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DIRITTO

COSTITUZIONALE II.

CAPITOLO I
UNA COSTITUZIONE E UN DIRITTO COSTITUZIONALE PER L'EUROPA UNITA.

1.La questione se già al presente si dia o possa in seguito darsi una Costituzione dell’Unione
europea e le difficoltà che in genere, anche in ambito interno, si pongono alla ricostruzione
degli istituti costituzionali.
C’è già una Costituzione dell’Unione europea? Se si, com’è fatta? Quali sono i tratti comuni
rispetto alle Costituzioni nazionali e quali invece quelli suoi propri? Se no, invece, quali sono le
possibilità che essa venga alla luce?
Negli ordinamenti di tradizione liberaldemocratica, la Costituzione ha storicamente avuto la
sua peculiare funzione di Carta dei diritti fondamentali, si da tradursi in limite del potere
sovrano: una Costituzione insomma, come fonte di certezza del diritto costituzionale e di
certezza dei diritti costituzionali. Nei confronti di un diritto costituzionale essenzialmente
consuetudinario (e comunque non scritto), la scrittura ha adempiuto ad una funzione di
garanzia e di stabilizzazione del patrimonio di diritti fondamentali finalmente riconosciuti in
capo a uomini ormai divenuti cittadini (e non più sudditi).
Oggi però non è più così e si avverte sempre più il bisogno di attingere altrove le garanzie più
adeguate ed effettive di tale patrimonio.
Pertanto la scrittura costituzionale, originariamente volta a garantire la certezza del diritto, si
è convertita in fonte di diffuse incertezze.
In tale contesto è risultata difficile anche la ricostruzione degli istituti costituzionali a causa
della laconicità ed ambiguità del dettato costituzionale e del sempre maggior rilievo assunto
da materiali extratestuali, ugualmente idonei a dare la complessiva connotazione degli istituti
stessi. La Costituzione, insomma, anche nei Paesi annoverati tra quelli a diritti costituzionale
essenzialmente scritto, non si esaurisce solo nel documento che ne porta il nome, approvato
da un’assemblea costituente o da altro organo o soggetto politico-istituzionale in un dato
momento storico. La Costituzione infatti attinge altresì ad altre Carte anche solo
materialmente costituzionali in quanto esse pure idonee a dare riconoscimento ai diritti
fondamentali (si pensi alla CEDU e alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE).

2. L’idea di Costituzione, negli ordinamenti di tradizioni liberali, e l’incontro che attorno ad
essa può (e deve) aversi tra orientamenti metodico-teorici d’ispirazione istituzionalista,
normativista, assiologica.
E' chiaro che non si può rispondere alla domanda se possa esistere una Costituzione europea,
senza prima fare chiarezza su cosa sia effettivamente una Costituzione.
Ed è proprio sul significato di Costituzione che si riscontrano sensibili divergenze di
orientamento. Le teorie, al riguardo, sono 3:
1) Teoria istituzionalista: Ad identificare l’essenza della Costituzione nell’assetto
fondamentale di un ordine giuridico dato, quale risultante dall’insieme delle forze
politico-sociali dominanti e dei fini di cui esse di fanno portatrici, non pare dubbio che
l’assetto stesso si ispiri a valori fondamentali e per altro verso si debba, almeno in
parte, a regole di diritto costituzionale.
2) Teoria normativista. Essa identifica il tratto caratteristico di una Costituzione in un
insieme di norme fondamentali, quali ad esempio quelle che disciplinano la formazione
delle norme generali dell'ordinamento. Secondo questa teoria, solo facendo
riferimento ad una base normativa si ha modo di apprestare soluzioni più adeguate
poste a garanzia dei diritti fondamentali.
3) Teoria assiologica. Essa identifica, invece, l'essenza della costituzione in un insieme di
valori che danno un senso al processo costituente, posti alla base delle norme
costituzionali venute a formazione del processo stesso. I valori, infatti, si incarnano
nelle forze politico-sociali che se ne fanno portatrici e si rendono palesi attraverso le
norme che ne consentono il passaggio dal mondo del pregiuridico al mondo del
giuridicamente rilevante.
Spesso dunque i costituzionalisti si trovano a studiare il diritto costituzionale, ma non sanno
cosa esso sia. Il termine stesso di Costituzione appare fortemente controverso.
Torna utile richiamare un celebre passo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, il cui art 16 efficacemente esprime l’essenza di un ordinamento costituzionale nel
riconoscimento da esso fatto del principio della separazione dei poteri e nella salvaguardia dei
diritti fondamentali. E’ questa l’idea di Costituzione liberale. La separazione dei poteri si
converte poi in un limite per il potere sovrano: un limite che, in tanto ha un suo senso
complessivo e profondo, in quanto si disponga al servizio dei diritti fondamentali; di modo che
è proprio attorno a questi ultimi che si tesse la tela del diritto costituzionale degli
ordinamenti.
I principi fondamentali di un ordinamento costituzionale, siano o no espressamente enunciati,
sono condannati a consumarsi da se medesimi ed in un tempo più o meno breve a dissolversi
se non sorretti da previsioni ulteriori idonee a darvi corpo, concretezza, attuazione, e
soprattutto, laddove non sorretti da un diffuso consenso. Essi sono la base di ogni altra
disposizione normativa; ma questa base esprime e rinnova senza sosta il bisogno di reggersi, a
sua volta, su norme ulteriori, anche subcostituzionali. E’ solo per il tramite dell’effettività che
le norme si convertono in assetto fondamentale dell’ordinamento, così come questo si
rispecchia nelle prime.

3. La tesi che instaura un rapporto di corrispondenza biunivoca tra i termini di Costituzione e
Stato, e la critica che ad essa può farsi in forza di una larga accezione dell’una ed alla luce
delle profonde trasformazioni dell’altro, portato sempre più ad aprirsi alla Comunità
internazionale e ad organizzazioni sovranazionali, nel mentre queste ultime manifestano,
dal canto loro, una spiccata vocazione alla loro costituzionalizzazione.
Occorre chiedersi se il richiamo alle radici dell’esperienza liberale possa tornare utile allo
studio del diritto dell’UE dalla prospettiva del diritto costituzionale. Sembra che al quesito
possa essere data risposta positiva.
Vanno tenuti presenti due dati. Il primo riguarda lo stretto legame tra Costituzione e Stato:
dov’è l’uno, si dice comunemente, vi è anche l’altra e viceversa.
Tuttavia, poiché l'UE non è al momento e forse non sarà mai uno Stato, sarebbe del tutto
forzato far riferimento ad una Costituzione europea.
Tuttavia la suddetta tesi non è esente da critiche. Difatti secondo altri orientamenti la
corrispondenza costituzione-Stato non sarebbe biunivoca, potendo esistere alcuni Stati senza
Costituzione, ma non potendo esistere alcuna Costituzione senza Stato.
Tuttavia, se dovessimo fare riferimento ad una accezione larga di Costituzione allora si
potrebbero riscontrare tracce di Costituzioni anche in ordinamenti statali non liberali e in
ordinamenti non statali, vale a dire comunità politicamente organizzate, nelle quali dunque si
riscontri un soggetto portatore di sovranità ed altri soggetti, componenti la comunità stessa,
alla sovranità variamente sottoposti. Per quest’accezione più larga, sin dall’antichità si sono
venuti dunque affermando tipi o modelli di organizzazione comunque diversi da quello
statale, ciascuno retto da una legge fondamentale (da una Costituzione appunto), espressiva
delle norme relative all’assetto del potere ed ai rapporti tra l’apparato governante e la
comunità governata.
Fare riferimento in modo esclusivo al legame esistente tra Costituzione e Stato può
comportare esiti ricostruttivi non più adeguati, in relazione alle sembianze oggi
concretamente assunte tanto dalle Costituzioni che dagli Stati. E’ proprio qui che entra in
gioco il secondo dei dati a cui si faceva riferimento. Un dato che vede, ad un tempo, una
tendenza marcata ad aprirsi davanti ad ordinamenti sovranazionali ed una altrettanto forte
tendenza di questi ultimi a costituzionalizzarsi.
Infatti, sino a qualche anno fa, la differenza tra diritto internazionale e diritto interno era
netta e la sovranità nazionale non era scalfita da una sovranità internazionale. Invero, già nel
II dopoguerra il suddetto scenario è iniziato a mutare, anche e soprattutto per affermare col
massimo vigore possibile il valore fondamentale della pace e della giustizia tra le Nazioni (art.
11 Cost).
Questo processo di apertura al diritto internazionale si è progressivamente radicato e diffuso
tanto che in Italia, con la L. n° 3 del 2001 è stata prevista (art 117 comma 1) la soggezione
delle leggi di Stato e Regioni alle norme internazionali in genere (anche a quelle
pattizie) e comunitarie.
Nel momento in cui i singoli ordinamenti costituzionali si sono dichiarati disponibili a dare
ingresso alle norme della Comunità internazionale, in seno a quest’ultima sono venute a
formazione talune organizzazioni che hanno manifestato la tendenza a riconformarsi al
proprio interno e, con essa, la vocazione alla loro costituzionalizzazione. Il modello statale non
viene imitato in toto, in considerazione delle non secondarie differenze di struttura, di
funzionamento, di fini, di natura complessiva, sussistenti tra tali organizzazioni e gli Stati.

4. I connotati costituzionali dell’organizzazione e dei fini-valori fondamentali dell’UE, avuto
speciale riguardo al riconoscimento ed alla salvaguardia dei diritti fondamentali in ambito
eurounitario, cui fa tuttavia da contrappunto la perdurante mancanza di un demos europeo,
quale condizione indefettibile della piena costituzionalizzazione dell’UE.
Non soltanto le organizzazioni sovranazionali dispongono di norme fondamentali che ne
danno l’organizzazione, vale a dire di una Costituzione in senso lato o generico, ma le norme
stesse attingono largamente, in misura crescente, proprio al modello di Costituzione statale,
così come invalso nell’esperienza maturata negli ordinamenti di tradizioni liberali.
La tendenza degli ordinamenti sovranazionali a costituzionalizzarsi trova un esempio
lampante nell'Unione europea che, per un verso, si è dotata di organi supremi che portano il
nome di organi governanti di Stati membri e, per altro verso, si è dotata di un patrimonio di
diritti fondamentali.
Il dato di maggiore rilievo dunque si riscontra sul terreno del riconoscimento e della
salvaguardia dei diritti fondamentali, laddove si misura e si apprezza la consistenza di un
ordinamento propriamente costituzionale (nell’accezione liberale del termine).
L’Unione si è con il tempo dotata di un catalogo di diritti, principalmente attingendo alle
tradizioni costituzionali comuni, vale a dire facendo capo alle garanzie apprestate in ambito
interno sia dalle Carte che (soprattutto) dalle Corti costituzionali, tradizioni peraltro fatte
oggetto di originale rielaborazione da parte della giurisprudenza sovranazionale.
Quanti negano l'esistenza di una Costituzione europea, tuttavia, sottolineano che le
vicende dell'ordinamento europeo sono per intero governate da trattati, e quindi dalla
logica intergovernativa che sta alla base dello loro stipula e, in genere, delle relazioni tra Stati.
Lo stesso Trattato costituzionale (Costituzione europea) non si sottraeva a tale regola, come
peraltro non vi si sottrae il Trattato di Lisbona. Il Trattato costituzionale portava con sé il
segno di una irrisolta ambiguità. Era infatti, sì, un trattato, ma non un trattato qualunque, dal
momento che dava una Costituzione all’Unione. I suoi contenuti poi, se per una parte si
riferivano alle relazioni tra gli Stati membri tanto inter se quanto con l’Unione, per un’altra
parte esibivano i tratti tipici delle Costituzioni
La situazione non cambiò dopo l’abbandono del Trattato costituzionale, conseguente alla sua
bocciatura da due referendum svoltisi in Francia ed Olanda, e la sua sostituzione ad opera del
Trattato di Lisbona. In quest'ultimo è rimosso qualsiasi riferimento al termine Costituzione o
costituzionale, pur riprendendosi in gran parte i contenuti del vecchio Trattato, dato che si
ribadisce comunque la ripartizione della sovranità dell'Unione tra i suoi organi e si dichiara di
voler apprestare tutela ai diritti fondamentali. Quindi viene difficile pensare ad una
discontinuità tra l’uno e l’altro Trattato per effetto di tale rimozione.
Anche dopo l'entrata in vigore del nuovo Trattato, il processo di costituzionalizzazione
non può comunque dirsi concluso e difatti ad esso verrebbe a mancare un elemento portante
delle Costituzioni nazionali ovvero l'esistenza di basi culturali omogenee su cui poggiarsi e da
trasmettere alle generazioni future (il c.d. demos europeo). Solo dopo che si avrà (se mai si
avrà) un demos europeo, il processo di costituzionalizzazione dell’Europa potrà infatti dirsi
maturo. Non pochi Stati si caratterizzano per l’esistenza al loro interno di diverse nazioni, su
basi di lingua, religione, costumi e di altro ancora: sostanzialmente si tratta di culture diverse.
Tuttavia, è sempre più diffuso il sentimento della comune appartenenza ad uno stesso popolo
che porta ciascuno dei componenti della comunità statale a considerarsi partecipi dello stesso
destino (c.d. patriottismo costituzionale). Quest’ultimo è andato sempre più radicandosi nei
Paesi membri dell’UE dove l’idea dell’essere civis europeo sta finalmente trovando
affermazione.

5. Rilievo anche giuridico dato, specie nelle esperienze processuali, alla Carta dei diritti di
Nizza-Strasburgo, al tempo della sua mancata incorporazione nei trattati, e il richiamo ad
essa fatto dal nuovo Trattato quali ulteriori riprove della ormai avanzata
costituzionalizzazione dell’Unione, vale a dire dell’esistenza presso quest’ultima di spazi
costituzionali comunque non dominati dalla logica pattizia che sta a base delle relazioni
intergovernative.
Ciò che più di tutto evoca l'idea di Costituzione a livello europeo è il riconoscimento dei
diritti fondamentali che è esplicitato per il tramite del rinvio alla Carta di Nizza-Strasburgo
fatto dal nuovo Trattato (mentre il Trattato costituzionale incorporava la carta, il nuovo
Trattato si limita a richiamarla, riconoscendone lo stesso rilievo giuridico del
Trattato).
I diritti riconosciuti dalla Carta per un verso ripetono i tratti essenziali di una ormai fiorente e
solida giurisprudenza sovranazionale, per altro verso circolano diffusamente nella aule
giudiziarie.
Difatti i numerosi riferimenti alla Carta, sia a livello sovranazionale che a livello di diritto
interno danno conferma di quanto radicato e condiviso sia il principio-valore che riconosce
una dimensione europea ai diritti fondamentali. E’ ormai da considerare acquisito il
dato che vede comunque insufficienti la tutela apprestata anche dalle più avanzate ed
aggiornate Carte costituzionali, bisognosa di essere sorretta ed integrata da ulteriori garanzie.
La salvaguardia dei diritti fondamentali sfugge al controllo dei trattati e non soggiace alla
logica pattizia che fino in questo momento aveva governato in misura soffocante l’Unione.
Può dirsi che l’Unione, a prescindere dalla Carta dei diritti di Nizza-Strasburgo, si è già in parte
costituzionalizzata grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia.

6. Ulteriori contestazioni alla configurazione di una Costituzione dell'UE e loro confutazione:
a) riguardo della derivazione dei diritti fondamentali tutelati in ambito europeo dai serbatoi
apprestati dalle Costituzioni nazionali.
Circa la configurazione di una Costituzione europea sono stati mossi ulteriori rilievi. Tre in
particolare le osservazioni fatte, due di ordine dogmatico-positivo ed una di carattere storico-
teorico.
Secondo la prima tesi, l'UE non dispone di un patrimonio di diritti fondamentali suo proprio,
distinto da quello dei singoli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. Senza dunque il
riferimento alle Costituzioni nazionali, l’Unione non saprebbe da dove attingere quella che è
l’essenza delle Costituzioni d’ispirazione liberale. Tuttavia a questa tesi si possono muovere
due opposizioni:
Ø I diritti, per come riconosciuti in ambito europeo, non coincidono interamente con gli
omologhi diritti delle Costituzioni nazionali perché costituiscono il frutto di una
rielaborazione giurisprudenziale della CDG;
Ø I diritti delle singole Carte nazionali non possono dirsi pienamente autonomi in quanto
devono essere senza sosta reinterpretati alla luce dei riconoscimenti fatti in seno alla
Comunità internazionale ed europea. Appare ormai impraticabile l’idea di una
Costituzione chiusa ed autosufficiente, che possa cioè fare a meno dell’appoggio
offertole da altre Carte dei diritti.
Lo scenario che va sempre più affermandosi è quello di un ordine intercostituzionale, nel
quale cioè le Costituzioni, quale che sia l’ambito entro il quale si affermano e fanno valere,
si dispongano a farsi alimentare l’una dall’altra sullo specifico terreno della salvaguardia
dei diritti fondamentali, allo scopo di offrire la massima tutela possibile ai bisogni avvertiti
dagli uomini.

7. Segue: il carattere parziale (e non generale) delle competenze di cui l’Unione risulta dai
trattati dotata quale ostacolo al riconoscimento della sua natura di ente originario e, perciò,
nella natura costituzionale dell’atto che la istituisce e regola. Critica.
La seconda obiezione si muove nello stesso ordine di idee della precedente e si basa su una
replica analoga a quella data. Secondo tale tesi, l'UE, diversamente dagli Stati, non dispone
che delle competenze che le sono state assegnate e pertanto può intervenire solo nei campi e
nelle forme ed ai soli effetti allo scopo prestabiliti (in realtà, non è esattamente così in quanto
l’Unione per un verso dispone anche di poteri impliciti, che possono essere esercitati in vista
del pieno conseguimento dei suoi scopi istituzionali, e per altro verso potendo operare in via
sussidiaria laddove gli Stati si dimostrino incapaci di soddisfare in modo adeguato gli interessi
loro propri). L’Unione dunque a differenza degli Stati non è un ente originario, in quanto essa
deriva da un atto di volontà degli Stati che l’hanno costituita.
Con riguardo agli Stati, il carattere generale e pieno delle loro attribuzioni discende proprio
dalla loro originarietà e, in tanto dunque può aversi, in quanto risulti appunto sorretto da tale
attributo; allo stesso tempo, l’originarietà, che secondo la tradizione teorica è una delle
espressioni tipiche della sovranità, si specchia e si rende palese proprio attraverso il carattere
non circoscritto, generale, delle attribuzioni statali.
Tuttavia si può facilmente opporre che, col fatto stesso della determinazione della sfera di
competenza dell'Unione, è ormai venuto meno il carattere generale della competenza degli
Stati, in considerevole e crescente misura limitata dagli atti con cui è operato il riparto delle
competenze medesime. Anche gli Stati non possono, dunque, ormai intervenire
sovranamente su ciò che vogliono e come vogliono, ma proprio dall’esistenza dell’Unione
sono delimitati sia negli ambiti che nei modi della loro disciplina.
Nessun ente può ormai definirsi sovrano: tutti sono derivati dall’unico vero sovrano dal quale
discende la loro esistenza, cioè la Costituzione.
Una volta venuta alla luce la Costituzione, essa fonda lo Stato, nel senso che ne stabilisce le
attribuzioni, le modalità di esercizio, i limiti. Ciò grazie al fatto che la Costituzione stessa, quale
che sia la vicenda storico-politica che ne determina l’approvazione, una volta entrata in vigore
si legittima sempre da sé: è cioè autofondante e fondativa dell’ordine positivo da essa
derivato.
La costituzionalizzazione dell’UE riproduce questo schema. Anche l’Unione è venuta a
formazione per iniziativa degli Stati e con riguardo a complessive vicende maturate in seno
alla Comunità internazionale e sovranazionale. L’Unione è in grado di produrre con i suoi atti
vincoli anche particolarmente intensi a carico degli Stati, ai quali questi ultimi non possono in
alcun modo sottrarsi.

8. Segue: c) la Costituzione quale espressione di un potere costituente che, nella sua
originaria e tipica accezione, si riferisce unicamente alle vicende proprie degli Stati. Critica.
L’ultimo rilievo, in prospettiva storico-teorica, attiene al modo stesso con cui nascono le
Costituzioni nazionali, quale prodotto di un fatto (o potere) costituente. La teoria tradizionale,
affermatasi a partire dalla rivoluzione francese, rappresenta il potere costituente come
assoluto, originario, irripetibile, fondativo di un nuovo ordine costituzionale che si pone nel
segno della discontinuità rispetto all’ordine preesistente. Una nuova Costituzione viene alla
luce, oltre che in occasione di vicende che stanno a base della nascita di nuovi Stati, per
effetto di eventi suscettibili di determinare trasformazioni profonde in seno agli Stati stessi,
quali un colpo di Stato o una rivoluzione.
Per un vero, a seguito della caduta del muro di Berlino e del crollo nell’Europa dell’Est del
modello di organizzazione statale d’ispirazione comunista, quella di potere costituente
sarebbe una nozione ormai esaurita; nessuna vicenda costituente potendosi affermare se non
nel rispetto dei diritti umani e, in genere, del patrimonio dei valori che sta a base delle
liberaldemocrazie.
Per altro verso, ove si convenga che l’essenza di Costituzione riposi in un insieme di valori
fondamentali, ne deriva che è unicamente su questo terreno che possono in modo congruo
misurarsi ed apprezzarsi tanto i fatti di continuità che quelli di discontinuità.
La discontinuità non necessariamente si deve considerare collegata ad un colpo di Stato o ad
una rivoluzione potendosi avere anche in modo indolore a conclusione di un processo a volte
anche lungo.
Il fondamento della Costituzione e del nuovo diritto dalla stessa originato non può mai essere
nel diritto stesso, bensì nella storia e nella politica, laddove ha posto e manifestazione il
potere costituente. L’Europa unita, secondo un diffuso sentire, si situa in uno di questi
processi costituenti, avviato già all’indomani della prima Comunità, la CECA, e soprattutto,
della CEE.
Quindi, per concludere, si può considerare non improprio l'uso del termine Costituzione e
diritto costituzionale con riguardo all'ordinamento europeo in formazione. Fermo restando
che tale uso richiede comunque adattamenti, integrazioni e correzioni.

9. Una notazione finale: la Costituzione europea (in senso materiale), al pari di quella
nazionale, come Costituzione parziale, l’una e l’altra, proprio per ciò, tuttavia idonee a
realizzarsi in modo pieno e così concorrere ad una parimenti piena tutela dei diritti
fondamentali.
Dalla Costituzione nazionale sembrano dunque ormai spariti gli attributi della pienezza e della
totalità. L'apertura al diritto internazionale e al diritto sovranazionale ha infatti portato le
Costituzioni nazionali a divenire fonti parziali, laddove prima, invece, erano considerate totali
(in quanto pienamente capaci di regolare in modo adeguato le varie materie). Oggi invece si
richiede che queste siano variamente integrate e sorrette da altre fonti, sia interne che
esterne.
Parzialità ed insufficienza della singola Costituzione, da un lato rischiano di condurla alla
dissoluzione, ma al tempo stesso, possono trasformarsi in uno stimolo formidabile per farla
ulteriormente crescere (alla condizione che la Costituzione non si rinchiuda, insensatamente,
in se stessa, ma si ponga nelle condizioni di farsi contagiare da altre fonti, avendosi in tal
modo la trasformazione della parzialità in una vera e propria pienezza).
Dunque, gli enunciati costituzionali devono essere costantemente oggetto di pratiche
interpretative ed applicative orientate a far espandere il nucleo duro negli stessi racchiuso,
attingendo ad indicazioni provenienti ab extra. La stessa Carta di Nizza-Strasburgo non
intende in alcun caso o modo prendere il posto delle Carte nazionali, laddove queste ultime
offrano una più efficace ed avanzata tutela ai diritti. Piuttosto, essa vuole intervenire in via
sussidiaria, colmando strutturali carenze degli ordinamenti costituzionali nazionali ovvero
offrendosi quale strumento di reinterpretazione delle Carte stesse.
E’ tra l’altro evidente che, identificandosi l’unico, vero sovrano in una Costituzione resa ancora
più forte e salda grazie alla sua integrazione con altre Carte costituzionali, la sovranità ne
guadagni in ampiezza di campi, di interventi e complessiva vitalità.
Pertanto, alla luce di quanto sopra affermato, appare contraddittorio negare l'esistenza di un
diritto costituzionale dell'Unione. Al contrario, esso può ben coesistere con il diritto
costituzionale dei singoli Stati in quanto entrambi sono così reciprocamente intrecciati, da non
potere continuare ad esistere se non appoggiandosi a vicenda.


CAPITOLO II
LE TAPPE DELL'EDIFICAZIONE EUROUNITARIA: DALL'IDEA DI EUROPA ALL'UNIONE EUROPEA.

1. L'idea d'Europa e la realizzazione dello Stato nazionale.
Nell'arco di mezzo secolo l'UE ha più che quadruplicato la sua originaria composizione politica
passando dai 6 originari Stati fondatori all'attuale configurazione a 28 membri.
Le vicende che hanno avviato, sul piano politico e giuridico, la costruzione dell'UE, dotata di
una propria personalità giuridica, trovano il loro fondamento e punto di partenza con
l'istituzione nel 1951 della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), la prima di 3
comunità destinate a dar vita a quell’unica realtà istituzionale.
Queste stesse vicende, tuttavia, traevano, a loro volta, ispirazione e spinta dagli avvenimenti
appena successivi alla seconda guerra mondiale e, in particolar modo dal desiderio di
sicurezza prodottosi nell’Europa occidentale a causa della profonda frattura nel vecchio
continente, generatasi nel clima della c.d. guerra fredda, ossia la situazione di acceso conflitto
politico e ideologico, ma non bellico tra il blocco dei Paesi dell’Ovest e quello dei Paesi
dell’Est, guidati rispettivamente da Stati Uniti e Unione Sovietica. L’idea di un’Europa unita,
ancora prima di tutti questi eventi, aveva conseguito nel nostro Paese un notevole grado di
maturazione. E’ inoltre opportuno attribuire particolare importanza alla partecipazione
dell’Italia al momento fondativo dell’ordinamento comunitario e alle tappe del suo sviluppo
successivo.
In particolare, questo ideale di Europa unita si ebbe già a partire dal Risorgimento nazionale.
L’intuizione della necessità di un più ampio spazio politico, appunto di dimensione europea, fu
presente in Giuseppe Mazzini per il quale sarebbe stato necessario anche equilibrare le
differenze che separano un mercato da un altro, aprirli tutti alla trasmissione reciproca dei
loro prodotti.
Anche nel pensiero di Cattaneo, l’idea di Europea fu legata ad un modello organizzativo dello
Stato in netta controtendenza con le vicende risorgimentali. Per lo scrittore milanese,
l’obiettivo politico del federalismo si manifestava, infatti, non solo di un’attuazione nazionale,
ma anche nella prospettiva degli Stati Uniti d’Europa. L’idea degli Stati Uniti d’Europa fu
condivisa anche da Giuseppe Garibaldi.
Il percorso verso un’Unione europea venne tuttavia successivamente emarginato dal
prevalere delle logiche degli Stati nazionali, anche in base alla diffusa convinzione che, fra le
diverse nazioni, esistessero differenze tanto radicate da non consentire la realizzazione di
quell'obiettivo.
Il principale ostacolo di ordine teorico e pratico all’affermazione di realtà sovranazionali
andava identificato nel concetto di sovranità, coessenziale all’idea stessa dello Stato moderno.
Tuttavia, neppure durante il ventennio fascista l'idea di Unione europea si oscurò
completamente. Benedetto Croce, ad esempio, parlò di una nuova coscienza, di una nuova
nazionalità. Il tema di costruzione europea costituì inoltre oggetto di un famoso convegno del
1932, animato da celebri giuristi come Vittorio Scialoja. Si auspicò dunque l’instaurazione di
un sistema politico di collaborazione effettiva e pratica tra le Nazioni europee e la creazione di
una coscienza europea.

2. La costruzione europea e l’avvio della Repubblica democratica.
Se l’idea degli Stati uniti d’Europa era già stata fatta propria dagli esuli del movimento
‘Giustizia e Libertà’ di Carlo Rosselli in funzione antinazista e antifascista, il pensiero non può
non andare soprattutto a Colorni, Hirschmann, Rossi e Spinelli, autori del Manifesto per
un’Europa Libera e Unita, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene, dove si
sottolineava come una futura federazione avrebbe dovuto avere carattere spiccatamente
politico e poggiare su una visibile struttura organizzativa idonea a fornire un maggior livello di
concretezza al processo di unificazione. La connotazione antifascista quindi caratterizzò la
fondazione a Milano del Movimento federalista europeo da parte di Spinelli.
Occorre inoltre ricordare il programma del Partito d’Azione, ricalibrato con l’ingresso di Rossi
e Spinelli che vi apportarono correttivi di tipo organizzativo.
Anche nel c.d. Programma di Milano redatto dal Partito della Democrazia Cristiana, si
esplicitò la necessità di realizzare una Federazione degli Stati europei.
Saranno proprio i principali esponenti dei partiti di ispirazione democratica-cristiana (De
Gasperi per l'Italia, Schuman per la Francia e Adenauer per la Germania) a dare un impulso
decisivo al processo di avvicinamento tra gli Stati europei, che sfocerà, dapprima nel Consiglio
d’Europa e poi nella formazione della CECA.
Lo stretto legame tra l'idea di un'Europa unita e un'alleanza tra paesi dell'Europa occidentale
indusse il partito comunista italiano, fortemente legato all'Unione sovietica, a guardare con
sospetto ad ogni possibile processo di integrazione europea in quanto reputata funzionale
all’antisovietismo e all’anticomunismo. Tuttavia l'atteggiamento del partito comunista non fu
di chiusura assoluta tanto che con Berlinguer iniziò a diffondersi l'idea di eurocomunismo,
ovvero una nuova strategia del movimento comunista occidentale per la ricerca del socialismo
nella libertà. Per altro verso, non sarebbero mancati, all’interno di questo stesso partito,
singole personalità caratterizzate da spirito europeista che si fecero fautori di nuovi rapporti
con i partiti socialisti e socialdemocratici europei, anche nella convinzione che gli ideali del
socialismo europeo coincidessero con la causa di un’Europa più unita politicamente, più forte
e solidale.
Personalità di spicco si ritrovano anche in altre formazioni politiche dell’area marxista, come il
Partito socialista italiano di unità proletaria. Colorni dichiarò che i socialisti italiani vogliono
che dalla pace che seguirà alla guerra siano poste le basi di un ordinamento che tenda a
creare una Federazione libera degli Stati europei.
Per quanto riguarda il Partito liberale italiano, in esso militava Luigi Einaudi, futuro Presidente
della Repubblica, portatore di forti istanze europeiste, soprattutto nell’ambito dell’Assemblea
costituente.
Infine, il Partito repubblicano italiano richiamava alle posizioni di Mazzini e Cattaneo. A tale
partito ritenne poi di aderire Carlo Sforza, uomo profondamente attaccato all’ideale di
solidarietà europea.

3.L'Europa all'Assemblea costituente.
Luigi Einaudi, nell’Assemblea costituente, disse che ai fini della realizzazione degli Stati Uniti
d’Europa occorreva che i parlamenti degli Stati rinunciassero ad una parte della loro sovranità
a favore di un parlamento nel quale siano rappresentati direttamente i popoli europei nella
loro unità, senza distinzione tra Stato e Stato. Questo, disse, era l’unico ideale capace di
salvare la vera indipendenza dei popoli, la quale non consiste nelle armi, nelle barriere
doganali, nella limitazione di sistemi ferroviari, fluviali, elettrici ecc, bensì nella scuola, nelle
arti, nei costumi, nelle istituzioni culturali.
Questa enunciazione dello statista piemontese coincide con quanto poi fu scritto nell’art 11
della Costituzione repubblicana circa la disponibilità dell'Italia a cedere quote della propria
sovranità ad organizzazioni internazionali costituite per assicurare la pace e la giustizia tra le
Nazioni.
L’art 11, concepito soprattutto per consentire l’adesione dell’Italia all’Organizzazione delle
Nazioni Unite, costituirà in seguito la base di appoggio per legittimare le limitazioni di
sovranità derivanti dalla partecipazione dell’Italia, quale membro fondatore, alla CEE.
L’on. Celeste Bastianetto tuttavia argomentò che fosse prematuro pensare agli Stati Uniti
d’Europa. Nonostante ciò suggerì di inserire accanto alle “limitazioni di sovranità necessarie”
anche l’esplicito richiamo all’ “unità dell’Europa”. Infatti, come nella Costituzione si considera
l’uomo, e sopra l’uomo la famiglia, e poi la Regione e lo Stato; così sopra lo Stato, e prima
dell’organizzazione mondiale internazionale, vi è l’Europa, perché prima di tutto si è cittadini
europei.

4. Prove di integrazione sotto la tutela americana: il ruolo dell’Italia.
Subito dopo l'entrata in vigore della Costituzione, l'itinerario che avrebbe condotto
all'allestimento della Comunità europea si intrecciò con altri percorsi.

Il primo dei suddetti percorsi, che porterà all'istituzione della diversa (rispetto alla Comunità
europea) organizzazione internazionale del Consiglio d'Europa, ebbe avvio nel 1948 all'Aja con
il Congresso svoltosi sotto la presidenza di W. Churchill. Durante il suo svolgimento si
confrontarono quelle che erano le tesi maggiormente rappresentative in ordine all'idea di
Unione europea.
a) Costituzionalisti (o federalisti): fautori di una nuova entità politica di tipo federale che
assorbisse le realtà nazionali;
b) Unionisti (o confederalisti): favorevoli a salvaguardare, pur nell'ambito di stretti accordi
internazionali, gli Stati nazionali nella pienezza della loro sovranità;
c) Funzionalisti: favorevoli ad un primato dei fattori tecnici ed economici da far gestire ad
istituzioni centrali.
Dal Trattato di collaborazione economica, sociale e culturale e di autodifesa collettiva
stipulato a Bruxelles scaturì nel 1949 a Londra, il Consiglio d’Europa, con gli obiettivi di offrire
specifica tutela ai diritti dell’uomo e di concludere a tale scopo, accordi su scala internazionale
per armonizzare le pratiche sociali e giuridiche degli Stati membri.
Nello stesso anno e sempre dal Trattato di collaborazione di Bruxelles, scaturì anche
l’Organizzazione intergovernativa di sicurezza e difesa, che a seguito di una sua riforma
assumerà la denominazione di Unione dell’Europa Occidentale (UEO).
Tornando al Consiglio d’Europa, secondo Spinelli, affinché esso potesse essere considerato un
effettivo strumento di unificazione occorreva:
1) Un certo insieme di affari gestiti in comune;
2) Un insieme di organi europei legislativi, esecutivi e giudiziari capaci di amministrare in
maniera efficace tali affari;
3) Fondare una cittadinanza europea, di cui devono godere egualmente tutti i cittadini dei
singoli Stati.
Il Comitato dei Ministri in seno al Consiglio d’Europa ritenne tuttavia che esso fosse destinato
a rimanere un’organizzazione internazionale ben distinta dall’UE. E’ anche vero che il più
celebre dei suoi atti, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata nel 1950, finì per influenzare decisivamente la fisionomia
della stessa Unione.
Il Consiglio d’Europa proseguì la sua evoluzione partendo dai 10 Stati originari fino a
raggiungere oggi ben 47 Stati, tra cui tutti i 28 dell’UE, impegnati a rispettare al loro interno i
diritti e le libertà fondamentali, nonché i principi dello Stato di diritto e della democrazia
pluralista. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti il compito di vegliare sul rispetto
della CEDU da parte dei Paesi membri del Consiglio d’Europa.

Un secondo percorso sulla strada dell'integrazione europea fu avviato con la creazione nel
1948 dell'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE), finalizzata a
promuovere tra gli Stati membri la liberalizzazione degli scambi commerciali, industriali e
finanziari. Tra i compiti principali dell’OECE vi era quello di coordinare l'attuazione del piano
Marshall (programma di aiuti economici americano). All’ONCE aderì anche l’Italia: Alcide De
Gasperi sostenne che tale adesione fosse una scelta qualificante della politica estera italiana.
L'OECE venne però compromessa da due fattori: la creazione della Comunità economica
europea e l'istituzione della Zona europea di libero scambio (EFTA). Quindi nel 1960 con lo
Accordo di Parigi l'OECE finì per optare per una diversa configurazione trasformandosi in
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e allargando la
partecipazione anche ad altri Paesi extraeuropei.
Non bisogna dimenticare, in questo contesto, l’influenza che ebbe sia riguardo l’istituzione del
Consiglio d’Europa sia dell’ONCE, il patrocinio americano finalizzato a compattare e ad
orientare il blocco occidentale in funzione ostile all’Unione Sovietica, con la quale era in atto
la guerra fredda.
I Paesi dell’Europa orientale, assoggettati all’egemonia sovietica, al fine di agevolare gli
scambi tra i Paesi comunisti istituirono il COMECON (Consiglio di mutua assistenza economica,
un’organizzazione internazionale comprensiva anche di Paesi extraeuropei).
L’Italia invece faticò a far parte del Patto Atlantico, firmato nel 1949 a Washington, con lo
scopo di collegare la politica di difesa degli Stati Uniti e del Canada a quella dei Paesi
dell’Europa dell’Ovest in funzione antisovietica, e da cui ebbe origine nel medesimo anno,
l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO).

La nascita della Comunità europea di difesa (CED) ruotò attorno alla questione della rinascita
economica e militare della Germania occidentale, ricostituitasi in entità statale indipendente
(Repubblica federale tedesca), distaccata dalla parte orientale del territorio tedesco,
rivendicando a sua volta la sua indipendenza (Repubblica democratica tedesca). Di fronte,
infatti, al riarmo tedesco, patrocinato dagli americani in funzione antisovietica, la Francia
propose la formazione della CED, nella quale la politica tedesca potesse essere coordinata con
quella degli altri alleati europei. In quest’occasione un ruolo essenziale fu ancora svolto da De
Gasperi, che sotto l’influenza di Spinelli, propose di inserire nel Trattato CED un articolo, il 38,
che assegnava all’Assemblea di studiare la costituzione di un organo rappresentativo eletto su
basi democratiche e di disegnare i poteri. Si previde, inoltre, che tale organo dovesse
elaborare proposte per una nuova organizzazione europea di carattere federale o
confederale.
Il trattato CED fu stipulato nel 1952, a Parigi, dai Ministri degli stessi Stati che l'anno prima
avevano stipulato il trattato CECA. Tuttavia, al momento della ratifica giunse il voto contrario
di Francia e Italia, cioè dei due Paesi che maggiormente ne avevano sostenuto la formazione.
In tal senso risultò determinante per l’Italia l’uscita di scena di Alcide de Gasperi. Ciò, di
conseguenza, comportò il fallimento della CED rinviando di più di mezzo secolo l'allestimento
di una politica europea di difesa.

5. La CECA e il decollo dell’integrazione: l’adesione dell’Italia.
La nascita della Comunità Europea del carbone e dell’acciaio si verificò in parallelo e con taluni
intrecci con la vicenda relativa alla CED.
Nel 1950, il ministro degli esteri francese propose di mettere in comune la produzione
franco-tedesca del carbone e dell’acciaio in un organizzazione aperta alla partecipazione di
altri Stati europei.
La cosiddetta dichiarazione Schuman è il discorso tenuto a Parigi il 9 maggio 1950 da Robert
Schuman, l'allora Ministro degli Esteri del governo francese, che viene considerato il primo
discorso politico ufficiale in cui compare il concetto di Europa come unione economica e
politica tra i vari Stati europei e rappresenta l'inizio del processo d'integrazione europea.
L’obiettivo politico immediato era quello di ancorare stabilmente la Germania all’Europa e di
eliminare le rivalità tra Francia e Germania in un’area strategica, come i bacini della Rhur e
della Saar, tradizionalmente oggetto di conflitto di interessi fra i due paesi.
Il fronte italiano si mostrò solidale nei confronti delle iniziative di integrazione europea. De
Gasperi, infatti, partecipò al progetto, seguendone tutte le varie fasi e spingendo per
l’immediata adesione, con la sottoscrizione del relativo Trattato, a Parigi nel 1951, tanto da
venire eletto egli stesso, Presidente dell’Assemblea della CECA.
Quindi, i negoziati aperti a Parigi tra sei Stati (Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia,
Germania, Italia), portarono alla firma del Trattato di Parigi del 1951 istitutivo della Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per la durata di 50 anni.
Il vero decollo dell’integrazione comunitaria può, pertanto, essere fatto coincidere con
l’istituzione della CECA, la quale esibì un tratto peculiare rispetto alle organizzazioni
dell’occidente europeo: ossia l’inedita presenza, accanto ad organi di natura tipicamente
internazionali, di un’Alta autorità, capace di decidere in modo indipendente dal consenso
unanime degli Stati membri: si parla per la prima volta del carattere sovranazionale
dell’organizzazione. Erano previsti inoltre un Consiglio dei Ministri, con poteri di controllo,
un’Assemblea parlamentare, una Corte di giustizia. Altri elementi che denotarono il suo
carattere sovranazionale furono: l’efficacia diretta negli ordinamenti delle sue decisioni
generali, l’attribuzione di risorse proprie al bilancio europeo, il principio del voto a
maggioranza nel Consiglio dei Ministri, la possibilità dell’elezione diretta del Presidente da
parte dell’Assemblea parlamentare comune.

6. Verso i Trattati di Roma: l’iniziativa italiana.
Dopo il fallimento della CED, Il rilancio dell'idea europeista si ebbe con la Conferenza di
Messina dei ministri degli esteri della CECA dove fu dato l’incarico ad una commissione di
esperti di studiare le iniziative per proseguire il percorso dell’integrazione. La commissione
elaborò due progetti: uno che prevedeva la creazione di un mercato comune generalizzato ed
uno più specifico riguardante la creazione di una Comunità per l’energia atomica. Tali progetti
entrarono in vigore nel 1957, con i Trattati di Roma istitutivi della Comunità economica
europea (CEE) e della Comunità Europea per l’energia atomica (CEEA o EURATOM), entrambi
i trattati entrarono in vigore nel 1958.
Con i Trattati di Roma, di durata illimitata rispetto al Trattato CECA, si era dunque dato vita a
due nuove comunità, i cui obiettivi erano:
1) Per la CEE, la creazione di un mercato comune europeo tra gli Stati membri tramite
un’Unione doganale, nonché la fissazione di politiche concertate nel campo agricolo,
commerciale e dei trasporti;
2) Per l’EURATOM, il raggiungimento dell’indipendenza energetica dell’Europa,
circoscrivendo comunque il campo d’azione al settore dell’energia nucleare civile e
pacifica.
Per quel che riguarda l’assetto istituzionale si seguì quello relativo alla CECA (c.d. triangolo
istituzionale), basato su un Consiglio, una Commissione e un’Assemblea parlamentare, con
accanto una Corte di Giustizia. Anche in questo assetto si rinvenì quell’elemento di
sovranazionalità che caratterizzò la CECA.
Per il raggiungimento dei loro scopi, le due Comunità, come la CECA, vennero dotate del
potere di produrre discipline cogenti di varia portata e natura, attraverso una serie di atti
(regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri).
Tra i due Trattati, solo quello EURATOM, proseguì la politica d’integrazione per i settori (come
la CECA), mentre quello CEE inaugurò la nuova linea dell’integrazione c.d. orizzontale,
imperniata su un’unione economica da raggiungere con gradualità, grazie alla libera
circolazione dei fattori produttivi del lavoro, delle merci, dei servizi e dei capitali.

7. I trattati di Roma alla prova: dalla crisi d’avvio al consolidamento istituzionale. La querelle
tra Italia e Francia per l’adesione britannica.
Nella prima fase del loro funzionamento, le Comunità europee sperimentarono una fase
piuttosto convulsa, contrassegnata tra l’altro dai tentativi dei britannici di entrare a far parte
della nuova realtà economica, soprattutto dopo l’insuccesso dell’EFTA.
In questo stesso periodo, anche l’atteggiamento dell’Italia, da sempre favorevole, conobbe
notevoli incertezze.
Il cammino dell'integrazione dunque incontrò varie difficoltà soprattutto a seguito della
politica del generale De Gaulle ostile a ogni aspetto di sovranazionalità nel funzionamento
delle istituzioni europee, culminata con l’opposizione della Francia a utilizzare il voto a
maggioranza in seno al Consiglio e che portò al c.d. compromesso di Lussemburgo con cui
venne generalizzata la prassi della votazione all’unanimità. Quindi un atto poteva ritenersi
adottato soltanto se nessuno si fosse espressamente opposto.
De Gaulle, inoltre, fu ostile all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. Sempre la
Francia ostacolò anche il nuovo progetto di unione politica presentato dall’allora Ministro
degli Esteri italiano e futuro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Sul piano interno, il 1964 fu per l’Italia un anno cruciale. La Corte Costituzionale, infatti, con
sentenza n.14 del 1964, presupponendo la pari efficacia di leggi interne e norme comunitarie,
fece leva sul classico criterio della successione cronologica, provocando, però la reazione della
Corte di Giustizia che nella successiva pronuncia (sentenza Costa-Enel) affermò la limitazione
senza riserve della sovranità degli Stati membri nei settori coperti dalle norme di origine
comunitaria, da considerarsi vincolanti tanto per i cittadini quanto per gli stessi Stati.
Successivamente, con due ravvicinate sentenze la Corte attribuì ai diritti fondamentali della
persona lo status di principi generali di diritto comunitario, di cui essa stessa avrebbe
garantito la protezione.
Una volta uscito di scena De Gaulle e con l’elezione di Pompidou, si decise di ammettere
l’ingresso della Gran Bretagna nella CEE.
Avvenne così che, alla Conferenza indetta all’Aja nel 1969 furono poste le premesse per un
ulteriore sviluppo dell’integrazione comunitaria, tra cui l’allargamento della Comunità, la
fissazione di risorse proprie della Comunità medesima e l’elezione diretta del Parlamento
europeo. Insieme alla Gran Bretagna dunque fecero ingresso nella Comunità anche la
Danimarca e l’Irlanda.
Con i trattati concernenti i nuovi ingressi furono per la prima volta quelle condizioni che
saranno puntualmente riprese per ogni successiva adesione: ossia l’assunzione da parte degli
Stati entranti di determinati impegni, la corrispondente modificazione della composizione
delle istituzioni comunitarie e la previsione di misure transitorie per l’ingresso dei nuovi
arrivati. Ciò dunque dimostrò il concreto carattere aperto delle organizzazioni comunitarie.

9. La crisi economica degli anni ’70 e la ricerca dell’unione monetaria. Le incertezze e le
difficoltà italiane.
Al momento della creazione della CEE, i sei Paesi fondatori partecipavano al sistema
monetario internazionale fissato a Bretton Woods nel 1944 e caratterizzato da alcuni tassi di
cambio fissi tra le monete (gold-dollar standard). Sostanzialmente, ciascuna moneta era
legata al dollaro e il dollaro, a sua volta, era legato secondo un tasso fisso all’oro.
Il crollo di questo sistema provocò un’instabilità monetaria generale che condusse gli Stati
membri alla ricerca di nuove formule di stabilità e alla costituzione di un’unione monetaria.
I governatori delle Banche centrali degli Stati membri erano addivenuti alla firma di un
accordo per la creazione di un sistema di reciproco sostegno monetario a breve termine, nella
prospettiva di una maggiore solidarietà monetaria. Il secondo passo fu la creazione nel 1972
del c.d. serpente monetario, rivolto a limitare i margini di fluttuazione tra le monete nazionali
al fine di impedire che sorgessero ostacoli valutari alla libera circolazione delle merci.
Nel vertice svoltosi a Parigi nel 1972 furono messi a punto due obiettivi: l’allestimento di
un’Unione economica e monetaria e la trasformazione del legame tra i Paesi della CEE in
un’Unione costruita su una base più ampia dell’ambito puramente economico. Dal vertice
parigino emerse, in particolare, la questione monetaria. In un primo momento, si era
addirittura pensato di escludere l’Italia sia per il suo poco rilevante ruolo europeo, sia per
l’instabilità politica ed economica interna che la faceva apparire incapace di far fronte agli
impegni assunti. Fu solo grazie alle pressioni degli americani che l’Italia poté essere presente.
La situazione interna italiana dell’epoca era molto grave a causa dell’emergenza determinata
dal terrorismo, culminata nel rapimento e nell’assassinio di Aldo Moro. Per questo motivo, il
Consiglio europeo approvò una dichiarazione in cui la Comunità manifestò la volontà di
proteggere i diritti individuali e le fondamenta delle istituzioni democratiche.
Nello stesso vertice di Brema nel 1978 venne istituito il Sistema monetario europeo (SME).
Venne dunque introdotta una nuova unità monetaria di riferimento (l’ECU), computata sulla
media di tutte le monete dei Paesi comunitari, sia un meccanismo di cambio tra Paesi
caratterizzato da una fluttuazione massima del 2,25 %.

9. Gli sviluppi istituzionali degli anni ’70. L’elezione diretta del Parlamento europeo.
Un nuovo vertice tenutosi a Parigi nel 1974 introdusse sostanziali novità, istituzionalizzando la
convocazione, tre volte l’anno, dei Consigli europei con la partecipazione dei capi di Stato e di
Governo, accompagnati dei rispettivi Ministri degli Esteri.
Il Trattato di Lussemburgo del 1970 aveva invece attribuito al Parlamento alcuni poteri di
bilancio, con la creazione di un sistema di risorse proprie della Comunità.
Con il Trattato di Bruxelles del 1975 al Parlamento fu, inoltre, riconosciuto il potere di
respingere il bilancio e di concedere il discarico alla Commissione per la sua esecuzione. Con il
medesimo Trattato venne istituita la Corte dei Conti comunitaria.
Ma la novità più rilevante fu l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale e
diretto. Fu, infatti, il Consiglio europeo di Roma nel 1975 a decidere per tale sistema di
elezione dei rappresentanti nell’assemblea a suffragio universale e diretto.
Le prime elezioni ebbero luogo in Italia il 10 giugno 1979, influenzate dalle elezioni politiche
fissate per la domenica immediatamente precedente. Ciò comunque contribuì in maniera
decisiva a chiarire la posizione dei movimenti e dei partiti politici italiani rispetto al tema
dell’integrazione comunitaria. In particolare, la candidatura di Spinelli nelle liste del partito
comunista rafforzò la scelta europeista di questo stesso partito.
Si collocano in questo contesto due fondamentali decisioni della Corte Costituzionale e della
Corte di Giustizia circa la collocazione del diritto comunitario negli ordinamenti nazionali e, un
particolare, nel nostro ordinamento costituzionale.
La Corte Costituzionale, superando la precedente sentenza n.14 del 1964, riconobbe il
primato del diritto comunitario, sia pure con la riserva del rispetto del c.d. controlimiti
costituiti dai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dai diritti
inalienabili della persona umana.
Non meno importante fu la pronuncia della Corte di Giustizia (sentenza Simmenthal) con cui
affermò l’incondizionata preminenza delle norme comunitarie su quelle interne, affidando ai
giudici nazionali il compito di garantire la piena efficacia delle prime, disapplicando
all’occorrenza le seconde.

10. Verso le revisione dei Trattati: L’Atto unico europeo e il referendum italiano di indirizzo
per il mandato costituente al Parlamento europeo.
Negli anni 80 si verificarono numerose iniziative tendenti a rilanciare il processo di
integrazione europea. Il Consiglio europeo di Stoccarda nel giugno 1983 adottò una
dichiarazione solenne dell'Unione europea con la quale si auspicava una maggiore coerenza
nell'azione delle Comunità e un rafforzamento dei rapporti tra gli Stati membri, estesi anche
alle relazioni internazionali.
Spinelli rilanciò l’idea di un’organizzazione europea sempre più stretta dal punto di vista
politico, sostenuto da un nutrito gruppo di eurodeputati riuniti nel c.d. Club del Coccodrillo.
Nel progetto di Spinelli fu prevista la creazione di un’Unione europea di tipo federale, di cui il
Consiglio europeo sarebbe stato l’organo più attivo, in stretta sinergia con il Parlamento e la
Commissione, ai quali erano riconosciuti poteri simili a quelli dei Parlamenti e dei Governi
nazionali. Tale progetto non ebbe favorevole accoglienza da parte di alcuni Stati e non ebbe
dunque seguito.

Il Consiglio europeo tenutosi a Fontainbleau incaricò un Comitato composto dai
rappresentanti dei Capi di Stato o di Governo di elaborare proposte per migliorare il
funzionamento del sistema comunitario anche nel campo della cooperazione politica. Il
rapporto fu esaminato dal Consiglio europeo di Milano del 1985, che decise di convocare una
conferenza intergovernativa la quale diede vita all’Atto Unico Europeo (AUE) entrato in vigore
nel 1987.
L'AUE ha introdotto numerose rilevanti modifiche di carattere istituzionale:
1) La formalizzazione del Consiglio europeo che emanava le direttive politiche generali ed
esprimeva la posizione comune sui problemi relativi alle relazioni esterne;

2) Il ristabilimento della votazione a maggioranza qualificata nel Consiglio per le misure di
armonizzazione relativa al mercato interno;
3) Il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo nel procedimento decisionale;
4) L’estensione delle competenze della Comunità a nuovi settori come l'ambiente, la
ricerca scientifica e fissazione di una data vincolante (31 dicembre 1992) per attuare il
completamento del mercato interno;
5) Trasformazione dell'insieme delle relazioni tra gli Stati membri in una Unione europea e
conferimento alla cooperazione politica europea CPE di un inquadramento giuridico e
formale che prima non aveva. Organi della CPE erano: il Comitato politico, con il
compito di dare impulso continuità alla cooperazione; il Gruppo dei corrispondenti
incaricato di seguire l'attuazione della CPE in base alle direttive del Comitato; il
Segretariato che assisteva la presidenza nella preparazione della cooperazione e nelle
questioni amministrative.

Nonostante la rilevanza delle modifiche istituzionali e sostanziali apportate dall'Atto unico,


esse si rivelarono inadeguate a perseguire quegli sviluppi ormai avvertiti come indispensabili
per proseguire nel cammino verso un'Unione europea. Occorreva dunque apportare ulteriori
modifiche istituzionali al fine di rinforzare la legittimità democratica e consentire alla
Comunità di affrontare le nuove esigenze, come quella di giungere a un’unione economica e
monetaria che appariva indispensabile ai fini dell’unione politica. In tal senso apparve
rilevante il ruolo di Delors e della sua proposta di introduzione di un’entrata erariale europea,
aggiuntiva rispetto alle 3 tradizionali della Comunità (prelievi agricoli, dazi doganali, quota di
gettito IVA). Proposta che però non fu accolta.
Successivamente, il rapporto di Delors presentato nel 1989 ottenne l’assenso senza riserve
dell’Italia. Sulla base di tale rapporto, il Consiglio europeo di Madrid delineò gli elementi volti
a dare vita:
a) All’unione economica e monetaria;
b) Alla banca centra europea (BCE);
c) Alla moneta unica.
Esso inoltre costituì il documento base attraverso cui si perverrà alla stipula del Trattato di
Maastricht nel 1992.
Nel 1989 fu inoltre indetto un referendum di indirizzo che proponeva l’attribuzione al
Parlamento europeo di poteri costituenti in vista della trasformazione delle Comunità
europee in un effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento
medesimo.
Va inoltre ricordata l’approvazione della L. La Pergola, poi sostituita nel 2005 dalla L.
Buttiglione la quale fu sostituita, a sua volta, dalla L. 24 dicembre del 2012: si trattava di
normative congegnate per consentire all’Italia di recepire gli obblighi comunitari.
Si collocano in questa fase due fondamentali pronunce della Corte costituzionale: la prima fu
la sentenza del 1984 in cui sostenne che alla normativa derivante dal Trattato direttamente
applicabile dovesse essere assicurata diretta ed ininterrotta efficacia. Quindi il regolamento
comunitario va applicato sempre e subito dal giudice italiano, anche in presenza di
confliggenti disposizioni della legge interna. La seconda sentenza del 1987 ribadì come, a
condizione del rispetto dei controlimiti, le norme comunitarie si sostituiscano a quella della
legislazione interna e che, se abbiano derogato a norme di rango costituzionale, debbano
ritenersi equiparate a queste ultime, in virtù dell’art 11 Cost.

11. Verso l’unione politica e monetaria: le presidenze italiane.
Ai Consigli europei che si tennero a Roma nel 1990 vennero allestite due conferenze
intergovernative, rispettivamente sull’unione monetaria e su quella politica, che portarono, in
seguito alla firma del Trattato di Maastricht. Nel secondo di tali due avvenimenti si registrò, in
particolare, il consenso sul concetto di cittadinanza europea e di affermò la necessità di
istituire un mediatore europeo a tutela dei diritti dei cittadini nei confronti delle istituzioni
comunitarie.
Ne frattempo, il 27 novembre del 1990, l’Italia aderì alla Convenzione di Shengen. Tale
Convenzione prevedeva l’abolizione dei controlli interni tra gli Stati firmatari, creando una
frontiera esterna unica lungo la quale i controlli all’ingresso nello spazio Shengen sarebbero
stati effettuati secondo procedure identiche, ed istituendo il SIS (sistema d’informazione
Schengen) che consente di disporre dei dati riguardanti le persone segnalare e gli oggetti
ricercati al fine di potenziale la capacità di controllo degli Stati aderenti. Tuttavia, l’ingresso
effettivo dell’Italia nell’area Schengen si ebbe solo nel 1998.
All’accordo di Shengen partecipano attualmente quasi tutti gli Stati membri dell’Unione e il
Principato di Monaco, in forza dei suoi particolari rapporti con la Francia; l’Irlanda e la Gran
Bretagna condividono, invece solo parzialmente l’acquis di Schengen, in quanto sono stati
mantenuti i controlli alle loro frontiere. Ne restano ancora fuori Bulgaria, Romania, Cipro e
Croazia.
Dopo tali svolgimenti, l’avvenimento di maggior rilievo è costituito dalla firma il 7 febbraio
1992 del Trattato sull’UE (TUE) noto anche con il nome di Trattato di Maastricht, destinato a
modificare i Trattati precedenti (CEE, CECA ed EURATOM) e l’Atto unico europeo.
Le innovazioni più rilevanti di tale Trattato furono:
a) La cittadinanza europea implicante particolari situazioni soggettive di vantaggio per i
suoi titolari (es, il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri ed il diritto per ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui
non è cittadino, di votare ed essere eletto alle elezioni comunali e a quelle per il
Parlamento europeo alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato ospite);
b) L’avvio di nuove politiche a rinforzo dell’acquis comunitario (politica industriale, grandi
reti di trasporto transeuropee, protezione dei consumatori, educazione, formazione
professionale, cultura e sanità pubblica);
c) L’applicazione del principio di sussidiarietà per garantire una migliore distrubuzione
delle competenze tra i livelli comunitario, statale e regionale nelle materie non di
competenza esclusiva della Comunità;
d) L’istituzione del Comitato delle Regioni, quale inizio di un coinvolgimento delle
autonomie territoriali nelle dinamiche comunitarie;
e) La differenziata struttura dei c.d. tre pilastri dell’Unione europea (ordinamento
comunitario, PESC, GAI).
Il primo pilastro costituisce la forma più avanzata di comunitarizzazione, con
l’inquadramento delle 3 Comunità europee in un’Unione economica e monetaria. Nello
stesso tempo, la CEE si trasformò in CE, con la volontà di estendere le competenze
comunitarie a settori non più soltanto economici. In quest’ambito, era centrale il c.d.
metodo comunitario, basato in particolare:
- Sul monopolio del diritto d’iniziativa della Commissione;
- Sul ricorso generalizzato al voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio;
- Sul ruolo, talvolta colegislatore insieme al Consiglio, del Parlamento europeo;
- Sulla sussistenza di atti dotati di efficacia diretta negli ordinamenti interni;
- Sull’operatività di una giurisdizione coincidente con la Corte di Giustizia ed il
Tribunale di 1° grado.
Rimaneva invece fermo il metodo intergovernativo, senza cioè alcun trasferimento di
sovranità dagli Stati membri, per quanto riguardava sia il secondo pilastro, con cui i
Capi di Stato o di Governo degli Stati membri convennero sulla necessità di sviluppare
progressivamente una politica estera e di sicurezza comune (PESC), sia il terzo pilastro,
per cui la cooperazione si estese ai settori della giustizia e degli affari interni (GAI).

Successivamente, vennero poste le basi per la revisione del Trattato di Maastricht, che prese
vita nel Consiglio europeo di Amsterdam il 16-17 giugno del 1997, durante il quale l’Italia si
battè a favore delle decisioni a maggioranza, ritenute sempre più necessarie a causa
dell’ampliamento del numero dei membri.
Il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre del 1997, intervenne in diversi settori,
allargando ulteriormente, rispetto a Maastricht, il campo delle politiche comunitarie,
soprattutto nel campo della tutela dei diritti fondamentali, ma anche in ordine alle questioni
di carattere sociale e della piena occupazione. Fu con il Trattato di Amsterdam che venne
dichiarato che l’Unione si basa sui principi della libertà, della democrazia, del rispetto dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Si arricchirono così i parametri della tutela
affidata alla Corte di Giustizia, in aggiunta a quanto già proclamato dal Trattato di Maastricht,
con riferimento al rispetto dei diritti garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo.
Inoltre, circa il secondo pilastro venne rafforzato ad Amsterdam il ruolo dell’Unione come
tale, facendosi progredire l’idea di un’identità comune europea con riguardo agli obiettivi
della sicurezza e della difesa. Venne rafforzata anche la cooperazione giudiziaria e di polizia
del terzo pilastro.
Un’importante innovazione di carattere istituzionale riguardò la partecipazione del
Parlamento europeo alla designazione del Presidente della Commissione, nella prospettiva di
una maggiore legittimazione democratica dell’istituzioni dell’Unione, cui corrispose anche un
rafforzamento dei poteri dell’assemblea sul piano delle procedure di codecisione.
Venne infine realizzata un’Unione economica e monetaria a cui si giunge attraverso 3 fasi:
durante la prima era stata sancita la libertà totale di circolazione dei capitali e l’abolizione del
controllo sui cambi; durante la seconda venne istituito l’Istituto monetario europeo (IME);
nell’ultima invece è stata prevista la creazione di una moneta unica e l’entrata in funzione
della Banca centrale europea.

12. Origini, vicende e insuccesso del Trattato costituzionale.
Al Consiglio europeo straordinario di Biarritz venne approvato il progetto della Carta dei diritti
fondamentali dell’UE che sarà proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Nella stessa occasione,
venne stipulato un nuovo Trattato volto a modificare sia il Trattato di Amsterdam che il
Trattato CE, allo scopo di adeguare il funzionamento delle istituzioni comunitarie
all’allargamento ai Paesi dell’Est europeo (c.d. Trattato di Nizza).
Tra le innovazioni si possono segnalare:
a) La designazione del Presidente della Commissione e dei suoi componenti a
maggioranza qualificata del Consiglio;
b) Riponderazione dei voti di ciascuno Stato nell’ambito del Consiglio;
c) Determinazione dei componenti effettivi della Commissione, a seconda
dell’allargamento ai nuovi Stati membri;
d) Rendere più omogeneo lo status dei deputati europei;
e) Facilitare il meccanismo delle c.d. cooperazioni rafforzate, già introdotte ad
Amsterdam;
f) L’estensione della procedura a maggioranza qualificata;
g) La riforma del sistema giurisdizionale.

Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa fu firmato solennemente a Roma il 29
ottobre 2004. Esso non si discosta dai precedenti Trattati, ma si distingue anzitutto per
l'ambizione di fondare una Costituzione europea introducendo alcuni principi fondamentali,
tra cui valori e obiettivi dell'Unione; il maggior risalto conferito alla cittadinanza europea;
l'inserzione di un apposito Titolo specificatamente dedicato alla vita democratica dell'Unione
che rafforza sia il principio della democrazia rappresentativa, basato sulla rappresentanza
diretta dei cittadini a livello dell’Unione attraverso il Parlamento europeo, sia il principio della
democrazia partecipativa che implica un dialogo regolare e trasparente delle istituzioni con la
società civile, lo scambio di opinioni nei settori d'azione dell'Unione, le consultazioni della
Commissione con le parti interessate nonché la possibilità di dotare del potere di iniziativa
legislativa i cittadini dell'Unione i quali possono invitare la Commissione a presentare una
proposta appropriata su materie per le quali ritengono necessaria l'adozione di un atto
normativo. Quanto alla natura, non vi è dubbio che il Trattato debba considerarsi un accordo
internazionale e non una Costituzione nel senso classico di una Carta fondamentale di uno
Stato unitario sovrano.
Il Trattato costituzionale abolisce la distinzione introdotta con il Trattato di Maastricht dei tre
pilastri in cui si articola l'Unione europea delineando un insieme unitario.
La nuova Unione subentra ad entrambe e ad essa viene riconosciuta quella personalità
giuridica rispetto alla quale i testi in vigore tacevano. Inoltre si afferma per la prima volta in
termini espliciti, come principio generale, che il Consiglio delibera a maggioranza qualificata
salvo contraria previsione della Costituzione.
Una delle operazioni più significative consiste nell'aver incorporato nel Trattato costituzionale
la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
con alcuni aggiustamenti e l’aggiunta degli articoli finali che ne definiscono la portata. Viene
conferito ai diritti in essa sanciti forza giuridica vincolante per le istituzioni e gli organi
dell'Unione nonché per gli stessi Stati membri quando operano nell'attuazione del diritto
dell'Unione.
Viene previsto per la prima volta anche il diritto dello Stato membro di recedere dall'Unione
europea. La novità di maggior rilievo consiste nell’aver incluso a tutti gli effetti il Consiglio
europeo tra le istituzioni dell’Unione, dotandolo di un presidente in carica per 2 anni e mezzo.
Altra novità è la figura del Ministro degli affari esteri che sostituisce quella dell'Alto
rappresentante per la PESC.
Il Trattato costituzionale sarebbe dovuto entrare in vigore quando tutti gli Stati membri
avessero depositato il loro strumento di ratifica, e comunque il 1 novembre 2006. Alcuni Stati
hanno scelto di sottoporre a referendum l'approvazione della ratifica, rendendo così meno
agevole e sollecita l'entrata in vigore del Trattato (come Francia e Paesi Bassi). Per questo
motivo tale Trattato non ebbe successo.

13. Il Trattato di Lisbona e la semplice revisione dei Trattati.


Il Consiglio europeo, a Lisbona, nella notte tra il 18 e il 19 ottobre adottò un nuovo Trattato,
redatto in 255 pagine, alla cui sottoscrizione si procedette il 13 dicembre 2007, sempre a
Lisbona.
Con questo nuovo progetto di riforma si volevano recepire le innovazioni introdotte nel
Trattato costituzionale. Era previsto che il Trattato di Lisbona entrasse in vigore il 1° gennaio
2009 a seguito del deposito di tutti gli strumenti di ratifica da parte degli Stati membri
secondo le rispettive norme costituzionali.
A tal proposito tutti gli Stati membri avevano espresso la decisione di procedere alla ratifica
previa la sola autorizzazione parlamentare, al fine di evitare lo scoglio della consultazione
popolare che aveva fatto naufragare il precedente progetto costituzionale (eccezion fatta per
l’Irlanda che voleva evitare il rischio di bloccare ancora una volta la riforma dei Trattati,
seguendo la via dei referendum nazionali).
Al fine di rispondere alle preoccupazioni espresse dal popolo irlandese, nel Consiglio di
Bruxelles si convenne di offrire le necessarie garanzie che il trattato di Lisbona non
modificasse la portata o l'esercizio delle competenze dell'Unione in materia di fiscalità, che
non pregiudicasse la politica tradizionale di neutralità dell'Irlanda, che le disposizioni della
Costituzione irlandese relative al diritto alla vita, l'istruzione, alla famiglia non fossero
pregiudicate dal conferimento di uno status giuridico alla Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea.
A fronte di tali impegni assunti dal Consiglio europeo, il governo irlandese si impegnò a
perseguire la ratifica del Trattato di Lisbona. Il secondo referendum indetto nel 2009 diede
finalmente esito positivo consentendo così la ratifica dell'Irlanda e l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona il 1 dicembre 2009.
Il Trattato di Lisbona mantenne in vigore i Trattati esistenti, pur incidendo su essi
profondamente, addirittura mutando la denominazione del Trattato istitutivo della Comunità
europea in Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE).
Alla Carta dei diritti fondamentali venne poi attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati.
Venne inoltre espressamente prevista la possibilità per l’Unione di aderire alla CEDU.
La modifica più apparente e significativa è la soppressione della parola "costituzione" e di ogni
riferimento "costituzionale" nei testi, ma si tratta di una modifica formale priva di
conseguenze giuridiche e pratiche dal momento che già la Corte di giustizia aveva rivendicato
il valore costituzionale o fondamentale dei Trattati esistenti. Scompaiono inoltre dal Trattato il
preambolo, i simboli dell'Unione, il riferimento alla volontà dei cittadini oltre che degli Stati
d'Europa quale duplice fondamento e legittimazione dell'Unione europea. Vengono invece
mantenute le enunciazioni relative ai principi democratici su cui si fonda l’Unione. Viene
rinforzato il ruolo fondamentale dei parlamenti nazionali, in particolare per quanto riguarda il
controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà.
Viene inserito tra gli obiettivi dell'Unione un nuovo paragrafo secondo il quale l'Unione
istituisce un’unione economica e monetaria la cui moneta è l'euro.
Nonostante il riconoscimento della personalità giuridica all’Unione, ciò non autorizzava in
alcun caso essa a legiferare o ad agire al di là delle competenze ad essa attribuite. Tuttavia, il
Trattato ha affrontato il problema della ripartizione delle competenze tra Unione e Stati
membri procedendo ad un riordino e ad una precisazione delle competenze dell'Unione in
grado di conciliare flessibilità e rispetto dei principi di attribuzione e aggiungendo alle
categorie tradizionali delle competenze esclusive e delle competenze concorrenti, una nuova
categoria, quella della competenza per azioni di sostegno, di coordinamento di
completamento.
Venne tra l’altro ribadito che i trattati e il diritto adottato dall’UE prevalevano sul diritto degli
Stati membri (c.d. primautè del diritto comunitario), anche se tale principio non risulta
espressamente sancito nel Trattato.
Per quanto riguarda le politiche dell'Unione sono state introdotte specifiche basi giuridiche
per nuove materie come la politica spaziale europea, l'energia, la protezione civile, la
cooperazione amministrativa per sostenere gli sforzi degli Stati membri ad attuare nel modo
migliore il diritto dell'Unione, il turismo, gli aiuti umanitari alle popolazioni vittime di calamità
naturale provocate dall'uomo, lo sport del quale l’Unione contribuisce alla promozione,
tenendo conto della sua funzione sociale ed educativa. I servizi di interesse economico
generale sono collocati tra i valori comuni dell'Unione poiché promuovono la coesione sociale
e territoriale.
La politica commerciale comune è arricchita di nuove competenze e caratterizzata da un
rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo.


CAPITOLO III
PRINCIPI COSTITUZIONALI E FORMA DELL’UNIONE.

1. Elementi costitutivi e forma dell’Unione europea. Gli obiettivi dell’Unione europea. I
pilastri intergovernativi dell'Unione europea.
L'Unione europea, secondo la definizione offertane dal Trattato di Maastricht (TUE) prima
della riforma intervenuta a Lisbona, era fondata sulle Comunità europee, integrate dalle
politiche e forme di cooperazione instaurate dal Trattato stesso: tali politiche e forme
potevano identificarsi con la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e con la cooperazione
nei settori della giustizia e degli affari interni, precedentemente limitata alla cooperazione di
polizia e giudiziaria in senso penale.
L'Unione quindi presentava una struttura tripartita fondata sulle Comunità europee e sui due
pilastri intergovernativi.
Il tentativo di rendere maggiormente coerente e unitario il quadro istituzionale europeo si è
tradotto anche nella istituzione dell'Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza
comune (il “signor Pesc”) e nella previsione della possibilità di concludere accordi con uno o
più Stati o Organizzazioni internazionali in materia di politica estera e di sicurezza comune
ovvero ai fini della cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale.
Oggi ai sensi dell’art 1 del nuovo TUE, l'Unione si sostituisce e succede alla Comunità europea,
ricevendo il riconoscimento di una propria ed autonoma personalità giuridica.

1.1 Gli obiettivi dell'Unione europea e delle Comunità europee.
Prima dell'intervento riformatore attuato dal Trattato di Lisbona, gli obiettivi dell'Unione (art
2 TUE) potevano articolarsi in: economici, sociali e politici.

Gli obiettivi economici e sociali consistevano nella promozione del progresso economico e
sociale e di un elevato livello di occupazione, nella realizzazione di uno sviluppo equilibrato e
sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, nel
rafforzamento della coesione economica e sociale e nell'instaurazione di un'unione economica
e monetaria, seguita a termine dall’adozione di una moneta unica.

Gli obiettivi politici potevano identificarsi con l'affermazione dell'identità dell'Unione sulla
scena internazionale, con il rafforzamento della tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini
degli Stati membri mediante l'istituzione della cittadinanza dell'Unione, con lo sviluppo di una
stretta cooperazione nel settore della giustizia degli affari interni e con la conservazione
integrale e lo sviluppo dell’acquis comunitario.
Sul versante della CE, l’art. 2 TCE contemplava, quali obiettivi della stessa, la promozione:
- di uno sviluppo armonioso e sostenibile delle attività economiche;
- di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale;
- della parità tra uomini e donne;
- di una crescita sostenibile e non inflazionistica;
- di un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici;
- di un elevato livello di protezione dell'ambiente e del miglioramento della qualità di
quest'ultimo;
- del miglioramento del tenore e della qualità della vita.
In conseguenza delle modifiche apportate dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam, sono
stati introdotti, in seno all'art. 2 TCE, altri obiettivi quali la coesione economica e sociale e la
tutela dell'ambiente, già considerati fondamentali dagli Stati membri ai fini dello sviluppo
delle politiche comunitarie.
Il Trattato di Amsterdam ha affiancato alla promozione della parità tra uomini e donne,
principio generale del diritto comunitario, quale compito della Comunità, l'obiettivo del
raggiungimento di un alto grado di competitività ed ha ampliato e sviluppato nella loro
portata normativa i principi della crescita sostenibile e della tutela ambientale.
Gli strumenti che il Trattato comunitario aveva messo a disposizione della Comunità per
perseguire gli obiettivi, consistevano nella instaurazione di un mercato comune che ampliasse
l'abolizione delle barriere alla libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali; e nella
creazione di una unione economica e monetaria, fondata sulla progressiva assimilazione delle
politiche economiche e monetarie degli Stati membri.
L'art 3 del Trattato comunitario nella sua versione originaria conferiva alla Comunità
unicamente sfere di azione connesse all'instaurazione ed al funzionamento del mercato
comune. In seguito alle integrazioni apportate dal Trattato sull’UE, la lista contenuta nell’art 3
ha compreso settori in cui la Comunità doveva poi attuare le proprie politiche: settore sociale,
protezione dell’ambiente, cooperazione allo sviluppo. La Comunità è stata inoltre investita del
compito di promuovere il coordinamento tra le politiche degli Stati membri in materia di
occupazione, di rafforzare la coesione economica e sociale e la competitività dell’industria
comunitaria, di promuovere la ricerca e lo sviluppo tecnologico ecc.
Il Trattato di Maastricht ha riformulato i compiti della Comunità estendendo gli strumenti
contemplati dall’art 2 TCE, ritoccando la lista dei compiti previsti dall’art 3 TCE ed ampliandola
attraverso l'inserimento dei compiti introdotti dall'AUE e dallo stesso TUE, e infine
aggiungendo al Trattato comunitario l’art 4 TCE. Il Trattato di Amsterdam ha aggiunto il
potere di promuovere il coordinamento delle politiche degli Stati membri in materia di
occupazione e in particolare ha riconosciuto la preminenza a due principi: l’eliminazione delle
disuguaglianze e la promozione dell’uguaglianza tra uomini e donne.
Il trattato Comunitario menzionava infine altri valori o obiettivi che la Comunità doveva
comunque prendere in considerazione: un elevato livello di protezione in materia di sanità,
sicurezza, protezione dell'ambiente e dei consumatori, un elevato livello di occupazione,
aspetti culturali, un elevato livello di protezione della salute umana.
Il Trattato di Lisbona conferma oggi la realizzazione di una nuova tappa del processo di
integrazione europea intrapreso con l'istituzione delle Comunità europee. L'Unione si
sostituisce alla Comunità europea riprendendo gli obiettivi già in parte espressi nei trattati
precedenti. L’art 3 del nuovo TUE assicura infatti che l'Unione persegue:
- la promozione della coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati
membri;
- l'istituzione di un’Unione economica e monetaria la cui moneta è l'euro;
- lo sviluppo sostenibile, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei
prezzi, su una economia sociale di mercato fortemente competitiva;
L'Unione inoltre:
- si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli;
- vuole offrire ai propri cittadini uno spazio di libera sicurezza e giustizia senza frontiere
interne, in cui venga assicurata la libera circolazione delle persone;
- vuole raggiungere la piena occupazione e il progresso sociale nel totale rispetto
dell'ambiente;
- vuole combattere le discriminazioni e l'esclusione sociale.
Dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona l’Unione europea si è vista costretta ad adeguare
i principi e gli obiettivi di cui ai Trattati alle problematiche generate dalla profonda crisi
economica che ha investito il nostro Continente.
Il processo di integrazione europea infatti si è dovuto confrontare con le difficoltà causate
dalle diverse economie dei vari Paesi membri e con l’esigenza di salvaguardare la stabilità
finanziaria dell’aria dell’euro.
Pertanto, le istituzioni europee hanno provveduto a ridefinire il sistema di governance
economico-finanziaria europea mediante l'adozione di strumenti con cui si definivano le
condizioni per la concessione dell'assistenza finanziaria dell'UE a uno Stato membro in gravi
difficoltà economiche. Inoltre alcuni Stati UE si sono impegnati a creare un fondo apposito, il
Fondo europeo di stabilità finanziaria. Il processo di riconfigurazione della governance ha
ricevuto ulteriore impulso con la stipula del c.d. patto di Europlus, avente l’obiettivo di
consolidare il pilastro economico dell’Unione economica e monetaria, cercando di
implementare il coordinamento delle politiche economiche e fiscali, migliorando la
competitività e aumentando il livello di convergenza delle economie.
Si è poi istituito il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), un'istituzione dotata di personalità
giuridica che agisce in stretta collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale con
l'obiettivo di mobilizzare le risorse finanziarie e sostenere la stabilità. Ulteriore misura è
rappresentata dal c.d. Fiscal compact o patto di bilancio con cui alcuni Stati membri hanno
convenuto di rafforzare il pilastro economico dell'Unione adottando una serie di regole atte a
rinsaldare la disciplina di bilancio.

1.2 I pilastri intergovernativi dell'Unione europea prima dell'entrata in vigore del Trattato di
Lisbona.
I pilastri intergovernativi (PESC e GAI), eretti dal Trattato di Maastricht, hanno subito varie
modifiche, sino alla loro definitiva soppressione ad opera del Trattato di Lisbona.
A) LA PESC.
COMPITI. In base al TUE ante Lisbona, la PESC raggruppava tutte le questioni riguardanti la
sicurezza dell’UE, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che
avrebbe potuto condurre nel futuro ad una difesa comune. Il Trattato di Maastricht
identificava la PESC quale compito dell'Unione e degli Stati membri.
Gli obiettivi della PESC venivano identificati con la difesa degli interessi fondamentali e
dell'indipendenza dell'Unione; con il rafforzamento della sicurezza dell'Unione e dei suoi Stati
membri in tutte le sue forme; con il mantenimento della pace e con il rafforzamento della
sicurezza internazionale; con la promozione della cooperazione internazionale; con lo sviluppo
e il consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché con il rispetto dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Gli strumenti di attuazione della PESC consistevano nella cooperazione sistematica tra gli
Stati membri per la condotta della loro politica, nella graduale realizzazione di azioni comuni
nei settori in cui gli Stati membri avessero in comune interessi rilevanti e nella definizione di
posizioni comuni.
STRUTTURA: Quanto alla struttura organica, l'organo collocato in posizione di vertice, in
materia di PESC, era il Consiglio dei ministri, in quanto competente a fissare la portata precisa
di un'azione comune in tali settori, a definirne gli obiettivi generali e particolari e ad
individuare i mezzi, le procedure, le condizioni della durata ai fini della sua attuazione.
La Commissione era “pienamente associata” ai lavori nei settori in oggetto, anche se il TUE
non specificava quali forme tale associazione potesse assumere. Si trattava, peraltro, di un
organo che condivideva con gli Stati membri il diritto di iniziativa presso il Consiglio dei
ministri quanto alla sottoposizione di questioni ed alla presentazione di proposte che
rientravano nella politica estera e di sicurezza comune.
Al Parlamento europeo infine era riconosciuto un diritto di essere informato e consultato,
nonché di rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio.
Quanto alla disciplina del processo decisionale, finalizzato all’adozione, da parte del Consiglio,
di decisioni per la definizione e l'attuazione della politica estera e di sicurezza comune, la
regola era quella della unanimità, fatta eccezione per le decisioni in materia di azioni comuni
che potevano essere adottate a maggioranza qualificata.
Il Trattato di Amsterdam ha apportato diverse modifiche che hanno riguardato il
miglioramento degli strumenti finalizzati alla realizzazione degli obiettivi, la modifica delle
modalità di votazione in seno al Consiglio, la creazione della figura funzionale dello Alto
rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, coincidente con il Segretario
generale del Consiglio.
Pur alla luce di queste innovazioni, permanevano ancora delle lacune, lacune a cui il Trattato
di Nizza ha tentato di porre rimedio conseguendo tuttavia un successo assai parziale. Fra le
innovazioni più significative emergevano autonomizzazazione della difesa europea, l'adozione
del principio della delibera a maggioranza qualificata e non più all'unanimità in seno al
Consiglio ai fini della conclusione di accordi nel settore della PESC; la previsione esplicita, in
seno al TUE, del Comitato politico e di sicurezza quale organo di controllo della situazione
internazionale nei settori che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune, attraverso
la formulazione di pareri a favore del Consiglio e di controllo in merito all’attuazione delle
politiche concordate; l’estensione dello strumento della cooperazione rafforzata ai settori
PESC.

B) LA COOPERAZIONE IN MATERIA DI GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI (GAI).
L'esigenza di avviare una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni e di
predisporre una disciplina comune in materia di asilo, immigrazione, lotta alla criminalità
internazionale, risultava connessa all'obiettivo della instaurazione di un mercato senza
frontiere interne caratterizzato dalla libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali
e dei servizi.
In considerazione di tale esigenza la riforma attuata a Maastricht ha provveduto alla
incorporazione in seno al TUE della cooperazione in materia di giustizia affari interni.
Le materie considerate di interesse comune sono state identificate dal Trattato con:
1) La politica di asilo;
2) La disciplina dell'attraversamento delle frontiere esterne e l'espletamento dei relativi
controlli;
3) La politica di immigrazione;
4) La lotta contro la tossicodipendenza;
5) La lotta contro la frode su scala internazionale;
6) La cooperazione giudiziaria in materia civile;
7) La cooperazione giudiziaria in materia penale;
8) La cooperazione doganale;
9) La cooperazione di polizia ai fini della prevenzione della lotta contro il terrorismo, il
traffico illecito di droga e altre gravi forme di criminalità internazionale.
Quanto alle forme di partecipazione degli Stati membri, questi ultimi risultavano soggetti ad
un obbligo generale di informazione e di consultazione reciproca al fine di coordinare la loro
azione; spettava agli Stati membri (e non all’Unione) esprimere posizioni comuni in seno alle
organizzazioni internazionali ed in occasione delle conferenze internazionali cui
partecipavano; due o più Stati membri potevano comunque lavorare e sviluppare una
cooperazione più stretta sempre che tale cooperazione non fosse in contrasto con quella
prevista dal Trattato sull'Unione europea ovvero che non ha la ostacolasse.
I principali poteri erano riconosciuti in capo al Consiglio dei ministri che di norma deliberava
all'unanimità e solo in casi eccezionali a maggioranza qualificata; la Commissione condivideva
con gli Stati membri il diritto di iniziativa in determinate materie; il Parlamento europeo non
disponeva del potere decisionale prevedendosi unicamente che il Presidente e la
Commissione lo informassero regolarmente dello svolgimento dei lavori nei
settori in oggetto e che il Parlamento medesimo potesse rivolgere al Consiglio interrogazioni o
raccomandazioni; il Comitato di coordinamento, organo proprio della cooperazione
in materia di giustizia affari interni, era composto da alti funzionari, aveva il compito di
formulare pareri per il Consiglio.
Gli strumenti giuridici della cooperazione in materia di giustizia affari interni erano individuati
dal TUE nelle posizioni comuni, nelle azioni comuni e nelle convenzioni internazionali.

Ai sensi dell’art 61 del Trattato comunitario, il terzo pilastro ha ricompreso:
- l'adozione da parte del Consiglio di misure volte ad assicurare la libera circolazione delle
persone, nonché di misure di accompagnamento in materia di controlli alle frontiere esterne,
asilo ed immigrazione; di altre misure nei settori dell'asilo, dell'immigrazione e della
salvaguardia dei diritti dei cittadini dei paesi Terzi, di misure nel settore della cooperazione di
polizia e giudiziaria in materia penale, di cooperazione giudiziaria in materia civile.
L'approvazione delle norme relative a visti, asilo, immigrazione e altre politiche riguardanti la
libera circolazione delle persone obbediva al principio di progressività: in tale direzione il
Trattato prevedeva un periodo di cinque anni a decorrere dall'entrata in vigore del Trattato di
Amsterdam per l'adozione da parte del Consiglio delle misure adeguate nelle ipotesi
contemplate dagli articoli 61-62-63 TCE. Durante tale periodo il processo decisionale si è
svolto in tale modo:
Era necessaria una delibera da parte del Consiglio all'unanimità, su proposta della
Commissione, su iniziativa di uno Stato membro, previa consultazione del Parlamento
europeo.
Trascorso tale periodo transitorio il diritto di iniziativa veniva conferito alla Commissione
sebbene tale organo avrebbe dovuto esaminare qualsiasi richiesta formulata da uno Stato
membro affinché la Commissione stessa potesse sottoporre una proposta al Consiglio che
poteva decidere di assoggettare tutti o parte dei settori in oggetto alla procedura di
codecisione.
Obiettivo fondamentale del terzo pilastro era di fornire ai cittadini un livello elevato di
sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia mediante la realizzazione di un'azione
comune tra gli Stati membri nel settore della cooperazione di polizia giudiziaria in materia
penale e la prevenzione e repressione del razzismo e della xenofobia.
I mezzi individuati per perseguire tale obiettivo consistevano nella prevenzione e repressione
della criminalità organizzata, in particolare del terrorismo, della tratta degli esseri umani, dei
reati contro i minori, del traffico illecito di droga e di armi mediante la cooperazione tra le
forze di polizia degli Stati membri e tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, sia
direttamente che attraverso l’Ufficio europeo di polizia (Europol), mediante la cooperazione
tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, anche tramite l’Unità europea di cooperazione
giudiziaria (Eurojust), infine mediante il riavvicinamento delle normative degli Stati membri in
materia penale.
Le azioni comuni da intraprendere ai fini del perseguimento degli obiettivi consistevano nella
cooperazione operativa tra le autorità competenti degli Stati membri in relazione alla
individuazione ed alla prevenzione dei reati e delle relative indagini; nella raccolta,
archiviazione, trattamento, analisi e scambio di informazioni; nella cooperazione e nelle
iniziative comuni nei settori della formazione, dello scambio di ufficiali di collegamento, nel
comando di funzionari. Le azioni comuni nel settore della cooperazione giudiziaria in materia
penale comprendevano in particolare la facilitazione e l'accelerazione della cooperazione tra i
ministeri e le competenti autorità giudiziarie degli Stati membri, in relazione ai procedimenti e
all'esecuzione delle decisioni; la facilitazione dell'estradizione tra Stati membri; la garanzia
della compatibilità delle normative applicabili negli Stati membri, la prevenzione dei conflitti
di giurisdizione tra Stati membri, ecc.
I trattati di Amsterdam e di Nizza hanno portato significative modifiche non solo al sistema
delle fonti (con l’introduzione delle decisioni quadro e delle decisioni), ma anche alla sfera di
attribuzioni degli organi competenti nei diversi settori. Il Parlamento europeo ha visto
rafforzati i propri poteri in quanto è stata prevista la sua consultazione obbligatoria da parte
del Consiglio prima dell'adozione di decisioni quadro, di decisioni e di convenzioni
internazionali; ha ottenuto il diritto di essere informato regolarmente dal Presidente della
Commissione sui lavori svolti nel settore del terzo pilastro. La Commissione è venuta a
condividere nel terzo pilastro un diritto di iniziativa insieme con gli Stati membri.

2. La personalità giuridica dell'Unione europea.
La problematica della personalità giuridica internazionale dell’Unione europea, intesa quale
capacità della stessa di essere titolare di diritti e soggetta ad obblighi direttamente derivanti
dal diritto internazionale, ha conosciuto un’evoluzione a partire dal Trattato di Maastricht.
Il Trattato di Maastricht, pur non pronunciandosi sulla personalità giuridica internazionale
dell'UE, ma prevedendo gli obiettivi e disciplinando il quadro istituzionale dell'Unione ha
posto il problema del suo riconoscimento implicito.
Come si è osservato in precedenza, il Trattato di Maastricht ha conferito in larga misura la
realizzazione degli obiettivi alle Comunità e agli Stati membri e l'indipendenza istituzionale
della Comunità-Unione non è apparsa. Sul versante internazionale, l'Unione poteva
unicamente concludere accordi di adesione con i nuovi Stati membri; in tutte le restanti
materie la sua rappresentanza era attribuita alla Comunità nelle materie relative al pilastro
comunitario ed agli Stati membri nelle materie relative ai pilastri intergovernativi.
Il Trattato di Amsterdam ha consentito al Consiglio di concludere accordi internazionali nelle
materie dei pilastri intergovernativi: ciò ha indotto a riflettere circa l'avvenuto riconoscimento
implicito della personalità internazionale dell'Unione. La risposta a tale quesito è variata a
seconda che si ritenesse che il Consiglio agisse in nome dell'Unione o in nome degli Stati
membri e, d'altra parte, che gli Stati membri fossero vincolati o meno da tali accordi.
Con riferimento al primo punto la risposta dovrebbe trarsi dal Trattato di Amsterdam,
secondo cui gli accordi non implicavano alcun trasferimento di competenze degli Stati membri
all'Unione europea: il Consiglio sembrava dunque agire in nome degli Stati membri e non in
nome proprio.
Con riferimento al secondo, la soluzione sembrava offerta dal Trattato sull'Unione europea
in base al quale nessun accordo era vincolante per uno Stato membro il cui rappresentante in
sede di Consiglio avesse dichiarato che esso doveva conformarsi alle prescrizioni della propria
procedura costituzionale, ciò che implicava che se nessun rappresentante avesse effettuato
tale dichiarazione, l'accordo concluso dal Consiglio sarebbe divenuto vincolante per tutti gli
Stati membri; gli altri membri del Consiglio potevano peraltro convenire, ove tale
dichiarazione fosse pervenuta da uno o più rappresentanti, che l'accordo si sarebbe applicato
a titolo provvisorio.
Il Trattato di Nizza ha apportato un’ulteriore modifica consentendo l'approvazione di
determinati accordi a maggioranza qualificata e affermando esplicitamente che gli accordi
conclusi alle condizioni di cui all'articolo 24 TUE sono vincolanti per le Istituzioni dell'Unione.

3. La natura giuridica dell'Unione europea.
La scienza politica ha elaborato, al fine di spiegare l'evoluzione dell'integrazione europea, le
teorie del funzionalismo e del neofunzionalismo.
FUNZIONALISMO: L'articolazione operativa individuabile a livello internazionale contribuisce
all'emersione e al consolidamento di ambiti funzionali fino a quel momento organizzati su
base statale ed innesca la formazione e la cristallizzazione di organizzazioni sovranazionali
settorialmente specializzate.
NEOFUNZIONALISMO: Pone l'accento sulla volontà politica dei soggetti protagonisti del
processo di integrazione quale fattore capace di qualificare il processo stesso rispetto
all'approccio funzionalista che lo aveva concepito come cieco.
In epoca successiva altre teorie hanno ritenuto determinante ai fini dell'evoluzione della
comunità europea il ruolo perdurante degli Stati (neorealismo, neofederalismo) ovvero il peso
esercitato dalle Istituzioni sovranazionali (neoistituzionalismo).
La scienza politica poi ha elaborato la teoria del sistema multi-livello: l'Unione europea e gli
Stati membri sono stati descritti come componenti di un sistema strettamente intrecciato
quanto alle relazioni intrattenute dai due livelli le cui funzioni sovrane risultano preordinate
nel loro complesso a soddisfare le aspettative di prestazioni rivendicate dai cittadini.
La natura giuridica dell'Unione europea è controversa. Cinque sono le tesi principali:

1) La tesi dell'organizzazione internazionale o sovranazionale. Con riferimento a questa
prima ipotesi è da sottolineare la difficoltà di ricondurre a tale categoria l'Unione
europea e la precedente Comunità europea poiché non risulta rinvenibile alcuna
organizzazione internazionale che sia dotata di un quadro istituzionale caratterizzato
da un’indipendenza assimilabile a quella della forma di governo dell'Unione europea, in
seno alla quale uno degli organi, il Parlamento europeo, è eletto a suffragio universale
diretto dai cittadini europei, che rechi un sistema delle fonti dotato di analoga
originalità; che goda di autonomia finanziaria analoga a quella dell’Unione; che
presenti un sistema giurisdizionale parimenti articolato e completo; che sia
caratterizzata da una durata limitata nel tempo;
2) La tesi confederale. Questa tesi non è pienamente condivisibile, dal momento che le
competenze dell'Unione appaiono, in certe materie, più ampie, in altre, più ristrette di
quelle delle confederazioni. L'Unione risulta caratterizzata da una struttura organica
molto più evoluta rispetto a qualunque altra confederazione storicamente conosciuta;
la signoria degli Stati membri sull'Unione europea è inferiore rispetto a quanto accade
nelle confederazioni. Infine, l'UE è dotata di un sistema di controllo giurisdizionale
assente in seno alle confederazioni.
3) La tesi dell'associazione di scopo con fini di integrazione funzionale. Questa teoria
tende ad individuare l'Unione quale organizzazione di natura prevalentemente
economica che realizza compiti divenuti transnazionali mediante le proprie limitate
attribuzioni. La configurazione della natura del diritto dell’Unione fra l’ordinamento
internazionale e gli ordinamenti statali nazionali, nonché il carattere aperto del
processo di integrazione senza finalità preventivamente determinate costituiscono
ulteriori profili di questa teoria.
4) La tesi federale. L'applicazione delle categorie del federalismo ai fini dell'identificazione
della natura giuridica dell'Unione europea incontra seri ostacoli. Prima di individuare
questi ostacoli è opportuna la ricostruzione di quel minimo comune denominatore che
caratterizza le esperienze federali: ci riferiamo all'esistenza di uno Stato federale
dotato di una Costituzione posta in una posizione di supremazia rispetto alle
Costituzione degli altri Stati membri. Tale Costituzione infatti enuncia la clausola della
prevalenza del diritto federale sul diritto degli Stati. La struttura organica dello Stato
federale è caratterizzata dalla presenza di un sistema parlamentare bicamerale fondato
su una camera bassa e su una camera alta; opera a livello federale una Corte cui è
demandata la risoluzione dei conflitti di attribuzione tra diversi livelli di governo, il
controllo di costituzionalità delle leggi federali e l'esercizio della funzione di garanzia
dell'omogenea applicazione del diritto federale nell'intero territorio della federazione.
Se si sovrappongono gli elementi strutturali alle caratteristiche dell'ordinamento
giuridico dell'UE si nota come quest'ultima non sia ancora uno Stato federale
soprattutto con riferimento alla mancanza di una Costituzione federale formalmente
vigente e all'assenza della clausola di prevalenza della Costituzione federale sulle
Costituzioni nazionali, nonché di una camera rappresentativa degli interessi degli Stati
membri in seno al sistema parlamentare europeo; all’assenza di un sistema di giustizia
costituzionale, in particolare la funzione concretantesi nel controllo di legittimità
costituzionale delle leggi degli Stati membri accompagnata dalla potestà di dichiararne
l’incostituzionalità rispetto alla Costituzione federale.
Dall’assenza di elementi costitutivi pienamente statuali e sovrani non può farsi
discendere la non assimilabilità dell’Unione europea alle categorie fin ora descritte; in
particolare, tale contestazione non può escludere la presenza di elementi pre-federali,
identificabili nell’accresciuto novero dei compiuti dell’Unione, nel parallelo incremento
delle sue attività, concretatesi soprattutto nell’ampliamento quantitativo e qualitativo
della produzione normativa. In questo senso appare opportuna la concezione degli
Stati membri e dell’Unione non come ordinamenti giuridici separati, ma il risultato di
un sistema intrecciato rivolto allo svolgimento di attività sovrane. Nell’ambito di tale
sistema l’Unione conosce un processo di evoluzione costituzionale i cui protagonisti
sono gli Stati e i cittadini. Ogni ricostruzione che trascuri la dimensione umana del
sistema costituzionale europeo è destinata a conoscere una sorte non favorevole.
5) La tesi dell'entità sui generis. Secondo quanto riconosciuto dalla Corte di Giustizia, il
Trattato sull'Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea,
benché conclusi nella forma di accordi internazionali, costituiscono i primi due
elementi della Carta costituzionale dell'Unione europea. Il terzo elemento che
compone tale Carta costituzionale deve identificarsi con la Carta dei diritti
fondamentali dell'unione europea del 7 dicembre 2000, cui il Trattato di Lisbona ha
riconosciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati.
Il blocco di costituzionalità dell’UE è completato dalla Convenzione Europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri, recando pertanto nel suo complesso, accanto ad elementi tipici di
una Costituzione formale, componenti strutturali caratterizzanti una Costituzione sostanziale.

4. La dimensione assiologica dell'Unione europea, fra valori fondanti, principi costituzionali,
istituzionali e principi costituzionali organizzativi.
Il fondamento assiologico dell'Unione europea deve individuarsi nel complesso di principi
comuni agli Stati membri (sanciti all’ art 2 del nuovo TUE): dignità umana, libertà, democrazia,
uguaglianza, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, stato di diritto. Tra
questi valori indicati non sembra emergere alcuna gerarchia che dia preminenza all’uno
rispetto all’altro. Il mancato rispetto di questi valori può determinare l’imposizione di
importanti sanzioni a carico dello Stato membro interessato. Tali sanzioni possono
comportare anche la perdita del diritto di voto in seno al Consiglio secondo la procedura di
constatazione di una violazione dei valori dell’Unione. Ad essi se ne aggiungono altri propri
dell'Unione, ad es. giustizia sociale, solidarietà e pluralismo culturale. Il diritto positivo
distingue dunque due categorie di principi: quelli comuni ad Unione e Stati membri e quelli
intrinseci dell'Unione.
Il complesso dei valori richiamati è identificabile quale eredità culturale comune europea,
quale patrimonio costituzionale comune europeo la cui origine risulta riconducibile al periodo
precedente la Rivoluzione francese. Si tratta di valori pre-positivi, in quanto tali pre-statuali,
esterni e superiori a qualunque potere e forma di esercizio del medesimo.
All'interno della categoria dei principi costituzionali europei, rientrano anche altri principi che
riguardano:
• Rapporti fra l'Unione e gli Stati membri;
• Riparto delle attribuzioni fra l'Unione e Stati membri e modalità dell'esercizio delle
competenze ai diversi livelli di governo;
• Cooperazione tra gli Stati membri in sede di esercizio coordinato delle proprie azioni in
determinati settori;
• Struttura e funzionamento degli organi dell'Unione;
• Costituzione economica europea;
• Sistema europeo delle fonti del diritto.
4.1 Il principio di libertà.
L’affermazione del valore delle libertà della persona trova la propria matrice originaria nelle
teorie giusnaturalistiche del secolo XVI, che individuavano il fondamento della società nella
libertà e nell’uguaglianza formale dell’uomo. L’idea di libertà ha conosciuto il proprio apogeo
con il liberalismo ed è venuta incorporando una dimensione attinente ai vari profili della
libertà morale dell’individuo e delle sue libertà economiche. Sul versante politico, il valore
della libertà ha stretto legami sempre più stretti con l'idea di democrazia ed ha finito per
imporre una relazione democratica fra governanti e governati, connotando anche la
dimensione politica del cittadino.
Nel diritto primario dell'UE, la libertà viene in rilievo a vario titolo.
Fu la stessa idea di libertà a costituire il fondamento dei principi economici del Trattato
comunitario, basati sulla libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali. Si tratta del
sistema di libertà oggi disciplinato dagli artt. 28 ss TFUE.
Inoltre l’art 3 TUE contempla fra gli obiettivi dell'UE la conservazione e lo sviluppo della stessa
quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle
persone, principio compensato dalla previsione di misure appropriate relative ai controlli alle
frontiere esterne, all’asilo, all’immigrazione, alla prevenzione della criminalità e alla lotta
contro la medesima.
L’art 2 del nuovo TUE dunque consacra il principio della libertà come uno degli architravi
assiologici su cui si fonda l’Unione.

4.2 Il principio democratico.
La prima affermazione del principio democratico quale fondamento del sistema costituzionale
comunitario si rinviene nella Dichiarazione sull'identità europea del 1973 che sottolineava
l'intenzione di salvaguardare i principi della democrazia rappresentativa, dello stato di diritto,
della giustizia sociale e del rispetto dei diritti dell'uomo che costituiscono elementi
fondamentali dell'identità europea.
Ma ricordiamo soprattutto il TUE che oggi, dopo le modifiche apportate a Lisbona, identifica
il fondamento dell'Unione europea con i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi comuni agli Stati
membri.
L'esigenza del rispetto del principio democratico viene sottolineata anche dal Trattato di
Amsterdam che lo ha imposto come condizione di adesione all'Unione e contemplava la
violazione grave e persistente del principio stesso quale causa giustificativa della sospensione
a carico di uno Stato membro di alcuni dei diritti ad esso derivanti dall'applicazione del TUE.

4.2.1 La legittimità democratica dell'Unione europea.
Esiste compatibilità tra la forma di organizzazione del potere politico in seno all'Unione
europea e il soddisfacimento delle esigenze di rispetto di tale valore?
Secondo alcuni, non vi è compatibilità dal momento che l'Unione presenterebbe un vizio
originario coincidente con il deficit democratico derivante dalle modalità procedurali di
approvazione dei Trattati comunitari e dell'Unione europea.
Viene posto poi in rilievo il mancato rispetto dei criteri di proporzionalità della rappresentanza
dei popoli dei singoli Stati membri in seno ad alcuni organi dell'Unione che si traduce in una
sottorappresentazione dei grandi al fine di favorire una maggiore partecipazione dei piccoli:
ciò accade soprattutto con riguardo al computo del numero di deputati al Parlamento
europeo spettante a ciascuno Stato membro ed alla ponderazione dei voti in seno al Consiglio
per l'adozione di decisioni a maggioranza qualificata.
Secondo altri, vi sarebbe compatibilità. Un primo approccio sostiene che la problematica della
legittimità dell'Unione deve essere affrontata, nella fase attuale di evoluzione
dell'integrazione europea, avendo riguardo ai tre soggetti di diritto che operano nel suo
ambito: cioè Unione, Stati membri e cittadini. Poiché l'Unione si fonda sugli Stati membri e sui
popoli, il rispetto della democrazia da parte degli Stati si trasmetterebbe all'Unione stessa.
La non immediata osservanza del principio democratico da parte dell’Unione con riferimento
a determinate fattispecie a livello sopranazionale si ritiene in tal senso mediata e compensata
dagli Stati membri e dell’osservanza del valore della democrazia da parte degli organi dei
medesimi.
In secondo luogo, all’obiezione relativa alla rappresentanza diseguale dei popoli europei in
seno agli organi dell’Unione, si replica sottolineandosi l’attualità della problematica con
riferimento agli organi di effettiva rappresentanza dei popoli, come nel caso del Parlamento
europeo, e la sua non immediata rilevanza sul versante degli organi di rappresentanza degli
Stati o dell’Unione, come nel caso del Consiglio o della Commissione. Si ricordi a tal fine
l’esistenza di organi di rappresentanza degli Stati che non obbediscono al principio della
rappresentanza proporzionale, ma al principio federale: è il caso del Senato nordamericano,
alla cui composizione contribuiscono due senatori per ciascuno Stato membro, senza
differenziazioni sull’entità della popolazione.
Si sottolinea, infine, la non contrarietà della regola dell'unanimità con il principio democratico,
evidenziandosi come la regola stessa appaia quale riflesso della dicotomia tra rappresentanza
degli Stati e dei popoli in seno agli organi dell'Unione. L’implicita immedesimazione del
principio maggioritario con la democrazia trova il proprio luogo di naturale esplicazione in
ambito statale, rendendosi accettabile la decisione a maggioranza in quanto esiste una
coscienza di identità collettiva: la maggioranza tenderebbe a cristallizzare la volontà
dell’entità statuale nel suo complesso, rappresentando anche la minoranza.
Le esigenze democratiche che vengono in rilievo in un Unione di Stati e di popoli attengono in
particolare alla rappresentanza dei cittadini europei in seno ad almeno uno degli organi che
esercitano il potere politico, alla partecipazione dei cittadini europei all’esercizio del potere
politico, alla possibilità di controllo politico degli organi da parte dei cittadini.
Con riferimento al primo dei profili, non sembra potersi ritenere fattore decisivo e sufficiente
l’esistenza di un organo, il Parlamento europeo, che trae la propria legittimazione
direttamente dai cittadini europei, in quanto eletto a suffragio universale e diretto. Fino
all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la formulazione adottata sembrava infatti porre
l’accento sui popoli degli Stati in quanto soggetti rappresentanti e non pareva alludere ad un
popolo europeo o un popolo dell’Unione. Il Parlamento dunque rappresenta i cittadini
europei che esprimono la propria volontà attraverso le elezioni e partecipano seppure
parzialmente al controllo politico in seno all’Unione.
Con riferimento al secondo dei profili problematici sottolineati, attinenti alla partecipazione
dei popoli europei all’esercizio del potere politico, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
identificato nel Parlamento europeo la principale forma di democrazia e di responsabilità
politica nel sistema della Comunità, mentre la Corte di giustizia lo ha considerato, in quanto
organo dotato di una legittimazione democratica, come la componente della struttura della
Comunità europea che meglio riflette il principio della democrazia politica effettiva.
Due sono i versanti che hanno conosciuto un incremento dei poteri del Parlamento: il potere
di approvazione del bilancio e la partecipazione all’esercizio del potere legislativo.
Con riferimento, infine, al terzo dei profili problematici, attinente al controllo politico degli
organi dell’Unione da parte dei popoli europei due appaiono le principali modalità di
estrinsecazione:
- il Parlamento europeo detiene il potere di presentare una mozione di censura sull'operato
della Commissione e può esercitare in tale misura il controllo politico nei confronti di tale
organo;
- in seguito alle modifiche introdotte con il trattato di Amsterdam, al Parlamento europeo è
stato attribuito un potere di investitura della Commissione.

4.3 Il principio dello Stato di diritto.
Esso si articola in una dimensione formale e in una dimensione materiale.
Formalmente è stato di diritto lo Stato capace di garantire la separazione dei poteri,
l'indipendenza dei giudici, la legalità dell'amministrazione, la tutela giuridica contro gli atti dei
pubblici poteri, il risarcimento dei danni causati dall'amministrazione a carico dei destinatari
della propria azione. Materialmente è stato di diritto lo Stato che garantisce l'applicazione e
attuazione di tali principi attraverso vincoli costituzionali apposti dal legislatore alla tutela dei
diritti fondamentali.
Con riferimento specifico alle declinazioni che l’idea dello stato di diritto conosce sul versante
dell’azione amministrativa dello Stato, devono considerarsene immediate derivazioni il
principio di legalità dell’amministrazione, il principio della prevalenza-preferenza della legge e
della riserva della legge, il controllo giudiziale degli atti amministrativi da parte di giudici
indipendenti e la consacrazione del principio di responsabilità dello Stato e dei funzionari
pubblici per danni derivanti da comportamenti illeciti in sede di svolgimento delle proprie
funzioni.
Appare corretto applicare il principio dello stato di diritto a tutte le entità di investite di
potere pubblici suscettibili di produrre violazioni della sfera giuridica dei singoli: tale
estensione sembra doverosa nei confronti dell’Unione.
Il fondamento giuridico del principio dello stato di diritto in ambito comunitario si rinveniva in
seno ai trattati costitutivi, che contemplavano gli obiettivi della Comunità, un quadro
istituzionale che si conformava al principio dell’equilibrio dei poteri e tutti gli elementi poi
ribaditi anche nei nuovi trattati fuoriusciti dal compromesso raggiunto a Lisbona.
Varie sono state le manifestazioni del principio dello stato di diritto emerse dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia: la teoria dell'effetto diretto delle norme comunitarie e
oggi dell’Unione che conferisce una particolare forza applicativa al diritto dell'Unione in seno
agli ordinamenti degli Stati membri; la tutela dei diritti fondamentali a livello dell'unione; il
riconoscimento, in seno all'ordinamento giuridico UE, quali basi fondamentali di tutela
giuridica dei singoli, dei principi generali del diritto: principio di proporzionalità, di certezza del
diritto, di legittimo affidamento, di legalità dell'amministrazione, di riserva di legge.
La Corte di giustizia, nella sentenza Verdi c. Parlamento europeo, ha affermato che la
Comunità europea è una Comunità di diritto nell’ambito della quale né gli Stati né le istituzioni
possono sottrarsi al controllo di conformità dei propri atti rispetto alla carta costituzionale di
base formata dal trattato.
L’approvazione del TUE ha fatto sorgere dei dubbi in merito al pieno rispetto del principio
dello stato di diritto in seno alla Comunità europea in quanto la sfera di competenza della
Corte di Giustizia non comprendeva i pilastri intergovernativi, denotando un deficit di tutela
sul versante della tutela giudiziale effettiva. In realtà, secondo il tenore originale del Trattato
di Maastricht la competenza della Corte risultava circoscritta ad un controllo giurisdizionale di
tipo meramente negativo avente ad oggetto atti adottati sulla base dei pilastri
intergovernativi e consistente nella verifica relativa alla loro attitudine a violare le
competenze della Comunità.
Analoga questione problematica sorge con riferimento all’attitudine dell’UE a conformarsi al
principio dello stato di diritto quanto al proprio assetto strutturale ed alle proprie modalità di
funzionamento.
Se si considerava la struttura dell’Unione, fondata sulle Comunità e sui pilastri
intergovernativi, se ne doveva presumere l’attitudine in quanto dotata di pubblici poteri, ad
interferire con i propri atti nella sfera giuridica degli individui, in particolare sul fronte
dell’esercizio delle funzioni comunitarie. A conclusione altrettanto certa non sembrava potersi
giungere con riguardo all’esercizio dei poteri nell’ambito dei pilastri intergovernativi, in
quanto gli atti adottati nell’ambito del secondo pilastro non erano suscettibili di applicazione
diretta agli individui e le decisioni e le decisioni-quadro adottate nell’ambito del terzo pilastro
non avevano efficacia diretta.
Possiamo concludere che il nocciolo duro del principio dello stato di diritto continua a
risiedere principalmente nei settori dove trovano applicazione i metodi e le procedure previste
per la Comunità, mentre negli altri settori si riscontra un processo di progressiva
approssimazione alla piena cristallizzazione del principio stesso.

4.4 La tutela dei diritti fondamentali.
La tutela dei diritti fondamentali ha costituito uno dei principali fattori di impulso ed uno dei
nuclei essenziali dell'ordinamento costituzionale europeo. La versione originaria del TCE
non conteneva un catalogo dei diritti fondamentali. Per colmare questa lacuna si è proceduto
alla progressiva incorporazione dei diritti fondamentali all'interno del sistema costituzionale
europeo ad opera della Corte di giustizia. Ciò è avvenuto in tre fasi:
1) Fase di rigetto: La Corte di giustizia non assecondò la rilevanza dei diritti fondamentali
in seno al diritto comunitario sulla base della considerazione della prevalenza del
diritto comunitario sulle norme nazionali, anche costituzionali, e quindi comprese
quelle dedicate alla tutela dei diritti fondamentali. La Corte si trovò in tale fase ad
affrontare l’esigenza di ponderare due aspetti di pari rilevanza ai fini del futuro
sviluppo del processo di integrazione europea: da un lato la specificità delle Comunità
europee e l’autonomia dell’ordinamento comunitario non parevano rendersi
compatibili con forme di soggezione alle norme costituzionali nazionali; dall’altro non si
poteva trascurare che le Comunità sono costituite da Stati accomunati da determinati
valori, tra i quali primeggia la tutela dei diritti fondamentali. L’espediente utilizzato
dalla Corte fu quello di attribuire a tale valore una dimensione comunitaria e non
meramente statale, sulla base della considerazione che le Comunità sono composte,
oltre che da Stati, da cittadini ai quali si applicano le disposizioni del diritto
comunitario;
2) Fase di accettazione: In una seconda fase la Corte accoglie l'integrazione dei diritti
fondamentali nei principi generali del diritto di cui la Corte stessa garantisce la tutela e
ad inscrivere quest’ultima nel quadro, nella struttura e nell’ambito degli obiettivi della
Comunità;
3) Fase di internazionalizzazione: Nell'ambito della terza fase la Corte di giustizia tende
ad includere un nuovo, fondamentale, tassello nel quadro della tutela dei diritti della
persona assumendo quali parametri di riferimento la CEDU e altri strumenti di diritto
internazionale, in particolare il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966.
Le fonti normative di riferimento della Corte di giustizia possono identificarsi con i
principi comunitari derivati dal diritto scritto (es, non discriminazione, promozione dei
diritti sindacali ecc) e con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. La Corte
in particolare afferma che annullerà o dichiarerà invalide disposizioni di diritto derivato
contrarie ai diritti fondamentali riconosciuti in seno alle Costituzioni degli Stati membri
o ad una delle medesime (c.d. principio dello standard massimo, di applicazione a
livello comunitario della garanzia nazionale più elevata); con gli strumenti
internazionali concernenti i diritti umani sottoscritti dagli Stati membri (principio dello
standard minimo europeo).
Quanto alle fonti politiche di ispirazione della Corte di giustizia, deve essere
menzionata la Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della
Commissione.
La sfera di competenza della Corte di giustizia comprende, sul versante dei diritti
fondamentali, non solo la legislazione comunitaria, ma anche il sindacato relativo alle
misure statali di esecuzione degli atti di diritto derivato nonché le misure nazionali
adottate in deroga al divieto di restrizione delle quattro libertà fondamentali.
E’ su tali basi che la Corte di giustizia ha dato vita ad un’intensa attività
giurisprudenziale tradottasi nell’elaborazione ed enucleazione di una pluralità di diritti
della persona, contribuendo all’umanizzazione della Comunità che consentiva di
considerare gli individui non più nella loro mera dimensione economica, ma anche
quali soggetti della collettività umana.
La soluzione di matrice giurisprudenziale di inserire i diritti fondamentali in seno al
sistema comunitario si rivelò però insufficiente e inappagante.
Nel Trattato di Maastricht è avvenuto il recepimento del principio del rispetto dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il TUE si riferisce, nella sua versione originaria,
alla tutela dei diritti fondamentali, alle disposizioni in materia di politica estera e di
sicurezza comune e in relazione al pilastro concernente la cooperazione giudiziaria in
materia di giustizia e di affari interni.
L’opera di costituzionalizzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali avviata
con il Trattato di Maastricht proseguì in forza della innovazioni introdotte dal Trattato
di Amsterdam. Sul versante dei diritti sociali, con il Trattato di Amsterdam si confermò
l’attaccamento ai diritti sociali fondamentali, quali definiti nella Carta sociale europea.
Ad opera del Trattato di Amsterdam si produsse inoltre un ampliamento nell’ambito di
applicazione del principio di non discriminazione, si moltiplicarono le affermazioni
dell’uguaglianza tra uomini e donne, conferendo al Consiglio la possibilità di prendere
provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o
l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, l’età o le tendenze sessuali.
Lo scenario che si delineò in seguito alle integrazioni apportate dal Trattato di
Amsterdam risultò pertanto caratterizzato dalla configurazione dei diritti fondamentali
come uno dei cardini assiologici su cui si basa l’Unione europea.
E’ nel contesto di tale scenario che sorse il proposito di convocare una conferenza
intergovernativa al fine di revisionare il TUE che portò all’approvazione del Trattato di
Nizza, nonché all’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, con
l’obiettivo di conferire visibilità e cristallizzazione ai diritti che, fino a quel momento
avevano goduto di una base meramente giurisprudenziale.
I Trattati modificati a Lisbona compirono poi un ulteriore passo avanti in relazione a
tale materia. Il nuovo art 6 TUE attribuì infatti valore giuridico alla Carta di Nizza.
Inoltre, sempre tale articolo ha sancito il processo di adesione dell’UE alla CEDU.
Tuttavia, l’adesione non dovrà incidere né sulle competenze dell’Unione né sulle
attribuzioni delle sue istituzioni e né, infine, sulla particolare situazione degli Stati
membri nei confronti della Convenzione europea.

4.5 Solidarietà e giustizia sociale.
La giustizia sociale si configura come uno dei valori ispiratori dei Trattati comunitari,
implicando il miglioramento delle condizioni di vita dei popoli attraverso l'assimilazione dei
livelli di vita più elevati, nonché mediante la riduzione delle disuguaglianze fra i popoli.
Il Trattato di Maastricht ha recepito i valori della giustizia sociale e della solidarietà nel
preambolo dove si afferma l'obiettivo del miglioramento costante delle condizioni di vita e di
occupazione dei popoli e della riduzione delle disparità tra le differenti regioni. Tale Trattato
inoltre include tra gli obiettivi dell’Unione la promozione del progresso economico e sociale,
da perseguire anche attraverso il rafforzamento della coesione economica e sociale. Esso ha
creato anche i presupposti per l’istituzione da parte del Consiglio del c.d. Fondo di coesione.
La concretizzazione dei valori della giustizia sociale e della solidarietà conobbe poi un ulteriore
incremento con il Trattato di Amsterdam.
Il fine dell’edificazione di una società più giusta traspare con evidenza dalla norma che
enuncia gli obiettivi dell’Unione, fra i quali si segnala la promozione del progresso economico
e sociale e di un elevato livello di occupazione, nonché la conservazione e lo sviluppo
dell’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in cui sia assicurata la libera
circolazione delle persone.
Gli elevati livelli di disoccupazione presenti in Europa indussero invece a fare riferimento, per
la prima volta, ai diritti sociali fondamentali e alla lotta contro l’emarginazione quali
declinazioni essenziali del valore della giustizia sociale.
L’Atto unico europeo invece introdusse l’obiettivo di promuovere uno sviluppo armonioso
dell’insieme della Comunità e di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni.

4.6 Il pluralismo culturale.
Accanto ai valori condivisi dall'Unione e dagli Stati membri in precedenza esaminati, il valore
del pluralismo culturale deve considerarsi come un valore proprio dell'Unione.
L'apertura delle frontiere e l'ampliamento dei settori oggetto di intervento della Comunità
hanno registrato inevitabili conseguenze, tra cui la crescente circolazione delle culture e la
mutua alimentazione fra diritto comunitario e diritti nazionali.
Con il TUE, il valore del pluralismo culturale trova espresso riconoscimento: in seno al
preambolo, mediante il riferimento all’obiettivo dell’intensificazione della solidarietà tra i
popoli europei, rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni, nonché nell’ambito dell’art 6
comma 3, attraverso l’affermazione del principio del rispetto da parte dell’Unione dell’identità
nazionale dei suoi Stati membri;
Il Trattato di Maastricht introduce in seno al Trattato comunitario un nuovo titolo nel quale si
afferma chela Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel
rispetto delle loro diversità nazionali e regionali.
Il Trattato di Amsterdam ha invece introdotto il principio del rispetto e della promozione delle
diversità delle culture presenti in seno alla Comunità.
Così contemplato, il valore del pluralismo culturale rappresenta l’elemento essenziale del
collegamento fra il rispetto delle identità nazionali e l’enuclearsi di un’identità europea.

4.7 Violazione dei principi costituzionali istituzionali e protezione della “Costituzione”.
Il procedimento di constatazione di rischio evidente di una violazione grave da parte di uno
Stato membro di uno o più valori previsti dall'articolo 2 TUE ha origine ad iniziativa di 1/3 degli
Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione e comporta una delibera del
Consiglio, con la maggioranza dei 4/5 e previa approvazione del Parlamento europeo,
finalizzata a constatare dell'esistenza del rischio e a rivolgere allo Stato membro appropriate
raccomandazioni.
Prima di procedere a tale constatazione, il Consiglio può udire lo Stato membro interessato e
chiedere a personalità indipendenti di presentare, entro un termine ragionevole, un
rapporto sulla situazione interna allo Stato membro stesso. In seguito, il Consiglio può
verificare regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale contestazione sono validi.
Per quanto riguarda l'erogazione di misure sanzionatorie, è previsto un processo di
sospensione dei diritti degli Stati articolata in due fasi. La prima fase è volta a verificare
l'esistenza di una violazione grave e persistente da parte dello Stato membro di uno dei valori
riconosciuti dall'articolo 2 TUE. Tale fase si articola in due sottofasi, la prima delle quali si
concreta nello invito rivolto al governo dello Stato membro a presentare osservazioni, e la
seconda invece si traduce nella delibera l'unanimità del Consiglio europeo che accerta
l'effettiva esistenza della violazione del tipo in precedenza menzionato. La seconda fase è
caratterizzata dalla delibera da parte del Consiglio a maggioranza qualificata avente ad
oggetto la sospensione di alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro interessato dai Trattati,
compresi i diritti di voto del rappresentante del governo dello Stato stesso in seno al Consiglio.
Successivamente, ove si registrino cambiamenti nella situazione che ha portato
all’imposizione di misure restrittive, il Consiglio può decidere di modificarle o revocarle.
La decisione relativa alla constatazione della violazione è definitiva e non è soggetta al ricorso
davanti alla Corte di giustizia in quanto ciò non rientra nella sua sfera di competenza
giurisdizionale. Tuttavia, la competenza della Corte è stata ammessa soltanto per quanto
attiene ai profili processuali, non potendosi estendere alla verifica dell’effettiva esistenza di
una violazione grave e persistente né all’adeguatezza ed alla proporzionalità delle misure
adottate da parte del Consiglio.
Il Parlamento europeo invece risulta coinvolto soltanto nell’ambito della prima fase in sede di
contestazione della violazione e non viene chiamato ad esprimere il proprio avviso in merito ai
diritti oggetto di sospensione né ad esercitare alcuna forma di controllo.

4.8 I valori dell'Unione nel TUE e nel TFUE.
L'Unione europea è un'entità dotata di fondamento assiologico che risiede nei valori del
rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello stato di
diritto, dei diritti umani, compresi i diritti appartenenti ad una minoranza.
Il rispetto dei valori dell'Unione rappresenta uno dei requisiti ai fini dell'adesione di uno Stato
candidato all’Unione e della conservazione dello status di membro; costituisce anche la
ragione giustificativa della sospensione a carico di uno Stato membro di taluni diritti derivanti
dall'appartenenza all'Unione in caso di constatazione dell'esistenza di un rischio evidente di
violazione grave di uno dei valori proclamati dall’art. 2 TUE.
L’art 6 del nuovo TUE ribadisce il principio secondo cui i diritti fondamentali, garantiti dalla
Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto
dell'Unione in quanto principi generali. Si tratta di una soluzione-ponte in attesa dell'adesione
dell'Unione alla CEDU.
In ordine ai valori dell’uguaglianza e della democrazia, l’art 9 TUE stabilisce che l’Unione
rispetta, in tutte le sue attività, il principio dell’uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di
uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi. Ne deriva il divieto di
discriminazioni in base alla nazionalità, nonché l’uguaglianza davanti alla legge.
Per quanto riguarda il principio della democrazia rappresentativa, esso esige che i
soggetti componenti dell'Unione trovino adeguata rappresentanza in seno ai suoi organi.
I cittadini dell'Unione sono direttamente rappresentati nel Parlamento europeo, mentre i
governi degli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo e nel Consiglio, ed infine i
governi statali sono a loro volta responsabili dinanzi a loro Parlamento nazionale o dinanzi a
loro cittadini.
Il principio della democrazia partecipativa risulta invece associato al concetto di
partecipazione della società civile e delle associazioni rappresentative ai fini della costruzione
dello sviluppo del sistema europeo. Ne derivano quindi il diritto di iniziativa legislativa
riconosciuto dal TUE a favore di almeno 1 milione di cittadini dell'Unione da esercitarsi nei
confronti della Commissione; il rispetto da parte della Commissione del principio della
partecipazione e della consultazione nell'ambito dei processi decisionali; il rispetto del
principio della prossimità delle decisioni; il rispetto dei principi della coerenza e della
trasparenza delle azioni dell'Unione.
I trattati, così come risultanti dalle modifiche appartate a Lisbona, individuano inoltre i partiti
politici quali soggetti provvisti dell’attitudine a contribuire a formare una coscienza politica
europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione (art 10 TUE), e riconoscono e
promuovono il ruolo delle parti sociali, tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali,
facilitando il dialogo tra tali parti nel rispetto della loro autonomia (art 152 TFUE).
Il nuovo Trattato sul funzionamento dell’Unione conferma altresì il Mediatore europeo quale
organo competente a ricevere denunce riguardanti casi di cattiva amministrazione nell’azione
delle istituzioni, organi o organismi dell’Unione. Il TFUE prevede inoltre che l’Unione rispetta e
non pregiudica lo status di cui godono negli Stati membri, le chiese e le associazioni o
comunità religiose, nonché le organizzazioni filosofiche e non confessionali.

5. I principi costituzionali diversi da quelli fondamentali o istituzionali.
Quanto abbiamo visto nel paragrafo precedente riguardava i principi costituzionali
fondamentali o istituzionali o strutturali dell'Unione europea, che si sono identificati con il
principio di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà'
fondamentali, dello stato di diritto. Accanto a tali principi altri ne vengono in rilievo a livello
costituzionale. A seguire, un'elencazione.

A) I PRINCIPI CONCERNENTI I RAPPORTI TRA L'UNIONE E GLI STATI MEMBRI.

Il principio di solidarietà.
Il processo di integrazione europea risulta caratterizzato dalla presenza di una condivisione di
interessi e da un vincolo di solidarietà fra gli Stati sembri. Ne derivano conseguenze peculiari
sul versante del riparto delle competenze fra Unione e Stati membri, nonché sul versante
della cooperazione fra Stati membri e Unione e Stati membri in sede di attuazione del diritto
sovranazionale. Il principio di solidarietà assume infatti una proiezione orizzontale, relativa ai
rapporti tra gli Stati membri, ed una proiezione verticale, quest'ultima di natura bidirezionale,
operando in una prospettiva ascendente cioè nei rapporti tra Stati membri e Unione, e
viceversa, in una prospettiva discendente, nei rapporti tra Unione e Stati membri.
Si può rinvenire una traccia del principio di solidarietà in seno al preambolo del TUE ma anche
nel art 1 comma 2 TUE ante Lisbona (“L’Unione ha il compito di organizzare in modo coerente
e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli”), all’art 11 TUE ante Lisbona, con
riferimento specifico al settore della politica estera e di sicurezza comune e infine all’art 10
TCE. Esso si traduce, nella sua applicazione attiva, nell'impegno che gli Stati membri assumono
ad adottare tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione
degli obblighi comunitari e a facilitare la Comunità nell'adempimento dei propri compiti e,
nella sua applicazione passiva, nel dovere di astenersi da qualsiasi misura che rischia di
compromettere la realizzazione degli scopi dei Trattati.
Quanto al fondamento di tale principio, esso appare manifestazione e declinazione di un
principio più ampio, quello di buona fede, che costituisce la base della leale collaborazione nei
sistemi federali o regionali, nonché del principio pacta sunt servanda proprio del diritto
internazionale.
Il principio ha acquisito il rango di canone interpretativo fondamentale dei Trattati comunitari
in seno alla giurisprudenza della Corte di giustizia che vi ha fatto ricorso al fine di elaborare e
conferire autonoma evidenza a importanti principi costituzionali quali il primato del diritto
comunitario, la tutela giudiziaria effettiva, l'effetto diretto delle norme comunitarie, la
responsabilità dello Stato per violazione delle norme comunitarie.
L'art. 222 TFUE ha introdotto una vera e propria clausola di solidarietà tra Unione e Stati
membri, i quali devono agire congiuntamente e secondo uno spirito di solidarietà nel caso in
cui uno Stato membro sia oggetto di attacco terroristico o vittima di una calamità naturale o
provocata dall'uomo. In questo caso l'Unione si fa carico di mobilitare tutti gli strumenti di cui
dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione da parte degli Stati. Le modalità di
attuazione di tale clausola da parte dell’Unione vengono definite da una decisione adottata
dal Consiglio, su proposta congiunta della Commissione e dell’Alto rappresentante dell’Unione
per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Il principio dell’acquis comunitario.
Il processo di progressivo allargamento dell’Unione ha determinato l’esigenza di preservare il
carattere specifico ed autonomo delle Comunità, dell’Unione e dei rispettivi ordinamenti
giuridici mediante la previsione di disposizioni che sanciscono il principio dell’acquis
comunitario.
Esso presenta una versione applicativa giuridica e una politica. Sul versante giuridico il
principio implica il rispetto, da parte degli Stati aderenti, delle disposizioni contenute nei
trattati e del diritto derivato adottato dagli organi dell'Unione, nonché l'accettazione della
giurisprudenza degli organi giurisdizionali dell'Unione (Corte di giustizia e Tribunale di primo
grado).
Sul versante politico, il principio implica a carico dei nuovi Stati il vincolo derivante da
decisioni e accordi adottati dai rappresentanti dei governi nazionali riuniti in seno al Consiglio,
nonché dalle dichiarazioni, risoluzioni o atti di diversa natura adottati dagli Stati membri di
comune accordo.
Tale principio ha contribuito al consolidamento del processo di integrazione europea ed alla
sua irreversibilità in quanto impone agli Stati aderenti di conformarsi a tutti gli obblighi
derivanti dal diritto dell’Unione.

Il principio del rispetto delle identità nazionali.
L'identità nazionale è intesa come complesso di fattori culturali dotati di attitudine
individualizzante di un ordinamento statale rispetto ad altri e tale da conferire al medesimo
una propria originalità e specificità.
Le disposizioni in materia, contenute nei Trattati (come modificati a Lisbona) risultano
finalizzate:
1) Alla tutela delle lingue. Tale finalità ha presentato vari problemi nel tempo, con la
progressiva espansione delle Comunità e dell'Unione. Se la lingua ufficiale del Trattato
CECA era solo il francese, i Trattati da Roma in poi sono stati redatti in tutte le lingue
nazionali, sul medesimo piano in quanto lingue ufficiali dell'Unione. Il Trattato di
Amsterdam ha costituzionalizzato il diritto dei cittadini europei di rivolgersi per iscritto
alle istituzioni comunitarie in una delle lingue ufficiali dell'Unione e di ricevere una
risposta nella stessa lingua.
2) Alla tutela delle diversità culturali. Il contributo della Comunità al pieno sviluppo delle
culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali è criterio
introdotto in seno al Trattato comunitario dal Trattato di Maastricht, generalizzato poi
ad opera del Trattato di Amsterdam. Oggi tale criterio risulta ribadito in seno all’art 4
del TUE, dopo le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona (“L’Unione rispetta
l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale..”);
3) Alla tutela delle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Questo principio può
evincersi dal precetto contenuto nell’art 6 comma 2 del Trattato sull’UE ante Lisbona,
alla luce del quale l’Unione doveva rispettare i diritti fondamentali quali garantiti dalla
CEDU e quali risultati dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in
quanto principi generali del diritto comunitario. I Trattati riformati a Lisbona hanno poi
confermato tale principio.
4) Alla tutela delle identità europea. L’Unione europea appare caratterizzata da una
propria autonomia e originalità identitaria. Le manifestazioni del rispetto dell’identità
europea in seno ai trattati comunitari erano molteplici ed hanno poi trovato conferma
nei nuovi trattati emersi dalle modifiche apportate a Lisbona. Tali manifestazioni
possono identificarsi con l’individuazione di un complesso di valori comuni, dotati di
rilievo universale in ambito europeo, quali la libertà, la democrazia e il rispetto dei
diritti fondamentali. La stessa istituzione della cittadinanza dell'Unione ad opera del
TUE, può leggersi quale strumento finalizzato alla creazione di una coscienza europea
che si sviluppa e si consolida in ragione della consapevolezza della appartenenza ad
un'entità - l'Unione - trascendente i singoli contesti nazionali.
Non può non essere menzionato il valore rilevante rivestito dalla moneta unica, l’euro,
sebbene utilizzabile all’interno della sola zona-euro.

B) I PRINCIPI CONCERNENTI IL RIPARTO FRA L'UNIONE E GLI STATI MEMBRI E LE MODALITÀ
DI ESERCIZIO DELLE COMPETENZE AI DIVERSI LIVELLI DI GOVERNO.

Il principio delle competenze di attribuzione.
Tale principio implica che l'Unione europea disponga delle sole attribuzioni che gli Stati
membri le hanno conferito mediante i Trattati. Traccia di tale principio era già rinvenibile in
una pluralità di disposizioni del Trattato comunitario, relative all’assetto delle competenze
comunitarie (art 5 comma 1: “La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono
conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal trattato”) ovvero concernenti la sfera di
attribuzioni degli organi (art 7 comma 1: “Ciascuna istituzione agisce nei limiti delle
attribuzioni che le sono conferite dal trattato”).
Il principio si applica a tutte le attività e istituzioni dell'Unione e vale a distinguere l'Unione
dagli Stati. Nel principio dei poteri limitati dell’Unione si sostanzia parimenti il rapporto
contrattuale con gli Stati membri, elemento indefettibile della catena di legittimazione
fondata sul principio democratico e dello stato di diritto riconducibile agli Stati membri
medesimi.

Il principio di sussidiarietà.
Contemplato nel diritto comunitario ad opera del TUE, ma previsto anche in fasi precedenti
del processo evolutivo europeo, il principio di sussidiarietà è stato introdotto nel Trattato allo
scopo di compensare l'ampliamento delle attribuzioni comunitarie realizzato dal Trattato
sull'Unione europea, di ammortizzare l’aumento dei casi di votazione a maggioranza
qualificata, nonché di bilanciare i potere del Parlamento europeo. Esso è destinato ad operare
ed essere invocato ogniqualvolta due livelli di governo diversi appaiano potenzialmente dotati
dell'attitudine ad esercitare la medesima competenza. Si tratta di un principio giuridico
giustiziabile ad opera della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, che in una
pluralità di occasioni hanno avuto l’opportunità di utilizzarlo come parametro al fine di
sindacare la validità degli atti comunitari.
Gli eventuali conflitti possono avere ad oggetto la natura esclusiva o concorrente della
competenza, l’assenza di adeguata motivazione dell’atto e possono implicare la valutazione
della sufficienze dell’azione da parte degli Stati e la prognosi relativa alla presunta maggiore
attitudine dell’Unione.
Il Trattato di Amsterdam ha poi chiarito nell’ambito di un protocollo annesso alcuni aspetti
relativi all’applicazione del principio di sussidiarietà, costituzionalizzando i principi elaborati
dal Consiglio europeo.

Il principio di proporzionalità.
A differenza del principio di sussidiarietà che si applica solo quando vengono in rilievo
competenze concorrenti, il principio di proporzionalità trova applicazione anche alle
competenze esclusive. Non si tratta, peraltro, di un principio relativo al riparto delle
competenze ma, al pari del principio di sussidiarietà, di un criterio relativo alle modalità di
esercizio delle competenze stesse. Prima di Maastricht, il principio non aveva trovato
accoglimento in seno al Trattato comunitario, anche se ad esso aveva fatto frequente ricorso
la Corte di giustizia per controllare l'esercizio dei poteri da parte degli Stati membri e della
Comunità e di svolgere una fondamentale opera di bilanciamento in tutte le ipotesi di
conflitto fra il perseguimento di un obiettivo nell’ambito di una determinata azione e la
violazione di altri obiettivi riconosciuti legittimi dal diritto comunitario, nonché in tutti i casi di
potenziale conflitto fra i diversi obiettivi che la Comunità doveva perseguire.
Secondo la Corte ogni onere imposto al destinatario delle norme dell'Unione deve essere
limitato alla misura strettamente necessaria ai fini del raggiungimento dell'obiettivo e
richiedere i minori sacrifici possibili da parte dei soggetti sulla cui sfera giuridica è destinato
ad incidere.

I principi di flessibilità e differenziazione.
La loro presenza si ravvisa in diversi trattati nel percorso comunitario: nel Trattato di
Maastricht, dove vengono resi applicabili a determinate materie come l'unione economica e
monetaria; nel Trattato di Amsterdam, che ha trasformato la cooperazione rafforzata in
principio generale dell'Unione europea consentendo che gli Stati membri istituiscano una
collaborazione più stretta e profonda avvalendosi delle istituzioni, delle procedure e dei
meccanismi previsti nel TCE e nel TUE; il Trattato di Nizza, infine, ha esteso la possibilità di
intraprendere cooperazioni rafforzate ai settori della politica estera e di sicurezza comune.
Le condizioni, che la norma generale in materia di cooperazioni rafforzate poneva ai fini
dell’instaurazione delle stesse, consistevano nella finalizzazione delle medesime alla
promozione della realizzazione degli obiettivi dell’Unione e della Comunità, alla protezione dei
loro interessi ed al rafforzamento del loro processo di integrazione, non pregiudicando i
settori che rientravano nell’ambito della competenza esclusiva della Comunità, il mercato
interno e la coesione economica e sociale, non costituendo ostacoli o discriminazioni per gli
scambi tra gli Stati membri e non provocando distorsioni nel regime della concorrenza. Le
cooperazioni rafforzate inoltre dovevano avere un carattere aperto a tutti gli Stati membri e
permettere dunque una successiva partecipazione degli Stati inizialmente non partecipanti.
Gli Stati membri che partecipavano ad una cooperazione rafforzata dovevano applicare tutti
gli atti e le decisioni adottati per l’attuazione della cooperazione stessa. Allo stesso modo, gli
Stati membri che non partecipavano a tale cooperazione non dovevano ostacolarne
l’attuazione.
Accanto alle condizioni generali, condizioni specifiche erano enunciate per ciascuno dei
pilastri dell’Unione.
Con riferimento al pilastro comunitario, erano previsti i requisiti procedimentali e formali per
l’instaurazione di una cooperazione rafforzata: l’autorizzazione agli Stati membri di procedere
ad una cooperazione rafforzata era concessa dal Consiglio che deliberava a maggioranza
qualificata. L’iniziativa aspettava in via esclusiva alla Commissione, previa richiesta trasmessa
a quest’ultima da parte degli Stati membri interessati.
Le cooperazioni rafforzate nel pilastro comunitario rimanevano aperte agli Stati che non vi
avessero preso parte dall’inizio: in tal caso gli Stati che volessero aderirvi, aveva l’onere di
notificare tale intenzione al Consiglio ed alla Commissione.
Con riferimento al pilastro della politica estera e di sicurezza comune, il Trattato di Nizza ha
applicato il principio di flessibilità a tale pilastro. Le cooperazioni rafforzate in materia di
politica estera e di sicurezza comune dovevano essere dirette a salvaguardare i valori e a
servire gli interessi dell’Unione nel suo insieme. Dovevano inoltre rispettare i principi, gli
obiettivi, gli orientamenti generali e la coerenza della politica estera e di sicurezza comune.
Le cooperazioni rafforzate in uno dei settori del terzo pilastro invece erano diretta a
consentire all’Unione di convertirsi più rapidamente in uno spazio di libertà, di sicurezza e di
giustizia. La decisione di autorizzazione della cooperazione rafforzata nei settori in oggetto
spettava al Consiglio, che deliberava a maggioranza qualificata su proposta della Commissione
o di almeno 8 Stati membri e previa consultazione del Parlamento europeo.

C) I PRINCIPI RELATIVI AGLI ORGANI.
Il principio del quadro istituzionale unico.
Secondo tale principio l'Unione disponeva del medesimo quadro istituzionale sia che si
trovasse ad operare nel contesto del pilastro comunitario sia che si trovasse ad agire
nell'ambito dei pilastri intergovernativi. Tale quadro era composto dal Parlamento europeo,
dal Consiglio, dalla Commissione, dalla Corte di giustizia e dalla Corte dei conti. Prima della
riforma di Lisbona gli organi non risultavano dotati della stessa competenza quando
operavano ai due livelli sopra menzionati.
La differenziazione delle competenze secondo il pilastro di riferimento ha poi implicato la
cristallizzazione del principio di coerenza, al fine di assicurare che l’esercizio di una
competenza non pregiudicasse o vanificasse l’esercizio di altra. Alla luce di tale principio, il
quadro istituzionale unico ha assicurato la coerenza e la continuità delle azioni svolte per il
perseguimento dei suoi obiettivi, rispettando e sviluppando l’acquis comunitario.
La fusione del sistema a pilastri con l'entrata in vigore dei trattati modificativi a Lisbona ha
semplificato il quadro istituzionale, dotando oggi l'Unione di un complesso istituzionale rivolto
al perseguimento di obiettivi, valori e interessi comuni.

Il principio dell'equilibrio istituzionale.
Il principio di equilibrio istituzionale è un criterio che assolve alla funzione di limitare il potere
politico.
La distribuzione dei poteri fra i vari organi avviene in modo che un unico organo,
rappresentante parziale degli interessi in gioco, non possa pregiudicare il processo decisionale
degli altri assumendo una posizione dominante in seno al sistema stesso. Tale obiettivo è
corroborato mediante previsione del principio delle competenze di attribuzione, in base al
quale ciascuna istituzione agisce nei limiti della attribuzioni che le sono conferite dai trattati.
In seno al pilastro comunitario, il potere legislativo era esercitato unicamente dal Consiglio
ovvero congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio, secondo il diverso processo
decisionale applicabile al singolo caso. La Commissione era, in generale, titolare del diritto di
iniziativa legislativa.
Questo quadro invece subiva significative alterazioni con riferimento ai pilastri
intergovernativi, contemplando una partecipazione recessiva del Parlamento europeo,
concepito quale organo con funzioni principalmente consultive, e conferendo alla
Commissione un diritto di iniziativa meramente parziale e condiviso con gli Stati membri.
Tuttavia, uno stesso organo può risultare detentore di poteri riconducibili a funzioni distinte.
Non esiste, ad esempio, un solo organo titolare del potere esecutivo: quest’ultimo è infatti
esercitato dalla Commissione e dal Consiglio, che può riservarsi, in casi specifici, di esercitare
direttamente competenze di esecuzione. Il Consiglio, d’altra parte, oltre a condividere con la
Commissione il potere esecutivo è, insieme con il Parlamento europeo, organo legislativo. La
Commissione, organo esecutivo per eccellenza, risulta parimenti dotata di poteri normativi,
sebbene in casi limitati, ed è inoltre titolare in misura quasi monopolistica del potere di
iniziativa legislativa: il tale ambito, al Parlamento europeo viene unicamente riconosciuto il
potere di sollecitare la Commissione a presentare adeguate proposte sulle questioni per le
quali reputa necessaria l’elaborazione di un atto dell’Unione.
Il potere giudiziario, infine, appare articolato su due livelli, in quanto è attribuito agli organi
giurisdizionali dell’UE, Corte di giustizia e Tribunale di primo grado, ed agli organi
giurisdizionali nazionali, potendo i cittadini invocare le norme dell’Unione a livello nazionale in
forza dei principi dell’applicabilità diretta e dell’effetto diretto.

D) I PRINCIPI IN MATERIA ECONOMICA.
Il principio di coesione economica, sociale e territoriale.
Connesso al concetto di solidarietà, tale principio è stato cristallizzato solo ad opera dell’Atto
unico europeo, attraverso l’individuazione, quali obiettivi della Comunità, della promozione
dello sviluppo armonioso dell’insieme della Comunità e della riduzione del divario tra i livelli di
sviluppo delle varie regioni.
La coesione economica, sociale e territoriale è un principio che opera su due livelli, quello
nazionale e quello dell’Unione, improntando da un lato la politica economica degli Stati e
dall’altro lato, l’elaborazione ed attuazione delle politiche ed azioni dell’Unione nonché
l’attuazione del mercato interno.
Il rafforzamento della coesione economica e sociale è principio elevato a rango costituzionale
ad opera del Trattato sull’Unione europea, risultando attualmente previsto in modo espresso
all’art 3 TUE.
Stante il persistere della situazione di crisi economico-finanziaria, la Commissione ha rilevato
come le politiche di coesione saranno subordinate da un lato a quella che viene definita
“condizionalità macro-economica” (legare l’erogazione dei fondi al rispetto dei parametri
macro contenuti nel Six-pack e nelle misure successive); dall’altro, al finanziamento dei
progetti coerenti con gli obiettivi fissati nell’ambito di Europe 2020 (che sono quelli di
un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, sull’efficienza delle risorse, sulla
crescita competitiva e sostenibile, sull’incremento dei livelli occupazionali, sulla valorizzazione
dell’ambiente).

Il principio di non discriminazione.
Il principio di non discriminazione è contemplato dall’art 2 del TUE e dagli articoli 18 e 19
TFUE. Ai sensi dell’art 18 TFUE, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla
nazionalità e si conferisce al Parlamento europeo e al Consiglio il potere di stabilire in base
alla procedura legislativa ordinaria regole volte a vietare tali discriminazioni.
La norma successiva consente al Consiglio di prendere provvedimenti opportuni per
combattere le discriminazioni fondate su sesso, razza, origine etnica, religione convinzioni
personali, disabilità ed orientamento sessuale.
E’ inoltre prevista la possibilità di derogare a tale procedura qualora il Parlamento europeo e il
Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, decidano di adottare i
principi di base delle misure di incentivazione dell’Unione, ad esclusione di qualsiasi
armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.

Il principio di libera circolazione.
L’obiettivo dell’instaurazione di un mercato comune ha implicato la consacrazione in seno al
trattato di vari principi di natura economica, quali ad esempio il principio della libera
circolazione, il principio dell’economia di mercato e il principio della libertà di concorrenza.
Il principio di libera circolazione si applica alle merci (comporta l'esistenza di una frontiera
esterna unica e l'assenza, all'interno dello spazio economico comune, di diritti doganali e
misure fiscali di effetto equivalente), alle persone (trova applicazione ai lavoratori ed ai servizi
e comprende il diritto di stabilimento, con la conseguente abolizione di qualsiasi
discriminazione fondata sulla nazionalità per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le
altre condizioni di lavoro. Implica altresì l’abolizione di restrizioni alla libertà di stabilimento e
di prestazione di servizi da parte di cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro
Stato membro), ai capitali (comprende l'abolizione delle restrizioni ai movimenti di capitali fra
gli Stati membri nonché tra Stati membri Stati terzi e comporta il divieto di restrizioni sui
pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Stati terzi) e ai servizi.

Il principio della preferenza.
Strettamente relazionato con il principio di solidarietà, il principio di preferenza impone agli
Stati membri dell'Unione l'obbligo di non riconoscere a Stati terzi vantaggi commerciali
maggiori di quelli riconosciuti ai partner commerciali dell'Unione.

Il principio di convergenza delle economie.
Il principio di convergenza delle economie è stato introdotto dal Trattato sull’Unione in seno
al Trattato comunitario.
Esso mira a garantire uno stretto coordinamento delle politiche economiche e una
convergenza duratura dei risultati economici degli Stati membri. A tali fini, al Consiglio viene
conferito il potere di sorvegliare l'evoluzione economica in ciascuno degli Stati membri e
dell’Unione, nonché la coerenza delle politiche economiche con gli indirizzi di massima
contenuti in una raccomandazione adottata dal Consiglio. Qualora tale procedura conduca
all’accertamento che le politiche economiche di uno Stato membro non siano coerenti con gli
indirizzi di massima elaborati dal Consiglio oppure possano compromettere il corretto
funzionamento dell'Unione economica e monetaria, la Commissione può rivolgere allo Stato
un avvertimento.
Giova inoltre ricordare che gli Stati membri hanno convenuto, sulla base del Patto di stabilità
e di crescita (PSC) di impegnarsi ad osservare, una volta creata l’Unione economica e
monetaria, il medesimo rigore nella gestione del bilancio che aveva costituito una delle
condizioni di accesso all’Unione stessa.
L’art 121 del TFUE prevede la c.d. sorveglianza multilaterale, funzionale all’implementazione
del coordinamento delle politiche economiche e del raggiungimento di una convergenza
duratura dei risultati economici degli Stati membri.
Infine, già a partire dalla revisione del PSC del 2005, ma più ancora con le misure adottate per
fronteggiare la situazione di crisi economica ed instabilità finanziaria, specialmente il Six pack
e il Two pack, l’Unione ha provveduto a definire con maggior dettaglio le modalità di
attuazione delle disposizioni del TFUE, definendo gli obiettivi e le procedure delle regole di
bilancio richieste dagli Stati membri.
Oggi, pertanto, il PSC ha la funzione di definire i parametri di riferimento delle regole di
bilancio che guidano le politiche economico-finanziarie degli Stati membri e definisce le
modalità sia di sorveglianza delle politiche stesse, sia di correzione dei disavanzi eccessivi.


6. I principi costituzionali sanciti dal TUE e dal TFUE.
A) I principi relativi alle relazioni fra Stati membri e Unione europea.
In base al principio di leale cooperazione (art 4 TUE), l'Unione e gli Stati membri si rispettano
e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai Trattati; gli Stati
membri inoltre sono chiamati a facilitare l'Unione nell'adempimento dei propri compiti e ad
astenersi da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi
dell'Unione. Il principio appare dunque caratterizzato da un profilo positivo, nel senso che gli
Stati membri devono adottare ogni misura di carattere generale o particolare idonea ad
assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle
istituzioni dell’Unione e da un profilo negativo, dovendo astenersi gli Stati stessi dall’adottare
atti che possano pregiudicare l’applicazione dei trattati.
Il concetto di solidarietà invece è incluso nell’elencazione dei valori sui si ispira l’Unione, è
menzionato fra gli obiettivi che l’Unione deve perseguire, è valore che ispira il riconoscimento
e la garanzia delle situazioni giuridiche soggettive caratterizzate da una peculiare proiezione
economico-sociale. In base all’art 222 TFUE, l’Unione e gli Stati membri devono intraprendere
un’azione congiunta e solidale al fine di fronteggiare un attacco terroristico o una calamità di
origine naturale o umana di cui sia vittima uno Stato membro.
Il principio dell’acquis comunitario non trova oggi esplicita menzione né all’interno del
Trattato sull’Unione europea né in quello sul funzionamento dell’Unione.
Il principio del rispetto delle identità nazionali viene oggi sancito dall’art 4 TUE, come
modificato dal Trattato di Lisbona. Rispetto alla formulazione del nuovo art 4 TUE bisogna
sottolineare l’introduzione del riconoscimento formale della clausola di salvaguardia delle
identità costituzionali. L’introduzione di tale clausola deve essere letta come il tentativo di
definire in maniera più chiara la relazione tra il sistema giuridico dell’Unione ed i sistemi
giuridici degli Stati membri. Secondo l’interpretazione offerta dalla dottrina maggioritaria, tale
clausola, proponendosi di fare salvi i principi nazionali in cui si incarna l’identità costituzionale
dell’ordinamento, avrebbe determinato un’europeizzazione dei controlimiti, ponendosi quindi
come un contrappunto al principio del primato del diritto europeo e come argine all’attivismo
delle istituzioni europee. Secondo tale prospettiva, l’avvenuta europeizzazione dei
controlimiti avrebbe determinato le condizioni per considerare legittimi gli interventi con cui i
tribunali costituzionali dichiarino, eccezionalmente e in collaborazione con la Corte di
giustizia, l’inapplicabilità concreta del diritto europeo contrastante con una norma
costituzionale di valore fondamentale.
La dottrina minoritaria, invece, ha preferito affidare la verifica sul rispetto dell’identità
costituzionale ad un controllo centralizzato della Corte di Giustizia.
Ulteriori indicazioni poi sono state fornite dalla giurisprudenza. Secondo quest’ultima i
tribunali nazionali sono prontamente intervenuti in materia, ribadendo con forza la loro
competenza a pronunciarsi sui contrasti tra diritto europeo e diritto interno identitario, e in
nome dell’identità costituzionale hanno privilegiato in alcuni casi l’applicazione della norma
interna contrastante con la disposizione europea.

B) I principi relativi al riparto delle competenze tra Unione europea e Stati membri e al
relativo esercizio.
I principi fondamentali relativi alla delimitazione delle competenze fra Unione e Stati membri,
nonché alle modalità di esercizio delle competenze dell’Unione, si trovano ripartiti tra il
Trattato sull’Unione europea e quello sul funzionamento dell’Unione.
Secondo il principio di attribuzione l'Unione deve agire nei limiti delle competenze che le
sono attribuite dagli Stati membri nei Trattati al fine della realizzazione degli obiettivi stabiliti
dagli stessi, sottolineando l'appartenenza in via residuale agli Stati membri di qualsiasi
competenza non attribuita all'Unione dei Trattati.
L'esercizio delle competenze dell'Unione deve fondarsi sul principio di sussidiarietà e di
proporzionalità. In virtù del primo nei settori che non sono di esclusiva competenza, l'Unione
può intervenire soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'Unione non possano essere
sufficientemente raggiunti dagli Stati membri ad uno dei livelli, ma possono essere meglio
raggiunti a livello dell'Unione. In virtù del secondo il contenuto e la forma dell'azione
dell'Unione non devono oltrepassare i limiti di quanto si renda necessario ai fini del
raggiungimento degli obiettivi dell'Unione.
Il protocollo n.2 sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, annesso ai
Trattati riformati a Lisbona, ha introdotto un meccanismo di partecipazione dei parlamenti
nazionali al procedimento legislativo europeo, che permette allo stesso di verificare la
corretta applicazione del principio di sussidiarietà. Ha inoltre introdotto un rafforzamento del
ruolo ricoperto dai Parlamenti nazionali caratterizzato da un ampliamento dei loro poteri sul
controllo del rispetto della sussidiarietà che si manifesta attraverso un procedimento
aggravato: nell'ambito del procedimento legislativo ordinario, qualora i pareri motivati dei
Parlamenti nazionali rappresentino almeno la maggioranza semplice dei voti loro attribuiti, la
Commissione dovrà riesaminare la proposta al fine di modificarla, mantenerla o ritirarla. Se
decide di mantenerla, dovrà esplicare le motivazioni sulla base delle quali ritenga la proposta
conforme alla sussidiarietà. Si apre così una seconda fase procedurale dove il Parlamento e il
Consiglio dovranno esaminare la compatibilità della proposta con i principi in oggetto. La
proposta non subirà un successivo esame qualora il legislatore, a maggioranza del 55% dei
membri del Consiglio o maggioranza dei voti espressi dal Parlamento europeo, ritenga la
stessa non conforme al principio di sussidiarietà.
I trattati riformati a Lisbona confermano la portata e il valore dei principi di flessibilità e di
differenziazione. Le cooperazioni rafforzate, la cui disciplina è contenuta nel Trattato di
Lisbona, possono attuarsi unicamente nel quadro delle competenze non esclusive dell'Unione
e sono dirette a promuovere la realizzazione degli obiettivi dell'Unione, a proteggere i suoi
interessi e rafforzare il suo processo di integrazione, rimanendo aperte in qualsiasi momento
a tutti gli Stati membri che intendano successivamente farne parte. Le condizioni che le
cooperazioni rafforzate devono rispettare sono, tra le tante: non recare pregiudizio al
mercato interno e alla coesione economica e sociale territoriale; non costituire un ostacolo o
una discriminazione per gli scambi fra gli Stati membri; non distorcere la concorrenza;
rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano,
l’obbligo di questi ultimi di non ostacolarne l’attuazione da parte degli Stati che vi
partecipano.

C) I principi relativi agli organi.
Per quanto riguarda il principio del quadro istituzionale unico dell'Unione l’art 13 del TUE si
astiene dal definire tale quadro “unico”, essendo venuta meno la necessità di tale
aggettivazione, in seguito alla scomparsa della struttura tripartita dell'Unione. Tale quadro
istituzionale mira a promuovere i valori dell'Unione, a perseguirne gli obiettivi, e a garantire la
coerenza, l'efficacia e la continuità delle politiche e delle azioni dell'Unione.
L’assetto delle istituzioni disegnato dal Trattato (emendato) sull’Unione europea si mantiene
stabile e risulta concepito in regime di continuità rispetto alla struttura previgente,
comprendendo, quali organi principali, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il
Consiglio, la Commissione europea, la Corte di Giustizia dell’Unione europea. A questo elenco
si aggiungono altre istituzioni (la BCE e la Corte dei Conti) e gli organi consultivi dell’Unione (il
Comitato delle Regioni e il Comitato economico e sociale).
Il principio di coerenza è contemplato sempre dall’art 13 TUE. Secondo questo principio, il
quadro istituzionale deve garantire la coerenza, l’efficacia e la continuità delle politiche e delle
azioni dell’Unione.
Le modifiche introdotte al TUE dal Trattato di Lisbona hanno mirato all’instaurazione di un
tendenziale equilibrio tra i poteri spettanti ai diversi organi (principio dell’equilibrio
istituzionale).
Il Trattato sull’Unione europea riformato a Lisbona ribadisce infine il principio di attribuzione
delle competenze e della leale cooperazione fra le istituzioni. In base a tale principio, ciascuna
istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai trattati, secondo le
procedure e le condizioni previste dai medesimi.

D) I principi in materia economica. La “Costituzione economica” europea.
La Costituzione economica europea è stata additata, in seguito ai risultati negativi dei
referenda francese e olandese di mancata ratifica del Trattato costituzionale, quale causa
determinante della battuta d’arresto subita dal processo di integrazione europea in ragione
dei contenuti scarsamente solidaristici che la caratterizzerebbero.
I principi di base a cui si ispira la Costituzione economica e finanziaria sono rinvenibili nel
TFUE, in particolare nelle parti riguardanti la non discriminazione, la cittadinanza dell'Unione,
le politiche dell'Unione e le azioni interne: le disposizioni in materia di libera circolazione delle
merci, la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, la materia dei trasporti, la
politica economica e monetaria, l’occupazione, la politica sociale, la protezione dei
consumatori, la coesione economica, sociale e territoriale, la ricerca e lo sviluppo tecnologico,
l’ambiente, il turismo ecc.
Tali previsioni vanno comunque integrate con quelle adottate per fronteggiare la situazione di
grave crisi economica degli ultimi anni.
Dopo le modifiche intervenute a Lisbona di obiettivi e principi in materia economico-
finanziaria, si deve in primo luogo sottolineare come all’individuazione dell’obiettivo generale
dell’Unione della libertà di concorrenza e libertà di concorrenza nel mercato interno, si
accompagni l’enunciazione di ulteriori obiettivi, caratterizzati dal tentativo di ponderazione e
di bilanciamento degli interessi: lo sviluppo dell’Europa che si riveli tuttavia sostenibile su una
pluralità di versanti, in primo luogo quello ambientale; un’economia di mercato fortemente
competitiva; gli obiettivi della piena occupazione e del progresso sociale, nonché le esigenze
di tutela e miglioramento dell’ambiente; la promozione da parte dell’UE della coesione
economica, sociale e territoriale e della solidarietà tra gli Stati membri; il riconoscimento e la
promozione del ruolo delle parti sociali e la facilitazione del dialogo sociale.
Analogamente, nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione contribuisce allo sviluppo
sostenibile della Terra, alla solidarietà tra i popoli, al commercio libero ed equo e
all’eliminazione della povertà.
Per quanto riguarda l'enunciazione dei principi monetari, finanziari e di bilancio, il
mantenimento della stabilità dei prezzi, la sana gestione finanziaria, il pareggio del bilancio,
l’ordinato andamento delle spese dell’Unione si trovano ribaditi in seno alle disposizioni
dedicate alla disciplina delle istituzioni dell’Unione, in seno alle norme finalizzate
all’esplicitazione dei principi finanziari e di bilancio, in seno alla disciplina della politica
economica e monetaria ecc.
I principi e gli obiettivi enunciati dal TFUE in materia economico-finanziaria non possono
divenire oggetto di adeguata comprensione se non alla luce di criteri direttivi che il Trattato
stesso configura quali esigenze oggetto di necessaria considerazione in sede di definizione e
attuazione delle politiche e delle azioni quali la promozione di un livello di occupazione
elevato, garanzia di una protezione sociale adeguata, lotta contro l’esclusione sociale, livello
elevato di istruzione e formazione professionale ecc.
Tali politiche possono farsi rientrare in due grandi insiemi, uno rappresentato dalle politiche e
azioni interne, al quale appartengono le politiche ed azioni riguardanti la sfera del mercato
interno, la politica economica e monetaria e altre politiche settoriali; l'altro dall'azione esterna
all'Unione europea, caratterizzato dalla politica commerciale comune, dalla cooperazione allo
sviluppo e la cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i Paesi terzi.
Si collocano infine in una posizione intermedia settori nei quali l’Unione può decidere di
svolgere un’azione di sostegno, di coordinamento o di completamento (industria e turismo).
(8 pagine successive? Superflue? Le riprende? Giudaico-massonico-plutocratiche?)

7. I fondamenti dell'unione europea: i cittadini e gli Stati. La cittadinanza europea. Gli
istituti di democrazia rappresentativa partecipativa.
Le norme relative alla cittadinanza dell'Unione sono state introdotte in seno al TCE dal TUE e
successivamente modificate dal Trattato di Amsterdam che ha provveduto ulteriormente a
dotarle di una nuova numerazione.
Cittadino dell'Unione è chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza
dell'Unione è complementare e non sostituisce la cittadinanza nazionale. Il conferimento della
cittadinanza è fattispecie che continua, dunque, a spettare, in via esclusiva agli Stati membri:
la cittadinanza dell’Unione vive pertanto di luce riflessa e segue il destino della cittadinanza
nazionale.
Lo statuto materiale del cittadino dell'Unione comprende il diritto di circolare e soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri; l'elettorato attivo e passivo alle elezioni
comunali nello Stato membro di residenza; l'elettorato attivo e passivo alle elezioni del
Parlamento europeo nello Stato membro di residenza; la tutela diplomatica consolare da
parte delle autorità di qualsiasi Stato membro nel territorio di un Paese terzo nel quale lo
Stato membro di cui alla cittadinanza non è rappresentato; il diritto di petizione dinanzi al
Parlamento europeo; il diritto di rivolgersi al mediatore europeo; il diritto di scrivere alle
istituzioni europee in una delle lingue ufficiali dell'UE e ricevere risposta nella stessa lingua. E’
evidente come l’istituzione della cittadinanza dell’Unione abbia prodotto una profonda
alterazione dello status della persona umana in seno all’ordinamento giuridico sovranazionale
che cessa di essere considerata come mero soggetto economico per tradursi in uno degli assi
portanti dell’intero impianto dell’Unione.

8. L'Unione europea nel Trattato sull'Unione europea e nel Trattato sul funzionamento
dell'Unione europea.
I Trattatati emersi dal compromesso raggiunto a Lisbona confermano molte delle soluzioni
precedentemente adottate nel testo della Costituzione europea. Ciò si manifesta anche con
riferimento all’assetto e agli obiettivi dell’Unione ove si registrano molteplici innovazioni.

A. L'ISTITUZIONE DELL'UNIONE EUROPEA.
L'art 1 del TUE istituisce l'Unione europea dotandola di una struttura unitaria. Con tale norma
si vuole rimarcare come il Trattato segni una nuova tappa nel processo di creazione di
un’unione sempre più stretta tra popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo
più trasparente possibile e più vicine ai cittadini. Emerge così che i Trattati sui quali verrà a
fondarsi la nuova Unione risultino ispirati dalla volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa di
costruire un futuro comune.
Da tale articolo si evince inoltre che l'Unione si fonda sul TUE e sul TFUE dotati del medesimo
valore giuridico.
In altri termini, i Trattati modificati a Lisbona assumono un’attitudine costituente nei confronti
dell'Unione. Essi inoltre concepiscono l'Unione quale entità unitaria, eliminando i precedenti
pilastri e determinando la scomparsa delle Comunità europee nonché la successione della
nuova Unione nelle loro attribuzioni e competenze. Deve peraltro notarsi come l’influenza dei
pilastri intergovernativi non venga completamente meno in tutti i casi in cui le materie o i
settori che attualmente ne fanno parte non risultano soggetti al regime giuridico comune, in
particolare per quanto concerne il processo decisionale, la tipologia degli atti giuridici e la
sottoposizione alla competenza giurisdizionale della Corte di Giustizia.


1) LA PESC e la PESD.
Secondo quanto previsto dall’ art 2 TFUE, la competenza per la definizione e l'attuazione di
una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica
di difesa comune sembra configurarsi come quartum genus accanto alle categorie dei settori
di competenza esclusiva, concorrente e nei settori di sostegno. Deve quindi escludersi la
possibilità di ricondurre la PESC tra le materie di competenza esclusiva rientrando piuttosto
tra le materie a competenza condivisa, con la conseguente applicazione dell'obbligo generale,
ex art.4 TFUE, in materia di relazioni tra Unione e Stati membri, che impone all'UE di
rispettare le funzioni essenziali dello Stato e in particolare le funzioni di: salvaguardia
dell'integrità territoriale, mantenimento dell'ordine pubblico e tutela della sicurezza interna.
Il riferimento operato dall’art 24 TUE alla necessità di fondare la politica estera e di sicurezza
comune sulla realizzazione di un livello di convergenza delle azioni degli Stati membri,
finalizzata ad assicurare l’affermazione dei valori e degli interessi dell’Unione sulla scena
internazionale, determina un’ottica plurale e non univoca, che non esclude una concorrenza,
quanto meno potenziale, fra questioni di interesse generale e questioni di interesse
particolare degli Stati membri. La stessa possibilità di intraprendere azioni sulla scena
internazionale ovvero assumere impegni che possano incidere sugli interessi dell’Unione,
comporta l’obbligo di consultazione reciproca in sede di Consiglio europeo o di Consiglio ed è
accompagnata dalla clausola di solidarietà, ma lascia trasparire la praticabilità di autonomi
spazi di manovra da parte degli Stati membri.
Tale ricostruzione risulta confermata dalle disposizioni dei Trattati, come modificati a Lisbona,
che si riferiscono alla funzione di conduzione della politica estera e di sicurezza comune da
parte dell’Unione avvalendosi, fra gli altri strumenti, del rafforzamento della cooperazione
sistematica tra gli Stati membri per la conduzione della loro politica, nonché del dovere degli
Stati membri di provvedere affinché le politiche nazionali siano conformi alle posizioni
dell’Unione, del dovere degli Stati membri partecipanti di difendere le posizioni dell’Unione in
seno alle organizzazioni internazionali alle quali non tutti gli Stati membri partecipino.
Ogni qualvolta si produca una sovrapposizione o una intersecazione fra i settori PESC e PESD
(quest'ultima, politica di sicurezza e difesa comune, parte integrante della prima. Art.42 TFUE)
l'elaborazione della politica estera e di sicurezza comune non potrà non avvenire in sinergia
con le politiche nazionali e alla luce della rigorosa considerazione degli interessi nazionali: in
particolare potrà emergere con evidenza maggiore e risulterà rafforzato rispetto al settore
PESC il carattere parallelo delle politiche dell'Unione e degli Stati membri nel settore della
sicurezza e della difesa, con la conseguente applicazione della clausola di salvaguardia,
nel senso della configurazione a carico della politica dell'Unione del divieto di pregiudicare il
carattere specifico della politica di sicurezza e difesa di taluni Stati membri, del dovere di
rispettare gli obblighi derivanti dal Trattato NATO per alcuni Stati membri e di rendere
compatibile la politica dell'Unione in questo settore con la politica di sicurezza e di difesa
comune adottata in tal contesto.
La geometria variabile della politica estera e di sicurezza comune che si configuri anche quale
politica di sicurezza e difesa comune è altresì confermata dalle disposizioni relative
all’instaurazione di cooperazioni strutturate e alla realizzazione di missioni militari da parte di
un numero ristretto di Stati membri. La caratterizzazione plurale delle competenze nei due
settori oggetto di considerazione si riverbera sull’assetto istituzionale delineato dai trattati
modificati a Lisbona che riflette in modo evidente la tensione fra esigenze di razionalizzazione
del quadro precedente (concretatesi nella fusione in capo all’Alto rappresentante dell’Unione
per gli affari esteri e la politica di sicurezza delle funzioni dell’Altro Rappresentante e del
commissario per gli affari esteri) e la necessità di delineare un quadro di attribuzioni che
offrisse un adeguato sviluppo istituzionale.
Il double hatting conferito all’Alto Rappresentante dell’Unione tuttavia non appare sufficiente
a porre l’organo al riparo dalle perplessità che tale duplice anima è inevitabilmente destinata
a suscitare, sia con riferimento all’ipotizzabile prevalenza dell’una ovvero dell’altra identità,
sia con riferimento alla vicendevole interferenza che può dispiegarsi tra la dipendenza
funzionale dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di difesa dal
Consiglio europeo e le funzioni di vicepresidente della Commissione.
Ne deriva un quadro estremamente variegato e complesso secondo il quale la dotazione
funzionale dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza
viene fatta convivere:
1) Con la funzione di rappresentanza esterna dell'Unione per le materie relative alla PESC
e con potere di convocare riunioni straordinarie del Consiglio europeo per definire le
linee strategiche della politica dell'Unione di fronte a sviluppi internazionali che lo
esigano, attribuite al Presidente del Consiglio stesso;
2) Con le funzioni del Consiglio europeo di individuazione degli interessi strategici
dell’Unione e di fissazione degli obiettivi della sua politica estera e di sicurezza comune;
3) Con le funzioni del Consiglio dei ministri di elaborazione di tale politica nel quadro delle
linee strategiche individuate dal Consiglio europeo e di adozione delle decisioni
europee necessarie per la definizione e l’attuazione della politica medesima;
4) Con le funzioni del comitato politico e di sicurezza di controllo della situazione
internazionale nei settori che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune.

Dalla lettura dell’art 36 TUE si evince il dovere dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza di consultare il Parlamento europeo sui suoi principali
aspetti e sulle scelte fondamentali delle politiche; il dovere di provvedere affinché le opinioni
del Parlamento europeo siano debitamente prese in considerazione, nonché di informare
regolarmente il Parlamento europeo in merito allo sviluppo della politica estera, di sicurezza e
di difesa, accompagnata dal riconoscimento a favore del Parlamento stesso della facoltà di
rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio dei ministri e all’Alto
Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
Circa la gestione degli stati di crisi, all’Alto Rappresentante è conferito un ruolo di mero
coordinamento degli aspetti civili e militari. E’ stata inoltre avanzata la necessità di
sistematizzare la tipologia degli stati di crisi e di emergenza, attualmente frammentata e
disarticolata: al riguardo si è cercato di adottare una classificazione dei medesimi che segua
un criterio di definizione fondato sull’entità qualitativa e quantitativa crescente o decrescente
delle situazioni di emergenza.
Per quanto riguarda le procedure decisionali, è previsto il voto a maggioranza qualificata in
ambo i settori, ma con riferimento alla PESC è previsto il principio dell'astensione costruttiva
sulla base del quale le astensioni di membri del Consiglio dei ministri non impediscono
l'adozione di decisioni in materia, non obbligano lo Stato membro ad applicare la decisione e
fanno sorgere in capo allo stesso il dovere di non intraprendere azioni che possono
contrastare o impedire l'azione dell'Unione basata su tale decisione.
E’ consentito al Consiglio dei ministri di deliberare a maggioranza qualificata quando adotta
una decisione su un’azione o posizione dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza
in seguito a una richiesta specifica rivolta a quest’ultimo dal Consiglio europeo di sua iniziativa
o su richiesta dell’Alto rappresentante.
Nel quadro della politica estera e di sicurezza comune, l'autorizzazione a procedere a una
cooperazione rafforzata è concessa con decisione adottata all'unanimità dal Consiglio dei
ministri e previo parere dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esterni e la politica
di sicurezza sulla coerenza della cooperazione rafforzata con la politica estera e di sicurezza
comune nonché della Commissione, sulla coerenza della cooperazione stessa con le altre
politiche dell'UE. Nel settore della politica di sicurezza e di difesa comune la cooperazione
strutturata è strumento di cui possono avvalersi di Stati membri che rispondono a criteri più
elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto tra loro impegni più vincolanti ai
fini delle missioni più impegnative: a tali Stati membri è rimessa l'adozione delle decisioni
relative all'oggetto della cooperazione strutturata e l’associazione alla stessa di ulteriori Stati
membri che intendono divenire parte in una fase successiva.
Il profilo maggiormente problematico che si configura quale comune denominatore delle due
forme di cooperazione è identificabile nell’esistenza della ricerca di compatibilità e nel
necessario coordinamento degli strumenti in oggetto con i diritti e gli obblighi derivanti dagli
Stati membri dell’Unione dall’appartenenza ad organizzazioni od alleanza internazionali di
carattere militare (UEO e NATO).

2) Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Il venir meno della struttura tripartita dell'Unione ha reso possibile la concentrazione nel
Titolo V delle norme relative a controllo delle frontiere, asilo e immigrazione che
precedentemente facevano parte del pilastro comunitario, e delle norme riguardanti la
cooperazione giudiziaria in materia civile e penale e la cooperazione di polizia.
Tuttavia non è riscontrabile una coincidenza dei meccanismi decisionali in quanto la
realizzazione delle politiche aventi ad oggetto i controlli alle frontiere, l'asilo e l'immigrazione
implica il ricorso agli strumenti giuridici dell'Unione ovvero a Convenzioni internazionali,
mentre la cooperazione giudiziaria penale e di polizia comportano l'ulteriore impiego di mezzi
operativi.
Deve inoltre porsi in rilievo che la sfera di competenza della Corte di Giustizia non si estende
all’esame della validità o proporzionalità di operazioni effettuate dalla polizia o da altri servizi
incaricati dell’applicazione della legge di uno Stato membro ovvero dell’esercizio delle
responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la
salvaguardia della sicurezza interna.

B. GLI OBIETTIVI DELL'UNIONE.
I Trattati riformati a Lisbona configurano gli obiettivi dell'Unione in misura più ampia rispetto
al TCE e al TUE.
Il primo obiettivo, di natura politica, riguarda il benessere dei popoli e la pace.
Il secondo obiettivo è di natura sociale ed economica e viene fatto coincidere con la creazione
di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, e un mercato interno nel
quale l'Unione si adoperi per garantire uno sviluppo sostenibile basato sulla crescita
economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, sull'economia sociale di mercato fortemente
competitiva e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente.
Il terzo obiettivo è di protezione ambientale e deve identificarsi con lo sviluppo sostenibile
dell'Europa basato su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità
dell'ambiente.
Accanto a queste categorie, sono stati introdotti altri obiettivi, di natura sociale: l’Unione deve
infatti combattere l’esclusione sociale e le discriminazioni e deve promuovere la giustizia e la
protezione sociale, la parità tra uomini e donne, la solidarietà tra le generazioni, la tutela dei
diritti del minore. Inoltre, l’Unione deve rispettare la ricchezza della propria diversità culturale
linguistica, nonché vigilare sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale
europeo.
L’Unione infine deve contribuire al rispetto del commercio libero ed equo, all’eliminazione
della povertà e alla tutela dei diritti umani.

C. LA PERSONALITÀ GIURIDICA DELL'UNIONE.
La personalità giuridica dell’Unione viene affermata dall’art 47 del TUE come riformato a
Lisbona. Deve ritenersi che si tratti di personalità giuridica internazionale. L’Unione ha, in
ciascuno degli Stati membri, la più ampia capacità giuridica riconosciuta alle persone
giuridiche dalla legislazioni nazionali. Da essa derivano una serie di conseguenze giuridiche
relative in termini di diritti e prerogative connessi alla natura di soggetto internazionale
posseduto dall'Unione stessa.

D. LA NATURA GIURIDICA DELL'UNIONE.
I Trattati riformati a Lisbona non risolvono in via definitiva la questione relativa alla natura
giuridica dell'Unione in quanto la stessa continua a mostrare, accanto ad elementi
tipicamente federali altri di tipo internazionale, altri ancora che lasciano prefigurare una
unione di cittadini e un'unione di Stati.
· Componenti federali. La configurazione dell'Unione quale entità unitaria dotata di
personalità giuridica internazionale; il consolidamento dell'Unione quale comunità politica
composta da altre comunità politiche, gli Stati membri, che esercita il proprio potere politico
sui cittadini e sugli Stati; il riconoscimento e la garanzia dei diritti fondamentali della persona
in seno ai trattati quale limite posto all’esercizio del potere; la conformazione della tecnica di
riparto delle competenze tra Unione e Stati membri che, ispirandosi al modello federale,
distingue tra diverse sfere materiali di attribuzioni (esclusive, concorrenti ecc) e contempla la
tradizionale clausola residuale a favore degli Stati membri; il riassetto istituzionale basato su
un modello tendenzialmente federale; la definizione di una nuova tipologia degli atti giuridici
dell’Unione che, seppur mantenuti sotto il profilo della loro veste formale con l’attuale nomen
iuris (regolamenti, direttive, decisioni), distingue tra atti legislativi e non legislativi;
l’affermazione del primato dei trattati e del diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione
nell’esercizio delle proprie competenze sul diritto degli Stati membri.
· Componenti internazionali. Il diritto degli Stati membri di recedere dall'Unione; la mancanza
di una politica di difesa comune; la conservazione del principio dell’unanimità a presidio di
alcune decisioni del Consiglio; la conservazione della disciplina del procedimento di revisione
costituzionale, che continua a fondarsi su una duplice unanimità, degli Stati in sede di
conferenza intergovernativa e di ratifiche da adottare ai sensi delle norme costituzionali
vigenti in ciascun ordinamento, la mancanza di un ordinamento giudiziario europeo fondato
su circuiti multilivello
· Unione di cittadini. Il riconoscimento del valore giuridico della Carta di Nizza dei diritti
fondamentali, come enunciato dall’art 6 TUE; la conferma delle norme in materia di
cittadinanza dell'Unione; il rafforzamento dei poteri dell'organo direttamente rappresentativo
degli interessi dei cittadini, il Parlamento europeo, e la ridefinizione delle modalità di voto del
Consiglio nei casi in cui sia prevista la convergenza della maggioranza degli Stati e delle
popolazioni; la nuova disciplina della partecipazione dei parlamenti nazionali al processo di
controllo della corretta applicazione del principio di sussidiarietà; le innovazioni apportate alla
disciplina dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
· Unione degli Stati. La conservazione della regola dell'unanimità ove siano oggetto di
decisione materie che tuttora rientrano prevalentemente nella sovranità statale (ad esempio,
la difesa, la politica estera e di sicurezza comune); la conservazione dei principi relativi al
riparto e alle modalità di esercizio delle competenze tra Unione e Stati membri (principio di
attribuzione, principio di sussidiarietà e principio delle competenze residuali degli Stati).

9. L'integrazione europea nelle costituzioni degli Stati membri.
La partecipazione degli Stati membri alla Comunità europea e all'Unione europea ha implicato
il conferimento di diritti di sovranità dai primi a favore delle seconde al fine di rendere
compatibili i due livelli costituzionali e di garantire l'osservanza da parte degli ordinamenti
nazionali del principio del primato del diritto comunitario.
In fondamento costituzionale che funge da duplice ancoraggio nel senso descritto trova una
conformazione variegata in seno ai singoli Stati membri, anche in ragioni delle diverse
concezioni accolte a livello nazionale in merito al rapporto tra diritto sopranazionale e diritto
statale (tradizione monistica o dualistica).
Particolarmente garantistica appare la scelta attuata dalla L. fondamentale tedesca che dedica
due disposizioni al conferimento dei diritti di sovranità a favore dell’UE ed alla partecipazione
della Germania, parimenti implicante il trasferimento di diritti di sovranità, ad organizzazioni
internazionali. La stessa legge ha individuato inoltre un nucleo di principi ritenuti intangibili
anche ad opera del legislatore comunitario ed in quanto tali parametri utilizzabili dall’organo
di giustizia costituzionale nazionale.
La dottrina Solange, ha affermato che il Tribunale costituzionale federale ritiene che vi sia una
presunzione di compatibilità del diritto comunitario se non viene dimostrato che esso sia in
conflitto con i diritti fondamentali o con il nucleo di principi protetto dalla Legge
fondamentale.
A simili conclusioni è pervenuta la stessa Corte costituzionale laddove ha ammesso che le
limitazioni di cui all’art 11 (nella direzione del primato comunitario) non consentono la
rinuncia all’applicazione e tutela dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano e dei
diritti inalienabili della persona (dottrina dei controlimiti alla prevalenza del diritto
comunitario) e si è quindi riservata la garanzia del sindacato di costituzionalità sulla legge di
autorizzazione del trattato che consentisse l’operatività dell’ordinamento italiano di atti
comunitari che pongano in pericolo tali principi e garanzie.
In tal senso la giurisprudenza costituzionale italiana ha individuato l'esistenza, fra
ordinamento comunitario e ordinamento italiano, di un rapporto di separazione e di
coordinamento, nel contesto del quale alla evidenziazione del principio di preminenza delle
fonti comunitarie in base ad una riserva di competenza a loro favore si accompagna
l'assegnazione alle fonti comunitarie di un rango paracostituzionale che assicura loro una
preferenza rispetto alle fonti nazionali incompatibili, ma con il limite della
salvaguardia dei principi fondamentali dell'ordinamento e dei diritti inalienabili della persona,
essendosi la Corte italiana riservata la competenza a sindacare le leggi di autorizzazione alla
ratifica ed esecuzione dei Trattati qualora tali principi o diritti potessero soffrire un pregiudizio
ad opera delle fonti comunitarie abilitate da tali leggi.
Accanto all’art 11 Cost, i vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’UE sono stati
integrati nell’art 117 comma 1 Cost. La Corte costituzionale ha successivamente chiarito il
rapporto tra l’art 11 e l’art 117 comma 1 Cost, precisando che quest’ultimo ha confermato
espressamente ciò che era già collegato all’art 11 Cost, ovvero l’obbligo del legislatore statale
e regionale di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
Particolare importanza assume la decisione del Tribunale tedesco (c.d. Lissabon Urteul) in
quanto contiene una riflessione sui limiti del processo di integrazione europea e una visione
negativa sulla capacità dell’Unione di diventare uno Stato federale. Le questioni affrontate dal
Lissanbon Urteil riguardano in particolare: a) il rispetto dei principi fondamentali; b) il
principio di attribuzione e i limiti alla futura espansione delle competenze dell’Unione; c) i
limiti alla revisione tacita dei trattati; d) il principio democratico.
In questa sentenza, il Tribunale costituzionale non ha rinunciato a ricordare la propria
concezione della natura giuridica dell’UE: non uno Stato federale, ma un ordinamento che si
pone a metà strada tra uno Stato federale e una Confederazione. L’Unione gode di
un’autonomia decisionale distinta dalla sovranità, che non è originaria, ma derivata dalla
volontà degli Stati membri. Graverebbe pertanto sugli organi costituzionali tedeschi la
responsabilità di vigilare sul rispetto da parte delle istituzioni europee dei principi di
democrazia, trasparenza e sussidiarietà.
Il Tribunale costituzionale federale ha inoltre considerato imprescindibile l’approvazione del
Parlamento tedesco di ogni ampliamento delle competenze dell’Unione. Al contempo, il
Tribunale costituzionale offriva un’interpretazione restrittiva di alcune competenze trasferite
all’Unione o rafforzate dal Trattato di Lisbona. Si tratta di materie (diritto penale, difesa,
bilancio, Stato sociale, cultura) che sono considerare sensibili, per cui il loro esercizio deve
essere limitato a livello europeo.

10. Il riparto delle competenze fra Unione e Stati membri. La forma di Stato-ordinamento
europea.
I Trattati comunitari e il Trattato sull'Unione europea non contenevano un meccanismo di
riparto delle competenze fra l'Unione e gli Stati membri in grado di offrire una chiara
definizione delle attribuzioni di natura esclusiva dell'Unione, l'individuazione delle attribuzioni
di natura concorrente e il ricorso ad una clausola residuale capace di innescare
automaticamente la competenza degli Stati membri nella materie e settori non contemplati
nelle due precedenti liste.
I Trattati preferivano solamente indicare gli obiettivi e gli strumenti per perseguirli nonché la
disciplina delle azioni volte a realizzare gli obiettivi stessi.
Il riparto delle competenze fra Unione e Stati membri non si prestava ad essere inquadrato
all’interno delle tradizionali categorie concettuali e classificatorie, ma si traduceva in
questione altamente problematica alla cui definizione aveva fornito un apporto un’innovativa
sentenza della Corte di Giustizia. La Corte infatti ha derivato dagli obiettivi enunciati dai
preamboli e nei primi articoli dei trattati, dagli strumenti di realizzazione di tali obiettivi e dal
sistema dei trattati in generale, principi e regole relativi al riparto delle competenze.
La categoria dei settori di competenza, ad esempio, è figura di matrice giurisprudenziale
positivizzata ad opera del Trattato di Maastricht: nelle materia di competenza esclusiva della
Comunità era vietato ogni intervento normativo degli Stati membri; secondo il trattato le
competenze che recavano tale natura erano poche, risultando qualificata espressamente tale
solo la politica monetaria. Ciò non ha impedito alla Corte di giustizia di adottare
un’interpretazione estensiva delle attribuzioni comunitarie tradottasi nella riconduzione al
novero delle competenze esclusive di altre materie, quali la politica commerciale comune e
porzioni della politica agricola comune.
Il fenomeno descritto ha assunto una triplice connotazione, che può ritenersi caratteristica
dell’atteggiamento a favore della Comunità che la Corte di giustizia ha ritenuto di dovere
seguire e tradottasi nell’interpretazione estensiva delle attribuzioni comunitarie,
nell’interpretazione restrittiva delle limitazioni poste dai trattati alle competenze comunitarie,
infine nella trasformazione di alcune competenze concorrenti in competenze esclusiva
attraverso il c.d. fenomeno della preempion.
I Trattati riformati a Lisbona contengono una fondamentale novità sui versanti della
enunciazione delle categorie di competenze e della individuazione dei settori riconducibili a
ciascuna delle categorie adottate.

La tipologia delle competenze risulta articolata in cinque categorie:
1) Settori di competenza esclusiva dell'Unione (art 3 TFUE) comprendono l'unione
doganale, le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la
politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, la politica commerciale
comune, la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica
comune della pesca.
2) Settori di competenza concorrente Unione-Stati membri (art 4 TFUE). Riguarda:
mercato interno; politica sociale; coesione economica, sociale e territoriale; agricoltura
e pesca; ambiente; tutela dei consumatori, trasporti, energia.
3) Coordinamento delle politiche economiche ed occupazionali (art 5 TFUE). Si sostanzia
nella competenza dell'Unione ad adottare misure per assicurare il coordinamento di tre
tipi di politiche degli Stati membri: le politiche economiche, le politiche occupazionali e
le politiche sociali.
4) Politica estera e di sicurezza comune (art 24 TFUE). È un quartum genus e riguarda
tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione,
compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che potrà
condurre a una difesa comune.
5) Settori delle azioni di sostegno, di coordinamento e di completamento (art 6 TFUE).
Tale categoria è, infine, relativa ai settori di: salute umana, industria, cultura, turismo,
istruzione, gioventù, sport e formazione professionale, protezione civile, cooperazione
amministrativa.


CAPITOLO IV
LE ISTITUZIONI E LA FORMA DI GOVERNO DELL'UNIONE.

1.Il quadro istituzionale e la fusione dei pilastri.
L'immagine spesso utilizzata per descrivere il funzionamento dell'Unione è stata quella di un
tempio greco sorretto da tre pilastri, il primo contenente le politiche comuni relative a
questioni economiche e monetarie, il secondo dato dalla cooperazione in materia di
politica estera e sicurezza comune (PESC), il terzo relativo alla cooperazione in materia di
giustizia e affari interni (GAI).
L'organizzazione dell'unione europea in 3 pilastri è stata elaborata per distinguere le
procedure di decisione in materia economica dalle altre due. Difatti, l'intenzione perseguita è
stata quella di attribuire al solo Consiglio, e al suo potere di decidere all'unanimità, la gestione
delle politiche che interessavano in maniera diretta l'esercizio della sovranità degli Stati
membri, mettendoli al riparo da possibili interferenze della Commissione o del Parlamento in
veste di organi sopranazionali.
Il Trattato di Maastricht ha portato ad una svolta fondamentale nel processo di integrazione,
ma gli strumenti predisposti per il raggiungimento di questo ambizioso programma si sono
preso manifestati inadeguati. Infatti, le procedure sono state moltiplicate in ragione dei nuovi
compiti. Tali fattori hanno prodotto un appesantimento dei relativi apparati, creando
complicazioni nei processi decisionali. La struttura a pilastri ha prodotto non pochi problemi
tecnici e giuridici ed è stata all’origine di numerosi attriti tra le istituzioni comunitarie.
Il nuovo TUE, come modificato dal trattato di Lisbona, ha previsto dunque la soppressione del
sistema a pilastri realizzando un quadro giuridico comune, pur mantenendo particolari
soluzioni per il settore della PESC.
Ai sensi dell'art 13 del nuovo TUE, l'Unione dispone di un quadro istituzionale che comprende
il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione europea, la Corte di
giustizia dell'Unione europea, la Banca centrale europea e la Corte dei conti. Tali istituzioni
sono volte a perseguire i valori, a servire gli interessi dell’Unione, dei suoi cittadini e degli Stati
membri, nonché a garantire la coerenza, l’efficacia e la continuità delle sue politiche e delle
sue azioni.

2. IL PARLAMENTO EUROPEO.
2.1. La composizione.
Il Parlamento Europeo è un organo eletto a suffragio universale diretto dai cittadini degli Stati
membri sulla base di leggi elettorali nazionali e dotato di un numero di seggi diversamente
ripartiti fra gli Stati in ragione della rispettiva popolazione.
Gli Stati membri non sono finora riusciti a raggiungere una soluzione di compromesso
sull’adozione di una procedura elettorale uniforme ogni Stato determina pertanto con proprie
regole i sistemi di presentazione delle candidature, le condizioni di eleggibilità e le modalità di
scrutinio. L'Italia, in particolare, ha adottato un sistema proporzionale.
Il numero complessivo dei parlamentari europei è di 754.
Gli euro deputati hanno un mandato di 5 anni e sono divisi in gruppi parlamentari sulla base
delle loro affinità politiche, non della provenienza. I gruppi parlamentari si sono in particolare
articolati nel gruppo del Partito popolare europeo/ Democratici-cristiani; nel gruppo Alleanza
progressista dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento europeo; nel gruppo conservatori e
riformisti europei ecc. I parlamentari europei, al pari dei membri dei parlamenti nazionali,
hanno una serie di immunità e di privilegi. In particolare: le opinioni espresse
nell’espletamento delle loro funzioni non possono essere sindacate; sul territorio nazionale
hanno le stesse immunità dei parlamentari dello Stato e negli altri Paesi non possono essere
arrestati, né contro di essi può essere intentato un procedimento giudiziario anche per atti
commessi al di fuori del loro ufficio.
Diversamente da quanto stabilito dai previgenti trattati, secondo cui il Parlamento europeo
risultava composto dai rappresentanti dei popoli degli Stati, il nuovo TUE stabilisce all’art 14
che i membri del Parlamento Europeo sono eletti a suffragio universale diretto, con uno
scrutinio libero e segreto. Esso è composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione.
Questo significa che il PE è la colonna portante della democrazia rappresentativa europea.
Nella sua versione definitiva, il Trattato sull’Unione europea come modificato a Lisbona
stabilisce che il numero dei seggi non può estendersi oltre i 750, più il Presidente e che la
rappresentanza dei cittadini è garantita in modo proporzionale, da una soglia minima di 6
membri ad una massima di 96 per Stato.
Il Consiglio, sulla base di una proposta del PE, adotta una decisione che definisce la
composizione del PE.

2.2. L'organizzazione interna.
La disciplina dell’organizzazione e della struttura del PE è contenuta nei Trattati istitutivi e nel
Regolamento interno, adottato dallo stesso PE. Il Regolamento interno disciplina il
funzionamento del PE sul profilo interno e sul profilo esterno. Sul profilo interno, questo
regolamento ha integrato le norme presenti nei Trattati istitutivi e sul profilo esterno ha dato
nuovi poteri ai parlamentari, poteri che non erano previsti nei Trattati istitutivi.
Il Parlamento europeo elegge il proprio Presidente a maggioranza assoluta dei suoi membri
nei primi 3 scrutini e a maggioranza semplice alla quarta votazione, per un periodo di 2 anni e
mezzo. Egli riveste un ruolo politico di non trascurabile rilevanza nell’ambito dell’architettura
istituzionale dell’Unione. Non soltanto adempie ad una serie di funzioni amministrative,
dirigendo i dibattiti che si svolgono in Parlamento e moderando la discussione, ma può anche
esercitare poteri disciplinari e presiede le sedute plenarie. Il Presidente, soprattutto, insieme
con il Presidente del Consiglio europeo e con il Presidente della Commissione, ha la
rappresentanza esterna dell’Unione. Per espletare le sue funzioni, il Presidente del PE è
coadiuvato da un Ufficio di presidenza composto da 4 vicepresidenti e 5 questori.
L'Ufficio di presidenza ha funzioni consultive e si occupa di questioni finanziarie,
amministrative e organizzative.
Poi abbiamo la Conferenza dei presidenti che è composta dal Presidente del PE, dai
Presidenti dei gruppi politici e da 2 deputati, i quali ultimi non hanno diritto di voto. La
Conferenza delibera sull’organizzazione dei lavori e sulla programmazione legislativa ed è
competente per le relazioni con gli altri organi dell’Unione, con i Parlamenti nazionali e con i
Paesi terzi.
Il funzionamento e l'organizzazione del PE, si fondano sull'attività delle Commissioni
parlamentari le quali sono articolate in 3 categorie.
1) Le commissioni permanenti. Sono 20 e operano in questi settori: affari esteri, bilancio,
agricoltura, sicurezza, difesa, mercato interno, industria e commercio, energia e
ambiente, sviluppo e cooperazione, trasporto, turismo, pesca ecc. I membri delle
commissioni permanenti sono eletti per 2 anni e mezzo;
2) Le commissioni temporanee possono essere costituite dal Parlamento europeo in
qualunque momento e di solito per un periodo non superiore a 12 mesi. Quando
vengono istituite si stabiliscono anche le loro competenze, il loro mandato e la loro
composizione;
3) Le commissioni d’inchiesta sono predisposte ad hoc, sulla base della richiesta di 1/4 dei
parlamentari europei, per valutare casi di cattiva gestione o violazioni del diritto
dell'UE.

Il Parlamento europeo può altresì procedere alla formazione di commissioni parlamentari
miste con parlamentari degli Stati associati all’Unione o degli Stati con i quali sono stati avviati
negoziati in vista di una futura adesione.
La legislatura del PE dura 5 anni periodo che coincide col mandato dei suoi deputati. Ogni
anno di legislatura costituisce una sessione che è suddivisa in 12 tornate che corrispondono
alle riunioni mensili in seduta plenaria. Il PE può riunirsi anche in seduta straordinaria
quando ciò sia richiesto dalla maggioranza dei membri del PE, dalla Commissione o dal
Consiglio.
Le tornate mensili si svolgono a Strasburgo, mentre le tornate straordinarie e le riunioni delle
commissioni parlamentari si svolgono a Bruxelles.
Le deliberazioni del PE sono adottate a maggioranza assoluta dei voti espressi e il numero
legale è raggiunto quando in Parlamento è presente un terzo dei membri che lo compongono.

2.3. Il rapporto con i Parlamenti nazionali.
Le crescenti preoccupazioni nutrite dai Parlamenti nazionali in ordine al trasferimento
verticale delle competenze degli Stati membri all’Unione europea, si sono tradotte nel corso
dei lavori preparatori del Trattato di Maastricht nella configurazione dell’ipotesi di
istituzionalizzare un Conferenza dei Parlamenti, capace di facilitare il dialogo tra Parlamento
europeo e Parlamenti nazionali. Tali esigenze sono sfociate all’interno di due Dichiarazioni
allegate al TUE, la prima dedicata alla manifestazione dell’esigenza di un più intenso scambio
di informazioni e ad un potenziamento dei contatti con incontri regolari, la seconda
predisposta all’istituzionalizzazione di una cooperazione, nella veste di una Conferenza dei
Parlamenti. E’ solo con il protocollo n 9 allegato al Trattato di Amsterdam che si disciplina il
ruolo dei Parlamenti nazionali, sulla base del presupposto che in tutte le democrazie
moderne, i Parlamenti nazionali esercitano un controllo politico sull’operato dei propri
governi.
Il protocollo ha riconosciuto anche il ruolo della Conferenza degli organi specializzati negli
affari comunitari (COSAC). Essa è costituita da deputati dei Parlamenti nazionali e deputati del
PE e ha lo scopo di scambiare informazioni. Può, inoltre, dare tutti i contributi che ritiene utili
alle istituzioni dell’UE (Commissione, PE, Consiglio), ed inviare documenti relativi
all’applicazione del principio di sussidiarietà e alla tutela dei diritti fondamentali.
In base all’art 12 del TUE modificato a Lisbona, i Parlamenti nazionali contribuiscono
attivamente al buon funzionamento dell’Unione attraverso una costante informazione a cura
delle istituzioni della stessa e la trasmissione dei progetti di atti legislativi, vigilando sul
rispetto del principio di sussidiarietà, partecipando alle procedure di revisione dei Trattati,
venendo informati sulle domande di adesione all’Unione di nuovi Stati; partecipando alla
cooperazione interparlamentare tra Parlamenti nazionali e con il Parlamento europeo. In base
a questa nuova disposizione, i Parlamenti nazionali divengono interlocutori diretti delle
istituzioni dell’Unione, acquisendo una posizione di primaria rilevanza ed indipendente
rispetto a quella dello Stato membro di appartenenza.
Tutti i documenti di consultazione (libri bianchi, libri verdi e comunicazioni) nonché tutti i
progetti di atti legislativi, sono trasmessi direttamente dalla Commissione ai Parlamenti
nazionali. Questi dispongono di un tempo massimo di 8 settimane, intercorrente tra la data di
messa a disposizione e la data di iscrizione all’ordine del giorno del Consiglio ai fini
dell’adozione, per prenderne visione ed eventualmente esprimere un parere motivato da
inviare ai Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione sulla
conformità del progetto di atto legislativo al principio di sussidiarietà.
Un ulteriore meccanismo per il controllo relativo al rispetto del principio di sussidiarietà, è la
c.d. procedura di early warning (procedura di allarme preventivo), in base alla quale ciascuna
Camere di ogni Parlamento nazionale può inviare entro 8 settimane un parere motivato con il
quale esprimere le ragioni che ostano ad una puntuale conformità del progetto di atto
legislativo al principio di sussidiarietà.
Le istituzioni competenti devono poi tenere in considerazione i pareri espressi dai Parlamenti
nazionali e nel momento in cui tali pareri rappresentino almeno 1/3 dei voti attribuiti ai
Parlamenti nazionali o ¼ nel caso dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, il progetto di atto
legislativo dovrà essere riesaminato dalla Commissione o dalle altre istituzioni e al termine di
tale riesame la decisione di modificarlo, mantenerlo o ritirarlo dovrà essere motivata.
All'entrata in vigore dell'atto, i Parlamenti nazionali potranno comunque promuovere presso i
loro governi, in conformità con il rispettivo ordinamento interno, il ricorso alla Corte di
giustizia per violazione del principio di sussidiarietà.
Qualora invece vi sia una maggioranza semplice dei Parlamenti nazionali che predispongano
pareri motivati sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà di un atto legislativo
dell’Unione, adottato secondo la procedura legislativa ordinaria, la Commissione potrà
decidere di mantenerlo ma con motivazione delle ragioni poste alla base della sua scelta.
Tuttavia, in questo caso, se una maggioranza pari ad almeno il 55% dei membri del Consiglio o
la maggioranza dei voti espressi dal Parlamento europeo ritenga la proposta non compatibile
con il principio di sussidiarietà, la stessa proposta potrà formare oggetto di un ulteriore
esame.

2.4. Le funzioni e i poteri.
Il PE non nasce come un vero e proprio organo legislativo, ma ha visto gradualmente
aumentare la sua partecipazione ai procedimenti decisionali comunitari nel corso degli anni.
Infatti, dalla metà degli anni 80, a partire dall’adozione dell’Atto unico europeo, che ha
provveduto ad accrescerne la sfera di attribuzioni, il raggio d’azione di tale istituzione ha
continuato ad estendersi e a rafforzarsi progressivamente in nuove materie. Successivamente,
il Trattato di Maastricht ha generalizzato le procedure di cooperazione e di parere conforme
del Parlamento europeo e ha costituito una nuova procedura di decisione congiunta; quello di
Amsterdam ha assimilato i poteri del Parlamento europeo e del Consiglio nel procedimento
legislativo, anche se in misura limitata alla creazione e articolazione del mercato interno.
In virtù dell’art 14 TUE, il PE esercita, congiuntamente con il Consiglio, la funzione legislativa e
quella di bilancio, nonché funzioni di controllo politico e consultive.
Quanto alla funzione di iniziativa legislativa, il PE può sollecitare la Commissione all’adozione
di una proposta da formulare al Consiglio. Questo potere è però indiretto perché il PE non può
rivolgere personalmente un progetto al Consiglio e l’inerzia della Commissione può essere
censurata solo in caso di proposta obbligatoria. Ma, nell'art 225 TFUE c’è una novità: la
Commissione, se non dà seguito alla richiesta del Parlamento deve comunicare le motivazioni
che stanno alla base della sua decisione. Sembra peraltro escluso che, quando la Commissione
non segua l'istanza del Parlamento, lo stesso possa proporre ricorso in carenza alla Corte di
Giustizia.
Il regolamento interno del PE consente di aprire una discussione straordinaria su una materia
connessa alle politiche dell’Unione di notevole peso specifico, quando ne facciano richiesta un
gruppo politico e almeno quaranta deputati; o ancora di accompagnare la discussione con una
proposta di risoluzione, da votarsi al termine del dibattito, su una problematica avente
carattere di particolare urgenza. Inoltre si prevede la possibilità per le relative commissioni
competenti di presentare al Parlamento europeo una proposta di raccomandazione da
destinarsi al Consiglio. Tali risoluzioni e raccomandazioni possono rappresentare uno
strumento utile per tracciare in una determinata direzione l’azione dell’Unione, persuadendo
le altre istituzioni, e in particolare, la Commissione ad impegnarsi su specifici fronti.

FUNZIONE DI BILANCIO.
Fra le principali novità che concernono i poteri del Parlamento europeo meritano particolare
attenzione quelle relative alla procedura di bilancio.
Il progetto preliminare di bilancio ai sensi del vecchio art 272 TCE, veniva predisposto dalla
Commissione e approvato dal Consiglio a maggioranza qualificata. Poi il progetto veniva
tramesso al PE che entro 45 giorni doveva scegliere tra 3 opzioni:
1) Approvare il bilancio;
2) Produrre degli emendamenti;
3) Rifiutare il progetto.
Quando il PE decideva di produrre degli emendamenti, doveva approvare a maggioranza dei
suoi componenti, e se deliberava a maggioranza assoluta dei suffragi espressi, proporre al
Consiglio di modificare le spese che derivavano obbligatoriamente dal Trattato o da atti
adottati in sua esecuzione. Nei 15 giorni successivi il Consiglio poteva correggere ciascuno
degli emendamenti e deliberare sulle proposte di modifica del PE. A questo punto il progetto
di bilancio veniva nuovamente trasferito al PE, che poteva emendare o rigettare le modifiche
apportate dal Consiglio. Se il Parlamento non si pronunciava, il bilancio si considerava
definitivamente approvato. La constatazione formale dell’approvazione del bilancio veniva
effettuata dal Presidente del PE.
Dobbiamo, però, dire che la decisione definitiva spettava al PE solo per quanto riguardava le
spese facoltative, mentre per l’approvazione delle spese obbligatorie restava al Consiglio. Il PE
poteva, per importanti motivi, a maggioranza dei componenti e di due terzi dei voti espressi,
anche rigettare il progetto di bilancio e chiedere la presentazione di un nuovo progetto di
bilancio. Questa facoltà però rappresentava una extrema ratio perché paralizzava il
funzionamento delle istituzioni dell’Unione.
Spettava, infine, alla Commissione dare esecuzione al bilancio sotto la propria responsabilità.
I nuovi Trattati risultati dal compromesso raggiunto a Lisbona hanno apportato alla funzione
di bilancio molteplici novità. In particolare, l’art 314 TFUE contempla l’adozione congiunta ad
opera di Parlamento e Consiglio, su proposta della Commissione, e secondo una procedura
legislativa speciale descritta nell’ambito del medesimo articolo, del bilancio annuale
dell’Unione. Il Parlamento viene così a svolgere nella procedura di approvazione del bilancio
un ruolo più incisivo rispetto al Consiglio in considerazione del fatto che, ove il Consiglio
respinga il progetto, esso può sempre confermare i propri emendamenti.
Il TFUE superando la distinzione tra spese obbligatorie e spese facoltative ha rafforzato i
poteri di decisione del PE, rendendolo pienamente partecipe della funzione di bilancio.
Inoltre il TFUE ha introdotto la previsione di un quadro finanziario pluriennale che viene
stabilito per 5 anni ed è adottato dal Consiglio all’unanimità con la previa approvazione del
Parlamento.

FUNZIONI DI CONTROLLO.
Il PE aveva poteri di controllo solo nei confronti della Commissione che aveva il dovere di
rispondere alle interrogazioni del PE, di presentare annualmente un rapporto sulla sua attività
e includendo la possibilità per il Parlamento di votare una mozione di censura nei suoi
confronti.
Tuttavia non si è mai instaurato tra Parlamento e Commissione un rapporto di fiducia,
assimilabile a quello che viene ad instaurarsi tra governo e assemblea rappresentativa.
Nonostante ciò è stata introdotta la prassi di un voto parlamentare di approvazione dell’intera
compagine commissariale, al momento della sua entrata in funzione.
Con il Trattato di Nizza si è previsto che il Parlamento europeo fosse chiamato in prima
battuta ad approvare l’indicazione del Presidente della Commissione, decisa dal Consiglio
riunito a livello dei Capi di Stato o di Governo, e in seconda battuta ad esprimere un voto di
approvazione sul Presidente e gli altri commissari collettivamente considerati.
Un’ulteriore forma di controllo politico del Parlamento si sostanzia nella possibilità di
presentare interrogazioni alla Commissione e al Consiglio.
Le interrogazioni si distinguono in orali e scritte. Quelle orali possono essere predisposte da
una commissione, da un gruppo politico o da almeno 40 deputati, secondo la disciplina
contenuta nel regolamento europeo. Le interrogazioni scritte possono essere rivolte da
qualsiasi parlamentare e vengono pubblicate con le relativa risposte sulla Gazzetta ufficiale.
Il PE inoltre, ai sensi dell’art 234 TFUE, può “sfiduciare” la Commissione approvando la
mozione di censura (a maggioranza dei 2/3 dei voti espressi e a maggioranza dei componenti)
costringendo in tal modo i membri della Commissione ad abbandonare le loro funzioni,
restando in carica in regime di prorogatio, fino alla nomina della nuova Commissione.
Il trattato di Maastricht ha introdotto la figura del Mediatore europeo, che rappresenta
un’ulteriore fonte di informazione del Parlamento europeo, nonché un utile strumento di
garanzia e di tutela non giurisdizionale dei cittadini contro la cattiva amministrazione delle
Istituzioni dell’Unione. Viene nominato dal Parlamento europeo, all’inizio di ogni legislatura,
con scrutinio segreto ed a maggioranza dei voti espressi. Rimane in carica fino a quando
subentra il suo successore. Il PE stabilisce le funzioni del Mediatore europeo che le esercita
in piena indipendenza e nell’interesse generale della Comunità, non sollecitando né
accettando alcuna istruzione da un governo o un’istituzione e può essere dichiarato
dimissionario solo dalla Corte di Giustizia qualora non risponda più alle qualità necessarie per
l’esecuzione dell’incarico.
L'ombudsman europeo riceve le denunce presentate da qualsiasi cittadino, persona fisica o
giuridica. Le denunce possono essere presentate personalmente o tramite un membro del PE
entro 2 anni dalla data in cui si è pervenuti alla conoscenza del fatto. Il Mediatore procede alle
inchieste e informa l’Istituzione interessata che entro 3 mesi deve far pervenire le proprie
osservazioni. Poi il Mediatore trasmette una relazione al PE ed alla Istituzione interessata,
relazione che, comunque non è vincolante.
A seguito delle innovazioni del TUE dopo le modifiche di Lisbona è stata prevista la possibilità
per il PE di eleggere, su proposta del Consiglio europeo, a maggioranza assoluta il Presidente
della Commissione. Questo rappresenta un progresso verso un miglior sistema di democrazia
parlamentare a livello europeo.

FUNZIONI CONSULTIVE.
Originariamente, il PE non aveva funzioni legislative e forniva solo dei pareri non vincolanti
(potevano essere obbligatori o facoltativi, ma comunque non vincolanti) alla Commissione e al
Consiglio.
Questa situazione è rimasta inalterata fino a quando è entrato in vigore l’Atto unico europeo
che ha introdotto la Procedura di cooperazione per l’adozione di determinati atti del
Consiglio, e ha introdotto la Procedura del parere conforme per la stipulazione di accordi di
associazione alla Comunità.
I Trattati modificati a Lisbona ci dicono poi che il PE ha un semplice ruolo di consultazione nei
settori della politica estera e di difesa comune, oltre che delle risorse proprie dell'Unione e
che il PE ha il diritto di essere regolarmente informato.
Tra le innovazioni introdotte dai Trattati modificati a Lisbona: potere di iniziativa del PE nella
revisione dei Trattati; potere di esprimere la propria approvazione per le proposte volte a
modificare il testo dei nuovi Trattati senza la convocazione di una Convenzione.

3. IL CONSIGLIO EUROPEO.
3.1.La natura giuridica, la composizione e il funzionamento.
Il Consiglio europeo è stato concepito inizialmente come testa politica della Comunità.
Il Trattato di Maastricht ne definì poi in misura più dettagliata i profili funzionali, affermando
che il Consiglio europeo dà all’Unione l’impulso necessario al suo sviluppo e ne definisce gli
orientamenti politici generali.
Prima della riforma dei Trattati attuata a Lisbona, il Consiglio europeo risultava composto dai
Capi di Stato e di Governo degli Stati membri nonché dal Presidente della Commissione,
assistiti dai Ministri incaricati degli Affari esteri e da un membro della Commissione.
Il Consiglio europeo si riuniva periodicamente due volte l’anno, sotto la presidenza del capo di
Governo dello Stato che esercitava la presidenza del Consiglio dell’Unione.
Nonostante l’inarrestabile processo di istituzionalizzazione del Consiglio europeo, risulta
tuttora problematica la definizione della sua natura giuridica, soprattutto se considerato in
rapporto con le altre istituzioni dell’Unione, comprese all’interno della costruzione europea.
Tale organo, infatti, da un lato non rappresenta altre che una semplice istanza
intergovernativa e pertanto non soggetta alle regole dei trattati. Dall’altra, il Consiglio
europeo, comparendo nell’ambito delle istituzioni dell’Unione solo a seguito delle modifiche
introdotte dal Trattato di Lisbona, ha esercitato e continua a esercitare un potere supremo di
indirizzo, che ha costantemente influenzato il processo d’integrazione europea. La rilevata
ambivalenza ha portato vari autori a qualificare il Consiglio europeo come organo extra
ordinem, teso a svolgere un ruolo capitale in tutti i settori di competenza comunitaria
mediante attività di impulso, d’indirizzo, di coordinamento, d’arbitrato o di risoluzione di
questioni particolarmente controverse.
I Trattati riformati a Lisbona hanno introdotto una fondamentale innovazione nell’attuale
apparato istituzionale, includendo il Consiglio europeo fra le istituzioni dell’UE. Esso risulta
composto dai capi di Stato o di Governo degli Stati membri, dal suo Presidente e dal
Presidente della Commissione nonché dalla nuova figura dell’Alto Rappresentante dell’Unione
per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
L’organizzazione interna è disciplinata dall’art 235 TFUE; la nuova istituzione risulta assistita in
particolare dal Segretario generale del Consiglio.
L’art 15 del nuovo TUE dispone che il Consiglio europeo delibera per consenso, salvo i casi in
cui i Trattati dispongano diversamente. Emerge inoltre la possibilità di votare non solo
all’unanimità, ma anche a maggioranza qualificata, come per la nomina del Presidente della
Commissione e dell’Alto rappresentante, o a maggioranza semplice, come per l’adozione del
proprio regolamento interno.
In caso di votazione, ogni membro del Consiglio europeo può ricevere una delega da uno solo
degli altri membri. Inoltre, un’astensione non è d’ostacolo all’adozione di un atto che richiede
in ogni caso l’unanimità.

Funzioni e poteri.
L’art 4 TUE ante Lisbona aveva costituito la base giuridica di riferimento ai fini dell’esercizio da
parte del Consiglio europeo di un generico potere di iniziativa e di definizione degli
orientamenti politici generali. Tuttavia, tale attività non si era mai tradotta in atti tipici, forniti
di una particolare forza vincolante nei confronti delle istituzioni comunitarie e degli Stati
membri. Ne è derivato il problema del rapporto tra il Consiglio europeo e le altre istituzioni.
L’ambito entro il quale si era maggiormente svolta l’attività di impulso del Consiglio europeo,
è stato sicuramente quello relativo alla politica estera e di sicurezza comune. Spettava infatti
al Consiglio europeo la definizione dei principi e degli orientamenti che avrebbero dovuto
essere attuati dal Consiglio e dagli Stati membri.
I Trattati riformati a Lisbona non innovano significativamente rispetto al testo dell’art 4 del
Trattato di Maastricht. Si è infatti ribadito che il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi
necessari al suo sviluppo, definendone i suoi orientamenti e le sue proprietà politiche
generali, ma precisando che esso non esercita funzioni legislative.
La funzione di indirizzo politico del Consiglio europeo si è estrinsecata in forma mutevole sia
sotto il profilo della determinazione temporale, sia sotto quello più propriamente
procedurale. Tale discrezionalità del Consiglio europeo ha sollevato l’esigenza di incanalare la
funzione di indirizzo dell’organo in oggetto all’interno di limiti maggiormente definiti,
vincolandola al perseguimento di determinati obiettivi, al fine di renderla più visibile e
trasparente agli occhi dei cittadini. E’ alla luce di tali considerazioni che i Trattati riformati a
Lisbona, da un lato, hanno predisposto un estensione dei suoi poteri: proposta del candidato
alla presidenza della Commissione effettuata dal Parlamento europeo, la nomina dell’Alto
rappresentante, la contestazione della persistente violazione dei diritti fondamentali da parte
di uno Stato membro, l’individuazione degli interessi strategici dell’Unione e la fissazione degli
obiettivi strategici ecc. Dall’altro, il Consiglio europeo è stato spogliato della precedente veste
di periodico promotore della dialettica politica comunitaria.
Tra gli atti propri del Consiglio europeo vi sono: le Conclusioni della Presidenza, predisposte
dal Consiglio europeo al termine dei suoi lavori e poi tradotte dalle altre Istituzioni in
provvedimenti concreti e le decisioni (provvedimenti che figurano tra gli atti non legislativi e,
come tali non soggetti alla proposta della Commissione, né alla consultazione del PE e
neppure al controllo della Corte di Giustizia).
Il Consiglio europeo, inoltre, possiede un potere decisionale su qualsiasi materia di cui venga
ad essere eventualmente investito dal Consiglio. Ciò porterebbe ad ipotizzare un possibile
sviluppo del Consiglio europeo non solo come organo di indirizzo politico, ma anche come
istanza di sintesi e chiusura dei processi decisionali dell’Unione.

Il Presidente del Consiglio europeo.
La Presidenza del Consiglio europeo spetta a ciascuno Stato membro per la durata di 6 mesi,
secondo un turno stabilito dal Consiglio stesso.
Il progressivo ed inarrestabile allargamento dell’Unione ha tuttavia generato la crisi del
regime della rotazione semestrale a causa della sua ridotta vigenza temporale e dell’assenza
di personalizzazione che la caratterizzava. La Convenzione costituente quindi aveva
lungamente discusso sulla necessità di addivenire ad una costituzionalizzazione di un
Presidente stabile del Consiglio europeo, destinato a sostituire la procedura di rotazione.
Il compromesso raggiunto all’interno del testo del TUE come riformato a Lisbona ha poi
previsto l’elezione da parte del Consiglio europeo a maggioranza qualificata del proprio
Presidente, il quale riceve un mandato di 2 anni e mezzo, rinnovabile una sola volta. La durata
della carica risulta analoga a quella del Presidente del PE e pari alla metà di quella del
Presidente della Commissione. Inoltre, in caso di impedimento o colpa grave, il Consiglio
europeo potrà porre fine al suo mandato con la medesima procedura.
Il Presidente presiede e anima i lavori del Consiglio, assicurandone la preparazione e la
continuità con il Presidente della Commissione; facilita la coesione e il consenso in seno al
Consiglio europeo; presenta una relazione al Parlamento Europeo dopo le riunioni del
Consiglio; ha la rappresentanza esterna dell'Unione nel settore della politica estera e della
sicurezza comune.
I poteri del Presidente del Consiglio europeo hanno un peso minore rispetto ai poteri del
Presidente della Commissione. Il Presidente del Consiglio europeo esercita infatti le sue
funzioni più importanti in sinergia con altre istituzioni, come il Consiglio Affari generali e il suo
team di Presidenza.
Al fine di garantire un’adeguata preparazione ed una puntuale continuità dei lavori del
Consiglio europeo, il Presidente dovrà necessariamente dare luogo ad una collaborazione
paritetica, anche in virtù del principio dell’equilibrio istituzionale, in base ai lavori del Consiglio
Affari generali e con il Presidente della Commissione. E’ stato inoltre imposto al Presidente del
Consiglio europeo di presentare a seguito di ogni sua riunione una relazione al Parlamento
europeo, creando così la base per l’esercizio da parte dello stesso Parlamento di una
successiva funzione di controllo sul potere di indirizzo del Consiglio europeo.

IL CONSIGLIO.
4.1. La composizione e la sue formazioni.
Il Consiglio dei ministri (o Consiglio dell’Unione o Consiglio dei ministri) è la principale
istituzione dell'Unione europea.
Esso è composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri, scelti nell’ambito dei rispettivi
governi normalmente con il rango dei ministri, responsabili della materia scritta all’ordine del
giorno: agricoltura, industria, economia, affari esteri, trasporti ecc. La presidenza, prima delle
modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, spettava a ciascuno Stato membro per la durata
di un semestre, secondo un turno stabilito da una deliberazione adottata all’unanimità dallo
stesso Consiglio.
Le decisioni del Consiglio sono preparate dal Comitato dei rappresentanti permanenti degli
Stati membri (COREPER), coadiuvato nell’espletamento delle sue funzioni dai gruppi di lavoro
composti dai funzionari delle amministrazioni nazionali. Il Consiglio è anche assistito da un
Segretariato generale, che ne rappresenta il supporto tecnico-funzionale.
Tuttavia nel corso degli anni, l’azione del Consiglio ha denotato progressiva difficoltà di
funzionamento, dovute essenzialmente a 3 ordini di ragioni. La prima rappresentata dallo
smisurato aumento delle sue configurazioni; la seconda dovuta alla conseguente mancanza di
organicità e coordinamento dei lavori; la terza costituita dalla graduale e sistematica sterilità
dei dibattiti in seno a tale istituzione, che ha trasformato l’attività di indirizzo politico in una
mera negoziazione delle più disparate istanze nazionali.
I Trattati emendati a Lisbona hanno sostanzialmente modificato l’assetto del Consiglio. Il
Consiglio, infatti, ai sensi dell’art 16 del nuovo TUE, risultata costituito da un rappresentante
nominato da ciascuno Stato membro a livello ministeriale per ogni formazione, il quale
impegna il Governo dello Stato che rappresenta.
Il Trattato sull’UE come modificato a Lisbona ha previsto che la scelta definitiva venga
demandata ad una decisione del Consiglio europeo adottata a maggioranza qualificata, salvo
la previsione della formazione “Affari generali” e di quella “Affari esteri”.
La formazione “Affari generali” ha infatti il compito di assicurare la coerenza dei lavori della
altre formazioni, di preparare le riunioni del Consiglio europeo e la Commissione; la
formazione “Affari esteri” ha invece ha invece il compito di elaborare l’azione esterna
dell’Unione, secondo le linee strategiche stabilite dal Consiglio europeo, garantendo la
coerenza dell’azione dell’Unione.

4.2. La funzione legislativa e di indirizzo politico.
Il Consiglio, agli albori del processo d’integrazione europea, svolgeva sia le funzioni legislative
che quelle esecutive della Comunità. In particolare, non risultava agevole cogliere la
diversificazione tra attività esecutive o d’indirizzo ed attività legislative del Consiglio, che
spesso risultavano confuse. Tali fattori hanno prodotto conseguenze nocive soprattutto in
riferimento alla produzione normativa. Originariamente, venne stabilito che il Consiglio dei
ministri disponeva di un potere decisionale, senza tuttavia definirne in maniera marcata i
confini.
Il potere decisionale del Consiglio, consistendo nell’adozione di direttive e regolamenti,
principali fonti del diritto derivato dell’UE, non risultava illimitato. Esso, infatti, doveva
ritenersi subordinato alle specifiche missioni indicate dal trattato. Ciò si traduceva, da un lato,
nella possibilità che il Consiglio deliberasse solamente nei casi esplicitamente previsti dai
trattati. Dall’altro, nel fatto che il Consiglio risultava vincolato solo all’adozione dei
provvedimenti contemplati per specifici settori dai trattati. Tuttavia, onde evitare una paralisi
del sistema di attuazione degli obiettivi enucleati dai trattati istitutivi, venne introdotta la c.d.
clausola di flessibilità che assieme alla c.d. teoria dei poteri impliciti (tale teoria comporta la
possibilità di riconoscere all’Unione poteri non espressamente conferiti dai Trattati, ma che
risultino indispensabili per un esercizio efficace delle competenze già attribuite. Essa
consentirebbe, quindi, all’Unione, di intervenire in settori che non le sono attribuiti
esplicitamente dal Trattato), ha consentito di espandere le competenze comunitarie,
aggiungendo nuove finalità e modificando quelle esistenti. Quindi, qualora un’azione della
Comunità si fosse ritenuta essenziale al raggiungimento, nell’ambito del funzionamento del
mercato comune, di uno degli obiettivi fissati dal Trattato, in assenza di un’esplicita previsione
di poteri d’azione in tal caso richiesti, il Consiglio deliberando all’unanimità, su proposta della
Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, poteva adottare le disposizioni
necessarie. La clausola di flessibilità può essere utilizzata purché sia rispettato il principio di
sussidiarietà.
I poteri così riconosciuti in capo al Consiglio si rivelavano per loro natura sussidiari rispetto a
quelli esplicitamente contemplati dal Trattato comunitario e la loro pratica utilizzazione
risultava subordinata all’esistenza di due presupposti: l’accertamento della necessità
dell’azione e dall’altro la verifica dell’assenza di poteri.
Anche per quanto attiene alla funzione esecutiva, il Consiglio poteva in taluni casi delegare,
per gli atti normativi dallo stesso adottati, le competenze di esecuzione alla Commissione. Ne
derivava che la Commissione non risultava titolare di poteri d’esecuzione di carattere
generale, ma solo di poteri delegati.
Per quanto concerne le funzioni di indirizzo politico e di coordinamento, il Consiglio possedeva
un generale potere di coordinamento di azioni o di misure che restavano nella competenza
degli Stati membri; mentre esercitava la propria funzione di indirizzo nell’ambito
dell’agricoltura, dei capitali e pagamenti, dei trasporti, degli aiuti di Stato e dell’ambiente.
Il Trattato sull’UE come modificato a Lisbona ha poi modificato alcune funzioni attribuendo al
Consiglio sia l’esercizio della funzione legislativa e di bilancio congiuntamente al Parlamento
europeo, sia l’esercizio delle funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento.
Una delle innovazioni più significative sembra doversi identificare con l’assenza della
competenza relativa all’esecuzione delle norme. Oggi infatti tale competenza è attribuita alla
Commissione.

4.3 La rotazione delle presidenze.
Il sistema di rotazione delle presidenze si trovò al centro di un rilevante problema, che vedeva
contrapposte due esigenze: da un lato, il tentativo di ricercare un miglioramento del proprio
funzionamento, e, dall’altro la necessità di garantire un’idonea rappresentatività delle priorità
politiche e degli interessi dei vari Stati membri.
E’ stato al riguardo previsto che il Consiglio venga presieduto a turno dagli Stati membri,
secondo un sistema di rotazione paritaria, disciplinato da una decisione adottata dal Consiglio
europeo a maggioranza qualificata.
Il 1° dicembre 2009 sono state varate due decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio con
le quali si è proceduto a stabilire che la presidenza dell’istituzione venga assicurata per gruppi
parlamentari predeterminati di 3 Stati membri, che se ne ripartiscono l’esercizio per 18 mesi,
nell’arco dei quali ciascuno Stato esercita a turno la presidenza per un semestre con
l’assistenza degli altri 2 sulla base di un programma comune.

4.4. Il Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (CO.RE.PER.)
Il Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri è un organo che ha un
ruolo importante. Esso infatti è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio e della
esecuzione dei compiti conferiti dal Consiglio stesso.
Il Comitato è composto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri presso l’Unione,
aventi il rango di ambasciatori. L'organizzazione del Comitato riflette l'organizzazione del
Consiglio. Esso è presieduto dal rappresentante permanente dello Stato che ha la Presidenza
di turno del Consiglio, il quale svolge un importante ruolo di collegamento con la
Commissione, manifestando anche l’unità d’indirizzo del Comitato in seno al Consiglio. Ha
inoltre il compito di convocare le sedute del Comitato, dirigendo i dibattiti e fissandone
l’ordine del giorno.
Il Comitato opera secondo due formazioni diverse. Se la materia in oggetto si riferisce ad
affari ordinari, opera il “CO.RE.PER.1” formato dai rappresentanti aggiunti e competente alla
trattazione degli affari correnti, di procedura o essenzialmente tecnici; se la materia in
oggetto si riferisce a questioni politiche, economiche e finanziarie, opera il “CO.RE.PER.2”
composto dagli ambasciatori permanenti. Le 2 formazioni operano in modo del tutto
indipendente e la ripartizione delle varie fattispecie è effettuata dal suo Presidente,
eventualmente su istanza della Commissione o di un rappresentante permanente.
Il Comitato è anche autorizzato a istituire gruppi di lavoro, ad hoc o permanenti, con il
compito di predisporre i dossier o studi su materie diverse.

Le attribuzioni.
Le principali funzioni del Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri:
- prepara i lavori del Consiglio;
- esegue i compiti che gli vengono affidati dal Consiglio.
Può quindi, ragionevolmente sostenersi che il Comitato non possieda delle competenze
proprie.
Deve però vigilare sul rispetto del principio di legalità, del principio di sussidiarietà, del
principio di proporzionalità e motivazione degli atti comunitari. Inoltre il Comitato, dirige e
controlla i gruppi di lavoro che operano nel Consiglio.
La funzione principale del CO.RE.PER consiste nella sua partecipazione al processo di
formazione dei provvedimenti adottati dal Consiglio secondo un iter che si concretizza in 2
modi:
1) Quando l’atto che dev'essere adottato dal Consiglio non richiede la proposta della
Commissione, il Comitato può sostituirsi al Consiglio ed elabora il disegno che,
successivamente, dovrà essere approvato;
2) Quando l’atto che deve essere adottato dal Consiglio richiede la proposta della
Commissione, il Comitato esamina la proposta del Consiglio e successivamente il
Consiglio può deliberare.
Una volta che la proposta giunge al CO.RE.PER per il suo esame, il Presidente ne affida
l’istruzione a un comitato o ad un gruppo di lavoro specializzato in ordine alla materia oggetto
di trattazione. La fase successiva è rappresentata dalla discussione in seno al CO.RE.PER. con
l’obiettivo di trovare una mediazione tra le diverse posizioni espresse dai vari Governi. Se si
raggiunge l’unanimità dei consensi, la proposta viene passata al Consiglio, il quale la ammette
al punto A dell’ordine del giorno e il suo Presidente la approva. Se invece non si raggiunge una
soluzione, il Comitato deve restituire la proposta al Consiglio che la iscriverà come punto B
dell’ordine del giorno nel tentativo di addivenire ad una soluzione.
Possiamo affermare, concludendo, che il Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati
membri è diventato uno strumento di comunicazione tra la Commissione e il Consiglio.

5. Il sistema di votazione a maggioranza qualificata.
Nella prima fase dell'evoluzione delle istituzioni europee, il procedimento decisionale
comunitario avveniva con la regola dell'unanimità. Questo metodo divenne molto complicato
quando ai 6 Stati originari della Comunità se ne aggiunsero altri, quindi l'AUE propose di
passare al sistema della maggioranza qualificata, riducendo il campo di applicazione del
criterio della unanimità.
Con il Trattato di Amsterdam, il campo di applicazione del criterio della maggioranza
qualificata si estende ulteriormente, ma l'unanimità resta in alcuni settori come la PESC, la
GAI, e la politica relativa al fisco e alla cultura.
Il sistema della maggioranza qualificata è caratterizzato da un criterio di ponderazione dei
voti: ogni Stato membro ha un certo n° di voti attribuiti in relazione alla sua consistenza
demografica e da un meccanismo di perequazione che permette un equilibrio tra Paesi con
ampia popolazione e quelli con popolazione più ridotta. In base al sistema di ponderazione dei
voti i Paesi maggiori non possono mettere in minoranza i Paesi più piccoli e viceversa.
Determinando così la possibilità che le decisioni adottate dal Consiglio a maggioranza
qualificata si fondino sul più ampio consenso.

5.2. Dalla ponderazione dei voti alla doppia maggioranza.
Il nuovo processo di allargamento dell’UE aveva portato all’emersione di un conflitto tra Paesi
grandi e Paesi piccoli. Gli Stati più popolosi rivendicarono infatti l’intento di riconquistare la
capacità di voto, collegata al loro peso demografico.
La soluzione accolta a Nizza ha proceduto quindi ad un nuovo calcolo delle ponderazioni,
evitando una sproporzione tra il peso relativo dei Paesi piccoli e medi e la loro consistenza
demografica. E’ così che ai grandi è stato riconosciuto un aumento dei loro voti, più che
proporzionale rispetto a quello assegnato agli altri, al fine di poter preservare la legittimità
delle decisioni del Consiglio in termini di rappresentatività demografica.
Il sistema ha inoltre stabilito due reti di sicurezza. La prima ha stabilito che una decisione in
seno al Consiglio dovesse essere sostenuta dalla maggioranza degli Stati membri. La seconda
ha prefigurato la possibilità per ogni Stato di chiedere, prima dell’adozione di una decisione,
che sulla medesima si esprima un numero di Paesi pari al 62 % della popolazione dell’Unione.
La soluzione adottata a Nizza non fu però esente da critiche in quanto si ritenne troppo
macchinosa e tale da rendere ancora più difficile il consenso tra gli Stati.
Con una nuova soluzione di compromesso i Trattati riformati a Lisbona hanno previsto il
mantenimento dell’attuale sistema di votazione ponderata sino al 1° novembre 2014,
superato il quale dovrà poi applicarsi il sistema della doppia maggioranza.
Secondo questo sistema la maggioranza qualificata si intende raggiunta quando la delibera del
Consiglio abbia ottenuto almeno il 55 % del favore dei suoi membri, con un minimo di 15 che
rappresentino almeno il 65 % della popolazione dell’Unione. Per costituire una minoranza di
blocco sono necessari almeno 4 membri; in caso contrario la maggioranza qualificata si
considera raggiunta.
Quando il Consiglio non delibera su proposta della Commissione o dell’Alto Rappresentante,
la maggioranza qualificata si considera raggiunta con il 72 % dei suoi membri, rappresentanti
almeno il 65 % della popolazione dell’UE.
Nel periodo compreso tra il 1° novembre e il 31 marzo 2017 un solo membro del Consiglio
potrà chiedere che le deliberazioni a maggioranza qualificata del Consiglio si svolgano
secondo il sistema di volto ponderato stabilito dal Trattato di Nizza. Secondo il c.d.
compromesso di Ioannina, se un numero di membri del Consiglio, che rappresenti almeno il
75% della popolazione, o almeno il 75 % del numero degli Stati membri necessari per
costituire una minoranza di blocco, manifesti l’intenzione di opporsi all’adozione da parte del
Consiglio di un atto a maggioranza qualificata, il Consiglio discuta della questione. Nel corso
della discussione il Consiglio fa tutto il possibile per addivenire ad una soluzione soddisfacente
che tenga in considerazione le preoccupazioni palesate dai membri del Consiglio.

5.3. Le passerelle.
Il voto a maggioranza qualificata diviene dunque la regola generale per le deliberazioni del
Consiglio, parallelamente alla limitazione del ricorso all’unanimità che tuttavia rimane
presente in alcuni settori.
L’astensione di un rappresentante di uno Stato membro in seno alle deliberazioni del
Consiglio non è di ostacolo al raggiungimento dell’unanimità. Tuttavia ciò non significa che
l’atto adottato dal Consiglio all’unanimità adottato dal Consiglio all’unanimità non possa poi
trovare applicazione anche nei confronti di quello Stato che si è astenuto. Un’eccezione a tale
regola si riscontra nel settore della PESC, nel momento in cui lo Stato abbia accompagnato il
proprio voto di astensione con una dichiarazione di rinuncia alla vincolatività della decisione
consiliare. Tale ipotesi è stata definita di astensione costruttiva, la cui ratio deve essere
ricercata nella volontà di evitare una paralisi del processo decisionale in un settore, come
quello della PESC, legato alla sovranità degli Stati.
Con la c.d. soluzione passerella, viene consentito al Consiglio europeo di estendere la
procedura legislativa ordinaria e il voto a maggioranza qualificata in settori regolamentati da
procedure legislative speciali o dal voto all’unanimità, a patto che nessun Parlamento nazione
presenti obiezioni entro 6 mesi dalla trasmissione di tale iniziativa. Tali clausole
permetteranno di passare al voto a maggioranza qualificata ed alla procedura legislativa
ordinaria, dopo il voto del Consiglio europeo, senza dover richiedere la procedura di revisione
dei Trattati e di ratifica da parte di tutti gli Stati membri. In altri termini, le passerelle
comporteranno un’ulteriore estensione del voto a maggioranza qualificata, indispensabile per
un ottimale funzionamento del processo decisionale all’interno dell’UE.

6. Le procedure decisionali.
Le procedure decisionali dell’UE riflettono essenzialmente l’equilibrio che si è voluto stabilire
all’interno dei trattati. Tale equilibrio tuttavia varia a seconda della materia oggetto d’esame.
Il trattato di Amsterdam ha contribuito a semplificare le varie procedure, ma sono tuttora
rinvenibili notevoli difficoltà al fine di comprendere in modo appropriato il funzionamento
delle istituzioni dell’UE.
Tali considerazioni hanno spinto i governi degli Stati membri, nel tentativo di ricercare
maggiore linearità, democraticità e trasparenza dell’intero sistema, a riformare i trattati
istitutivi, in modo da riordinare i diversi comparti dell’azione dell’UE.

6.1. Il procedimento di formazione degli atti dell'Unione a carattere normativo.
La formazione degli atti dell’Unione di diritto derivato a carattere normativo, rappresentati
essenzialmente dalle direttive e dai regolamenti, è il frutto di un procedimento complesso e
articolato.
Nell’ordinamento europeo, la funzione legislativa è esercitata da diversi organi. Per la
consultazione, infatti, la funzione normativa è esercitata dal Consiglio, mentre nella procedura
di codecisione, il Consiglio opera insieme al Parlamento europeo. In altri casi ancora la
funzione legislativa è esercitata dalla Commissione. Al fine di individuare un criterio che
permetta di determinare il procedimento applicabile a ciascun settore, possono identificarsi 4
fasi attraverso i quali si articola l’iter di formazione e successiva attuazione degli atti
normativi: l’iniziativa, la consultazione, l’adozione e la conseguente esecuzione.

LA FASE DI INIZIATIVA.
Il potere di iniziativa è affidato alla Commissione, la quale in alcuni casi agisce di proprio
impulso, mentre in altri casi, agisce perché investita di una richiesta del PE.
Il potere di iniziativa della Commissione è vincolato al rispetto di un unico limite, cioè il potere
deve venire esercitato alla luce degli orientamenti politici generali, precedentemente
enucleati dal Consiglio europeo.

I nuovi Trattati stabiliscono inoltre che il potere di iniziativa della Commissione deve rispettare
i principi di sussidiarietà e proporzionalità, che la obbligano a trasmettere le proprie proposte
ai Parlamenti nazionali i quali verificano la conformità delle stesse ai principi suddetti.
Infine, il potere d'iniziativa legislativa può spettare anche a: un gruppo di Stati membri o al
Parlamento europeo, alla BCE, alla Corte di giustizia e Banca europea per gli investimenti.

LA FASE DI CONSULTAZIONE.
Tale seconda fase si sostanzia nell'assunzione di pareri, talora facoltativi, altre volte
obbligatori, sulla base delle disposizioni dei Trattati. Questi pareri provengono da: Comitato
economico e sociale, Comitato delle regioni, Parlamento europeo e, in determinati casi, BCE.
La funzione consultiva più importante è quella rivestita dal Parlamento europeo. Il parere del
Parlamento Europeo è vincolante per la Commissione solo quando è richiesta la procedura di
parere conforme. Tuttavia, per la Corte di giustizia, la mancata consultazione del PE, anche
laddove non sia richiesta la procedura di parere conforme, costituisce una violazione delle
forme sostanziali e l’atto adottato risulta illegittimo. La giurisprudenza della Corte di giustizia
ha altresì precisato come la consultazione del Parlamento europeo debba avvenire
nuovamente anche nel caso in cui le modifiche successivamente introdotte abbiano inciso in
maniera determinante sulla proposta già oggetto di parere dello stesso Parlamento.
FC Il PE, quindi, deve sempre esser consultato, il suo parere può, però, essere disatteso
laddove non operi la procedura di pare conforme FC.

LA FASE DI ADOZIONE.
E’ la fase più articolata e complessa insieme a quella di esecuzione.
Il progetto della Commissione, eventualmente correlato di tutti i pareri necessari, è trasmesso
al PE ed al Consiglio, che procedono all'esame ed alla successiva adozione. Il Consiglio, in
particolare, iscrive la proposta all'ordine del giorno del CO.RE.PER per un esame preventivo.
Potranno poi discernere due diverse soluzioni, a seconda che all’interno del CO.RE.PER. si sia
raggiunta l’unanimità dei consensi ovvero che nel suo ambito non sia stato raggiunto un
accordo. Nel primo caso, il Consiglio si limiterà a ratificare l’accordo già intercorso a livello
inferiore, salvo che qualche membro del Consiglio o della Commissione abbia richiesto di
riaprire la discussione, nel qual caso la questione dovrà essere nuovamente trasmessa al
CO.RE.PER; nella seconda ipotesi sarà lo stesso Consiglio a ricercare una soluzione di
compromesso. Nel momento in cui è stato raggiunto il consenso, l'atto viene adottato e
sottoscritto dal Presidente dell'istituzione competente e pubblicato sulla G.U. dell'UE o
notificato ai destinatari.

LA FASE DI ESECUZIONE.
Prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il Consiglio, secondo una procedura
adottata all'unanimità, su proposta della Commissione e previo parere del PE, poteva
riservarsi la competenza a dare esecuzione agli atti normativi precedentemente adottati.
Tuttavia, il Consiglio poteva decidere di delegare alla Commissione il potere di dare
esecuzione all’atto da esso adottato. La Commissione, dunque, non risultava provvista di un
autonomo potere di attuazione degli atti comunitari.
Si spiega in tal modo la prassi, sviluppatasi soprattutto nel tentativo di contrastare da parte
degli Stati membri l’aumento del ruolo ricoperto dalla Commissione, di affiancare all’esecutivo
comunitario, i c.d. comitati di gestione e di regolamentazione, composti da funzionari ed
esperti nazionali, presieduti da un rappresentante della Commissione e competenti al rilascio
di un parere nell’ambito dei settori di relativa attribuzione. Il Consiglio dunque nel delegare la
funzione di emanare determinati atti alla Commissione, le imponeva la consultazione di una
serie di comitati composti da rappresentanti degli Stati membri. Tali organi consentivano alla
Commissione di instaurare un dialogo con le amministrazioni nazionali prima di adottare
misure di esecuzione, assicurandosi che le disposizioni da essa predisposte corrispondessero
alla realtà di ciascuno dei Paesi interessati.
La prassi così delineata ha trovato una prima regolamentazione all’interno della decisione-
quadro del Consiglio del 1987 detta comitologia, che ha dettato 3 tipi di procedure: del
Comitato consultivo, del Comitato di gestione e del Comitato di regolamentazione, affiancate
da quella relativa alla misura di salvaguardia, senza tuttavia prevedere l’istituzione di un
apposito Comitato.
La comitologia ha rappresentato un fattore capace di causare attriti tra la Commissione e il
Consiglio ed è stata oggetto critiche. Per superare ciò, vennero provvisoriamente attribuiti al
Parlamento europeo poteri di controllo sulla comitologia. In particolare, da un lato si decise di
attribuire in capo all’Assemblea un diritto di accesso ai progetti di provvedimenti esecutivi che
sarebbero stati successivamente adottati dai comitati; mentre dall’altro si dispose l’obbligo
per la Commissione di tenere in dovuta considerazione i pareri rilasciati dallo stesso
Parlamento, permettendone una maggiore partecipazione.
La più recente decisione sulla comitologia ha invece conferito al Parlamento europeo il diritto
di controllare l’attuazione degli atti dell’Unione adottati in codecisione con il Consiglio,
nonché il diritto ad esprimere il proprio dissenso sulle misure predisposte dalla Commissione
o dallo stesso Consiglio.
Tale decisione contemplava tre tipologie di comitati, attraverso i quali venivano articolate le
procedure da seguire per dare attuazione agli atti normativi dell’Unione:
1) Comitati consultivi: esprimevano il loro parere sulla base di una proposta presentata
dalla Commissione, la quale era tenuta a dare la massima considerazione alla soluzione
adottata, pur non essendone vincolata;
2) Comitati di gestione: formulavano un parere a maggioranza qualificata sulla base del
sistema di ponderazione dei voti. In seguito, se le misure adottate non risultavano
conformi al parere del Comitato, la Commissione doveva darne comunicazione al
Consiglio, che poteva decidere di adottare una soluzione diversa rispetto a quella
prospettata nel progetto presentato dalla Commissione;
3) Comitati di regolamentazione: la Commissione era legittimata all’adozione di misure di
esecuzione solo in caso di voto favorevole espresso dagli Stati riuniti nel Comitato sul
progetto a essa presentato. In caso contrario, o in mancanza di parere, la Commissione
era tenuta a rinviare la proposta al Consiglio, informandone il Parlamento. Se
quest’ultimo considerava che la prospettazione delle misure di esecuzione effettuata
dalla Commissione eccedeva le competenze stabilite dall’atto di base, trasmetteva la
sua posizione al Consiglio, chiamato a deliberare entro 3 mesi dalla proposta. Potevano
così configurarsi due scenari: se il Consiglio aveva adottato a maggioranza qualificata la
sua posizione sulla proposta, la Commissione la riesaminava, trasmettendola
nuovamente al Consiglio con le opportune modifiche. Se invece, il Consiglio non si era
pronunciato né in senso positivo né in senso negativo, la Commissione adottava l’atto
di esecuzione proposto.
Accanto a tali procedure, è stata anche disciplinata quella relativa alle misure di salvaguardia
che si differenzia dalle precedenti per il fatto che gli Stati membri potevano intervenire
direttamente tramite i loro governi e non attraverso i loro rappresentanti riuniti nei comitati.
Infatti in base ad essa la Commissione, nel momento in cui si accingeva ad adottare le misure,
doveva notificarle al Consiglio e agli Stati membri, che potevano a loro volta deferirle al
Consiglio. Quest’ultimo deliberando a maggioranza qualificata poteva confermare, modificare
o abrogare la proposta.
I trattati modificati a Lisbona modificano sensibilmente la competenza di esecuzione della
Commissione, distinguendo tra la delega di veri e propri poteri normativi e la delega
all’esercizio di meri poteri di esecuzione.
L’art 291 TFUE, dopo aver precisato che l’esecuzione degli atti dell’Unione spetta agli Stati
membri, stabilisce che quando vi sia la necessità di garantire condizioni uniformi di esecuzione
a livello europeo degli atti giuridicamente rilevanti, questi conferiscono le competenze di
esecuzione alla Commissione, salve che si tratti del settore della PESC, ove la competenza di
esecuzione rimane radicata in capo al Consiglio.

6.2 Le singole procedure decisionali.
A) La procedura di Consultazione.
Questa procedura è caratterizzata dallo stretto collegamento tra Commissione e Consiglio.
Con l'evoluzione delle istituzioni comunitarie, la procedura di consultazione ha assunto un
carattere residuale, riconoscendo un ruolo sempre più incisivo del Parlamento europeo,
soprattutto in relazione alla sua partecipazione all’attività di normazione. I trattati riformati a
Lisbona hanno mantenuto la procedura di consultazione ascrivendola all’ambito delle
procedure legislative speciali.
Nei casi previsti dai Trattati, il Consiglio consulta il Parlamento prima di adottare la decisione
sulla base di una proposta presentata dalla Commissione. Il Consiglio è chiamato a tenere in
debita considerazione la posizione espressa dall’Assemblea di Strasburgo nonostante
l’assenza di una vincolatività del parere.
La consultazione del Parlamento Europeo è un elemento sostanziale per la validità dell'atto,
che risulterà viziato da nullità nel caso in cui se ne registri l’inosservanza. Inoltre, si prevede il
ritorno ad una nuova consultazione del Parlamento europeo nell’ipotesi in cui il Consiglio
decida di apportare emendamenti di natura sostanziale alla proposta originaria. Attualmente
la consultazione obbligatoria deve essere effettuata nei settori della concorrenza,
dell’armonizzazione fiscale, dell’occupazione e dell’esercizio del diritto di voto dei cittadini
dell’Unione.

B) La procedura di Cooperazione.
Introdotta dall'AUE, per l’adozione degli atti collegati alla realizzazione del mercato unico. Con
tale procedura si mirava a rafforzare i poteri del Parlamento europeo, mantenendo tuttavia il
ruolo centrale del Consiglio. Il TUE l'aveva poi estesa ad un vasto novero di materie (fondo
sociale, istruzione, ambiente ecc). Con il Trattato di Amsterdam, il ricorso a tale procedura era
stato invece ridimensionato, limitandolo al solo ambito dell'Unione economica monetaria e
favorendo il ricorso alla procedura di codecisione.
La procedura di cooperazione è stata infine soppressa dalla riforma di Lisbona, a fronte di una
generalizzazione della procedura di codecisione, ribattezzata procedura legislativa ordinaria.

C) La procedura legislativa ordinaria.
Introdotta dal Trattato di Maastricht, di cui ha rappresentato una delle maggiori novità,
questa procedura attribuisce al Parlamento Europeo il potere di adottare una serie di atti
congiuntamente al Consiglio. In questo modo si è rafforzato il ruolo di co-legislatore del PE, su
un piano di quasi parità con il Consiglio, mentre la Commissione ha una posizione più
attenuata e un ruolo di mediatrice tra Parlamento Europeo e Consiglio dei Ministri.

La procedura è molto complessa e articolata. Inizialmente erano previste 3 letture che con il
Trattato di Amsterdam sono state ridotte a 2. Inoltre, tale procedura è stata poi estese a
ulteriori materie del trattato, relative ad esempio, all’ambiente, ai trasporti, alla formazione
professionale, alla cooperazione, allo sviluppo, alla cittadinanza, alla cooperazione doganale,
alla lotta contro le fronti lesive degli interessi finanziari della CE, ecc.
Tuttavia, nonostante le modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam, erano rimasti molti
ambiti ove permaneva il voto all’unanimità del Consiglio. Il successivo Trattato di Nizza
dunque ha cercato di superare tale situazione, pronunciandosi a favore di un ampliamento dei
settori per i quali veniva ad applicarsi la procedura di codecisione e il contestuale ricorso alla
maggioranza qualificata in seno al Consiglio.
Con i trattati riformati a Lisbona invece la procedura di codecisione è stata generalizzata,
ribattezzandola procedura legislativa ordinaria ed elevando così il Parlamento europeo al
ruolo di legislatore insieme al Consiglio.
Gli atti legislativi dell’Unione vengono dunque adottati secondo un iter che prevede la
presentazione di una proposta legislativa da parte della Commissione al Consiglio e al
Parlamento europeo. Seguono poi tre letture.
La prima lettura è effettuata dal Parlamento europeo, il quale adotta la sua posizione e la
trasmette al Consiglio.
- Se il Consiglio approva la posizione del PE, la proposta della Commissione è adottata e
diviene atto legislativo dell'UE (regolamento, direttiva o decisione a seconda dei casi).
- Se, invece, il Consiglio non approva la posizione del PE, adotta una propria posizione e la
trasmette, motivandola, al Parlamento europeo.

Ha inizio la fase della seconda lettura, nella quale il Parlamento ha 3 mesi per adottare
nuovamente una posizione.
- Se approva la posizione del Consiglio ovvero non si pronuncia, l’atto si considera adottato nel
testo formulato dal Consiglio;
- L’atto non si considera adottato qualora il Parlamento, a maggioranza assoluta dei suoi
membri, respinga la posizione del Consiglio;
- Il Parlamento europeo può anche Proporre emendamenti alla posizione del Consiglio e
trasmettere il testo così emendato al Consiglio e alla Commissione.
Se entro 3 mesi dal ricevimento di tale comunicazione il Consiglio approva a maggioranza
qualificata tutti gli emendamenti del Parlamento, l’atto è adottato definitivamente. Se,
invece, non li approva, il Presidente del Consiglio, d’intesa col Presidente del Parlamento,
convoca entro 6 mesi un Comitato di conciliazione (composto dai membri del Consiglio e da
altrettanti membri del Parlamento).
Il Comitato ha il compito di trovare, entro 6 settimane, un accordo su un progetto comune. Se
non si perviene ad un accordo entro il termine indicato, allora l’atto si considera adottato.
La terza lettura ha inizio qualora sia raggiunto l’accordo in sede di conciliazione. Il progetto
comune viene trasmesso al Parlamento europeo e al Consiglio e l’atto si considera adottato
solo se, entro sei settimane è approvato dal Parlamento a maggioranza dei voti espressi e dal
Consiglio a maggioranza qualificata. Al contrario, l’atto non si considera adottato.
La procedura legislativa ordinaria diviene in tal modo la regola generale per l’adozione degli
atti legislativi dell’Unione.

D) La procedura di approvazione.
I trattati riformati a Lisbona hanno previsto tra le procedure legislative speciali, oltre a quella
di consultazione, anche la procedura di approvazione. Tale procedura ricalca essenzialmente
le linee generali della procedura del parere conforme originariamente stabilita all’interno del
Trattato comunitario.
Oggi i trattati riformati a Lisbona hanno previsto tale procedura soprattutto in riferimento a
decisioni del Consiglio di rilievo istituzionale, quali nomine dei componenti di istituzioni,
decisioni in materia di membership dell'Unione e clausole passerella.
Tale procedura comporta l’onere per il Consiglio di ottenere il consenso positivo del
Parlamento europeo ai fini dell’adozione di talune decisioni di rilevante peso specifico. Il
Parlamento può decidere di approvare o rigettare la proposta, ma non può modificarla. Se
manca il parere conforme del PE, l’atto si considera come non adottato.
La procedura del parere conforme sembra riflettere una reale parità tra Parlamento e
Consiglio, in considerazione del fatto che in assenza del parere positivo del Parlamento, il
Consiglio non può deliberare.

6.3 La riforma delle procedure decisionali nei Trattati riformati a Lisbona: una visione di
sintesi.
I trattati riformati a Lisbona hanno introdotto inoltre una procedura di controllo preventivo
(early warning system) che permette ai Parlamenti nazionali, sulla base di obblighi di
informazione in ordine ai progetti normativi, di esercitare entro 8 settimane un controllo sul
rispetto del principio di sussidiarietà e di proporzionalità da parte delle istituzioni dell’Unione.
Ove i pareri contrari raggiungano un 1/3 dei voti attribuiti ai Parlamenti nazionali, la
Commissione sarebbe tenuta a ripensare la proposta, ritirandola, modificandola o
mantenendola. Devono inoltre menzionarsi alcune procedure speciali riservate a determinate
materie: nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di
polizia, l'iniziativa legislativa spetta alla Commissione e ad 1/4 agli Stati membri. Poi in alcuni
casi previsti nei Trattati modificati a Lisbona, gli atti legislativi dell'Unione possono essere
adottati dal Parlamento Europeo con la partecipazione del Consiglio dei ministri o dal
Consiglio dei ministri con la partecipazione del PE.
Nel settore della politica estera e di sicurezza comune vengono mantenute le modalità tipiche
del metodo intergovernativo. Si delineano al riguardo 3 strumenti: le azioni dell’Unione, le
posizioni dell’Unione e l’attuazione delle azioni e delle decisioni.

7. LA COMMISSIONE EUROPEA.
7.1. La composizione.
I commissari esercitano le loro funzioni in completa indipendenza rispetto agli Stati membri e
nell’interesse generale dell’Unione, non sollecitando né accettando alcuna istruzione da
qualsiasi governo.
Essa si pone al centro del sistema dell’Unione svolgendo un ruolo di collante dinamico, in
grado di elaborare e successivamente rilanciare gli impulsi provenienti dagli Stati membri,
riuscendo a comporre gli interessi particolaristici nel quadro dell’interesse generale della
collettività degli Stati stessi.
Attualmente i membri della Commissione sono 27, uno per ogni Stato membro, e durano in
carica per 5 anni.
A partire dal 1° novembre 2014, il numero dei membri della Commissione dovrà
corrispondere necessariamente a 2/3 degli Stati, compreso il Presidente e l’Alto
Rappresentante, che è uno dei vicepresidenti. Il Consiglio europeo, ha tuttavia convenuto di
garantire la presenza di un commissario per ogni Stato membro anche dopo il 2014.

L’organizzazione interna.
L’organizzazione interna e il funzionamento della Commissione sono disciplinati dalle
disposizioni dei Trattati riformati a Lisbona e dal regolamento interno della stessa. La
Commissione agisce in qualità di organo collegiale e di conseguenza tutte le deliberazione
sono riferite alla stessa nel suo complesso.
Essa si riunisce su convocazione del Presidente, di solito una volta a settimana e le adunanze
sono segrete. La Commissione adotta ogni anno il proprio programma di lavoro, sulla base del
quale il Presidente fissa l’ordine del giorno delle riunioni, anche se i lavori sono preceduti da
una serie di incontri preparatori.
Le deliberazioni della Commissione sono adottare, su proposta di uno o più commissari, a
maggioranza dei suoi membri, anche se di regola vale il principio del consenso unanime.
Tuttavia il regolamento interno prevede talvolta delle procedure di voto semplificate. E’
infatti stabilita una procedura scritta, che permette la presentazione di un progetto contenuto
all’interno di un testo scritto, che viene comunicato a tutti i membri della Commissione con
l’indicazione di un termine per la richiesta di emendamenti Se nessun commissario formula
obiezioni entro tale termine, la proposta è da ritenersi adottata.
Accanto alla procedura scritta sono inoltre previste due ulteriori procedure: la procedura di
abilitazione e la procedura di delega, che non possono comunque porsi in contrasto con il
principio di collegialità. Con la prima la Commissione può abilitare uno o più dei propri
membri ad adottare provvedimenti di gestione o di amministrazione; mentre con la seconda
può delegare l’adozione dei medesimi provvedimenti ai direttori generali e ai capi di servizio.
La Commissione inoltre è assistita da un Segretariato generale e può costituire gruppi di
lavoro tra i suoi membri, incaricati di istruirne i dibattiti. Essa decide anche in ordine alla
ripartizione delle attribuzioni interne, delineando le competenze delle direzioni generali, delle
direzioni e delle unità in ragione delle sfere materiali oggetto di competenza.

I poteri e il ruolo istituzionale.
La Commissione esercita diversi poteri che si classificano nelle seguenti categorie: poteri di
iniziativa e di stimolo nei confronti delle altre istituzioni dell’Unione; poteri di esecuzione,
assicurando la corretta attuazione di tutta la legislazione dell’Unione; poteri di controllo;
poteri sanzionatori; poteri di rappresentanza esterna.

I POTERI DI INIZIATIVA.
La Commissione è dotata di un proprio autonomo potere decisionale e inoltre partecipa
insieme con il Parlamento europeo alla formazione degli atti normativi dell’Unione.
Tuttavia, in sede di esercizio di tale potere, la Commissione viene inevitabilmente
condizionata dalle scelte politiche effettuate a monte del Consiglio europeo ovvero dalle
istanze avanzate dal Parlamento o dal Consiglio, che spesso contengono le linee di fondo e gli
orientamenti generali cui la Commissione dovrà ispirarsi. E’ inoltre importante sottolineare
come il processo di elaborazione di una proposta segua spesso un percorso lungo, che vede
anche l’intervento del Consiglio e del CO.RE.PER. oltre che del Parlamento europeo. Allo
stesso tempo risulta tuttavia doveroso riconoscere alla Commissione un fondamentale ruolo
di mediatrice ed interlocutrice tra i portatori delle diverse categorie d’interessi coinvolti. Essa,
infatti, partecipa attivamente ai lavori del Consiglio, condizionandone le deliberazioni.
Inoltre, finché il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può sempre variare la sua
proposta iniziale, eventualmente adottando un emendamento elaborato dal Parlamento
europeo o da alcuni ministri del Consiglio, nel tentativo di favorire una soluzione di
compromesso accettabile per tutti gli Stati.
L’atto del Consiglio deve dunque essere preceduto necessariamente dalla presentazione di
una proposta della Commissione. Laddove la Commissione non avanzi la proposta, questa
potrà essere sollecitata dal Consiglio.
Il Parlamento europeo invece non dispone di un autonomo potere di iniziativa, ma di un mero
diritto di richiedere alla Commissione di presentare adeguate proposte sulle questioni per le
quali reputa necessaria l’elaborazione di un atto dell’Unione ai fini dell’attuazione dei trattati.
La proposta elaborata dalla Commissione deve contenere l’indicazione della base giuridica su
cui si fonda. Il potere di iniziativa della Commissione non si esaurisce nella formulazione delle
proposte, ma può concretizzarsi nell’emanazione di raccomandazioni rivolte alle altre
istituzioni dell’Unione e agli Stati membri, nel tentativo di illustrare il proprio punto di vista.
I nuovi trattati hanno realizzato tuttavia un nuovo assetto dell’equilibrio istituzionale ove si è
registrato un rafforzamento dei poteri del Parlamento e un riposizionamento del ruolo della
Commissione. Il suo esclusivo potere di iniziativa è stato infatti mitigato da una serie di
accorgimenti. Il nuovo art 17 TUE stabilisce che la Commissione è abilitata ad esercitare il
proprio potere di proposta esclusivamente nei confronti degli atti legislativi dell’Unione,
mentre per gli altri, che figurano tra quelli non legislativi, unicamente quando i trattati lo
prevedano.
Il nuovo art 11 TUE riconosce anche ai cittadini dell’Unione, nel numero di almeno un milione
e appartenenti ad una quantità significativa di Stati membri, il potere di inviare la
Commissione alla formulazione di una proposta per l’adozione di un atto giuridico ritenuto
fondamentale nell’ambito di un determinato settore.
L'art 17 del nuovo TUE stabilisce che la Commissione promuove l'interesse generale europeo
e adotta iniziative appropriate a tal fine. Quindi la Commissione riveste un ruolo recessivo nel
promuovere l’interesse generale, le cui linee guida sono determinate in via preventiva in sede
di Consiglio europeo.

I POTERI DI ESECUZIONE.
L'art 211 TCE conferiva alla Commissione il compito di assicurare il rispetto del Trattato e degli
atti di diritto derivato con misure di esecuzione rivolte agli Stati e ai cittadini. Essa non aveva,
però, un autonomo potere di esecuzione, potendo esercitare questo potere solo sulla base di
una delega del Consiglio dei ministri. Il Consiglio conferiva alla Commissione le competenze
per l'esecuzione degli atti adottati dal Consiglio stesso. Ciò poteva avvenire in 2 casi:
1) Quando il Consiglio avesse determinato le sole linee generali, dando alla Commissione
il potere di perfezionare le normative;
2) Quando il Consiglio decideva di delegare alla Commissione il potere di dare attuazione
ad un atto già completo in tutti i suoi elementi.
Alla Commissione incombe altresì l’onere di curare l’esecuzione del bilancio dell’Unione, in
cooperazione con gli Stati membri, sotto la propria responsabilità e in conformità al principio
di buona gestione finanziaria.
I nuovi trattati richiedono nella maggioranza dei casi che l’approvazione degli atti legislativi
dell’Unione avvenga in maniera congiunta tra Parlamento e Consiglio: di conseguenza non
sarà più il solo Consiglio a conferire alla Commissione il potere di dare attuazione alla
normativa, ma il binomio Consiglio-Parlamento, stante il ruolo di co-legislatore assunto da
quest'ultimo.
Inoltre, spetta alla sola Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata
generale, volti a completare o modificare elementi non essenziali di atti legislativi.

I POTERI SANZIONATORI E DI CONTROLLO.
La Commissione è stata denominata “guardiana dei trattati”. Essa infatti vigila
sull'applicazione degli stessi e sulle misure adottate dalle istituzioni. Inoltre essa garantisce il
rispetto del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di giustizia. Può esercitare tali
poteri sanzionatori e di controllo in 3 modi:
1) Adottando sanzioni a carattere pecuniario dirette a garantire la necessaria
conformazione alle regole dell’Unione di comportamenti tenuti da soggetti
trasgressori;
2) Formulando raccomandazioni e pareri, sia nelle ipotesi previste dai trattati, sia in casi in
cui la Commissione lo ritenga opportuno;
3) Ricorrendo alla Corte di Giustizia per far constatare l’inadempimento da parte di Stati
membri o istituzioni dell’Unione, degli obblighi che derivano dai Trattati o dagli atti di
diritto derivato. In tale ipotesi l’istanza alla Corte è preceduta da una procedura
precontenziosa, mediante la quale la Commissione, una volta ricevuta una denuncia da
parte di uno Stato, da parte di privati o rilavata l’infrazione d’ufficio, invita lo Stato
inadempiente alla presentazione di opportune osservazioni entro un determinato
termine. Tuttavia, se lo Stato mantiene il comportamento contrastante con gli obblighi
dell’Unione e le informazioni da esso fornite non risultano convincenti, la Commissione
formula un parere motivato, attraverso il quale intima allo Stato di conformarsi al
rispetto delle disposizioni dei trattati o degli atti di diritto derivato. Nel caso in cui lo
Stato persista nel proprio inadempimento, la Commissione è legittimata ad adire la
Corte di giustizia.

I POTERI DI RAPPRESENTANZA.
In seno alle disposizioni del TCE non era rinvenibile in capo ad alcuna istituzione l’attribuzione
esplicita a rappresentare all’esterno l’Unione europea sul piano internazionale e nei rapporti
con i Paesi terzi.
Tuttavia, il TCE abilitava la Commissione medesima, previa autorizzazione da parte del
Consiglio, a condurre negoziati finalizzati alla conclusione di accordi internazionali con Paesi
terzi, in nome e per conto della Comunità.
La Commissione poteva manifestare la volontà della Comunità solo per le materie del Pilastro
comunitario, mentre per la PESC e per la GAI (2° e 3° pilastro), ciò spettava al Consiglio.
Nel corso degli anni la Commissione ha tentato di estendere la propria funzione in questo
settore, anche se la Corte di giustizia ha sempre arginato le sue pretese, dichiarando che la
competenza alla conclusione di accordi non potesse oltrepassare la ripartizione delle
attribuzioni tra le istituzioni in materia.
I trattati riformati a Lisbona hanno stabilito che la Commissione esercita tale competenza
assieme al Presidente del Consiglio europeo che assicura la rappresentanza esterna
dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le
attribuzioni dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

7.4. Procedimento di formazione e mozione di censura.
Le regole che disciplinano la responsabilità della Commissione sono strutturate secondo 2
schemi: da un lato è mantenuto, anche dopo Lisbona, il principio della piena indipendenza
della Commissione, dall'altro si prevede una responsabilità collegiale della Commissione di
fronte al PE e una responsabilità del Presidente per le attività svolte dai singoli commissari di
fronte al medesimo Parlamento. Viene inoltre attribuita al Parlamento europeo la potestà di
adottare una mozione di censura nei confronti della Commissione. Se approvata dai 2/3 dei
voti espressi e a maggioranza dei membri che compongono il Parlamento europeo, tale
mozione costringe i membri della Commissione a dimettersi dalle loro funzioni, rimanendo in
carica solo per l’espletamento dell’ordinaria amministrazione sino a quando non si procederà
alla formazione di una nuova Commissione.
La procedura di nomina della Commissione ha subito nel tempo rilevanti variazioni.
Originariamente i membri erano nominati unicamente dai governi degli Stati membri di
comune accordo, al di fuori di ogni procedura comunitaria; successivamente era intervenuto il
voto di fiducia da parte del Parlamento con la discussione del programma. Questa procedura
conferiva maggiore efficacia e consistenza al controllo politico che il Parlamento è chiamato
ad esercitare nei confronti della Commissione.
Il Trattato di Amsterdam aveva ulteriormente variato la procedura rinforzando il ruolo del
Parlamento da un meccanismo di doppia investitura: il Parlamento era chiamato ad approvare
la designazione del presidente fatta di comune accordo tra gli Stati membri e non si limitava
più ad esprimere un parere preventivo sulla designazione; la designazione degli altri membri
della Commissione era fatta dai governi di comune accordo con il presidente designato;
questa era soggetto a un voto di approvazione da parte del Parlamento previa audizione dei
singoli componenti.
Il Trattato di Lisbona ha previsto la seguente procedura: il Consiglio europeo, deliberando a
maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di
presidente della Commissione, dopo aver effettuato le appropriate consultazioni e tenuto
conto delle elezioni del Parlamento europeo. Il presidente designato è eletto dal Parlamento a
maggioranza dei membri che lo compongono. Se non ottiene l'approvazione, il Consiglio
europeo propone, sempre a maggioranza qualificata, entro un mese un nuovo candidato.
Successivamente il Consiglio, di comune accordo con il presidente eletto, adotta l'elenco delle
altre personalità che propone di nominare membri della Commissione, selezionate in base alle
proposte presentate dagli stessi membri, conformemente ai criteri di rotazione menzionati. I
candidati commissari sono invitati a comparire davanti alle varie commissioni parlamentari
competenti per materia, secondo le probabili competenze che saranno chiamate ad
esercitare, per esporre il loro programma e per rispondere alle domande. Qualora la
Commissione competente manifesti contrarietà rispetto al candidato commissario, il Consiglio
sarà indotto a cambiare candidatura.
Infine il Presidente, il vicepresidente/Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e gli
altri commissari sono soggetti collettivamente a voto di approvazione da parte del
Parlamento. In seguito al quale la Commissione è nominata dal Consiglio europeo che delibera
a maggioranza qualificata.

A seguito dei trattati riformati a Lisbona sono aumentati anche i poteri del Presidente della
Commissione. Tale organo infatti definisce gli orientamenti della Commissione, decide
l’organizzazione interna, al fine di assicurare la coerenza, l’efficacia e la collegialità della sua
azione, nomina i vicepresidenti (tra lui l’Alto rappresentante) e può richiedere la
rassegnazione delle dimissioni a ciascun commissario.

8. L’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI
SICUREZZA.
Rinvio al capitolo 3°.

9. LA CORTE DI GIUSTIZIA.
Rinvio al capitolo 6°.

10. LE ALTRE ISTITUZIONI DELL’UNIONE EUROPEA.
10.1 LA BANCA CENTRALE EUROPEA.
10.2 La composizione.
La BCE con sede a Francoforte esercita dal 1° gennaio 1999 il compito di dare attuazione alla
politica monetaria europea definita dal Sistema europeo delle banche centrali. La BCE è un
organo dotato di personalità giuridica e caratterizzato da un’assoluta indipendenza sia dai
Governi nazionali che dalle istituzioni dell’Unione.
Il primo organo di riferimento è rappresentato dal Consiglio direttivo, composto dai membri
del Comitato esecutivo della BCE e dai governatori delle Banche centrali partecipanti alla terza
fase dell’unione monetaria. Il Consiglio direttivo è l’organo competente a dettare la politica
monetaria. Ciascuno dei suoi membri dispone di un voto e generalmente sono adottate a
maggioranza semplice. Solo in via eccezionale si fa ricorso ad un voto ponderato sulla base
delle quote di capitale sottoscritte da ciascun Banca centrale nazionale.
Il secondo organo che viene in rilievo è costituito dal Comitato esecutivo, composto da
Presidente, dal Vicepresidente e da altri 4 membri, scelti tra persone di riconosciuta levatura
ed esperienza professionale nel settore monetario e bancario e nominati per un periodo di 8
anni dal Consiglio europeo con deliberazione a maggioranza qualificata, su raccomandazione
del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della
BCE. Il Comitato esecutivo esplica funzioni di preparazione delle riunioni del Consiglio
direttivo, dando esecuzione agli indirizzi di politica monetaria precedentemente determinati
dal Consiglio direttivo.
Il terzo organo di riferimento infine è costituito dal Consiglio generale, formato dal Presidente
e dal Vicepresidente della BCE e dai Governatori delle Banche centrali nazionali, compresi
quelli dei Paesi che non hanno ancora manifestato l’intento di aderire all’unione monetaria o
non si trovano nella possibilità di rispettare i parametri di accesso.
Tra le competenze del Consiglio generale vengono in rilievo il potere di rilasciare pareri in via
preventiva rispetto all’adozione da parte del Consiglio direttivo di atti rientranti tra le sue
attribuzioni, la funzione di fissazione dei tassi di cambio delle monete degli Stati membri e la
facoltà di assistere la BCE nelle sue attività di consulenza.
Con il Trattato di Lisbona, la BCE viene elevata al rango di istituzione dell’Unione, pur
risultando invariati la sua strutturazione interna, il suo statuto e i suoi obiettivi.

10.1.3. Le attribuzioni.
Tra le principali attribuzioni della BCE viene in rilievo il diritto esclusivo di autorizzare
l’emissione di banconote all’interno dell’Unione. Le banconote sono pertanto emesse sia dalla
Banca centrale europea, sia dalle banche centrali nazionali, su concessione della prima.
La BCE dispone inoltre di un potere d’iniziativa per gli atti dell’Unione che investono il settore
economico e monetario e per garantire l’esplicazione delle proprie funzioni è fornita anche di
un autonomo potere normativo, potendo adottare regolamenti e decisioni e formulare pareri
e raccomandazioni.
La BCE ha la facoltà di svolgere una funzione di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle
altre istituzioni finanziarie. Essa dispone anche di un potere sanzionatorio che le permette di
comminare ammende o penalità di mora alle imprese che non abbiano osservato gli obblighi
derivanti dagli atti da essa adottati.
La BCE viene inoltre consultata non solo in merito alla proposta di adozione di atti dell’Unione
che investono i settori di sua competenza, ma anche nell’ambito della procedura di revisione
dei trattati qualora siano oggetto di riforma le disposizioni istituzionali nel settore monetario.
La Banca centrale non è soggetta al controllo delle altre istituzioni comunitario, salvo il
Parlamento europeo. Si prevede infatti l’obbligo del Presidente della BCE di consegnare ogni
anno al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione, nonché al Consiglio europeo
una relazione sull’attività del Sistema europeo delle banche centrali e sulla politica monetaria
dell’anno precedente e dell’anno in corso.

10.1.4. Le attribuzioni definite dal Regolamento UE n. 1024/2013.
Il regolamento UE n.1024/2013 attribuisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in
materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi, al fine di contribuire alla sicurezza e alla
solidità degli enti creditizi e alla stabilità del sistema finanziario all’interno dell’Unione e di
ciascuno Stato membro.
In virtù di tale regolamento la BCE entra a far parte del Meccanismo di vigilanza unico (MVU),
sistema di vigilanza composto dalla BCE e dalle autorità nazionali competenti degli Stati
membri partecipanti.
Tale regolamento prevedere l’istituzione di 2 organi:
1) La commissione amministrativa del riesame: è incaricata di procedere al riesame
amministrativo interno delle decisioni adottate dalla BCE nell’esercizio dei poteri
attribuitale da tale regolamento. La portata del riesame amministrativo interno
riguarda la conformità procedurale e sostanziale di tali decisioni con il regolamento.
Essa è composta da 5 persone di prestigio, provenienti dagli Stati membri e in possesso
di conoscenze pertinenti e di esperienza professionale. I suoi membri e due membri
supplenti sono nominati dalla BCE per un mandato di 5 anni, che può essere rinnovato
una sola volta. Essi non sono vincolati da alcuna istruzione.
2) Il Consiglio di vigilanza: è un organo interno composto di un presidente e di un
vicepresidente, 4 rappresentanti della BCE e infine un rappresentante dell’autorità
nazionale competente di ciascuno Stato membro partecipante. Tutti i membri del
consiglio di vigilanza agiscono nell’interesse dell’Unione nel suo complesso.

10.2 LA CORTE DEI CONTI.
10.2.1-2. La composizione e le attribuzioni.
Creata con il Trattato di Bruxelles del 1975, la Corte dei conti figura ormai tra le istituzioni
dell'Unione. Essa è incaricata di effettuare il controllo contabile esterno alle singole istituzioni
e l'esame del bilancio dell'Unione.
La Corte dei conti è composta da un cittadino di ogni Stato membro. I membri sono scelti a
titolo individuale tra le personalità che appartengono o abbiano appartenuto alle istituzioni di
controllo esterno dei rispettivi paesi e siano in possesso della qualifica specifica per tale
funzione e offrono garanzie di indipendenza.
Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, adotta l'elenco dei membri in conformità
alle proposte presentate da uno Stato membro.
I membri della Corte dei conti restano in carica per sei anni e il loro mandato è rinnovabile.
Devono svolgere il lavoro in piena indipendenza nell'interesse dell'Unione, non devono
accettare istruzioni da alcun governo e devono astenersi da ogni atto incompatibile con le loro
funzioni.
Il presidente viene eletto dai membri e dura in carica tre anni. Su richiesta della Corte dei
conti, la Corte di giustizia può destituire dalle loro funzioni o dichiarare decaduti dal loro
diritto a pensione od o da altri vantaggi sostitutivi, quei membri che non siano in possesso dei
requisiti richiesti o non rispettino gli obblighi derivanti dalla loro carica.
L'attività della Corte è collegiale: il lavoro svolto individualmente dai membri responsabili dei
vari settori viene esaminato dal collegio che decide sul seguito che dovrà loro essere dato e
stabilisce il testo definitivo dei pareri e delle relazioni.
La Corte dei conti ha competenza generale per il controllo esterno della gestione finanziaria
dell'Unione: esamina i conti di tutte le entrate e le uscite delle istituzioni e di ogni altro
organismo creato dall'Unione a meno che ciò non sia escluso dal relativo atto costitutivo. Il
controllo riguarda la legalità e la regolarità di tutte le operazioni. La Corte accerta inoltre la
sana gestione finanziaria.
I controlli possono essere effettuati sia presso le istituzioni sia negli Stati membri, compresi i
locali di persone fisiche e giuridiche che ricevono contributi a carico del bilancio dell'Unione.
La Corte conti può chiedere inoltre alle autorità nazionali interessate la documentazione e le
informazioni che ritenga necessarie. Assiste il Parlamento e il Consiglio nella loro funzione di
controllo sull'esecuzione del bilancio, mentre è sprovvista di poteri diretti di sanzione.
I risultati dei lavori della Corte formano normalmente oggetto di una relazione in cui essa
attesta l'affidabilità dei conti e la legittimità e regolarità delle relative operazioni. La Corte la
redige dopo la chiusura dell'esercizio finanziario per poi trasmetterla entro il 30 novembre
direttamente al Parlamento e al Consiglio. La relazione viene pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale dell'Unione europea.
La Corte svolge anche una rilevante funzione consultiva potendo presentare di sua iniziativa in
ogni momento proprie osservazioni su questioni specifiche e rilasciare pareri su richiesta delle
istituzioni. A ciò si aggiungono ovviamente le forme di consultazione obbligatoria nei casi
contemplati dal Trattato. Il parere della Corte è obbligatorio in due casi: quando il Parlamento
europeo e il Consiglio stabiliscono i regolamenti finanziari; quando il Consiglio ed il
Parlamento europeo determinano norme ed organizzino il controllo della responsabilità degli
agenti finanziari, ordinatori e contabili.

11. GLI ORGANI CONSULTIVI DELL’UNIONE.
11.1. IL COMITATO ECONOMICO E SOCIALE.
11.1.1-2 La composizione e attribuzioni.
La rappresentanza a livello dell'Unione degli interessi delle diverse componenti economico-
sociali nazionali è affidata al Comitato economico e sociale (CES) con compiti esclusivamente
consultivi. È composto da rappresentanti delle organizzazioni dei datore di lavoro, dei
lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Essi devono avere la
cittadinanza di uno degli Stati membri. Il loro numero è pari a 344 membri ripartiti in maniera
ponderata tra gli Stati membri. Sono nominati a titolo personale per cinque anni rinnovabili
del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata su una lista presentata da ciascuno Stato
membro.
Il Comitato designa il suo presidente per due anni e mezzo e stabilisce il proprio regolamento
interno. È convocato dal presidente su richiesta del Parlamento europeo, del Consiglio e della
Commissione ma può riunirsi anche di propria iniziativa. All'interno è organizzato in 3 gruppi e
sei sezioni. Il primo gruppo è costituito dai delegati dei datori di lavoro; il secondo riunisce i
lavoratori; mentre il terzo è costituito da altre categorie economiche e sociali, professionali e
culturali. Le sei sezioni sono specializzate nei principali settori contemplati dal Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea: unione economica e monetaria, mercato interno,
produzione e consumo, trasporti, energia, infrastrutture, occupazione, agricoltura ecc.
Le funzioni attribuite al Comitato economico e sociale sono classificabili in 3 categorie:
1) Formulazione di pareri rivolti alle tre principali istituzioni dell’Unione, Parlamento
europeo, Consiglio e Commissione;
2) Sviluppo di una maggiore partecipazione della società civile al processo decisionale
dell’UE;
3) Rafforzamento del ruolo svolto dalla società civile nei Paesi terzi attraverso la
valorizzazione dei strutture di natura consultiva.
Nella maggior parte dei casi il CES adempie a funzioni di natura prettamente consultiva. La
funzione consultiva è esercitata dal Comitato nella sua unità e non dalle singole sezioni, anche
se queste sono chiamate a formulare pareri di rispettiva competenza che dovranno poi essere
approvati dal Comitato in seduta plenaria.
I pareri possono essere richiesti (dalla Commissione, dal Consiglio o dal Parlamento europeo);
possono essere esplorativi (il Comitato, su richiesta delle istituzioni interessate, formula
indicazioni su una particolare materia); infine i pareri possono essere resi di sua iniziativa su
qualsiasi problematica concernente gli obiettivi dell’UE.
Sia l'atto unico europeo che il Trattato sull'Unione europea hanno rinforzato la partecipazione
del Comitato all'elaborazione dei provvedimenti rivolti al completamento del mercato interno,
in materia di istruzione, formazione professionale, industria, ambiente, ricerca e sviluppo
tecnologico.

11.2. IL COMITATO DELLE REGIONI
Rinvio al capitolo 8°

12. LA BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI (BEI)
12.1-2. La composizione e l’organizzazione interna - funzioni.
È dotata di personalità giuridica e di autonomia finanziaria. Agisce in modo indipendente sui
mercati finanziari internazionali, senza scopo di lucro e nei limiti del perseguimento degli
obiettivi dell'Unione, con il compito di contribuire ad uno sviluppo equilibrato e senza scosse
del mercato interno nell'interesse dell'Unione. Inoltre è chiamata a facilitare il finanziamento
di progetti per la valorizzazione delle regioni meno sviluppate o per la riconversione di
imprese o di interesse comune per Stati membri nonché la realizzazione dei programmi di
investimenti congiuntamente con gli interventi dei fondi strutturali e degli altri strumenti
finanziari dell'Unione.
Ogni Stato membro è membro della Banca europea. Questa è amministrata e gestita da un
Consiglio dei governatori composto dai ministri degli Stati membri (competente nella
definizione della politica generale del credito della stessa e nella vigilanza sull’esecuzione delle
direttive impartite. Le deliberazioni del Consiglio dei governatori sono adottate di norma a
maggioranza dei membri che lo compongono, che rappresenti almeno il 50% del capitale
sottoscritto), da un Consiglio di amministrazione che gestisce l'ordinaria amministrazione
(formato da 28 membri, nominati rispettivamente da ciascuno Stato membro e dalla
Commissione e da 18 supplenti. Tra le sue competenze figurano quelle relative
all’approvazione di operazioni di concessione e acquisizione di prestiti garantendo la corretta
amministrazione della BEI), da un Comitato direttivo (composto da 9 membri, un presidente e
8 vicepresidenti, nominati per un mandato rinnovabile di sei anni. Esso dispone di funzioni
esecutive e gestisce gli affari di ordinaria amministrazione della BEI).

13. I COMITATI CONSULTIVI E LE AGENZIE.
13.1. I Comitati consultivi.
II Consiglio e la Commissione sono assistiti da una serie di comitati e gruppi di lavoro. Questi
comitati nascono negli anni '60 per sopperire al carico di lavoro che c'era soprattutto nel
settore agricolo. Si tratta di organismi a composizione mista formati dai rappresentanti delle
amministrazioni degli Stati membri e sono presieduti da un funzionario della Commissione
con competenze specialistiche. Il loro obiettivo consiste nel favorire una composizione delle
diverse posizioni e degli eterogenei interessi tra livello statale e livello sovranazionale, in
particolare nella fase di predisposizione delle decisioni dell’Unione: si tratta pertanto di organi
aventi una doppia ausiliarietà, sia nei confronti dell’Unione, sia nei confronti degli Stati
membri. Attualmente esistono circa 300 comitati operanti sia nei confronti del Consiglio sia
nei confronti della Commissione.
Tra i comitati che preparano i lavori del Consiglio va ricordato:
1) Il Comitato politico e di sicurezza, operante nei settori della politica estere e di
sicurezza comune. Al comitato compete infatti il controllo della situazione
internazionale; predispone, inoltre i poteri da sottoporre all’attenzione del Consiglio e
dell’Alto rappresentante;
2) Il Comitato permanente, attivo nel settore della cooperazione in materia di sicurezza
interna, fatte salve le specifiche attribuzioni del CO.RE.PER, risulta competente alla
formulazione di pareri, richiesti dallo stesso Consiglio o predisposti di sua iniziativa;
3) Il Comitato economico e finanziario, costituito da due rappresentanti degli Stati
membri, della Commissione e della Banca centrale europea. Esso svolge la sua attività
attraverso il rilascio di pareri e la programmazione dei lavori del Consiglio nei settori
relativi;
4) Il Comitato per l’occupazione, è stato istituito ad opera del Consiglio previa
consultazione del PE. Tale comitato è composto da membri nominati dagli Stati membri
e dalla Commissione e persegue l’obiettivo di armonizzare le politiche nazionali in
materia di occupazione;
5) Il Comitato per la protezione sociale, svolge essenzialmente funzioni di carattere
consultivo allo scopo di promuovere la cooperazione tra Stati membri e Commissione
nel settore della protezione sociale, formulando pareri o avviando altre attività.
Tra i Comitati che svolgono una funzione di ausilio alla Commissione possono ricordarsi: il
Comitato consultivo in materia di trasporti, il Comitato di gestione del Fondo Sociale
Europeo, il Comitato speciale della politica commerciale.
Nel contesto invece dei recenti interventi normativi volti a realizzare un sistema unico di
vigilanza bancaria e risoluzione delle crisi degli enti creditizi vengono in rilievo il Comitato
congiunto delle Autorità europee di vigilanza, il Comitato europeo per il rischio sistemico
(CERS), il Comitato unico di risoluzione delle crisi, con compiti specifici relativi alla
preparazione e alla gestione della risoluzione delle crisi delle banche in dissesto o a rischio di
dissesto.

13.2 LE AGENZIE.
Le agenzie sono organismi di diritto pubblico europeo aventi una propria personalità giuridica.
Svolgono compiti di natura tecnica, gestoria o scientifica per il miglioramento della
cooperazione tra il livello comunitario ed il livello nazionale.
Le agenzie europee vengono denominate in vario modo, sono dotate di autonomia finanziaria
e costituiscono un gruppo eterogeneo accomunato da un modello organizzativo unitario.
Esse appaiono caratterizzate dalla presenza di 4 elementi: l’introduzione di un fattore di
decentramento delle attività dell’Unione; l’espletamento di funzioni concernenti la raccolta ed
elaborazione di informazioni; lo svolgimento di un ruolo di mediazione tra vari gruppi di
interesse; l’assolvimento di funzioni di controllo tecnico e di indirizzo specialistico.
Esse sono costituite da un Consiglio di amministrazione (stabilisce gli orientamenti generali e
dota l’agenzia di specifici programmi di lavoro. La sua composizione è determinata dal
regolamento istitutivo), da un Direttore esecutivo (ha la rappresentanza legale dell’agenzia ed
è di regola nominato dalla Commissione) e uno o più Comitati tecnici scientifici (sono formati
da esperti del settore oggetto di intervento e tra le loro competenze sono comprese quelle
relative al rilascio di pareri su questioni poste alla loro attenzione).
Attualmente possono individuarsi oltre 40 organismi rispondenti alla definizione di Agenzia
europea che, a seconda dell’attività svolta, risultano classificabili in 4 categorie:
1) Agenzie che concorrono al funzionamento del mercato interno (autorità europea per la
sicurezza dei prodotti alimentari);
2) Agenzie che hanno il compito di promuovere il dialogo sociale e livello europeo (agenzia
europea per la sicurezza e la salute sul lavoro);
3) Agenzie che svolgono compiti e realizzano programmi per l’Unione europea nel
rispettivo campo di competenza (fondazione europea per la formazione professionale);
4) Gli osservatori (agenzia europea per l’ambiente, centro europeo per la prevenzione e il
controllo delle malattie ecc).
Accanto alle agenzie europee si possono riscontrare ulteriori tipologie di organismi, anch’essi
denominati con il termine Agenzie e classificabili sulla base del settore specialistico di loro
competenza, con lo scopo di fornire ausilio e consulenza agli Stati membri e ai loro cittadini.
Anche in tale ipotesi la loro istituzione risponde all’esigenza di attuare un decentramento
geografico, provvedendo alla necessità di esercitare nuove attribuzioni di carattere tecnico,
giuridico e scientifico. Tra esse:
1) Le Agenzie impegnate nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (agenzia
europea per la difesa);
2) Le Agenzie per la cooperazione giudiziaria in materia penale (Europol, Eurojst);
3) Le Agenzie operanti nel settore bancario, assicurativo e finanziario (autorità bancaria
europea);
4) Le Agenzie esecutive (agenzia esecutiva per i consumatori, la salute e la sicurezza
alimentare).

13.3 Le funzioni delle istituzioni dell’UE nel contesto degli strumenti di riforma della
governance economica europea.
La riforma della governance economica europea realizzata attraverso l’adozione di alcuni
strumenti, di natura sia eurounitaria sia internazionale ha inciso sui poteri di alcune delle
istituzioni dell’Unione ed ha istituito un nuovo organismo, il Vertice europeo, realizzando in
tal modo un’integrazione dei trattati relativamente alla struttura istituzionale della zona euro.
Il Sick Pack ha introdotto un rafforzamento del ruolo della Commissione rispetto al Consiglio
e, in particolare all’inversione della regola della maggioranza nelle procedure di voto in seno
al Consiglio. I regolamenti facenti parte del Sick Pack attribuiscono al PE una funzione di
controllo politico istituzionalizzata nella clausole sul dialogo economico. In base a tali clausole,
la commissione competente del PE può invitare il Presidente del Consiglio e della
Commissione a partecipare a una sua riunione per discutere delle decisioni adottate nel
quadro delle procedure di controllo delle politiche economiche degli Stati membri. Tuttavia
tali clausole non hanno la funzione di introdurre il PE nel circuito decisionale.
Il Trattato MES ricorre invece alle istituzioni europee (Commissione, BCE e Corte di giustizia)
per gestire il meccanismo di stabilità finanziaria. In particolare, alla Commissione e alla BCE è
stato affidato un ruolo fondamentale nell’elaborazione del programma di risanamento che lo
Stato richiedente gli aiuti deve presentare per ricevere il sostegno finanziario. Sulla base della
valutazione della Commissione europea il Consiglio dei governatori può poi decidere di
concedere gli aiuti. Successivamente, si affida alla Commissione il compito di negoziare con lo
Stato un protocollo di intesa, che preveda un programma di correzioni macroeconomiche per
affrontare la situazione di dissesto finanziario in cui versa.
Con il Fiscal compact, il Consiglio e soprattutto la Commissione assumono un ruolo
importante che si estrinseca nelle proposte di azione, nella presentazione periodica di
rapporti sulla compliance da parte degli Stati contraenti, nella preparazione del Vertice
europeo. La Commissione ed il Consiglio sono inoltre i soggetti istituzionali ai quali le parti
contraenti hanno l’obbligo di comunicare ex ante i propri piani di emissione del debito
pubblico.
Al Parlamento europeo è invece attribuito un ruolo marginale. Non solo non è colegislatore,
ma non è nemmeno consultato.

13.3.1. Segue: le funzioni della Corte di giustizia.
Il Trattato MES prevede la competenza della Corte di giustizia a conoscere le controversie
aventi ad oggetto le decisioni del Consiglio dei governatori concernenti l’interpretazione e
l’applicazione di tale trattato e la compatibilità con esso delle decisioni adottate dal MES. La
Corte di giustizia ha chiarito che nei settori che non rientrano nella competenza esclusiva
dell’Unione, gli Stati membri hanno il diritto di affidare alle istituzioni, al di fuori dell’ambito
dell’Unione, compiti come il coordinamento di un’azione comune da essi intrapresa o la
gestione di un’assistenza finanziaria.
E’ sancito l’obbligo delle parti contraenti di recepire la regola del pareggio di bilancio nei loro
ordinamenti giuridici nazionali, tramite disposizioni vincolanti, permanenti e preferibilmente
di natura costituzionale, dovrebbe essere soggetta alla giurisdizione della Corte di giustizia
dell’UE. E’ inoltre attribuito alla Corte di comminare il pagamento di una somma forfettaria o
di una penalità allo Stato membro dell’UE che non si sia confermato a una sentenza da essa
pronunciata.
La disciplina specifica è contenuta nell’art 8 del Trattato sulla stabilità, che contempla
meccanismi inediti di ricorso alla CGUE. Tale ricorso inizia con modalità che ricordano quelle
del ricorso d’infrazione, ma poi se ne discosta significativamente: la Commissione presenta
alle parti contraenti un rapporto sulle norme che ciascuna di essa ha adottato. Se dopo aver
concesso un termine per adempiere, la Commissione conclude che una o più parti non
abbiano compiuto quanto previsto, la materia sarà portata davanti alla CGUE. Non sarà,
tuttavia, la Commissione, ma una delle parti contraenti a poter portare il ricorso davanti alla
Corte di giustizia. Viene peraltro previsto che uno Stato contraente possa presentare ricorso
contro uno Stato ritenuto inadempiente indipendentemente dal parere della Commissione. In
entrambe le ipotesi la sentenza sarà vincolante per lo Stato interessato. Qualora la sentenza
non venga rispettata e lo Stato non ponga in essere le misure richieste nel termine indicato
dalla Corte, un altro Stato può chiedere alla Corte di applicare allo Stato inadempiente una
sanzione o somma forfettaria in misura non eccedente lo 0,1 % del PIL.
La competenza della Corte non è riferita alla violazione di tutte le disposizioni del Trattato di
stabilità, ma è circoscritta alla violazione dell’obbligo di adottare entro 1 anno dall’entrata in
vigore del Trattato le disposizioni vincolanti e permanenti sul pareggio di bilancio e di
prevedere meccanismi di correzione sulla base di principi indicati dalla Commissione.

13.3.2. Altri organi di governance economica dell’Eurozona.
L’art 12 del Trattato di stabilità ha istituzionalizzato nelle riunioni del Vertice euro la pratica
degli incontri dei capi di Stato e di governo degli Stati dell’eurozona. A tali incontri partecipa il
Presidente della Commissione, è invitato il Presidente della BCE e può esserlo anche il
Presidente del Parlamento europeo per essere ascoltato.
Il Vertice euro ha un proprio Presidente, che viene eletto a maggioranza semplice dai Capi di
Stato e di governo dei Paesi la cui moneta è l’euro. Il mandato è di 2 anni e mezzo.
Le riunioni sono convocate quanto necessario e comunque almeno 2 volte all’anno per
discutere questioni relative alle responsabilità degli Stati membri la cui moneta è l’euro e altre
tematiche concernenti la governance della zona euro.
Le riunioni del vertice euro sono preparate dall’Eurogruppo, che deve darvi anche seguito.
L’Eurogruppo è un organismo che si compone di ministri delle finanze dell’Eurozona e ha un
proprio presidente stabile.
Mentre secondo il Trattato di Lisbona l’Eurogruppo è un organo di concertazione, il Trattato di
stabilità attribuisce ad esso la nuova funzione di dar seguito alle riunioni del Vertice euro. Si
delinea così una struttura duale, basata sul Vertice euro e l’Eurogruppo, che riproduce le
istituzioni dell’Unione (Consiglio europeo e Consiglio).
14. La forma di governo dell’UE nei nuovi trattati emergenti dalle modifiche apportate dal
Trattato di Lisbona.
14.1 La separazione dei poteri e l’equilibrio istituzionale.
Quando nacque la CE i padri fondatori non la strutturarono sulla base del principio della
separazione dei poteri, probabilmente perché era prevalsa la volontà di costituire
un’organizzazione internazionale volta al perseguimento di specifiche finalità, all’interno della
quale non sembrava necessario distinguere tra il potere legislativo e quello esecutivo. Il
risultato fu quello di delineare all’interno dei trattati un equilibrio di poteri tra le principali
istituzioni comunitarie coinvolte nel processo decisionale: il Parlamento, la Commissione e il
Consiglio.
Inizialmente il processo decisionale era incentrato sull’interrelazione tra due organi, il
Consiglio e la Commissione, con un ruolo del tutto marginale del PE. L’adozione degli atti
comunitari doveva infatti avvenire da parte del Consiglio sulla base di una proposta
presentata dalla Commissione e su semplice consultazione del PE.
Successivamente inizio la fase di ascesa del PE che nel 1979 ottiene una maggiore
legittimazione democratica tramite l’elezione a suffragio universale diretto. Il PE dunque
cominciò ad incidere sull’attività legislativa comunitaria, insistendo affinchè la Commissione
tenesse in considerazione gli emendamenti di matrice parlamentare e utilizzando lo
strumento dell’accordo internazionale riuscì a sviluppare i propri poteri, soprattutto in ambito
legislativo.
Con l’AUE i poteri del PE vennero maggiormente rafforzati. Ma il mutamento più significativo
si è manifestato con il trattato di Maastricht del 1992. Infatti al c.d. metodo comunitario
caratterizzato da un processo decisionale articolato tra istituzioni comuni, volte al
perseguimento di un interesse generale, è stato affiancato il metodo intergovernativo,
rappresentato dal rilevante peso giocato dalle istituzioni meno sopranazionali.
Contestualmente, la struttura a pilastri ha modificato l’atteggiarsi dei diversi poteri
istituzionali, creando all’interno dei pilastri 3 diversi triangoli, ciascuno caratterizzato da un
proprio grado di sopranazionalità. L’evoluzione in atto dal Trattato di Maastricht ha favorito
ulteriormente l’ascesa del Parlamento ed ha parallelamente registrato un decentramento
della rilevanze della Commissione.
I nuovi trattati riformati a Lisbona confermarono tale tendenza, rafforzando il ruolo del PE e
affievolendo quello della Commissione. E’ stato affermato che i nuovi trattati più che alla
separazione dei poteri tenderebbero ad un meccanismo di checks and balances, ad
intensificare l’interconnessione tra le istituzioni coinvolte nei vari processi decisionali: l’Alto
Rappresentante fungerà da collante tra la Commissione, il Consiglio e il Consiglio europeo; il
PE e il Consiglio nomineranno un Comitato di 7 personalità con il compito di fornire un parere
sull’adeguatezza dei canditati alla funzione di giudice della Corte di giustizia dell’UE e del
Tribunale; la rappresentanza esterna dell’Unione sarà di volta in volta garantita dall’Alto
rappresentante, dalla Commissione e dal Consiglio europeo; il potere esecutivo continua ad
essere esercitato dalla Commissione che promuove l’interesse generale e adotta le iniziative
appropriate.
Ciò dà luogo ad un sistema particolare in cui i poteri si sovrappongono l’uno con l’altro e ad
una forma di governo provvisoria e transitoria.
14.2 La forma di governo dell’Unione: una prospettiva sistematica.
Se si analizza il quadro istituzionale, si possono rilevare due distinti, ma al contempo
interconnessi modelli organizzativi. Da una parte viene in rilievo il Consiglio, istituzione dal
carattere prettamente intergovernativo nella quale di fatto risiede l’essenza del potere
nell’ambito dell’Unione, che insieme con il Consiglio europeo, organo nato dalla prassi delle
riunioni al vertice dei capi di Stato o di Governo degli Stati membri, rappresenta la
componente internazionale; dall’altra si collocano il PE, la Commissione e la Corte di giustizia,
che partecipano, anche se in posizione subordinata, al procedimento decisionale, raffigurando
la componente sopranazionale.
Tale evoluzione istituzionale è oggi approdata ad una nuova fase, determinata
dall’approvazione del Trattato di Lisbona, che ha inciso sui trattati esistenti. Questa ulteriore
tappa nel processo d’integrazione europea si propone si delineare un quadro istituzionale
dotato di un insieme di organi operanti in relazione a tutte le competenze dell’Unione. In
particolare, la struttura che ne emerge sembra configurare i due organi legislativi (Consiglio e
PE) quali rami di un sistema bicamerale federale, all’interno del quale il Parlamento diviene in
via definitiva la sede di rappresentanza degli interessi del popolo europeo e il Consiglio delle
istanze degli Stati membri. Il bicameralismo federale sembra essere rafforzato dal diverso
metodo di legittimazione delle due istituzioni coinvolte. Im membri del Parlamento europeo
sono infatti eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto, con mandato di 5 anni,
mentre il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello
ministeriale, abilitato ad impegnare il Governo che rappresenta.
Sul versante della funzione di indirizzo ed esecutiva, l’Unione sempre essere guidata da un
governo bipolare, costituito da una testa tecnica, data dalla Commissione, e da una testa
politica, rappresentata dal Consiglio europeo. Quest’ultimo è fatto rientrare tra le istituzioni
dell’Unione. Esso è un organo intergovernativo, composto dai capi di Stato o di Governo degli
Stati membri e dal Presidente della Commissione, ma con un Presidente stabile, che soppianta
il metodo della rotazione semestrale, conferendo coerenza e continuità alla politica
dell’Unione. Sembra che i nuovi trattati abbiano voluto delineare un soggetto qualificabile
come chairman piuttosto che come Presidente con effettivi poteri operativi. La differenza tra
le due qualificazioni non è solo lessicale, ma anche sostanziale, in quanto la prima designa un
soggetto con semplici poteri di direzione e coordinamento di un organo collegiale, mentre la
seconda vuole significare una direzione politica, caratterizzata da un forte ruolo esecutivo.
Non sembra potersi affermare con certezza che tale figura costituirà effettivamente una
leadership in seno all’UE, anche se alcuni autori ne hanno posto in rilievo l’esigenza. Tale
obiettivo potrà essere realizzato qualora abbia luogo un cumulo delle due cariche di
Presidente del Consiglio europeo e di Presidente della Commissione.
Le funzioni complessivamente attribuite al Consiglio europeo potranno permettere a tale
istituzione di incidere in misura significativa sulle principali politiche dell’Unione,
atteggiandosi quale Presidente collegiale dell’Unione, riassorbendo al suo interno il proprio
Presidente. Ciò potrebbe dare luogo ad un sistema ad esecutivo bicefalo, simile al modello
francese, caratterizzato dalla presenza di un Capo dello Stato, titolare delle funzioni d’indirizzo
e di politica estera, e di un Governo che esercita le competenze relative agli affari interni e alla
politica economica. Quest’ultima entità è rappresentata dalla Commissione, organo di natura
collegiale, costituito da un proprio Presidente, dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza e da una serie di commissari.
La questione circa la forma di governo dell’UE dunque non può ancora trovare una soluzione
certa e definitiva.


CAPITOLO V
LE FONTI DEL DIRITTO EUROPEO ED I LORO RAPPORTI CON LE FONTI NAZIONALI

SEZIONE I: L'ORDINAMENTO DELLE FONTI EUROPEE.

1. L'inadeguatezza degli schemi di inquadramento del sistema delle fonti usualmente
adottati in ambito interno (con specifico riguardo agli ordinamenti di civil law) al fine di una
compiuta descrizione dell'assetto delle fonti proprio dell'unione.

Chi volesse guardare al sistema delle fonti eurounitarie con le lenti comunemente utilizzate
per l'analisi delle fonti di diritto interno rischierebbe di restare fortemente disorientato.
L'art 288 TFUE include gli atti dell'Unione, in un unico ed apparentemente esaustivo elenco,
anche le raccomandazioni ed i pareri, accomunati dal fatto di non essere giuridicamente
vincolanti, pur potendo ugualmente acquistare un qualche rilievo giuridico. Analoghi atti di
diritto interno invece non sono considerati fonti normative in senso proprio, quali a livello
sovranazionale sono i regolamenti e le direttive, ai quali si affiancano le decisioni (aventi
natura amministrativa), nonché altri atti ancora (azioni e posizioni assunte a contenuto di
decisioni dell’Unione in materia di politica estera e di sicurezza). Si considerino inoltre
dichiarazioni o risoluzioni oppure delibere e programmi (specie in materia di ambiente e di
cooperazione allo sviluppo) e infine altri atti come proposte ed inviti aventi esclusivo rilievo
interno ad un dato procedimento.
I principali tratti identificativi dell'ordine giuridico europeo delle fonti sono i seguenti:

1) Ridotto rilievo delle forme. Importante, anche se circoscritto, è il ruolo giocato dalle
forme al fine della composizione degli atti di sistema. Infatti, nel caso in cui i Trattati
non prevedano il tipo di atto da adottare, le istituzioni lo decidono di volta in volta nel
rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità. Di contro in molti
ordinamenti nazionali il riferimento alle forme è considerato essenziale al fine della
determinazione del posto occupato da ciascuna fonte nell'ordinamento, nonché del
trattamento complessivo ad esse riservato, specie per l’assetto dei controlli.
2) Assenza di una gerarchia delle fonti e di una diversa graduazione dei vincoli
discendenti dai singoli atti a carico dei loro destinatari in ragione delle forme di cui essi
si rivestono. I vincoli discendono piuttosto da connotati sostanziali esibiti dagli atti
stessi, vale a dire dallo loro effettiva capacità di imporsi e farsi valere per il modo con
cui esprimono in ragione della minore o maggiore ampiezza della trama strutturale di
cui sono dotati, insomma dall’intensità prescrittiva che è in concreto espressa dalle
disposizioni normative. Così, ad esempio, una fonte adottata al fine di dare esecuzione
o attuazione ad un’altra fonte, pur disponendosi in posizione astrattamente servente
rispetto a quest’ultima, potrebbe nei fatti dar vita alla disciplina complessiva di una
data materia, acquistando un rilievo ancora maggiore di quello posseduto dalla fonte in
cui rinviene il titolo della propria esistenza, cioè il fondamento della propria validità.

Tutto ciò può in molti casi dar vita a problemi non da poco riguardati il riconoscimento
dell’effettiva natura del singolo atto, come nel caso in cui non soccorrano più taluni connotati
identificanti d’ispirazione formale e si debba piuttosto far capo a connotati di tipo sostanziale
(o strutturale-sostanziale).
Per quale ragione la sistemazione delle fonti secondo la forma non ha, ad oggi, avuto modo di
affermarsi? Semplicemente perché all'Unione è stata riconosciuta libertà di “piegare” gli
strumenti dei quali dispone o, magari, “inventarsene” di nuovi in relazione alle circostanze e
agli interessi di volta in volta perseguiti. Si spiega in questo modo la confusione degli atti, cioè
l’abbandono dei connotati astrattamente propri di ciascuno di essi per far posto a connotati
propri di altri atti.

2. Norme sulla normazione e procedimenti di produzione giuridica (notazioni di ordine
generale ed introduttivo).
Le norme sulla normazione, o metanorme, consentono all'ordinamento, o meglio, ad ogni
ordinamento, di trasmettersi sempre identico a sé pur nel rinnovo dei suoi contenuti
contingenti, precostituendo le forme di cui si rivestono i singoli atti normativi. La loro
violazione comporta nei casi più gravi la stessa irriconoscibilità degli atti, vale a dire
l'impossibilità della loro riconduzione al genus degli atti normativi e perciò la radicale nullità-
inesistenza degli atti stessi ovvero, nei casi meno gravi, la loro invalidità, per vizio di forma.
E' importante stabilire dove e come le metanorme devono essere poste nel sistema, dal
momento che pur essendo relative a fonti non possono, essere per prime, che risultare da
altre fonti. Dalla loro giusta definizione dipendono le sorti stesse dell’ordinamento e la sua
capacità di trasmettersi integro e vitale nel tempo. In ambito interno invece la questione è
stata a lungo discussa: secondo una prima tesi, le metanorme sarebbero fissate in una fonte
superiore a quella cui esse si riferiscono; una diversa opinione invece è favorevole alla
definizione di esse come atto dotato della medesima specie e forza di quelli cui esse si
riferiscono. Quest'ultima ricostruzione si è affermata nell'esperienza di molti ordinamenti tra
cui il nostro.
La questione ha pratico rilievo sul piano dei controlli. Se si conviene che le metanorme devono
comunque essere osservate (se non lo fossero, sarebbe il caos nella produzione giuridica,
priva di un suo ordine interno indefettibile), se ne ha che la loro violazione si traduce in un
vizio formale, dipendente tuttavia dal mancato rispetto prestato da una legge nei confronti di
un’altra legge dotata della medesima forza (alle volte, persino, inferiore). Tale questione è la
stessa a quella che si pone con riguardo alle norme sulla buona redazione degli atti normativi
(il c.d. drafting), esse pure dimostratesi incapaci di farsi valere proprio perché stabilite da atti
o documenti strutturalmente privi della forma e della forza necessaria per imporsi.
Non resta che fare riferimento all’esistenza di una metanorma costituzionale consuetudinaria
in cui riposi il fondamento di una pratica ormai consolidata che vede le leggi comuni regolare
se stesse e, persino, leggi di grado superiore.
In ambito interno, per ragioni storico politiche, le Costituzioni sono molto avare di indicazioni
riguardo alla formazione delle leggi preferendo per ciò rimandare ai regolamenti camerali.
Nell'Unione, invece, le cose non stanno così, dal momento che si segue passo per passo lo
svolgimento della fase centrale dell'iter di formazione degli atti dell'UE, mentre minore
attenzione viene prestata alle fasi che la precedono e seguono.
Come stabilito a Lisbona, gli atti legislativi adottati con la procedura legislativa ordinaria sono
firmati dal Presidente del Parlamento e dal Presidente del Consiglio ed entrano in vigore di
norma il 20º giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione, salvo
che gli atti stessi non dispongano diversamente; gli atti invece adottati secondo una
procedura legislativa speciale sono firmati dal Presidente dell'istituzione che li ha adottati.
Sono quindi pubblicati nella Gazzetta Ufficiale ed entrano in vigore alla data da essi fissata o,
in mancanza allo spirare del 20º giorno dalla loro pubblicazione.
Al pari di ciò che si ha in ambito interno per le leggi, non è esclusa l’efficacia retroattiva dei
regolamenti, tuttavia considerata eccezionale, e come tale, bisognosa di essere congruamente
motivata.
Gli atti dell’Unione devono essere motivati. La motivazione deve essere corredata del
riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazione, richieste o pareri previsti dai trattati.
La motivazione è inoltre richiesta nel caso in cui l’atto disponga di efficacia immediata, in
deroga alla regola precedente. Essa esprime l’essenza stessa del fenomeno eurounitario, la
sua peculiare vocazione e ferma determinazione al conseguimento della piena integrazione
tra gli Stati, Ogni atto dunque deve tendere verso questo obiettivo, perseguendo lo specifico
scopo che ne giustifica l’adozione. Nella motivazione deve trovare riscontro l’osservanza dei
principi che presiedono alle dinamiche della normazione, ne danno l’orientamento:
innanzitutto il principio di attribuzione che delimita l’area materiale entro cui le dinamiche
stesse sono obbligate a svolgersi, e quindi dei principio di sussidiarietà e di proporzionalità che
stanno a base dell’esercizio dei poteri di normazione da parte dell’Unione. Pur laddove
l’Unione faccia luogo all’esercizio dei poteri impliciti ovvero si attivi (in modo sussidiario) al
fine di colmare le lacune dovute alle carenze degli Stati, deve pur sempre aversi una congruità
del mezzo al fine, di cui proprio la motivazione è chiamata a dare testimonianza.

3. La qualità della normazione comunitaria. La guida pratica comune. (DRAFTING)
Una disciplina accurata dei procedimenti di produzione normativa è condizione necessaria per
il buon rendimento degli atti emessi a loro conclusione, in relazione agli scopi dell’Unione.
Necessaria ma non sufficiente, dal momento che a nulla varrebbe il formale rispetto prestato
alle metanorme da parte degli atti cui esse si riferiscono qualora poi gli atti stessi dovessero
essere inadeguati per struttura, articolazione interna, linguaggio, contenuti complessivi.
La cura della qualità redazionale dei testi normativi (c.d. drafting) delle istituzioni dell’Unione
è stata assunta in tempi recenti tra i fattori cardine perché gli stessi testi possano essere
meglio compresi ed attuati in modo corretto e tempestivo non solo dalle istituzioni, ma anche
da parte e all’interno degli Stati membri.
A partire dal Consiglio europeo di Birmingham in cui si lanciò l’invito affinchè la legislazione
fosse più semplice e chiara, e poi soprattutto a seguito del successivo Consiglio europeo di
Edimburgo del 1992, la necessità di legiferare in modo migliore, mediante testi più chiari,
semplici e rispondenti alla buona tecnica legislativa, è stata riconosciuta ai più alti livelli
politici dell’Unione. Le istituzione sono state dunque chiamate ad attuare una determinata
politica legislativa ponendo in essere varie iniziative tra cui la risoluzione del Consiglio del
1993 relativa alla qualità redazionale della legislazione comunitaria. Va inoltre menzionato il
monitoraggio costante sullo stato della legislazione, effettuato dalla Commissione dalla
seconda metà degli anni 90.
Questa esigenza di legiferare meglio fu ribadita con la dichiarazione n. 39 relativa alla qualità
redazionale della legislazione comunitaria sottoscritta a Torino nel 1996 con cui viene
auspicata la messa a punto di comune accordo di orientamenti per un miglioramento della
qualità redazionale della legislazione comunitaria, da seguire nell’esame di proposte o di
progetti di atti legislativi comunitari. Fu comunque stabilito che per assicurare la corretta
applicazione degli orientamenti le istituzioni avrebbero dovuto prendere le misure di
organizzazione interna ritenute necessarie.
Nel 2003 fu pubblicata una Guida Pratica comune, uno strumento destinato tutti coloro che
partecipano, a qualsiasi titolo, all'elaborazione degli atti normativi nelle istituzioni comunitarie
L'uso della stessa viene combinato con strumenti più specifici quali i regolamenti interni delle
singole Istituzioni, il formulario degli atti del Consiglio, le regole di tecnica legislativa della
Commissione, il manuale interistituzionale di convenzioni redazionali ecc.
Oltre al profilo del drafting formale, non meno importanti appaiono i profili di drafting
sostanziale e della manutenzione del diritto. In quest’ultima direzione si sono mosse le
istituzioni comunitarie con l’Accordo interistituzionale sul Metodo di lavoro accelerato ai fini
della codificazione ufficiale dei testi legislativi e con l’Accordo interistituzionale adottato Ai fini
di un ricorso più strutturato alla tecnica della rifusione degli atti normativi.
Il profilo del drafting sostanziale, che riguarda l’analisi e la valutazione d’impatto ex ante ed ex
post degli atti normativi, può considerarsi un punto di avanguardia in ambito europeo. E’ stato
al riguardo riconosciuto che un più efficace procedimento di consultazione prelegislativa e un
maggiore ricorso agli analisi degli effetti, sia a priori che a posteriori, contribuiscono al
conseguimento dell’obiettivo di una maggiore qualità della legislazione.
Un problema redazionale infine riguarda la pluralità di lingue parlate nell'Unione europea, ma
tale problema è stato affrontato anche con la fissazione di regole ed un notevole
dispiegamento di risorse.

4. I Trattati.
Fonti usualmente qualificate come primarie ed originarie dell'ordinamento dell'Unione, i
Trattati e le loro modifiche costituiscono espressioni normative tipiche della Comunità
internazionale e nello stesso tempo sono anche fonti di base dell'Unione stessa.
Nel procedimento di revisione si mescolano 3 componenti (sovranazionale, internazionale e
nazionale). La procedura quindi non si svolge ed esaurisce nell’ambito eurounitario, avendo
piuttosto il suo momento perfettivo, costituito dalla stipula del Trattato di revisione, e quello
finale, volto a far conseguire gli effetti alla revisione medesima, in luoghi ed ordinamenti
diversi da quelli dell’Unione (la Comunità internazionale e gli Stati membri).
Deve segnalarsi al riguardo una proposta secondo la quale per i trattati dovrebbe valere il
meccanismo dell’adattamento automatico che è riservato alle sole norme internazionali o
generalmente riconosciute (in buona sostanza consuetudinarie), secondo quanto è stabilito
dall’art 10 Cost. Tale proposta presenterebbe il vantaggio di non subordinare l’entrata in
vigore dei trattati alla loro ricezione da parte di tutti gli Stati membri.
In seguito alle novità introdotte dal Trattato di Lisbona si prevedono, accanto ad una
procedura di revisione ordinaria, delle procedure di revisione semplificate.

PROCEDURA ORDINARIA.
L'iniziativa della revisione può essere adottata, oltre che dai Governi degli Stati membri e dalla
Commissione, dal Parlamento europeo. Le modifiche possono essere portate tanto ad
accrescere quanto a ridurre le competenze dell'Unione.
Allo scopo, si costituisce una Convenzione composta da rappresentanti del Parlamento
nazionale, dei Capi di Stato / Governo degli Stati membri, del Parlamento europeo e della
Commissione. La Convenzione esamina i progetti di modifica e adotta per consenso una
raccomandazione indirizzata ad una Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati
membri che stabilisce di comune accordo le innovazioni da apportare ai Trattati, che entrano
in vigore a seguito della ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Se nel termine di due anni
dalla firma di un Trattato di modifica i 4/5 degli Stati lo abbiano ratificato, ed uno o più Stati
abbiano incontrato difficoltà, la questione è demandata al Consiglio europeo.

PROCEDURE SEMPLIFICATE.
Si perfezionano a mezzo di una decisione adottata all'unanimità dal Consiglio europeo,
acquisito il parere del Parlamento europeo, della Commissione e della BCE. La decisione
stessa, che non può in ogni caso accrescere le competenze dell'Unione, dev'essere approvata
dagli Stati membri.
Ulteriori procedure sono, poi, poste in essere allo scopo di consentire al Consiglio europeo di
dar modo al Consiglio di deliberare, anziché all'unanimità, a maggioranza qualificata ovvero di
far luogo alla formazione di atti, per i quali sia prevista la procedura legislativa speciale, con
procedura ordinaria. A tal proposito si prevede anche il coinvolgimento dei Parlamenti
nazionali in modo particolarmente incisivo: è sufficiente infatti l'opposizione anche di uno
solo dei Parlamenti per impedire l'adozione della decisione che consenta il passaggio allo
esame di merito delle proposte di modifica.

Ci si è chiesti poi se anche per i trattati esistano dei limiti sostanziali alla loro modifica. La
Corte di Giustizia ha precisato che le revisioni dei trattati incontrino un limite nei principi
fondamentali della Comunità. Non si nega, tuttavia, che ogni trattato che abbia innovato ai
trattati istitutivi delle Comunità possegga il medesimo connotato originario che è proprio di
questi e quindi essere assimilato alle manifestazioni tipiche del potere costituente. E’
insomma come se, in ambito interno, ad una data Costituzione si sovrappongano con il tempo
sempre e solo nuove Costituzioni, non già revisioni. Non può neppure negarsi che le modifiche
vanno incontro a forti vincoli di scopo (o di valore), dovendo tendere alla crescente avanzata
del processo d’integrazione o mostrarsi compatibili con questo. Questa conclusione parrebbe
smentita dal Trattato di Lisbona che prefigura anche revisioni in peius per ciò che concerne il
patrimonio delle competenze dell’Unione. Si potrebbe pure immaginare che un nuovo
trattato sostituisca per intero il precedente; ciò che non potrebbe ammettersi è la
contestazione sul piano dei fini-valori e, con essa, la dispersione del patrimonio accumulato
lungo la via dell’integrazione.

Quindi, è da considerare assolutamente remota l'ipotesi di Trattati modificativi di quelli
esistenti con la finalità di restaurazione, volti cioè a travolgere le conquiste man mano fatte. In
particolare, assumendo che l'identità di un ordinamento riposi in un pugno di valori
fondamentali che stanno a base della sua Costituzione e ne sostengono lo svolgimento, è da
considerare illecita qualsiasi innovazione che produca l'effetto di far smarrire o comunque
alterare l'identità suddetta, è invece consentita ogni innovazione da cui l'identità risulti
rafforzata e garantita anche laddove la stessa dovesse riguardare i principi fondamentali, che
dei valori sono la forma più espressiva.

Grado primario hanno anche i protocolli allegati ai Trattati. Essi possono avere più funzioni,
ora integrando i Trattati, ora offrendo discipline di carattere transitorio, ora ponendo
disciplina peculiari per taluni Stati tutti provvisti dello stesso rango dei trattati.
Una speciale considerazione va, infine, riservata ai principi generali di diritto. Essi sono
esplicitamente richiamati dall'art.6 TUE, che annovera tra di essi i diritti fondamentali garantiti
dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

5. I regolamenti.
Le prime e più importanti fonti derivate sono i regolamenti. Essi costituiscono l'espressione
più tipica dell'esercizio del potere normativo dell'Unione attraverso cui essa tende a sostituire
la sua disciplina a quella delle varie legislazioni nazionali.
Possono dunque esserci regolamenti in deroga ai trattati, sia pure nei soli cadi ed alle
condizioni da questi stabilite (decostituzionalizzazione eurounitaria); regolamenti quali
strumenti di immediato svolgimento dei trattati stessi (assimilabili alle leggi ordinarie ed agli
atti a queste equiparati) e, infine, regolamenti che danno esecuzione o attuazione ad altri
regolamenti (dalla forza secondaria, dunque).
I regolamenti sono atti a portata generale con valore erga omnes, ossia non si rivolgono a
destinatari indicati espressamente, ma a categorie di soggetti determinati in astratto nel loro
insieme. Questo carattere li distingue nettamente dagli altri atti normativi, in particolare dalle
decisioni, la cui peculiarità è quella di rivolgersi a destinatari determinati o comunque
determinabili.
La portata generale dei regolamenti ha formato oggetto di frequenti verifiche da parte della
Corte di giustizia specie sotto il profilo della loro impugnabilità da parte delle persone fisiche o
giuridiche. La Corte ha affermato che per determinare in concreto la natura di ciascun atto, la
verifica non dovesse arrestarsi alla forma e alle modalità della produzione bensì attribuire
rilevanza in primo luogo al suo contenuto e agli effetti giuridici da esso prodotti, in particolare
se riguardi individualmente dei soggetti determinati. Di conseguenza ha ritenuto che il
carattere regolamentare di un atto non viene meno solo perché sia possibile determinare il
numero o anche l'identità dei destinatari in un determinato momento purché la qualità dei
destinatari dipende da una situazione obiettiva di diritto o di fatto, definita dall'atto, in
relazione con la sua finalità; neanche viene meno quel carattere per l'applicazione territoriale
dell'atto, limitata ad uno o ad alcuni stati membri, o per il fatto che esso possa avere effetti
diversi a seconda dei soggetti cui si applica purché tale situazione sia obiettivamente
determinata.
I regolamenti sono obbligatori in tutti i loro elementi per le stesse istituzioni, per gli Stati
membri e per i loro cittadini: ciò significa che non è consentita l'applicazione solo parziale,
incompleta o selettiva del regolamento, né qualsiasi modifica o trasposizione suscettibile di
incidere sulla portata e contenuto dell'atto; mentre il suo carattere vincolante non viene
meno per il solo fatto che necessita di ulteriori provvedimenti di attuazione o di specificazione
per consentire l'effettiva applicazione. A tal proposito l'articolo 290 TFUE prevede oggi che un
atto legislativo possa delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi che
integrino o modifichino elementi specifici purché non essenziali dell'atto legislativo stesso.
Tale caratteristica distingue i regolamenti dalla direttive, atti che obbligano esclusivamente i
loro destinatari ad adottare provvedimenti di attuazione, ed inoltre lasciano agli Stati membri
un certo margine di discrezionalità circa le misure da utilizzare a tal fine. Infine i regolamenti
presentano una terza caratteristica: sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati
membri. Essi attribuiscono direttamente ai cittadini dell'Unione obblighi e diritti che i giudici
nazionali hanno il dovere di tutelare, anche nei rapporti interindividuali. Le disposizioni in essi
contenute producono effetti immediati negli ordinamenti giuridici degli Stati membri che essi
sono tenuti ad assicurare, anche ricorrendo a misure sanzionatorie, a carattere effettivo,
proporzionale e dissuasivo, in caso di loro violazione da parte dei privati, in forme analoghe a
quelle previste per le violazioni simili del diritto interno. D'altra parte gli Stati non possono
avanzare alcuna scusante per giustificare la mancata osservanza dei regolamenti.
Si è discusso se, laddove sia previsto un intervento dell’Unione in forma di regolamento, lo
stesso possa aversi in forma di direttiva (direttive al posto di regolamenti). Il rischio è quello
dell’inadeguatezza dell’atto rispetto al fine ed espone l’istituzione che ha dato vita all’atto ad
un ricorso in carenza. L’ipotesi inversa si ha laddove i trattati prevedano l’intervento
dell’Unione nella forma della direttiva ed in sua vece venga adottato un regolamento
(regolamento al posto di direttive). Tale intervento dovrebbe essere considerato illegittimo,
innanzitutto per violazione del principio di attribuzione. Tuttavia, al di là del riferimento al
principio di attribuzione come limite a tali conversioni di una potestà di normazione in
un’altra, ciò che conta è l’idoneità degli atti al raggiungimento degli scopi per i quali sono
adottati.
L’intervento non si sottrae al sindacato di legittimità sostanziale delle Corte di giustizia, avuto
riguardo alla necessaria proporzione esistente tra la misura concretamente posta in essere e
lo scopo verso cui essa è obbligata a rivolgersi. Il sindacato è particolarmente stretto con
riferimento ai regolamenti della Commissione, dal momento che essi possono essere adottati
dietro abilitazione espressa contenuta in regolamenti del Consiglio da cui derivano in modo
specifico il titolo della loro validità. Se ne ha dunque che per essi il parametro è triplice, tanto
per l’aspetto procedimentale e della competenza (fondata su un previo atto del Consiglio
ovvero su un atto legislativo), quanto per l’aspetto oggettivo (degli ambiti suscettibili di essere
coperti grazie alla loro adozione), quanto infine per l’aspetto teleologico, gravando su di essi
l’obbligo dell’osservanza dei trattati, dei regolamenti o atti legislativi da cui derivano il titolo
della loro esistenza.
I regolamenti non hanno bisogno di alcun atto di recezione o di attuazione da parte degli Stati
membri: anzi, qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo interno deve
considerarsi illegittima poiché potrebbe nascondere agli amministrati la natura comunitaria di
una norma giuridica, mentre la consapevolezza dell’origine di un diritto dall'ordinamento
dell'Unione può offrire agli interessati la possibilità di invocare il regolamento per opporsi
all'applicazione di una legge interna difforme. Inoltre, l'intervento anche riproduttivo del testo
di un regolamento in un atto normativo interno potrebbe sminuire la competenza della Corte
a pronunciarsi su qualsiasi questione relativa alla sua interpretazione.
La Corte considera illegittimo ogni intervento di attuazione da parte degli Stati che abbia
come conseguenza di ostacolare l'efficacia diretta dei regolamenti comunitari e di
comprometterne quindi la simultanea applicazione dell'intera Comunità.
Non sempre i regolamenti risultano autosufficienti, ossia completi nella loro disciplina:
pertanto, al fine di rendere possibile la loro concreta esecuzione, essi richiedono talora un
successivo intervento che, quando non affidato alle stesse istituzioni, deve far carico alle
autorità nazionali; oppure è per esigenze connesse alla particolare situazione strutturale e
normativa di certi ordinamenti statali che può prospettarsi la necessità di ricorrere a
provvedimenti interni di integrazione o di organizzazione al fine di conformare l'ordinamento
statale a un dato regolamento per renderne possibile l'applicazione. La Corte di giustizia ha
precisato che il divieto di atti statali di recepimento viene a cadere quando il regolamento
considerato lasci agli Stati membri il compito di adottare essi stessi i provvedimenti legislativi,
regolamentari, amministrativi e finanziari necessari affinché le disposizioni del regolamento
stesso possono essere effettivamente applicate, incombendo ai giudici nazionali di controllare
la conformità delle disposizioni interne al contenuto dell'atto comunitario; le misure nazionali
di attuazione dei regolamenti sono ammissibili per colmare loro eventuali lacune, ma solo
nella misura indispensabile alla loro corretta esecuzione e purché non ne modifichino la
portata e la sostanza o ancora per superare difficoltà di interpretazione, ma soltanto nel
rispetto delle norme comunitarie senza poter dettare norme di interpretazione aventi
carattere obbligatorio. Qualora il regolamento richiede l'adozione di misure di attuazione, si
ritiene che i privati non possono far valere diritti sulla base delle sole prestazioni del
regolamento.
Si è soliti distinguere i regolamenti di base, adottati dal legislatore dell’Unione, dai
regolamenti di esecuzione emanati per l'attuazione dei primi, di solito adottati dalla
Commissione previo conferimento dei poteri necessari da parte dell'atto normativo di base
qualora ciò sia necessario per assicurare condizioni uniformi di esecuzione. I regolamenti di
esecuzione devono risultare conformi al regolamento di base, pena la loro invalidità.
Vanno segnalati anche i regolamenti interni, adottati allo scopo di apprestare la disciplina
dell’organizzazione e del funzionamento degli organi dell’Unione. La loro disciplina è sottratta
alla modifica da parte di ogni altra fonte, in nome dell’autonomia costituzionale di cui è
portatore l’organo competente alla loro adozione ovvero della tipicità della fonte che pone la
disciplina medesima.
I regolamenti sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’UE, nella sezione dedicata alla
legislazione, ed entrano in vigore alla data da essi stabilita ovvero a partire dal 20° giorno
successivo alla loro pubblicazione. L'entrata in vigore può essere ritardata oltre tale data per
consentire agli interessati di conformarvisi gradualmente. L'entrata in vigore immediata è
ammessa solo per motivi di urgenza inerenti alla natura della misura presa, in particolare per
evitare un vuoto giuridico o per prevenire speculazioni.
L'efficacia retroattiva dei regolamenti è esclusa, salvo che lo richieda il fine perseguito o
purché sia rispettato il legittimo affidamento degli interessati. È esclusa la possibilità che gli
Stati modifichino la portata dell'atto mediante riserve o obiezioni unilaterali apposte ai verbali
delle riunioni del Consiglio le quali sarebbero comunque prive di effetti.

6. Le direttive.
Le direttive presentano la caratteristica di vincolare gli Stati membri cui sono dirette per
quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciandoli tuttavia liberi quanto alla scelta della
forma e dei mezzi necessari per conseguirlo. Esse inoltre non hanno portata generale, avendo
come destinatari solo Stati membri e non sono direttamente applicabili in quanto richiedono
un intervento di attuazione da parte del legislatore nazionale.
Le direttive si presentano come uno strumento di legislazione indiretta o a due stadi,
mediante cui non si vogliono porre regole uniformi, in considerazione anche della difficoltà di
conciliare le notevoli diversità esistenti negli ordinamenti giuridici nazionali, ma si preferisce
attivare una collaborazione tra il livello dell'Unione e quello nazionale, lasciando così liberi gli
Stati di determinare essi stessi le modifiche da apportare alla propria normativa interna per
renderla uniforme al risultato perseguito dalla direttiva. Le direttive devono essere motivate e
far riferimento alle proposte e ai pareri obbligatori previsti dai Trattati. Trattandosi di atti
legislativi esse entrano in vigore, producendo obblighi a carico dei destinatari, a partire dalla
data stabilita oppure il 20° giorno successivo alla loro pubblicazione sulla GUUE. Anche gli atti
non legislativi adottati sotto forma di direttive sono pubblicati sulla GUUE con la precisazione
relativa alla loro natura.
Rivolgendosi le direttive solo agli Stati membri, non hanno carattere direttamente applicabile:
esse devono necessariamente formare oggetto di provvedimenti nazionali di recepimento nel
termine indicato dalla direttiva stessa. Soltanto in casi particolari, le direttive sono suscettibili
di produrre effetti giuridici diretti all'interno degli Stati membri (c.d. direttive self-executing).
Ciò si verifica in 3 casi:
1) Quando la direttiva esprime vincoli negativi, chiamando gli Stati ad un mero non facere;
2) Quando essa si limita a ribadire l’obbligo di tenere un certo comportamento;
3) Quando essa presenta carattere dettagliato e minuto, rivestendo con le sue forme una
disciplina sostanzialmente regolamentare.
In aggiunta a tali casi, è poi da tenere presente l’obbligo gravante sugli operatori di diritto
interno di interpretare le leggi e la normativa nazionale in senso conforme alla direttiva.
L’efficacia diretta delle direttive si esprime unicamente nella sua forma verticale,
riconoscendosi a singole persone fisiche o giuridiche la facoltà di far valere la responsabilità
dello Stato inadempiente rispetto agli obblighi discendenti dalle direttive stesse, non pure
nella forma orizzontale, che si avrebbe qualora in capo a tali atti si riconoscesse l’attitudine a
produrre effetti anche nei rapporti inter privatos.
Gli Stati membri devono scegliere le forme e i mezzi più idonei per il conseguimento migliore
e totale del risultato prescritto e garantire piena efficacia alle direttive conformemente allo
scopo che esse perseguono.
Essi, nel rispetto dell'obbligo di leale collaborazione e della forza vincolante delle direttive,
hanno il dovere di astenersi dall'adottare, nel periodo intercorrente dall'entrata in vigore della
direttiva nei loro confronti e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che
possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto, altrimenti esponendosi al
rischio da un lato di un ricorso per infrazione, dall'altro dell'invocazione diretta delle
disposizioni della direttiva dinanzi giudici nazionali da parte di chi abbia interesse, al fine di
opporsi all'applicazione delle misure nazionali in questione.
L’obbligo di conformazione dello Stato alla direttiva sorge fin dal momento dell’entrata in
vigore della stessa. Solo una situazione di assoluta conformità al diritto nazionale alle
prescrizioni della direttiva dispensano lo Stato dall’adozione di misure di attuazione. Nei casi
in cui l’obiettivo della direttiva sia quello di attribuire dei diritti ai privati, la possibilità di
prescindere da un apposito provvedimento di attuazione va verificato in termini ancora più
rigorosi. Il mantenimento in vigore della normativa nazionale incompatibile con il diritto
dell'Unione, anche se lo Stato membro agisca in conformità a questo, determina una
situazione di fatto ambigua mantenendo per gli interessati lo stato di incertezza che deve
essere rimosso con provvedimenti adeguati. Uno Stato non può portare a giustificazione del
mancato o ritardato adeguamento la particolare situazione costituzionale, normativa o
amministrativa del proprio ordinamento o l'autonomia dei propri enti territoriali, mentre
questi possono provvedere nell'ambito delle competenze attribuite.
Gli Stati sono tenuti a fornire all'Unione l'indicazione delle misure prese per applicare la
direttiva: l'assenza di tale comunicazione costituisce inosservanza della stessa e un'infrazione
del diritto dell'Unione, anche sotto l'aspetto dell'obbligo di leale cooperazione. Nel caso di
non osservanza di tale obbligo di comunicazione, la Commissione può ricorrere alla Corte di
giustizia la quale potrà immediatamente adottare una sanzione pecuniaria da comminare allo
Stato inadempiente. In mancanza di misure di attuazione da parte degli Stati, ai privati non
potrebbe essere imposto alcun onere di conoscenza dei doveri e dei diritti eventualmente
loro attribuiti da una direttiva, non essendosi posti in essere gli adempimenti indispensabili
(pubblicità costitutiva) per pretendere tale conoscenza: ciò, ad esempio, ai fini della
decorrenza dei termini di prescrizione o di decadenza per l’esercizio di un diritto o di
un’azione qualora le disposizioni di una direttiva siano direttamente invocate dinanzi ai giudici
nazionali.

7. L'attuazione interna delle direttive e, in genere, delle norme di diritto europeo non
immediatamente applicabili.
Davanti alle direttive ed alle norme dell'Unione che necessitavano di essere attuate in ambito
interno al fine di poter essere portate ad applicazione, gli Stati si sono posti in modo diverso.
Occorre fare riferimento soprattutto alla L. n 86 del 1989 (c.d. Legge La Pergola) con la quale
è stato inventato un nuovo tipo di legge, la c.d. legge comunitaria, che non era una fonte di
diritto sovranazionale, ma una legge ordinaria dello Stato, adottata ogni anno al fine di dare
compiuta attuazione alle direttive nel frattempo adottate nelle varie materie. Il suo posto è
stato preso dalla legge europea e dalla legge di delegazione europea introdotte dalla L. n. 234
del 2012.
Alla legge di delegazione europea si accompagna una relazione illustrativa, aggiornata al 31
dicembre dell’anno precedente, in cui il Governo enuncia le motivazioni in forza delle quali ad
alcune direttive si dà attuazione, diversamente da altre che vi sono escluse; dà inoltre conto
dello stato di conformità dell’ordinamento interno al diritto eurounitario e dello stato delle
eventuali procedure d’infrazione; fornisce l’indicazione delle direttive già recepite con
regolamento, nonché dei provvedimenti con i quali si è data attuazione da parte delle Regioni.
Alla prima legge di delega può farne seguito una seconda, priva di relazione illustrativa, il cui
disegno può essere presentato dal Governo alle Camere entro il 31 luglio di ogni anno, per il
caso che si renda indispensabile far luogo all’ulteriore adempimento degli obblighi
conseguenti all’appartenenza all’Unione.
La delega può rivolgersi tanto all’obiettivo dell’attuazione alle direttive e alle decisioni-
quadro, quanto a quello di far luogo alle modifiche o abrogazioni di disposizioni nazionali rese
necessarie allo scopo di ripristinare la necessaria armonia tra l’ordinamento interno e quello
eurounitario. Deve inoltre essere segnalato il principio e criterio direttivo del c.d. Gold
plating, secondo cui il legislatore delegato non può fissare livelli di disciplina più restrittivi di
quelli richiesti dalle direttive. Infine, il Governo può essere delegato a porre norme
sanzionatorie nei riguardi delle violazioni da parte di atti interni a carico di atti dell’Unione.
La legge europea contiene disposizioni abrogative o modificative di disposizioni incompatibili
con il diritto comunitari o che hanno costituito oggetto di procedure d’infrazione avviate dalla
Commissione a carico del nostro Stato o, ancora, di pronunzie della Corte di giustizia.

Prima della nascita della L. La Pergola, l’attuazione delle direttive e delle norme in genere
dell’Unione comunque bisognose di svolgimento interno ha avuto luogo principalmente a
mezzo di decreti legislativi. Anche con la L. n 234 del 2012 si è tornati all’antico regime, pur
accompagnandosi alla legge europea la legge di delegazione europea, la quale, al pari delle
deleghe del passato, appare esibire non lievi carenze, in fatto di principi e criteri direttivi, il più
delle volte indicati solo per relationem, con rinvio cioè fatto dalla legge di delega alle norme di
scopo contenute nelle stesse direttive. Un modo di fare questo ritenuto incostituzionale per
palese violazione dell’art 76 Cost, che annovera tra i contenuti c.d. necessari delle deleghe
appunto quello sopra indicato.

8. Hard law e soft law: il senso di una distinzione.
Regolamenti e direttive non sono i soli atti derivati produttivi di norme in ambito comunitario,
in quanto esiste anche il cosiddetto sistema del soft law, così chiamato proprio per
distinguerlo dal sistema finora descritto, che costituirebbe, dunque, il c.d. hard law.
Con il Trattato di Maastricht si è andata manifestando una certa verso strumenti di soft
regulation, cioè regolamentazioni concordate e ampiamente condivise dai settori interessati e
dai soggetti coinvolti, soprattutto laddove risulti difficile raggiungere un accordo fra gli Stati
membri oppure in materie sulle quali non v’è una competenza comunitaria piena, tal che gli
strumenti in questione pervengono a costituire l’unica forma di disciplina possibile. Si è
palesata dunque l’esigenza di adottare strumenti normativi di maggiore flessibilità e più
adattabili alla continua evoluzione di certi ambienti materiali o di rendere possibile il
recepimento di migliori pratiche varate dagli organismi internazionali.
“Per soft law, si intende, un qualcosa che non è propriamente diritto, è un quasi diritto, un
diritto più tenue perché non è contenuto in fonti giuridicamente vincolanti, eppure si impone
per una qualche ragione. È come dire, una giuridicità di serie b, di tono minore (Definizione di
Agosta).
Il termine soft law è abbastanza imprecisato, comprendendo, secondo alcuni, tutti i sistemi di
regolazione diversi dalle fonti tipizzate dal 288 TFUE (che include raccomandazioni e pareri) o
comunque previste dai Trattati, mentre, per altri, la nozione andrebbe riferita solo agli atti
non vincolanti (raccomandazioni, pareri, risoluzioni, dichiarazioni etc).
Comunque sia, esso finisce per accogliere una varietà di fenomeni accomunati dal fatto di
rappresentare risposte a pressanti esigenze di regolamentazione. Il Parlamento europeo ha
evidenziato, a tale riguardo, che la tendenza della Commissione a presentare, in seguito al
fallimento delle sue iniziative più ambiziose, direttive quadro e codici di condotta avrebbe
provocato il rischio di creare in tal modo un diritto dal carattere incerto, meno vincolante (soft
law) e meno sicuro, che si sarebbe tradotto in una armonizzazione fittizia e in una
trasposizione aleatoria negli ordinamenti giuridici nazionali.
Non è una posizione isolata: numerosi gruppi di interesse (es, le organizzazioni dei
consumatori) sono scettici sulla capacità regolativa di tali strumenti (sino a definirla cosmetic
law).
Possiamo poi distinguere tra i casi in cui il soft law si aggiunge, integrando i sistemi di
regolazione tradizionale (c.d. co-regulation) e quelli in cui si sovrappone agli stessi,
soggiacendo alla loro forza giuridica.
Alcune delle tipologie eurounitarie di soft law si rinvengono anche nei Paesi membri (codici di
condotta), mentre altre presentano più somiglianze con gli strumenti negoziati (c.d. droit
negotiè) di matrice internazionalistica: così, per esempio di accordi interistituzionali, di cui è
stata segnalata l’importanza in quanto idonei sia a certificare un assetto tra le istituzioni
eurounitarie, sia ad avviare future revisioni degli stessi Trattati.
Va detto, infine, che per alcuni, persino una fonte importante come la Carta di Nizza, prima
della sua presa di vigore col Trattato di Lisbona, andava fatta rientrare nell'ambito del soft
law.

9. Il nuovo quadro delle competenze prefigurato da Lisbona, con particolare riguardo a
quelle esclusive dell'Unione e a quelle concorrenti con gli Stati.
Numerose sono le novità presentate dal Trattato di Lisbona in tema di fonti. Se per un verso
si conferma il principio di attribuzione quale fondamento del riparto delle competenze tra
Unione e Stati, l'esercizio delle stesse è demandato ai principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, dalla cui attivazione in concreto dipende la messa a punto dei poteri
dell'Unione e l'equilibrio tra gli stessi ed i poteri degli Stati. Si aggiunga poi la clausola di
flessibilità per i soli ambiti di competenza dell’Unione e con il limite del divieto di
armonizzazione delle legislazioni nazionali nei settori non contemplati dai Trattati e del
conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune.
Gli interventi normativi dell’Unione devono circoscriversi allo stretto indispensabile,
rimettendosi quindi la disciplina normativa, anche di settori rientranti nella competenza
dell’Unione, all’opera degli Stati o, quanto meno, alla loro cooperazione.
Persino laddove si tratti di competenza esclusiva dell’Unione, quest’ultima può autorizzare gli
Stati a dare, del tutto o in parte, la regolazione dei relativi settori.
La competenza concorrente o ripartita tra Unione e Stati secondo un'opinione diffusa
sarebbe stata forgiata ad imitazione di quella propria dell'ordinamento tedesco, in
considerazione del fatto che la disciplina statale ha modo di spiegarsi unicamente alla
condizione che l'Unione si trattenga dal legiferare e comunque negli spazi non coperti dalla
disciplina europea.
La differenza rispetto al modello di concorrenza all’italiana sarebbe netta, dal momento che
secondo tale modello si darebbe comunque una riserva di competenza a favore delle Regioni,
essendo allo Stato consentito unicamente di stabilire i principi fondamentali della materia o,
comunque di limitare la potestà legislativa regionale unicamente a mezzo dei principi stessi.
Gli interventi dell’Unione dovrebbero dunque contenersi fin dove possibile per dar spazio alla
produzione giuridica formatasi in ambito interno. Se ne ha che nei settori di potestà
concorrente l’Unione dovrebbe tendenzialmente legiferare poco e con disposizioni comunque
idonee a favorire l’espansione nei settori medesimi delle discipline nazionali.
E’ però da tenere in conto che il modello stesso possa trovarsi soggetto a forti torsioni in sede
applicativa (conversione nel modello all’italiana): gli interventi minuti da parte dell’apparato
centrale a discapito degli apparati periferici hanno spesso costituito la norma e non
l’eccezione.
Va poi osservato che la potestà concorrente dovrebbe porsi come la regola, quella esclusiva
dell'Unione come l'eccezione, tant'è che, mentre di quest'ultima si individuano gli ambiti di
intervento, della prima si afferma il carattere residuale, estendendosi solo in determinati
settori, nei quali l'Unione ha competenza a svolgere azione di sostegno, di coordinamento e di
completamento. I principali settori sui quali ha modo di esprimersi la potestà concorrente
sono dati da: mercato interno, politica sociale, agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei
consumatori, trasporti, energia, spazio di libertà sicurezza e giustizia.
Va infine notato che, al pari di ciò che si ha in ambito interno in merito al riparto di materie e
competenze tra Stato ed enti territoriali minori, alcune di quelle indicate sono delle materie-
non materie, espressive di competenze trasversali, idonee cioè ad attraversare innumerevoli
ambiti materiali (es, tutela della salute, protezione dei consumatori, ambiente ecc).

10. Tipi di fonti e fluidità delle loro relazioni.
Le relazioni tra le fonti sono connotate da una forte fluidità, come si può evincere dal TFUE, i
cui punti fondamentali sono:

• La cancellazione delle leggi e leggi quadro originariamente previste dal Trattato
costituzionale;
• La conservazione degli atti legislativi (regolamenti, direttive o decisioni),
denominazione usata per gli atti emessi dal Parlamento e dal Consiglio mediante
procedura legislativa (odinaria o speciale), distinti dagli atti non legislativi, posti in
essere dalla Commissione;
• La considerevole espansione dei regolamenti. Il potere regolamentare è reso ancora
più largo rispetto al passato. In particolare si prefigura un largo ricorso alla delega da
parte degli atti legislativi a favore di atti non legislativi di portata generale della
Commissione, il cui ruolo viene ulteriormente sottolineato. La delega è sottoposta a
non poche condizioni, sia sostanziali che procedimentali, riguardanti il suo esercizio. In
primo luogo, si precisa che gli atti delegati vedono circoscritto il loro raggio di azione
alla mera integrazione o anche alla deroga di disposizioni legislative preesistenti,
sempre che riferita ad elementi non essenziali degli atti legislativi. Si discute circa la
natura e la forza degli atti delegati, se cioè dotati di forza primaria (o subprimaria in
quanto comunque inidonei ad incidere sugli elementi essenziali degli atti legislativi)
ovvero forza di legge secondaria: insomma, se accostabili ai decreti legislativi di diritto
interno ovvero ai regolamenti di delegificazione.
La delega è richiesta unicamente in vista della integrazione o della deroga nei riguardi
degli atti legislativi, non pure per la loro esecuzione o attuazione. Anche l'esecuzione
richiede un esplicito conferimento di poteri alla Commissione in applicazione del
principio di legalità in senso sostanziale, laddove è altresì disposto che Parlamento
europeo e Consiglio europeo fissino regole e principi generali idonei a porsi a
parametro del controllo che gli Stati membri potranno esercitare nei riguardi della
Commissione.
Gli atti di delega presentano un contenuto necessario, costituito dagli obiettivi, il
contenuto, la portata e la durata della delega, cui poi si aggiungono le condizioni alle
quali la delega stessa è soggetta, che possono essere date dalla revoca della stessa
nonché dalla facoltà comunque riconosciuta al Parlamento e al Consiglio di muovere
“obiezioni” all'atto delegato. E’ comunque implicito che Parlamento e Consiglio
possono in ogni tempo riappropriarsi della disciplina della materia, rilegificando ciò che
dapprima è stato delegificato.
Le leggi deleganti possono essere impugnate davanti alla Corte di giustizia, in sede di
ricorso in carenza, laddove prive dei contenuti di cui devono invece essere dotate; per
altro verso gli atti delegati possono soggiacere ad annullamento tanto per il caso che
diano seguito a contenuti della delega non rispettosi dei parametri superiori, quanto
per quello in cui non osservino i contenuti stessi e si mostrino compatibili con i
parametri stessi. Nell’ultima ipotesi, gli atti di delega fungono dunque da fonti
interposte in eventuali giudizi di validità instaurati davanti alla Corte di giustizia.
Contenuto c.d. eventuale è l’obbligo fatto al legislatore delegato di sottoporre lo
scherma di decreto legislativo al parere parlamentare prima della sua finale adozione.
Per quanto, poi, gli atti delegati si trovino sottoposti al rispetto delle fonti in cui
rinvengono il titolo della loro esistenza è ugualmente da mettere in conto una forte
espansione della normazione delegata, praticamente per ogni campo materiale di
competenza dell'Unione, conformemente alla centralità del ruolo detenuto dalla
Commissione in seno alla forma di Governo.
Allo stesso tempo in cui potrà assistersi ad un largo utilizzo del potere delegato in
ambito europeo, potrà altresì aversi una parimenti significativa cooperazione degli Stati
membri con l’Unione nella regolazione delle materie rientranti nella competenza di
quest’ultima.

11. Segue: dall'inquadramento sistematico per atti a quello per processi produttivi dagli
stessi composti e dalla logica della separazione a quella della integrazione, siccome la più
idonea ad una fedele rappresentazione delle relazioni sia tra le fonti europee inter se che di
queste ultime con le fonti nazionali.
Quel che va ricordato è lo sforzo comune che Unione e Stati sono sollecitati a produrre al fine
del conseguimento di obiettivi che sempre più di rado possono dirsi come esclusivamente
propri di questo o quell’ente e che, di contro, sempre più di frequente sono in realtà comuni a
tutti, pur nella tipicità dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno.
Se ne ha che la logica usuale che vuole rigidamente separate le sfere di competenza, risulta
largamente inadeguata rispetto alla complessità di esperienze di normazione che si
presentano fortemente intrecciate al loro interno, connotate da fluidità di relazioni ed
attraversate da un crescente dinamismo. Si impone dunque di abbandonare la logica della
separazione delle competenze (e delle fonti), incapace a dare una fedele rappresentazione
delle esperienze, ed accogliere invece la logica dell’integrazione, la sola che possa andare oltre
i confini delle forme e possa prendere in considerazione la funzione assolta dai singoli atti, in
relazione allo scopo che dà la giustificazione, il moto, l’orientamento dei singoli processi
produttivi.
Tendenza questa che non è tipica del solo ordinamento comunitario, bensì comune alle stesse
esperienze del diritto interno, proprio perché è diffuso l’intreccio tra interessi che solo di rado
sono di una sola natura, rientrando nella sfera di competenze di un solo ente, e che piuttosto
sollecitano lo sforzo congiunto di più enti al fine del loro ottimale appagamento.
E’ dunque la ragionevolezza verso la quale convergono e nella quale si convertono ed
esauriscono la sussidiarietà e la proporzionalità a identificare le vicende di normazione
comunitaria bisognose di essere riguardate nel loro complesso; una ragionevolezza che è
conformità rispetto ai valori e congruità rispetto allo scopo, adeguatezza ai fatti e rispondenza
ai parametri superiori che stanno a fondamento dell'Unione e degli ordinamenti degli Stati
membri.

SEZIONE II: RAPPORTI TRA FONTI EUROPEE E FONTI NAZIONALI.

12. Il “posto” detenuto nell'ordine interno dalle fonti dell'Unione: notazioni preliminari a
riguardo dello scadimento crescente delle forme quali fattori di composizione degli atti di
sistema.
Occorre adesso capire che effetti producono gli atti normativi dell’Unione in senso agli
ordinamenti nazionali. Al riguardo, devono essere fatte alcune precisazioni.
La prima è che il riferimento alle forme giova assai poco, dal momento che nessuna differenza
esiste per ciò che riguarda l'obbligo del rispetto degli impegni comunitari, generalmente
gravante su cittadini ed operatori di diritto interno, in relazione al tipo di atto o di norma,
quale che sia la fonte che la produce: dai trattati ai regolamenti, alle direttive, il vincolo
d'osservanza c'è comunque. L’intensità del vincolo è variabile a seconda delle struttura e
dell’estensione della disciplina contenuta nei singoli atti, idonea a far espandere o contrarre
gli ambiti rimessi alla disciplina del diritto interno.
La seconda è che ha poco rilievo la circostanza per cui l'attuazione agli atti dell'Unione sia data
con questa o quella fonte di diritto interno (legge o regolamento). Il suo “posto” nel sistema
non dipende da connotati formali, ma esclusivamente dall'effettiva attitudine esibita da
ciascun atto (rectius, norma) a servire in modo adeguato gli atti dell'Unione.
Detto questo, la “copertura costituzionale”, di cui godono le norme dell'Unione, si trasmette
alle norme che vi danno la prima, diretta e necessaria attuazione, sì da rendere queste ultime
immodificabili da parte di atti che, così facendo, vengano meno all'obbligo di osservanza del
diritto dell'Unione. Le modifiche sono possibili alla sola condizione che risultino ancora più
adeguate all'attuazione delle norme dell'Unione e, per ciò stesso, a prestare un servizio
ancora più apprezzabile ai fini-valori in nome dei quali tali norme vengono a formazione.
Risulta dunque palese che man mano che il processo d’integrazione si porta avanti e che
dunque la normativa europea si espande, sempre meno rilievo ha la forma quale fattore di
composizione degli atti in sistema.

13. Le antinomie tra fonti di diritto europeo e fonti di diritto interno, dal punto di vista della
giurisprudenza sia comunitaria che nazionale (con particolare riguardo al “cammino
comunitario” della Corte costituzionale italiana).
Si tratta di vedere dunque a quali condizioni ed entro quali limiti il diritto sovranazionale si è
imposto su quello nazionale. Per rispondere alla domanda dobbiamo ripercorrerne la storia,
che prende le mosse all'atto della nascita delle tre Comunità, i cui Trattati, in Italia, sono stati
resi esecutivi con leggi ordinarie: in caso di contrasto quindi della norma interna con quella
comunitaria si applicava il principio della successione delle leggi nel tempo, principio in grado
di risolvere l'eventuale conflitto quando la norma interna confliggente fosse anteriore a quella
comunitaria. Il problema diventava delicato nell’ipotesi opposta, quando la norma interna
confliggente era successiva alla norma comunitaria, poiché quest’ultima era destinata a
soccombere.
Un apporto decisivo è al riguardo venuto, sia pure a seguito di un travagliato cammino, dalla
giurisprudenza costituzionale che ha eretto un formidabile scudo protettivo a presidio del
diritto dell’Unione

13.1 La sentenza n. 14 del 1964 e la “logica” della parità giuridica tra le fonti dei due
ordinamenti da essa fatta propria.
In un primo momento (sent. 14/1964), la Corte costituzionale aveva impostato su basi
paritarie le relazioni tra gli ordinamenti, ragionando nel senso che, per un verso, in virtù della
legge di esecuzione del trattato, i regolamenti e le norme self-executing in genere della
Comunità sono idonee a produrre effetti immediati nell'ordine interno, senza che occorra
alcun atto di esecuzione, prevalendo dunque nei confronti delle precedenti leggi e norme
interne con essi incompatibili. Per un altro verso poi le norme comunitarie possono essere a
loro volta modificate da posteriori norme legislative interne che per ciò stesso dispongano,
dunque, in deroga della legge di esecuzione del Trattato. In poche parole le norme
comunitarie e quelle legislative interne possono liberamente succedersi le une alle altre nel
tempo, in ragione della identica forza posseduta dalla legge di esecuzione, per il cui tramite il
diritto comunitario ha modo di immettersi nell'ordine interno e di spiegarvi effetti, e dalle
leggi comuni sopravvenienti e incompatibili con il diritto comunitario.
Tale soluzione fu ritenuta inaccettabile dalla Corte di giustizia, che pronunziandosi sulla
questione (s. Costa-Enel, 1964) sottolineò il primato del diritto comunitario sul diritto
interno, la cui negazione avrebbe “scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità”. Essa
dunque avanzò una concezione monista ed unitaria dei rapporti tra diritto comunitario e
ordinamenti nazionali secondo cui il primo si integra nei secondi e prevale in virtù di una forza
propria e non in conseguenza dei meccanismi di adattamento propri di ciascun ordinamento
statale.
Ebbe in questo modo inizio un conflitto tra le due Corti destinato a durare nel tempo. Anche
se oggi le cose sono profondamente cambiate rimangono irrisolti taluni nodi cruciali
riguardanti le relazioni tra le Corti stesse.

13.2 La svolta operata con la sentenza n. 183 del 1973 con il riconoscimento, in essa fatto,
sia della “copertura” costituzionale di cui gode il diritto comunitario in rapporto al diritto
interno e sia dalla esistenza di “controlimiti” opponibili al principio del primato del diritto
sovranazionale sul diritto nazionale.
A quasi 10 anni dalla sentenza del 1964, la Corte italiana fa un cambio di rotta confermando
da un lato l'attitudine delle norme comunitarie a derogare alle norme interne con esse
incompatibili e, dall'altro affermandone la resistenza rispetto a norme successive in ragione
della “copertura” riconoscibile al diritto comunitario dall'articolo 11 Cost. (sent. 183/1973).
In tale decisione la Corte non ha, però, sposato appieno la tesi della Corte di giustizia non solo
per il fatto che non è stato accolto il punto di vista di quest'ultima volto a dare modo ai giudici
ed agli operatori in genere di diritto interno di disapplicare le norme nazionali contrarie al
diritto comunitario e di applicare, in loro vece ed in ogni caso quest'ultimo, quanto perché il
primato del diritto sovranazionale è stato pur sempre agganciato ad un principio
costituzionale e non già riconosciuto come proiezione o effetto della forza propria
posseduta dal diritto stesso.
Con la suddetta sentenza, la soluzione dell'applicabilità diretta è stata ammessa con riguardo
all'ipotesi di norme comunitarie sopravvenienti, mentre non è stata considerata praticabile
per il caso inverso. Laddove, quindi, una legge nazionale avesse disposto in contrasto con
norme comunitarie anteriori, si sarebbe dovuta sollevare una questione di legittimità
costituzionale davanti alla Corte per violazione indiretta dell'articolo 11 Cost.
A limitare l'espansione del diritto sovranazionale soccorre poi il carattere inderogabile dei
principi fondamentali dell'Ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona
umana che in nessun caso e modo possono essere intaccati dalle norme comunitarie, alle
quali non potrà essere dato ingresso nel nostro ordinamento laddove con essi incompatibili
(c.d. teoria dei controlimiti).
Due punti vanno subito fissati criticamente:
1) Il primo è che la Corte stessa ha convertito una norma di valore, qual è quella prevista
dall'art. 11 Cost, in una norma sulla produzione giuridica, come se essa cioè disponga a
riguardo della funzione posseduta dalle norme comunitarie al momento del loro
ingresso nell'ordine interno e del modo, o dei modi, con cui le norme stesse producono
effetti in quest'ultimo. Oltretutto, è assai singolare che la Corte abbia riconosciuto
come provvisti di copertura costituzionale i soli trattati istitutivi delle Comunità (e le
loro modifiche), escludendo che anche altri possano ad ugual titolo servire la pace e la
giustizia tra le Nazioni;
2) Il secondo riguarda la forza paracostituzionale posseduta dalle norme euronitarie per il
rilievo giuridico ad esse complessivamente assegnato in ambito interno. Col fatto
stesso di riconoscere, quale unico controlimite all'efficacia delle norme stesse,
l'osservanza dei principi fondamentali, la Corte ha infatti assimilato, quanto alla
forza attiva, le norme dell'Unione alle norme contenute nelle leggi di revisione
costituzionale, così implicitamente ammettendo che esse possano derogare alle stesse
norme costituzionali. In tal modo una legge ordinaria dello Stato (quella di esecuzione
del Trattato) si è venuta a trovare dotata della medesima forza delle leggi costituzionali
con un singolare appiattimento dei gradi della scala gerarchica, nonché degli atti che in
essi hanno posto.
Se poi dovesse ritenersi che neppure con legge costituzionale sarebbe possibile
derogare alle norme comunitarie, ecco che le norme stesse verrebbero a trovarsi in
una sorta di grado intermedio tra quello in cui stanno i principi fondamentali e l'altro
proprio delle comuni norme costituzionali: verrebbero cioè a disporre di forza attiva
paracostituzionale, ma di forza passiva addirittura supercostituzionale, eguale a quella
propria della norma di copertura.

La tesi patrocinata da molti autori, secondo cui le fonti dell'Unione, al momento del loro
impatto con l'ordine interno, verrebbero ad assumere la qualità di fonti atipiche dotate della
medesima forza attiva e di maggiore forza passiva di quella di cui sono provviste le leggi
ordinarie non sembra conforme all'indirizzo al riguardo espresso dalla giurisprudenza la quale
seguitava a presentarsi non allineata a quella di Lussemburgo tant’è che ferma è stata la
risposta della Corte di giustizia (sentenza Simmenthal del 1978) a motivo del fatto che alle
norme dell'Unione si riconosceva dal giudice italiano delle leggi, la applicabilità diretta
unicamente nel caso che esse venissero alla luce in un tempo posteriore a quelle nazionali
mentre nel caso inverso richiedevano l'adozione di una pronuncia della Corte costituzionale
che sancisse il primato del diritto sovranazionale sul diritto interno. In tal modo la concreta
applicazione dell'uno veniva ad essere per un tempo differita e per un altro sottoposta all'alea
di un giudizio della Corte comunque eventuale, in ogni caso non dotato di effetti interamente
retroattivi.
Il conflitto, dunque, rimaneva evidente e sembrava addirittura insanabile.
Il punto di maggiore frizione della concezione complessiva dei rapporti tra gli ordinamenti
stava nel fatto che, mentre la giurisprudenza comunitaria (la Corte di giustizia) si fa paladina di
una primauté senza eccezioni del diritto dell'Unione, la stessa non è fino in fondo ammessa da
alcuni Tribunali Costituzionali, fra i quali il nostro, quello tedesco, spagnolo e polacco, decisi
assertori dell'idea secondo cui si danno dei controlimiti, ora di maggiore ora di minore
consistenza, all'ingresso della normativa sovranazionale in ambito interno.

13.3 La corte completa la “svolta del '73”: la storica sentenza n. 170 del 1984.
A completare la svolta iniziata con la sent. n° 183 del 1973, giunge poi la sent.n°170 del 1984.
La Corte ribadisce la premessa secondo cui i due sistemi si configurano come autonomi e
distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenze stabilite e garantite dal
Trattato e ovviamente conferma sia il fondamento del primato del diritto sovranazionale sia la
esistenza di controlimiti all'efficacia del diritto stesso, suscettibili di essere fatti valere non er il
tramite di un giudizio di costituzionalità sulle fonti dell’Unione, bensì attraverso il sindacato
sulla legge di esecuzione del trattato, che immette una volta per tutte nell’ordinamento il
meccanismo preposto alla produzione ed all’efficacia delle fonti sovranazionali.
La Corte riconosce che la separazione esistente tra gli ordinamenti stessi impedisce, per un
verso, che si possa discorrere di un’abrogazione delle leggi nazionali da parte delle fonti
comunitarie sopravvenienti, come invece la stessa Corte aveva precedentemente sostenuto e,
per un altro verso, che le antinomie generate dall’adozione di leggi nazionali incompatibili con
anteriori norme comunitarie siano risolvibili ricorrendo allo schema dell’invalidità (e dunque a
mezzo di un giudizio di costituzionalità per violazione indiretta dell’art 11 Cost). Una volta che
l’Unione europea faccia concretamente uso delle competenze assegnatale dal trattato, le
norme così prodotte costituiranno l’unico diritto rilevante per la definizione delle controversie
davanti ai giudizi nazionali, come tale bisognoso di essere portato ad immediata applicazione
da parte di questi ultimi, senza che occorra l’intervento riparatore della Corte costituzionale.
In seguito, la Corte ha poi esteso il punto di diritto affermato con la decisione in parola,
originariamente circoscritto ai soli regolamenti, alle stesse pronunzie interpretative della
Corte di giustizia, assimilate quanto agli effetti alle fonti del diritto suscettibili di immediata
applicazione, nonché alle norme del trattato aventi efficacia diretta ed alle direttive che
ugualmente presentano l’attitudine ad essere portate ad immediata applicazione.
Per il caso in cui una norma interna superasse il riparto delle competenze fissato dal Trattato,
la Corte stabilì l'impossibilità di utilizzare lo schema della invalidità tanto da spingersi ad
affermare che più di una disapplicazione del diritto interno contrario al diritto comunitario
si debba ragionare nel senso della non applicazione dell'uno laddove incompatibile con l'altro.
Rimane il fatto che il riparto di materie e competenze fatto nel Trattato rileva nell'ordine
interno unicamente tramite l'art 11, cioè la norma costituzionale che converte
permanentemente il diritto sovranazionale in diritto interno, attivando l'obbligo della sua
applicazione nascente nel suo ordinamento di origine. E la violazione di una norma
costituzionale da parte di una legge ordinaria non può che farsi valere per il tramite del
giudizio della Corte costituzionale. Rimettendo invece la questione nelle mani dei giudici
comuni, la Corte ha spianato la via all'affermazione di un sindacato diffuso di costituzionalità,
ogni giudice essendo chiamato, prima di applicare questa o quella norma di diritto, a
verificare se vi sia il sospetto di violazione (indiretta) dell'art. 11 Cost.

13.4 Il graduale recupero della competenza della Corte a conoscere delle antinomie tra le
norme dei due ordinamenti.
Dopo la sentenza dell’84, la Corte è venuta recuperando spazi per propri interventi in
relazione a casi d’incompatibilità tra le norme dei due ordinamenti.
La Corte aveva tenuto a precisare di essere sempre pronta ad entrare in campo a presidio dei
controlimiti, restando da chiarire se nella forma hard, che avrebbe portato il nostro Paese ad
uscire dall'Unione, ovvero nella forma soft, che, in buona sostanza, avrebbe portato alla mera
“non applicazione” della norma comunitaria irrispettosa dei principi fondamentali del nostro
ordinamento.
Le pronunzia dell'84, poi, aveva chiaramente fatto intendere che la soluzione in essa
patrocinata avrebbe potuto valere unicamente per il caso di norme comunitarie
materialmente suscettibili di essere portate ad immediata applicazione. Nel caso inverso non
restava che la via del ricorso alla Corte e del successivo giudizio di quest'ultima.
La medesima situazione di conflitto riceva opposte qualificazioni (ora nel senso
dell’irrilevanza, che comporta la non applicazione di norma interna irrispettosa del diritto
dell’Unione, ed ora quello dell’invalidità, che ne giustifica invece l’annullamento), comunque
facenti capo allo stesso parametro (l’art 11), esclusivamente in ragione della diversa struttura
nomologica, fatta ora da regole ed ora da principi, degli atti sovranazionali di volta in volta in
campo.
Ai casi ora indicati la Corte ha poi aggiunto quello che si ha ogniqualvolta una legge nazionale
si mostri offensiva non già di una qualunque norma dell’Unione, bensì di un suo principio
base, quale peraltro potrebbe essere dato dalle c.d. tradizioni costituzionali comuni, alla cui
formazione anche il nostro ordinamento concorre, specie per ciò che concerne la tutela dei
diritti fondamentali.
E’ stato fatto inoltre notare che potrebbe darsi il caso di conflitto tra criteri di risoluzione delle
antinomie stesse, prima ancora che tra le norme appartenenti ai due ordinamenti. Ciò che, ad
esempio, si ha laddove il parametro sia dato da un principio fondamentale dell’ordinamento
eurounitario e però esso si consideri ugualmente suscettibile di immediata applicazione: la
natura della norma parrebbe allora radicare la competenza in capo alla Corte, la sua struttura
ed attitudine all’immediata applicazione invece vorrebbero che se ne facessero carico ai
giudici comuni.
La Corte, infine, ha rivendicato per sé la competenza a conoscere delle violazioni del diritto
comunitario operate da leggi (statali o regionali) impugnate in via d'azione.
Si è riconosciuta la legittimazione del Governo ad impugnare davanti alla Corte leggi regionali
sospette di incompatibilità con il diritto dell'Unione. La Corte ha poi esteso tale soluzione al
caso, inverso, di leggi Statali impugnate dalla Regione. Nella prima di queste due pronunzie, la
Corte ha fatto notare che laddove il Governo avesse fatto “passare” leggi regionali contrarie al
diritto comunitario, ciò avrebbe potuto indurre cittadini ed operatori a ritenere che esse
fossero da considerare legittime: il che avrebbe esposto ad un grosso rischio il diritto
dell'Unione in quanto sarebbe stato leso il principio della certezza e della chiarezza
normativa.
Singolare ragionamento, se si considera che nessuno mai ha dubitato che le leggi regionali
non impugnate in via diretta possano comunque esserlo in via incidentale. Stranamente poi
questo indirizzo giurisprudenziale è stato tenuto fermo anche a seguito della trasformazione
del controllo sulle leggi regionali da preventivo in successivo, operato dalla L. cost n.3 del
2001.
E’ da segnalare inoltre che la Corte costituzionale non risulta più esclusa dalla possibilità di
esercitare il rinvio pregiudiziale e dunque è stata riconosciuta ad essa la possibilità di far
sentire la propria voce con riguardo a questioni di cruciale rilievo riguardanti l’assetto delle
relazioni tra Unione e Stati. In questo modo potrebbe scongiurarsi sul nascere l’eventualità di
un conflitto tra giudicati (della Corte di giustizia e della Corte costituzionale).

13.5 Prospettive del sindacato di comunitarietà sulle norme interne a seguito della riforma
del Titolo V della Costituzione
Con la riscrittura del Titolo V, operata dalla legge costituzionale del 2001, il riferimento ai
vincoli comunitari ha, per la prima volta, fatto ingresso nella Costituzione, facendosi obbligo
alle leggi di Stato e Regione di prestarvi ossequio nella disciplina delle materie loro proprie
secondo il nuovo riparto delle competenze fissato dall'articolo 117.
Si è discusso, in particolare, circa il carattere effettivamente innovativo della previsione
contenuta nel comma 1° dell’art 117 da alcuni considerata ridondante rispetto all’indicazione
desumibile dall’art 11 Cost. Per questo motivo, l’art 117 è stata ritenuta un lex declataria,
meramente esplicitativa del principio costituzionale del primato del diritto sovranazionale.
Dopo la modifica del 2001, non c'è più bisogno di fare appello al solo articolo 11 Cost allo
scopo di aver garantita l'osservanza del diritto comunitario da parte delle leggi nazionali,
mentre perdura la necessità di un riferimento siffatto a giustificazione della deroga subita da
norme costituzionali ad opera delle norme dell'Unione.
Quanto alle antinomie tra norme interne e norme internazionali, si dovrà tenere distinta la
condizione delle norme generalmente riconosciute alle quali seguiterà ad applicarsi il
meccanismo dell'adattamento automatico (art 10 comma 1° Cost.), rispetto alla condizione
delle norme pattizie protette attraverso il giudizio di costituzionalità.
Questione discussa è poi quella concernente il modo o i modi con cui far valere l’osservanza
della CEDU, in particolare se possano darsi o no, dei casi in cui se ne possa fare applicazione
diretta. La giurisprudenza è ferma nel negare che ciò possa aversi, mentre una dottrina
minoritaria e talune pronunzie dei giudici comuni si dichiararono a ciò favorevoli. La soluzione
giusta sembra stare a mezza via ammettendosi l’applicazione diretta della Convenzione
unicamente in alcuni casi: a) laddove faccia difetto una disciplina legislativa nazionale; b)
laddove la legge contraria a Convenzione sia cronologicamente precedente l’efficacia interna
di quest’ultima; c) laddove si abbia sostanziale corrispondenza di contenuti tra CEDU e Carta
di Nizza-Strasburgo e il caso verta su materia di competenza dell’Unione, risultando
l’operatore sollecitato a far luogo alla congiunta ed immediata applicazione di entrambe le
Carte.

14. Notazioni conclusive: la Corte e gli alibi dei controlimiti, insistentemente predicati ma fin
qui mai praticati.
La Corte può essere chiamata in campo, oltre che in sede di controversie Stato-Regioni, ove si
faccia questione dell’osservanza di norme eurounitarie non self-executing ovvero per il caso
che siano violati i principi fondamentali di questo o quell’ordinamento.
Tuttavia non ogni volta che una legge viola un principio fondamentale (es, quello di
uguaglianza) l’unità-indivisibilità dell’ordinamento e, in genere, la sua identità sono a rischio.
E' chiaro che fintantoché la Costituzione è viva e vegeta, i controlimiti non sono disponibili e la
Corte bene fa a dichiararsi pronta ad intervenire in ogni tempo a loro salvaguardia.
Occorre chiedersi come mai però ne sia stata dichiarata l’inosservanza. Non v’è dubbio che
quest’esito sia stato determinato dalla consapevolezza che potessero aversene conseguenze
imprevedibili, forse persino suscettibili di mettere in discussione l’appartenenza del nostro
Stato all’Unione. Rimane il fatto che violazioni frequenti di alcuni principi, quali quelle relative
all’uguaglianza o a diritti fondamentali, non siano da noi state neppure una volta sanzionate.
Insomma, una Corte che predica bene e razzola male.
Un solo caso, si è da noi avuto, in cui è stato lamentato il possibile superamento dei
controlimiti, e l'ha fatto il Consiglio di Stato nel 2005 sia pure allo scopo di mettere al riparo
una pronunzia della stessa Corte costituzionale, con la quale s'era aggiunta in un testo di legge
una norma originariamente mancante, sospettata però di entrare in rotta di collisione con il
principio di libera concorrenza sancito dal TCE. Richiesto di rivolgersi in via pregiudiziale alla
Corte di giustizia, il giudice amministrativo ha rigettato la richiesta in nome della intangibilità
del giudicato costituzionale, assunto come strumentale alla salvaguardia dei controlimiti.
Si tratta di stabilire se il dialogo tra le Corti possa spingersi fino a richiedere ai tribunali
nazionali di piegarsi davanti a contrarie indicazioni delle Corti non nazionali. Un caso rilevante
si è avuto per effetto della pronunzia della Corte di Lussemburgo: il tribunale costituzionale
polacco aveva caducato alcuna disposizioni nazionali, giudicate incompatibili con la
Costituzione, stabilendo tuttavia che la loro perdita di efficacia venisse a prodursi in un tempo
successivo, apponendo cioè alla propria decisione una vacatio. Le medesime disposizioni,
tuttavia, in quanto incompatibili con il diritto sovranazionale, a giudizio della Corte di
Lussemburgo soggiaciono ad immediata disapplicazione da parte dei giudici
indipendentemente dalla sentenza del giudice costituzionale nazionale.
E’ stato ritenuto che i controlimiti non possano essere messi in discussione. I rapporti tra i due
ordinamenti (nazionale e comunitario) vengono impostati su basi di valore, rinvenendosi nel
solo art 11 il fondamento del primato del diritto sovranazionale. Tuttavia, l’art 11 Cost
enuncerebbe in forma condizionata il primato del diritto sovranazionale, richiedendo alle
norme che ne sono espressione di conformarsi in tutti e per tutto ai principi fondamentali
restanti. E’ stata dunque sancita la necessità di bilanciare l’art 11 con gli altri principi
fondamentali.
Si deve pervenire alla conclusione secondo cui le antinomie possano risolversi alle volte nel
senso del primato del valore della pace e della giustizia tra le Nazioni a discapito di altri valori
occasionalmente urtati dalle norme dell’Unione, altre volte invece all’inverso; e norme di
diritto interno che si dimostrino direttamente, immediatamente e necessariamente attuative
di valori fondamentali diversi da quello enunciato nell’art 11.
L’esito dei conflitti dunque non appare così scontato a beneficio di questa o quella norma,
interna o sovranazionale che sia.

15. Segue: la metamorfosi dei controlimiti, da scudo protettivo dell'identità costituzionale a
strumento di promozione della integrazione tra gli Stati e di costituzionalizzazione
dell'Unione, all'insegna del principio dell'equilibrio tra le Carte e della cooperazione tra le
Corti.
Il secondo punto concerne le possibili prospettive nell’uso dei controlimiti man mano che il
processo di integrazione si porti sempre più avanti.
Nel Trattato di Lisbona i "controlimiti" sono ripresi e razionalizzati in termini tali da renderne
ancora più pronta ed efficace la tutela. Ciò avvalora la diffusa opinione che vuole il futuro dei
rapporti tra Unione e Stati iscritto in un contesto caratterizzato dalla simultanea vigenza di
due Costituzioni, l'europea e la nazionale, desiderose di coabitare all'insegna del
"superprincipio" della parità reciproca e dell'equilibrio. Un segno indicativo di tale tendenza è
rinvenibile nel nuovo Trattato, che considera i controlimiti idonei ad assumere rilievo
giuridico, non soltanto nelle pratiche di diritto interno ma anche in quelle dell'Unione.
Uno speciale significato al riguardo è da riconoscere all'art. 4 TUE, laddove si stabilisce che
"l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e la loro identità
nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il
sistema delle autonomie locali e regionali".
Si ha una sorta di "europeizzazione" dei controlimiti. Ed allora, ogni volta che una norma
dell'Unione dovesse dimostrarsi incompatibile rispetto ad un principio fondamentale
nazionale, lo sarebbe anche rispetto al principio dell'art 4, che a quello fa, in via generale,
rinvio.
La tutela dei principi fondamentali dunque può tradursi nell’annullamento della norma
eurounitaria confliggente con il principio fondamentale nazionale, e quindi con il principio di
cui all’art 4, con effetti tuttavia valevoli per il solo Stato offeso, non pure per gli altri i cui
principi non siano stati toccati. L’effetto di annullamento coinciderebbe con quello della non
applicazione della norma che ne costituisce oggetto nel solo territorio dello Stato interessato.
Le norme eurounitarie irrispettose dei principi di base vengono dunque qualificate come
illecite.
La metamorfosi della nozione di controlimite diventa in tal modo completa: nata per fare da
ostacolo, sia pure in casi remoti, all'ingresso di norme comunitarie irrispettose di norme
interne indisponibili, essa si commuta in formula espressiva di uno dei principi fondamentali
dell'UE. Si assiste così ad una unificazione al vertice che riassume ed esprime l'idea secondo
cui non possono aversi principi fondamentali degli Stati autenticamente altri rispetto
ai principi fondamentali dell'Unione, e viceversa. Si pone a questo punto la questione
relativa alle modalità di accertamento delle violazioni dell'articolo 4.
Per un verso, solo dopo che nelle sedi giuste si sarà stabilito se è stato o no inciso un principio
fondamentale nazionale si potrà affermare la conseguenziale violazione del disposto
richiamato dal Trattato, anche se è difficile pensare che la Corte di giustizia sia disposta ad
accettare per sé il ruolo di organo gregario, di mera registrazione di decisioni altrove adottate.
Per altro verso non può essere accettata la soluzione che vede il verdetto emesso dalla Corte
di Lussemburgo, chiamata a pronunziarsi in merito all'eventuale inosservanza dell'art. 4, alla
stregua di un giudizio di appello rispetto a quello eventualmente già emesso in ambito
interno.
Una soluzione complessivamente appagante e conforme alle esigenze di un ordinamento in
via di piena integrazione deve essere ricercata in relazione ai singoli casi, immettendo in un
unico circolo interpretativo materiali di varia estrazione, ma bisognosi di essere mantenuti
integri nella loro composizione e idonei a sorreggersi e ad alimentarsi a vicenda. Ciò può
avvenire in primo luogo, sottoponendo i principi fondamentali ad aggiornate reinterpretazioni
orientate verso i principi base dell’Unione; in secondo luogo anche le interpretazioni che
vengono poste in essere dalla Corte di giustizia sono chiamate a volgersi verso gli ordinamenti
costituzionali nazionali. Soltanto sollecitando la formazione di un diritto costituzionale vivente
connotato da una doppia e circolare interpretazione conforme (del diritto nazionale alla luce
di quello eurounitario e viceversa), si potrà avere la fondata aspettativa di un complessivo
equilibrio nei rapporti tra Costituzione e Trattato, nonché tra le Corti che vi danno voce.



CAPITOLO VI
ORDINAMENTO GIUDIZIARIO E GIURISDIZIONE COSTITUZIONALE DELL'UNIONE EUROPEA.
1. Premessa.
Uno degli elementi caratterizzanti della struttura dell'Unione europea rispetto alle tradizionali
unioni di Stati e, più in generale, alle regole classiche dell'ordinamento internazionale è
costituito dal fatto di possedere un proprio sistema di giurisdizione, idoneo a tutelare la
legalità eurounitaria nelle molteplici occasioni in cui ciò sia richiesto. Infatti un ordinamento
giuridico indipendente ed autonomo, quale quello dell’Unione Europea, non può dirsi tale in
assenza di un sistema di garanzie giurisdizionali che consenta di controllare sia la legittimità
delle sue azioni che il rispetto delle sue norme e soprattutto sia in grado di offrire adeguata
tutela ai diritti attributi ai suoi soggetti: le istituzioni, gli Stati membri e, in particolare, i
singoli, persone fisiche o giuridiche. Solo in tal modo potrà realizzarsi una vera “Comunità di
diritto”.
La Corte di giustizia europea ha costituito nel tempo una preziosa valvola di sicurezza del
sistema comunitario quando questo è rimasto bloccato a causa dell'incapacità o per la
mancata volontà degli Stati membri di pervenire a nuove implementazioni istituzionali. Se un
tale ruolo della Corte di giustizia è più percettibile in materia di protezione dei diritti
fondamentali, non sono mancati altri settori in cui una simile costituzionalizzazione giudiziaria
è pervenuta a colmare le lacune dei trattati. L'apporto della Corte di giustizia alla costruzione
del sistema eurounitario si può quindi inquadrare:
1) Nel chiarimento dell'ambito delle rispettive competenze tra Unione e Stati membri;
2) Nella risoluzione del contenzioso circa l'esatto assetto degli organi centrali comunitari;
3) Nella crescente protezione dei diritti fondamentali.

2. Dalla Corte delle origini al Trattato di Lisbona.
La prima Corte fu istituita dal Trattato CECA. I suoi componenti incominciarono a riunirsi a
Lussemburgo in un immobile preso a prestito dalle ferrovie locali. Il primo compito della Corte
CECA fu quello di elaborare il suo regolamento di procedura. Essa tuttavia non venne
eccessivamente oberata di lavoro e prima dell’istituzione della Corte di giustizia unica per le 3
Comunità, pronunciò circa uno 20 di decisioni. Si deve alla Corte CECA l’elaborazione di quello
che è poi divenuto il sigillo definitivo della Corte: cioè, la bilancia, il gladio e la corona di
quercia con l’iscrizione Curia. Fu in questa fase temporale che, per gli avvocati, si instaurò la
consuetudine di utilizzare la toga prescritta dai loro Ordini nazionali.
Il 7 ottobre 1958 si tenne la cerimonia del giuramento dei membri della Corte di giustizia delle
Comunità europee, alla quale la Corte CECA aveva ormai trasmesso i suoi poteri. Inizialmente
la Corte di giustizia era formata da 7 giudici e assistita da 2 avvocati generali. Tuttavia, tali
numeri erano destinati a crescere in relazione ai successivi allargamenti della Comunità ad
altri Paesi.
Bisognerà aspettare la decisione del Consiglio del 1988 perché alla Corte di giustizia venga
affiancato un Tribunale di 1° grado, tale da dar vita, insieme alla prima, ad un doppio grado di
giurisdizione per affrontare più adeguatamente l’incremento delle cause.
Con il Trattato di Nizza si è poi provveduto a consolidare la disciplina concernente il Tribunale
di 1° grado che è così pervenuto ad occupare un ruolo di maggiore rilievo nel complessivo
sistema giurisdizionale, mentre ha fatto la sua comparsa una terza giurisdizione, ossia le
Camere giurisdizionali. Tuttavia, soltanto una sola delle Camere giurisdizionali ha visto la luce,
cioè il Tribunale della funzione pubblica.
Le tre Corti costituiscono dunque l’impalcatura giurisdizionale dell’UE. Il Trattato di Lisbona ha
introdotto poi soltanto marginali aggiustamenti, soprattutto di carattere lessicale: il Tribunale
ha completamente perduto la denominazione di 1° grado e non si parla più di Camere
giurisdizionali, ma di Tribunali specializzati, aggregati al Tribunale.
Un novità più consistente è stata invece prodotta a Lisbona per quanto riguarda le fonti della
giustizia eurounitaria. Occorrerà dunque fare riferimento alle disposizioni ricomprese:
• Nel TUE;
• Nel TFUE;
• Nello Statuto unico della Corte di giustizia;
• Nei Regolamenti di procedura delle 3 Corti eurounitarie.
Merita inoltre di essere segnalata l’estensione della giurisdizione della Corte di giustizia a
tutte le attività dell’Unione per effetto dell’abolizione dei c.d. pilastri. Particolare attenzione
va riservata alla possibilità per ogni persona fisica o giuridica di proporre ricorsi di legittimità
contro gli atti da cui sia direttamente riguardata.
Gli Stati membri stabiliscono i rimedi necessari per assicurare una tutela giurisdizionale
effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Ciò sempre consacrare il collegamento
tra il sistema giurisdizionale eurocomunitario e quelli interni agli Stati membri.
In particolare, il giudice nazionale deve:
a) Dare alla normativa interna un significato conforme alla normativa eurounitaria;
b) Procedere egli stesso alla disapplicazione del diritto incompatibile;
c) Avvalersi della procedura pregiudiziale nei confronti della stessa normativa
eurounitaria.

3. La fisionomia delle Corti eurounitarie: i giudici (e gli avvocati generali).
Quanto alla composizione, originariamente la Corte di giustizia era composta di sette giudici:
ogni Stato membro poteva indicare un giudice, mentre quello che risultava in più veniva
nominato a turno fra i grandi Stati. Il loro numero si è progressivamente esteso in ragione
delle successive adesioni fino agli attuali 28 membri.
In seguito al Trattato di Lisbona oggi si prevede che la Corte di giustizia è composta da un
giudice per Stato membro. Tale trattato, ai fini della nomina, ha anche introdotto
l’acquisizione, ad iniziativa del Presidente della Corte di giustizia, di un parere di natura non
vincolante sull’idoneità dei soggetti nominandi, che deve essere espresso da un Comitato di
sette personalità.
I giudici sono scelti fra personalità in grado di offrire tutte le garanzie di indipendenza di
competenza e che siano abilitati ad esercitare le più alte funzioni giurisdizionali ovvero siano
giureconsulti di notoria competenza. Il mandato di giudice ha la durata di 6 anni e può essere
rinnovato illimitatamente, decorrendo dal momento stabilito dall’atto di nomina e non quindi,
necessariamente, dal giuramento. Un rinnovo parziale dei giudici avviene ogni tre anni alle
condizioni previste dallo statuto della Corte.
Il giudice può cessare dalle sue funzioni nell’ipotesi del suo decesso, per dimissioni o per
rimozione. In tal caso il giudice subentrante si limiterà a completare il mandato del suo
sostituito.
Per i giudici della Corte vale l’istituto della prorogatio, dato che essi proseguono nelle funzioni
oltre la scadenza fino a quando non siano nominati i subentranti, assicurandosi, così l’integrità
numerica della Corte.
Sul giudice della Corte grava l’obbligo del segreto sulle deliberazioni assunte, nonché il divieto
di esercitare funzioni politiche o amministrative. Analogo divieto vale per l’attività
professionale, non importa se a titolo oneroso o gratuito. Si richiede inoltre al giudice di
onorare, anche dopo la cessazione della carica, gli impegni di onestà e di discrezione per
quanto riguarda l’accettazione di determinate funzioni o vantaggi. E’ fatto divieto al giudice di
partecipare alla cause in cui egli stesso abbia avuto qualche ruolo.
I giudici della Corte di giustizia sono guarentigiati, oltre che dai privilegi e dalle immunità
previsti per i funzionari e gli agenti della Comunità, dalla speciale prerogativa dell’immunità
giurisdizionale, che si protrae, per quanto concerne gli atti da loro compiuti in veste ufficiale,
comprese le loro parole e i loro scritti, oltre la cessazione delle funzioni. Solo la Corte di
giustizia stessa può rimuovere tale immunità. Qualora, tolta l’immunità, venga promossa
un’azione penale contro un giudice, questi potrà essere giudicato soltanto dall’organo
competente a giudicare i magistrati appartenenti alla più alta giurisdizione nazionale. Spetta
sempre alla Corte di giustizia (in particolare, agli avvocati generali) provvedere in merito alla
rimozione di qualcuno dei suoi componenti o dichiararli decaduti dal loro diritto alla pensione
o da altri vantaggi sostitutivi, quando abbiano perduto i requisiti prescritti ovvero non
soddisfino più agli obblighi derivanti dalla loro carica.

La Corte è assistita attualmente da otto avvocati generali nominati per sei anni dai governi
degli Stati membri di comune accordo. Essi concorrono allo svolgimento della funzione
giudiziaria nell'ordinamento dell'Unione. Un loro rinnovo parziale avviene ogni tre anni e
riguarda quattro avvocati generali. Le modalità della loro designazione non sono specificate,
ma la prassi prevede che almeno uno è indicato nei grandi Stati (Francia, Germania, Italia,
Regno unito, Spagna) mentre per i restanti si applica un sistema di rotazione tra gli Stati. Essi
hanno il compito di presentare con assoluta imparzialità e in piena indipendenza rispetto agli
Stati membri dell'Unione, conclusioni motivate. Tra essi la Corte nomina il primo avvocato
generale che distribuisce le cause tra gli avvocati generali e ha il compito di proporre alla
Corte il riesame delle pronunce del tribunale qualora ritenga sussistenti gravi rischi per l'unità
e la coerenza del diritto dell'Unione.
A differenza del sistema precedente in cui ogni causa veniva attribuita ad un avvocato
generale, il suo intervento non è sempre necessario in tutte le controversie dinanzi alla Corte,
ma soltanto nelle cause che richiedono il suo intervento ossia quelle più significative. Le
conclusioni degli avvocati generali sono pubblicate con le relative sentenze.
Quando prendono servizio, i giudici e gli avvocati generali prestano giuramento in seduta
pubblica impegnandosi ad esercitare la loro funzione in piena imparzialità.
Accanto alla Corte si affianca il Tribunale. Esso è composto da almeno un giudice per Stato
membro. Al momento il numero dei giudici equivale a quello degli Stati membri.
I componenti del Tribunale sono nominati secondo criteri analoghi a quelli previsti per la
Corte, per la durata di sei anni, con rinnovo parziale ogni tre anni. I giudici designano al loro
interno il presidente per tre anni. Alcuni di essi possono essere chiamati ad esercitare la
funzione di avvocati generali, nominati dal presidente su indicazione del Tribunale, con
riguardo però soltanto a determinate cause secondo i criteri stabiliti dal regolamento di
procedura del Tribunale.
Quanto alla competenza del Tribunale, essa era in un primo tempo limitata ai ricorsi dei
funzionari dell'Unione contro le istituzioni, ricorsi individuali nell'ambito della politica della
concorrenza, con esclusione dei ricorsi avanzati da uno Stato membro o da un'istituzione
nonché del rinvio pregiudiziale. In seguito il Consiglio, cui spettava deliberare all'unanimità, su
richiesta della Corte, circa le categorie dei ricorsi proponibili al tribunale, ha ampliato le sue
competenze anche ai ricorsi diretti proposti da persone fisiche o giuridiche; il Tribunale
perdeva così in gran parte la sua natura di organo sussidiario, ma senza divenire ancora
un'istituzione autonoma perché è pur sempre organo aggiunto alla Corte.
Nel sistema attuale il Tribunale è configurato come giudice di diritto comune dell'ordinamento
dell'Unione in quanto investito di una competenza generalizzata in primo grado, con
l'eccezione delle controversie in cui sono convenuti uno o più stati membri e dei conflitti
interistituzionali.
Diviene organo di secondo grado rispetto alle decisioni assunte dai tribunali specializzati.
Per quanto riguarda la competenza pregiudiziale, la Corte di giustizia resta il giudice con
competenza generale, ma si ammette ora la competenza anche del Tribunale a conoscere
delle questioni pregiudiziali di materie specifiche determinate dallo statuto. Le decisioni
emesse dal tribunale su questioni pregiudiziali possono essere riesaminate dalla Corte qualora
sussistano gravi rischi ovvero l'unità e la coerenza del diritto dell'Unione siano compromesse.
A seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona è stata attribuita la possibilità al
Parlamento e al Consiglio di istituire Tribunali specializzati affiancati al Tribunale e incaricati
di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi in materie specifiche.
Tra essi, è da segnalare il Tribunale della funzione pubblica competente in primo grado a
pronunciarsi in merito alle controversie tra l'Unione e i suoi agenti. Esso è composto da sette
giudici, nominati per 6 anni dal Consiglio previa consultazione di un comitato composto di
sette personalità, scelte tra ex giudici dell'Unione e giuristi di nota competenza, il quale
fornisce un parere sull'idoneità dei candidati a svolgere le funzioni di giudici.
Anche il tal caso, per quanto riguarda lo status dei giudici, si applica quanto previsto per i
giudici della Corte di giustizia. Non è però prevista la presenza di un avvocato generale. E’
presente invece la figura del c.d. giudice ad interim, a cui il Tribunale della funzione pubblica
può decidere di far ricorso quando constata che un giudice non è o non sarà nelle condizioni
di partecipare, per motivi medici, alla definizione delle cause e che tale impedimento durerà o
è destinato a durare almeno 3 mesi e quando ritiene che tale giudice non sia colpito da
invalidità considerata totale.

4. Organizzazione della Corte di giustizia e del Tribunale.
Il presidente della Corte di giustizia e del Tribunale viene eletto dei giudici per tre anni a
scrutinio segreto e a maggioranza assoluta dei voti espressi ed è rinnovabile. Essi dirigono i
lavori delle Corti, designano le sezioni competenti e il giudice relatore per ogni causa, fissano
le date delle udienze, decidono sulle richieste di provvedimenti cautelari d'urgenza,
presiedono le udienze plenarie.
Nella disciplina precedente la Corte si riuniva in formazione plenaria, ma era anche prevista la
possibilità di creare al suo interno delle sezioni di tre, cinque o sette giudici.
Secondo la nuova disciplina, la Corte solo eccezionalmente si riunisce in seduta plenaria
qualora sia previsto dallo Statuto, cioè nei seguenti casi: quando si tratti di pronunciare le
dimissioni del mediatore o di un membro della Commissione della Corte dei conti o quando
reputi che il giudizio pendente dinanzi ad essa riveste un carattere eccezionale.
Essa si riunisce in sezioni composte ciascuna da tre o cinque giudici che eleggono i loro
presidenti in base ad una rotazione annuale.
Le loro deliberazioni sono valide soltanto se prese da tre giudici.
Dinanzi le sezioni possono essere rinviati anche ricorsi in via pregiudiziale sempre che
l'importanza delle questioni o l'esistenza di circostanze particolari non ritengano che la Corte
giudichi in seduta plenaria.
La Corte inoltre può riunirsi in grande sezione (o piccolo plenum) quando lo richieda uno Stato
membro o un'istituzione che sia parte in causa: essa comprende 13 giudici più i presidenti
delle sezioni di cinque giudici, è presieduta dal presidente della Corte. Le sue deliberazioni
sono valide solo se presenti nove giudici.
Questa organizzazione rispecchia anche quella del Tribunale. Tuttavia, a tale triplice
modularità collegiale, il Tribunale aggiunge quella del giudice monocratico. Quest’ultima
possibilità è data anche al Tribunale della funzione pubblica.
Per ciò che concerne l’assegnazione delle varie cause alle differenti sezioni e alle formazioni
plenarie, con riferimento alla Corte di giustizia, a ciò provvedono i trattati che individuano le
ipotesi di adunanza in seduta plenaria. La distribuzione invece tra grande sezione e sezioni
semplici è operata a seconda delle difficoltà o dell’importanza della causa o ancora delle
particolari circostanze.
Per conoscere invece le ipotesi in cui il Tribunale lavora in seduta plenaria o come grande
sezione o quando sia un giudice unico a decidere, occorre, invece fare riferimento al suo
regolamento di procedura. Un’analoga competenza a distribuire le cause tra le varie
articolazioni interne del Tribunale della funzione pubblica è riconosciuta al relativo
regolamento di procedura.
Anche le Corti si avvalgono del supporto di un apparato servente incentrato sulla figura del
Cancelliere posto a capo della Cancelleria. A tale soggetto spetta infatti ricevere i ricorsi, le
memorie e tutti gli ulteriori atti presentati dalle parti nelle diverse cause e provvedere alle
comunicazioni concernenti il loro svolgimento. Sempre al cancelliere incombono la tenuta del
registro dove vengono annotati tutti gli atti del procedimento, sia la custodia dei fascicoli delle
cause. Sono le Corti a nominare i propri cancellieri, ai quali si applicano le garanzie previste
per gli alti funzionari dell’Unione. Ai cancellieri sono infine indirizzate le Istruzioni, adottate
dai rispettivi collegi per il più adeguato funzionamento degli apparati serventi.

5. Cenni di diritto processuale eurounitario: i principi.
Le istruzioni, e in particolare, le istruzioni pratiche, hanno la funzione di assicurare il buon
svolgimento dei procedimenti. Di notevole rilievo sono le Guide pratiche, formulate in vista di
una fruttuosa collaborazione con la giurisdizione eurounitaria.
Occorre dunque fare qualche riferimento alle caratteristiche del processo eurounitario.
Anche davanti alle relative Corti, è necessaria la difesa tecnica, occorrendo cioè munirsi di un
difensore che, per le parti private, deve essere un soggetto comunque abilitato a difendere in
un giudizio in uno Stato membro o in un altro Stato. Per gli Stati e le istituzioni eurounitarie, la
rappresentanza in giudizio è invece affidata ad agenti di queste stesse entità.
Le spese processuali sono ripartite secondo le regole conosciute nell’ordinamento interno,
per cui esse seguono, di norma, la soccombenza, alla condizione che sia formulata la relativa
richiesta di condanna. Di notevole rilievo è la previsione del gratuito patrocinio che può
permettere anche a chi non sia in grado di sopportare le spese di un giudizio di dispiegare
ugualmente le proprie difese.
La procedura, salve le varianti richieste dalla peculiarità del procedimento, è analoga davanti
alle 3 Corti e si struttura in 2 fasi: una scritta e l’altra orale.
Necessariamente scritto è l’atto introduttivo del processo, così come scritte sono le eventuali
successive istanze, memorie e repliche. Scritte sono anche le decisioni giurisdizionali rese
nelle varie procedure, siano esse sentenze o ordinanze.
Un esempio di oralità è dato invece dalle conclusioni che gli avvocati generali presentano nelle
cause alle quali sono assegnati.
Ciò che rileva è che il giudice eurounitario ha un’estrema libertà di esperire i mezzi di prova
che ritiene più adeguati, al di là delle richieste delle parti, allontanandosi così dal nostro
modello processuale civile legato al principio dispositivo, per omologarsi maggiormente al
processo amministrativo dove invece vige il principio inquisitorio, basato su un’ampia libertà
del giudice nella gestione del processo.
Di tale ampiezza costituiscono naturali corollari sia il principio del contraddittorio (ossia la par
condicio delle parti rispetto ad ogni elemento del giudizio), sia quello della pubblicità (ossia la
piena ostensibilità rispetto al pubblico di tutti gli svolgimenti processuali. Tuttavia nei
procedimenti in Camera di Consiglio vige la segretezza).
Nel processo eurounitario è infine consentito l’utilizzo di tutte le 24 lingue dell’Unione in
modo da rendere effettivo il diritto di difesa.
6. Segue: gradi e rimedi processuali.
Per quanto riguarda le competenze, il Tribunale si configura come l’organo giurisdizionale a
competenza generale. Tra le sue competenze rientrano:
1) I ricorsi per annullamento o in carenza;
2) I ricorsi intesi a fare valere la responsabilità extracontrattuale dell’Unione;
3) I ricorsi nelle controversie tra le Comunità e i suoi agenti;
4) I ricorsi intesi a far valere una responsabilità contrattuale fondata su una clausola
compromissoria stipulata dall’Unione o per suo conto.
Altre competenze di carattere più specializzato derivano al Tribunale dalle controversie ad
esso devolute nelle materie dei contratti stipulati dall’Unione che prevedano espressamente il
suo intervento. E’ inoltre previsto che al Tribunale possano essere presentate le questioni
pregiudiziali, sia d’interpretazione che d’invalidità, essendo venuta meno la competenza
esclusiva della Corte di giustizia. Si ammette però che sia lo stesso Tribunale a rinviare la
trattazione di una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia qualora reputi necessaria una
decisione di principio che potrebbe compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’UE.
Il Tribunale è infine chiamato ad assolvere alla funzione di giurisdizione d’appello nei confronti
del Tribunale della funzione pubblica.
La Corte è invece competente a giudicare:
1) I casi in cui sia in contestazione la permanenza in carica del Mediatore europeo, dei
membri della Commissione e dei componenti della Corte dei conti;
2) I ricorsi per annullamento o in carenza, quando ad agire siano gli Stati membri e le
istituzioni eurounitarie;
3) I rinvii pregiudiziali, sia d’interpretazione che d’invalidità;
4) Gli inadempimenti degli Stati nelle procedure d’infrazione;
5) In sede d’appello, per i soli motivi di diritto, avverso le decisioni del Tribunale.
A tali attribuzioni va aggiunta quella di carattere consultivo, consistente nella valutazione
della compatibilità delle clausole di un accordo internazionale che l’Unione europea intende
stipulare o della sussistenza della competenza a stipularlo.
La competenza del Tribunale della funzione pubblica attiene al contenzioso del personale
eurounitario e alle controversie direttamente o indirettamente collegale al rapporto di
servizio dei funzionari e degli agenti della Comunità.
E’ consentito il ricorso ai mezzi d’impugnazione straordinari, volti ad attaccare decisioni già
passate in giudicato, come l’opposizione di terzo e la revocazione.
Le sentenze già rese inoltre possono essere fatte oggetto di procedimenti di correzione e/o
integrazione, rispettivamente per la rettifica di errori materiali, di calcolo o altre inesattezze e
per ripristinare omissioni di punti che avrebbero dovuto essere presenti nel testo della
decisione.
E’ inoltre prevista la possibilità di richiedere un’interpretazione autentica delle sentenze
laddove vi siano difficoltà ricostruttive circa la portata e il senso delle stesse.
Infine, per assicurare la fruttuosità delle pronunce future, anche in ambito eurounitario, è
prevista la possibilità di richiedere sia la sospensione cautelare dell’atto impugnato, sia la
concessione dei provvedimenti provvisori necessari.

7. La legalità dell’ordinamento eurounitario: alcuni aspetti preliminari.
Occorre soffermarsi adesso sulla procedura di accertamento della compatibilità con i Trattati
degli accordi che l’UE intenda stipulare con altri soggetti dell’ordinamento internazionale e
sulla sussistenza della stessa competenza dell’Unione a concludere tali accordi.
La facoltà di richiedere tali pareri viene riconosciuta al Parlamento europeo, al Consiglio, alla
Commissione e a ciascuno Stato membro.
Un esempio rilevante è fornito dal parere del 1994 reso dalla Corte in ordine alla possibilità
per la Comunità di aderire alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che venne esclusa in
quanto la Corte ritenne che l’adesione alla Convenzione avrebbe comportato un mutamento
sostanziale del regime di protezione dei diritti dell’uomo prodotto dall’inserimento della
Comunità in un distinto sistema istituzionale internazionale e dall’integrazione della
Convenzione stessa nell’ordinamento giuridico eurounitario.
Tale competenze della Corte di giustizia ricorda quella del Conseil constitutionnel, al quale, in
Francia, è attribuito di valutare la compatibilità costituzionale degli accordi internazionali
prima della loro ratifica.
L’art 7 TUE prevede che, in caso di grave violazione da parte di uno Stato membro, dei valori
del rispetto della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei
diritti umani, è prevista nei suoi confronti una procedura sanzionatoria che potrebbe
concludersi con la sospensione dall’esercizio dei diritti ad esso attribuiti dai Trattati. Anche in
questo procedimento la Corte non risulta estranea, in quanto lo Stato può ad essa rivolgersi
per l’accertamento di irregolarità della procedura sanzionatoria.

8. Segue: il controllo degli atti eurounitari (l’azione di annullamento).
Al fine di garantire la legalità degli atti e dei comportamenti eurounitari, sono previste una
serie di azioni esperibili dinanzi alle Corti dell’Unione. Si tratta:
1) Dell’azione di annullamento;
2) Dell’azione in carenza;
3) Dell’eccezione d’invalidità incidentale;
4) Dei ricorsi contro le sanzioni irrogate in sede eurounitaria;
5) Delle azioni risarcitorie per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

AZIONI DIRETTE CONTRO L’UNIONE E I SUOI ORGANI. IL CONTROLLO SULLA LEGITTIMITÀ
DEGLI ATTI E DEI COMPORTAMENTI DELLE ISTITUZIONI. L’AZIONE DI ANNULLAMENTO.
Il controllo di legittimità degli atti delle istituzioni dell’Unione è affidato alla competenza
esclusiva della Corte di giustizia dell’Unione europea, nelle sue varie articolazioni, che la
esercita nell’ambito delle regole previste dai Trattati. A seguito dell’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, detta competenza si estende inoltre agli atti adottati nel quadro della
cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, nonché agli atti adottati nel quadro
della cooperazione rafforzata.

Gli atti impugnabili.
L’impugnazione ha per oggetto gli atti vincolanti, adottati congiuntamente dal Parlamento
europeo e dal Consiglio (atti legislativi) che non siano raccomandazioni o pareri e anche le
deliberazioni adottate dagli organi direttivi della BEI.
Inoltre possono essere oggetto di impugnazione anche gli atti del Parlamento europeo
destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi: la Corte ha ritenuto ricevibile un
ricorso in annullamento contro l’atto con cui il presidente del Parlamento constatava
l’adozione definitiva del bilancio, in quanto il controllo della Corte è diretto a garantire che
ciascuna istituzione eserciti i poteri che le sono attribuiti dal Trattato in materia di bilancio;
sono esclusi invece quegli atti che riguardano l’organizzazione interna dei suoi lavori, come
quelli relativi alla designazione dei membri delle delegazioni interparlamentari. Il Trattato di
Lisbona ha ulteriormente innovato, aggiungendo alla lista impugnabili anche quelli adottati
dal Consiglio europeo.
Gli atti della Corte dei conti non figurano tra quelli suscettibili di impugnazione; tuttavia la
Corte di giustizia ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da un sindacato contro un atto
della Corte dei conti, in quanto produttivo di effetti giuridici e in quanto, del resto,
quest’ultima ormai “promossa” dal TFUE tra le istituzioni.
Innovativa è invece la previsione per cui la Corte di giustizia dell’Unione europea esercita
inoltre un controllo di legittimità anche sugli atti degli organi o organismi dell’Unione. Non
mancano tuttavia decisioni del giudice dell’Unione in cui lo scrutinio di legittimità è stato
esteso anche nei confronti di soggetti pubblici dell’Unione diversi dalle istituzioni.
Non sono ricevibili i ricorsi diretti contro atti degli Stati membri adottati in esecuzione di atti
dell’Unione, poiché non spetta alla Corte decidere sulla compatibilità di una disposizione
nazionale con il diritto comunitario. Lo stesso deve dirsi per gli atti adottati dai rappresentanti
dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, che sono in sostanza degli accordi in
forma semplificata, che rilevano on quanto tali del diritto internazionale. L’azione di
annullamento può essere promossa solo contro il diritto derivato, comprese le direttive, con
esclusione quindi delle norme dei Trattati istitutivi e dei successivi Trattati che li modificano,
nonché contro ogni atto, a prescindere dalla forma e dalla denominazione usata, che produca,
effetti giuridici nei confronti dei destinatari.
L’azione non è limitata all’impugnazione degli atti tipici, ma deve essere estesa a tutti gli atti
definitivi che, tenendo conto della loro sostanza, producono effetti giuridici obbligatori idonei
ad incidere sugli interessi dei ricorrenti, mentre è in linea di massima irrilevante la loro forma.
Ad esempio, il ricorso è stato ritenuto ricevibile con riguardo a codici di condotta della
Commissione o ad alcune comunicazioni della Commissione in quanto ritenute produrre
effetti giuridici distinti dalla direttiva o dalla norma del Trattato cui rinviavano.
Non sono soggetti a impugnazione invece gli atti produttivi di effetti solo nella sfera interna
dell’istituzione, gli atti che costituiscono fasi intermedie di un procedimento o meramente
preparatori di un atto definitivo: i loro vizi potranno essere eventualmente fatti valere nel
ricorso diretto contro l’atto definitivo, a meno che l’atto intermedio non sia di per sé
produttivo di effetti giuridici nei confronti dei terzi. Parimenti irricevibile è un ricorso avverso
atti puramente confermativi di un atto precedente non impugnato entro i termini.
Quanto all’azione esterna dell’Unione , non è previsto nei Trattati che l’azione di
annullamento possa essere esercitata nei confronti degli accordi internazionali stipulati dalla
prima: in teoria potrebbe non escludersi , dal momento che tali accordi sono assimilati dalla
Corte ad “atti delle istituzioni”, ma ciò pare difficilmente ammissibile dato che un accordo
internazionale interviene tra soggetti del diritto internazionale e dunque non può considerarsi
atto interno dell’ordinamento dell’Unione. Tuttavia, la Corte non si è rifiutata di pronunciarsi
sulla legittimità di una decisione del Consiglio che autorizzava la conclusione di una
conversione internazionale pur rigettando il ricorso nel merito; altre volte, ritenendo un
accordo in conflitto col diritto dell’Unione, ne ha impedito l’applicazione annullando la
decisione di conclusione della Commissione o la decisione di conclusione del Consiglio, poiché
l’esercizio delle competenze attribuite alle istituzioni in campo internazionale non può essere
sottratto al controllo di legittimità.
Nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria, l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona ha comportato l’equiparazione del regime di impugnazione degli atti dell’Unione,
adottati in questo settore, con quello generale, con l’eccezione consistente nel divieto per la
Corte di riesaminare la validità o la proporzionalità di operazioni di polizia o in materia di
mantenimento dell’ordine pubblico. Rimane tuttavia in vigore, la disciplina previdente
all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in base alla quale la Corte è esclusivamente
competente a riesaminare la legittimità delle decisioni-quadro e delle decisioni nei ricorsi
proposti da uno Stato membro o dalla Commissione per uno dei vizi di cui all’art. 230 CE,
entro due mesi dalla pubblicazione dell’atto; non erano impugnabili invece le posizioni
comuni, per il loro carattere più squisitamente politico e perché, per loro natura, non
dovrebbero di per sé produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.
Anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, rimane esclusa la competenza della
Corte nell’ambito della politica estera e sicurezza comune. Tuttavia, si prevede che la Corte è
competente a pronunciarsi sui ricorsi, proposti dai privati, riguardanti il controllo della
legittimità delle decisioni del Consiglio che prevedono misure nei confronti di persone fisiche
o giuridiche.
La Corte ha inoltre competenza di stabilire se un atto attinente alle relazioni esterne
dell'Unione debba essere adottato sulla base delle relative disposizioni della PESC.

I soggetti legittimati a presentare il ricorso in annullamento.
Possono proporre il ricorso in annullamento i c.d. ricorrenti privilegiati, vale a dire gli Stati
membri, il Consiglio, la Commissione, nonché il Parlamento europeo: il privilegio per questi
soggetti consiste nel diritto di impugnare qualsiasi atto senza dover dimostrare che questo
incida sulla posizione giuridica del ricorrente.
Un discorso a parte merita tuttavia la posizione del Parlamento. Nel regime precedente a
quello inaugurato con il Trattato di Nizza, era previsto che il Parlamento fosse un ricorrente
semi-privilegiato, vale a dire potesse agire per l'annullamento degli atti, ma solo per la
salvaguardia delle sue prerogative accogliendo quanto stabilito dalla giurisprudenza della
Corte nonostante la mancata formale inclusione del Parlamento tra i legittimati
all'impugnazione degli atti.
Secondo la Corte risultava ricevibile un ricorso proposto dal Parlamento europeo contro atti
delle altre istituzioni qualora il Parlamento avesse indicato in modo pertinente l'oggetto della
sua prerogativa che doveva essere salvaguardata e la pretesa violazione di quest'ultima. Sulla
base di tali criteri, la Corte aveva dichiarato irricevibili i ricorsi del Parlamento basati sulla
violazione dell'obbligo di motivazione in quanto tale violazione non comportava una lesione
delle sue prerogative.
La categoria dei ricorrenti semi-privilegiati non è tuttavia scomparsa con l'equiparazione del
Parlamento alle altre istituzioni ed agli altri Stati membri. Ad essa appartengono oggi la BCE e
la Corte dei conti le quali sono legittimate a proporre ricorso in annullamento soltanto qualora
agiscano per la salvaguardia delle loro prerogative. Il Trattato di Lisbona tale facoltà anche al
comitato delle regioni.
Anche le persone fisiche o giuridiche sono ammesse ad esercitare l'azione di annullamento,
ma a condizioni più restrittive dei ricorrenti privilegiati o semi-privilegiati, dovendo dimostrare
un interesse ad agire personale, effettivo e attuale derivante dal prodursi di un pregiudizio
nella propria sfera giuridica.
Il ricorso in annullamento può essere proposto dalle persone fisiche o giuridiche innanzitutto
avverso le decisioni di cui siano destinatarie; inoltre contro quegli atti che, pur non rientrando
nella categoria indicata, presentandosi ad esempio come regolamenti o direttive o come
decisioni rivolte ad altre persone, le riguardino individualmente e direttamente, in terzo luogo,
contro gli atti regolamentari che le riguardano direttamente e non richiedono misure di
esecuzione.
Se il ricorso è accolto, la Corte dichiara l'atto impugnato nullo e non avvenuto. L'annullamento
può essere anche solo parziale se il vizio riscontrato riguarda solo alcune disposizioni dell'atto
purché siano separati dal resto. La sentenza di annullamento ha efficacia erga omnes, opera
ex tunc e ha l'autorità di cosa giudicata; dunque sarà irricevibile un nuovo ricorso contro l'atto
già annullato mentre qualora l'atto sia stato dichiarato legittimo, un nuovo ricorso sarà
proponibile qualora si fondi su nuovi motivi, sempre naturalmente che non sia spirato il
termine previsto per l'impugnazione.
L'istituzione, l'organo o l'organismo dell'Unione che ha emanato l'atto annullato dovrà trarre
le conseguenze ed adottare provvedimenti che l'esecuzione della sentenza comporta (es,
adozione di un nuovo atto immune da vizi).
Il giudice eurounitario inoltre fruisce di un certo potere di determinazione degli effetti
temporali del suo annullamento, quando esigenze di sicurezza giuridica lo richiedano.

IL RICORSO IN CARENZA.
L’art. 265 TFUE contempla la possibilità di rivolgersi alla Corte per far constatare il
comportamento omissivo delle istituzioni che si astengano dal pronunciarsi in violazione dei
Trattati. La Corte di giustizia ha affermato che ricorso in annullamento e ricorso in carenza
costituiscono l’espressione di uno stesso rimedio giuridico, pur mantenendo ciascuno dei due
strumenti la propria autonomia.
Originariamente il ricorso era proponibile solo nei confronti del Consiglio e della
Commissione; a seguito delle modifiche introdotte dal Trattato di Maastricht, anche nei
confronti del Parlamento europeo e della BCE; infine, con il Trattato di Lisbona il medesimo
rimedio è ora previsto anche nei confronti del Consiglio europeo, nonché degli organi ed
organismi dell’Unione.
Sono legittimati a proporre tale ricorso, oltre gli Stati membri, tutte le istituzioni dell’Unione
diverse dal responsabile dell’omissione; dunque anche il Parlamento, il Consiglio europeo, la
Corte dei conti, la BCE.
Sono invece esclusi gli organi ed organismi dell’Unione, rispetto ai quali si realizza dunque una
differenza di trattamento tra la loro legittimazione passiva e quella attiva.
L’azione in carenza consente di sindacare non solo i singoli comportamenti omissivi, ma più in
generale l’atteggiamento di un’istituzione che si astenga dall’adottare un insieme di misure
necessarie per l’instaurazione di una politica comune, purché gli atti che avrebbero dovuto
essere presi possano essere determinati con sufficiente precisione al fine di consentire alla
Corte di valutare la legittimità o meno della loro non adozione; l’esistenza di un margine di
discrezionalità quanto alle modalità e al contenuto di un’azione e alla natura delle misure da
prendere non costituisce ostacolo alla constatazione di una carenza, mentre il ricorso non è
ammissibile quando l’istituzione gode di un potere discrezionale in merito alla stessa
emanazione dell’atto (con la mancata attivazione da parte della Commissione di una
procedura di infrazione).
I ricorrenti privilegiati possono ricorrere contro qualsiasi tipo di carenza senza dover
giustificare un interesse particolare, anche contro l’omissione di atti di per sé non produttivi di
effetti giuridici obbligatori.
Anche ogni persona fisica o giuridica può adire la Corte di giustizia dell’Unione europea per
contestare a una delle istituzioni di avere omesso di emanare nei suoi confronti un atto con
effetti vincolanti, che non sia cioè una raccomandazione o un parere.
Deve trattarsi di un atto di cui il ricorrente sarebbe stato personalmente il destinatario
formale, dunque in principio solo le decisioni, in quanto i singoli non sono destinatari di
regolamenti e direttive, con esclusione di ogni disposizione a carattere generale, comprese le
decisioni generali indirizzate agli Stati e anche le decisioni indirizzate a terzi.
La Corte ha ammesso che una decisione concernente un destinatario diverso riguardasse
direttamente e individualmente il ricorrente, che dunque poteva contestare l’omissione.
Inoltre, in una successiva decisione il Tribunale ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da
una società privata nei confronti della Commissione e fondato sulla pretesa inerzia di
quest’ultima nell’adozione di un atto, il cui destinatario avrebbe dovuto essere uno stato
membro.
Presupposto del ricorso è l’esistenza di un obbligo di agire dell’istituzione in virtù di una regola
di diritto dell’Unione: dunque non è sufficiente il semplice rifugio di agire, ma occorre la
mancata adozione di un comportamento dovuto. La doverosità del comportamento può
anche non risultare espressamente dal testo della norma in questione, ma essere ricavata dai
principi generali, ed in particolare da un’interpretazione sistematica e teologica della norma
medesima.
Quando poi l’istituzione dispone di un potere discrezionale, il ricorso è irricevibile.
Affinché il ricorso sia ricevibile, occorre che l’istituzione in causa sia stata preventivamente
richiesta di agire con una domanda in cui si indicano con precisione il contenuto dell’obbligo
che si pretende violato e le misure richieste per far cessare l’inerzia.
La richiesta di agire è una formalità indispensabile, la cui assenza determina l’irricevibilità
della domanda di ricorso in carenza.
Se, trascorsi due mesi da tale richiesta, l’istituzione diffidata non ha preso posizione, il ricorso
può essere introdotto nei due mesi successivi; se ha preso posizione, il ricorso non è più
proponibile, anche se non abbia teso soddisfazione al richiedente o sia stato adottato un atto
diverso da quello ritenuto necessario; allora, la legittimità della posizione assunta non potrà
essere contestata che attraverso un ricorso in annullamento.
Non costituisce presa di posizione una risposta evasiva che non contesti né confermi l’asserita
carenza o non manifesti l’atteggiamento dell’istituzione, oppure sia dilatoria o di attesa.
Inoltre, se i ricorrente ha lasciato decorrere i termini di impugnazione per il ricorso in
annullamento contro un atto, non potrà aggirare la prescrizione dell’azione chiedendo
all’istituzione di ritirare o modificare l’atto e agire poi contro il suo silenzio attraverso un
ricorso in carenza.
A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il ricorso in carenza non è tuttora
consentito nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, mentre è ammesso, allo
scadere del periodo transitorio, nel contesto della cooperazione giudiziaria e di polizia in
materia penale.

Effetti della sentenza.
La sentenza del giudice dell’Unione che accolga il ricorso in carenza ha carattere dichiarato,
limitandosi ad accertare l’illiceità del comportamento.
L’istituzione, la cui omissione sia stata dichiarata in violazione del Trattato, è tenuta a
prendere le misure che l’esecuzione della sentenza comporta, entro un termine ragionevole,
fatta salva la possibilità di un ricorso a titolo nel suo comportamento omissivo o un periodo
eccessivo nell’adottare l’atto dovuto, possono comportare la responsabilità dell’Unione.
Un nuovo ricorso in carenza potrà essere proposto qualora l’istituzione convenuta rimanga
inattiva, omettendo di prendere i provvedimenti dovuti alla luce dell’obbligo di confermarsi
alla sentenza, mentre un ricorso in annullamento sarà proponibile qualora gli atti
dall’istituzione intesi a dare esecuzione alla sentenza risultino inadeguati o in contrasto col
giudicato della Corte.

L’ECCEZIONE DI INVALIDITÀ.
Il controllo della legittimità degli atti dell’Unione è inoltre assicurato dal meccanismo
dell’eccezione di invalidità, che consente, anche dopo la scadenza del termine di due mesi, di
far valere l’illegittimità di un atto a portata generale, per uno dei motivi previsti dall’art. 263
TFUE, al fine di invocare la sua inapplicabilità nel corso di una controversia pendente davanti
alla Corte di giustizia dell’Unione europea e non avente ad oggetto tale regolamento.
Si tratta di un mezzo di tutela, in particolare per quanto riguarda le persone fisiche o
giuridiche, in quanto consente di superare le condizioni restrittive che esse incontrano nel
promuovere un ricorso diretto in annullamento contro gli atti di carattere generale; inoltre,
non è soggetta ad alcuni limite temporale e dunque può essere proposta anche dopo lo
scadere del termine di due mesi previsto dall’art. 263 TFUE.
Non si tratta di una azione autonoma, in quanto può essere esercitata solo in via incidentale,
nell’ambito e in occasione di un procedimento principale pendente dinanzi al giudice
dell’Unione sulla base di altre disposizioni dei Trattati e che abbiano ad oggetto un atto
diverso dal regolamento contestato; occorre inoltre che questo sia rilevante per la decisione
del giudizio in corso.
L’eccezione di invalidità può essere invocata, nel corso di qualsiasi procedura contenziosa che
ha luogo dinanzi al giudice dell’Unione: può trattarsi di un ricorso in annullamento, per
responsabilità extracontrattuale dell’Unione, o dei funzionari; niente impedisce, in via di
principio, che l’eccezione possa essere sollevata anche nell’ambito di un ricorso in carenza, e
anche di un ricorso per inadempimento, ove è possibile immaginare che uno Stato invochi
l’inapplicabilità di un regolamento della cui violazione è accusato; tale possibilità tuttavia è
stata sostenuta solo da alcuni avvocati generali.
L’eccezione non può invece essere utilizzata durante un procedimento davanti ai giudici
nazionali, in tal caso dovendosi utilizzare il rinvio pregiudiziale di validità, e neanche davanti
alla Corte in occasione di un rinvio pregiudiziale.
Né uno Stato né un privato possono sollevare l’eccezione contro una decisione individuale di
cui siano destinatari, dovendo in questo caso ricorrere all’impugnazione diretta, nei termini
prescritti, dell’atto che ritengono illegittimo.
Grazie alle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, l’eccezione può oggi essere sollevata
non solo avverso i regolamenti, ma anche nei confronti di qualsiasi altro atto a portata
generale.
Il rimedio è stato invocato anche nei confronti di atti atipici e di accordi internazionali.
L’eccezione non può essere sollevata invece contro atti a portata individuale, in particolare
contro atti che avrebbero dovuto essere impugnati dai destinatari mediante il ricorso in
annullamento nei termini prescritti.
In sostanza l’eccezione rappresenta per i singoli una ultima ratio quando è loro preclusa ogni
altra possibilità di contestare la validità dell’atto. La ricevibilità dell’eccezione è subordinata,
all’esistenza di un legame giuridico diretto tra la fattispecie oggetto del ricorso principale e
l’atto a portata generale di cui si chiede la disapplicazione. Qualsiasi “parte” di una
controversia dinanzi al giudice dell’Unione, può eccepire l’invalidità di un atto a portata
generale. Tuttavia i privati dovranno provare il loro interesse ad agire dimostrando che la loro
situazione si trova pregiudicata dall’atto in questione.
L’eccezione deve essere sollevata espressamente, non può essere rilevata d’ufficio dal
giudice; né può essere sollevata dinanzi al giudice nazionale, poiché in tal caso si deve seguire,
la via del ricorso pregiudiziale per ottenere una pronuncia sulla validità dell’atto.
La natura incidentale del rimedio comporta che l’atto dichiarato illegittimo dal giudice
dell’Unione non sarà annullato, ma dichiarato non applicabile al caso di specie, per cui
continuerà a rimanere in vigore finché l’istituzione che l’ha emanato non adotti le misure
necessarie per rimuoverlo o modificarne le cause di invalidità. L’accertamento di invalidità ha
efficacia solo nei confronti delle parti e non può essere invocato da terzi.

AZIONE CONTRO LE SANZIONI IRROGATE IN SEDE EUROUNITARIA.
Appartiene ancora al contenzioso di legalità la possibilità di ricorrere, davanti al Tribunale,
avverso le sanzioni irrogate da organi dell’UE entro 2 mesi dalla loro notificazione. Tali ricorsi
devono essere presentati dalle persone fisiche e giuridiche. I ricorrenti possono contestare in
pari tempo la legittimità della decisione che commina la sanzione o limitarsi a chiedere una
riduzione della stessa. Nell’esercizio di tale competenza, il giudice eurounitario dispone di
poteri più incisivi rispetto al ricorso in annullamento in quanto risulta non solo in grado di
annullare la sanzione contestata, ma anche valutarne l'opportunità e modificarne il suo
importo, diminuendolo o, eventualmente, anche aumentandolo.

AZIONE PER RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE.
E’ prevista la possibilità di esperire dinanzi alle Corti dell’Unione l’azione per danni da
responsabilità eurounitaria extracontrattuale contro gli atti e i comportamenti illegittimi delle
istituzioni e della BCE, nonché dei suoi funzionari ed agenti.
Il rapporto tra l’azione per responsabilità extracontrattuale e le azioni di annullamento e in
carenza è di complementarietà, se si riflette sul fatto che, se un danno è provocato da un atto
o da un’omissione illegittima, può risultare utile una previa o coeva contestazione di tale
illegittimità. Ciò non significa che tra le stesse intercorra un rapporto di strumentalità, ben
potendo il soggetto leso agire con la tutela risarcitoria senza prima dover necessariamente
attivarsi per ottenere l’annullamento dell’atto lesivo o la dichiarazione della sua invalidità in
via pregiudiziale.
Il ricorso è proponibile nel termine prescrizionale di 5 anni da chiunque (persone, fisiche e
giuridiche, Stati membri) abbia subito un danno ad opera di un’istituzione o di un agente della
Comunità nell’esercizio delle sue funzioni, instaurando il relativo giudizio davanti alla Corte di
giustizia (gli Stati) o al Tribunale (i privati). Se il danno è frutto dell’esecuzione del diritto
eurounitario da parte di uno Stato membro nei confronti dei suoi cittadini, la competenza ad
accertare la responsabilità di tale Stato appartiene al giudice nazionale. Le condizioni per la
sussistenza della responsabilità in questione consistono nell’illiceità dell’atto o del
comportamento censurato di grave e manifesto, nell’effettiva produzione di un danno sia
morale che patrimoniale ed, evidentemente, nel nesso di causalità tra questi 2 fattori.

AZIONE PER RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE.
La competenza giurisdizionale eurounitaria sussiste anche nel caso di responsabilità di tipo
contrattuale. La responsabilità contrattuale dell'Unione può derivare dai contratti da essa
stipulati con soggetti terzi: è retta dalla legge applicabile al contratto in causa secondo le
norme di conflitto del giudice del foro, ma la Corte di giustizia dell'Unione europea è
competente a decidere in virtù di una clausola compromissoria inserita in un contratto di
diritto pubblico o di diritto privato stipulato dall'Unione o per conto di essa. In assenza di tale
clausola, le controversie relative all'applicazione del contratto rientrano nella competenza dei
giudici interni.
Le parti del contratto possono designare la legge applicabile, che si impone anche alla Corte
quando questa è scelta come giudice competente in virtù di una clausola compromissoria. In
assenza di indicazione della legge applicabile, il giudice interno applicherà le proprie norme di
diritto internazionale privato, mentre se giudice competente è la Corte, essa non si ritiene
vincolata a indicare un diritto nazionale applicabile e può decidere sulla base di
un'interpretazione delle clausole del contratto.

AZIONI DIRETTE CONTRO GLI STATI MEMBRI. IL CONTROLLO SULL’OSSERVANZA
DEL DIRITTO DELL’UNIONE: I RICORSI PER INFRAZIONE.
Il ricorso per infrazione ha lo scopo di consentire al giudice dell’Unione di esercitare un
controllo sul rispetto, da parte degli Stati membri, degli obblighi loro derivanti dalle regole
dell’ordinamento dell’Unione e in pari tempo di determinarne l’esatta portata in caso di
divergente interpretazione. La sua funzione essenziale è di ristabilire la legalità, più che
sanzionare lo Stato colpevole, e rappresenta un estremo rimedio al quale ricorrere solo dopo
che siano risultati inutili altri tentativi di porre rimedio alla violazione. Ciò spiega perché il suo
esercizio non presupponga necessariamente l’esistenza di un pregiudizio subito dagli altri Stati
membri né una colpa a carico dello Stato contro cui la procedura di infrazione è rivolta, e
giustifica le complesse modalità del suo svolgimento e il ruolo centrale svolto dalla
Commissione.
La procedura di infrazione trova applicazione in tutti i settori di competenza dell’Unione. In
particolare, non può essere utilizzata per ottenere il rispetto degli obblighi posti agli Stati
membri al fine di evitare disavanzi pubblici eccessivi o in caso di mancato adeguamento alle
decisioni assunte dal Consiglio in materia: in questo settore solo il Consiglio può decidere
misure di pressione e sanzioni di vario tipo contro lo Stato membro che non ottemperi alle sue
decisioni, su raccomandazione della Commissione, a maggioranza dei 2/3 dei voti ponderati
con esclusione dei voti dello Stato in questione.
La procedura di infrazione può essere utilizzata dal consiglio direttivo della BCE per far
accertare le violazioni commesse dalle banche centrali nazionali e anche dal Consiglio di
amministrazione della BEI per mancata esecuzione degli obblighi derivanti dallo Statuto della
Banca.
E’ tuttora esclusa la procedura di infrazione per le materie rientranti nella politica estera e di
sicurezza comune (art. 275 TFUE). Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la procedura
di infrazione può svolgersi, in modifica del regime precedente, anche nell’ambito della
cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale: ciò tuttavia a condizione che sia
trascorso il periodo transitorio di cinque anni, durante il quale le competenze della
Commissione e della Corte rimangono invariate.
Può formare oggetto del ricorso per infrazione qualsiasi violazione, conseguente a un
comportamento attivo od omissivo, da parte di uno Stato membro dei suoi obblighi imposti
dal diritto dell’Unione. Può trattarsi di obblighi derivanti da qualsiasi fonte dell’ordinamento
dell’Unione, e dunque da una disposizione dei Trattati o dal diritto derivato; dagli accordi
internazionali vincolanti l’Unione; da una sentenza dalla Corte di giustizia; dai principi generali
dell’ordinamento in quanto facenti parte integrante del diritto dell’Unione. Non assume
rilievo la circostanza che la norma violata rivesta o meno efficacia diretta. Non ha rilevanza la
qualità dell’organo che abbia commesso la violazione: può trattarsi di un organo legislativo, o
esecutivo o anche giudiziario di ultima istanza, o anche di un organo avente carattere
costituzionalmente indipendente; può trattarsi anche di uno Stato federato o di un ente
territoriale autonomo o di un Comune, e anche di un ente di diritto privato se questo agisca
sotto il controllo dello Stato.
L’infrazione può anche derivare da fatto di individui, qualora lo Stato non abbia adottato le
misure preventive e repressive atte a contrastare la condotta dei privati assunta in violazione
di regole dell’Unione, oppure abbia impedito l’esercizio di diritti attribuiti dal Trattato.
Il procedimento di infrazione può essere utilizzato per accertare singole, concrete violazioni di
obblighi previsti da una direttiva, oppure lo stesso ritardo nell’adempimento dell’obbligo
imposto, nonché per valutare se lo Stato non abbia oltrepassato il margine di discrezionalità
concesso nel dare attuazione ad una direttiva, nel caso questa non contenga prescrizioni
precise ed incondizionate.
Oggetto dell’infrazione può essere anche la mancata comunicazione alla Commissione delle
informazioni richieste in merito all’attuazione, in un caso concreto, degli obblighi imposti da
una direttiva. In questo caso, l’obbligo deriva anche da una prescrizione generale in tema di
leale collaborazione degli Stati membri con le istituzioni dell’Unione. Quanto all’elemento
soggettivo, il procedimento di infrazione si fonda sull’oggettiva constatazione del mancato
rispetto, da parte di uno Stato membro, degli obblighi imposti dai Trattati o da un atto
derivato Accertato l’inadempimento, è irrilevante che questo risulti dalla volontà dello Stato
membro al quale è addebitabile, dalla sua negligenza, ovvero dalle difficoltà tecniche alle
quali ha dovuto far fronte.
Di conseguenza, lo Stato non può addurre a giustificazione del suo comportamento norme,
prassi o situazioni peculiari del proprio ordinamento interno, o la particolare articolazione
dell’ordinamento nazionale che attribuisca ad enti territoriali autonomi determinate
competenze in certe materie, per cui ricadrebbe su di esse il compito di dare corretta
attuazione alle norme dell’Unione.
Neppure lo Stato può invocare particolari difficoltà che abbia incontrato nell’esecuzione
dell’atto dell’Unione come l’opposizione di privati ed i problemi di ordine pubblico da questa
derivanti, l’esistenza di attività criminali nella regione in cui si verifica l’inadempimento,
ovvero ancora avvenimenti politici imprevedibili come i ritardi nella procedura legislativa, lo
scioglimento del Parlamento nazionale, le crisi di governo, i ritardi derivanti dal compimento
di formalità costituzionali obbligatorie: vanno tuttavia fatti salvi i casi di forza maggiore e solo
per il periodo necessario ad un’amministrazione diligente per porvi rimedio; neppure può
considerarsi motivo esonerante il fatto che la violazione non abbia prodotto alcun danno.
Ugualmente, uno Stato non può addurre a sua giustificazione l’illegittimità di una decisione di
cui è destinatario come mezzo di difesa avverso un ricorso per infrazione fondato sulla
mancata esecuzione di tale decisione, poiché in tal caso avrebbe dovuto utilizzare l’azione in
annullamento, a meno che l’atto sia affetto da un vizio talmente grave da doversi considerare
inesistente. La Commissione non può invocare a sostegno del ricorso la violazione di una
norma del Trattato da parte di uno Stato membro, se quest’ultimo si è conformato al
contenuto di una disposizione di diritto derivato non impugnata e dunque legittimamente
vigente e produttiva di effetti giuridici.
La violazione commessa da uno Stato membro non può costituire giustificazione per il
mancato rispetto degli obblighi dell’Unione da parte di altro Stato membro: ciò in quanto gli
Stati membri hanno la possibilità di far accertare l’inadempimento di un altro Stato attraverso
le varie procedure previste dai Trattati, senza dover far ricorso all’inosservanza dei loro
obblighi: dunque l’attuazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri non può
essere sottoposta ad alcuna condizione di reciprocità.
La responsabilità dello Stato è esclusa quando la decisione dell’Unione che esso non ha
osservato è stata presa in una materia di competenza esclusiva degli Stati membri.

La procedura.
Due procedure sono previste dal Trattato: su iniziativa della Commissione oppure su iniziativa
di uno o più Stati membri. Si distingue una fase precontenziosa (che può essere omessa) e una
fase contenziosa.
a) Iniziativa della Commissione.

La fase precontenziosa.
Quando la Commissione ritenga che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi
derivanti dal diritto dell’Unione, per conoscenza diretta o dietro richiesta di altro Stato
membro, o sollecitata da un esposto di privati, può d’ufficio iniziare la procedura per
inadempimento. La Commissione non è obbligata a dar corso alla procedura, neanche se
abbia ricevuto un reclamo puntuale, disponendo al riguardo di un ampio potere discrezionale:
dunque la sua decisione di iniziare oppure di non avviare la procedura non può formare
oggetto di ricorso in annullamento, né la sua inerzia o il suo silenzio formare oggetto di un
ricorso in carenza, poiché la fase precontenziosa non implica alcun atto giuridicamente
vincolante né può far nascere una sua responsabilità.
Dal momento in cui viene a conoscenza di elementi che facciano presumere l’esistenza di
un’infrazione, la Commissione istruisce la pratica, raccogliendo tutti gli elementi di
informazione e di valutazione necessari. In questa fase può chiedere spiegazioni allo Stato
membro coinvolto, che è tenuto a fornirle nel termine fissato: se lo Stato non risponde, la
Commissione può rivolgergli un “invito formale a rispondere”.
Il primo atto ufficiale della procedura è la lettera di messa in mora o di intimazione, nella
quale la Commissione comunica allo Stato i motivi del suo intervento, contesta gli addebiti e
invita lo Stato a presentare le sue ”osservazioni” entro un termine fissato (di solito due mesi):
la lettera è una condizione di forma sostanziale che condiziona la regolarità della procedura e
quindi la ricevibilità del ricorso successivo, poiché la facoltà concessa allo Stato di presentare
le sue osservazioni costituisce una garanzia fondamentale per l’esercizio del suo diritto di
difesa.
A seguito delle spiegazioni dello Stato, se queste siano ritenute sufficienti o se lo Stato abbia
posto termine all’infrazione, la Commissione può decidere di archiviare il caso; altrimenti, può
emanare un parere motivato, che chiude la fase precontenziosa, nel quale si ingiunge allo
Stato di porre fine alla violazione entro un termine che fissa discrezionalmente a seconda
della gravità del caso: se troppo breve o irragionevole, costituisce violazione dei diritti della
difesa e può comportare il rigetto del ricorso da parte della Corte. Il parere motivato contiene
un’esposizione dettagliata dei motivi che hanno indotto la Commissione a ritenere l’esistenza
dell’infrazione di un obbligo dell’Unione e gli elementi di fatto e di diritto da prendere in
considerazione nonché eventualmente l’indicazione delle misure che la Commissione ritiene
necessario siano adottate per porre termine alla violazione. Il parere motivato non può
discostarsi dai motivi e dagli addebiti già enunciati nella lettera di intimazione: solo questi
potranno essere discussi davanti alla Corte, mentre nuovi elementi di giudizio sono irricevibili,
poiché la lettera di intimazione ha appunto lo scopo di delimitare la materia del contendere e
allo stesso tempo di fornire allo Stato membro i dati necessari per preparare la sua difesa. Sia
la lettera di messa in mora che il parere motivato sono adempimenti necessari per la
regolarità della procedura, non solo perché necessari per garantire allo Stato la possibilità di
giustificarsi e difendersi, ma anche perché possono consentire di giungere al ristabilimento
della legalità comunitaria senza passare attraverso la fase giudiziaria.
Il parere motivato non può formare oggetto di ricorso in annullamento.
E’ escluso che possa essere consentito ai privati l’accesso ai documenti relativi alla fase
precontenziosa del procedimento per infrazione nel corso dei negoziati tra la Commissione e
lo Stato membro interessato. La divulgazione dei documenti potrebbe pregiudicare il corretto
svolgimento del procedimento e dunque essere in contrasto con l’interesse pubblico. Di
recente, la Commissione ha acconsentito a riconoscere ai privati denunzianti alcuni limitati
diritti di carattere procedurale, quale quello di avere conoscenza degli sviluppi della
procedura ed essere informati dell’intenzione di archiviare la denuncia.

La fase contenziosa.
La fase contenziosa si apre con la presentazione del ricorso alla Corte, qualora lo Stato in
causa non si conformi al parere della Commissione nel termine fissato. L’azione tuttavia non è
soggetta ad alcun termine, poiché anche in questa fase la Commissione resta libera di valutare
i tempi e l’opportunità del suo esercizio, o decidere di astenersi dall’adire la Corte anche se lo
Stato non ha eliminato il proprio inadempimento. Pertanto quest’ultima non può sindacare
l’opportunità dell’esercizio di tale facoltà e neanche un singolo può ritenersi legittimato a
impugnare il rifiuto della Commissione di avviare il procedimento di infrazione nei confronti di
uno Stato membro.
Incombe alla Commissione l’onere di provare l’esistenza di una violazione ma, quale
guardiana del Trattato, non deve dimostrare il suo interesse ad agire. I privati, anche se
abbiano presentato un reclamo alla Commissione, non possono intervenire nel procedimento.
L’adempimento da parte dello Stato interrompe la procedura; se interviene successivamente
nel corso del giudizio ma comunque prima della fase orale, la Commissione può rinunciare a
dar seguito al procedimento, ma tale rinuncia non implica alcun riconoscimento della liceità
del comportamento discusso né priva di oggetto il ricorso già avviato. La Commissione
conserva un interesse a proseguire ugualmente l’azione e ad ottenere una pronuncia
giudiziale sull’esistenza o meno della violazione, ad esempio al fine di stabilire un’eventuale
responsabilità dello Stato tanto nei confronti dell’Unione che degli altri Stati membri o dei
singoli: se ne ricava dunque che l’azione per infrazione non ha il solo scopo di ristabilire la
legalità comunitaria imponendo a uno Stato il rispetto dei suoi obblighi, ma può avere anche
quello di accertare la sua responsabilità e di fungere da precedente per eventuali altre
violazioni da parte dello stesso o di altri Stati membri.
La Corte può ordinare i provvedimenti provvisori che ritenga necessari, quali misure cautelari;
ad esempio può imporre allo Stato di sospendere l’applicazione di una misura interna fino
all’emanazione della sentenza.
L’inizio della fase contenziosa pone termine alla possibilità di negoziare con la Commissione le
modalità di applicazione delle disposizioni dell’Unione controverse.

b) Su iniziativa degli Stati membri.
Anche agli Stati membri è riconosciuta la possibilità di adire la Corte, siano o meno parti lese,
quando ritengano che un altro Stato membro abbia mancato a un obbligo dell’Unione;
tuttavia, prima di adire la Corte, devono rivolgersi alla Commissione: questa emette un parere
motivato, dopo aver chiesto agli Stati interessati di presentare in contraddittorio le
loro osservazioni. La Commissione è tenuta a formulare il parere sull’esistenza o meno della
violazione lamentata entro tre mesi dalla domanda: spetterà poi allo Stato reclamare, anche
sulla base del parere, decidere di adire o meno la Corte. La mancata emanazione del parere
non impedisce allo Stato di ricorrere ugualmente alla Corte, così come non glielo impedisce un
parere che risulti favorevole allo Stato convenuto. Questa procedura risulta poco utilizzata.

Procedura abbreviata.
In materia di aiuti di Stato, l’art 108 TFUE prevede che la Commissione controlli la
compatibilità di un aiuto concesso con il mercato comune e, nel caso constati la sua
incompatibilità, decida, dopo aver intimato agli interessati di presentare le loro osservazioni,
che debba essere soppresso o modificato nel termine da essa fissato; tale decisione può
formare oggetto di ricorso in annullamento. Qualora lo Stato non si conformi alla decisione in
parola, la Commissione può adire direttamente la Corte di giustizia con un ricorso per
infrazione senza passare attraverso la procedura precontenziosa.
Sempre in materia di concorrenza, l’art. 106. par. 3, TFUE, consente alla Commissione di
adottare decisioni o direttive rivolte agli Stati membri colpevoli di inosservanza degli obblighi
imposti in merito al trattamento delle imprese pubbliche o di quelle a cui si riconoscono diritti
speciali o esclusivi. In questo caso, la Commissione cumula i poteri di vigilanza e di
accertamento della violazione del Trattato, per cui la Corte può essere coinvolta solo in caso
di impugnazione della decisione della Commissione da parte dello Stato membro o dei privati
interessati.
L’articolo 114 TFUE, nel quale si prevede l’adozione da parte del Consiglio e del Parlamento,
secondo la procedura legislativa ordinaria, delle misure relative al riavvicinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che hanno per
oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. Tuttavia gli Stati membri, al
fine di limitare la portata di una misura di armonizzazione, possono chiedere di mantenere in
vigore disposizioni nazionali giustificate da esigenze importanti o relative alla protezione
dell’ambiente di lavoro o dell’ambiente, previa notifica alla Commissione. Anche dopo
l’adozione di misure di armonizzazione lo Stato membro può chiedere di introdurre
disposizioni nazionali per la protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, ma soltanto
se giustificate da nuove prove scientifiche e qualora siano insorti problemi specifici dopo
l’adozione della misura di armonizzazione. In entrambi i casi, la Commissione decide entro sei
mesi dalla notifica e la sua mancata risposta si considera come "silenzio assenso". Qualora la
Commissione ritenga che uno Stato membro faccia un uso abusivo di una facoltà, può adire
direttamente la Corte. Infine la Commissione può adire direttamente la Corte nel caso di uso
abusivo dei poteri previsti dall'art. 346 TFUE (misure necessarie alla tutela degli interessi
essenziali della propria sicurezza e che si riferiscano alla produzione o al commercio di armi,
munizioni e materiale bellico, purché non alterino le condizioni di concorrenza nel mercato
comune per quanto riguarda gli altri prodotti) e dall'art. 347 TFUE (misure prese
nell'eventualità di gravi agitazioni interne che turbino l'ordine pubblico, in caso di guerra e di
grave tensione internazionale).

La sentenza della Corte.
Quando la Corte accerta la violazione di un obbligo imposto dal diritto dell'Unione, lo Stato
membro è tenuto a prendere tutti i provvedimenti, atti ad eliminare l'infrazione, che
l'esecuzione della sentenza della Corte comporta, nel più breve tempo possibile: dovrà
dunque modificare od eliminare le norme che hanno originato l'infrazione in modo da
conformarle alle prescrizioni del diritto dell'Unione, o adottare comunque quelle misure
necessarie per far cessare la situazione di inadempienza che risultino anche adeguate a tal
fine.
La sentenza ha natura dichiarativa, limitandosi a constatare se sussiste la lamentata
violazione, e non può prescrivere allo Stato quali comportamenti dovrà tenere per porvi
rimedio. La Corte ha dichiarato che essa è tenuta a pronunciarsi, in mancanza di rinuncia agli
atti della Commissione, anche se lo stato riconosca il proprio inadempimento o abbia nel
frattempo adempiuto.
La sentenza si impone a tutte le autorità dello Stato, in particolare ai giudici nazionali che
dovranno garantirne l'osservanza e se del caso, disapplicare le disposizioni interne dichiarate
incompatibili col Trattato. La sentenza resa nell'ambito di questa procedura ha anche l'effetto
di fornire l'interpretazione del diritto dell'Unione, la quale si impone a tutti i giudici interni e li
solleva dall'obbligo del rinvio pregiudiziale; può anche fornire la base per un'azione interna ad
accertare la responsabilità patrimoniale dello Stato membro per violazione del diritto
dell'Unione.
Se lo Stato non si conforma alla sentenza che abbia accertato l'infrazione, ciò configura una
nuova violazione che può dar luogo a una nuova procedura di infrazione rivolta a far
constatare l'ulteriore inadempimento dello Stato con riguardo all'obbligo derivante dall'art.
260 TFUE.
Tale articolo prevede anche la possibilità che la Corte commini allo Stato inadempiente una
condanna pecuniaria che può consistere nel pagamento di una somma forfetaria o di una
penalità di mora, sulla base delle richieste avanzate dalla Commissione che abbia adito la
Corte per far constatare la mancata osservanza della precedente sentenza di condanna. La
Corte può decidere per l'una o l'altra sanzione, o per il loro cumulo, senza essere vincolata
dalla richiesta della Commissione. Questo secondo procedimento può essere attivato
esclusivamente su iniziativa della Commissione e non degli Stati membri, secondo una
procedura che prevede una fase precontenziosa meno articolata e dunque più breve: in
sostanza, la Commissione può adire la Corte dopo la lettera di intimazione e l'eventuale
replica dello Stato membro interessato, non essendo più necessaria l'adozione del parere
motivato. Identica è invece la fase contenziosa.
Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona la procedura di infrazione, da più parti criticata
per la sua lentezza, può in alcuni casi svolgersi con maggiore speditezza: l'art. 260, par. 3
TFUE, consente alla Commissione di chiedere alla Corte una pronunzia di condanna al
pagamento di una sanzione pecuniaria già in sede del primo ricorso in infrazione, ma soltanto
qualora lo Stato non abbia adempiuto all'obbligo di comunicare alla Commissione nel termine
previsto le misure adottate per dare attuazione ad una direttiva adottata secondo una
procedura legislativa.
Per quel che concerne il metodo di calcolo della somma forfettaria o della penalità, la
Commissione ha adottato tre comunicazioni in materia, precisando che il calcolo debba
avvenire sulla base di alcuni parametri, in particolare la gravità dell'infrazione, la durata di
quest'ultima e la necessità di imprimere alla sanzione un effetto dissuasivo onde prevenire le
recidive; nella determinazione della somma detti parametri vanno applicati utilizzando delle
variabili matematiche: un importo di base fisso, un coefficiente di gravità, un coefficiente di
durata, nonché un fattore che abbia riguardo alla capacità finanziaria dello Stato membro.
Nella determinazione dell’importo possono assumere rilevanza anche criteri che tengano
conto dei progressi eventualmente realizzati dallo Stato membro. La riscossione delle somme
dovute dallo Stato membro è attribuita alla Commissione.

11. Segue: il problema della sanzionabilità degli inadempimenti statali.
Gli inadempimenti statali rappresentano un vulnus al principio di leale collaborazione tra
Unione europea e Stati membri e anche un ostacolo di rilievo nell’ottica della progressiva
integrazione di cui solo la Corte di giustizia sembra essersi fatta carico.
Al riguardo, vanno menzionate alcune pronunzie della stessa:
• La sentenza Francovich;
• La sentenza Bresserie du Pecheur;
• La sentenza Hedley Lomas;
• La sentenza Kobler e la sentenza Traghetti del Mediterraneo.
In particolare, nel caso Francovich, di fronte alla mancata attuazione, da parte dello Stato
italiano, della direttiva del Consiglio, destinata a garantire ai lavoratori dipendenti un minimo
di tutela in caso d’insolvenza del datore di lavoro, la Corte di Giustizia stabilì che la piena
efficacia delle norme eurounitarie sarebbe stata messa a repentaglio e la tutela dei diritti da
esse riconosciuti sarebbe stata infirmata se i singoli non avessero avuto la possibilità di
ottenere un risarcimento, ove i loro diritti fossero risultati lesi da una violazione del diritto
eurounitario imputabile al proprio Stato.
Di qui, l’apprestamento da parte della Corte di una verifica circa la sussistenza del diritto al
risarcimento. Quest’ultimo viene infatti concesso al ricorrere di 3 condizioni:
1) Il risultato prescritto dalla direttiva deve implicare l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli;
2) Il contenuto di tali atti deve potersi individuare sulla base delle disposizioni della
direttiva;
3) Deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il
danno subito dai soggetti lesi.
In mancanza di una disciplina comunitaria, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale
relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno
provocato. Tuttavia, le condizioni stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia di
risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi
reclami di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere
eccessivamente o praticamente impossibile ottenere il risarcimento.
A queste indicazioni, l’ordinamento italiano ha dato seguito, identificando talora nell’INPS il
soggetto al quale occorre rivolgersi per fare valere il vantato diritto al risarcimento.
Nel secondo caso, Brasserie du Pecheur, la Corte ha mostrato di ampliare le prospettive della
precedente pronuncia, ritenendo che il principio secondo lui gli Stati membri sono tenuti a
risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili non
può essere esclusa qualora la violazione riguardi una norma di diritto comunitario
direttamente applicabile. Tale principio ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di
violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di
quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione.
Tra l’altro la Corte ha meglio precisato le condizioni di risarcibilità. Al riguardo è stato
sostenuto che deve trattarsi di una violazione grave e manifesta da parte dello Stato membro.
Fra gli elementi che il giudice competente può prendere eventualmente in considerazione
figurano il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere
discrezionale che tale norma consente alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere
intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o
inescusabilità di un eventuale errore di diritto. La violazione del diritto comunitario è grave e
manifesta quando sia perdurata nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato
l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una consolidata
giurisprudenza della Corte in materia.
Il terzo caso, Hedley Lomas, contribuisce anch’esso a precisare predetti principi, questa volta
sul piano del diritto amministrativo.
Negli ultimi casi invece, Kobler e Traghetti del Mediterrano, l’attenzione della Corte di giustizia
si sposta sul potere giudiziario e, in particolar modo, sull’attività delle Corti Supreme.
Al riguardo la Corte ha sostenuto che laddove i diritti dei singoli fossero lesi da una violazione
del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado
escludere la possibilità di ottenere un risarcimento comporterebbe una messa in discussione
della tutela accordata a tali diritti dalle norme comunitarie. Dunque i singoli non possono
essere privati della possibilità di far valere la responsabilità dello Stato per la decisione di un
organo giurisdizionale di ultimo grado al fine di ottenere una tutela giuridica dei loro diritti.
In tal caso, l’indipendenza del giudice non è pregiudicata in quanto la responsabilità in oggetto
non riguarda la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato.
La Corte ha inoltre sostenuto che il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che
escluda la responsabilità dello Stato laddove la violazione controversa risulti da
un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate
da un organo giurisdizionale di ultimo grado. Il diritto comunitario osta altresì ad una
legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa
grave del giudice.

12. LA PROCEDURA PREGIUDIZIALE COME CERNIERA TRA ORDINAMENTO EUROUNITARIO E
ORDINAMENTI NAZIONALI: CARATTERI GENERALI E ASPETTI PROCEDURALI.
Si tratta della procedura attraverso la quale si introduce un fattore essenziale di coesione e si
delinea un sistema giurisdizionale integrato fra Stati membri ed Unione. Suo tramite si
intende garantire l'interpretazione e l'applicazione uniforme del diritto dell'Unione all'interno
degli ordinamenti statali attraverso una stretta cooperazione tra i due livelli: cooperazione
che si fonda sulla distinzione e sul rispetto delle reciproche competenze. La Corte di giustizia
non può risolvere nel merito le controversie, può solo intervenire nell'ambito dei
procedimenti interni per fornire ai giudici nazionali le indicazioni cui essi debbano attenersi
nell'applicazione del diritto dell'Unione che venga in rilievo e risulti necessario per giungere
alla decisione.
La procedura pregiudiziale è intesa dal Trattato con due diverse funzioni. Attraverso il rinvio
pregiudiziale d’interpretazione si vuole assicurare l'applicazione corretta e uniforme del diritto
dell'Unione da parte di tutti i giudici degli Stati membri. Attraverso il rinvio pregiudiziale di
validità si vuole invece garantire il rispetto del principio di legalità all'interno dell'ordinamento
dell'Unione, evitando al tempo stesso soluzioni difformi: infatti l'esistenza di divergenze tra i
giudici degli Stati membri sulla validità degli atti comunitari potrebbe compromettere la stessa
unità dell'ordinamento giuridico comunitario ed attentare all’esigenza della certezza del
diritto.
Entrambi i tipi di rinvio sono sottoposti alle stesse regole anche se rispondono a logiche
diverse.
La procedura pregiudiziale è avviata dalla decisione di un giudice interno di adire la Corte di
giustizia quando reputi che si ponga un problema di interpretazione del diritto dell'Unione o
di validità di un atto derivato nel corso di un procedimento pendente dinanzi ad esso. Spetta
solo al giudice nazionale valutare in che misura la questione di validità o di interpretazione
risulti necessaria per emanare la sua decisione e tale valutazione è sottratta l'apprezzamento
della Corte.

FACOLTÀ ED OBBLIGO DI RINVIO. PROCEDURA.
Rispetto alle altre procedure esaminate, non si tratta di un ricorso di parte, ma di un
provvedimento giurisdizionale volto ad attivare un processo “incidentale” davanti alle Corti
eurounitarie. Infatti, quando dinanzi ad una giurisdizione nazionale si pone un problema di
interpretazione del diritto dell'Unione o di validità di un atto delle istituzioni la cui risoluzione
si ritenga necessaria per decidere la controversia, questa chiederà alla Corte di pronunciarsi
sulla questione: ma occorre distinguere a seconda che il giudice del rinvio sia o meno di ultima
istanza. Se si tratta di un giudice le cui decisioni possono essere sottoposte ad ulteriori grado
di giudizio, esso ha la semplice facoltà di rinviare alla Corte, dunque può pronunciarsi esso
stesso sull'interpretazione del diritto dell'Unione e sulla validità di un atto; quando invece si
tratti di un giudice avverso le cui decisioni non possa essere proposto ricorso in via
giurisdizionale, esso deve rivolgersi alla Corte.
L'inosservanza di tale dovere può condurre ad un procedimento di infrazione nei confronti
dello Stato membro cui appartiene l'organo giudiziario per violazione del Trattato; può
fondare altresì un'azione per il risarcimento del danno promossa dal privato danneggiato nei
confronti dello Stato membro cui appartiene la giurisdizione di ultima istanza che abbia
emanato una decisione definitiva in contrasto con una norma dell'Unione o con
l'interpretazione di essa successivamente fornita dalla Corte di giustizia, tale omissione
integrando da sola gli estremi di una violazione sufficientemente caratterizzata.
L’iniziativa di operare il rinvio spetta unicamente al giudice interno che può essere sollecitato
in tal senso dalle parti, ma non è tenuto a seguire la loro richiesta di rivolgersi alla Corte,
mentre può decidere di sollevare d'ufficio la questione anche contro il consenso delle parti.
La questione può essere sollevata in qualsiasi stadio del procedimento interno e spetta al
giudice nazionale la scelta del momento più utile per operare il rinvio; anche se può essere
vantaggioso che gli elementi di fatto e di diritto siano già stati chiariti in modo da consentire
alla Corte di poter valutare adeguatamente il quesito posto.
Rientra sempre nella competenza del giudice interno la decisione sull'opportunità di proporre
un rinvio pregiudiziale, la formulazione e il contenuto del quesito, la sua pertinenza per la
soluzione della controversia, essendo il solo a conoscenza diretta dei fatti controversi e delle
argomentazioni delle parti.
Di fronte alla richiesta del giudice nazionale, la Corte non può sottrarsi al suo dovere di
emanare una pronuncia a meno che ritenga che questa esca dalla propria competenza.
Naturalmente spetta solo ad essa decidere sulla presenza dei requisiti di ricevibilità e
dichiarare questi giudizi irricevibili quando ritenga non sussistano le condizioni per il corretto
esercizio della sua competenza pregiudiziale. Non può invece pronunciarsi sulla rilevanza della
questione per la soluzione della controversia dell'ordinamento interno.

La sollevazione della questione pregiudiziale determina la sospensione del processo in corso
(c.d. sospensione impropria) analogamente a quanto avviene per la sollevazione delle
questioni di costituzionalità. La presa in carico della questione da parte del giudice
eurounitario determina l’avvio della fase pregiudiziale che, però, non potrebbe correttamente
svolgersi senza assicurare la possibilità di un opportuno contraddittorio nel prosieguo del
giudizio. A ciò è, del resto, finalizzata la trasmissione dell’ordinanza (con cui il giudice
nazionale solleva la questione pregiudiziale), a cura del cancelliere della Corte, alle parti in
causa, agli Stati membri e alla Commissione, al Parlamento europeo e al Consiglio.
L’ordinanza di rinvio deve avere determinate caratteristiche. E’ infatti indispensabile che il
giudice nazionale chiarisca i motivi per i quali egli ritiene necessaria la soluzione delle
questioni ai fini della definizione della controversia. Un’insufficienze dell’ordinanza sotto
questo profilo sarebbe dunque motivo d’irricevibilità della richiesta avanzata dal giudice
nazionale. In numerose occasioni la Corte ha sostenuto che il suo dovere di pronunciarsi non
opera quando risulti il carattere fittizio della controversia o sia manifesto che la disposizione
del diritto dell'Unione sottoposta ad interpretazione non possa essere applicata nel caso di
specie. Tuttavia, talora la Corte ha temperato la sua posizione affermando che il carattere
fittizio della controversia deve risultare in modo manifesto dagli elementi di fatto indicati
nella decisione di rinvio. Inoltre la Corte si è riservata di dichiarare irricevibili questioni
giudicate manifestatamente irrilevanti per la soluzione della controversia principale: così si è
rifiutata di rispondere a questioni aventi come fine quello di farle emanare dei pareri
consultivi su questioni generali o non pertinenti, cioè non corrispondenti ad un bisogno
obiettivo inerente alla soluzione di una controversia.
Inoltre la Corte dichiara irricevibili i quesiti pregiudiziali quando li ritiene troppo generici o
quando a suo parere le indicazioni fornite nell'ordinanza di rinvio sono troppo imprecise per
consentirle di dare una risposta utile per la soluzione della causa.
I soggetti ai quali l’ordinanza va notificata, entro il termine di 2 mesi dalla notificazione,
possono presentare alla Corte memorie ovvero osservazioni scritte, cui, però sarà data la
possibilità di replicare sono nell’eventuale discussione in udienza. La fase orale dunque è
facoltativa in quanto le parti potrebbero non avanzare alcuna domanda di essere sentite.
Qualora una questione pregiudiziale sia identica ad una questione già risolta o la cui soluzione
sia chiaramente desumibile dalla giurisprudenza, la Corte, dopo aver sentito l’avvocato
generale, può, con ordinanza motivata, emettere la propria statuizione in qualsiasi momento
della procedura. Con uguali modalità, essa può procedere qualora la soluzione della questione
pregiudiziale non dia adito a dubbi ragionevoli.
La Corte può inoltre, nella fase istruttoria, richiedere alle parti di produrre tutti i documenti e
di fornire tutte le informazioni che essa reputi desiderabili, prendendo atto dell’eventuale
rifiuto. Essa può, parimenti, richiedere agli Stati membri e alle istituzioni, che non siano parti
in causa, tutte le informazioni che ritenga necessarie ai fini del processo. Vi è inoltre la
possibilità per il giudice eurounitario di richiedere chiarimenti al giudice nazionale.

LA NOZIONE DI ORGANO GIURISDIZIONALE NAZIONALE.
La Corte di giustizia ha indicato alcuni requisiti che gli organi interni devono rivestire per
potersi ritenere giurisdizioni e dunque essere abilitati a rivolger quesiti pregiudiziali:
l'obbligatorietà della giurisdizione, il compito di applicare il diritto, il carattere permanente
dell'organo, la sua costituzione per legge; inoltre l'organo deve rivestire carattere
indipendente e una posizione di terzietà rispetto a quello che ha adottato la decisione oggetto
del ricorso.
Inoltre vengono in rilievo anche le caratteristiche del procedimento che si svolge dinanzi alle
giurisdizioni nazionali nonché le funzioni svolte dall'organismo in questione.
Per quanto riguarda, in particolare, l’ordinamento italiano, sono stati fatti rientrare nella
nozione di giurisdizione il giudice istruttore, il giudice cautelare, il Consiglio nazionale forense
in sede di appello avverso le sanzioni preliminari irrogate dagli organi periferici, la stessa Corte
Costituzionale. Sono stati invece esclusi gli arbitri, il Procuratore della Repubblica, la Corte dei
conti e il giudice in sede di volontaria giurisdizione.

13. Segue: tipologia ed esiti della procedura pregiudiziale.
In virtù dell’art 267 TFUE possiamo distinguere tra:
1) Rinvio pregiudiziale d’interpretazione;
2) Rinvio pregiudiziale di validità.

IL RINVIO PREGIUDIZIALE DI INTERPRETAZIONE.
Le richieste di interpretazione possono riguardare in primo luogo il diritto primario
dell’Unione, cioè i Trattati istitutivi e quelli integrativi o modificativi, i protocolli annessi e gli
accordi di adesione. La Corte è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità e
sull'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi
dell'Unione; dunque in primo luogo anche dal Parlamento, dalla Corte dei conti, dalla Banca
centrale europea e dal Consiglio europeo. In secondo luogo, in base ad una nuova
formulazione accolta dal Trattato di Lisbona, la Corte ha oggi competenza ad interpretare
anche gli atti degli organi e degli organismi creati con atto del Consiglio, in particolare degli
organi consultivi. Gli atti adottati dalle istituzioni possono essere oggetto di interpretazione
indipendentemente dalla loro denominazione anche se atipici o non nominati, dal loro
carattere vincolante o meno, dalla loro efficacia diretta.
La questione di interpretazione può vertere anche sull'interpretazione dei principi generali del
diritto dell'Unione, compresi quelli in materia di diritti fondamentali. Anche le sentenze della
Corte possono formare oggetto di rinvio pregiudiziale di interpretazione sia quando rese in via
pregiudiziale sia nell'ambito di altre procedure.
La competenza pregiudiziale della Corte si estende anche all'interpretazione delle norme di
diritto internazionale generale. Lo stesso vale per gli accordi internazionali stipulati
dall'Unione assimilabili ad atti presi dalle istituzioni e facenti parte integrante del diritto
dell'Unione, in particolare per quanto riguarda gli accordi di associazione. Per quel che
riguarda gli accordi misti, si pone il problema di chiarire se la competenza della Corte si
estenda alle sue disposizioni rientranti nella competenza dell'Unione oppure all’insieme
dell'accordo in quanto la sua conclusione da parte del Consiglio riguarda l'intero accordo.
La competenza pregiudiziale della Corte si estende inoltre agli accordi conclusi da Stati
membri con Stati terzi ma vincolanti l'Unione, laddove, in virtù di una successiva attribuzione
di competenze, si realizzi la sostituzione di quest’ultima agli Stati membri. La competenza
della Corte resta invece esclusa per gli accordi bilaterali conclusi tra Stati membri anche se
riguardanti materie di interesse dell'Unione e per quelli conclusi fuori del quadro dell'Unione
a meno che una clausola espressa di tali convenzioni non attribuisca alla Corte tale
competenza.
Infine la competenza pregiudiziale della Corte è anche prevista da alcuni protocolli per
l'interpretazione di convenzioni stipulate tra Stati membri.
La Corte invece non è competente a pronunciarsi sull'interpretazione o sulla validità di
disposizioni diverse da quelle di diritto dell'Unione. La questione pregiudiziale non può quindi
vertere sull'interpretazione o sulla legittimità della norma interna o sulla sua incompatibilità
con norme dell'Unione: tali compiti spettano al giudice nazionale del rinvio, a meno che la
norma interna in questione non rimandi al diritto dell'Unione e per la sua applicazione si
rende necessaria l'interpretazione di questo. La Corte si è comunque dichiarata competente a
fornire gli elementi di interpretazione sul significato del diritto dell’Unione necessari per
consentire al giudice interno di risolvere la controversia o per individuare la portata di
disposizioni di diritto interno.

IL RINVIO PREGIUDIZIALE DI VALIDITÀ.
La pronuncia pregiudiziale di validità consente alla Corte di esercitare un controllo di
legittimità sugli atti delle istituzioni, organi o organismi dell'Unione aventi valore vincolante
anche se sprovvisti di efficacia diretta. Per quanto riguarda le decisioni individuali, la Corte
sembra orientata nel senso di non poterne esaminare la validità in sede pregiudiziale qualora i
loro destinatari non le abbiano impugnate tempestivamente mediante il ricorso in
annullamento.
Se i ricorrenti non sono in grado di chiedere l'annullamento della decisione controversa,
hanno sempre la possibilità di impugnare i provvedimenti nazionali adottati in applicazione
della decisione e di eccepire l’illegittimità di questi ultimi dinanzi al giudice nazionale.
Il controllo sulla validità degli atti operato dalla Corte nel contesto della sua competenza
pregiudiziale è analogo a quello esercitato nell'ambito del ricorso in annullamento con la
differenza che quando i giudici nazionali ritengano di adire la Corte in via pregiudiziale perché
si pronunci sulla validità di un atto dell'Unione, non operano le condizioni restrittive in
materia di ricevibilità previste in particolare per i privati, che si applicano al ricorso in
annullamento. Tale mezzo consente di completare il sistema di tutela giurisdizionale
soprattutto per quanto riguarda i singoli poiché dà loro la possibilità di tutelarsi nei confronti
di atti a portata normativa generale rispetto ai quali è loro preclusa l'azione diretta in
annullamento.
Le sentenze della Corte non possono formare oggetto di rinvio pregiudiziale di validità data la
loro autorità di cosa giudicata.
Le giurisdizioni nazionali, anche se non di ultima istanza, non hanno il potere di dichiarare
invalidi gli atti dell'Unione dovendo dunque in ogni caso adire la Corte se nutrono dubbi sulla
loro validità.
Qualora il giudice interno abbia proposto il ricorso e nutra dubbi sulla validità dell'atto
dell'Unione, può sospendere l'applicazione di misure interne di esecuzione dell'atto purché
ricorrano gli estremi dell'urgenza e del rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per la
parte; allo stesso modo può concedere la sospensione provvisoria dell'applicazione di una
norma interna che si allega contraria al diritto dell'Unione in attesa della pronuncia definitiva
della Corte.

I LIMITI DELL'OBBLIGO DI RINVIO.
La decisione circa l'esistenza di una questione, cioè di un dubbio interpretativo o di validità,
non può non rientrare nella valutazione del giudice interno anche quando di ultima istanza,
che non può essere privato di tale potere, se questi non la ritenga sussistente o la ritenga non
pertinente ossia se la sua soluzione non appare in alcun modo influire sull'esito della lite,
ovviamente non sarà obbligato a rivolgersi a Corte di giustizia.
In secondo luogo la stessa Corte ha indicato alcune situazioni in cui l'obbligo del rinvio può
non sussistere: quando la Corte si sia già pronunciata in relazione ad analoga fattispecie o su
una questione materialmente identica, il giudice nazionale potrà astenersi dal sollevare il
rinvio pregiudiziale e basarsi sul precedente.
Resta ferma la facoltà del giudice di riproporre comunque la questione o perché ritenga di
poter addurre nuove argomentazioni o perché non convinto delle motivazioni della sentenza
della Corte oppure contando su un mutamento della sua giurisprudenza. Un ulteriore
temperamento deriva dall'applicazione del principio dell'atto chiaro, accolto della Corte di
giustizia. Essa ha affermato che il giudice di ultima istanza può astenersi dal rinviare alla Corte
di giustizia quando l'applicazione corretta del diritto comunitario si impone con tale evidenza
da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione
sollevata. Tuttavia la Corte ha corretto tale principio precisando che il giudice nazionale deve
porsi in un'ottica comunitaria: cioè deve convincersi che la stessa evidenza imporrebbe anche
ai giudici degli altri Stati membri e alla stessa Corte di giustizia; inoltre deve tener conto delle
caratteristiche del diritto dell'Unione e delle difficoltà particolari che presenta la sua
interpretazione in modo da escludere il rischio di interpretazioni divergenti all'interno
dell'Unione europea.
L'indicazione della Corte suscita tuttavia alcune perplessità circa la sua concreta praticabilità e
corretta utilizzazione.
A tali perplessità la Corte di giustizia ha cercato di porre fine chiarendo che le deroghe
all'obbligo del giudice di ultima istanza di proporre una questione pregiudiziale enunciate
nella sentenza citata non trovano applicazione quando la questione riguarda la validità di un
atto dell'Unione anche nell'ipotesi che abbia già dichiarato l'invalidità di disposizioni analoghe:
infatti atti apparentemente simili possono rilevare delle differenze in ragione del contesto
giuridico o del merito; l’esistenza di divergenze tra giudizi nazionali sulla validità degli atti
dell’Unione potrebbe compromettere l’unità dell’ordinamento giuridico e la certezza del
diritto: ecco perché la Corte di giustizia resta l’organo più idoneo a pronunciarsi sulla validità
degli atti dell’Unione.

NATURA ED EFFETTI DELLE SENTENZE PREGIUDIZIALI.
Le sentenze pregiudiziali della Corte di giustizia hanno carattere dichiarativo, sono rese al
termine di una procedura instaurata da giudice a giudice, senza parti e di natura non
contenziosa. Il giudice del rinvio è vincolato a tenerne conto nella soluzione della causa: il loro
mancato rispetto può formare oggetto di impugnativa interna o configurare gli estremi di una
violazione del Trattato rispetto alla quale la Corte potrebbe essere ulteriormente adita con un
ricorso per infrazione. Inoltre non è escluso che la violazione della sentenza possa provocare
danni patrimoniali per il cui ristoro gli interessati possono dar luogo ad un'azione di
responsabilità dello Stato dinanzi ai giudici interni. Tuttavia il giudice interno potrà operare un
nuovo rinvio pregiudiziale qualora incontri difficoltà di comprensione o di applicazione della
sentenza resa, se ritenga la risposta inadeguata o incapace di fornire gli elementi utili per la
soluzione della causa o se sottoponga nuovi elementi di valutazione.
In particolare, le sentenze pregiudiziali di interpretazione vincolano il giudice che ha operato il
rinvio ad applicare la norma dell'Unione come interpretata dalla Corte, disapplicando
all'occasione la norma interna in contrasto.
La sentenza pregiudiziale che dichiara l'invalidità dell'atto dell'Unione s’impone al giudice di
rinvio: l'atto non potrà pertanto trovare applicazione. Tuttavia la Corte ha esteso tale effetto
all'insieme delle giurisdizioni degli Stati membri notando che la pronuncia di invalidità, pur
avendo come destinatario solo il giudice del rinvio, costituisce ragione sufficiente per ogni
altro giudice di considerare tale atto come invalido, salvo ritenga avere interesse a sollevare
nuovamente la questione di validità in caso di incertezza sulla portata e sulle conseguenze
dell'invalidità pronunciata. Per effetto della sentenza che dichiara l'invalidità di un atto,
l’istituzione che l’ha emanato deve adottare le misure necessarie per eliminare i vizi
riscontrati, modificandolo o abrogandolo.
Le sentenze pregiudiziali di interpretazione o dichiarazioni di invalidità hanno effetto
retroattivo e si applicano dunque anche a situazioni pregresse sorte anteriormente alla
sentenza purché non esaurite.
Una volta che la fase incidentale presso la Corte eurounitaria si sia esaurita con l’emissione
della sentenza, gli atti del processo vengono restituiti al giudice nazionale a quo, al quale
come a tutte le parti processuali, viene notificata la sentenza medesima.

14. Altri punti d’incontro e di confronto tra giurisdizione eurounitaria e giurisdizione
costituzionale nazionale.
Circa il rapporto tra Corte di giustizia e Corte costituzionale, la Corte costituzionale, per un
certo tempo, aveva negato di essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali, in
quanto i compiti ad essa affidati (essenzialmente di controllo costituzionale e di suprema
garanzia della Costituzione) erano ben diversi da quelli propri degli organi giurisdizionali. Di
conseguenza, sarebbe spettato soltanto al giudice a quo, secondo la teoria della doppia
pregiudizialità, proporre quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia, per poi rivolgersi alla Corte
costituzionale solo qualora il dubbio di costituzionalità della norma interna non potesse
essere superato grazie alla pronuncia della prima.
Tuttavia, questo atteggiamento di chiusura mutò ed infatti la Corte osservò che essa potesse
essere qualificata come una giurisdizione nazionale quando essa diviene giudice di ultima
istanza della controversia, come nel caso di conflitto di attribuzioni tra Stato e regioni,
conseguendone l’obbligo di effettuare in proprio il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia,
tanto che in caso contrario risulterebbe leso il generale interesse all’uniforme applicazione del
diritto comunitario.

15. Il diritto eurounitario (ed il diritto nazionale applicativo) tra Corte di giustizia e Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Relativamente alla tutela dei diritti fondamentali occorre ricordare che un ruolo di primo
piano continua ad essere esercitato dal ricorso alla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), nonostante non abbia avuto esito il
tentativo di adesione della Comunità a metà degli anni '90.
E' importante in tale sede analizzare alcuni aspetti della dinamica delle relazioni tra
giurisdizioni (ordinamento eurounitario e CEDU) soprattutto in prospettiva dell'adesione
dell'UE alla CEDU, prevista dall'art 6 commi 2° e 3° del TUE.
Si tratta tuttavia di una problematica non nuova, essendosi già presentata nel rapporto tra
ordinamenti interni degli Stati che hanno sottoscritto la CEDU e le norme della CEDU stessa.
In primo luogo, occorre fare riferimento alla sentenza n. 129 del 2008 della Corte
costituzionale, in cui si è affrontato il problema dell’eventuale contrasto tra le giurisdizioni dei
2 sistemi diversi, CEDU e nazionale, con l’invito al legislatore interno ad adottare i
provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze
della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato violazioni ai principi sanciti
dall’art 6 della CEDU.
L’attenzione va maggiormente posta sulle sent del 2007 (c.d. sentenze gemelle) della stessa
Corte costituzionale, per cui le norme della CEDU integrano, quali norme interposte, il
parametro costituzionale espresso dall’art 117 comma 1 Cost, nella parte in cui impone la
conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Nel caso pertanto di un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma CEDU, il
giudice nazionale, verificata preventivamente la praticabilità di una interpretazione della
prima conforme alla norma convenzionale, deve, in caso di esito negativo, denunciare la
rilevata incompatibilità, sollevando una questione di legittimità costituzionale in relazione al
parametro sopra indicato.
La Corte poi con sentenza del 2011 ha sostenuto che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU
fanno parte dell’Unione in quanto principi generali.
La Corte europea di Strasburgo ebbe origine nel 1959. Ad essa fu attribuito il compito di
rendere più efficace la tutela dei diritti umani ed anche la possibilità di emettere dei pareri
relativi all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà contemplati dalla
Convenzione. Essa è strutturata in 5 sezioni, ciascuna con un Presidente ed un Vicepresidente,
nel cui ambito operano le Camere giurisdizionali. Una Grande Camera, composta da 17 giudici,
si occupa di rivolvere le questioni attinenti a gravi problemi di interpretazione o applicazione
della Convenzione o dei suoi Protocolli.
La problematica relativa all’adesione dell’UE alla CEDU è stata risolta nell’ambito dei negoziati
di adesione. Tali negoziati hanno condotto alla sottoscrizione di un progetto nel 2013, anche
se il traguardo finale non parrebbe imminente in quanto è stato affermato che siano ancora
necessarie numerose tappe affinché l’adesione effettivamente si realizzi.
L’adesione è condizionata ad una deliberazione unanime del Consiglio e sottoposta alla
ratifica di ciascuno Stato membro e deve comunque garantire che siano preservate le
caratteristiche specifiche dell'Unione e del diritto dell’Unione. Con l'adesione sarà
sicuramente fissata la competenza della Corte EDU a controllare gli atti adottati dall'Unione:
quelli di diritto derivato e quelli di diritto originario, tra cui la stessa Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea.
E’ stato poi precisato come il diritto nazionale applicativo del diritto eurounitario non benefici
di alcuno statuto particolare, restando, dunque, lo Stato aderente alla Convenzione
responsabile delle scelte effettuate in sede applicativa. Nel caso però in cui lo Stato risulti
privo di discrezionalità applicativa e del tutto vincolato dal precetto eurounitario, la verifica
operata dalla Corte finisce per investire scelte appartenenti al livello eurounitario.
L’adesione alla CEDU inoltre non deve alterare in nessun modo né le competenze dell’Unione
europea, né incidere sulle attribuzioni delle sue istituzioni.
Nessuna disposizione dell’accordo di adesione può produrre effetti sulla situazione già in atto
per i singoli Stati membri per effetto della loro pregressa adesione al sistema CEDU, nel senso
cioè di lasciare inalterata la misura di tale adesione in dipendenza, ad esempio, di eventuali
riserve espresse al momento dell’adesione (c.d. protezione equivalente).
L’adesione non deve essere tale da escludere un dialogo regolare fra la Corte di giustizia e la
Corte europea dei diritti dell’uomo, ma deve trattarsi di un dialogo che deve essere rafforzato.
In passato la Corte di giustizia non ha esitato ad emettere pronunce contrastanti con quelle
della Corte EDU.
Opinione prevalente e diffusa è che, con l'adesione, sarà il diritto eurounitario ad aprirsi al
controllo di convenzionalità (mediante la via del ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo per la
tutela dei diritti protetti dalla stessa Convenzione) e saranno sottoposte a verifica le stesse
decisioni prese dalla Corte di giustizia.


CAPITOLO VIII
UNIONE EUROPEA ED AUTONOMIE TERRITORIALI
1.Le Regioni nella prima fase dello sviluppo eurounitario tra carenze istituzionali ed esigenze
sostanziali.
La sensibilità nei confronti delle realtà territoriali nella struttura istituzionale dell’Unione è
maturata in tempi relativamente lunghi.
Nel Trattato di Roma, non si faceva alcun riferimento alla Regione. Tuttavia occorre
sottolineare come nel Preambolo dello stesso Trattato si guardasse già con preoccupazione
allo scarto economico esistente tra le differenti Regioni e al ritardo delle meno favorite.
Un punto di partenza può riconoscersi nella deliberazione del 1960 del Parlamento europeo
con cui lo stesso sollecitò l'istituzione di un organismo di tipo consultivo denominato allora
Comitato consultivo sulle economie regionali, avente come finalità quella di rendere partecipi
i governi regionali e locali alla determinazione delle politiche coinvolgenti le comunità
territoriali.
Successivamente, la Commissione ritenne opportuno dotarsi di una Direzione generale
competente per la trattazione dei problemi regionali. Venne poi istituito il Fondo Europeo di
Sviluppo Regionale (FESR), per sostenere l'economia delle Regioni meno progredite, insieme
ad un Comitato per le politiche regionali operante presso il Consiglio e la Commissione e
composto da alti funzionari degli Stati membri.
Tuttavia il suddetto Comitato non parve, in un momento iniziale, corrispondere in maniera
soddisfacente alle sollecitazioni del Parlamento e quindi nel 1984 venne approvata una
dichiarazione comune del Consiglio, della Commissione e del PE, con cui veniva assunto
l'impegno di costruire un sistema di relazioni più efficace tra Commissione e Governi regionali
e locali.
Nella direzione di una doverosa valorizzazione delle realtà territoriali si pronunciava nel 1985
anche il Consiglio d'Europa con l'adozione della Carta europea delle autonomie locali.
Con l’AUE si ebbe poi il varo della politica concernente la coesione economica e sociale,
avente tra i suoi obiettivi la promozione dello sviluppo e l’adeguamento strutturale delle
Regioni d’Europa affette da ritardo nella crescita e, in generale, la riconversione economica e
sociale delle zone con difficoltà strutturali.
Il coinvolgimento diretto anche nell’elaborazione delle politiche economiche d’interesse
regionale ebbe luogo per la prima volta grazie alla creazione da parte della Commissione del
Consiglio consultivo delle collettività regionali e locali (CCCRL), composto da 42 membri.
Fu soltanto durante il Consiglio europeo di Roma nel 1990 che cominciò a profilarsi una
soluzione organizzativa ritenuta maggiormente adeguata, destinata ad essere approvata, con
la denominazione di Comitato delle Regioni, a Maastricht nel 1992. Tale comitato entro in
funzione nel 1994, costituendo la prima istanza comunitaria in grado di farsi portavoce dei
livelli intermedi di governo presenti nei singoli Stati membri. Da allora la vicenda delle Regioni
a livello istituzionale ha in gran parte coinciso con l’attività di tale Comitato.

2. Il Comitato delle Regioni.
Ha sede a Bruxelles ed è composto attualmente da un numero di membri pari a 353 e da un
numero uguale di supplenti. La determinazione del numero esatto dei componenti si deve al
Consiglio, che, su proposta della Commissione delibera all’unanimità, mentre la loro nomina
spetta allo stesso Consiglio (che, in sostanza, ratifica le proposte presentate dagli Stati
membri). I membri durano in carica 5 anni che sono rinnovabili. Lo status dei membri è
caratterizzato da una piena indipendenza, non vincolabile da alcun mandato imperativo.
A garanzia della sua autonomia, spetta allo stesso Comitato eleggere tra i suoi membri il suo
Presidente e l’Ufficio di Presidenza per la durata di 2 anni e mezzo, nonché deliberare il
proprio regolamento interno.
Esso è, inoltre, in grado di autoconvocarsi, oltre a doversi adunare a richiesta del Parlamento
europeo, del Consiglio o della Commissione.
A così forti garanzie, corrisponde però, un ruolo ancora debole dell’organo, limitato, infatti, ad
un attività di carattere consultivo. Inoltre, anche quando il parere debba essere richiesto
obbligatoriamente, esso non ha mai efficacia vincolante e la sua mancata emissione nel
termine fissato dalla richiesta non paralizza l’attività decisionale rispetto alla quale il parere
sarebbe dovuto essere strumentale. Questa configurazione dell’organo ha impedito che
potesse ad esso essere riconosciuto lo statuto proprio di istituziona eurounitaria, non
diversamente dal Comitato economico e sociale.
Dopo la sua creazione l’organo ha visto, con il Trattato di Amsterdam, rafforzare la sua
autonomia organizzativa, sia l’ambito delle sue competenze consultive, mentre anche il
Parlamento europeo è entrato a far parte, accanto alla Commissione e al Consiglio, del novero
degli organi potenzialmente interessati ad un suo parere.
Con il trattato di Nizza si è provveduto ad esaltare ancora di più la legittimazione democratica
del Comitato, individuandosi, quale requisito per la nomina a componente dell'organo la
titolarità di un mandato elettivo presso una collettività regionale o locale, o alternativamente
la qualità di soggetto politicamente responsabile dinnanzi ad una assemblea elettiva.
Il lavoro del Comitato è distribuito tra l’Assemblea plenaria e le Commissioni competenti per
fasci di materie: coesione territoriale, politica economica e sociale, ambiente, cambiamenti
climatici, educazione e cultura, cittadinanza, questioni finanziarie ecc.

3. Attualità e prospettive del Comitato delle Regioni.
Maggiormente interessanti sono le competenze consultive di carattere obbligatorio del
Comitato delle Regioni, vertenti ormai in tutti gli ambiti d’intervento dell’Unione. La funzione
consultiva può essere facoltativamente attivata in tutti i casi in cui le istituzioni lo ritengano
opportuno e, in particolare, in materia di cooperazione transfrontaliera. Inoltre il Comitato
potrebbe non solo formulare pareri di propria iniziativa, ma anche attivarsi a seguito di un
parere richiesto al Comitato economico e sociale, quando siano in causa interessi regionali
specifici. Accanto a questa funzione, è prevista la facoltà per il Comitato di redigere rapporti e
adottare risoluzioni, si pure (ma non solo) strumentali alla formulazione dei pareri.
Esistono dei principi che presiedono all’esercizio di tutte queste competenze:
1) Principio di sussidiarietà. Tale principio è legato geneticamente al Comitato delle
Regioni essendo stati contemplati insieme per la prima volta nel Trattato di Maastricht.
Tanto importante è, in materia, il ruolo del Comitato, da esserne ammessa la
legittimazione a ricorrere alla Corte di giustizia, in caso di supposta violazione del
principio suddetto;
2) Principio di prossimità. Ne è evidente il collegamento col principio di sussidiarietà,
consistendo nella vicinanza ai cittadini degli organi amministrativi incaricati di dare ad
esecuzione puntuale le prescrizioni generali che determinano i vari obiettivi,
accompagnata, tuttavia, da criteri di lavoro trasparenti, così che siano identificabili gli
agenti responsabili con cui, nel caso, direttamente interloquire;
3) Principio di partenariato. Esso implica che i livelli interessanti allo sviluppo locale
(Unione europea, Stati e collettività locali) siano tutti associati sia nell’elaborazione, sia
nell’attuazione, sia nella verifica delle politiche connesse allo sviluppo locale. Questo
principio risulta particolarmente importante in quanto il progressivo maggior
coinvolgimento delle autonomie territoriali nella determinazione delle politiche
eurounitarie è la strada individuata dal Comitato delle Regioni anche per l’acquisizione
di una posizione di una posizione di accresciuto livello di rilievo nel quadro
eurounitario.

Degna di nota è, infine, la legittimazione del Comitato delle Regioni a proporre ricorsi in
annullamento e in carenza a difesa delle proprie prerogative.

4. I raccordi tra Comitato delle Regioni ed il livello nazionale delle autonomie locali.
Circa i rapporti tra il livello dell’Unione europea e quello interno costituito dalle autonomie
(regionali e locali) sembrerebbe ragionevole individuare nella partecipazione italiana al
Comitato delle Regioni una prima sede idonea a convogliare, verso le Istituzioni europee, le
istanze provenienti dal sistema interno delle autonomie.
Richiamata l’incompatibilità posta dalla normativa italiana tra appartenenza al Comitato e
appartenenza al PE, la designazione dei membri assegnati all’Italia (attualmente 24 titolari e
24 supplenti) è rimessa ad una proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri formulata, su
indicazione di diversi organismi rappresentativi e sulla base di un’intesa raggiunta in senso alla
Conferenza unificata.
I soggetti dotati dei requisiti necessari per la nomina sono identificati nei Presidenti delle
Regioni e delle Province di Trento e di Bolzano, nei Presidenti delle Province, nei sindaci e nei
componenti dei rispettivi consigli e delle giunte: se ciò contribuisce a dare autorevolezza alla
delegazione italiana, probabilmente però ne indebolisce la capacità operativa trattandosi di
soggetti che svolgono anche altre attività.
Occorre sottolineare il sempre più stretto intreccio tra il Comitato e la Conferenza dei
Presidenti dei Parlamenti regionali europei che dispongono di poteri legislativi, organismo di
natura associativa e non istituzionale, ma di fatto assai autorevole.
La possibilità di instaurare rapporti diretti con le istituzioni dell’Unione costituisce
un’aspirazione forte delle Regioni, le quali vi hanno provveduto anche con l’apertura di
appositi uffici di collegamento a Bruxelles.

5. La fase ascendente delle Regioni nel quadro costituzionale.
Il riconoscimento di un ruolo maggiormente protagonista delle Regioni e delle Province
autonome nell’elaborazione degli indirizzi di politica eurounitaria nazionale, ossia nella c.d.
fase ascendente, è da intendersi come un doveroso contrappeso alle compressione di molte
delle loro competenze, indotta dall’appartenenza all’Unione europea.
Il rilievo delle autonomie in questione, almeno di quelle dotate di potestà legislativa, ha finito
così per concretizzarsi visto che le relative assemblee sono coinvolte nel c.d. processo di
monitoraggio della sussidiarietà. E’ stato infatti previsto come ai parlamenti nazionali, al
momento di valutare la conformità di un progetto al principio di sussidiarietà, spetti
consultare, all’occorrenza, anche le assemblee infrastatali con poteri legislativi.
Ai fini della verifica del rispetto del principio di sussidiarietà alle predette assemblee è
consentita la facoltà di inviare alle Camere osservazioni in tempo utile per l’esame
parlamentare, dandone contestale comunicazione alla Conferenza dei presidenti delle
assemblee legislative delle regioni e delle province autonome.
La costruzione di una fase ascendente può arricchirsi, ove lo si ritenga opportuno, del
contributo partecipativo delle autonomie territoriali infraregionali e di qualsiasi altro soggetto
reputato portatore di un interesse qualificato agli svolgimenti delle politiche eurounitarie.
Tuttavia, l’art 117 comma 5° Cost si limita a statuire che solo le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni
dirette alla formazione degli atti normativi comunitari.
Occorre fare, in particolare, riferimento all’operatività della Conferenza Stato-Regioni e alla
correlata sessione europea di tale organismo. Tale Conferenza ha visto valorizzare il suo ruolo
nella fase ascendente grazie all’art 10 della L. La Pergola che imponeva al Presidente del
Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per il coordinamento delle politiche
comunitarie, la convocazione, almeno semestrale, di una sessione speciale dedicata alla
trattazione degli aspetti delle politiche comunitarie di interesse regionale o provinciale, nel cui
ambito potessero essere formulati pareri sugli indirizzi relativi all’elaborazione ed attuazione
degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali. A seguito dell’entrata in vigore
della L. n 234 del 2012 il ruolo della Conferenza è rimasto centrale: il Presidente del Consiglio
dei Ministri deve, ora, convocare almeno ogni 4 mesi o su richiesta delle regioni e delle
province autonome, una sessione speciale della Conferenza Stato-Regioni, dedicata alla
trattazione degli aspetti delle politiche dell’Unione collegati alle competente delle Regioni e
delle Province autonome. La Conferenza è chiamata ad esprimere pareri sugli indirizzi generali
relativi all’elaborazioni e all’attuazione degli atti dell’UE, su criteri e sulle modalità per
conformare l’esercizio delle funzioni delle regioni e delle province autonome all’osservanza
degli obblighi di derivazione comunitaria.

6. Quale partecipazione delle autonomie territoriali italiane alla costruzione Europea?
L’art 117 comma 5° legittima la partecipazione di Regioni e Province autonome
all’elaborazione delle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi eurounitari.
E’ opportuno distinguere tra:
1) Fase elaborativa: concernente la predisposizione, sulla base di opportune attività
istruttorie, delle linee d’indirizzo dell’Italia in campo eurounitario nei settori di
interesse regionale;
2) Fase volitiva: attinente alla rappresentazione efficace di tale indirizzo nelle sedi di
produzione degli atti eurounitari.
La formula utilizzata dal comma 5° dell’art 117 potrebbe ricomprendere entrambe queste fasi
così da pretendere che una partecipazione, se non di autonome rappresentanze regionali,
almeno di componenti di tal natura all’interno delle più ampie rappresentanze statali sieda ai
tavoli delle trattative eurounitarie.
Queste soluzioni lasciato impregiudicata la prassi attuativa fin qui seguita in ordine
all’applicazione delle prescrizioni eurounitarie dove si esige che, con riferimento al Consiglio,
le componenti nazionali siano assicurate mediante rappresentanti di livello ministeriale,
abilitati ad impegnare il Governo degli Stati membri.
L’art 117 comma 3°, a proposito dei raccordi istituzionali diretti tra Regioni e istituzioni
eurounitarie, ne ha garantito e legittimato l’instaurazione e la permanenza anche a livello
costituzionale. Ne dovrebbe derivare il riconoscimento alle Regioni, a livello organizzativo, di
attivarsi in proprio, oltre il campo delle relazioni diplomatiche. Le Regioni potrebbero infatti
allestire autonomamente o in associazione con altre entità territoriali nazionali o di altrei
Paesi membri soluzioni operative in partnership con l’Unione, nei cui confronti rimarrebbe pur
sempre allo Stato la possibilità di attivare risorse adeguate a salvaguardia dell’unità nazionale.

7. Segue: la fase di predisposizione interna.
Anche nella fase di predisposizione interna il centro della situazione permane il Governo sia
che si tratti:
• Dell’elaborazione delle linee politiche generali nella fase di formazione di tutti gli atti
eurounitari rispetto alla quale un ruolo preminente era stato attribuito al Comitato
interministeriale per gli affari europei (CIAE), istituito presso la Presidenza del Consiglio.
• Della redazione della normativa eurounitaria, dato che nelle materie di competenze
delle regioni e delle province autonome, compete sempre al Presidente del Consiglio
dei Ministri convocare i rappresentanti delle regioni e delle province autonome alle
riunioni dei singoli gruppi, istituiti nell’ambito del Comitato tecnico di valutazione
(organo di cui si avvale il CIAE per la preparazione delle proprie riunioni), incaricati di
preparare i lavori del medesimo Comitato con riguardo a specifiche tematiche.

Con la L. n.234 del 2012, per quanto concerne la partecipazione regionale, permane l’obbligo
della trasmissione degli atti o dei progetti di atti eurounitari in capo al Presidente del Consiglio
o del Ministro per le politiche comunitarie, alla Conferenze delle regioni e delle province
autonome, nonché a quella dei Presidenti delle assemblee legislative delle medesime regioni
e delle province autonome, ai fini del successivo inoltro alle giunte e ai consigli.
Le Regioni e le Province autonome, entro 30 giorni dal ricevimento di tali atti, nelle materie di
loro competenza possono trasmettere osservazioni al Presidente del Consiglio dei Ministri o al
Ministro per gli affari europei. Se il progetto di atto normativo riguarda materie attribuite alla
competenza legislativa delle Regioni, il Governo convoca dietro loro richiesta la Conferenza
permanente per i rapporti tra Stato-Regioni-Province autonome ai fini del raggiungimento
dell'intesa che si perfeziona con l'assenso del governo e dei presidenti delle Regioni e delle
Province autonome. In tal caso, qualora lo richieda la Conferenza, il Governo appone una
riserva d'esame in sede di Consiglio dell'Unione europea e ne dà comunicazione alla
Conferenza: trascorsi 30 giorni da tale comunicazione, il Governo può procedere anche in
mancanza della pronuncia della Conferenza.
Gli atti normativi eurounitari ritenuti illegittimi dalla maggioranza delle Regioni e delle
Province autonome in seno alla Conferenza Stato-Regioni, debbono essere impugnati
obbligatoriamente dal Governo nazionale innanzi agli organi della giustizia eurounitaria.


8. Il versante discendente.
La fase discendente fa riferimento alla competenza e all'attuazione degli atti comunitari
derivati da parte della Regione.
Al momento del varo dell’esperienza regionale, nel delegare il Governo a trasferire alle
Regioni le funzioni ad esse spettanti, venne confermata allo Stato la funzione di indirizzo e
coordinamento delle attività regionali aventi carattere unitario, con specifico riferimento agli
impegni derivanti dagli obblighi internazionali. Ciò rappresentava una forte contrazione
dell’autonomia regionale che in tal modo veniva a determinarsi.
Fu la giurisprudenza che suggerì al legislatore statale il modo di venire incontro alle
aspettative regionali. La Corte, infatti, non si dichiarò contraria al riconoscimento di un potere
regionale di attuazione, ma ne escluse però l’ammissibilità fin quando non fossero stati
predisposti gli strumenti idonei a salvaguardare lo Stato davanti alle possibili inerzie regionali.
La Corte dunque aggiunse che l’unico modo per far concorrere le Regioni all’attuazione della
normativa comunitaria sarebbe stato quello della delegazione da parte dello Stato.
Tale decisione non fu esente da critiche, contestando appunto la scelta di accordare un potere
di delega dello Stato nelle materie proprie della Regione.
Tali critiche furono presto accolte dal legislatore che con la legge n. 153 del 1975 (relativa alla
materia dell’agricoltura), riconobbe alle Regioni la possibilità di legiferare in attuazione della
normativa comunitaria, attenendosi ai principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale.
Allo stesso tempo venne prevista la possibilità preventiva, necessaria e generalizzata di
intervento sostitutivo da parte degli organi centrali della disciplina regionale, corredando u
principi stessi delle regole volte a darne la specificazione-attuazione.
In tal modo venne fissato un punto di incontro tra il bisogno dello Stato di essere
salvaguardato davanti ai possibili inadempimenti regionali e le istanze di autonomia che
avrebbero in ogni tempo potuto affermarsi con l’esercizio dei poteri di normazione in ambito
locale.
Sul terreno dell’amministrazione invece il meccanismo era inverso in quanto la sostituzione da
parte dello Stato assunse un carattere successivo ed eventuale, conseguente all’inerzia delle
Regioni pur dopo un congruo termine ad essa dato per provvedere.
Con la L. Fabbri del 1987 è stata riconosciuta la competenza delle Regioni a dare attuazione
alle direttive anche a mezzo di atti amministrativi generali, sempre che non riguardanti
materie coperte da riserva di legge o comunque già regolate con legge e si è dato inoltre
modo alle Regioni a statuto speciale di attuare direttive ricadenti su materie di potestà
esclusiva senza dover attendere la disciplina statale di principio.
Un differenziato regime, in relazione ai tipi di competenza legislativa regionale, era invece
stabilito dall’art 9 della L. La Pergola, dal momento che la facoltà di attuazione immediata era
stata riconosciuta per le solo materie di potestà esclusiva, dovendosi invece per quelle di
potestà concorrente attendere l’adozione della prima legge comunitaria successiva alla
notifica della direttiva.
Il punto debole di questa legge era dunque dato dal differenziato trattamento riservato alle
leggi regionali a seconda dei tipi di potestà di cui erano espressione. Per questo motivo, l’art 9
è stato modificato, dandosi modo anche alle leggi regionali di potestà concorrente di dare
immediata attuazione alle direttive.

9. Il potere regionale di attuazione nella legge di riforma del Titolo V.
La legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 ha apportato modifiche al Titolo V della parte
seconda della Costituzione. L'articolo 117 Cost, subentrato con questa riforma, stabilisce al
primo comma che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto dei
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Tale
disposizione chiarisce che le regole dell'ordinamento comunitario si ergono a limite
costituzionale della potestà legislativa sia dello Stato sia delle Regioni.
Il quadro costituzionale delineato nel 2001 contiene poi altri richiami al diritto sovranazionale,
richiami che appaiono persino eccessivi, dal momento che finiscono con il sovrapporsi l’uno
all’altro.
Il primo problema è sollevato dall’inclusione dei rapporti internazionali e con l’Unione
europea delle Regioni nelle materie di potestà concorrente. Ciò potrebbe portare a far
pensare che si tratti di una sorta di non-materia, ovvero di una materia trasversale. L’effetto
derivante da tale lettura sarebbe quello di privare le Regioni della pienezza o esclusività della
competenza in ordine all’attuazione delle normativa sovranazionale. Le Regioni, quindi, in
nessun caso potrebbero dare immediata attuazione al diritto sovranazionale, se non grazie
alla mediazione necessaria assicurata dai principi fondamentali delle leggi statali.
Bisogna ritenere che i rapporti di cui all’art 117 comma 3° abbiano carattere non sostanziale,
ma istituzionale, riguardano esclusivamente le sedi e le procedure per il cui tramite le Regioni
entrano in contatto con l’Unione. Quando invece alla parte sostanziale dei rapporti, vale a dire
ai modi con cui le Regioni sono abilitate all’attuazione delle normativa sovranazionale, si potrà
pienamente fare capo al riparto costituzionale delle competenze, e dunque lo Stato interverrà
nei campi materiali ad esso riservati dall’art 117, mentre le Regioni legifereranno nel quadro
dei principi generali, laddove la normativa stessa ricada su materie di potestà concorrente.
Inoltre, il nuovo articolo 120 Cost contempla il potere sostitutivo del Governo nel caso di
mancato rispetto della normativa dell'Unione; la legge definisce le procedure atte a garantire
che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio
di leale collaborazione.

10. Segue: ..e nella legge n.234 del 2012.


A seguito dell’entrata in vigore della L. n. 234 del 2012, le Regioni sono tenute a dare luogo a
verifiche periodiche dello stato di conformità delle loro normative a quelle dell’Unione,
trasmettendone le risultanze alla Presidenza del Consiglio entro il 15 gennaio di ogni anno, sì
da fare in modo che il Governo possa tenerne conto in sede di messa a punto del disegno di
legge di delegazione europea. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per gli affari
esteri informa poi ogni sei mesi le Camere sullo stato di recepimento delle direttive
eurounitarie da parte delle Regioni.
E’ possibile inoltre che si verifichi l’evenienza di adottare misure urgenti di adeguamento al
diritto dell’Unione. In tal caso, alle Regioni è fissato un termine per provvedere; ove
l’adeguamento non sia tempestivamente effettuato, si fa luogo all’esercizio da parte dello
Stato dei poteri sostitutivi (art 120 Cost). I provvedimenti allo scopo adottati, dopo essere
stati sottoposti al previo esame della Conferenza Stato-Regioni, trovano applicazione a far
data dalla scadenza del termine fissato per l’attuazione della normativa eurounitaria.
Secondo alcuni, prevista la possibilità della sostituzione da parte di norme statali nei riguardi
di norme regionali, non importa che ciò prenda corpo attraverso leggi o regolamenti.
Nulla vieta che al posto della legge, statale ovvero regionale, si abbia una disciplina
regolamentare, sempre che non interferisca con la disciplina legislativa preesistente.
Tuttavia, manca nella legge oggi vigente un riconoscimento circa la possibilità per i
regolamenti statali di subentrare negli ambiti di competenza delle Regioni.

11. Breve annotazione finale sulle prospettive dell'adempimento da parte delle Regioni
degli impegni eurounitari ed alle indicazioni che a riguardo possono esser date dagli statuti
di autonomia.
La complessità delle attività richieste al fine dell’attuazione fa sì che anche in sede locale
debbano apprestarsi soluzioni adeguate a far fronte a tale impegno.
A tale scopo, molto possono fare gli statuti nell’ambito della generale ristrutturazione di
organi e procedimenti cui sono chiamati a seguito della riforma del titolo V.
Può inoltre farsi luogo all’invenzione di leggi eurounitarie regionali, non di minore rilievo di
quello posseduto in ambito statale.
Anche in ambito regionale è da attendersi un largo utilizzo dello strumento regolamentare a
finalità di attuazione. Importante anche la valorizzazione degli enti locali (enti territoriali
minori) con cui la Regione dà luogo a sempre più strette relazioni.
Una valorizzazione merita anche il Consiglio delle autonomie locali, luogo di passaggio
obbligato nei processi decisionali che si svolgono in ambito regionale.

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