delegificazione costituiva un eccellente strumento per riequilibrare il potere


legislativo del Parlamento con il potere normativo secondario dell'esecutivo. La necessaria
esistenza di una legge, che esprimesse i principi generali regolatori della materia, conferiva al
Parlamento un ruolo di indirizzo politico coerente con la forma di Governo parlamentare. Il
potere regolamentare del Governo, certamente reso più ampio, risultava tuttavia vincolato dai
principi e dalla legge del Parlamento, che ne consentiva una verifica anche in termini di
legittimità.
Nel tempo, tuttavia, con una certa analogia con gli sviluppi che hanno toccato la delegazione
legislativa, questo modello è divenuto progressiva- mente meno rigido. A partire dalla legge n.
537 del 1993 (legge finanziaria per il 1994), le leggi delegificanti hanno iniziato a perdere il
carattere "di norme generali regolatrici della materia" come previsto dall'art. 17 2° com- ma della
legge n. 400. Esse sono invece caratterizzate da un richiamo a "obbiettivi generici", o a non ben
definiti "principi e criteri direttivi", in certi casi omettendo di indicare in maniera espressa le
disposizioni legislative oggetto della delegificazione.
Questo modo di operare, tuttavia, modifica il modello e le garanzie che questo prevedeva. Nella
sostanza infatti il Governo risulta libero di operare scelte - non condizionate dalle norme generali
regolatrici della materia - addirittura determinando in via autonoma le fonti - primarie - oggetto di
abrogazione. La delegificazione, a sua volta, è spesso contenuta in decreti legge o in decreti
legislativi, con i quali praticamente il Governo autorizza sé stesso a modificare o abrogare la
disciplina legislativa vigente in un determinato settore. Nonostante queste - ed altre -
deformazioni dallo schema originario, la delegificazione ha costituito uno strumento di rilievo
soprattutto per semplificare l'apparato amministrativo e procedimentale dello Stato. Con leggi di
delegificazione sono stati semplificati moltissimi procedimenti amministrativi, con legge di
delegificazione sono state avviate riforme organizzative degli apparati amministrativi centrali e
periferici dello Stato, con strumenti di delegificazione sono state attuate molte direttive
comunitarie. Oggi tuttavia la delegificazione è destinata ad assumere una importanza minore
che nel passato. La modifica del titolo V della Costituzione, che ha molto ampliato il potere
normativo delle Regioni, ha conseguentemente ridotto gli spazi normativi della potestà
regolamentare statale. Inoltre, accanto alla questione della semplificazione amministrativa e
dell'alleggerimento del sistema delle fonti primarie, si è posto il problema dell'eccesso di
normazione, e in generale di razionalizzazione del sistema normativo. Questi profili hanno
condotto in anni più recenti alla introduzione di ulteriori strumenti tecnici finalizzati a diminuire il
numero delle norme esistenti nell'ordinamento.

8. Le leggi "taglia leggi" e i regolamenti "taglia regolamenti": nuove frontiere


dell'abrogazione

La questione dell'eccesso di normazione è stato affrontato con le leggi c.d. "di semplificazione",
leggi annuali finalizzate a ridurre le troppe norme presenti nel nostro ordinamento.
Con la legge n. 246 del 2005, nota con il nome di "legge taglia-leggi"', si è cercato di abrogare
tutta la legislazione antecedente al 1970 - gravata da una sorta di presunzione di obsolescenza -
attraverso una clausola di abrogazione generalizzata. Il Governo veniva delegato ad individuare
quelle leggi, anteriori al 1970, di cui dovesse considerarsi indispensabile la permanenza in
vigore, mentre allo stesso tempo era delegato ad armonizzare le disposizioni mantenute in
vigore con quelle pubblicate dopo il 1970. Qualche anno do- po, con la legge n. 69 del 2009,
denominata "taglia regolamenti", fu aggiunto all'art. 17 della legge n. 400 del 1988 il comma 4
ter, con il quale si attribuiva al Governo il compito di provvedere alla ricognizione delle
disposizioni regolamentari vigenti e alla ricognizione di quelle oggetto di abrogazione implicita.

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Allo stesso tempo si consentiva al Governo di abrogare espressamente quelle disposizioni che
avevano esaurito la loro funzione, o risultavano prive di contenuto normativo, o erano comunque
obsolete.
È agevole dire che queste politiche di semplificazione non hanno portato risultati tangibili, ed
anzi, se possibile, hanno peggiorato la situazione. Le leggi di semplificazione sono infatti
paradossalmente complicatissime nella loro struttura, presentano numerose problematiche
giuridiche connesse con questo meccanismo di abrogazione innominata e generalizzata, sono
intimamente contraddittorie (se si abrogano le leggi non indispensabili senza normare di nuovo
la materia vuol dire che esse sono desuete o già abrogate) e comunque non riescono affatto a
razionalizzare il sistema normativo. Non è infatti utile mettere in piedi un complesso meccanismo
per abrogare leggi che non servono, che sono già state abrogate implicitamente, o che
semplicemente sono desuete. Sarebbe invece utile avere la forza politica e la capacità tecnica di
normare, in maniera diversa e più "leggera", quelle materie che sono oggetto di normazione
complessa e pervasiva. Ma questo è alla fine non tanto un problema di tecnica normativa quanto
di chiarezza nelle scelte politiche.

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CAPITOLO IV
LE FONT DI PROVENIENZA DA
ORDINAMENTI ESTERNI ALLO STATO
ITALIANO: LE NORME DI DIRITTO
INTERNAZIONALE

1. La Costituzione italiana come Costituzione “aperta”


Le fonti riconosciute all’interno del nostro ordinamento non sono solamente prodotte da organi
costituzionali facenti parte dello Stato, ma sono anche fonti che provengono da un ordinamenti
esterni. La Costituzione italiana si caratterizza, infatti, come una Costituzione aperta alla
recessione di fonti sovranazionali, dimostrando in questo un notevole cambiamento rispetto alla
Costituzione dell’epoca liberale.
Le ragioni di questa apertura e di questi collegamenti all’ordinamento internazionale sono
principalmente da ricollegarsi al clima ed alle vicende storiche all’interno delle quali è maturata la
Costituzione italiana. Alla fine della seconda guerra mondiale l’Italia dipendeva economicamente
da altri Stati, ai quali necessariamente doveva relazionarsi. Allo stesso tempo vi era oramai una
acquisita consapevolezza circa la interdipendenza delle Nazioni, e circa il fatto che questo
insieme di rapporti tra Stati poteva costituire la base per costituire nuove organizzazioni
sovranazionali finalizzate a limitare i conflitti. Nuove organizzazioni internazionali, del resto,
stavano nascendo, cosicché occorreva una Costituzione che non solo fosse aperta all'esistente
ma anche "apribile" a ciò che sarebbe venuto.
Per queste ragioni all'interno della Costituzione sono percepibili alcune scelte di fondo.
Una prima scelta di fondo si sostanzia nella apertura della Costituzione verso la comunità
internazionale, il che comporta una possibile cessione di sovranità da parte dello Stato nei
confronti di organizzazione sovranazionali e in generale verso la comunità internazionale. Sono
espressione di questa scelta alcune norme della Costituzione ed in particolare l'art. 10 1°
comma, che prevede che "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute" e l’art. 11, laddove si afferma che si "consente, a
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento
che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo".
Questa apertura inoltre doveva avere caratteri di flessibilità, per adattarsi a organizzazioni
sovranazionali nuove e probabilmente più vincolanti per gli Stati che vi avessero aderito, rispetto
a quelle in vita al momento della stesura della Costituzione.
Fa ancora parte di questa "linea di apertura progressiva" il già citato art. 11, che, nel consentire
limitazioni di sovranità ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, non
specifica né l'entità di tali limitazioni di sovranità, ne le organizzazioni internazionali rispetto alle
quali tali cessioni possono avvenire, e dunque consente una apertura, "quantitativa" e
organizzativa, sostanzialmente in divenire.
Questa apertura è poi connotata e qualificata dal principio pacifista. Le limitazioni di sovranità
sono legittime nella misura in cui avvengano a favore di organizzazioni che assicurino la pace e
la giustizia tra le Nazioni. Questo concetto è ulteriormente rafforzato dal 1° comma dell’art. 11,
dove si afferma che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli
e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
A questa linea di apertura alle organizzazioni internazionali si contrappone invece una certa
chiusura sulla forza da attribuire ai trattati internazionali. La Costituzione, infatti, sembra
escludere che i trattati internazionali possano essere forniti di una forza superiore nel sistema
delle fonti rispetto alla legge che li recepisce. Questa proposta, che pure fu formalmente
formulata in Assemblea Costituente, non fu accolta.
Da un punto di vista generale, infine, il sistema delle relazioni tra diritto interno e diritto
internazionale si basa, secondo gli orientamenti dominanti all'epoca, sul modello c.d. dualistico.

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Ciò significa che i rapporti tra ordinamento internazionale (inteso come insieme di regole che
disciplinano i rapporti tra gli Stati), e ordinamento interno (inteso come insieme di regole prodotte
dagli organi dello Stato), sono collocati su piani paralleli. Vi sono collegamenti rispetto a
specifiche fonti, ma i criteri di validità di queste debbono essere ricercati negli ordinamenti di
provenienza. Co- sicché norme valide da un punto di vista dell'ordinamento interno posso- no
non essere valide nei rapporti con l'ordinamento sovranazionale, men- tre per converso, norme
valide per l'ordinamento sovranazionale, possono non essere valide per l'ordinamento interno.
Il modello dualistico si basa alla fine sull'idea che la sovranità è incardinata nello Stato e può
essere solo limitata da altre organizzazioni. La contrapposta teoria c.d. monistica, che descrive
l'ordinamento dello Stato come una derivazione dell'ordinamento internazionale dal quale trae la
sua sovranità (che pertanto non è originaria ma derivata) era, allora, assai lontana dalla cultura
giuridica del periodo e dalla possibilità di essere tradotta in Costituzione.

2. L’adattamento automatico e le norme di diritto internazionale generalmente


riconosciute

L'art. 10 della Costituzione prevede il c.d. adattamento automatico alle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute, stabilendo che: "l'ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute". Attraverso
l'adattamento automatico vengono immesse nell'ordinamento italiano, in maniera continuativa e
permanente, fonti di provenienza extrastatuale: la Costituzione rinvia alla fonte esterna, che, in
conseguenza di tale rinvio, acquisisce forza nell'ordinamento italiano senza necessità di ulteriori
atti di recezione da parte di fonti interne. Non occorrendo alcuna manifestazione di volontà da
parte dello Stato Italiano per rendere concretamente applicabili tali norme, l'adattamento viene
definito appunto “automatico”. Quali sono e quale forza assumono però nell'ordinamento
interno queste fonti?
La Costituzione si riferisce alle "norme di diritto internazionale generalmente riconosciute". Le
norme di diritto internazionale generalmente riconosciute sono le c.d. consuetudini di diritto
internazionale (generalmente riconosciute come vincolanti dagli Stati appartenenti ad una
comunità internazionale).
Il concetto di consuetudine nel diritto internazionale non è diverso dal concetto di consuetudine
nel diritto interno. La consuetudine internazionale è caratterizzata da un comportamento
uniforme tenuto dagli Stati, accompagnati dalla convinzione della vincolatività del
comportamento tenuto (opinio iuris). Esse sono fonti-fatto in quanto non derivano da
manifestazioni di volontà (come nel caso ad esempio di un trattato internazionale), quanto
invece da comportamenti ripetuti nel tempo caratterizza- ti altresì dalla convinzione di seguire
una regola giuridica.
Queste norme consuetudinarie vengono immesse nel nostro ordina- mento ed acquisiscono la
forza della fonte che le immette, nel caso l'art. 10 della Costituzione, cosicché si ritiene che
abbiano forza costituzionale. È infatti la Costituzione che richiama direttamente la fonte
extrastatuale, né vi è alcuna altra fonte statale che si interponga tra la norma generalmente
riconosciuta e la Costituzione. Siccome le norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute, una volta immesse nell'ordinamento italiano, assumono rango costituzionale, le
leggi italiane che eventualmente contrastassero con tali norme sarebbero incostituzionali. La
Corte costituzionale ha infatti correttamente sostenuto che la legge italiana che contrasta con la
norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, per ciò stesso viola anche l'art. 10
della Costituzione.
Le consuetudini costituzionali incontrano il solo limite dei principi fondamentali posti dalla
stessa Costituzione (secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale che identifica,
all'interno della Costituzione, quei principi fondamentali che non sono suscettibili di modifica
neppure attraverso legge di revisione costituzionale). Qualora infatti la consuetudine di diritto

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internazionale fosse contraria ai principi fondamentali posti dalla Costituzione, l'art. 10 della
Costituzione non opererebbe e dunque non vi sarebbe neppure adattamento automatico.

3. L'adattamento speciale ed il diritto pattizio

Mentre, come si è visto, attraverso l'adattamento automatico vengono immesse nell'ordinamento


interno norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, attraverso l'adattamento
speciale si immettono nell'ordinamento norme di diritto internazionale pattizio, cioè trattati
internazionali.
Il trattato internazionale è un accordo, di natura negoziale, che inter- corre tra due o più Stati, ed
è diretto a regolare una determinata sfera di rapporti relativi a questi ultimi. Il diritto
internazionale lascia la più ampia libertà agli Stati in ordine alle procedure per la conclusione di
un trattato internazionale.
Oggi le fasi per la conclusione di un trattato si distinguono nella negoziazione (effettuata da
organi dello Stato a ciò incaricati) nella firma (posta in essere da parte degli organi dello Stato a
ciò incaricali, che tuttavia non ha ancora effetto vincolante per lo Stato firmatario) nella ratifica da
parte dell'organo costituzionalmente competente a svolgere questa funzione.
La competenza a ratificare i trattati internazionali è attribuita dalla Costituzione al Presidente
della Repubblica (art. 87 Cost.) previa, se del caso, legge di autorizzazione del Parlamento. Tale
legge di autorizzazione è necessaria allorquando il trattato abbia natura politica, o preveda
regolamenti giudiziari, o comporti variazioni del territorio nazionale o oneri alle finanze o
modificazioni di leggi (art. 80 Cost.). In questi casi, stante il particolare rilievo politico del trattato,
la Costituzione ha previsto un momento di controllo parlamentare che si estrinseca attraverso la
legge di autorizzazione.
Una volta concluso, il trattato deve acquisire effetto nell'ordinamento interno, ma le modalità
dell'adattamento speciale tuttavia mutano a seconda delle caratteristiche del trattato. I trattati
internazionali, infatti, possono essere distinti in trattati c.d. self executing, che contengono cioè
norme sufficientemente chiare, precise ed incondizionate tali da poter essere applicate senza
l'ulteriore intervento di una fonte interna di recepimento, e al contrario trattati non self executing,
che prevedono impegni ed obblighi da raggiungere per lo Stato firmatario, e che dunque
necessitano di atti di esecuzione e di implementazione.
Per i primi l'adattamento avviene attraverso il c.d. ordine di esecuzione, che consiste in un
semplice rinvio al contenuto di un trattato. Spesso l'ordine di esecuzione viene inserito
direttamente nella legge di autorizzazione alla ratifica con una formula del genere "piena ed
intera esecuzione è data al trattato" e conseguente rinvio al testo del trattato in allegato. Per
attuare i secondi, invece, occorrano norme di diritto interno: in questo caso la scelta della fonte
attraverso la quale eseguire il trattato è lasciata allo Stato. Nella maggior parte dei casi si tratta
di una fonte di primo grado, ma nulla vieta che ad esempio il trattato venga recepito attraverso
una legge costituzionale (come è avvenuto nel caso della convenzione sul genocidio con la
legge costituzionale 21 giugno 1967 n. 1).
Dal punto di vista dell'ordinamento interno, per lungo tempo si è sostenuto che il trattato
internazionale avesse la forza della fonte che lo recepisce, sia nel caso in cui il trattato sia self
executing (ed in quel caso la forza sarà data dalla fonte che contiene l'ordine di esecuzione) sia
nel caso che non lo sia (ed allora la forza sarà data dalla fonte che esegue il trattato). Questa
ricostruzione tuttavia comportava che un trattato internazionale, dal punto di vista
dell'ordinamento interno, non avesse una resistenza maggiore di un atto con forza di legge, con
la conseguenza che una legge italiana posteriore avrebbe potuto modificare gli impegni assunti
attraverso la stipula del trattato.
Questa situazione, tuttavia, si è modificata con la riforma dell'art. 117 della Costituzione
avvenuta attraverso la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. L'art. 117 ha previsto che la
potestà legislativa è esercitata dal- lo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Da cui la conseguenza, tratta dalla Corte costituzionale con due sentenze (la n. 348 e la n. 349

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del 2007, "c.d. sentenze gemelle" a proposito della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo,
ma che possono essere utilizzate anche per gli altri trattati internazionali), che la legge italiana
che contrasti con la legge di ratifica di un trattato internazionale è incostituzionale per contrasto
con l'art. 117 della Costituzione, secondo lo schema tradizionale del sindacato di costituzionalità
sulle norme interposte.

4. Il trattamento giuridico dello straniero

L'art. 10 della Costituzione detta anche alcune previsioni sul tratta- mento giuridico dello
straniero. Il 1° comma prevede che la condizione giuridica dello straniero sia regolata dalla legge
in conformità delle norme e dei trattati internazionali, mentre il secondo disciplina il diritto di
asilo, stabilendo che lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della
Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Il 3° comma esclude l'estradizione dello
straniero per motivi politici.
La condizione giuridica dello straniero è dunque regolata dalla legge, che tuttavia deve rispettare
i diritti fondamentali stabiliti in Costituzione. Infatti, se è vero che molti dei diritti fondamentali
previsti in Costituzione sembrano riferirsi ai soli cittadini (ad esempio gli artt. 16, 17 e 18
riferiscono espressamente il contenuto del diritto tutelato ai "cittadini") dall'altra parte l'art. 2 della
Costituzione "riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo". Cosicché, se ne dovrebbe
dedurre, i diritti definiti come inviolabili dalla Costituzione costituiscono patrimonio non solo del
cittadino anche dello straniero.
Se questo è vero deve però osservarsi che da un lato anche i diritti fondamentali possono subire
alcune limitazioni - ragionevoli - in conseguenza del diverso status dello straniero rispetto al
cittadino (tra le tante Corte cost. n. 224 del 2005) mentre dall'altro lato la legge può estendere
allo straniero altri diritti che la Costituzione riconosce ai soli cittadini. Su queste basi il d.lgs. n.
286 del 1998 "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero" ha quindi disciplinato lo status giuridico degli stranieri,
riconoscendo a questi ultimi il godimento pressoché integrale dei diritti riconosciuti dal- la
Costituzione ai cittadini, con la sola esclusione dei diritti c.d. politici.
Allo straniero al quale "sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana"', la Costituzione riconosce il diritto di asilo. Il diritto di asilo
comporta come conseguenza che il beneficiario non possa essere né estradato (cioè
consegnato ad altro Stato perché venga sottoposto a giudizio), né espulso (cioè allontanato dal
proprio territorio e inviato allo Stato di appartenenza). Come previsto dal 3° comma dell'art. 10 lo
straniero inoltre non può essere estradato per reati politici.

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CAPITOLO V
L’UNIONE EUROPEA
LE FONTI EUROPEE
E I VINCOLI ALL’ORDINAMENTO INTERNO
DERIVANTI DALL’UNIONE

1. L’Unione Europea: le ragioni ideali


Un trattato internazionale del tutto particolare è quello che ha dato vita alla Comunità Economica
Europea (CEE), denominata poi, a seguito di varie revisioni dei trattati, Unione Europea (U.E.).
Normalmente infatti i trattati che istituiscono organizzazioni internazionali si basano su principio
c.d. della cooperazione, poiché il loro compito non è quelli di emanare norme, ma di facilitare la
collaborazione tra gli stati membri appartenenti all’organizzazione. L’attività delle organizzazioni
internazionali quindi, si sostanzia principalmente in una attività “pregiuridcia”, finalizzata tra l’altro
a predisporre progetti di convenzioni che gli Stati sono liberi di trasformare in norme giuridiche
attraverso la loro ratifica. Le organizzazioni internazionali, in- fatti, spesso emanano
"raccomandazioni", cioè atti di natura esortativa nei confronti degli Stati, che tuttavia non hanno
efficacia giuridicamente vincolante.

Il Trattato che istituisce l'Unione Europea ha invece caratteristiche notevolmente diverse rispetto
al modello di organizzazione internazionale basato sul principio della cooperazione. Come
meglio vedremo successivamente, il Trattato prevede competenze attribuite alla organizzazione,
nell'ambito delle quali quest'ultima può emanare norme che hanno effetto giuridico all’interno
degli Stati membri. Per queste materie si verifica dunque una reale cessione di sovranità da
parte degli Stati a vantaggio Europea. Sono previste istituzioni che hanno la funzione di
controllare la corretta applicazione delle norme comunitarie negli Stati membri, e sono previste
procedure decisionali per l'adozione delle norme non basate sul principio dell'unanimità.
L'idea di una organizzazione sovranazionale così articolata, anche se realizzatasi in tempi
relativamente recenti, nasce da lontano, e si fonda sulla consapevolezza di radici culturali
comuni nei popoli europei. Questa consapevolezza si è alimentata, quantomeno all'origine, dalla
necessità politica che una grande organizzazione europea potesse contrapporsi ai grandi
blocchi nascenti (USA e URSS) e che questa potesse costituire un ostacolo al possibile
rinascere dei nazionalismi e delle mire espansionistiche di Stati europei.
L'idea europea, che nasceva in relazione a motivazioni culturali, ideali e di sistema di governo,
trovò allora un collante nella necessità di creare effettivamente un terzo blocco che avesse
sufficiente forza e legittimazione per poter resistere alle pressioni dell'uno e dell'altro.
Il 7 maggio del 1948 si tenne all'Aia, sotto la presidenza di Churchill, il Congresso d'Europa, al
termine del quale si auspicò una azione comune da parte di tutti i paesi europei per garantire la
pace, salvaguardare i diritti fondamentali, contrastare l'insorgere di nuovi nazionalismi. Andava
allora maturando l’idea di organizzare lo spazio europeo secondo tre esigenze: sviluppo
economi, difesa e democrazia, e proprio in attuazione di questi orientamenti sorsero in quegli
anni alcune organizzazioni internazionali: l'OECE, attraverso la quale gli Stati europei decisero
di gestire in comune gli aiuti economici americani del Piano Marshall; il Patto Atlantico (NATO),
un alleanza militare con gli Stati Uniti che aveva tuttavia anche ulteriori implicazioni di carattere
politico e culturale; il Consiglio di Europa, organizzazione internazionale che riuniva 10 Stati
dell'Europa occidentale allo scopo di dare attuazione alle conclusioni approvate nel congresso di
Europa.
Il Consiglio di Europa era ancora una "semplice" organizzazione internazionale, basata sul
modello della cooperazione politica e sull'unanimità delle decisioni. Trascorso l'impatto iniziale si
rivelò ben presto uno strumento insufficiente per gestire un reale processo di integrazione
europea.

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2. I Trattati europei: dalla CECA alla CEE

Nel maggio del 1950 il Ministro degli affari esteri francese, Schuman, rilasciò una dichiarazione
con la quale sosteneva la opportunità della istituzione di un mercato comune carbosiderurgico
tra Francia e Germania, da allargarsi anche ad altri Stati. Questa dichiarazione ha assunto in un
certo qual modo la funzione di linea guida di tutto il successivo processo di integrazione
comunitaria: i punti centrali erano infatti la salvaguardia della pace, attraverso una
organizzazione europea in grado di svolgere una funzione di equilibrio in Europa, un processo di
solidarietà tra gli Stati europei, la previsione di un percorso graduale per arrivare ad una
Federazione europea.
La c.d. dichiarazione "Schuman" fu valutata molto positivamente dalla Francia, che riteneva di
poter guidare il processo di integrazione comunitaria, dalla Germania, che dopo la guerra aveva
necessità di riallacciare rapporti con i paesi europei, dall'Italia, storicamente europeista, e che at-
traverso la partecipazione attiva alla nascita dell'organizzazione sperava di svolgere un ruolo
anche prospetticamente significativo. Nell'aprile del 1951, per dare seguito a tale dichiarazione,
fu firmato a Parigi il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA)
tra sei paesi europei (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo).
Lavorando su queste basi alla conferenza di Venezia furono presentati due nuovi trattati: uno per
l'utilizzo dell'energia atomica per scopi pacifici, l'altro sulla realizzazione di una unione doganale
e successivamente di una unione economica, rimandando, ma non escludendo, una successiva
unione politica. Il 25 marzo 1957 furono firmati a Roma i due trattati in questione: il Trattato
relativo alla istituzione della Comunità Economica Europea (allora definita anche mercato
comune) e quello relativo alla Comunità europea dell'energia atomica (EURATOM). Il Trattato
CEE (e le successive modifiche) sono sempre state ratificate nel nostro ordinamento attraverso
una legge ordinaria e non con una legge costituzionale. Si riteneva infatti che le limitazioni -
non irrilevanti - alla sovranità dello Stato conseguenti da questo Trattato, fossero già legittimate
dall'art. 11 della Costituzione, che prevede che lo Stato italiano acconsente appunto alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le
Nazioni.
L'obbiettivo del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea era quello di costituire un
mercato unico attraverso la garanzia della libertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei
servizi e dei capitali (le c.d. quattro libertà). Queste libertà non potevano essere garantite se non
impedendo agli Stati, da una parte di imporre barriere all'ingresso che limitassero la circolazione
delle merci e dei capitali, e dall'altra parte impedendo posizioni di privilegio per imprese o
categorie di imprese di alcuni Stati rispetto ad altri. Per raggiungere questi obbiettivi il Trattato
prevedette l'abolizione dei dazi doganali tra gli Stati: l'eliminazione degli ostacoli alla libera
circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali; l'instaurazione di una politica
agricola comune (PAC) di una politica comune dei trasporti (PCT) e di una politica commerciale
comune: l'adozione di regole che assicurino libertà di concorrenza e divieto di aiuti di Stato; il
coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. I tre trattati avevano inizialmente
alcune istituzioni in comune; nel 1965 si arrivò alla fusione degli organi istituzionali, cosicché le
tre comunità ebbero in comune tutte le istituzioni ed anche un unico bilancio.

3. Il trattato di Maastricht

A cavallo degli anni ‘80, da un punto di vista della integrazione delle politiche degli Stati membri,
la Comunità Economica Europea non aveva raggiunto grandi successi. In effetti l'Europa usciva
dalla crisi economica innescata dagli aumenti del prezzo del petrolio e dall'abbandono della
convertibilità del dollaro senza una chiara prospettiva politica unitaria. I successi probabilmente
più rilevanti, in funzione di una progressiva integrazione, erano stati dati dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia in tema di efficacia del diritto comunitario (cfr. i paragrafi successivi).

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Sempre nell'ottica di poter giungere ad una progressiva integrazione politica, nel 1985 la
Commissione pubblicò un libro bianco nel quale era- no analizzati gli ostacoli che impedivano la
formazione di un grande mercato unico europeo. La formazione di un vero mercato unico
europeo, senza barriere, era visto come il presupposto necessario per realizzare,
successivamente, una maggiore integrazione politica.
La creazione di un mercato unico, come si è detto, costituiva il presupposto per l'ulteriore
passaggio verso una unione politica e monetaria. In particolare il passaggio ad una moneta
unica europea era fortemente desiderata dalla Francia, in difficoltà nel rapporto di cambio con il
forte marco tedesco. Al contrario per la Germania si trattava di rinunciare al marco che costituiva
il simbolo della forte economia tedesca.
Il Trattato di Maastricht costituisce una revisione imponente dei Trattati precedenti poiché, a
seguito della sua approvazione, non solo e stato modificato il Trattato della CEE (ridenominato
Comunità Europea TCE), ma è stato aggiunto un nuovo Trattato, denominato appunto Trattato
sull'Unione Europea (TUE). Il TUE ha dato vita ad una struttura c.d. a tre pilastri: il primo pilastro
era costituito dalle comunità preesistenti (CEE, CECA, EURATOM), il secondo dalla politica
estera e dalla sicurezza comune, il terzo dalla cooperazione di polizia giudiziaria in materia
penale.
Poiché però non tutti gli Stati condividevano la possibilità di gestire in comune politica estera e
politica giudiziaria, fu deciso che il primo pilastro sarebbe stato gestito attraverso le norme
comunitarie, mentre il secondo e il terzo attraverso le regole della cooperazione intergovernativa
e quindi secondo le norme del diritto internazionale.

4. Il fallimento della Costituzione europea ed il nuovo Trattato di Lisbona

Frattanto, nel corso dei due decenni precedenti, il numero degli Stati membri dell’Unione era più
che raddoppiato, passando dai sei fondatori a quindici. Nel 1973 avevano aderito infatti
Inghilterra, Irlanda e Danimarca; nel 1981 aveva aderito la Grecia; nel 1985 l'Austria, la
Finlandia e la Svezia; nel 1986 la Spagna ed il Portogallo. Il crollo della Unione Sovietica nel
1989 aveva poi prefigurato l'ulteriore ampliamento della Unione Europea a quel blocco di Stati
che precedentemente gravitavano nell'orbita sovietica. Si poneva quindi il problema di adattare i
meccanismi di funzionamento dell'Unione Europea ad un aumentato numero di Stati (si è poi,
come noto, effettivamente passati da quindici Stati ad un Unione a ventotto Stati) e in particolare
si trattava di rendere le istituzioni comunitarie più trasparenti nei processi decisionali e più vicini
ai cittadini, per cercare di superare, almeno in parte, l'organizzazione burocratica della Unione.
L'obbiettivo era quello di modificare ancora il Trattato attribuendogli una funzione
eminentemente costituzionale: gli atti principali avrebbero dovuto chiamarsi leggi e leggi quadro
europee, la rappresentanza esterna dell'Unione avrebbe dovuto essere affidata ad un ministro
degli esteri, un preambolo avrebbe dovuto tratteggiare una identità comune, la carta dei diritti
fondamentali dell'Unione avrebbe dovuto essere ricompresa dentro la Costituzione europea
nella sua parte seconda. Da un punto di vista organizzativo, poi, la nuova Costituzione avrebbe
dovuto dar vita ad una nuova Unione Europea che avrebbe ricompreso tanto il pilastro
comunitario che il secondo e il terzo pilastro. Il nuovo Trattato - piuttosto lungo per essere una
vera carta costituzionale, 448 articoli - sarebbe stato diviso in quattro parti: la prima contenente i
principi, gli obbiettivi e le regole generali di funzionamento dell'Unione; la seconda la carta dei
diritti fondamentali dell'Unione; la terza le norme di dettaglio sulle politiche ed il funzionamento
dell'Unione; la quarta le disposizioni generali e finali riguardanti le procedure di modifica e di
entrata in vigore del Trattato.
Il processo di ratifica del nuovo Trattato non potè tuttavia concludersi per il voto contrario,
espresso in sede di referendum popolare, di Francia e Paesi Bassi. Abbandonata pertanto la
possibilità della approvazione di una vera Costituzione, il lavoro effettuato fu ripreso nell'ambito
di una nuova riforma del Trattato, e nel 2007 fu firmata a Lisbona una ulteriore revisione dei
trattati precedenti. Il Trattato di Lisbona ha dato vita ad un unico soggetto dotato di personalità

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giuridica: l’Unione Europea (U.E.) che sostituisce e succede alle Comunità Europee. L'Unione
Europea a sua volta si fonda su due trattati: il Trattato sull'Unione Europea (TUE) e il Trattato sul
funzionamento dell'Unione Europea (TFUE ).

5. Cenni all'organizzazione interna della Unione Europea

La organizzazione interna della Unione Europea è basata sul Consiglio Europeo, organo che
compie le scelte generali di indirizzo non normative; sul Consiglio dei Ministri che esercita
insieme al Parlamento Europeo la funzione governativa; sulla Commissione Europea che
costituisce l'organo esecutivo titolare altresì del potere di iniziativa normativa; sulla Corte di
Giustizia dell'Unione Europea, organo giurisdizionale; sulla Banca Centrale Europea, che
esercita le funzioni di politica monetaria; sulla Corte dei Conti, organo di controllo dell'Unione.
In generale il tratto maggiormente distintivo dell'organizzazione comunitaria è dato dall'esercizio
del potere normativo da parte di un organo (il Consiglio) non direttamente rappresentativo,
mentre il Parlamento, organo direttamente rappresentativo, non è titolare di autonome funzioni
normative. Questa peculiarità - che con le varie modifiche dei trattati è stata progressivamente
attenuata ma non eliminata - ha fatto spesso par- lare di un deficit democratico dell'Unione
Europea. Tale deficit è da ricollegarsi alle origini del Trattato, che non prevedeva in effetti una
unione di tipo politico ma soltanto la creazione di un mercato economico unico.
Il Parlamento europeo è composto da rappresentanti eletti all'assemblea a suffragio diretto.
Tuttavia, come si diceva, a differenza dei Parla- menti nazionali che in virtù del principio
rappresentativo sono i titolari del potere legislativo, il Parlamento europeo nell'originario Trattato
CEE non era titolare di poteri legislativi, ma solo del potere di esprimere un parere obbligatorio
su alcune materie. I poteri del Parlamento, tuttavia, sono andati progressivamente crescendo
con le varie modifiche dei trattati. Oggi il Parlamento europeo esercita, unitamente al Consiglio,
la funzione normativa attraverso la procedura c.d. di codecisione. Non è titolare di un autonomo
potere di iniziativa legislativa, ma può chiedere alla Commissione di presentare progetti di atti
normativi. Esercita però un controllo politico nei confronti della Commissione che si estrinseca in
mozioni, interrogazioni e inchieste.
Il Consiglio, denominato nella prassi Consiglio dei Ministri, è formato dai rappresentanti dei
Governi degli Stati membri. Il Consiglio, come si dice, si riunisce "in varie formazioni" che
corrispondono alle diverse tematiche che è chiamato ad affrontare. Due di queste formazioni
sono pre- viste da TFUE: il Consiglio "affari generali e il Consiglio "affari esteri". Tra le altre
formazioni, previste non dal Trattato ma istituite con decisione dello stesso Consiglio, merita
ricordare il Consiglio Ecofin, composto dai ministri economici e finanziari, al cui interno è stato
costituito l'Eurogruppo, composto dai ministri degli Stati membri che hanno adottato l'Euro.

Il Consiglio è titolare di un potere di coordinamento delle politiche economiche generali degli


Stati membri, e soprattutto è titolare del potere normativo, potendo emanare, insieme al
Parlamento, atti che hanno efficacia all'interno degli Stati membri. Inoltre esercita la funzione di
bilancio e prende le decisioni relative alla politica estera e alla sicurezza comune.
Il Consiglio Europeo (da non confondersi ovviamente con il Consiglio dei Ministri) è composto
dai capi di governo degli Stati membri ed è l'organo di indirizzo generale della Unione Europea:
definisce infatti gli orientamenti e le priorità politiche generali.
La Commissione è l'organo indipendente della Comunità Europea. Essa era composta da nove
membri (oggi ventotto corrispondenti al numero degli Stati). Il Consiglio Europeo sceglie a
maggioranza qualificata il Presidente della Commissione (eletto poi dal Parlamento Europeo a
maggioranza). Quindi il Consiglio Europeo, d'intesa con il Presidente, individua i componenti la
Commissione sulla base delle proposte degli Stati. I componenti la Commissione debbono
esercitare le loro funzioni in piena indipendenza e nell'interesse generale della Unione.
La Commissione ha principalmente la funzione di vigilare sull'applicazione delle disposizioni
contenute nei trattati e sul rispetto delle decisioni prese dalle istituzioni. In caso di trasgressione,
è compito della Commissione accertare e valutare i fatti nella sua funzione di organo imparziale.

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In questi casi la Commissione invita lo Stato a presentare le sue giustificazioni entro un
determinato tempo; se lo Stato mantiene il provvedimento o le osservazioni non convincono la
Commissione, questa può rivolgergli un parere motivato al quale lo Stato è obbligato a
conformarsi. In caso di ulteriore inadempimento, la Commissione può rivolgersi alla Corte di
Giustizia, aprendo una procedura di infrazione, che può condurre alla emanazione di una
sentenza di condanna nei confronti dello Stato. La Commissione inoltre esercita il potere di
iniziativa normativa rispetto al Consiglio.
La Corte di Giustizia "assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del
trattato". Decide contro le infrazioni compiute dagli Stati (ricorsi per inadempimento); decide
contro gli atti adottati dalle istituzioni dell'Unione in violazione dei trattati (ricorsi di
annullamento); decide sulle questioni di interpretazione dei trattati e delle altre norme
comunitarie sollevate dai tribunali degli Stati membri (ricorso in via pregiudiziale). Questa ultima
competenza, in particolare, è stata di grande importanza per assicurare l'uniformità
dell'interpretazione del diritto comunitario. La Corte di Giustizia, attraverso decisioni sull'effetto
diretto delle norme comunitarie e sul primato del diritto comunitario rispetto al diritto degli Stati
membri, è stata in effetti una dei principali artefici del processo di integrazione comunitaria.
Accanto alla Corte è stato poi istituito un Tribunale, competente per azioni intraprese da persone
fisiche e giuridiche (non dagli Stati quindi) allo scopo di sgravare la Corte dalle questioni di minor
rilievo.
La Banca Centrale Europea (BCE) esercita le funzioni fondamentali in materia politica
monetaria. Governa il tasso di sconto (cioè il costo del denaro), allo scopo di assicurare il
mantenimento della stabilità dei prezzi all'interno dell'Unione. È dotata di elevato grado di
indipendenza rispetto alle altre istituzioni e rispetto ai Governi degli Stati membri.
La Corte dei Conti è composta da ventotto membri nominati dal Consiglio. Assicura il controllo
dei Conti attraverso l'esame delle entrate e delle spese dell'Unione.

6. Gli atti giuridici dell'Unione Europea

Il riparto di competenze tra gli Stati e l'Unione Europea si basa sul c.d. principio di attribuzione
(art. 1 TUE). Il principio di attribuzione implica che l'Unione esercita solo le competenze che gli
Stati hanno attribuito ai trattati, mentre quanto non attribuito rimane agli Stati. Le competenze
attribuite dal TFUE si distinguono in:
a) competenze esclusive, nelle quali solo l'Unione può legiferare;
b) competenze concorrenti, nelle quali sia l'Unione che gli Stati possono legiferare ma questi
ultimi solo se l'Unione non lo ha fatto;
c) competenze di sostegno, coordinamento o completamento delle competenze degli Stati,
laddove l'Unione non ha competenza prevalente.

Queste competenze debbono essere esercitate secondo il principio di sussidiarietà e di


proporzionalità. Il primo principio implica che, quando non vi sia competenza esclusiva, l'Unione
interviene solo se i suoi obbiettivi possono essere raggiunti in maniera migliore attraverso un
intervento da parte dell'Unione che non da parte dei singoli Stati. Il secondo principio implica
che, comunque, l'intervento dell'Unione Europea non può andare oltre quanto strettamente
necessario per il raggiungimento dell'obbiettivo.
Le materie sulle quali interviene l'Unione Europea sono dette "politiche". Esse spaziano dalla
libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, ai trasporti, all'energia,
all'ambiente, all'istruzione, toccando pertanto materie essenziali nelle quali storicamente si
manifestava la sovranità dello Stato.
Nell'ambito di queste materie l’Unione Europea emana atti giuridici che hanno efficacia
all'interno degli Stati membri. Questi atti si distinguono in:

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1) regolamenti sono atti di portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi. Essi sono
direttamente applicabili in tutti gli Stati membri. I regolamenti comunitari non necessitano
pertanto di alcun atto di recezione da parte dello Stato destinatario del regolamento.
2) Direttive. Le direttive hanno la caratteristica di vincolare lo Stato membro al raggiungimento
di un determinato risultato, lasciando tuttavia libero lo Stato di scegliere lo strumento più
opportuno per il raggiungimento di quel risultato. A differenza dei regolamenti, pertanto, le
direttive non sono immediatamente applicabili in tutti gli Stati, poiché normalmente
necessitano di un atto di recepimento da parte dello Stato destinatario. E da rilevare,
tuttavia, che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha distinto le direttive che contengono
solo obbiettivi da raggiungere (che debbono essere necessariamente recepite prima di
acquisire efficacia all'interno dell'ordinamento), dalle direttive c.d. dettagliate. Queste ultime,
contenendo norme sufficientemente precise ed incondizionate, sarebbero direttamente
applicabili una volta scaduto il termine per lo Stato per la loro attuazione. La direttiva
dettagliata, pertanto, appare assai simile nella struttura e negli effetti ad un regolamento.
3) Decisioni. Le decisioni hanno la caratteristica di non avere contenuto normativo (non
contengono infatti norme generali ed astratte) poiché si rivolgono a destinatari precisi e
predeterminati. Per queste ragioni esse sono simili ai nostri provvedimenti amministrativi.
4) Raccomandazioni. Le raccomandazioni hanno la caratteristica di essere atti non vincolanti,
nel senso che non fanno sorgere nei destina- tari diritti o obblighi, poiché hanno
principalmente funzione di indirizzo.

7. L'efficacia delle norme U.E. all'interno degli Stati membri: la natura sui generis del
Trattato secondo la Corte di Giustizia

Regolamenti e direttive dell'Unione Europea hanno forza all'interno degli Stati membri
dell'Unione. La determinazione di quale sia la forza di queste fonti è stato frutto di un lungo
processo, nel quale la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha fatto spesso da "apripista" nei
confronti di principi poi recepiti anche dalla Corte costituzionale.
Il punto di partenza per giustificare la forza particolare del diritto europeo è stato la natura de
Trattato, ritenuta differente rispetto agli altri trattati internazionali. Mentre infatti i trattati
internazionali pongono diritti ed obblighi solo tra gli Stati, nel Trattato comunitario sono i cittadini
ad essere soggetti di diritti e di doveri di fronte alla comunità. È quindi l'attribuzione di
soggettività europea all'individuo che distingue il Trattato dell’Unione Europea dagli altri trattati
internazionali, dove invece la soggettività giuridica è saldamente incardinata sugli Stati.
Da questa "atipicità" di natura costituzionale derivano, come logiche conseguenze, gli effetti che
la Corte di Giustizia ha desunto in ordine alla forza delle norme dell'Unione Europea all'intero
degli ordinamenti degli Stati membri. Se infatti l'Unione Europea costituisce un ordinamento
giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, rispetto al quale gli Stati aderenti
hanno acconsentito a cessioni di sovranità, e tale ordinamento riconosce come soggetti non solo
gli Stati ma anche i cittadini, che sono titolari di diritti conseguenti all’adesione all’Unione
Europea, consegue che le norme comunitarie dovranno essere sia direttamente applicabili negli
Stati membri, sia superiori rispetto alle fonti interne. Diversamente l'attuazione del diritto
comunitario sarebbe dipendente dalla volontà degli Stati, ma ciò è appunto contrario alla natura
particolare del Trattato dell'Unione.

7.1. L'efficacia delle norme U.E. all'interno degli Stati membri: l'effetto diretto

La prima conseguenza della natura particolare del Trattato dell'Unione Europea è dunque
l'effetto diretto delle norme comunitarie. Ciò significa che, in linea di principio, a qualunque
norma emanata dall'Unione Europea è attribuita la capacità di produrre effetti giuridici diretti
negli ordinamenti degli Stati membri a prescindere da atti di recezione di diritto interno.
Non tutte le norme comunitarie, tuttavia, possono avere effetto diretto. Come rilevato dalla Corte
di Giustizia nel 1976 per avere effetto diretto le norme debbono essere precise e

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sufficientemente incondizionate. Infatti se la norma non è sufficientemente precisa ed
incondizionata, essa non è applicabile, quindi non azionabile in sede di giudizio, e quindi non
può avere un effetto diretto.
I regolamenti comunitari contengono norme obbligatorie e sono direttamente applicabili senza
necessità di recepimento da parte dello Stato membro. Il principio dell'effetto diretto è, nel caso
del regolamento, connaturato alla forma dell'atto.
Le direttive invece, come si ricorderà, vincolano lo Stato membro per quanto riguarda il risultato
da raggiungere, fermo restando la competenza degli organi nazionali in ordine alla forma e ai
mezzi per raggiungere il risultato. Le direttive quindi necessitano di essere recepite con un atto
dello Stato e dunque non sono dotate, normalmente, dell'effetto diretto.
Applicando il principio generale la Corte di Giustizia ha tuttavia riconosciuto che anche le
direttive possono essere direttamente applicabili quando contengono norme precise e
sufficientemente incondizionate. Non è infatti ammissibile che lo Stato possa avvantaggiarsi da
un suo inadempimento, per negare ai singoli diritti che la direttiva gli aveva imposto di rendere
effettivi. In tal caso l'effetto diretto è comunque subordinato al decorso del termine per il
recepimento della medesima da parte dello Stato (c.d. estoppel clause).

7.2. L'efficacia delle norme U.E. all'interno degli Stati membri: il principio del primato del
diritto europeo

L'effetto diretto delle norme della U.E., tuttavia, potrebbe non essere sufficiente ad assicurare i
diritti comunitari agli individui, se non fosse assistito da un altro principio: il primato del diritto
comunitario rispetto al diritto degli Stati membri.
Ancora una volta il principio del primato del diritto europeo costituisce una conseguenza implicita
della natura particolare del Trattato del- l'Unione e del principio dell'effetto diretto. Sarebbe infatti
contraddittorio affermare che vi è stata una cessione di sovranità da parte degli Stati ad un
ordinamento sovranazionale; che questo ordinamento emana norme che hanno efficacia diretta
negli Stati allo scopo di assicurare i diritti comunitari agli individui; che tuttavia, ed infine, queste
norme sono liberamente modificabili da parte degli Stati. Se le norme fossero liberamente
modificabili dagli Stati, infatti, alla fine non vi sarebbe stata alcuna cessione di sovranità e la
stessa teoria dell'effetto diretto non potrebbe raggiungere il proprio scopo. Il principio del primato
del diritto europeo sul diritto degli Stati membri costituiva dunque un corollario necessario per
assicurare il corretto adempimento da parte degli Stati degli impegni assunti con il Trattato

La Corte di Giustizia ha sviluppato il principio del primato in due fondamentali sentenze. La


sentenza Costa v. Enel (del 1964) e la successi- va, più elaborata sentenza c.d. Simmenthal (del
1978). Nella prima la Corte afferma che atti interni contrastanti con il diritto comunitario
sarebbero inefficaci, poiché con la adesione al Trattato si è verificata una limitazione della
sovranità degli Stati nelle materie attribuite al diritto comunitario. Nella seconda la Corte esplicita
che le norme comunitarie fanno parte integrante con rango superiore rispetto alle norme interne,
dell'ordinamento giuridico interno.
Il passo in avanti effettuato dalla Corte con questa seconda sentenza è stato notevole (forse sin
troppo per il momento). In queste sole tre righe si nasconde infatti una nuova costruzione
giuridica: le norme comunitarie fanno parte integrante degli ordinamenti giuridici dei singoli Stati
membri e hanno efficacia gerarchica superiore. Secondo la Corte dunque ordinamento
comunitario e ordinamento in- terno non costituirebbero due ordinamenti separati (secondo
la dottrina dualista che da sempre informa i rapporti tra diritto interno e diritto internazionale) ma
il diritto comunitario costituirebbe parte integrante del diritto interno degli Stati membri (teoria
monistica che sottintende l'esistenza di un unico ordinamento). Ed inoltre, e ad ulteriore
conferma della tesi monistica, la norma comunitaria sarebbe gerarchicamente superiore rispetto
alle norme prodotte dagli ordinamenti degli Stati membri.
Anche questa affermazione costituisce un ulteriore avallo circa la tesi della Corte di Giustizia
sull'unitarietà dell'ordinamento (comunitario ed interno). Il principio di gerarchia si applica infatti

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in relazione a fonti di uno stesso ordinamento e non rispetto a fonti di provenienza da
ordinamento distinti (rispetto alle quali si applica, invece, il diverso principio di competenza). Da
ciò deriva, secondo la Corte, che qualsiasi giudice nazionale, adito nell'ambito della sua
competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che
questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della
legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria, senza doverne chiedere o
attenderne la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento
costituzionale.
Secondo la Corte di Giustizia, dunque, il primato del diritto comunitario deve avere un effetto
pratico immediato; la disapplicazione delle fonti contrastanti con le norme comunitarie in quanto
invalide. E tale disapplicazione può essere effettuata da parte di qualsiasi giudice nazionale.

7.3. Il cammino comunitario della Corte costituzionale italiana

Mentre sin dalle prime sentenze la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha affermato la natura
particolare del Trattato e i conseguenti effetti sulle fonti derivate (primato ed effetto diretto), il
cammino della Corte costituzionale italiana è stato inizialmente più lento. Nella prima fase, co-
me vedremo, le posizioni della Corte costituzionale sui rapporti tra diritto comunitario e diritto
interno sono addirittura antitetiche rispetto a quelle assunte dalla Corte di Giustizia.
Progressivamente tuttavia la Corte costituzionale, con le sue sentenze, è divenuta un artefice
fondamentale del processo di integrazione europea. È curioso osservare che l'inizio del percorso
comunitario della Corte costituzionale nasce dalla stessa vicenda che aveva dato origine alla
sentenza della Corte di Giustizia in Costa v. Enel: la legge di nazionalizzazione dell'energia
elettrica disposta nel 1962.
La sentenza della Corte costituzionale (Corte cost. n. 14 del 1964) è di qualche mese
antecedente la sentenza della Corte di giustizia che tratta del medesimo tema. Tuttavia le
soluzioni non potrebbero essere più distanti: la Corte costituzionale considera il Trattato
comunitario come tutti i trattati internazionali. Conseguentemente esso ha la forza della fonte
che lo recepisce (la legge) e dunque è derogabile da leggi posteriori (applicazioni del principio
cronologico).
La Corte costituzionale, tuttavia, modificò radicalmente il suo punto di vista circa dieci anni dopo
con la sentenza n. 183 del 1973. Questa sentenza è di particolare importanza perché la Corte,
per la prima volta, riconobbe la superiorità del Trattato comunitario (e dunque contrariamente
alla sentenza del 1964 la natura particolare del Trattato), agganciandolo alla Costituzione
italiana ed in particolare all'art. 11 della Costituzione, che acconsente alla limitazioni di sovranità.
Secondo la Corte, infatti, la formula "limitazioni di sovranità" contenuta nell'art. 11 della
Costituzione: "legittima le limitazioni dei poteri dello Stato in ordine all'esercizio delle funzioni
legislativa, esecutiva e giurisdizionale, quali si rendevano necessarie per la istituzione di una
Comunità tra gli Stati europei, ossia di una nuova organizzazione interstatuale".
Dunque la fonte interna che contrasta con la fonte comunitaria è illegittima perché ha violato la
sfera di competenza riservata dall'art. 11 della Costituzione alle fonti dell'Unione Europea. Da qui
un'altra differenza importante nella impostazione della Corte costituzionale rispetto alla Corte di
Giustizia: la legge italiana contrastante con una norma comunitaria direttamente applicabile (un
regolamento od una direttiva dettagliata), sarebbe incostituzionale per violazione dell'art. 11 della
Costituzione nella parte in cui tale norma acconsente a limitazioni di sovranità. Essa non
sarebbe quindi disapplicabile, come sostenuto dalla Corte di Giustizia, ma nei suoi confronti
sarebbe invece necessaria l'instaurazione di un giudizio di legittimità costituzionale davanti alla
Corte costituzionale.
Anche questo orientamento era tuttavia destinato a mutare. Nel 1984, con una sentenza
"caposaldo" (Corte cost. n. 170 del 1984 c.d. Granitali), la Corte costituzionale affermò che il
contrasto tra norma comunitaria e legge italiana doveva portare alla non applicazione della
legge italiana da parte del giudice che si fosse trovato a risolvere quella controversia. Dunque

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non era più necessaria a sollevazione della questione di costituzionalità per la violazione -
indiretta - dell’art. 11 della Costituzione.
La conseguenza di questa sentenza è importante: in ipotesi di contrasto tra una norma
direttamente applicabile dell'Unione Europea e una e italiana il giudice deve applicare la norma
comunitaria e non applicare la legge, senza sollevare la questione di legittimità costituzionale.

7.4 La non applicazione della legge per contrasto con norme U.E.: gli effetti

Quali effetti produce tuttavia la non applicazione della legge nel nostro ordinamento?
È opportuno ricordare in primo luogo che la non applicazione non consegue ad un vizio della
legge, che pertanto è in sé perfettamente valida. Da questa prima considerazione deriva quindi
che la legge non applicata non è annullata e conseguentemente espunta dall'ordinamento
giuridico, ma continua ad esistere, sia pure, come è stato detto con felice espressione, come
una sorta di "fonte disseccata" dalla quale potrà uscire solo quando e se il diritto comunitario si
ritrarrà da quella materia, consentendo il riespandersi della norma italiana.
La non applicazione di una legge effettuata da un giudice che applica la fonte comunitaria ha
quindi effetto soltanto per quel caso (inter partes) e non rispetto all'intero ordinamento (erga
omnes) come avrebbe invece una decisione di annullamento conseguente alla invalidità della
fonte.
La non applicazione della legge effettuata da un giudice o anche dalla pubblica amministrazione
(come consentito da un'altra sentenza della Corte) costituisce tuttavia una modifica rilevante
nella impostazione di fondo del nostro ordinamento. Sino alla sentenza del 1984 della Corte
costituzionale infatti, il nostro sistema era imperniato sul principio che la legge, ancorché
incostituzionale, doveva sempre essere applicata sino alla dichiarazione di incostituzionalità da
parte della Corte costituzionale. Se il giudice avesse ritenuto che una legge avesse contrastato
con la Costituzione, avrebbe dovuto sospendere il giudizio e rinviare la questione alla Corte
costituzionale.
Questo modello era coerente con una Corte costituzionale espressamente deputata a
controllare la legittimità delle leggi, ed alla idea di fondo, che permea la nostra Costituzione, del
primato della legge in quanto diretta espressione della sovranità popolare. L'idea che un giudice
ordinario potesse non applicare una legge dello Stato era un qualcosa di molto lontano dal
pensiero del costituente e quindi dal modello della nostra Costituzione. È vero che la sentenza
del 1984 ha cercato sottilmente di salvare il modello costituzionale italiano, attraverso l’artifizio
della non applicazione epiuttpsto che della disapplicazione. Ma è anche vero che si tratta di un
fine ragiona- mento logico, essendo alla fine l'effetto sostanzialmente il medesimo.
Bisogna dunque prendere atto che in seguito alla adesione alla Unione Europea e al successivo
evolversi di questo ordinamento anche il modello tradizionale del rapporto tra le fonti è cambiato,
e per certi versi e di conseguenza, è cambiata anche la forma di governo. Il Parlamento non è
più l'unico organo titolare del potere di approvare fonti di livello primario, perché l'Unione
europea può approvare fonti rispetto alle quali le fonti primarie interne debbono cedere. Del pari,
la Corte costituzionale non ha più l'esclusivo monopolio del giudizio sulla legge (o meglio lo ha
ma solo in relazione alla costituzionalità della legge), poiché tutti i giudici possono non applicare
la legge quando questa contrasti con una norma diretta- mente applicabile emanata dall'Unione
Europea.
Deve essere rilevato, tuttavia, che più recentemente la Corte ha recuperato la possibilità di
giudicare della legittimità di una legge nei confronti del diritto comunitario, ma solo nel caso del
giudizio in via di azione. E questo perché, dati i "caratteri del giudizio in via principale, la non
applicabilità della norma rappresenterebbe una garanzia inadeguata rispetto al soddisfa-
cimento del dovere, fondato sull'art. 5 del Trattato di Roma e sull'art. 11 della Costituzione, di
dare pieno e corretto adempimento agli obblighi comunitari" (Corte cost. n. 94 del 1995). La
possibilità di giudicare della illegittimità costituzionale di una legge per contrasto con una norma

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comunitaria in sede di giudizio tra lo Stato e le Regioni non inficia, peraltro, il principio generale
che la legge contrastante con il diritto comunitario non è applicabile.

7.5. Se la norma europea contrasta con la Costituzione: la teoria dei controlimiti

La teoria del primato del diritto comunitario, con le sue conseguenze (principalmente l'effetto
diretto e la non applicazione della legge contrastante con la norma comunitaria) ha dunque
modificato in maniera rilevante l’organizzazione delle fonti interne.
Mentre tuttavia il sistema interno delle fonti è dotato di strumenti di garanzia che mirano ad
assicurare il rispetto della Costituzione in un sistema a Costituzione rigida quale il nostro -
principalmente il giudizio di costituzionalità sulle leggi da parte della Corte costituzionale - quali
possono essere gli strumenti di garanzia nei confronti del diritto comunitario eventualmente
contrastante con la Costituzione? Il problema esiste perche nonostante la cessione di sovranità
legittimata dall'art. 11 della Costituzione, non può comunque ammettersi che una Costituzione
rigida possa cedere a fronte di norme provenienti da ordinamenti esterni che pongano regole
con essa contrastanti.
Nondimeno sindacare le norme europee appartenenti al c.d. diritto derivato - regolamenti e
direttive - per contrasto con la Costituzione presenta alcuni problemi.
In primo luogo la teoria che ordinamento comunitario e ordinamento italiano sono due
ordinamenti separati (teoria dualistica), produce come effetto che le norme che provengono
dall'ordinamento comunitario non sono atti dello Stato ma fatti, in quanto non espressione di una
manifestazione di volontà di organi statali (definizione di atto). Invece la Corte costituzionale,
sulla base dell'art. 134 della Costituzione, giudica sugli atti dello Stato ("leggi e sugli atti aventi
forza di legge dello Stato e delle Regioni"), e dunque non potrebbe sindacare fatti, quali il diritto
europeo derivato.
La Corte costituzionale ha superato questo problema ammettendo il controllo di costituzionalità
non sui regolamenti o sulle direttive diretta- mente applicabili (che in quanto fatti non sono
sindacabili dalla Corte) ma sulla legge (italiana) di esecuzione del Trattato, così come essa è
interpretata ed applicata attraverso le norme del diritto derivato (regolamenti e direttive appunto).
Inoltre, stante la copertura costituzionale ex art. 11 del diritto europeo derivato, non ogni
violazione della Costituzione da parte del diritto europeo è costituzionalmente sindacabile, ma
solo quelle violazioni poste in essere nei confronti del c.d. "nucleo fondamentale" della
Costituzione, cioè di quell'insieme di principi fondamentali e diritti inviolabili che la stessa Corte
ritiene non sottoponigli alla revisione costituzionale (Corte cost. n. 1146 del 1988). Si tratta della
c.d. teoria dei controlimiti, che ha la funzione di garantire la possibilità di un controllo di
costituzionalità, per così dire di "ultima istanza", rispetto ai principi fondamentali della
Costituzione.
La teoria dei controlimiti al diritto comunitario non è mai stata concretamente utilizzata dalla
Corte costituzionale. Tuttavia essa è servita a sensibilizzare anche la Corte di Giustizia sul tema
dei diritti fondamentali. Tanto è vero che quest'ultima, dopo le decisioni della Corte italiana (ed
anche di quella tedesca che aveva seguito un percorso analogo), ha iniziato ad introdurre la
tutela dei diritti fondamentali tra i propri parametri di giudizio.

7.6. Lo stato dell'arte attuale: la forza dei regolamenti e delle direttive nell'ordinamento
interno

Conclusioni in relazione ai rapporti tra fonti interne e fonti comunitarie:


a) i regolamenti comunitari sono direttamente applicabili e non necessitano di essere recepiti
nello Stato Italiano da altre fonti. Se una fonte primaria italiana contrasta con un regolamento
comunitario, essa non de- ve essere applicata né dal giudice né dalla Pubblica
Amministrazione, e dunque non deve essere sollevata questione di legittimità costituzionale.
La Corte costituzionale può invece giudicare del contrasto tra una fonte interna e una norma

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comunitaria, allorquando sia adita in via di azione, cioè per impugnativa dello Stato di una
legge regionale o per impugnativa della Regione di una legge dello Stato.
b) Se la direttiva contiene norme sufficientemente precise ed incondizionate, essa, sulla base
del principio dell'effetto diretto, è direttamente applicabile. Una fonte primaria che contrasti
con una direttiva direttamente applicabile decorso il termine per lo Stato per adempiere
(estoppel clause), non deve essere applicata, mentre deve essere applicata la norma
precisa ed incondizionata posta dalla direttiva.
c) Se un regolamento o una direttiva direttamente applicabile dovesse contrastare con i principi
fondamentali della. Costituzione o con i diritti inviolabili, la Corte costituzionale potrebbe
dichiarare illegittima la legge di esecuzione del Trattato così come attuata dal regolamento o
dalla direttiva.

8. La legge europea: partecipazione alla fase ascendente e discendente della normativa


comunitaria

Da quanto detto emerge come il diritto comunitario sia oggi parte integrante del diritto interno
degli Stati, in certi casi in posizione predominante e senza necessità di recepimento da parte di
essi (regolamenti), in altri casi con efficacia dal momento nel quale viene recepito dagli Stati
membri (direttive). In entrambi i casi, tuttavia, esso influenza, condiziona, e pone dei paletti alla
evoluzione del diritto interno, sicché è molto im- portante per gli Stati partecipare attivamente al
processo di formazione del diritto comunitario, sia per contribuire alla costituzione di modelli
giuridici "comuni", sia per valutare preventivamente gli impatti che la norma comunitaria avrà sul
diritto interno.
Gli Stati che hanno aderito successivamente alle Comunità europee, quando il processo di
integrazione comunitaria era già avvenuto (come ad esempio l'Inghilterra), si sono dotali di
meccanismi, anche costituzionali, che permettono al Parlamento di controllare e indirizzare le
posizioni dei propri Governi in seno al Consiglio dei ministri dell'Unione. Ciò è molto utile perché
genera da una parte un forte supporto all'esecutivo nella fase della negoziazione di norme con
gli altri Stati, e perché coinvolge il Par- lamento nazionale, sia pure indirettamente, nella fase
della elaborazione delle politiche comunitarie, rendendone tra l'altro più agevole la successi- va
trasposizione nel diritto interno.
L'Italia per lunghissimo tempo ha sottovalutato questo aspetto, accentrando l'attenzione sulla
politica domestica e senza cogliere per tempo che le limitazioni di sovranità di cui all'art. 11 della
Costituzione si stavano realizzando in concreto sul piano della forza delle fonti, e che su
tematiche fondamentali (il diritto societario, il diritto finanziario, la concorrenza, ecc.), la
produzione normativa si stava spostando dal Parlamento nazionale alle istituzioni di Bruxelles.
Incidentalmente, la sottovalutazione del momento "ascendente", cioè della fase della
formazione del diritto comunitario, ha avuto per molti anni effetti negativi anche nella fase
discendente, cioè dell'attuazione del diritto comunitario. Poiché le norme comunitarie venivano
approvate senza alcun preventivo coinvolgimento e/o conoscenza da parte del Parlamento
italiano, quest'ultimo era assai lento nel recepimento delle direttive comunitarie, tanto da essere
più volte condannato dalla Corte di Giustizia per inadempimento.
Nel 1987 una legge (la n. 183), aveva previsto un obbligo per il Governo di trasmettere al
Parlamento gli atti preparatori delle normativa comunitaria. Questo obbligo fu poi ribadito dalla
successiva legge n. 86 del 1989 (c.d. legge La Pergola), ma in entrambi i casi questo pur
semplice strumento conoscitivo ha avuto ben scarsa attuazione.
La questione è cambiata in anni più recenti, non tanto in verità per una improvvisa riscoperta da
parte dell'Italia dell'importanza dell'Unione Europea, quanto in conseguenza di un ulteriore
vincolo comunitario. Annesso al Trattato di Amsterdam del 1997 vi è infatti un protocollo sul ruolo
dei Parlamenti nazionali, che richiede che i Governi portino a conoscenza dei Parlamenti le
proposte legislative della Commissione europea, e che queste non siano iscritte all'ordine del
giorno del Consiglio dei ministri prima di un determinato periodo di tempo, allo scopo di
consentire ai Parlamenti di votare atti di indirizzo nei confronti dei rispettivi Governi.

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In attuazione di questi principi è stata emanata prima la legge n. 11 del 2005, intitolata "Norme
sulla partecipazione dell'Italia all'Unione Europea", e poi la legge n. 234 del 2012, intitolata
"Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione delle normative e
delle politiche dell'Unione Europea". Sulla base di questa normativa (integrata poi dai
regolamenti di Camera e Senato), il Governo trasmette atti e documenti ai Presidenti di Camera
e Senato, che li rimette alle rispettive commissioni permanenti, che possono così esprimere un
proprio "avviso", sostanzialmente un atto di indirizzo al Governo.
La legge sopra citata disciplina anche i procedimenti per l'attuazione del diritto comunitario (fase
discendente). A tale proposito è stata previ- sta una legge annuale, la c.d. legge europea, che in
alcuni casi recepisce direttamente le direttive comunitarie; più frequentemente costituisce una
legge di delegazione per il recepimento delle direttive; più raramente costituisce legge di
autorizzazione alla emanazione di regolamenti ex art. 17 della legge n. 400 del 1988
(regolamenti di delegificazione). La legge europea poi abroga la normativa interna incompatibile
con il diritto comunitario.
Insieme alla legge europea le Camere esaminano la relazione annuale sulla partecipazione
dell'Italia al processo normativo comunitario. Si tratta di un atto di indirizzo politico attraverso il
quale il Governo riferisce in ordine all'attività svolta, preannunciando altresì gli orientamenti che
in- tende assumere per l'anno in corso. Legge europea e relazione annuale costituiscono quindi
una sorta di "sessione comunitaria" all'interno delle attività parlamentari, assai meno
formalizzata della sessione di bilancio (come vedremo), ma con il fine di razionalizzare la fase
ascendente e la fase discendente del processo comunitario.

9. L'Europa ed il problema della spesa pubblica

La normativa comunitaria svolge oggi una funzione di particolare importanza sui temi della
spesa pubblica, ponendo vari vincoli al bilancio dello Stato e alle leggi di spesa. Di riflesso, la
normativa comunitaria condiziona anche le politiche sociali dello Stato, imponendo di
selezionare, in presenza di risorse scarse, alcune politiche piuttosto che altre.
Lo Stato finanzia la spesa pubblica principalmente in due modi: o attraverso le entrate che
derivano dalla tassazione, oppure ricorrendo all'indebitamento. Il ricorso all'indebitamente
avviene attraverso l'emissione di strumenti finanziari di debito, con i quali lo Stato ottiene denaro
in prestito in cambio di un interesse e dell'obbligo alla restituzione del prestito ad una data
determinata (gli strumenti, detti in generale "titoli di Stato" si chiamano, a seconda delle loro
caratteristiche, BOT, BTP, CCT, ecc.).
Il ricorso all'indebitamente non è in sé necessariamente negativo. L'indebitamento può servire
infatti allo Stato per realizzare investimenti che producono nel tempo sviluppo economico e
quindi crescita prospettica del PIL. Oppure può servire per coprire spese correnti e servizi che lo
Stato offre. In questo caso il ricorso all'indebitamento costituisce una sorta di traslazione di un
onere che dovrebbe pagare il cittadino allo Stato. In sostanza lo Stato non potrebbe permettersi
di offrire quel servizio, ma decide di fornirlo egualmente, indebitandosi e "pagando" l'interesse
sul debito contratto. Quando tuttavia questa tecnica diviene eccessiva, la stabilità finanziaria di
uno Stato può essere messa in discussione. Per sottoscrivere nuovi strumenti finanziari emessi
gli investitori chiederanno tassi di interesse sempre più elevati perché più elevata è la possibilità
che lo Stato alla scadenza non restituisca quanto chiesto in prestito (il tasso di interesse
costituisce il prezzo per il rischio), sino al momento nel quale nessun tasso di interesse
ragionevole giustificherà il rischio della sottoscrizione dello strumento finanziario. Lo Stato non
riuscirà quindi a rinnovare il debito avviandosi verso il default.
Il problema della disciplina della spesa pubblica ha quindi almeno tre implicazioni che debbono
essere tra loro coordinate: una implicazione costituzionale; una implicazione di politica
economica; una implicazione di natura comunitaria. Un tempo le prime due implicazioni erano le
più rilevanti, mentre oggi probabilmente può dirsi che è la terza a condizionare le prime due.
La implicazione costituzionale è connessa alla forma di Stato. Se la Costituzione delinea una
forma di Stato fortemente sociale, implicitamente ciò prelude ad una spesa pubblica rilevante

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per mantenere "le promesse" che sono insite in questa forma di Stato. In questi casi è opportuno
che la Costituzione preveda vincoli stringenti per le procedure di spesa, onde evitare che la
decisione di spesa e di indebitamento sia condizionata più che dall’efficienza o dall'opportunità
di fornire questo o quel servizio, da ragioni di conquista di voto. Infatti il metodo meno costoso -
politicamente - per finanziare le spese, è proprio quello di finanziarle in deficit, perché così può
apparire che tutti guadagnino e che nessuno perda (Buchanan).

Il secondo tema riguarda invece la politica economica, perché afferisce alle modalità di sviluppo
della economia di uno Stato. Ad esempio in certe circostanze si può pensare che occorrano
politiche economiche restrittive (quando ad esempio vi è domanda molto alta), oppure al
contrario quando il ciclo economico è in contrazione può ritenersi che occorrano politiche
pubbliche espansive per sostenere una domanda debole. In generale questo tema è tra i più
dibattuti tra gli economisti. I keynesiani riterranno che la spesa pubblica può essere necessaria
quando la domanda sia molto debole sino a giustificare disavanzi di bilancio (e quindi il ricorso
all'indebitamento per sostenerla sia utile e finanche necessario), mentre i monetaristi della
scuola di Friedman negheranno che una politica espansiva possa avere alla lunga effetto sul
reddito reale. Lo strumento costituzionale pertanto, pur nell'ambito della previsione di principi
come si ad- dice ad una norma costituzionale, non potrà non propendere per un indirizzo
economico piuttosto che per un altro.
Il terzo tema riguarda l'Europa. A seguito dell'ingresso nella moneta unica gli Stati aderenti non
possono più effettuare scelte di politica economica completamente autonome. Tutti gli Stati
aderenti alla moneta unica dovrebbero avere fondamentali economici sani e sostanzialmente
omogenei per non mettere a rischio la stabilità della moneta stessa. Dai ed. parametri di
Maastricht, necessari per entrare nell'euro, sino ai più recenti provvedimenti che vedremo tra
breve, l'Europa condiziona la politica economica degli Stati membri, cercando di imporre
politiche "sane" di bilancio, principalmente in funzione di garantire la stabilità della moneta unica.

9.1. La disciplina della spesa pubblica nella Costituzione: l'art. 81 nella sua formulazione
originaria

La disciplina della spesa pubblica è delineata nella nostra Costituzione nell'art. 81. Si tratta di un
solo articolo, assai stringato nella sua formulazione, che tratta esclusivamente del bilancio dello
Stato. Tale norma riflette un tempo nel quale la spesa pubblica non costituiva un problema da
contenere ed anzi era necessaria per ricostruire una economia disastrata dalla guerra, i vincoli
alle leggi di spesa come vedremo erano assai pochi, non vi erano leggi collegate al bilancio dello
Stato (la c.d. legge finanziaria è stata disciplinata negli anni settanta con una legge ordinaria).
L'art. 81 della Costituzione è stato modificato recentemente sulla spinta dell'Unione Europea e
della crisi economica. Vedremo nel prossimo paragrafo le ragioni e la portata delle modifiche.
Nel vecchio testo l'art. 81 disciplinava il bilancio dello Stato stabilendo alcuni principi abbastanza
semplici nell'ottica di assicurare un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite dello Stato.
In primo luogo l'art. 81 prevedeva che le Camere dovevano approvare ogni anno il bilancio
preventivo e il rendiconto consuntivo presentato dal Governo. Il bilancio preventivo è il
documento con il quale vengono rap- presentate le entrate e le uscite che nel corso dell'anno
successivo lo Stato prevede di incassare e di spendere sulla base della legislazione vigente. La
legge di approvazione del bilancio ha dunque una funzione principalmente di controllo del
Parlamento rispetto al Governo; inoltre, non potendo prevedere nuovi tributi e nuove spese,
essa è normalmente definita come una legge "meramente formale", cioè una legge che ha la
forma dell'atto legislativo, ma non innova nell'ordinamento giuridico, rappresentando
sostanzialmente una fotografia dell'esistente.
Il principio dell'equilibrio di bilancio era poi rafforzato, teoricamente almeno, dall'ultimo comma
dell'art. 81, dove la Costituzione stabilisce che "ogni altra legge che importi nuove o maggiori
spese deve indicare i mezzi per farvi fronte" (principio di copertura economica delle leggi di

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spesa). La norma fu voluta da Einaudi proprio per rafforzare il principio dell'equilibrio di bilancio
ed evitare un ricorso eccessivo alla spesa pubblica senza la presenza delle necessarie
coperture finanziarie, ma si è dimostrata nella prassi assai meno stringente di quanto lo fosse
nelle intenzioni del legislatore costituzionale.
In primo luogo si è invalsa la prassi di considerare necessaria la copertura per l'esercizio in
corso, ma non necessariamente per gli esercizi successivi. Dunque si potevano stabilire spese
basse inizialmente, ma crescenti negli anni successivi. Questa prassi fu avallata dalla Corte
costituzionale che con una sentenza (Corte cost. n. 1 del 1966), sostenne che l'obbligo di
copertura doveva essere rispettato puntualmente nell'esercizio in corso e meno puntualmente
per gli esercizi successivi, per i quali poteva valere la previsione di una crescita delle entrate,
sufficientemente sicura, non arbitraria e irrazionale, in equilibrato rapporto con le spese. Questa
interpretazione dell'art. 81, in definitiva, consentiva la possibilità di assumere un impegno di
spesa per anni a venire basato non sulla esistenza di una parallela entrata, ma sulla
"sufficientemente sicura previsione" di una crescita delle entrate (ad esempio crescita del gettito
fiscale in conseguenza di una crescita del PIL del paese).

In secondo luogo la norma in sé non vietava affatto di coprire le nuove spese attraverso il
ricorso all'indebitamento (emissione di strumenti di debito da parte dello Stato), e dunque non
poteva costituire uno strumento di freno nei confronti di un eccessivo indebitamento da parte
dello Sta- to. Poiché l'art. 81 pone i principi essenziali sulla decisione di bilancio, ma non può
aggiungere nuove entrate e nuove spese rispetto a quelle già esistenti, negli anni è emersa la
necessità di uno strumento di politica economica, maggiormente flessibile del bilancio, che
potesse riesaminare i flussi di spesa in relazione agli obbiettivi di politica economica.

La legge n. 468 del 1978 (modificata poi dalle leggi nn. 362 del 1988 e 208 del 1999) introdusse
allora la c.d. "legge finanziaria". La legge finanzia- ria aveva la funzione di individuare nuove
entrate e nuove uscite ed era in sostanza libera di produrre qualunque effetto finanziario, ma nel
corso degli anni è divenuta uno degli strumenti attraverso i quali si è aggravato il debito pubblico
dello Stato. All'interno della legge finanziaria trovavano infatti spazio molteplici interventi di
spesa a carattere localistico o microsezionale, coperti attraverso l'indicazione, nella stessa
legge, del livello massimo di indebitamento annuale. Sembrava così realizzarsi il classico
schema economico descritto da Schumpeter, secondo il quale il finanziamento della spesa
pubblica in deficit è vantaggioso per gli uomini politici e per l'ottenimento del consenso, poiché
sembra che vi siano "soltanto persone che traggono direttamente vantaggi e che non ci siano
persone svantaggiate".
Come conseguenza l'indebitamento è però progressivamente salito si- no a superare
ampiamente livelli di guardia nel corso della crisi economica iniziata nel 2008. L'eccesso di
indebitamento dello Stato ha prodotto un aumento del costo del debito (se gli investitori
ritengono rischioso lo strumento finanziario di debito emesso dal paese per comprarlo richiedo-
no un tasso maggiore), facendo divenire molto costoso e difficile il rifinanziamento del debito. Il
problema invero non era solo italiano (Grecia, Portogallo, Spagna ed altri paesi c.d. periferici
dell'Unione Europea si so- no trovati in situazioni peggiori) e tutto ciò rischiava di minare la
stabilità della moneta unica.
Sono dunque stati effettuati vari interventi di sostegno ai paesi in difficoltà. A livello europeo
prima sono stati istituiti strumenti finanziari temporanei per sostenere gli Stati in difficoltà quali il
Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria e il Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria.
Poi si è concordato l'istituzione di uno strumento permanente, il c.d. Meccanismo Europeo di
Stabilità, avviando una riforma dei trattati affiancata dalla firma di un Trattato sottoscritto dai soli
Stati appartenenti alla moneta unica (eurozona).
Si è previsto un esame preventivo in sede europea dei bilanci e dei patti di stabilità dei singoli
paesi, ed infatti, come vedremo, l'Italia ha modificato il proprio ciclo di bilancio raccordandolo alle
esigenze comunitarie. Si è infine concordato, tra i paesi dell'Eurozona, un patto (c.d. Fiscal
Compact) che vincola gli Stati a perseguire il pareggio di bilancio, impegnandoli ad inserire

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questo principio nelle proprie costituzioni ed obbligandoli ad intraprendere un percorso "virtuoso"
di progressiva riduzione del debito pubblico.

9.2. Il nuovo art. 81 della Costituzione: Ulisse e le sirene

Il deficit eccessivo degli Stati, la grave crisi finanziaria che ha colpito nel 2011 i debiti pubblici dei
paesi c.d. periferici dell'Unione Europea, la lunga crisi economica, hanno determinato una
notevole accelerazione nel dibattito sulla governance economica dell'Europa.
Nel marzo 2011 i paesi dell'Eurozona ed altri Stati membri dell'UE hanno stipulato il c.d. “Patto
Europlus" al fine di attuare un coordinamento più stretto delle politiche economiche per la
competitività e la convergenza". Il patto impegna altresì gli aderenti: "a recepire nella
legislazione nazionale le regole di bilancio dell'UE fissate nel patto di stabilità e crescita", pur
precisando che "gli Stati membri manterranno la facoltà di scegliere lo specifico strumento
giuridico nazionale cui ricorrere ma faranno sì che abbia una natura vincolante e sostenibile
sufficientemente forte (ad esempio costituzione o normativa quadro)". La normativa comunitaria
sulle politiche di bilancio dei singoli Stati membri si è ulteriormente incrementata tra il 2011 e il
2012, con l'emanazione di ben 5 regolamenti e di una direttiva (c.d. six pack) che hanno inciso
sulle competenze di politica economica delle istituzioni nazionali, con conseguente ampliamento
di quelle comunitarie. E stato poi approvato un nuovo Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e
sulla governance nell'Unione economica e monetaria. Il Trattato recepisce le novità contenute
nel c.d. six-pack e introduce il c.d. Fiscal Compact, che mira a rafforzare la disciplina di bilancio
degli Stati firmatari e accentua i poteri di coordinamento e di controllo dell'Unione Europea sulle
politiche economiche degli Stati.
In estrema sintesi il c.d. Fiscal Compact stabilisce che la posizione di bilancio della Pubblica
Amministrazione debba essere in pareggio o in avanzo (precisando poi quando ciò si intende
rispettato). Inoltre: “quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte
contraente supera il valore di riferimento del 60% ... tale parte contraente opera una riduzione a
un ritmo medio di un ventesimo all'anno". E inoltre prevista la comunicazione ex ante al
Consiglio dell'Unione Europea e alla Commissione europea di piani di emissione di strumenti di
debito pubblico, nonché l'istituzione di un organismo indipendente di sorveglianza, responsabile
a livello nazionale del rispetto dei vincoli comunitari.
Il Trattato prevede anche che nel caso in cui uno Stato si trovi in una situazione di eccessivo
disavanzo, debba predisporre un programma con una descrizione delle riforme strutturali da
porre in essere per la correzione del disavanzo. Il programma è approvato dal Consiglio e dalla
Commissione; in caso di inottemperanza al programma gli altri Stati possono adire la Corte di
Giustizia che emana una sentenza vincolante.
Gli Stati che abbiano ratificato il Fiscal Compact possono beneficiare del fondo salva Stati
previsto dal Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (MES).
Infine, per garantire il raggiungimento e il mantenimento di queste condizioni gli Stati contraenti
sono obbligati ad introdurre nei rispettivi ordinamenti: “disposizioni vincolanti di natura
permanente - preferibilmente costituzionale - o il cui rispetto fedele è in altro modo
rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio".
Anche alla luce di questi impegni assunti in sede comunitaria l'art. 81 della Costituzione è stato
modificato sostanzialmente attraverso la legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, intitolata
"Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale". La legge, all'art. 1,
modifica l'art. 81 della Costituzione; all'art. 2 modifica l'art. 97 della Costituzione; agli artt. 3 e 4
modifica gli artt. 117 e 119 della Costituzione; all'art. 5 definisce il contenuto della legge di
bilancio.
La ratio principale della modifica sta nell'impedire - o come vedremo fortemente limitare - il
ricorso all'indebitamento, stabilendo quindi una sorta di principio generale costituzionale del
pareggio del bilancio dello Stato, che viene poi esteso attraverso le modifiche sopra citate degli
artt. 97, 117 e 119 alle pubbliche amministrazioni, statali e regionali.

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Nell'ambito dell'art. 81 la modifica costituzionale conferma il principio ella necessaria copertura
delle leggi di spesa (ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi
fronte) ma il principio dell'equilibrio di bilancio è fortemente rafforzato con altri strumenti. Questo
principio è in primo luogo esplicitato dal 1° e dal 2° comma dell'art. 81 della Costituzione: "Lo
Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi
avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico
e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi
componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.
Mentre il 6° comma specifica che: “il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i
criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del
debito complessivo delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuno Camera, nel rispetto dei principi definiti con
legge costituzionale".
In sintesi dunque l'art. 81 stabilisce:
a) il principio dell'equilibrio del bilancio assume valore costituzionale. I criteri per assicurare
l'equilibrio sono stabiliti con una legge ordinaria approvata tuttavia a maggioranza assoluta
(si tratta quindi di una legge rinforzata).
b) Il ricorso all'indebitamento può avvenire solamente al verificarsi di eventi eccezionali (gravi
recessioni economiche, crisi finanziarie, gravi calamità naturali) che debbono essere
precisati dalla legge rinforzata di cui al 2° comma.
c) In presenza di eventi eccezionali i criteri per assicurare l'equilibrio tra entrate e spese sono
comunque definiti con la Legge ordinaria approvata con la maggioranza assoluta ili cui al 6°
comma dell'art. 81 (altra legge rinforzata).
In definitiva l'art. 81 nuovo testo della Costituzione pone in maniera "forte" il principio del
pareggio del bilancio. Sono certamente possibili alcune eccezioni, ma nell'ottica costituzionale
queste eccezioni debbono essere motivate da ragioni a loro volta straordinarie, e comunque il
Governo deve essere autorizzato all'indebitamento con una legge approvata a maggioranza
assoluta. Tale principio inoltre costituisce, nell'ottica europea, solo il punto di partenza di un
tracciato virtuoso finalizzato alla diminuzione dell'indebitamento (secondo un percorso con vari
indicatori previsto nel c.d. "Fiscal Compact").
Ma è utile o dannosa la fissazione in Costituzione del principio del pareggio di bilancio? E
perché la Costituzione rinvia, sia per la definizione delle situazioni eccezionali che possono
giustificare il ricorso all'indebitamento, sia per l'autorizzazione all'indebitamento, ad una legge
approvata a maggioranza assoluta?
La prima questione pone un tema assai dibattuto tra gli economisti rispetto al quale è possibile
solo una risposta di sintesi largamente incompleta.
Certamente si può rilevare che il nuovo art. 81 costituisce, rispetto al precedente, una scelta di
campo finalizzata ad impedire allo Stato di por- re in essere politiche di c.d. "deficit spending",
cioè di sostegno all'economia attraverso politiche di spesa. Senza voler entrare nel merito se le
politiche di deficit spending nel lungo periodo siano utili a produrre una crescita strutturale
dell'economia, è assai evidente che lo Stato Italiano, con un deficit sia in termini assoluti di stock
che in termini relativi di incidenza sul PIL, non può e non potrà permettersi per moltissimi anni
politiche di tale genere, pena il rischio di non riuscire a rifinanziare il proprio debito.
Sulla questione generale della utilità di un vincolo di tale fatta, anche le risposte degli
economisti, peraltro, non danno alcuna certezza.
Nel 1982 - in tempi non sospetti potremmo dire - un notissimo economista, Franco Romani,
intitolava un saggio “regole costituzionali e politica economica. Il principio del pareggio di
bilancio”, nel quale si poneva il problema se sia utile ed opportuna la costituzionalizzazione della
regola del bilancio in pareggio.
Dopo aver analizzato il pensiero degli economisti di scuola Keynesiana, per i quali la regola
rigida del pareggio di bilancio destabilizzerebbe l'economia (e dunque la regola costituzionale
del pareggio sarebbe assolutamente controproducente); dopo aver analizzato gli economisti

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della scuola di Friedman secondo i quali al contrario l'effetto reale di un au- mento delle spese
pubbliche comporta unicamente la conseguenza di spalmare l'onere su di una collettività con
una equivalente riduzione degli investimenti privati (e dunque l'equilibrio di bilancio è altamente
desiderabile); dopo aver analizzato il pensiero della "nuova macroeconomia classica" secondo
cui finanziare le spese pubbliche con imposte o con ricorso al debito è perfettamente
equivalente, e dunque dopo aver concluso che da un punto di vista di politica economica
l'opportunità del pareggio o meno dipende dalla scuola di pensiero, giunge tuttavia alla
conclusione che la fissazione di una regola sull'equilibrio di bilancio è desiderabile ma per una
ragione di natura diversa. Romani ricorda ancora Schumpeter secondo il quale: "La logica della
concorrenza politica tende a far sopravvivere gli uomini politici che ottengono più voti. Quindi se
vi sono dei metodi con cui si può facilmente ottenere voti (come potrebbe essere ad esempio il
disavanzo) questi saranno necessariamente impiegati e ciò an- che se ogni uomo politico ritiene
che questi metodi alla lunga possano essere dannosi ... In una economia concorrenziale in cui
tutti possano inquinare, il singolo imprenditore amante della natura dovrà continuare ad
inquinare a pena di essere buttato fuori dal mercato".
In definitiva dato che la tendenza a finanziare le spese in deficit è ineliminabile in un sistema
politico, può essere interesse degli stessi uomini politici avere delle regole costituzionali
limitative. In questo campo la Costituzione diviene una sorta di strumento di protezione da sé
stessi. Come ha efficacemente scritto Tommaso Padoa Schioppa: "Ulisse non vuole rinunciare
ad ascoltare il canto delle sirene. Non ha la forza di resistere al canto ma conosce la propria
debolezza; e ha la saggezza di farsi legare. Egli è dunque più forte e più debole delle sirene.
Questo è il senso di dar- si una Costituzione: impedire che, quando il canto delle sirene si fa più
dolce, Ulisse perda la capacità di condurre la barca.
Nel governo dell'economia è forte l'impulso a seguire le ragioni del cuore, a distribuire oggi ciò
che sarà prodotto domani, a considerare che un comando o una autorizzazione - se sostenuti da
adeguato consenso - possono prevalere sulle leggi della “scienza triste”.
La regola costituzionale dell'equilibrio di bilancio è dunque alla fine necessaria perché in sua
assenza sono i meccanismi del processo politico democratico che rischiano di portare ad una
espansione del disavanzo indipendentemente dalle esigenze dell'economia.
Le cose sino a qui dette spiegano anche le ragioni delle due leggi che debbono essere
approvate a maggioranza assoluta - e che dunque senza essere leggi costituzionali sono però
leggi rinforzate - per definire le situazioni eccezionali che consentono di ricorrere
all'indebitamento e per autorizzare il Governo all'indebitamento. La legge rinforzata è in primo
luogo richiesta sia dall'accordo Euro- plus e poi dal Fiscal Compact allorquando si afferma che
gli Stati con- traenti sono obbligati ad introdurre nei rispettivi ordinamenti "disposizioni vincolanti
di natura permanente - preferibilmente costituzionale - o il cui rispetto fedele è in altro modo
rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio".
La maggioranza assoluta costituisce, in definitiva, una garanzia della tenuta della regola
costituzionale, onde evitare che maggioranze estemporanee possano far prevalere le ipotesi
configurate come eccezionali sulla regola.

9.3 Il ciclo europeo di bilancio

Il “ciclo” del bilancio dello Stato è stato riformato dalla legge 31 dicembre 2009 n.196 e
poi dalla legge 7 aprile 2011, principalmente allo scopo di adeguare e coordinare i tempi
ed i contenuti della programmazione finanziaria ai vincoli stringenti dell'Unione Europea. La
necessità di un raccordo sempre più stretto tra le politiche economiche comunitarie e le politiche
economiche dei singoli Stati è emerso, del resto, in maniera assai forte nel corso della crisi
finanziaria iniziata nel 2008. Essa è divenuta oggi una assoluta necessità, per difendere la
stabilità della moneta unica di fronte alla crisi del debito.
Il ciclo di bilancio italiano è dunque condizionato dalle regole e dai pro- cessi decisionali
dell'Unione Europea, che interviene inizialmente a monte del processo, definendo il quadro

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complessivo macroeconomico dell'Unione Europea, ed a valle della fase programmatoria dei
Governi, valutando, come vedremo, gli strumenti generali di politica economica degli Stati
membri. La sessione di bilancio, nella quale vengono approvati gli strumenti fondamentali della
politica economica dello Stato, quali il bilancio di pre- visione e la legge di stabilità (che inizia il
15 di ottobre per finire entro il 31 dicembre), costituisce quindi solo la fase terminale di un ciclo
integrato di bilancio che ha una durata annuale, con tempi certi, e con numerosi interventi
dell'Unione Europea.
Entro la fine di gennaio di ciascun anno la Commissione UE elabora l'analisi annuale sulla
crescita economica europea e poi, su proposta della Commissione, nel mese di marzo il
Consiglio UE approva le c.d. "linee guida" relative ai principali obbiettivi di politica economica,
indicando altresì le possibili riforme per perseguirle. Le linee guida sono importanti, perché
tracciano il quadro di politica economica generale, condiviso a livello comunitario, all'interno del
quale tutti gli Stati membri dovranno effettuare i loro interventi di programmazione economica.
Preso atto delle linee guida il Governo, entro il mese di aprile, deve presentare alle Camere il
c.d. Documento di economia e finanza (DEF).
Questo documento contente sostanzialmente tre cose: analizza l’andamento
dell’economia e dei conti pubblici; contiene la proposta di aggiornamento del programma di
stabilità (che contiene gli obbiettivi di finanza pubblica da perseguire nei successivi tre anni);
propone l'aggiornamento del programma azionale di riforma (che contiene le riforme necessarie
per il raggiungimento degli obbiettivi). Si tratta dunque di uno strumento di programmazione
economica che dovrà essere implementato da leggi ordinarie. Infatti, in allegato al documento vi
sono poi i c.d. disegni di legge collegati alla manovra finanziaria, che servono per modificare
l'ordinamento vigente rispetto agli obbiettivi prefissati nel DEF.
Questo documento è poi inviato a Bruxelles, poiché il Consiglio Europeo dovrà valutare i
programmi di stabilità degli Stati, fornendo eventuali indicazioni di modifica sino alla possibilità di
chiedere la intera revisione del programma (entro il 31 di luglio).
Si tratta a tutta evidenza di un potere molto forte dell'Unione Europea perché va ad incidere nel
cuore della sovranità degli Stati (gli obbiettivi di finanza pubblica, le riforme per conseguirli),
condizionando le scelte successive dello Stato.

Nel frattempo, entro il 30 di giugno, il Governo presenta alle Camere il rendiconto generale dello
Stato (si tratta sostanzialmente del bilancio consuntivo relativo all'anno precedente) nonché
eventualmente il c.d. di- segno di legge di assestamento per riportare i conti in linea con gli
obbiettivi, qualora vi siano stati degli scostamenti.
A questo punto il Governo ha già ottenuto le eventuali indicazioni sul DEF da parte dell'Unione
Europea, e quindi, su queste basi, entro il 20 di settembre, presenta la nota di aggiornamento
del documento di economia e finanza, che recepisce le indicazioni dell'Unione Europea.
Definito così il quadro programmatorio, entro il 15 di ottobre il Governo deve presentare sia il
disegno di legge di bilancio che il disegno di legge di stabilità (la “vecchia” legge finanziaria ha
ora assunto questo nome).
La legge di stabilità è un documento fondamentale perché costituisce lo strumento con il quale si
deve far sì che il bilancio dell'anno a venire corrisponda agli obbiettivi prefissati. La legge di
stabilità quindi, per esemplificare, contiene aumenti o riduzioni di tasse, modifiche di leggi di
spesa per eventualmente ridurne l'onere. Si tratta in sostanza, e principalmente, di interventi
sulle aliquote senza modificare tuttavia il quadro normativo complessivo.

Così delineata la legge di stabilità ha dunque un contenuto "tipico" assai diverso dalla
precedente legge finanziaria, all'interno della quale venivano collocati interventi di varia natura
sulla legislazione vigente. Il compito di modificare la legislazione vigente è infatti proprio dei ed.
disegni di legge collegati alla manovra finanziaria, che abbiamo detto essere allegati al DEF.

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PARTE III
L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO

CAPITOLO I
FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO

1. Forme di stato e forme di governo: prime definizioni

Il diritto, in ogni organizzazione sociale, disciplina tre grandi aree:


a) le relazioni, di natura verticale, tra autorità ed individui. In altre altre parole quali
comportamenti sono considerati come socialmente non desiderati e che quindi l’autorità
reprime, e quali comportamenti sono invece considerati da incoraggiare o incentivare.
b) Le relazioni di natura orizzontale tra individui, cioè le regole che disciplinano gli scambi tra
privati, ma anche rapporti sociali a contenuto non esclusivamente patrimoniale.
c) Le relazioni organizzative tra le autorità dotate di poteri pubblici, e quindi in generale il
modello organizzativo del potere pubblico.

Le forme di Stato possono così definirsi come la risultante dei diversi modi attraverso i quali
queste due aree del diritto (relazioni di natura verticale e relazioni di natura orizzontale) sono tra
loro collegate. Si distinguerà allora lo Stato feudale, lo Stato assoluto, lo Stato liberale, ecc.
utilizzando come parametri di riferimento le regole che pongono in relazione il potere con
l’individuo e gli individui tra di loro.

La forma di Governo è qualificata in relazione alla terza area del diritto, che riguarda alle
relazioni organizzative tra le autorità di vertice dotate di poteri pubblici. Si distinguerà allora tra
forma parlamentare, presidenziale, assembleare, ecc. con espressioni che da un punto di vista
linguistico sono incentrate, sugli organi di vertice dello Stato dotati di poteri pubblici.

Da queste definizioni deriva ancora che la forma di Stato è una classificazione più ampia della
forma di Governo. All’interno di una forma di Stato, possono esservi astrattamente forme di
Governo diverse, tenendo sempre conto che la forma di Governo appare in un certo qual modo
un riflesso della forma di Stato, cosicché le sue caratteristiche sono necessariamente influenzate
dalla forma di Stato.

2. L’ordinamento feudale: la sovranità basata sul diritto privato

L’ordinamento feudale costituisce il punto di partenza storico di ogni analisi, poiché questo
ordinamento non è ancora qualificabile come forma di Stato, ma costituisce il presupposto per il
formarsi della della prima forma di Stato, cioè lo Stato assoluto. Questo ordinamento è
caratterizzato da un sistema di autorità la cui legittimazione è data da un mero rapporto
privatistico di scambio, a differenza dello Stato che può essere definito come quella
organizzazione caratterizzata dal poter esercitare un potere, su di un determinato territorio e
rispetto alla popolazione ivi stanziata.

Il Re era troppo lontano per poter essere forte e garantire sicurezza e possibilità di commerci,
così in assenza di regole superiori le popolazioni si organizzarono stabilendosi vicino al castello,
dove si trovava il feudatario che dettava e applicava le regole, amministrando la giustizia nei
confronti delle sue popolazioni. Le popolazioni, a loro volta, fornivano al feudatario prodotti della

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terra e lavoro in cambio della protezione e della garanzia di una autorità che facesse rispettare
le regole.

In questo modello organizzativo potere pubblico e relazioni private sono confuse ed intersecate,
mentre l’esercizio delle classiche funzioni pubbliche - sicurezza, determinazione delle regole,
applicazione delle regole - costituiva la risultante di un rapporto privatistico di scambio e non
invece di un rapporto pubblicistico di investitura.
Questo primo modello organizzativo iniziò ad evolversi tra il IX e il X secolo, quando si modificò
la struttura della società con la nascita delle nuove classi dei mercanti, banchieri e dei funzionari,
embrione nascente della burocrazia, diventando così la struttura organizzativa del feudatario più
complessa.

In sintesi l’ordinamento feudale si basava sui seguenti presupposti:


a) inesistenza di un potere pubblico derivante dalla sovranità;
b) l’esercizio delle funzioni pubbliche come conseguenza di rapporti privatistici;
c) percorso di trasformazione che iniziò nel momento del formarsi di un apparato burocratico.

3. Lo stato assoluto: la sovranità unica e indivisibile

La nascita dello Stato in senso moderno, come entità di sovranità originaria, in grado di
esercitare funzioni pubbliche in conseguenza di tale sovranità e non invece basato su rapporti di
scambio di natura privatistica, si sviluppo progressivamente intorno al 1400, attraverso un
progressivo processo di accentramento funzioni e di compiti. Si può dire che la burocrazia,
esercito e sistema tributario, costituiscono le fondamenta sulle quali nasce lo Stato moderno,
come ente non più basato sugli strumenti del diritto privato ma bensì dotato di strumenti
pubblicistici per perseguire finalità pubbliche.

I Sovrani, eliminando i poteri che si erano formati nel periodo feudale e medievale, dovettero
concentrare progressivamente il potere nelle proprie mani. Il Re divenne dunque titolare della
funzione legislativa e di quella esecutiva, mentre la funzione giudiziaria era esercitata da Corti e
Tribunali formati da giudici da lui stesso nominati. La concentrazione del potere, cioè, avvenuto
attraverso la concentrazione delle funzioni dello Stato nelle mani del Sovrano, che aveva il
potere di fare le leggi, di attuarle, e, attraverso i giudici da lui nominati, di risolvere le
controversie connesse all’applicazione delle leggi.

Il primo effetto istituzionale di questa concentrazione di potere fu però la progressiva


eliminazione degli antichi parlamenti medievali. Anche le funzioni esecutive si concentrarono
nelle mani del Sovrano, perchè per dirigere le principali funzioni dello Stato il Re si serviva di
ministri da lui direttamente nominati e di sua fiducia, che non erano indipendenti al sovrano,
essendo revocabili ad nutum1. La soppressione dei Tribunali feudali fece poi sì che anche il
potere giudiziario si concentrasse nelle mani del Re, divenendo del pari un potere sempre più
importante, dato che il Sovrano poteva “creare” diritto in maniera ampiamente discrezionale,
direttamente giudicando il caso concreto.

Questo accentramento di potere e funzioni portò alla costituzione di uno Stato in senso proprio,
perchè fondato sull’esercizio di un potere pubblico, con la caratteristica tuttavia che siccome
l’esercizio di questi poteri non aveva alcun limite, i sudditi erano privi di diritti tutelabili.

1 Ad nutum: in maniera libera

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La realizzazione in Europa dello Stato assoluto si sviluppo però con caratteristiche diverse: si
trattò di un assolutismo pieno in Francia, più frazionato in Germania, mentre in Inghilterra
esistevano ancora strutture intermedie feudali.

Lo Stato assoluto, nel tardo settecento, si trasformò nello stato di polizia, in cui il potere
sovrano ha la funzione di garantire il benessere collettivo, cosicché il monarca non è più titolare
di un potere illimitato sui beni e sulle persone e da un punto di vista delle garanzie, lo Stato offre
tutela ai cittadini attraverso gli atti c.d. “di gestione”.

In sintesi le caratteristiche dello Stato assoluto sono collegate a:


a) la nascita del concetto di “sovranità” come potere unitario, supremo e incondizionato,
incardinato nel Re;
b) la concentrazione delle funzioni dello Stato - legislative, esecutive, e giudiziarie - nelle mani
del sovrano;
c) la subordinazione dei cittadini al potere del sovrano e la assenza di diritti garantiti.

4. Lo stato liberale: il principio della separazione dei poteri

Lo Stato liberale si fonda su alcuni presupposti nuovi rispetto ai modelli precedenti: la esistenza
di una base sociale, come la borghesia, le carte costituzionali concesse dal Sovrano, il principio
rappresentativo, il principio di separazione dei poteri, i diritti di libertà intesi come libertà negative
(cioè libertà dello Stato). Dall'applicazione di questi principi deriva anche la qualificazione dello
Stato liberale come "STATO DI DIRITTO".

La classe borghese aveva necessità di garanzie su alcuni diritti fondamentali e in particolare su


alcune libertà economiche, inoltre, non era disponibile a concedere un potere assoluto al
Sovrano, volendo al contrario partecipare anche essa alla vita politica dello Stato. Le carte
costituzionali ottocentesche nacquero quindi come accordi tra il Sovrano e quella classe sociale,
accordi costituzionali attraverso i quali il Sovrano limitava alcuni suoi poteri a vantaggio della
borghesia emergente.
Queste carte costituzionali enunciano i diritti di libertà ai quali la classe borghese era
principalmente interessata (libertà economiche, tutela del diritto di proprietà, ecc.) e determinano
anche l'organizzazione del potere, limitando le tradizionali funzioni del Sovrano. Esse si fondano
sul principio rappresentativo (sia pure parzialmente perchè il suffragio era ristretto) e sulla teoria
della separazione dei poteri.
Per difendere le proprie libertà, la classe borghese doveva poter essere rappresentata in
Parlamento, affinché le leggi fossero espressione dei propri interessi. La legge del Parlamento
divenne così lo strumento principale di garanzia dei diritti di libertà della borghesia, perchè
grazie al suffragio limitato i Parlamenti erano composti in maniera socialmente omogenea, e
dunque in grado di produrre leggi che rispecchiassero gli interessi della classe che vi era
rappresentata. D'altra parte occorreva pure che il Sovrano non fosse titolare di tutte le funzioni e
i poteri dello Stato, che altrimenti la garanzia di cui sopra sarebbe stata inutile.

Il principio di separazione dei poteri - L'idea fondamentale di Montesquieu è che i tra poteri che
caratterizzano le funzioni principali dello Stato ( legislativo, esecutivo, giurisdizionale) debbono
essere separati, poiché se sono separati si possono arrestare ed impedire a vicenda, il che è
garanzia di libertà individuale.

La evoluzione sociale e il nuovo modello organizzativo modificano però la forma di Stato che
non è più qualificabile come assoluta: la sovranità, grazie al principio di separazione dei poteri
non è illimitata, grazie alla Costituzione alcuni diritti di libertà vengono riconosciuti e in
conseguenza della omogenea composizione dei Parlamenti, la legge diventa garanzia di quei
diritti. Se tuttavia la legge è superiore rispetto alle altre fonti, anche gli atti della pubblica autorità

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sono sottoposti alla legge, debbono rispettarla, e se non la rispettano sono appunto invalidi
(Stato di diritto). Questa forma di stato non si fonda più sulla autorità di un Sovrano che non
conosceva limiti, ma sulla supremazia della legge in quanto espressione di un organo
rappresentativo.

Lo Stato liberale è anche uno Stato che potremmo definire, con terminologia moderna, leggero e
non interventista. Le libertà del singolo sono dunque principalmente costruite come libertà dello
Stato, definite per questo anche come libertà negative, nel senso che il contenuto essenziale del
diritto di libertà sta proprio nella sua intangibilità da parte dello Stato e nel suo realizzarsi
attraverso il non intervento del potere pubblico.

In sintesi gli Stati liberali presentano le seguenti caratteristiche:


a) si basano su una classe omogenea quale la borghesia;
b) si fondano su Costituzioni concesse dal Sovrano ispirate al principio di separazione dei
poteri;
c) le Costituzioni contengono diritti di libertà configurabili come libertà dello Stato e garantite
dalla legge.

5. La crisi dello stato liberale tra le due guerre. L'avvento degli stati totalitari

Questo modello rappresentativo, tuttavia, iniziò a mutare intorno al primo decennio del 1900,
quando i ceti operai e proletari si affacciarono sulla scena politica attraverso i grandi partiti di
massa, tentando infatti di bilanciare il potere della borghesia. L'omogeneità sociale, era ormai
finita: la società divenne pluralista, e il riflesso di questo nuovo pluralismo fu la nascita di partiti
politici portatori di istanze tra loro conflittuali.

La legge, che nell'ottocento costituiva la garanzia della classe borghese divenne rappresentativa
solo di una maggioranza, alla quale si contrapponeva una minoranza che non solo non si
riconosceva e non si riteneva garantita dalla legge, ma che spesso le era addirittura ostile. In
Italia e in Germania la conflittualità sociale e la incapacità della borghesia di modificare il quadro
istituzionale per contenere le spinte dei partiti di massa, aprì la strada agli Stati totalitari.

La Costituzione di Weimar è stata probabilmente la prima Costituzione che garantiva i diritti


sociali e che prevedeva norme finalizzate a diminuire le disuguaglianze sociali. Questa
Costituzione fu in grado di resistere sino alla grande crisi del '29, fino a quando l'instabilità
politica e le crisi di Governo aprirono la strada al nazionalsocialismo di Hitler. In Italia si verificò
un percorso per certi versi analogo fino a quando si aprì la strada al fascismo.

Nazionalsocialismo e fascismo sono modelli di Stati totalitari. Essi si fondano sul principio del
PARTITO UNICO, che esclude concettualmente la stessa possibilità di un opposizione. Il capo
del partito unico è anche capo del Governo e sul Governo sono accentrate tutte le funzioni dello
Stato (il principio di separazione dei poteri non è applicabile in questi modelli).

In sintesi gli stati totalitari presentano le seguenti caratteristiche:


a) esistenza di un partito unico ed eliminazione della opposizione;
b) concentrazione nel capo del partito delle funzioni fondamentali dello Stato con conseguente
eliminazione della separazione dei poteri;
c) supposta identificazione tra interesso dello Stato e interesse dei singoli, le cui libertà sono
pertanto piegate all'interesse dello Stato come determinato dal capo del partito.

6. Lo stato costituzionale a matrice sociale: pluralismo e crisi della sovranità

Dopo la seconda guerra mondiale gran parte degli Stati dovevano darsi un nuovo assetto

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costituzionale. Questi Stati sono definibili come "costituzionali" e "sociali", poiché all'interno di
una Costituzione superiore rispetto alle leggi, i fini dello Stato sono improntati a rimuovere le
disuguaglianze tra cittadini che impediscono il godimento dei diritti civili e politici. Queste forma
di Stato sono un'evoluzione del modello liberale attraverso l'inserimento di ulteriori fini ed istituti.

Il principio della separazione dei poteri, il principio rappresentativo, il principio che la legge
costituisce uno degli strumenti principale di garanzia dei diritti, l'esistenza di libertà fondamentali
basate sul non intervento dello Stato (libertà negative), costituiscono l'architrave dei nuovi Stati
sociali. Ad essi tuttavia si aggiungono i nuovi istituti dettati dei fini "sociali" dello Stato e della
Costituzione, cosicché la forma di Stato che ne deriva è sostanzialmente diversa da quella
realizzatasi nel modello liberale.

Le libertà positive - se i fini dello Stato si sostanziano nel rimuovere le disuguaglianze, le libertà
non possono essere solo negative, ma soprattutto "positive", cioè caratterizzate da poteri di
intervento da parte dello Stato per poterle garantire. Il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto
all'assistenza sociale, ecc. caratterizzano le nuove Costituzioni di natura sociale.
La garanzia dei diritti e la garanzia per le minoranze si sposta dunque dalla legge alla
Costituzione, posto che negli Stati costituzionali la legge ha forza inferiore alla Costituzione, e
pertanto deve rispettarla. Nascono così istituti come le Corti costituzionali, che hanno il compito
di controllare la legittimità della legge rispetto alla Costituzione, garantendo così l'applicazione
dei diritti sanciti nella norma superiore.

Nello Stato costituzionale contemporaneo, nessun soggetto è titolare in via esclusiva del potere
sovrano.

È infine normalmente considerata caratteristica di questa forma di Stato, in contrapposizione allo


Stato liberale, l'esistenza di forme variegate di intervento pubblico nell'economia, che danno
luogo ad un sistema definito come di economia mista.

Lo Stato sociale, tuttavia, si differenzia dallo Stato socialista che aveva come obbiettivo
l'eliminazione dell'iniziativa privata e dell'economia di mercato.

In sintesi gli Stati costituzionali a matrice sociale presentano le seguenti caratteristiche:


a) esistenza di Costituzioni superiori rispetto alle leggi, contenenti non solo libertà negative ma
anche positive;
b) garanzie nei confronti della legge a tutela delle minoranze e dei diritti sanciti in Costituzione;
c) superamento della nozione storica di sovranità come categoria fondante il potere pubblico,
poiché nessun soggetto dispone a titolo esclusivo del potere sovrano.

7. La distinzione tra le forme di stato basata sul grado di decentramento dello stato

Le forme di Stato poi possono essere distinte in relazione alla struttura, accentrata o decentrata
dell'organizzazione del potere.
Gli Stati che concentrano le tre funzioni fondamentali al centro, sono detti Stati accentrati. Al
contrario, gli Stati nei quali alcune di queste funzioni sono attribuite a enti espressione di
autonomia territoriale, sono detti decentrati.

8. Criteri e metodi per la classificazione delle forme di Governo

Con la espressione "forme di Governo" si indica normalmente i diversi modi con i quali il potere
pubblico è distribuito, dalle norme costituzionali, tra gli organi di vertice dello Stato, nonché le
interrelazioni tra questi organi di vertice che queste stesse norme costituzionali pongono in
essere. Anche se la classificazione fondamentale delle forme di Governo muove dalle norme

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costituzionali, queste sono anche conseguenza della struttura sociale, delle caratteristiche "dei
canali di trasmissione" tra società e apparato dello Stato (i partiti politici), delle regole attraverso
le quali si realizza il meccanismo rappresentativo (i sistemi elettorali). Questi elementi non
derivano da norme costituzionali, ma sono perlopiù conseguenza della struttura sociale, sono
espressione di norme legislative ordinarie e di regole non scritte (convenzioni costituzionali).

In presenza di un sistema di partiti dato e di un determinato sistema elettorale, una forma di


Governo assume caratteristiche e modalità di funzionamento che caratterizzano specificamente
quella forma di Governo e che la distinguono da un'altra.

Inoltre nonostante forme di Stato e forme di Governo sono concettualmente distinte, ciò non
toglie che vi possono essere interferenze tra le due classificazioni, infatti non può negarsi che la
forma di Governo risente della forma di Stato nella quale si inserisce, mentre la forma di Stato
risente a sua volta della forma di Governo.

9. I presupposti condizionanti: separazione dei poteri e checks and balances

Tutte le forme di Governo dello Stato contemporaneo sono basate sul principio della
separazione dei poteri: il potere legislativo, che si sostanzia nel potere di approvare le leggi, il
potere esecutivo, che consiste nell'attuare queste leggi, il potere giudiziario che consiste, a sua
volta, nell'applicare le leggi ad una fattispecie concreta in pendenza di una lite.

Definizione di potere - Il potere è normalmente definito come un insieme di organi che esercitano
una funzione: è dunque la funzione, cioè l'esistenza di una medesima attività imputabile a più
organi che qualifica il potere in senso strutturale.

Il principio di separazione dei poteri serve dunque a garantire non solo che ci esercita una
funzione non deve esercitarne un'altra, ma anche che ci esercita una funzione deve controllare e
bilanciare l'esercizio dell'altra (checks and balances).

Il principio di separazione dei poteri è presente in tutte le forme di Governo contemporanee, sia
pure con modalità e con gradi di rigidità diversi: negli Stati Uniti questo principio conosce la sua
espressione più rigida, dove i meccanismi di nomina tendono a contrapporre gli organi anziché
collegarli, mentre in Europa è applicato con regole che tendono ad attenuarlo, dove nelle forme
di Governo parlamentari gli organi costituzionali sono tra loro legati da una relazione circolare (il
popolo elegge il Parlamento, il Parlamento elegge il Presidente della Repubblica, il Presidente
della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e il Governo, il Governo e il Parlamento sono
legati tra loro da un rapporto di fiducia).

10. I presupposti condizionanti: sistema dei partiti e sistemi elettorali

Gli altri presupposti condizionanti la forma di Governo sono la struttura di una determinata
società e il suo sistema dei partiti, oltre alle regole di comportamento degli organi costituzionali
(convenzioni) che a loro volta sono collegate al sistema dei partiti e al modello della legge
elettorale. Partiti e sistemi elettorali influenzano l'assetto di una forma di Governo. Si distinguerà
tra sistemi a multipartitismo estremo, multipartitismo moderato e sistemi bipartitici.

Le società fortemente disomogenee e frammentate negli interessi tendono ad esprimere un


numero elevato di partiti politici, con presenza anche di partiti collocati alle ali estreme,
tendenzialmente qualificabili come antisistema perchè portatori di istanze non compatibili con la
funzione di Governo. Questi sistemi sono quindi definibili come a multipartitismo estremo, poiché
i partiti sono numerosi e sono portatori di posizioni fortemente diversificate.

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Al contrario, società omogenee con la base sociale non troppo frammentata, tendono ad
esprimere un numero più ridotto di partiti, senza la presenza di ali estreme, o, quando esse vi
siano, esse non sono legittimate a governare. Questo sistema può essere quindi a
multipartitismo moderato (come nel caso francese o tedesco) o addirittura bipartitico, come nel
caso americano (repubblicani e democratici) o inglese.

Nei sistemi bipartitici le elezioni si sostanziano in una competizione tra due forze alternative che
si presentano alle elezioni ciascuna con a capo un leader ed un programma già definito. Il leader
che vince le elezioni assume la carica di Capo di Governo e si impegna a portare avanti il
programma politico. Il partito che non vince le elezioni costituisce l'opposizione, guidata dal suo
leader, e si prepara, con un programma alternativo, alle elezioni successive. In presenza di
sistemi politici fondati sul bipartitismo il sistema elettorale è sempre di tipo maggioritario.

Nei sistemi basati sul multipartitismo, invece, il sistema funziona diversamente a seconda della
tipologia di multipartitismo.

In presenza di situazioni di multipartitismo moderato, allorquando quindi non vi siano forti partiti
antisistema alle ali estreme, normalmente i modelli tendono a trasformarsi in bipolari. Quando un
sistema è di tipo bipolare la competizione elettorale si svolge non tra due partiti contrapposti,
come nel modello bipartitico, ma tra due coalizioni di partiti contrapposti con a capo un leader
della coalizione ed un programma definito sulla quale la coalizione concorda. Il leader della
coalizione che vince la competizione elettorale diviene naturalmente il capo del Governo e la
coalizione che ha perso costituisce l'opposizione e si prepara alle nuove elezioni.
Ovviamente il modello bipolare è fisiologicamente meno stabile del modello bipartitico, poiché la
sua stabilità deriva dall'entità della coesione della coalizione, e quindi, dalla coesione dei vari
partiti che tale coalizione compongono.

Nei sistemi basati sul multipartitismo estremo il sistema funziona ancora in maniera diversa. Il
modello non può essere bipolare perchè non è possibile formare coalizioni preventive
sufficientemente stabili, ma occorre creare una coalizione al centro eliminando le possibilità di
governo delle ali. In questi casi ogni partito si presenta alle elezioni ma senza una coalizione
predefinita. La coalizione verrà formata dopo, in base ai risultati ottenuti, intorno ad un
programma stilato successivamente alle elezioni. In questo modello la tenuta dalla coalizione è a
notevole rischio, poiché non esiste un patto preventivo tra le forze pubbliche "consacrato" dal
voto elettorale. Inoltre i programmi del Governo sono spesso ambigui largamente
compromissori, dato che ciascun partito che farà parte della coalizione tenderà a "ricattare" gli
altri minacciando il non ingresso o il ritiro dalla coalizione se non verranno portati avanti i punti
del programma politico. In questo modello inoltre, se pure dopo le elezioni è possibile formare
una maggioranza, non c'è mai invece una opposizione unitaria. Strutture politiche di questo
genere si basano su sistemi elettorali di tipo proporzionale. Il sistema elettorale non precede, ma
bensì segue il sistema sociale e politico.

I sistemi elettorali si distinguono in due grandi famiglie: i sistemi maggioritari e quelli


proporzionali. Nell'ambito di queste due grandi famiglie esistono il sistema maggioritario puro ed
il sistema proporzionale pure, e poi moltissime ibridazioni dell'uno e dell'altro.

In generale i sistemi maggioritari hanno un elevato livello di selettività ed un basso livelli di


rappresentatività. Infatti attraverso il maggioritario puro accedono al Parlamento solo quelle forze
politiche che hanno ottenuto più voti nei collegi, mentre le forze politiche con minore percentuale
di consenso non riescono ad ottenere seggi in Parlamento.

Al contrario i sistemi proporzionali sono dotati di un elevato livello di rappresentatività e un basso


livello di selettività. Essi infatti garantiscono l'accesso al Parlamento anche ai partiti dotati di

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modesta rappresentanza, e quindi fotografano la realtà politica del paese, ma d'altro canto non
selezionano in alcun modo.
Il sistema maggioritario puro si basa su un semplice principio: vince le elezioni il partito che ha
ottenuto più voti. Questo modello si fonda sul meccanismo del collegio uninominale, perchè lo
Stato viene diviso in molti collegi elettorali e da ogni collegio scaturirà un solo vincitore,
espressione del partito che ha ottenuto più voti. È tipico di un modello bipartitico (Regno Unito
Stati Uniti).
La tipica variante del sistema maggioritario adatto ai sistemi di multipartitismo moderato è il c.d.
maggioritario a doppio turno, il cui esempio tipico è dato dalla legge elettorale francese. Il
maggioritario a doppio turno si fonda sul principio che se nessuno dei candidati ottiene la
maggioranza dei voti, si procede ad un secondo turno di votazione tra i candidati che hanno
ottenuto almeno una determinata percentuale di voti (ad esempio in Francia il 12,5%). Al
secondo turno vince il candidato che ottiene più voti (maggioranza relativa). Questo sistema ha
lo scopo di aggregare le forze politiche in vista del secondo turno solo sui due candidati che sui
quali convergono quindi i voti dei partiti che non hanno possibilità di vittoria.

I sistemi elettorali proporzionali si basano sul principio generale che un partito ha diritto a tanti
seggi in Parlamento quanti voti ha ottenuto, e dunque il sistema proporzionale puro ha l'effetto di
costituire in Parlamento una fotografia del sistema politico. I seggi in palio sono distribuiti in una
prima fase, a seconda della percentuale dei volti, alle liste che abbiano raggiunto il c.d.
quoziente elettorale (cioè un numero minimo di voti). I seggi verranno quindi ripartiti tra le liste in
relazione ai voti, e una volta attribuiti i seggi, si passerà a verificare quali sono i candidati eletti
da ciascuna lista. Questi modelli vengono utilizzati nei sistemi politici a multipartitismo (estremo
o moderato).
Questa tendenza del proporzionale può essere corretta con clausole di sbarramento o premi di
maggioranza.
Le clausole di sbarramento hanno la funzione di limitare l'accesso al Parlamento a quelle forze
politiche che hanno una rappresentatività significativa a livello nazionale, con la conseguenza di
eliminare i partiti più piccoli (in Germania esiste una soglia di sbarramento al 5%). La soglia di
sbarramento, normalmente, serve a diminuire una eccessiva frammentazione politica,
costringendo i partiti minori ad aggregarsi
Il premio di maggioranza consiste nell'attribuire un certo numero di seggi in premio alla
coalizione che superi una certa percentuale di voti. Essa serve per stabilizzare sistemi
fortemente divisi, nei quali si presume che nessuna coalizione riesca a risultare nettamente
vincitrice in una competizione elettorale.

11. La forma di Governo parlamentare: i tratti comuni

La forma di Governo parlamentare si caratterizza per la necessaria esistenza di tre organi posti
al vertice dello Stato: il Parlamento, il Governo, composto da ministri con a capo il Presidente del
consiglio dei ministri, e il Presidente della Repubblica.

Il Governo è legato al Parlamento da un rapporto di fiducia. Questo comporta che il Governo,


non appena nominato, deve presentarsi in Parlamento con il programma politico che intende
svolgere e sul quale chiede la fiducia della maggioranza parlamentare. La fiducia impegna il
Governo a perseguire il programma, proponendo al Parlamento atti legislativi coerenti con esso
e necessari per la sua attuazione, e impegna, almeno teoricamente, la maggioranza
parlamentare a sostenere l'indirizzo del Governo. Il Parlamento, d'altro canto, ha sempre la
possibilità di revocare la fiducia al Governo, quando questi non persegua il programma
presentato in Parlamento, attraverso l'approvazione di una apposita mozione di sfiducia che
impegna il Governo a dimettersi. Nella forma di Governo parlamentare, quindi, l'indirizzo politico
è condiviso tra Parlamento e Governo, con predominio dell'uno o dell'altro a seconda delle

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varianti di questa forma di Governo, varianti principalmente legate al sistema dei partiti e al
sistema elettorale più che alle norme costituzionali.

Nella forma di Governo parlamentare classica - definibile come monistica - il Presidente della
Repubblica non svolge una funzione di indirizzo politico ma bensì di garanzia. Il Presidente della
Repubblica ha poteri di intervento nelle relazioni tra Parlamento e Governo, principalmente ai fini
di garantire la regolarità costituzionale di queste relazioni, e non per inserirsi nel circuito
dell'indirizzo politico.
Il nucleo forte dei poteri del Capo dello Stato (Presidente della Repubblica) nella forma di
Governo parlamentare è comunque il potere di nominare il Presidente del Consiglio dei ministri e
lo scioglimento anticipato delle Camere, poteri finalizzati a costruire - o a ricostruire - il rapporto
fiduciario tra questi due organi.
Le regole costituzionali per l'esercizio dei questi poteri, e soprattutto le modalità concrete con le
quali questi poteri possono essere utilizzati, conducono a una tradizionale distinzione tra forme
parlamentari monistiche e forme parlamentari dualistiche.

Nelle forme parlamentari monistiche la funzione di indirizzo politico è incentrata sul Governo e
sulla maggioranza parlamentare che lo sorregge.
Nelle forme parlamentari dualistiche la funzione di indirizzo politico è invece distribuita tra
Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica.

Nella forma di parlamentare monistica quindi, al potere del Presidente della Repubblica di
nominare il Presidente del Consiglio non è abbinato un potere di revoca, poiché si verrebbe a
creare un rapporto di tipo fiduciario tra nominante e nominato, che è escluso dal modello della
forma parlamentare.
Nella forma di Governo monistica il potere di nomina esercitato dal Presidente della Repubblica,
è finalizzato a costruire un Governo che abbia la fiducia del Parlamento, cosicché tendono poi a
crearsi regole convenzionali che limitano la discrezionalità di scelta del Capo dello Stato.
Anche il potere di scioglimento anticipato, nella forma monistica, non è considerabile come un
potere proprio del Presidente, ma piuttosto come un potere misto o addirittura come un potere
sostanzialmente governativo.

Nella forma di Governo parlamentare DUALISTICA, invece, il Governo è politicamente


responsabile non solo nei confronti del Parlamento ma anche nei confronti del Presidente della
Repubblica. Il Capo dello Stato allora, al pari del Parlamento, può influire sull'indirizzo politico
attraverso i poteri dei quali gode nei confronti del Governo, verso di lui responsabile.
In questi modelli la esistenza di una funzione di indirizzo del Presidente è sancita dal potere di
nomina dei ministri, al quale è abbinato il potere di revoca, e dal potere di scioglimento, che è
esercitabile dal Capo dello Stato come un potere "proprio".
La forma parlamentare dualistica, tuttavia, è spesso di transizione, espressione di elevata
conflittualità tra le forze politiche, che necessitano di un ulteriore pilastro di appoggio (il
Presidente appunto) per contenere tensioni e stabilizzare la forma di Governo.

11.1 La forma di Governo parlamentare a preminenza dell'esecutivo

Il modello parlamentare a prevalenza dell'esecutivo tende a realizzarsi in maniera "forte" nelle


forme di Governo basate su un sistema politico di tipo BIPARTITICO, e in maniera "più debole"
laddove il sistema politico conduca invece ad un sistema organizzativo di tipo BIPOLARE. Nel
primo caso si crea naturalmente un insieme di regole convenzionali che rafforzano il potere del
Presidente del Consiglio e del Governo da lui presieduto; nel secondo caso il Presidente del
Consiglio dovrà necessariamente mediare con i partiti che formano la coalizione.
Normalmente nella forma di Governo basata su un sistema bipartitico, la scelta del Premier
avviene sulla base della volontà degli elettori: il leader del partito che ha vinto le elezioni è

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naturalmente il Presidente del Consiglio. Il potere di scelta del Presidente della Repubblica, è
quindi un potere tendenzialmente vincolato, non potendo il Presidente sovrapporsi alla volontà
popolare ed indicare un candidato diverso. È da precisare che il Premier non è eletto
direttamente dal corpo elettorale, infatti non vi è alcun meccanismo di elezione diretta del
Premier separata e distinta dal voto nei confronti del partito. Il premier è solo automaticamente e
necessariamente il leader di quel partito che ha vinto le elezioni.
Questa forte investitura rafforza i poteri del Premier, che tende ad accentrare la direzione politica
sia nel momento della composizione dell'esecutivo, dove verranno scelte le persone di sua
assoluta fiducia, sia nel momento della direzione e svolgimento dell'indirizzo politico, dove il
principio della collegialità del Governo risulta attenuata.
La organizzazione bipartitica produce un rafforzamento della posizione del Governo rispetto al
Parlamento, spostando l'asse dell'indirizzo politico sull'esecutivo. Dato che il Governo è
composto da persone che ne sono ai vertici dell'organizzazione del partito, e la disciplina di
partito è in questo modello assai forte, i deputati della maggioranza non dissentono delle
decisioni del Governo, approvando in maniera compatta i disegni di legge proposti. Il Governo si
caratterizza dunque più come organo di direzione della maggioranza parlamentare che come
organo di esecuzione della volontà del Parlamento.

Il potere di scioglimento delle Camere tende a divenire un potere sostanzialmente governativo,


utilizzabile per tenere a freno la propria maggioranza e comunque per scegliere il momento
migliore per la nuova consultazione elettorale.
Queste considerazioni, che mettono in luce come in presenza di un sistema politico bipartitico è
il Governo a divenire il vero motore dell'indirizzo politico, non debbono tuttavia far pensare ad
uno svuotamento completo del ruolo e delle funzioni del Parlamento. Quest'ultimo svolge
importanti funzioni di controllo sull'operato del Governo, anche in considerazione dello status
costituzionale che viene assunto dall'opposizione. L'opposizione, infatti, assume un ruolo
fondamentale per il corretto funzionamento della forma di Governo: essa deve poter garantire
l'alternanza, senza la quale la garanzia del sistema verrebbe meno.
La forma di Governo parlamentare nel modello bipartitico si basa infatti sul principio che il partito
che ha vinto le elezioni governa e ha tutti gli strumenti per poter governare, mentre il partito che
ha perso le elezioni svolge l'attività di opposizione, ma è dotato a sua volta di tutti gli strumenti
per evidenziare le carenze della maggioranza e per poter governare nella successiva legislatura.

Nel sistema bipolare molte di queste regole di natura convenzionale sono attenuate, poiché
l'esistenza non di due partiti ma di due coalizioni contrapposte comporta normalmente una
maggiore necessità di mediazione in sede parlamentare, e quindi una minore forza strutturale
del Governo. Anche nel modello bipolare il Premier è il leader della coalizione che ha vinto le
elezioni, e quindi anche in questo caso il potere del Presidente della Repubblica di nominare il
Presidente del Consiglio è un potere generalmente vincolato. Tuttavia, già nella composizione
del Governo il Premier è meno forte che nel sistema bipartitico, dovendo mediare mediare i nomi
dei ministri con i partiti della coalizione in relazione al loro peso elettorale. Anche il programma di
Governo costituisce il frutto di una mediazione con le forze politiche della coalizione, cosicché il
Presidente del Consiglio tende a divenire, di fatto, più il garante della tenuta della coalizione che
non il portatore di un proprio indirizzo da imporre ai ministri. Il Presidente del Consiglio dei
ministri, in un modello bipolare, svolgerà quindi un ruolo fisiologicamente diverso dal suo
omologo in un modello bipartitico.
Anche nei rapporti con il Parlamento il Governo è meno forte che nel modello bipartitico. La sua
maggioranza parlamentare è infatti il frutto di una coalizione di partiti, e questo comporta la
necessità di mediazioni maggiori in Parlamento.

11. 2 La forma di Governo parlamentare a preminenza dell'assemblea

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La forma di Governo parlamentare a prevalenza del Parlamento, tende invece a realizzarsi in
presenza di sistemi a multipartitismo estremo e in costanza di un sistema elettorale di ti tipo
proporzionale. In questo modello il momento del voto non consente di individuare né il
Presidente del Consiglio né la maggioranza di Governo. L'elettore vota infatti per un partito in un
contesto di molti partiti che "corrono" in maniera autonoma l'uno dall'altro. Agli esiti del risultato
elettorale, dunque, vi saranno moltissimi partiti con rappresentanza parlamentare, ma nessuno
con la maggioranza necessaria per poter formare da solo il Governo. La coalizione verrà dunque
formata dopo il voto, aggregando intorno ad un programma anche molte forze politiche diverse.
Ovviamente il programma sarà frutto di un compromesso.
In questo contesto il Presidente della Repubblica gioca un ruolo più ampio che nelle forme di
bipartitiche o bipolari già nella formazione del Governo, e si creano norme convenzionali che
tendono a procedimentalizzare il modo di esercizio del potere del Presidente, ai fini di consentire
a quest'ultimo di individuare un Presidente del Consiglio che possa formare un Governo che a
sua volta possa poi ottenere la fiducia delle Camere. In questi sistemi caratterizzati dal
multipartitismo estremo, tuttavia, la consonanza tra maggioranza governativa e maggioranza
parlamentare è molto bassa. I partiti della coalizione tendono infatti a tenere sotto pressione il
Governo, alleandosi se del caso anche con forze di opposizione, per spostare l'indirizzo politico
sul Parlamento. È il Parlamento infatti il luogo nel quale si ricercano gli equilibri per governare, e
dove si formano le maggioranze, anche variabili, diverse da quelle governative. Del resto in
questo sistema l'opposizione non esiste come alternativa organizzativa di Governo e dunque
essa, più che fare opposizione, tende a candidarsi ad una sorta di "cogoverno", costringendo la
maggioranza a rilevanti compromessi. Quando si realizzano questi presupposti l'indirizzo politico
si sposta dunque sul Parlamento, e il Governo assume funzioni attuative di quell'indirizzo.
Tuttavia, dato che il Governo rimane in vita nella misura in cui si raggiungono costantemente
accordi in Parlamento, la forma di Governo è fortemente instabile.

12. La forma di Governo presidenziale

La forma di Governo presidenziale - forma di Governo delineata dalla Costituzione degli Stati
Uniti - è caratterizzata prima ancora che dalla distribuzione dei poteri tra gli organi, da alcune
necessarie precondizioni che ne rendono possibile il suo funzionamento equilibrato.
Esso si fonda infatti, in primo luogo, su di un sistema di partiti sufficientemente omogeneo che si
traduce in un bipartitismo non conflittuale e, in secondo luogo, sull'esistenza di un modello di tipo
federale nella distribuzione delle competenze tra centro e periferia. In terzo luogo,
sull'applicazione tendenzialmente rigida del principio di separazione dei poteri e sull'applicazione
forte dei checks and balances, poiché ogni potere è bilanciato e controllato da altri.

In questa forma di Governo il Presidente è il capo del Governo (non c'è dunque il Presidente del
Consiglio dei Ministri); il Presidente è eletto direttamente; non vi è un rapporto di fiducia tra
Governo e Parlamento (Congresso negli Stati Uniti). Vi sono meccanismi di controllo reciproco
tra Presidente e Congresso.
Il Presidente è eletto direttamente dal popolo perchè è su questo organo che è incentrata la
funzione di indirizzo politico. L'investitura diretta popolare attribuisce al Presidente una forte
legittimazione politica necessaria per esercitare le numerose funzioni previste dalla Costituzione.
Il Presidente è capo dell'esecutivo, ha alle sue dipendenze l'amministrazione dello Stato
federale, e nomina i suoi collaboratori, chiamati Segretari di Stato (sostanzialmente i ministri).
Per temperare - e sopratutto controllare - tutto questo accentramento di potere nel Presidente, la
Costituzione americana fissa alcune regole che riguardano la durata in carica degli organi e i
meccanismi di controllo reciproco. La durata del mandato del Presidente è sufficientemente
breve (quattro anni) con previsione di rieleggibilità solo per una volta, allo scopo di garantire sia
l'alternanza sia una sorta di autocontrollo. Inoltre le relazioni tra Congresso e Presidente sono
delineate nell'ottica di un controllo e bilanciamento reciproco. Il Congresso ha una struttura
bicamerale composto dal Senato (formato da rappresentanti degli Stati membri) e dalla Camera

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dei rappresentanti, formata invece su base nazionale. Il Senato dura in carica sei anni ma è
rinnovato parzialmente (in un terzo dei suoi membri) ogni due anni. La camera dei
rappresentanti è rinnovata ogni due anni.
Il modello costituzionale americano si basa su organi eletti in modo e con durata diversa, ma
esclude che essi possano venire meno prima del termine ordinario di scadenza, perchè nessuno
degli organi abbia un potere di incidere sulla vita dell'altro.
Dunque i due poteri principali dello Stato - Presidente e Congresso - sono delineati, per essere
ciascuno autonomo e indipendente dell'altro. Non vi è rapporto di fiducia tra Presidente e
Congresso, e d'altronde il Presidente non ha un potere di scioglimento del Congresso.

Il Congresso però ha vari poteri importanti di bilanciamento nei confronti del Presidente. Oltre ad
essere titolare del potere legislativo, il Congresso approva il bilancio annuale, può costituire
speciali commissioni, ed ha inoltre il potere di approvare le nomine presidenziali ad alcune alte
cariche dello Stato (ad esempio i giudici della Corte Suprema).
Questo sistema di controlli, controbilancia il potere del Presidente, che sa bene che per portare
avanti il proprio indirizzo politico deve avere l'appoggio del Congresso. Inoltre, nella ipotesi in cui
la maggioranza del Congresso sia opposta rispetto alla maggioranza che ha eletto il Presidente,
è quest'ultimo ad essere condizionato dal Congresso.
La forma di Governo presidenziale, in definitiva, è una forma spiccata dualistica che tende a
contrapporre i due poteri più importanti dello Stato quali il Presidente e il Congresso.
La stabilità di questa forma deriva dall'articolato sistema di bilanciamenti e controlli reciproci, ed
è tuttavia conseguenza anche dell'assetto sociale e della struttura dei partiti.

13. La forma di Governo semipresidenziale e la forma di Governo direttoriale

La forma di Governo semipresidenziale - il cui esempio classico è dato dalla Francia attuale - ha
l caratteristica particolare di unire elementi propri della forma di Governo parlamentare con altri
tipici di quella presidenziale. In questa forma di Governo, infatti, il rapporto di fiducia tra Governo
e Parlamento convive con la elezione diretta del Presidente della Repubblica. Il Presidente del
Consiglio dei Ministri, a sua volta, convive con un Presidente della Repubblica dotato di poteri
"forti" sia di controllo che di indirizzo.
Gli aspetti essenziali di questa forma di Governo infatti sono dati dalla elezione diretta del
Presidente della Repubblica; dalla esistenza però di un Presidente del Consiglio nominato dal
Presidente della Repubblica che può anche, su proposta del Presidente del Consiglio, revocare i
ministri; dalla esistenza di un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento.

Questa forma di Governo è dunque caratterizzata da una struttura c.d. bicefala, poiché accanto
al Presidente della Repubblica eletto direttamente come nelle forme presidenziali, v'è anche la
figura del Presidente del Consiglio - che invece non è presente nelle forme presidenziali - al
quale compete la direzione dell'azione di Governo. D'altra parte il Presidente non svolge funzioni
di garante neutrale ma è anche capo dell'esecutivo, dotato di vari poteri in ragione della elezione
popolare diretta.
Il Presidente della Repubblica esercita infatti ad un tempo sia il potere di indirizzo sia i poteri di
controllo nei confronti degli altri organi, ed è politicamente responsabile degli atti che pone in
essere.

In questa forma di Governo in primo luogo il Presidente della Repubblica esercita poteri di
indirizzo e di controllo nei confronti del Governo. Non solo nomina - ma può anche revocare a
differenza di quanto previsto nelle forme di Governo parlamentari - i ministri, e presiede anche le
riunioni del Consiglio dei Ministri, a dimostrazione di un suo ruolo attivo nell'esercizio della
attività di indirizzo politico.
In secondo luogo esercita poteri di indirizzo di controllo nei confronti dell'Assemblea nazionale
(una delle due Camere del Parlamento) perchè oltre al potere di scioglimento può sottoporre a

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referendum ogni progetto di legge concernente l'organizzazione dei pubblici poteri, e può
sottoporre al Consiglio costituzionale una legge prima della sua promulgazione affinché ne
venga controllata la legittimità costituzionale.
In terzo luogo costituisce il garante della tenuta dello Stato in situazioni di emergenza.

Le modalità concrete di funzionamento di questa forma di Governo sono tuttavia legate alle
maggioranze politiche che si formano nell'Assemblea nazionale.
Se la maggioranza dell'Assemblea nazionale è consonante con la maggioranza che ha eletto il
Presidente, il sistema assumerà le caratteristiche della forma di Governo presidenziale invece
che parlamentare. Il Presidente del Consiglio, in questo contesto, tenderà infatti ad essere una
figura di secondo piano rispetto al Presidente della repubblica, la cui legittimazione popolare e la
consonanza con l'Assemblea Nazionale lo conduce ad essere iil vero dominus dell'indirizzo
politico.
Viceversa, nella ipotesi in cui la maggioranza dell'Assemblea Nazionale fosse contrapposta a
quella che ha eletto il Presidente - ipotesi di coabitazione - il Presidente dovrà nominare un
Presidente del Consiglio ed un Governo contrario alla sua maggioranza, perchè possa avere la
fiducia della Camera. In questa ipotesi, necessariamente, il ruolo del Presidente della
Repubblica diviene simile al suo omologo nella forma di Governo parlamentare.

Forma direttoriale - La forma di Governo direttoriale - adottata nella confederazione Svizzera - si


caratterizza per la elezione del Governo da parte del Parlamento per un periodo di tempo
determinato. Il Governo svolge ad un tempo funzioni di Governo e di capo dello Stato. Questa
singolarità si spiega in relazione alla caratteristiche etniche, linguistiche e religiose dalla
Svizzera. Da ciò deriva la necessità che Governo e Capo dello Stato abbiano una struttura
collegiale dove siano rappresentate le diverse componenti di quella società.

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CAPITOLO II
IL PARLAMENTO

1. La forma di Governo parlamentare italiana: uno sguardo complessivo

La scelta della forma di Governo parlamentare all'interno della Costituzione emerge con
chiarezza dagli atti dell'Assemblea Costituente. Il modello parlamentare, avrebbe permesso di
"assorbire" ragionevolmente i contrasti esistenti all'interno della società e la quasi conflittualità
tra le forze politiche. Il vero problema consisteva nel determinare regole per rendere più stabile
tale forma di Governo che si riteneva soggetta a possibili crisi.

La forma di Governo italiana si basa sui tre classici organi, Parlamento, Governo e Presidente
della Repubblica, ai quali si aggiunge una Corte Costituzionale. I tre organi interagiscono tra loro
secondo gli schemi classici del parlamentarismo.
In questo contesto complessivo la Costituzione ha collocato il Parlamento al centro del sistema
degli organi costituzionali. (Il Parlamento è il primo degli organi costituzionali disciplinati dalla
carta costituzionale ed al quale è dedicato il maggior numero di articoli). Le Camere hanno
potere autoorganizzativo attraverso i regolamenti parlamentari. La funzione normativa primaria è
attribuita alle Camere e il Governo può esercitarla solo eccezionalmente e sempre sotto il
controllo del Parlamento. La manovra di bilancio è di competenza della Camere, che
partecipano anche al potere estero (art. 80), e che attraverso il voto di fiducia "legittimano"
l'esercizio del potere del Governo.

Se il Parlamento costituisce il fulcro del modello costituzionale, al contrario nelle norme riferite al
Governo si nota un basso livello di dettaglio ed una certa ambiguità, poiché non è chiaro se il
Presidente del Consiglio sia un primus inter pares o se possa essere titolare di un suo proprio
indirizzo.

Il Presidente della Repubblica appare invece delineato come organo esclusivamente finalizzato
alla garanzia delle regole ("potere neutro"). La conformità governativa dei suoi atti, la sua
conseguente irresponsabilità, l'elezione indiretta a larga maggioranza che non gli attribuisce una
legittimazione politica, sembrano far propendere per un ruolo di garanzia.

2. Principio del bicameralismo paritario

La Costituzione ha delineato il Parlamento come un organo bicamerale, in quanto formato da


due camere (Camera dei deputati e Senato), Camere dotate delle stesse competenze secondo il
principio del bicameralismo perfetto o paritario.
L'art. 70 della Costituzione prevede che tutte le leggi debbono avere la doppia approvazione, e
la fiducia del Governo deve essere conferita sia dall'una che dall'altra Camera.

Le ragioni del bicameralismo - La seconda camera nacque dunque per la necessità di dare voce
a gruppi sociali in maniera organizzata e autonoma. Si può dire che il bicameralismo serve a
dare voce ad interessi diversi, normalmente differenziando le Camere sotto il profilo della loro
composizione, della loro durata e delle loro competenze.
La Costituzione italiana, ha invece effettuato una scelta in senso bicamerale senza tuttavia
differenziare in maniera significativa le due Camere per quello che riguarda la loro composizione
e le loro competenze. Dunque la seconda camera nel nostro ordinamento risponde più che a
ragioni di differenziazioni di rappresentanza e di interessi, a ragioni di bilanciamento di poteri. Da
un punto di vista funzionale la seconda Camera opera allora come "Camera di riflessione", al
fine di garantire una migliore ponderazione del procedimento legislativo ed una migliore qualità
degli atti.

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3. Le differenze tra le due camere in ordine a composizione e sistema elettorale

La prima differenza riguarda riguarda il numero dei componenti nonché l'elettorato attivo e
passivo.
Alla Camera il numero dei deputati è assai elevato (630) mentre al senato il numero degli elettivi
è la metà (315). A questo numero si aggiungono poi i senatori a vita e i senatori di nomina
presidenziale.
Pe votare alla Camera dei deputati è sufficiente la maggiore età (elettorato attivo), e per essere
eletti aver compiuto venticinque anni (elettorato passivo), al Senato per esercitare il diritto di voto
occorre aver compiuto venticinque anni e per essere eletti averne compiuti quaranta. La
componente non elettiva del Senato è composta dagli ex Presidenti della Repubblica, che sono
Senatori di diritto a vita, nonché dai Senatori nominati direttamente del Presidente della
Repubblica, può infatti nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustratola patria per
altissimi meriti. L'idea è dunque quella di un Senato più lontano dal conflitto politico, perchè
possa svolgere in maniera ottimale quella funzione di riflessione.

Il sistema elettorale della Camera è notevolmente diverso da quello del Senato. Alla Camera i
seggi erano assegnati in maniera proporzionale a ciascuna lista o coalizione di liste. Laddove
una lista o una coalizione di liste raggiungeva il 53% pari a 340 seggi dei voti, l'attribuzione dei
seggi avveniva in maniera proporzionale. Qualora invece nessuna lista o coalizione di liste
avesse conquistato i 340 seggi, alla lista o coalizione di liste che avesse raggiunto la
maggioranza dei voti veniva attribuito un "premio" per raggiungere i 340 seggi e dunque la
maggioranza assoluta.
Vi erano poi soglie di sbarramento che dovevano essere superate per partecipare al riparto dei
seggi. Per le liste che non partecipavano ad una coalizione la soglia di sbarramento era fissata
al 4%, mentre per le coalizioni occorreva che esse avessero raggiunto il almeno il 10% dei voti e
che avessero al loro interno almeno una lista che avesse raggiunto almeno il 2%.
Infine le liste dei candidati erano c.d "bloccate", cioè con i nomi nella lista scelti dai partiti senza
la possibilità per gli elettori di esprimere preferenze. Questo comportava che erano gli apparati di
partito a scegliere i propri rappresentanti senza sostanzialmente sottoporsi al vaglio del giudizio
critico dell'elettore.

Al senato la principale differenza deriva dall'art. 57 1° comma della Costituzione che prevede
che l'attribuzione dei seggi debba essere effettuata su base regionale. Ciò significa che
l'assegnazione dei seggi deve avvenire Regione per Regione.
Quando vi sia una lista o una coalizione che nella regione avesse ottenuto il 55% dei voti,
l'assegnazione dei seggi avveniva in maniera proporzionale. Quando invece nessuna lista o
coalizione avesse ottenuto il 55% alla lista o alla coalizione che avesse ottenuto più voti veniva
attribuito un premio di maggioranza per ottenere quel 55%.
Vi erano poi delle soglie di sbarramento. Accedevano al riparto dei seggi soltanto le liste che
avessero almeno l'8% dei voti e le coalizioni di liste che avessero conseguito almeno il 20% dei
voti (a condizione che comprendano almeno una lista collegata che abbia conseguito non meno
del 3% dei voti).

Questa legge è stata dichiarata anticostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n.1
del 2014. La Corte ha dichiarato la incostituzionalità di tale legge sia in relazione al premio di
maggioranza sia alle liste bloccate, facendo riespandere, sin tanto che non sarà approvata una
nuova legge, il sistema proporzionale senza premio di maggioranza e con una preferenza.

4. Le norme costituzionali a tutela del libero esercizio delle funzioni del parlamento:
ineleggibilità, incompatibilità e divieto di mandato imperativo

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La Costituzione prevede alcune norme finalizzate a garantire che la elezione dei parlamentari
non sia condizionata da fatti esterni rispetto alla scelta del candidato ritenuto più idoneo allo
svolgimento del compito, e che una volta eletto, il parlamentare possa svolgere il suo compito
senza condizionamenti derivanti da fattori esterni. Si tratta degli artt. 65 e 67 della Costituzione,
che sono posti a presidio del principio del libero esercizio delle funzioni parlamentari.
L'art. 65 disciplina i casi di ineleggibilità, rinviando ad una legge ordinaria per la determinazione
dei casi dell'una e dell'altra.
L'art. 67 stabilisce il c.d divieto di mandato imperativo.

La ineleggibilità è quella condizione soggettiva che incide sulle capacità elettorale passiva, in
presenza della quale la elezione è invalida. Colui il quale si trovi in una condizione alla quale la
legge collega la invalidità, non può partecipare alle elezioni e se vi partecipa la sua elezione è
annullata. Le cause di ineleggibilità si sostanziano della titolarità di determinate cariche elettive a
livello locale, oppure nella titolarità di uffici di particolare rilievo, oppure ancora nella esistenza di
un particolare rapporto economico con lo Stato. Per evitare di incorrere nella ineleggibilità, in
generale occorre cessare dalla carica almeno centottanta giorni prima della scadenza della
legislatura. Ulteriori cause di ineleggibilità hanno previsto la incandidabilità per coloro i quali
sono stati condannati, con sentenza passata in giudicato, a pene superiori a due anni di
reclusione per determinati reati.

La incompatibilità invece è quella situazione soggettiva in cui versa un soggetto in ragione di una
altra funzione da lui svolta, in presenza della quale - funzione - la legge prevede la
incompatibilità con l'esercizio del mandato parlamentare. A differenza della ineleggibilità
l'esistenza di una causa di incompatibilità non rende invalida la elezione, ma impone al soggetto
che si trova in quella situazione, la scelta tra l'una o l'altra delle funzioni. Le cause di
incompatibilità invece sono determinate dalla Costituzione: l'art 65. vieta di poter cumulare la
carica di Deputato e Senatore; l'art. 84 vieta il cumulo tra parlamentare e Presidente della
Repubblica; l'art. 135 vieta il cumulo della carica di parlamentare con quella di giudici
costituzionale, così come non si può essere allo stesso tempo parlamentare e membro del
Consiglio Superiore della magistratura (art. 104) o parlamentare e membro del Consiglio
regionale o della Giunta regionale (art. 122).

Le norme dalle quali deriva la ineleggibilità sono dunque poste a tutela della correttezza delle
competizione elettorale, poiché si ritiene che la presenza delle situazioni determinate dalla legge
siano in grado di alterare la par condicio tra i concorrenti. Diversamente, le fattispecie che
determinano incompatibilità non alterano la par condicio in fase elettorale, ma sono in grado di
arrecare pregiudizio all'imparziale esercizio della funzione parlamentare.

L'assunzione della qualifica di parlamentare avviene a seguito della proclamazione dell'avvenuta


elezione, che è effettuata del presidente dell'ufficio elettorale competente sulla base dei risultati
della elezione. Tuttavia questa assunzione è sottoposta a condizione risolutiva, poiché sarà la
Camera di appartenenza, attraverso un suo organo, la Giunta per le elezioni, ad accertare la
validità dell'elezione e la insussistenza di cause di ineleggibilità o di incompatibilità.

Una volta eletto il parlamentare, come recita l'art. 67 della Costituzione "rappresenta la Nazione
ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Il parlamentare, una volta eletto, non è un
mero portatore degli interessi che hanno condotto alla sua elezione, ma diviene portatore di un
interesse più ampio e generale, rappresentando la Nazione e non il partito dal quale proviene.

5. La durata delle Camere: la fine della legislatura e la prorogatio

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La durata delle Camere è fissata dalla costituzione in cinque anni. Stabilisce la Costituzione, agli
artt. 60 e 61, che le elezioni delle nuove camere debbono avvenire entro 70 giorni dalla fine delle
precedenti; che la prima riunione delle camere neoelette deve avvenire entro venti giorni dalle
elezioni; che nel periodo che va dalla fine della legislatura sino alla prima riunione delle nuove
Camere sono prorogati i poteri delle precedenti (la c.d. prorogatio); che alla scadenza dei cinque
anni le Camere debbono essere sciolte e possono essere prorogate solo per legge e in caso di
guerra (la c.d. proroga).
La Costituzione prevede dunque per le Camere che il rinnovo - nel caso di fine non anticipata
della legislatura - avvenga successivamente alla scadenza naturale dei cinque anni e che in
sostanza, a garanzia della continuità costituzionale, non possano decorrere più di novanta giorni
tra la cessazione delle vecchi camere e la prima riunione delle nuove.

La fine della legislatura produce effetti rilevanti sia sui procedimenti in corso, sia sui poteri delle
Camere.
I procedimenti legislativi pendenti in aula e in commissione decadono. Questo effetto, che
vanifica moltissimo lavori delle Camere e del Governo, è una conseguenza del principio di
autonomia e indipendenza delle Camere. Si ritiene infatti che le Camere neoelette, espressione
di una diversa manifestazione di volontà popolare, siano sovrane ed autonome, così da non
potere essere vincolate dalle attività svolte dalle Camere precedenti. Solo le proposte di legge di
origine popolare godono di procedure particolare, che consentono alle nuove Camere di
utilizzare l'attività svolta dalle Camere precedenti.

Le Camere inoltre, dal momento del loro scioglimento e fino alle elezioni delle nuove, assumono
uno status giuridico particolare, definito di prorogatio. La prorogatio è un istituto che - a
differenza della proroga - non altera la durata finale dell’organo, la scadenza o lo scioglimento
anticipato infatti producono l'effetto della cessazione dell'organo, ma in conseguenza dell'istituto
della prorogatio, le Camere, anche se cadute, possono continuare ad esercitare i poteri sino
all'insediamento delle nuove. I poteri esercitabili dalle Camere sciolte sono tuttavia ridotti rispetto
alle Camere nella pienezza del mandato, infatti potranno svolgere solamente attività
strettamente necessarie al mantenimento della continuità costituzionale.

6. L'autonomia delle Camere: le norme costituzionali sui regolamenti parlamentari

L'organizzazione interna delle Camere è solo in piccola parte determinata dalle norme
costituzionali, che stabiliscono in questa materia prevalentemente dei principi. La gran parte
dell'organizzazione interna delle Camere, le modalità di esercizio delle funzioni, il procedimento
legislativo, sono disciplinati attraverso i regolamenti parlamentari, cioè attraverso strumenti di
autoorganizzazione.
Le ragioni dell'autoorganizzazione parlamentare si rintracciano nella qualifica di organo
costituzionale del Parlamento, dal quale discende il principio dell'indipendenza, nonché nel ruolo
costituzionale svolto dal Parlamento come organo immediatamente rappresentativo della volontà
popolare, ma anche, nella storia della forma di Governo. Anche la Corte costituzionale ha più
volte affermato che l'indipendenza delle Camere, principio di rilievo costituzionale, si articola
nella autonomia organizzativa e normativa, nella esclusiva competenze alla convalida dei propri
membri, nella non responsabilità per i voti e le opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni dei
Deputati e dei Senatori.
La capacità di autoorganizzazione è dunque una garanzia necessaria per l'autonomia e la
indipendenza del Parlamento, tanto è vero che è la Costituzione a prevedere i regolamenti
parlamentari, stabilendone le modalità di approvazione e determinando altresì una riserva
costituzionale di competenza per questa fonte.
L'art. 64 della Costituzione stabilisce infatti che "ciascuna Camera adotta il proprio regolamento
a maggioranza assoluta dei suoi componenti ", mentre l'art. 72 prevede che "ogni disegno di

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legge, presentato ad una Camera, è secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una
Commissione e poi dalla Camera stessa.. ".
La prima norma afferma dunque il principio che ciascuna Camera deve avere un proprio
regolamento, approvato autonomamente da ciascuno Camera - i regolamenti di Camera e
Senato possono essere astrattamente diversi rispettando il principio del bicameralismo paritario
- e che questo regolamento deve essere approvato con la maggioranza assoluta.
L'art 72. pone invece una riserva di competenza regolamentare in materia di procedimento
legislativo, escludendo quindi che altre fonti possano intervenirvi.

I regolamenti parlamentari costituiscono una delle espressioni più importanti dell'autonomia delle
Camere, poiché sono le Camere stesse a disciplinare sia la propria organizzazione interna, sia
attività che hanno riflesso nei confronti dei cittadini, sia le modalità delle relazioni del Parlamento
nei confronti di organi costituzionali. Essi contribuiscono a completare la Costituzione per quanto
concerne le funzioni del Parlamento.

Lo studio dei regolamenti parlamentari presenta due profili strutturalmente distinti ma


funzionalmente collegati:
a) il profilo che attiene alla determinazione della natura del regolamento parlamentare dal punto
di vista delle fonti del diritto;
b) il profilo che attiene al contenuto dei regolamenti in relazione all'incidenza di questi sotto il
profilo della forma di Governo.

6.1 I regolamenti parlamentari come fonti del diritto

I regolamenti parlamentari costituiscono fonti del dritto, infatti hanno i requisiti sostanziali delle
fonti del diritto - generalità e astrattezza - ed anche i requisiti formali, posto che sono pubblicati
come tutti gli atti normativi nella Gazzetta Ufficiale.
Sulla base degli artt. 64 e 72 della Costituzione si afferma che i regolamenti parlamentari sono
fonti primarie. La Costituzione infatti riserva espressamente a questa fonte la disciplina dei
procedimenti e dell'organizzazione interna delle Camere.
Da questa prima considerazione dovrebbe derivare che i regolamenti parlamentari sono anche
atti con forza di legge, e di conseguenza dovrebbe derivarne la possibilità del controllo di
costituzionalità da parte della Corte costituzionale, sebbene questo ultimo punto si scontra con
l'altro principio dell'autonomia e dell'indipendenza del Parlamento. Questo principio verrebbe in
parte meno se un altro organo costituzionale potesse sindacare le scelte di organizzazione
interna effettuate dalle Camere, che in realtà a questa materia sono sovrane.
Sulla questione del controllo sui regolamenti parlamentari confliggono allora due opposte
esigenze: da una parte l'esigenza strettamente logico-giuridica della gerarchia delle fonti, che
porta a concludere che i regolamenti sono sostanzialmente atti con forza di legge come tali
sottoponibili al controllo della Corte costituzionale; dall'altra parte l'esigenza di preservare
autonomia e indipendenza delle Camere.
La Corte costituzionale ha risolto il problema privilegiando l'autonomia e l'indipendenza del
Parlamento, con conseguente esclusione del controllo di costituzionalità sui regolamenti
parlamentari.

In definitiva i regolamenti parlamentari sono fonti primarie, ma, in conseguenza della loro
funzione di garantire l'autonomia e l'indipendenza del Parlamento, organo centrale nella forma di
Governo, non possono essere sottoposti al controllo della Corte costituzionale.

6.2 I regolamenti parlamentari e la forma di Governo

I regolamenti parlamentari, nella misura in cui integrano le norme costituzionali sula


organizzazione e sulle modalità di funzionamento del Parlamento, disciplinando la dialettica tra

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maggioranza e opposizione e i poteri del governo in Parlamento, possono incidere sugli equilibri
della forma di Governo, rafforzando l'uno o l'altro degli organi costituzionali.

Si possono distinguere due momenti fondamentali nella storia del regolamenti: la grande riforma
dei regolamenti del 1971 accentuava il ruolo del Parlamento e la successiva riforma del 1981
che ha invece recuperato in parte il ruolo del Governo.

7. L'autonomia e l'indipendenza delle Camere: interna corporis, verifica dei poteri e


autodichia

L'indipendenza del Parlamento è poi rafforzata da ulteriori condizioni di autonomia interna:


l'insindacabilità degli interna corporis, il potere di controllare la validità delle elezioni
parlamentari, il potere di decidere sui ricorsi dei dipendenti (c.d. autodichia). Queste ulteriori
condizioni di autonomia sono accomunate da una ratio: sottrarre quanto afferisce alla
organizzazione e ai processi decisionali interni delle Camere al controllo di altri organi, per
garantire l'autonomia e l'indipendenza del Parlamento in conseguenza del suo carattere
direttamente rappresentativo della sovranità popolare.

Il primo di questi principi è la c.d. insindacabilità degli interna corporis.


Gli interna corporis delle Camere sono i procedimenti e gli atti interni posti in essere da questi
organi. Il principio dell'insindacabilità degli interna corporis implica l'esclusione del sindacato da
parte di qualunque autorità, e quindi anche dell'autorità giudiziaria, di questi procedimenti e di
questi atti considerati appunti interni al Parlamento.
Con la nascita di una Costituzione rigida che vincola anche gli organi costituzionali al rispetto
delle norme e dei principi che vi sono posti, potrebbe far pensare ad un fisiologico
"indebolimento" del principio della sindacabilità degli interna corporis. La Corte costituzionale,
del resto, con una famosa sentenza di anni passati (sentenza n.9 del 1959), ammise la
sindacabilità degli interna corporis nel giudizio di legittimità della legge quando si fosse
verificata, nel procedimento di formazione della legge, la violazione di un principio costituzionale.

Le Camere poi hanno il diritto-dovere di giudicare sulla validità delle elezioni. Il parlamentare
viene immesso nell’esercizio delle sue funzioni dopo la proclamazione da parte dell'ufficio
elettorale. Tuttavia tale proclamazione è sottoposta alla condizione risolutiva della verifica -
chiamata verifica delle elezioni - da parte della Camera di appartenenza circa l'insussistenza di
situazioni di ineleggibilità o incompatibilità. Il procedimento viene istruito da organi interni alle
Camere formate da Deputati o Senatori, denominate giunta per le elezioni che propongono
all'assemblea la convalida o la contestazione dell'elezione. Nell'ipotesi di contestazione
dell'elezione si apre un procedimento in contraddittorio e con la garanzia dell'udienza pubblica,
al termine del quale la Giunta formula la sua proposta all'Assemblea che può essere di
convalida, di annullamento o di decadenza, proposta sulla quale è chiamata a votare l'intera
assemblea.

Le Camere sono infine titolari della c.d. autodichia - o giurisdizione domestica - che consiste nel
potere di decidere sulle controversie relative allo status giuridico e economico dei propri
dipendenti. L'autodichia delle Camere non trova collegamenti costituzionali precisi. Anzi essa
pare porsi in contrasto con i principi costituzionali relativi al diritto di difesa (art. 24) davanti ad un
giudice terzo e imparziale (artt. 101 e 111). La Corte però non può giudicare della legittimità
costituzionale dei regolamenti parlamentari.

8. L'autonomia e l'indipendenza delle Camere: la insindacabilità

La Costituzione, all'art. 68, disciplina quelle fattispecie definite come immunità parlamentari. la
norma individua due fattispecie, la insindacabilità e la inviolabilità, prerogative attribuite ai

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parlamentari finalizzate a garantire non un privilegio del parlamentare, quanto invece
l'autonomia e l'indipendenza del Parlamento.
Il 1° comma dell'art. 68 disciplina la c.d. insindacabilità, sancendo che i parlamentari non sono
responsabili giuridicamente per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni.
La insindacabilità " dei voti e delle opinioni espresse" è collegata alle funzioni svolte dalle
Camere, per garantire che il Parlamento possa esprimere le sue opinioni liberamente ai fini
dell'esercizio della attività parlamentare. La insindacabilità esclude ogni forma di responsabilità
giuridica dei parlamentari, civile, penale, amministrativa o contabile. Per i voti e le opinioni
espresse durante il corso del mandato, inoltre, il parlamentare non risponde neppure una volta
cessato dalla carica.
Tuttavia non è facile individuare il grado di estensione della insindacabilità ed inoltre dopo una
prima fase nella quale la interpretazione del Parlamento tendeva a estendere l'insindacabilità
anche ad attività extraparlamentari, la Corte costituzionale ha stabilito che per l'applicazione
della insindacabilità deve esistere comunque un nesso funzionale tra le opinioni espresse in sedi
diverse da quella parlamentare e l'attività tipica del parlamentare e, inoltre, deve esserci una
sostanziale identità di contenuto tra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella espressa
in sede extraparlamentare. La ragione dell'insindacabilità starebbe infatti nella garanzia della
funzione parlamentare e non nel sottrarre al diritto comune il singolo deputato o senatore.

In attuazione dell’art. 68 della Costituzione è stata dettata una normativa che mira a disciplinare i
rapporti tra autorità giudiziaria e Parlamento per risolvere possibili conflitti sulla sussistenza di
una situazione riconducibile alla inviolabilità. Si è così introdotto per legge la c.d. “pregiudiziale
parlamentare”.

8.1 La inviolabilità

Il 2° comma dell’art. 68 disciplina l’inviolabilità prevedendo che il parlamentare non possa subire
limitazioni alla propria libertà personale senza l'autorizzazione della Camera di appartenenza.
La limitazione alla libertà personale del parlamentare è possibile solamente in esecuzione di una
sentenza definitiva di condanna, o se in flagranza di reato quando la legge prevede l'arresto
obbligatorio.

Mentre la insindacabilità è legata all'attività tipica del parlamentare, tanto è vero che occorre un
nesso funzionale tra le opinioni espresse e l'attività del Parlamento, la inviolabilità invece
riguarda reati compiuti al di fuori dell'attività di parlamentare.

L'autorizzazione delle Camere è necessaria per sottoporre il parlamentare a perquisizione


personale o domiciliare, per sottoporlo ad arresti o altrimenti privarlo della libertà personale o
mantenerlo in detenzione. L'autorizzazione è altresì richiesta per sottoporre i membri del
Parlamento a intercettazioni di conversazioni, comunicazioni, e a sequestro di corrispondenza.
La ratio di questa forma di immunità è quella di proteggere il parlamentare da interventi
dell'autorità giudiziaria con intento di tipo persecutorio (c.d. fumus persecutionis). Solamente in
presenza di questo intento persecutorio la Camera dovrà negare l'autorizzazione a procedere.
Il procedimento di autorizzazione a procedere viene istruito da un'apposita Giunta, denominata
giunta per le autorizzazioni a procedere, che ha la funzione di istruire il giudizio valutando la
richiesta da parte del giudice le contraddizioni parlamentare.

9. L'organizzazione interna delle camere: gruppi parlamentari, commissioni, giunte e


presidente

L'attività delle Camere è organizzata attraverso i Gruppi parlamentari e attraverso le


Commissioni parlamentari. Un ruolo tecnico è svolto dalle Giunte ed un ruolo di garanzia e di
controllo dall'andamento dei lavori è svolta dal Presidente dell’Assemblea.

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I Gruppi parlamentari sono delle unioni di deputati e senatori costituiti sulla base della
appartenenza ad un medesimo partito politico o ad una medesima coalizione. Ogni
parlamentare deve appartenere ad un gruppo, e se il parlamentare non aderisce ad alcun
gruppo è assegnato di ufficio ad un gruppo definito come “gruppo misto”. Ogni gruppo deve
essere composta almeno 20 deputati alla Camera e da 10 senatori al Senato. I gruppi
costituiscono quindi la proiezione della rappresentanza dei partiti scaturita dal voto elettorale, e
rappresentano l'anello di congiunzione tra il partito e il Parlamento.

Le Commissioni parlamentari sono costituite rispecchiando la proporzione dei gruppi


parlamentari. Le Commissioni parlamentari costituiscono gli organi dove si svolge la gran parte
del lavoro delle Camere. Esse si distinguono in Commissioni permanenti e Commissioni speciali.
Le prime sono organi necessari e durano in carica tutta la legislatura, le seconde vengono
costituite in presenza di situazioni particolari e sono previste dalla Costituzione, o dai
regolamenti parlamentari.

Le Commissioni permanenti sono suddivise per materia, rispecchiando a grandi linee la struttura
del Governo. Esse svolgono funzioni nell'ambito del procedimento legislativo (svolgono attività
istruttoria ma anche attività decisoria), nell'ambito dell'attività di indirizzo e controllo sul Governo
(possono approvare risoluzioni attraverso le quali manifestano indirizzi su temi specifici), in
ambito consultivo (esprimono pareri oppure possono svolgere indagini conoscitive su
determinate materie per acquisire notizie).

Le Commissioni speciali possono essere monocamerali o bicamerali, cioè costituite all'interno di


una sola camera oppure entrambe.

Le Giunte sono ancora organi interni alle Camere, organi necessari, ma composti diversamente
rispetto alle Commissioni. La composizione delle Giunte avviene attraverso la nomina da parte
del Presidente della Camera. Mentre infatti le Commissioni sorgono principalmente funzioni di
natura politica, alle Giunte sono attribuite funzioni di natura tecnico-giuridica.
Alla Camera le Giunte attualmente sono tre: la Giunta per il regolamento, la Giunta per le
elezioni, la Giunta per le autorizzazioni a procedere.
La Giunta per il regolamento svolge la funzione di proporre alla Camera le modifiche da
apportare ai regolamenti parlamentari.
La Giunta per le elezioni si occupa del procedimento di convalida delle elezioni.
La Giunta per le autorizzazioni a procedere è titolare del compito di istruire il procedimento
relativo a richieste di autorizzazione a procedere inoltrata dall'autorità giudiziaria ex art. 68 della
Costituzione.

Tra gli organi delle Camere notevole è il ruolo svolto dal Presidente dell’Assemblea, infatti
convoca le Camere, incide sulla programmazione dei lavori elaborando una proposta di
programma e di calendario, mediando ovviamente con il Governo le forze politiche; risolvere
questioni interpretative del regolamento; assegna progetti di legge alle Commissioni
parlamentari

10. Attività delle Camere: i principi costituzionali

Il Parlamento svolge una attività normativa attraverso l'approvazione dei leggi, ed un attività di
indirizzo e controllo nei confronti del Governo.
In relazione alla attività delle Camere la Costituzione pone alcuni principi che sono pregiudiziali
sia rispetto alla attività normativa che alla attività di indirizzo e controllo. Questi principi sono

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determinati dall'art 64 2° e 3° comma e riguardano i quorum per la validità delle sedute, le
maggioranze necessarie per la validità delle deliberazioni, le regole per la trasparenza delle
deliberazioni.
L'art. 64 al 3° comma introduce un quorum strutturale, detto anche il numero legale per la
validità delle sedute, ed un quorum funzionale, cioè la maggioranza necessaria per approvare le
deliberazioni della Camera.
Il numero legale è fissato nella metà più uno dei componenti il collegio. Per quanto concerne il
quorum deliberativo la Costituzione prevede la regola della maggioranza semplice, e cioè che la
deliberazione debba essere normalmente assunta con la maggioranza pari alla metà più uno dei
presenti.

La maggioranza semplice costituisce la regola generale per la validità delle deliberazioni, e


viene normalmente utilizzata per tutte quelle deliberazioni che riguardano l'attività di indirizzo
politico delle Camere. Questa maggioranza semplice costituisce normalmente la maggioranza
politica corrispondente alla maggioranza di Governo.
Se questo è il principio generale, tuttavia, norme costituzionali e regolamentari possono
prevedere anche maggioranza diverse dalla maggioranza semplice, dette maggioranze assolute
e maggioranze qualificate. Con la maggioranza assoluta si indica la metà più uno dei
componenti, mentre con la maggioranza qualificata si indicano quelle maggioranze superiori a
quella assoluta, come ad esempio la maggioranza dei due terzi.

La maggioranza assoluta, ma soprattutto la maggioranze qualificate, sono utilizzate invece per


tutte quelle deliberazioni che non sono riconducibili in senso stretto all'esercizio dell'indirizzo
politico, e quindi alla semplice maggioranza del Governo, ma ad attività di garanzia che come
tali necessitano anche del concorso di parte dell'opposizione. L'esempio più evidente è presente
nell'art. 138.

Oltre alla previsione sulle maggioranze di cui si è detto, la Costituzione prevede una regola
generale sulla trasparenza delle sedute, che sono normalmente pubbliche salvo che le camere
decidano di riunirsi in seduta segreta. La disciplina della modalità di votazione è lasciata ai
regolamenti parlamentare e la distinzione più importante è tra votazioni a scrutinio segreto e
votazioni a scrutinio palese. Il voto palese comporta una assunzione di responsabilità politica per
il deputato che vota, mentre il voto segreto favorisce certamente la libertà di coscienza dei
parlamentari. La Costituzione prevede l'obbligatorietà del voto palese solamente per il voto di
fiducia al Governo.

11. Le funzioni di indirizzo e controllo del parlamento nei confronti del Governo: mozioni,
risoluzioni, ordini del giorno, interrogazioni, interpellanze

Oltre all'esercizio della funzione legislativa il Parlamento è titolare di funzioni di indirizzo e


controllo nei confronti del Governo. Il Governo è infatti legato al Parlamento da un rapporto di
fiducia che si estrinseca attraverso una mozione di fiducia sul programma di Governo. Questo
rapporto fiduciario di consonanza politica tra Parlamento e Governo deve permanere durante la
legislatura, cosicché il Parlamento ha vari strumenti per indirizzare il Governo verso il
mantenimento degli impegni assunti e per controllare che questi stessi impegni vengano
mantenuti.
Attraverso gli atti di indirizzo il Parlamento svolge una attività di direzione e correzione
dell'attività di indirizzo politico del Governo, mentre utilizzando gli atti di controllo verifica
l'operato del Governo ai fini di farne valere la responsabilità politica.

Gli atti di indirizzo sono le mozioni, le risoluzioni e gli ordini del giorno e sono disciplinati dai
regolamenti parlamentari.

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La mozione (a parte la mozione di fiducia e sfiducia che hanno caratteristiche particolari) è un
atto destinato a produrre un dibattito ed un voto da parte del'Assemblea. Attraverso la mozione
si invita il Governo ad assumere, su di un determinato argomento, una precisa posizione. Se la
mozione è approvata il Governo è politicamente vincolato a comportarsi come approvato dalla
maggioranza dell'Assemblea. La mozione deve essere presentata da un determinato gruppo di
parlamentari (dieci alla Camera) o da un Presidente di gruppo parlamentare.
La risoluzione è strumento assai simile alla mozione negli scopi. La risoluzione, a differenza
della mozione, può anche essere votata in Commissione, salvo che il Governo chieda che la
discussione venga portata in Assemblea. La risoluzione è uno strumento meno impegnativo
della mozione, perchè mentre l'obbiettivo di quest'ultima è quello di impegnare il Governo ad un
determinato comportamento su di una questione, la risoluzione esplicita un indirizzo o un
orientamento parlamentare, normalmente di massima e quindi ampiamente interpretabile dal
Governo.
L’ordine del giorno - da non confondere con il documento che indica l'elenco delle materie da
trattare - costituisce uno strumento assai flebile di indirizzo. Attraverso un ordine del giorno il
Parlamento conferisce una direttiva politica al Governo, ma in relazione ad un altro atto del
quale si sta discutendo. L'ordine del giorno deve essere accolto dal Governo per essere
impegnativo.

Gli atti di controllo del Parlamento sono le interrogazioni e le interpellanze e anche queste sono
disciplinati dai regolamenti parlamentari.
Le interrogazioni sono domande poste da un parlamentare o da un gruppo di parlamentari al
Governo, circa un determinato fatto, chiedendo informazioni particolari, documenti o notizie,
anche se l'obbiettivo reale è piuttosto quello di segnalare all'attenzione del Governo verso
determinati problemi. Un particolare tipo di interrogazione è la c.d. interrogazione a risposta
immediata, dove possono essere presentate interrogazioni, alle quali risponde in maniera
immediata il Presidente del Consiglio.
Le interpellanze hanno lo scopo di far conoscere i motivi della condotta del Governo su questioni
che riguardano aspetti della sua politica. L'obbiettivo dell'interpellanza è quello di far emergere la
linea politica del Governo su di una determinata questione.

12. Le funzioni di indirizzo e controllo delle Camere: le commissioni di inchiesta

Le Commissioni di inchiesta costituiscono l'unico strumento di indirizzo e controllo del


Parlamento sul Governo disciplinato nella Costituzione.
L'art. 82 della Costituzione prevede che ciascuna Camera possa disporre inchieste su materie di
pubblico interesse. Per disporre una inchiesta deve essere nominata una Commissione formata
in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari, dopodiché la Commissione di
inchiesta può procedere alle indagini con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità
giudiziaria.
Le inchieste tradizionalmente si distinguono in inchieste politiche, cioè finalizzate al controllo sul
Governo, e inchieste legislative, finalizzate all'ottenimento di conoscenze, informazioni, dati, per
lo svolgimento dell'attività legislativa del Parlamento.
La Commissione di inchiesta può essere, a norma della Costituzione, monocamerale o
bicamerale, ma la prassi segna al una notevole prevalenza di commissioni bicamerali, composte
da deputati e Senatori in maniera eguale.
Si possono istituire con atto legislativo o con deliberazione non legislativa, e dopo ciò la
Commissione di inchiesta procede alle indagini con gli stessi poteri e le stesse limitazioni
dell'autorità giudiziaria. La previsione costituzionale di questi poteri costituisce il tratto
maggiormente distintivo delle Commissioni di inchiesta rispetto ad altri strumenti del sindacato
ispettivo del Parlamento. La Commissione di inchiesta gode di tutti i poteri - ma è sottoposta agli
stessi limiti - dell'autorità giudiziale nella fase istruttoria, non avendo questa alcun potere
decisorio. Ciò significa che essa potrà interrogare testimoni, ordinare perquisizioni, anche

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effettuare sequestri, perchè con le stesse garanzie che sono previste allorquando tali atti sono
posti in essere da una autorità giudiziaria.

13. Il Parlamento in seduta comune

Composto dai parlamentari di Camera e Senato, il Parlamento in seduta comune costituisce un


organo distinto dalle due Camere, che, come previsto dall'art. 55 2° comma "si riunisce nei soli
casi previsti dalla Costituzione". Questi casi sono la elezione del Presidente della Repubblica, la
elezione di un terzo dei Membri del Consiglio superiore della Magistratura, la elezione di cinque
giudici della corte costituzionale. Il Parlamento in seduta comune decide inoltre sulla messa in
stato di accusa del Presidente della Repubblica per i reati di altro tradimento e attentato alla
Costituzione.

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CAPITOLO III
GOVERNO E PRINCIPI SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

1. Il Governo organo non solo esecutivo: la funzione di indirizzo politico

Nelle forme di governo parlamentari è il Governo a presentare il proprio programma in


Parlamento ed è il Governo che deve attuare il programma, proponendo progetti di legge al
Parlamento. In secondo luogo i fini dello stato vengono a realizzarsi non solo attraverso la mera
approvazione di una legge con la sua esecuzione, ma attraverso una molteplicità di interventi e
di atti politici tra loro interconnessi.

Accanto alle tre funzioni tradizionali dello stato - legislativo esecutivo e giudiziario - ormai da
tempo si è così individuata una quarta funzione, definita come "funzione di indirizzo politico",
intendendosi con questa definizione la capacità di determinare le linee fondamentali di sviluppo
della politica interna e esterna dello Stato, nonché la cura della sua attuazione.
L'attività di indirizzo politico è per natura definibile come una attività libera nel fine. L'indirizzo
politico costituisce quindi una sorta di funzione unitaria che indirizza e guida le altre funzioni
dello stato e che, nella maggior parte degli Stati contemporanei, si è progressivamente venuta
concentrando sul Governo.

La doppia funzione del Governo - Il Governo oggi svolge una doppia funzione: da una parte ha
la capacità di determinare i fini che intende perseguire, essendo dotato altresì degli strumenti
necessari per raggiungerli (funzione di indirizzo politico), mentre dall'altra parte è anche organo
esecutivo e vertice dell'apparato amministrativo statale, dotato quindi degli strumenti per attuare
l'indirizzo politico in maniera conforme alle direttive del Parlamento.

2. La composizione del Governo: il quadro generale

Nonostante siano descritti gli organi (il Presidente del Consiglio dei Ministri, il Governo ed i
ministri) non sono bene chiare le relazioni che intercorrono tra di loro.
Non è chiaro se è il Presidente del Consiglio dei Ministri ad essere il titolare dell'indirizzo politico,
o se invece questi deve svolgere una funzione di semplice mediazione coordinando l'attività dei
ministri, cosicché l'indirizzo politico è invece il frutto di un accordo collegiale all'interno del
Consiglio dei Ministri.
Del pari i ministri sono responsabili individualmente per gli atti dei loro dicasteri ma anche
collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, con la conseguenza che anche in questo caso
non risulta immediatamente chiaro se ciascuno ministro è a sua volta portatore di un proprio
indirizzo politico, o se questo si esprime solo collegialmente attraverso gli atti del Consiglio dei
Ministri.
A completare questo quadro di sostanziale incertezza, l'art. 95 rinvia alla legge per la
determinazione dell'ordinamento dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e per la
determinazione del numero, delle attribuzioni, e dell'organizzazione dei ministeri.

3. L'ambiguità dell'art. 95 e le interrelazioni tra gli organi

Il Governo è costituito da più organi individuali, quali il Presidente del Consiglio e i singoli
ministri, e da un organo collegiale, il Consiglio dei Ministri, composto a sua volta dal Presidente
del Consiglio e dai singoli ministri.

Per rafforzare l'unitarietà dell'indirizzo politico si tende nei modelli costituzionali a rafforzare i
poteri di indirizzo del Premier, per mantenere coerente l'indirizzo politico. Nella Costituzione
italiana, tuttavia, non è stata effettuata una scelta in questa direzione. Le relazioni tra gli organi

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che compongono il Governo sono basate infatti essenzialmente su tre principi: il principio
collegiale, che postula necessariamente che l'indirizzo politico si formi all'interno del Consiglio
dei Ministri; il principio monocratico, sulla base del quale i poteri di direzione e coordinamento
sono attribuiti al Premier; il principio della responsabilità ministeriale rispetto agli atti dei propri
dicasteri, che indica la esistenza di una autonomia e di una conseguente responsabilità del
singolo ministro per gli atti che da questi vengono posti in essere.

La scelta di fondo che emerge dalla relazione tra questi tre organi è dunque che l'indirizzo
politico dovrebbe formarsi collegialmente all'interno del Consiglio dei Ministri, poiché il
Presidente del Consiglio dovrebbe limitarsi a dirigere e mantenere quell'indirizzo che si è
determinato in sede collegiale. La Costituzione infatti prevede che i ministri siano nominati dal
Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, e ciò esclude già la
possibilità che il Presidente del Consiglio possa revocare autonomamente un ministro, il che non
conduce ad un rafforzamento del Presidente del Consiglio.

Il Consiglio dei Ministri, oltre a svolgere le funzioni che sono previste in Costituzione (ad
esempio l'iniziativa legislativa o l'adozione di decreti legge), determina la politica generale del
Governo, e ai fini dell'attuazione di questa, l'indirizzo generale dell'azione amministrativa.

Al Presidente del Consiglio sono attribuiti invece poteri relativi al funzionamento del Consiglio dei
Ministri (lo convoca e ne determina l'ordine del giorno), sia poteri strumentali e di attuazione
rispetto alle attività del Consiglio dei Ministri. In particolare il Presidente del Consiglio adotta le
direttive politiche e amministrative in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei Ministri;
adotta direttive per assicurare l'imparzialità, il buon andamento e l'efficienza dell'azione
amministrativa.

4. Gli organi amministrativi non necessari

Accanto al Consiglio dei Ministri, Presidente del Consiglio e Ministri, che sono gli organi
necessari previsti in Costituzione, la legge n. 400 del 1998, ha determinato gli organi che
contribuiscono ad articolare il Governo.
Questi organi sono:
- Il Consiglio di Gabinetto: il Presidente del Consiglio dei Ministri può essere assistito da un
comitato, che prende il nome di Consiglio di Gabinetto, ed è composto dai ministri da lui
designati sentito il Consiglio dei Ministri. Lo scopo è quello di costruire un organo più snello
del Consiglio dei Ministri a supporto del Presidente del Consiglio.
- I comitati di ministri: sono istituiti dal Presidente del Consiglio dei Ministri con compiti
prevalentemente istruttori, su di questioni di comune competenza da sottoporre poi al
Consiglio dei Ministri.
- I Comitati interministeriali: hanno la funzione di svolgere non solo attività di indirizzo ma anche
attività normativa (secondaria) su settori - normalmente economici - di competenza di più
ministri.
- Il Vicepresidente del Consiglio: svolge funzioni di supplenza in caso di assenza o
impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio.
- I Ministri senza portafogli: non sono preposti a nessun dicastero ma esercitano soltanto le
competenze delegate dal Presidente del Consiglio.
- I sottosegretari di Stato: coadiuvano il ministro ed esercitano i compiti conferiti loro attraverso
decreto ministeriale.
- I Vice ministri: sono sottosegretari di Stato ai quali viene conferita una delega di particolare
ampiezza; debbono essere approvati dal Consiglio dei Ministri su proposte del Presidente del
Consiglio.

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5. La formazione del Governo: la prassi prima e dopo il sistema maggioritario

Il procedimento di formazione del Governo è disciplinato, in maniera assai concisa, dall'art. 92 2°


comma della Costituzione che sancisce che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente
del Consiglio e su proposta di questi ministri, e dall'art. 93 della Costituzione, che stabilisce che
il Presidente del Consiglio dei Ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano
giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica.

Queste scarne disposizioni sono state integrate dalla prassi, che ha delineato una sorta di
"procedimento", non previsto in norme costituzionali, ma tuttavia ritenuto vincolante e pertanto
"normalmente" seguito.
Questa sorta di procedimento, tuttavia, ha subito delle variazioni a seguito del passaggio dalla
legge elettorale di tipo proporzionale che vigeva in Italia sino al 1993, al sistema di tipo
proporzionale corretto, succedutosi negli anni a venire, passaggio che ha modificato
sostanzialmente il procedimento di formazione del Governo.

In costanza del sistema elettorale proporzionale, infatti, le elezioni non determinavano una
coalizione vincente, ma soltanto i seggi che spettavano a ciascun partito in Parlamento.
Occorreva allora individuare, attraverso valutazioni ex post, la coalizione che avrebbe sostenuto
il Governo e la personalità politica idonea a svolgere il ruolo di Presidente del Consiglio. Il
procedimento di formazione del Governo veniva quindi aperto con le c.d. consultazioni da parte
del Presidente della Repubblica, per scegliere un Presidente del Consiglio che avesse poi la
possibilità di formare un nuovo Governo. Era anche prassi, all'epoca, quella di attribuire un
mandato esplorativo per effettuare dei sondaggi tra le forze politiche e riferirne al Presidente
prima dell'attribuzione dell'incarico. Così come era prassi la attribuzione di un eventuale
"preincarico" a colui che si riteneva avrebbe poi svolto la funzione di Premier.
Una volta incaricato, anche il Premier doveva svolgere consultazioni per determinare la
compagine ministeriale, bilanciando i componenti delle varie forze politiche in relazione al loro
peso elettorale ed eventualmente al loro potere di interdizione. Questo potere di scelta dei
ministri, assegnato dalla Costituzione al Presidente del Consiglio, è stato per molto tempo
compresso e condizionato, tanto che i nomi dei ministri erano spesso le conseguenze di
valutazioni svoltesi all'interno delle segreterie politiche, più che di una determinazione autonoma
del Presidente del Consiglio incaricato.

Questa prassi si è modificata in maniera rilevante dopo la introduzione, nel 1993, del sistema
elettorale di tipo proporzionale corretto. In questo modello, all'esito della consultazione
elettorale, normalmente si avrà una coalizione vincitrice con a capo un leader che
presumibilmente sarà anche il prossimo Presidente del Consiglio dei Ministri.
Una volta individuato il Presidente del Consiglio, viene nominato con decreto da parte del
Presidente della Repubblica, decreto controfirmato dal nuovo Presidente del Consiglio. Sulla
base delle proposte di quest'ultimo vengono poi, ancora con decreto del Presidente, nominati i
ministri.
Successivamente alla nomina, Presidente del Consiglio e ministri giurano nelle mani del
Presidente della Repubblica. Dal momento del giuramento il Governo esiste giuridicamente ma
non è nel pieno delle sue funzioni: per esserlo ha la necessità di ottenere il voto di fiducia delle
Camere.

6. Mozione di fiducia, mozione di sfiducia, questione di fiducia

La Costituzione ha razionalizzato il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo all'art. 94,


stabilendo non solo che il Governo deve presentarsi entro dieci giorni alle Camere, ma anche
che deve avere la fiducia delle due Camere (principio del bicameralismo paritario). La

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Costituzione prevede ancora che ciascuna Camera accordi o revochi la fiducia mediante
mozione motivata votata per appello nominale.
Nel periodo dei dieci giorni che vanno dalla nomina del Governo al voto di fiducia, il Governo
deve mettere a punto il programma sul quale le Camere esprimeranno il voto di fiducia.
Quest'ultima, deve essere votata per appello nominale, deve essere motivata e deve essere
votata per scrutinio palese.
Il voto palese - mediante appello nominale - ha lo scopo di rendere trasparenti le posizioni dei
diversi partiti politici e rafforza l'assunzione di responsabilità che viene effettuata da ciascun
deputato o senatore nel votare la fiducia. La mozione di fiducia è votata, come prescrive l'art. 64
della Costituzione, a maggioranza semplice, cioè a maggioranza dei presenti.
Una volta ottenuta la fiducia da entrambe le Camere il Governo diviene pienamente operativo ed
il solo meccanismo costituzionale per togliere ad esso la fiducia è la mozione di sfiducia,
disciplinata dall'art. 94 ultimo comma della Costituzione. La proposta della mozione di sfiducia
deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti la Camera e non può essere messa
in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.
Questa previsione costituisce un meccanismo di razionalizzazione del rapporto Governo-
Parlamento. Questa disposizione è poi ulteriormente rafforzata dalla previsione circa il non
obbligo di dimissioni da parte del Governo a seguito del voto contrario da parte di una o di
entrambe le Camere su una proposta del Governo. Ciò significa infatti che se non vi è un voto di
sfiducia il Governo non ha l'obbligo giuridico di dimettersi, neppure se il Parlamento bocciasse
una norma direttamente attuativa del programma di governo.
La Costituzione non prevede la possibilità di una mozione di sfiducia individuale diretta al singolo
ministro. Questa possibilità, tuttavia, è stata disciplinata dal regolamento della Camere, che ha
esteso a questa ipotesi le stesse garanzie previste per la mozione di sfiducia diretta all'intero
Governo.

Le norme dei regolamenti parlamentari disciplinano poi un ulteriore strumento che incide nel
rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento: la questione di fiducia.
Mentre le mozioni di fiducia e di sfiducia sono poste dal Parlamento, la questione di fiducia è
invece posta dal Governo su di una legge o su di un articolo di una legge. Essa consiste nel
legare l'approvazione della legge alla permanenza in carico del Governo. Il voto contrario del
Parlamento su quella legge produce come effetto la sfiducia al Governo con le conseguenti
dimissioni.

7. Le crisi di Governo

Le regioni delle dimissioni, e quindi della crisi, sono varie e possono portare ad esiti diversi. Si
distinguono tuttavia due modelli di crisi che hanno effetti e modalità gestionali diverse: la crisi
parlamentare e la crisi extraparlamentare.

La crisi parlamentare si verifica quando al Governo non viene concessa la fiducia iniziale o la
fiducia, inizialmente concessa, nel corso della vita del Governo viene "ritirata" a seguito della
approvazione di una mozione di sfiducia.
Questo tipo di crisi è l'unica prevista in Costituzione.
A seguito di un voto di sfiducia il Presidente del Consiglio ha l'obbligo giuridico di dimettersi,
perchè si è ormai formalizzato che tra Parlamento e Governo non sussiste più la necessaria
relazione fiduciaria.

Le crisi extraparlamentari non sono conseguenti ad una mozione di sfiducia, ma derivano da


dimissioni spontanee del Presidente del Consiglio.
Le ragioni della crisi extraparlamentare sono da ricollegarsi normalmente al ritiro dell'appoggio di
uno o più dei partiti che formano la coalizione governativa, tanto che, senza quel partito o quei
partiti, al Governo viene a mancare la maggioranza in Parlamento. In queste ipotesi il Presidente

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del Consiglio dei Ministri dovrà comunque dimettersi perchè di fatto impossibilitato a potare
avanti il programma di Governo, essendo privo di maggioranza.
Certamente non si tratta di una prassi incostituzionale, poiché il Governo può ben considerare in
questi casi l'esistenza di una sorta di sfiducia implicita, ancorché non formalmente espressa, ma
è certo che è costituzionalmente assai più corretta e trasparente la crisi di tipo parlamentare.
Del resto in queste ipotesi è molto frequente che il Presidente della Repubblica provveda a
rinviare il Governo alle Camere per richiedere un voto di fiducia al Parlamento, al fine di
ricondurre la crisi al suo modello tipico costituzionale. Si dice in questi casi che il Presidente
della Repubblica PARLAMENTARIZZA la crisi, utilizza cioè i poteri che la Costituzione gli
attribuisce per ricondurre la crisi nell'ambito del modello costituzionalmente previsto.

Dalla crisi di Governo si distinguono i c.d. "rimpasti governativi".


Il rimpasto governativo consiste nella sostituzione di uno o più ministri dimissionari. In questi casi
spesso il Presidente del Consiglio assume temporaneamente quel ministero il cui ministro è
venuto meno, in attesa di provvedere alla sua sostituzione.
Il rimpasto non produce l'obbligo di dimissioni da parte del Presidente del Consiglio, né l'obbligo
di un nuovo voto di fiducia da parte delle Camere, perchè il voto di fiducia è espresso dal
Parlamento sul programma di Governo e non nella sua composizione.
Il Governo dimissionario rimane in carica sino alla formazione di un nuovo Governo, perchè
deve esservi continuità nell'azione governativa e non possono esservi momenti nei quali l'organo
titolare dell'indirizzo politico non sia presente nel sistema de poteri previsto dalla Costituzione.
I poteri del Governo dimissionario assomigliano dunque ai poteri del Governo in attesa fiduciaria,
ma è corretto ritenere che siano ancora più limitati.
La crisi di Governo può essere risolta del Presidente della Repubblica o con l'incarico ad un
nuovo Presidente del Consiglio che provveda alla formazione di un nuovo Governo, o nell'ipotesi
che ciò non sia possibile, attraverso lo scioglimento anticipato delle Camere e la conseguente
indizione di nuove elezioni.

8. La responsabilità dei ministri

Al di là della responsabilità politica, che per i ministri è sia individuale, sia collegiale, i ministri
sono anche responsabili giuridicamente per gli atti compiuti nell'esercizio delle proprie funzioni.
La loro responsabilità è civile, amministrativa, e penale.

Da un punto di vista della responsabilità civile e amministrativa, ai ministri si applica il principio


posto dall'art. 28 della Costituzione, che stabilisce la responsabilità diretta dei funzionari dello
Stato per gli atti compiuti in violazione di diritti. In sostanza essi possono essere considerati
responsabili sia da privati cittadini per danni conseguenti ad atti compiuti in violazione di diritti,
ed in tal caso lo Stato è responsabile solidalmente con il ministro. Oppure possono essere
considerati responsabili per danni verificatesi, in conseguenza del loro operato, nei confronti
dello Stato, ipotesi di danno c.d. erariale rispetto al quale esiste la giurisdizione speciale della
Corte dei Conti.

I ministri sono anche responsabili penalmente per gli atti compiuti nell'esercizio delle proprie
funzioni, qualora questi integrino gli estremi dei c.d. reati ministeriali. I reati ministeriali
consistono in reati comuni ma posti in essere dai ministri nell'esercizio delle proprie funzioni. Per
esservi reato ministeriale occorre dunque l'esistenza di un nesso funzionale tra l'attività svolta
dal ministro e il reato posto in essere.
La Costituzione originariamente stabiliva che dei reati ministeriali dovesse giudicare la Corte
costituzionale ma questa previsione è stata poi modificata con una legge costituzionale che ha
introdotto un modello di giustizia derogatorio del diritto comune per i reati ministeriali, ed anche
per quelli commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri nell'esercizio delle sue funzioni.
Questa legge costituzionale prevede che di questi reati debba giudicare la magistratura

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ordinaria. Competente a svolgere le indagini preliminari, tuttavia, è uno speciale collegio
giudiziario istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello competente
per territorio, composto da tre magistrati estratti a sorte ogni due anni.

9. Le funzioni del Governo: i principali settori nei quali si svolge l'indirizzo politico

L'attuazione dell'indirizzo politico si svolge con varie modalità, attraverso sia l'esercizio di poteri
condivisi con altri organi costituzionali, sia attraverso l'esercizio di poteri propri.

Costituiscono poteri condivisi con altri organi costituzionali:


- i poteri del Governo nei confronti del Parlamento nell'ambito del procedimento legislativo
(potere di iniziativa legislativa, poteri che intervengono nella fase della programmazione dei
lavori, poteri vari intervento nel procedimento).
- I poteri relativi alla politica di bilancio e finanziaria: costituisce uno degli strumenti principali
per l'attuazione dell'indirizzo politico. Dal punto di vista dell'indirizzo politico si può dire che
esso è suddiviso - non equamente - tra Unione Europea, Governo e Parlamento. La Unione
Europea determina a monte le linee guida all'interno delle quali gli Stati membri dovranno
effettuare i loro interventi di programmazione economia e controlla a valle la coerenza degli
interventi. Il Governo elabora il Documento di economia e finanza (DEF) e lo presenta per la
approvazione al Parlamento. L'indirizzo politico del Governo è fortemente condizionato dalle
scelte dell'Unione Europea, mentre l'approvazione parlamentare appare un atto
sostanzialmente vincolato dalle scelte effettuate dal Governo e della Unione Europea.
- La politica estera: la attività politica estera si sostanzia principalmente nella stipula di trattati
internazionali, nelle relazioni diplomatiche con gli Stati, nella partecipazione dello Stato
italiano ad organismi internazionali.

Costituiscono poteri propri del Governo:


- l'esercizio del potere normativo: esso viene esercitato attraverso sia atti primari, quali decreti
legge e decreti legislativi, che atti secondari, come l'esercizio del potere regolamentare. Se è
vero che per gli atti primari vi è sempre un controllo del Parlamento, è anche vero però che il
Governo adotta tali atti sotto la sua propria responsabilità. Essi sono dunque espressione di
un indirizzo politico autonomo del Governo.
- L'attività di direzione dell'amministrazione statale: [prossimo paragrafo].

10. Il Governo come "organo esecutivo": il problema della continuità o della separazione
con l'amministrazione

È bene considerare che l'attività del Governo non è limitata alla determinazione e all'attuazione
dell'indirizzo politico. Il Governo è anche al vertice dell'apparato amministrativo dello Stato, ed
ogni ministro è a capo di una struttura amministrativa complessa che ha la funzione di tradurre in
provvedimenti concreti gli atti di indirizzo espressione delle scelte politiche.
L'attività amministrativa si distingue dall'attività normativa perchè consiste nel provvedere,
attraverso atti puntuali e specifici - detti provvedimenti amministrativi - alla cura degli interessi
pubblici determinati dalla norma e vi è la necessità, che l'amministrazione eserciti, nell'emanare
provvedimenti, una certa attività di scelta. Questa scelta è guidata dalla c.d. discrezionalità
amministrativa. Discrezionalità significa che per perseguire il fine indicato dalla norma di legge
l'amministrazione deve valutare e tutelare l'interesse pubblico determinato dalla norma, con il
minor sacrificio possibile per l'interesse privato.

Da un punto di vista teorico attività amministrativa e attività di indirizzo politico sono diverse e
distinte.
mentre l'attività di indirizzo politico è definibile come una attività libera nel fine, poiché attraverso
di essa vengono determinati senza vincoli gli obbiettivi da perseguire, l'attività attuativa

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dell'indirizzo è definibile come discrezionale, poiché al contrario il fine è determinato dalla
norma, ma per il suo raggiungimento l'amministrazione deve effettuare delle scelte valutando gli
interessi pubblici e privati coinvolti

Al Governo, comunque, fanno capo entrambe le funzioni: l'attività di indirizzo politico, attraverso
la quale si esercitano liberamente le grandi scelte politiche, e l'attività amministrativa, attraverso
la quale si esercita la discrezionalità amministrativa per attuare quelle scelte.

In astratto si possono individuare due modelli estremi di collegamento tra attività politica e
attività amministrativa: il modello che si ispira alla continuità tra politica e amministrazione e il
modello che si ispira alla separazione tra queste due attività. Quest'ultimo modello separa
meglio tra politica ed amministrazione e tra attività di indirizzo e attività di gestione.

11. I principi costituzionali: imparzialità e buon andamento della amministrazione

La Costituzione ha sancito il principio di imparzialità della amministrazione, propendendo per un


modello di separazione tra politica e amministrazione. Dal punto di vista organizzativo questo
principio importa che l'accesso al rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione deve
avvenire attraverso il pubblico concorso. Il pubblico concorso costituisce infatti un meccanismo
di selezione tecnico e neutrale dei più capaci per la composizione di organi chiamati ad
esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità ed al servizio della nazione e non di una
parte politica.

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CAPITOLO IV
Il PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

1. Il Presidente della Repubblica nella forma di governo parlamentare: introduzione

In ogni organizzazione statuale esiste un capo dello Stato normalmente coincidente con una
persona fisica.
Il capo dello Stato, titolare nella forma di stato feudale e in quella assoluta, di poteri legislativi e
giudiziari, nella evoluzione storica progressivamente perde la possibilità di esercitare il potere
giudiziario, poi il potere legislativo e infine - ma in maniera molto diversa a seconda della
tipologia della forma di Governo - il potere esecutivo, pur rimanendo connesso in qualche modo
con ciascuno di essi. La diluizione dei poteri del sovrano segue così la parabola della sovranità:
da unica ed indivisibile nello stato assoluto, a fluida e suddivisa tra i vari poteri dello Stato negli
stati costituzionali contemporanei.

Linee di fondo del modello costituzionale - Il Presidente partecipa con poteri chiave nel momento
della "messa in moto" del sistema costituzionale, e con altrettanti poteri chiave quando il sistema
va in crisi. Tra i due poli della accensione del sistema e della sua conclusione ha poteri di
stimolo, intervento e controllo, che hanno il fine di garantire una ordinata applicazione delle
regole costituzionali.
Questi poteri sono esercitati in quanto rappresentante dell'unità nazionale e non di una parte
politica, e senza che essi generino una responsabilità politica in capo al Presidente, che infatti ai
sensi dell'art. 90 non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni. Essi non
sono atti che esprimono un proprio indirizzo politico, ma atti di sollecitazione, stimolo intervento
e controllo, affinché gli organi costituzionali a ciò deputati esprimano il loro indirizzo politico.
Per queste ragioni il Presidente della Repubblica è stato a lungo definito come garante della
Costituzione, oppure, in una accezione più ampia, come garante della regolarità costituzionale.

2. L'elezione del Presidente della Repubblica

La Costituzione prevede all'art. 83 che il Presidente della Repubblica è eletto del Parlamento in
seduta comune. Per la elezione del Presidente, inoltre, il Parlamento in seduta Comune deve
essere integrato da tre delegati per ogni Regione, eletti dal Consiglio regionale in modo che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze.

L'elezione del Presidente della Repubblica avviene per scrutinio segreto a maggioranza di due
terzi dell'assemblea, mentre dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. La
Costituzione prevede poi all'art. 84 che possa essere eletto Presidente della Repubblica ogni
cittadino che abbai compiuto cinquanta anni e goda dei diritti civili e politici.
La Costituzione determina infine la incompatibilità dell'ufficio di Presidente della Repubblica con
qualsiasi altra carica.

La prima scelta effettuata dalla Costituzione concerne dunque la modalità dell'elezione che è
indiretta o di secondo grado (attraverso il voto in seduta comune) e non diretta (attraverso il voto
del corpo elettorale). L'elezione diretta del Presidente della Repubblica è infatti tipica delle forme
di governo presidenziali, dove alla elezione diretta si abbinano importanti funzioni di indirizzo
politico. Per converso la elezione indiretta, specialmente se collegata a maggioranze ampie, ha
la funzione di non legare strettamente il Presidente ad un partito e quindi ad un programma
politico. Per questa ragione la elezione indiretta la si ritrova normalmente nelle forme di governo
parlamentari, dove l'indirizzo politico è prerogativa di Governo e Parlamento, mentre il
Presidente svolge funzioni, più o meno ampie, di garanzie, controllo e "correzione" di quel
rapporto.

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La seconda scelta effettuata dalla Costituzione riguarda la composizione del Parlamento in


seduta comune, che è allargato ad una rappresentanza, ancorché modesta, di rappresentanti
delle Regioni. Anche se da un punto di vista quantitativo la presenza di dei rappresentanti
regionali non è in grado di spostare gli equilibri di un organo composto da 630 deputati e 315
senatori, questa previsione costituisce la spia di un duplice obbiettivo perseguito dalla
Costituzione.
In primo luogo si voleva in qualche modo collegare la elezione del Presidente alla esistenza di
uno Stato di tipo regionale, pur in assenza di una seconda Camera rappresentativa delle
Regioni. In secondo luogo si voleva rendere ancora meno collegabile la elezione del Presidente
ad un determinato partito politico, allargandolo ancora la base elettorale.

Questo ultimo obbiettivo è poi collegato dalla terza scelta effettuata dalla Costituzione, relativa
alle maggioranze richieste per la elezione. Per i primi tre scrutini, infatti, è richiesta la
maggioranza dei due terzi, mentre dal terzo scrutinio è prevista la maggioranza assoluta. La
maggioranza dei due terzi segnala la volontà di collegare la elezione del presidente ad una
maggioranza ampia, staccata dalla maggioranza di Governo, infatti occorre aggiungere alle
forze di maggioranza anche una parte consistente delle forze politiche di opposizione. Può
lasciare qualche dubbio il fatto che dopo il terzo scrutinio sia sufficiente la maggioranza assoluta
per la elezione (con il rischio che il Presidente possa essere eletto da una maggioranza che
coincide sostanzialmente con la maggioranza di Governo).

Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni. La lunga durata del mandato,
diversamente dalle forme di Governo presidenziali dove la durata in carica del Presidente è
breve, è ancora conseguenza della forma di Governo parlamentare e del ruolo di moderatore
che il Presidente svolge all'interno di questa forma di Governo. Il lungo mandato serve infatti a
staccare il Presidente della maggioranza che lo ha eletto, dato che le Camere si rinnovano
invece a scadenza quinquennale. Non vi è nessuna norma che limata la elezione del Presidente
per un solo mandato. Esso infatti è teoricamente rieleggibile.

Trenta giorni prima della scadenza del settennato il Presidente della Camera convoca il
Parlamento in seduta Comune, integrato dai delegati regionali, per procedere alla elezione del
nuovo Presidente della Repubblica. Lo scopo della norma è quello di evitare, per quanto
possibile, ipotesi di prorogatio del Presidente e di procedere quindi, in condizioni normali, alla
sua sostituzione anteriormente alla scadenza.
L'unica ipotesi di prorogatio del Presidente in carica può verificarsi nel caso in cui, nel periodo in
cui il Presidente cessa le sue funzioni, le Camere siano sciolte o manchino meno di tre mesi al
loro scioglimento. In questa ipotesi la elezione del Presidente ha luogo entro quindici giorni dalla
riunione delle Camere nuove, mentre nel frattempo sono prorogati i poteri del presidente in
carica (art. 85 2° comma).

Il mandato presidenziale decorre dalla data del giuramento di fedeltà alla Repubblica e di
osservanza della Costituzione effettuato dal Presidente davanti al Parlamento in seduta Comune
(art. 91).

La Costituzione non prevede l'esistenza di un vicepresidente. Nel caso di impedimento


temporaneo ad esercitare la proprie funzioni, queste sono svolte dal Presidente del Senato. In
caso invece di morte del Presidente, di impedimento permanente o di dimissioni, il Presidente
della Camera indice entro quindici giorni le nuove elezioni, mentre le funzioni vengono ancora
esercitate in via di supplenza dal Presidente del Senato.

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Si ritiene per correttezza costituzionale il Presidente del Senato, investito della supplenza, debba
limitarsi a svolgere funzioni di ordinaria amministrazione.

3. La controfirma ministeriale

A norma dell'art. 89 della Costituzione gli atti posti in essere dal Presidente della Repubblica non
sono validi se non sono controfirmati dal ministro proponente che se ne assume la
responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo, e gli altri atti indicati dalla legge, sono
controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Lo scopo della controfirma ministeriale consiste nel rendere irresponsabile giuridicamente il
Presidente della Repubblica per gli atti da esso posti in essere, e nel trasferire, allo stesso
tempo, tale responsabilità al Governo. Mentre infatti la Costituzione non prevede una
responsabilità politica del Presidente della Repubblica, ed anzi ne sancisce espressamente la
irresponsabilità all'art. 90, il Governo è invece responsabile politicamente davanti al Parlamento.
Dunque, sembra voler dire l'art. 89, è il Governo che attraverso le controfirma si assume sempre
la responsabilità degli atti del Presidente davanti al Parlamento.

In primo luogo non corrisponde al dato costituzionale sostenere che tutti gli atti del Presidente
sono sempre controfirmati. L'art. 89 della Costituzione è basato su un modello trilaterale:
proposta ministeriale, atto del Presidente, controfirma del ministro proponente.
Vi sono sono moltissimi atti che non possono essere fisiologicamente controfirmati. Inoltre la
maggioranza degli atti che la Costituzione attribuisce al Presidente non si basano affatto su una
proposta di un ministro, cosicché, non possono essere controfirmati da un ministro proponente
che non c'è.
Dunque la espressione ministro proponente dell'art. 89 deve in realtà essere interpretata come
ministro competente, perchè nella maggior parte degli atti del Presidente della Repubblica non vi
è una vera e propria proposta ministeriale.

Gli atti del Presidente svolgono funzioni diverse, e quindi anche la partecipazione del Governo
alla formazione dell'atto ha caratteristiche diverse a seconda delle funzioni che questo svolge.
Ma se è diversa la partecipazione del Governo alla formazione dell'atto, anche la controfirma
svolge differenti funzioni a seconda delle tipologie degli atti e delle funzioni da questi svolte.
Su questa base gli atti del Presidente della Repubblica si distinguono in tre grandi categorie,
all'interno della quali la controfirma svolge funzioni radicalmente diverse:
- atti formalmente e sostanzialmente presidenziali;
- atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi;
- atti complessi.

Gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali sono caratterizzati dal fatto che non soltanto
l'atto è imputabile al presidente dal punto di vista della sua forma, ma anche il contenuto è
conseguenza di una scelta autonoma del Presidente della Repubblica. In questi casi la
controfirma del ministro competente svolge una funzione di controllo, tesa ad accertare la
legittimità dell'atto, e cioè la sua rispondenza allo schema costituzionale.

Gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi sono invece quegli atti nei quali,
al contrario, il contenuto è discrezionalmente determinato dal Governo, mentre le forma è
imputabile al Presidente. In questa tipologia è il Presidente che esercita un controllo di legittimità
rispetto ad un atto il cui contenuto sostanziale è di pertinenza del Governo, in quanto connesso
con la sua funzione di indirizzo politico.

Gli atti complessi sono infine quegli atti il contenuto dei quali è il frutto di una volontà coincidente
del Presidente e del Governo. In questi attilla controfirma attesta al convergenza, formale e
sostanziale del Governo, rispetto alla volontà del Presidente.

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4. I poteri nei confronti del Parlamento

Il particolare ruolo di garanzia delle regolarità costituzionale svolto dal Presidente della
Repubblica è agevolmente verificabile allorquando si tratti dei poteri di questi rispetto al
Parlamento. Il Presidente interviene infatti sia nel momento della formazione del Parlamento, sia
in alcuni momenti centrali della sua attività, sia nel momento della sua cessazione.

A norma dell'art. 87 della Costituzione il Presidente indice le elezioni delle nuove Camere e ne
fissa la prima riunione. Si tratta in verità di un potere sostanzialmente governativo e solo
formalmente presidenziale.
Il Presidente è garante della regolarità del procedimento di rinnovamento delle Camere e del
rispetto di termini costituzionalmente previsti. Esso è anche dotato di un potere di convocazione
straordinario delle Camere da intendersi tuttavia come un potere di garanzia, posto che le
Camere sono convocate nella regolarità costituzionale, dai loro Presidenti.
Il Presidente ha anche il diritto di nominare cinque senatori a vita tra i cittadini che hanno
illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Ciò ha al
funzione di stemperare in parte la politicità del senato, per introdurvi elementi di riflessione non
solo politica ma di più ampio respiro culturale e generale.

Nel corso della attività delle Camere il Presidente interviene con la promulgazione della legge ed
il potere di rinvio, e attraverso la possibilità di inviare messaggi alle Camere. Sulla
promulgazione ed il potere di rinvio si tratta di un potere formalmente e sostanzialmente
presidenziale, non finalizzato a correggere le scelte politiche ma per garantire il rispetto delle
regole costituzionali. La possibilità di inviare messaggi formali alle Camere era stato previsto
dalla Costituzione come una sorta di potere sollecitatorio, per attirare l'attenzione dell'organo
legislativo su problematiche che il Presidente ritenesse di particolare rilievo.

4.1 Lo scioglimento delle Camere

Uno dei poteri più rilevanti del Presidente della Repubblica è lo scioglimento delle Camere, che
può distinguersi in scioglimento per fine della legislatura e scioglimento anticipato.
Mentre lo scioglimento per la fine della legislatura costituisce un atto dovuto dal Presidente, lo
scioglimento anticipato è lo scioglimento effettuato anteriormente alla fine della legislatura
anticipatamente rispetto al termine previsto, allo scopo di consentire poi, con le nuove elezioni,
la riattivazione del sistema costituzionale.

Da un punto di vista normativo l'art. 88 della Costituzione prevede che il Presidente della
Repubblica può sciogliere le Camere o anche solo una di esse, sentiti i loro Presidenti. Il parere
dei Presidenti delle Camere è normalmente qualificato come obbligatorio ma non vincolante,
poiché deve essere obbligatoriamente chiesto, ma il Presidente può distaccarsene qualora non
ne condivida il contenuto. Il Presidente della Repubblica non può tuttavia sciogliere le Camere
negli ultimi sei mesi del suo mandato, il c.d. semestre bianco.

Queste poche norme lasciano tuttavia aperti molti interrogativi sulla determinazione dei
presupposti per l'esercizio del potere, e sulla classificazione di questo atto come presidenziale,
governativo o misto. Le modalità di esercizio del potere di scioglimento sono normalmente
legate al "tipo" di forma di Governo parlamentare.

In Italia la forma di Governo parlamentare non è a prevalenza dell'esecutivo. Inoltre il sistema


politico non è bipartitico e la legge elettorale è di tipo proporzionale con correttivi in senso
maggioritario. Infine il Presidente della Repubblica, nella forma di Governo italiana, è dotato di

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un insieme assai ampio di poteri finalizzati a riequilibrare la forma di Governo, o a correggerne i
momenti di stasi e di blocco, che certamente non consente di ricostruire il potere di scioglimento
come un atto meramente notarile, come è invece il potere del Sovrano nell'ordinamento inglese.
Lo scioglimento delle camere, nella forma di Governo italiana, non può dunque svolgere quelle
funzioni di istituto sostanzialmente a tutela del Governo che invece in Inghilterra, e dunque non
può essere considerato come un potere formalmente presidenziale ma sostanzialmente
governativo.
Se lo scioglimento fosse configurabile come un potere formalmente e sostanzialmente
presidenziale, sarebbe il Presidente alla fine il dominus dei rapporti tra Governo e Parlamento,
con la conseguenza però che questi rischierebbe di non essere più il garante ma il portatore di
proprie scelte di indirizzo.
Sembra pertanto più consono al modello della forma di Governo parlamentare italiana la
ricostruzione dello scioglimento come atto complesso, atto nel quale la volontà del Governo e
volontà del presidente debbono coincidere.

Casi di scioglimenti: lo scioglimento anticipato delle camere si distingue normalmente in


scioglimento successivo e scioglimento preventivo.

Lo scioglimento successivo consegue ad una crisi di Governo, ad un voto di sfiducia delle


Camere, e quindi alle dimissioni del Governo. In questi casi vi è una evidente situazione di
contrasto tra Parlamento e Governo, e se non vi sono altre possibilità per riattivare i circuito
dell'indirizzo politico, il Presidente può sciogliere le Camere. Si tratta del caso "classico" di
scioglimento anticipato che consegue ad una serie di valutazioni accertative effettuate dal
Presidente. Lo scioglimento delle Camere costituisce quindi un atto necessario e conseguente
per riattivare la regolarità del sistema parlamentare.

Lo scioglimento è detto preventivo quando si tratta di casi nei quali il Presidente valuta la
esistenza di una situazione di rottura non tra il Parlamento e il Governo, ma tra il Parlamento e il
corpo elettorale, cosicché lo scioglimento viene esercitato ancora in costanza di rapporto di
fiducia. Un ipotesi del genere si verificherebbe quando a seguito delle elezioni amministrative si
delinea un maggioranza politica diversa rispetto a quella presente in Parlamento. L'atto di
scioglimento sarebbe, in questa ipotesi, ad elevatissimo grado di discrezionalità, poiché il
Presidente, sciogliendo in assenza di dimissioni da parte del Governo, romperebbe un equilibrio
costituzionale ancora esistente.

5. I poteri nei confronti del Governo

Anche nei confronti del Governo il Presidente gode di numerosi poteri, sia nel momento della
nascita, sia ne momento della sua attività, sia nella fase della crisi.

Il Presidente svolge un ruolo fondamentale nel momento della nascita del Governo. La
Costituzione gli attribuisce infatti il potere di nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri e su
proposta di questi i ministri.

Si tratta certamente di un atto complesso del Presidente della Repubblica, perchè presuppone la
adesione del designando Presidente del Consiglio, che dovrà controfirmare l'atto.
La nomina dei ministri invece costituisce un atto solo formalmente presidenziale ma
sostanzialmente governativo. È infatti il Presidente del Consiglio incaricato che deve scegliere la
"squadra" di Governo. È evidente che ciò non toglie che anche in questa fase il Presidente
possa influenzare, suggerire, consigliare, attraverso l'esercizio di attività informali, il Presidente
del Consiglio designato in ordine alla composizione del Governo. Questi compiti rientrano
perfettamente nell'ambito del ruolo del Presidente, che ha la funzione di "riattivare" i circuiti
costituzionali per contribuire a formare un Governo che abbia la fiducia delle Camere.

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Durante la vita del Governo molti sono i poteri che la Costituzione attribuisce al Presidente,
alcuni sono collegabili alla sua funzione di controllo, altri sono simbolici connessi con la funzione
di capo dello Stato e di rappresentante dell'unità nazionale. Sono collocabili tra i primi
l'autorizzazione della presentazione dei disegni di legge di iniziativa governativa alle Camere,
nonché la emanazione degli atti con forza di legge e dei regolamenti.
Nel momento della crisi di Governo invece i poteri del Presidente acquistano la loro massima
espansione, perchè è il Presidente della Repubblica che deve gestire la crisi utilizzando i
numerosi ed elastici poteri che la Costituzione gli attribuisce,
Quando il Presidente del Consiglio presenta le proprie dimissioni al Presidente della Repubblica,
questi può in primo luogo respingere le dimissioni e rinviare il Governo alle Camere per un voto
di fiducia. Il potere di rinviare il Governo alle Camere per verificare la fiducia è certamente un
atto formalmente e sostanzialmente presidenziale, perchè rientra nelle scelte proprie del
Presidente per gestire la crisi. Il rinvio alle camere serve per "parlamentizzare" una crisi nata
come extraparlamentare ed ottenere, dal passaggio parlamentare, indicazioni per la successiva
gestione della crisi.
Se il Presidente accetta le dimissioni può procedere alla nomina di un nuovo Presidente del
Consiglio se vi sono le condizioni politiche o altrimenti può sciogliere le Camere.

Rientrano invece tra i compiti che sono attribuiti al Presidente in quanto capo dello Stato, il
potere di nomina, nei casi indicati dalla legge, dei funzionare dello Stato, l'accreditamento dei
diplomatici e la ratifica dei trattati internazionali, l'attribuzione del comando delle forze armate e
la presidenza del Consiglio supremo di difesa e ha il potere di dichiarare lo Stato di guerra
deliberato dalle Camere.

6. I poteri nei confronti dell'ordine giudiziario e della Corte costituzionale

La Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica il compito di presiedere il Consiglio


Superiore della Magistratura. Gli atti che comunque il Presidente pone in essere in quanto
Presidente del Consiglio Superiore non sono controfirmati, perchè si ritiene che il Presidente
agisca in questo caso non come Capo dello Stato ma, appunto, come Presidente del Consiglio
Superiore.

Al Presidente della Repubblica poi spetta di nominare cinque giudici della Corte costituzionale. Il
significato di questo potere di nomina è da ricollegare alle funzioni di garanzia e di equilibrio
svolte dal Presidente.

7. Il potere di esternazione

Accanto ai poteri di intervento costituzionalmente codificati nei confronti del Parlamento, del
Governo, e dell'ordinamento giudiziario, la dottrina riconosce al Presidente, e la prassi avvalora,
l'esistenza di un generale potere di esternazione, cioè la possibilità di esprimere pubblicamente
il proprio pensiero.
la Costituzione per la verità prevede un solo caso di esternazione: il messaggio motivato alle
Camere di cui all'art. 87 2° comma. Il potere di messaggio dovrebbe avere la funzione di
richiamare l'attenzione del Parlamento su tematiche, di rilievo costituzionale, che il Presidente
ritiene dovrebbero essere disciplinate dall'organo legislativo.

Dalla esistenza di questo potere si è tratto il fondamento costituzionale del generale potere del
Presidente di comunicare all'esterno il proprio pensiero. Queste "esternazioni" sono i c.d.
messaggi alla Nazione, i discorsi pubblici, le interviste, ecc. che non sono riconducibili ad atti
ufficiali tipici. Attraverso il potere di esternazione il Presidente si rivolge normalmente ai cittadini,

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ma in qualche misura stimola e sollecita gli organi costituzionali e i partiti politici a darsi carico
delle problematiche sottolineate attraverso l'esternazione.
L'esercizio del potere di esternazione, tende invece a portare il Presidente nella tensione della
politica, ed è pertanto opportuno che venga esercitato con estrema prudenza.

È bene considerare che diverso dal potere di esternazione è invece quel potere esercitato sotto
traccia ed in genere in maniera non pubblica (definito come moral suasion) attraverso il quale il
Presidente "fa comprendere" alle forze politiche e agli organi costituzionali la necessità
assumere determinati comportamenti costituzionalmente necessitati. L'esercizio di questi poteri
si basa principalmente su attività informali, di mediazione e di armonizzazione, attraverso le
quali il Presidente interviene nelle relazioni tra gli organi costituzionali e costituisce forse una
delle attività più importanti che svolge il Presidente della Repubblica.

8. Il potere di grazia

L'art. 87 attribuisce poi al presidente il potere di concedere la grazie e commutare la pena.


La grazia consiste in un provvedimento del Presidente della Repubblica con il quale quest'ultimo
estingue o riduce la pena inflitta ad una singola persona con un provvedimento dall'autorità
giudiziaria.

La grazie si distingue pertanto dall'amnistia e dall'indulto, che la Costituzione attribuisce alla


legge del Parlamento da approvarsi con la maggioranza dei due terzi, poiché queste leggi non si
rivolgono a persone determinate ma a fattispecie di reato, ed inoltre mentre la amnistia estingue
il reato l'indulto estingue soltanto la pena.

Dunque tale provvedimento deve essere collegato a ragioni di tipo umanitario e non di politica
giurisprudenziale o penitenziaria. Ne consegue che questo potere deve essere qualificato come
formalmente e sostanzialmente presidenziale, in considerazione del fatto che la scelta circa la
concessione della grazia non risponde a ragioni di politica giurisprudenziale, che sono proprie
dell'organo di indirizzo politico (Governo), ma invece a ragioni estranee alla politica, umanitarie,
di sensibilità, ecc., che possono essere compiute dal Presidente della Repubblica.

9. La responsabilità del Presidente della Repubblica

Quando si parla di responsabilità in relazione ad organi costituzionali, occorre distinguere tra


responsabilità politica e responsabilità giudiziaria.

La responsabilità politica discende dalla esistenza di un rapporto di fiducia tra due organi,
nell'ambito del quale normalmente un organo ha la possibilità di rimuovere l'altro. La
responsabilità costituisce infatti l'altro versante del rapporto di fiducia (non ci può essere
responsabilità senza rapporto di fiducia e viceversa).
La responsabilità giuridica invece si distingue in responsabilità penale, civile e amministrativa. In
questi casi, alla esistenza di una responsabilità è collegata una sanzione, che è personale ed
afflittiva nel caso penale, mentre è risarcitoria nel caso del dritto civile e amministrativo.

Per quanto concerne il Presidente della Repubblica, nel nostro ordinamento il principio generale
è quello della irresponsabilità politica, principio codificato dall'art. 90 della Costituzione che
recita: "il Presidente non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni".
La irresponsabilità è conseguente al ruolo che la Costituzione ha assegnato al Presidente, di
garanzia, di stimolo e di mediazione nei confronti degli altri poteri dello Stato, ma non di diretta
partecipazione all'indirizzo politico.

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"Tale singolare caratteristica della posizione del Presidente si riflette sulla natura delle sue
attribuzioni, che non implicano il potere di adottare decisioni nel merito di specifiche materie, ma
danno allo stesso gli strumenti per indurre gli altri poteri costituzionali a svolgere correttamente
le proprie funzioni, da cui devono scaturire le relative decisioni di merito". (Corte Costituzione. n.
1 del 2013).

Detto della responsabilità politica, le uniche ipotesi di responsabilità giuridica che possono
riguardare il Presidente sono quelle previste nel 2° comma dell'art. 90, dopo aver sancito nel 1°
comma la irresponsabilità del Presidente per gli atti compiuti nell'esercizio delle su funzioni,
afferma tuttavia "tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è
messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi
membri". La norma è poi integrata dall'art. 134 che prevede che si la Corte costituzionale a
giudicare sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica.
Il Presidente è dunque unicamente responsabile, nell'esercizio delle sue funzioni, per i reati di
"attentato alla Costituzione" e "alto tradimento", che sono definibili come reati "propri" del
Presidente della Repubblica, perchè solo il Presidente può commetterli.
Nel caso infatti di atti o comportamenti posti in essere dal Presidente della Repubblica come
privato cittadino che costituiscono reato, il Presidente della Repubblica è responsabile secondo
le regole ordinarie del diritto penale.

Per il configurarsi della fattispecie di attentato alla Costituzione o di alto tradimento, non è
sufficiente la semplice violazione della Costituzione, ma occorre invece che il Presidente abbia
posto in essere comportamenti che comportano violazioni della Costituzione, compiute
dolosamente, allo scopo di sovvertire l'ordine costituzionale. In queste ipotesi il Presidente della
Repubblica è messo in stato di dal Parlamento in seduta comune e giudicato dalla Corte
costituzionale.

10. Il ruolo complesso del presidente nella forma di Governo.

I poteri del Presidente della Repubblica sono numerosi e molto flessibili. Pur non essendo
delineato dalla Costituzione come il supremo reggitore dello Stato, i poteri del Presidente
possono espandersi notevolmente in periodi di crisi e quando il circuito costituzionale si blocca,
per poi affievolirsi nuovamente quando le relazioni tra gli organi costituzionali rientrano nella
normalità costituzionale.

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CAPITOLO V
L’ORDINAMENTO REGIONALE

1. Stato accentrato, Stato federale e Stato regionale: alcune distinzioni preliminari

Classificare le forme di Stato in ragione del grado di decentramento delle funzioni è oggi un
esercizio complesso, a causa dei livelli molto diversi di decentramento che l’esperienza concreta
propone.
In linea generale si tende a distinguere tra tre grandi modelli: lo Stato accentrato, lo Stato
regionale e lo Stato federale, Tuttavia quando si passa ad analizzare in dettaglio quali sono quali
sono gli elementi che caratterizzano - e quali distinguono - l’un modello dall’altro è agevole
verificare che è assai difficile dividere rigidamente in categorie, e soprattutto distinguere lo Stato
regionale, dallo Stato federale.

Nella tradizione culturale ottocentesca la distinzione tra i diversi modelli organizzativi dello Stato
veniva principalmente effettuata sulla base delle modalità di distribuzione della sovranità . Si
distingueva così tra:

a) Stato unitario accentrato. Si intendeva con questa formulazione lo Stato nel quale la
sovranità è originaria e l'esercizio dei poteri sovrani (potere legislativo esecutivo e
giudiziario) incardinati a livello dell'organizzazione statale. L'esempio più classico di questo
modello organizzativo lo si ritrova nell'esperienza francese, in concomitanza con il rafforzarsi
dei poteri di decisione del Sovrano. Esso è caratterizzato dal decentramento di sole funzioni
amministrative, che tuttavia vengono indirizzate e coordinate dal centro.

b) Stato federale. Lo Stato federale costituisce spesso una evoluzione dello Stato confederale.
Si intendeva con questa formulazione una unione di Stati ciascuno dotato di sovranità
originaria e caratterizzato dall'esercizio dei poteri sovrani (potere legislativo esecutivo e
giudiziario). La Federazione degli Stati che li unisce deriva da un accordo internazionale, e
non da una Costituzione, poiché ciascuno Stato, essendo appunto sovrano, è libero di
aderire o non aderire a quell'accordo. Il modello classico è dato dagli Stati Uniti di America,
quando le colonie inglesi acquisirono indipendenza dall'Inghilterra e decisero di unirsi in una
confederazione. A seguito della evoluzione storica la confederazione si è poi trasformata in
una federazione. La Costituzione (e non più un trattato internazionale) prevede un riparto di
competenza tra Stato centrale e Stati membri in relazione alle tre funzioni dello Stato (potere
legislativo, esecutivo e giudiziario).

c) Stato regionale. Si intendeva con questa formulazione quel modello organizzativo


caratterizzato dalla sovranità preesistente dello Stato centra- le, che è dunque il titolare di
poteri originari, mentre la Costituzione attribuisce ad enti autonomi l'esercizio di alcuni di
questi poteri. Lo Stato è dunque sovrano, mentre l'autonomia regionale è derivata dallo
Stato. Ne consegue che questi modelli prevedono normalmente una serie di controlli dello
Stato nei confronti delle Regioni, indicativi della superiorità del primo rispetto ai secondi. Il
modello classico di questa forma organizzati- va era data dalla Costituzione italiana del
1948, anteriormente alle modifiche costituzionali del 2001. Questa distinzione, che mantiene
una sua validità principalmente come schema generale di larga massima, è diventata
tuttavia oggi imprecisa, specie se utilizzata per distinguere lo Stato federale da quello
regionale, principalmente perché la sovranità non costituisce più la categoria fondante i
modelli organizzativi degli Stati contemporanei.
La cultura dell'ottocento e della prima metà del novecento aveva esaltato il dogma della
sovranità dello Stato. Dal potere di dichiarare la guerra e firmare la pace derivavano tutte le altre

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qualità del potere statale: il fare le leggi e farle rispettare, imporre tributi e amministrare la
giustizia.
Negli Stati costituzionali contemporanei la sovranità invece non preesiste nello Stato, perché è
distribuita tra organi e istituzioni secondo modalità determinate dalla Costituzione.

Si è allora cercato di distinguere tra Stato federale e Stato regionale seguendo schemi
pragmatici, e cioè sulla base di indicatori in relazione alle competenze. L'esistenza di un certo
modello di distribuzione di competenza caratterizzerebbe lo Stato in senso federale e non in
senso regionale.
Il primo e più importante indicatore sarebbe dato dalle modalità di distribuzione delle
competenze legislative. In particolare, si diceva, gli Stati federali sono caratterizzati dall'avere i
singoli Stati tutte le competenze salvo quelle, espressamente enumerate, riservate allo Stato
federale. Al contrario negli Stati regionali alle Regioni spetterebbero competenze enumerate,
mentre allo Stato spetterebbe la competenza generale. Si sono poi individuati altri criteri che,
accompagnati al primo, caratterizzerebbero lo Stato in senso federale. Così l'esistenza di una
seconda Camera rappresentativa delle istanze locali costituirebbe un ulteriore indice del modello
federale, come anche la partecipazione al procedimento di revisione della Costituzione da parte
delle entità autonome, o, secondo altri, l'assetto decentrato del sistema fiscale.
Anche questi criteri, in realtà, possono dare una misura del livello di decentramento ma non
sono esaustivi per affermare con certezza la pre- senza di un modello federale piuttosto che
regionale.
Il vero è che nel corso del tempo quei modelli si sono fortemente ibridati. In linea generale le
Costituzioni contemporanee hanno - sino ad adesso ma con qualche interrogativo sul futuro -
teso ad aumentare il grado di decentramento negli Stati accentrati o a basso livello di
regionalismo e, al contrario, aumentato il livello di centralismo negli Stati di tipo federale. Le
ragioni di questo percorso sono da ricercarsi nel bisogno di decisioni più vicine al territorio per gli
Stati a basso livello di decentramento, e al contrario in un bisogno di rafforzare la politica
unitaria, specialmente economica, per quegli Stati ad elevato livello di decentramento come gli
Stati federali.
Questi elementi hanno fatto sì che le classificazioni tradizionali sopra riportate, ma anche altri
strumenti di classificazione basati su indicatori la cui presenza o mancata presenza è
caratteristica di una forma di Stato o di un altra, siano difficilmente utilizzabili, perché oggi le
distinzioni non sembrano essere né ontologiche né basate su singole competenze, quanto
principalmente quantitative e derivanti dalle modalità storiche della nascita delle diverse forme di
Stato. Infatti, e per esemplificare, gli Stati Uniti si dicono federali principalmente perché
storicamente gli Stati appartenenti alla federazione sono diventati autonomi dopo la guerra di
indipendenza con l'Inghilterra ed hanno poi deciso di unirsi in una Confederazione prima e in
una Federazione poi. Ma nel tempo la Federazione ha assunto assai più competenze rispetto
alla fase iniziale e ciò tuttavia non ha cambiato la definizione della forma di Stato.
In senso contrario, e come meglio vedremo, la Costituzione italiana del 1948 prevedeva un
sistema di decentramento basato su di uno Stato titolare di competenze generali e le Regioni
titolari di competenze enumerate. Con la riforma del 2001 apparentemente questo sistema si è
ribaltato, poiché le Regioni sono diventate titolari delle competenze generali mentre lo Stato è
divenuto titolare di competenze enumerate. E tuttavia sarebbe fuorviante asserire che vi è stata
una trasformazione della forma di Stato in senso federale, non solo perché, come vedremo, lo
Stato mantiene competenze che condizionano l'esercizio delle competenze regionali, ma
soprattutto perché lo Stato italiano è nato e si è sviluppato in una prospettiva unitaria. Non vi è
cioè un passato storico in senso federale che giustifichi, nonostante la modifica delle
competenze, una lettura in senso federale del nuovo modello.
Il fatto è che in generale quasi tutte le forme di Stato sono dotate di strumenti di decentramento
e, allo stesso tempo, di strumenti per ricondur- re ad unità questo decentramento. Cosicché oggi
appare più corrispondente al vero distinguere tra Stati a basso livello di decentramento e
Stati ad elevato livello di decentramento, piuttosto che non cercare, negli innumerevoli

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modelli organizzativi possibili, l'elemento caratterizzante in grado di tracciare una linea netta di
demarcazione tra un modello ed un altro.

2. Le ragioni storiche del regionalismo in Italia

Le Regioni in Italia sono state solo delle mere entità geografiche sino alla entrata in vigore della
Costituzione (con la eccezione di alcune regioni a statuto speciale i cui statuti sono stati
approvati anteriormente alla approvazione della Costituzione). Esse cioè non esistevano come
enti di decentramento, né amministrativo né politico.
La Costituzione del 1948 ha trasformato queste entità geografiche in enti di decentramento
politico, e poi, con una riforma costituzionale del 2001, ad esse sono state attribuite ulteriori
importanti competenze, con lo scopo di aumentare ancora il livello del decentramento. Il
percorso regionalista italiano tuttavia è stato assai travagliato, mentre non sempre le scelte
effettuate nella Costituzione appaiono coerenti con la tradizione storica e con il complessivo
modello costituzionale.
Lo Stato italiano ha una tradizione storica di tipo centralista. Giunto tardi all'unificazione, tra i due
opposti modelli che allora era possibile scegliere, il modello federalista o autonomista che
mirava a garantire l'unità dello Stato attraverso la concessione di autonomie, e il modello
centralista che mirava a rafforzare l'unitarietà dello Stato attraverso l'estensione del modello
piemontese, fu scelto il secondo. Lo Stato italiano per- tanto nacque sulla base del modello
amministrativo napoleonico, basato sulla concentrazione dei poteri negli apparati centrali e su
enti - quali i Comuni - caratterizzati dal poter esercitare poteri amministrativi allora sotto il
rigoroso controllo del Governo.

Se è vero dunque che dal risorgimento scaturì un modello organizzativo centralista, è anche
vero però che il pensiero risorgimentale aveva sviluppato approfondite riflessioni su modelli
organizzativi alternativi, ispirati in contrario al decentramento e al federalismo, specialmente in
correlazione con la tutela dei diritti di libertà. Nel pensiero di Gioberti e Cattaneo il
decentramento è considerato sia uno strumento per frazionare il potere centrale, e dunque come
garanzia di libertà, sia per avvicinare le decisioni ai cittadini che possono controllare l'operato dei
governanti in maniera più diretta, e dunque come garanzia di democrazia. Cosicché do- po la
caduta del fascismo era logico che le forze politiche che dovevano dar vita ,ad un nuovo
ordinamento costituzionale guardassero anche a quel pensiero, che, abbandonato nel
risorgimento, avrebbe potuto essere rivitalizzato da una forma di Stato quale quella delineata
dalla Costituzione del 1948, largamente basata sul riconoscimento e sulla tutela delle libertà
fondamentali e sul bilanciamento dei poteri.

Le ragioni principali della scelta regionalista sono dunque da rintracciarsi nell'essere il modello
regionale complementare rispetto alle scelte di fondo effettuate dalla Costituzione riguardo al
sistema delle libertà e riguardo alla organizzazione, assai bilanciata, della forma di Governo.
Inoltre le rivendicazioni autonomiste che venivano da alcune Regioni del paese (Sicilia,
Sardegna, Valle d'Aosta), avevano già prodotto una spinta verso il riconoscimento di autonomie
speciali in conseguenza delle peculiarità geografiche, economiche e linguistiche di alcune di
esse (ad esempio lo Statuto della Regione siciliana fu approvato prima della entrata in vigore
della Costituzione, nel 1946). Queste circostanze contribuirono a definire il dibattito sul
regionalismo e a indirizzarne il modello di fondo.
La Costituzione distingue infatti tra Regioni a statuto speciale (che sono la Sicilia, la Sardegna,
la Valle d'Aosta, il Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige) e Regioni a statuto ordinario
che sono le altre quindici.
Le Regioni a statuto speciale godono di particolari forme di autonomia e di particolari poteri
conseguenti a statuti approvati con leggi costituzionali, il cui grado di autonomia è determinato
dagli statuti. Queste forme speciali di autonomia furono allora giustificate, o in ragione della

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arretratezza economica (come nel caso delle regioni insulari) o per ragioni di tutela di minoranze
linguistiche (come nel caso delle regioni di confine). La gran parte degli statuti speciali furono
deliberati dalla stessa Assemblea dopo la sua scadenza, come previsto dalla XVII disposizione
transitoria, il 31 gennaio del 1948. Lo Statuto del Trentino Alto Adige recepiva gli accordi tra Italia
ed Austria (ed. accordi De Gasperi Gruber), mentre lo statuto del Friuli Venezia Giulia fu
approvato con la legge costituzionale n. 1 del 1963.
Le Regioni a statuto ordinario invece godevano di un potere statutario ma gli statuti erano
approvati con legge ordinaria, e dunque il grado di autonomia di queste ultime era assai minore.
Ciò che distingueva le Regioni rispetto agli altri enti di decentramento amministrativo (Comuni e
Provincie) in ogni caso era l'attribuzione di un potere statutario (potere di autoorganizzazione,
pur all'interno di certi limiti) e di un potere legislativo e quindi politico. Le Regioni dovevano
essere quindi enti capaci di svolgere una propria funzione politica, e dunque la
"qualità" dell'autonomia regionale era assai diversa rispetto a quella delineata per gli enti locali
territoriali che, privi della competenza legislativa, sono invece qualificabili come enti di
decentramento amministrativo.
Per queste ragioni, del resto, il modello regionale contribuisce a definire la forma di Stato, ed
ancora per questa ragione alle Regioni la Costituzione assegna competenze costituzionali che
incidono anche nelle attività dello Stato centrale. Le Regioni ad esempio partecipano alla
elezione del capo dello Stato (art. 83), sono titolari di iniziativa legislativa (art. 71), possono
richiedere un referendum abrogativo (art. 75), e partecipano al procedimento di revisione
costituzionale attraverso la richiesta di referendum approvativo (art. 138).

3. Il modello regionale nella Costituzione

La Costituzione del 1948, nel titolo V, delineava quindi un modello di decentramento regionale
all'interno del quale le Regioni erano titolari di autonomia legislativa. Questa autonomia tuttavia
era di grado diverso per le Regioni a statuto speciale rispetto alle Regioni a statuto ordinario. Le
prime godevano infatti di tre livelli di autonomia: la potestà legislativa esclusiva, la potestà
legislativa concorrente o ripartita, la potestà legislativa integrativa attuati va (che non spettava
però alla Regione Sicilia).
La potestà legislativa esclusiva implicava la possibilità, in alcune mate- rie previste dallo statuto,
di legiferare liberamente con il solo rispetto di alcuni limiti definiti come esterni (il limite
territoriale, il limite costituzionale, il rispetto degli obblighi internazionali, delle grande riforme
economico sociali della Repubblica, i principi generali dell'ordinamento, l'interesse nazionale). In
sostanza la Regione poteva legiferare su quelle materie senza alcun condizionamento "interno"
da parte dello Stato.
La competenza concorrente - che come si è detto spettava anche alle Regioni speciali - era
invece tipica delle Regioni a statuto ordinario, che non erano tuttavia dotate della competenza
esclusiva. La competenza concorrente, prevista nell'art. 117 della Costituzione, dava la
possibilità alle Regioni di legiferare nell'ambito di un elenco di materie stabilito dallo stesso art.
117, nell'ambito di principi stabiliti per ciascuna materia da leggi dello Stato, dette leggi cornice.
Secondo il modello costituzionale cioè, lo Stato avrebbe dovuto detta- re, nelle materie dell'art.
117, leggi contenenti norme di principio che la Regione avrebbe dovuto attuare con propria
normativa di dettaglio. Va anche ricordato che l'elenco di materie previsto nell'art. 117 era assai
eterogeneo: si andava da materie di notevole rilievo come l'urbanistica e l'agricoltura, a materie
di assai minor importanza come le fiere e i mercati o la pesca nelle acque interne. Soprattutto
questo elenco di materie appariva segmentato, senza una chiara visione complessiva di quello
che avrebbe dovuto essere il ruolo della Regione nell'esercizio delle sue competenze legislative.
La terza competenza era definita come attuativa e spettava sia alle Regioni a statuto speciale
che alle Regioni a statuto ordinario. Si trattava di una competenza che spettava allo Stato di
attivare. Infatti, prevedeva l'art. 117, "le leggi della Repubblica possono demandare alle Regioni
il potere di emanare norme per la loro attuazione". Questa competenza era dunque svincolata

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dall'elenco di materie e configurava la possibilità per la Regione - se lo Stato lo avesse voluto -
di adattare norme legislative statali alle esigenze proprie del territorio regionale.
Se il ruolo che le Regioni avrebbero dovuto svolgere, sia per l'elenco eterogeneo di materie, sia
per gli stessi connotati assai incerti delle modalità di esercizio della competenza concorrente,
non appare chiarissimo in Costituzione, il quadro delle funzioni amministrative è invece assai più
definito.
Secondo il modello costituzionale dell'art. 118 le Regioni, che avevano competenze
amministrative su tutte le materie nelle quali avevano competenza legislativa (principio del
parallelismo delle funzioni), avrebbero dovuto svolgere funzioni di enti di decentramento e di
snodo tra lo Stato e gli altri enti locali (principalmente Comuni e Provincie). Esse infatti
avrebbero dovuto esercitare le proprie funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai
Comuni o ad altri enti locali o valendosi dei propri uffici. L'idea della Costituzione era dunque
quella di evitare che le Regioni si dotassero di un apparato burocratico importante - finendo per
esse- re cioè dei piccoli Stati - poiché l'esercizio delle funzioni amministrative avrebbe dovuto
essere decentrato attraverso gli altri enti locali.
Le Regioni erano poi dotate di autonomia finanziaria. Ad una piena autonomia di spesa, tuttavia,
l'art. 119 della Costituzione affiancava una più limitata autonomia di entrata. Alle Regioni infatti
erano attribuiti - con leggi dello Stato - tributi propri e quote di tributi erariali. Inoltre, per
provvedere a scopi determinati lo Stato poteva assegnare per legge a sin- gole Regioni
contributi speciali. L'entrata principale era rappresentata dalle quote di tributi erariali, che
venivano conglobate in un fondo comune nazionale e ripartito poi tra le varie Regioni anche con
finalità perequative (riequilibrare le Regioni più svantaggiate). Rispetto a questo regime, valido
per le Regioni a statuto ordinario, gli statuti speciali prevedevano strumenti più ampi di
finanziamento attraverso entrate fiscali il cui gettito era trasferito in grande parte alla Regione.
Il sistema dei controlli rispecchiava il modello di autonomia che la Costituzione aveva individuato
per le Regioni. Enti cioè dotati di autonomia garantita dalla Costituzione, ma i cui confini erano
ampiamente determinati dalle leggi dello Stato.
Gli atti della Regione - legislativi e amministrativi - erano sottoposti a controlli di legittimità ed
anche - sia pure in ipotesi limitate - di merito, controlli che facevano perno sul "Commissario del
Governo", residente nel capoluogo della Regione, con il compito di sovraintendere alle funzioni
amministrative esercitate dallo Stato e di coordinarle con quelle del- la Regione. In particolare le
leggi regionali erano sottoposte ad un controllo preventivo da parte del Governo, che, tramite il
Commissario di Governo, poteva richiedere una nuova deliberazione al Consiglio regionale e
poi, in caso di riapprovazione della stessa, sollevare la questione di legittimità costituzionale
davanti alla Corte costituzionale per ragioni di legittimità, o davanti al Parlamento per ragioni di
merito.
Gli atti amministrativi regionali, invece, erano sottoposti al controllo di un organo decentrato
dello Stato da istituirai con legge statale (la Commissione di controllo sull’amministrazione
regionale). Controllo previsto come regola di legittimità ma che, in determinati casi delineati dalla
legge, poteva essere anche di merito.
Questo modello, nel quale le Regioni avevano sì autonomia ma una autonomia fortemente
controllata dallo Stato, trovava un punto di riferimento coerente nell'art. 5 della Costituzione, che
riaffermava l'unitarietà dello Stato (la Repubblica, una e indivisibile). Tale norma voleva
significare che, pur promuovendo le autonomie locali e ispirandosi al principio del
decentramento, la Costituzione non intendeva però legittimare un modello di tipo federale.

4. La difficile attuazione del modello regionale

Dopo la entrata in vigore della Costituzione quelle stesse forze che ne avevano voluto la
introduzione ne rallentarono notevolmente il percorso attuativo. Le Regioni a statuto ordinario
iniziarono ad operare infatti solo nel 1970.

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Nel 1953 inoltre, fu varata una legge (la legge n. 62 del 1953, cosiddetta Legge "Sceiba" dal
nome del ministro proponente, intitolata "Costituzione e funzionamento degli organi regionali")
suscettibile di generare un sostanziale rinvio sine die della competenza legislativa regionale
concorrente.
La Costituzione stabiliva che le Regioni a statuto ordinario erano titolari della competenza ed.
concorrente. Esse cioè potevano legiferare nelle materie previste dalla Costituzione nell'ambito
dei principi stabiliti dalla legge dello Stato. La legge "Sceiba" stabilì allora che l'esercizio
della competenza legislativa regionale concorrente non poteva essere esercitata sin tanto che lo
Stato non avesse predisposto le necessarie "leggi cornice", che dovevano determinare i principi
fondamentali sulle materie di competenza dello Stato. Scelta che però implicava la
subordinazione dell'esercizio della competenza regionale concorrente alla volontà politica dello
Stato di emanare le leggi cornice: se infatti lo Stato non avesse approvato tali leggi, le Regioni
non avrebbero potuto esercitare la competenza legislativa.
L'attuazione delle Regioni ordinarie ebbe inizio nel 1968, con l’approvazione della legge
elettorale regionale (legge n. 108 del 1968). Nel 1970 furono svolte le elezioni dei Consigli
regionali e in quello stesso an- no fu approvata la legge n. 281 del 1970 (ed. legge finanziaria
regionale), con la quale venne sostituita la disposizione della legge "Sceiba" che prevedeva la
necessaria emanazione delle leggi cornice per l'esercizio della competenza legislativa
concorrente.
La nuova norma ribaltava i presupposti: se lo Stato non avesse emanato le leggi cornice le
Regioni avrebbero potuto trarre interpretativamente i principi necessari per l'esercizio della
competenza regionale dalle norme vigenti sulle materie.
Questa nuova disposizione, se da un lato rendeva più difficile l’esercizio della
competenza concorrente, dato che erano le Regioni a dover individuare nella legislazione
vigente quali erano i principi ai quali occorre- va adeguarsi, dall'altro lato faceva sì che tale
competenza fosse operativa sin da subito.

In conseguenza di questa legge le Regioni furono pertanto messe in condizioni di esercitare la


loro competenza legislativa, ma anche una volta a regime, la legislazione regionale non è
apparsa mai in grado di svolgere un ruolo politico di particolare rilievo, risultando in grandissima
parte interstiziale e microsezionale. Di questo sviluppo, relativamente insoddisfacente rispetto
alle ragioni che avevano portato al modello regionale, si so- no date varie spiegazioni,
accomunate però da una comune chiave di lettura: l'autonomia sarebbe stata a vario titolo
compressa e pertanto non in grado di dispiegarsi in maniera significativa.
È certamente vero che le materie di competenza legislativa concorrente, già disorganiche
nell'elencazione costituzionale, furono interpretate in una prima fase assai restrittivamente. In
primo luogo, quando furono trasferite le funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, fu data
prima una lettura restrittiva delle materie, e poi comunque furono operati vari "ritagli" sulle stesse
in ragione della ritenuta presenza di un interesse nazionale, che legittimava lo Stato a
trattenere al centro porzioni importanti di competenze teoricamente di spettanza regionale.
L'esercizio delle competenze fu dunque assai condizionato dall'interesse nazionale, clausola
sufficientemente generica da consentire limitazioni discrezionali alle materie assegnate.

In secondo luogo, invalse la prassi, avallata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che
lo Stato poteva legiferare nelle materie di com- petenza regionale non solo sui principi ma
anche sul dettaglio. Sarebbe spettato poi alla Regione legiferare a sua volta sul dettaglio
rispettando i principi: la normativa regionale di dettaglio, approvata successivamente, avrebbe
abrogato la corrispondente normativa statale. Questo modello, che legittimava lo Stato ad
intervenire sempre e comunque anche sulle competenze costituzionalmente riservate alla
Regione, produsse l'effetto di rendere la legislazione regionale meramente eventuale e
certamente sempre più interstiziale, dato che sulle varie materie di competenza regionale era già
presente una norma di livello statale.

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In terzo luogo fu introdotto l'ulteriore limite degli obblighi internazionali, che escludeva la
competenza regionale - attribuendola allo Stato - laddove vi fosse un problema di attuazione di
un obbligo internazionale.
Questo limite, anche esso avvalorato dalla Corte costituzionale, ebbe grande rilievo soprattutto
quando fu applicata agli obblighi derivanti dal diritto comunitario. Intere materie di competenza
comunitaria - ad esempio l'agricoltura - furono attratte su questa base nella sfera statale.
Se queste limitazioni alla autonomia regionale costituiscono dei dati oggettivi, unitamente alla
tardiva partenza del modello regionale che certamente ne ha condizionato l'operatività, è anche
vero però che le Regioni hanno ripetuto, nei confronti degli enti locali, gli stessi "errori" che lo
Stato ha compiuto nei confronti delle Regioni. Piuttosto che porsi come enti di snodo tra lo Stato
e gli altri enti locali, come peraltro espressamente previsto dall'art. 118 della Costituzione
all'ultimo comma, le Regioni hanno costituito apparati burocratici pesanti - e costosi - per
esercitare loro stesse le funzioni amministrative anziché delegarle agli enti locali.
Tale atteggiamento, tuttavia, era anche conseguenza di una mancata riforma degli enti locali
minori, soprattutto sul piano del loro dimensiona- mento. La realtà comunale italiana era - ed è -
estremamente diversificata in termini di dimensionamento e, conseguentemente, di apparati
amministrativi e competenze. Vi sono dunque amministrazioni comunali perfettamente in grado
di gestire deleghe complesse, accanto ad enti locali che invece per le loro piccole o piccolissime
dimensioni non hanno strutture idonee a svolgere questi compiti.
È un fatto tuttavia che a cavallo degli anni '90 le Regioni, strette tra un processo di integrazione
sovranazionale comunitario sempre più stringente, i condizionamenti statali, ed il tradizionale
sistema delle autonomie lo- cali basato su Provincie e Comuni, apparivano assai lontane dal
realizzare quell'ideale di garanzia dei diritti caro al pensiero storico federalista. Si ritenne allora
che il sostanziale fallimento dell'esperienza regionale derivasse dal modello costituzionale, che
non era stato chiaro sui livelli di autonomia e sul sistema dei raccordi tra lo Stato e le Regioni,
senza tuttavia ragionare prima sul dimensionamento regionale, sul dimensionamento degli enti
locali e soprattutto sulla progressiva ed inevitabile integrazione europea che avrebbe
probabilmente reso eccessivi tutti i livelli di governo e di amministrazione dei quali siamo dotati.

5. L'impianto regionale dopo la riforma del titolo V: una visione complessiva

II percorso di riforma del modello regionale si è dunque incentrato, prima che su di una
semplificazione dei livelli di governo probabilmente eccessivi e dimensionalmente non corretti,
sulla questione del rafforza- mento del grado di autonomia delle Regioni. Tra il 1999 e il 2001,
con tre leggi costituzionali (la legge n. 1 del 1999, n. 2 e n. 3 del 2001), fu allora modificato
sostanzialmente il vecchio "Titolo V" della Costituzione.
Con le tre leggi costituzionali sopra citate si è voluto rafforzare l’autonomia regionale, agendo sia
sull'autonomia statutaria, sia sull'autonomia legislativa e amministrativa, sia sull'autonomia
finanziaria.
Le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 2 del 2001 hanno riformato l'autonomia statutaria delle
regioni ordinarie e speciali. Lo statuto delle Regioni ordinarie è divenuta una fonte a tutti gli
effetti espressione di autonomia (se ne vedrà tuttavia nel paragrafo successivo a quali limiti è
sottoposto) sia per i contenuti che per la forma. Dal punto di vista del con- tenuto infatti, tale
fonte disciplina la forma di Governo regionale, cioè i rapporti tra il Consiglio, la Giunta e il
Presidente della Giunta, oltre a disciplinare i principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento della Regione, e gli istituti di partecipazione (referendum e iniziativa popolare). In
coerenza con l’attribuzione di questa competenza, inoltre, la legge n. 1 del 1999 ha attribuito alla
competenza legislativa regionale concorrente la materia elettorale, che sino ad allora era invece
disciplinata attraverso una legge dello Stato.
Dal punto di vista della forma lo statuto diviene una fonte regionale. Questo infatti è approvato
con legge regionale con un procedimento che ricalca quello previsto dall'art. 138 della
Costituzione, anche per accentuarne la funzione di garanzia e per evidenziarne la natura in

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senso lato "costituzionale". La legge n. 2 del 2001 ha riformato, a questo punto per simmetria, il
procedimento statutario delle Regioni a statuto speciale che, paradossalmente, era divenuto
"meno autonomo" di quello delle Regioni ordinarie. Tali statuti infatti erano approvati con legge
costituzionale, cioè con una fonte statale e non regionale, e per modificarli occorreva quindi
instaurare il procedimento di revisione costituzionale. Con la nuova normativa è stata attribuita
alle Regioni a statuto speciale, sino alla modifica degli statuti, la possibilità di adottare una legge
speciale regionale, la ed. legge statutaria approvata dal Consiglio regionale a maggioranza
assoluta, con la quale disciplinare la forma di Governo secondo il modello delle regioni ordinarie.

La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha poi completato la riforma incidendo sull'autonomia


legislativa, amministrativa, finanziaria ed anche sul sistema dei controlli. La riforma si basa sul
riconoscimento di una autonomia costituzionale teoricamente paritaria nei confronti dei vari enti
che compongono lo Stato. Come recita l'art. 114 al 2° comma infatti: "I Comuni, le Provincie, le
Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo
principi fissati dalla costituzione" Il nuovo modello di riparto della competenza legislativa tra lo
Stato e le Regioni si fonda sulla attribuzione allo Stato della competenza esclusiva su alcuni
"gruppi" di materie; sulla attribuzione alle Regioni di una competenza concorrente - cioè nel
rispetto dei principi stabiliti dalla legge dello Stato - su altri gruppi di materie; sulla attribuzione
alle Regioni della competenza residuale su tutte le materie che non spettano né allo Stato né
alla competenza concorrente; sulla possibilità di affidare alla competenza esclusiva regionale,
con legge dello Stato, ulteriori materie previste vuoi nella competenza esclusiva statale, vuoi
nella competenza regionale concorrente (art. 116 3° comma).
La novità più appariscente della riforma costituzionale è il ribaltamento del precedente sistema
del riparto di competenze. Alle Regioni a statu- to ordinario non solo è attribuita una competenza
esclusiva che nel vecchio testo esse non avevano, ma questa competenza esclusiva appare a
prima vista di tipo generale, poiché è lo Stato ad avere competenze sulle materie elencate,
spettando alle Regioni le competenze su tutte le altre. Si rovescia così, ancora a prima vista,
il precedente modello che individuava nello Stato l'ente a competenza generale e nella Regione
l'ente con competenze determinate sulla base dell'elenco di materie. Dal punto di vista
amministrativo spettano alle Regioni tutte le competenze non riservate alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato, men- tre l'esercizio delle funzioni amministrative dovrebbe
essere di spettanza dei Comuni, "salvo che per assicurarne l'esercizio unitario sino conferite a
Provincie, Città metropolitane, Regioni e Stato sulla base del principio di sussidiarietà,
differenziazione, adeguatezza" (art. 118)
Dal punto di vista dell'autonomia finanziaria l'art. 119 prevede che gli enti locali e le Regioni
abbiano autonomia di entrata e di spesa. Essi possono stabilire tributi propri ma dispongono
anche di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio.
Queste condizioni così ampliate di autonomia hanno poi avuto un necessario riflesso sul sistema
dei controlli, perché il controllo sulle leggi sta- tali da preventivo è diventato successivo, i controlli
di legittimità e di merito sugli atti amministrativi della Regione sono scomparsi dal testo
costituzionale, mentre è stato introdotto un nuovo tipo di controllo, di tipo "sostitutivo" in ipotesi
determinate dalla Costituzione. Come recita il 2° comma dell'art. 120: "il Governo può sostituirsi
a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Provincie e dei Comuni nel caso di
mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normazione comunitaria oppure di
pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela
dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali".

6. La potestà statutaria delle Regioni ordinarie e speciali

Andando più in dettaglio l'art. 123 della Costituzione prevede che ogni Regione ordinaria ha uno
statuto che, in armonia con la Costituzione, deve:

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- determinare la forma di Governo regionale e i principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento;
- regolare l'esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti
amministrativi della Regione;
- disciplinare la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali.

Da un punto di vista procedimentale lo Statuto è approvato con legge regionale, con due
deliberazioni successive adottate a maggioranza assoluta dei componenti, ad intervallo non
inferiore di due mesi. Lo statuto è sottoposto a referendum popolare quando ne facciano
richiesta un cinquantesimo degli elettori o un quinto dei componenti il Consiglio regionale e deve
avere per oggetto l’intero testo statuario e non singole norme di esso (Corte cost. n. 445 del
2005). Il Governo della Repubblica può sollevare questione di legittimità costituzionale sugli
statuti regionali alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione.

La procedura, come si è già rilevato, ricalca in parte il procedimento di revisione costituzionale.


Le due deliberazioni a maggioranza assoluta, la possibilità di sottoposizione dello statuto al
referendum, derivano dalla necessità di garantire allo statuto quel controllo, anche da parte delle
minoranze, necessario per un atto che non è di indirizzo politico, ma che regola appunto
l'organizzazione regionale (tra l'altro è sempre possibile esperire il referendum
indipendentemente dalla maggioranza che ha approvato 16 statuto).
Lo statuto è dunque una fonte regionale, con forza superiore rispetto alla legge regionale, in
conseguenza del procedimento aggravato per la sua approvazione. Il controllo dello statuto da
parte del Governo è un controllo di legittimità che deve verificare il rispetto da parte dello statuto
del dettato dell'art. 123 della Costituzione, cioè che esso abbia il contenuto ivi de- terminato e
che, come dice lo stesso art. 123, sia "in armonia con la Costituzione", intendendosi con
questa espressione non solamente il rispetto delle norme e dei principi costituzionali, ma anche
la conformità a principi costituzionali che, per quanto non esplicitati, siano però deducibili dalla
Costituzione in via interpretativa.

La Corte costituzionale ha poi chiarito che il controllo governativo - con conseguente possibile
ricorso alla Corte costituzionale - avviene preventivamente, anteriormente cioè alla sua
promulgazione (Corte cost. n. 304 del 2002).
Gli statuti delle Regioni a statuto speciale, che sono approvati con legge costituzionale, possono
essere dotati delle stesse condizioni di autonomia delle Regioni ordinarie sulla forma di
Governo, attraverso le ed. leggi statutarie (come previsto dalla legge costituzionale 31 gennaio
2001 n. 2).
Le leggi statutarie debbono essere approvate a maggioranza assoluta dei componenti il
Consiglio regionale e possono essere sottoposte a referendum confermativo, qualora ne
facciano richiesta, entro tre mesi dalla pubblicazione, un cinquantesimo del corpo elettorale
regionale o un quinto dei membri del Consiglio. Se il Consiglio regionale approva la legge con la
maggioranza dei due terzi si innalza il numero degli elettori che possono richiedere il
referendum, mentre questo diviene non più richiedi- bile dalla minoranza consiliare. La legge
statutaria, come gli statuti delle Regioni ordinarie, deve avere un contenuto che sia in "armonia
con la Costituzione". Oltre a questo limite le leggi statutarie sono tenute anche al rispetto dei
"principi generali dell'ordinamento giuridico", limite che tuttavia sembra essere ricompreso nel
precedente.
Come per le Regioni a statuto ordinario il Governo esercita un potere di controllo sulla legge
statutaria che si estrinseca nella possibile impugnazione della legge davanti alla Corte
costituzionale entro trenta giorni dalla pubblicazione (ma anteriormente alla promulgazione come
nel caso degli statuti delle Regioni ordinarie).

7. Il contenuto degli statuti e la forma di Governo regionale

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Lo Statuto delle Regioni ordinarie ha un contenuto necessario come previsto nell'art. 123 della
Costituzione. Lo statuto deve infatti determinare la forma di Governo, i principi fondamentali
di organizzazione e funzionamento, l'iniziativa legislativa e il referendum, la pubblicazione
delle leggi e dei regolamenti.
Oltre a queste materie lo statuto può avere, in teoria, anche un contenuto eventuale, cioè
"ulteriore" rispetto alle materie sopra indicate, de- terminabile nell'esercizio della autonomia di
ciascuna Regione. Questa possibilità è stata tuttavia limitata dalla Corte costituzionale, sulla
base del fatto che gli statuti regionali non possono essere considerati come delle Costituzioni.
Molte Regioni in effetti avevano inserito negli statuti varie disposizioni di principio, con lo scopo
di tracciare una "identità" particolare della Regione, o determinare un "programma" che in
qualche modo vincolasse il legislatore regionale.
La Corte costituzionale, pur riconoscendo alle Regioni questa possibilità, ha però negato valore
giuridico alle norme di principio e programmati che introdotte, rilevando che gli statuti sono fonti
regionali a competenza riservata, e come tali non idonei a contenere norme vincolanti diverse
da quelle necessarie, o comunque strettamente connesse a quelle necessarie.

Per quanto concerne il contenuto necessario la possibilità di determinare la forma di Governo


costituisce la innovazione più importante della riforma costituzionale. Al proposito la legge di
riforma prevedeva una forma di Governo transitoria, fino alla entrata in vigore dei nuovi statuti, e
una forma di Governo a regime, determinata dai nuovi statuti regionali ma vincolata da una serie
di principi posti dalle norme costituzionali (gli artt. 121,122 e 126).
Sulla forma di Governo le disposizioni costituzionali, tuttavia, traccia- no già una linea molto
chiara dalla quale la Regione può discostarsi assai poco. Questa forma di Governo, inoltre,
appare difficilmente inquadrabile secondo i modelli classici.
Gli organi costituzionali necessari - e non integrabili per volontà della Regione - sono il
Presidente della Giunta (il Presidente della Regione) Giunta e Consiglio. Non vi è un Premier -
come nella forma parlamentare - poiché il Presidente della Giunta è anche il Presidente della
Regione. Il Presidente della Regione è eletto direttamente dal corpo elettorale regionale, ed ha il
potere di nominare e revocare gli altri membri della Giunta. Dunque il "capo del governo
regionale" è dotato di una legittimazione politica rinforzata in conseguenza del voto diretto, e ha
poteri “forti” di guida e di indirizzo nei confronti della Giunta in virtù del potere di nomina e
soprattutto di revoca degli assessori del quale è dotato. Rappresenta la Regione, dirige la
politica della Giunta e ne è responsabile, promulga le leggi ed emana i regolamenti.

Il Presidente della Regione non è dunque assimilabile al Presidente del Consiglio nella forma di
Governo parlamentare che la Costituzione ha delineato a livello statale. Questi infatti, sia in virtù
del meccanismo elettorale diretto, sia per i poteri che gli sono stati attribuiti, costituisce l'organo
nel quale è principalmente incardinata la funzione dell'indirizzo politico. Come strumento
rafforzativo della stabilità del governo regionale la Costituzione ha inoltre introdotto la regola ed.
del "simul stabunt simul cadent. Il voto di sfiducia votato dal Consiglio nei confronti del
Presidente determina infatti automaticamente lo scioglimento del Consiglio e l'indizione di nuove
elezioni. Un regola siffatta persegue lo scopo di lega- re il destino del Presidente e della Giunta
a quella del Consiglio, impedendo al Consiglio di condizionare eccessivamente la politica del
Presi- dente e della Giunta attraverso il possibile "ricatto" della mozione di sfiducia. Le possibilità
di deroga a questa regola, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, sono assai
limitate.

Anche questo elemento rafforza il ruolo di indirizzo del Presidente, che potrà governare senza
temere i ed. "ribaltoni" ed avendo una prospettiva temporale normalmente coinciderne con la
durala della legislatura.
In questo contesto le funzioni gestionali del Consiglio sono ovviamente ridotte: il Consiglio
dovrebbe svolgere funzioni di indirizzo e controllo rispetto alla Giunta (oltre alla attività normativa

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primaria), ma non invece una attività di natura amministrativa. Appaiono dunque non coerenti
con questo modello quelle competenze, alle volte attribuite dagli statuti, che incardinano sul
Consiglio funzioni anche gestionali, attribuendogli, ad esempio, la competenza ad approvare i
regolamenti.
La Giunta svolge funzioni di partecipazione all'indirizzo politico ed anche funzioni di natura
amministrativa. Stante la legittimazione diretta del Presidente, la responsabilità politica della
Giunta confluisce in esso.

Poiché la Costituzione non attribuisce il potere regolamentare né alla Giunta né al Consiglio,


spetta allo Statuto decidere a quale organo attribuirlo (Corte cost. n. 313 del 2003). La Giunta
quindi normalmente esercita il potere regolamentare - quando gli statuti non lo hanno attribuito al
Consiglio - e svolge attività di esecuzione delle leggi e delle deliberazioni consiliari.
Lo scopo di questo modello è quello di rafforzare l'esecutivo e la sua stabilità, ma la
classificazione di questa forma di Governo secondo le tradizionali tipologie non è agevole. Essa
presenta elementi riconducibili alla forma di Governo presidenziale, poiché ne mutua alcuni tratti
caratteristici, in particolare per quello che riguarda l'elezione del Presidente della Giunta, per il
fatto che il Presidente è anche il capo dell'esecutivo, per il ruolo e i compiti che al Presidente
sono attribuiti. Ma presenta anche elementi che non sono affatto tipici di questa forma, come ad
esempio il voto di sfiducia del Consiglio nei confronti del Presidente e la possibilità che il
Consiglio possa essere sciolto.
D'altra parte non è neppure qualificabile come una forma di Governo parlamentare: la regola
simul stabunt simul cadent non è tipica del modello parlamentare anche nelle sue varianti a
prevalenza dell'esecutivo. Nella forma di Governo del Regno Unito, infatti, la sostituzione del
Premier, all'interno della maggioranza che ha vinto le elezioni, sarebbe possibile senza ricorrere
alle nuove elezioni. In ogni caso nella forma di Governo parlamentare il Presidente non è mai il
capo dell'esecutivo come invece nel modello delineato a livello regionale.
Si tratta dunque di una forma di Governo sostanzialmente "atipica", definita normalmente come
"neoparlamentare", e finalizzata a rafforzare l’esecutivo e a dare stabilità e continuità all’azione
di Governo. La elezione diretta del Presidente, unita a questa notevole stabilità, dovrebbe poi
poter permettere ai cittadini elettori di esprimere un giudizio chiaro sull'operato degli eletti al
termine della legislatura.

8. La potestà legislativa concorrente ed i suoi limiti

Come si è visto, nel sistema costituzionale previgente, alle Regioni a statuto ordinario
spettavano due tipi di competenze: la competenza con- corrente e la competenza integrativa
facoltativa. La competenza concorrente doveva esercitarsi sulle materie previste dalla
Costituzione e nel- l'ambito di principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, mentre la
competenza integrativa facoltativa consisteva nella possibilità per le Regioni di integrare il
contenuto di leggi statali, quando ciò fosse stabilito dalle stesse leggi dello Stato. La riforma
costituzionale- li;i mantenuto la potestà legislativa concorrente - sia pure in un contesto
radicalmente modificato - ha aggiunti una competenza definita residuale, cioè estesa a tutte le
materie nelle quali non vi è competenza esclusiva dello Stato, e ha eliminato la competenza
integrativa facoltativa.
La potestà legislativa regionale concorrente è stata molto allargata, rispetto al "vecchio" titolo V,
in primo luogo in relazione alle materie attribuite. Si tratta di venti settori tra i quali vi sono
competenze importanti in settori economici, quali ad esempio le grandi reti di trasporto, la
produzione e la distribuzione nazionale dell'energia, porti e aeroporti civili; in settori del c.d.
welfare state, quali tutela e sicurezza del lavoro, istruzione, salute, previdenza complementare e
integrativa; in settori connessi al territorio, quali governo del territorio, valorizzazione dei beni
culturali e ambientali; in settori connessi ai rapporti internazionali, quali le relazioni con l'Unione
Europea e il commercio con Testerò

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In definitiva si tratta di un elenco assai esteso, che presenta però rischi di eccessive suddivisioni
di competenze tra lo Stato e le Regioni in settori che necessitano invece di una normazione
unitaria (si pensi alle grandi reti di trasporto oppure alla produzione e alla distribuzione nazionale
del- l'energia). A ciò si aggiunge, da un punto di vista giuridico, la difficoltà di determinare il
contenuto di molte materie, posto che esse in molti casi si riferiscono più che a materie in senso
proprio - intese come ambiti materiali determinati - a valori costituzionali per il raggiungimento
dei quali si possono intrecciare competenze sia dello Stato che delle Regioni (ad esempio la
tutela della salute o dell'ambiente). Per questa ragione queste materie sono state definite dalla
Corte costituzionale come “trasversali".

L'esistenza di queste materie-trasversali costituisce un primo limite implicito all'esercizio delle


competenze regionali concorrenti, poiché necessariamente vi saranno interventi dello Stato e
delle Regioni, distribuiti a seconda della dimensione e della tipologia degli interessi.
Gli altri limiti alla competenza legislativa regionale concorrente sono:
- il limite dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato
Questo limite costituisce la caratteristica fondamentale della legislazione concorrente. Esso
implica che, nelle materie di legislazione concorrente, lo Stato con legge deve determinare i
principi, mentre la Regione, ;i sua volta con legge, deve stabilire la normativa di dettaglio
rispettando i principi posti dalla legge statale. I principi, inoltre, possono essere desunti in via
interpretativa dalla normativa statale vigente, cosicché non è necessario che lo Stato approvi
delle specifiche leggi per determinare i principi (c.d. leggi cornice).
Lo Stato inoltre, nelle materie di competenze concorrente, può legiferare anche nel dettaglio,
spettando alla Regione eventualmente abrogare le norme statali con normativa successiva.
- Il limite costituzionale e territoriale
Si tratta di due limiti fisiologici e sostanzialmente impliciti a qualunque legge regionale. La
legge regionale è ovviamente inferiore alla Costituzione e deve quindi rispettarne le
disposizioni ed i principi in essa contenuti. Inoltre la legge regionale ha un ulteriore limite nel
proprio territorio, nel senso che non può disciplinare fatti e fenomeni esterni al territorio
regionale.
- Il limite degli obblighi internazionali e comunitari
Nel sistema costituzionale ante riforma, il limite degli obblighi internazionali e comunitari
costituiva un vero e proprio limite alla legislazione regionale concorrente, mentre nel testo
attuale riformato non di un vero e proprio limite si tratta. Nel modello costituzionale ante
riforma infatti, quando una materia attribuita alla competenza regionale andava ad impattare
nella esecuzione di un obbligo internazionale (un trattato internazionale) o nella esecuzione di
un obbligo comunitario (ad esempio la attuazione di una direttiva), la competenza era
comunque sottratta alla Regione ed esercitata dallo Stato. Questa rilevante sottrazione di
competenza era allora giustificata dal principio della responsabilità internazionale dello Stato,
perché quest'ultimo, in ipotesi di mancata attuazione dell'obbligo internazionale, sarebbe stato
chiamato responsabile per un inadempimento ad esso non imputabile.
Questa posizione rigida si attenuò dopo una sentenza della Corte (la n. 142 del 1972), che
riconobbe che laddove lo Stato si fosse dotato di uno strumento per garantirsi dal possibile
inadempimento delle Regioni nell'attuazione della normativa comunitaria, non vi sarebbe stata
necessità di mantenere questo limite. Sulla scorta di questa sentenza fu allora previ- sta,
all'interno del D.p.r. n. 616 del 1977, una norma che prevedeva un potere sostitutivo dello
Stato qualora le Regioni non ottemperassero agli obblighi comunitari. Gli obblighi
internazionali e comunitari costituivano quindi un vero e proprio limite trasversale rispetto a
tutte le materie di competenza regionale.
Nel nuovo modello costituzionale non di vero e proprio limite si tratta, poiché lo Stato può
legiferare nell'ambito di competenza regionale, sola- mente dopo che la Regione si è resa
inadempiente alla sua attuazione.
La Costituzione all'art. 117 5° comma ha infatti previsto che le Regioni hanno competenza

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anche laddove le materie a loro attribuite impattino con obblighi internazionali e comunitari.
Tuttavia ciò deve avvenire "nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello
Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.
In buona sostanza le Regioni possono oggi eseguire direttamente le direttive europee nelle
materie di loro competenza, e solo nella ipotesi di inerzia della Regione interviene
direttamente lo Stato con una propria legge che disciplina anche il dettaglio. Il modello della
attuazione delle direttive comunitarie segue oggi il seguente schema: la Regione può eseguire
la direttiva anche prima della emanazione da parte dello Stato della ed. legge europea. La
legge europea pone comunque i principi ai quali deve adeguarsi la legislazione regionale. Se i
principi sono incompatibili con la legge regionale essi prevalgono su quest'ultima.
In materia di trattati internazionali, dopo l'ordine di esecuzione del trattato la Regione può
procedere alla sua attuazione. In caso di inadempimento, a norma dell'art. 120 della
Costituzione, il Governo può sostituirsi alla Regione.
- Interessi unitari e competenze locali
Ulteriori limiti nei confronti della legge regionale derivano poi dalla esistenza di interessi unitari
(in questo caso la sottrazione della competenza avviene a vantaggio dello Stato), o di
competenze riservate agli enti locali (ed in questo caso la sottrazione di competenza avviene
a vantaggio dell'ente locale).
Nel primo caso ciò si verifica allorquando, pur nell'ambito della competenza regionale, vi siano
tuttavia interessi che non possono essere tute- lati che unitariamente attraverso una norma
dello Stato. La Corte ha tratto questo principio dall'art. 118 della Costituzione, che attribuisce
le funzioni amministrative ai Comuni "salvo che per assicurarne l'esercizio unita- rio siano
conferite a Provincie, Città metropolitane, Regioni e Stato", per sostenere che analogo
principio sussiste anche, implicitamente, nell'esercizio dell'attività legislativa.
Nel secondo caso, e al contrario, ciò avviene quando la norma costituzionale riserva agli enti
locali (Comuni, Province e Città metropolitane), la disciplina di alcune materie attraverso una
propria fonte (il regolamento). L'art. 117 al 6° comma infatti prevede che "/ Comuni, le
Provincie e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell'organizzazione dello svolgimento delle funzioni loro attribuite". In tali casi la legge
regionale può intervenire solo per stabilire i requisiti minimi di uniformità, mentre la disciplina
di dettaglio della materia deve essere stabilita dalla fonte locale.

9. La competenza esclusiva dello Stato

La caratteristica più enfatizzata della riforma costituzionale del titolo V della Costituzione, come
si è già detto, è stata la ed. inversione delle competenze. Mentre nel vecchio testo era lo Stato
ad avere competenza generale e le Regioni competenze determinate, il nuovo art. 117 della
Costituzione attribuisce alle Regioni - in teoria - la competenza generale, e allo Stato la
competenza su materie specifiche.
L'art. 117 in effetti recita: "Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie": segue poi
un elenco di materie e gruppi di materie indicate dalla lettera a) alla lettera s). Si tratta di materie
per la disciplina delle quali il legislatore della riforma ha ritenuto necessario un intervento
legislativo unitario. Ed in effetti, anche ad uno sguardo superficiale, la gran parte di esse
richiamano competenze che non potrebbero essere esercitate se non unitariamente dallo Stato.
La politica estera, la moneta, l'organizzazione amministrativa dello Sta- 10, la giurisdizione, la
armonizzazione dei bilanci pubblici (quest'ultima trasferita dalla competenza concorrente della
Regione alla competenza esclusiva dello Stato), solo per citarne alcune, fanno parte di quel
nucleo essenziale di poteri che caratterizzano l'essenza del potere statale e che pertanto non
potrebbero essere sottratte ad uno Stato che, anche per norma costituzionale (art. 5), si
proclama unitario e indivisibile.
Accanto a queste materie, tuttavia, ve ne sono altre con caratteristiche assai diverse e che sono
state definite come competenze trasversali dello Stato. La definizione vuole significare che

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queste competenze necessaria- mente vanno ad impattare sull'esercizio di altre competenze
regionali. Si pensi alla materia "tutela della concorrenza" di cui alla lettera e) oppure alla materia
"determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" di cui alla lettera m), oppure
all'ordinamento civile di cui alla lettera 1). Queste materie interferiscono trasversalmente anche
su materie di competenza regionale. Ne deriva che, in questi casi, non è possibile configurare il
rapporto tra leggi statali e leggi regionali in termini di netta separazione: vi sarà sempre un
"intreccio" di competenze all'interno del quale lo Stato potrà porre alcune norme mentre le
Regioni altre.

10. La potestà legislativa residuale ed i suoi limiti

Posto che lo Stato è competente sulla base di un elenco di materie, che la Regione ha
competenza concorrente su di un altro elenco di materie, la Costituzione attribuisce la ed.
competenza de residuo - cioè la competenza su tutto quanto non è espressamente ricompreso
negli elenchi - alle Regioni. Si tratta di una competenza residuale di tipo esclusivo, cioè non
vincolata, a differenza della competenza concorrente, al rispetto dei principi fondamentali posti
dalle leggi dello Stato.
Poiché questa inversione delle competenze è tipica degli Stati federali, alcuni hanno inizialmente
ritenuto che anche in Italia si fosse ormai realizzato una forma di Stato federale e che, in
conseguenza della competenza legislativa de residuo, la Regione poteva legiferare su tutto
quanto non fosse espressamente riservato allo Stato. In realtà le cose non sono così semplici, e
sono stati sufficienti alcuni interventi della Corte costituzionale per chiarire la portata di questa
nuova competenza regionale.
Sin dall'inizio infatti la Corte non ha accolto l'idea che se la materia era "innominata", cioè non
presente né nell'elenco delle competenze statali, né nell'elenco delle competenze concorrenti
regionali, essa fosse attribuibile alla competenza residuale delle Regioni. Al contrario, secondo
la Corte, avrebbe dovuto verificarsi preliminarmente se questa supposta materia "innominata"
non fosse ricompresa all'interno delle materie di competenza statale o di competenza regionale
concorrente.
Un esempio classico - ed anche importante per la sua valenza - è il caso della materia
"urbanistica". Letteralmente la materia urbanistica non è presente né nell'elenco delle materie di
competenza regionale concorrente né nell'elenco del- le materie di competenza esclusiva
statale. Tuttavia, contrariamente ai desiderata delle Regioni che ne reclamavano l'esercizio
come competenza esclusiva "de resi- duo", la Corte costituzionale la ha ricondotta all'interno
della materia "governo del territorio", materia di competenza concorrente, rilevando che, senza
la mate- ria urbanistica, il governo del territorio altro non sarebbe se non un mero "guscio
vuoto" (Corte cost. n. 303 del 2003).
Dopo aver effettuato queste verifiche risulta che non sono poi molte, in realtà, le materie
riconosciute alla competenza residuale esclusiva delle Regioni, e spesso queste materie
vengono ad essere ulteriormente "ritagliate" in relazione all'interesse regionale o al
dimensionamento territoriale delle Regioni.

11. Il regionalismo differenziato

La Costituzione ha poi introdotto la possibilità di un c.d. regionalismo differenziato in tema di


competenze legislative, in qualche modo "a richiesta" da parte delle stesse Regioni, ma con un
controllo finale da parte dello Stato. L'art. 116 3° comma della Costituzione, prevede infatti che
alle Regioni possono essere attribuite ulteriori forme di autonomia quando lo richieda la Regione
interessata, sentiti gli enti locali, previa intesa tra Regione e Stato, e che queste ulteriori
competenze (sostanzialmente ulteriori materie) vengano riconosciute attraverso una legge
statale approvata a maggioranza assoluta. La ratio della norma è quella di consentire alle

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Regioni ordinarie di differenziarsi ulteriormente tra di loro, richiedendo la attribuzione di nuove
materie quando abbiano interesse, capacità, organizzazione e copertura finanziaria per svolgere
anche queste ulteriori funzioni.
Il procedimento individuato è conseguenza dei diversi interesse in gioco e segue la logica della
cooperazione tra gli enti interessati. Gli enti locali partecipano nella fase iniziale del
procedimento (quando vengono sentiti dalla Regione); l'intesa tra lo Stato e la Regione serve a
cristallizzare l'accordo tra lo Stato e la Regione sulla devoluzione delle nuove competenze; la
legge ordinaria, a maggioranza assoluta, produce il trasferimento delle nuove competenze.

12. La potestà legislativa delle Regioni a statuto speciale

Per le Regioni a statuto speciale la riforma costituzionale non ha pro- dotto mutamenti rilevanti.
Tali Regioni rimangono titolari delle competenza legislativa esclusiva, della competenza
concorrente, della competenza integrativa.
La competenza esclusiva implica il potere delle Regioni di approvare leggi nell'ambito delle
materie previste nello statuto. Tali leggi, come nel caso della competenza legislativa residuale
delle Regioni ordinarie, sono sottoposte al limite costituzionale, al limite territoriale, e al limite
degli obblighi internazionali e comunitari, oltre ai limiti derivanti dalle competenze trasversali
dello Stato.
La Corte costituzionale ha comunque più volte riconosciuto che le competenze legislative delle
Regioni a statuto speciale non possono essere più limitate delle competenze legislative delle
Regioni ordinarie, e che pertanto ad esse si applicano anche le norme costituzionali riferibili alle
Regioni ordinarie quando più garantiste.

13. Autonomia territoriale

Nel precedente testo costituzionale il modello del decentramento amministrativo era basato su
due caposaldi: da una parte il principio del parallelismo delle funzioni, cioè l'attribuzione alle
Regioni delle funzioni amministrative laddove queste aveva competenza legislativa, e dall'altro
lato il principio che la Regione doveva svolgere principalmente funzioni di ente di
amministrazione indiretta. La Regione, infatti, non doveva esercitare direttamente le funzioni
amministrative, ma bensì delegarle agli enti locali o avvalersi dei loro uffici.
La riforma costituzionale ha modificato radicalmente tale modello introducendo due diversi
principi. Le funzioni amministrative sono normalmente attribuite ai Comuni, ma qualora occorra
assicurarne l'esercizio unitario, sono conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (art. 118).
Il Comune è dunque individuato dalla Costituzione come la sede più idonea per l'esercizio delle
funzioni amministrative, nell'idea che l’esercizio di tali funzioni debba essere svolto nel livello
amministrativo più vicino ai cittadini. Tuttavia questa attribuzione di competenza può essere
derogata quando occorra un esercizio unitario delle funzioni. In tali casi la attribuzione delle
funzioni amministrative sale di livello, dovendo essere attribuita a Provincie, Città metropolitane,
Regioni e Stato. La scelta tra questi enti - non casualmente posti dalla Costituzione in ordine
crescente - deve avvenire sulla base del principio della adeguatezza, differenziazione e
sussidiarietà. Questa ultima espressione - denominata sussidiarietà verticale - vuole indicare la
preferenza per la allocazione delle funzioni amministrative al li- vello più vicino ai cittadini, e
dunque, quando non sarà possibile attribuirle ai Comuni, esse dovranno essere attribuite ai livelli
di governo superiori (Provincie, Regioni o Stato), utilizzando in questa operazione gli ulteriori
criteri costituzionali di adeguatezza e differenziazione. Non v'è dubbio che questo modello,
suggestivo da un punto di vista culturale per le implicazioni connesse con il principio di
sussidiarietà, produce tuttavia una attribuzione non predeterminata delle funzioni amministrative
agli enti locali. Sarà lo Stato perciò a dover determinare con propria legge le funzioni

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amministrative degli enti locali, laddove vi sia competenza legislativa statale, mentre sarà la
legge regionale a determinarle laddove vi sia competenza legislativa regionale, e sarà alla fine la
Corte costituzionale a dover decidere se le leggi in questione rispecchiano i principi costituzionali
sopra evidenziati.

14. L'autonomia finanziaria.

L'autonomia finanziaria costituisce il presupposto per l'esercizio di una autonomia effettiva. Il


precedente modello costituzionale si basava sul principio che l'autonomia finanziaria delle
Regioni era determinata con legge dello Stato. Infatti l'art. 119 primo comma recitava "le Regioni
hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la
coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni'. Su questa base alle
Regioni era stata assegnata una ampia autonomia sul versante delle spese, ma una molto
limitata autonomia dal lato delle entrate. Dal punto di vista delle entrate, infatti, la legge dello
Stato attribuiva alle Regioni sia tributi propri che quote di tributi erariali (cioè tributi determinati
dallo Stato e riscossi dallo Stato). Inoltre lo Stato poteva assegnare con legge a singole Regioni
contributi speciali "per provvedere a scopi determinati e particolarmente per valorizzare il
mezzogiorno e le isole”. La nuova normativa posta dalla riforma dell'art. 119 ha rafforzato
notevolmente l'autonomia di entrata delle Regioni.
In primo luogo la riforma, come ulteriormente modificata dalla legge costituzionale n. 1 del 2011
(relativa all'introduzione in Costituzione dei vincoli di bilancio comunitari), ha costituzionalizzato
tale livello di autonomia: "... Comuni, Provincie, Città metropolitane e Regioni hanno autonomia
finanziaria di entrata e di spesa nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad
assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione
Europea", recita infatti il 1° comma dell'art. 119.
In secondo luogo la Costituzione stabilisce che esse hanno risorse autonome. Le Regioni infatti
possono stabilire e applicare tributi ed entrate propri "in armonia con la Costituzione e secondo i
principi di di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
In terzo luogo esse dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro
territorio. Infine "per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per
rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona,
o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse
aggiuntive ed effettua interventi speciali in furore dì determinati Comuni, Provincie, Città
metropolitane e Regioni".
Questa nuova normativa necessitava di essere attuata, ma la attuazione è stata assolutamente
parziale ed assai diluita nel tempo. Solo nel 2009, (con la legge n. 42), è stata approvata una
legge di delegazione intitolata "Delega al governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell'art. 119 della Costituzione". Dovevano quindi essere emanati una serie di decreti legislativi
attuativi della delega che tuttavia non sono stati ancora in gran parte emanati.
L'idea di fondo della legge di delega era comunque quella di realizzare il ed. "federalismo
fiscale". I trasferimenti dallo Stato alle Regioni effettuati in base ai ed. costi storici (cioè in base
a quanto costava a quella determinata Regione garantire un servizio), dovevano essere aboliti,
sostituiti con tributi propri e quote di tributi erariali per garantire i livelli essenziali della
prestazioni, determinati invece sulla base dei c.d. costi standard (cioè quanto costa quel
servizio nella media). Ciò avrebbe dovuto premiare le Regioni più virtuose e spingere le Regioni
meno virtuose a divenire più efficienti. Anche la Corte costituzionale per certi versi ha spinto
verso la realizzazione di questo modello. Con alcune sentenze ha infatti chiarito che allo Stato
non è consentito istituire fondi di finanziamento delle attività regionali, né prevedere
finanziamenti laddove vi fosse competenza regionale (Corte cost. n. 370 del 2003, n. 16 del
2004, n. 160 del 2005). Questo allo scopo di evitare che potesse ripetersi quel fenomeno che
accadeva in passato, quando la gran parte delle risorse assegnate alle Regioni era vincolato a
perseguire finalità determinate dallo Stato.

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15. I collegamenti verso l’alto: raccordi tra lo Stato e le Regioni

Il modello della distribuzione delle competenze tra lo Stato e le Regioni, con tutte le
sovrapposizioni che si sono descritte e le fluidità messe in evidenza dalla Corte costituzionale,
avrebbe avuto la necessità di un completamento con strumenti di raccordo, per risolvere in via
preventiva possibili ipotesi di conflitto e per stabilire una sede di compensazione delle istanze
centralistiche rispetto alle istanze delle Regioni. Da un punto di vista costituzionale, invece,
manca un modello di coordinamento ed una sede, determinata a livello costituzionale, dove
questo coordinamento possa avvenire.
A livello di fonti ordinarie, invece, con il d.lgs. n. 281 del 1997, sono sta- te rideterminate le
funzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Provincie
autonome (già prevista con la legge n. 400 del 1988). Nella conferenza si realizza la
"partecipazione delle Regioni e delle Provincie autonome di Trento e Bolzano a tutti i processi
decisionali di interesse regionale, interregionale e infraregionale", allo scopo di concludere in-
tese o accordi, coordinare la programmazione statale e regionale, determinare i criteri di
ripartizione delle risorse finanziarie, formulare pareri sugli schemi di disegni di legge nelle
materie di competenza regionale. L'idea del legislatore era quella di realizzare, attraverso la
conferenza, quel coordina- mento di funzioni tra Stato e Regioni, basato sul principio di
collaborazione che il testo costituzionale non aveva espressamente previsto.
La Corte costituzionale ha cercato di valorizzare questo modello. Essa in- fatti ha più volte
rilevato come nelle materie di competenza regionale vi siano intrecci inevitabili con le materie di
competenza dello Stato, intrecci che debbono essere sciolti basandosi sul principio di "leale
collaborazione", e dunque ponendo un onere a carico del legislatore di prevedere momenti di
collaborazione allorquando le reciproche competenze vadano ad intersecarsi.

16. I collegamenti verso il basso: cenni all'ordinamento degli enti locali

Il disegno costituzionale è dunque impostato su Regioni che dovrebbero svolgere funzioni


legislative e di programmazione, mentre le funzioni amministrative dovrebbero essere svolte
dagli enti locali (Comuni, Province, Città metropolitane) come previsto dall'art. 118 della
Costituzione. Questo rafforzamento di funzioni per gli enti locali è conseguenza di una mutata
posizione costituzionale di questi ultimi. Mentre infatti nel precedente testo costituzionale ne era
garantita la esistenza (in quanto erano previsti in Costituzione), ma il loro ordinamento non era
coperto da norme costituzionali in quanto affidato alla legge dello Stato, con il nuovo titolo V
della Costituzione gli enti locali sono definiti, all'art. 114, come "enti autonomi con propri statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione". E dunque la Costituzione oggi, e
non la legge, a garantire sia la potestà statutaria degli enti locali sia la potestà regolamentare: "in
ordine alla disciplina dell'organizzazione e allo svolgimento delle funzioni loro attribuite" (art. 117
6° comma della Costituzione).
L'art. 118 della Costituzione prevede che gli enti locali siano titolari di funzioni amministrative
proprie, e di funzioni amministrative conferite, queste ultime sia con legge statale o regionale.
Tuttavia non vi è chiarezza su quale sia la distinzione tra le une e le altre, chiarezza che
dovrebbe giungere da una legge dello Stato (la ed. Carta delle autonomie) peraltro non ancora
approvata. In questo modello nel quale la Regione come si è detto svolge funzioni "alte" di
legislazione e programmazione e gli enti locali funzioni amministrative, il raccordo tra Regioni e
enti locali e la loro collaborazione assume importanza quanto i collegamenti tra lo Stato e le
Regioni. Nell'intento di favorire il rapporto tra Regioni e enti locali l'art. 123 della Costituzione ha
così previsto che ogni Regione si doti, all'interno dello Statuto, di un Consiglio delle autonomie
locali che costituisce un organo di consultazione tra la Regione e gli enti locali. Pare comunque
difficile che possa realizzarsi un coordinamento effettivo in presenza dì un numero elevatissimo
di micro realtà locali, caratterizzate da comuni di mensionalmente e numericamente (dal punto di
vista degli abitanti) molto ridotti.

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17. Il progetto di riforma costituzionale: il nuovo modello delle autonomie

Il dato più eclatante del nuovo modello delle autonomie, per quanto concerne l'autonomia
regionale e le competenze legislative, è costituito dalla soppressione della competenza
regionale concorrente. Le Regioni, secondo la riforma, sarebbero titolari solo della competenza
"de residuo", cioè della competenza legislativa per quelle materie non espressamente attribuite
allo Stato. Lo Stato, a sua volta, vede aumentare significativa- mente le materie di sua esclusiva
spettanza, con conseguente sottrazione di materie e funzioni alla competenza regionale. Il
progetto di riforma, inoltre, introduce nel sistema la ed. "clausola di supremazia", in base alla
quale lo Stato può intervenire, su proposta del Governo, in presenza di interessi nazionali o
economici, di natura unitaria.
Per quanto concerne la potestà regolamentare, il progetto di riforma reintroduce il ed. principio
del parallelismo. La potestà regolamentare spetta infatti allo Stato e alle Regioni secondo le
rispettive competenze legislative sulla base del principio che dove vi è competenza legislativa vi
è anche competenza regolamentare. Tuttavia lo Stato può delegare alle Regioni l'esercizio del
potere regolamentare nelle materie riservate alla sua competenza. Dal punto di vista
dell'esercizio delle funzioni amministrative il pro- getto di riforma abroga le Provincie e
costituzionalizza il principio della semplificazione, della trasparenza e dell'efficienza dell'azione
amministrativa.

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CAPITOLO VI
ORGANI AUSILIARI E AUTORITÀ INDIPENDENTI

1. Gli organi ausiliari

La organizzazione dello Stato è completata da altri organi, alcuni detti ausiliari, per la lro
funzione di collaborazione con gli altri organi costituzionali, altri detti "Autorità indipendenti", per
la loro caratteristica di regolare marcati o situazioni giuridiche di rilevante interesse
costituzionale, in posizione di terzietà e indipendenza rispetto agli interessi in gioco.

Gli organi ausiliari sono previsti nel titolo terzo, alla sezione terza della Costituzione, titolata
appunto "gli organi ausiliari", e sono il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, il Consiglio
di Stato e la Corte dei Conti. Mentre il primo svolge solamente una attività di supporto ad altri
organi costituzionali, gli altri due svolgono sia funzioni giudicanti, sia di supporto ad altri organi
dello Stato, ma con poteri anche decisori e non solo di supporto.

2. Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro

Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL) è previsto dall'art. 99 della Costituzione,
ed ha teoricamente la funzione di istituire, accanto alla rappresentanza politica, una sorta di
rappresentanza di interessi specialmente nel campo economico, che possa essere di ausilio al
Parlamento e al Governo.

La composizione del CNEL è sancita dall'art. 99 1° comma della Costituzione. Tale organo si
compone attualmente di sessantaquattro consiglieri e di un Presidente, che durano in carica
cinque anni.

Il CNEL è definito dal 2° comma dell'art. 99 "organo di consulenza delle Camere e del Governo
per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge". Il 3° comma attribuisce
poi al CNEL la titolarità dell'iniziativa legislativa e la possibilità di contribuire "alla elaborazione
della legislazione economica e sociale, secondo principi e entro i limiti stabiliti dalla legge".

Le funzioni di consulenza alle Camere e al Governo hanno avuto scarso peso e anche la
iniziativa legislativa è stata attivata poche volte e quindi il CNEL si è trasformato nel tempo più in
una sorta di ufficio studi che in uno organo si interlocuzione tra Governo e Parlamento. La sua
abrogazione è prevista nella legge costituzionale di riforma della Costituzione attualmente in
discussione.

3. Il Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato è definito dall'art. 100 1° comma della Costituzione come "organo di
consulenza giuridico amministrativa e di tutela di giustizia nell'amministrazione". Le funzioni
giudiziarie sono indicate dagli artt. 103 e 111 della Costituzione che precisano che tale organo
ha "giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione degli interessi legittimi
e in particolare materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi".

In pratica il Consiglio di Stato svolge funzioni di giudice di appello nei confronti delle sentenze
dei tribunali amministrativi regionali.
Le funzioni consultive funzioni si sostanziano praticamente nella formulazione di pareri di
legittimità sugli schemi di atti normativi e amministrativi predisposti dal Governo. Questi pareri
possono essere obbligatori, quando l'assunzione del potere è richiesto dalla legge come

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presupposto per l'adozione dell'atto, oppure possono essere facoltativi su richiesta
dell'amministrazione interessata.

4. La Corte dei Conti

La Corte dei Conti svolge sia funzioni giurisdizionali in materia di giurisdizione contabile, sia
funzioni di controllo sulle amministrazioni pubbliche. Mentre il Consiglio di Stato esprime pareri
che normalmente non sono vincolanti, la Corte dei Conti esercita le sue funzioni attraverso
strumenti di controllo.

In particolare l'art. 100 2° comma della Costituzione, prevede che la Corte dei Conti "esercita il
controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e quello successivo sulla gestione del
bilancio dello Stato". Inoltre partecipa "al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo
Stato contribuisce in via ordinaria" e "riferisce direttamente alla Camera sul risultato eseguito".
Queste funzioni si estrinsecano nel controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, ed
assume la forma del visto e registrazione. Gli atti del Governo devono infatti essere "visitati"
prima della loro entrata in vigore dalla Corte dei Conti, che ne deve verificare la legittimità. Nel
caso che il controllo abbia esito negativo, la Corte dei Conti può rifiutarsi di visitare l'atto, e in
questo caso il Governo può richiedere la c.d. registrazione con riserva, cioè l'entrata comunque
in vigore dell'atto.

Il controllo successivo più rilevante svolto dalla Corte dei Conti è quello sul bilancio dello Stato.
Esso si concretizza nel raffronto tra il rendiconto consuntivo, predisposto dal Governo, e le
previsioni di bilancio, e si conclude con il c.d. giudizio di parificazione del rendiconto generale
dello Stato.

È stato conferito alla Corte dei Conti anche un potere di controllo successivo nei confronti delle
amministrazioni non solo statali, ma anche regionali e degli enti locali.

5. Le autorità indipendenti

Con l'espressione Autorità indipendenti, o Autorità amministrative indipendenti, si suole indicare


un serie di autorità, caratterizzate dalla loro indipendenza rispetto alla amministrazione dello
Stato e agli organi costituzionali, che hanno funzione di regolare mercati o regolare materie
tecniche dove impattano diritti costituzionalmente rilevanti.
Le Autorità indipendenti non sono previste in Costituzione, anche perchè, con poche eccezioni,
esse sono principalmente il frutto dei processi di liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione
degli enti pubblici dello Stato, processi avvenuti a cavallo degli anni '90.

Può dirsi che la missione di queste autorità è quella di assicurare, in posizione di indipendenza e
terzietà rispetto alle parti, parità delle armi tra i contendenti all'interno di un mercato. Infatti se
debbono regolare un mercato e garantire parità di armi tra gli operatori di quel mercato, esse
debbono essere ad un tempo neutrali rispetto agli altri poterei dello Stato e rispetto agli interessi
in gioco. Dunque tali compiti non possono essere attribuiti ad amministrazioni dello Stato che
neutrali non sono.

Dal punto di vista strutturale queste autorità sono indipendenti perchè separate
dall'organizzazione amministrativa e politica dello Stato. Non sono quindi soggette al potere
gerarchico della Pubblica Amministrazione, sono dotati di autonomia contabile e di spesa, il
metodo di nomina dei componenti è pensato per accentuare la separazione dell'autorità dagli
organi politici.

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Dal punto di vista delle funzioni la legge attribuisce alle autorità indipendenti compiti di
regolazione di settori economici attraverso l'esercizio di poteri normativi, amministrativi e
giudiziali. I poteri normativi sono assai ampi e tali da non trovare, assai spesso, parametri di
riferimento sufficientemente determinanti a livello delle fonti di primarie. Ne consegue che
nell'esercizio della attività normativa spesso non è rispettato il principio tradizionale della legalità
sostanziale, principio in base al quale le autorità amministrative debbono porre in essere norme
che trovino il loro fondamento e limite in norme di di grado primario.

Anche i poteri amministrativi vengono esercitati in maniera atipica. Le Autorità indipendenti non
esercitano un'attività discrezionale, intesa come momento ne quale vengono ponderati i diversi
interessi in gioco alla ricerca della migliore soluzione per il raggiungimento dell'interesse
pubblico. Esse infatti non ponderano interessi ma applicano norme a fattispecie concrete. Si
tratta tuttalpiù di discrezionalità definibile come tecnica, poiché debbono applicare regole
tecniche, conseguenza di analisi economiche, a determinate fattispecie.

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CAPITOLO VII
GLI STRUMENTI DIRETTI DI PARTECIPAZIONE POPOLARE

1. Democrazia rappresentativa e democrazia diretta: alcune coordinate preliminari

Nei modelli organizzativi basati sul principio della democrazia rappresentativa il popolo non
partecipa direttamente al formarsi dell'indirizzo politico, infatti si basano sui partiti politici,
considerati la cinghia di trasmissione tra la società civile e gli organi costituzionali, e
sull'espressione di un voto, finalizzato ad eleggere i propri rappresentanti.
Il controllo popolare sulla coerenza e sull'efficacia dell'indirizzo politico portato avanti dalla
maggioranza vincitrice delle lezioni lo si esercita quindi normalmente alle scadenze elettorali,
attraverso la possibilità di rinnovare, o di non rinnovare, il mandato gli eletti.

Nelle forme di Governo parlamentari, ad esempio, vi sono regole per sfiduciare il Governo e per
sciogliere le Camere, mentre la durata ordinaria della legislatura è abbastanza lunga. Al
contrario, nelle forme di Governo presidenziali non vi è la possibilità di sfiduciare il Governo, ma
le scadenze elettorali sono molto ravvicinate e ”sfalsate” tra di loro, allo scopo di poter verificare
con continuità la coerenza dell'indirizzo politico con la volontà popolare.
I modelli di democrazia diretta si basano al contrario sulla possibilità per i cittadini di esprimere
direttamente, senza mediazioni partiti politici e dei propri rappresentati, una manifestazione di
volontà imputabile allo Stato. Queste forme organizzative non si rinvengono nelle democrazie
contemporanee.

In quasi tutti i modelli di democrazia rappresentativa sono tuttavia disciplinati, a livello


costituzionale, strumenti di democrazia diretta che normalmente assumono la forma del
referendum. A livello costituzionale ciò implica la possibilità da parte del popolo di essere
chiamato a esprimersi direttamente su di una legge, ma la funzione che quest'istituto può
svolgere dipende dal tipo di referendum previsto in Costituzione, dalle modalità della sua
indizione, e dal contesto costituzionale nel quale calato.

Esso è un mezzo per controllare la maggioranza consentendo, o consentendo di minacciare, il


richiamo al popolo per verificare l'aderenza di una legge alla volontà popolare.
Il referendum attribuisce anche una possibilità di intervento alla c.d. società civile, su leggi che
disciplinano materie non direttamente riconnesse all'indirizzo politico, ma che vanno a
disciplinare materie che impattano su valori etici rispetto alle quali all'interno dei partiti vi
possono essere sensibilità diverse.

2. Il referendum abrogativo nella Costituzione

La Costituzione italiana disciplina tre tipologie di referendum: il referendum approvativo previsto


per le leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali dall’art. 138; alcune tipologie
di referendum consultivo in materia di Regioni e enti locali (art. 123 e 132 secondo comma); il
referendum abrogativo sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge disciplinato dall’art. 75 della
Costituzione.

Il referendum abrogativo svolge la funzione di abrogare, attraverso un voto popolare, una legge
o un atto avente forza di legge quando questo sia richiesto da 500.000 elettori o cinque consigli
regionali. Il referendum è pertanto delineato nella Costituzione come uno strumento di garanzia
della minoranza.
Poiché si tratta di uno strumento di legislazione negativa, finalizzata a abrogare una norma di
una fonte primaria, ha natura eccezionale, di controllo ultimo dell'attività parlamentare da parte
del popolo, quando, si potrebbe dire, siano risultati insoddisfacenti i meccanismi di controllo

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tradizionali della democrazia rappresentativa. Per questa ragione l’utilizzazione costituisce
sintomo di un non certo funzionamento degli ordinari strumenti di canalizzazione degli interessi e
in definitiva, di un non corretto funzionamento della forma di governo.

Le norme che regolano il referendum - La Costituzione all’art. 75 prevede che il referendum


possa essere indetto per deliberare l’abrogazione, totale o parziale di una legge o di un atto
avente forza di legge, quando questo sia richiesto da 500.000 elettori o da cinque consigli
regionali.
Non si può proporre referendum su leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali.
Perché il referendum possa essere valido occorre che abbia partecipato alla votazione la
maggioranza degli aventi diritti (quorum) e che sia stata raggiunta la maggioranza dei voti validi.
La modalità di attuazione del referendum sono rinviate ad una legge ordinaria.
La normativa costituzionale, in sostanza, oltre a determinare i soggetti che possono proporre
referendum, individua limiti di oggetto e un quorum per la validità della votazione.

I limiti di oggetto sono determinati da categoria di legge. Assai logico è che leggi tributarie di
bilancio non possono essere oggetto di abrogazione referendaria, così anche le leggi di amnistia
e di indulto, e le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali.
Il quorum per la validità della votazione serve per verificare l’esistenza, nel paese, di un reale
interesse all'abrogazione della legge. Infatti se al voto partecipa meno della metà degli aventi
diritto ciò significa che non vi è un interesse popolare sull’oggetto del referendum, e quindi
questo non può essere valido indipendentemente dal risultato raggiunto in sede di voto.

3. Il procedimento referendario

La legge attuativa dell’art. 75 della Costituzione fu approvata nel 1970, e il primo referendum
svolto Italia ebbe ad oggetto l'abrogazione della legge sul divorzio.
La legge 25 marzo 1970 n. 352 disciplina il procedimento referendario distinguendo varie fasi:

a) La iniziativa - la prima fase è costituita dall'iniziativa per la raccolta delle firme. Tale attività è
attribuita dalla legge ai c.d. promotori, che sono costituiti da un numero di 10 cittadini che
mettono in moto il meccanismo referendario mediante la presentazione alla cancelleria della
Corte di Cassazione della richiesta di referendum, insieme al quesito da sottoporre al popolo
con la domanda “volete che sia abrogata”? Si procede quindi alla raccolta delle firme a
sostegno della proposizione referendum.
b) Il deposito delle firme - la seconda fase è costituita dal deposito delle firme presso la
cancelleria della Corte di Cassazione, nei tre mesi successivi alla richiesta, da effettuarsi a
cura dei promotori. La legge prevede che il deposito debba avvenire nel periodo che va dal
1° gennaio al 30 settembre di ciascun anno.
c) L'accertamento della legittimità della richiesta - la terza fase è costituita dall'accertamento
della legittimità della richiesta. L'accertamento della regolarità, intesa come verifica degli
adempimenti formali, viene svolta da un organo appositamente costituito presso la Corte di
Cassazione, denominato ufficio centrale per il referendum. Il procedimento deve iniziarsi il 30
settembre e concludersi il 31 ottobre con ordinanza.
d) Il giudizio di ammissibilità - la quarta fase è costituita dal giudizio di ammissibilità da parte
della Corte costituzionale. L’ordinanza dell'Ufficio centrale che dichiara la legittimità della
richiesta è trasmessa alla Corte costituzionale, la quale deve accertare, entro il 20 gennaio,
se gli oggetti della richiesta referendaria rientrino tra le materie per le quali l’art. 75 esclude
la possibilità della proposizione del referendum.
e) L’indizione - la quinta fase è costituita dalla indizione, a cura del Presidente della Repubblica.
Una volta avuta la comunicazione da parte della Corte Costituzionale della ammissibilità il

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Presidente deve indire il referendum, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, con una
data tra il 15 aprile e il 15 giugno.
f) La votazione - la sesta fase è quella della votazione e dello scrutinio delle schede.
g) La proclamazione - la settima ed ultima fase è quella della proclamazione del risultato a cura
dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione. A seguito della
proclamazione il Presidente della Repubblica dichiara, con proprio decreto, l'avvenuta
abrogazione dell’atto oggetto di referendum. Il decreto del Presidente della Repubblica viene
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e l'abrogazione ha effetto a decorrere dalla pubblicazione.

La legge prevede che la procedura referendaria debba essere sospesa in caso di scioglimento
delle Camere, e che i termini per il procedimento referendario riprendono a decorrere dal 365°
giorno successivo alla data dell’elezione.

4. L’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione

Nel procedimento referendario l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione
non svolge solo compiti di verifica formale sulla correttezza delle firme, ma anche valutazioni di
natura sostanziale che possono incidere sull'andamento del referendum.

In primo luogo spetta all'Ufficio centrale valutare se, in presenza di più quesiti referendari, essi
possono essere tra loro accorpati. In secondo luogo è previsto che, nella ipotesi
dell'abrogazione della legge oggetto di referendum, l'Ufficio centrale dichiari la cessazione del
medesimo. Questa previsione prestava tuttavia il fianco a numerose perplessità di ordine
costituzionale. La semplice abrogazione della legge, anche contenente principi diversi o non
soddisfacenti i quesiti referendari, avrebbe automaticamente prodotto la cessazione della
procedura referendaria, impedendo l'esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato.

5. Il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale

Si è detto nel corso del procedimento referendario si colloca il giudizio di ammissibilità svolto
dalla Corte costituzionale. Questa competenza della Corte costituzionale introduce un modello di
giudizio particolare e diverso dalle altre competenze della Corte costituzionale, prima di tutto
perché delinea un giudizio endoprocedimentale, collocato all'interno di un procedimento
finalizzato alla indizione del referendum.
La corte costituzionale deve giudicare alla stregua dell'articolo 75 della Costituzione e quindi in
primo luogo verificare che la legge oggetto di abrogazione referendaria non rientri tra le leggi
sulle quali il referendum non può essere posta a norma dello stesso art. 75.
Accanto a questi limiti espressi la Corte ha però ritenuto sussistenti anche vari limiti impliciti
ricavabili dalla stessa Costituzione, limiti che possono essere così riassunti:
a) in primo luogo le leggi di cui all'articolo 75 2° comma debbono essere interpretate
estensivamente.
b) Sono escluse dal giudizio referendario le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi
costituzionali, in conseguenza del procedimento speciale, rinforzato, previsto in Costituzione,
che garantisce la rigidità della stessa Costituzione. Per la stessa ragione, inoltre, la Corte
costituzionale ha escluso la possibilità di sottoporre a referendum le leggi rinforzate, quelle
leggi cioè che in conseguenza di un “rinforzo” procedimentale sono dotate di una maggiore
resistenza passiva alla abrogazione.
c) Sono poi escluse dal referendum le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato. Si tratta
di quelle leggi che sono necessarie per il funzionamento di organi costituzionali e la cui
abrogazione determina l'impossibilità di funzionamento dell’organo. Ciononostante sono stati
ammessi i referendum sulla legge elettorale.
d) Il quesito referendario deve essere omogeneo, nel senso che non può contenere più
richieste che non sono riconducibili ad un’unica ratio.

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La particolarità dei referendum elettorali - Certamente nel corso degli anni l’istituto del
referendum abrogativo si è molto modificato. Mentre la costituzione aveva un’idea, forse troppo
essenziale del referendum, consiste in una pura attività di abrogazione di una legge o di una
norma, I referendum sulla legge elettorale in particolare modo hanno dato luce ad un nuovo tipo
di referendum: il referendum c.d. manipolativo. Si tratta di un referendum che, attraverso
l'abrogazione di più norme, producono una normativa, detta normativa di risulta, nuova e diversa
una precedente. Infatti il risultato che si vuole ottenere con questi referendum non è tanto
l'abrogazione di una legge o di una norma di una legge, quanto invece ottenere una nuova
normativa che risulta da parti abrogate di una legge.

L'abrogazione della legge attraverso referendum genera un vincolo per il Parlamento, nel senso
che quest'ultimo non potrà ripristinare la normativa abrogata per via referendaria.

6. Il diritto di petizione

L’art. 50 della Costituzione disciplina il c.d. diritto di petizione. Secondo tale norma “Tutti i
cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre
comuni necessità”.
Il diritto di petizione si distingue dalla iniziativa legislativa perché, nel caso sia richiesto un
provvedimento legislativo, richiesta non segue le forme dell’art. 71 della Costituzione. La
petizione, inoltre, può essere utilizzata anche per esporre comuni necessità e quindi non
necessariamente in collegamento con un provvedimento legislativo del quale si sollecita
l’adozione.

Questo diritto è assai poco utilizzato nelle democrazie contemporanee poiché le petizioni hanno
ben poche possibilità di creare consenso politico.

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PARTE IV
I DIRITTI FONDAMENTALI E LE GARANZIE

CAPITOLO I
I DIRITTI FONDAMENTALI: UN INQUADRAMENTO GENERALE

1. Le situazioni giuridiche soggettive

Uno dei tratti che maggiormente caratterizzano le Costituzioni de secondo dopoguerra è


l'articolato sistema di diritti e libertà fondamentali riconosciute al soggetto privato, tanto che
spesso si afferma che un certo diritto "è direttamente tutelato in Costituzione".

Le norme giuridiche determinano situazioni giuridiche in capo a persone, e queste situazioni


possono essere distinte in attive (di vantaggio) o passive (di svantaggio). Le situazioni giuridiche
attive (o di svantaggio) sono il diritto soggettivo, l'interesse legittimo, il potere, mentre le
situazioni giuridiche passive (o di svantaggio) sono l'obbligo e il dovere

Il diritto soggettivo è definibile come quella situazione giuridica, determinata da una norma, con
la quale vengono attribuite ad un soggetto, in relazione ad una fattispecie determinata dalla
stessa norma, facoltà e pretese tutelate dall'ordinamento in maniera immediata e diretta, dalle
quali scaturiscono obblighi nei confronti di terzi. Al titolare del diritto corrispondono infatti sia
facoltà, che riguardano le modalità del godimento del diritto, sia pretese nei confronti di terzi.
Alla esistenza di un diritto corrisponde dunque nei confronti di terzi una situazione passiva di
svantaggio, cioè l'obbligo di rispettare quel diritto. Inoltre, in caso di mancato rispetto
dell'obbligo, l'ordinamento prevede una sanzione, poiché il diritto soggettivo è tutelato
dall'ordinamento in maniera immediata e diretta.

L'interesse legittimo costituisce invece una situazione giuridica soggettiva conosciuta dallo Stato
italiano ma non da tutti gli ordinamenti. La sua origine è collegata all'esercizio del potere della
Pubblica Amministrazione e alla situazione, non paritaria, del privato nei confronti del potere
pubblico. Dato che l'amministrazione persegue un fine pubblico, le situazioni del privato che si
trovassero in contrasto con l'esercizio del potere amministrativo non possono essere tutelate in
maniera piena, ma solamente nella misura in cui coincidano anche con la tutela dell'interesse
pubblico. Il privato ha quindi il diritto a che l'amministrazione agisca in maniera conforme alle
norme che disciplinano l'esercizio del potere. Tali situazioni non sono quindi definibili come diritti
soggettivi, ma bensì come interessi legittimi, poiché la tutela di queste situazioni non è
immediata e diretta ma connessa con la tutela dello stesso interesse pubblico.

I diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono dati per presupposti nella Costituzione, che
garantisce la loro tutelabilità in via giudiziaria: "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti e interessi legittimi" (art. 24 1° comma). Da questa distinzione, tuttavia, derivano veri
effetti, il più importante dei quali è la modalità della tutela giurisdizionale: normalmente il giudice
ordinario tutela i diritti soggettivi, mentre il giudice amministrativo gli interessi legittimi.

Il potere invece, a differenza del diritto soggettivo e dell'interesse legittimo che sono situazioni
concrete è definibile come una situazione astratta, determinata da un norma, che consente a
tutti i soggetti o a determinate categorie di soggetti, la possibilità di ottenere il soddisfacimento di
un interesse considerato giuridicamente rilevante.

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Ad esempio i cittadini hanno il potere in astratto di accedere alle cariche elettive della
Repubblica (art. 51 della Costituzione).
Il potere è dunque legato al diritto ma non è un diritto, perchè è una situazione potenziale,
anteriore rispetto al diritto, che attribuisce al suo titolare una astratta possibilità di ottenere un
effetto giuridico.

Le situazioni giuridiche passive (o di svantaggio) sono, come si è detto, gli obblighi e i doveri.

L'obbligo costituisce il lato passivo del diritto, sostanziandosi in quei comportamenti che soggetti
terzi debbano tenere per rispettare un diritto.

Il dovere costituisce un comportamento che la norma prevede obbligatorio, ma senza che


dall'altra parte sia esistente un corrispondente diritto. Il dovere è dunque normalmente posto
nell'interesse generale e non è sanzionato. Molti sono gli esempi di doveri posti in Costituzione:
"il dovere del cittadino di difesa della patria" (art. 52); "il dovere dei cittadini di fedeltà alla
Repubblica" (art. 54).
Il dovere assomiglia dunque, ma visto dal lato passivo, al potere. È una situazione potenziale
che può trasformarsi in obbligo allorquando sia precisato dalla legge e sanzionato
giuridicamente (ad esempio il "dovere del cittadino di difesa della Patria" diviene un obbligo
attraverso la prestazione del servizio militare).

2. I diritti fondamentali: giusnaturalismo, positivismo, storicismo

Secondo il pensiero giusnaturalista l'uomo ha dei diritti originari, per natura, che sono inalienabili
e imprescrittibili e che neppure lo Stato può sottrargli.
Secondo il pensiero positivista i diritti del cittadino esistono in quanto conseguenza di un limite
che lo Stato impone a sé stesso.
Secondo il pensiero storicista le codificazioni costituzionali dei diritti fondamentali costituiscono il
frutto di un processo storico, nel quale emerge la necessità di garantire quei diritti che in un
determinato momento storico sono considerati come "fondamentali".

3. Le distinzioni tradizionali: libertà dello stato, libertà nello stato, libertà attraverso lo
stato

I diritti di libertà sono stati tradizionalmente divisi in tre grandi gruppi:

Le libertà dello stato sarebbero tutti quei diritti c.d. civili, cioè quelle libertà fondate sulla
autonomia riconosciuta alla persona. Queste libertà si realizzerebbero proprio attraverso un non
intervento da parte dello Stato, tanto è vero che essere vengono anche definite come libertà
negative. La libertà personale dell'individuo costituisce, ad esempio un classico caso si libertà
storicamente definita negativa, insieme alla libertà di circolazione, la libertà di domicilio e la
libertà di pensiero.

Le libertà nello stato sono invece i c.d. diritti politici. Sono diritti - da un punto di vista storico -
definibili come di seconda generazione: il diritto di voto, il diritto di associarsi in partiti politici e in
sindacati sono diritti finalizzati alla partecipazione alla vita politica dello Stato.

I diritti attraverso lo stato sono invece i diritti c.d. sociali. Essi sono definiti in tale modo perchè si
realizzano attraverso un intervento da parte dello Stato. Alla base del riconoscimento dei diritti
sociali vi è l'idea che le stesse libertà tradizionali non possono essere tutelate, se prima lo Stato
non provvede a riequilibrare le esistenti disparità sociali.
Il principio di eguaglianza sostanziale posto dal 2° comma dell'art. 3 costituisce la norma di base
di questo nuovo sistema di libertà, che poi si articola, tra l'altro, nel diritto al lavoro, nel diritto alla

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salute, nel diritto all'istruzione, all'abitazione, ecc. Per garantire queste libertà lo Stato non solo
non deve astenersi dall'intervenire, ma deve necessariamente attivarsi per rimuovere le
diseguaglianze.

3.1 La storicità di queste distinzioni ed il loro superamento

Fatte queste distinzioni tradizionali, è opportuno domandarsi se ed in che misura esse siano
ancora valide, valutando:
a) se oggi è ancora corretta la classificazione di gran parte dei diritti fondamentali come libertà
dello Stato o libertà negative;
b) se è ancora, e conseguentemente, corretta la classificazione di questi diritti come diritti
pubblici soggettivi;
c) qual è la differenza da un punto di vista delle qualificazioni giuridica e quindi degli effetti tra i
diritti di libertà e i diritti sociali;
d) qual è la conseguenza giuridica della costituzionalizzazione di questi diritti.

In primo luogo la classificazione dei diritti fondamentali come libertà negativa o dello Stato
appare oggi non poco riduttiva. Se si guarda al nucleo di questi diritti, si coglie come la
Costituzione abbia in realtà attribuito al soggetto privato facoltà e pretese rispetto a soggetti terzi
che questi hanno l'obbligo di rispettare. La libertà si realizza cioè, non solo perchè lo Stato non
deve intervenire, ma perchè la norma attribuisce al soggetto privato la facoltà di godere di quel
bene protetto dalla norma costituzionale. Dunque anche le libertà storicamente definite come
libertà dello Stato sono, dal punto di vista del loro contenuto, libertà positive, perchè
caratterizzate dalla facoltà di fare un qualcosa che altri sono obbligati a rispettare.

Su questa base è possibile rispondere all'interrogativo b). I diritti costituzionali di libertà non
possono essere qualificati come diritti pubblici soggettivi perchè non sono diritti ad astensione da
parte dello Stato, ma sono semplicemente diritti soggettivi.
I diritti di libertà dunque non sono i diritti soggettivi pubblici perchè non hanno come controparte
solo il potere pubblico, ma sono qualificabili come diritti soggettivi perchè sono compiutamente
determinati nella fattispecie normativa costituzionale, dalla quale derivano facoltà e pretese che
debbono essere rispettate sia da altri soggetti privati, sia dallo stato.
Inoltre tali facoltà e pretese sono tutelabili direttamente in giudizio, sia nei confronti dello Stato,
sia nei confronti dei soggetti terzi.
Questa classificazione dei diritti di libertà come diritti soggettivi, è anche storicamente adeguata
allo Stato contemporaneo.

Venendo al punto c), i "diritti" sociali in genere possono essere azionati in giudizio solamente se
lo Stato decide di soddisfarli attraverso ulteriori atti legislativi o amministrativi.

Il fatto che il diritto sia costituzionalizzato costituisce una imitazione al legislatore ordinario, che
non può modificare la disciplina data a quei diritti della Costituzione, pena la incostituzionalità
della legge. La costituzionalizzazione del diritto, inoltre, pone anche un vincolo al giudice che
deve applicare la legge interpretandola in maniere conforme alla Costituzione.
In sintesi questi diritti di libertà sanciti in Costituzione spiegano i loro effetti sia nei confronti dei
terzi, come diritti soggettivi, sia nei confronti del legislatore, che è tenuto a rispettare la
previsione costituzionale, sia nei confronti del giudice, che è tenuto ad una interpretazione
costituzionale della legge.

4. La imposizione culturale dei diritti fondamentali nella Costituzione

Nel contesto dell'Italia del dopoguerra, ancora fortemente divisa, la tutela dei diritti fondamentali
costituiva il primo strumento per contenere le diversità e per identificare valori comuni che

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dessero stabilità alla Costituzione. La Costituzione dello Stato sociale, attraverso il
riconoscimento di diritti sociali, era necessario per diminuire la disomogeneità e per garantire la
"tenuta" della nuova struttura costituzionale.

La disciplina dei diritti di libertà, a prima vista, sembra presentare forti similitudini con la
disciplina dei diritti di libertà previsti nelle Costituzione liberali ottocentesche, ma in realtà le
differenze sono rilevanti, sia per il contenuto dei diritti, sia per le garanzie poste a presidio dei
medesimi.

5. I diritti inviolabili dell'uomo nell'art. 2 della Costituzione

La parte iniziale della Costituzione (dall'art. 1 all'art. 12) è dedicata ai principi fondamentali. Si
trovano in questa parte i principi generali ai quali la Costituzione si ispira, principii che
caratterizzano la forma di Stato voluta del costituente e che condizionano la interpretazione della
altre norme costituzionali.
In materia di diritti fondamentali l'art. 2 della Costituzione costituisce la norma di riferimento
prevedendo che: "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale".
Già ad una prima lettura di natura generale si coglie come la Costituzione abbia voluto affermare
il primato della persona rispetto allo Stato e la centralità dei diritti dell'uomo.

Se infatti i diritti inviolabili dell'uomo vengono prima dello Stato, questi non possono essere
conseguenza di una sua autolimitazione: la persona non è servente allo Stato ma è lo stato ad
essere servente verso la persona.

Vi è da chiedersi quale sia la funzione di questo principio fondamentale e quale siano i diritti
inviolabili ai quali l'art. 2 fa riferimento. In ordine alla identificazione dei diritti inviolabili vi sono
diverse opinioni.

Secondo alcuni l'art. 2, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, non farebbe
riferimento solamente a quei diritti previsti in Costituzione, ma tutelerebbe i diritti fondamentali,
quali che essi siano, anche se la Costituzione non li prevede. L'art. 2 sarebbe quindi una norma
c.d. "a fattispecie aperta", con la funzione di garantire a livello costituzionale quei diritti non
specificamente disciplinati in Costituzione, che tuttavia siano considerabili come fondamentali
perchè, a seconda del modello filosofico di riferimento, ritenuti tali nella coscienza sociale,
oppure naturali dell'uomo.
I sostenitori di questa tesi ritengono ad esempio che il diritto alla vita, il diritto alla privacy, il
diritto alla libertà sessuale, diritti riconosciuti dalla stessa Corte costituzionale come diritti
fondamentali, ancorché non espressamente previsti dalla Costituzione, derivino dall'art. 2 in
quanto diritti inviolabili dell'uomo.
La interpretazione dell'art. 2 come norma a fattispecie aperta, tuttavia, presenta non poche
controindicazioni. Voler trarre direttamente da una norme generale di principio quale l'art. 2
nuovi diritti soggettivi, comporta una eccessiva apertura verso diritti di contenuto indeterminato.

Secondo altri invece l'art. 2 farebbe riferimento a quei diritti fondamentali già esistenti in
Costituzione, cosicché la norma costituzionale non avrebbe la funzione di riconoscere nuovi
diritti che non siano ivi considerati. I nuovi diritti, quando essi vi siano, dovranno invece essere
trattati dalle norme costituzionali esistenti attraverso una attività interpretativa nella quale il
principio della tutela della persona umana, come espresso dall'art. 2 funga da strumento di
interpretazione di altre norme, e non invece da clausola generale - indefinita - di immissione
diretta di nuovi diritti.

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Questa tesi appare più convincente ed alla fine anche più garantistica della precedente, perchè,
pur senza voler impedire l'ingresso di nuovi diritti in conseguenza della evoluzione storica e
sociale, garantisce una maggiore certezza, collegando l'estensione della tutela costituzionale a
norme esistenti. Così come al verbo riconoscere non deve essere attribuito un significato di
eccessivo rilievo anche dalla espressione inviolabile non deve trarsi la conseguenza che tali
diritti siano sottratti al procedimento di revisione.
In particolare "inviolabile" non equivale a "irrivedibile", cosicché non può sostenersi che diritti
qualificabili come inviolabili non siano sottoponibili a revisione costituzionale.
L'aggettivo inviolabile svolge però un notevole ruolo nel bilanciamento dei diritti. La inviolabilità
del diritto qualifica quella situazione giuridica soggettiva come particolarmente protetta
dall'ordinamento nel bilanciamento con altre norme costituzionali, sicché essa sarà comprimibile
da altre situazioni giuridiche soggettive, ma non sino al punto di incidere sul c.d. contenuto
minimo essenziale di quel diritto.

L'art. 2 poi tutela la persona umana non solo come singolo ma anche all'interno delle formazioni
sociali, attribuendo anche a queste ultime quegli stessi diritti che sono riconosciuti alle persone.
Con questa statuizione la Costituzione ha infatti voluto sancire il principio pluralista, intendendosi
con ciò che anche le formazioni sociali debbono godere degli stessi diritti che spettano agli
individui. Questo perchè l'individuo esplica le sue personalità non in maniera individualistica, ma
insieme ad altre persone, e le formazioni sociali generano comunità intermedie tra l'individuo e
lo Stato che hanno la funzione di bilanciare ulteriormente il potere dello stato.
A parte il generale principio sulla libertà di associazione (art. 18), la Costituzione tutela infatti
espressamente la famiglia, le minoranze linguistiche, le comunità religiose, le organizzazioni
sindacali e i partiti politici.

6. Il principio di eguaglianza nell'art. 3 della Costituzione: notazioni introduttive

L'art. 3 della Costituzione tratta del principio di eguaglianza.


In particolare, mentre il 1° comma disciplina il principio di eguaglianza c.d. formale ”Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,
di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” , il 2° comma sancisce invece il principio di
eguaglianza c.d. sostanziale “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

L'eguaglianza formale e sostanziale sono espressioni di due diverse matrici culturali.

L'eguaglianza formale deriva dal principio, di tradizione liberale, che tutti i cittadini sono eguali,
poiché nascono eguali e pertanto in maniera eguale debbono essere trattati dalla legge. In
conseguenza la legge, ancora secondo la tradizione liberale, è generale ed astratta proprio al
fine di garantire a tutti un eguale trattamento.

L'eguaglianza sostanziale ha invece una evidente matrice sociale: posto che non tutte le
persone nascono con le medesime possibilità di sviluppo, a causa di disuguaglianze di ordine
sociale ed economico che di fatto ne limitano la libertà, queste disuguaglianze debbono essere
rimosse dallo Stato al fine di garantire non solo una astratta eguaglianza formale, ma appunto
una concreta eguaglianza sostanziale

6.1. Il principio di eguaglianza in senso formale

Il principio di eguaglianza in senso formale "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione

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politiche, di condizioni personali e sociali", principio rivolto principalmente al legislatore che deve
applicarlo, contiene in sé tre diversi significati, alcuni dei quali frutto della interpretazione
evolutiva della Corte costituzionale.

Questi significati sono:


In primo luogo il nucleo "forte" del principio di eguaglianza implica una sorta di presunzione di
illegittimità costituzionale di una legge che preveda discriminazioni per le ragioni espresse
nell'art. 3. La presunzione deriva dal fatto che è la Costituzione a selezionare già,
preliminarmente, quelle situazioni che portano ad una violazione del principio di eguaglianza.
In definitiva, il nucleo forte del principio di eguaglianza ha la funzione di selezionare "a priori"
una serie di situazioni soggettive, in base alle quali non possono normalmente avvenire disparità
di trattamento, in quanto queste sarebbero contrastanti con i valori del sistema costituzionale.

In secondo luogo eguaglianza significa che si debbono trattare situazioni eguali in maniera
eguale e situazioni diverse in maniere diversa.

In terzo luogo eguaglianza significa anche ragionevolezza della disciplina legislativa.

6.2. La eguaglianza sostanziale

Il 2° comma dell'art. 3 della Costituzione prevede che: "è compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese". Si tratta della c.d.
eguaglianza sostanziale: la Costituzione ha la consapevolezza che garantire la sola eguaglianza
formale, cioè il pari trattamento, davanti alla legge, non è sufficiente. Vi sono situazioni di
diversità sostanziale tra i cittadini che lo Stato deve provvedere a rimuovere. La previsione posta
dal 2° comma dell'art. 3 ha natura e funzione di diverse rispetto al 1° comma, perchè mentre il 1°
comma prevede una regola come tale immediatamente applicabile, il 2° comma stabilisce un
principio, dal quale si ricava un generale dovere a carico dello Stato.

L'art. 3 2° comma ha la funzione di legittimare interventi perequativi da parte dello Stato che
limitano l'eguaglianza formale, ma che d'altra parte servono a rimuovere quegli ostacoli, di
ordine economico e sociale, che producono diseguaglianze di fatto.
La norma è generale, e quindi non individua quali sono queste situazioni di diseguaglianza di
fatto, lasciando il legislatore libero di apprezzare a seconda del mutare della storia e delle
situazioni economiche. Tuttavia, in certi casi, la esistenza di situazioni di diseguaglianza di fatto
è apprezzata dalla stessa Costituzione, che prevede norme già perequativa livello costituzionale,
in relazione a situazioni particolari. Ad esempio l'art. 37 tratta della tutela della donna lavoratrice
madre, le norme dedicate alla famiglia (dagli artt. 29 a 31), dove in molti casi la Costituzione
accerta la presenza di una situazione di fatto, i c.d. soggetti "deboli" (ad esempio i figli naturali,
cioè nati fuori dal matrimonio) che debbono essere, attraverso norme speciali a loro dedicate,
espressamente protetti.

Un caso particolare di applicazione del principio di eguaglianza sostanziale sono le c.d. azioni
positive o discriminazioni alla rovescia. Sono principalmente volte a consentire pari opportunità
nei confronti di categorie di soggetti che, si ritiene, partano da situazioni di svantaggio, come ad
esempio nel caso delle c.d. quote rosa o riserva di posti per componenti di sesso femminile. In
applicazione di questo principio è stata approvata una legge che riserva alle donne un
determinato numero di posti nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e delle
società pubbliche.
Le azioni positive costituiscono una ulteriore fase, ancora più avanzata, dell'eguaglianza
sostanziale.

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7. Il principio lavorista

Il tema del lavoro ricorre ben tre volte, in tre articoli diversi che debbono tuttavia considerarsi
intimamente legati e quindi congiuntamente analizzati. Questi sono gli artt. 1, 3 2° comma e 4.
[Leggi artt. appena citati]. Questi articoli hanno poi ampia declinazione negli articoli che vanno
dal 35 al 40 dedicati ai rapporti economici.

Con questi articoli si vuole affermare il principio che il lavoro costituisce uno strumento per
l'affermazione dello sviluppo della personalità e per il progresso materiale della società.

8. Il principio di laicità dello Stato

L'art. 7 (unitamente agli artt. 8 e 19 della Costituzione), afferma il c.d. principio di "laicità dello
Stato", che significa ad un tempo neutralità dello Stato rispetto alla religione, riconoscimento
della esistenza di un fenomeno di pluralismo religiosi e tutelato dalla Costituzione.

L'art. 7 infatti afferma che: "lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai patti Lateranensi. Le modificazioni dei
patti accettate dalle due parti non richiedono procedimento di revisione costituzionale".
Il 1° comma dell'art. 7 sancisce il principio di separazione tra Stato e Chiesa, respingendo il
modello di Stato confessionale, secondo il quale la Chiesa è titolare di verità morali ed etiche
che si estendono alla intera società, con la conseguenza che leggi ed etica pubblica dovrebbero
essere informate ai principi morali sui quali la Chiesa si basa.
Questa affermazione, per quanto possa apparire ovvia in uno Stato moderno, non era allora
storicamente scontata.

I patti Lateranensi non sono stati costituzionalizzati e le modifiche accettate dalla due parti non
necessitano di revisione costituzionale. Viceversa, se solo una delle parti volesse procedere alla
modifica del contenuto dei patti Lateranensi, sarebbe necessaria la revisione della Costituzione
e non dei patti.

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CAPITOLO II
LE LIBERTÀ DEI SINGOLI E DELLE FORMAZIONI SOCIALI

1. La libertà personale

Il primo articolo della Costituzione dedicato alle libertà, riguarda la libertà personale, che nella
Costituzione pare delineata principalmente come libertà della persona fisica, cioè come libertà
dagli arresti.
Nel 1° comma di tale articolo si afferma la inviolabilità della libertà personale.
Nel 2° comma si precisa che ogni restrizione della libertà personale (detenzione, perquisizioni,
ispezioni e qualsiasi altra restrizione) deve avvenire nei soli casi e modi previsti dalla legge
(riserva assoluta di legge) e per atto motivato dall'autorità giudiziaria (riserva di atto
giurisdizionale).
Nel 3° comma si prevede che in casi eccezionali di necessità e di urgenza, che debbono essere
indicati tassativamente dalla legge (altra riserva di legge) l'autorità di pubblica sicurezza può
adottare provvedimenti restrittivi della libertà personale che tuttavia sono provvisori. Tali
provvedimenti devono essere comunicati entro 48 ore alla Autorità giudiziaria, che deve
convalidarli nelle successive 48 ore, altrimenti perdono effetto.
Nel 4° comma, a garanzie del detenuto, si pone il principio che è punita ogni violenza fisica e
morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà, mentre nell'ultimo comma si rinvia alla
legge per la definizione dei termini massivi della carcerazione preventiva (ancora con una
riserva di legge).

Descritta la struttura della norma, i problemi principali da affrontare nella sua interpretazione
sono:
a) la complessiva determinazione e valutazione del sistema delle garanzie poste dalla
Costituzione a presidio della libertà "fisica";
b) la determinazione del contenuto di questo diritto di libertà, ed in particolare se esso sia
riferito solo alla libertà "fisica", intesa come libertà dagli arresti;
c) la qualificazione di questo diritto di libertà, ed in particolare se esso sia solo una libertà
negativa od anche una libertà positiva

In relazione al primo punto le limitazioni alla libertà personale possono avvenire solo nei casi e
modi previsti dalla legge (riserva assoluta di legge) e con atto dell'autorità giudiziaria, mentre
riserve di legge sono predisposte anche nel terzo e nell'ultimo comma.
La ragione di questo modello di garanzie, deriva in parte da ragioni storiche, e in arte
dall'applicazione dei classici principi del costituzionalismo.

Il secondo punto tratta del fatto che alcuni ritengono che l'art. 13 sia finalizzato a tutelare la
persona fisica dagli "arresti", ed abbia pertanto una portata ed una funzione solamente nel capo
penale, mentre altri sostengono che la espressione "la libertà personale è inviolabile", abbia la
più ampia funzione di garantire non soltanto la libertà fisica, ma anche quella psichica
dell'individuo.
In linea con questa seconda interpretazione la Corte costituzionale ha superato il mero ambito
della coercizione fisica, ricomprendendo nella tutela accordata dall'art. 13 anche la libertà
morale, e conseguentemente ed in genere, qualunque coercizione che comporti una
degradazione della persona umana.

Dall'art. 13 della Costituzione, inoltre, derivano altri diritti della persona che, pur non
espressamente enunciati dalla Costituzione, possono ritenersi ricompresi all'interno della libertà
personale, come il diritto alla identità personale, che a sua volta si estrinseca in altri diritti
connessi con la sfera personale dell'uomo e con la sua possibilità di interagire nella vita sociale,
come il diritto al nome, il diritto all'immagine, il diritto alla libertà sessuale.

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La libertà personale non è solo una libertà negativa. Non è solo libertà "da" ma è anche libertà
"di". Libertà di agire, di fare, di autodeterminarsi, di utilizzare il proprio nome, la propria
immagine e via dicendo.

2. La libertà di domicilio

La libertà del domicilio, disciplinata dall'art. 14 della Costituzione, costituisce quasi una sorta di
estensione della libertà personale: ne ricalca sostanzialmente lo schema e le garanzie,
trasferendolo anche al domicilio della persona.

In realtà può dirsi che il domicilio "coperto" dalla norma costituzionale, è il luogo nel quale la
persona svolge attività connesse con la sua vita privata e dal quale intende escludere soggetti
terzi. In questo senso la libertà di domicilio, a differenza della libertà personale, è una vera e
propria libertà negativa, poiché il suo contenuto si sostanzia nel dritto di escludere altri dal luogo
nel quale si svolge la propria vita privata.

Nel 1° comma si dichiara che "la libertà di domicilio è inviolabile" e nel 2° comma si prevede che
"non vi possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri se non nei soli casi e modi stabiliti
dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale".

La Costituzione dunque ha esteso al domicilio del privato le stesse garanzie della libertà
personale, rinviando espressamente a tale articolo.
Ispezioni, perquisizioni e sequestri, non possono avvenire se non in presenza di una riserva di
una riserva - assoluta - di legge, e con atto motivato dall'autorità.

Nel 3° comma si prevede invece che "gli accertamenti e le ispezioni per motivi si sanità e di
incolumità pubblica o ai fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali". Da questa
disposizione deriva una attenuazione della libertà di domicilio rispetto alla libertà personale.
In altre parole, i motivi previsti dal terzo comma, accertamenti e ispezioni possono avvenire
senza un provvedimento dell'autorità giudiziaria, poiché si ritiene vi siano in gioco interessi
costituzionalmente preminenti.

3. La libertà di circolazione

Con la libertà di circolazione e soggiorno si completa la tutela "spaziale" della libertà personale.
La Costituzione tutela la libertà di movimento della persona come libertà autonoma e distinta
della libertà personale di cui all'art. 13.

L'art. 16 disciplina la libertà di circolazione statuendo nel 1° comma che "ogni cittadino può
circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni
che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e sicurezza". La libertà di circolazione
è dunque garantita da una riserva di legge rinforzata, poiché essa può essere limitata solo per
motivi di sanità e sicurezza, stabiliti in via generale. La espressione "in via generale" costituisce
una ulteriore garanzia di pari trattamento: una eventuale legge limitativa della libertà di
circolazione non può infatti rivolgersi singolarmente a persone o a gruppi di persone.

Le garanzie costituzionali predisposte per la libertà di circolazione non comprendono invece "la
riserva di giurisdizione". Il che significa che limitazioni alla libertà di circolazione possono anche
avvenire, purché sia rispettata la riserva di legge rinforzata, attraverso provvedimenti dell'autorità
amministrativa. Inoltre questa libertà è riconosciuta espressamente ai soli cittadini. Gli stranieri
non godono della copertura costituzionale di questa libertà anche se ciò non implica che la legge
ordinaria non possa riconoscere pari trattamento, sotto questo profilo, agli stranieri, ma soltanto
che una che non riconoscesse pari trattamento non sarebbe incostituzionale.

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Questa differenza di disciplina tra la libertà personale (art. 13) e la libertà di circolazione e
soggiorno (art. 16) impone di distinguere quando la fattispecie materiale rientra nell'art. 13 e
quando nell'art. 16. Distinzione necessaria perchè nel primo caso la limitazione alla libertà
personale può avvenire solo con provvedimento motivato dal giudice, mentre nel secondo caso
è sufficiente un provvedimento adottato dall'autorità amministrativa.

L'ultimo comma dell'art. 16 infine tutela la libertà di espatrio: "ogni cittadino è libero di uscire dal
territorio della repubblica e di rientrarvi, salvo obblighi della di legge".

4. La libertà di comunicazione e corrispondenza

Con l'art. 15 entriamo nella sfera delle attività della persona ed in quelle particolari attività della
persona, essenziali per lo svolgimento della sua personalità, come corrispondere con altri o
manifestare liberamente il proprio pensiero.

L'art. 15 della Costituzione garantisce la libertà di corrispondenza e di ogni altra forma di


comunicazione, cioè la libertà di comunicare in ogni forma con una o più persone determinate,
escludendo altri da tale comunicazione. In ciò si differenzia dalla libertà di manifestazione del
pensiero (art. 21), che invece tutela la libertà di comunicazioni verso terzi non determinati e
senza volontà di esclusione.

La Costituzione tutela la libertà di corrispondenza e comunicazione con gli strumenti classici,


cioè con la doppia riserva di legge e di giurisdizione. La limitazione alla libertà di corrispondenza
e di comunicazione può avvenire, infatti, solamente per atto motivato dall'autorità giudiziaria e
con le garanzie previste dalla legge.
Da un punto di vista della tutela costituzionale le garanzie previste per la libertà di
comunicazione sono quindi addirittura superiori rispetto a quelle individuate per la libertà
personale.
Questa maggiore tutela si spiega con la necessità di garantire il terzo estraneo, destinatario
della comunicazione o della corrispondenza, rispetto alla persona sottoposta a indagini. Le
intercettazioni sono infatti consentite, per alcuni tipi di reati, quando vi siano gravi indizi di reato
e queste siano assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini.

5. Le libertà di manifestazione del pensiero

Anche se non è possibile fare una scale delle libertà più importanti, la libertà di manifestazione
del pensiero costituisce una delle norme "chiave" delle Costituzione contemporanee.
La libertà di manifestazione del pensiero costituisce sia l'espressione di un diritto strettamente
individuale, sia il momento di collegamento con le libertà politiche. Manifestare il proprio
pensiero, informare ed essere informati sono diritti attraverso i quali si formano quegli elementi
di conoscenza, di consapevolezza, di critica, che costituiscono le basi per l'esercizio degli
strumenti della democrazia.

L'art. 21 afferma il fatto che "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con
la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Dopo l'articolo si concentra infatti quasi
esclusivamente sulla libertà di stampa, stabilendo un sistema complesso ed articolato di
garanzie che fa comprendere come per il costituente tutelare questa libertà fosse la
preoccupazione principale.

La libertà di manifestazione del pensiero non si sostanzia tuttavia solamente nel diritto di
manifestare con ogni mezzo il proprio pensiero, ma anche nel diritto di informarsi e di essere
informato. Vi è dunque in questa libertà sia una componente attiva (la libertà rimanifestare il
proprio pensiero) sia una componente passiva (il diritto a ottenere informazioni).

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Dalla esistenza della componete passiva deriva la necessità che i mezzi di informazione siano
numerosi (pluralismo dei mezzi di informazione): il diritto ad essere informati non è infatti tutelato
se parallelamente non viene garantita anche la esistenza di più mezzi di informazione, e cioè la
possibilità di attingere ad informazioni diverse e di diversa provenienza.

I limiti alla libertà di manifestazione del pensiero sono diversi a seconda che si consideri la
componente attiva o passiva del diritto.

In relazione alla componente attiva i limiti sono sia espressi, in quanto direttamente previsti nella
norma costituzionale, sia impliciti, cioè ricavabili da principi generali.
I limiti espressi - sono quelli previsti dall'ultimo comma dell'art. 21, che afferma "sono vietate le
pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume".
Il buon costume si sostanzia in generale nel comune senso del pudore e della pubblica decenza,
ma dato che questi concetti variano a seconda della evoluzione storica, dei tempi, dei valori
della società, esso non può che essere apprezzato in senso relativo.
I limiti impliciti - derivano dalla esistenza di altri diritti costituzionalmente protetti che non
possono essere violati attraverso l'esercizio del dritto di manifestare il proprio pensiero e
possono essere ricondotti alla tutela dei diritti della personalità, quali l'onore, la riservatezza, la
reputazioni. Ad esempio l'ingiuria o la diffamazione sono sì espressione della manifestazione di
un pensiero, ma d'altra parte ledono quei diritti così da meritare la qualifica di reato.

I limiti alla componente passiva - cioè al diritto di essere informati - sono limiti impliciti ricavabili
da interessi costituzionalmente protetti a mantenere riservate certe informazioni. Questi limiti si
sostanziano, ad esempio nella disciplina dei segreti (es. il segreto professionale, il segreto di
Stato).

La libertà di stampa costituisce il contenuto principale dell'art. 21. La norma si diffonde molto
sulla componente attiva del diritto nei confronti di interventi repressivi e censori del potere
pubblico, mentre non tratta affatto della componente passiva - il diritto a essere informati - e
della connessa e conseguente questione circa il necessario pluralismo delle testate
giornalistiche.

In sintesi la disciplina costituzionale sulla stampa è così riassumibile:


- la stampa non può essere sottoposta a controlli di natura preventiva da parte del potere
pubblico, attraverso autorizzazioni o censure;
- si può procedere a sequestro, che è uno strumento di intervento successivo, solamente per
delitti espressamente previsti dalla legge sulla stampa e con atto motivato dell'autorità
giudiziaria. La Costituzione cioè riafferma la doppia garanzia della riserva di legge rinforzata e
della riserva di giurisdizione;
- nel caso di urgenza il sequestro può essere eseguito dalla polizia giudiziaria, ma deve essere
convalidato dal giudice entro le 24 ore successive.
- al fine di assicurare la trasparenza della gestione, la legge può stabilire che siano noti i mezzi
di finanziamento della stampa.

La disciplina della televisione - come logico dato il periodo nel quale la Costituzione è stata
scritta - non ha espresso fondamento costituzionale. La normativa legislativa, è stata il frutto
dell'applicazione da parte della Corte costituzionale dei principi sul diritto ad essere informati e
sul conseguente pluralismo di informazione, coniugato con i progressi tecnologici.
Quando la televisione fu introdotta per la prima volta in Italia, in assenza di normativa specifica,
si ritenne di poter applicarvi il regime di monopolio pubblico disciplinato dal codice postale del
1936. Piuttosto che un monopolio privato era preferibile un monopolio pubblico, poiché lo Stato
era comunque tenuto a garantire la imparzialità, la obiettività e la diffusione su tutto il territorio
delle trasmissioni televisive.

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6. La libertà della ricerca scientifica e della scuola

Gli artt. 33 e 34 della Costituzione tutelano la libertà della scienza e la libertà della scuola.

La libertà della scienza è tutelata principalmente attraverso l'autonomia organizzativa delle


istituzioni di alta cultura, Università ed accademie, che hanno appunto il diritto di darsi
ordinamenti autonomi, sia pure nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato

La Repubblica deve poi dettare le norme generali sull'istruzione, istituire scuole statali per tutti gli
ordini e gradi, e garantire ad enti e privati il diritto di istituire scuole senza oneri per lo Stato,

7. La libertà di riunione

La libertà di riunione (art. 17) costituisce la prima delle "libertà collettive", cioè di quelle libertà il
cui esercizio presuppone l'esistenza di una pluralità di soggetti accomunati dal perseguimento di
un medesimo fine.
Perché vi sia una riunione occorre la presenza contemporanea di più persone per il
perseguimento di uno scopo comune. La sola presenza contemporanea di più persone in un
luogo, senza il perseguimento di uno scopo comune, non caratterizza infatti una riunione, ma
casomai un assembramento. Nella definizione di riunione, inoltre, sono considerati anche i corti
e le processioni, che di fatti, quando abbiano i requisiti della riunione sono considerabili come
riunioni in movimento.
La Costituzione ovviamente tutela le riunioni pacifiche: esse infatti devono svolgersi
"pacificamente e senza armi".
Inoltre l'art. 17 distingue tra riunioni in luogo pubblico e riunioni in altri luoghi (aperti al pubblico o
privati).

Per le riunioni in luogo pubblico deve essere dato PREAVVISO alle autorità, che possono
vietarle solo per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. L'obbligo di preavviso
tuttavia non implica necessità di autorizzazione. Il preavviso non consiste in una domanda
finalizzata all'ottenimento di una autorizzazione, ma solo in un "avvertimento" all'autorità
amministrativa per rendere conosciuta la riunione e le sue caratteristiche.
L'autorità amministrativa non deve quindi autorizzarla, ma può soltanto vietarla in presenza di
quei comprovati motivi di sicurezza e incolumità. Da qui la conseguenza che la mancanza di
preavviso non comporta la illegittimità della riunione, ma è soltanto causa di responsabilità
giuridica per i promotori.

Le riunioni in luogo privato come una abitazione, e le riunioni nei luoghi aperti al pubblico, come
un cinema o un teatro, non necessitano di preavviso.

8. Le libertà di associazione

Le libertà di associazione si ricollegano all'art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i


diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo, si appunto nelle formazioni sociali dove si svolge la
sua personalità.

Per associazione si intende una organizzazione sufficientemente stabile di persone, legate da


un vincolo giuridicamente rilevante, per il perseguimento di un fine comune. Differisce dunque
dalla libertà di riunione sia in relazione alla temporaneità della prima rispetto alla tendenziale
stabilità della seconda, sia in relazione alla esistenza di un vincolo giuridicamente rilevante nel
caso di associazione che invece non sussiste nel caso di riunione.

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La libertà di associazione è tutelata in maniera molto ampia dalla Costituzione che afferma al 1°
dell'art. 18 che "i cittadini hanno il diritto di associassi liberamente, senza autorizzazione, per fini
che non sono vietati ai singoli dalle legge penale".

Occorre rilevare che con la espressione "i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente", la
Costituzione intende tutelare tra diverse fattispecie:
- la libertà di associarsi, cioè il diritto di costituire associazioni senza alcuna autorizzazione da
parte della pubblica autorità;
- la libertà delle associazioni, cioè la libertà di dare vita ad un numero indefinito di associazioni;
- la libertà di non associarsi, cioè la libertà di non partecipare ad alcun associazione.

Inoltre occorre rilevare che l'espressione "senza autorizzazione" significa che la libertà di
associarsi non è sottoposta al potere discrezionale della Pubblica Amministrazione. Non occorre
alcun atto amministrativo per consentire l'adesione ad una associazione.

La Costituzione vuole significare anche che il fine della associazione non rileva per l'esercizio
del diritto di libertà. Come si è visto, infatti, il solo limite previsto nel 1° comma è che i fini della
associazione non "siano vietati ai singoli della legge penale". Ciò che è penalmente lecito per il
singolo, dunque, non può essere vietato alla associazione, perchè l'art. 18 garantisce alle
associazioni la stessa libertà che la Costituzione garantisce ai singoli individui

Il 2° comma dell'art. 18 introduce poi un ulteriore limite alla libertà di associazione: "sono proibite
le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante
organizzazioni di carattere militare". Per associazione segreta non si intende semplicemente una
associazione "nascosta", che in sé non è illegittima, ma una associazione nascosta con fini di
sovvertimento dell'ordine democratico.
Lo scopo della norma, cioè, è quello di impedire che si possano creare "poteri occulti" con il fine
di sovvertire le istituzioni democratiche.
Questo medesimo scopo è perseguito dalla previsione che vieta la associazioni che perseguono
anche indirettamente scopo politici mediante organizzazioni di carattere militare.

9. I principi costituzionali sulla famiglia

Nell'ambito di forme associative particolari, particolare rilievo riveste la famiglia.


La Costituzione dedica infatti ben tre articoli, dal 29 al 31.
Si pensi ai diritti-doveri dei genitori tra loro e nei confronti dei figli, così come ai diritti doveri dei
figli nei confronti dei genitori, e alla posizione storicamente subalterna della donna all'interno
della famiglia. Si ritiene quindi opportuno non lasciare la disciplina di questi rapporti alla mera
autonomia privata e alla legge ordinaria (cod. civ.), fissando invece dei principi di rango
costituzionale che fungessero da guida per il legislatore.

La famiglia è definita come "società naturale fondata sul matrimonio".


Dunque dal 1° comma dell'art. 29 sembra derivare una protezione costituzionale della sola
famiglia legittima, quel tipo di famiglia, cioè basata sulla relazione uomo-donna e fondata sul
matrimonio. È inoltre da rilevare, che la Costituzione tutela i diritti e i doveri dei membri della
famiglia, in funzione della loro appartenenza al nucleo familiare.
Il 2° comma dell'art. 29 recita infatti che "il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi che i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare".

La tutela prioritaria della famiglia fondata sul matrimonio non implica tuttavia che la Costituzione
non prenda in considerazione anche la famiglia non fondata sul matrimonio ma su di una stabile
convivenza (c.d. famiglia di fatto). L'art. 30 infatti si occupa dei figli nati al di fuori del matrimonio,

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stabilendo il diritto dovere dei genitori di mantenerli, istruirli ed educarli, ed attribuendo loro ogni
tutela giuridica e sociale.
L'art. 31 che recita "la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la
formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle
famiglie numerose".
Sostenere che la Costituzione tuteli la solo sola famiglia fondata sul matrimonio non appare
costituzionalmente corretto, così come non è corretto sostenere che la famiglia c.d. di fatto abbia
la stessa tutela di quella fondata sul matrimonio.
L'art. 29 si riferisce certamente alla famiglia fondata sul matrimonio, ma d'altronde l'art. 2 della
Costituzione tutela la formazioni sociali tra le quali sono certamente ricomprese le unioni di fatto.

Come ha più volte riconosciuto la Corte costituzionale, alle unioni di fatto deve essere
riconosciuta una propria specifica dignità in quanto formazioni sociali da tutelare ex. art. 2 della
Costituzione. Tuttavia, mentre nella famiglia fondata sul matrimonio il bene ricercato dai coniugi
è la stabilità del rapporto, nella famiglia di fatto il vincolo è in ogni istante revocabile da ciascuna
delle parti.

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CAPITOLO III
I DIRTTI POLITICI E SOCIALI

1. Partiti politici e democraticità dello Stato

Gli artt. 48 e 49 disciplinano rispettivamente il diritto di voto e i partiti politici.


Il riconoscimento delle libertà individuali (opinione, riunione, associazione, ecc.) costituisce il
presupposto per l'esercizio del diritto di voto.

Vi è una strettissima coessenzialità tra il partito politico, sovranità popolare e democrazie. Se


l'essenza della democrazia sta nel "principio inviolabile della sovranità del popolo e nella
presenza, con la massima approssimazione possibile, in ogni momento temporale, del consenso
dei governati nei confronti dei governanti", i partiti politici sono il mezzo di collegamento tra le
decisioni pubbliche e le scelte popolari, e dunque costituiscono strumenti di attuazione della
democrazia.
La Costituzione fa dei partiti il più rilevante strumento di partecipazione politica nelle mani del
popolo: l'art. 49 infatti recita, "tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti
politici per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale".

La Costituzione pone i partiti a servizio dei cittadini. Secondo la norma costituzionale, infatti,
sono i cittadini e non i partiti a determinare la politica nazionale. O meglio lo sono i cittadini
attraverso i partiti, dal che consegue che questi ultimi costituiscono uno strumento dei primi per
esercitare le proprie scelte politiche.

I partiti politici sono definibili come organizzazioni della società civile, in quanto espressione
della libertà di associazione e non invece organi dello Stato.

2. I partiti politici: natura e disciplina legislativa

I partiti politici hanno dunque la natura di associazioni private, e in particolare rientrano nella
categoria delle associazioni non riconosciute previste nel cod. civ. La loro organizzazione è
infatti rimessa agli accordi tra i consociati, e quindi allo statuto del partito che ne determina gli
organi interni e il loro funzionamento, i diritti e i doveri degli iscritti, gli obbiettivi e le finalità
dell'associazione. Da questa qualificazione deriva l'ulteriore conseguenza che il controllo
giurisdizionale sulle delibere dei partiti può essere effettuato alla luce dello statuto, secondo le
regole che disciplinano le associazioni non riconosciute.

Se dunque i partiti hanno natura privatistica, non può essere messo in discussione il loro ruolo
pubblico e costituzionale, anche in considerazione del fatto che, ad oggi, godono di contributi
pubblici, cosicché possono essere qualificati come soggetti privati esercenti pubbliche funzioni.

3. Cenni alla c.d. "crisi dei partiti"

È noto che il modello di partito al quale faceva riferimento la Costituzione del 1948 non esiste
più.
I grandi partiti di massa che erano apparsi sulla scena politica a cavallo delle due grandi guerre
sono scomparsi. Il crollo delle ideologie, sancito dalla caduta del muro di Berlino, e la
progressiva perdita di valori generali di riferimento da parte della società, ha ulteriormente
accelerato la disgregazione dei grandi partiti che sulla ideologia o sui valori ritenuti
tendenzialmente universali si formavano.

Da allora si può dire che ci sono susseguiti vari modelli di partito che sono stati descritti con
nomi diversi dai politologi. Il partito-azienda, caratterizzato da una organizzazione di partito che

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utilizza le metodologie aziendali per selezionare i rappresentanti e mira ad ottenere il consenso
attraverso operazioni di marketing; i partito persona, che si basa sul sostegno, attraverso
comitati, a leaders presenti in Parlamento; il partito "liquido" che rifiuta qualunque ingabbiamento
ideologico e programmatico per decidere, caso per caso, in base a valutazioni contingenti del
proprio leader.
Al di là delle definizioni, e delle indubbie differenze che esistono tra un modello e l'altro, il tratto
comune di queste "nuove" forme organizzative è dato dalla libertà dei leaders di cambiare
frequentemente la linea, per cercare di intercettare il rapido mutamento degli interessi e finanche
degli "umori" della società.
Se essi diventano ideologicamente interscambiabili e privi di un vero collante sociale, non
svolgono più la loro funzione fondamentale di sintetizzare e trasformare interessi particolari in
interessi omogenei sufficientemente generali e stabili.

Questa trasformazione produce vari effetti: in primo luogo essa amplifica ulteriormente lo
scollamento tra società e sistema istituzionale, poiché il collegamento stabile tra i due, che
costituisce la vera essenza della democrazia, viene a mancare. In secondo luogo questa
mancanza si ripercuote sulle istituzioni rappresentative, che sono guidate attraverso
comportamenti mobili, largamente imprevedibili, assai poco coerenti e quindi anche, per forza di
cose, inefficienti. In terzo luogo la inefficacia del partito politico viene ribaltata dagli stessi sul
sistema costituzionale, che sarebbe datato e non in grado di garantire stabilità e coerenza di
indirizzo, innescando dibattiti, perlopiù largamente improvvisati, su ipotetiche riforme
costituzionali.

4. Il diritto di voto

L'art. 48 disciplina il diritto di voto.


È attraverso il diritto di voto che il sistema delle libertà fondamentali diviene il presupposto per
l'esercizio di diritti politici, ed è ancora attraverso il diritto di voto che si attua il 2° comma dell'art.
1 che afferma che "la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione".

La disciplina costituzionale del diritto di voto è delineata nell'art. 48, che al 1° comma prevede
che: "sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età". Questa
norma disciplina il c.d. elettorato attivo, indicando due requisiti per il suo esercizio:
- la cittadinanza italiana;
- la maggiore età.
Il requisito della cittadinanza non costituisce invero una novità per l'esercizio di diritti
costituzionali, perchè nella Costituzione vi sono altre norme che condizionano l'esercizio di diritti
alla sussistenza di questo requisito (ad esempio l'art. 16, 17 e 18).
Il requisito della maggiore età incontra il solo limite di cui all'art. 58, che prevede per il senato
l'età più elevata di 25 anni.

Il 2° comma dell'art. 48 determina altri principi che caratterizzavano il diritto di voto:


- il voto è personale, ed è dunque esclusa ogni ipotesi di voto per procura;
- il voto è eguale, secondo il principio democratico ogni testa un voto. Sono quindi esclusi tutti i
possibili sistemi di voto plurimo che attribuiscono ad una persona più di un voto;
- il voto è libero e segreto, esso dunque non è coartabile2 e vi sono regole per fare sì che la
segretezza del voto venga garantita;
- il voto è un dovere civico, volendosi con questa previsione indicare genericamente come la
partecipazione alla vita politica debba essere un impegno del cittadino. Come si è già detto il

2 Coartabile: costretto a fare qualcosa

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dovere tuttavia non costituisce un obbligo, ed infatti il non voto non è in alcun modo
sanzionato e l'astensione è considerata implicitamente un diritto;
- il voto non può essere limitato, se non per incapacità civile, sentenza penale irrevocabile, ed
indegnità morale indicati dalla legge. Questi requisiti sono poi specificati dalla legge.

5. I sindacati

La Costituzione, all'art. 39, sancisce il principio che "l'organizzazione sindacale è libera",


affermando così il principio del pluralismo sindacale, in antitesi al sindacato unico di matrice
corporativa fascista.
Anche i sindacati, così come i partiti politici, costituiscono formazioni sociali ai quali la
Costituzione attribuisce funzioni di mediazione di interessi, portandolo su di un piano di
maggiore generalità.
Il ruolo dei sindacati è andato al di là della previsione costituzionale. La norma costituzionale,
infatti, era principalmente finalizzata alla stipula dei c.d. contratti collettivi di lavoro: a norma del
4° comma dell'art. 39, i sindacati avrebbero dovuto stipulare contratti collettivi di lavoro vincolanti
per tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce.
La ratio della norma, nel contesto sociale di allora, era chiara: limitare il potere del datore di
lavoro di utilizzare la propria posizione di forza per imporre trattamenti diversi a seconda del
bisogno, tutelando pertanto in maniera egualitaria i lavorati a seconda delle categorie di
appartenenza.
I contratti collettivi, dunque, avrebbero dovuto essere fonti del diritto, in quanto dotati di
contenuto generale ed astratto e di efficacia erga omnes.
Perché i contratti avessero questo effetto, tuttavia, occorreva il possesso, in capo ai sindacati dei
requisiti previsti dalla Costituzione, e cioè:
- un ordinamento interno a base democratica;
- la registrazione;
- la personalità giuridica.

Alla norma dell'art. 39 tuttavia non è stata data attuazione per varie ragioni: inizialmente a causa
della elevata sindacalizzazione in Italia e della esistenza di sigle sindacali anche molto piccole
che avrebbero perso il proprio potere interdittivo, poi perchè la norma costituzionale è stata
ritenuta troppo rigida per contenere dinamiche contrattuali flessibili. Quindi i sindacati non sono
registrati e non hanno pertanto la personalità giuridica, con la conseguenza che i contratti
collettivi dei medesimi stipulati non vincolano la intera categoria dei lavoratori alla quale il
contratto si riferisce, ma solamente gli iscritti al sindacato. Questo implica che oggi i contratti
collettivi non possono essere qualificati come fonti del diritto.

6. I principi costituzionali sulla tutela del lavoro

Il diritto al lavoro è posto tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 4). Tale principio
generale è poi declinato nelle norme costituzionali che vanno dall'art. 35 all'art. 40, le quali
costituiscono le basi del modello di Stato sociale delineato dalla costituzione. Queste
disposizioni si pongono l'obbiettivo di riequilibrare posizioni ritenute svantaggiate: il lavoratore
nei confronti del datore di lavoro, la lavoratrice donna nei confronti del lavoratore uomo, il
lavoratore minore nei confronti del lavoratore non minore. Questo riequilibrio si cerca di
perseguirlo sia attraverso disposizioni che sono direttamente applicabili, sia attraverso principi
che impegnano e vincolano il legislatore ad adottare norme attuative.
L'art. 35, ad esempio, costituisce una norma di principio che pone in capo alla Repubblica il
dovere di tutelare il lavoro in tutte le forme, curando la formazione dei lavoratori, favorendo
accordi internazionali finalizzati a regolarne i diritti, riconoscendo la libertà di emigrazione e
tutelando anche il lavoro italiano all'estero.

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L'art. 35, come rilevato dalla corte costituzionale, ha quindi una funzione "introduttiva" rispetto
alle previsioni che seguono, tracciando principi che si ispirano all'eguaglianza, alla perequazione
e alla garanzia.
L'art. 36 prevede che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla
qualità del lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla sua famiglia un'esistenza
libera e dignitosa. Sempre l'art. 36 stabilisce il diritto del lavoratore al riposo settimanale e alla
retribuzione delle ferie, diritti espressamente sanciti come irrinunciabili.
Il successivo art. 37 si occupa del lavoro femminile e del lavoro minorile, introducendo il principio
di parità di trattamento retributivo tra uomo e donna. Questo principio era in verità deducibile
anche dal nucleo forte dell'art. 3 della Costituzione, che prevede il principio di eguaglianza,
senza distinzione di sesso.

L’art. 38 traccia la distinzione tra assistenza sociale e previdenza sociale.


L'assistenza sociale è prevista al 1° coma dell’art. 38 ”ogni cittadino, abile al lavoro e sprovvisto
dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento all'assistenza sociale”. Il 2° comma
invece assicura la previdenza sociale, cioè il diritto dei lavoratori a che “siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e
vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Mentre la assistenza è assicurata ai cittadini inabili al lavoro e sprovvisti di mezzi necessari per
vivere, la provvidenza è invece prevista per i lavoratori al verificarsi di terminate condizioni
(malattia, vecchiaia, ecc.)

L’art. 40 disciplina infine il diritto di sciopero che costituisce lo strumento attraverso quale si sono
affermati, storicamente, i diritti lavoratori.
Il diritto di sciopero è un diritto individuale del lavoratore, esercitabile collettivamente, che
postula l'esistenza di un contratto di lavoro e che si sostanza nell'astensione del lavoro. Il fine
dello sciopero però non è necessariamente connesso con il rapporto di lavoro: la Corte
costituzionale ha infatti ammesso lo sciopero anche per rivendicazioni di carattere generale,
come il c.d. sciopero di solidarietà o lo sciopero economico e politico.

7. I principi costituzionali sul diritto alla salute

Altro diritto sociale che ha avuto notevole sviluppo nei tempi recenti è il diritto alla salute,
disciplinato dall’art. 32 della Costituzione.
Il 1° comma dell’art. 32 afferma che il diritto alla salute è un diritto fondamentale dell’individuo ed
un interesse della collettività, e che la Repubblica garantisce cure gratuite agli indigenti.
Il 2° comma discipline invece trattamenti sanitari, negando la possibilità di trattamenti sanitari
obbligatori, se non nei casi previsti alla legge e in ogni caso senza violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana.
Il diritto alla salute ha subito una notevole evoluzione dal punto di vista interpretativo. Dopo la
prima fase nella quale era qualificato come una norma meramente programmatica,
caratterizzante il modello dello Stato sociale ma non direttamente utilizzabile nelle relazioni
personali, la interpretazioni della giurisprudenza costituzionale e della Corte di Cassazione ne
hanno fatto diritto soggettivo. Sulla base dei due commi imposti dalla norma, la Corte
costituzionale, infatti, ha distinto il diritto alla salute come diritto fondamentale dell'individuo nei
confronti di terzi che potessero lederlo, rispetto al diritto ricevere trattamenti sanitari da parte
dello Stato.
Il primo sarebbe il cosiddetto diritto alla integrità psicofisica e avrebbe dunque efficacia erga
omnes, sarebbe immediatamente garantito dalla Costituzione, e come tale sarebbe direttamente
tutelabile ed azionabile dai soggetti legittimati confronti degli autori di comportamenti illeciti.
Il secondo è un tradizionale diritto sociale condizionato dall’attuazione da parte del legislatore.

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Le possibili limitazioni di questo diritto sono tuttavia temperata del necessario bilanciamento con
il principio costituzionale della tutela della dignità umana: infatti un contenuto minimo del diritto
che non può essere compresso, e che impone di non lasciare prive di tutela situazioni che
possono ledere la dignità umana, e che dunque vincola, in questo senso, le scelte legislative.
Il 2° comma dell’art. 32 vieta i trattamenti sanitari obbligatori se non nei casi previsti dalla legge e
nel rispetto della persona umana. La norma bilancia il diritto della persona di scegliere se
ricevere o meno cure mediche, con il diritto della collettività a non subire effetti negativi dalle
scelte individuali. Il caso tipico è quello delle vaccinazioni obbligatorie o dei trattamenti relativi a
malattie infettive e contagiose, che sono obbligatori a tutela degli interessi della collettività.
Il trattamento sanitario obbligatorio è dunque una eccezione rispetto al generale principio di
libertà scelta in ordine al trattamento medico.

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CAPITOLO IV
LA COSTITUZIONE ECONOMICA

1. La Costituzione economica tra diritto ed economia

La interpretazione della Costituzione economica deve essere effettuata alla luce delle norme di
diritto europeo, e partendo dalla considerazione che le norme che prevedono interventi dello
Stato di tipo programmatorio e che sembrano negare il modello dell'economia di mercato non
sono mai state utilizzate. Al contrario nel tempo state valorizzate non quelle norme costituzionali
di natura maggiormente libellista. La letteratura economica postula la possibilità dell'intervento
dello Stato nelle attività economiche provate nel caso dei c.d. fallimenti del marcato. Questi casi
si verificano allorquando il mercato non è in grado di produrre spontaneamente certi beni o
quando, senza intervento pubblico, produrrebbe una non corretta collocazione delle risorse. Nei
casi di fallimento del mercato lo Stato deve intervenire per produrre quel bene che altrimenti non
verrebbe prodotto o per ristabilire correttamente, attraverso norme giuridiche, gli equilibri tra le
parti.

2. Il c.d. modello di economia mista delineato nella Costituzione

Nonostante queste premesse la Costituzione economica italiana non compie una scelta di fondo
sulle ipotesi nelle quali lo Stato può intervenire direttamente nei fatti economici. Non a caso essa
è normalmente qualificata come "mista", volendosi dire con questa espressione che le attività
economiche possono essere svolte sia da soggetti privati che da enti pubblici.

In realtà, leggendo la Costituzione economica (quegli articoli che vanno da n. 41, libertà di
iniziativa economica al n. 47, la tutela del risparmio), la prima impressione è che questo
carattere "misto" sia però caratterizzato da una particolare attenzione ai poteri di intervento dello
Stato.
Ad esempio nell'art. 41 la "legge determina i programmi e i controlli opportuni perchè l'attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali"; nell'art. 42 la
proprietà privata è riconosciuta e garantita dalle legge e può essere espropriata nei casi previsti
dalla legge. Nell'art. 43 la legge può riservare o trasferire allo Stato determinate categorie di
imprese. Questa esemplificazione mette in luce come la Costituzione economica sia fortemente
ispira all'idea che lo Stato, o in generale le istituzioni pubbliche, dovessero avere un ruolo attivo
nell'ambito delle questioni economiche, non solo correggendo, ma anche indirizzando, e in certi
casi finanche gestendo le dinamiche economiche.

La Costituzione non doveva essere basata né su di un modello di mercato "puro" né su un


modello pianificatorio di tipo socialista.
Fatta questa scelta, il secondo grande punto di contatto sul quale tutte le parti alla fine
convenivano, era quello di consentire allo Stato di intervenire per correggere ed indirizzare le
attività economiche. Un punto di contatto fu allora trovato nell'obbiettivo, condiviso, di limitare il
monopolio privato, considerato tuttavia un pericolo principalmente per l'esercizio delle libertà
politiche più che per il buon funzionamento del sistema economico.

Il modello generale della Costituzione economica del 1948 non è dunque né marcatamente
statalista né certamente liberista. Si può dire che si tratta di una Costituzione mista, sia perchè le
attività economiche possono essere svolte da soggetti privati e da soggetti pubblici, sia perchè,
pur affermando in maniera molto forte la libertà di impresa e di iniziativa economica, si prevede
altresì la possibilità che la legge possa intervenire allorquando l'esercizio della attività
economica vada ad impattare con atri valori egualmente meritevoli di tutela.

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La Costituzione non ha la pretesa di disciplinare un preciso modello economico di sviluppo. Ne
esclude certamente uno - il modello socialista dell'economia pianificata - ma nell'ambito dell'altro
- il modello capitalista - si limita a fissare dei grandi principi esterni di natura principalmente
culturale e politica.

3. La influenza del diritto europeo sulla Costituzione economica

La lettura della Costituzione economica non può in effetti prescindere da una riflessione
sull'andamento della storia economica e sulla interpretazione di alcune "clausole generali" che vi
sono contenute.
Negli anni sono state progressivamente svuotate di contenuti quelle norme che consentivano
teoricamente evoluzioni in senso fortemente statalista, mentre sono stati valorizzati quei principi
di natura maggiormente liberista.

Ciò è potuto avvenire sia per ragioni di tipo economico, sia a causa - o per merito - del diritto
comunitario.
Il diritto comunitario si ispira a principi opposti rispetto all'interventismo statale: si fonda sulla
logica del mercato e della concorrenza e come abbiamo visto le norme comunitarie hanno forza
superiore alla legge. La Costituzione economica è pertanto integrata da quella che potremmo
definire come "la Costituzione economica europea", e può essere letta e compresa
correttamente solo facendo riferimento anche ai principi di diritto europeo.
In particolare l'adesione italiana al trattato CEE e alle sue successive modificazioni ha introdotto
anche nell'ordinamento italiano la tutela del mercato e delle sue regole.
La esistenza di un mercato unico costituisce infatti il presupposto per l'esistenza della stessa
Unione Europea, ed è assicurato attraverso la garanzia della libertà di circolazione delle merci,
dei lavoratori, dei servizi e dei capitali (le c.d. quattro libertà). Queste libertà non possono essere
garantire se non impedendo agli Stati, da un lato di imporre barriere all'ingresso che limitino la
circolazione delle merci e dei capitali, dall'altro lato impedendo posizioni di privilegio per imprese
o categorie di imprese di alcuni Stati rispetto ad altri.
Il Trattato codifica quindi varie regole, che in primo luogo impediscono agli Stati di condizionare il
mercato avvantaggiando alcune imprese rispetto ad altre, e che in secondo luogo impediscono
alle imprese di assicurarsi posizione illecite di vantaggio nel mercato (regole antitrust).
Seppure i principi e le regole sugli aiuti di Stato sono assai diverse dalle regolo e dai principi
antitrust, entrambe sono funzionali a creare situazioni di parità tra imprese nel mercato europeo,
e dunque ad assicurare la realizzazione dei un mercato unico.
Questi principi sono stati introdotti nell'ordinamento italiano prima attraverso la giurisprudenza
della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale, che hanno progressivamente sancito del
primato del diritto comunitario sul diritto interno attraverso la interpretazione dell'art. 11 della
Costituzione. Poi, con la modifica costituzionale dell'art. 117 in base al quale lo Stato italiano si
conforma alle norme del diritto comunitario.

L'ingresso del diritto europeo a livello sovralegislativo, impone quindi una "lettura" della
Costituzione economica adeguata ai principi europei.

4. L'iniziativa economica privata

Queste premesse sono utili per interpretare correttamente l'art. 41 della Costituzione, che tratta
del principio della libera iniziativa economica e costituisce pertanto una di quelle norme
fondamentali per individuare il modelle delle relazioni tra autonomia privata e potere pubblico
delineato nella Costituzione del 1948.
Il 1° comma dell'art. 41, infatti, afferma che l'iniziativa privata è libera.

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Nel 2° comma questa affermazione è però già relativizzata con la previsione di un vincolo. Essa
non può volgersi "in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla libertà alla
sicurezza e alla dignità umana".
Tal vincolo è qualificabile come negativo. Si voleva dire che l'attività economica non può
prevaricare la persona, e nel conflitto tra la prima e la seconda deve prevalere la seconda.

Mentre il 2° comma appare coerente con quanto affermato nel 1°, il 3° comma dell'art. 41 pone
una norma controversa e di difficile interpretazione: "la legge determina i programmi e i controlli
opportuni perchè l'attività economica, pubblica e privata, possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali". Questa previsione sembra infatti voler porre un vincolo positivo, funzionalizzando
l'attività economica a fini sociali.
Si voleva cioè riconoscere allo Stato la possibilità di intervenire in economia in maniera
coordinata e per legge, ma non introdurre un modello alternativo all'economia di mercato.
Alla fine il 3° comma dell'art.41 non potendo negare l'affermazione forte effettuata nel primo
(l'iniziativa economica è libera), né e per conseguenza volendo affermare che è lo Stato a
pianificare l'attività economica, voleva ribadire quel carattere di socialità che informa l'intero
modello costituzionale e di riflesso anche la Costituzione economica. L'impresa è libera, ma lo
Stato si riserva il diritto di intervenire, con la legge e con atti di carattere generale di controllo,
quando gli interessi particolari dell'impresa entrino in collisione con interessi generali. A ben
vedere questa cornice si adatta senza difficoltà ad un modello di economia di mercato. I controlli
che la legge pone per fini generali alla impresa privata sono moltissimi, e sono finalizzati nella
gran parte dei casi a tutelare il mercato.

4.1 Brevi cenni alla Autorità garante della Concorrenza e del Mercato

A testimonianza del cambiamento interpretativo della Costituzione economica effettuato nel


corso degli anni novanta, la legge n. 282 del 1990 introdusse in Italia la autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato (Antitrust), ed anche la normativa sulla tutela della concorrenza. Allo
scopo di sancire come la concorrenza sia un valore costituzionale la legge collega la disciplina
antitrust con la libera iniziativa economica, emanando tale normativa "in applicazione dell'art. 41
della Costituzione". L'Antitrust è una autorità definibile come indipendente perchè non dipende
dal Governo né da altre istituzioni. Il suo compito consiste nell'applicare in maniera imparziale le
regole del mercato.

5. La proprietà privata

L'altra norma chiave in materia economica riguarda al disciplina della proprietà privata.

In primo luogo, a differenza dello Statuto albertino e delle Costituzioni ottocentesche, il diritto di
proprietà non è considerato un diritto fondamentale, e in questa impostazione si rispecchia il
nuovo modello di Costituzione sociale che si fonda sul lavoro e sulla perequazione e non invece
sulla proprietà di beni.
In secondo luogo la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla Costituzione, ma la
garanzia opera attraverso la legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti.
In terzo luogo un ruolo fondamentale nella determinazione dei contenuti del diritto è dato dal
richiamo alla funzione sociale della proprietà, che costituisce la chiava interpretativa dell'intera
norma.

Detto questo in relazione alle linee generali, il 1° comma dell'art. 42 introduce la distinzione tra
proprietà pubblica e proprietà privata. I beni economici infatti appartengono allo Stato, ad enti o
privati. La proprietà di beni dello stato o di altri enti pubblici è sottoposta ad un regime giuridico
diverso rispetto alla proprietà dei privati, in conseguenza della funzione pubblica a cui tali beni
sono destinati.

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Il 2° ed il 3° comma determinano i principi fondamentali della disciplina della proprietà privata: "la
proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di
godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata
per motivi di interesse generale".
La affermazione della "funzione sociale" della proprietà costituisce ciò che ha radicalmente
modificato le caratteristiche di questo diritto. A seguito della entrata in vigore della Costituzione,
infatti, non si può più fare riferimento alla nozione di proprietà data dal codice civile come "diritto
di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo" (art. 832 cod. civ.), norma che
faceva perno sull'esclusivo interesse del proprietario. La funzione sociale della proprietà
consente infatti, attraverso il ricorso a normative vincolistiche, limitazioni al diritto di "godere e
disporre in modo pieno ed esclusivo". Inoltre, poiché i beni possono avere funzioni diverse, la
legge può stabilire modalità diverse per il godimento di quei beni, rompendo la storica unitarietà
del diritto di proprietà che viene invece articolato dalla legge in più statuti proprietari.

La Costituzione prevede poi, per motivi di interesse generale, che il sacrificio del privato possa
arrivare sino alla totale compressione del diritto sul bene attraverso la espropriazione, ma in
questo caso con la previsione di un indennizzo.
Il concetto di indennizzo non deve essere confuso con il concetto di risarcimento. Il risarcimento
infatti è conseguenza di un atto illecito e comporta l'integrale ristoro del danno subito, mentre
l'indennizzo è conseguenza di un atto lecito - l'espropriazione - e conseguentemente non
comporta l'integrale ristoro del sacrificio subito. Tuttavia la Corte costituzionale ha più volte
affermato che esso non deve essere neppure apparente o simbolico, ma deve comunque
costituire un "serio ristoro" per l'espropriato.

6. Il possibile trasferimento allo Stato di particolari attività produttive

L'art. 43 tratta delle imprese che esercitano servizi pubblici essenziali, fonti di energia o si
trovino in situazioni di monopolio. In questi casi la Costituzione prevede che la legge possa
riservare originariamente, o trasferire mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato o
ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti tali imprese.

L'art. 43 costituzionalizza, quindi, il discusso istituto della c.d. riserva originaria. Riserva
originaria significa che lo Stato può appunto riservare con legge - o trasferire - l'esercizio di una
determinata attività imprenditoriale, allo Stato stesso o ad un ente pubblico, preesistente o
costituito ad hoc. Può altresì riservare allo Stato una determinata attività economica, la quale
può poi essere data in concessione ad un ente pubblico.

La riaffermazione della riserva originaria e del possibile trasferimento di una attività


imprenditoriale allo Stato, nel testo della Costituzione, persegue l'obbiettivo di evitare il formarsi
di monopoli privati nei servizi pubblici essenziali e laddove vi sia monopolio naturali (cioè nei
casi di naturale scarsità del bene).

7. La tutela del risparmio

L'art. 47 della Costituzione prevede al 1° comma che "la Repubblica incoraggia e tutela il
risparmiato in tutte le sue forme; disciplina coordina l'esercizio del credito". Vi è stata una prima
fase dall'entrata in vigore della Costituzione sino alla fine degli anni '80, nella quale dell'art. 47 si
privilegiava principalmente una interpretazione dirigistica, facendo spazio sulle espressioni
"disciplina, coordina e controlla". Vi è stata una seconda fase, dagli anni '90 fino a 2008, nella
quale sulla spinta del diritto comunitario, la lettura dirigistica è stata parzialmente abbandonata a
vantaggio dell'estensione al sistema del credito dei principi relativi alla impresa e al mercato. Vi è
stata, e vi tuttora, una ulteriore fase nella quale il tema del controllo pubblico sul credito in

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funzione di garanzia di stabilità ha ripreso vigore sia pure sostituendo alla repubblica le istituzioni
dell'Unione Europea.

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CAPITOLO V
LA GARANZIA E LA TUTELA DEI DIRTTI FONDAMENTALI: DALLA COSTITUZIONE ALLA
DIMENSIONE SOVRANAZIONALE

1. Il bilanciamento dei diritti e il c.d. “contenuto minimo”

Come si è visto la Costituzione riconosce e garantisce varie tipologia di diritti fondamentali. Dai
diritti personali di libertà, ai diritti delle formazioni sociali, ai diritti politici e sociali, ai diritti
economici. Alcuni di questi diritti sono definiti dalla norma costituzionale che li identifica come
“inviolabili”, mentre altri non lo sono. Alcuni contengono regole e fanno sorgere diritti soggettivi
perfetti, mentre altri contengono disposizioni di principio che debbono essere attuate dal
legislatore, e dunque non fanno sorgere diritti se non a seguito dell’attuazione della forma di
Stato, contengono programmi molto generali che in linea di larga massima debbono ispirare
l’azione dello Stato.
In definitiva la tipologia delle situazioni soggettive tutelate in Costituzione è molto diversificata.
Quando la norma costituzionale non attribuisce immediatamente un diritto soggettivo,
certamente questa non può essere invocata direttamente in giudizio a tutela della situazione
giuridica lesa, poiché da tale norma non ne deriva una pretesa immediatamente tutelabile alla
quale corrisponde un obbligo. Tuttavia anche quando dalla norma costituzionale non deriva un
diritto soggettivo, essa svolge una funzione importante, sia in relazione all’effetto invalidante, sia
in relazione al c.d. bilanciamento dei diritti.

Si è già detto più volte, infatti, che nessun diritto è in sé assoluto e illimitato, ma che al contrario
ogni diritto incontra limiti in altri diritti costituzionali. Come ebbe a riconoscere la stessa Corte
costituzionale, l’esercizio di un diritto non può impedire l’esercizio di un altro diritto, e per le
stesse ragioni non è possibile individuare in Costituzione una gerarchia di diritti.
Solo per chiarire con semplici esempi: il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero incontra
limiti nel diritto alla c.d. privacy. È il legislatore che deve, all’interno delle norme, bilanciare
correttamente i diritti onde evitare che la tutela dell’uno renda non godibile l’altro. La legittimità
costituzionale di questo bilanciamento è poi verificata, a valle, dalla Corte costituzionale nel
giudizio di legittimità costituzionale.

I diritti debbono dunque bilanciarsi reciprocamente ed è compito del legislatore quello di


effettuare un bilanciamento corretto. Se questa operazione non è stata effettuata correttamente,
sarà la Corte costituzionale nel giudizio di costituzionalità della legge, ad effettuare un nuovo
bilanciamento, alla luce delle Costituzione, e a dichiarare conseguentemente illegittima la legge.
Il bilanciamento dei diritti, nel giudizio di costituzionalità, segue ormai tecniche consolidate.
In primo luogo, il bilanciamento può effettuarsi solo allorquando si tratti di diritti aventi medesimo
rango (costituzionale). In secondo luogo, nell’ambito di due diritti aventi lo stesso rango, un
diritto può essere sacrificato solo in modo ragionevole e proporzionato. Infine il sacrificio di un
diritto non può comunque intaccare quello che viene definito come il “contenuto minimo” del
diritto, al di là del quale si determinerebbe una elusione ed una sostanziale violazione del diritto
sacrificato, che pure ha rango costituzionale.

Ragionevolezza e proporzionalità, contenuto minimo del diritto, costituiscono concetti elastici


che consentono alla Corte costituzionale di “mediare” tra norme costituzionali aventi struttura e
finalità diverse.

2. Principi sulla magistratura: autonomia e indipendenza del giudice

Normalmente sono i giudici a tutelare in concreto i diritti. Per questa ragione la Costituzione
pone una serie di garanzie tese a preservare autonomia e indipendenza dal giudice, considerate
i presupposti per il corretto giudicare e quindi per una equilibrata tutela dei diritti. Le garanzie

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dell’ordinamento giudiziario e le garanzie del processo si legano pertanto alla tutela giuridica dei
diritti, costituendone il necessario contraltare.

Per reazione al modello nello Statuto Albertino, e per paura di una magistratura non imparziale,
la Costituzione repubblicana attribuisce all’ordine giudiziario non solo garanzie di autonomia e di
indipendenza, ma anche varie prerogative relative allo status giuridico e alle modalità di
decisone sui percorsi di carriera, funzionali a tutelarne l’autonomia e l’indipendenza.
Per sancire che l’ordinamento giudiziario non è gerarchicamente organizzato, l’art. 101 prevede
infatti che “Il giudice è sottoposto soltanto alla legge”, e da questa norma derivano conseguenze
sia organizzative che funzionali.

Dal punto di vista organizzativo se il giudice è sottoposto solo alla legge ciò esclude la sua
sottoposizione gerarchica ad altri poteri dello Stato e quindi anche ad altri giudici. L’ordinamento
giudiziario non è cioè costruito gerarchicamente, poiché i giudici non dipendono da altri poteri.
Questo principio è stato più volte evidenziato dalla Corte costituzionale, che in sede di conflitto di
attribuzioni tra poteri dello Stato ha qualificato ogni giudice, investito di potestà decisorie, come
potere dello Stato, e dunque dotato di una propria sfera di competenze esercitabili in maniera
autonoma e indipendente.

Da un punto di vista funzionale, invece, sottoposizione soltanto alla legge significa invece che il
giudice è libero di interpretare le norme giuridiche secondo la propria coscienza e senza vincoli
derivanti da interpretazioni, eventualmente di segno diverso, esperite da altri giudici.
Il principio della sottoposizione del giudice soltanto alla legge è poi svolto e precisato
ulteriormente nell’art. 104 della Costituzione, che stabilisce che “la magistratura costituisce un
ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Attraverso questo principio la Costituzione
ha voluto rafforzare quanto già desumibile dal precedente art. 101, svincolando la magistratura
dagli altri poteri dello Stato, per assicurare che l’esercizio della giurisdizione possa essere svolto
senza interferenze da parte di altri poteri e senza interferenze da parte del potere esecutivo.

2.1 Le garanzie dell'indipendenza: il CSM e altre garanzie

I principi di autonomia e di indipendenza, sono tutelati attraverso strumenti che tali principi
mirano ad attuare concretamente. Il più importante di questi strumenti, a parte la norma che
prevede la nomina dei magistrati debba avvenire per concorso, è il Consiglio superiore della
magistratura (CSM).
Il CSM si occupa di tutto il percorso di carriera del magistrato, a garanzia che altri poteri non ne
condizionano lo status giuridico, garantendo così, come si sostiene tradizionalmente, la
indipendenza della magistratura rispetto agli altri poteri. Le competenze del CSM sono
specificate dall'art. 105 secondo il quale "spettano al Consiglio superiore della magistratura,
secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazione e i trasferimenti,
le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati".

Il CSM è composto da ventisette membri. Sedici sono espressione della stessa magistratura
dalla quale sono eletti, mentre otto sono eletti dal Parlamento in seduca comune. Sono poi
membri di diritto il Presidente della Repubblica, che ne è il Presidente, il Primo Presidente della
Corte di Cassazione e il Procuratore generale della Corte di Cassazione. La composizione mista
del CSM impedisce che questi possa essere tecnicamente qualificato come organo di
autogoverno della magistratura, anche se la presenza largamente maggioritaria della
componente togata nei fatti attribuisce il predominio delle decisioni ai membri che provengono
dalla magistratura.
L'attribuzione al Presidente della repubblica della presidenza del CSM ha, in questo contesto,
funzione di equilibrio tra la componente togata e quella "laica", con lo scopo di sancire la non
politicità dell'organo.

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Ulteriore garanzie per i magistrati è sancita con l'art. 107 che ne determina "l'inamovibilità". Essi
infatti "non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni
se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura adottata o per i motivi e
con le garanzia di difesa stabiliti dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso".

Inoltre norme legislative prevedono la sostanziale irresponsabilità civile del giudice per le
decisioni assunte. Secondo la legge infatti il magistrato è responsabile soltanto in caso di dolo
(cioè quando abbia agito intenzionalmente) o in casi di colpa grave (cioè per grave negligenza)
con esclusione della responsabilità civile per colpa.

2.2 Le garanzie delle parti: il giusto processo

Il processo non è pura forma: perchè vi sia un processo giusto occorre che vi sia confronto tra le
diverse posizioni, e che le parti si trovino tra loro in posizioni di parità.
Il confronto tra posizioni diverse costituisce il fondamento per una decisione che si basi su di una
motivazione che di tali posizioni tenga conto.
Diritto di azione, principio del contraddittorio e motivazione della sentenza, costituiscono i
principi cardine di un giusto processo. A questo proposito la Costituzione stabilisce alcuni
principi, largamente generali, sia sul diritto di azione, sia sul diritto di difesa, sia, con la riforma
costituzionale del 1999, sulle regole che presiedono al c.d. giusto processo.

Il diritto di azione è disciplinato dall'art. 24 dove si afferma che "tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti e interessi legittimi".
Il diritto di azione è completato da una regola fissata dal 1° comma dell'art. 25, che stabilisce il
c.d. principio del giudice naturale precostituito per legge: "nessuno può essere distolto dal
giudice naturale precostituito per legge". La norma vuole significare che la legge deve
predeterminare la competenza giurisprudenziale, cosicché prima dell'esercizio dell'azione sia
determinabile l'organo giudicante sulla base di criteri generali fissati in anticipo dalla legge, e
non in vista di singole controversie. Questo principio costituisce una garanzie sia per le parti, alla
quali il giudice naturale non può essere sottratto, sia per il giudice, il quale a sua volta deve
giudicare sulle questioni di sua competenza.

La Costituzione, all'art. 111, introduce il principio del c.d. "giusto processo".


L'art. 111 tratta, con poche norme di natura generale, i principi generali del processo, e con varie
norme di carattere specifico, il processo penale.
Le norme di carattere generale statuiscono che il processo è retto dal principio del
contraddittorio paritario tra le parti davanti ad un giudice terzo e imparziale, e che tutti i
provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati. Si tratta della codificazione costituzionale
dei principi cardine che reggono il processo come strumento per giungere a quella "verità
processuale", che si auspica il più vicino possibile alla verità oggettiva.
Le norme relative al processo penale stabiliscono che la persona accusata di un reato sia
informato nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell'accusa, disponga del tempo
per preparare la sua difesa, e possa interrogare o far interrogare la persona che renda
dichiarazioni a suo carico.
Questo insieme di norme costituzionali sul processo e sull'ordinamento giudiziario, completano il
sistema dei diritti dal punto di vista della loro tutela. Si comprende meglio, allora, l'enfasi della
Costituzione sul fatto che i diritti fondamentali possono essere limitati solo attraverso un "atto
giurisprudenziale motivato".

3. La tutela internazionale dei diritti fondamentali: alcune distinzioni preliminari

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Gli "strumenti" di carattere sovranazionale come i trattati internazionali e convenzioni
internazionali hanno spesso ampliato il catalogo dei diritti fondamentali rispetto alla Costituzione.
Il sistema di decisione sovranazionale si fonda su regole diverse da quelle costituzionali, che
prevedono normalmente la specificazione normativa del diritto attraverso la riserva di legge e
l'applicazione della norma attraverso il provvedimento del giudice. A livello sovranazionale, non
essendovi la legge a precisare i contenuti dei diritti posti nelle convenzioni o nei trattati, molto
spazio è lasciata alla creatività del giudice. Inoltre in alcuni casi questi strumenti di carattere
internazionali predispongono a loro volta mezzi di tutelata sovranazionale che si impongono, o
che comunque debbono raccordarsi, con gli strumenti di tutela previsti a livello nazionale.

Il sistema della normativa sovranazionale di tutela dei diritti fondamentali è assai complesso e
questa normativa ha forza diversa rispetto il nostro ordinamento, occorre effettuare alcune
distinzioni preliminari in relazione alla tipologia delle fonti che predispongo questa tutela.
In primo luogo vi sono i trattati internazionali che si occupano dei diritti fondamentali. Rientrano
tra questi atti, ad esempio, Il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto
internazionale su i diritti civili e politici, entrambi approvati dall'ONU nel 1966.
In secondo luogo deve considerarsi la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) che contiene un amplissimo catalogo di diritti
fondamentali più articolato e dettagliato della nostra carta costituzionale. La CEDU fu sottoscritta
a Londra nel 1949 dagli stati membri del Consiglio di Europa.
In terzo luogo deve considerarsi il sistema previsto dal trattato dell'Unione europea (TUE) e dalla
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del 7 dicembre del 2000. Quest'ultima contiene
varie tipologie di diritti, in certi casi nuovi rispetto alle carte costituzionali.

3.1 la protezione diritti dell'uomo nei trattati internazionali

I diritti fondamentali sanciti nei trattati internazionali, a seguito della modifica dell'art. 117 della
Costituzione, che prevede che la potestà legislativa dello Stato è esercitata dei vincoli "derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali", hanno assunto rango superiore
rispetto alla legge. La legge italiana che contrasti con i diritti fondamentali stabiliti in un trattato
internazionale è incostituzionale per contrasto con l'art. 117 della Costituzione

3.2 La protezione dei diritti dell'uomo nella Convenzione EDU

La Convenzione EDU, che prevede un catalogo di diritti fondamentali, ha previsto una Corte
appositamente dedicata alla tutela dedicata alla tutela dei diritti fondamentali, la Corte europea
dei diritti dell'uomo avente sede a Strasburgo. Alla Corte europea dei diritti dell'uomo possono
ricorrere non soltanto gli Stati firmatari della Convenzione per violazione della medesima da
parte di altri Stati, ma anche persone, fisiche o giuridiche, che ritengano di aver subito una
lesione, da parte dello Stato al quale il soggetto appartiene.

3.3 La protezione dei diritti dell'uomo nel Trattato dell'Unione Europea

Nell'anno 2000 è stata approvata la Carta dei fondamentali dell'Unione Europea. Con la riforma
dei trattati effettuata a Lisbona si è stabilito all'art.6 che "l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i
principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000 che
ha la stessa valore giuridico dei trattati". La Carta dei diritti fondamentali è dunque entrata a far
parte del trattato dell'Unione europea, con la stessa forza giuridica di quest'ultimo. Lo stesso
principio è stato adottato per quanto riguarda la CEDU. L'art. 6, 3° comma del trattato di Lisbona
prevede infatti che "i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri, danno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali".

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Queste norme fanno parte del diritto europeo, e costituiscono parametri per il giudizio da parte
della Corte di Giustizia.

4. verso una tutela multilivello dei diritti fondamentali

La tutela dei diritti fondamentali a livello sovranazionale è in conclusione molto articolata e


complessa. Se i diritti fondamentali sono il patrimonio storico della Costituzione, d'altra parte la
elencazione di diritti in "Carte" o "Convenzioni" non comporta la trasformazione del trattato in un
Costituzione. Inoltre più aumenta il numero dei diritti posti in fonti con forza diversa, più aumenta
la necessità di bilanciarli tra loro e quindi la possibilità di limitazioni dei medesimi. Non
necessariamente, quindi, aumentando il numero dei diritti e il numero delle fonti che li
disciplinano aumentato le garanzie e la tutela di questi.

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CAPITOLO VI
LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE NELLA COSTITUZIONE: ORIGINI E PRINCIPI
ORGANIZZATIVI

1. La nascita della giustizia costituzionale negli Stati moderni

Per giustizia costituzionale si intende, nel suo significato essenziale, la possibilità di sindacare la
legittimità di una legge - o di un atto avente la forza della legge - rispetto alla Costituzione. La
giustizia costituzionale si sostanzia dunque essenzialmente in un giudizio sulle leggi che si
pongono in contrasto con la Costituzione, giudizio finalizzato a verificare la conformità di una
fonte inferiore (legge) rispetto ad una fonte superiore (la Costituzione). Inoltre spesso le
Costituzioni attribuiscono alle Corti costituzionali anche ulteriori competenze.

La giustizia costituzionale, nella sua accezione caratteristica del giudizio sulla legge rispetto alla
Costituzione, è tipica, per quello che concerne l'Europa, delle Costituzione che si affermano
dopo la seconda guerra mondiale, perchè soltanto in quelle Costituzione si realizzazione le
precondizioni, storiche e giuridiche, per l'instaurarsi di un sistema di giustizia costituzionale.
La prima precondizione, infatti, era costituita dal superamento della forma di Stato di tipo
dualistico, nella quale la sovranità tra il monarca e la classe borghese era contestata, ed il
passaggio ad una forma di Stato nella quale la lotta per la sovranità e la supremazia non fosse
in discussione. Con l'uscita di scena dei sovrani, le Costituzioni successive alla seconda guerra
mondiale sono invece espressione del potere costituente, e ridisegnano un assetto istituzionale
e sociale generale del quale è la stessa Costituzione ad essere garante. In questo diverso
contesto, la garanzia della tenuta di quell'assetto non è più lasciata a parti contrapposte, e
dunque la previsione di una funzione di controllo sul rispetto della Costituzione da parte degli
altri poteri diviene imprescindibile.
Una seconda precondizione è legata all'avvento della rigidità delle Costituzioni. Se la
Costituzione è superiore rispetto alle leggi, ne consegue che una legge contraria alla
Costituzione è invalida: dunque deve esserci, all'interno della Costituzione, un organo che
eserciti la funzione di accertare la invalidità di una legge incostituzionale.
Una terza precondizione è legata alle caratteristiche delle democrazie parlamentari
contemporanee. La legge è espressione di una maggioranza politica alla quale si contrappone,
normalmente, una minoranza politica. Il controllo della legge rispetto alla Costituzione è dunque
anche una garanzia della minoranza rispetto alla maggioranza, nel senso che le scelte di
indirizzo politico di quest'ultima debbano tuttavia muoversi all'interno della cornice di valori e
principi delineati dalla Costituzione e da tutti condivisi.

Infine le Costituzioni contemporanee sono ricche di diritti, di valori, di principi che necessitano di
esser interpretati ad anche attuati attraverso la legislazione ordinaria. Perché questo possa
accadere occorre però che si formi una giurisprudenza sulla interpretazione della Costituzione,
che possa essere da guida anche nella interpretazione della legge. Questo ruolo viene svolto
appunto dagli organi di giustizia costituzionale.

2. I modelli di giustizia costituzionale

Da quanto si è detto deriva che la giustizia costituzionale è caratterizzata, come si è soliti dire,
da una doppia anima: una anima giurisprudenziale, e da una anima politica. I modelli di giustizia
costituzionale bilanciano queste due anime facendo prevalere l'una o l'altra, ma la presenza
delle due componenti è comunque sempre esistente in ogni modello di giustizia costituzionale.

L'anima giurisprudenziale deriva dal fatto che il giudizio di costituzionalità si sostanzia in un


rapporto tra una fonte superiore - la Costituzione - e una fonte inferiore - la legge - che si
estrinseca in un giudizio di legittimità, cioè di non contraddittorietà della fonte inferiore rispetto

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alla fonte superiore. Le norme costituzionali contengono principi generali e dunque l'attività
interpretativa può essere "elastica" ed in molti casi anche "molto elastica".

L'anima politica della giustizia non riguarda quindi le modalità ed il percorso logico per giungere
alla decisione, quanto gli effetti della decisione stessa. Dato che la decisione verte su atti politici,
le conseguenze delle decisioni delle Corti costituzionali incidono in profondità nel sistema degli
equilibri dei valori di una determinata società.

Non v'è dubbio dunque che rispetto ad altre funzioni pubbliche la giustizia costituzionale
presenta caratteri di assoluta atipicità. Essa non è semplicemente una attività giurisprudenziale,
poiché dalla giurisdizione mutua alcune regole e la forma degli atti, ma allo stesso tempo incide
sulle scelte politiche dello Stato. Non è una funzione legislativa, anche se la pronuncia di
incostituzionalità produce l'effetto di far perdere di efficacia alla norma, come una sorta di
legislazione negativa.

Una prima distinzione di modelli la si ha a seconda che il giudizio sia diffuso o accentrato.

Il giudizio diffuso, il cui esempio classico è il giudizio di costituzionalità americano, si sostanzia in


un giudizio di costituzionalità effettuato direttamente dal giudice. Negli Stati Uniti non esiste cioè
un organo ad hoc - una Corte costituzionale - incaricata di svolgere il giudizio di costituzionalità,
poiché ciascun giudice può verificare la legittimità di una legge rispetto alla Costituzione. Esso è
definito diffuso, perchè tale potere spetta ciascun giudice.
Il giudizio diffuso è quindi definibile come un giudizio sulle situazioni giuridiche soggettive,
perchè ha per oggetto la soluzione di un caso e non la dichiarazione di incostituzionalità della
legge. Esso è anche, ed in conseguenza, un giudizio sulla legge in concreto, cioè sulla legge
interpretata ed applicata in relazione a quel determinato caso. La decisione di incostituzionalità
produce l'effetto della disapplicazione della legge a quel caso. In altre parole la legge non viene
espunta dall'ordinamento; non viene "annullata" con effetti nei confronti di tutti ma viene invece
solamente disapplicata per risolvere la fattispecie che il giudice si trova a giudicare. Si dice
quindi che la disapplicazione ha effetti solamente "inter partes", cioè solo tra le parti del giudizio
e non erga omnes.
Il giudizio diffuso ha dunque prevalentemente carattere giurisdizionale. Il fine del giudizio è infatti
la tutela dei diritti e non la dichiarazione di incostituzionalità della legge, che è soltanto una
conseguenza della soluzione di un caso concreto.

All'opposto del giudizio diffuso sta invece il giudizio accentrato.


Il giudizio accentrato, al contrario, postula l'esistenza di un organo ad hoc, una Corte
costituzionale incaricata del controllo di costituzionalità delle leggi e nel suo modello pure ha
caratteristiche opposte rispetto al controllo diffuso. Laddove il giudice diffuso è in giudizio sulle
situazioni giuridiche soggettive e per risolvere un caso concreto, il giudizio accentrato è invece
un giudizio avente per oggetto la incostituzionalità della legge. Ma se l'oggetto del giudizio è
dato dalla incostituzionalità della legge, e ciò a prescindere dalla soluzione di un caso concreto,
esso è anche un giudizio sulla legge in astratto, perchè quest'ultima viene sindacata non nel
momento in cui la legge è applicata - ed interpretata - rispetto ad un caso concreto, ma nella
sua astratta potenzialità conflittuale rispetto alla Costituzione.
In conseguenza dell'essere un giudizio direttamente sulla legge, ed in astratto, la decisione di
incostituzionalità, a sua volta, sarà una decisione di annullamento, cioè una decisone con effetti
nei confronti dell'intero ordinamento, erga omnes e non inter partes come nel giudizio diffuso.

In definitiva, laddove nel giudizio diffuso prevale l'anima giurisprudenziale del controllo di
costituzionalità, nel giudizio accentrato "puro" prevale l'anima politica.

Il giudizio accentrato poi può essere a priori o a posteriori.

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Il controllo a priori si svolge prima che la legge sia entrata in vigore.
Esso è il "massimo" dell'astrattezza e della politicità, perchè la legge non è stata ancora
applicata, quindi non è mai stata interpretata e dunque il giudizio di costituzionalità si svolge in
astratto, dato non vi sono stati casi di applicazione della legge a fattispecie concrete.
Al contrario il giudizio a posteriori tende a diminuire il livello di politicità del controllo di
costituzionalità, poiché questo giudizio può svolgersi anche a distanza di molto tempo dalla
approvazione della legge.

Oltre al modello diffuso e al modello accentrato le Costituzioni contemporanee conoscono


modelli c.d. misti, che mettono insieme alcune caratteristiche del giudizio diffuso con il giudizio
accentrato, mescolando caratteristiche dell'uno e dell'altro. La Costituzione italiana ha effettuato
questo tipo di scelta.

3. La scelta della Costituzione verso un modello accentrato

La difficoltà della istituzione della Corte costituzionale era allora giustificato da almeno due ordini
di ragioni.
In primo luogo l’Italia non aveva alcuna esperienza storica di giustizia costituzionale, ed in
secondo luogo, le sinistre marxiste erano assai poco convinte del controllo di costituzionalità
sulla legge, poiché esse temevano che l’introduzione in Costituzione di una Corte costituzionale
avrebbe minato irrimediabilmente il principio di supremazia del Parlamento e della connessa
sovranità popolare. In particolare appariva difficile da accettare l’idea che un organo di natura
giudiziale, non eletto dai cittadini, potesse dichiarare invalida una legge espressione della
sovranità popolare.

Nonostante questi ostacoli, si comprese però che una Costituzione rigida necessitava di un
“custode” per controllare la conformità delle leggi rispetto alla Costituzione.
Accettata l'idea che il controllo di costituzionalità sulla legge costituiva una necessaria garanzia
della Costituzione, rimaneva tuttavia il problema, del modello a cui riferirsi.

Al proposito il costituente conosceva due modelli di riferimento: il modello americano a giudizio


diffuso e il modello austriaco a giudizio accentrato.

Il modello del controllo diffuso americano fu scartato assai rapidamente, ed in assemblea


costituente prevalse quindi la scelta verso un organo di giustizia costituzionale istituito ad hoc,
appositamente creato per esercitare il controllo di costituzionalità.
Raggiunto tuttavia l'accordo sull'istituzione di una Corte costituzionale, sorsero numerosi
contrasti sull'individuazione delle modalità di accesso a tale organo. Le modalità di accesso alla
Corte sono ovviamente fondamentali nel creare un modello di controllo di costituzionalità, perché
a seconda che l'accesso sia diretto o indiretto cambia la ratio del controllo, E quindi le sue
modalità di esercizio.

Una legge costituzionale quindi avrebbe dovuto stabilire i principi fondamentali del giudizio
costituzionale, mentre una legge ordinaria non avrebbe dovuto precisare il dettaglio.

4. La disciplina costituzionale della Corte e la sua composizione

La Costituzione disciplina le competenze della Corte costituzionale (art. 134), la sua


composizione (art. 135), l'efficacia delle sentenze (art. 136), mentre, come si è detto, rinvia a
una legge costituzionale e ad una legge ordinaria per la determinazione delle modalità
dell'accesso (art. 137).

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Così la competenza a giudicare sulle leggi regionali quando invadono le competenze dello Stato
e sulle leggi dello Stato quando invadono le competenze della Regione si ritrova nell'art. 127
della Costituzione.

In base all'art. 134 la Corte costituzionale è dunque competente a giudicare sulle controversie
relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e
delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e sui conflitti tra lo Stato e le
Regioni e tra le Regioni; sulle accuse promosse dal Parlamento in seduta comune contro il
Presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla Costituzione (come specificato
nell’art. 90)

Vi è il giudizio di costituzionalità sulle fonti primarie (leggi ed atti aventi forza di legge); vi è
unitamente all’art. 127 il giudizio sul riparto di competenza tra lo Stato e le Regioni sia sulle leggi
che sugli atti secondari (conflitti stato-regioni); vi è una idea della Corte costituzionale garante
della Costituzione anche nelle interrelazioni tra gli organi costituzionali (il conflitto di attribuzioni
tra i poteri dello Stato); infine vi è la giurisdizione in materia penale per i reati presidenziali.

La composizione della Corte, stabilita nell’art. 135, conferma il carattere atipico di questo
organo, le cui funzioni si collocano all’intersezione tra giurisdizione e politica. La Corte è
composta da 15 giudici, eletti per un terzo dal Parlamento, per un terzo dalle supreme
magistrature ordinarie ed amministrative e infine nominati per un terzo dal Presidente della
Repubblica. I giudici durano in carica nove anni, non sono rieleggibili e devono essere scelti tra i
magistrati, anche a riposo, delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, i professori
ordinari di università in materie giuridiche, e gli avvocati dopo venti anni di esercizio della
professione.

I requisiti soggettivi dei giudici, di natura tecnica, dovrebbero servire a rafforzare la indipendenza
della Corte costituzionale rispetto agli organi che gli hanno eletti, così come la lunga durata in
carica serve a “sganciare” il giudice dall’organo “di provenienza”.
I giudici di provenienza parlamentare sono eletti dal Parlamento in seduta comune, con la
maggioranza dei due terzi per i primi due scrutini e con la maggioranza dei tre quinti dal terzo
scrutinio in poi.
I giudici che provengono dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative sono eletti tre da
un collegio del quale fanno parte il primo presidente, il procuratore generale, i presidenti di
sezione, gli avvocati generali, i consiglieri e i sostituti procuratori generali della Corte di
Cassazione; uno da un collegio del quale fanno parte il presidente, i presidenti di sezione, i
consiglieri il procuratore generale e i vice procuratori generali della Corte dei Conti; uno da un
collegio composto dal presidente, dai presidenti di sezione e dai consiglieri del Consiglio di
Stato.

I cinque giudici di nomina presidenziale sono nominati con decreto del Presidente della
Repubblica, controfirmato dal Presidente del Consiglio.
Le ragioni di questa composizione "mista" per gli organi di provenienza e "mista" anche per le
componenti e le culture rappresentate, è certamente da rintracciare nella doppia anima,
giurisdizionale e politica, della Corte costituzionale. In conseguenza la composizione della Corte
presenta quindi una componente politica, derivante dalla elezione dei cinque giudici da parte del
Parlamento in seduta comune. Presenta una componente giurisdizionale, rappresentata dai
cinque giudici di provenienza dalle supreme magistrature dello Stato.

L'art. 136 detta la disciplina delle sentenze della Corte costituzionale. La soluzione accolta
dall'art. 136 tuttavia sembra scontare i nodi irrisolti in Assemblea costituente circa le modalità
dell'accesso alla Corte costituzionale. L'art. 136, infatti, sembra optare per una efficacia soltanto
pro futuro della dichiarazione di incostituzionalità (ex nunc) nel senso che la decisione della

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Corte si applicherebbe solo ai fatti sorti dopo la pubblicazione della sentenza di illegittimità
costituzionale, e non invece ai fatti sorti prima di tale pubblicazione, ancorché basati su di una
legge ormai dichiarata incostituzionale. Questa soluzione, tuttavia, è difficilmente conciliabile con
le successive scelte che la normativa costituzionale ed ordinaria ha effettuato in tema di accesso
alla Corte costituzionale, e dunque come vedremo non è stata accolta.

5. Il sistema delle fonti che disciplina la Corte

La legge costituzionale alla quale fa riferimento l’art. 137 della Costituzione, che avrebbe dovuto
stabilire le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudici di legittimità costituzionale e le
garanzie di indipendenza dei giudici della Corte, fu approvata dalla stessa Assemblea
costituente il 9 febbraio 1948 con la legge costituzionale n. 1.

La legge n.1 del 1948 contiene alcune norme molto generali sul giudizio di legittimità
costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte. Nonostante sia composta da soli tre
articoli, ha grande importanza perché stabilisce le modalità di accesso alla Corte costituzionale,
definendo quindi ciò che la Costituzione non aveva scelto.
L'accesso all a Corte costituzionale avviene in maniera indiretta, secondo un modello c.d. in via
incidentale. La questione di legittimità deve essere sollevata da un giudice nel corso di un
giudizio e deve riguardare norme applicabili in quello stesso giudizio. Essa sorge pertanto come
una sorta di incidente processuale in un giudizio destinato alla soluzione di un caso concreto.

Con la successiva legge costituzionale n. 1 del 1953 "Norme integrative della Costituzione sulla
Corte", oltre a stabilire alcune garanzie per i giudici costituzionali, fu attribuito alla Corte
costituzionale il giudizio di ammissibilità sul referendum abrogativo e la disciplina sul giudizio
penale nei confronti del Presidente d ella Repubblica.
La successiva legge ordinaria n. 87 del 1953, alla quale l'art. 137 della Costituzione rinvia,
intitolata “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte”, detta poi una disciplina
completa della organizzazione e del funzionamento della Corte, svolgendo ampiamente i principi
generali dettati nella legge costituzionale n. 1 del 1948. Essa contiene norme sulla costituzione e
sulla indipendenza e le incompatibilità dei giudici, le regole generali di procedura applicabili a
tutti i giudizi della Corte costituzionale, le norme specifiche relative alle questioni di legittimità
costituzionale, le norme sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e tra lo Stato e le
Regioni e le Regioni.
La stessa legge ordinaria n. 87 del 1953 all'art. 14, rinvia poi ad una ulteriore fonte, subordinata
rispetto alla legge, prevedendo che la "Corte può disciplinare l'esercizio delle sue funzioni con
regolamento approvato a maggioranza dei suoi componenti".

Tuttavia norme integrative possono essere stabilite dalla Corte nel suo regolamento, e sono
prevalenti rispetto al regolamento di procedura innanzi al Consiglio di Stato.
Le norme integrative sono state approvate dalla stessa Corte costituzionale e pubblicate sulla
Gazzetta Ufficiale del 24 marzo 1956. Esse contengono la normativa procedurale di dettaglio
relativo alla questione di legittimità costituzionale delle leggi dello Stato e delle Regioni, nonché
la normativa procedurale di dettaglio sui confini di attribuzione tre poteri dello Stato e tra lo Stato
e le Regioni.

È infine opportuno rilevare che una fonte molto importante nel giudizio costituzionale è data dalla
stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha interpretato le norme legislative e le
stesse norme integrative, chiarendone il significato, rendendole in certi casi più flessibili, o
adattandole alle tipicità e alla evoluzione del giudizio costituzionale.

6. Autonomia e indipendenza della Corte costituzionale

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La particolare posizione della Corte costituzionale, ha prodotto la necessità di norme tese a
rafforzare l'indipendenza dei componenti la Corte e della Corte stessa. L'autorevolezza della
Corte costituzionale, che deve giudicare in definitiva su atti e comportatemi di altri poteri dello
Stato, dipende anche dal grado di indipendenza di questo organo rispetto al sistema dei poteri
politici.

Alcune di queste norme riguardano le modalità di elezione e la durata in carica dei giudici,
mentre altre riguardano le incompatibilità e le immunità.

Da un punto di vista delle incompatibilità può dirsi che la funzione di giudice costituzionale
esclude ogni altra attività. I giudici costituzionali non possono assumere o conservare altri uffici o
impieghi pubblici o privati, né esercitare attività professionali, commerciali o industriali.
Per garantire l'indipendenza dalla politica, i giudici non possono essere candidati in elezioni
politiche o amministrative, né possono svolgere attività inerenti ad associazioni o partiti politici.

Da un punto di vista della immunità, come per i membri del Parlamento, le opinioni espresse e i
voti dati nell'esercizio delle proprie funzioni non sono sindacabili. Inoltre vale per essi l'istituto
dell'autorizzazione a procedere, di cui all’art. 68 della Costituzione.
Queste garanzie, che sono funzionali a garantire l'indipendenza dei giudici, sono poi rafforzate
da ulteriori garanzie finalizzate a tutelare l'indipendenza dell’organo. L’indipendenza è
principalmente conseguenza dell'autonomia organizzativa, finanziaria e regolamentare
riconosciuta dalla legge.

L’attribuzione di un ampio potere regolamentare inerente la propria organizzazione, nonché di un


altrettanto rilevante potere di dettare essa stessa le regole procedimentali per i giudizi,
costituisce una notevole garanzia di indipendenza, poiché implica la non sottoposizione della
Corte costituzionale ed altri poteri dello Stato.
La Corte costituzionale è in effetti l'unico organo a natura prevalentemente giurisprudenziale ad
essere dotato di una tale potestà.

Questo aspetto rende, ad una prima lettura, i regolamenti della Corte costituzionale, e dunque
l'autonomia della stessa Corte costituzionale, di diverso livello rispetto all'autonomia di un altro
organo costituzionale con il Parlamento.

7. Regole generali di organizzazione e funzionamento

Il principio organizzativo che guida l'attività della Corte è quello che impone la regola della
collegialità. Le decisioni sono prese da tutto il collegio con la maggioranza dei votanti, ed in caso
di parità prevale il voto del Presidente.
La collegialità implica che non è possibile distinguere, all'interno della decisione, l'opinione della
maggioranza rispetto ad una eventuale opinione contraria della minoranza.

La scelta verso un principio puro di collegialità deriva dalla necessità di non coinvolgere singoli
giudici dibattito politico che può seguire l'emanazione di una sentenza, e nel non distinguere i
singoli giudici in relazione ai propri orientamenti. È una regola che alla fine rafforza
l'indipendenza della Corte e la sua connotazione come organo imparziale.
Pur essendo un organo collegiale “puro”, la Corte costituzionale ha un Presidente che svolge
principalmente la funzione di organizzare e dirigere i lavori.
Il Presidente viene eletto in seno alla Corte e dura in carica 3 anni. La sua elezione avviene a
maggioranza assoluta e a scrutinio segreto.

Dato che il principio generale che ispira le modalità di funzionamento della Corte costituzionale è
il principio di collegialità, il Presidente della Corte non è il portatore di un proprio indirizzo

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giurisprudenziale, anche se alcuni poteri che gli sono attribuiti possono assumere notevole
rilievo. Il Presidente è infatti dotato di un generale potere di organizzazione del lavoro della Corte
che si estrinseca nella nomina del giudice relatore della causa, nella possibilità di convocare la
Corte in Camera di Consiglio, il potere di fissazione dell'udienza di trattazione della causa. In
caso di parità nelle votazioni, il voto del Presidente vale doppio.

Ancorché il ruolo del Presidente sia oggettivamente rilevante per l'andamento dei lavori della
Corte, esso tuttavia non scalfisce il principio fondamentale della collegialità dell’organo, né il
principio che le decisioni della Corte e gli indirizzi giurisprudenziali seguiti sono imputabili alla
Corte nella sua interezza e non a singoli componenti di essa.

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CAPITOLO VII
IL GIUDIZIO INCIDENTALE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

1. La incidentalità del giudizio: caratteristiche e ragioni di un modello

La legge costituzionale n.1 del 1948 alla legge ordinaria n.87 del 1953 hanno delineato il giudizio
di legittimità costituzionale sulle leggi come un giudizio incidentale, distinto in due fasi.
Una prima fase che si svolge davanti ad una autorità giudiziale, unico soggetto legittimato a
sollevare la questione di legittimità costituzionale. Una seconda fase che si svolge invece
davanti alla Corte costituzionale, che giudica sulla legittimità della legge. Il nostro ordinamento
pertanto non prevede forme di accesso diretto dei cittadini alla Corte costituzionale.

La questione di legittimità costituzionale nei confronti di una legge o di un atto con forza di legge,
deve sorgere nel corso di un giudizio davanti ad una autorità giurisdizionale. Quando l'autorità
giurisdizionale ritenga la questione rilevante e non manifestamente infondata, il giudice (definito
anche nel linguaggio delle sentenze della Corte come giudice a quo) sospende il giudizio e rinvia
la questione alla Corte costituzionale.

L'accesso alla Corte costituzionale muove dunque dalla necessità di risolvere una causa,
relativa a situazione giuridiche soggettive, in relazione alla quale deve essere applicata una
legge "sospettata" di incostituzionalità. L'oggetto del la causa non è quindi la legge ma la
controversia sostanziale, così come essa è stata dedotta in giudizio dalle parti. La decisione
sulla causa tuttavia non può prescindere dalla applicazione di quella legge, cosicché la
questione di legittimità costituzionale della legge costituisce, rispetto alla controversia, una
questione pregiudiziale. Essa sorge quindi come incidente processuale (da qui la definizione di
giudizio incidentale appunto) di un giudizio finalizzato alla soluzione di un caso concreto .

Così ricostruito nelle sue linee generali il modello di accesso alla Corte costituzionale appare
simile al giudizio diffuso americano, poiché nell'uno e nell'altro caso la questione di
costituzionalità nasce legata alla tutela di situazioni giuridiche soggettive.
Le similitudini tuttavia si fermano qui. Nel giudizio diffuso americano il giudice decide anche sulla
illegittimità della legge, eventualmente disapplicandola ai fini di decidere la causa. Nel modello
italiano il giudice, qualora abbia "un dubbio" sulla legittimità costituzionale di una legge, deve
sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale, unico organo competente nel nostro
ordinamento a decidere sulla sua legittimità.

Una volta sollevata la questione si apre la seconda fase del giudizio, davanti alla Corte
costituzionale, fase caratterizzata da principi e da regole diverse rispetto al giudizio a quo.
L'oggetto del giudizio non è più infatti la situazione giuridica sostanziale così come si è dedotta
dalle parti, ma è invece la illegittimità della legge rispetto alla Costituzione. La controversia
sostanziale, dalla quale la questione di legittimità è sorta, non è quindi rilevante per la Corte
costituzionale, che deve decidere solo sulla costituzionalità della legge.

La Costituzione, le leggi costituzionali ed ordinarie attuative, hanno dunque delineato un modello


di giustizia costituzionale definibile come misto, perché pur essendovi una Corte costituzionale
che giudica sulla illegittimità della legge (modello accentrato) la questione di legittimità
costituzionale nasce in correlazione con un giudizio relativo a situazioni giuridiche soggettive
(modello diffuso).

Queste caratteristiche del giudizio di costituzionalità ben sì adatto nell'ordinamento italiano e alla
sua storia. In primo luogo, infatti, questo modello si fonda sul principio della “presunzione di
legittimità della legge”: la legge deve sempre essere applicata sin tanto che la Corte
costituzionale non la dichiari illegittima.

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In secondo luogo, pur essendo un giudizio accentrato, l'origine incidentale della questione di
legittimità costituzionale diminuisce gli elementi di politicità tipici di questo tipo di giudizio.

Questo collegamento con un processo diminuisce dunque la valenza politica della decisione della Corte
costituzionale, che si pronuncia non sul significato politico astratto della legge, ma sul significato della
legge ”mediato” dal caso concreto.

2. L’autorità giurisdizionale legittimata a sollevare la questione

L'accesso alla Corte costituzionale passa dunque necessariamente da una autorità


giurisdizionale nel corso di un giudizio (art. 23 legge n. 87 del 1953). Come si è detto nel
paragrafo precedente sta proprio in questa posizione di intermediarietà del giudice, tra la legge
come "atto politico" e la legge come strumento di "soluzione di un caso concreto", la ragion
d'essere dell'accesso incidentale alla Corte costituzionale. Queste stesse ragioni sono utili per
interpretare cosa debba intendersi con l'espressione "autorità giurisdizionale nel corso di un
giudizio", e dunque per conseguenza quali sono gli organi che possono sollevare la questione di
costituzionalità

La norma identifica due criteri per la determinazione dell'organo legittimato a sollevare la


questione di legittimità costituzionale: un criterio soggettivo (l'autorità giurisdizionale), ed un
criterio oggettivo (la esistenza di un giudizio).

In una sentenza la Corte ha precisato che possono esservi casi nei quali la esistenza di un
elemento oggettivo (un giudizio), compensa la carenza del requisito soggettivo (la non esistenza
di un giudice appartenente all'ordinamento giudiziario).

Su questa base è agevole rilevare che tutti i giudici appartenenti all'ordinamento giudiziario
possono sollevare la questione (giudici ordinari, amministrativi, militari, ecc.) purché tuttavia
siano investiti di un potere decisorio. La Corte costituzionale ha infatti sempre escluso che un
giudice non investito del potere di decidere possa sollevare la questione.
Nel nostro ordinamento, tuttavia, vi sono molte situazioni che appaiono come “zone grigie”, nelle
quali vi si è “un giudizio”, ma l'organo deputato a decidere su quel giudizio non è un giudice
appartenente all'ordinamento giudiziario.

Si è detto che la ragion d'essere della sollevazione della questione di costituzionalità secondo il
modello incidentale consiste nel fatto che il "giudice" si trova in una posizione di intermediarietà
tra la legge, atto politico, e le situazioni giuridiche soggettive alle quali la legge deve essere
applicata. È nel momento in cui la legge viene in contatto con la necessità di risolvere un caso
concreto che può scaturire la questione di legittimità costituzionale. Dunque definire
astrattamente l'essenza della funzione giurisdizionale non è cosa decisiva ai fini (espressione
usata non casualmente dalla Corte costituzionale) della sollevazione della questione di
legittimità costituzionale. Occorre invece cercare di stabilire quando e se, nelle "zone grigie" di
cui si è detto, siano presenti quelle caratteristiche che giustificano la ratio della incidentalità, e
cioè la esistenza in capo all'organo decidente di una posizione di intermediarietà neutrale
rispetto a posizioni soggettive di terzi. Il concetto di autorità giurisdizionale e di giudizio non
debbono, dunque, essere interpretati in senso assoluto in relazione alla natura della funzione,
ma bensì in senso relativo rispetto ai fini del giudizio incidentale.
Questa idea di relatività della nozione di "autorità giurisdizionale" e di "giudizio" è stata
pienamente accolta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest'ultima, infatti,
allorquando attribuisce la legittimazione alla sollevazione della questione di legittimità
costituzionale ad un organo non appartenente all'ordinamento giudiziario, utilizza spesso la
espressione "ai fini della sollevazione della questione di legittimità costituzionale", come per
affermare che non ha attribuito la qualifica di organo giurisdizionale a chi non ha tale natura, e

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che, allo stesso modo, le caratteristiche per sollevare una questione di legittimità non coincidono
necessariamente con l'esercizio di una funzione giurisdizionale in senso proprio.

3. I filtri del giudice a quo: la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione

La questione di legittimità costituzionale può essere sollevata dalle parti del processo (attore e
convenuto), dal Pubblico Ministero quando questi sia presente nel processo (nell'ambito del
processo penale ed in alcuni casi del processo civile), e anche dal giudice di ufficio (cioè senza
sollecitazione del le parti).
La questione viene proposta al giudice con una apposita istanza nella quale sono indicate le
disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge viziate da illegittimità costituzionale, e le
norme costituzionali che si assumono violate (art. 23 legge n. 87 del 1953).
Le iniziative delle parti e del Pubblico Ministero sono sottoposte al vaglio del giudice che è il solo
legittimato alla sollevazione della questione.

Il giudice prima di sollevare la questione deve accertare l'esistenza di due requisiti: la rilevanza
della questione e la non manifesta infondatezza.
Il primo requisito è così specificato dall'art. 23 della legge n. 87: "qualora il giudizio non possa
essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale".
Rilevanza della questione significa dunque che deve esservi un rapporto di pregiudizialità tra la
soluzione della questione di legittimità costituzionale e la soluzione del caso concreto.
La dottrina e la giurisprudenza della Corte, hanno definito questo rapporto tra la questione di
legittimità e la controversia pendente presso il giudice a quo, come di pregiudizialità
costituzionale. Si ha infatti pregiudizialità costituzionale quando la decisone della causa dalla
quale la questione è originata, non può avvenire se non sia stata prima risolta la questione di
legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale.

Da questo concetto di pregiudizialità deriva anche quella giurisprudenza della Corte


costituzionale che ha precisato che la pregiudiziale deve essere attuale, e quindi la questione
non può essere eventuale, prematura, ipotetica o teorica. Del resto, a contrariis, se la questione
fosse eventuale, prematura, ipotetica o teorica, quella stessa questione non sarebbe
pregiudiziale per la definizione del giudizio.

Il giudice, prima di sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale, deve anche verificare
che essa sia non manifestamente infondata. Mentre tuttavia la valutazione sulla rilevanza della
questione costituisce un giudizio di natura processuale, il giudizio sulla non manifesta
infondatezza, come dice la espressione, costituisce invece un giudizio sul merito della
questione, cioè sulla possibile illegittimità della legge. Il giudice, tuttavia, non può valutare
approfonditamente la illegittimità della legge, perché questo costituisce l'oggetto del giudizio da
parte della Corte costituzionale: il giudizio sulla non manifesta infondatezza costituisce quindi
una sorta di filtro, che ha lo scopo di evitare richieste di sollevazioni di questioni di legittimità
costituzionale, specialmente a opera delle parti del giudizio, i completamente infondate e
proposte ai meri fini di dilatare i tempi del processo.

Occorre precisare che la valutazione del giudice a quo sulla non manifesta infondatezza, e il
giudizio della Corte sulla illegittimità della legge, hanno finalità diverse e conseguentemente,
anche se entrambi sono giudizi di merito sulla fondatezza della, questione, sono
metodologicamente e qualitativamente assai diversi. Il giudice a quo deve valutare la questione
di legittimità, come si suol dire, prima facie, come sembra del resto voler significare la
espressione "non manifesta infondatezza". Non deve cioè verificare se la legge sia legittima o
illegittima, compito che spetta alla Corte costituzionale, ma solo che vi sia una possibile
fondatezza, che vi siano cioè dei dubbi concreti che la questione di costituzionalità possa essere

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fondata. Dovrebbe quindi trattarsi di un filtro a maglie larghe, e quando vi sia anche un solo
dubbio di costituzionalità, il giudice dovrebbe sollevare la questione alla Corte costituzionale.
Non trattandosi di un "accertamento" sulla illegittimità della legge, la ordinanza del giudice che
respinge l'eccezione di illegittimità costituzionale non è impugnabile, ma la questione è
riproponibile in ogni grado di giudizio.

3.1 Un ulteriore filtro introdotto dalla giurisprudenza costituzionale: la interpretazione


conforme.

Nell'ambito del giudizio sulla "non manifesta infondatezza" la giurisprudenza costituzionale più
recente ritiene che il giudice debba esperire anche una valutazione sulla possibilità di dare alla
norma, sospettata di incostituzionalità, una interpretazione costituzionalmente conforme che la
riconduca a costituzionalità, e solo se questa interpretazione non è possibile il giudice deve
sollevare la questione alla Corte costituzionale. La Corte vuol significare che non è suo compito
dichiarare incostituzionale una legge se questa stessa legge può essere interpretata traendone
un significato che la rende costituzionalmente legittima.

Il tentativo da parte del giudice a quo di attribuire una interpretazione costituzionale della legge è
dunque considerato dalla Corte costituzionale un presupposto necessario per la sollevazione
della questione di legittimità costituzionale, tanto è vero che, come vedremo, se il giudice non ha
esperito questa valutazione la Corte costituzionale dichiarerà la questione manifestamente
inammissibile. Per evitare che la Corte costituzionale dichiari la questione manifestamente
inammissibile per omesso tentativo di interpretazione conforme, il giudice deve allora dimostrare
di aver esplorato le eventuali soluzioni offerte dalla giurisprudenza e motivare circa le
ragioni che lo hanno indotto a scegliere l'opzione interpretativa prescelta (quella non
costituzionale), come l’unica praticabile.

Non v'è dubbio che l'affermarsi in maniera ormai costante di questo indirizzo giurisprudenziale
ha inciso notevolmente sul sistema di giustizia costituzionale. In primo luogo infatti, attraverso
l'obbligo della interpretazione conforme, la Costituzione da mero parametro di legittimità diviene
norma direttamente utilizzabile dai giudici e non solo dalla Corte costituzionale. In secondo
luogo, il principio della interpretazione conforme certamente diminuisce il numero delle questioni
che la Corte costituzionale è chiamata a decidere, perché questa tecnica interpretativa spinge il
giudice ad applicare direttamente la Costituzione. In terzo luogo, infine, l'interpretazione
conforme avvicina in qualche modo il modello di giustizia costituzionale italiano al modello
americano (giudizio concreto) più che a quello austriaco (giudizio astratto).

4. La ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale

Qualora il giudice abbia accertato la sussistenza dei requisiti della rilevanza e della non
manifesta infondatezza, nonché la impossibilità della interpretazione conforme, emana una
ordinanza con la quale determina il c.d. thema decidendum, sospende il processo, e rinvia gli atti
alla Corte costituzionale.
La ordinanza di rimessione è dunque un atto di notevole importanza, perchè attraverso di essa
viene delimitata la questione di legittimità costituzionale ed “aperto” il giudizio davanti alla Corte
costituzionale. Essa contiene varie cose: la motivazione sulla rilevanza, elemento importante per
la successiva valutazione da parte della Corte della ammissibilità della questione, la
determinazione del thema decidendum, la motivazione sulla non manifesta infondatezza.

Nella motivazione sulla rilevanza la Corte è più restrittiva di un tempo, quando era ritenuta
sufficiente la semplice affermazione, da parte del giudice, della sua sussistenza. Per evitare una
decisione di inammissibilità per difetto di rilevanza il giudice dovrà motivare espressamente

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all'interno dell'ordinanza, perché il semplice rinvio agli atti di causa non è considerata
motivazione sufficiente.

Il thema decidendum è costituito dalla norma sospettata di incostituzionalità rispetto alla norma
costituzionale, o alle norme costituzionali invocate come parametri. La determinazione del thema
decidendum è di fondamentale importanza, perché la Corte costituzionale sarà chiamata a
giudicare sulla questione di legittimità, così come individuata dal giudice a quo nella sua
ordinanza, rispettando il principio processuale del rapporto tra chiesto e pronunciato. La Corte
costituzionale, cioè, non potrà modificare i parametri individuati dal giudice poiché tali parametri
costituiscono necessariamente (con poche eccezioni che vedremo) l'oggetto del giudizio
costituzionale.
Non fanno parte invece del thema decidendum i motivi che il giudice ha esplicitato per sostenere
la illegittimità costituzionale: la Corte costituzionale potrà in effetti argomentare in maniera
diversa rispetto al giudice, poiché il giudizio costituzionale è un giudizio autonomo da quello a
quo.

La costruzione del giudizio costituzionale secondo il principio del rapporto tra chiesto e
pronunciato ha dunque la funzione di vincolare la Corte alla domanda posta dal giudice,
accentuando il carattere di concretezza del giudizio costituzionale (perché è il giudice che
prospetta la questione di legittimità in un determinato modo, vincolando la Corte a decidere su
ciò che è stato prospettato) e diminuendo del pari il livello di politicità del giudizio (perché la
discrezionalità della Corte è limitata, non potendo modificare l'oggetto del decidere).

Una eccezione normativamente prevista rispetto al principio del rapporto tra chiesto e
pronunciato è tuttavia delineata nello stesso art. 27 della legge n. 87. La Corte infatti può
dichiarare "quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza
dalla decisione adottata" (ed. illegittimità consequenziale). Si tratta in effetti di una eccezione:
attraverso la illegittimità consequenziale la Corte costituzionale, a seguito della dichiarazione di
incostituzionalità, determina le ulteriori norme legislative la cui illegittimità è derivata da quelle
dichiarate incostituzionali (e rispetto alle quali non era stata sollevata eccezione di legittimità da
parte del giudice a quo).

Con la ordinanza il giudice sospende il giudizio in attesa della decisione della questione da parte
della Corte costituzionale. La sospensione del giudizio è una conseguenza logica della
pregiudizialità della questione di legittimità costituzionale: il processo a quo in effetti non può
essere deciso se preliminarmente non viene risolta la questione di costituzionalità della legge.

Gli artt. 23 e 24 della legge n. 87 del 1953 prevedono poi vari adempimenti di notifica,
comunicazione, e pubblicazione dell'ordinanza a carico del giudice remittente.
Si tratta di adempimenti procedimentali dai quali si comprendono le caratteristiche particolari del
giudizio di costituzionalità sulle leggi come giudizio "misto", che origina da situazioni giuridiche
soggettive e si trasforma, nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, in un giudizio di diritto
oggettivo sulla legittimità della legge.
Questi adempimenti, infatti, si collegano con la necessità di tutelare vari interessi. In primo luogo
tengono conto dell'interesse delle parti ad essere presenti anche nel giudizio costituzionale per
difendere le proprie posizioni; in secondo luogo tengono conto della natura politica dell'atto, e
della connessa necessità per il Parlamento di essere informato; in terzo luogo considerano
l'interesse di tutti i cittadini a conoscere se una legge potrà essere dichiarata incostituzionale,
con conseguente perdita di efficacia nell'ordinamento.
Ne deriva che gli atti di notifica, comunicazione e pubblicazione, destinati a perseguire questi
diversi interessi, hanno caratteristiche strutturali e funzionali assai diversi. La notifica, infatti, è un
tipico atto processuale finalizzato normalmente alla corretta instaurazione del contraddittorio tra

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le parti; la comunicazione è un atto con mero fine notiziale; la pubblicazione è un atto con fini
conoscitivi.

Secondo la legge l’ordinanza deve essere notificata alle parti del processo a quo e al
Pubblico Ministero se il suo intervento nel processo è obbligatorio. Se la legge
impugnata è una legge statale la ordinanza deve essere notificata anche al Presidente
del Consiglio dei Ministri; se si stratta di una legge regionale la notifica deve essere
effettuata al Presidente della Giunta regionale. Questo è necessario perchè le parti del
giudizio a quo hanno interesse agli esisti del giudizio costituzionale, essendo la
questione pregiudiziale per la soluzione della causa. Dato che il corretto instaurarsi del
contraddittorio costituisce elemento essenziale del processo, la mancata notifica è
causa di inammissibilità della questione di legittimità.
Semplice comunicazione deve essere data invece ai Presidenti delle Camere, e se la
legge è regionale, al Presidente del Consiglio regionale.
Mentre la notifica è un atto processuale, cosicché la sua mancanza vizia il
procedimento, la comunicazione è un atto extraprocessuale, con funzioni meramente
notiziari e non legate al corretto instaurarsi del contraddittorio.
Infine, non appena pervenuta alla cancelleria della Corte costituzionale l’ordinanza è
pubblicata, su disposizione del Presidente della Corte, sulla Gazzetta ufficiale. Si tratta
di una forma di pubblicità conoscitiva identica a quella prevista per gli atti normativi. Il
giudizio di costituzionalità, infatti, non ha più rilievo solamente inter partes, ma anche in
relazione agli effetti che avrà la sentenza della Corte costituzionale di accoglimento (erga omnes
come vedremo) cosicché la sua instaurazione diviene un fatto rilevante per l'intero ordinamento.

5. L'oggetto del giudizio da parte della Corte costituzionale: leggi e atti aventi forza di
legge dello Stato e delle Regioni

Il giudice a quo può sollevare la questione di legittimità costituzionale solo nei confronti di leggi e
di atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni, come previsto dall'art. 134 della
Costituzione.
L'intento della Costituzione era certamente quello di circoscrivere il controllo di costituzionalità
alle sole fonti primarie, escludendo perciò il novero delle fonti secondarie. La ragione della
esclusione delle fonti secondarie è agevolmente comprensibile: le fonti secondarie (regolamenti
del Governo in primis), in ragione del principio di legalità debbono essere conformi alla fonte
superiore che non è la Costituzione, ma la legge o un atto avente forza di legge.

La ratio della determinazione dell’oggetto del giudizio nella legge e negli atti con forza di legge
sta dunque nella primarietà di queste fonti, intesa come immediata collocazione della fonte al di
sotto della Costituzione, poiché per esse non vi può essere alcun controllo di legittimità se non
nei confronti della Costituzione stessa.

6. Le caratteristiche generali del giudizio davanti alla Corte costituzionale

Il giudizio dal quale la questione è sorta (giudizio a quo) e il giudizio che si svolge davanti alla
Corte costituzionale sulla legittimità della legge, hanno finalità, e quindi caratteristiche
processuali, profondamente diverse.

Il giudizio a quo come si è sottolineato più volte, è un giudizio su situazione giuridiche


soggettive, finalizzato alla soluzione di una controversia concreta.

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Il giudizio davanti alla Corte costituzionale è invece un giudizio sulla legittimità della legge
(giudizio oggettivo), dove predomina l'interesse dell'ordinamento alla rimozione di una norma
legislativa incostituzionale. Ciò è ben dimostrato, tra l'altro, dal fatto che la eventuale estinzione
del processo a quo non incide sul giudizio costituzionale, che una volta instaurato prosegue
indipendentemente dalle vicissitudini del giudizio dal quale è originato. L'art. 18 delle norme
integrative prevede infatti che "la sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo
principale non producono effetti sul giudizio davanti alla Corte costituzionale”.

L'esistenza di una pregiudizialità costituzionale, che costituisce l’origine del processo


costituzionale, influenza tuttavia molti aspetti del processo Costituzionale. In primo luogo da
questo rapporto di pregiudizialità - dipendenza tra i due giudizi derivano le regole sul
contraddittorio davanti alla Corte. Coloro i quali etano parti del processo a quo, possono infatti
costituirsi davanti alla Corte costituzionale per far valere le ragioni a sostegno o a difesa
dell’incostituzionalità della legge, proprio perchè dalla decisione della Corte dipenderanno gli
esisti del giudizio.

La costituzione delle parti, tuttavia, è configurata dalla legge come eventuale ma non
obbligatoria. Dunque, se le parti decidono di non costituirsi, il processo prosegue
indipendentemente dalla loro presenza.
Oltre alle parti del giudizio a quo possono intervenire nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei Ministri, o se si tratta di legge razionale, il Presidente della Giunta
regionale.

7. I filtri preliminari della Corte costituzionale: le decisioni processuali di inammissibilità e


di restituzione degli atti al giudice a quo

Nell'ambito delle pronunce della Corte una prima distinzione deve essere effettuata in relazione
alla forma della decisione. Le pronunce della Corte costituzionale si distinguono infatti in
sentenze, ordinanze e decreti.

La sentenza è lo strumento con il quale la Corte giudica in via definitiva; gli altri provvedimenti
sono adottati con ordinanza, mentre i provvedimenti del Presidente sono adottati con decreto. La
distinzione tra decisioni definitive (sentenze) e decisioni non definitive (ordinanze) incontra
tuttavia alcune eccezioni: come vedremo infatti vi sono alcune ordinanze (quelle di manifesta
inammissibilità, le ordinanze di restituzione degli atti al giudice a quo e le ordinanze di manifesta
infondatezza) che sono atti conclusivi del processo costituzionale.
Alla differenza sostanziale tra sentenza e ordinanza corrisponde anche una differenza di rito. Le
sentenze vengono infatti assunte dopo la discussione in pubblica udienza e dopo discussione
delle parti, mentre le ordinanze vengono pronunciate in Camera di Consiglio senza preventiva
discussione delle parti. Questo ultimo procedimento è dunque più celere del primo, e viene
utilizzato dalla Corte costituzionale quando la questione non necessita di particolari
approfondimenti perché sufficientemente chiara in base a precedenti della stessa Corte.

Nell'ambito delle decisioni che definiscono il giudizio le pronunce della Corte si distinguono poi in
decisioni processuali e decisioni di merito.
Le prime riguardano i presupposti processuali relativi alla instaurazione del giudizio
costituzionale, e sono definibili pertanto come decisioni processuali di natura preliminare rispetto
al giudizio di merito. La Corte costituzionale, infatti, nella decisione di natura processuale, non
giudica sulla fondatezza o infondatezza della questione di legittimità costituzionale, ma si limita a
verificare la mancanza dei presupposti per poter giudicare. La fondatezza o l’infondatezza della

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questione di legittimità costituzionale rimane allora impregiudicata, poiché su di essa la Corte
non assume alcuna decisione.

Le decisioni processuali sono le decisioni di inammissibilità, che possono essere sentenze o


ordinanze, e la decisione di restituzione degli atti al giudice a quo (che normalmente è una
ordinanza) e, per completezza, l'ordinanza di correzione degli errori materiali.
Come si diceva la Corte può pronunciare una decisione di inammissibilità quando manca un
presupposto di natura processuale per poter giudicare: ad esempio se l'oggetto della questione
di legittimità non è una legge o un atto con forza di legge, oppure se colui il quale ha sollevato la
questione non sia una autorità giurisdizionale legittimata a sollevare la questione, oppure se la
Corte abbia accertato un difetto in ordine alla rilevanza della questione nel giudizio a quo.

La decisione di inammissibilità è assunta a seguito di pubblica udienza, ed allora assume la


forma della sentenza, oppure può essere pronunciata in Camera di Consiglio, e allora assume la
forma dell'ordinanza di manifesta inammissibilità (quando la inammissibilità sia appunto evidente
per la presenza di decisioni conformi della stessa Corte costituzionale). La decisione di
inammissibilità - adottata Con la forma della sentenza o con la forma della ordinanza di
manifesta inammissibilità - produce un effetto definito come preclusivo nei confronti del giudice a
quo, poiché impedisce al giudice di risollevare la stessa questione nell'ambito del medesimo
procedimento.

Un ulteriore tipo di decisione processuale conclusiva del giudizio è la decisione di restituzione


degli atti al giudice a quo. Questo tipo di decisione non ha fondamento legislativo, ma è stata
introdotta in via giurisprudenziale dalla Corte costituzionale. Con questa decisione la Corte
costituzionale richiede al giudice a quo una nuova valutazione su elementi che il giudice avrebbe
dovuto verificare al momento dell'emanazione dell'ordinanza di rimessione, oppure, ed e il caso
più frequente, la verifica di nuovi elementi sopravvenuti dopo l'ordinanza di rimessione (ad
esempio il c.d. ius superveniens, cioè una nuova normativa sulla materia, oppure nuove
decisioni di accoglimento della Corte costituzionale, oppure ancora modifiche costituzionali che
cambiano il parametro).

7.1 I filtri preliminari di merito: le decisioni di manifesta infondatezza

Superate le verifiche processuali che possono portare ad una decisione di inammissibilità o di


rinvio degli atti al giudice a quo la Corte costituzionale deve passare all'esame del merito della
questione, e cioè verificare se la questione di costituzionalità sia fondata. Anche in questa fase si
colloca tuttavia un filtro preliminare, perché la Corte costituzionale può dichiarare la manifesta
infondatezza della questione con ordinanza in Camera di consiglio.
La dichiarazione di manifesta infondatezza si colloca quindi anteriormente alla discussione in
pubblica udienza, che in tal caso non avviene, poiché essendo la questione manifestamente
infondata la Corte non ritiene di dover approfondire il caso attraverso la ulteriore fase
processuale della discussione delle parti.
La ordinanza di manifesta infondatezza costituisce quindi uno strumento utile per la corte
costituzionale per alleggerirsi rapidamente di questioni che non necessitano di particolare
approfondimento. La manifesta infondatezza viene infatti pronunciata, normalmente, quando la
questione non avrebbe dovuto essere rimessa al suo esame, non essendovi alcun dubbio sulla
sua non fondatezza.

8. L’incostituzionali della legge: vizi della legge, tipologia di norme costituzionali e


sindacato sulle norme interposte

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L'oggetto del giudizio da parte della Corte costituzionale, come si è detto più volte, è la
incostituzionalità della legge rispetto ad una o più norme parametro costituzionali, così come
identificate dal giudice a quo nella ordinanza di rimessione.
I vizi della legge sono classificabili in tre grandi tipologie:
a) vizi formali. Si tratta di quei vizi che afferiscono al procedimento di formazione dell'atto, nel
senso che l’atto non è stato emanato secondo le regole costituzionali che presiedono al suo
procedimento di formazione;
b) vizi di incompetenza. Si tratta di vizi che afferiscono al soggetto che ha emanato l’atto, nel
senso che l'organo non era dotato della competenza costituzionale ad emanare l’atto del
quale si discute;
c) vizi sostanziali. Si tratta di quei vizi che afferiscono al contenuto dell'atto, nel senso che
l’atto in questione viola una norma costituzionale non procedimentale né attributiva di una
competenza.

La conseguenza sul piano degli effetti del vizio sull'atto è sempre la medesima, e cioè la
incostituzionalità della legge o dell'atto avente forza di legge. Tuttavia è principalmente
attraverso il sindacato sui vizi sostanziali che la Corte costituzionale esercita la sua funzione di
interprete della Costituzione e di garante dei diritti fondamentali, e dunque su questa tipologia di
vizi occorre soffermarsi.
La incostituzionalità della legge per vizi sostanziali si configura diversamente a seconda delle
caratteristiche tipologiche delle norme costituzionali. Infatti, come si è già osservato, le norme
costituzionali possono essere distinte in tre grandi tipologie:
a) norme che contengono regole;
b) norme che contengono principi;
c) norme che contengono programmi.

Nel caso sub a) si tratta di norme che contengono una fattispecie assolutamente determinata,
come ad esempio accade nell'art. 27 ultimo comma della Costituzione, dove si afferma "non è
ammessa la pena di morte”. Qui la Costituzione statuisce appunto una regola (il divieto della
pena di morte) precisa ed incondizionata, cosicché una legge che prevedesse la pena di morte
sarebbe incostituzionale per diretta violazione di quella regola. Tuttavia non molte sono le norme
costituzionali che contengono regole di questo tipo, perché non è nella natura delle Costituzioni
moderne, che contengono principalmente programmi di trasformazione sociale, stabilire regole,
quanto piuttosto individuare i principi ed i valori di riferimento per svolgere tale trasformazione.

Le ipotesi più frequenti sono dunque quelle sub b), cioè di norme che contengono principi. Il
principio tuttavia, a differenza della regola, non disciplina direttamente una determinata
fattispecie, ma indica un valore che deve essere poi precisato dal legislatore. Dire, come recita
l'art. 21 della Costituzione, che "tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero
con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione" non significa porre una regola assoluta
(ad esempio la libertà di pensiero trova un limite nel reato di ingiuria o di diffamazione), quanto
prevedere un principio la cui portata deve essere bilanciata con altri valori costituzionali dal
legislatore. Inoltre, poiché la norma di legge che deve essere confrontata con la norma
costituzionale prevede una regola, non può confrontarsi una regola con un principio. Ciò
significa che per svolgere un confronto omogeneo la Corte costituzionale deve prima estrapolare
il principio dalla norma, poi trasformare il principio costituzionale in regola attraverso
l'interpretazione, e poi confrontare la regola costituzionale dedotta con la regola legislativa
impugnata.

Vi sono poi casi nei quali la Costituzione non prevede né regole né principi ma programmi, cioè
obbiettivi di trasformazione sociale cui tendere. Molte sono le norme che hanno queste
caratteristiche: si pensi all'art. 4 che prevede che la Repubblica promuove le condizioni per
rendere effettivo il diritto al lavoro, oppure al 2° comma dell'art. 3, dove si parla di rimuovere gli

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ostacoli per il raggiungimento dell'eguaglianza tra i cittadini (eguaglianza sostanziale). Mentre
queste norme svolgono una funzione interpretativa molto importante per precisare il significato di
altre norme costituzionali, come parametri autonomi del giudizio di costituzionalità esse
scontano il fatto di essere assai generiche. La illegittimità costituzionale per contrasto con una
norma programmatica può dunque verificarsi solo quando il contenuto della legge sia
manifestamente inconciliabile con le finalità perseguite dalla norma. In questo tipo di giudizio, il
controllo della Corte è infatti informato ad un rigoroso self restrain, allo scopo di non invadere la
discrezionalità del legislatore, e quindi in definitiva il campo della politica.
Vi sono poi dei casi nei quali il controllo di costituzionalità si svolge avendo come parametro non
direttamente la norma costituzionale, ma una norma di natura diversa - anche legislativa - la
violazione della quale ridonda in una violazione della norma costituzionale. In questo caso il
sindacato della Corte costituzionale si svolge attraverso le c.d. "norme interposte", come nel
caso del vizio di eccesso di delega del decreto legislativo.

8.1. Un modello di giudizio particolare: dal giudizio sull'eguaglianza al controllo sulla


ragionevolezza della legge

Normalmente il controllo di costituzionalità per vizi materiali segue uno schema di tipo binario,
perché la norma legislativa impugnata viene messa a confronto con la norma costituzionale per
ricavarne la sua legittimità o illegittimità. Nel giudizio di legittimità in relazione al principio di
eguaglianza, il giudizio segue invece uno schema ternario in conseguenza della natura
relazionale del principio di eguaglianza (si è eguali o diversi necessariamente rispetto ad altri).
L'art. 3 della Costituzione prevede infatti il principio che tutti i cittadini devono essere trattati dalla
legge in maniera eguale: da ciò deriva che a parità di situazioni sostanziali debbono esservi
trattamenti normativi eguali, mentre laddove le situazioni siano diverse il trattamento normativo
deve essere diverso.

Nel giudizio di legittimità costituzionale questo assunto si traduce per la Corte costituzionale in
una serie di valutazioni. In primo luogo verifica- re se le situazioni a confronto sono realmente
omogenee; in caso positivo mettere a confronto la norma impugnata con l'altra norma legislativa
che pone il trattamento diverso (ed. tertium comparationis); quindi, se la differenza di trattamento
non è giustificata, dichiarare incostituzionale la norma impugnata in relazione all'art. 3 della
Costituzione. Come si vede si tratta di uno schema di giudizio di tipo ternario, cioè basato sulla
comparazione di tre norme: la norma impugnata rispetto al tertium comparationis e poi rispetto
all'art. 3.
Per chiarire facciamo un semplice esempio di fantasia (il medesimo già effettuato a proposito
dell'art. 3): se una legge punisce con una determinata pena chi ruba mele, non può punire con
una pena superiore chi ruba ciliegie. Vi sono due situazioni omogenee - il furto di frutta - che
vengono trattate diversamente da due norme.

Facendo invece un esempio "reale", ancorché risalente nel tempo, può ricordarsi il caso
dell'adulterio femminile. L'art. 559 c.p. prevedeva che la moglie adultera fosse punita con la
reclusione sino ad un anno, mentre il marito soltanto se l'adulterio si trasformava in "concubinato
stabile e notorio". La legge trattava dunque due situazioni eguali - il marito e la moglie - in
maniera diversa e la Corte dichiarò illegittima la norma (Corte cost. n. 126 del 1968).

In definitiva quindi la Corte, in presenza di norme che trattano differentemente situazioni


omogenee, compara la posizione dei soggetti regolati dalla norma impugnata con la posizione di
altri soggetti regolata da un altra normativa (tertium comparationis) e una volta verificata
l'omogeneità delle posizioni raffrontate, ritiene il trattamento differenziale privo di ragionevole
giustificazione, dichiarando la norma impugnata illegittima. Attraverso la dichiarazione di
illegittimità la Corte rende così omogenea la disciplina legislativa delle posizioni a confronto
"mediante parificazione della posizione assunta come discriminatoria". (Corte cost. n. 220 del

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1982). Partendo dal giudizio sull'art. 3 così come descritto, la Corte costituzionale tuttavia nel
tempo ha sviluppato una tipologia di controllo più sofisticato, denominato controllo sulla
ragionevolezza della legge, che, come vedremo, segue uno schema diverso, non legato alla
esistenza del tertium comparationis, ma che mira a sindacare la coerenza e la ragionevolezza
della legge in sé stessa (e non quindi in relazione ad un altra norma).

Può dirsi che attraverso questo giudizio di legge viene sindacata dalla Corte, ed eventualmente
dichiarata illegittima, perché non coerente (irragionevole) rispetto all'ordinamento giuridico. Il
giudizio costituzionale, in questo caso, si basa sul raffronto diretto tra la norma costituzionale
che introduce questo principio (l'art. 3) e la norma ordinaria, e pertanto non necessita,
normalmente, di un termine di paragone (tertium comparationis).

Diversi sono i modelli del giudizio di ragionevolezza: un primo caso è la ed. contradditorietà
intrinseca, che significa che le norme censurate sono valutate in relazione alla ratio legis o ad
altre disposizioni contenute nello stesso testo legislativo; un secondo caso è invece la ed.
contradditorietà estrinseca, quando le norme impugnate sono esaminate in relazione al sistema
normativo di un intero settore; un altro caso ancora è il c.d. giudizio di conguità, attraverso il
quale la Corte sottopone a controllo una norma legislativa perchè non coerente con il fine
previsto dalla norma costituzionale; un altro caso ancora è il giudizio di proporzionalità,
prevalentemente utilizzato dalla Corte nel bilanciamento dei dietro costituzionali per determinare
il c.d. “contenuto minimo ” del diritto che in ogni caso non può essere sindacato.

9. Le sentenze di rigetto

Il giudizio costituzionale si conclude con una sentenza che può essere di rigetto o di
accoglimento.
Con la sentenza di rigetto la Corte costituzionale dichiara la non fondatezza della questione nei
limiti e nei termini in cui essa è stata proposta alla Corte: la Corte costituzionale non accerta
dunque che la legge è legittima, ma soltanto che essa non è incostituzionale in relazione alla
domanda proposta dal giudice. Le ragioni di questo modello decisorio sono connesse, da una
parte alla necessaria flessibilità della interpretazione del- le norme costituzionali, e dall'altra
parte al modello del giudizio di legittimità costituzionale come giudizio incidentale.

In primo luogo, infatti, se la Corte accertasse la legittimità della legge tout court, questo
accertamento diverrebbe stabile e non più modificabile, con la inevitabile conseguenza però
della cristallizzazione della interpretazione delle norme costituzionali e delle norme legislative. In
sostanza l'accertamento della legittimità costituzionale - invece della non illegittimità
costituzionale - bloccherebbe l'evoluzione interpretativa della Costituzione.

In secondo luogo la Corte costituzionale non si pronuncia sulla legittimità di una legge in
astratto, ma in concreto in relazione ai vizi individuati dal giudice a quo, ed in relazione alle
norme costituzionali da questo ultimo qualificate come parametro, e solo in relazione al thema
decidendum determinato dal giudice a quo dichiara la non incostituzionalità della norma. La
sentenza di rigetto è dunque definibile come una mera decisione di accertamento rispetto a quel
caso e ai motivi individuati dal giudice nella ordinanza di rimessione. Essa pertanto non ha
efficacia di giudicato (cioè non statuisce in maniera definitiva e nei confronti di tutti), ma ha solo
un effetto inter partes di tipo preclusivo, e questo implica che i suoi effetti sono dispiegati
solamente nei confronti del giudice a quo e non anche nei confronti di altri giudici.

10. Le sentenze di accoglimento

Con la sentenza di accoglimento la Corte costituzionale dichiara che le disposizioni oggetto di


impugnazione sono contrastanti con la Costituzione. Dalla decisione di incostituzionalità deriva

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che queste norme non potranno più essere applicate dal giorno successivo alla pubblicazione
della sentenza nella Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione).

La dichiarazione di incostituzionalità è conseguenza di un vizio della legge per contrasto con la


Costituzione (sia esso formale, materiale, o di competenza). La legge costituzionalmente
illegittima è dunque una legge invalida, ancorché la sua invalidità sia accertata al momento della
dichiarazione di incostituzionalità della legge da parte della Corte costituzionale.
La sentenza di accoglimento della Corte costituzionale è qualificabile come una sentenza di
accertamento con effetti costitutivi. E una sentenza di accertamento perché la Corte, nel
momento della dichiarazione di incostituzionalità, accerta l'esistenza di un vizio preesistente
della legge. I la effetti costitutivi perché è solo dalla sentenza che si verificano gli effetti che la
Costituzione riconnette alla sentenza di accoglimento (la perdita di efficacia).

Gli effetti della sentenza di accoglimento nell'ordinamento sono principalmente due:


a) la perdita di efficacia della norma incostituzionale con effetti erga omnes;
b) la perdita di efficacia della norma incostituzionale con effetto retroattivo.

La perdita di efficacia con effetti erga omnes, cioè nei confronti del- l'intero ordinamento e non
solamente nei confronti delle parti del processo, deriva dall'art. 136 della Costituzione, laddove
si statuisce che "quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di
atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione". Del resto la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale è tipica degli
atti normativi, che cioè hanno efficacia erga omnes.

La perdita di efficacia erga omnes costituisce l'effetto principale del modello di giudizio
accentrato previsto dalla Costituzione.

La sentenza di accoglimento della Corte ha poi efficacia retroattiva. Essa cioè produce effetti
non solo per i rapporti sorti successivamente alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta
Ufficiale (efficacia c.d . ex nunc), ma anche per tutti quei rapporti sorti sulla base della legge
dichiarata costituzionalmente illegittima (efficacia ed. ex tunc).

La retroattività della sentenza di accoglimento incontra tuttavia alcuni limiti. Gli effetti retroattivi
deIla sentenza travolgono infatti i rapporti c.d. pendenti, mentre rimangono salvi ed intoccabili i
rapporti c.d. esauriti.
In generale si considerano esaurite quelle situazioni ormai chiuse definitivamente, e che
pertanto, sulla base delle regole generali dell'ordinamento giuridico, non possono essere
"rimesse in gioco". La definizione dei rapporti esauriti è dunque un problema non di diritto
costituzionale, ma di ordinamento giuridico generale, nel senso che dipenderà dalle regole dei
singoli ordinamenti (processuali, civili, penali, amministrativi) la definizione o meno di un
rapporto come esaurito.

Un primo esempio classico di rapporto esaurito è costituito dalla sentenza passata in giudicato
(quando cioè una situazione giuridica ,è stata definita dopo i tre gradi di giudizio, oppure sono
decorsi i termini per le impugnazione dopo una sentenza di primo o di secondo grado). In questo
caso, con la eccezione che si dirà, una sentenza passata in giudicato che si basava su di una
legge dichiarata costituzionalmente illegittima non può essere rimessa in gioco.

Queste regole, che tendono a dare certezza ai rapporti giuridici quando essi siano conclusi,
incontrano una sola eccezione prevista dall'art. 30 ultimo comma della legge n. 87 del 1953.
Questa norma prevede che: "quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è
stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti
penali". In sostanza la retroattività della sentenza di accoglimento travolge il giudicato penale,

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cosicché colui il quale sia stato condannato con sentenza passata in giudicato sulla base di una
legge dichiarata poi costituzionalmente illegittima, cessa di subire gli effetti di quella condanna.

La dichiarazione di incostituzionalità della legge fa dunque sì che la norma impugnata divenga


non più applicabile nell'ordinamento, provocando così un vuoto normativo che deve essere
colmato dal legislatore. Salvo casi particolari, si ritiene infatti che la dichiarazione di
incostituzionalità di una norma non produca l'effetto della reviviscenza della normativa
preesistente, quanto invece l'obbligo per il legislatore di intervenire provvedendo a normare
nuovamente la fattispecie.

11. Le sentenze interpretative di rigetto

La Costituzione prevede un modello di decisioni costituzionali improntate sulla rigida bipartizione


accoglimento-rigetto. Nel tempo la Corte costituzionale ha cercato di rendere più flessibile
questo strumentario, anche allo scopo di temperare gli effetti della sentenza di accoglimento in
relazione al vuoto normativo che da questa deriva (il c.d. orror vacui).

Il primo strumento che la Corte ha utilizzato allo scopo di evitare la pronuncia di accoglimento è
stato la sentenza interpretativa, in particolare nella sua versione della sentenza interpretativa di
rigetto, (la prima sentenza interpretativa di rigetto è la n. 8 del 1956).
Con la sentenza interpretativa di rigetto la Corte costituzionale modifica l'interpretazione
proposta dal giudice a quo della disposizione legislativa sottoposta al suo giudizio, ne trae una
norma diversa, e in relazione a questa norma dichiara la non incostituzionalità della legge. In
definitiva, mentre secondo la interpretazione proposta dal giudice a quo la disposizione di legge
sarebbe incostituzionale, la Corte, reinterpretando la disposizione, ne trae un significato-
normativo diverso producendo l'effetto di renderla "costituzionale". Sono sentenze che si
riconoscono facilmente dal dispositivo, poiché la non incostituzionalità è affermata non in modo
assoluto, ma in quanto alla disposizione si dia un determinato significato, ovvero essa sia
interpretata nei sensi e nei modi di cui in motivazione.
Attraverso questa sentenza la Corte mira ad ottenere l'adeguamento della legge ai principi
costituzionali, fornendo la interpretazione legislativa "conforme" alla Costituzione, e salvando
allo stesso tempo la norma impugnata dalla dichiarazione di incostituzionalità. Trattandosi di una
sentenza di rigetto essa ha l'efficacia tipica di quelle tipologie di decisioni: non produce effetti
erga omnes e solo il giudice a quo è vincolato alla interpretazione data dalla Corte
costituzionale.

Questo modello di sentenza si basa sulla possibilità di distinguere la disposizione (mero


enunciato normativo) dalla norma (enunciato interpreta to con un determinato significato). La
Corte in riletti, nella sentenza interpretativa trae dalla disposizione della e ili legittimità
costituzionale il giudice a quo sospetta, una nonna diversa da quella tratta dal giudice, e rispetto
a tale nonna suggerisce una interpretazione costituzionalmente conforme.

Questa tipologia di sentenze, tuttavia, presenta alcuni problemi teorici. In primo luogo nella
sentenza interpretativa la Corte costituzionale, modificando un parametro dell'ordinanza di
rimessione, modifica del pari il c.d. thema decidendum, violando così il necessario rapporto tra
chiesto e pronunciato, principio informatore del processo costituzionale. In secondo luogo,
reinterpretando la norma di legge in maniera difforme dall'interpretazione del giudice, la Corte
pare violare il principio che il compito di interpretare le leggi ordinarie (la ed. nomofilachia) è
attribuito dall'ordinamento alla Corte di Cassazione e non alla Corte costituzionale (che
interpreta invece la Costituzione) ponendosi altresì in contrasto con gli stessi giudici comuni che
quella interpretazione propugnavano. In terzo luogo, non potendo avere la sentenza di rigetto
efficacia erga omnes, la interpretazione "suggerita" dalla Corte costituzionale non può
considerarsi vincolante nei confronti dei giudici che non avevano sollevato la questione. Quindi,

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alla fine, la efficacia di questa sentenza si basa sulla "collaborazione" tra Corte costituzionale e
giudici ordinari, e sulla spontanea volontà di questi ultimi di adeguarsi alla interpretazione data
dalla Corte.

Il primo problema è stato superato facendo leva sulla distinzione tra disposizione e norma: la
Corte costituzionale, nella sentenza interpretati- va, non modifica la disposizione oggetto di
impugnazione, ma cambia soltanto il significato normativo che quella disposizione esprime.
Il secondo ed il terzo problema sono stati invece superati attraverso una operazione di ed. self
restrain (autolimitazione) della Corte costituzionale.

La Corte costituzionale ha risolto questo problema attraverso la c.d. teoria del "diritto vivente".
In sostanza, allorquando su di una norma legislativa si è formata una interpretazione costante
della Corte di Cassazione, si è di fronte al ed. "diritto vivente". Quando vi è diritto vivente il
potere interpretativo della Corte costituzionale nei confronti delle norme legislative ordinarie
deve arrestarsi (self restrain), perché sulla norma vi è già una interpretazione costante della
giurisprudenza e dunque non è possibile utilizzare la sentenza interpretativa di rigetto. Solo
quando non c'è diritto vivente, quindi, la Corte può procedere con una sentenza interpretativa.
La teoria del diritto vivente ha costituito una importante tappa nella delimitazione delle sfere di
competenza tra Corte costituzionale e altri giudici, poiché ha consentito da una parte alla Corte
di Cassazione di la sua funzione di nomofilachia, e dall'altra parte alla Corte costituzionale di
non abdicare alla interpretazione delle norme legislative ordinarie in senso costituzionale.

12. Le sentenze manipolative, additive, sostitutive, additive di principio, monitorie

Nell'ambito delle decisioni di accoglimento un tipo particolare di decisione è quella detta


manipolativa. In generale con la sentenza manipolativa la Corte costituzionale pro- cede ad una
modificazione della disposizione sottoposta al suo controllo, cosicché la norma impugnata,
all'esito del giudizio di costituzionalità, assume un contenuto diverso.

La definizione delle sentenze come "manipolative" indica tuttavia un "genus" al cui interno si
trovano fondamentalmente due grandi tipi di sentenze di accoglimento: le sentenze c.d. additive,
le sentenze riduttive (che possono essere anche definite come di accoglimento parziale), le
sentenze ed. sostitutive. In generale le sentenze manipolative sono caratterizzate dalla dicitura,
contenuta nel dispositivo, secondo cui una disposizione è dichiarata incostituzionale "nella parte
in cui non prevede qualcosa" (sentenza additiva), "nella parte in cui prevede
qualcosa" (sentenza riduttiva), "nella parte in cui prevede qualcosa anziché un altra
cosa" (sentenza sostitutiva).

Le sentenze additive possono essere definite come le sentenze attraverso le quali la Corte
giudica la incostituzionalità delle omissioni del legislatore. Sino ad ora infatti abbiamo visto il
caso in cui ad essere incostituzionale era una disposizione nella parte in cui essa prevedeva un
qualcosa che contrastava con una norma della Costituzione. Ma se la incostituzionalità
derivasse al contrario dal fatto che la disposizione non prevede un qualcosa che invece avrebbe
dovuto prevedere? Lo schema della sentenza additiva risponde a questa domanda, dichiarando
la illegittimità costituzionale della mancata previsione di un qualcosa che invece avrebbe dovuto
essere disciplinato dalla legge e che la Corte introduce all'interno della disposizione. Sono
decisioni nel cui dispositivo è pie sente la lori mi la: "la Corte dichiara la illegittimità della
disposizione nella parte in cui non prevede che ..." ed in questa parte viene introdotta una
disposizioni che pinna non c'era.

La sentenza riduttiva è per certi versi l'opposto della additiva, ed è assai più simile ad una
sentenza di accoglimento tradizionale parziale. Li riduttiva infatti non aggiunge alcunché al testo
normativo, ma dichiara semplicemente la incostituzionalità di una norma in una sua parte (nella

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parte in cui prevede qualcosa).
Le decisioni sostitutive invece si caratterizzano per la dichiarazione di incostituzionalità di una
norma di legge per il fatto che essa prevede uni determinata cosa, che è incostituzionale,
anziché prevederne un'altra, che sarebbe invece costituzionale. Esse contengono dunque una
decisione di incostituzionalità per una parte (per quello che la legge dice), correlata alla
sostituzione di quella parte con una nuova norma introdotta dalla Corte.

Questa tipologia di sentenze presenta un evidente problema teorico. La Corte costituzionale, sia
nella sentenza additiva che in quella sostitutiva, aggiunge infatti una disposizione al testo di
legge. Sembra dunque creare diritto nuovo, compito che tuttavia certamente non spetta alla
Corte costituzionale ma alle scelte politiche del Parlamento e del Governo. Come si giustifica
dunque questa attività apparentemente creativa di norme della Corte costituzionale? A questa
domanda si risponde tradizionalmente osservando che in realtà la Corte non crea
discrezionalmente una nuova norma, ma la trae "ovviamente non dalla fantasia della Corte, ma,
per analogia, da altre norme e principi contenuti nel sistema (o addirittura dalla stessa nonna
costituzionale alla stregua della quale si è svolto il giudizio)”.

Un ulteriore tipo di sentenza additiva è la ed. "additiva di principio", che è una sentenza di
accoglimento, di tipo additivo, ma non autoapplicativa. Esse cercano di conciliare le esigenze del
controllo di costituzionalità, con il rispetto del potere discrezionale del Parlamento di determinare
la spesa pubblica. Al fine di pronunciare sentenze che non gravino sul bilancio statale la Corte
costituzionale infatti si è orientata nel senso di sostituire alle sentenze di spesa di tipo
autoapplicativo, sentenze "additive di principi che dichiarano l'incostituzionalità di un omissione
legislativa, aggiungendo però non una regola immediatamente applicabile e comportante oneri
al bilancio statale, ma soltanto un principio generale non autoapplicativo che necessita di essere
attuato dal legislatore e al quale può anche fare riferimento il giudice.

La sentenza additiva di principio costituisce un meccanismo collaborativo tra Corte, Parlamento


e giudici, ognuno dei quali agisce nell'ambito delle proprie competenze. La Corte infatti non
invade la discrezionalità del legislatore ma vi collabora, fissando un principio generale; il
Parlamento esercita la sua discrezionalità politica nell'ambito del principio; i giudici utilizzano, se
possono, il principio in maniera interpretativa per risolvere casi concreti.
Un altro tipo di sentenze, in questo caso di rigetto, è la sentenza ed. monitoria. Con la sentenza
monitoria la Corte costituzionale rigetta la questione di costituzionalità, ma allo stesso tempo
rivolge un invito al legislatore perché questi intervenga a regolare diversamente la materia. La
Corte utilizza questo tipo di sentenze allorquando dalla dichiarazione di incostituzionalità
potrebbe derivare una situazione di ancora maggiore incostituzionalità, o rilevanti conseguenze
di natura economico sociale, oppure, in generale, una modifica importante del sistema dei valori
costituzionali. In certi casi il monito può essere molto preciso allorquando la Corte afferma
espressamente che la norma impugnata si pone in contrasto con le nonne costituzionali, ma
nonostante ciò essa non viene dichiarata incostituzionale, "avvertendo" tuttavia il legislatore che,
qualora non provvedesse a modificare celermente la legge, nel caso che le fosse nuovamente
prospettata la questione essa dovrebbe essere dichiarata incostituzionale.

13. Gli strumenti decisori della Corte costituzionale nel dialogo tra giudici e Parlamento

La “doppia anima” giurisprudenziale e politica del giudizio di legittimità costituzionale è


stata ulteriormente sviluppata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Essa ha
nel tempo creato un sistema di strumenti decisori che mostrano una Corte costituzionale
sempre più inserita all’interno del sistema degli equilibri della forma di governo in una
prospettiva di tipo collaborativo.

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CAPITOLO VIII
IL GIUDIZIO IN VIA INCIDENTALE E I
CONFILITTI DI ATTRIBUZIONE TRA
LO STATO E LE REGIONI

1. Introduzione: la diversa ratio del giudizio in via principale rispetto in via accidentale

La Costituzione ha previsto un altro tipo di giudizio davanti alla Corte costituzionale per dirimere
le competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, definito come giudizio in via principale o di
azione, ed un altro ancora per dirimere conflitti di competenze non legislative ancora tra lo Stato
e le Regioni, denominato giudizio sui conflitti di attribuzioni tra lo Stato e le Regioni.

Il giudizio in via principale - o di azione - è proponibile dallo Stato nei confronti della Regione o
dalla Regione nei confronti dello Stato o di altre Regioni, in ipotesi di leggi ritenute invasive delle
competenze costituzionalmente determinate. Viene chiamato in via principale perché la
questione di costituzionalità è proposta direttamente dallo Stato o dalla Regione e non nel corso
di un giudizio.
Il conflitto di attribuzioni è invece proponibile dallo Stato o dalle Regioni in ipotesi di atti non
legislativi dello Stato o della Regione, ritenuti invasivi delle competenze costituzionalmente
stabilite.
È da sottolineare la diversa logica - e quindi le diverse regole - del giudizio in via principale
rispetto al giudizio incidentale.

Il giudizio in via incidentale è un giudizio sulla legittimità della legge nei confronti delle norme
costituzionali, sollevato nel corso di un giudizio. Esso ha pertanto l'obbiettivo di garantire che le
fonti primarie rispettino i principi costituzionali e i diritti dei cittadini. Il giudizio in via principale e
quello sui conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni hanno invece principalmente la
funzione di garantire il rispetto delle competenze, legislative e non legislative, che la
Costituzione ha assegnato allo Stato e alle Regioni. La diversità di ratio di questi giudizi rispetto
al controllo sulle leggi, giustifica la diversità dei criteri e delle regole processuali che disciplinano
il giudizio in via principale rispetto al giudizio incidentale.

In primo luogo, infatti, il giudizio incidentale origina da un incidente processuale all'interno di una
"causa" ordinaria; l'ordinamento non prevede alcuna possibilità di impugnazione diretta della
legge da parte del cittadino; non vi sono termini per la impugnazione della legge. Al contrario nel
giudizio in via principale lo Stato e le Regioni possono impugnare direttamente la legge davanti
alla Corte Costituzionale. Il giudizio in via principale è dunque un giudizio speciale, in quanto
riservato a determinati soggetti (lo Stato e le Regioni), titolari di un potere di impugnazione
diretta della legge.

In secondo luogo, l'impugnazione della legge da parte dello Stato o delle Regioni deve avvenire
entro un breve termine dall'approvazione dell'atto. Richiamando i concetti già espressi a
proposito del giudizio incidentale (che era caratterizzato da concretezza) esso è dunque, al
contra- rio, un giudizio essenzialmente "astratto", che verte cioè su di un atto che non è stato
ancora applicato (o che è stato applicato per un tempo molto breve).

In terzo luogo, poiché si parla di giudizi ad impugnazione diretta, a differenza del giudizio
incidentale che era "delineato processualmente come un giudizio "a parti eventuali" (nel senso
che le parti presenti nel pro-esso a quo potevano costituirsi o meno nel giudizio davanti alla
Corte), il giudizio in via principale è definibile come "a parti necessarie", dato che le parti
debbono essere necessariamente presenti nel processo: vi è un attore (il ricorrente) ed un
convenuto (il resistente).

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Il giudizio, ancora a differenza del giudizio incidentale, è dunque disponibile dalle parti, le quali
possono ad esempio anche decidere di rinunciarvi, estinguendo il processo (cosa non possibile
nel giudizio incidentale davanti alla Corte costituzionale).
La diversità delle regole processuali rispecchia il diverso fine del giudizio in via principale rispetto
al giudizio incidentale. Il giudizio principali ha il fine di risolvere una controversia relativa al
riparto costituzionale di competenze di due parti: lo Stato e la Regione. Esso segue dunque le
logiche del giudizio di impugnazione, guidato dall'interesse delle parti.
Il giudizio incidentale ha invece il fine di controllare e eventualmente eliminare dall'ordinamento
leggi incostituzionali.

2. Il giudizio in via principale nel "vecchio" titolo V della Costituzione

Precedentemente alle riforme costituzionali introdotte dalle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n.
3 del 2001, le ipotesi di ricorso statale avverso le leggi regionali e di ricorso regionale avverso le
leggi statali erano regolamentate in maniera significativamente diversa, con un potere di
controllo statale nei confronti della legge regionale assai più forte che nel caso opposto.

Nel testo costituzionale anteriore alle riforme citate, lo Stato aveva infatti un potere di controllo
preventivo sulla legge regionale, esercitabile in due fasi: una fase di negoziazione politica e
eventualmente una fase giudiziale.
La legge approvata dal Consiglio regionale non veniva infatti immediatamente promulgata, ma
era comunicata dal Consiglio regionale al commissario del Governo che doveva vistarla nel
termine di 30 giorni. Entro quello stesso termine il Governo, se riteneva che la legge eccedesse
la competenza della Regione o contrastasse con gli interessi nazionali, poteva rinviare la legge
al Consiglio regionale, che se voleva riapprovarla doveva farlo con la maggioranza assoluta.
Questa prima fase era finalizzata a sciogliere gli eventuali nodi insorti tra Regione e Governo e
possibilmente a sciogliere questi nodi in via di negoziazione politica.

Se il Consiglio regionale riapprovava la legge a maggioranza assoluta il Governo (entro 15


giorni), poteva impugnare la legge davanti alla Corte Costituzionale per vizi di legittimità, oppure
davanti al Parlamento per vizi di merito (ipotesi questa tuttavia mai verificatasi). Con questa
seconda fase il Governo portava dunque la questione davanti alla Corte costituzionale.

Il ricorso del Governo aveva dunque carattere preventivo e sospensivo rispetto alla entrata in
vigore della legge regionale. La legge infatti non poteva entrare in vigore sino alla decisione
della Corte costituzionale. Era invece assai diversa la disciplina del caso opposto, cioè della
impugnazione da parte della Regione della legge dello Stato. Non vi era alcuna fase di
negoziazione politica preventiva e la Regione poteva impugnare una legge dello Stato solo
successivamente alla entrata in vigore di questa (entro trenta giorni) e solamente quando questa
invadeva una competenza regionale (e non per ogni vizio di legittimità costituzionale).

I due modelli erano dunque non solo significativamente diversi come regole, ma sembravano
perseguire finalità distinte.

II controllo dello Stato nei confronti della legge regionale era delineato dalla Costituzione come
una sorta di controllo di legittimità costituzionale delle leggi regionali a tutela dell'unità
dell’ordinamento cosicché il problema della invasione di competenza della Regione rispetto alle
competenze dello Stato stava quasi sullo sfondo di un modello di controllo, come si è visto, assai
più articolato.

Al contrario il ricorso della Regione nei confronti della legge dello Sta- to era configurato dalla
Costituzione come un vero e proprio giudizio di competenza, potendo la Regione impugnare la

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legge dello Stato solo nella ipotesi della violazione da parte di quest'ultima del riparto di
competenze costituzionalmente determinate.

3. Il giudizio in via principale nel "nuovo" titolo V

La revisione costituzionale del 2001 ha modificato radicalmente il mo- dello delle relazioni Stato-
Regioni e il sistema del riparto di competenze. Sono state conseguentemente eliminate anche
quelle difformità più evi- denti tra il ricorso statale e il ricorso regionale, che ponevano il controllo
dello Stato sulla legge regionale su di un piano completamente diverso dall'ipotesi
dell'impugnazione da parte della Regione di una legge dello Stato, e che rifletteva la "superiorità"
dello Stato rispetto alla Regione. È stato così eliminato il ricorso di merito al Parlamento; è stata
eliminata la fase della "negoziazione politica" tra Governo e Consiglio regionale basata sul rinvio
della legge al Consiglio regionale; è stato eliminato il ricorso preventivo del Governo avverso la
legge regionale.
Il nuovo art. 127 della Costituzione prevede infatti che: "il Governo, quando ritenga che una
legge regionale ecceda la competenza della Regione può promuovere la questione di legittimità
costituzionale dinnanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione.
La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o
di un altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità
costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della
legge o dell'atto avente valore di legge".

4. Il giudizio di costituzionalità sugli statuti regionali

L’art 123 della Costituzione ha introdotto la possibilità per il Governo di ricorrere alla
Corte costituzionale attraverso la approvazione dello Statuto regionale. Lo statuto dopo
la approvazione deve essere pubblicato e dalla pubblicazione decorrono i termini (trenta
giorni) per il Governo per proporre un eventuale ricorso alla Corte costituzionale
attraverso lo statuto.

5. I conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni

L'art. 134 della Costituzione prevede che la Corte costituzionale giudichi sui conflitti di
attribuzioni tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni. I conflitti di attribuzioni sono
sostanzialmente conflitti di competenza tra lo Stato e le Regioni che svolgono una funzione di
tutela complementare rispetto al giudizio in via principale. Mentre infatti il giudizio in via
principale ha per oggetto le leggi, il conflitto di attribuzioni ha per oggetto fonti secondarie o
anche semplici comportamenti, dello Stato o delle Regioni, lesivi delle reciproche sfere di
competenza.

L’oggetto del giudizio costituzionale nel conflitto di attribuzioni tutta- via non è l'illegittimità di un
atto, quanto la lesione di una competenza costituzionalmente determinata, lesione che
normalmente si verifica attraverso l'emanazione di un atto. La differenza, che può sembrare a
prima vista finanche eccessivamente sottile, è invece importante. Lo scopo del giudizio per
conflitto di attribuzioni infatti è quello di dirimere conflitti costituzionali di competenza tra lo Stato
e le Regioni e non invece quello di giudicare sulla semplice illegittimità di un atto. Per questa
ragione il conflitto di attribuzioni si distingue dal ricorso giurisdizionale amministrativo, che è un
caratterizzato dall'impugnazione dell'atto eventualmente per violazione di regole sulla
competenza.

Il conflitto di attribuzioni tra lo Stato e le Regioni deve avere come oggetto, in primo luogo,
competenze costituzionalmente determinate.

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In secondo luogo la violazione della competenza, secondo la giurisprudenza costituzionale, può


avvenire o nella ipotesi nella quale un ente abbia esercitato la competenza di un altro ente
(conflitti c.d . da vindicatio potestatis) o nel caso in cui il cattivo esercizio di una propria
competenza abbia le- so la competenza dell'altro (conflitti da menomazione o interferenza). I
conflitti che si basano su di una vindicatio potestàtis sono assai rari, mentre molto più frequenti
sono i conflitti da interferenza o menomazione.

Il giudizio per conflitto di attribuzioni viene introdotto con ricorso nel termine perentorio di
sessanta giorni dalla pubblicazione dell’atto.

La sentenza con la quale viene deciso il conflitto statuisce sulla competenza,


dichiarando a chi spetti o non spetti la competenza e per conseguenza annulla l’atto
che ha generato il conflitto.

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CAPITOLO IX
CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
TRA I POTERI DELLO STATO

1.Introduzione

L'art. 134 della Costituzione attribuisce poi alla Corte costituzionale la competenza a giudicare
sui "conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato", competenza che sembra parallela a quella sui
conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni. Vi sono tuttavia notevole differenze di regole e di
finalità tra i due modelli di conflitto.

In primo luogo, mentre i conflitti che abbiamo visto nel capitolo pre- cedente sono conflitti di
competenza tra Stato e Regioni, quindi tra enti diversi (definiti infatti anche conflitti
intersoggettivi), i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato sono conflitti di competenza tra
organi dello Stato (per questo sono definiti anche come conflitti interorganici).

In secondo luogo, mentre nell'ambito dei conflitti tra lo Stato e le Regioni i soggetti che possono
accedere al conflitto sono determinati dalla Costituzione (lo Stato e le Regioni appunto), nei
conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato la Costituzione non indica i soggetti che possono
essere parti dei conflitti (si dovrà quindi determinare chi sono i poteri dello Stato).

In terzo luogo, mentre lo scopo del conflitto tra enti era sin dall'inizio sufficientemente
identificato, trattandosi in linea generale di conflitti competenza di livello inferiore rispetto a
quello legislativo, il conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato nasceva in Costituzione senza
una identità precisa. Si voleva presumibilmente attribuire alla Corte Costituzionale una sorta di
competenza di "chiusura" dell'ordinamento, rendendo giustiziabili anche i conflitti tra gli organi
costituzionali dello Stato, a garanzia della forma di governo determinata in Costituzione.

Il conflitto tra poteri, allora, pare derivare da quella idea teorica di completare lo Stato di diritto,
prevedendo la possibilità di un controllo sul rispetto della Costituzione anche in relazione al
comportamento degli organi costituzionali.

2. I soggetti del conflitto di attribuzioni

Il primo problema per ricostruire le caratteristiche strutturali del conflitto è determinare quel sono
i poteri dello Stato che possono sollevare un conflitto di attribuzioni o resistere in un conflitto.

Un contributo in questo senso giunge dall'art. 37 della legge n. 87 del 1953 che dice che il
conflitto di attribuzioni tra poteri è finalizzato alla "delimitazione della sfera di attribuzioni
determinata per i vari poteri da norme costituzionali". La stessa norma precisa inoltre che il
conflitto deve insorgere "tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri
cui appartengono .
Da queste due proposizioni possono trarsi le regole fondamentali per individuare i poteri dello
Stato ai fini del conflitto di attribuzioni. Se infatti i conflitti servono per delimitare una sfera di
attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali, in primo luogo per aversi potere
occorrerà che vi sia un organo costituzionale dotato di una attribuzione costituzionalmente
determinata. L'esistenza di una attribuzione costituzionale, in capo ad un organo, costituisce
dunque il presupposto primo perché questo organo possa essere definito come potere.
In secondo luogo occorrerà che quell'organo sia competente a dichiarare definitivamente la
propria volontà, cioè che esso sia dotato di un ambito di competenza esercitarle in maniera
autonoma e indipendente. In buona sostanza occorre che la competenza di cui l'organo è
titolare sia solo sua propria, non sottoposta ad un potere gerarchico di altri organi, né avocabile
da parte di altri organi.

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In terzo luogo occorrerà che quell'organo sia "dello Stato", nel senso della sua partecipazione ad
un ciclo decisorio la cui manifestazione di volontà finale sia imputabile allo Stato.

Ne consegue che il potere dello Stato è definibile come quell'organo titolare di attribuzioni
costituzionali esercitabili in maniera autonoma e indipendente.

Questa ricostruzione, che è stata accolta dalla Corte costituzionale, consente una tutela
giurisdizionale all'organo nell’esercizio concreto della sua competenza, che è quanto perseguito
dall'istituto del conflitto di attribuzione tra i poteri.
Questa definizione consente di risolvere anche il problema della identificazione del potere nel
caso di poteri complessi, cioè allorquando più organi siano titolari di una medesima attribuzione.
Anche in questo caso si deve guardare all’attribuzione, e cioè se questa è imputata dalla
Costituzione a più organi collettivamente o ad organi singoli.

3. Profili oggettivi e processuali del conflitto

Il conflitto di attribuzioni sorge per delimitare la sfera delle competenze costituzionalmente


determinate. La Costituzione tuttavia non declina tutte le competenze degli organi costituzionali,
competenze che sono normalmente previste in Costituzione solo nelle loro linee generali, e che
sono determinate successivamente attraverso leggi ordinarie o comunque fonti sub-
costituzionali. Cosicché l'ambito oggettivo del conflitto è determinato, normalmente, solo in parte
da norme costituzionali, mentre per grandissima parte tale ambito è precisato da norme
ordinarie e spesso anche da consuetudini costituzionali.

I conflitti poi, come nel caso dei conflitti tra lo Stato e le Regioni, possono essere da vindicatio
potestatis (quando un potere rivendichi come propria la competenza esercitata da un altro
potere) o da interferenza (quando l'esercizio non corretto di una competenza da parte di un
potere leda le attribuzioni costituzionali di un altro potere).

In realtà i conflitti da vindicatio potestatis sono rarissimi. È molto difficile infatti che si verifichi un
caso nel quale un potere eserciti la competenza di un altro. Molto più frequenti sono invece i
conflitti da interferenza, perché in un sistema costituzionale che si basa su strette relazioni
reciproche tra i vari poteri dello Stato, può accadere frequentemente che si verifichino
"sconfinamenti", o che un potere dello Stato consideri le sue attribuzioni menomate dall'esercizio
- non corretto - di competenze di altri poteri.
IL conflitto ha normalmente per oggetto un atto, in linea di principio di natura non legislativa, ma
può avere per oggetto anche comportamenti od omissioni, poiché ciò che conta è la
menomazione della competenza costituzionalmente attribuita e non invece la eventuale
illegittimità di un atto.

Il conflitto di attribuzioni viene proposto con un procedimento particolare.


Il procedimento si basa su due fasi.
In una prima fase la Corte accerta l'ammissibilità del conflitto, in Camera di consiglio e con
ordinanza. In questa fase la Corte deve valutare se esista la "materia" di un conflitto, se cioè
esso verta effettivamente tra poteri dello Stato ed abbia per oggetto competenze
costituzionalmente determinate. Si tratta di una valutazione preliminare che riguarda i
presupposti processuali - il fatto che ricorrente e resistente siano poteri dello Stato e che il
ricorso abbia per oggetto la violazione di norme costituzionali di competenza - e non il merito del
ricorso.

La ragione di questa prima fase è da ricercarsi non solo nella necessita di creare un filtro
preliminare onde eliminare conflitti giuridicamente non proponibili, ma anche per dare alla Corte

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lOMoARcPSD|4121920

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la possibilità di individuare correttamente la controparte del giudizio, che in effetti non deve
essere compiutamente indicata nel ricorso.

Se il ricorso è giudicato ammissibile la Corte pronuncia ordinanza di ammissibilità, ne dispone la


notifica agli organi interessati e si apre la seconda fase che riguarda il giudizio sul conflitto in
senso proprio e che si conclude con una sentenza.
Con la sentenza la Corte risolve il conflitto, dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni
in contestazione e, ove sia stato emanato un atto viziato da incompetenza, lo annulla.

4. La progressiva espansione del conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato nella
giurisprudenza costituzionale

La giurisprudenza della Corte costituzionale è diventata quantitativamente molto importante


dagli anni ’90 in poi. Moltissimi conflitti hanno riguardato il potere giudiziario nei confronti di
prerogative di organi costituzionali; altri hanno riguardato i promotori per il referendum nei
confronti dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione; altri ancora hanno
riguardato i poteri dello Stato le cui interrelazioni tradizionalmente definiscono la forma di
governo.

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