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COSTITUZIONALE II.
CAPITOLO I
UNA COSTITUZIONE E UN DIRITTO COSTITUZIONALE PER L'EUROPA UNITA.
1.La questione se già al presente si dia o possa in seguito darsi una Costituzione dell’Unione
europea e le difficoltà che in genere, anche in ambito interno, si pongono alla ricostruzione
degli istituti costituzionali.
C’è già una Costituzione dell’Unione europea? Se si, com’è fatta? Quali sono i tratti comuni
rispetto alle Costituzioni nazionali e quali invece quelli suoi propri? Se no, invece, quali sono le
possibilità che essa venga alla luce?
Negli ordinamenti di tradizione liberaldemocratica, la Costituzione ha storicamente avuto la
sua peculiare funzione di Carta dei diritti fondamentali, si da tradursi in limite del potere
sovrano: una Costituzione insomma, come fonte di certezza del diritto costituzionale e di
certezza dei diritti costituzionali. Nei confronti di un diritto costituzionale essenzialmente
consuetudinario (e comunque non scritto), la scrittura ha adempiuto ad una funzione di
garanzia e di stabilizzazione del patrimonio di diritti fondamentali finalmente riconosciuti in
capo a uomini ormai divenuti cittadini (e non più sudditi).
Oggi però non è più così e si avverte sempre più il bisogno di attingere altrove le garanzie più
adeguate ed effettive di tale patrimonio.
Pertanto la scrittura costituzionale, originariamente volta a garantire la certezza del diritto, si
è convertita in fonte di diffuse incertezze.
In tale contesto è risultata difficile anche la ricostruzione degli istituti costituzionali a causa
della laconicità ed ambiguità del dettato costituzionale e del sempre maggior rilievo assunto
da materiali extratestuali, ugualmente idonei a dare la complessiva connotazione degli istituti
stessi. La Costituzione, insomma, anche nei Paesi annoverati tra quelli a diritti costituzionale
essenzialmente scritto, non si esaurisce solo nel documento che ne porta il nome, approvato
da un’assemblea costituente o da altro organo o soggetto politico-istituzionale in un dato
momento storico. La Costituzione infatti attinge altresì ad altre Carte anche solo
materialmente costituzionali in quanto esse pure idonee a dare riconoscimento ai diritti
fondamentali (si pensi alla CEDU e alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE).
2. L’idea di Costituzione, negli ordinamenti di tradizioni liberali, e l’incontro che attorno ad
essa può (e deve) aversi tra orientamenti metodico-teorici d’ispirazione istituzionalista,
normativista, assiologica.
E' chiaro che non si può rispondere alla domanda se possa esistere una Costituzione europea,
senza prima fare chiarezza su cosa sia effettivamente una Costituzione.
Ed è proprio sul significato di Costituzione che si riscontrano sensibili divergenze di
orientamento. Le teorie, al riguardo, sono 3:
1) Teoria istituzionalista: Ad identificare l’essenza della Costituzione nell’assetto
fondamentale di un ordine giuridico dato, quale risultante dall’insieme delle forze
politico-sociali dominanti e dei fini di cui esse di fanno portatrici, non pare dubbio che
l’assetto stesso si ispiri a valori fondamentali e per altro verso si debba, almeno in
parte, a regole di diritto costituzionale.
2) Teoria normativista. Essa identifica il tratto caratteristico di una Costituzione in un
insieme di norme fondamentali, quali ad esempio quelle che disciplinano la formazione
delle norme generali dell'ordinamento. Secondo questa teoria, solo facendo
riferimento ad una base normativa si ha modo di apprestare soluzioni più adeguate
poste a garanzia dei diritti fondamentali.
3) Teoria assiologica. Essa identifica, invece, l'essenza della costituzione in un insieme di
valori che danno un senso al processo costituente, posti alla base delle norme
costituzionali venute a formazione del processo stesso. I valori, infatti, si incarnano
nelle forze politico-sociali che se ne fanno portatrici e si rendono palesi attraverso le
norme che ne consentono il passaggio dal mondo del pregiuridico al mondo del
giuridicamente rilevante.
Spesso dunque i costituzionalisti si trovano a studiare il diritto costituzionale, ma non sanno
cosa esso sia. Il termine stesso di Costituzione appare fortemente controverso.
Torna utile richiamare un celebre passo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, il cui art 16 efficacemente esprime l’essenza di un ordinamento costituzionale nel
riconoscimento da esso fatto del principio della separazione dei poteri e nella salvaguardia dei
diritti fondamentali. E’ questa l’idea di Costituzione liberale. La separazione dei poteri si
converte poi in un limite per il potere sovrano: un limite che, in tanto ha un suo senso
complessivo e profondo, in quanto si disponga al servizio dei diritti fondamentali; di modo che
è proprio attorno a questi ultimi che si tesse la tela del diritto costituzionale degli
ordinamenti.
I principi fondamentali di un ordinamento costituzionale, siano o no espressamente enunciati,
sono condannati a consumarsi da se medesimi ed in un tempo più o meno breve a dissolversi
se non sorretti da previsioni ulteriori idonee a darvi corpo, concretezza, attuazione, e
soprattutto, laddove non sorretti da un diffuso consenso. Essi sono la base di ogni altra
disposizione normativa; ma questa base esprime e rinnova senza sosta il bisogno di reggersi, a
sua volta, su norme ulteriori, anche subcostituzionali. E’ solo per il tramite dell’effettività che
le norme si convertono in assetto fondamentale dell’ordinamento, così come questo si
rispecchia nelle prime.
3. La tesi che instaura un rapporto di corrispondenza biunivoca tra i termini di Costituzione e
Stato, e la critica che ad essa può farsi in forza di una larga accezione dell’una ed alla luce
delle profonde trasformazioni dell’altro, portato sempre più ad aprirsi alla Comunità
internazionale e ad organizzazioni sovranazionali, nel mentre queste ultime manifestano,
dal canto loro, una spiccata vocazione alla loro costituzionalizzazione.
Occorre chiedersi se il richiamo alle radici dell’esperienza liberale possa tornare utile allo
studio del diritto dell’UE dalla prospettiva del diritto costituzionale. Sembra che al quesito
possa essere data risposta positiva.
Vanno tenuti presenti due dati. Il primo riguarda lo stretto legame tra Costituzione e Stato:
dov’è l’uno, si dice comunemente, vi è anche l’altra e viceversa.
Tuttavia, poiché l'UE non è al momento e forse non sarà mai uno Stato, sarebbe del tutto
forzato far riferimento ad una Costituzione europea.
Tuttavia la suddetta tesi non è esente da critiche. Difatti secondo altri orientamenti la
corrispondenza costituzione-Stato non sarebbe biunivoca, potendo esistere alcuni Stati senza
Costituzione, ma non potendo esistere alcuna Costituzione senza Stato.
Tuttavia, se dovessimo fare riferimento ad una accezione larga di Costituzione allora si
potrebbero riscontrare tracce di Costituzioni anche in ordinamenti statali non liberali e in
ordinamenti non statali, vale a dire comunità politicamente organizzate, nelle quali dunque si
riscontri un soggetto portatore di sovranità ed altri soggetti, componenti la comunità stessa,
alla sovranità variamente sottoposti. Per quest’accezione più larga, sin dall’antichità si sono
venuti dunque affermando tipi o modelli di organizzazione comunque diversi da quello
statale, ciascuno retto da una legge fondamentale (da una Costituzione appunto), espressiva
delle norme relative all’assetto del potere ed ai rapporti tra l’apparato governante e la
comunità governata.
Fare riferimento in modo esclusivo al legame esistente tra Costituzione e Stato può
comportare esiti ricostruttivi non più adeguati, in relazione alle sembianze oggi
concretamente assunte tanto dalle Costituzioni che dagli Stati. E’ proprio qui che entra in
gioco il secondo dei dati a cui si faceva riferimento. Un dato che vede, ad un tempo, una
tendenza marcata ad aprirsi davanti ad ordinamenti sovranazionali ed una altrettanto forte
tendenza di questi ultimi a costituzionalizzarsi.
Infatti, sino a qualche anno fa, la differenza tra diritto internazionale e diritto interno era
netta e la sovranità nazionale non era scalfita da una sovranità internazionale. Invero, già nel
II dopoguerra il suddetto scenario è iniziato a mutare, anche e soprattutto per affermare col
massimo vigore possibile il valore fondamentale della pace e della giustizia tra le Nazioni (art.
11 Cost).
Questo processo di apertura al diritto internazionale si è progressivamente radicato e diffuso
tanto che in Italia, con la L. n° 3 del 2001 è stata prevista (art 117 comma 1) la soggezione
delle leggi di Stato e Regioni alle norme internazionali in genere (anche a quelle
pattizie) e comunitarie.
Nel momento in cui i singoli ordinamenti costituzionali si sono dichiarati disponibili a dare
ingresso alle norme della Comunità internazionale, in seno a quest’ultima sono venute a
formazione talune organizzazioni che hanno manifestato la tendenza a riconformarsi al
proprio interno e, con essa, la vocazione alla loro costituzionalizzazione. Il modello statale non
viene imitato in toto, in considerazione delle non secondarie differenze di struttura, di
funzionamento, di fini, di natura complessiva, sussistenti tra tali organizzazioni e gli Stati.
4. I connotati costituzionali dell’organizzazione e dei fini-valori fondamentali dell’UE, avuto
speciale riguardo al riconoscimento ed alla salvaguardia dei diritti fondamentali in ambito
eurounitario, cui fa tuttavia da contrappunto la perdurante mancanza di un demos europeo,
quale condizione indefettibile della piena costituzionalizzazione dell’UE.
Non soltanto le organizzazioni sovranazionali dispongono di norme fondamentali che ne
danno l’organizzazione, vale a dire di una Costituzione in senso lato o generico, ma le norme
stesse attingono largamente, in misura crescente, proprio al modello di Costituzione statale,
così come invalso nell’esperienza maturata negli ordinamenti di tradizioni liberali.
La tendenza degli ordinamenti sovranazionali a costituzionalizzarsi trova un esempio
lampante nell'Unione europea che, per un verso, si è dotata di organi supremi che portano il
nome di organi governanti di Stati membri e, per altro verso, si è dotata di un patrimonio di
diritti fondamentali.
Il dato di maggiore rilievo dunque si riscontra sul terreno del riconoscimento e della
salvaguardia dei diritti fondamentali, laddove si misura e si apprezza la consistenza di un
ordinamento propriamente costituzionale (nell’accezione liberale del termine).
L’Unione si è con il tempo dotata di un catalogo di diritti, principalmente attingendo alle
tradizioni costituzionali comuni, vale a dire facendo capo alle garanzie apprestate in ambito
interno sia dalle Carte che (soprattutto) dalle Corti costituzionali, tradizioni peraltro fatte
oggetto di originale rielaborazione da parte della giurisprudenza sovranazionale.
Quanti negano l'esistenza di una Costituzione europea, tuttavia, sottolineano che le
vicende dell'ordinamento europeo sono per intero governate da trattati, e quindi dalla
logica intergovernativa che sta alla base dello loro stipula e, in genere, delle relazioni tra Stati.
Lo stesso Trattato costituzionale (Costituzione europea) non si sottraeva a tale regola, come
peraltro non vi si sottrae il Trattato di Lisbona. Il Trattato costituzionale portava con sé il
segno di una irrisolta ambiguità. Era infatti, sì, un trattato, ma non un trattato qualunque, dal
momento che dava una Costituzione all’Unione. I suoi contenuti poi, se per una parte si
riferivano alle relazioni tra gli Stati membri tanto inter se quanto con l’Unione, per un’altra
parte esibivano i tratti tipici delle Costituzioni
La situazione non cambiò dopo l’abbandono del Trattato costituzionale, conseguente alla sua
bocciatura da due referendum svoltisi in Francia ed Olanda, e la sua sostituzione ad opera del
Trattato di Lisbona. In quest'ultimo è rimosso qualsiasi riferimento al termine Costituzione o
costituzionale, pur riprendendosi in gran parte i contenuti del vecchio Trattato, dato che si
ribadisce comunque la ripartizione della sovranità dell'Unione tra i suoi organi e si dichiara di
voler apprestare tutela ai diritti fondamentali. Quindi viene difficile pensare ad una
discontinuità tra l’uno e l’altro Trattato per effetto di tale rimozione.
Anche dopo l'entrata in vigore del nuovo Trattato, il processo di costituzionalizzazione
non può comunque dirsi concluso e difatti ad esso verrebbe a mancare un elemento portante
delle Costituzioni nazionali ovvero l'esistenza di basi culturali omogenee su cui poggiarsi e da
trasmettere alle generazioni future (il c.d. demos europeo). Solo dopo che si avrà (se mai si
avrà) un demos europeo, il processo di costituzionalizzazione dell’Europa potrà infatti dirsi
maturo. Non pochi Stati si caratterizzano per l’esistenza al loro interno di diverse nazioni, su
basi di lingua, religione, costumi e di altro ancora: sostanzialmente si tratta di culture diverse.
Tuttavia, è sempre più diffuso il sentimento della comune appartenenza ad uno stesso popolo
che porta ciascuno dei componenti della comunità statale a considerarsi partecipi dello stesso
destino (c.d. patriottismo costituzionale). Quest’ultimo è andato sempre più radicandosi nei
Paesi membri dell’UE dove l’idea dell’essere civis europeo sta finalmente trovando
affermazione.
5. Rilievo anche giuridico dato, specie nelle esperienze processuali, alla Carta dei diritti di
Nizza-Strasburgo, al tempo della sua mancata incorporazione nei trattati, e il richiamo ad
essa fatto dal nuovo Trattato quali ulteriori riprove della ormai avanzata
costituzionalizzazione dell’Unione, vale a dire dell’esistenza presso quest’ultima di spazi
costituzionali comunque non dominati dalla logica pattizia che sta a base delle relazioni
intergovernative.
Ciò che più di tutto evoca l'idea di Costituzione a livello europeo è il riconoscimento dei
diritti fondamentali che è esplicitato per il tramite del rinvio alla Carta di Nizza-Strasburgo
fatto dal nuovo Trattato (mentre il Trattato costituzionale incorporava la carta, il nuovo
Trattato si limita a richiamarla, riconoscendone lo stesso rilievo giuridico del
Trattato).
I diritti riconosciuti dalla Carta per un verso ripetono i tratti essenziali di una ormai fiorente e
solida giurisprudenza sovranazionale, per altro verso circolano diffusamente nella aule
giudiziarie.
Difatti i numerosi riferimenti alla Carta, sia a livello sovranazionale che a livello di diritto
interno danno conferma di quanto radicato e condiviso sia il principio-valore che riconosce
una dimensione europea ai diritti fondamentali. E’ ormai da considerare acquisito il
dato che vede comunque insufficienti la tutela apprestata anche dalle più avanzate ed
aggiornate Carte costituzionali, bisognosa di essere sorretta ed integrata da ulteriori garanzie.
La salvaguardia dei diritti fondamentali sfugge al controllo dei trattati e non soggiace alla
logica pattizia che fino in questo momento aveva governato in misura soffocante l’Unione.
Può dirsi che l’Unione, a prescindere dalla Carta dei diritti di Nizza-Strasburgo, si è già in parte
costituzionalizzata grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia.
6. Ulteriori contestazioni alla configurazione di una Costituzione dell'UE e loro confutazione:
a) riguardo della derivazione dei diritti fondamentali tutelati in ambito europeo dai serbatoi
apprestati dalle Costituzioni nazionali.
Circa la configurazione di una Costituzione europea sono stati mossi ulteriori rilievi. Tre in
particolare le osservazioni fatte, due di ordine dogmatico-positivo ed una di carattere storico-
teorico.
Secondo la prima tesi, l'UE non dispone di un patrimonio di diritti fondamentali suo proprio,
distinto da quello dei singoli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. Senza dunque il
riferimento alle Costituzioni nazionali, l’Unione non saprebbe da dove attingere quella che è
l’essenza delle Costituzioni d’ispirazione liberale. Tuttavia a questa tesi si possono muovere
due opposizioni:
Ø I diritti, per come riconosciuti in ambito europeo, non coincidono interamente con gli
omologhi diritti delle Costituzioni nazionali perché costituiscono il frutto di una
rielaborazione giurisprudenziale della CDG;
Ø I diritti delle singole Carte nazionali non possono dirsi pienamente autonomi in quanto
devono essere senza sosta reinterpretati alla luce dei riconoscimenti fatti in seno alla
Comunità internazionale ed europea. Appare ormai impraticabile l’idea di una
Costituzione chiusa ed autosufficiente, che possa cioè fare a meno dell’appoggio
offertole da altre Carte dei diritti.
Lo scenario che va sempre più affermandosi è quello di un ordine intercostituzionale, nel
quale cioè le Costituzioni, quale che sia l’ambito entro il quale si affermano e fanno valere,
si dispongano a farsi alimentare l’una dall’altra sullo specifico terreno della salvaguardia
dei diritti fondamentali, allo scopo di offrire la massima tutela possibile ai bisogni avvertiti
dagli uomini.
7. Segue: il carattere parziale (e non generale) delle competenze di cui l’Unione risulta dai
trattati dotata quale ostacolo al riconoscimento della sua natura di ente originario e, perciò,
nella natura costituzionale dell’atto che la istituisce e regola. Critica.
La seconda obiezione si muove nello stesso ordine di idee della precedente e si basa su una
replica analoga a quella data. Secondo tale tesi, l'UE, diversamente dagli Stati, non dispone
che delle competenze che le sono state assegnate e pertanto può intervenire solo nei campi e
nelle forme ed ai soli effetti allo scopo prestabiliti (in realtà, non è esattamente così in quanto
l’Unione per un verso dispone anche di poteri impliciti, che possono essere esercitati in vista
del pieno conseguimento dei suoi scopi istituzionali, e per altro verso potendo operare in via
sussidiaria laddove gli Stati si dimostrino incapaci di soddisfare in modo adeguato gli interessi
loro propri). L’Unione dunque a differenza degli Stati non è un ente originario, in quanto essa
deriva da un atto di volontà degli Stati che l’hanno costituita.
Con riguardo agli Stati, il carattere generale e pieno delle loro attribuzioni discende proprio
dalla loro originarietà e, in tanto dunque può aversi, in quanto risulti appunto sorretto da tale
attributo; allo stesso tempo, l’originarietà, che secondo la tradizione teorica è una delle
espressioni tipiche della sovranità, si specchia e si rende palese proprio attraverso il carattere
non circoscritto, generale, delle attribuzioni statali.
Tuttavia si può facilmente opporre che, col fatto stesso della determinazione della sfera di
competenza dell'Unione, è ormai venuto meno il carattere generale della competenza degli
Stati, in considerevole e crescente misura limitata dagli atti con cui è operato il riparto delle
competenze medesime. Anche gli Stati non possono, dunque, ormai intervenire
sovranamente su ciò che vogliono e come vogliono, ma proprio dall’esistenza dell’Unione
sono delimitati sia negli ambiti che nei modi della loro disciplina.
Nessun ente può ormai definirsi sovrano: tutti sono derivati dall’unico vero sovrano dal quale
discende la loro esistenza, cioè la Costituzione.
Una volta venuta alla luce la Costituzione, essa fonda lo Stato, nel senso che ne stabilisce le
attribuzioni, le modalità di esercizio, i limiti. Ciò grazie al fatto che la Costituzione stessa, quale
che sia la vicenda storico-politica che ne determina l’approvazione, una volta entrata in vigore
si legittima sempre da sé: è cioè autofondante e fondativa dell’ordine positivo da essa
derivato.
La costituzionalizzazione dell’UE riproduce questo schema. Anche l’Unione è venuta a
formazione per iniziativa degli Stati e con riguardo a complessive vicende maturate in seno
alla Comunità internazionale e sovranazionale. L’Unione è in grado di produrre con i suoi atti
vincoli anche particolarmente intensi a carico degli Stati, ai quali questi ultimi non possono in
alcun modo sottrarsi.
8. Segue: c) la Costituzione quale espressione di un potere costituente che, nella sua
originaria e tipica accezione, si riferisce unicamente alle vicende proprie degli Stati. Critica.
L’ultimo rilievo, in prospettiva storico-teorica, attiene al modo stesso con cui nascono le
Costituzioni nazionali, quale prodotto di un fatto (o potere) costituente. La teoria tradizionale,
affermatasi a partire dalla rivoluzione francese, rappresenta il potere costituente come
assoluto, originario, irripetibile, fondativo di un nuovo ordine costituzionale che si pone nel
segno della discontinuità rispetto all’ordine preesistente. Una nuova Costituzione viene alla
luce, oltre che in occasione di vicende che stanno a base della nascita di nuovi Stati, per
effetto di eventi suscettibili di determinare trasformazioni profonde in seno agli Stati stessi,
quali un colpo di Stato o una rivoluzione.
Per un vero, a seguito della caduta del muro di Berlino e del crollo nell’Europa dell’Est del
modello di organizzazione statale d’ispirazione comunista, quella di potere costituente
sarebbe una nozione ormai esaurita; nessuna vicenda costituente potendosi affermare se non
nel rispetto dei diritti umani e, in genere, del patrimonio dei valori che sta a base delle
liberaldemocrazie.
Per altro verso, ove si convenga che l’essenza di Costituzione riposi in un insieme di valori
fondamentali, ne deriva che è unicamente su questo terreno che possono in modo congruo
misurarsi ed apprezzarsi tanto i fatti di continuità che quelli di discontinuità.
La discontinuità non necessariamente si deve considerare collegata ad un colpo di Stato o ad
una rivoluzione potendosi avere anche in modo indolore a conclusione di un processo a volte
anche lungo.
Il fondamento della Costituzione e del nuovo diritto dalla stessa originato non può mai essere
nel diritto stesso, bensì nella storia e nella politica, laddove ha posto e manifestazione il
potere costituente. L’Europa unita, secondo un diffuso sentire, si situa in uno di questi
processi costituenti, avviato già all’indomani della prima Comunità, la CECA, e soprattutto,
della CEE.
Quindi, per concludere, si può considerare non improprio l'uso del termine Costituzione e
diritto costituzionale con riguardo all'ordinamento europeo in formazione. Fermo restando
che tale uso richiede comunque adattamenti, integrazioni e correzioni.
9. Una notazione finale: la Costituzione europea (in senso materiale), al pari di quella
nazionale, come Costituzione parziale, l’una e l’altra, proprio per ciò, tuttavia idonee a
realizzarsi in modo pieno e così concorrere ad una parimenti piena tutela dei diritti
fondamentali.
Dalla Costituzione nazionale sembrano dunque ormai spariti gli attributi della pienezza e della
totalità. L'apertura al diritto internazionale e al diritto sovranazionale ha infatti portato le
Costituzioni nazionali a divenire fonti parziali, laddove prima, invece, erano considerate totali
(in quanto pienamente capaci di regolare in modo adeguato le varie materie). Oggi invece si
richiede che queste siano variamente integrate e sorrette da altre fonti, sia interne che
esterne.
Parzialità ed insufficienza della singola Costituzione, da un lato rischiano di condurla alla
dissoluzione, ma al tempo stesso, possono trasformarsi in uno stimolo formidabile per farla
ulteriormente crescere (alla condizione che la Costituzione non si rinchiuda, insensatamente,
in se stessa, ma si ponga nelle condizioni di farsi contagiare da altre fonti, avendosi in tal
modo la trasformazione della parzialità in una vera e propria pienezza).
Dunque, gli enunciati costituzionali devono essere costantemente oggetto di pratiche
interpretative ed applicative orientate a far espandere il nucleo duro negli stessi racchiuso,
attingendo ad indicazioni provenienti ab extra. La stessa Carta di Nizza-Strasburgo non
intende in alcun caso o modo prendere il posto delle Carte nazionali, laddove queste ultime
offrano una più efficace ed avanzata tutela ai diritti. Piuttosto, essa vuole intervenire in via
sussidiaria, colmando strutturali carenze degli ordinamenti costituzionali nazionali ovvero
offrendosi quale strumento di reinterpretazione delle Carte stesse.
E’ tra l’altro evidente che, identificandosi l’unico, vero sovrano in una Costituzione resa ancora
più forte e salda grazie alla sua integrazione con altre Carte costituzionali, la sovranità ne
guadagni in ampiezza di campi, di interventi e complessiva vitalità.
Pertanto, alla luce di quanto sopra affermato, appare contraddittorio negare l'esistenza di un
diritto costituzionale dell'Unione. Al contrario, esso può ben coesistere con il diritto
costituzionale dei singoli Stati in quanto entrambi sono così reciprocamente intrecciati, da non
potere continuare ad esistere se non appoggiandosi a vicenda.
CAPITOLO II
LE TAPPE DELL'EDIFICAZIONE EUROUNITARIA: DALL'IDEA DI EUROPA ALL'UNIONE EUROPEA.
1. L'idea d'Europa e la realizzazione dello Stato nazionale.
Nell'arco di mezzo secolo l'UE ha più che quadruplicato la sua originaria composizione politica
passando dai 6 originari Stati fondatori all'attuale configurazione a 28 membri.
Le vicende che hanno avviato, sul piano politico e giuridico, la costruzione dell'UE, dotata di
una propria personalità giuridica, trovano il loro fondamento e punto di partenza con
l'istituzione nel 1951 della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), la prima di 3
comunità destinate a dar vita a quell’unica realtà istituzionale.
Queste stesse vicende, tuttavia, traevano, a loro volta, ispirazione e spinta dagli avvenimenti
appena successivi alla seconda guerra mondiale e, in particolar modo dal desiderio di
sicurezza prodottosi nell’Europa occidentale a causa della profonda frattura nel vecchio
continente, generatasi nel clima della c.d. guerra fredda, ossia la situazione di acceso conflitto
politico e ideologico, ma non bellico tra il blocco dei Paesi dell’Ovest e quello dei Paesi
dell’Est, guidati rispettivamente da Stati Uniti e Unione Sovietica. L’idea di un’Europa unita,
ancora prima di tutti questi eventi, aveva conseguito nel nostro Paese un notevole grado di
maturazione. E’ inoltre opportuno attribuire particolare importanza alla partecipazione
dell’Italia al momento fondativo dell’ordinamento comunitario e alle tappe del suo sviluppo
successivo.
In particolare, questo ideale di Europa unita si ebbe già a partire dal Risorgimento nazionale.
L’intuizione della necessità di un più ampio spazio politico, appunto di dimensione europea, fu
presente in Giuseppe Mazzini per il quale sarebbe stato necessario anche equilibrare le
differenze che separano un mercato da un altro, aprirli tutti alla trasmissione reciproca dei
loro prodotti.
Anche nel pensiero di Cattaneo, l’idea di Europea fu legata ad un modello organizzativo dello
Stato in netta controtendenza con le vicende risorgimentali. Per lo scrittore milanese,
l’obiettivo politico del federalismo si manifestava, infatti, non solo di un’attuazione nazionale,
ma anche nella prospettiva degli Stati Uniti d’Europa. L’idea degli Stati Uniti d’Europa fu
condivisa anche da Giuseppe Garibaldi.
Il percorso verso un’Unione europea venne tuttavia successivamente emarginato dal
prevalere delle logiche degli Stati nazionali, anche in base alla diffusa convinzione che, fra le
diverse nazioni, esistessero differenze tanto radicate da non consentire la realizzazione di
quell'obiettivo.
Il principale ostacolo di ordine teorico e pratico all’affermazione di realtà sovranazionali
andava identificato nel concetto di sovranità, coessenziale all’idea stessa dello Stato moderno.
Tuttavia, neppure durante il ventennio fascista l'idea di Unione europea si oscurò
completamente. Benedetto Croce, ad esempio, parlò di una nuova coscienza, di una nuova
nazionalità. Il tema di costruzione europea costituì inoltre oggetto di un famoso convegno del
1932, animato da celebri giuristi come Vittorio Scialoja. Si auspicò dunque l’instaurazione di
un sistema politico di collaborazione effettiva e pratica tra le Nazioni europee e la creazione di
una coscienza europea.
2. La costruzione europea e l’avvio della Repubblica democratica.
Se l’idea degli Stati uniti d’Europa era già stata fatta propria dagli esuli del movimento
‘Giustizia e Libertà’ di Carlo Rosselli in funzione antinazista e antifascista, il pensiero non può
non andare soprattutto a Colorni, Hirschmann, Rossi e Spinelli, autori del Manifesto per
un’Europa Libera e Unita, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene, dove si
sottolineava come una futura federazione avrebbe dovuto avere carattere spiccatamente
politico e poggiare su una visibile struttura organizzativa idonea a fornire un maggior livello di
concretezza al processo di unificazione. La connotazione antifascista quindi caratterizzò la
fondazione a Milano del Movimento federalista europeo da parte di Spinelli.
Occorre inoltre ricordare il programma del Partito d’Azione, ricalibrato con l’ingresso di Rossi
e Spinelli che vi apportarono correttivi di tipo organizzativo.
Anche nel c.d. Programma di Milano redatto dal Partito della Democrazia Cristiana, si
esplicitò la necessità di realizzare una Federazione degli Stati europei.
Saranno proprio i principali esponenti dei partiti di ispirazione democratica-cristiana (De
Gasperi per l'Italia, Schuman per la Francia e Adenauer per la Germania) a dare un impulso
decisivo al processo di avvicinamento tra gli Stati europei, che sfocerà, dapprima nel Consiglio
d’Europa e poi nella formazione della CECA.
Lo stretto legame tra l'idea di un'Europa unita e un'alleanza tra paesi dell'Europa occidentale
indusse il partito comunista italiano, fortemente legato all'Unione sovietica, a guardare con
sospetto ad ogni possibile processo di integrazione europea in quanto reputata funzionale
all’antisovietismo e all’anticomunismo. Tuttavia l'atteggiamento del partito comunista non fu
di chiusura assoluta tanto che con Berlinguer iniziò a diffondersi l'idea di eurocomunismo,
ovvero una nuova strategia del movimento comunista occidentale per la ricerca del socialismo
nella libertà. Per altro verso, non sarebbero mancati, all’interno di questo stesso partito,
singole personalità caratterizzate da spirito europeista che si fecero fautori di nuovi rapporti
con i partiti socialisti e socialdemocratici europei, anche nella convinzione che gli ideali del
socialismo europeo coincidessero con la causa di un’Europa più unita politicamente, più forte
e solidale.
Personalità di spicco si ritrovano anche in altre formazioni politiche dell’area marxista, come il
Partito socialista italiano di unità proletaria. Colorni dichiarò che i socialisti italiani vogliono
che dalla pace che seguirà alla guerra siano poste le basi di un ordinamento che tenda a
creare una Federazione libera degli Stati europei.
Per quanto riguarda il Partito liberale italiano, in esso militava Luigi Einaudi, futuro Presidente
della Repubblica, portatore di forti istanze europeiste, soprattutto nell’ambito dell’Assemblea
costituente.
Infine, il Partito repubblicano italiano richiamava alle posizioni di Mazzini e Cattaneo. A tale
partito ritenne poi di aderire Carlo Sforza, uomo profondamente attaccato all’ideale di
solidarietà europea.
3.L'Europa all'Assemblea costituente.
Luigi Einaudi, nell’Assemblea costituente, disse che ai fini della realizzazione degli Stati Uniti
d’Europa occorreva che i parlamenti degli Stati rinunciassero ad una parte della loro sovranità
a favore di un parlamento nel quale siano rappresentati direttamente i popoli europei nella
loro unità, senza distinzione tra Stato e Stato. Questo, disse, era l’unico ideale capace di
salvare la vera indipendenza dei popoli, la quale non consiste nelle armi, nelle barriere
doganali, nella limitazione di sistemi ferroviari, fluviali, elettrici ecc, bensì nella scuola, nelle
arti, nei costumi, nelle istituzioni culturali.
Questa enunciazione dello statista piemontese coincide con quanto poi fu scritto nell’art 11
della Costituzione repubblicana circa la disponibilità dell'Italia a cedere quote della propria
sovranità ad organizzazioni internazionali costituite per assicurare la pace e la giustizia tra le
Nazioni.
L’art 11, concepito soprattutto per consentire l’adesione dell’Italia all’Organizzazione delle
Nazioni Unite, costituirà in seguito la base di appoggio per legittimare le limitazioni di
sovranità derivanti dalla partecipazione dell’Italia, quale membro fondatore, alla CEE.
L’on. Celeste Bastianetto tuttavia argomentò che fosse prematuro pensare agli Stati Uniti
d’Europa. Nonostante ciò suggerì di inserire accanto alle “limitazioni di sovranità necessarie”
anche l’esplicito richiamo all’ “unità dell’Europa”. Infatti, come nella Costituzione si considera
l’uomo, e sopra l’uomo la famiglia, e poi la Regione e lo Stato; così sopra lo Stato, e prima
dell’organizzazione mondiale internazionale, vi è l’Europa, perché prima di tutto si è cittadini
europei.
4. Prove di integrazione sotto la tutela americana: il ruolo dell’Italia.
Subito dopo l'entrata in vigore della Costituzione, l'itinerario che avrebbe condotto
all'allestimento della Comunità europea si intrecciò con altri percorsi.
Il primo dei suddetti percorsi, che porterà all'istituzione della diversa (rispetto alla Comunità
europea) organizzazione internazionale del Consiglio d'Europa, ebbe avvio nel 1948 all'Aja con
il Congresso svoltosi sotto la presidenza di W. Churchill. Durante il suo svolgimento si
confrontarono quelle che erano le tesi maggiormente rappresentative in ordine all'idea di
Unione europea.
a) Costituzionalisti (o federalisti): fautori di una nuova entità politica di tipo federale che
assorbisse le realtà nazionali;
b) Unionisti (o confederalisti): favorevoli a salvaguardare, pur nell'ambito di stretti accordi
internazionali, gli Stati nazionali nella pienezza della loro sovranità;
c) Funzionalisti: favorevoli ad un primato dei fattori tecnici ed economici da far gestire ad
istituzioni centrali.
Dal Trattato di collaborazione economica, sociale e culturale e di autodifesa collettiva
stipulato a Bruxelles scaturì nel 1949 a Londra, il Consiglio d’Europa, con gli obiettivi di offrire
specifica tutela ai diritti dell’uomo e di concludere a tale scopo, accordi su scala internazionale
per armonizzare le pratiche sociali e giuridiche degli Stati membri.
Nello stesso anno e sempre dal Trattato di collaborazione di Bruxelles, scaturì anche
l’Organizzazione intergovernativa di sicurezza e difesa, che a seguito di una sua riforma
assumerà la denominazione di Unione dell’Europa Occidentale (UEO).
Tornando al Consiglio d’Europa, secondo Spinelli, affinché esso potesse essere considerato un
effettivo strumento di unificazione occorreva:
1) Un certo insieme di affari gestiti in comune;
2) Un insieme di organi europei legislativi, esecutivi e giudiziari capaci di amministrare in
maniera efficace tali affari;
3) Fondare una cittadinanza europea, di cui devono godere egualmente tutti i cittadini dei
singoli Stati.
Il Comitato dei Ministri in seno al Consiglio d’Europa ritenne tuttavia che esso fosse destinato
a rimanere un’organizzazione internazionale ben distinta dall’UE. E’ anche vero che il più
celebre dei suoi atti, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata nel 1950, finì per influenzare decisivamente la fisionomia
della stessa Unione.
Il Consiglio d’Europa proseguì la sua evoluzione partendo dai 10 Stati originari fino a
raggiungere oggi ben 47 Stati, tra cui tutti i 28 dell’UE, impegnati a rispettare al loro interno i
diritti e le libertà fondamentali, nonché i principi dello Stato di diritto e della democrazia
pluralista. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti il compito di vegliare sul rispetto
della CEDU da parte dei Paesi membri del Consiglio d’Europa.
Un secondo percorso sulla strada dell'integrazione europea fu avviato con la creazione nel
1948 dell'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE), finalizzata a
promuovere tra gli Stati membri la liberalizzazione degli scambi commerciali, industriali e
finanziari. Tra i compiti principali dell’OECE vi era quello di coordinare l'attuazione del piano
Marshall (programma di aiuti economici americano). All’ONCE aderì anche l’Italia: Alcide De
Gasperi sostenne che tale adesione fosse una scelta qualificante della politica estera italiana.
L'OECE venne però compromessa da due fattori: la creazione della Comunità economica
europea e l'istituzione della Zona europea di libero scambio (EFTA). Quindi nel 1960 con lo
Accordo di Parigi l'OECE finì per optare per una diversa configurazione trasformandosi in
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e allargando la
partecipazione anche ad altri Paesi extraeuropei.
Non bisogna dimenticare, in questo contesto, l’influenza che ebbe sia riguardo l’istituzione del
Consiglio d’Europa sia dell’ONCE, il patrocinio americano finalizzato a compattare e ad
orientare il blocco occidentale in funzione ostile all’Unione Sovietica, con la quale era in atto
la guerra fredda.
I Paesi dell’Europa orientale, assoggettati all’egemonia sovietica, al fine di agevolare gli
scambi tra i Paesi comunisti istituirono il COMECON (Consiglio di mutua assistenza economica,
un’organizzazione internazionale comprensiva anche di Paesi extraeuropei).
L’Italia invece faticò a far parte del Patto Atlantico, firmato nel 1949 a Washington, con lo
scopo di collegare la politica di difesa degli Stati Uniti e del Canada a quella dei Paesi
dell’Europa dell’Ovest in funzione antisovietica, e da cui ebbe origine nel medesimo anno,
l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO).
La nascita della Comunità europea di difesa (CED) ruotò attorno alla questione della rinascita
economica e militare della Germania occidentale, ricostituitasi in entità statale indipendente
(Repubblica federale tedesca), distaccata dalla parte orientale del territorio tedesco,
rivendicando a sua volta la sua indipendenza (Repubblica democratica tedesca). Di fronte,
infatti, al riarmo tedesco, patrocinato dagli americani in funzione antisovietica, la Francia
propose la formazione della CED, nella quale la politica tedesca potesse essere coordinata con
quella degli altri alleati europei. In quest’occasione un ruolo essenziale fu ancora svolto da De
Gasperi, che sotto l’influenza di Spinelli, propose di inserire nel Trattato CED un articolo, il 38,
che assegnava all’Assemblea di studiare la costituzione di un organo rappresentativo eletto su
basi democratiche e di disegnare i poteri. Si previde, inoltre, che tale organo dovesse
elaborare proposte per una nuova organizzazione europea di carattere federale o
confederale.
Il trattato CED fu stipulato nel 1952, a Parigi, dai Ministri degli stessi Stati che l'anno prima
avevano stipulato il trattato CECA. Tuttavia, al momento della ratifica giunse il voto contrario
di Francia e Italia, cioè dei due Paesi che maggiormente ne avevano sostenuto la formazione.
In tal senso risultò determinante per l’Italia l’uscita di scena di Alcide de Gasperi. Ciò, di
conseguenza, comportò il fallimento della CED rinviando di più di mezzo secolo l'allestimento
di una politica europea di difesa.
5. La CECA e il decollo dell’integrazione: l’adesione dell’Italia.
La nascita della Comunità Europea del carbone e dell’acciaio si verificò in parallelo e con taluni
intrecci con la vicenda relativa alla CED.
Nel 1950, il ministro degli esteri francese propose di mettere in comune la produzione
franco-tedesca del carbone e dell’acciaio in un organizzazione aperta alla partecipazione di
altri Stati europei.
La cosiddetta dichiarazione Schuman è il discorso tenuto a Parigi il 9 maggio 1950 da Robert
Schuman, l'allora Ministro degli Esteri del governo francese, che viene considerato il primo
discorso politico ufficiale in cui compare il concetto di Europa come unione economica e
politica tra i vari Stati europei e rappresenta l'inizio del processo d'integrazione europea.
L’obiettivo politico immediato era quello di ancorare stabilmente la Germania all’Europa e di
eliminare le rivalità tra Francia e Germania in un’area strategica, come i bacini della Rhur e
della Saar, tradizionalmente oggetto di conflitto di interessi fra i due paesi.
Il fronte italiano si mostrò solidale nei confronti delle iniziative di integrazione europea. De
Gasperi, infatti, partecipò al progetto, seguendone tutte le varie fasi e spingendo per
l’immediata adesione, con la sottoscrizione del relativo Trattato, a Parigi nel 1951, tanto da
venire eletto egli stesso, Presidente dell’Assemblea della CECA.
Quindi, i negoziati aperti a Parigi tra sei Stati (Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia,
Germania, Italia), portarono alla firma del Trattato di Parigi del 1951 istitutivo della Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per la durata di 50 anni.
Il vero decollo dell’integrazione comunitaria può, pertanto, essere fatto coincidere con
l’istituzione della CECA, la quale esibì un tratto peculiare rispetto alle organizzazioni
dell’occidente europeo: ossia l’inedita presenza, accanto ad organi di natura tipicamente
internazionali, di un’Alta autorità, capace di decidere in modo indipendente dal consenso
unanime degli Stati membri: si parla per la prima volta del carattere sovranazionale
dell’organizzazione. Erano previsti inoltre un Consiglio dei Ministri, con poteri di controllo,
un’Assemblea parlamentare, una Corte di giustizia. Altri elementi che denotarono il suo
carattere sovranazionale furono: l’efficacia diretta negli ordinamenti delle sue decisioni
generali, l’attribuzione di risorse proprie al bilancio europeo, il principio del voto a
maggioranza nel Consiglio dei Ministri, la possibilità dell’elezione diretta del Presidente da
parte dell’Assemblea parlamentare comune.
6. Verso i Trattati di Roma: l’iniziativa italiana.
Dopo il fallimento della CED, Il rilancio dell'idea europeista si ebbe con la Conferenza di
Messina dei ministri degli esteri della CECA dove fu dato l’incarico ad una commissione di
esperti di studiare le iniziative per proseguire il percorso dell’integrazione. La commissione
elaborò due progetti: uno che prevedeva la creazione di un mercato comune generalizzato ed
uno più specifico riguardante la creazione di una Comunità per l’energia atomica. Tali progetti
entrarono in vigore nel 1957, con i Trattati di Roma istitutivi della Comunità economica
europea (CEE) e della Comunità Europea per l’energia atomica (CEEA o EURATOM), entrambi
i trattati entrarono in vigore nel 1958.
Con i Trattati di Roma, di durata illimitata rispetto al Trattato CECA, si era dunque dato vita a
due nuove comunità, i cui obiettivi erano:
1) Per la CEE, la creazione di un mercato comune europeo tra gli Stati membri tramite
un’Unione doganale, nonché la fissazione di politiche concertate nel campo agricolo,
commerciale e dei trasporti;
2) Per l’EURATOM, il raggiungimento dell’indipendenza energetica dell’Europa,
circoscrivendo comunque il campo d’azione al settore dell’energia nucleare civile e
pacifica.
Per quel che riguarda l’assetto istituzionale si seguì quello relativo alla CECA (c.d. triangolo
istituzionale), basato su un Consiglio, una Commissione e un’Assemblea parlamentare, con
accanto una Corte di Giustizia. Anche in questo assetto si rinvenì quell’elemento di
sovranazionalità che caratterizzò la CECA.
Per il raggiungimento dei loro scopi, le due Comunità, come la CECA, vennero dotate del
potere di produrre discipline cogenti di varia portata e natura, attraverso una serie di atti
(regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri).
Tra i due Trattati, solo quello EURATOM, proseguì la politica d’integrazione per i settori (come
la CECA), mentre quello CEE inaugurò la nuova linea dell’integrazione c.d. orizzontale,
imperniata su un’unione economica da raggiungere con gradualità, grazie alla libera
circolazione dei fattori produttivi del lavoro, delle merci, dei servizi e dei capitali.
7. I trattati di Roma alla prova: dalla crisi d’avvio al consolidamento istituzionale. La querelle
tra Italia e Francia per l’adesione britannica.
Nella prima fase del loro funzionamento, le Comunità europee sperimentarono una fase
piuttosto convulsa, contrassegnata tra l’altro dai tentativi dei britannici di entrare a far parte
della nuova realtà economica, soprattutto dopo l’insuccesso dell’EFTA.
In questo stesso periodo, anche l’atteggiamento dell’Italia, da sempre favorevole, conobbe
notevoli incertezze.
Il cammino dell'integrazione dunque incontrò varie difficoltà soprattutto a seguito della
politica del generale De Gaulle ostile a ogni aspetto di sovranazionalità nel funzionamento
delle istituzioni europee, culminata con l’opposizione della Francia a utilizzare il voto a
maggioranza in seno al Consiglio e che portò al c.d. compromesso di Lussemburgo con cui
venne generalizzata la prassi della votazione all’unanimità. Quindi un atto poteva ritenersi
adottato soltanto se nessuno si fosse espressamente opposto.
De Gaulle, inoltre, fu ostile all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. Sempre la
Francia ostacolò anche il nuovo progetto di unione politica presentato dall’allora Ministro
degli Esteri italiano e futuro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Sul piano interno, il 1964 fu per l’Italia un anno cruciale. La Corte Costituzionale, infatti, con
sentenza n.14 del 1964, presupponendo la pari efficacia di leggi interne e norme comunitarie,
fece leva sul classico criterio della successione cronologica, provocando, però la reazione della
Corte di Giustizia che nella successiva pronuncia (sentenza Costa-Enel) affermò la limitazione
senza riserve della sovranità degli Stati membri nei settori coperti dalle norme di origine
comunitaria, da considerarsi vincolanti tanto per i cittadini quanto per gli stessi Stati.
Successivamente, con due ravvicinate sentenze la Corte attribuì ai diritti fondamentali della
persona lo status di principi generali di diritto comunitario, di cui essa stessa avrebbe
garantito la protezione.
Una volta uscito di scena De Gaulle e con l’elezione di Pompidou, si decise di ammettere
l’ingresso della Gran Bretagna nella CEE.
Avvenne così che, alla Conferenza indetta all’Aja nel 1969 furono poste le premesse per un
ulteriore sviluppo dell’integrazione comunitaria, tra cui l’allargamento della Comunità, la
fissazione di risorse proprie della Comunità medesima e l’elezione diretta del Parlamento
europeo. Insieme alla Gran Bretagna dunque fecero ingresso nella Comunità anche la
Danimarca e l’Irlanda.
Con i trattati concernenti i nuovi ingressi furono per la prima volta quelle condizioni che
saranno puntualmente riprese per ogni successiva adesione: ossia l’assunzione da parte degli
Stati entranti di determinati impegni, la corrispondente modificazione della composizione
delle istituzioni comunitarie e la previsione di misure transitorie per l’ingresso dei nuovi
arrivati. Ciò dunque dimostrò il concreto carattere aperto delle organizzazioni comunitarie.
9. La crisi economica degli anni ’70 e la ricerca dell’unione monetaria. Le incertezze e le
difficoltà italiane.
Al momento della creazione della CEE, i sei Paesi fondatori partecipavano al sistema
monetario internazionale fissato a Bretton Woods nel 1944 e caratterizzato da alcuni tassi di
cambio fissi tra le monete (gold-dollar standard). Sostanzialmente, ciascuna moneta era
legata al dollaro e il dollaro, a sua volta, era legato secondo un tasso fisso all’oro.
Il crollo di questo sistema provocò un’instabilità monetaria generale che condusse gli Stati
membri alla ricerca di nuove formule di stabilità e alla costituzione di un’unione monetaria.
I governatori delle Banche centrali degli Stati membri erano addivenuti alla firma di un
accordo per la creazione di un sistema di reciproco sostegno monetario a breve termine, nella
prospettiva di una maggiore solidarietà monetaria. Il secondo passo fu la creazione nel 1972
del c.d. serpente monetario, rivolto a limitare i margini di fluttuazione tra le monete nazionali
al fine di impedire che sorgessero ostacoli valutari alla libera circolazione delle merci.
Nel vertice svoltosi a Parigi nel 1972 furono messi a punto due obiettivi: l’allestimento di
un’Unione economica e monetaria e la trasformazione del legame tra i Paesi della CEE in
un’Unione costruita su una base più ampia dell’ambito puramente economico. Dal vertice
parigino emerse, in particolare, la questione monetaria. In un primo momento, si era
addirittura pensato di escludere l’Italia sia per il suo poco rilevante ruolo europeo, sia per
l’instabilità politica ed economica interna che la faceva apparire incapace di far fronte agli
impegni assunti. Fu solo grazie alle pressioni degli americani che l’Italia poté essere presente.
La situazione interna italiana dell’epoca era molto grave a causa dell’emergenza determinata
dal terrorismo, culminata nel rapimento e nell’assassinio di Aldo Moro. Per questo motivo, il
Consiglio europeo approvò una dichiarazione in cui la Comunità manifestò la volontà di
proteggere i diritti individuali e le fondamenta delle istituzioni democratiche.
Nello stesso vertice di Brema nel 1978 venne istituito il Sistema monetario europeo (SME).
Venne dunque introdotta una nuova unità monetaria di riferimento (l’ECU), computata sulla
media di tutte le monete dei Paesi comunitari, sia un meccanismo di cambio tra Paesi
caratterizzato da una fluttuazione massima del 2,25 %.
9. Gli sviluppi istituzionali degli anni ’70. L’elezione diretta del Parlamento europeo.
Un nuovo vertice tenutosi a Parigi nel 1974 introdusse sostanziali novità, istituzionalizzando la
convocazione, tre volte l’anno, dei Consigli europei con la partecipazione dei capi di Stato e di
Governo, accompagnati dei rispettivi Ministri degli Esteri.
Il Trattato di Lussemburgo del 1970 aveva invece attribuito al Parlamento alcuni poteri di
bilancio, con la creazione di un sistema di risorse proprie della Comunità.
Con il Trattato di Bruxelles del 1975 al Parlamento fu, inoltre, riconosciuto il potere di
respingere il bilancio e di concedere il discarico alla Commissione per la sua esecuzione. Con il
medesimo Trattato venne istituita la Corte dei Conti comunitaria.
Ma la novità più rilevante fu l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale e
diretto. Fu, infatti, il Consiglio europeo di Roma nel 1975 a decidere per tale sistema di
elezione dei rappresentanti nell’assemblea a suffragio universale e diretto.
Le prime elezioni ebbero luogo in Italia il 10 giugno 1979, influenzate dalle elezioni politiche
fissate per la domenica immediatamente precedente. Ciò comunque contribuì in maniera
decisiva a chiarire la posizione dei movimenti e dei partiti politici italiani rispetto al tema
dell’integrazione comunitaria. In particolare, la candidatura di Spinelli nelle liste del partito
comunista rafforzò la scelta europeista di questo stesso partito.
Si collocano in questo contesto due fondamentali decisioni della Corte Costituzionale e della
Corte di Giustizia circa la collocazione del diritto comunitario negli ordinamenti nazionali e, un
particolare, nel nostro ordinamento costituzionale.
La Corte Costituzionale, superando la precedente sentenza n.14 del 1964, riconobbe il
primato del diritto comunitario, sia pure con la riserva del rispetto del c.d. controlimiti
costituiti dai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dai diritti
inalienabili della persona umana.
Non meno importante fu la pronuncia della Corte di Giustizia (sentenza Simmenthal) con cui
affermò l’incondizionata preminenza delle norme comunitarie su quelle interne, affidando ai
giudici nazionali il compito di garantire la piena efficacia delle prime, disapplicando
all’occorrenza le seconde.
10. Verso le revisione dei Trattati: L’Atto unico europeo e il referendum italiano di indirizzo
per il mandato costituente al Parlamento europeo.
Negli anni 80 si verificarono numerose iniziative tendenti a rilanciare il processo di
integrazione europea. Il Consiglio europeo di Stoccarda nel giugno 1983 adottò una
dichiarazione solenne dell'Unione europea con la quale si auspicava una maggiore coerenza
nell'azione delle Comunità e un rafforzamento dei rapporti tra gli Stati membri, estesi anche
alle relazioni internazionali.
Spinelli rilanciò l’idea di un’organizzazione europea sempre più stretta dal punto di vista
politico, sostenuto da un nutrito gruppo di eurodeputati riuniti nel c.d. Club del Coccodrillo.
Nel progetto di Spinelli fu prevista la creazione di un’Unione europea di tipo federale, di cui il
Consiglio europeo sarebbe stato l’organo più attivo, in stretta sinergia con il Parlamento e la
Commissione, ai quali erano riconosciuti poteri simili a quelli dei Parlamenti e dei Governi
nazionali. Tale progetto non ebbe favorevole accoglienza da parte di alcuni Stati e non ebbe
dunque seguito.
Il Consiglio europeo tenutosi a Fontainbleau incaricò un Comitato composto dai
rappresentanti dei Capi di Stato o di Governo di elaborare proposte per migliorare il
funzionamento del sistema comunitario anche nel campo della cooperazione politica. Il
rapporto fu esaminato dal Consiglio europeo di Milano del 1985, che decise di convocare una
conferenza intergovernativa la quale diede vita all’Atto Unico Europeo (AUE) entrato in vigore
nel 1987.
L'AUE ha introdotto numerose rilevanti modifiche di carattere istituzionale:
1) La formalizzazione del Consiglio europeo che emanava le direttive politiche generali ed
esprimeva la posizione comune sui problemi relativi alle relazioni esterne;
2) Il ristabilimento della votazione a maggioranza qualificata nel Consiglio per le misure di
armonizzazione relativa al mercato interno;
3) Il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo nel procedimento decisionale;
4) L’estensione delle competenze della Comunità a nuovi settori come l'ambiente, la
ricerca scientifica e fissazione di una data vincolante (31 dicembre 1992) per attuare il
completamento del mercato interno;
5) Trasformazione dell'insieme delle relazioni tra gli Stati membri in una Unione europea e
conferimento alla cooperazione politica europea CPE di un inquadramento giuridico e
formale che prima non aveva. Organi della CPE erano: il Comitato politico, con il
compito di dare impulso continuità alla cooperazione; il Gruppo dei corrispondenti
incaricato di seguire l'attuazione della CPE in base alle direttive del Comitato; il
Segretariato che assisteva la presidenza nella preparazione della cooperazione e nelle
questioni amministrative.
A seguito dei trattati riformati a Lisbona sono aumentati anche i poteri del Presidente della
Commissione. Tale organo infatti definisce gli orientamenti della Commissione, decide
l’organizzazione interna, al fine di assicurare la coerenza, l’efficacia e la collegialità della sua
azione, nomina i vicepresidenti (tra lui l’Alto rappresentante) e può richiedere la
rassegnazione delle dimissioni a ciascun commissario.
8. L’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI
SICUREZZA.
Rinvio al capitolo 3°.
9. LA CORTE DI GIUSTIZIA.
Rinvio al capitolo 6°.
10. LE ALTRE ISTITUZIONI DELL’UNIONE EUROPEA.
10.1 LA BANCA CENTRALE EUROPEA.
10.2 La composizione.
La BCE con sede a Francoforte esercita dal 1° gennaio 1999 il compito di dare attuazione alla
politica monetaria europea definita dal Sistema europeo delle banche centrali. La BCE è un
organo dotato di personalità giuridica e caratterizzato da un’assoluta indipendenza sia dai
Governi nazionali che dalle istituzioni dell’Unione.
Il primo organo di riferimento è rappresentato dal Consiglio direttivo, composto dai membri
del Comitato esecutivo della BCE e dai governatori delle Banche centrali partecipanti alla terza
fase dell’unione monetaria. Il Consiglio direttivo è l’organo competente a dettare la politica
monetaria. Ciascuno dei suoi membri dispone di un voto e generalmente sono adottate a
maggioranza semplice. Solo in via eccezionale si fa ricorso ad un voto ponderato sulla base
delle quote di capitale sottoscritte da ciascun Banca centrale nazionale.
Il secondo organo che viene in rilievo è costituito dal Comitato esecutivo, composto da
Presidente, dal Vicepresidente e da altri 4 membri, scelti tra persone di riconosciuta levatura
ed esperienza professionale nel settore monetario e bancario e nominati per un periodo di 8
anni dal Consiglio europeo con deliberazione a maggioranza qualificata, su raccomandazione
del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della
BCE. Il Comitato esecutivo esplica funzioni di preparazione delle riunioni del Consiglio
direttivo, dando esecuzione agli indirizzi di politica monetaria precedentemente determinati
dal Consiglio direttivo.
Il terzo organo di riferimento infine è costituito dal Consiglio generale, formato dal Presidente
e dal Vicepresidente della BCE e dai Governatori delle Banche centrali nazionali, compresi
quelli dei Paesi che non hanno ancora manifestato l’intento di aderire all’unione monetaria o
non si trovano nella possibilità di rispettare i parametri di accesso.
Tra le competenze del Consiglio generale vengono in rilievo il potere di rilasciare pareri in via
preventiva rispetto all’adozione da parte del Consiglio direttivo di atti rientranti tra le sue
attribuzioni, la funzione di fissazione dei tassi di cambio delle monete degli Stati membri e la
facoltà di assistere la BCE nelle sue attività di consulenza.
Con il Trattato di Lisbona, la BCE viene elevata al rango di istituzione dell’Unione, pur
risultando invariati la sua strutturazione interna, il suo statuto e i suoi obiettivi.
10.1.3. Le attribuzioni.
Tra le principali attribuzioni della BCE viene in rilievo il diritto esclusivo di autorizzare
l’emissione di banconote all’interno dell’Unione. Le banconote sono pertanto emesse sia dalla
Banca centrale europea, sia dalle banche centrali nazionali, su concessione della prima.
La BCE dispone inoltre di un potere d’iniziativa per gli atti dell’Unione che investono il settore
economico e monetario e per garantire l’esplicazione delle proprie funzioni è fornita anche di
un autonomo potere normativo, potendo adottare regolamenti e decisioni e formulare pareri
e raccomandazioni.
La BCE ha la facoltà di svolgere una funzione di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle
altre istituzioni finanziarie. Essa dispone anche di un potere sanzionatorio che le permette di
comminare ammende o penalità di mora alle imprese che non abbiano osservato gli obblighi
derivanti dagli atti da essa adottati.
La BCE viene inoltre consultata non solo in merito alla proposta di adozione di atti dell’Unione
che investono i settori di sua competenza, ma anche nell’ambito della procedura di revisione
dei trattati qualora siano oggetto di riforma le disposizioni istituzionali nel settore monetario.
La Banca centrale non è soggetta al controllo delle altre istituzioni comunitario, salvo il
Parlamento europeo. Si prevede infatti l’obbligo del Presidente della BCE di consegnare ogni
anno al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione, nonché al Consiglio europeo
una relazione sull’attività del Sistema europeo delle banche centrali e sulla politica monetaria
dell’anno precedente e dell’anno in corso.
10.1.4. Le attribuzioni definite dal Regolamento UE n. 1024/2013.
Il regolamento UE n.1024/2013 attribuisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in
materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi, al fine di contribuire alla sicurezza e alla
solidità degli enti creditizi e alla stabilità del sistema finanziario all’interno dell’Unione e di
ciascuno Stato membro.
In virtù di tale regolamento la BCE entra a far parte del Meccanismo di vigilanza unico (MVU),
sistema di vigilanza composto dalla BCE e dalle autorità nazionali competenti degli Stati
membri partecipanti.
Tale regolamento prevedere l’istituzione di 2 organi:
1) La commissione amministrativa del riesame: è incaricata di procedere al riesame
amministrativo interno delle decisioni adottate dalla BCE nell’esercizio dei poteri
attribuitale da tale regolamento. La portata del riesame amministrativo interno
riguarda la conformità procedurale e sostanziale di tali decisioni con il regolamento.
Essa è composta da 5 persone di prestigio, provenienti dagli Stati membri e in possesso
di conoscenze pertinenti e di esperienza professionale. I suoi membri e due membri
supplenti sono nominati dalla BCE per un mandato di 5 anni, che può essere rinnovato
una sola volta. Essi non sono vincolati da alcuna istruzione.
2) Il Consiglio di vigilanza: è un organo interno composto di un presidente e di un
vicepresidente, 4 rappresentanti della BCE e infine un rappresentante dell’autorità
nazionale competente di ciascuno Stato membro partecipante. Tutti i membri del
consiglio di vigilanza agiscono nell’interesse dell’Unione nel suo complesso.
10.2 LA CORTE DEI CONTI.
10.2.1-2. La composizione e le attribuzioni.
Creata con il Trattato di Bruxelles del 1975, la Corte dei conti figura ormai tra le istituzioni
dell'Unione. Essa è incaricata di effettuare il controllo contabile esterno alle singole istituzioni
e l'esame del bilancio dell'Unione.
La Corte dei conti è composta da un cittadino di ogni Stato membro. I membri sono scelti a
titolo individuale tra le personalità che appartengono o abbiano appartenuto alle istituzioni di
controllo esterno dei rispettivi paesi e siano in possesso della qualifica specifica per tale
funzione e offrono garanzie di indipendenza.
Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, adotta l'elenco dei membri in conformità
alle proposte presentate da uno Stato membro.
I membri della Corte dei conti restano in carica per sei anni e il loro mandato è rinnovabile.
Devono svolgere il lavoro in piena indipendenza nell'interesse dell'Unione, non devono
accettare istruzioni da alcun governo e devono astenersi da ogni atto incompatibile con le loro
funzioni.
Il presidente viene eletto dai membri e dura in carica tre anni. Su richiesta della Corte dei
conti, la Corte di giustizia può destituire dalle loro funzioni o dichiarare decaduti dal loro
diritto a pensione od o da altri vantaggi sostitutivi, quei membri che non siano in possesso dei
requisiti richiesti o non rispettino gli obblighi derivanti dalla loro carica.
L'attività della Corte è collegiale: il lavoro svolto individualmente dai membri responsabili dei
vari settori viene esaminato dal collegio che decide sul seguito che dovrà loro essere dato e
stabilisce il testo definitivo dei pareri e delle relazioni.
La Corte dei conti ha competenza generale per il controllo esterno della gestione finanziaria
dell'Unione: esamina i conti di tutte le entrate e le uscite delle istituzioni e di ogni altro
organismo creato dall'Unione a meno che ciò non sia escluso dal relativo atto costitutivo. Il
controllo riguarda la legalità e la regolarità di tutte le operazioni. La Corte accerta inoltre la
sana gestione finanziaria.
I controlli possono essere effettuati sia presso le istituzioni sia negli Stati membri, compresi i
locali di persone fisiche e giuridiche che ricevono contributi a carico del bilancio dell'Unione.
La Corte conti può chiedere inoltre alle autorità nazionali interessate la documentazione e le
informazioni che ritenga necessarie. Assiste il Parlamento e il Consiglio nella loro funzione di
controllo sull'esecuzione del bilancio, mentre è sprovvista di poteri diretti di sanzione.
I risultati dei lavori della Corte formano normalmente oggetto di una relazione in cui essa
attesta l'affidabilità dei conti e la legittimità e regolarità delle relative operazioni. La Corte la
redige dopo la chiusura dell'esercizio finanziario per poi trasmetterla entro il 30 novembre
direttamente al Parlamento e al Consiglio. La relazione viene pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale dell'Unione europea.
La Corte svolge anche una rilevante funzione consultiva potendo presentare di sua iniziativa in
ogni momento proprie osservazioni su questioni specifiche e rilasciare pareri su richiesta delle
istituzioni. A ciò si aggiungono ovviamente le forme di consultazione obbligatoria nei casi
contemplati dal Trattato. Il parere della Corte è obbligatorio in due casi: quando il Parlamento
europeo e il Consiglio stabiliscono i regolamenti finanziari; quando il Consiglio ed il
Parlamento europeo determinano norme ed organizzino il controllo della responsabilità degli
agenti finanziari, ordinatori e contabili.
11. GLI ORGANI CONSULTIVI DELL’UNIONE.
11.1. IL COMITATO ECONOMICO E SOCIALE.
11.1.1-2 La composizione e attribuzioni.
La rappresentanza a livello dell'Unione degli interessi delle diverse componenti economico-
sociali nazionali è affidata al Comitato economico e sociale (CES) con compiti esclusivamente
consultivi. È composto da rappresentanti delle organizzazioni dei datore di lavoro, dei
lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Essi devono avere la
cittadinanza di uno degli Stati membri. Il loro numero è pari a 344 membri ripartiti in maniera
ponderata tra gli Stati membri. Sono nominati a titolo personale per cinque anni rinnovabili
del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata su una lista presentata da ciascuno Stato
membro.
Il Comitato designa il suo presidente per due anni e mezzo e stabilisce il proprio regolamento
interno. È convocato dal presidente su richiesta del Parlamento europeo, del Consiglio e della
Commissione ma può riunirsi anche di propria iniziativa. All'interno è organizzato in 3 gruppi e
sei sezioni. Il primo gruppo è costituito dai delegati dei datori di lavoro; il secondo riunisce i
lavoratori; mentre il terzo è costituito da altre categorie economiche e sociali, professionali e
culturali. Le sei sezioni sono specializzate nei principali settori contemplati dal Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea: unione economica e monetaria, mercato interno,
produzione e consumo, trasporti, energia, infrastrutture, occupazione, agricoltura ecc.
Le funzioni attribuite al Comitato economico e sociale sono classificabili in 3 categorie:
1) Formulazione di pareri rivolti alle tre principali istituzioni dell’Unione, Parlamento
europeo, Consiglio e Commissione;
2) Sviluppo di una maggiore partecipazione della società civile al processo decisionale
dell’UE;
3) Rafforzamento del ruolo svolto dalla società civile nei Paesi terzi attraverso la
valorizzazione dei strutture di natura consultiva.
Nella maggior parte dei casi il CES adempie a funzioni di natura prettamente consultiva. La
funzione consultiva è esercitata dal Comitato nella sua unità e non dalle singole sezioni, anche
se queste sono chiamate a formulare pareri di rispettiva competenza che dovranno poi essere
approvati dal Comitato in seduta plenaria.
I pareri possono essere richiesti (dalla Commissione, dal Consiglio o dal Parlamento europeo);
possono essere esplorativi (il Comitato, su richiesta delle istituzioni interessate, formula
indicazioni su una particolare materia); infine i pareri possono essere resi di sua iniziativa su
qualsiasi problematica concernente gli obiettivi dell’UE.
Sia l'atto unico europeo che il Trattato sull'Unione europea hanno rinforzato la partecipazione
del Comitato all'elaborazione dei provvedimenti rivolti al completamento del mercato interno,
in materia di istruzione, formazione professionale, industria, ambiente, ricerca e sviluppo
tecnologico.
11.2. IL COMITATO DELLE REGIONI
Rinvio al capitolo 8°
12. LA BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI (BEI)
12.1-2. La composizione e l’organizzazione interna - funzioni.
È dotata di personalità giuridica e di autonomia finanziaria. Agisce in modo indipendente sui
mercati finanziari internazionali, senza scopo di lucro e nei limiti del perseguimento degli
obiettivi dell'Unione, con il compito di contribuire ad uno sviluppo equilibrato e senza scosse
del mercato interno nell'interesse dell'Unione. Inoltre è chiamata a facilitare il finanziamento
di progetti per la valorizzazione delle regioni meno sviluppate o per la riconversione di
imprese o di interesse comune per Stati membri nonché la realizzazione dei programmi di
investimenti congiuntamente con gli interventi dei fondi strutturali e degli altri strumenti
finanziari dell'Unione.
Ogni Stato membro è membro della Banca europea. Questa è amministrata e gestita da un
Consiglio dei governatori composto dai ministri degli Stati membri (competente nella
definizione della politica generale del credito della stessa e nella vigilanza sull’esecuzione delle
direttive impartite. Le deliberazioni del Consiglio dei governatori sono adottate di norma a
maggioranza dei membri che lo compongono, che rappresenti almeno il 50% del capitale
sottoscritto), da un Consiglio di amministrazione che gestisce l'ordinaria amministrazione
(formato da 28 membri, nominati rispettivamente da ciascuno Stato membro e dalla
Commissione e da 18 supplenti. Tra le sue competenze figurano quelle relative
all’approvazione di operazioni di concessione e acquisizione di prestiti garantendo la corretta
amministrazione della BEI), da un Comitato direttivo (composto da 9 membri, un presidente e
8 vicepresidenti, nominati per un mandato rinnovabile di sei anni. Esso dispone di funzioni
esecutive e gestisce gli affari di ordinaria amministrazione della BEI).
13. I COMITATI CONSULTIVI E LE AGENZIE.
13.1. I Comitati consultivi.
II Consiglio e la Commissione sono assistiti da una serie di comitati e gruppi di lavoro. Questi
comitati nascono negli anni '60 per sopperire al carico di lavoro che c'era soprattutto nel
settore agricolo. Si tratta di organismi a composizione mista formati dai rappresentanti delle
amministrazioni degli Stati membri e sono presieduti da un funzionario della Commissione
con competenze specialistiche. Il loro obiettivo consiste nel favorire una composizione delle
diverse posizioni e degli eterogenei interessi tra livello statale e livello sovranazionale, in
particolare nella fase di predisposizione delle decisioni dell’Unione: si tratta pertanto di organi
aventi una doppia ausiliarietà, sia nei confronti dell’Unione, sia nei confronti degli Stati
membri. Attualmente esistono circa 300 comitati operanti sia nei confronti del Consiglio sia
nei confronti della Commissione.
Tra i comitati che preparano i lavori del Consiglio va ricordato:
1) Il Comitato politico e di sicurezza, operante nei settori della politica estere e di
sicurezza comune. Al comitato compete infatti il controllo della situazione
internazionale; predispone, inoltre i poteri da sottoporre all’attenzione del Consiglio e
dell’Alto rappresentante;
2) Il Comitato permanente, attivo nel settore della cooperazione in materia di sicurezza
interna, fatte salve le specifiche attribuzioni del CO.RE.PER, risulta competente alla
formulazione di pareri, richiesti dallo stesso Consiglio o predisposti di sua iniziativa;
3) Il Comitato economico e finanziario, costituito da due rappresentanti degli Stati
membri, della Commissione e della Banca centrale europea. Esso svolge la sua attività
attraverso il rilascio di pareri e la programmazione dei lavori del Consiglio nei settori
relativi;
4) Il Comitato per l’occupazione, è stato istituito ad opera del Consiglio previa
consultazione del PE. Tale comitato è composto da membri nominati dagli Stati membri
e dalla Commissione e persegue l’obiettivo di armonizzare le politiche nazionali in
materia di occupazione;
5) Il Comitato per la protezione sociale, svolge essenzialmente funzioni di carattere
consultivo allo scopo di promuovere la cooperazione tra Stati membri e Commissione
nel settore della protezione sociale, formulando pareri o avviando altre attività.
Tra i Comitati che svolgono una funzione di ausilio alla Commissione possono ricordarsi: il
Comitato consultivo in materia di trasporti, il Comitato di gestione del Fondo Sociale
Europeo, il Comitato speciale della politica commerciale.
Nel contesto invece dei recenti interventi normativi volti a realizzare un sistema unico di
vigilanza bancaria e risoluzione delle crisi degli enti creditizi vengono in rilievo il Comitato
congiunto delle Autorità europee di vigilanza, il Comitato europeo per il rischio sistemico
(CERS), il Comitato unico di risoluzione delle crisi, con compiti specifici relativi alla
preparazione e alla gestione della risoluzione delle crisi delle banche in dissesto o a rischio di
dissesto.
13.2 LE AGENZIE.
Le agenzie sono organismi di diritto pubblico europeo aventi una propria personalità giuridica.
Svolgono compiti di natura tecnica, gestoria o scientifica per il miglioramento della
cooperazione tra il livello comunitario ed il livello nazionale.
Le agenzie europee vengono denominate in vario modo, sono dotate di autonomia finanziaria
e costituiscono un gruppo eterogeneo accomunato da un modello organizzativo unitario.
Esse appaiono caratterizzate dalla presenza di 4 elementi: l’introduzione di un fattore di
decentramento delle attività dell’Unione; l’espletamento di funzioni concernenti la raccolta ed
elaborazione di informazioni; lo svolgimento di un ruolo di mediazione tra vari gruppi di
interesse; l’assolvimento di funzioni di controllo tecnico e di indirizzo specialistico.
Esse sono costituite da un Consiglio di amministrazione (stabilisce gli orientamenti generali e
dota l’agenzia di specifici programmi di lavoro. La sua composizione è determinata dal
regolamento istitutivo), da un Direttore esecutivo (ha la rappresentanza legale dell’agenzia ed
è di regola nominato dalla Commissione) e uno o più Comitati tecnici scientifici (sono formati
da esperti del settore oggetto di intervento e tra le loro competenze sono comprese quelle
relative al rilascio di pareri su questioni poste alla loro attenzione).
Attualmente possono individuarsi oltre 40 organismi rispondenti alla definizione di Agenzia
europea che, a seconda dell’attività svolta, risultano classificabili in 4 categorie:
1) Agenzie che concorrono al funzionamento del mercato interno (autorità europea per la
sicurezza dei prodotti alimentari);
2) Agenzie che hanno il compito di promuovere il dialogo sociale e livello europeo (agenzia
europea per la sicurezza e la salute sul lavoro);
3) Agenzie che svolgono compiti e realizzano programmi per l’Unione europea nel
rispettivo campo di competenza (fondazione europea per la formazione professionale);
4) Gli osservatori (agenzia europea per l’ambiente, centro europeo per la prevenzione e il
controllo delle malattie ecc).
Accanto alle agenzie europee si possono riscontrare ulteriori tipologie di organismi, anch’essi
denominati con il termine Agenzie e classificabili sulla base del settore specialistico di loro
competenza, con lo scopo di fornire ausilio e consulenza agli Stati membri e ai loro cittadini.
Anche in tale ipotesi la loro istituzione risponde all’esigenza di attuare un decentramento
geografico, provvedendo alla necessità di esercitare nuove attribuzioni di carattere tecnico,
giuridico e scientifico. Tra esse:
1) Le Agenzie impegnate nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (agenzia
europea per la difesa);
2) Le Agenzie per la cooperazione giudiziaria in materia penale (Europol, Eurojst);
3) Le Agenzie operanti nel settore bancario, assicurativo e finanziario (autorità bancaria
europea);
4) Le Agenzie esecutive (agenzia esecutiva per i consumatori, la salute e la sicurezza
alimentare).
13.3 Le funzioni delle istituzioni dell’UE nel contesto degli strumenti di riforma della
governance economica europea.
La riforma della governance economica europea realizzata attraverso l’adozione di alcuni
strumenti, di natura sia eurounitaria sia internazionale ha inciso sui poteri di alcune delle
istituzioni dell’Unione ed ha istituito un nuovo organismo, il Vertice europeo, realizzando in
tal modo un’integrazione dei trattati relativamente alla struttura istituzionale della zona euro.
Il Sick Pack ha introdotto un rafforzamento del ruolo della Commissione rispetto al Consiglio
e, in particolare all’inversione della regola della maggioranza nelle procedure di voto in seno
al Consiglio. I regolamenti facenti parte del Sick Pack attribuiscono al PE una funzione di
controllo politico istituzionalizzata nella clausole sul dialogo economico. In base a tali clausole,
la commissione competente del PE può invitare il Presidente del Consiglio e della
Commissione a partecipare a una sua riunione per discutere delle decisioni adottate nel
quadro delle procedure di controllo delle politiche economiche degli Stati membri. Tuttavia
tali clausole non hanno la funzione di introdurre il PE nel circuito decisionale.
Il Trattato MES ricorre invece alle istituzioni europee (Commissione, BCE e Corte di giustizia)
per gestire il meccanismo di stabilità finanziaria. In particolare, alla Commissione e alla BCE è
stato affidato un ruolo fondamentale nell’elaborazione del programma di risanamento che lo
Stato richiedente gli aiuti deve presentare per ricevere il sostegno finanziario. Sulla base della
valutazione della Commissione europea il Consiglio dei governatori può poi decidere di
concedere gli aiuti. Successivamente, si affida alla Commissione il compito di negoziare con lo
Stato un protocollo di intesa, che preveda un programma di correzioni macroeconomiche per
affrontare la situazione di dissesto finanziario in cui versa.
Con il Fiscal compact, il Consiglio e soprattutto la Commissione assumono un ruolo
importante che si estrinseca nelle proposte di azione, nella presentazione periodica di
rapporti sulla compliance da parte degli Stati contraenti, nella preparazione del Vertice
europeo. La Commissione ed il Consiglio sono inoltre i soggetti istituzionali ai quali le parti
contraenti hanno l’obbligo di comunicare ex ante i propri piani di emissione del debito
pubblico.
Al Parlamento europeo è invece attribuito un ruolo marginale. Non solo non è colegislatore,
ma non è nemmeno consultato.
13.3.1. Segue: le funzioni della Corte di giustizia.
Il Trattato MES prevede la competenza della Corte di giustizia a conoscere le controversie
aventi ad oggetto le decisioni del Consiglio dei governatori concernenti l’interpretazione e
l’applicazione di tale trattato e la compatibilità con esso delle decisioni adottate dal MES. La
Corte di giustizia ha chiarito che nei settori che non rientrano nella competenza esclusiva
dell’Unione, gli Stati membri hanno il diritto di affidare alle istituzioni, al di fuori dell’ambito
dell’Unione, compiti come il coordinamento di un’azione comune da essi intrapresa o la
gestione di un’assistenza finanziaria.
E’ sancito l’obbligo delle parti contraenti di recepire la regola del pareggio di bilancio nei loro
ordinamenti giuridici nazionali, tramite disposizioni vincolanti, permanenti e preferibilmente
di natura costituzionale, dovrebbe essere soggetta alla giurisdizione della Corte di giustizia
dell’UE. E’ inoltre attribuito alla Corte di comminare il pagamento di una somma forfettaria o
di una penalità allo Stato membro dell’UE che non si sia confermato a una sentenza da essa
pronunciata.
La disciplina specifica è contenuta nell’art 8 del Trattato sulla stabilità, che contempla
meccanismi inediti di ricorso alla CGUE. Tale ricorso inizia con modalità che ricordano quelle
del ricorso d’infrazione, ma poi se ne discosta significativamente: la Commissione presenta
alle parti contraenti un rapporto sulle norme che ciascuna di essa ha adottato. Se dopo aver
concesso un termine per adempiere, la Commissione conclude che una o più parti non
abbiano compiuto quanto previsto, la materia sarà portata davanti alla CGUE. Non sarà,
tuttavia, la Commissione, ma una delle parti contraenti a poter portare il ricorso davanti alla
Corte di giustizia. Viene peraltro previsto che uno Stato contraente possa presentare ricorso
contro uno Stato ritenuto inadempiente indipendentemente dal parere della Commissione. In
entrambe le ipotesi la sentenza sarà vincolante per lo Stato interessato. Qualora la sentenza
non venga rispettata e lo Stato non ponga in essere le misure richieste nel termine indicato
dalla Corte, un altro Stato può chiedere alla Corte di applicare allo Stato inadempiente una
sanzione o somma forfettaria in misura non eccedente lo 0,1 % del PIL.
La competenza della Corte non è riferita alla violazione di tutte le disposizioni del Trattato di
stabilità, ma è circoscritta alla violazione dell’obbligo di adottare entro 1 anno dall’entrata in
vigore del Trattato le disposizioni vincolanti e permanenti sul pareggio di bilancio e di
prevedere meccanismi di correzione sulla base di principi indicati dalla Commissione.
13.3.2. Altri organi di governance economica dell’Eurozona.
L’art 12 del Trattato di stabilità ha istituzionalizzato nelle riunioni del Vertice euro la pratica
degli incontri dei capi di Stato e di governo degli Stati dell’eurozona. A tali incontri partecipa il
Presidente della Commissione, è invitato il Presidente della BCE e può esserlo anche il
Presidente del Parlamento europeo per essere ascoltato.
Il Vertice euro ha un proprio Presidente, che viene eletto a maggioranza semplice dai Capi di
Stato e di governo dei Paesi la cui moneta è l’euro. Il mandato è di 2 anni e mezzo.
Le riunioni sono convocate quanto necessario e comunque almeno 2 volte all’anno per
discutere questioni relative alle responsabilità degli Stati membri la cui moneta è l’euro e altre
tematiche concernenti la governance della zona euro.
Le riunioni del vertice euro sono preparate dall’Eurogruppo, che deve darvi anche seguito.
L’Eurogruppo è un organismo che si compone di ministri delle finanze dell’Eurozona e ha un
proprio presidente stabile.
Mentre secondo il Trattato di Lisbona l’Eurogruppo è un organo di concertazione, il Trattato di
stabilità attribuisce ad esso la nuova funzione di dar seguito alle riunioni del Vertice euro. Si
delinea così una struttura duale, basata sul Vertice euro e l’Eurogruppo, che riproduce le
istituzioni dell’Unione (Consiglio europeo e Consiglio).
14. La forma di governo dell’UE nei nuovi trattati emergenti dalle modifiche apportate dal
Trattato di Lisbona.
14.1 La separazione dei poteri e l’equilibrio istituzionale.
Quando nacque la CE i padri fondatori non la strutturarono sulla base del principio della
separazione dei poteri, probabilmente perché era prevalsa la volontà di costituire
un’organizzazione internazionale volta al perseguimento di specifiche finalità, all’interno della
quale non sembrava necessario distinguere tra il potere legislativo e quello esecutivo. Il
risultato fu quello di delineare all’interno dei trattati un equilibrio di poteri tra le principali
istituzioni comunitarie coinvolte nel processo decisionale: il Parlamento, la Commissione e il
Consiglio.
Inizialmente il processo decisionale era incentrato sull’interrelazione tra due organi, il
Consiglio e la Commissione, con un ruolo del tutto marginale del PE. L’adozione degli atti
comunitari doveva infatti avvenire da parte del Consiglio sulla base di una proposta
presentata dalla Commissione e su semplice consultazione del PE.
Successivamente inizio la fase di ascesa del PE che nel 1979 ottiene una maggiore
legittimazione democratica tramite l’elezione a suffragio universale diretto. Il PE dunque
cominciò ad incidere sull’attività legislativa comunitaria, insistendo affinchè la Commissione
tenesse in considerazione gli emendamenti di matrice parlamentare e utilizzando lo
strumento dell’accordo internazionale riuscì a sviluppare i propri poteri, soprattutto in ambito
legislativo.
Con l’AUE i poteri del PE vennero maggiormente rafforzati. Ma il mutamento più significativo
si è manifestato con il trattato di Maastricht del 1992. Infatti al c.d. metodo comunitario
caratterizzato da un processo decisionale articolato tra istituzioni comuni, volte al
perseguimento di un interesse generale, è stato affiancato il metodo intergovernativo,
rappresentato dal rilevante peso giocato dalle istituzioni meno sopranazionali.
Contestualmente, la struttura a pilastri ha modificato l’atteggiarsi dei diversi poteri
istituzionali, creando all’interno dei pilastri 3 diversi triangoli, ciascuno caratterizzato da un
proprio grado di sopranazionalità. L’evoluzione in atto dal Trattato di Maastricht ha favorito
ulteriormente l’ascesa del Parlamento ed ha parallelamente registrato un decentramento
della rilevanze della Commissione.
I nuovi trattati riformati a Lisbona confermarono tale tendenza, rafforzando il ruolo del PE e
affievolendo quello della Commissione. E’ stato affermato che i nuovi trattati più che alla
separazione dei poteri tenderebbero ad un meccanismo di checks and balances, ad
intensificare l’interconnessione tra le istituzioni coinvolte nei vari processi decisionali: l’Alto
Rappresentante fungerà da collante tra la Commissione, il Consiglio e il Consiglio europeo; il
PE e il Consiglio nomineranno un Comitato di 7 personalità con il compito di fornire un parere
sull’adeguatezza dei canditati alla funzione di giudice della Corte di giustizia dell’UE e del
Tribunale; la rappresentanza esterna dell’Unione sarà di volta in volta garantita dall’Alto
rappresentante, dalla Commissione e dal Consiglio europeo; il potere esecutivo continua ad
essere esercitato dalla Commissione che promuove l’interesse generale e adotta le iniziative
appropriate.
Ciò dà luogo ad un sistema particolare in cui i poteri si sovrappongono l’uno con l’altro e ad
una forma di governo provvisoria e transitoria.
14.2 La forma di governo dell’Unione: una prospettiva sistematica.
Se si analizza il quadro istituzionale, si possono rilevare due distinti, ma al contempo
interconnessi modelli organizzativi. Da una parte viene in rilievo il Consiglio, istituzione dal
carattere prettamente intergovernativo nella quale di fatto risiede l’essenza del potere
nell’ambito dell’Unione, che insieme con il Consiglio europeo, organo nato dalla prassi delle
riunioni al vertice dei capi di Stato o di Governo degli Stati membri, rappresenta la
componente internazionale; dall’altra si collocano il PE, la Commissione e la Corte di giustizia,
che partecipano, anche se in posizione subordinata, al procedimento decisionale, raffigurando
la componente sopranazionale.
Tale evoluzione istituzionale è oggi approdata ad una nuova fase, determinata
dall’approvazione del Trattato di Lisbona, che ha inciso sui trattati esistenti. Questa ulteriore
tappa nel processo d’integrazione europea si propone si delineare un quadro istituzionale
dotato di un insieme di organi operanti in relazione a tutte le competenze dell’Unione. In
particolare, la struttura che ne emerge sembra configurare i due organi legislativi (Consiglio e
PE) quali rami di un sistema bicamerale federale, all’interno del quale il Parlamento diviene in
via definitiva la sede di rappresentanza degli interessi del popolo europeo e il Consiglio delle
istanze degli Stati membri. Il bicameralismo federale sembra essere rafforzato dal diverso
metodo di legittimazione delle due istituzioni coinvolte. Im membri del Parlamento europeo
sono infatti eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto, con mandato di 5 anni,
mentre il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello
ministeriale, abilitato ad impegnare il Governo che rappresenta.
Sul versante della funzione di indirizzo ed esecutiva, l’Unione sempre essere guidata da un
governo bipolare, costituito da una testa tecnica, data dalla Commissione, e da una testa
politica, rappresentata dal Consiglio europeo. Quest’ultimo è fatto rientrare tra le istituzioni
dell’Unione. Esso è un organo intergovernativo, composto dai capi di Stato o di Governo degli
Stati membri e dal Presidente della Commissione, ma con un Presidente stabile, che soppianta
il metodo della rotazione semestrale, conferendo coerenza e continuità alla politica
dell’Unione. Sembra che i nuovi trattati abbiano voluto delineare un soggetto qualificabile
come chairman piuttosto che come Presidente con effettivi poteri operativi. La differenza tra
le due qualificazioni non è solo lessicale, ma anche sostanziale, in quanto la prima designa un
soggetto con semplici poteri di direzione e coordinamento di un organo collegiale, mentre la
seconda vuole significare una direzione politica, caratterizzata da un forte ruolo esecutivo.
Non sembra potersi affermare con certezza che tale figura costituirà effettivamente una
leadership in seno all’UE, anche se alcuni autori ne hanno posto in rilievo l’esigenza. Tale
obiettivo potrà essere realizzato qualora abbia luogo un cumulo delle due cariche di
Presidente del Consiglio europeo e di Presidente della Commissione.
Le funzioni complessivamente attribuite al Consiglio europeo potranno permettere a tale
istituzione di incidere in misura significativa sulle principali politiche dell’Unione,
atteggiandosi quale Presidente collegiale dell’Unione, riassorbendo al suo interno il proprio
Presidente. Ciò potrebbe dare luogo ad un sistema ad esecutivo bicefalo, simile al modello
francese, caratterizzato dalla presenza di un Capo dello Stato, titolare delle funzioni d’indirizzo
e di politica estera, e di un Governo che esercita le competenze relative agli affari interni e alla
politica economica. Quest’ultima entità è rappresentata dalla Commissione, organo di natura
collegiale, costituito da un proprio Presidente, dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza e da una serie di commissari.
La questione circa la forma di governo dell’UE dunque non può ancora trovare una soluzione
certa e definitiva.
CAPITOLO V
LE FONTI DEL DIRITTO EUROPEO ED I LORO RAPPORTI CON LE FONTI NAZIONALI
SEZIONE I: L'ORDINAMENTO DELLE FONTI EUROPEE.
1. L'inadeguatezza degli schemi di inquadramento del sistema delle fonti usualmente
adottati in ambito interno (con specifico riguardo agli ordinamenti di civil law) al fine di una
compiuta descrizione dell'assetto delle fonti proprio dell'unione.
Chi volesse guardare al sistema delle fonti eurounitarie con le lenti comunemente utilizzate
per l'analisi delle fonti di diritto interno rischierebbe di restare fortemente disorientato.
L'art 288 TFUE include gli atti dell'Unione, in un unico ed apparentemente esaustivo elenco,
anche le raccomandazioni ed i pareri, accomunati dal fatto di non essere giuridicamente
vincolanti, pur potendo ugualmente acquistare un qualche rilievo giuridico. Analoghi atti di
diritto interno invece non sono considerati fonti normative in senso proprio, quali a livello
sovranazionale sono i regolamenti e le direttive, ai quali si affiancano le decisioni (aventi
natura amministrativa), nonché altri atti ancora (azioni e posizioni assunte a contenuto di
decisioni dell’Unione in materia di politica estera e di sicurezza). Si considerino inoltre
dichiarazioni o risoluzioni oppure delibere e programmi (specie in materia di ambiente e di
cooperazione allo sviluppo) e infine altri atti come proposte ed inviti aventi esclusivo rilievo
interno ad un dato procedimento.
I principali tratti identificativi dell'ordine giuridico europeo delle fonti sono i seguenti:
1) Ridotto rilievo delle forme. Importante, anche se circoscritto, è il ruolo giocato dalle
forme al fine della composizione degli atti di sistema. Infatti, nel caso in cui i Trattati
non prevedano il tipo di atto da adottare, le istituzioni lo decidono di volta in volta nel
rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità. Di contro in molti
ordinamenti nazionali il riferimento alle forme è considerato essenziale al fine della
determinazione del posto occupato da ciascuna fonte nell'ordinamento, nonché del
trattamento complessivo ad esse riservato, specie per l’assetto dei controlli.
2) Assenza di una gerarchia delle fonti e di una diversa graduazione dei vincoli
discendenti dai singoli atti a carico dei loro destinatari in ragione delle forme di cui essi
si rivestono. I vincoli discendono piuttosto da connotati sostanziali esibiti dagli atti
stessi, vale a dire dallo loro effettiva capacità di imporsi e farsi valere per il modo con
cui esprimono in ragione della minore o maggiore ampiezza della trama strutturale di
cui sono dotati, insomma dall’intensità prescrittiva che è in concreto espressa dalle
disposizioni normative. Così, ad esempio, una fonte adottata al fine di dare esecuzione
o attuazione ad un’altra fonte, pur disponendosi in posizione astrattamente servente
rispetto a quest’ultima, potrebbe nei fatti dar vita alla disciplina complessiva di una
data materia, acquistando un rilievo ancora maggiore di quello posseduto dalla fonte in
cui rinviene il titolo della propria esistenza, cioè il fondamento della propria validità.
Tutto ciò può in molti casi dar vita a problemi non da poco riguardati il riconoscimento
dell’effettiva natura del singolo atto, come nel caso in cui non soccorrano più taluni connotati
identificanti d’ispirazione formale e si debba piuttosto far capo a connotati di tipo sostanziale
(o strutturale-sostanziale).
Per quale ragione la sistemazione delle fonti secondo la forma non ha, ad oggi, avuto modo di
affermarsi? Semplicemente perché all'Unione è stata riconosciuta libertà di “piegare” gli
strumenti dei quali dispone o, magari, “inventarsene” di nuovi in relazione alle circostanze e
agli interessi di volta in volta perseguiti. Si spiega in questo modo la confusione degli atti, cioè
l’abbandono dei connotati astrattamente propri di ciascuno di essi per far posto a connotati
propri di altri atti.
2. Norme sulla normazione e procedimenti di produzione giuridica (notazioni di ordine
generale ed introduttivo).
Le norme sulla normazione, o metanorme, consentono all'ordinamento, o meglio, ad ogni
ordinamento, di trasmettersi sempre identico a sé pur nel rinnovo dei suoi contenuti
contingenti, precostituendo le forme di cui si rivestono i singoli atti normativi. La loro
violazione comporta nei casi più gravi la stessa irriconoscibilità degli atti, vale a dire
l'impossibilità della loro riconduzione al genus degli atti normativi e perciò la radicale nullità-
inesistenza degli atti stessi ovvero, nei casi meno gravi, la loro invalidità, per vizio di forma.
E' importante stabilire dove e come le metanorme devono essere poste nel sistema, dal
momento che pur essendo relative a fonti non possono, essere per prime, che risultare da
altre fonti. Dalla loro giusta definizione dipendono le sorti stesse dell’ordinamento e la sua
capacità di trasmettersi integro e vitale nel tempo. In ambito interno invece la questione è
stata a lungo discussa: secondo una prima tesi, le metanorme sarebbero fissate in una fonte
superiore a quella cui esse si riferiscono; una diversa opinione invece è favorevole alla
definizione di esse come atto dotato della medesima specie e forza di quelli cui esse si
riferiscono. Quest'ultima ricostruzione si è affermata nell'esperienza di molti ordinamenti tra
cui il nostro.
La questione ha pratico rilievo sul piano dei controlli. Se si conviene che le metanorme devono
comunque essere osservate (se non lo fossero, sarebbe il caos nella produzione giuridica,
priva di un suo ordine interno indefettibile), se ne ha che la loro violazione si traduce in un
vizio formale, dipendente tuttavia dal mancato rispetto prestato da una legge nei confronti di
un’altra legge dotata della medesima forza (alle volte, persino, inferiore). Tale questione è la
stessa a quella che si pone con riguardo alle norme sulla buona redazione degli atti normativi
(il c.d. drafting), esse pure dimostratesi incapaci di farsi valere proprio perché stabilite da atti
o documenti strutturalmente privi della forma e della forza necessaria per imporsi.
Non resta che fare riferimento all’esistenza di una metanorma costituzionale consuetudinaria
in cui riposi il fondamento di una pratica ormai consolidata che vede le leggi comuni regolare
se stesse e, persino, leggi di grado superiore.
In ambito interno, per ragioni storico politiche, le Costituzioni sono molto avare di indicazioni
riguardo alla formazione delle leggi preferendo per ciò rimandare ai regolamenti camerali.
Nell'Unione, invece, le cose non stanno così, dal momento che si segue passo per passo lo
svolgimento della fase centrale dell'iter di formazione degli atti dell'UE, mentre minore
attenzione viene prestata alle fasi che la precedono e seguono.
Come stabilito a Lisbona, gli atti legislativi adottati con la procedura legislativa ordinaria sono
firmati dal Presidente del Parlamento e dal Presidente del Consiglio ed entrano in vigore di
norma il 20º giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione, salvo
che gli atti stessi non dispongano diversamente; gli atti invece adottati secondo una
procedura legislativa speciale sono firmati dal Presidente dell'istituzione che li ha adottati.
Sono quindi pubblicati nella Gazzetta Ufficiale ed entrano in vigore alla data da essi fissata o,
in mancanza allo spirare del 20º giorno dalla loro pubblicazione.
Al pari di ciò che si ha in ambito interno per le leggi, non è esclusa l’efficacia retroattiva dei
regolamenti, tuttavia considerata eccezionale, e come tale, bisognosa di essere congruamente
motivata.
Gli atti dell’Unione devono essere motivati. La motivazione deve essere corredata del
riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazione, richieste o pareri previsti dai trattati.
La motivazione è inoltre richiesta nel caso in cui l’atto disponga di efficacia immediata, in
deroga alla regola precedente. Essa esprime l’essenza stessa del fenomeno eurounitario, la
sua peculiare vocazione e ferma determinazione al conseguimento della piena integrazione
tra gli Stati, Ogni atto dunque deve tendere verso questo obiettivo, perseguendo lo specifico
scopo che ne giustifica l’adozione. Nella motivazione deve trovare riscontro l’osservanza dei
principi che presiedono alle dinamiche della normazione, ne danno l’orientamento:
innanzitutto il principio di attribuzione che delimita l’area materiale entro cui le dinamiche
stesse sono obbligate a svolgersi, e quindi dei principio di sussidiarietà e di proporzionalità che
stanno a base dell’esercizio dei poteri di normazione da parte dell’Unione. Pur laddove
l’Unione faccia luogo all’esercizio dei poteri impliciti ovvero si attivi (in modo sussidiario) al
fine di colmare le lacune dovute alle carenze degli Stati, deve pur sempre aversi una congruità
del mezzo al fine, di cui proprio la motivazione è chiamata a dare testimonianza.
3. La qualità della normazione comunitaria. La guida pratica comune. (DRAFTING)
Una disciplina accurata dei procedimenti di produzione normativa è condizione necessaria per
il buon rendimento degli atti emessi a loro conclusione, in relazione agli scopi dell’Unione.
Necessaria ma non sufficiente, dal momento che a nulla varrebbe il formale rispetto prestato
alle metanorme da parte degli atti cui esse si riferiscono qualora poi gli atti stessi dovessero
essere inadeguati per struttura, articolazione interna, linguaggio, contenuti complessivi.
La cura della qualità redazionale dei testi normativi (c.d. drafting) delle istituzioni dell’Unione
è stata assunta in tempi recenti tra i fattori cardine perché gli stessi testi possano essere
meglio compresi ed attuati in modo corretto e tempestivo non solo dalle istituzioni, ma anche
da parte e all’interno degli Stati membri.
A partire dal Consiglio europeo di Birmingham in cui si lanciò l’invito affinchè la legislazione
fosse più semplice e chiara, e poi soprattutto a seguito del successivo Consiglio europeo di
Edimburgo del 1992, la necessità di legiferare in modo migliore, mediante testi più chiari,
semplici e rispondenti alla buona tecnica legislativa, è stata riconosciuta ai più alti livelli
politici dell’Unione. Le istituzione sono state dunque chiamate ad attuare una determinata
politica legislativa ponendo in essere varie iniziative tra cui la risoluzione del Consiglio del
1993 relativa alla qualità redazionale della legislazione comunitaria. Va inoltre menzionato il
monitoraggio costante sullo stato della legislazione, effettuato dalla Commissione dalla
seconda metà degli anni 90.
Questa esigenza di legiferare meglio fu ribadita con la dichiarazione n. 39 relativa alla qualità
redazionale della legislazione comunitaria sottoscritta a Torino nel 1996 con cui viene
auspicata la messa a punto di comune accordo di orientamenti per un miglioramento della
qualità redazionale della legislazione comunitaria, da seguire nell’esame di proposte o di
progetti di atti legislativi comunitari. Fu comunque stabilito che per assicurare la corretta
applicazione degli orientamenti le istituzioni avrebbero dovuto prendere le misure di
organizzazione interna ritenute necessarie.
Nel 2003 fu pubblicata una Guida Pratica comune, uno strumento destinato tutti coloro che
partecipano, a qualsiasi titolo, all'elaborazione degli atti normativi nelle istituzioni comunitarie
L'uso della stessa viene combinato con strumenti più specifici quali i regolamenti interni delle
singole Istituzioni, il formulario degli atti del Consiglio, le regole di tecnica legislativa della
Commissione, il manuale interistituzionale di convenzioni redazionali ecc.
Oltre al profilo del drafting formale, non meno importanti appaiono i profili di drafting
sostanziale e della manutenzione del diritto. In quest’ultima direzione si sono mosse le
istituzioni comunitarie con l’Accordo interistituzionale sul Metodo di lavoro accelerato ai fini
della codificazione ufficiale dei testi legislativi e con l’Accordo interistituzionale adottato Ai fini
di un ricorso più strutturato alla tecnica della rifusione degli atti normativi.
Il profilo del drafting sostanziale, che riguarda l’analisi e la valutazione d’impatto ex ante ed ex
post degli atti normativi, può considerarsi un punto di avanguardia in ambito europeo. E’ stato
al riguardo riconosciuto che un più efficace procedimento di consultazione prelegislativa e un
maggiore ricorso agli analisi degli effetti, sia a priori che a posteriori, contribuiscono al
conseguimento dell’obiettivo di una maggiore qualità della legislazione.
Un problema redazionale infine riguarda la pluralità di lingue parlate nell'Unione europea, ma
tale problema è stato affrontato anche con la fissazione di regole ed un notevole
dispiegamento di risorse.
4. I Trattati.
Fonti usualmente qualificate come primarie ed originarie dell'ordinamento dell'Unione, i
Trattati e le loro modifiche costituiscono espressioni normative tipiche della Comunità
internazionale e nello stesso tempo sono anche fonti di base dell'Unione stessa.
Nel procedimento di revisione si mescolano 3 componenti (sovranazionale, internazionale e
nazionale). La procedura quindi non si svolge ed esaurisce nell’ambito eurounitario, avendo
piuttosto il suo momento perfettivo, costituito dalla stipula del Trattato di revisione, e quello
finale, volto a far conseguire gli effetti alla revisione medesima, in luoghi ed ordinamenti
diversi da quelli dell’Unione (la Comunità internazionale e gli Stati membri).
Deve segnalarsi al riguardo una proposta secondo la quale per i trattati dovrebbe valere il
meccanismo dell’adattamento automatico che è riservato alle sole norme internazionali o
generalmente riconosciute (in buona sostanza consuetudinarie), secondo quanto è stabilito
dall’art 10 Cost. Tale proposta presenterebbe il vantaggio di non subordinare l’entrata in
vigore dei trattati alla loro ricezione da parte di tutti gli Stati membri.
In seguito alle novità introdotte dal Trattato di Lisbona si prevedono, accanto ad una
procedura di revisione ordinaria, delle procedure di revisione semplificate.
PROCEDURA ORDINARIA.
L'iniziativa della revisione può essere adottata, oltre che dai Governi degli Stati membri e dalla
Commissione, dal Parlamento europeo. Le modifiche possono essere portate tanto ad
accrescere quanto a ridurre le competenze dell'Unione.
Allo scopo, si costituisce una Convenzione composta da rappresentanti del Parlamento
nazionale, dei Capi di Stato / Governo degli Stati membri, del Parlamento europeo e della
Commissione. La Convenzione esamina i progetti di modifica e adotta per consenso una
raccomandazione indirizzata ad una Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati
membri che stabilisce di comune accordo le innovazioni da apportare ai Trattati, che entrano
in vigore a seguito della ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Se nel termine di due anni
dalla firma di un Trattato di modifica i 4/5 degli Stati lo abbiano ratificato, ed uno o più Stati
abbiano incontrato difficoltà, la questione è demandata al Consiglio europeo.
PROCEDURE SEMPLIFICATE.
Si perfezionano a mezzo di una decisione adottata all'unanimità dal Consiglio europeo,
acquisito il parere del Parlamento europeo, della Commissione e della BCE. La decisione
stessa, che non può in ogni caso accrescere le competenze dell'Unione, dev'essere approvata
dagli Stati membri.
Ulteriori procedure sono, poi, poste in essere allo scopo di consentire al Consiglio europeo di
dar modo al Consiglio di deliberare, anziché all'unanimità, a maggioranza qualificata ovvero di
far luogo alla formazione di atti, per i quali sia prevista la procedura legislativa speciale, con
procedura ordinaria. A tal proposito si prevede anche il coinvolgimento dei Parlamenti
nazionali in modo particolarmente incisivo: è sufficiente infatti l'opposizione anche di uno
solo dei Parlamenti per impedire l'adozione della decisione che consenta il passaggio allo
esame di merito delle proposte di modifica.
Ci si è chiesti poi se anche per i trattati esistano dei limiti sostanziali alla loro modifica. La
Corte di Giustizia ha precisato che le revisioni dei trattati incontrino un limite nei principi
fondamentali della Comunità. Non si nega, tuttavia, che ogni trattato che abbia innovato ai
trattati istitutivi delle Comunità possegga il medesimo connotato originario che è proprio di
questi e quindi essere assimilato alle manifestazioni tipiche del potere costituente. E’
insomma come se, in ambito interno, ad una data Costituzione si sovrappongano con il tempo
sempre e solo nuove Costituzioni, non già revisioni. Non può neppure negarsi che le modifiche
vanno incontro a forti vincoli di scopo (o di valore), dovendo tendere alla crescente avanzata
del processo d’integrazione o mostrarsi compatibili con questo. Questa conclusione parrebbe
smentita dal Trattato di Lisbona che prefigura anche revisioni in peius per ciò che concerne il
patrimonio delle competenze dell’Unione. Si potrebbe pure immaginare che un nuovo
trattato sostituisca per intero il precedente; ciò che non potrebbe ammettersi è la
contestazione sul piano dei fini-valori e, con essa, la dispersione del patrimonio accumulato
lungo la via dell’integrazione.
Quindi, è da considerare assolutamente remota l'ipotesi di Trattati modificativi di quelli
esistenti con la finalità di restaurazione, volti cioè a travolgere le conquiste man mano fatte. In
particolare, assumendo che l'identità di un ordinamento riposi in un pugno di valori
fondamentali che stanno a base della sua Costituzione e ne sostengono lo svolgimento, è da
considerare illecita qualsiasi innovazione che produca l'effetto di far smarrire o comunque
alterare l'identità suddetta, è invece consentita ogni innovazione da cui l'identità risulti
rafforzata e garantita anche laddove la stessa dovesse riguardare i principi fondamentali, che
dei valori sono la forma più espressiva.
Grado primario hanno anche i protocolli allegati ai Trattati. Essi possono avere più funzioni,
ora integrando i Trattati, ora offrendo discipline di carattere transitorio, ora ponendo
disciplina peculiari per taluni Stati tutti provvisti dello stesso rango dei trattati.
Una speciale considerazione va, infine, riservata ai principi generali di diritto. Essi sono
esplicitamente richiamati dall'art.6 TUE, che annovera tra di essi i diritti fondamentali garantiti
dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
5. I regolamenti.
Le prime e più importanti fonti derivate sono i regolamenti. Essi costituiscono l'espressione
più tipica dell'esercizio del potere normativo dell'Unione attraverso cui essa tende a sostituire
la sua disciplina a quella delle varie legislazioni nazionali.
Possono dunque esserci regolamenti in deroga ai trattati, sia pure nei soli cadi ed alle
condizioni da questi stabilite (decostituzionalizzazione eurounitaria); regolamenti quali
strumenti di immediato svolgimento dei trattati stessi (assimilabili alle leggi ordinarie ed agli
atti a queste equiparati) e, infine, regolamenti che danno esecuzione o attuazione ad altri
regolamenti (dalla forza secondaria, dunque).
I regolamenti sono atti a portata generale con valore erga omnes, ossia non si rivolgono a
destinatari indicati espressamente, ma a categorie di soggetti determinati in astratto nel loro
insieme. Questo carattere li distingue nettamente dagli altri atti normativi, in particolare dalle
decisioni, la cui peculiarità è quella di rivolgersi a destinatari determinati o comunque
determinabili.
La portata generale dei regolamenti ha formato oggetto di frequenti verifiche da parte della
Corte di giustizia specie sotto il profilo della loro impugnabilità da parte delle persone fisiche o
giuridiche. La Corte ha affermato che per determinare in concreto la natura di ciascun atto, la
verifica non dovesse arrestarsi alla forma e alle modalità della produzione bensì attribuire
rilevanza in primo luogo al suo contenuto e agli effetti giuridici da esso prodotti, in particolare
se riguardi individualmente dei soggetti determinati. Di conseguenza ha ritenuto che il
carattere regolamentare di un atto non viene meno solo perché sia possibile determinare il
numero o anche l'identità dei destinatari in un determinato momento purché la qualità dei
destinatari dipende da una situazione obiettiva di diritto o di fatto, definita dall'atto, in
relazione con la sua finalità; neanche viene meno quel carattere per l'applicazione territoriale
dell'atto, limitata ad uno o ad alcuni stati membri, o per il fatto che esso possa avere effetti
diversi a seconda dei soggetti cui si applica purché tale situazione sia obiettivamente
determinata.
I regolamenti sono obbligatori in tutti i loro elementi per le stesse istituzioni, per gli Stati
membri e per i loro cittadini: ciò significa che non è consentita l'applicazione solo parziale,
incompleta o selettiva del regolamento, né qualsiasi modifica o trasposizione suscettibile di
incidere sulla portata e contenuto dell'atto; mentre il suo carattere vincolante non viene
meno per il solo fatto che necessita di ulteriori provvedimenti di attuazione o di specificazione
per consentire l'effettiva applicazione. A tal proposito l'articolo 290 TFUE prevede oggi che un
atto legislativo possa delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi che
integrino o modifichino elementi specifici purché non essenziali dell'atto legislativo stesso.
Tale caratteristica distingue i regolamenti dalla direttive, atti che obbligano esclusivamente i
loro destinatari ad adottare provvedimenti di attuazione, ed inoltre lasciano agli Stati membri
un certo margine di discrezionalità circa le misure da utilizzare a tal fine. Infine i regolamenti
presentano una terza caratteristica: sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati
membri. Essi attribuiscono direttamente ai cittadini dell'Unione obblighi e diritti che i giudici
nazionali hanno il dovere di tutelare, anche nei rapporti interindividuali. Le disposizioni in essi
contenute producono effetti immediati negli ordinamenti giuridici degli Stati membri che essi
sono tenuti ad assicurare, anche ricorrendo a misure sanzionatorie, a carattere effettivo,
proporzionale e dissuasivo, in caso di loro violazione da parte dei privati, in forme analoghe a
quelle previste per le violazioni simili del diritto interno. D'altra parte gli Stati non possono
avanzare alcuna scusante per giustificare la mancata osservanza dei regolamenti.
Si è discusso se, laddove sia previsto un intervento dell’Unione in forma di regolamento, lo
stesso possa aversi in forma di direttiva (direttive al posto di regolamenti). Il rischio è quello
dell’inadeguatezza dell’atto rispetto al fine ed espone l’istituzione che ha dato vita all’atto ad
un ricorso in carenza. L’ipotesi inversa si ha laddove i trattati prevedano l’intervento
dell’Unione nella forma della direttiva ed in sua vece venga adottato un regolamento
(regolamento al posto di direttive). Tale intervento dovrebbe essere considerato illegittimo,
innanzitutto per violazione del principio di attribuzione. Tuttavia, al di là del riferimento al
principio di attribuzione come limite a tali conversioni di una potestà di normazione in
un’altra, ciò che conta è l’idoneità degli atti al raggiungimento degli scopi per i quali sono
adottati.
L’intervento non si sottrae al sindacato di legittimità sostanziale delle Corte di giustizia, avuto
riguardo alla necessaria proporzione esistente tra la misura concretamente posta in essere e
lo scopo verso cui essa è obbligata a rivolgersi. Il sindacato è particolarmente stretto con
riferimento ai regolamenti della Commissione, dal momento che essi possono essere adottati
dietro abilitazione espressa contenuta in regolamenti del Consiglio da cui derivano in modo
specifico il titolo della loro validità. Se ne ha dunque che per essi il parametro è triplice, tanto
per l’aspetto procedimentale e della competenza (fondata su un previo atto del Consiglio
ovvero su un atto legislativo), quanto per l’aspetto oggettivo (degli ambiti suscettibili di essere
coperti grazie alla loro adozione), quanto infine per l’aspetto teleologico, gravando su di essi
l’obbligo dell’osservanza dei trattati, dei regolamenti o atti legislativi da cui derivano il titolo
della loro esistenza.
I regolamenti non hanno bisogno di alcun atto di recezione o di attuazione da parte degli Stati
membri: anzi, qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo interno deve
considerarsi illegittima poiché potrebbe nascondere agli amministrati la natura comunitaria di
una norma giuridica, mentre la consapevolezza dell’origine di un diritto dall'ordinamento
dell'Unione può offrire agli interessati la possibilità di invocare il regolamento per opporsi
all'applicazione di una legge interna difforme. Inoltre, l'intervento anche riproduttivo del testo
di un regolamento in un atto normativo interno potrebbe sminuire la competenza della Corte
a pronunciarsi su qualsiasi questione relativa alla sua interpretazione.
La Corte considera illegittimo ogni intervento di attuazione da parte degli Stati che abbia
come conseguenza di ostacolare l'efficacia diretta dei regolamenti comunitari e di
comprometterne quindi la simultanea applicazione dell'intera Comunità.
Non sempre i regolamenti risultano autosufficienti, ossia completi nella loro disciplina:
pertanto, al fine di rendere possibile la loro concreta esecuzione, essi richiedono talora un
successivo intervento che, quando non affidato alle stesse istituzioni, deve far carico alle
autorità nazionali; oppure è per esigenze connesse alla particolare situazione strutturale e
normativa di certi ordinamenti statali che può prospettarsi la necessità di ricorrere a
provvedimenti interni di integrazione o di organizzazione al fine di conformare l'ordinamento
statale a un dato regolamento per renderne possibile l'applicazione. La Corte di giustizia ha
precisato che il divieto di atti statali di recepimento viene a cadere quando il regolamento
considerato lasci agli Stati membri il compito di adottare essi stessi i provvedimenti legislativi,
regolamentari, amministrativi e finanziari necessari affinché le disposizioni del regolamento
stesso possono essere effettivamente applicate, incombendo ai giudici nazionali di controllare
la conformità delle disposizioni interne al contenuto dell'atto comunitario; le misure nazionali
di attuazione dei regolamenti sono ammissibili per colmare loro eventuali lacune, ma solo
nella misura indispensabile alla loro corretta esecuzione e purché non ne modifichino la
portata e la sostanza o ancora per superare difficoltà di interpretazione, ma soltanto nel
rispetto delle norme comunitarie senza poter dettare norme di interpretazione aventi
carattere obbligatorio. Qualora il regolamento richiede l'adozione di misure di attuazione, si
ritiene che i privati non possono far valere diritti sulla base delle sole prestazioni del
regolamento.
Si è soliti distinguere i regolamenti di base, adottati dal legislatore dell’Unione, dai
regolamenti di esecuzione emanati per l'attuazione dei primi, di solito adottati dalla
Commissione previo conferimento dei poteri necessari da parte dell'atto normativo di base
qualora ciò sia necessario per assicurare condizioni uniformi di esecuzione. I regolamenti di
esecuzione devono risultare conformi al regolamento di base, pena la loro invalidità.
Vanno segnalati anche i regolamenti interni, adottati allo scopo di apprestare la disciplina
dell’organizzazione e del funzionamento degli organi dell’Unione. La loro disciplina è sottratta
alla modifica da parte di ogni altra fonte, in nome dell’autonomia costituzionale di cui è
portatore l’organo competente alla loro adozione ovvero della tipicità della fonte che pone la
disciplina medesima.
I regolamenti sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’UE, nella sezione dedicata alla
legislazione, ed entrano in vigore alla data da essi stabilita ovvero a partire dal 20° giorno
successivo alla loro pubblicazione. L'entrata in vigore può essere ritardata oltre tale data per
consentire agli interessati di conformarvisi gradualmente. L'entrata in vigore immediata è
ammessa solo per motivi di urgenza inerenti alla natura della misura presa, in particolare per
evitare un vuoto giuridico o per prevenire speculazioni.
L'efficacia retroattiva dei regolamenti è esclusa, salvo che lo richieda il fine perseguito o
purché sia rispettato il legittimo affidamento degli interessati. È esclusa la possibilità che gli
Stati modifichino la portata dell'atto mediante riserve o obiezioni unilaterali apposte ai verbali
delle riunioni del Consiglio le quali sarebbero comunque prive di effetti.
6. Le direttive.
Le direttive presentano la caratteristica di vincolare gli Stati membri cui sono dirette per
quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciandoli tuttavia liberi quanto alla scelta della
forma e dei mezzi necessari per conseguirlo. Esse inoltre non hanno portata generale, avendo
come destinatari solo Stati membri e non sono direttamente applicabili in quanto richiedono
un intervento di attuazione da parte del legislatore nazionale.
Le direttive si presentano come uno strumento di legislazione indiretta o a due stadi,
mediante cui non si vogliono porre regole uniformi, in considerazione anche della difficoltà di
conciliare le notevoli diversità esistenti negli ordinamenti giuridici nazionali, ma si preferisce
attivare una collaborazione tra il livello dell'Unione e quello nazionale, lasciando così liberi gli
Stati di determinare essi stessi le modifiche da apportare alla propria normativa interna per
renderla uniforme al risultato perseguito dalla direttiva. Le direttive devono essere motivate e
far riferimento alle proposte e ai pareri obbligatori previsti dai Trattati. Trattandosi di atti
legislativi esse entrano in vigore, producendo obblighi a carico dei destinatari, a partire dalla
data stabilita oppure il 20° giorno successivo alla loro pubblicazione sulla GUUE. Anche gli atti
non legislativi adottati sotto forma di direttive sono pubblicati sulla GUUE con la precisazione
relativa alla loro natura.
Rivolgendosi le direttive solo agli Stati membri, non hanno carattere direttamente applicabile:
esse devono necessariamente formare oggetto di provvedimenti nazionali di recepimento nel
termine indicato dalla direttiva stessa. Soltanto in casi particolari, le direttive sono suscettibili
di produrre effetti giuridici diretti all'interno degli Stati membri (c.d. direttive self-executing).
Ciò si verifica in 3 casi:
1) Quando la direttiva esprime vincoli negativi, chiamando gli Stati ad un mero non facere;
2) Quando essa si limita a ribadire l’obbligo di tenere un certo comportamento;
3) Quando essa presenta carattere dettagliato e minuto, rivestendo con le sue forme una
disciplina sostanzialmente regolamentare.
In aggiunta a tali casi, è poi da tenere presente l’obbligo gravante sugli operatori di diritto
interno di interpretare le leggi e la normativa nazionale in senso conforme alla direttiva.
L’efficacia diretta delle direttive si esprime unicamente nella sua forma verticale,
riconoscendosi a singole persone fisiche o giuridiche la facoltà di far valere la responsabilità
dello Stato inadempiente rispetto agli obblighi discendenti dalle direttive stesse, non pure
nella forma orizzontale, che si avrebbe qualora in capo a tali atti si riconoscesse l’attitudine a
produrre effetti anche nei rapporti inter privatos.
Gli Stati membri devono scegliere le forme e i mezzi più idonei per il conseguimento migliore
e totale del risultato prescritto e garantire piena efficacia alle direttive conformemente allo
scopo che esse perseguono.
Essi, nel rispetto dell'obbligo di leale collaborazione e della forza vincolante delle direttive,
hanno il dovere di astenersi dall'adottare, nel periodo intercorrente dall'entrata in vigore della
direttiva nei loro confronti e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che
possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto, altrimenti esponendosi al
rischio da un lato di un ricorso per infrazione, dall'altro dell'invocazione diretta delle
disposizioni della direttiva dinanzi giudici nazionali da parte di chi abbia interesse, al fine di
opporsi all'applicazione delle misure nazionali in questione.
L’obbligo di conformazione dello Stato alla direttiva sorge fin dal momento dell’entrata in
vigore della stessa. Solo una situazione di assoluta conformità al diritto nazionale alle
prescrizioni della direttiva dispensano lo Stato dall’adozione di misure di attuazione. Nei casi
in cui l’obiettivo della direttiva sia quello di attribuire dei diritti ai privati, la possibilità di
prescindere da un apposito provvedimento di attuazione va verificato in termini ancora più
rigorosi. Il mantenimento in vigore della normativa nazionale incompatibile con il diritto
dell'Unione, anche se lo Stato membro agisca in conformità a questo, determina una
situazione di fatto ambigua mantenendo per gli interessati lo stato di incertezza che deve
essere rimosso con provvedimenti adeguati. Uno Stato non può portare a giustificazione del
mancato o ritardato adeguamento la particolare situazione costituzionale, normativa o
amministrativa del proprio ordinamento o l'autonomia dei propri enti territoriali, mentre
questi possono provvedere nell'ambito delle competenze attribuite.
Gli Stati sono tenuti a fornire all'Unione l'indicazione delle misure prese per applicare la
direttiva: l'assenza di tale comunicazione costituisce inosservanza della stessa e un'infrazione
del diritto dell'Unione, anche sotto l'aspetto dell'obbligo di leale cooperazione. Nel caso di
non osservanza di tale obbligo di comunicazione, la Commissione può ricorrere alla Corte di
giustizia la quale potrà immediatamente adottare una sanzione pecuniaria da comminare allo
Stato inadempiente. In mancanza di misure di attuazione da parte degli Stati, ai privati non
potrebbe essere imposto alcun onere di conoscenza dei doveri e dei diritti eventualmente
loro attribuiti da una direttiva, non essendosi posti in essere gli adempimenti indispensabili
(pubblicità costitutiva) per pretendere tale conoscenza: ciò, ad esempio, ai fini della
decorrenza dei termini di prescrizione o di decadenza per l’esercizio di un diritto o di
un’azione qualora le disposizioni di una direttiva siano direttamente invocate dinanzi ai giudici
nazionali.
7. L'attuazione interna delle direttive e, in genere, delle norme di diritto europeo non
immediatamente applicabili.
Davanti alle direttive ed alle norme dell'Unione che necessitavano di essere attuate in ambito
interno al fine di poter essere portate ad applicazione, gli Stati si sono posti in modo diverso.
Occorre fare riferimento soprattutto alla L. n 86 del 1989 (c.d. Legge La Pergola) con la quale
è stato inventato un nuovo tipo di legge, la c.d. legge comunitaria, che non era una fonte di
diritto sovranazionale, ma una legge ordinaria dello Stato, adottata ogni anno al fine di dare
compiuta attuazione alle direttive nel frattempo adottate nelle varie materie. Il suo posto è
stato preso dalla legge europea e dalla legge di delegazione europea introdotte dalla L. n. 234
del 2012.
Alla legge di delegazione europea si accompagna una relazione illustrativa, aggiornata al 31
dicembre dell’anno precedente, in cui il Governo enuncia le motivazioni in forza delle quali ad
alcune direttive si dà attuazione, diversamente da altre che vi sono escluse; dà inoltre conto
dello stato di conformità dell’ordinamento interno al diritto eurounitario e dello stato delle
eventuali procedure d’infrazione; fornisce l’indicazione delle direttive già recepite con
regolamento, nonché dei provvedimenti con i quali si è data attuazione da parte delle Regioni.
Alla prima legge di delega può farne seguito una seconda, priva di relazione illustrativa, il cui
disegno può essere presentato dal Governo alle Camere entro il 31 luglio di ogni anno, per il
caso che si renda indispensabile far luogo all’ulteriore adempimento degli obblighi
conseguenti all’appartenenza all’Unione.
La delega può rivolgersi tanto all’obiettivo dell’attuazione alle direttive e alle decisioni-
quadro, quanto a quello di far luogo alle modifiche o abrogazioni di disposizioni nazionali rese
necessarie allo scopo di ripristinare la necessaria armonia tra l’ordinamento interno e quello
eurounitario. Deve inoltre essere segnalato il principio e criterio direttivo del c.d. Gold
plating, secondo cui il legislatore delegato non può fissare livelli di disciplina più restrittivi di
quelli richiesti dalle direttive. Infine, il Governo può essere delegato a porre norme
sanzionatorie nei riguardi delle violazioni da parte di atti interni a carico di atti dell’Unione.
La legge europea contiene disposizioni abrogative o modificative di disposizioni incompatibili
con il diritto comunitari o che hanno costituito oggetto di procedure d’infrazione avviate dalla
Commissione a carico del nostro Stato o, ancora, di pronunzie della Corte di giustizia.
Prima della nascita della L. La Pergola, l’attuazione delle direttive e delle norme in genere
dell’Unione comunque bisognose di svolgimento interno ha avuto luogo principalmente a
mezzo di decreti legislativi. Anche con la L. n 234 del 2012 si è tornati all’antico regime, pur
accompagnandosi alla legge europea la legge di delegazione europea, la quale, al pari delle
deleghe del passato, appare esibire non lievi carenze, in fatto di principi e criteri direttivi, il più
delle volte indicati solo per relationem, con rinvio cioè fatto dalla legge di delega alle norme di
scopo contenute nelle stesse direttive. Un modo di fare questo ritenuto incostituzionale per
palese violazione dell’art 76 Cost, che annovera tra i contenuti c.d. necessari delle deleghe
appunto quello sopra indicato.
8. Hard law e soft law: il senso di una distinzione.
Regolamenti e direttive non sono i soli atti derivati produttivi di norme in ambito comunitario,
in quanto esiste anche il cosiddetto sistema del soft law, così chiamato proprio per
distinguerlo dal sistema finora descritto, che costituirebbe, dunque, il c.d. hard law.
Con il Trattato di Maastricht si è andata manifestando una certa verso strumenti di soft
regulation, cioè regolamentazioni concordate e ampiamente condivise dai settori interessati e
dai soggetti coinvolti, soprattutto laddove risulti difficile raggiungere un accordo fra gli Stati
membri oppure in materie sulle quali non v’è una competenza comunitaria piena, tal che gli
strumenti in questione pervengono a costituire l’unica forma di disciplina possibile. Si è
palesata dunque l’esigenza di adottare strumenti normativi di maggiore flessibilità e più
adattabili alla continua evoluzione di certi ambienti materiali o di rendere possibile il
recepimento di migliori pratiche varate dagli organismi internazionali.
“Per soft law, si intende, un qualcosa che non è propriamente diritto, è un quasi diritto, un
diritto più tenue perché non è contenuto in fonti giuridicamente vincolanti, eppure si impone
per una qualche ragione. È come dire, una giuridicità di serie b, di tono minore (Definizione di
Agosta).
Il termine soft law è abbastanza imprecisato, comprendendo, secondo alcuni, tutti i sistemi di
regolazione diversi dalle fonti tipizzate dal 288 TFUE (che include raccomandazioni e pareri) o
comunque previste dai Trattati, mentre, per altri, la nozione andrebbe riferita solo agli atti
non vincolanti (raccomandazioni, pareri, risoluzioni, dichiarazioni etc).
Comunque sia, esso finisce per accogliere una varietà di fenomeni accomunati dal fatto di
rappresentare risposte a pressanti esigenze di regolamentazione. Il Parlamento europeo ha
evidenziato, a tale riguardo, che la tendenza della Commissione a presentare, in seguito al
fallimento delle sue iniziative più ambiziose, direttive quadro e codici di condotta avrebbe
provocato il rischio di creare in tal modo un diritto dal carattere incerto, meno vincolante (soft
law) e meno sicuro, che si sarebbe tradotto in una armonizzazione fittizia e in una
trasposizione aleatoria negli ordinamenti giuridici nazionali.
Non è una posizione isolata: numerosi gruppi di interesse (es, le organizzazioni dei
consumatori) sono scettici sulla capacità regolativa di tali strumenti (sino a definirla cosmetic
law).
Possiamo poi distinguere tra i casi in cui il soft law si aggiunge, integrando i sistemi di
regolazione tradizionale (c.d. co-regulation) e quelli in cui si sovrappone agli stessi,
soggiacendo alla loro forza giuridica.
Alcune delle tipologie eurounitarie di soft law si rinvengono anche nei Paesi membri (codici di
condotta), mentre altre presentano più somiglianze con gli strumenti negoziati (c.d. droit
negotiè) di matrice internazionalistica: così, per esempio di accordi interistituzionali, di cui è
stata segnalata l’importanza in quanto idonei sia a certificare un assetto tra le istituzioni
eurounitarie, sia ad avviare future revisioni degli stessi Trattati.
Va detto, infine, che per alcuni, persino una fonte importante come la Carta di Nizza, prima
della sua presa di vigore col Trattato di Lisbona, andava fatta rientrare nell'ambito del soft
law.
9. Il nuovo quadro delle competenze prefigurato da Lisbona, con particolare riguardo a
quelle esclusive dell'Unione e a quelle concorrenti con gli Stati.
Numerose sono le novità presentate dal Trattato di Lisbona in tema di fonti. Se per un verso
si conferma il principio di attribuzione quale fondamento del riparto delle competenze tra
Unione e Stati, l'esercizio delle stesse è demandato ai principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, dalla cui attivazione in concreto dipende la messa a punto dei poteri
dell'Unione e l'equilibrio tra gli stessi ed i poteri degli Stati. Si aggiunga poi la clausola di
flessibilità per i soli ambiti di competenza dell’Unione e con il limite del divieto di
armonizzazione delle legislazioni nazionali nei settori non contemplati dai Trattati e del
conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune.
Gli interventi normativi dell’Unione devono circoscriversi allo stretto indispensabile,
rimettendosi quindi la disciplina normativa, anche di settori rientranti nella competenza
dell’Unione, all’opera degli Stati o, quanto meno, alla loro cooperazione.
Persino laddove si tratti di competenza esclusiva dell’Unione, quest’ultima può autorizzare gli
Stati a dare, del tutto o in parte, la regolazione dei relativi settori.
La competenza concorrente o ripartita tra Unione e Stati secondo un'opinione diffusa
sarebbe stata forgiata ad imitazione di quella propria dell'ordinamento tedesco, in
considerazione del fatto che la disciplina statale ha modo di spiegarsi unicamente alla
condizione che l'Unione si trattenga dal legiferare e comunque negli spazi non coperti dalla
disciplina europea.
La differenza rispetto al modello di concorrenza all’italiana sarebbe netta, dal momento che
secondo tale modello si darebbe comunque una riserva di competenza a favore delle Regioni,
essendo allo Stato consentito unicamente di stabilire i principi fondamentali della materia o,
comunque di limitare la potestà legislativa regionale unicamente a mezzo dei principi stessi.
Gli interventi dell’Unione dovrebbero dunque contenersi fin dove possibile per dar spazio alla
produzione giuridica formatasi in ambito interno. Se ne ha che nei settori di potestà
concorrente l’Unione dovrebbe tendenzialmente legiferare poco e con disposizioni comunque
idonee a favorire l’espansione nei settori medesimi delle discipline nazionali.
E’ però da tenere in conto che il modello stesso possa trovarsi soggetto a forti torsioni in sede
applicativa (conversione nel modello all’italiana): gli interventi minuti da parte dell’apparato
centrale a discapito degli apparati periferici hanno spesso costituito la norma e non
l’eccezione.
Va poi osservato che la potestà concorrente dovrebbe porsi come la regola, quella esclusiva
dell'Unione come l'eccezione, tant'è che, mentre di quest'ultima si individuano gli ambiti di
intervento, della prima si afferma il carattere residuale, estendendosi solo in determinati
settori, nei quali l'Unione ha competenza a svolgere azione di sostegno, di coordinamento e di
completamento. I principali settori sui quali ha modo di esprimersi la potestà concorrente
sono dati da: mercato interno, politica sociale, agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei
consumatori, trasporti, energia, spazio di libertà sicurezza e giustizia.
Va infine notato che, al pari di ciò che si ha in ambito interno in merito al riparto di materie e
competenze tra Stato ed enti territoriali minori, alcune di quelle indicate sono delle materie-
non materie, espressive di competenze trasversali, idonee cioè ad attraversare innumerevoli
ambiti materiali (es, tutela della salute, protezione dei consumatori, ambiente ecc).
10. Tipi di fonti e fluidità delle loro relazioni.
Le relazioni tra le fonti sono connotate da una forte fluidità, come si può evincere dal TFUE, i
cui punti fondamentali sono:
• La cancellazione delle leggi e leggi quadro originariamente previste dal Trattato
costituzionale;
• La conservazione degli atti legislativi (regolamenti, direttive o decisioni),
denominazione usata per gli atti emessi dal Parlamento e dal Consiglio mediante
procedura legislativa (odinaria o speciale), distinti dagli atti non legislativi, posti in
essere dalla Commissione;
• La considerevole espansione dei regolamenti. Il potere regolamentare è reso ancora
più largo rispetto al passato. In particolare si prefigura un largo ricorso alla delega da
parte degli atti legislativi a favore di atti non legislativi di portata generale della
Commissione, il cui ruolo viene ulteriormente sottolineato. La delega è sottoposta a
non poche condizioni, sia sostanziali che procedimentali, riguardanti il suo esercizio. In
primo luogo, si precisa che gli atti delegati vedono circoscritto il loro raggio di azione
alla mera integrazione o anche alla deroga di disposizioni legislative preesistenti,
sempre che riferita ad elementi non essenziali degli atti legislativi. Si discute circa la
natura e la forza degli atti delegati, se cioè dotati di forza primaria (o subprimaria in
quanto comunque inidonei ad incidere sugli elementi essenziali degli atti legislativi)
ovvero forza di legge secondaria: insomma, se accostabili ai decreti legislativi di diritto
interno ovvero ai regolamenti di delegificazione.
La delega è richiesta unicamente in vista della integrazione o della deroga nei riguardi
degli atti legislativi, non pure per la loro esecuzione o attuazione. Anche l'esecuzione
richiede un esplicito conferimento di poteri alla Commissione in applicazione del
principio di legalità in senso sostanziale, laddove è altresì disposto che Parlamento
europeo e Consiglio europeo fissino regole e principi generali idonei a porsi a
parametro del controllo che gli Stati membri potranno esercitare nei riguardi della
Commissione.
Gli atti di delega presentano un contenuto necessario, costituito dagli obiettivi, il
contenuto, la portata e la durata della delega, cui poi si aggiungono le condizioni alle
quali la delega stessa è soggetta, che possono essere date dalla revoca della stessa
nonché dalla facoltà comunque riconosciuta al Parlamento e al Consiglio di muovere
“obiezioni” all'atto delegato. E’ comunque implicito che Parlamento e Consiglio
possono in ogni tempo riappropriarsi della disciplina della materia, rilegificando ciò che
dapprima è stato delegificato.
Le leggi deleganti possono essere impugnate davanti alla Corte di giustizia, in sede di
ricorso in carenza, laddove prive dei contenuti di cui devono invece essere dotate; per
altro verso gli atti delegati possono soggiacere ad annullamento tanto per il caso che
diano seguito a contenuti della delega non rispettosi dei parametri superiori, quanto
per quello in cui non osservino i contenuti stessi e si mostrino compatibili con i
parametri stessi. Nell’ultima ipotesi, gli atti di delega fungono dunque da fonti
interposte in eventuali giudizi di validità instaurati davanti alla Corte di giustizia.
Contenuto c.d. eventuale è l’obbligo fatto al legislatore delegato di sottoporre lo
scherma di decreto legislativo al parere parlamentare prima della sua finale adozione.
Per quanto, poi, gli atti delegati si trovino sottoposti al rispetto delle fonti in cui
rinvengono il titolo della loro esistenza è ugualmente da mettere in conto una forte
espansione della normazione delegata, praticamente per ogni campo materiale di
competenza dell'Unione, conformemente alla centralità del ruolo detenuto dalla
Commissione in seno alla forma di Governo.
Allo stesso tempo in cui potrà assistersi ad un largo utilizzo del potere delegato in
ambito europeo, potrà altresì aversi una parimenti significativa cooperazione degli Stati
membri con l’Unione nella regolazione delle materie rientranti nella competenza di
quest’ultima.
11. Segue: dall'inquadramento sistematico per atti a quello per processi produttivi dagli
stessi composti e dalla logica della separazione a quella della integrazione, siccome la più
idonea ad una fedele rappresentazione delle relazioni sia tra le fonti europee inter se che di
queste ultime con le fonti nazionali.
Quel che va ricordato è lo sforzo comune che Unione e Stati sono sollecitati a produrre al fine
del conseguimento di obiettivi che sempre più di rado possono dirsi come esclusivamente
propri di questo o quell’ente e che, di contro, sempre più di frequente sono in realtà comuni a
tutti, pur nella tipicità dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno.
Se ne ha che la logica usuale che vuole rigidamente separate le sfere di competenza, risulta
largamente inadeguata rispetto alla complessità di esperienze di normazione che si
presentano fortemente intrecciate al loro interno, connotate da fluidità di relazioni ed
attraversate da un crescente dinamismo. Si impone dunque di abbandonare la logica della
separazione delle competenze (e delle fonti), incapace a dare una fedele rappresentazione
delle esperienze, ed accogliere invece la logica dell’integrazione, la sola che possa andare oltre
i confini delle forme e possa prendere in considerazione la funzione assolta dai singoli atti, in
relazione allo scopo che dà la giustificazione, il moto, l’orientamento dei singoli processi
produttivi.
Tendenza questa che non è tipica del solo ordinamento comunitario, bensì comune alle stesse
esperienze del diritto interno, proprio perché è diffuso l’intreccio tra interessi che solo di rado
sono di una sola natura, rientrando nella sfera di competenze di un solo ente, e che piuttosto
sollecitano lo sforzo congiunto di più enti al fine del loro ottimale appagamento.
E’ dunque la ragionevolezza verso la quale convergono e nella quale si convertono ed
esauriscono la sussidiarietà e la proporzionalità a identificare le vicende di normazione
comunitaria bisognose di essere riguardate nel loro complesso; una ragionevolezza che è
conformità rispetto ai valori e congruità rispetto allo scopo, adeguatezza ai fatti e rispondenza
ai parametri superiori che stanno a fondamento dell'Unione e degli ordinamenti degli Stati
membri.
SEZIONE II: RAPPORTI TRA FONTI EUROPEE E FONTI NAZIONALI.
12. Il “posto” detenuto nell'ordine interno dalle fonti dell'Unione: notazioni preliminari a
riguardo dello scadimento crescente delle forme quali fattori di composizione degli atti di
sistema.
Occorre adesso capire che effetti producono gli atti normativi dell’Unione in senso agli
ordinamenti nazionali. Al riguardo, devono essere fatte alcune precisazioni.
La prima è che il riferimento alle forme giova assai poco, dal momento che nessuna differenza
esiste per ciò che riguarda l'obbligo del rispetto degli impegni comunitari, generalmente
gravante su cittadini ed operatori di diritto interno, in relazione al tipo di atto o di norma,
quale che sia la fonte che la produce: dai trattati ai regolamenti, alle direttive, il vincolo
d'osservanza c'è comunque. L’intensità del vincolo è variabile a seconda delle struttura e
dell’estensione della disciplina contenuta nei singoli atti, idonea a far espandere o contrarre
gli ambiti rimessi alla disciplina del diritto interno.
La seconda è che ha poco rilievo la circostanza per cui l'attuazione agli atti dell'Unione sia data
con questa o quella fonte di diritto interno (legge o regolamento). Il suo “posto” nel sistema
non dipende da connotati formali, ma esclusivamente dall'effettiva attitudine esibita da
ciascun atto (rectius, norma) a servire in modo adeguato gli atti dell'Unione.
Detto questo, la “copertura costituzionale”, di cui godono le norme dell'Unione, si trasmette
alle norme che vi danno la prima, diretta e necessaria attuazione, sì da rendere queste ultime
immodificabili da parte di atti che, così facendo, vengano meno all'obbligo di osservanza del
diritto dell'Unione. Le modifiche sono possibili alla sola condizione che risultino ancora più
adeguate all'attuazione delle norme dell'Unione e, per ciò stesso, a prestare un servizio
ancora più apprezzabile ai fini-valori in nome dei quali tali norme vengono a formazione.
Risulta dunque palese che man mano che il processo d’integrazione si porta avanti e che
dunque la normativa europea si espande, sempre meno rilievo ha la forma quale fattore di
composizione degli atti in sistema.
13. Le antinomie tra fonti di diritto europeo e fonti di diritto interno, dal punto di vista della
giurisprudenza sia comunitaria che nazionale (con particolare riguardo al “cammino
comunitario” della Corte costituzionale italiana).
Si tratta di vedere dunque a quali condizioni ed entro quali limiti il diritto sovranazionale si è
imposto su quello nazionale. Per rispondere alla domanda dobbiamo ripercorrerne la storia,
che prende le mosse all'atto della nascita delle tre Comunità, i cui Trattati, in Italia, sono stati
resi esecutivi con leggi ordinarie: in caso di contrasto quindi della norma interna con quella
comunitaria si applicava il principio della successione delle leggi nel tempo, principio in grado
di risolvere l'eventuale conflitto quando la norma interna confliggente fosse anteriore a quella
comunitaria. Il problema diventava delicato nell’ipotesi opposta, quando la norma interna
confliggente era successiva alla norma comunitaria, poiché quest’ultima era destinata a
soccombere.
Un apporto decisivo è al riguardo venuto, sia pure a seguito di un travagliato cammino, dalla
giurisprudenza costituzionale che ha eretto un formidabile scudo protettivo a presidio del
diritto dell’Unione
13.1 La sentenza n. 14 del 1964 e la “logica” della parità giuridica tra le fonti dei due
ordinamenti da essa fatta propria.
In un primo momento (sent. 14/1964), la Corte costituzionale aveva impostato su basi
paritarie le relazioni tra gli ordinamenti, ragionando nel senso che, per un verso, in virtù della
legge di esecuzione del trattato, i regolamenti e le norme self-executing in genere della
Comunità sono idonee a produrre effetti immediati nell'ordine interno, senza che occorra
alcun atto di esecuzione, prevalendo dunque nei confronti delle precedenti leggi e norme
interne con essi incompatibili. Per un altro verso poi le norme comunitarie possono essere a
loro volta modificate da posteriori norme legislative interne che per ciò stesso dispongano,
dunque, in deroga della legge di esecuzione del Trattato. In poche parole le norme
comunitarie e quelle legislative interne possono liberamente succedersi le une alle altre nel
tempo, in ragione della identica forza posseduta dalla legge di esecuzione, per il cui tramite il
diritto comunitario ha modo di immettersi nell'ordine interno e di spiegarvi effetti, e dalle
leggi comuni sopravvenienti e incompatibili con il diritto comunitario.
Tale soluzione fu ritenuta inaccettabile dalla Corte di giustizia, che pronunziandosi sulla
questione (s. Costa-Enel, 1964) sottolineò il primato del diritto comunitario sul diritto
interno, la cui negazione avrebbe “scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità”. Essa
dunque avanzò una concezione monista ed unitaria dei rapporti tra diritto comunitario e
ordinamenti nazionali secondo cui il primo si integra nei secondi e prevale in virtù di una forza
propria e non in conseguenza dei meccanismi di adattamento propri di ciascun ordinamento
statale.
Ebbe in questo modo inizio un conflitto tra le due Corti destinato a durare nel tempo. Anche
se oggi le cose sono profondamente cambiate rimangono irrisolti taluni nodi cruciali
riguardanti le relazioni tra le Corti stesse.
13.2 La svolta operata con la sentenza n. 183 del 1973 con il riconoscimento, in essa fatto,
sia della “copertura” costituzionale di cui gode il diritto comunitario in rapporto al diritto
interno e sia dalla esistenza di “controlimiti” opponibili al principio del primato del diritto
sovranazionale sul diritto nazionale.
A quasi 10 anni dalla sentenza del 1964, la Corte italiana fa un cambio di rotta confermando
da un lato l'attitudine delle norme comunitarie a derogare alle norme interne con esse
incompatibili e, dall'altro affermandone la resistenza rispetto a norme successive in ragione
della “copertura” riconoscibile al diritto comunitario dall'articolo 11 Cost. (sent. 183/1973).
In tale decisione la Corte non ha, però, sposato appieno la tesi della Corte di giustizia non solo
per il fatto che non è stato accolto il punto di vista di quest'ultima volto a dare modo ai giudici
ed agli operatori in genere di diritto interno di disapplicare le norme nazionali contrarie al
diritto comunitario e di applicare, in loro vece ed in ogni caso quest'ultimo, quanto perché il
primato del diritto sovranazionale è stato pur sempre agganciato ad un principio
costituzionale e non già riconosciuto come proiezione o effetto della forza propria
posseduta dal diritto stesso.
Con la suddetta sentenza, la soluzione dell'applicabilità diretta è stata ammessa con riguardo
all'ipotesi di norme comunitarie sopravvenienti, mentre non è stata considerata praticabile
per il caso inverso. Laddove, quindi, una legge nazionale avesse disposto in contrasto con
norme comunitarie anteriori, si sarebbe dovuta sollevare una questione di legittimità
costituzionale davanti alla Corte per violazione indiretta dell'articolo 11 Cost.
A limitare l'espansione del diritto sovranazionale soccorre poi il carattere inderogabile dei
principi fondamentali dell'Ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona
umana che in nessun caso e modo possono essere intaccati dalle norme comunitarie, alle
quali non potrà essere dato ingresso nel nostro ordinamento laddove con essi incompatibili
(c.d. teoria dei controlimiti).
Due punti vanno subito fissati criticamente:
1) Il primo è che la Corte stessa ha convertito una norma di valore, qual è quella prevista
dall'art. 11 Cost, in una norma sulla produzione giuridica, come se essa cioè disponga a
riguardo della funzione posseduta dalle norme comunitarie al momento del loro
ingresso nell'ordine interno e del modo, o dei modi, con cui le norme stesse producono
effetti in quest'ultimo. Oltretutto, è assai singolare che la Corte abbia riconosciuto
come provvisti di copertura costituzionale i soli trattati istitutivi delle Comunità (e le
loro modifiche), escludendo che anche altri possano ad ugual titolo servire la pace e la
giustizia tra le Nazioni;
2) Il secondo riguarda la forza paracostituzionale posseduta dalle norme euronitarie per il
rilievo giuridico ad esse complessivamente assegnato in ambito interno. Col fatto
stesso di riconoscere, quale unico controlimite all'efficacia delle norme stesse,
l'osservanza dei principi fondamentali, la Corte ha infatti assimilato, quanto alla
forza attiva, le norme dell'Unione alle norme contenute nelle leggi di revisione
costituzionale, così implicitamente ammettendo che esse possano derogare alle stesse
norme costituzionali. In tal modo una legge ordinaria dello Stato (quella di esecuzione
del Trattato) si è venuta a trovare dotata della medesima forza delle leggi costituzionali
con un singolare appiattimento dei gradi della scala gerarchica, nonché degli atti che in
essi hanno posto.
Se poi dovesse ritenersi che neppure con legge costituzionale sarebbe possibile
derogare alle norme comunitarie, ecco che le norme stesse verrebbero a trovarsi in
una sorta di grado intermedio tra quello in cui stanno i principi fondamentali e l'altro
proprio delle comuni norme costituzionali: verrebbero cioè a disporre di forza attiva
paracostituzionale, ma di forza passiva addirittura supercostituzionale, eguale a quella
propria della norma di copertura.
La tesi patrocinata da molti autori, secondo cui le fonti dell'Unione, al momento del loro
impatto con l'ordine interno, verrebbero ad assumere la qualità di fonti atipiche dotate della
medesima forza attiva e di maggiore forza passiva di quella di cui sono provviste le leggi
ordinarie non sembra conforme all'indirizzo al riguardo espresso dalla giurisprudenza la quale
seguitava a presentarsi non allineata a quella di Lussemburgo tant’è che ferma è stata la
risposta della Corte di giustizia (sentenza Simmenthal del 1978) a motivo del fatto che alle
norme dell'Unione si riconosceva dal giudice italiano delle leggi, la applicabilità diretta
unicamente nel caso che esse venissero alla luce in un tempo posteriore a quelle nazionali
mentre nel caso inverso richiedevano l'adozione di una pronuncia della Corte costituzionale
che sancisse il primato del diritto sovranazionale sul diritto interno. In tal modo la concreta
applicazione dell'uno veniva ad essere per un tempo differita e per un altro sottoposta all'alea
di un giudizio della Corte comunque eventuale, in ogni caso non dotato di effetti interamente
retroattivi.
Il conflitto, dunque, rimaneva evidente e sembrava addirittura insanabile.
Il punto di maggiore frizione della concezione complessiva dei rapporti tra gli ordinamenti
stava nel fatto che, mentre la giurisprudenza comunitaria (la Corte di giustizia) si fa paladina di
una primauté senza eccezioni del diritto dell'Unione, la stessa non è fino in fondo ammessa da
alcuni Tribunali Costituzionali, fra i quali il nostro, quello tedesco, spagnolo e polacco, decisi
assertori dell'idea secondo cui si danno dei controlimiti, ora di maggiore ora di minore
consistenza, all'ingresso della normativa sovranazionale in ambito interno.
13.3 La corte completa la “svolta del '73”: la storica sentenza n. 170 del 1984.
A completare la svolta iniziata con la sent. n° 183 del 1973, giunge poi la sent.n°170 del 1984.
La Corte ribadisce la premessa secondo cui i due sistemi si configurano come autonomi e
distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenze stabilite e garantite dal
Trattato e ovviamente conferma sia il fondamento del primato del diritto sovranazionale sia la
esistenza di controlimiti all'efficacia del diritto stesso, suscettibili di essere fatti valere non er il
tramite di un giudizio di costituzionalità sulle fonti dell’Unione, bensì attraverso il sindacato
sulla legge di esecuzione del trattato, che immette una volta per tutte nell’ordinamento il
meccanismo preposto alla produzione ed all’efficacia delle fonti sovranazionali.
La Corte riconosce che la separazione esistente tra gli ordinamenti stessi impedisce, per un
verso, che si possa discorrere di un’abrogazione delle leggi nazionali da parte delle fonti
comunitarie sopravvenienti, come invece la stessa Corte aveva precedentemente sostenuto e,
per un altro verso, che le antinomie generate dall’adozione di leggi nazionali incompatibili con
anteriori norme comunitarie siano risolvibili ricorrendo allo schema dell’invalidità (e dunque a
mezzo di un giudizio di costituzionalità per violazione indiretta dell’art 11 Cost). Una volta che
l’Unione europea faccia concretamente uso delle competenze assegnatale dal trattato, le
norme così prodotte costituiranno l’unico diritto rilevante per la definizione delle controversie
davanti ai giudizi nazionali, come tale bisognoso di essere portato ad immediata applicazione
da parte di questi ultimi, senza che occorra l’intervento riparatore della Corte costituzionale.
In seguito, la Corte ha poi esteso il punto di diritto affermato con la decisione in parola,
originariamente circoscritto ai soli regolamenti, alle stesse pronunzie interpretative della
Corte di giustizia, assimilate quanto agli effetti alle fonti del diritto suscettibili di immediata
applicazione, nonché alle norme del trattato aventi efficacia diretta ed alle direttive che
ugualmente presentano l’attitudine ad essere portate ad immediata applicazione.
Per il caso in cui una norma interna superasse il riparto delle competenze fissato dal Trattato,
la Corte stabilì l'impossibilità di utilizzare lo schema della invalidità tanto da spingersi ad
affermare che più di una disapplicazione del diritto interno contrario al diritto comunitario
si debba ragionare nel senso della non applicazione dell'uno laddove incompatibile con l'altro.
Rimane il fatto che il riparto di materie e competenze fatto nel Trattato rileva nell'ordine
interno unicamente tramite l'art 11, cioè la norma costituzionale che converte
permanentemente il diritto sovranazionale in diritto interno, attivando l'obbligo della sua
applicazione nascente nel suo ordinamento di origine. E la violazione di una norma
costituzionale da parte di una legge ordinaria non può che farsi valere per il tramite del
giudizio della Corte costituzionale. Rimettendo invece la questione nelle mani dei giudici
comuni, la Corte ha spianato la via all'affermazione di un sindacato diffuso di costituzionalità,
ogni giudice essendo chiamato, prima di applicare questa o quella norma di diritto, a
verificare se vi sia il sospetto di violazione (indiretta) dell'art. 11 Cost.
13.4 Il graduale recupero della competenza della Corte a conoscere delle antinomie tra le
norme dei due ordinamenti.
Dopo la sentenza dell’84, la Corte è venuta recuperando spazi per propri interventi in
relazione a casi d’incompatibilità tra le norme dei due ordinamenti.
La Corte aveva tenuto a precisare di essere sempre pronta ad entrare in campo a presidio dei
controlimiti, restando da chiarire se nella forma hard, che avrebbe portato il nostro Paese ad
uscire dall'Unione, ovvero nella forma soft, che, in buona sostanza, avrebbe portato alla mera
“non applicazione” della norma comunitaria irrispettosa dei principi fondamentali del nostro
ordinamento.
Le pronunzia dell'84, poi, aveva chiaramente fatto intendere che la soluzione in essa
patrocinata avrebbe potuto valere unicamente per il caso di norme comunitarie
materialmente suscettibili di essere portate ad immediata applicazione. Nel caso inverso non
restava che la via del ricorso alla Corte e del successivo giudizio di quest'ultima.
La medesima situazione di conflitto riceva opposte qualificazioni (ora nel senso
dell’irrilevanza, che comporta la non applicazione di norma interna irrispettosa del diritto
dell’Unione, ed ora quello dell’invalidità, che ne giustifica invece l’annullamento), comunque
facenti capo allo stesso parametro (l’art 11), esclusivamente in ragione della diversa struttura
nomologica, fatta ora da regole ed ora da principi, degli atti sovranazionali di volta in volta in
campo.
Ai casi ora indicati la Corte ha poi aggiunto quello che si ha ogniqualvolta una legge nazionale
si mostri offensiva non già di una qualunque norma dell’Unione, bensì di un suo principio
base, quale peraltro potrebbe essere dato dalle c.d. tradizioni costituzionali comuni, alla cui
formazione anche il nostro ordinamento concorre, specie per ciò che concerne la tutela dei
diritti fondamentali.
E’ stato fatto inoltre notare che potrebbe darsi il caso di conflitto tra criteri di risoluzione delle
antinomie stesse, prima ancora che tra le norme appartenenti ai due ordinamenti. Ciò che, ad
esempio, si ha laddove il parametro sia dato da un principio fondamentale dell’ordinamento
eurounitario e però esso si consideri ugualmente suscettibile di immediata applicazione: la
natura della norma parrebbe allora radicare la competenza in capo alla Corte, la sua struttura
ed attitudine all’immediata applicazione invece vorrebbero che se ne facessero carico ai
giudici comuni.
La Corte, infine, ha rivendicato per sé la competenza a conoscere delle violazioni del diritto
comunitario operate da leggi (statali o regionali) impugnate in via d'azione.
Si è riconosciuta la legittimazione del Governo ad impugnare davanti alla Corte leggi regionali
sospette di incompatibilità con il diritto dell'Unione. La Corte ha poi esteso tale soluzione al
caso, inverso, di leggi Statali impugnate dalla Regione. Nella prima di queste due pronunzie, la
Corte ha fatto notare che laddove il Governo avesse fatto “passare” leggi regionali contrarie al
diritto comunitario, ciò avrebbe potuto indurre cittadini ed operatori a ritenere che esse
fossero da considerare legittime: il che avrebbe esposto ad un grosso rischio il diritto
dell'Unione in quanto sarebbe stato leso il principio della certezza e della chiarezza
normativa.
Singolare ragionamento, se si considera che nessuno mai ha dubitato che le leggi regionali
non impugnate in via diretta possano comunque esserlo in via incidentale. Stranamente poi
questo indirizzo giurisprudenziale è stato tenuto fermo anche a seguito della trasformazione
del controllo sulle leggi regionali da preventivo in successivo, operato dalla L. cost n.3 del
2001.
E’ da segnalare inoltre che la Corte costituzionale non risulta più esclusa dalla possibilità di
esercitare il rinvio pregiudiziale e dunque è stata riconosciuta ad essa la possibilità di far
sentire la propria voce con riguardo a questioni di cruciale rilievo riguardanti l’assetto delle
relazioni tra Unione e Stati. In questo modo potrebbe scongiurarsi sul nascere l’eventualità di
un conflitto tra giudicati (della Corte di giustizia e della Corte costituzionale).
13.5 Prospettive del sindacato di comunitarietà sulle norme interne a seguito della riforma
del Titolo V della Costituzione
Con la riscrittura del Titolo V, operata dalla legge costituzionale del 2001, il riferimento ai
vincoli comunitari ha, per la prima volta, fatto ingresso nella Costituzione, facendosi obbligo
alle leggi di Stato e Regione di prestarvi ossequio nella disciplina delle materie loro proprie
secondo il nuovo riparto delle competenze fissato dall'articolo 117.
Si è discusso, in particolare, circa il carattere effettivamente innovativo della previsione
contenuta nel comma 1° dell’art 117 da alcuni considerata ridondante rispetto all’indicazione
desumibile dall’art 11 Cost. Per questo motivo, l’art 117 è stata ritenuta un lex declataria,
meramente esplicitativa del principio costituzionale del primato del diritto sovranazionale.
Dopo la modifica del 2001, non c'è più bisogno di fare appello al solo articolo 11 Cost allo
scopo di aver garantita l'osservanza del diritto comunitario da parte delle leggi nazionali,
mentre perdura la necessità di un riferimento siffatto a giustificazione della deroga subita da
norme costituzionali ad opera delle norme dell'Unione.
Quanto alle antinomie tra norme interne e norme internazionali, si dovrà tenere distinta la
condizione delle norme generalmente riconosciute alle quali seguiterà ad applicarsi il
meccanismo dell'adattamento automatico (art 10 comma 1° Cost.), rispetto alla condizione
delle norme pattizie protette attraverso il giudizio di costituzionalità.
Questione discussa è poi quella concernente il modo o i modi con cui far valere l’osservanza
della CEDU, in particolare se possano darsi o no, dei casi in cui se ne possa fare applicazione
diretta. La giurisprudenza è ferma nel negare che ciò possa aversi, mentre una dottrina
minoritaria e talune pronunzie dei giudici comuni si dichiararono a ciò favorevoli. La soluzione
giusta sembra stare a mezza via ammettendosi l’applicazione diretta della Convenzione
unicamente in alcuni casi: a) laddove faccia difetto una disciplina legislativa nazionale; b)
laddove la legge contraria a Convenzione sia cronologicamente precedente l’efficacia interna
di quest’ultima; c) laddove si abbia sostanziale corrispondenza di contenuti tra CEDU e Carta
di Nizza-Strasburgo e il caso verta su materia di competenza dell’Unione, risultando
l’operatore sollecitato a far luogo alla congiunta ed immediata applicazione di entrambe le
Carte.
14. Notazioni conclusive: la Corte e gli alibi dei controlimiti, insistentemente predicati ma fin
qui mai praticati.
La Corte può essere chiamata in campo, oltre che in sede di controversie Stato-Regioni, ove si
faccia questione dell’osservanza di norme eurounitarie non self-executing ovvero per il caso
che siano violati i principi fondamentali di questo o quell’ordinamento.
Tuttavia non ogni volta che una legge viola un principio fondamentale (es, quello di
uguaglianza) l’unità-indivisibilità dell’ordinamento e, in genere, la sua identità sono a rischio.
E' chiaro che fintantoché la Costituzione è viva e vegeta, i controlimiti non sono disponibili e la
Corte bene fa a dichiararsi pronta ad intervenire in ogni tempo a loro salvaguardia.
Occorre chiedersi come mai però ne sia stata dichiarata l’inosservanza. Non v’è dubbio che
quest’esito sia stato determinato dalla consapevolezza che potessero aversene conseguenze
imprevedibili, forse persino suscettibili di mettere in discussione l’appartenenza del nostro
Stato all’Unione. Rimane il fatto che violazioni frequenti di alcuni principi, quali quelle relative
all’uguaglianza o a diritti fondamentali, non siano da noi state neppure una volta sanzionate.
Insomma, una Corte che predica bene e razzola male.
Un solo caso, si è da noi avuto, in cui è stato lamentato il possibile superamento dei
controlimiti, e l'ha fatto il Consiglio di Stato nel 2005 sia pure allo scopo di mettere al riparo
una pronunzia della stessa Corte costituzionale, con la quale s'era aggiunta in un testo di legge
una norma originariamente mancante, sospettata però di entrare in rotta di collisione con il
principio di libera concorrenza sancito dal TCE. Richiesto di rivolgersi in via pregiudiziale alla
Corte di giustizia, il giudice amministrativo ha rigettato la richiesta in nome della intangibilità
del giudicato costituzionale, assunto come strumentale alla salvaguardia dei controlimiti.
Si tratta di stabilire se il dialogo tra le Corti possa spingersi fino a richiedere ai tribunali
nazionali di piegarsi davanti a contrarie indicazioni delle Corti non nazionali. Un caso rilevante
si è avuto per effetto della pronunzia della Corte di Lussemburgo: il tribunale costituzionale
polacco aveva caducato alcuna disposizioni nazionali, giudicate incompatibili con la
Costituzione, stabilendo tuttavia che la loro perdita di efficacia venisse a prodursi in un tempo
successivo, apponendo cioè alla propria decisione una vacatio. Le medesime disposizioni,
tuttavia, in quanto incompatibili con il diritto sovranazionale, a giudizio della Corte di
Lussemburgo soggiaciono ad immediata disapplicazione da parte dei giudici
indipendentemente dalla sentenza del giudice costituzionale nazionale.
E’ stato ritenuto che i controlimiti non possano essere messi in discussione. I rapporti tra i due
ordinamenti (nazionale e comunitario) vengono impostati su basi di valore, rinvenendosi nel
solo art 11 il fondamento del primato del diritto sovranazionale. Tuttavia, l’art 11 Cost
enuncerebbe in forma condizionata il primato del diritto sovranazionale, richiedendo alle
norme che ne sono espressione di conformarsi in tutti e per tutto ai principi fondamentali
restanti. E’ stata dunque sancita la necessità di bilanciare l’art 11 con gli altri principi
fondamentali.
Si deve pervenire alla conclusione secondo cui le antinomie possano risolversi alle volte nel
senso del primato del valore della pace e della giustizia tra le Nazioni a discapito di altri valori
occasionalmente urtati dalle norme dell’Unione, altre volte invece all’inverso; e norme di
diritto interno che si dimostrino direttamente, immediatamente e necessariamente attuative
di valori fondamentali diversi da quello enunciato nell’art 11.
L’esito dei conflitti dunque non appare così scontato a beneficio di questa o quella norma,
interna o sovranazionale che sia.
15. Segue: la metamorfosi dei controlimiti, da scudo protettivo dell'identità costituzionale a
strumento di promozione della integrazione tra gli Stati e di costituzionalizzazione
dell'Unione, all'insegna del principio dell'equilibrio tra le Carte e della cooperazione tra le
Corti.
Il secondo punto concerne le possibili prospettive nell’uso dei controlimiti man mano che il
processo di integrazione si porti sempre più avanti.
Nel Trattato di Lisbona i "controlimiti" sono ripresi e razionalizzati in termini tali da renderne
ancora più pronta ed efficace la tutela. Ciò avvalora la diffusa opinione che vuole il futuro dei
rapporti tra Unione e Stati iscritto in un contesto caratterizzato dalla simultanea vigenza di
due Costituzioni, l'europea e la nazionale, desiderose di coabitare all'insegna del
"superprincipio" della parità reciproca e dell'equilibrio. Un segno indicativo di tale tendenza è
rinvenibile nel nuovo Trattato, che considera i controlimiti idonei ad assumere rilievo
giuridico, non soltanto nelle pratiche di diritto interno ma anche in quelle dell'Unione.
Uno speciale significato al riguardo è da riconoscere all'art. 4 TUE, laddove si stabilisce che
"l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e la loro identità
nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il
sistema delle autonomie locali e regionali".
Si ha una sorta di "europeizzazione" dei controlimiti. Ed allora, ogni volta che una norma
dell'Unione dovesse dimostrarsi incompatibile rispetto ad un principio fondamentale
nazionale, lo sarebbe anche rispetto al principio dell'art 4, che a quello fa, in via generale,
rinvio.
La tutela dei principi fondamentali dunque può tradursi nell’annullamento della norma
eurounitaria confliggente con il principio fondamentale nazionale, e quindi con il principio di
cui all’art 4, con effetti tuttavia valevoli per il solo Stato offeso, non pure per gli altri i cui
principi non siano stati toccati. L’effetto di annullamento coinciderebbe con quello della non
applicazione della norma che ne costituisce oggetto nel solo territorio dello Stato interessato.
Le norme eurounitarie irrispettose dei principi di base vengono dunque qualificate come
illecite.
La metamorfosi della nozione di controlimite diventa in tal modo completa: nata per fare da
ostacolo, sia pure in casi remoti, all'ingresso di norme comunitarie irrispettose di norme
interne indisponibili, essa si commuta in formula espressiva di uno dei principi fondamentali
dell'UE. Si assiste così ad una unificazione al vertice che riassume ed esprime l'idea secondo
cui non possono aversi principi fondamentali degli Stati autenticamente altri rispetto
ai principi fondamentali dell'Unione, e viceversa. Si pone a questo punto la questione
relativa alle modalità di accertamento delle violazioni dell'articolo 4.
Per un verso, solo dopo che nelle sedi giuste si sarà stabilito se è stato o no inciso un principio
fondamentale nazionale si potrà affermare la conseguenziale violazione del disposto
richiamato dal Trattato, anche se è difficile pensare che la Corte di giustizia sia disposta ad
accettare per sé il ruolo di organo gregario, di mera registrazione di decisioni altrove adottate.
Per altro verso non può essere accettata la soluzione che vede il verdetto emesso dalla Corte
di Lussemburgo, chiamata a pronunziarsi in merito all'eventuale inosservanza dell'art. 4, alla
stregua di un giudizio di appello rispetto a quello eventualmente già emesso in ambito
interno.
Una soluzione complessivamente appagante e conforme alle esigenze di un ordinamento in
via di piena integrazione deve essere ricercata in relazione ai singoli casi, immettendo in un
unico circolo interpretativo materiali di varia estrazione, ma bisognosi di essere mantenuti
integri nella loro composizione e idonei a sorreggersi e ad alimentarsi a vicenda. Ciò può
avvenire in primo luogo, sottoponendo i principi fondamentali ad aggiornate reinterpretazioni
orientate verso i principi base dell’Unione; in secondo luogo anche le interpretazioni che
vengono poste in essere dalla Corte di giustizia sono chiamate a volgersi verso gli ordinamenti
costituzionali nazionali. Soltanto sollecitando la formazione di un diritto costituzionale vivente
connotato da una doppia e circolare interpretazione conforme (del diritto nazionale alla luce
di quello eurounitario e viceversa), si potrà avere la fondata aspettativa di un complessivo
equilibrio nei rapporti tra Costituzione e Trattato, nonché tra le Corti che vi danno voce.
CAPITOLO VI
ORDINAMENTO GIUDIZIARIO E GIURISDIZIONE COSTITUZIONALE DELL'UNIONE EUROPEA.
1. Premessa.
Uno degli elementi caratterizzanti della struttura dell'Unione europea rispetto alle tradizionali
unioni di Stati e, più in generale, alle regole classiche dell'ordinamento internazionale è
costituito dal fatto di possedere un proprio sistema di giurisdizione, idoneo a tutelare la
legalità eurounitaria nelle molteplici occasioni in cui ciò sia richiesto. Infatti un ordinamento
giuridico indipendente ed autonomo, quale quello dell’Unione Europea, non può dirsi tale in
assenza di un sistema di garanzie giurisdizionali che consenta di controllare sia la legittimità
delle sue azioni che il rispetto delle sue norme e soprattutto sia in grado di offrire adeguata
tutela ai diritti attributi ai suoi soggetti: le istituzioni, gli Stati membri e, in particolare, i
singoli, persone fisiche o giuridiche. Solo in tal modo potrà realizzarsi una vera “Comunità di
diritto”.
La Corte di giustizia europea ha costituito nel tempo una preziosa valvola di sicurezza del
sistema comunitario quando questo è rimasto bloccato a causa dell'incapacità o per la
mancata volontà degli Stati membri di pervenire a nuove implementazioni istituzionali. Se un
tale ruolo della Corte di giustizia è più percettibile in materia di protezione dei diritti
fondamentali, non sono mancati altri settori in cui una simile costituzionalizzazione giudiziaria
è pervenuta a colmare le lacune dei trattati. L'apporto della Corte di giustizia alla costruzione
del sistema eurounitario si può quindi inquadrare:
1) Nel chiarimento dell'ambito delle rispettive competenze tra Unione e Stati membri;
2) Nella risoluzione del contenzioso circa l'esatto assetto degli organi centrali comunitari;
3) Nella crescente protezione dei diritti fondamentali.
2. Dalla Corte delle origini al Trattato di Lisbona.
La prima Corte fu istituita dal Trattato CECA. I suoi componenti incominciarono a riunirsi a
Lussemburgo in un immobile preso a prestito dalle ferrovie locali. Il primo compito della Corte
CECA fu quello di elaborare il suo regolamento di procedura. Essa tuttavia non venne
eccessivamente oberata di lavoro e prima dell’istituzione della Corte di giustizia unica per le 3
Comunità, pronunciò circa uno 20 di decisioni. Si deve alla Corte CECA l’elaborazione di quello
che è poi divenuto il sigillo definitivo della Corte: cioè, la bilancia, il gladio e la corona di
quercia con l’iscrizione Curia. Fu in questa fase temporale che, per gli avvocati, si instaurò la
consuetudine di utilizzare la toga prescritta dai loro Ordini nazionali.
Il 7 ottobre 1958 si tenne la cerimonia del giuramento dei membri della Corte di giustizia delle
Comunità europee, alla quale la Corte CECA aveva ormai trasmesso i suoi poteri. Inizialmente
la Corte di giustizia era formata da 7 giudici e assistita da 2 avvocati generali. Tuttavia, tali
numeri erano destinati a crescere in relazione ai successivi allargamenti della Comunità ad
altri Paesi.
Bisognerà aspettare la decisione del Consiglio del 1988 perché alla Corte di giustizia venga
affiancato un Tribunale di 1° grado, tale da dar vita, insieme alla prima, ad un doppio grado di
giurisdizione per affrontare più adeguatamente l’incremento delle cause.
Con il Trattato di Nizza si è poi provveduto a consolidare la disciplina concernente il Tribunale
di 1° grado che è così pervenuto ad occupare un ruolo di maggiore rilievo nel complessivo
sistema giurisdizionale, mentre ha fatto la sua comparsa una terza giurisdizione, ossia le
Camere giurisdizionali. Tuttavia, soltanto una sola delle Camere giurisdizionali ha visto la luce,
cioè il Tribunale della funzione pubblica.
Le tre Corti costituiscono dunque l’impalcatura giurisdizionale dell’UE. Il Trattato di Lisbona ha
introdotto poi soltanto marginali aggiustamenti, soprattutto di carattere lessicale: il Tribunale
ha completamente perduto la denominazione di 1° grado e non si parla più di Camere
giurisdizionali, ma di Tribunali specializzati, aggregati al Tribunale.
Un novità più consistente è stata invece prodotta a Lisbona per quanto riguarda le fonti della
giustizia eurounitaria. Occorrerà dunque fare riferimento alle disposizioni ricomprese:
• Nel TUE;
• Nel TFUE;
• Nello Statuto unico della Corte di giustizia;
• Nei Regolamenti di procedura delle 3 Corti eurounitarie.
Merita inoltre di essere segnalata l’estensione della giurisdizione della Corte di giustizia a
tutte le attività dell’Unione per effetto dell’abolizione dei c.d. pilastri. Particolare attenzione
va riservata alla possibilità per ogni persona fisica o giuridica di proporre ricorsi di legittimità
contro gli atti da cui sia direttamente riguardata.
Gli Stati membri stabiliscono i rimedi necessari per assicurare una tutela giurisdizionale
effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Ciò sempre consacrare il collegamento
tra il sistema giurisdizionale eurocomunitario e quelli interni agli Stati membri.
In particolare, il giudice nazionale deve:
a) Dare alla normativa interna un significato conforme alla normativa eurounitaria;
b) Procedere egli stesso alla disapplicazione del diritto incompatibile;
c) Avvalersi della procedura pregiudiziale nei confronti della stessa normativa
eurounitaria.
3. La fisionomia delle Corti eurounitarie: i giudici (e gli avvocati generali).
Quanto alla composizione, originariamente la Corte di giustizia era composta di sette giudici:
ogni Stato membro poteva indicare un giudice, mentre quello che risultava in più veniva
nominato a turno fra i grandi Stati. Il loro numero si è progressivamente esteso in ragione
delle successive adesioni fino agli attuali 28 membri.
In seguito al Trattato di Lisbona oggi si prevede che la Corte di giustizia è composta da un
giudice per Stato membro. Tale trattato, ai fini della nomina, ha anche introdotto
l’acquisizione, ad iniziativa del Presidente della Corte di giustizia, di un parere di natura non
vincolante sull’idoneità dei soggetti nominandi, che deve essere espresso da un Comitato di
sette personalità.
I giudici sono scelti fra personalità in grado di offrire tutte le garanzie di indipendenza di
competenza e che siano abilitati ad esercitare le più alte funzioni giurisdizionali ovvero siano
giureconsulti di notoria competenza. Il mandato di giudice ha la durata di 6 anni e può essere
rinnovato illimitatamente, decorrendo dal momento stabilito dall’atto di nomina e non quindi,
necessariamente, dal giuramento. Un rinnovo parziale dei giudici avviene ogni tre anni alle
condizioni previste dallo statuto della Corte.
Il giudice può cessare dalle sue funzioni nell’ipotesi del suo decesso, per dimissioni o per
rimozione. In tal caso il giudice subentrante si limiterà a completare il mandato del suo
sostituito.
Per i giudici della Corte vale l’istituto della prorogatio, dato che essi proseguono nelle funzioni
oltre la scadenza fino a quando non siano nominati i subentranti, assicurandosi, così l’integrità
numerica della Corte.
Sul giudice della Corte grava l’obbligo del segreto sulle deliberazioni assunte, nonché il divieto
di esercitare funzioni politiche o amministrative. Analogo divieto vale per l’attività
professionale, non importa se a titolo oneroso o gratuito. Si richiede inoltre al giudice di
onorare, anche dopo la cessazione della carica, gli impegni di onestà e di discrezione per
quanto riguarda l’accettazione di determinate funzioni o vantaggi. E’ fatto divieto al giudice di
partecipare alla cause in cui egli stesso abbia avuto qualche ruolo.
I giudici della Corte di giustizia sono guarentigiati, oltre che dai privilegi e dalle immunità
previsti per i funzionari e gli agenti della Comunità, dalla speciale prerogativa dell’immunità
giurisdizionale, che si protrae, per quanto concerne gli atti da loro compiuti in veste ufficiale,
comprese le loro parole e i loro scritti, oltre la cessazione delle funzioni. Solo la Corte di
giustizia stessa può rimuovere tale immunità. Qualora, tolta l’immunità, venga promossa
un’azione penale contro un giudice, questi potrà essere giudicato soltanto dall’organo
competente a giudicare i magistrati appartenenti alla più alta giurisdizione nazionale. Spetta
sempre alla Corte di giustizia (in particolare, agli avvocati generali) provvedere in merito alla
rimozione di qualcuno dei suoi componenti o dichiararli decaduti dal loro diritto alla pensione
o da altri vantaggi sostitutivi, quando abbiano perduto i requisiti prescritti ovvero non
soddisfino più agli obblighi derivanti dalla loro carica.
La Corte è assistita attualmente da otto avvocati generali nominati per sei anni dai governi
degli Stati membri di comune accordo. Essi concorrono allo svolgimento della funzione
giudiziaria nell'ordinamento dell'Unione. Un loro rinnovo parziale avviene ogni tre anni e
riguarda quattro avvocati generali. Le modalità della loro designazione non sono specificate,
ma la prassi prevede che almeno uno è indicato nei grandi Stati (Francia, Germania, Italia,
Regno unito, Spagna) mentre per i restanti si applica un sistema di rotazione tra gli Stati. Essi
hanno il compito di presentare con assoluta imparzialità e in piena indipendenza rispetto agli
Stati membri dell'Unione, conclusioni motivate. Tra essi la Corte nomina il primo avvocato
generale che distribuisce le cause tra gli avvocati generali e ha il compito di proporre alla
Corte il riesame delle pronunce del tribunale qualora ritenga sussistenti gravi rischi per l'unità
e la coerenza del diritto dell'Unione.
A differenza del sistema precedente in cui ogni causa veniva attribuita ad un avvocato
generale, il suo intervento non è sempre necessario in tutte le controversie dinanzi alla Corte,
ma soltanto nelle cause che richiedono il suo intervento ossia quelle più significative. Le
conclusioni degli avvocati generali sono pubblicate con le relative sentenze.
Quando prendono servizio, i giudici e gli avvocati generali prestano giuramento in seduta
pubblica impegnandosi ad esercitare la loro funzione in piena imparzialità.
Accanto alla Corte si affianca il Tribunale. Esso è composto da almeno un giudice per Stato
membro. Al momento il numero dei giudici equivale a quello degli Stati membri.
I componenti del Tribunale sono nominati secondo criteri analoghi a quelli previsti per la
Corte, per la durata di sei anni, con rinnovo parziale ogni tre anni. I giudici designano al loro
interno il presidente per tre anni. Alcuni di essi possono essere chiamati ad esercitare la
funzione di avvocati generali, nominati dal presidente su indicazione del Tribunale, con
riguardo però soltanto a determinate cause secondo i criteri stabiliti dal regolamento di
procedura del Tribunale.
Quanto alla competenza del Tribunale, essa era in un primo tempo limitata ai ricorsi dei
funzionari dell'Unione contro le istituzioni, ricorsi individuali nell'ambito della politica della
concorrenza, con esclusione dei ricorsi avanzati da uno Stato membro o da un'istituzione
nonché del rinvio pregiudiziale. In seguito il Consiglio, cui spettava deliberare all'unanimità, su
richiesta della Corte, circa le categorie dei ricorsi proponibili al tribunale, ha ampliato le sue
competenze anche ai ricorsi diretti proposti da persone fisiche o giuridiche; il Tribunale
perdeva così in gran parte la sua natura di organo sussidiario, ma senza divenire ancora
un'istituzione autonoma perché è pur sempre organo aggiunto alla Corte.
Nel sistema attuale il Tribunale è configurato come giudice di diritto comune dell'ordinamento
dell'Unione in quanto investito di una competenza generalizzata in primo grado, con
l'eccezione delle controversie in cui sono convenuti uno o più stati membri e dei conflitti
interistituzionali.
Diviene organo di secondo grado rispetto alle decisioni assunte dai tribunali specializzati.
Per quanto riguarda la competenza pregiudiziale, la Corte di giustizia resta il giudice con
competenza generale, ma si ammette ora la competenza anche del Tribunale a conoscere
delle questioni pregiudiziali di materie specifiche determinate dallo statuto. Le decisioni
emesse dal tribunale su questioni pregiudiziali possono essere riesaminate dalla Corte qualora
sussistano gravi rischi ovvero l'unità e la coerenza del diritto dell'Unione siano compromesse.
A seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona è stata attribuita la possibilità al
Parlamento e al Consiglio di istituire Tribunali specializzati affiancati al Tribunale e incaricati
di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi in materie specifiche.
Tra essi, è da segnalare il Tribunale della funzione pubblica competente in primo grado a
pronunciarsi in merito alle controversie tra l'Unione e i suoi agenti. Esso è composto da sette
giudici, nominati per 6 anni dal Consiglio previa consultazione di un comitato composto di
sette personalità, scelte tra ex giudici dell'Unione e giuristi di nota competenza, il quale
fornisce un parere sull'idoneità dei candidati a svolgere le funzioni di giudici.
Anche il tal caso, per quanto riguarda lo status dei giudici, si applica quanto previsto per i
giudici della Corte di giustizia. Non è però prevista la presenza di un avvocato generale. E’
presente invece la figura del c.d. giudice ad interim, a cui il Tribunale della funzione pubblica
può decidere di far ricorso quando constata che un giudice non è o non sarà nelle condizioni
di partecipare, per motivi medici, alla definizione delle cause e che tale impedimento durerà o
è destinato a durare almeno 3 mesi e quando ritiene che tale giudice non sia colpito da
invalidità considerata totale.
4. Organizzazione della Corte di giustizia e del Tribunale.
Il presidente della Corte di giustizia e del Tribunale viene eletto dei giudici per tre anni a
scrutinio segreto e a maggioranza assoluta dei voti espressi ed è rinnovabile. Essi dirigono i
lavori delle Corti, designano le sezioni competenti e il giudice relatore per ogni causa, fissano
le date delle udienze, decidono sulle richieste di provvedimenti cautelari d'urgenza,
presiedono le udienze plenarie.
Nella disciplina precedente la Corte si riuniva in formazione plenaria, ma era anche prevista la
possibilità di creare al suo interno delle sezioni di tre, cinque o sette giudici.
Secondo la nuova disciplina, la Corte solo eccezionalmente si riunisce in seduta plenaria
qualora sia previsto dallo Statuto, cioè nei seguenti casi: quando si tratti di pronunciare le
dimissioni del mediatore o di un membro della Commissione della Corte dei conti o quando
reputi che il giudizio pendente dinanzi ad essa riveste un carattere eccezionale.
Essa si riunisce in sezioni composte ciascuna da tre o cinque giudici che eleggono i loro
presidenti in base ad una rotazione annuale.
Le loro deliberazioni sono valide soltanto se prese da tre giudici.
Dinanzi le sezioni possono essere rinviati anche ricorsi in via pregiudiziale sempre che
l'importanza delle questioni o l'esistenza di circostanze particolari non ritengano che la Corte
giudichi in seduta plenaria.
La Corte inoltre può riunirsi in grande sezione (o piccolo plenum) quando lo richieda uno Stato
membro o un'istituzione che sia parte in causa: essa comprende 13 giudici più i presidenti
delle sezioni di cinque giudici, è presieduta dal presidente della Corte. Le sue deliberazioni
sono valide solo se presenti nove giudici.
Questa organizzazione rispecchia anche quella del Tribunale. Tuttavia, a tale triplice
modularità collegiale, il Tribunale aggiunge quella del giudice monocratico. Quest’ultima
possibilità è data anche al Tribunale della funzione pubblica.
Per ciò che concerne l’assegnazione delle varie cause alle differenti sezioni e alle formazioni
plenarie, con riferimento alla Corte di giustizia, a ciò provvedono i trattati che individuano le
ipotesi di adunanza in seduta plenaria. La distribuzione invece tra grande sezione e sezioni
semplici è operata a seconda delle difficoltà o dell’importanza della causa o ancora delle
particolari circostanze.
Per conoscere invece le ipotesi in cui il Tribunale lavora in seduta plenaria o come grande
sezione o quando sia un giudice unico a decidere, occorre, invece fare riferimento al suo
regolamento di procedura. Un’analoga competenza a distribuire le cause tra le varie
articolazioni interne del Tribunale della funzione pubblica è riconosciuta al relativo
regolamento di procedura.
Anche le Corti si avvalgono del supporto di un apparato servente incentrato sulla figura del
Cancelliere posto a capo della Cancelleria. A tale soggetto spetta infatti ricevere i ricorsi, le
memorie e tutti gli ulteriori atti presentati dalle parti nelle diverse cause e provvedere alle
comunicazioni concernenti il loro svolgimento. Sempre al cancelliere incombono la tenuta del
registro dove vengono annotati tutti gli atti del procedimento, sia la custodia dei fascicoli delle
cause. Sono le Corti a nominare i propri cancellieri, ai quali si applicano le garanzie previste
per gli alti funzionari dell’Unione. Ai cancellieri sono infine indirizzate le Istruzioni, adottate
dai rispettivi collegi per il più adeguato funzionamento degli apparati serventi.
5. Cenni di diritto processuale eurounitario: i principi.
Le istruzioni, e in particolare, le istruzioni pratiche, hanno la funzione di assicurare il buon
svolgimento dei procedimenti. Di notevole rilievo sono le Guide pratiche, formulate in vista di
una fruttuosa collaborazione con la giurisdizione eurounitaria.
Occorre dunque fare qualche riferimento alle caratteristiche del processo eurounitario.
Anche davanti alle relative Corti, è necessaria la difesa tecnica, occorrendo cioè munirsi di un
difensore che, per le parti private, deve essere un soggetto comunque abilitato a difendere in
un giudizio in uno Stato membro o in un altro Stato. Per gli Stati e le istituzioni eurounitarie, la
rappresentanza in giudizio è invece affidata ad agenti di queste stesse entità.
Le spese processuali sono ripartite secondo le regole conosciute nell’ordinamento interno,
per cui esse seguono, di norma, la soccombenza, alla condizione che sia formulata la relativa
richiesta di condanna. Di notevole rilievo è la previsione del gratuito patrocinio che può
permettere anche a chi non sia in grado di sopportare le spese di un giudizio di dispiegare
ugualmente le proprie difese.
La procedura, salve le varianti richieste dalla peculiarità del procedimento, è analoga davanti
alle 3 Corti e si struttura in 2 fasi: una scritta e l’altra orale.
Necessariamente scritto è l’atto introduttivo del processo, così come scritte sono le eventuali
successive istanze, memorie e repliche. Scritte sono anche le decisioni giurisdizionali rese
nelle varie procedure, siano esse sentenze o ordinanze.
Un esempio di oralità è dato invece dalle conclusioni che gli avvocati generali presentano nelle
cause alle quali sono assegnati.
Ciò che rileva è che il giudice eurounitario ha un’estrema libertà di esperire i mezzi di prova
che ritiene più adeguati, al di là delle richieste delle parti, allontanandosi così dal nostro
modello processuale civile legato al principio dispositivo, per omologarsi maggiormente al
processo amministrativo dove invece vige il principio inquisitorio, basato su un’ampia libertà
del giudice nella gestione del processo.
Di tale ampiezza costituiscono naturali corollari sia il principio del contraddittorio (ossia la par
condicio delle parti rispetto ad ogni elemento del giudizio), sia quello della pubblicità (ossia la
piena ostensibilità rispetto al pubblico di tutti gli svolgimenti processuali. Tuttavia nei
procedimenti in Camera di Consiglio vige la segretezza).
Nel processo eurounitario è infine consentito l’utilizzo di tutte le 24 lingue dell’Unione in
modo da rendere effettivo il diritto di difesa.
6. Segue: gradi e rimedi processuali.
Per quanto riguarda le competenze, il Tribunale si configura come l’organo giurisdizionale a
competenza generale. Tra le sue competenze rientrano:
1) I ricorsi per annullamento o in carenza;
2) I ricorsi intesi a fare valere la responsabilità extracontrattuale dell’Unione;
3) I ricorsi nelle controversie tra le Comunità e i suoi agenti;
4) I ricorsi intesi a far valere una responsabilità contrattuale fondata su una clausola
compromissoria stipulata dall’Unione o per suo conto.
Altre competenze di carattere più specializzato derivano al Tribunale dalle controversie ad
esso devolute nelle materie dei contratti stipulati dall’Unione che prevedano espressamente il
suo intervento. E’ inoltre previsto che al Tribunale possano essere presentate le questioni
pregiudiziali, sia d’interpretazione che d’invalidità, essendo venuta meno la competenza
esclusiva della Corte di giustizia. Si ammette però che sia lo stesso Tribunale a rinviare la
trattazione di una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia qualora reputi necessaria una
decisione di principio che potrebbe compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’UE.
Il Tribunale è infine chiamato ad assolvere alla funzione di giurisdizione d’appello nei confronti
del Tribunale della funzione pubblica.
La Corte è invece competente a giudicare:
1) I casi in cui sia in contestazione la permanenza in carica del Mediatore europeo, dei
membri della Commissione e dei componenti della Corte dei conti;
2) I ricorsi per annullamento o in carenza, quando ad agire siano gli Stati membri e le
istituzioni eurounitarie;
3) I rinvii pregiudiziali, sia d’interpretazione che d’invalidità;
4) Gli inadempimenti degli Stati nelle procedure d’infrazione;
5) In sede d’appello, per i soli motivi di diritto, avverso le decisioni del Tribunale.
A tali attribuzioni va aggiunta quella di carattere consultivo, consistente nella valutazione
della compatibilità delle clausole di un accordo internazionale che l’Unione europea intende
stipulare o della sussistenza della competenza a stipularlo.
La competenza del Tribunale della funzione pubblica attiene al contenzioso del personale
eurounitario e alle controversie direttamente o indirettamente collegale al rapporto di
servizio dei funzionari e degli agenti della Comunità.
E’ consentito il ricorso ai mezzi d’impugnazione straordinari, volti ad attaccare decisioni già
passate in giudicato, come l’opposizione di terzo e la revocazione.
Le sentenze già rese inoltre possono essere fatte oggetto di procedimenti di correzione e/o
integrazione, rispettivamente per la rettifica di errori materiali, di calcolo o altre inesattezze e
per ripristinare omissioni di punti che avrebbero dovuto essere presenti nel testo della
decisione.
E’ inoltre prevista la possibilità di richiedere un’interpretazione autentica delle sentenze
laddove vi siano difficoltà ricostruttive circa la portata e il senso delle stesse.
Infine, per assicurare la fruttuosità delle pronunce future, anche in ambito eurounitario, è
prevista la possibilità di richiedere sia la sospensione cautelare dell’atto impugnato, sia la
concessione dei provvedimenti provvisori necessari.
7. La legalità dell’ordinamento eurounitario: alcuni aspetti preliminari.
Occorre soffermarsi adesso sulla procedura di accertamento della compatibilità con i Trattati
degli accordi che l’UE intenda stipulare con altri soggetti dell’ordinamento internazionale e
sulla sussistenza della stessa competenza dell’Unione a concludere tali accordi.
La facoltà di richiedere tali pareri viene riconosciuta al Parlamento europeo, al Consiglio, alla
Commissione e a ciascuno Stato membro.
Un esempio rilevante è fornito dal parere del 1994 reso dalla Corte in ordine alla possibilità
per la Comunità di aderire alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che venne esclusa in
quanto la Corte ritenne che l’adesione alla Convenzione avrebbe comportato un mutamento
sostanziale del regime di protezione dei diritti dell’uomo prodotto dall’inserimento della
Comunità in un distinto sistema istituzionale internazionale e dall’integrazione della
Convenzione stessa nell’ordinamento giuridico eurounitario.
Tale competenze della Corte di giustizia ricorda quella del Conseil constitutionnel, al quale, in
Francia, è attribuito di valutare la compatibilità costituzionale degli accordi internazionali
prima della loro ratifica.
L’art 7 TUE prevede che, in caso di grave violazione da parte di uno Stato membro, dei valori
del rispetto della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei
diritti umani, è prevista nei suoi confronti una procedura sanzionatoria che potrebbe
concludersi con la sospensione dall’esercizio dei diritti ad esso attribuiti dai Trattati. Anche in
questo procedimento la Corte non risulta estranea, in quanto lo Stato può ad essa rivolgersi
per l’accertamento di irregolarità della procedura sanzionatoria.
8. Segue: il controllo degli atti eurounitari (l’azione di annullamento).
Al fine di garantire la legalità degli atti e dei comportamenti eurounitari, sono previste una
serie di azioni esperibili dinanzi alle Corti dell’Unione. Si tratta:
1) Dell’azione di annullamento;
2) Dell’azione in carenza;
3) Dell’eccezione d’invalidità incidentale;
4) Dei ricorsi contro le sanzioni irrogate in sede eurounitaria;
5) Delle azioni risarcitorie per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
AZIONI DIRETTE CONTRO L’UNIONE E I SUOI ORGANI. IL CONTROLLO SULLA LEGITTIMITÀ
DEGLI ATTI E DEI COMPORTAMENTI DELLE ISTITUZIONI. L’AZIONE DI ANNULLAMENTO.
Il controllo di legittimità degli atti delle istituzioni dell’Unione è affidato alla competenza
esclusiva della Corte di giustizia dell’Unione europea, nelle sue varie articolazioni, che la
esercita nell’ambito delle regole previste dai Trattati. A seguito dell’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, detta competenza si estende inoltre agli atti adottati nel quadro della
cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, nonché agli atti adottati nel quadro
della cooperazione rafforzata.
Gli atti impugnabili.
L’impugnazione ha per oggetto gli atti vincolanti, adottati congiuntamente dal Parlamento
europeo e dal Consiglio (atti legislativi) che non siano raccomandazioni o pareri e anche le
deliberazioni adottate dagli organi direttivi della BEI.
Inoltre possono essere oggetto di impugnazione anche gli atti del Parlamento europeo
destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi: la Corte ha ritenuto ricevibile un
ricorso in annullamento contro l’atto con cui il presidente del Parlamento constatava
l’adozione definitiva del bilancio, in quanto il controllo della Corte è diretto a garantire che
ciascuna istituzione eserciti i poteri che le sono attribuiti dal Trattato in materia di bilancio;
sono esclusi invece quegli atti che riguardano l’organizzazione interna dei suoi lavori, come
quelli relativi alla designazione dei membri delle delegazioni interparlamentari. Il Trattato di
Lisbona ha ulteriormente innovato, aggiungendo alla lista impugnabili anche quelli adottati
dal Consiglio europeo.
Gli atti della Corte dei conti non figurano tra quelli suscettibili di impugnazione; tuttavia la
Corte di giustizia ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da un sindacato contro un atto
della Corte dei conti, in quanto produttivo di effetti giuridici e in quanto, del resto,
quest’ultima ormai “promossa” dal TFUE tra le istituzioni.
Innovativa è invece la previsione per cui la Corte di giustizia dell’Unione europea esercita
inoltre un controllo di legittimità anche sugli atti degli organi o organismi dell’Unione. Non
mancano tuttavia decisioni del giudice dell’Unione in cui lo scrutinio di legittimità è stato
esteso anche nei confronti di soggetti pubblici dell’Unione diversi dalle istituzioni.
Non sono ricevibili i ricorsi diretti contro atti degli Stati membri adottati in esecuzione di atti
dell’Unione, poiché non spetta alla Corte decidere sulla compatibilità di una disposizione
nazionale con il diritto comunitario. Lo stesso deve dirsi per gli atti adottati dai rappresentanti
dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, che sono in sostanza degli accordi in
forma semplificata, che rilevano on quanto tali del diritto internazionale. L’azione di
annullamento può essere promossa solo contro il diritto derivato, comprese le direttive, con
esclusione quindi delle norme dei Trattati istitutivi e dei successivi Trattati che li modificano,
nonché contro ogni atto, a prescindere dalla forma e dalla denominazione usata, che produca,
effetti giuridici nei confronti dei destinatari.
L’azione non è limitata all’impugnazione degli atti tipici, ma deve essere estesa a tutti gli atti
definitivi che, tenendo conto della loro sostanza, producono effetti giuridici obbligatori idonei
ad incidere sugli interessi dei ricorrenti, mentre è in linea di massima irrilevante la loro forma.
Ad esempio, il ricorso è stato ritenuto ricevibile con riguardo a codici di condotta della
Commissione o ad alcune comunicazioni della Commissione in quanto ritenute produrre
effetti giuridici distinti dalla direttiva o dalla norma del Trattato cui rinviavano.
Non sono soggetti a impugnazione invece gli atti produttivi di effetti solo nella sfera interna
dell’istituzione, gli atti che costituiscono fasi intermedie di un procedimento o meramente
preparatori di un atto definitivo: i loro vizi potranno essere eventualmente fatti valere nel
ricorso diretto contro l’atto definitivo, a meno che l’atto intermedio non sia di per sé
produttivo di effetti giuridici nei confronti dei terzi. Parimenti irricevibile è un ricorso avverso
atti puramente confermativi di un atto precedente non impugnato entro i termini.
Quanto all’azione esterna dell’Unione , non è previsto nei Trattati che l’azione di
annullamento possa essere esercitata nei confronti degli accordi internazionali stipulati dalla
prima: in teoria potrebbe non escludersi , dal momento che tali accordi sono assimilati dalla
Corte ad “atti delle istituzioni”, ma ciò pare difficilmente ammissibile dato che un accordo
internazionale interviene tra soggetti del diritto internazionale e dunque non può considerarsi
atto interno dell’ordinamento dell’Unione. Tuttavia, la Corte non si è rifiutata di pronunciarsi
sulla legittimità di una decisione del Consiglio che autorizzava la conclusione di una
conversione internazionale pur rigettando il ricorso nel merito; altre volte, ritenendo un
accordo in conflitto col diritto dell’Unione, ne ha impedito l’applicazione annullando la
decisione di conclusione della Commissione o la decisione di conclusione del Consiglio, poiché
l’esercizio delle competenze attribuite alle istituzioni in campo internazionale non può essere
sottratto al controllo di legittimità.
Nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria, l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona ha comportato l’equiparazione del regime di impugnazione degli atti dell’Unione,
adottati in questo settore, con quello generale, con l’eccezione consistente nel divieto per la
Corte di riesaminare la validità o la proporzionalità di operazioni di polizia o in materia di
mantenimento dell’ordine pubblico. Rimane tuttavia in vigore, la disciplina previdente
all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in base alla quale la Corte è esclusivamente
competente a riesaminare la legittimità delle decisioni-quadro e delle decisioni nei ricorsi
proposti da uno Stato membro o dalla Commissione per uno dei vizi di cui all’art. 230 CE,
entro due mesi dalla pubblicazione dell’atto; non erano impugnabili invece le posizioni
comuni, per il loro carattere più squisitamente politico e perché, per loro natura, non
dovrebbero di per sé produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.
Anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, rimane esclusa la competenza della
Corte nell’ambito della politica estera e sicurezza comune. Tuttavia, si prevede che la Corte è
competente a pronunciarsi sui ricorsi, proposti dai privati, riguardanti il controllo della
legittimità delle decisioni del Consiglio che prevedono misure nei confronti di persone fisiche
o giuridiche.
La Corte ha inoltre competenza di stabilire se un atto attinente alle relazioni esterne
dell'Unione debba essere adottato sulla base delle relative disposizioni della PESC.
I soggetti legittimati a presentare il ricorso in annullamento.
Possono proporre il ricorso in annullamento i c.d. ricorrenti privilegiati, vale a dire gli Stati
membri, il Consiglio, la Commissione, nonché il Parlamento europeo: il privilegio per questi
soggetti consiste nel diritto di impugnare qualsiasi atto senza dover dimostrare che questo
incida sulla posizione giuridica del ricorrente.
Un discorso a parte merita tuttavia la posizione del Parlamento. Nel regime precedente a
quello inaugurato con il Trattato di Nizza, era previsto che il Parlamento fosse un ricorrente
semi-privilegiato, vale a dire potesse agire per l'annullamento degli atti, ma solo per la
salvaguardia delle sue prerogative accogliendo quanto stabilito dalla giurisprudenza della
Corte nonostante la mancata formale inclusione del Parlamento tra i legittimati
all'impugnazione degli atti.
Secondo la Corte risultava ricevibile un ricorso proposto dal Parlamento europeo contro atti
delle altre istituzioni qualora il Parlamento avesse indicato in modo pertinente l'oggetto della
sua prerogativa che doveva essere salvaguardata e la pretesa violazione di quest'ultima. Sulla
base di tali criteri, la Corte aveva dichiarato irricevibili i ricorsi del Parlamento basati sulla
violazione dell'obbligo di motivazione in quanto tale violazione non comportava una lesione
delle sue prerogative.
La categoria dei ricorrenti semi-privilegiati non è tuttavia scomparsa con l'equiparazione del
Parlamento alle altre istituzioni ed agli altri Stati membri. Ad essa appartengono oggi la BCE e
la Corte dei conti le quali sono legittimate a proporre ricorso in annullamento soltanto qualora
agiscano per la salvaguardia delle loro prerogative. Il Trattato di Lisbona tale facoltà anche al
comitato delle regioni.
Anche le persone fisiche o giuridiche sono ammesse ad esercitare l'azione di annullamento,
ma a condizioni più restrittive dei ricorrenti privilegiati o semi-privilegiati, dovendo dimostrare
un interesse ad agire personale, effettivo e attuale derivante dal prodursi di un pregiudizio
nella propria sfera giuridica.
Il ricorso in annullamento può essere proposto dalle persone fisiche o giuridiche innanzitutto
avverso le decisioni di cui siano destinatarie; inoltre contro quegli atti che, pur non rientrando
nella categoria indicata, presentandosi ad esempio come regolamenti o direttive o come
decisioni rivolte ad altre persone, le riguardino individualmente e direttamente, in terzo luogo,
contro gli atti regolamentari che le riguardano direttamente e non richiedono misure di
esecuzione.
Se il ricorso è accolto, la Corte dichiara l'atto impugnato nullo e non avvenuto. L'annullamento
può essere anche solo parziale se il vizio riscontrato riguarda solo alcune disposizioni dell'atto
purché siano separati dal resto. La sentenza di annullamento ha efficacia erga omnes, opera
ex tunc e ha l'autorità di cosa giudicata; dunque sarà irricevibile un nuovo ricorso contro l'atto
già annullato mentre qualora l'atto sia stato dichiarato legittimo, un nuovo ricorso sarà
proponibile qualora si fondi su nuovi motivi, sempre naturalmente che non sia spirato il
termine previsto per l'impugnazione.
L'istituzione, l'organo o l'organismo dell'Unione che ha emanato l'atto annullato dovrà trarre
le conseguenze ed adottare provvedimenti che l'esecuzione della sentenza comporta (es,
adozione di un nuovo atto immune da vizi).
Il giudice eurounitario inoltre fruisce di un certo potere di determinazione degli effetti
temporali del suo annullamento, quando esigenze di sicurezza giuridica lo richiedano.
IL RICORSO IN CARENZA.
L’art. 265 TFUE contempla la possibilità di rivolgersi alla Corte per far constatare il
comportamento omissivo delle istituzioni che si astengano dal pronunciarsi in violazione dei
Trattati. La Corte di giustizia ha affermato che ricorso in annullamento e ricorso in carenza
costituiscono l’espressione di uno stesso rimedio giuridico, pur mantenendo ciascuno dei due
strumenti la propria autonomia.
Originariamente il ricorso era proponibile solo nei confronti del Consiglio e della
Commissione; a seguito delle modifiche introdotte dal Trattato di Maastricht, anche nei
confronti del Parlamento europeo e della BCE; infine, con il Trattato di Lisbona il medesimo
rimedio è ora previsto anche nei confronti del Consiglio europeo, nonché degli organi ed
organismi dell’Unione.
Sono legittimati a proporre tale ricorso, oltre gli Stati membri, tutte le istituzioni dell’Unione
diverse dal responsabile dell’omissione; dunque anche il Parlamento, il Consiglio europeo, la
Corte dei conti, la BCE.
Sono invece esclusi gli organi ed organismi dell’Unione, rispetto ai quali si realizza dunque una
differenza di trattamento tra la loro legittimazione passiva e quella attiva.
L’azione in carenza consente di sindacare non solo i singoli comportamenti omissivi, ma più in
generale l’atteggiamento di un’istituzione che si astenga dall’adottare un insieme di misure
necessarie per l’instaurazione di una politica comune, purché gli atti che avrebbero dovuto
essere presi possano essere determinati con sufficiente precisione al fine di consentire alla
Corte di valutare la legittimità o meno della loro non adozione; l’esistenza di un margine di
discrezionalità quanto alle modalità e al contenuto di un’azione e alla natura delle misure da
prendere non costituisce ostacolo alla constatazione di una carenza, mentre il ricorso non è
ammissibile quando l’istituzione gode di un potere discrezionale in merito alla stessa
emanazione dell’atto (con la mancata attivazione da parte della Commissione di una
procedura di infrazione).
I ricorrenti privilegiati possono ricorrere contro qualsiasi tipo di carenza senza dover
giustificare un interesse particolare, anche contro l’omissione di atti di per sé non produttivi di
effetti giuridici obbligatori.
Anche ogni persona fisica o giuridica può adire la Corte di giustizia dell’Unione europea per
contestare a una delle istituzioni di avere omesso di emanare nei suoi confronti un atto con
effetti vincolanti, che non sia cioè una raccomandazione o un parere.
Deve trattarsi di un atto di cui il ricorrente sarebbe stato personalmente il destinatario
formale, dunque in principio solo le decisioni, in quanto i singoli non sono destinatari di
regolamenti e direttive, con esclusione di ogni disposizione a carattere generale, comprese le
decisioni generali indirizzate agli Stati e anche le decisioni indirizzate a terzi.
La Corte ha ammesso che una decisione concernente un destinatario diverso riguardasse
direttamente e individualmente il ricorrente, che dunque poteva contestare l’omissione.
Inoltre, in una successiva decisione il Tribunale ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da
una società privata nei confronti della Commissione e fondato sulla pretesa inerzia di
quest’ultima nell’adozione di un atto, il cui destinatario avrebbe dovuto essere uno stato
membro.
Presupposto del ricorso è l’esistenza di un obbligo di agire dell’istituzione in virtù di una regola
di diritto dell’Unione: dunque non è sufficiente il semplice rifugio di agire, ma occorre la
mancata adozione di un comportamento dovuto. La doverosità del comportamento può
anche non risultare espressamente dal testo della norma in questione, ma essere ricavata dai
principi generali, ed in particolare da un’interpretazione sistematica e teologica della norma
medesima.
Quando poi l’istituzione dispone di un potere discrezionale, il ricorso è irricevibile.
Affinché il ricorso sia ricevibile, occorre che l’istituzione in causa sia stata preventivamente
richiesta di agire con una domanda in cui si indicano con precisione il contenuto dell’obbligo
che si pretende violato e le misure richieste per far cessare l’inerzia.
La richiesta di agire è una formalità indispensabile, la cui assenza determina l’irricevibilità
della domanda di ricorso in carenza.
Se, trascorsi due mesi da tale richiesta, l’istituzione diffidata non ha preso posizione, il ricorso
può essere introdotto nei due mesi successivi; se ha preso posizione, il ricorso non è più
proponibile, anche se non abbia teso soddisfazione al richiedente o sia stato adottato un atto
diverso da quello ritenuto necessario; allora, la legittimità della posizione assunta non potrà
essere contestata che attraverso un ricorso in annullamento.
Non costituisce presa di posizione una risposta evasiva che non contesti né confermi l’asserita
carenza o non manifesti l’atteggiamento dell’istituzione, oppure sia dilatoria o di attesa.
Inoltre, se i ricorrente ha lasciato decorrere i termini di impugnazione per il ricorso in
annullamento contro un atto, non potrà aggirare la prescrizione dell’azione chiedendo
all’istituzione di ritirare o modificare l’atto e agire poi contro il suo silenzio attraverso un
ricorso in carenza.
A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il ricorso in carenza non è tuttora
consentito nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, mentre è ammesso, allo
scadere del periodo transitorio, nel contesto della cooperazione giudiziaria e di polizia in
materia penale.
Effetti della sentenza.
La sentenza del giudice dell’Unione che accolga il ricorso in carenza ha carattere dichiarato,
limitandosi ad accertare l’illiceità del comportamento.
L’istituzione, la cui omissione sia stata dichiarata in violazione del Trattato, è tenuta a
prendere le misure che l’esecuzione della sentenza comporta, entro un termine ragionevole,
fatta salva la possibilità di un ricorso a titolo nel suo comportamento omissivo o un periodo
eccessivo nell’adottare l’atto dovuto, possono comportare la responsabilità dell’Unione.
Un nuovo ricorso in carenza potrà essere proposto qualora l’istituzione convenuta rimanga
inattiva, omettendo di prendere i provvedimenti dovuti alla luce dell’obbligo di confermarsi
alla sentenza, mentre un ricorso in annullamento sarà proponibile qualora gli atti
dall’istituzione intesi a dare esecuzione alla sentenza risultino inadeguati o in contrasto col
giudicato della Corte.
L’ECCEZIONE DI INVALIDITÀ.
Il controllo della legittimità degli atti dell’Unione è inoltre assicurato dal meccanismo
dell’eccezione di invalidità, che consente, anche dopo la scadenza del termine di due mesi, di
far valere l’illegittimità di un atto a portata generale, per uno dei motivi previsti dall’art. 263
TFUE, al fine di invocare la sua inapplicabilità nel corso di una controversia pendente davanti
alla Corte di giustizia dell’Unione europea e non avente ad oggetto tale regolamento.
Si tratta di un mezzo di tutela, in particolare per quanto riguarda le persone fisiche o
giuridiche, in quanto consente di superare le condizioni restrittive che esse incontrano nel
promuovere un ricorso diretto in annullamento contro gli atti di carattere generale; inoltre,
non è soggetta ad alcuni limite temporale e dunque può essere proposta anche dopo lo
scadere del termine di due mesi previsto dall’art. 263 TFUE.
Non si tratta di una azione autonoma, in quanto può essere esercitata solo in via incidentale,
nell’ambito e in occasione di un procedimento principale pendente dinanzi al giudice
dell’Unione sulla base di altre disposizioni dei Trattati e che abbiano ad oggetto un atto
diverso dal regolamento contestato; occorre inoltre che questo sia rilevante per la decisione
del giudizio in corso.
L’eccezione di invalidità può essere invocata, nel corso di qualsiasi procedura contenziosa che
ha luogo dinanzi al giudice dell’Unione: può trattarsi di un ricorso in annullamento, per
responsabilità extracontrattuale dell’Unione, o dei funzionari; niente impedisce, in via di
principio, che l’eccezione possa essere sollevata anche nell’ambito di un ricorso in carenza, e
anche di un ricorso per inadempimento, ove è possibile immaginare che uno Stato invochi
l’inapplicabilità di un regolamento della cui violazione è accusato; tale possibilità tuttavia è
stata sostenuta solo da alcuni avvocati generali.
L’eccezione non può invece essere utilizzata durante un procedimento davanti ai giudici
nazionali, in tal caso dovendosi utilizzare il rinvio pregiudiziale di validità, e neanche davanti
alla Corte in occasione di un rinvio pregiudiziale.
Né uno Stato né un privato possono sollevare l’eccezione contro una decisione individuale di
cui siano destinatari, dovendo in questo caso ricorrere all’impugnazione diretta, nei termini
prescritti, dell’atto che ritengono illegittimo.
Grazie alle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, l’eccezione può oggi essere sollevata
non solo avverso i regolamenti, ma anche nei confronti di qualsiasi altro atto a portata
generale.
Il rimedio è stato invocato anche nei confronti di atti atipici e di accordi internazionali.
L’eccezione non può essere sollevata invece contro atti a portata individuale, in particolare
contro atti che avrebbero dovuto essere impugnati dai destinatari mediante il ricorso in
annullamento nei termini prescritti.
In sostanza l’eccezione rappresenta per i singoli una ultima ratio quando è loro preclusa ogni
altra possibilità di contestare la validità dell’atto. La ricevibilità dell’eccezione è subordinata,
all’esistenza di un legame giuridico diretto tra la fattispecie oggetto del ricorso principale e
l’atto a portata generale di cui si chiede la disapplicazione. Qualsiasi “parte” di una
controversia dinanzi al giudice dell’Unione, può eccepire l’invalidità di un atto a portata
generale. Tuttavia i privati dovranno provare il loro interesse ad agire dimostrando che la loro
situazione si trova pregiudicata dall’atto in questione.
L’eccezione deve essere sollevata espressamente, non può essere rilevata d’ufficio dal
giudice; né può essere sollevata dinanzi al giudice nazionale, poiché in tal caso si deve seguire,
la via del ricorso pregiudiziale per ottenere una pronuncia sulla validità dell’atto.
La natura incidentale del rimedio comporta che l’atto dichiarato illegittimo dal giudice
dell’Unione non sarà annullato, ma dichiarato non applicabile al caso di specie, per cui
continuerà a rimanere in vigore finché l’istituzione che l’ha emanato non adotti le misure
necessarie per rimuoverlo o modificarne le cause di invalidità. L’accertamento di invalidità ha
efficacia solo nei confronti delle parti e non può essere invocato da terzi.
AZIONE CONTRO LE SANZIONI IRROGATE IN SEDE EUROUNITARIA.
Appartiene ancora al contenzioso di legalità la possibilità di ricorrere, davanti al Tribunale,
avverso le sanzioni irrogate da organi dell’UE entro 2 mesi dalla loro notificazione. Tali ricorsi
devono essere presentati dalle persone fisiche e giuridiche. I ricorrenti possono contestare in
pari tempo la legittimità della decisione che commina la sanzione o limitarsi a chiedere una
riduzione della stessa. Nell’esercizio di tale competenza, il giudice eurounitario dispone di
poteri più incisivi rispetto al ricorso in annullamento in quanto risulta non solo in grado di
annullare la sanzione contestata, ma anche valutarne l'opportunità e modificarne il suo
importo, diminuendolo o, eventualmente, anche aumentandolo.
AZIONE PER RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE.
E’ prevista la possibilità di esperire dinanzi alle Corti dell’Unione l’azione per danni da
responsabilità eurounitaria extracontrattuale contro gli atti e i comportamenti illegittimi delle
istituzioni e della BCE, nonché dei suoi funzionari ed agenti.
Il rapporto tra l’azione per responsabilità extracontrattuale e le azioni di annullamento e in
carenza è di complementarietà, se si riflette sul fatto che, se un danno è provocato da un atto
o da un’omissione illegittima, può risultare utile una previa o coeva contestazione di tale
illegittimità. Ciò non significa che tra le stesse intercorra un rapporto di strumentalità, ben
potendo il soggetto leso agire con la tutela risarcitoria senza prima dover necessariamente
attivarsi per ottenere l’annullamento dell’atto lesivo o la dichiarazione della sua invalidità in
via pregiudiziale.
Il ricorso è proponibile nel termine prescrizionale di 5 anni da chiunque (persone, fisiche e
giuridiche, Stati membri) abbia subito un danno ad opera di un’istituzione o di un agente della
Comunità nell’esercizio delle sue funzioni, instaurando il relativo giudizio davanti alla Corte di
giustizia (gli Stati) o al Tribunale (i privati). Se il danno è frutto dell’esecuzione del diritto
eurounitario da parte di uno Stato membro nei confronti dei suoi cittadini, la competenza ad
accertare la responsabilità di tale Stato appartiene al giudice nazionale. Le condizioni per la
sussistenza della responsabilità in questione consistono nell’illiceità dell’atto o del
comportamento censurato di grave e manifesto, nell’effettiva produzione di un danno sia
morale che patrimoniale ed, evidentemente, nel nesso di causalità tra questi 2 fattori.
AZIONE PER RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE.
La competenza giurisdizionale eurounitaria sussiste anche nel caso di responsabilità di tipo
contrattuale. La responsabilità contrattuale dell'Unione può derivare dai contratti da essa
stipulati con soggetti terzi: è retta dalla legge applicabile al contratto in causa secondo le
norme di conflitto del giudice del foro, ma la Corte di giustizia dell'Unione europea è
competente a decidere in virtù di una clausola compromissoria inserita in un contratto di
diritto pubblico o di diritto privato stipulato dall'Unione o per conto di essa. In assenza di tale
clausola, le controversie relative all'applicazione del contratto rientrano nella competenza dei
giudici interni.
Le parti del contratto possono designare la legge applicabile, che si impone anche alla Corte
quando questa è scelta come giudice competente in virtù di una clausola compromissoria. In
assenza di indicazione della legge applicabile, il giudice interno applicherà le proprie norme di
diritto internazionale privato, mentre se giudice competente è la Corte, essa non si ritiene
vincolata a indicare un diritto nazionale applicabile e può decidere sulla base di
un'interpretazione delle clausole del contratto.
AZIONI DIRETTE CONTRO GLI STATI MEMBRI. IL CONTROLLO SULL’OSSERVANZA
DEL DIRITTO DELL’UNIONE: I RICORSI PER INFRAZIONE.
Il ricorso per infrazione ha lo scopo di consentire al giudice dell’Unione di esercitare un
controllo sul rispetto, da parte degli Stati membri, degli obblighi loro derivanti dalle regole
dell’ordinamento dell’Unione e in pari tempo di determinarne l’esatta portata in caso di
divergente interpretazione. La sua funzione essenziale è di ristabilire la legalità, più che
sanzionare lo Stato colpevole, e rappresenta un estremo rimedio al quale ricorrere solo dopo
che siano risultati inutili altri tentativi di porre rimedio alla violazione. Ciò spiega perché il suo
esercizio non presupponga necessariamente l’esistenza di un pregiudizio subito dagli altri Stati
membri né una colpa a carico dello Stato contro cui la procedura di infrazione è rivolta, e
giustifica le complesse modalità del suo svolgimento e il ruolo centrale svolto dalla
Commissione.
La procedura di infrazione trova applicazione in tutti i settori di competenza dell’Unione. In
particolare, non può essere utilizzata per ottenere il rispetto degli obblighi posti agli Stati
membri al fine di evitare disavanzi pubblici eccessivi o in caso di mancato adeguamento alle
decisioni assunte dal Consiglio in materia: in questo settore solo il Consiglio può decidere
misure di pressione e sanzioni di vario tipo contro lo Stato membro che non ottemperi alle sue
decisioni, su raccomandazione della Commissione, a maggioranza dei 2/3 dei voti ponderati
con esclusione dei voti dello Stato in questione.
La procedura di infrazione può essere utilizzata dal consiglio direttivo della BCE per far
accertare le violazioni commesse dalle banche centrali nazionali e anche dal Consiglio di
amministrazione della BEI per mancata esecuzione degli obblighi derivanti dallo Statuto della
Banca.
E’ tuttora esclusa la procedura di infrazione per le materie rientranti nella politica estera e di
sicurezza comune (art. 275 TFUE). Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la procedura
di infrazione può svolgersi, in modifica del regime precedente, anche nell’ambito della
cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale: ciò tuttavia a condizione che sia
trascorso il periodo transitorio di cinque anni, durante il quale le competenze della
Commissione e della Corte rimangono invariate.
Può formare oggetto del ricorso per infrazione qualsiasi violazione, conseguente a un
comportamento attivo od omissivo, da parte di uno Stato membro dei suoi obblighi imposti
dal diritto dell’Unione. Può trattarsi di obblighi derivanti da qualsiasi fonte dell’ordinamento
dell’Unione, e dunque da una disposizione dei Trattati o dal diritto derivato; dagli accordi
internazionali vincolanti l’Unione; da una sentenza dalla Corte di giustizia; dai principi generali
dell’ordinamento in quanto facenti parte integrante del diritto dell’Unione. Non assume
rilievo la circostanza che la norma violata rivesta o meno efficacia diretta. Non ha rilevanza la
qualità dell’organo che abbia commesso la violazione: può trattarsi di un organo legislativo, o
esecutivo o anche giudiziario di ultima istanza, o anche di un organo avente carattere
costituzionalmente indipendente; può trattarsi anche di uno Stato federato o di un ente
territoriale autonomo o di un Comune, e anche di un ente di diritto privato se questo agisca
sotto il controllo dello Stato.
L’infrazione può anche derivare da fatto di individui, qualora lo Stato non abbia adottato le
misure preventive e repressive atte a contrastare la condotta dei privati assunta in violazione
di regole dell’Unione, oppure abbia impedito l’esercizio di diritti attribuiti dal Trattato.
Il procedimento di infrazione può essere utilizzato per accertare singole, concrete violazioni di
obblighi previsti da una direttiva, oppure lo stesso ritardo nell’adempimento dell’obbligo
imposto, nonché per valutare se lo Stato non abbia oltrepassato il margine di discrezionalità
concesso nel dare attuazione ad una direttiva, nel caso questa non contenga prescrizioni
precise ed incondizionate.
Oggetto dell’infrazione può essere anche la mancata comunicazione alla Commissione delle
informazioni richieste in merito all’attuazione, in un caso concreto, degli obblighi imposti da
una direttiva. In questo caso, l’obbligo deriva anche da una prescrizione generale in tema di
leale collaborazione degli Stati membri con le istituzioni dell’Unione. Quanto all’elemento
soggettivo, il procedimento di infrazione si fonda sull’oggettiva constatazione del mancato
rispetto, da parte di uno Stato membro, degli obblighi imposti dai Trattati o da un atto
derivato Accertato l’inadempimento, è irrilevante che questo risulti dalla volontà dello Stato
membro al quale è addebitabile, dalla sua negligenza, ovvero dalle difficoltà tecniche alle
quali ha dovuto far fronte.
Di conseguenza, lo Stato non può addurre a giustificazione del suo comportamento norme,
prassi o situazioni peculiari del proprio ordinamento interno, o la particolare articolazione
dell’ordinamento nazionale che attribuisca ad enti territoriali autonomi determinate
competenze in certe materie, per cui ricadrebbe su di esse il compito di dare corretta
attuazione alle norme dell’Unione.
Neppure lo Stato può invocare particolari difficoltà che abbia incontrato nell’esecuzione
dell’atto dell’Unione come l’opposizione di privati ed i problemi di ordine pubblico da questa
derivanti, l’esistenza di attività criminali nella regione in cui si verifica l’inadempimento,
ovvero ancora avvenimenti politici imprevedibili come i ritardi nella procedura legislativa, lo
scioglimento del Parlamento nazionale, le crisi di governo, i ritardi derivanti dal compimento
di formalità costituzionali obbligatorie: vanno tuttavia fatti salvi i casi di forza maggiore e solo
per il periodo necessario ad un’amministrazione diligente per porvi rimedio; neppure può
considerarsi motivo esonerante il fatto che la violazione non abbia prodotto alcun danno.
Ugualmente, uno Stato non può addurre a sua giustificazione l’illegittimità di una decisione di
cui è destinatario come mezzo di difesa avverso un ricorso per infrazione fondato sulla
mancata esecuzione di tale decisione, poiché in tal caso avrebbe dovuto utilizzare l’azione in
annullamento, a meno che l’atto sia affetto da un vizio talmente grave da doversi considerare
inesistente. La Commissione non può invocare a sostegno del ricorso la violazione di una
norma del Trattato da parte di uno Stato membro, se quest’ultimo si è conformato al
contenuto di una disposizione di diritto derivato non impugnata e dunque legittimamente
vigente e produttiva di effetti giuridici.
La violazione commessa da uno Stato membro non può costituire giustificazione per il
mancato rispetto degli obblighi dell’Unione da parte di altro Stato membro: ciò in quanto gli
Stati membri hanno la possibilità di far accertare l’inadempimento di un altro Stato attraverso
le varie procedure previste dai Trattati, senza dover far ricorso all’inosservanza dei loro
obblighi: dunque l’attuazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri non può
essere sottoposta ad alcuna condizione di reciprocità.
La responsabilità dello Stato è esclusa quando la decisione dell’Unione che esso non ha
osservato è stata presa in una materia di competenza esclusiva degli Stati membri.
La procedura.
Due procedure sono previste dal Trattato: su iniziativa della Commissione oppure su iniziativa
di uno o più Stati membri. Si distingue una fase precontenziosa (che può essere omessa) e una
fase contenziosa.
a) Iniziativa della Commissione.
La fase precontenziosa.
Quando la Commissione ritenga che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi
derivanti dal diritto dell’Unione, per conoscenza diretta o dietro richiesta di altro Stato
membro, o sollecitata da un esposto di privati, può d’ufficio iniziare la procedura per
inadempimento. La Commissione non è obbligata a dar corso alla procedura, neanche se
abbia ricevuto un reclamo puntuale, disponendo al riguardo di un ampio potere discrezionale:
dunque la sua decisione di iniziare oppure di non avviare la procedura non può formare
oggetto di ricorso in annullamento, né la sua inerzia o il suo silenzio formare oggetto di un
ricorso in carenza, poiché la fase precontenziosa non implica alcun atto giuridicamente
vincolante né può far nascere una sua responsabilità.
Dal momento in cui viene a conoscenza di elementi che facciano presumere l’esistenza di
un’infrazione, la Commissione istruisce la pratica, raccogliendo tutti gli elementi di
informazione e di valutazione necessari. In questa fase può chiedere spiegazioni allo Stato
membro coinvolto, che è tenuto a fornirle nel termine fissato: se lo Stato non risponde, la
Commissione può rivolgergli un “invito formale a rispondere”.
Il primo atto ufficiale della procedura è la lettera di messa in mora o di intimazione, nella
quale la Commissione comunica allo Stato i motivi del suo intervento, contesta gli addebiti e
invita lo Stato a presentare le sue ”osservazioni” entro un termine fissato (di solito due mesi):
la lettera è una condizione di forma sostanziale che condiziona la regolarità della procedura e
quindi la ricevibilità del ricorso successivo, poiché la facoltà concessa allo Stato di presentare
le sue osservazioni costituisce una garanzia fondamentale per l’esercizio del suo diritto di
difesa.
A seguito delle spiegazioni dello Stato, se queste siano ritenute sufficienti o se lo Stato abbia
posto termine all’infrazione, la Commissione può decidere di archiviare il caso; altrimenti, può
emanare un parere motivato, che chiude la fase precontenziosa, nel quale si ingiunge allo
Stato di porre fine alla violazione entro un termine che fissa discrezionalmente a seconda
della gravità del caso: se troppo breve o irragionevole, costituisce violazione dei diritti della
difesa e può comportare il rigetto del ricorso da parte della Corte. Il parere motivato contiene
un’esposizione dettagliata dei motivi che hanno indotto la Commissione a ritenere l’esistenza
dell’infrazione di un obbligo dell’Unione e gli elementi di fatto e di diritto da prendere in
considerazione nonché eventualmente l’indicazione delle misure che la Commissione ritiene
necessario siano adottate per porre termine alla violazione. Il parere motivato non può
discostarsi dai motivi e dagli addebiti già enunciati nella lettera di intimazione: solo questi
potranno essere discussi davanti alla Corte, mentre nuovi elementi di giudizio sono irricevibili,
poiché la lettera di intimazione ha appunto lo scopo di delimitare la materia del contendere e
allo stesso tempo di fornire allo Stato membro i dati necessari per preparare la sua difesa. Sia
la lettera di messa in mora che il parere motivato sono adempimenti necessari per la
regolarità della procedura, non solo perché necessari per garantire allo Stato la possibilità di
giustificarsi e difendersi, ma anche perché possono consentire di giungere al ristabilimento
della legalità comunitaria senza passare attraverso la fase giudiziaria.
Il parere motivato non può formare oggetto di ricorso in annullamento.
E’ escluso che possa essere consentito ai privati l’accesso ai documenti relativi alla fase
precontenziosa del procedimento per infrazione nel corso dei negoziati tra la Commissione e
lo Stato membro interessato. La divulgazione dei documenti potrebbe pregiudicare il corretto
svolgimento del procedimento e dunque essere in contrasto con l’interesse pubblico. Di
recente, la Commissione ha acconsentito a riconoscere ai privati denunzianti alcuni limitati
diritti di carattere procedurale, quale quello di avere conoscenza degli sviluppi della
procedura ed essere informati dell’intenzione di archiviare la denuncia.
La fase contenziosa.
La fase contenziosa si apre con la presentazione del ricorso alla Corte, qualora lo Stato in
causa non si conformi al parere della Commissione nel termine fissato. L’azione tuttavia non è
soggetta ad alcun termine, poiché anche in questa fase la Commissione resta libera di valutare
i tempi e l’opportunità del suo esercizio, o decidere di astenersi dall’adire la Corte anche se lo
Stato non ha eliminato il proprio inadempimento. Pertanto quest’ultima non può sindacare
l’opportunità dell’esercizio di tale facoltà e neanche un singolo può ritenersi legittimato a
impugnare il rifiuto della Commissione di avviare il procedimento di infrazione nei confronti di
uno Stato membro.
Incombe alla Commissione l’onere di provare l’esistenza di una violazione ma, quale
guardiana del Trattato, non deve dimostrare il suo interesse ad agire. I privati, anche se
abbiano presentato un reclamo alla Commissione, non possono intervenire nel procedimento.
L’adempimento da parte dello Stato interrompe la procedura; se interviene successivamente
nel corso del giudizio ma comunque prima della fase orale, la Commissione può rinunciare a
dar seguito al procedimento, ma tale rinuncia non implica alcun riconoscimento della liceità
del comportamento discusso né priva di oggetto il ricorso già avviato. La Commissione
conserva un interesse a proseguire ugualmente l’azione e ad ottenere una pronuncia
giudiziale sull’esistenza o meno della violazione, ad esempio al fine di stabilire un’eventuale
responsabilità dello Stato tanto nei confronti dell’Unione che degli altri Stati membri o dei
singoli: se ne ricava dunque che l’azione per infrazione non ha il solo scopo di ristabilire la
legalità comunitaria imponendo a uno Stato il rispetto dei suoi obblighi, ma può avere anche
quello di accertare la sua responsabilità e di fungere da precedente per eventuali altre
violazioni da parte dello stesso o di altri Stati membri.
La Corte può ordinare i provvedimenti provvisori che ritenga necessari, quali misure cautelari;
ad esempio può imporre allo Stato di sospendere l’applicazione di una misura interna fino
all’emanazione della sentenza.
L’inizio della fase contenziosa pone termine alla possibilità di negoziare con la Commissione le
modalità di applicazione delle disposizioni dell’Unione controverse.
b) Su iniziativa degli Stati membri.
Anche agli Stati membri è riconosciuta la possibilità di adire la Corte, siano o meno parti lese,
quando ritengano che un altro Stato membro abbia mancato a un obbligo dell’Unione;
tuttavia, prima di adire la Corte, devono rivolgersi alla Commissione: questa emette un parere
motivato, dopo aver chiesto agli Stati interessati di presentare in contraddittorio le
loro osservazioni. La Commissione è tenuta a formulare il parere sull’esistenza o meno della
violazione lamentata entro tre mesi dalla domanda: spetterà poi allo Stato reclamare, anche
sulla base del parere, decidere di adire o meno la Corte. La mancata emanazione del parere
non impedisce allo Stato di ricorrere ugualmente alla Corte, così come non glielo impedisce un
parere che risulti favorevole allo Stato convenuto. Questa procedura risulta poco utilizzata.
Procedura abbreviata.
In materia di aiuti di Stato, l’art 108 TFUE prevede che la Commissione controlli la
compatibilità di un aiuto concesso con il mercato comune e, nel caso constati la sua
incompatibilità, decida, dopo aver intimato agli interessati di presentare le loro osservazioni,
che debba essere soppresso o modificato nel termine da essa fissato; tale decisione può
formare oggetto di ricorso in annullamento. Qualora lo Stato non si conformi alla decisione in
parola, la Commissione può adire direttamente la Corte di giustizia con un ricorso per
infrazione senza passare attraverso la procedura precontenziosa.
Sempre in materia di concorrenza, l’art. 106. par. 3, TFUE, consente alla Commissione di
adottare decisioni o direttive rivolte agli Stati membri colpevoli di inosservanza degli obblighi
imposti in merito al trattamento delle imprese pubbliche o di quelle a cui si riconoscono diritti
speciali o esclusivi. In questo caso, la Commissione cumula i poteri di vigilanza e di
accertamento della violazione del Trattato, per cui la Corte può essere coinvolta solo in caso
di impugnazione della decisione della Commissione da parte dello Stato membro o dei privati
interessati.
L’articolo 114 TFUE, nel quale si prevede l’adozione da parte del Consiglio e del Parlamento,
secondo la procedura legislativa ordinaria, delle misure relative al riavvicinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che hanno per
oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. Tuttavia gli Stati membri, al
fine di limitare la portata di una misura di armonizzazione, possono chiedere di mantenere in
vigore disposizioni nazionali giustificate da esigenze importanti o relative alla protezione
dell’ambiente di lavoro o dell’ambiente, previa notifica alla Commissione. Anche dopo
l’adozione di misure di armonizzazione lo Stato membro può chiedere di introdurre
disposizioni nazionali per la protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, ma soltanto
se giustificate da nuove prove scientifiche e qualora siano insorti problemi specifici dopo
l’adozione della misura di armonizzazione. In entrambi i casi, la Commissione decide entro sei
mesi dalla notifica e la sua mancata risposta si considera come "silenzio assenso". Qualora la
Commissione ritenga che uno Stato membro faccia un uso abusivo di una facoltà, può adire
direttamente la Corte. Infine la Commissione può adire direttamente la Corte nel caso di uso
abusivo dei poteri previsti dall'art. 346 TFUE (misure necessarie alla tutela degli interessi
essenziali della propria sicurezza e che si riferiscano alla produzione o al commercio di armi,
munizioni e materiale bellico, purché non alterino le condizioni di concorrenza nel mercato
comune per quanto riguarda gli altri prodotti) e dall'art. 347 TFUE (misure prese
nell'eventualità di gravi agitazioni interne che turbino l'ordine pubblico, in caso di guerra e di
grave tensione internazionale).
La sentenza della Corte.
Quando la Corte accerta la violazione di un obbligo imposto dal diritto dell'Unione, lo Stato
membro è tenuto a prendere tutti i provvedimenti, atti ad eliminare l'infrazione, che
l'esecuzione della sentenza della Corte comporta, nel più breve tempo possibile: dovrà
dunque modificare od eliminare le norme che hanno originato l'infrazione in modo da
conformarle alle prescrizioni del diritto dell'Unione, o adottare comunque quelle misure
necessarie per far cessare la situazione di inadempienza che risultino anche adeguate a tal
fine.
La sentenza ha natura dichiarativa, limitandosi a constatare se sussiste la lamentata
violazione, e non può prescrivere allo Stato quali comportamenti dovrà tenere per porvi
rimedio. La Corte ha dichiarato che essa è tenuta a pronunciarsi, in mancanza di rinuncia agli
atti della Commissione, anche se lo stato riconosca il proprio inadempimento o abbia nel
frattempo adempiuto.
La sentenza si impone a tutte le autorità dello Stato, in particolare ai giudici nazionali che
dovranno garantirne l'osservanza e se del caso, disapplicare le disposizioni interne dichiarate
incompatibili col Trattato. La sentenza resa nell'ambito di questa procedura ha anche l'effetto
di fornire l'interpretazione del diritto dell'Unione, la quale si impone a tutti i giudici interni e li
solleva dall'obbligo del rinvio pregiudiziale; può anche fornire la base per un'azione interna ad
accertare la responsabilità patrimoniale dello Stato membro per violazione del diritto
dell'Unione.
Se lo Stato non si conforma alla sentenza che abbia accertato l'infrazione, ciò configura una
nuova violazione che può dar luogo a una nuova procedura di infrazione rivolta a far
constatare l'ulteriore inadempimento dello Stato con riguardo all'obbligo derivante dall'art.
260 TFUE.
Tale articolo prevede anche la possibilità che la Corte commini allo Stato inadempiente una
condanna pecuniaria che può consistere nel pagamento di una somma forfetaria o di una
penalità di mora, sulla base delle richieste avanzate dalla Commissione che abbia adito la
Corte per far constatare la mancata osservanza della precedente sentenza di condanna. La
Corte può decidere per l'una o l'altra sanzione, o per il loro cumulo, senza essere vincolata
dalla richiesta della Commissione. Questo secondo procedimento può essere attivato
esclusivamente su iniziativa della Commissione e non degli Stati membri, secondo una
procedura che prevede una fase precontenziosa meno articolata e dunque più breve: in
sostanza, la Commissione può adire la Corte dopo la lettera di intimazione e l'eventuale
replica dello Stato membro interessato, non essendo più necessaria l'adozione del parere
motivato. Identica è invece la fase contenziosa.
Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona la procedura di infrazione, da più parti criticata
per la sua lentezza, può in alcuni casi svolgersi con maggiore speditezza: l'art. 260, par. 3
TFUE, consente alla Commissione di chiedere alla Corte una pronunzia di condanna al
pagamento di una sanzione pecuniaria già in sede del primo ricorso in infrazione, ma soltanto
qualora lo Stato non abbia adempiuto all'obbligo di comunicare alla Commissione nel termine
previsto le misure adottate per dare attuazione ad una direttiva adottata secondo una
procedura legislativa.
Per quel che concerne il metodo di calcolo della somma forfettaria o della penalità, la
Commissione ha adottato tre comunicazioni in materia, precisando che il calcolo debba
avvenire sulla base di alcuni parametri, in particolare la gravità dell'infrazione, la durata di
quest'ultima e la necessità di imprimere alla sanzione un effetto dissuasivo onde prevenire le
recidive; nella determinazione della somma detti parametri vanno applicati utilizzando delle
variabili matematiche: un importo di base fisso, un coefficiente di gravità, un coefficiente di
durata, nonché un fattore che abbia riguardo alla capacità finanziaria dello Stato membro.
Nella determinazione dell’importo possono assumere rilevanza anche criteri che tengano
conto dei progressi eventualmente realizzati dallo Stato membro. La riscossione delle somme
dovute dallo Stato membro è attribuita alla Commissione.
11. Segue: il problema della sanzionabilità degli inadempimenti statali.
Gli inadempimenti statali rappresentano un vulnus al principio di leale collaborazione tra
Unione europea e Stati membri e anche un ostacolo di rilievo nell’ottica della progressiva
integrazione di cui solo la Corte di giustizia sembra essersi fatta carico.
Al riguardo, vanno menzionate alcune pronunzie della stessa:
• La sentenza Francovich;
• La sentenza Bresserie du Pecheur;
• La sentenza Hedley Lomas;
• La sentenza Kobler e la sentenza Traghetti del Mediterraneo.
In particolare, nel caso Francovich, di fronte alla mancata attuazione, da parte dello Stato
italiano, della direttiva del Consiglio, destinata a garantire ai lavoratori dipendenti un minimo
di tutela in caso d’insolvenza del datore di lavoro, la Corte di Giustizia stabilì che la piena
efficacia delle norme eurounitarie sarebbe stata messa a repentaglio e la tutela dei diritti da
esse riconosciuti sarebbe stata infirmata se i singoli non avessero avuto la possibilità di
ottenere un risarcimento, ove i loro diritti fossero risultati lesi da una violazione del diritto
eurounitario imputabile al proprio Stato.
Di qui, l’apprestamento da parte della Corte di una verifica circa la sussistenza del diritto al
risarcimento. Quest’ultimo viene infatti concesso al ricorrere di 3 condizioni:
1) Il risultato prescritto dalla direttiva deve implicare l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli;
2) Il contenuto di tali atti deve potersi individuare sulla base delle disposizioni della
direttiva;
3) Deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il
danno subito dai soggetti lesi.
In mancanza di una disciplina comunitaria, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale
relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno
provocato. Tuttavia, le condizioni stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia di
risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi
reclami di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere
eccessivamente o praticamente impossibile ottenere il risarcimento.
A queste indicazioni, l’ordinamento italiano ha dato seguito, identificando talora nell’INPS il
soggetto al quale occorre rivolgersi per fare valere il vantato diritto al risarcimento.
Nel secondo caso, Brasserie du Pecheur, la Corte ha mostrato di ampliare le prospettive della
precedente pronuncia, ritenendo che il principio secondo lui gli Stati membri sono tenuti a
risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili non
può essere esclusa qualora la violazione riguardi una norma di diritto comunitario
direttamente applicabile. Tale principio ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di
violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di
quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione.
Tra l’altro la Corte ha meglio precisato le condizioni di risarcibilità. Al riguardo è stato
sostenuto che deve trattarsi di una violazione grave e manifesta da parte dello Stato membro.
Fra gli elementi che il giudice competente può prendere eventualmente in considerazione
figurano il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere
discrezionale che tale norma consente alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere
intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o
inescusabilità di un eventuale errore di diritto. La violazione del diritto comunitario è grave e
manifesta quando sia perdurata nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato
l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una consolidata
giurisprudenza della Corte in materia.
Il terzo caso, Hedley Lomas, contribuisce anch’esso a precisare predetti principi, questa volta
sul piano del diritto amministrativo.
Negli ultimi casi invece, Kobler e Traghetti del Mediterrano, l’attenzione della Corte di giustizia
si sposta sul potere giudiziario e, in particolar modo, sull’attività delle Corti Supreme.
Al riguardo la Corte ha sostenuto che laddove i diritti dei singoli fossero lesi da una violazione
del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado
escludere la possibilità di ottenere un risarcimento comporterebbe una messa in discussione
della tutela accordata a tali diritti dalle norme comunitarie. Dunque i singoli non possono
essere privati della possibilità di far valere la responsabilità dello Stato per la decisione di un
organo giurisdizionale di ultimo grado al fine di ottenere una tutela giuridica dei loro diritti.
In tal caso, l’indipendenza del giudice non è pregiudicata in quanto la responsabilità in oggetto
non riguarda la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato.
La Corte ha inoltre sostenuto che il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che
escluda la responsabilità dello Stato laddove la violazione controversa risulti da
un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate
da un organo giurisdizionale di ultimo grado. Il diritto comunitario osta altresì ad una
legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa
grave del giudice.
12. LA PROCEDURA PREGIUDIZIALE COME CERNIERA TRA ORDINAMENTO EUROUNITARIO E
ORDINAMENTI NAZIONALI: CARATTERI GENERALI E ASPETTI PROCEDURALI.
Si tratta della procedura attraverso la quale si introduce un fattore essenziale di coesione e si
delinea un sistema giurisdizionale integrato fra Stati membri ed Unione. Suo tramite si
intende garantire l'interpretazione e l'applicazione uniforme del diritto dell'Unione all'interno
degli ordinamenti statali attraverso una stretta cooperazione tra i due livelli: cooperazione
che si fonda sulla distinzione e sul rispetto delle reciproche competenze. La Corte di giustizia
non può risolvere nel merito le controversie, può solo intervenire nell'ambito dei
procedimenti interni per fornire ai giudici nazionali le indicazioni cui essi debbano attenersi
nell'applicazione del diritto dell'Unione che venga in rilievo e risulti necessario per giungere
alla decisione.
La procedura pregiudiziale è intesa dal Trattato con due diverse funzioni. Attraverso il rinvio
pregiudiziale d’interpretazione si vuole assicurare l'applicazione corretta e uniforme del diritto
dell'Unione da parte di tutti i giudici degli Stati membri. Attraverso il rinvio pregiudiziale di
validità si vuole invece garantire il rispetto del principio di legalità all'interno dell'ordinamento
dell'Unione, evitando al tempo stesso soluzioni difformi: infatti l'esistenza di divergenze tra i
giudici degli Stati membri sulla validità degli atti comunitari potrebbe compromettere la stessa
unità dell'ordinamento giuridico comunitario ed attentare all’esigenza della certezza del
diritto.
Entrambi i tipi di rinvio sono sottoposti alle stesse regole anche se rispondono a logiche
diverse.
La procedura pregiudiziale è avviata dalla decisione di un giudice interno di adire la Corte di
giustizia quando reputi che si ponga un problema di interpretazione del diritto dell'Unione o
di validità di un atto derivato nel corso di un procedimento pendente dinanzi ad esso. Spetta
solo al giudice nazionale valutare in che misura la questione di validità o di interpretazione
risulti necessaria per emanare la sua decisione e tale valutazione è sottratta l'apprezzamento
della Corte.
FACOLTÀ ED OBBLIGO DI RINVIO. PROCEDURA.
Rispetto alle altre procedure esaminate, non si tratta di un ricorso di parte, ma di un
provvedimento giurisdizionale volto ad attivare un processo “incidentale” davanti alle Corti
eurounitarie. Infatti, quando dinanzi ad una giurisdizione nazionale si pone un problema di
interpretazione del diritto dell'Unione o di validità di un atto delle istituzioni la cui risoluzione
si ritenga necessaria per decidere la controversia, questa chiederà alla Corte di pronunciarsi
sulla questione: ma occorre distinguere a seconda che il giudice del rinvio sia o meno di ultima
istanza. Se si tratta di un giudice le cui decisioni possono essere sottoposte ad ulteriori grado
di giudizio, esso ha la semplice facoltà di rinviare alla Corte, dunque può pronunciarsi esso
stesso sull'interpretazione del diritto dell'Unione e sulla validità di un atto; quando invece si
tratti di un giudice avverso le cui decisioni non possa essere proposto ricorso in via
giurisdizionale, esso deve rivolgersi alla Corte.
L'inosservanza di tale dovere può condurre ad un procedimento di infrazione nei confronti
dello Stato membro cui appartiene l'organo giudiziario per violazione del Trattato; può
fondare altresì un'azione per il risarcimento del danno promossa dal privato danneggiato nei
confronti dello Stato membro cui appartiene la giurisdizione di ultima istanza che abbia
emanato una decisione definitiva in contrasto con una norma dell'Unione o con
l'interpretazione di essa successivamente fornita dalla Corte di giustizia, tale omissione
integrando da sola gli estremi di una violazione sufficientemente caratterizzata.
L’iniziativa di operare il rinvio spetta unicamente al giudice interno che può essere sollecitato
in tal senso dalle parti, ma non è tenuto a seguire la loro richiesta di rivolgersi alla Corte,
mentre può decidere di sollevare d'ufficio la questione anche contro il consenso delle parti.
La questione può essere sollevata in qualsiasi stadio del procedimento interno e spetta al
giudice nazionale la scelta del momento più utile per operare il rinvio; anche se può essere
vantaggioso che gli elementi di fatto e di diritto siano già stati chiariti in modo da consentire
alla Corte di poter valutare adeguatamente il quesito posto.
Rientra sempre nella competenza del giudice interno la decisione sull'opportunità di proporre
un rinvio pregiudiziale, la formulazione e il contenuto del quesito, la sua pertinenza per la
soluzione della controversia, essendo il solo a conoscenza diretta dei fatti controversi e delle
argomentazioni delle parti.
Di fronte alla richiesta del giudice nazionale, la Corte non può sottrarsi al suo dovere di
emanare una pronuncia a meno che ritenga che questa esca dalla propria competenza.
Naturalmente spetta solo ad essa decidere sulla presenza dei requisiti di ricevibilità e
dichiarare questi giudizi irricevibili quando ritenga non sussistano le condizioni per il corretto
esercizio della sua competenza pregiudiziale. Non può invece pronunciarsi sulla rilevanza della
questione per la soluzione della controversia dell'ordinamento interno.
La sollevazione della questione pregiudiziale determina la sospensione del processo in corso
(c.d. sospensione impropria) analogamente a quanto avviene per la sollevazione delle
questioni di costituzionalità. La presa in carico della questione da parte del giudice
eurounitario determina l’avvio della fase pregiudiziale che, però, non potrebbe correttamente
svolgersi senza assicurare la possibilità di un opportuno contraddittorio nel prosieguo del
giudizio. A ciò è, del resto, finalizzata la trasmissione dell’ordinanza (con cui il giudice
nazionale solleva la questione pregiudiziale), a cura del cancelliere della Corte, alle parti in
causa, agli Stati membri e alla Commissione, al Parlamento europeo e al Consiglio.
L’ordinanza di rinvio deve avere determinate caratteristiche. E’ infatti indispensabile che il
giudice nazionale chiarisca i motivi per i quali egli ritiene necessaria la soluzione delle
questioni ai fini della definizione della controversia. Un’insufficienze dell’ordinanza sotto
questo profilo sarebbe dunque motivo d’irricevibilità della richiesta avanzata dal giudice
nazionale. In numerose occasioni la Corte ha sostenuto che il suo dovere di pronunciarsi non
opera quando risulti il carattere fittizio della controversia o sia manifesto che la disposizione
del diritto dell'Unione sottoposta ad interpretazione non possa essere applicata nel caso di
specie. Tuttavia, talora la Corte ha temperato la sua posizione affermando che il carattere
fittizio della controversia deve risultare in modo manifesto dagli elementi di fatto indicati
nella decisione di rinvio. Inoltre la Corte si è riservata di dichiarare irricevibili questioni
giudicate manifestatamente irrilevanti per la soluzione della controversia principale: così si è
rifiutata di rispondere a questioni aventi come fine quello di farle emanare dei pareri
consultivi su questioni generali o non pertinenti, cioè non corrispondenti ad un bisogno
obiettivo inerente alla soluzione di una controversia.
Inoltre la Corte dichiara irricevibili i quesiti pregiudiziali quando li ritiene troppo generici o
quando a suo parere le indicazioni fornite nell'ordinanza di rinvio sono troppo imprecise per
consentirle di dare una risposta utile per la soluzione della causa.
I soggetti ai quali l’ordinanza va notificata, entro il termine di 2 mesi dalla notificazione,
possono presentare alla Corte memorie ovvero osservazioni scritte, cui, però sarà data la
possibilità di replicare sono nell’eventuale discussione in udienza. La fase orale dunque è
facoltativa in quanto le parti potrebbero non avanzare alcuna domanda di essere sentite.
Qualora una questione pregiudiziale sia identica ad una questione già risolta o la cui soluzione
sia chiaramente desumibile dalla giurisprudenza, la Corte, dopo aver sentito l’avvocato
generale, può, con ordinanza motivata, emettere la propria statuizione in qualsiasi momento
della procedura. Con uguali modalità, essa può procedere qualora la soluzione della questione
pregiudiziale non dia adito a dubbi ragionevoli.
La Corte può inoltre, nella fase istruttoria, richiedere alle parti di produrre tutti i documenti e
di fornire tutte le informazioni che essa reputi desiderabili, prendendo atto dell’eventuale
rifiuto. Essa può, parimenti, richiedere agli Stati membri e alle istituzioni, che non siano parti
in causa, tutte le informazioni che ritenga necessarie ai fini del processo. Vi è inoltre la
possibilità per il giudice eurounitario di richiedere chiarimenti al giudice nazionale.
LA NOZIONE DI ORGANO GIURISDIZIONALE NAZIONALE.
La Corte di giustizia ha indicato alcuni requisiti che gli organi interni devono rivestire per
potersi ritenere giurisdizioni e dunque essere abilitati a rivolger quesiti pregiudiziali:
l'obbligatorietà della giurisdizione, il compito di applicare il diritto, il carattere permanente
dell'organo, la sua costituzione per legge; inoltre l'organo deve rivestire carattere
indipendente e una posizione di terzietà rispetto a quello che ha adottato la decisione oggetto
del ricorso.
Inoltre vengono in rilievo anche le caratteristiche del procedimento che si svolge dinanzi alle
giurisdizioni nazionali nonché le funzioni svolte dall'organismo in questione.
Per quanto riguarda, in particolare, l’ordinamento italiano, sono stati fatti rientrare nella
nozione di giurisdizione il giudice istruttore, il giudice cautelare, il Consiglio nazionale forense
in sede di appello avverso le sanzioni preliminari irrogate dagli organi periferici, la stessa Corte
Costituzionale. Sono stati invece esclusi gli arbitri, il Procuratore della Repubblica, la Corte dei
conti e il giudice in sede di volontaria giurisdizione.
13. Segue: tipologia ed esiti della procedura pregiudiziale.
In virtù dell’art 267 TFUE possiamo distinguere tra:
1) Rinvio pregiudiziale d’interpretazione;
2) Rinvio pregiudiziale di validità.
IL RINVIO PREGIUDIZIALE DI INTERPRETAZIONE.
Le richieste di interpretazione possono riguardare in primo luogo il diritto primario
dell’Unione, cioè i Trattati istitutivi e quelli integrativi o modificativi, i protocolli annessi e gli
accordi di adesione. La Corte è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità e
sull'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi
dell'Unione; dunque in primo luogo anche dal Parlamento, dalla Corte dei conti, dalla Banca
centrale europea e dal Consiglio europeo. In secondo luogo, in base ad una nuova
formulazione accolta dal Trattato di Lisbona, la Corte ha oggi competenza ad interpretare
anche gli atti degli organi e degli organismi creati con atto del Consiglio, in particolare degli
organi consultivi. Gli atti adottati dalle istituzioni possono essere oggetto di interpretazione
indipendentemente dalla loro denominazione anche se atipici o non nominati, dal loro
carattere vincolante o meno, dalla loro efficacia diretta.
La questione di interpretazione può vertere anche sull'interpretazione dei principi generali del
diritto dell'Unione, compresi quelli in materia di diritti fondamentali. Anche le sentenze della
Corte possono formare oggetto di rinvio pregiudiziale di interpretazione sia quando rese in via
pregiudiziale sia nell'ambito di altre procedure.
La competenza pregiudiziale della Corte si estende anche all'interpretazione delle norme di
diritto internazionale generale. Lo stesso vale per gli accordi internazionali stipulati
dall'Unione assimilabili ad atti presi dalle istituzioni e facenti parte integrante del diritto
dell'Unione, in particolare per quanto riguarda gli accordi di associazione. Per quel che
riguarda gli accordi misti, si pone il problema di chiarire se la competenza della Corte si
estenda alle sue disposizioni rientranti nella competenza dell'Unione oppure all’insieme
dell'accordo in quanto la sua conclusione da parte del Consiglio riguarda l'intero accordo.
La competenza pregiudiziale della Corte si estende inoltre agli accordi conclusi da Stati
membri con Stati terzi ma vincolanti l'Unione, laddove, in virtù di una successiva attribuzione
di competenze, si realizzi la sostituzione di quest’ultima agli Stati membri. La competenza
della Corte resta invece esclusa per gli accordi bilaterali conclusi tra Stati membri anche se
riguardanti materie di interesse dell'Unione e per quelli conclusi fuori del quadro dell'Unione
a meno che una clausola espressa di tali convenzioni non attribuisca alla Corte tale
competenza.
Infine la competenza pregiudiziale della Corte è anche prevista da alcuni protocolli per
l'interpretazione di convenzioni stipulate tra Stati membri.
La Corte invece non è competente a pronunciarsi sull'interpretazione o sulla validità di
disposizioni diverse da quelle di diritto dell'Unione. La questione pregiudiziale non può quindi
vertere sull'interpretazione o sulla legittimità della norma interna o sulla sua incompatibilità
con norme dell'Unione: tali compiti spettano al giudice nazionale del rinvio, a meno che la
norma interna in questione non rimandi al diritto dell'Unione e per la sua applicazione si
rende necessaria l'interpretazione di questo. La Corte si è comunque dichiarata competente a
fornire gli elementi di interpretazione sul significato del diritto dell’Unione necessari per
consentire al giudice interno di risolvere la controversia o per individuare la portata di
disposizioni di diritto interno.
IL RINVIO PREGIUDIZIALE DI VALIDITÀ.
La pronuncia pregiudiziale di validità consente alla Corte di esercitare un controllo di
legittimità sugli atti delle istituzioni, organi o organismi dell'Unione aventi valore vincolante
anche se sprovvisti di efficacia diretta. Per quanto riguarda le decisioni individuali, la Corte
sembra orientata nel senso di non poterne esaminare la validità in sede pregiudiziale qualora i
loro destinatari non le abbiano impugnate tempestivamente mediante il ricorso in
annullamento.
Se i ricorrenti non sono in grado di chiedere l'annullamento della decisione controversa,
hanno sempre la possibilità di impugnare i provvedimenti nazionali adottati in applicazione
della decisione e di eccepire l’illegittimità di questi ultimi dinanzi al giudice nazionale.
Il controllo sulla validità degli atti operato dalla Corte nel contesto della sua competenza
pregiudiziale è analogo a quello esercitato nell'ambito del ricorso in annullamento con la
differenza che quando i giudici nazionali ritengano di adire la Corte in via pregiudiziale perché
si pronunci sulla validità di un atto dell'Unione, non operano le condizioni restrittive in
materia di ricevibilità previste in particolare per i privati, che si applicano al ricorso in
annullamento. Tale mezzo consente di completare il sistema di tutela giurisdizionale
soprattutto per quanto riguarda i singoli poiché dà loro la possibilità di tutelarsi nei confronti
di atti a portata normativa generale rispetto ai quali è loro preclusa l'azione diretta in
annullamento.
Le sentenze della Corte non possono formare oggetto di rinvio pregiudiziale di validità data la
loro autorità di cosa giudicata.
Le giurisdizioni nazionali, anche se non di ultima istanza, non hanno il potere di dichiarare
invalidi gli atti dell'Unione dovendo dunque in ogni caso adire la Corte se nutrono dubbi sulla
loro validità.
Qualora il giudice interno abbia proposto il ricorso e nutra dubbi sulla validità dell'atto
dell'Unione, può sospendere l'applicazione di misure interne di esecuzione dell'atto purché
ricorrano gli estremi dell'urgenza e del rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per la
parte; allo stesso modo può concedere la sospensione provvisoria dell'applicazione di una
norma interna che si allega contraria al diritto dell'Unione in attesa della pronuncia definitiva
della Corte.
I LIMITI DELL'OBBLIGO DI RINVIO.
La decisione circa l'esistenza di una questione, cioè di un dubbio interpretativo o di validità,
non può non rientrare nella valutazione del giudice interno anche quando di ultima istanza,
che non può essere privato di tale potere, se questi non la ritenga sussistente o la ritenga non
pertinente ossia se la sua soluzione non appare in alcun modo influire sull'esito della lite,
ovviamente non sarà obbligato a rivolgersi a Corte di giustizia.
In secondo luogo la stessa Corte ha indicato alcune situazioni in cui l'obbligo del rinvio può
non sussistere: quando la Corte si sia già pronunciata in relazione ad analoga fattispecie o su
una questione materialmente identica, il giudice nazionale potrà astenersi dal sollevare il
rinvio pregiudiziale e basarsi sul precedente.
Resta ferma la facoltà del giudice di riproporre comunque la questione o perché ritenga di
poter addurre nuove argomentazioni o perché non convinto delle motivazioni della sentenza
della Corte oppure contando su un mutamento della sua giurisprudenza. Un ulteriore
temperamento deriva dall'applicazione del principio dell'atto chiaro, accolto della Corte di
giustizia. Essa ha affermato che il giudice di ultima istanza può astenersi dal rinviare alla Corte
di giustizia quando l'applicazione corretta del diritto comunitario si impone con tale evidenza
da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione
sollevata. Tuttavia la Corte ha corretto tale principio precisando che il giudice nazionale deve
porsi in un'ottica comunitaria: cioè deve convincersi che la stessa evidenza imporrebbe anche
ai giudici degli altri Stati membri e alla stessa Corte di giustizia; inoltre deve tener conto delle
caratteristiche del diritto dell'Unione e delle difficoltà particolari che presenta la sua
interpretazione in modo da escludere il rischio di interpretazioni divergenti all'interno
dell'Unione europea.
L'indicazione della Corte suscita tuttavia alcune perplessità circa la sua concreta praticabilità e
corretta utilizzazione.
A tali perplessità la Corte di giustizia ha cercato di porre fine chiarendo che le deroghe
all'obbligo del giudice di ultima istanza di proporre una questione pregiudiziale enunciate
nella sentenza citata non trovano applicazione quando la questione riguarda la validità di un
atto dell'Unione anche nell'ipotesi che abbia già dichiarato l'invalidità di disposizioni analoghe:
infatti atti apparentemente simili possono rilevare delle differenze in ragione del contesto
giuridico o del merito; l’esistenza di divergenze tra giudizi nazionali sulla validità degli atti
dell’Unione potrebbe compromettere l’unità dell’ordinamento giuridico e la certezza del
diritto: ecco perché la Corte di giustizia resta l’organo più idoneo a pronunciarsi sulla validità
degli atti dell’Unione.
NATURA ED EFFETTI DELLE SENTENZE PREGIUDIZIALI.
Le sentenze pregiudiziali della Corte di giustizia hanno carattere dichiarativo, sono rese al
termine di una procedura instaurata da giudice a giudice, senza parti e di natura non
contenziosa. Il giudice del rinvio è vincolato a tenerne conto nella soluzione della causa: il loro
mancato rispetto può formare oggetto di impugnativa interna o configurare gli estremi di una
violazione del Trattato rispetto alla quale la Corte potrebbe essere ulteriormente adita con un
ricorso per infrazione. Inoltre non è escluso che la violazione della sentenza possa provocare
danni patrimoniali per il cui ristoro gli interessati possono dar luogo ad un'azione di
responsabilità dello Stato dinanzi ai giudici interni. Tuttavia il giudice interno potrà operare un
nuovo rinvio pregiudiziale qualora incontri difficoltà di comprensione o di applicazione della
sentenza resa, se ritenga la risposta inadeguata o incapace di fornire gli elementi utili per la
soluzione della causa o se sottoponga nuovi elementi di valutazione.
In particolare, le sentenze pregiudiziali di interpretazione vincolano il giudice che ha operato il
rinvio ad applicare la norma dell'Unione come interpretata dalla Corte, disapplicando
all'occasione la norma interna in contrasto.
La sentenza pregiudiziale che dichiara l'invalidità dell'atto dell'Unione s’impone al giudice di
rinvio: l'atto non potrà pertanto trovare applicazione. Tuttavia la Corte ha esteso tale effetto
all'insieme delle giurisdizioni degli Stati membri notando che la pronuncia di invalidità, pur
avendo come destinatario solo il giudice del rinvio, costituisce ragione sufficiente per ogni
altro giudice di considerare tale atto come invalido, salvo ritenga avere interesse a sollevare
nuovamente la questione di validità in caso di incertezza sulla portata e sulle conseguenze
dell'invalidità pronunciata. Per effetto della sentenza che dichiara l'invalidità di un atto,
l’istituzione che l’ha emanato deve adottare le misure necessarie per eliminare i vizi
riscontrati, modificandolo o abrogandolo.
Le sentenze pregiudiziali di interpretazione o dichiarazioni di invalidità hanno effetto
retroattivo e si applicano dunque anche a situazioni pregresse sorte anteriormente alla
sentenza purché non esaurite.
Una volta che la fase incidentale presso la Corte eurounitaria si sia esaurita con l’emissione
della sentenza, gli atti del processo vengono restituiti al giudice nazionale a quo, al quale
come a tutte le parti processuali, viene notificata la sentenza medesima.
14. Altri punti d’incontro e di confronto tra giurisdizione eurounitaria e giurisdizione
costituzionale nazionale.
Circa il rapporto tra Corte di giustizia e Corte costituzionale, la Corte costituzionale, per un
certo tempo, aveva negato di essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali, in
quanto i compiti ad essa affidati (essenzialmente di controllo costituzionale e di suprema
garanzia della Costituzione) erano ben diversi da quelli propri degli organi giurisdizionali. Di
conseguenza, sarebbe spettato soltanto al giudice a quo, secondo la teoria della doppia
pregiudizialità, proporre quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia, per poi rivolgersi alla Corte
costituzionale solo qualora il dubbio di costituzionalità della norma interna non potesse
essere superato grazie alla pronuncia della prima.
Tuttavia, questo atteggiamento di chiusura mutò ed infatti la Corte osservò che essa potesse
essere qualificata come una giurisdizione nazionale quando essa diviene giudice di ultima
istanza della controversia, come nel caso di conflitto di attribuzioni tra Stato e regioni,
conseguendone l’obbligo di effettuare in proprio il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia,
tanto che in caso contrario risulterebbe leso il generale interesse all’uniforme applicazione del
diritto comunitario.
15. Il diritto eurounitario (ed il diritto nazionale applicativo) tra Corte di giustizia e Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Relativamente alla tutela dei diritti fondamentali occorre ricordare che un ruolo di primo
piano continua ad essere esercitato dal ricorso alla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), nonostante non abbia avuto esito il
tentativo di adesione della Comunità a metà degli anni '90.
E' importante in tale sede analizzare alcuni aspetti della dinamica delle relazioni tra
giurisdizioni (ordinamento eurounitario e CEDU) soprattutto in prospettiva dell'adesione
dell'UE alla CEDU, prevista dall'art 6 commi 2° e 3° del TUE.
Si tratta tuttavia di una problematica non nuova, essendosi già presentata nel rapporto tra
ordinamenti interni degli Stati che hanno sottoscritto la CEDU e le norme della CEDU stessa.
In primo luogo, occorre fare riferimento alla sentenza n. 129 del 2008 della Corte
costituzionale, in cui si è affrontato il problema dell’eventuale contrasto tra le giurisdizioni dei
2 sistemi diversi, CEDU e nazionale, con l’invito al legislatore interno ad adottare i
provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze
della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato violazioni ai principi sanciti
dall’art 6 della CEDU.
L’attenzione va maggiormente posta sulle sent del 2007 (c.d. sentenze gemelle) della stessa
Corte costituzionale, per cui le norme della CEDU integrano, quali norme interposte, il
parametro costituzionale espresso dall’art 117 comma 1 Cost, nella parte in cui impone la
conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Nel caso pertanto di un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma CEDU, il
giudice nazionale, verificata preventivamente la praticabilità di una interpretazione della
prima conforme alla norma convenzionale, deve, in caso di esito negativo, denunciare la
rilevata incompatibilità, sollevando una questione di legittimità costituzionale in relazione al
parametro sopra indicato.
La Corte poi con sentenza del 2011 ha sostenuto che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU
fanno parte dell’Unione in quanto principi generali.
La Corte europea di Strasburgo ebbe origine nel 1959. Ad essa fu attribuito il compito di
rendere più efficace la tutela dei diritti umani ed anche la possibilità di emettere dei pareri
relativi all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà contemplati dalla
Convenzione. Essa è strutturata in 5 sezioni, ciascuna con un Presidente ed un Vicepresidente,
nel cui ambito operano le Camere giurisdizionali. Una Grande Camera, composta da 17 giudici,
si occupa di rivolvere le questioni attinenti a gravi problemi di interpretazione o applicazione
della Convenzione o dei suoi Protocolli.
La problematica relativa all’adesione dell’UE alla CEDU è stata risolta nell’ambito dei negoziati
di adesione. Tali negoziati hanno condotto alla sottoscrizione di un progetto nel 2013, anche
se il traguardo finale non parrebbe imminente in quanto è stato affermato che siano ancora
necessarie numerose tappe affinché l’adesione effettivamente si realizzi.
L’adesione è condizionata ad una deliberazione unanime del Consiglio e sottoposta alla
ratifica di ciascuno Stato membro e deve comunque garantire che siano preservate le
caratteristiche specifiche dell'Unione e del diritto dell’Unione. Con l'adesione sarà
sicuramente fissata la competenza della Corte EDU a controllare gli atti adottati dall'Unione:
quelli di diritto derivato e quelli di diritto originario, tra cui la stessa Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea.
E’ stato poi precisato come il diritto nazionale applicativo del diritto eurounitario non benefici
di alcuno statuto particolare, restando, dunque, lo Stato aderente alla Convenzione
responsabile delle scelte effettuate in sede applicativa. Nel caso però in cui lo Stato risulti
privo di discrezionalità applicativa e del tutto vincolato dal precetto eurounitario, la verifica
operata dalla Corte finisce per investire scelte appartenenti al livello eurounitario.
L’adesione alla CEDU inoltre non deve alterare in nessun modo né le competenze dell’Unione
europea, né incidere sulle attribuzioni delle sue istituzioni.
Nessuna disposizione dell’accordo di adesione può produrre effetti sulla situazione già in atto
per i singoli Stati membri per effetto della loro pregressa adesione al sistema CEDU, nel senso
cioè di lasciare inalterata la misura di tale adesione in dipendenza, ad esempio, di eventuali
riserve espresse al momento dell’adesione (c.d. protezione equivalente).
L’adesione non deve essere tale da escludere un dialogo regolare fra la Corte di giustizia e la
Corte europea dei diritti dell’uomo, ma deve trattarsi di un dialogo che deve essere rafforzato.
In passato la Corte di giustizia non ha esitato ad emettere pronunce contrastanti con quelle
della Corte EDU.
Opinione prevalente e diffusa è che, con l'adesione, sarà il diritto eurounitario ad aprirsi al
controllo di convenzionalità (mediante la via del ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo per la
tutela dei diritti protetti dalla stessa Convenzione) e saranno sottoposte a verifica le stesse
decisioni prese dalla Corte di giustizia.
CAPITOLO VIII
UNIONE EUROPEA ED AUTONOMIE TERRITORIALI
1.Le Regioni nella prima fase dello sviluppo eurounitario tra carenze istituzionali ed esigenze
sostanziali.
La sensibilità nei confronti delle realtà territoriali nella struttura istituzionale dell’Unione è
maturata in tempi relativamente lunghi.
Nel Trattato di Roma, non si faceva alcun riferimento alla Regione. Tuttavia occorre
sottolineare come nel Preambolo dello stesso Trattato si guardasse già con preoccupazione
allo scarto economico esistente tra le differenti Regioni e al ritardo delle meno favorite.
Un punto di partenza può riconoscersi nella deliberazione del 1960 del Parlamento europeo
con cui lo stesso sollecitò l'istituzione di un organismo di tipo consultivo denominato allora
Comitato consultivo sulle economie regionali, avente come finalità quella di rendere partecipi
i governi regionali e locali alla determinazione delle politiche coinvolgenti le comunità
territoriali.
Successivamente, la Commissione ritenne opportuno dotarsi di una Direzione generale
competente per la trattazione dei problemi regionali. Venne poi istituito il Fondo Europeo di
Sviluppo Regionale (FESR), per sostenere l'economia delle Regioni meno progredite, insieme
ad un Comitato per le politiche regionali operante presso il Consiglio e la Commissione e
composto da alti funzionari degli Stati membri.
Tuttavia il suddetto Comitato non parve, in un momento iniziale, corrispondere in maniera
soddisfacente alle sollecitazioni del Parlamento e quindi nel 1984 venne approvata una
dichiarazione comune del Consiglio, della Commissione e del PE, con cui veniva assunto
l'impegno di costruire un sistema di relazioni più efficace tra Commissione e Governi regionali
e locali.
Nella direzione di una doverosa valorizzazione delle realtà territoriali si pronunciava nel 1985
anche il Consiglio d'Europa con l'adozione della Carta europea delle autonomie locali.
Con l’AUE si ebbe poi il varo della politica concernente la coesione economica e sociale,
avente tra i suoi obiettivi la promozione dello sviluppo e l’adeguamento strutturale delle
Regioni d’Europa affette da ritardo nella crescita e, in generale, la riconversione economica e
sociale delle zone con difficoltà strutturali.
Il coinvolgimento diretto anche nell’elaborazione delle politiche economiche d’interesse
regionale ebbe luogo per la prima volta grazie alla creazione da parte della Commissione del
Consiglio consultivo delle collettività regionali e locali (CCCRL), composto da 42 membri.
Fu soltanto durante il Consiglio europeo di Roma nel 1990 che cominciò a profilarsi una
soluzione organizzativa ritenuta maggiormente adeguata, destinata ad essere approvata, con
la denominazione di Comitato delle Regioni, a Maastricht nel 1992. Tale comitato entro in
funzione nel 1994, costituendo la prima istanza comunitaria in grado di farsi portavoce dei
livelli intermedi di governo presenti nei singoli Stati membri. Da allora la vicenda delle Regioni
a livello istituzionale ha in gran parte coinciso con l’attività di tale Comitato.
2. Il Comitato delle Regioni.
Ha sede a Bruxelles ed è composto attualmente da un numero di membri pari a 353 e da un
numero uguale di supplenti. La determinazione del numero esatto dei componenti si deve al
Consiglio, che, su proposta della Commissione delibera all’unanimità, mentre la loro nomina
spetta allo stesso Consiglio (che, in sostanza, ratifica le proposte presentate dagli Stati
membri). I membri durano in carica 5 anni che sono rinnovabili. Lo status dei membri è
caratterizzato da una piena indipendenza, non vincolabile da alcun mandato imperativo.
A garanzia della sua autonomia, spetta allo stesso Comitato eleggere tra i suoi membri il suo
Presidente e l’Ufficio di Presidenza per la durata di 2 anni e mezzo, nonché deliberare il
proprio regolamento interno.
Esso è, inoltre, in grado di autoconvocarsi, oltre a doversi adunare a richiesta del Parlamento
europeo, del Consiglio o della Commissione.
A così forti garanzie, corrisponde però, un ruolo ancora debole dell’organo, limitato, infatti, ad
un attività di carattere consultivo. Inoltre, anche quando il parere debba essere richiesto
obbligatoriamente, esso non ha mai efficacia vincolante e la sua mancata emissione nel
termine fissato dalla richiesta non paralizza l’attività decisionale rispetto alla quale il parere
sarebbe dovuto essere strumentale. Questa configurazione dell’organo ha impedito che
potesse ad esso essere riconosciuto lo statuto proprio di istituziona eurounitaria, non
diversamente dal Comitato economico e sociale.
Dopo la sua creazione l’organo ha visto, con il Trattato di Amsterdam, rafforzare la sua
autonomia organizzativa, sia l’ambito delle sue competenze consultive, mentre anche il
Parlamento europeo è entrato a far parte, accanto alla Commissione e al Consiglio, del novero
degli organi potenzialmente interessati ad un suo parere.
Con il trattato di Nizza si è provveduto ad esaltare ancora di più la legittimazione democratica
del Comitato, individuandosi, quale requisito per la nomina a componente dell'organo la
titolarità di un mandato elettivo presso una collettività regionale o locale, o alternativamente
la qualità di soggetto politicamente responsabile dinnanzi ad una assemblea elettiva.
Il lavoro del Comitato è distribuito tra l’Assemblea plenaria e le Commissioni competenti per
fasci di materie: coesione territoriale, politica economica e sociale, ambiente, cambiamenti
climatici, educazione e cultura, cittadinanza, questioni finanziarie ecc.
3. Attualità e prospettive del Comitato delle Regioni.
Maggiormente interessanti sono le competenze consultive di carattere obbligatorio del
Comitato delle Regioni, vertenti ormai in tutti gli ambiti d’intervento dell’Unione. La funzione
consultiva può essere facoltativamente attivata in tutti i casi in cui le istituzioni lo ritengano
opportuno e, in particolare, in materia di cooperazione transfrontaliera. Inoltre il Comitato
potrebbe non solo formulare pareri di propria iniziativa, ma anche attivarsi a seguito di un
parere richiesto al Comitato economico e sociale, quando siano in causa interessi regionali
specifici. Accanto a questa funzione, è prevista la facoltà per il Comitato di redigere rapporti e
adottare risoluzioni, si pure (ma non solo) strumentali alla formulazione dei pareri.
Esistono dei principi che presiedono all’esercizio di tutte queste competenze:
1) Principio di sussidiarietà. Tale principio è legato geneticamente al Comitato delle
Regioni essendo stati contemplati insieme per la prima volta nel Trattato di Maastricht.
Tanto importante è, in materia, il ruolo del Comitato, da esserne ammessa la
legittimazione a ricorrere alla Corte di giustizia, in caso di supposta violazione del
principio suddetto;
2) Principio di prossimità. Ne è evidente il collegamento col principio di sussidiarietà,
consistendo nella vicinanza ai cittadini degli organi amministrativi incaricati di dare ad
esecuzione puntuale le prescrizioni generali che determinano i vari obiettivi,
accompagnata, tuttavia, da criteri di lavoro trasparenti, così che siano identificabili gli
agenti responsabili con cui, nel caso, direttamente interloquire;
3) Principio di partenariato. Esso implica che i livelli interessanti allo sviluppo locale
(Unione europea, Stati e collettività locali) siano tutti associati sia nell’elaborazione, sia
nell’attuazione, sia nella verifica delle politiche connesse allo sviluppo locale. Questo
principio risulta particolarmente importante in quanto il progressivo maggior
coinvolgimento delle autonomie territoriali nella determinazione delle politiche
eurounitarie è la strada individuata dal Comitato delle Regioni anche per l’acquisizione
di una posizione di una posizione di accresciuto livello di rilievo nel quadro
eurounitario.
Degna di nota è, infine, la legittimazione del Comitato delle Regioni a proporre ricorsi in
annullamento e in carenza a difesa delle proprie prerogative.
4. I raccordi tra Comitato delle Regioni ed il livello nazionale delle autonomie locali.
Circa i rapporti tra il livello dell’Unione europea e quello interno costituito dalle autonomie
(regionali e locali) sembrerebbe ragionevole individuare nella partecipazione italiana al
Comitato delle Regioni una prima sede idonea a convogliare, verso le Istituzioni europee, le
istanze provenienti dal sistema interno delle autonomie.
Richiamata l’incompatibilità posta dalla normativa italiana tra appartenenza al Comitato e
appartenenza al PE, la designazione dei membri assegnati all’Italia (attualmente 24 titolari e
24 supplenti) è rimessa ad una proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri formulata, su
indicazione di diversi organismi rappresentativi e sulla base di un’intesa raggiunta in senso alla
Conferenza unificata.
I soggetti dotati dei requisiti necessari per la nomina sono identificati nei Presidenti delle
Regioni e delle Province di Trento e di Bolzano, nei Presidenti delle Province, nei sindaci e nei
componenti dei rispettivi consigli e delle giunte: se ciò contribuisce a dare autorevolezza alla
delegazione italiana, probabilmente però ne indebolisce la capacità operativa trattandosi di
soggetti che svolgono anche altre attività.
Occorre sottolineare il sempre più stretto intreccio tra il Comitato e la Conferenza dei
Presidenti dei Parlamenti regionali europei che dispongono di poteri legislativi, organismo di
natura associativa e non istituzionale, ma di fatto assai autorevole.
La possibilità di instaurare rapporti diretti con le istituzioni dell’Unione costituisce
un’aspirazione forte delle Regioni, le quali vi hanno provveduto anche con l’apertura di
appositi uffici di collegamento a Bruxelles.
5. La fase ascendente delle Regioni nel quadro costituzionale.
Il riconoscimento di un ruolo maggiormente protagonista delle Regioni e delle Province
autonome nell’elaborazione degli indirizzi di politica eurounitaria nazionale, ossia nella c.d.
fase ascendente, è da intendersi come un doveroso contrappeso alle compressione di molte
delle loro competenze, indotta dall’appartenenza all’Unione europea.
Il rilievo delle autonomie in questione, almeno di quelle dotate di potestà legislativa, ha finito
così per concretizzarsi visto che le relative assemblee sono coinvolte nel c.d. processo di
monitoraggio della sussidiarietà. E’ stato infatti previsto come ai parlamenti nazionali, al
momento di valutare la conformità di un progetto al principio di sussidiarietà, spetti
consultare, all’occorrenza, anche le assemblee infrastatali con poteri legislativi.
Ai fini della verifica del rispetto del principio di sussidiarietà alle predette assemblee è
consentita la facoltà di inviare alle Camere osservazioni in tempo utile per l’esame
parlamentare, dandone contestale comunicazione alla Conferenza dei presidenti delle
assemblee legislative delle regioni e delle province autonome.
La costruzione di una fase ascendente può arricchirsi, ove lo si ritenga opportuno, del
contributo partecipativo delle autonomie territoriali infraregionali e di qualsiasi altro soggetto
reputato portatore di un interesse qualificato agli svolgimenti delle politiche eurounitarie.
Tuttavia, l’art 117 comma 5° Cost si limita a statuire che solo le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni
dirette alla formazione degli atti normativi comunitari.
Occorre fare, in particolare, riferimento all’operatività della Conferenza Stato-Regioni e alla
correlata sessione europea di tale organismo. Tale Conferenza ha visto valorizzare il suo ruolo
nella fase ascendente grazie all’art 10 della L. La Pergola che imponeva al Presidente del
Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per il coordinamento delle politiche
comunitarie, la convocazione, almeno semestrale, di una sessione speciale dedicata alla
trattazione degli aspetti delle politiche comunitarie di interesse regionale o provinciale, nel cui
ambito potessero essere formulati pareri sugli indirizzi relativi all’elaborazione ed attuazione
degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali. A seguito dell’entrata in vigore
della L. n 234 del 2012 il ruolo della Conferenza è rimasto centrale: il Presidente del Consiglio
dei Ministri deve, ora, convocare almeno ogni 4 mesi o su richiesta delle regioni e delle
province autonome, una sessione speciale della Conferenza Stato-Regioni, dedicata alla
trattazione degli aspetti delle politiche dell’Unione collegati alle competente delle Regioni e
delle Province autonome. La Conferenza è chiamata ad esprimere pareri sugli indirizzi generali
relativi all’elaborazioni e all’attuazione degli atti dell’UE, su criteri e sulle modalità per
conformare l’esercizio delle funzioni delle regioni e delle province autonome all’osservanza
degli obblighi di derivazione comunitaria.
6. Quale partecipazione delle autonomie territoriali italiane alla costruzione Europea?
L’art 117 comma 5° legittima la partecipazione di Regioni e Province autonome
all’elaborazione delle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi eurounitari.
E’ opportuno distinguere tra:
1) Fase elaborativa: concernente la predisposizione, sulla base di opportune attività
istruttorie, delle linee d’indirizzo dell’Italia in campo eurounitario nei settori di
interesse regionale;
2) Fase volitiva: attinente alla rappresentazione efficace di tale indirizzo nelle sedi di
produzione degli atti eurounitari.
La formula utilizzata dal comma 5° dell’art 117 potrebbe ricomprendere entrambe queste fasi
così da pretendere che una partecipazione, se non di autonome rappresentanze regionali,
almeno di componenti di tal natura all’interno delle più ampie rappresentanze statali sieda ai
tavoli delle trattative eurounitarie.
Queste soluzioni lasciato impregiudicata la prassi attuativa fin qui seguita in ordine
all’applicazione delle prescrizioni eurounitarie dove si esige che, con riferimento al Consiglio,
le componenti nazionali siano assicurate mediante rappresentanti di livello ministeriale,
abilitati ad impegnare il Governo degli Stati membri.
L’art 117 comma 3°, a proposito dei raccordi istituzionali diretti tra Regioni e istituzioni
eurounitarie, ne ha garantito e legittimato l’instaurazione e la permanenza anche a livello
costituzionale. Ne dovrebbe derivare il riconoscimento alle Regioni, a livello organizzativo, di
attivarsi in proprio, oltre il campo delle relazioni diplomatiche. Le Regioni potrebbero infatti
allestire autonomamente o in associazione con altre entità territoriali nazionali o di altrei
Paesi membri soluzioni operative in partnership con l’Unione, nei cui confronti rimarrebbe pur
sempre allo Stato la possibilità di attivare risorse adeguate a salvaguardia dell’unità nazionale.
7. Segue: la fase di predisposizione interna.
Anche nella fase di predisposizione interna il centro della situazione permane il Governo sia
che si tratti:
• Dell’elaborazione delle linee politiche generali nella fase di formazione di tutti gli atti
eurounitari rispetto alla quale un ruolo preminente era stato attribuito al Comitato
interministeriale per gli affari europei (CIAE), istituito presso la Presidenza del Consiglio.
• Della redazione della normativa eurounitaria, dato che nelle materie di competenze
delle regioni e delle province autonome, compete sempre al Presidente del Consiglio
dei Ministri convocare i rappresentanti delle regioni e delle province autonome alle
riunioni dei singoli gruppi, istituiti nell’ambito del Comitato tecnico di valutazione
(organo di cui si avvale il CIAE per la preparazione delle proprie riunioni), incaricati di
preparare i lavori del medesimo Comitato con riguardo a specifiche tematiche.
Con la L. n.234 del 2012, per quanto concerne la partecipazione regionale, permane l’obbligo
della trasmissione degli atti o dei progetti di atti eurounitari in capo al Presidente del Consiglio
o del Ministro per le politiche comunitarie, alla Conferenze delle regioni e delle province
autonome, nonché a quella dei Presidenti delle assemblee legislative delle medesime regioni
e delle province autonome, ai fini del successivo inoltro alle giunte e ai consigli.
Le Regioni e le Province autonome, entro 30 giorni dal ricevimento di tali atti, nelle materie di
loro competenza possono trasmettere osservazioni al Presidente del Consiglio dei Ministri o al
Ministro per gli affari europei. Se il progetto di atto normativo riguarda materie attribuite alla
competenza legislativa delle Regioni, il Governo convoca dietro loro richiesta la Conferenza
permanente per i rapporti tra Stato-Regioni-Province autonome ai fini del raggiungimento
dell'intesa che si perfeziona con l'assenso del governo e dei presidenti delle Regioni e delle
Province autonome. In tal caso, qualora lo richieda la Conferenza, il Governo appone una
riserva d'esame in sede di Consiglio dell'Unione europea e ne dà comunicazione alla
Conferenza: trascorsi 30 giorni da tale comunicazione, il Governo può procedere anche in
mancanza della pronuncia della Conferenza.
Gli atti normativi eurounitari ritenuti illegittimi dalla maggioranza delle Regioni e delle
Province autonome in seno alla Conferenza Stato-Regioni, debbono essere impugnati
obbligatoriamente dal Governo nazionale innanzi agli organi della giustizia eurounitaria.
8. Il versante discendente.
La fase discendente fa riferimento alla competenza e all'attuazione degli atti comunitari
derivati da parte della Regione.
Al momento del varo dell’esperienza regionale, nel delegare il Governo a trasferire alle
Regioni le funzioni ad esse spettanti, venne confermata allo Stato la funzione di indirizzo e
coordinamento delle attività regionali aventi carattere unitario, con specifico riferimento agli
impegni derivanti dagli obblighi internazionali. Ciò rappresentava una forte contrazione
dell’autonomia regionale che in tal modo veniva a determinarsi.
Fu la giurisprudenza che suggerì al legislatore statale il modo di venire incontro alle
aspettative regionali. La Corte, infatti, non si dichiarò contraria al riconoscimento di un potere
regionale di attuazione, ma ne escluse però l’ammissibilità fin quando non fossero stati
predisposti gli strumenti idonei a salvaguardare lo Stato davanti alle possibili inerzie regionali.
La Corte dunque aggiunse che l’unico modo per far concorrere le Regioni all’attuazione della
normativa comunitaria sarebbe stato quello della delegazione da parte dello Stato.
Tale decisione non fu esente da critiche, contestando appunto la scelta di accordare un potere
di delega dello Stato nelle materie proprie della Regione.
Tali critiche furono presto accolte dal legislatore che con la legge n. 153 del 1975 (relativa alla
materia dell’agricoltura), riconobbe alle Regioni la possibilità di legiferare in attuazione della
normativa comunitaria, attenendosi ai principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale.
Allo stesso tempo venne prevista la possibilità preventiva, necessaria e generalizzata di
intervento sostitutivo da parte degli organi centrali della disciplina regionale, corredando u
principi stessi delle regole volte a darne la specificazione-attuazione.
In tal modo venne fissato un punto di incontro tra il bisogno dello Stato di essere
salvaguardato davanti ai possibili inadempimenti regionali e le istanze di autonomia che
avrebbero in ogni tempo potuto affermarsi con l’esercizio dei poteri di normazione in ambito
locale.
Sul terreno dell’amministrazione invece il meccanismo era inverso in quanto la sostituzione da
parte dello Stato assunse un carattere successivo ed eventuale, conseguente all’inerzia delle
Regioni pur dopo un congruo termine ad essa dato per provvedere.
Con la L. Fabbri del 1987 è stata riconosciuta la competenza delle Regioni a dare attuazione
alle direttive anche a mezzo di atti amministrativi generali, sempre che non riguardanti
materie coperte da riserva di legge o comunque già regolate con legge e si è dato inoltre
modo alle Regioni a statuto speciale di attuare direttive ricadenti su materie di potestà
esclusiva senza dover attendere la disciplina statale di principio.
Un differenziato regime, in relazione ai tipi di competenza legislativa regionale, era invece
stabilito dall’art 9 della L. La Pergola, dal momento che la facoltà di attuazione immediata era
stata riconosciuta per le solo materie di potestà esclusiva, dovendosi invece per quelle di
potestà concorrente attendere l’adozione della prima legge comunitaria successiva alla
notifica della direttiva.
Il punto debole di questa legge era dunque dato dal differenziato trattamento riservato alle
leggi regionali a seconda dei tipi di potestà di cui erano espressione. Per questo motivo, l’art 9
è stato modificato, dandosi modo anche alle leggi regionali di potestà concorrente di dare
immediata attuazione alle direttive.
9. Il potere regionale di attuazione nella legge di riforma del Titolo V.
La legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 ha apportato modifiche al Titolo V della parte
seconda della Costituzione. L'articolo 117 Cost, subentrato con questa riforma, stabilisce al
primo comma che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto dei
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Tale
disposizione chiarisce che le regole dell'ordinamento comunitario si ergono a limite
costituzionale della potestà legislativa sia dello Stato sia delle Regioni.
Il quadro costituzionale delineato nel 2001 contiene poi altri richiami al diritto sovranazionale,
richiami che appaiono persino eccessivi, dal momento che finiscono con il sovrapporsi l’uno
all’altro.
Il primo problema è sollevato dall’inclusione dei rapporti internazionali e con l’Unione
europea delle Regioni nelle materie di potestà concorrente. Ciò potrebbe portare a far
pensare che si tratti di una sorta di non-materia, ovvero di una materia trasversale. L’effetto
derivante da tale lettura sarebbe quello di privare le Regioni della pienezza o esclusività della
competenza in ordine all’attuazione delle normativa sovranazionale. Le Regioni, quindi, in
nessun caso potrebbero dare immediata attuazione al diritto sovranazionale, se non grazie
alla mediazione necessaria assicurata dai principi fondamentali delle leggi statali.
Bisogna ritenere che i rapporti di cui all’art 117 comma 3° abbiano carattere non sostanziale,
ma istituzionale, riguardano esclusivamente le sedi e le procedure per il cui tramite le Regioni
entrano in contatto con l’Unione. Quando invece alla parte sostanziale dei rapporti, vale a dire
ai modi con cui le Regioni sono abilitate all’attuazione delle normativa sovranazionale, si potrà
pienamente fare capo al riparto costituzionale delle competenze, e dunque lo Stato interverrà
nei campi materiali ad esso riservati dall’art 117, mentre le Regioni legifereranno nel quadro
dei principi generali, laddove la normativa stessa ricada su materie di potestà concorrente.
Inoltre, il nuovo articolo 120 Cost contempla il potere sostitutivo del Governo nel caso di
mancato rispetto della normativa dell'Unione; la legge definisce le procedure atte a garantire
che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio
di leale collaborazione.