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CAPITOLO 1) LA POLITICA E I SUOI LIMITI: DIRITTO PARLAMENTARE E

DIRITTO COSTITUZIONALE

1) UNA DEFINIZIONE DI DIRITTO PARLAMENTARE


Il diritto parlamentare (definizione di Vincenzo Miceli, 1910) è un complesso di norme che
disciplinano l’organizzazione interna delle Camere, l’esercizio delle loro funzioni e i rapporti
con gli altri organi (costituzionali e di rilevanza costituzionale) e con soggetti terzi.
Vengono usate anche altre denominazioni. I manuali anglosassoni (Mason's Manual of
Legislative Procedure, 1935 curato dalla conferenza nazionale dei Parlamenti degli Stati
membri degli USA; Robert's Rules of Order, 1876), contengono regole ritenute utilizzabili
da qualsiasi assemblea deliberativa, le quali:a) peccano di eccessiva vastità ed eterogeneità
degli organi collegiali cui si fa riferimento;b) presentano una dimensione prescrittiva labile,
trattandosi di forme di regolamentazione a carattere generalissimo e residuale, alle quali i
titolari di tali organi collegiali possono decidere di fare di volta in volta ricorso, non
essendovi però in alcun modo giuridicamente obbligati. Il diritto parlamentare sembra
differenziarsi da essi, a partire dall'esperienza statunitense (come mostra il Manual of
Parliamentary Pratice Composed for the Use of the Senate of the United States, 1801
redatto da Thomas Jefferson) e francese (fondata sulla traduzione del manuale di
Jefferson e su La tattica parlamentare del filosofo Jeremy Bentham), del resto la stessa
rivoluzione francese trae origine da una questione di diritto parlamentare, relativa alle
modalità di voto (per stati o per teste) in seno agli Stati generali.
Nell’ordinamento italiano, la nozione di diritto parlamentare può perciò esser utilizzata per
riferirsi alle regole che si applicano nelle due Camere in cui si articola il Parlamento
repubblicano. Tanto più alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, che con
sentenza n. 106/2002 ha ritenuto la dizione Parlamento non estensibile ai Consigli regionali
per 2 motivi:- Il nomen Parlamento non ha valore solo lessicale ma individua la posizione
esclusiva che esso occupa nell’organizzazione costituzionale:- Solo il Parlamento è sede
della rappresentanza politica nazionale (art 67 Cost.) che imprime alle sue funzioni una
caratterizzazione tipica e infungibile.

Esiste anche un “diritto parlamentare europeo”, tanto più dopo che la Corte europea dei
diritti dell'uomo (Matthews vs. United Kingdom, 18/02/1999) ha ritenuto il Parlamento
europeo idoneo a essere qualificato come “corps législatif” o “legislature” ai sensi dell'art.
3 Protocollo 1 Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (1950): affermando che tale
organo, pur non essendo ancora dotato di pieni poteri legislativi, costituisce il principale
strumento di controllo democratico e di responsabilità politica nel sistema comunitario.

 Sent. 106/2002: la corte costituzionale,decidendo su un conflitto di attribuzioni sollevato dallo


Stato,ha annullato una delibera del Consiglio regionale della Liguria,la quale stabiliva che “in tutti
gli atti dell’assemblea regionale,alla dizione costituzionalmente prevista “consiglio region.Liguria”
fosse affiancata la dizione “parlamento della liguria” . la pronuncia della corte ha esplicitamente
evitato di accogliere l’approccio suggerito nel ricorso,secondo cui,in sostanza potrebbe
denominarsi Parlamento solo un organo partecipe della sovranità,mentre la denominazione
“consiglio regionale” sarebbe quella corretta per organi rappresentativi di soggetti autonomi ma
non sovrani. La motivazione della sentenza si è appoggiata sul valore deontico degli artt.55 e
121 cost. ,che si traduce in un vero e proprio divieto per i consigli regionali di appropriarsi del
nome parlamento.
2) IL DIRITTO PARLAMENTARE COME AVANGUARDIA DEL DIRITTO
COSTITUZIONALE
Il legame tra il diritto parlamentare e quello costituzionale è evidente se ci si pone in chiave
storica. Sin dalla fine del '700 la rivendicazione di organi denominati “Assemblee elettive” o
“Parlamenti” è andata di pari passo con la richiesta di Carte costituzionali: la disciplina di
tali Assemblee si configura come un loro contenuto necessario (fissandone i caratteri
strutturali, definendone le funzioni fondamentali). In assenza delle Assemblee
rappresentative, le costituzioni ottocentesche sarebbero inidonee a raggiungere i loro
principali obiettivi:1) limitazione del potere assoluto del sovrano;2) presenza decisiva della
classe borghese nella decisione delle questioni ritenute di maggiore importanza (anzitutto
quelle che riguardano i diritti di libertà e il diritto d proprietà).È attraverso tali Assemblee che
si pongono concretamente in essere quei principi della democrazia rappresentativa che le
dottrine politiche avevano teorizzato come l’unica forma di democrazia compatibile con la
dimensione dello Stato moderno (facendo poi leva sulla cruciale ancorché controversa
nozione di rappresentanza politica, enunciata dalle Carte costituzionali attraverso il divieto
di mandato imperativo).

Se si guarda ai caratteri contenutistici propri del costituzionalismo e dello Stato di diritto.


Art.16 Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789): per l’esistenza di una
Costituzione occorrono la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri. I Parlamenti
concorrono sia alla prima, mediante l’esercizio della funzione legislativa (incaricata di
disciplinare in concreto i diritti dei cittadini), sia alla seconda, ponendosi come un limite
all’azione del sovrano e del suo esecutivo.
Una volta inquadrato nel diritto costituzionale , deve essere rigettata la lettura del diritto
parlamentare volta a considerarlo come mera forma di auto-organizzazione delle Assemblee
parlamentari.
Certo, la prescrittività del diritto parlamentare non può dirsi acquisita una volta per tutte, ma
ciò sembra discendere dal fatto che: a. il diritto parlamentare pretende di porre regole che
limitano il potere politico nelle sedi che esso è abituato a considerare come proprie; b. le
regole del diritto parlamentare raramente sono garantite da un giudice esterno rispetto alle
Camere; c. le regole del diritto parlamentare sono caratterizzate dall'esistenza di una
clausola di flessibilità (in assenza di esplicite obiezioni); d. sussiste uno spazio notevole per
le fonti non scritte, a testimonianza dell'esigenza di flessibilità e della necessità di un
ancoraggio al passato e alla tradizione.
Ciò non può portare ad affermare che in Parlamento viga solo la legge del più forte, non
mancando soggetti e meccanismi (sia interni sia esterni all'ordinamento parlamentare) in
grado di rilevare le violazioni delle regole dettate dalla Cost., dalle leggi e dai regolamenti
parlamentari. Il diritto parlamentare può considerarsi come una sorta di “avanguardia” del
diritto costituzionale: una disciplina della quale è talvolta particolarmente arduo cogliere il
carattere prescrittivo, ma proprio per questo di grande interesse per misurare fino a che
punto si spinge il principio dello Stato di diritto.
La rappresentanza politica e il divieto di mandato imperativo
Secondo l’art 67 cost.”ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le
sue funzioni senza vincolo di mandato” . Si tratta di una norma dal notevole rilievo storico e
teorico sul carattere del mandato dei parlamentari: questi ultimi non sono semplici
delegati,esecutori di istruzioni,privi di iniziativa, ma rappresentanti della Nazione,autonomi
interpreti degli interessi generali del popolo. Proprio perché libera da mandati,l’attività dei
parlamentari contribuisce all’unità politica,che non è un dato in se,ma il risultato di un
processo di integrazione:in questo senso ogni membro del parlamento rappresenta la
nazione. Nei fatti,le associazioni di elettori,i partiti politici,influenzano il parlamentare o
addirittura lo vincolano alle loro attività o direttive.
Ai sensi del principio fissato dall’art 67 cost. questi legami non sono pero assistiti da alcuna
garanzia giuridica:il loro rispetto è tutto rimesso alla coscienza del parlamentare che è libero
di votare secondo gli indirizzi del suo partito. I parlamenti sono quindi liberi di conformarsi
alle istruzioni dei partiti e di osservare gli accordi assunti con gli elettori,ma sono anche liberi
di fare tutt’altro,senza dover subire alcuna conseguenza giuridicamente rilevante
nell’ordinamento generale. In una prospettiva più ampia l’art 67 sarebbe da leggere insieme
all’art 49 cost: il rispetto della volontà del parlamentare si presta ad essere inteso come
“garanzia del metodo democratico” che dovrebbe governare la vita interna dei partiti.

3)IL SISTEMA PARLAMENTARE EURO-NAZIONALE NELLA COSTITUZIONE “COMPOSITA”.


Il diritto parlamentare italiano riguarda,quindi,le norme che disciplinano l’organizzazione e
l’attività,interna e esterna,di Camera e Senato. Tali norme non si rinvengono solo nel diritto statale,ma
anche nel diritto dell’Unione Europea,come risultante dal trattato di Lisbona ,il quale riserva all’interno
del titolo dedicato ai principi democratici ,un apposito articolo all’individuazione dei “poteri europei”dei
Parlamenti nazionali. Essendo composto da norme di diritto EU ,i poteri di camera e senato attribuiti
alla costituzione vanno integrati con quelli previsti dall’art 12 TUE e dai protocolli n 1 (sul ruolo dei
parlamenti nazionali in EU) e n 2 (sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità)
annessi al trattato di Lisbona.

CAPITOLO 2) LA STORIA DEI REGOLAMENTI PARLAMENTARI

1)Un'EVOLUZIONE NEL SEGNO DELLA CONTINUITA’


Caratteristica dominante nella storia del diritto parlamentare italiano è l’evoluzione nel segno
della continuità; rarissimi sono i cambiamenti drastici o radicali. Scelta in linea con la
necessità di assicurare un buon funzionamento dell’assemblea (la continuità delle regole
rende più agevole la loro applicazione. Al tempo stesso però la disciplina dei regolamenti
parlamentari va ad incidere, a volte in modo determinante sui rapporti tra Governo e
Parlamento (sulla forma di governo), da questo punto di vista il metodo della continuità
determina il rischio di dare origine a testi disorganici, privi di una ratio unitaria ben
identificabile, ma anche il pericolo di legittimare la permanenza in vigore di regolamenti
parlamentari non in sintonia con il quadro delineato dalla costituzione.
Per questo motivo, non bisogna soffermarci solo sui regolamenti ma anche sulle
costituzioni.
Esemplare è l’evoluzione del rapporto tra regolamenti parlamentari (in particolare quello
della camera) e lo statuto Albertino: questo affermava una forma di governo costituzionale
pura, mentre nella prassi si andò progressivamente istaurando una forma di governo di tipo
parlamentare (detta anche pseudo parlamentare per l’incertezza che vi regnava).

2) EPOCA STATUARIA Nel 1848, al’indomani della concessione dello Statuto


Albertino, la Camera dei deputati e il Senato regio della Repubblica procedettero
all’adozione di un regolamento provvisorio (in attuazione dell’art 61 dello statuto:ai
sensi del quale ciascuna camera determina per mezzo di un regolamento interno il
modo in cui esercitare le proprie attribuzioni), non era elaborato autonomamente ma
dal governo presieduto da Cesare Balbo su modello di quello francese del 1839 e di
quello belga. Si trattò di un lavoro non originale, frutto di una delibera assunta senza
discussione.
Lo statuto Albertino, come le altre carte dell’800, rivolgeva ampio spazio alla disciplina
strutturale e funzionale del parlamento: 32 articoli su 84 era dedicati alle Camere, di questi
6 articoli disciplinavano il Senato del regno con l’indicazione analitica delle categorie entro
le quali Re poteva nominare i senatori, 9 riguardavano la Camera dei deputati, della quale
era invece sancito il carattere elettivo e la durata quinquennale e infine 17 contenevano
disposizioni comuni alle Camere, tra queste emblematica era la previsione sulla
obbligatorietà dello scrutinio segreto nella votazione finale delle leggi.
In coerenza con il modello francese, nell’organizzazione del procedimento legislativo la
Camera adottò il “sistema degli uffici” per l’esame delle proposte di legge, a scapito dei
modelli alternativi: come quello delle 3 letture proposto dall’esperienza inglese, nel quale
cioè l'Assemblea procede a 3 tipi di esame di ciascun progetto di legge; e quello
statunitense delle commissioni permanenti specializzate per materie.

*
(Il sistema degli uffici.
Gli uffici erano collegi minori di carattere temporaneo (rinnovati ogni 2 mesi) la cui
composizione derivava da un’estrazione a sorte tra i nomi di tutti i parlamentari e quindi non
rispecchiava la composizione politica dell’Assemblea, né poteva essere proporzionale ai
gruppi parlamentari dal momento che nelle Camere statuarie non esistevano (e neppure di
veri e propri partiti si poteva ancora parlare). Deputati e senatori si articolavano in
aggregazioni di carattere territoriale e personale, e solo assai genericamente li si poteva
ricomprendere all’interno di formazioni quali “destra o sinistra storica” (cmq privi di ogni
forma di organizzazione extraparlamentare). Presentato il progetto di legge era inviato a
tutti gli uffici e ciascuno di essi procedeva a una discussione informale, al termine della
quale eleggeva al suo interno un relatore. Tutti i relatori eletti andavano a costituire una
commissione che esaminava ed emanava il progetto di legge, presentandolo all’Assemblea
correlato di una relazione).

Nel 1850 il Senato si diede il suo regolamento definitivo, alla Camera il regolamento
provvisorio del 1848 durò 15 anni (falliti 2 progetti di riforma), nel 1863 fu adottato un altro
regolamento, anch’esso provvisorio, che fu modificato nel 1865 e nel 1868. Con il
regolamento del 1968 si tentò l’introduzione del metodo delle 3 letture, ma il tentativo fallì
infatti nel 1873 si tornò al metodo degli uffici, temperandolo con istituzione di alcune
commissioni permanenti. In particolare,nel 1863 erano nate,tra le altre,la commissione per i
bilanci,una commissione per l’esame delle petizioni e una per i bilanci.
Nel 1886 fu creata alla Camera, come organo permanente, la Commissione (poi giunta)per
il regolamento, i cui membri non erano estratti a sorte, ma nominati dal Presidente
dell’Assemblea (passaggio dall’idea di riforma d’insieme rivelatasi illusoria a quella di
manutenzione regolamentare da realizzarsi attraverso la codificazione degli usi e
l’esperienza).
La commissione per il regolamento nei 2 anni successivi intraprese una serie di modifiche,
note come riforme “Bonghi” (dal nome del relatore e presidente della commissione). Si
intervenne sulla disciplina dell’andamento della discussione, delle questioni pregiudiziali e
sospensive, delle interrogazioni e interpellanze,delle autorizzazioni a procedere, modalità di
votazione, e metodo delle tre letture. Modifiche che furono inglobate in un testo approvato
nel 1888, ed è con questo testo che si giunse alla “crisi di fine secolo”: dopo le dimissioni di
Di Rudinì, si costituì il governo Pelloux che svoltò a destra appoggiandosi su Sidney
Sonnino (posizione nettamente contraria la forma di governo parlamentare) e ripropose
misure restrittive in tema di pubblica sicurezza e libertà di stampa. Si scatenò per la prima
volta nel Parlamento statuario l’ostruzionismo delle sinistre capeggiate dal socialista Enrico
Ferri.
Spazi per l’ostruzionismo furono allargati dalla scelta di adottare il metodo delle tre letture.
Sonnino era Presidente della commissione per il regolamento, decisero di adottare nel
giugno 1899 misure proposte con un decreto legge e un pacchetto di modifiche
regolamentari, l’ostruzionismo delle sinistre si spostò sulle modifiche regolamentari: furono
approvate il 3 aprile 1900 ma provocarono una spaccatura nella commissione per il
regolamento, e in Assemblea ove l’opposizione abbandonò l’aula.
Si arrivò allo scioglimento anticipato delle Camere e a nuove elezioni nel giugno 1900, si
formò il governo Saracco. La nuova Camera, con Tommaso Villa (presidente della
Camera) , azzerò le riforme regolamentari e incaricò una commissione da lui presieduta per
predisporre il nuovo regolamento.
A garanzia dell’equilibrio individuato, si stabilì che la commissione doveva essere
presieduta dal Presidente dell’Assemblea e che i membri dell’ufficio di presidenza sarebbero
stati eletti con voto limitato per assicurare la rappresentanza delle minoranze. A soluzioni
analoghe giunse anche il Senato. In questo modo, si posero le precondizioni per una fase di
relativa stabilità parlamentare e regolamentare, in coincidenza con l' età giolittiana.
Nel corso di questa fase va segnalata, nel 1912 l’ introduzione dell’ indennità parlamentare:
questa fu prevista a titolo di rimborso delle spese di corrispondenza, in modo da evitare
contrasti con l’ art 50 dello statuto, ai sensi del quale le funzioni di senatore o deputato non
potevano dare luogo ad alcuna retribuzione o indennità.
Un vero e proprio momento di svolta si ebbe nel primo dopoguerra, subito dopo l’adozione di
una legge elettorale di tipo proporzionale, con cui il sistema politico - istituzionale provò a
rispondere all'ingresso delle masse nella vita pubblica e allo sviluppo dei partiti politici: si
riteneva infatti che all’adozione di nuovo sistema elettorale proporzionale al nuovo ruolo
spettante ai partiti, dovesse corrispondere un’ organizzazione parlamentare in gruppi e
commissioni permanenti in modo da superare i limiti di un sistema parlamentare fondato
sull’individualismo e sul legame territoriale, da assicurare un rapporto più stretto con
l’esecutivo.
Infatti subito dopo le elezioni del 1919 in cui registrarono un netto successo i partiti di
massa, soprattutto il partito popolare e socialista, la Camera approvò nel 1920 dieci nuovi
articoli, non inseriti nel corpus del regolamento allora vigente, relativi ai gruppi parlamentari
e alle commissioni permanenti. Ciascun deputato, anziché esser sorteggiato in un ufficio,
era tenuto sulla base della propria preferenza politica ad iscriversi ad un gruppo (che
contenesse almeno 20 deputati per essere formato), in caso contrario finiva
obbligatoriamente nel gruppo misto. Ai gruppi era affidata la designazione dei propri
rappresentanti nelle commissioni permanenti, articolate per materia in modo da coprire ogni
possibile argomento.
Nel giugno 1922 su proposta di De Nicola si ritenne di aumentare da 9 a 12 il numero delle
commissioni permanenti e si richiese che obbligatoriamente ogni deputato dovesse essere
membro di un gruppo e di una commissione. Si delineò così il modello organizzativo del
“Parlamento dei partiti” che ebbe durata assai breve per effetto dell'avvento del fascismo.
Nella legislatura successiva, eletta nel 1924 sulla base della Legge Acerbo, (maggioranza di
filofascisti), si approvò nonostante l’opposizione di Modigliani e Matteotti, una mozione
firmata da Dino Grandi con la quale si dispose l’abrogazione delle modifiche parlamentari
approvate tra il 1920 e il 1922 e il conseguente ritorno al sistema degli uffici.
Si spiegava così il disprezzo del fascismo verso la rappresentanza proporzionale e i partiti
politici, ritenuti colpevoli della corruzione morale e la politica delle istituzioni parlamentari.
Questo disprezzo si manifestò poi con la riduzione di quasi tutti i diritti riservati alle
minoranze.Si aprì così un periodo di modifiche che segnò pesanti divieti, come il divieto di
mettere all'ordine del giorno un argomento che non fosse stato deciso dal Capo di governo,
l'obbligo per i cittadini di eleggere candidati che si trovavano in un'unica lista composta dal
Gran consiglio del fascismo ed infine la sostituzione nel 1939 della Camera dei deputati con
la Camera dei fasci e delle corporazioni, con i membri designati dal governo.
Furono create 12 commissioni legislative specializzate per materia e dotate di poteri
deliberanti. Ovviamente tutti i membri del nuovo modello istituzionale ( camera dei fasci)
non venivano eletti ma scelti dal capo di governo.
Il Senato invece restò in piedi durante il periodo fascista, sia perché era un organo assai
vicino alla monarchia, sia perché il suo carattere non elettivo faceva si che fosse più agevole
mantenerne il controllo anche attraverso la tecnica delle "infornate" di senatori. Fu tolta ai
senatori ogni autonomia legislativa e qualsiasi libertà di discussione e di critica.
L’opera di fascistizzazione del Senato si poteva ritenere conclusa alla fine del ventennio: il
25 luglio 1943 i senatori iscritti al partito erano 426 su 452, i non iscritti si erano arresi
partecipando in silenzio o non frequentando più Palazzo Madama.

3) LA FASE TRANSITORIA E L’AVVIO (CON I REGOLAMENTI VECCHI) DEL


PARLAMENTO REPUBBLICANO Nel “periodo costituzionale transitorio”, quello cioè in
cui si ricostruì l’assetto istituzionale italiano all’indomani della fine del fascismo e che si
concluse con l’entrata in vigore della Costituzione, si guardò subito sistema parlamentare
come lo si era lasciato prima del fascismo.
Fu istituita la Consulta nazionale,organo composto da 400 membri su designazione dei
partiti del comitato di liberazione nazionale, dotato di poteri esclusivamente consultivi.
Venne previsto per essa che fino a quando non avesse deliberato il proprio regolamento
interno, si sarebbero osservate, le disposizioni contenute nel regolamento della Camera dei
deputati in vigore prima del 28\10\1922 (marcia su Roma,considerata il momento iniziale del
periodo fascista).
La consulta si avvalse della possibilità di adottare nuove norme regolamentari e infatti
dedicò una parte rilevante del proprio lavoro all’ elaborazione di tali regole.
L'Assemblea Costituente diversamente non creò un nuovo regolamento interno (fallì in seno
all’Assemblea Costituente un tentativo di innovazione avanzato dal Presidente Terracini nel
1947 colto a introdurre limiti temporali e a valorizzare l’organizzazione in gruppi) ma adottò
solo modifiche a quello previgente, poiché riteneva più urgente dedicarsi all'elaborazione
della nuova Costituzione.
Il fascino della continuità non si esaurì neanche dopo l’ entrata in vigore della nuova
Costituzione, nonostante contenga numerose innovazioni nella disciplina delle Camere,
nella prima seduta la Camera dei deputati lasciò in vigore il regolamento del 1922
implicitamente non ponendosi neppure il problema.
Solo nel 1949 fu approvato un insieme di modifiche al regolamento, un intervento diretto
essenzialmente ad abolire i procedimenti delle tre letture e degli uffici. Ad adeguare la
dizione di alcuni articoli alle nuove istituzioni ( sostituzione della parola Re con quella di
Presidente della Repubblica); e ad inserire nel regolamento alcune disposizioni della
Costituzione che si riferiscono direttamente al funzionamento delle Camere. Per il Senato,
diventato “Senato della Repubblica,” la situazione fu differente.
Il Senato si impose di affrontare già nella prima seduta la questione regolamento, adottando
quello della camera prefascista. Ma nelle sedute successive venne esaminata la proposta di
un nuovo regolamento e attraverso il lavoro della giunta per il regolamento elaborò un nuovo
testo che fu approvato con voto quasi plebiscitario (211 su 212, solo un voto contrario). Le
differenze rispetto alla Camera erano consistenti: diversa disciplina del voto segreto e delle
modalità di revisione regolamentare; l'articolazione in giunte e commissioni.
Il regolamento del Senato prestò maggior attenzione alle disposizioni della Costituzione ,
dedicando attenzione ai procedimenti speciali appena introdotti. Ulteriori differenze si
notano sopratutto per le successive modifiche, durante la prima legislatura la Camera
adottò profonde riforme regolamentari incisive, relative alla programmazione dei lavori
(istituzione della conferenza dei presidenti, oggi dei capigruppo), procedimento
legislativo(con la disciplina della sede redigente), la procedura di revisione costituzionale e
le prerogative parlamentari. Al Senato si preferì lasciare inalterato il testo del 1948.
Il coordinamento più efficace, mai integrale, tra i due rami del Parlamento si registrò con
riferimento alle procedure finanziarie.

4) I NUOVI REGOLAMENTI DEL 1971 E LE LORO SUCCESSIVE MODIFICHE


Solo nel 1971 si giunse alla redazione di regolamenti parlamentari completamente nuovi e
maggiormente coerenti. La riforma fu preparata da elaborazioni svolte sia dalle forze
politiche, sia dai funzionari parlamentari, sia dalla dottrina costituzionalistica. Queste
riflessioni agevolarono il coordinamento delle iniziative, assunte con un'operazione senza
precedenti nel diritto parlamentare italiano,sotto il forte stimolo dei due presidenti: Pertini alla
Camera e Fanfani al Senato.
I nuovi regolamenti comportarono un processo di modernizzazione dell’istituzione
parlamentare, facendo leva sulla dimensione del gruppo parlamentare e valorizzando il
lavoro delle commissioni permanenti e al tempo stesso si proposero di aprire il Parlamento
alla società superando il principio dell’esclusività del rapporto con il Governo.
I limiti di questa riforma non furono pochi e derivarono soprattutto dalla necessità di non far
venire meno il consenso del principale gruppo di opposizione che proprio nel Parlamento
aveva trovato la principale sede di legittimazione istituzionale e di compartecipazione ai
processi decisionali.
Comunque un passo avanti fu compiuto rispetto ai precedenti regolamenti: si mise un limite
temporale ai dibattiti e si dichiarò la non appellabilità davanti all’Assemblea delle decisioni
presidenziali interpretative del regolamento.
L’azione di aggiornamento dei regolamenti del 1971, pur soggetti a molte critiche
(gruppocrazia o gruppo centrismo), se viste nel loro complesso rispetto a quelli precedenti,
sicuramente hanno apportato notevoli cambiamenti in positivo accentuando la capacità
decisionale dell'istituzione parlamentare.
I ritmi e le modalità di aggiornamentosono state differenti nei due rami:- Al Senato, il
grosso delle innovazioni è stato apportato con un unico intervento riformatore nel 1988, con
la presidenza di Spadolini, con il quale furono aggiunti 46 articoli: tra questi la revisione
delle modalità di votazione in nome della prevalenza del voto palese e generalizzazione del
contingentamento dei tempi. Altre successive modifiche hanno riguardato il sindacato
ispettivo, le procedure finanziarie e comunitarie e la composizione del consiglio di
presidenza.
- Alla Camera, invece il percorso è stato più travagliato. Le modifiche apportate nel corso
degli anni ‘80 con la presidenza di Nilde Iotti sono state numerose e riguardavano: la
programmazione lavori, la durata interventi, la limitazione dei poteri di presidenti dei gruppi
minori, la mozione di sfiducia individuale e gli effetti dei pareri delle commissioni.

Nel 1988 si realizzò il passaggio dall’obbligo di votazione finale dei progetti di legge a
scrutinio segreto a favore del voto palese. Ulteriori revisioni nel 1990 (programmazione
lavori e procedure per le modifiche regolamentari) e nel 1997. Quest’ ultimo intervento
riformatore realizzato in coincidenza con lo svolgimento dei lavori della commissione
bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da D'Alema, appare di peculiare
importanza, in quanto costituisce oggi il principale tentativo di adeguamento dei regolamenti
parlamentari all'evoluzione in senso maggioritario e bipolare della forma di governo italiana.
A questo scopo, si propose da un lato di prevedere tempi certi per la maggior parte delle
deliberazioni e dall'altro lato, si valorizzò l'istruttoria delle commissioni parlamentari e le
funzioni di controllo, anche mediante il riconoscimento di significativi diritti alle opposizioni e
di specifici doveri del Governo nei confronti delle richieste di informazione e di dati, formulate
anche da minoranze.
Tuttavia si è trattato di un tentativo disorganico che non ha intaccato la tradizionale
organizzazione della camera per gruppi e che non è riuscito a mantenere in sede applicativa
l’equilibrio originariamente delineato. Se la riforma ha conseguito i suoi effetti nell'assicurare
una maggior efficienza alla "macchina" parlamentare, garantendo anche alla Camera
l'effettivo rispetto della programmazione dei lavori, si è assistito invece al fallimento
dell'istruttoria legislativa delle commissioni parlamentare e alla scarsa tenuta degli obblighi
posti nei confronti del Governo.

 La riforma del regolamento del Senato approvata alla fine della XVII Legislatura.
La parte più significativa della riforma,tanto sul piano politico quanto su quello sistematico,risiede in una serie di
innovazioni alla disciplina dei requisiti richiesti per la formazione dei gruppi parlamentari. Il fine è consistito
nell’eliminare gli incentivi attualmente esistenti alla mobilità dei parlamentari da un gruppo all’altro,con passaggi
individuali. Per effetto del nuovo art.14 del regolamento del Senato,per formare un gruppo non basta soddisfare
esclusivamente requisiti numerici,ma altresì requisiti politico-elettorali. Più precisamente,perché un gruppo possa
costituirsi non è più sufficiente che 10 senatori intendano farlo,ma il gruppo deve altresì “rappresentare un partito
o un movimento politico,anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici ,che abbia presentato
alle elezioni del senato propri candidati con lo stesso contrassegno,conseguendo l’elezione dei senatori”.
A completamento di questa revisione,in primo luogo, si aboliscono i gruppi autorizzati o in deroga. In secondo
luogo,si introduce il divieto di istituire nuovi gruppi in corso di legislatura,a meno che non risultino dall’unione di
gruppi già costituiti o anche dalla rottura di coalizioni composte da partiti o movimenti politici che si erano
presentati con il proprio simbolo alle elezioni. Si prevede in terzo e ultimo luogo,in caso di cambio gruppo,la
decadenza dalle cariche di presidenti e membri dell’ufficio di presidenza delle commissioni permanenti e da
quelle di vicepresidente o segretario d’assemblea.
Una serie di misure che tendono a fissare il panorama politico-parlamentare,facendo sì che esso rispecchi in
maniera più fedele possibile le risultanze delle elezioni,soprattutto eliminando incentivi alla mobilità e
frammentazione fin qui esistenti. Questo obiettivo viene perseguito,comunque,senza violare il divieto di mandato
imperativo di cui all’art 67 cost.: il singolo parlamentare che decida di abbandonare il gruppo corrispondente al
contrassegno con cui si è presentato alle elezioni resta libero,infatti,di iscriversi ad altro gruppo o al gruppo
misto.
CAPITOLO 3) LE FONTI DEL DIRITTO PARLAMENTARE.

1) LA COSTITUZIONE E LE LEGGI COSTITUZIONALI


Le fonti di produzione del diritto sono quegli atti e fatti ai quali un ordinamento, riconnette la
capacità di porre in essere norme giuridiche. E’ anzitutto nella Costituzione che occorre
cercare le fonti sulla produzione. Pellegrino Rossi (1837): la Costituzione contiene le têtes
de chapitre delle diverse branche del diritto: la Costituzione cioè contiene sia i principi
fondamentali di ciascuna branca del diritto,sia i criteri attraverso cui altre fonti normative
sono abilitate a sviluppare tali principi. La costituzione italiana,similmente a quanto già
faceva lo Statuto Albertino,contiene norme di dir parlamentare.
Al Parlamento essa dedica il titolo I della parte seconda, diviso in 2 sezioni: nella prima
sezione (“le Camere”, art 55-69) disciplina l’aspetto strutturale: l’ articolazione bicamerale,
lo status del parlamentare. Nella seconda sezione (“la Formazione delle leggi”, art 70-82)
disciplina il profilo funzionale, in particolare la funzione legislativa.
Il passaggio dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana ha portato due novità: la
prima di ordine tecnico, ossia la rigidità della costituzione repubblicana (contrapposta
alla flessibilità dello statuto). Tale carattere comporta la sovraordinazione della Costituzione
rispetto alle leggi ordinarie e agli stessi regolamenti delle Camere (le prescrizioni
costituzionali sono da un lato principi da sviluppare, dall'altro limiti all’autonomia
regolamentare delle Camere, sebbene manchi una specifica forma di controllo da parte del
giudice costituzionale).
(Questa caratteristica è stata sfruttata a pieno con la Costituzione francese del 1958 che ha
sottoposto i regolamenti parlamentari ad un previo e necessario controllo di costituzionalità.)

La seconda novità attiene alla forma di stato: con l’allargamento del suffragio ai cittadini
maggiorenni di ambedue i sessi si passa allo Stato democratico, nel quale secondo l’art1
Cost.: la sovranità appartiene al popolo che deve esercitarla nelle forme e nei limiti posti
dalla Costituzione.
Dunque il parlamento non è più (se mai lo è stato) sovrano ma, costituisce una delle forme
in cui, in una democrazia rappresentativa, si esercita la sovranità popolare. Ciò comporta
che il Parlamento si vede affiancato da altre forme di espressione della sovranità popolare:
referendum abrogativo, attività dei partiti politici e dei sindacati, e altresì, de iure
condendo, le reiterate e prospettate elezioni dirette del Capo dello Stato o del capo
dell'esecutivo.
Il costituente si è limitato a richiamare una serie di organi e istituti, con ciò evidentemente
presupponendo uno sviluppo ad opera di altre fonti (anzitutto dei regolamenti parlamentari).
Ciò a cominciare dallo stesso nomen “Parlamento”, assente nello statuto Albertino e che
parte della dottrina ha valorizzato allo scopo di evidenziare l'unitarietà di tale organo nel
bicameralismo perfetto e paritario disegnato dalla Costituzione.
Ora: in taluni casi la Costituzione si fa carico del problema di individuare la fonte competente
a sviluppare le sue previsioni.es. art.72 Cost. esplicitamente rinvia ai regolamenti
parlamentari quanto alla disciplina del procedimento legislativo. O es. art.65 Cost. rinvia alla
legge la disciplina di ineleggibilità e incompatibilità. es. art.69 Cost. rinvia alla legge la
disciplina dell'indennità spettante ai parlamentari.

Accanto alla Costituzione, tra le fonti vanno messe anche le leggi costituzionali: es. la
legge cost. 1/1989 che sottrae al Parlamento in seduta comune (e in fase istruttoria, alla
commissione inquirente) e alla Corte costituzionale in composizione integrata
rispettivamente il potere di accusare e di giudicare i ministri per i reati compiuti nell'esercizio
delle loro funzioni.
O alle due leggi cost. che hanno previsto commissioni bicamerali incaricate rispettivamente
di procedere alle riforme istituzionali e alle riforme costituzionali (esclusa la legge elettorale),
disciplinando altresì il procedimento di revisione costituzionale derogatorio (criticato)
rispetto a quello delineato dall'art.138 Cost. (norma cardine con l'art.134 Cost. della rigidità
costituzionale), anzitutto con la previsione dell'obbligatorietà del referendum popolare.
Vanno altresì considerati,poi, l’ art.11 legge. cost. 3/2001 e l’art 5 c4 della legge
costituzionale 1/2012,con i quali il legislatore costituzionale assegna un nuovo compito ai
regolamenti di Camera e Senato, cioè prevedere la partecipazione di rappresentanti delle
Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla commissione parlamentare per le
questioni regionali, in attesa che siano riviste le riforme del Titolo primo.
La fonte istitutiva di tale commissione è l'art.126 Cost., il quale prevede che essa sia
obbligatoriamente consultata sul decreto di scioglimento dei Consigli regionali e che essa sia
istituita nei modi stabiliti con legge della Repubblica.
Vengono chiamati in causa sia i regolamenti delle Camere, sia le legge ordinaria, a riprova
della sovrapposizione e dell'intarsio tra le diverse fonti del diritto parlamentare(Manzella: tra
le fonti del diritto parlamentare si riscontra spesso una fungibilità e quasi una permeabilità,
anziché una gerarchia e una competenza statiche). Tale previsione è rimasta lettera morta,
coerentemente con la stagione di scarso riformismo regolamentare delle Camere della XIV e
XV Legislatura repubblicana: anche attraverso questo comportamento omissivo, l'autonomia
regolamentare delle due Camere ha mostrato nei fatti una notevole resistenza al precetto
costituzionale.
Non ci si puo fermare alla costituzione e alle leggi cost italiane, alcune funzioni del
parlamento italiano,cosi come dei parlamenti di tutti gli stati membri dell’EU,trovano il loro
fondamento dei trattati europei. Non a caso l’art 12 TUE individua un catalogo dei poteri
europei dei parlamenti nazionali,introdotti dalla formula secondo cui essi contribuiscono al
buon funzionamento dell’Unione.

2) I REGOLAMENTI DI CAMERA E SENATO.


2.1. FONTI DELL’ ORDINAMENTO GENERALE
I regolamenti parlamentari generali rappresentano non l’unica,ma sicuramente la principale
tra le fonti-atto del dir parlamentare.
L’ art 64 Cost. affermando che “ciascuna camera adotta il proprio regolamento” prevede
l’adozione della fonte regolamentare come obbligatoria, evitando che la fissazione delle
regole procedurali sia rimessa,caso per caso,alla volontà dell’Assemblea.
L’ opinione dottrinale prevalente non dubita della natura di norme giuridiche in senso proprio
dei regolamenti parlamentari. Tuttavia alcuni sostenitori della teoria che nega il carattere di
norme giuridiche ai regolamenti parlamentari,sostengono che essi siano da intendersi come
norme interne che hanno validità e vigenza solo nell’ordinamento di ciascuna camera: per
Santi Romano essi possono al massimo considerarsi come atti costitutivi di diritti in senso
oggettivo ma solo nell’ambito di una sfera di efficacia speciale ed interna.
E’ necessario interrogarsi sulle caratteristiche distintive che le fonti devono avere: Crisafulli
richiama i criteri dell’astrattezza generalità e novità, Zagrebelsky individua le fonti in quegli
atti che sono espressione dei processi di unificazione politica dei fenomeni che hanno luogo
nel pluralismo sociale,Pizzorusso insiste sull’efficacia erga omnes degli atti fonte
prescindendo dal relativo contenuto e dando rilievo all’aspetto della pubblicazione
obbligatoria degli stessi. Da tutti e tre i punti di vista sembra difficile riuscire a negare il
carattere di atto fonte ai regolamenti poiché essi contengono una disciplina generale
applicabile in astratto ogniqualvolta si verifichi una determinata fattispecie i cui contenuti
appaiono innovativi; la natura di fonte emerge ove si osservi la loro incidenza sui caratteri
delle forme di governo e quindi sugli equilibri che caratterizzano i rapporti tra i diversi organi
costituzionali. Infine va dato atto di un progressivo avvicinamento dei regolamenti
parlamentari alle forme di pubblicazione proprie delle fonti di diritto.(pubblicazione in
gazzetta uff del regolamento del senato nel 1948).

2.2. FONTI PRIMARIE, MA PRIVE DI FORZA DI LEGGE E NON UTILIZZABILICOME NORME


INTERPOSTE NEL GIUDIZIO DI COSTITUZIONALITÀ.

Subito dopo aver stabilito che i regolamenti parlamentari costituiscono una fonte del diritto,e
una fonte dell’ordinamento generale, ci si pone evidentemente il problema di determinarne il
rango. Anche qui,nonostante il nomen, che è quello in genere utilizzato per identificare fonti
di rango secondario, in dottrina vi è una tendenza prevalente a classificare i regolamenti
parlamentari come fonti primarie. Essi infatti, nel quadro di un sistema delle fonti del diritto
articolato in base ai criteri di gerarchia e di competenza,appaiono abilitati dalla Costituzione
a sostituirsi nella disciplina di determinate materie ad essi riservate alla stessa legge
formale. Ne discende che i regolamenti parlamentari sono da qualificarsi come fonti
primarie, equiparate perciò alla legge e agli atti aventi forza di legge: anzi sono stati
anch’essi considerati atti con forza di legge pure ai fini della loro sindacabilità avanti alla
Corte Cost. ai sensi art 134Cost.
In quanto fonti primarie ben si presterebbero ad entrare a far parte del “blocco di
costituzionalità”,ossia a costituire un parametro del giudizio di costituzionalità delle leggi,
quali norme interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria il cui processo formativo esse
disciplinano.
Questo quadro (conseguenze relative alla definizione dell’oggetto e del parametro del
sindacato costituzionale)è stato però rifiutato dalla giurisprudenza costituzionale,che ha
recentemente affermato come l’esigenza che le norme che integrano il parametro di
costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile per
evitare il paradosso che una legge venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra
norma sub costituzionale a sua volta in contrasto con la Cost.
La Corte costituzionale con una sentenza del 1959 ha escluso che i regolamenti
parlamentari potessero operare come parametro del giudizio di legittimità costituzionale
delle leggi. La corte si è dichiarata competente a sindacare esclusivamente le violazioni
delle norme costituzionali sul procedimento legislativo, ma non anche il mancato rispetto
delle disposizioni contenute nei regolamenti parlamentari.
Di conseguenza, se per un verso ha superato il dogma ottocentesco ai sensi del quale i
procedimenti interni delle Camere sono insindacabili da soggetti esterni all’Assemblea, per
altro verso ha finito per rimettere a ciascuna camera l’interpretazione e la garanzia
dell’osservanza delle previsioni contenute nei regolamenti parlamentari pure laddove a
questi ultimi il testo costituzionale rinvii.
La partita della sindacabilità dei regolamenti sembrava chiusa, tuttavia, la Corte
Costitizionale dopo aver sbarrato la via del giudizio sulle leggi, ha lasciato aperta quella del
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, attraverso cui è giunta a svolgere forme
incisive di sindacato sulle procedure parlamentari, e dunque, seppure indirettamente, sulla
disciplina posta dai regolamenti di Camera e Senato. La sentenza che ha risolto in via
negativa è la n. 154/1985.Sentenza n. 1150/1988: la Corte Costituzionale si riserva un
penetrante controllo sul cattivo uso dei poteri parlamentari.

2.3. LA RISERVA DI REGOLAMENTO PARLAMENTARE.


Per quanto riguarda l’ambito di competenza dei regolamenti parlamentari (l’ art 64 Cost.
disciplina solo il procedimento di formazione) vi è un esplicito rinvio nell’art 72 Cost. relativo
al procedimento legislativo. Sulla base di questi dati costituzionali, si è visto come la
dottrina non abbia comunque esitato ad individuare una riserva costituzionale di competenza
a favore dei regolamenti delle due Camere. Anzi, il caso dei regolamenti parlamentari è
stato ed è tuttora considerato come applicazione nell’ordinamento italiano, del criterio di
competenza (qui inteso come fonte destinataria di una riserva costituzionalmente
esclusiva). L’area di competenza del regolamento parlamentare, oltre che il procedimento
legislativo, riguarda anche una serie di altri settori che sono stati così identificati: - Organi
interni delle Camere (Presidente, ufficio di presidenza, commissioni, giunte ecc.)
- Componenti delle Camere (diritti e doveri dei singoli parlamentari, la loro organizzazione
in gruppo)
- Procedimenti relativi alle diverse funzioni parlamentari
- Strutture di servizio e rapporto con i dipendenti delle Camere
- Rapporti che occasionalmente possono istaurarsi tra le Camere e terzi estranei.
Resta comunque un limite all’intervento dei regolamenti parlamentari, nel senso che questi
possono muoversi fintanto che rimangano nell’ambito dell’attuazione e dello sviluppo delle
funzioni che la Costituzione attribuisce al Parlamento. La giurisprudenza costituzionale, pur
richiamandosi alla riserva di regolamento parlamentare, non ha fornito chiarimenti quanto
all’ambito materiale in cui tale riserva è destinata ad operare.

2.4. IL PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE


Al procedimento di formazione dei regolamenti parlamentari l’ art 64 Cost. dedica specifica
attenzione,richiedendo che essi siano approvati da ciascuna Camera, a maggioranza
assoluta dei componenti.
A partire dal 1993 questa previsione è stata a lungo criticata in quanto tale quorum non
sarebbe sufficiente ad assicurare un’effettiva garanzia alle minoranze o all’opposizione in un
Parlamento eletto con meccanismi maggioritari.
Nel procedimento di revisione dei regolamenti parlamentari un ruolo incisivo ce l’ha la
giunta per il regolamento: tale organo oltre a coadiuvare il Presidente nell’interpretazione
del regolamento, detiene anche una sorta di monopolio dell’iniziativa di revisione
regolamentare.
Al Senato tale monopolio è più attenuato, l’art 67 del regolamento del Senato si limita a
stabilire l’obbligo di un previo esame nella giunta sia delle proposte di modifica sia degli
emendamenti ad esse riferiti (salva possibilità del presidente di ammettere nuovi
emendamenti correlati a modifiche approvate).
Più diffusa e innovativa è la disciplina del regolamento della Camera: art 16 del
regolamento della Camera ha deferito alla giunta lo studio delle proposte di revisione e ha
riservato ad essa quasi il “monopolio della penna” con cui tali norme sono scritte.
I singoli deputati possono presentare non emendamenti, ma principi e criteri direttivi i quali
se approvati obbligano la giunta a redigere un nuovo testo. La giunta perde la penna solo
nel caso in cui il presidente di un gruppo o 20 deputati dissentano sul modo in cui la giunta,
nel nuovo testo, ha recepito i principi e criteri direttivi, e presentino perciò un testo
interamente sostitutivo di quello della giunta che viene posto a votazione in alternativa.
Una previsione comune ai due regolamenti consiste nel divieto per il Governo di porre la
questione di fiducia sulle proposte di modifica del regolamento e sulle condizioni di
funzionamento di Camera e Senato (art 116 R.C, art 161 R.S).

2.5. I REGOLAMENTI PARLAMENTARI SPECIALI E QUELLI MINORI


Accanto al regolamento parlamentare generale,il Parlamento italiano riconosce una
molteplicità di altri atti, denominati anch’essi regolamenti rivolti a disciplinare organi della
Camera o Senato o profili specifici del diritto parlamentare. Essi sono solitamente previsti
dal regolamento parlamentare generale, anche se non mancano casi in cui il loro
fondamento si può ritrovare anche all’interno di leggi ordinarie. Nell’ambito dei regolamenti
“altri” rispetto a quello generale occorre operare una fondamentale distinzione a seconda
del procedimento di formazione:
- I regolamenti approvati dall’Assemblea dell’una o altra Camera, con le medesime
procedure, inclusa perciò la garanzia della maggioranza assoluta, richieste per il
regolamento maior e in genere con l’aggiunta di una consultazione (al Senato, per norma
regolamentare) o proposta (alla Camera, per prassi) dell’organo collegiale interessato,
rivolta alla giunta per il regolamento (che vede attenuarsi il proprio monopolio di iniziativa
nell’elaborazione regolamentare).
I regolamenti rientranti nella prima categoria si possono denominare regolamenti speciali.

- I regolamenti approvati dall’ufficio di presidenza della Camera o dal consiglio di presidenza


del senato. I regolamenti che appartengono alla seconda categoria, si possono denominare
regolamenti minori o di diritto parlamentare amministrativo
- una terza categoria ove si ricomprendono i regolamenti di alcuni organi collegiali,approvati
da questi ultimi secondo le procedure previste dalla legge istitutiva dell’organo in questione.

I regolamenti rientranti nella prima categoria sono detti “Regolamenti speciali”: si tratta di
sezioni specializzate dei regolamenti generali, dotati perciò del medesimo rango, formatisi
con un procedimento normativo (lievemente) aggravato e abilitati anche a derogare, per la
parte di loro competenza, alle prescrizioni dei regolamenti generali.
Es. regolamento interno della giunta delle elezioni della Camera,regolamento per la verifica
dei poteri applicabile alla giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato,
regolamento parlamentare per i procedimenti d’accusa contro il Presidente della Repubblica,
approvato nel medesimo testo da Senato e Camera nel giugno 1989 (seguito dalla legge
Cost. n. 1/1989 ma non con esplicito fondamento di esso).

I reg. rientranti nella seconda categoria sono detti “ Regolamenti minori”: (talvolta è riferito a
tutti i regolamenti diversi da quello generale), si possono denominare per maggiore
chiarezza i “regolamenti di diritto parlamentare amministrativo”: es. regolamenti approvati
dall’ufficio di presidenza della Camera (dei servizi e del personale, dei concorsi per
l’assunzione personale, tutela giurisdizionale dipendenti, amministrazion e contabilità, ecc),
regolamenti della biblioteca e dell’archivio storico del Senato, previsti da art 12 e 20 r.S e
approvati dal consiglio di presidenza del Senato; regolamento di amministrazione e
contabilità, regolamento interno degli uffici e del personale del Senato art 12 e 166 R.S.
Alla terza categoria appartiene invece il regolamento della commissione bicamerale per
l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (previsto dall’art 1 della legge
103/1975,il quale stabilisce che tale reg. deve essere emanato dai presidenti delle due
Camere, sentiti i rispettivi uffici di presidenza).
Stessa collocazione anche per il regolamenti approvati dalle commissioni di inchiesta.

Intorno a tale molteplicità di regolamenti la dottrina ha mostrato perplessità, dubitando


soprattutto della legittimità della norma sulla produzione giuridica posta nei regolamenti
generali rispetto alla riserva contenuta nell’art 64 Cost.
Se alla riserva si attribuisce carattere assoluto, si dovrebbe ritenere inammissibile
l’intervento di fonti normative diverse da quella assegnataria della riserva.
Se si attribuisce carattere relativo, sarebbe ammissibile anche l’intervento di altre fonti, che
però non dovrebbero disciplinare situazioni giuridiche soggettive attive e passive, né
introdurre procedure di natura giurisdizionale.
La giurisprudenza non si è posta tale problema, colloca sia i regolamenti generali sia gli
“altri” sotto la riserva dell’art 64 Cost.
Secondo un inquadramento dottrinale (Pizzorusso) i regolamenti minori costituiscono con il
rispettivo regolamento generale, un sottosistema di norme che nell’ordinamento generale
dello stato si inseriscono come “un unico complesso tutto dotato dell’ efficacia delle norme
primarie”. All’interno di ciascun sottosistema i regolamenti minori sono subordinati al
regolamento generale a cui si riferiscono e non possono porsi in contrasto con esso, pena
invalidità.

3)LEGGI ORDINARIE E IL LORO “INTARSIO” CON I REGOLAMENTI PARLAMENTARI


La legge ordinaria è tutt’altro che esclusa dal diritto parlamentare, anzi è la stessa
Costituzione a richiederne l’intervento, specie nella procedura elettorale: ecco dunque le
leggi elettorali per la formazione delle due Camere, e le leggi che individuano i casi di
incompatibilità e di ineleggibilità. Si tratta di leggi che non esauriscono la loro efficacia nel
momento di insediamento delle due Camere, ma si pongono alla base di specifiche
procedure parlamentari e in particolare di quelle relative alla verifica dei poteri.

Discusso è lo spazio che deve esser lasciato a fonti secondarie relativamente alle procedure
elettorali, in presenza di una riserva di legge che in materia elettorale è da considerarsi
implicita, desumibile dai principi dell’ordinamento e in particolare dall’art 48 Cost.
Un discorso a parte merita la riserva di legge prevista nell’art 69 Cost. per quanto attiene
alla determinazione della misura delle indennità parlamentari.
In questo caso,infatti, il coinvolgimento della legge si deve alla volontà di non derogare
all’obbligo di copertura finanziaria posto a capo alle leggi di spesa dell’art 81 Cost. e per
l’esigenza di non lasciare all’autonomia regolamentare di ciascuna camera la
determinazione della misura di tale indennità. Questa riserva nella prassi è stata rispettata
in modo superficiale, dato che la legge lascia ampio spazio a delibere degli uffici di
presidenza delle Camere.
Anche al di là delle riserve di legge previste nella Costituzione, la legge ordinaria tende ad
essere utilizzata tutte le volte in cui si intende dettare norme che richiedono la costruzione di
procedimenti parlamentari (detti duali) nei quali occorre delineare le posizione giuridiche
soggettive (di obbligo, soggezione, onere) di soggetti esterni alle Camere (ipotesi sempre
più frequenti per evoluzione del Parlamento da organo solitario a organo chiamato a
convivere e dialogare con altri soggetti istituzionali e non).

Esempi di intarsi tra legge e regolamento parlamentare: il primo esempio di questo


“intarsio” tra la legge e il regolamento parlamentare è costituito dalla legge n. 14/1978 che
introdusse il parere obbligatorio ma non vincolante, delle commissioni parlamentari sulle
nomine dei vertici degli enti pubblici. Del resto,è proprio nel corso dell’iter parlamentare di
tale legge che la giunta per il regolamento del Senato ebbe modo di porsi il problema dei
limiti in cui una legge potesse intervenire a disciplinare le procedure parlamentari,
risolvendolo nel senso che la legge stessa può attribuire una competenza ulteriore alle
commissioni parlamentari,ma non può individuare le modalità attraverso cui vada esercitata,
né i tempi per l’espressione del parere.
Si decise di modificare i regolamenti delle Camere per dettare alcune regole essenziali “nei
casi in cui il Governo sia tenuto per legge a richiedere un parere parlamentare in ordine ad
atti che rientrino nella sua competenza”.
Un intarsio tra legge e regolamento parlamentare si è verificato anche con riferimento alle
procedure comunitarie e a quelle finanziarie. Per le procedure finanziarie disciplinate ex
novo dalla legge n. 468/1978 (modificate dalla legge n. 362/1988 e dalla legge n. 208/1999)
i regolamenti hanno risposto introducendo con la sessione di bilancio un iter a tempi certi per
l’esame e l’ approvazione dei disegni di legge finanziaria e bilancio.
Anche la Legge n. 400/1988 che disciplina modalità di esercizio della potestà normativa
primaria del Governo, in particolare per i limiti di contenuto dei decreti legge, trova
riferimento sia nel regolamento del Senato che in quello della Camera.
Un intarsio si è verificato anche con riferimento alle procedure europee con Legge n.
11/2005 (di riforma alla 86/1989).
Sono rimaste senza seguito regolamentare la legge n. 59/1997 e la legge n. 50/1999 che
hanno creato nuovi procedimenti parlamentari.

Vi sono poi differenze tra legge ordinaria e regolamento parlamentare: riguardo al


procedimento formativo la legge è bicamerale a maggioranza semplice, il regolamento
parlamentare è monocamerale a maggioranza assoluta.
Riguardo poi al regime giuridico, la legge è soggetta al vaglio del Presidente della
Repubblica in sede di promulgazione e al sindacato di legittimità da parte della Corte
Costituzionale, può essere abrogata totalmente o parzialmente con referendum. Il
regolamento parlamentare no.
Il panorama appena delineato dunque, fa sì che, l’ambito materiale riservato integralmente e
in via esclusiva al regolamento parlamentare risulti piuttosto ristretto e limitato e che invece
non mancano aree in cui si sovrappongono norme legislative e regolamenti parlamentari.
Ciò comporta che, riguardo a tali aree occorre individuare un criterio per la risoluzione di
possibili antinomie tra legge e regolamento parlamentare. In proposito, una parte della
dottrina ha sostenuto che si debba applicare il criterio cronologico. Altra parte nega che
sussista un tale problema, ritenendo che tra i due atti-fonte si realizzi una divisione di
compiti in nome del principio di cooperazione, idonea ad impedire ogni forma di antinomia
tra legge e regolamento parlamentare.
4) GLI STATUTI DEI GRUPPI, DEI PARTITI E DELLE COALIZIONI:FONTI DEL DIRITTO
PARLAMENTARE
Fonte del diritto parlamentare è ritenuta da alcuni anche la normazione interna ai singoli
gruppi parlamentari: i regolamenti dei gruppi parlamentari (ove esistenti) e anche gli statuti
dei partiti cui essi corrispondono, o persino gli delle coalizioni (ovviamente, nella misura in
cui tali atti dettino norme relative all’attività parlamentare dei propri membri).
In Italia sono nati prima i partiti politici e poi le loro proiezioni parlamentari. Ciò ha fatto sì
che spesso la proiezione del partito sia risultata sacrificata rispetto a quella
extraparlamentare.
È evidente che le qualificazioni di tali atti come fonti del diritto parlamentare appare tutt’altro
che pacifica dipendendo dalla scelta adoperata dai diversi autori circa la natura giuridica dei
gruppi parlamentari: se si propende per la lettura di essi come associazione tra privati o
come organi dei partiti politici è ben difficile qualificare come fonti del diritto anche i relativi
regolamenti. Se invece si opta per essi come organi delle Camere allora le loro regole (che
spesso limitano il diritto attribuito al singolo parlamentare) sono rilevanti.
In ogni caso,relativamente a tali atti, sussiste un grave problema di pubblicità in quanto gli
statuti/regolamenti dei gruppi parlamentari appaiono poco conoscibili.
E’ solo sulla scorta degli scandali legati alla cattiva gestione delle risorse spettanti ad alcuni
gruppi parlamentari che si è giunti,presso la Camera e il Senato nel 2012,sul finire della XVI
Legislatura,a prevedere l’obbligo di pubblicazione degli statuti/regolamenti dei gruppi sui siti
internet dei due rami del Parlamento.
Alla Camera è demandata agli statuti dei gruppi l’individuazione delle “forme di pubblicità dei
documenti relativi all’organizzazione interna del gruppo”. Più rigorosa è la disciplina del
Senato,che demanda al consiglio di Presidenza,con apposito regolamento di
contabilità,l’individuazione di tali forme,salvo però stabilire direttamente,tra l’altro, che
ciascun gruppo è tenuto a pubblicare on line,nel proprio sito internet liberamente
accessibile,ogni mandato di pagamento,assegno o bonifico bancario,con indicazione della
riserva causale. Non basta quindi la pubblicazione dei soli documenti di sintesi,ma vanno
pubblicati anche gli atti di gestione finanziaria.
La scelta della non pubblicità è coerente con la non giuridicizzazione del diritto interno ai
partiti. Una rilevanza nell’ordinamento parlamentare degli statuti dei gruppi è stata sancita
dall’ art53 comma 7 r. S del 1988 il quale richiede che “i regolamenti interni dei gruppi
parlamentari stabiliscano procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli
senatori di esprimere i loro orientamenti e di presentare proposte sulle materie in
discussione” (per dare tutela anche alle minoranze). Molto si discute intorno al valore di
tale prescrizione: secondo alcuni è una norma inutile o comunque di carattere meramente
esortativo poiché caratterizzata dall’assenza di sanzioni; altri tendono a valorizzarla
ritenendo come essa abbia posto fine al tradizionale atteggiamento di indifferenza tenuto dai
regolamenti parlamentari rispetto agli interna corporis dei gruppi, delineando uno schema
tipo di statuto con forti limiti all’autonomia della disciplina di gruppo. Alla Camera non ci sono
previsioni analoghe, ma norme dirette a garantire appositi spazi a favore dei deputati
dissenzienti rispetto al proprio gruppo: sia in sede di predisposizione del calendario,
riservando agli interventi personali 1/5 del tempo totale attribuito al gruppo,sia in sede di
dichiarazione del voto, in quanto spetta al Presidente d’ Assemblea stabilire modalità e
tempo. Anche al Senato ci sono queste norme disciplinate rispettivamente dagli artt. 84 e
109. In Senato si è discusso se il dissenso potesse sussistere solo per il voto.
5) LE FONTI-FATTO
5.1. LE CONSUETUDINI COSTITUZIONALI
Come è noto, le sole vere e proprie fonti-fatto sono costituite, nel nostro ordinamento, dalle
consuetudini, vale a dire da comportamenti ripetuti nel tempo e tenuti in quanto reputati
giuridicamente obbligatori. Esse trovano ampio spazio nella disciplina dei rapporti tra organi
costituzionali, quindi anche nel diritto parlamentare caratterizzato da un alto tasso di politicità
e perciò da un gran bisogno di adattabilità e flessibilità.
Le uniche due volte che la Corte Costituzionale si è richiamata espressamente alle
consuetudini costituzionali è stato in riguardo di istituiti propri del diritto parlamentare:
autonomia contabile delle Camere e la mozione di sfiducia nei confronti del singolo ministro.
Esempi di consuetudini rilevanti per il diritto parlamentare sono la questione di fiducia,
l’immunità di sede e la non partecipazione del Presidente di Assemblea alle votazioni che in
quell’Assemblea si svolgono.
- Il rapporto fiduciario (la questione di fiducia): è stato considerato disciplinato da una
consuetudine costituzionale formatasi sulla base di decisioni presidenziali. E anche dopo la
sua codificazione, lo spazio per le fonti - fatto non è venuto meno: le previsioni del
regolamento della Camera sono state superate mediante pronunce presidenziali, e al
Senato la disciplina introdotta dal regolamento appare parziale (sancisce il divieto di porre
la fiducia su determinati oggetti).
Un altro es di istituto che nasce come consuetudine parlamentare è costituito dalla
cosiddetta Immunità di sede,in forza della quale nessuna autorità estranea alle camere può
far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento e ai suoi organi.
Ancora può considerarsi un ulteriore esempio di consuetudine parlamentare:
- La non partecipazione del Presidente di Assemblea alle votazioni dell’Assemblea, è fatta
risalire a Francesco Crispi che era Presidente dell'assemblea.
Vi è poi una consuetudine di tipo orizzontale, in quanto interessa, almeno potenzialmente,
tutte le regole dettate dai regolamenti parlamentari: si tratta della già ricordata consuetudine
nemine contradicente, che consente di derogare a singole disposizioni del regolamento in
caso di assenso unanime sull’opportunità di tale deroga.

5.2. LE CONVENZIONI COSTITUZIONALI


In merito ai caratteri delle convenzioni costituzionali sussistono diversi orientamenti
dottrinali. Si discute se si tratti o meno di vere e proprie fonti dell’ordinamento giuridico (in
genere prevalendo la risposta negativa) e se esse presuppongano in qualche misura un
accordo, tacito o espresso, tra i titolari degli organi costituzionali interessati (in senso
positivo Crisafulli; in senso negativo Zagrebelsky che ne sottolinea il carattere spontaneo).
E’ pacifico che mentre nell’ordinamento inglese esse giocano un ruolo determinante ai fini
della configurazione della forma di governo, nel vigente ordinamento italiano esse possono
al più integrare la disciplina contenuta nella Costituzione, risolvendo questioni e difficoltà
che si pongono all’atto della concreta applicazione delle norme costituzionali.
La loro individuazione è problematica, non è sempre agevole distinguere le convenzioni
costituzionali dalle regole di correttezza costituzionale, o da meri impegni e dichiarazioni di
intenti politici, rese con riferimento al caso concreto, o ancora dalle mere prassi; e si
traducono altresì nella difficoltà di delineare meccanismi istituzionali volti a sanzionare, se
non sul piano giuridico almeno su quello politico - istituzionale, la loro eventuale violazione.
Esempi di convenzioni costituzionali rilevanti per il diritto parlamentare possono forse
considerarsi:- Gli accordi interistituzionali, i quali anche in Italia conoscono alcune
manifestazioni come le circolari sulla redazione tecnica dei testi legislativi, sottoscritte dai
Presidenti delle due Camere e Presidente consiglio dei ministri.
Ma anche Le intese tra i Presidenti delle Camere, attraverso le quali sulle questioni di
rilievo più generale e per lo più, in funzione di ausilio del Presidente della Repubblica hanno
dettato regole per lo scioglimento di alcuni nodi istituzionali o relativi all’andamento del
procedimento legislativo. E infine, Gli impegni che il Governo prende in Parlamento e nei
confronti delle Camere relativamente a fattispecie puntuali, ma costituzionalmente rilevanti
e suscettibili di ripetersi in futuro: es. dichiarazione con cui il Presidente del consiglio, su
sollecitazione delle opposizioni, si ripromette di non porre più questioni di fiducia su disegni
di legge contenenti norme di delega.
Natura convenzionale fu attribuita anche all’accordo implicito tra le forze politiche per effetto
del quale “uno o più partiti sono considerati al di fuori della area utilizzabile per il sostegno
parlamentare” al Governo, ossia alla cosiddetta conventio ad excludendum.

5.3. LE REGOLE DELLA CORRETTEZZA COSTITUZIONALE


Le norme di correttezza costituzionale (più innocue) sono in genere ritenute del tutto prive
di vincolatività giuridica: ad esse viene di solito assegnato un ruolo secondario, accessorio
rispetto alla funzione principale assolta dalle altre prescrizioni vincolanti.
In tale categoria si includono in genere prescrizioni notevolmente diverse:
- Regole di cerimoniale e del cosiddetto “galateo parlamentare” (solo in minima parte
codificate dai regolamenti o da altri atti scritti)
- Regole di notevole rilievo istituzionale come, che talvolta sono suscettibili di essere
qualificate come convenzioni o persino come consuetudini parlamentari: es. quelle che
richiedono l’alternanza delle due camere nella presentazione del programma di Governo o
nella trasmissione, in prima lettura, dei disegni di legge finanziaria e bilancio; o che in sede
di commissioni permanenti la presidenza spetta al presidente più anziano.
- Anche le regole che limitano l’ attività delle Camere in momenti particolari dei sistema
politico-istituzionale, come crisi di governo, o successivamente all’adozione del decreto di
scioglimento, o in pendenza di voto fiduciario.

5.4. LA PRASSI E LA FORMAZIONE DEI PRECENDENTI


Se nelle convenzioni parlamentari e nelle regole di correttezza si è nelle zona grigia che è a
cavallo tra fatto e diritto, la prassi invece è interamente collocata dalla parte del fatto. Ci si
riferisce alla prassi quando si intende richiamare i comportamenti tenuti in precedenza,
senza porsi il problema del loro rapporto con la norma, scritta o no. In altri termini, ci si rifà
alla soluzione data in precedenza ad una fattispecie concreta, con l’intento di applicarla
anche alla situazione attuale; con funzione però, non vincolante, ma unicamente
persuasiva, tant’è che nulla impedisce di apportare alla prassi i dovuti adattamenti al fine di
affrontare la situazione attuale,o persino di innovare rispetto alle prassi seguite in passato.
Il riferimento alla prassi può operare solo in assenza di una disposizione normativa che
regoli la fattispecie in questione, o quando è la stessa fonte normativa a ritrarsi, facendole
spazio. Tale idea è fondamentalmente vera ma pecca di una certa ingenuità: dove la
fattispecie non sia regolata da una disposizione normativa (ma anche quando questa
sussista), la prassi può finire per l’effetto del suo ripetersi, a diventare norma essendo
suscettibile di trasformarsi in regola di correttezza, convenzione o consuetudine
costituzionale.
Nel diritto parlamentare, in parte perché è un diritto che si è visto essere molto vicino alla
sfera della politica,in parte perche le situazioni procedurali tendono a moltiplicarsi al di là
della casistica prevista dalle disposizioni dei regolamenti parlamentari,lo spazio per la prassi
nel diritto parlamentare è notevole. Tant’è che una parte rilevante delle strutture di supporto
delle Camere consiste nell’archiviazione e sistemazione della prassi, i cosiddetti precedenti
parlamentari. E’ un’ attività che comporta un’attenta selezione delle decisioni procedurali
assunte dei Presidenti delle Assemblee o di commissione analizzandone i presupposti
ambientali e congiunturali al fine di distinguere i precedenti frutto di una innovativa e
accurata lettura delle situazioni alla luce dei principi costituzionali e regolamentari da quelli
che sono invece frutto di applicazioni frettolose e erronee delle norme regolamentari (da
questa accurata classificazione possono emergere precedenti che non fanno precedente: o
per dichiarazione del Presidente, o perché destinati a finire nel “mare magnum” degli atti
parlamentari”). Il frutto di questa attività è costituito da forme di raccolta e codificazione.
In Italia abbiamo una raccolta delle norme e usci parlamentari curata da Mancini e Galeotti
nel 1887, unica edizione. In assenza di fonti pubbliche da cui desumere i precedenti non
sorprende che nelle legislature del maggioritario si siano moltiplicati i riferimenti al
precedente peggiore.Il richiamarsi a un precedente e l’uniformarsi ad esso sono operazioni
che, sul piano sostanziale, si fondano su una esigenza di giustizia, ossia sul fatto che tale
precedente, in assenza di una disposizione normativa scritta o di una sua interpretazione
univoca, dovrebbe essere idoneo ad attestare l’esistenza quanto meno di una prassi già
esistente nel momento in cui si è presentato il caso da decidere in base ad essa. Nel
sistema maggioritario all’italiana invece tale richiamo tende talvolta ad assumere un sapore
quasi vendicativo specie quando esso avviene a cavallo di due legislature caratterizzate da
maggioranze opposte con ovvi esiti deleteri.

CAPITOLO 4. LO STATUS DEI PARLAMENTARI

1) UNA SERIE DI GARANZIE A TUTELA DELLA FUNZIONE PARLAMENTARE


Ai deputati e ai senatori le norme costituzionali attribuiscono una serie di poteri, competenze
e garanzie: immunità (art 68 Cost.) e indennità (art 69 Cost.). Tali previsioni sono
integrate da disposizioni di legge e soprattutto, dai regolamenti parlamentari. Questo
complesso di attribuzioni vanno intesi non come diritto del singolo (altrimenti violerebbe l’ art
3 Cost.) ma come situazioni giuridiche di natura individuale, strettamente inerenti alla
funzione parlamentare che costituiscono lo status,cioè la condizione giuridica.
Vanno intese quindi come situazioni individuali tutelate per assicurare l’indipendenza degli
organi parlamentari.
La Corte Costituzionale nella sentenza 231/1975 ha affermato che l’ indipendenza delle
Camere si articola: - nell’autonomia organizzativa e normativa spettante a ciascuna di esse
(riserva di regolamento e art 64 comma 1 Cost.); -nella loro esclusiva competenza alla
convalida dei propri membri (art 66 Cost.) -nella non responsabilità dei medesimi per i voti
dati e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni (art 68 comma 1, immunità
assoluta). L’ art. 122 ult. comma Cost. in omaggio al principio democratico rappresentativo,
estende tale immunità anche ai membri dei Consigli regionali. -Nella loro immunità relativa
(art 68 comma 2 Cost.)
Lo status di parlamentare si acquista dal momento della proclamazione, atto conclusivo del
procedimento elettorale. La proclamazione proviene o dagli uffici elettorali o,per i
subentranti (a seguito delle opzioni dei parlamentari proclamati eletti in più regioni), dalla
giunta provvisoria delle elezioni.
Nel caso dei “senatori di diritto e a vita” (ex Presidenti della Repubblica),lo status di
parlamentare si acquista automaticamente al momento stesso in cui cessano dalla carica di
Capo dello Stato. I “senatori a vita di nomina presidenziale” diventano tali dal momento
della comunicazione al Senato della loro nomina. La proclamazione,tuttavia, non garantisce
da sola l’acquisto irrevocabile dello status,che è sottoposto alla condizione risolutiva che
l’elezione non sia annullata dalla Camera di appartenenza e che da questa venga
convalidata (art 66 Cost.:spetta a ciascuna Camera giudicare i titoli di ammissione
(regolarità delle elezioni, mancanza di cause di ineleggibilità e incompatibilità) dei suoi
componenti.
Oltre che quando sia la Camera stessa ad accertare la mancanza dei requisiti per l’elezione
di un parlamentare, la cessazione della carica parlamentare avviene per fine della
legislatura o per dimissioni. Riguardo le dimissioni la decisione spetta alla camera di
appartenenza: le dimissioni di un parlamentare devono essere annunciate all’Assemblea.
Se sono dovute a cause di incompatibilità di altri incarichi col mandato parlamentare, delle
dimissioni si prende semplicemente atto senza dibattito e senza voto; se sono motivate da
ragioni diverse dall’incompatibilità (fattori eminentemente politici) devono essere accettate
dall’Assemblea con un voto esplicito (di solito per ragioni politiche o personali non vengono
accettate in prima battuta).
L'insieme di tali garanzie è periodicamente sottoposto a critica, in nome di una rigorosa
applicazione del principio di eguaglianza e per gli aspetti dello status che configurano
limitazioni al potere giudiziario.
Da una parte tali istituti mantengono molta della loro utilità nel garantire l’ autonomia ai
processi decisionali che si svolgono in Parlamento, dall'altra parte si prestano ad un uso
distorto ed eccessivo dal potere politico. Si ha la necessità di individuare un equilibrio, cioè
tra la tutela del libero funzionamento delle Assemblee parlamentari e l'applicazione dei
principi dello Stato di diritto (che possono subire deroghe solo se previste nella
Costituzione). La determinazione di questo equilibrio viene sistematicamente affidata alla
Corte Costituzionale in sede di risoluzione di conflitti di attribuzione tra giudici e Camere
relativi all'art.68 Cost. o concernenti il riconoscimento, da parte del giudice e a favore del
parlamentare-imputato, di un “legittimo impedimento” alla partecipazione al processo in
caso di concomitante svolgimento di lavori parlamentari (sent.225/2001-451/2005 sull'on.
Previti; sent.263/2003 sull'on. Matacena; sent.284/2004sull'on. Cito).

2.LE IMMUNITÀ PARLAMENTARI


2.1 le origini tra inghilterra e francia.

L'immunità è l’ insieme dei meccanismi di tutela previsti dall art 68 cost. A garanzia
dell'indipendenza e Del regolare funzionamento delle Camere di fronte agli altri poteri dello
Stato. Si tratta di veri e propri divieti rivolti agli altri poteri, soprattutto a quello giudiziario.
La prima immunità ad essere stata codificata è l’ insindacabilità (art 68 comma 1 Cost.): i
parlamentari non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei votidati
nell’esercizio delle loro funzioni (irresponsabilità).Si tratta di una garanzia sostanziale che
immunizza i parlamentari da ogni responsabilità giuridica(penale, civile, amministrativa,
disciplinare)per tutte le decisioni e per tutte le manifestazioni del pensiero che hanno avuto
luogo “nell’esercizio delle loro funzioni”. Questa tutela non viene meno con la cessazione
dello status di parlamentare.
Già nel ‘300 il Parlamento inglese, nell’affermare la propria autorità, denunciò i costumi
scandalosi della corona e della sua corte e seppe resistere alla volontà del Re di censurare
questa discussione condannandone i protagonisti.Il Re fu costretto ad annullare una
sentenza di condanna pronunciata su suo ordine e a riconoscere quindi la libertà di parola
e discussione del Parlamento.La libertà di parola fu poi iscritta nel Bill of Rights(nel 1689
dopo la cosiddetta “Gloriosa rivoluzione”)in base al quale (art.9) essa in Parlamento non
può essere ostacolata o contestata né in sede giudiziaria né in altra sede diversa da quella
parlamentare. Un secolo dopo,con la Costituzione del 1791,l’Assemblea nazionale francese
affermando la sua indipendenza dal sovrano, sancì in aggiunta una garanzia di tipo
procedurale:l’inviolabilità della persona di ciascun deputato senza il consenso della camera
di appartenenza. Si tratta del divieto di perseguire, arrestare o detenere un deputato senza
l’autorizzazione dell’Assemblea stessa.Il parlamentare può essere arrestato in caso di
flagranza o in forza di un mandato di cattura,ma ne sarà dato immediato avviso al corpo
legislativo e l’azione giudiziaria potrà essere continuata solo dopo che il corpo legislativo
avrà deciso che vi è luogo all’accusa(art 7-8 Cost. 1791).
Il modello francese fu seguito dallo Statuto Albertino: si prevedeva sia insindacabilità che
inviolabilità(art. 51 insindacabilità / artt.45-46 nessun deputato può essere arrestato, fuori
del caso di flagrante delitto, né tradotto in giudizio senza il previo consenso delle Camere).
Dopo lo svuotamento delle prerogative parlamentari realizzato dal fascismo,la Costituente
ripristinò,con alcune varianti,la disciplina statuaria sia relativamente all'insindacabilità sia
riguardo all'inviolabilità(inclusa la c.d. “autorizzazione a procedere”).
Mentre l’insindacabilità ha effetto su tutti i procedimenti giurisdizionali e non viene meno con
la cessazione dello status di parlamentare ed è tendenzialmente automatica la sua
applicazione esclusivamente in relazione ad opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni
parlamentari, l’inviolabilità si applica solo nei riguardi di misure relative al processo penale
ed esclusivamente fin tanto che il parlamentare è in carica. Insindacabilità è anche
tendenzialmente automatica nell’applicazione,mentre l’inviolabilità è superabile con
un’autorizzazione da parte della camera di appartenenza,la quale può dare il “via libera”
alle misure coercitive o investigative nei confronti del parlamentare.

Il testo originario dell' art. 68 Cost.


Testo attualmente vigente(come modificato dalla legge. cost. 3/1993)“I membri del
Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e per i voti
dati nell'esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale
appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione
personale o domiciliare,né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale,o
mantenuto in detenzione,salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di
condanna,ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto
l’arresto obbligatorio in flagranza.
Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del parlamento ad
intercettazioni,in qualsiasi forma,di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza.

2.2.L’ INSINDACABILITà DELLE OPINIONI ESPRESSE NELL’ ESERCIZIO DELLE FUNZIONI


Il comma 1 dell’art 68 Cost. sancisce l’irresponsabilità dei parlamentari,il comma 2 e 3
sancisce l’inviolabilità.
Fino al 1993, era vigente l’ autorizzazione a procedere e la questione dell’estensione
dell’insindacabilità (cioè l’individuazione in concreto degli atti coperti da tale garanzia
ovvero rientranti nell’esercizio delle funzioni)non assumeva una rilevanza centrale poiché
tutte le manifestazioni di opinioni, che consistevano nel compimento di un atto tipico della
funzione parlamentare,erano coperte con il sistematico diniego dell’autorizzazione a
procedere da parte della camera di appartenenza:insindacabilità indiretta.
Fino agli anni ‘70 non ci furono tensioni significative tra i giudici e Parlamento.Poi le
questioni sorsero a fronte di iniziative del giudice civile che sfuggivano al blocco
rappresentato dal diniego di autorizzazione a procedere.
Le Camere reagirono con pronunce che davano applicazione al comma 1 dell’art 68 Cost.,
facendo valere l’insindacabilità ogni qualvolta si verificasse un semplice collegamento tra le
dichiarazioni contestate del parlamentare e quelle rese nell’esercizio della funzione
parlamentare. Queste tensioni trovarono una prima soluzione con la sentenza n. 1150/1988
della Corte Costituzionale,che chiamata a decidere un conflitto di attribuzione tra poteri,
sollevato da un giudice che riteneva ingiustamente lesa la propria sfera di competenza da un
esercizio arbitrario del potere delle Camere di dichiarare l’insindacabilità del comportamento
di un proprio componente, rivendicò a se stessa la possibilità di sottoporre a verifica il
corretto uso di tale potere parlamentare(qualora il giudice di una causa civile promossa da
una persona lesa da dichiarazioni diffamatorie di un deputato o un senatore in sede
extraparlamentare reputi che la delibera della camera di appartenenza affermante
l’irresponsabilità del proprio membro convenuto in giudizio, sia il risultato di un esercizio
illegittimo del potere di valutazione, può provocare il controllo della Corte Costituzionale
sollevando davanti a questa conflitto di attribuzione). Cadeva il principio per cui l’unico
interprete della portata della prerogativa era il Parlamento.

La scomparsa dell’autorizzazione a procedere ha indotto le Camere a sviluppare


ulteriormente,dal 1993 in poi, l’interpretazione estensiva dell’insindacabilità espressamente
riferita ad ogni forma di azione giudiziaria(mediante la sostituzione della parola “perseguiti”
con “chiamati a rispondere”). La Corte Costituzionale dopo aver rispettato le interpretazioni
fornite dalle Camere, ha nel 1998 annullato una delibera parlamentare in materia di
insindacabilità.
Ne è seguita una giurisprudenza costituzionale che precisa che l’insindacabilità si estende
solo ai comportamenti strumentali nell’esercizio delle attribuzioni parlamentari.Non basta che
vi sia,secondo la Corte,un occasionale collegamento tra il comportamento contestato al
parlamentare in giudizio e lo svolgimento del suo mandato,ma occorre un “nesso
funzionale”, ossia una sostanziale identità tra le espressioni contestate dal giudice al
deputato o senatore e la sua attività parlamentare.
Per i comportamenti tenuti fuori dalle aule parlamentari la connessione va rintracciata con
atti tipici della funzione parlamentare come un’ interrogazione o un’ interpellanza, il cui
contenuto,ad esempio,venga divulgato fuori dal Parlamento in una conferenza stampa o in
un comizio;ma anche ove tale connessione sia riscontrabile con atti atipici,(come una lettera
tra parlamentari o una proposta di interrogazione non giudicata ammissibile dal presidente di
assemblea).Non può invece, sempre secondo la Corte, essere ricondotta nella “funzione
parlamentare” tutta l’attività politica svolta dal deputato o dal senatore, anche se questa
divenga oggetto, in un momento successivo di un atto parlamentare.

Il legislatore è successivamente intervenuto per cercare di definire l’ambito di applicabilità: la


legge n. 140/2003 chiarisce che l’insindacabilità si applica “in ogni caso per la
presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e
risoluzioni, interpellanze e interrogazioni per gli interventi nelle Assemblee e negli altri
organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto, per ogni atto parlamentare,per ogni
altra attività di ispezione,divulgazione,critica e denuncia politica connessa alla funzione
parlamentare espletata anche fuori dal parlamento”.
Tuttavia, la Corte costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 120/2004, ha
escluso che la legge n. 140/2003 abbia eliminato la necessità del “nesso funzionale” fra le
opinioni espresse dal parlamentare fuori dal Parlamento, assunte come diffamatorie, e
l’esercizio delle funzioni parlamentari. Ha ribadito invece che queste rientrano
nell’insindacabilità solo se costituiscono “divulgazione e riproduzione” di attività
parlamentari.
La legge n. 140/2003 ha cristallizzato una serie di principi di ordine procedimentale, così
codificando regole non scritte che si erano andate consolidando nei rapporti tra giudici e
Parlamento quanto all’applicazione del comma 1.
Innanzi tutto la “Pregiudizialità parlamentare”: secondo l’art 3 della legge n. 140/ 2003 il
giudice, di fronte all’invocazione della prerogativa parlamentare, o ritiene il comportamento
coperto dall’insindacabilità e tale lo dichiara chiudendo il processo con rigetto della domanda
risarcitoria o con l’assoluzione oppure sospende il procedimento e attende la delibera della
Camera interessata.
La garanzia dell’insindacabilità se non applicata direttamente dal giudice, può esser fatta
valere dal deputato o senatore interessato, il quale attiva così il procedimento parlamentare.
Si tratta quindi di una “pregiudizialità impropria” giacchè la questione dell’insindacabilità si
pone solo se eccepita dall’interessato e non accolta dal giudice. Se invece il parlamentare
non volesse sollevare il problema e preferisse difendersi nel merito dei rilievi che gli fossero
mossi, il Parlamento non avrebbe titolo ad intervenire.
Sia le richieste di deliberazioni in materia di insindacabilità presentate dai magistrati sia
quelle dei parlamentari stessi sono deferite al Presidente dell’Assemblea che le riceve a un
organo che le istruisce: la giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari al Senato e la
giunta per le autorizzazioni alla Camera. La giunta deve presentare una proposta,
corredata da una relazione, all’Assemblea. Nel frattempo il procedimento dinanzi al giudice
è sospeso. La legge n. 140/2003 fissa il termine massimo di tale sospensione: 90 giorni
dalla ricezione degli atti da parte della camera, prorogabili di altri 30 giorni su richiesta della
camera. Oltre tale termine il procedimento può riprendere, ma è ancora suscettibile di
essere bloccato dall’intervento fuori termine della Camera interessata purché sentenza non
sia divenuta definitiva. Nell’elaborazione delle proposte la giunta segue un procedimento
quasi giurisdizionale, invitando il parlamentare a fornire chiarimenti ritenuti opportuni.
È poi il plenum della Camera o del Senato a decidere sulle richieste presentate dall’autorità
giudiziaria o sottoposte dai parlamentari. L’ Assemblea può anche rovesciare le indicazioni
della giunta.
Nel maggio 1993 (dopo il diniego dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi) le
giunte per il regolamento stabilirono che le votazioni delle autorizzazioni al procedimento
avessero luogo a scrutinio palese, non dovendosi più considerare come votazioni
riguardanti persone, ma espressione di una prerogativa dell’organo parlamentare
nell’ambito del rapporto con altri organi dello Stato.

2.3. INVIOLABILITA, SALVO AUTORIZZAZIONIE AL PROVVEDIMENTO(all’arresto e alle


intercettazioni telefoniche)
Cancellata nel 1993 la necessità dell’autorizzazione alle indagini e all’esercizio dell’azione
penale nei confronti dei parlamentari,resta tuttavia imprescindibile la necessità di
autorizzazione della Camera di appartenenza per arrestare il parlamentare (salvo che si
tratti di eseguire una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero qualora il parlamentare sia
colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto come obbligatorio l’arresto in
flagranza) e per compiere alcuni atti rilevanti della precedente fase di indagine e di
acquisizione delle prove, invasivi della sfera della libertà personale dei parlamentari: quindi,
perquisizioni domiciliari e personali e, a partire dal 1993, sequestro di corrispondenza e ogni
altra forma di intercettazione di conversazioni o comunicazioni.
La regola generale che le Camere devono seguire, per evitare che la prerogativa si trasformi
in privilegio,è che la concessione dell’autorizzazione all’arresto o alla privazione in qualsiasi
altra forma della libertà personale del parlamentare sia negata solo in via eccezionale,per
evitare una indebita interferenza del potere giudiziario sul legislativo,il cui pericolo emerga in
ragione di una volontà persecutoria, cosiddetto fumus persecutionis, negli intenti che
muovono l’azione dell’autorità giudiziaria: fumus che si ritiene non sussistente nel caso
dell’arresto in flagranza e nelle ipotesi di condanna definitiva.
Si distingue tra fumus soggettivo per le modalità e i tempi dell’esercizio dell’azione penale e
fumus oggettivo per l’evidente infondatezza dell’azione stessa. Al criterio del fumus
persecutionis si aggiunge la considerazione di un ulteriore interesse che attiene
strettamente alla funzionalità e all’indipendenza delle istituzioni parlamentari: l’ interesse a
che non venga alterata l’integrità della composizione delle Camere, come risultante dal voto
dei cittadini. Lo scrutinio parlamentare deve essere in tal caso più rigoroso, venendo in ballo
sia l’integrità numerica, sia la composizione politica dell’Assemblea.
Nella prassi, le Camere hanno finora autorizzato l’arresto di parlamentari non condannati in
via definitiva solo in 4 casi (tra la 1° e 4° legislatore) per deputati inquisiti per gravi fatti di
sangue, istigazione ai reati di terrorismo o di detenzione di armi, nelle ultime legislature,
invece vi sono stati solo dinieghi all’arresto.

Il problema più scottante ora è quello delle intercettazioni telefoniche: sin dall’entrata
dell’art 68 Cost. si osservò che le intercettazioni (ma lo stesso dovrebbe dirsi per le
perquisizioni domiciliari, che proprio nella sorpresa trovano una condizione essenziale perla
loro riuscita) non avrebbero potuto più essere efficacemente utilizzate dai magistrati
inquirenti, i quali quindi avrebbero dovuto rinunciare a una serie di strumenti per istruire
l’accusa nei confronti dei parlamentari. E in effetti avrebbe poco senso chiedere
l’autorizzazione preventiva ad una Camera per sottoporre ad intercettazione un’utenza
telefonica intestata ad un parlamentare:una volta richiesta( e data la pubblicità dell’iniziativa
ex art 64 cost),è evidente che l’interessato si guarderà bene dall’impiegare ulteriormente
qull’utenza.
Tuttavia, proprio la delicatezza di questo strumento investigativo giustifica la scelta del
legislatore costituzionale del ’93 a garanzia della funzione parlamentare, volta a impedire
che “l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa essere finalizzato
ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e
pressioni sulla libera esplicazione dell’attività parlamentare” (intercettazioni indirette).

La legge n. 140 /2003 ha previsto che l’obbligo di richiedere l’autorizzazione sussiste anche:
- Per acquisizione di tabulati di comunicazioni che si riferiscono a utenze intestate al
parlamentare
- Per utilizzo delle cosiddette “intercettazioni indirette” (riguardanti cioè le comunicazioni
del parlamentare, ma effettuate su utenze diverse da quelle a lui intestate). In questo caso
l’autorizzazione non può essere preventiva. Spetta quindi al giudice per le indagini
preliminari decidere della rilevanza o meno dei verbali e delle registrazioni alle quali hanno
preso parte membri del Parlamento : disponendone la distruzione, ove ritenuti irrilevanti o,
in caso contrario, richiedendo, entro i 10 giorni successivi, “l’autorizzazione della Camera
alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le
conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate”.

3) L’ INDENNITA’ PARLAMENTARE, LA DIARIA E IL DOVERE DI PARTECIPARE ALLE


SEDUTE
Art 69 Cost. “I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge.”
A tutela dell’indipendenza dei parlamentari, per consentire a tutti i cittadini l’accesso al
mandato parlamentare e permettere l’esercizio di tale mandato, senza condizionamenti
economici, l’art 69 Cost. prevede che deputati e senatori abbiano diritto a percepire
un’indennità stabilita dalla legge. Pare un vero e proprio diritto soggettivo del singolo
parlamentare.
Secondo la legge n. 1261/1965 ai parlamentari spetta un’indennità costituita da quote
mensili, una vera e propria retribuzione del lavoro parlamentare, determinata dagli uffici di
presidenza delle Camere in misura tale da non superare lo stipendio mensile dei magistrati
con funzione di presidenti di sezione della Corte di cassazione, unitamente ad una “diaria”
corrisposta a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma e determinata sempre dagli
uffici di presidenza (sulla base di 15 giorni di presenza al mese e in misura non superiore
all’indennità giornaliera prevista per i magistrati cassazione).
Lo statuto Albertino prevedeva la gratuità dell’attività parlamentare, la diaria era l’unica via
per garantire una retribuzione ai parlamentari. Secondo molti la diaria è fonte di confusione
e problemi dato che l’ammontare sia dell’indennità (secondo i limiti cui si è accennato), sia
della “diaria” non è definito dalla legge, dal momento che questa rinvia a decisioni degli
uffici di presidenza delle due Assemblee, limitandosi a stabilire una serie di criteri.
Per la sua funzione, tuttavia, quella di garantire l’indipendenza dei parlamentari, l’indennità
è indisponibile, né può essere soggetta a sequestro o pignoramento.
Oggetto di polemica è anche il trattamento fiscale dell’indennità: un tempo era esente
totalmente dalle tasse, esenzione gradualmente ridotta fino a scomparire nel 1994. Secondo
la Corte il vitalizio è una forma di trattamento di tipo pensionistico, e l’indennità non è
diversa da una forma di retribuzione, perciò sono ingiusti trattamenti fiscali di favore.
( peraltro le camere hanno abolito l’istituto del vitalizio in quanto tale,sostituendolo con un
ordinario trattamento previdenziale,cui deputati e senatori contribuiscono con trattenute
sull’indennità nel corso del mandato. Nella 12 Legislatura vanno ricordate le delibere con cui
il 7 maggio 2015 i due uffici di Presidenza hanno previsto il venir meno della corresponsione
del vitalizio per gli ex parlamentari condannati in via definitiva per una serie di reati,ritenuti di
particolare gravità,ad eccezione di quelli per i quali sia stata accolta l’eventuale istanza di
riabilitazione.)

Recentemente le Camere hanno introdotto un sistema di decurtazione della diaria sulla base
della mancata partecipazione alle votazioni. Questa decurtazione della diaria si riconnette,
sul piano giuridico, al dovere che grava su ogni parlamentare, di partecipare ai lavori delle
Camere (dovere riconosciuto dai regolamenti recentemente nel 1988 con art 1 r. S, e 1997
art 48 bis r. C). Proprio perché quella di parlamentare consiste, nelle Camere
contemporanee, in una funzione assai impegnativa e retribuita, si spiega la disciplina
specificamente rivolta ai lavoratori che siano stati eletti deputati o senatori (o anche
componenti di altri organi elettivi). Infatti la Costituzione all’ art 51 comma 3 stabilisce che
chi è chiamato a funzioni elettive ha il diritto di disporre del tempo necessario al loro
adempimento e di conservare, durante tale mandato, il suo posto di lavoro. In particolare i
parlamentari dipendenti pubblici sono collocati in aspettativa d’ufficio per tutta la durata del
mandato, conservano quindi il lavoro senza percepire la retribuzione. Secondo l’ art 98
Cost., per evitare che il parlamentare si avvantaggi della propria posizione per migliorare il
suo status, essi non possono conseguire promozioni se non per anzianità.Quanto ai
lavoratori del settore privato, se eletti parlamentari non devono ma possono essere collocati
in aspettativa, a richiesta, per la durata del mandato. La ragione di questa differenza sta
nel fatto che non sussistono le condizioni per una possibile interferenza sull’andamento
dell’amministrazione.
Tuttavia man mano che la disciplina del lavoro pubblico si è andata avvicinando a quella del
lavoro privato, questa differenza appare poco giustificabile, se non in nome di una generica
esigenza di non rinunciare alla presenza in parlamento di professionisti, tanto più che non
sono pochi i casi in cui i lavoratori privati possono incorrere in potenziali conflitti di interessi.

4) L’ ANAGRAFE PATRIMONIALE E LE SPESE ELETTORALI. LE PREROGATIVE


COSIDDETTE “MINORI”
Oltre all’indennità, che è un diritto, il parlamentare può essere destinatario anche di
ulteriori finanziamenti, rigidamente disciplinati. Mentre sono vietati i finanziamenti o i
contributi ai parlamentari (e ai candidati) provenienti da organi della pubblica
amministrazione o enti pubblici o società da questi controllate, devono essere dichiarati al
Presidente della Camera i contributi ricevuti da privati se superiori a una certa entità (oggi
50 mila euro).
Sempre al fine della moralizzazione della vita politica, la Legge n. 441/1982 prevede che,
entro tre mesi dalla proclamazione, ogni parlamentare è tenuto a depositare agli uffici di
ciascuna Camera una dichiarazione sulla propria situazione patrimoniale, sulle spese
elettorali sostenute, nonché copia dell’ultima dichiarazione dei redditi.Le dichiarazioni
possono essere conosciute dai cittadini che lo vogliano, recandosi presso i competenti uffici
delle due Camere. Nel caso di violazione di norme in materia di spese elettorali la legge
prevede addirittura la sanzione della decadenza del mandato.
Disposizioni legislative sparse nell’ordinamento riconoscono anche alcune facoltà e diritti ai
parlamentari, qualificati come “prerogative minori” (se ne ha una completa rassegna nel
codice dello status del parlamentare): accesso senza necessità di autorizzazione alle
carceri, alle strutture militari e alle caserme; attribuzione del passaporto di servizio; dispensa
dall’ufficio del giudice popolare.
Vi sono poi benefici come l’uso gratuito dei treni e delle autostrade nazionali e dei voli
nazionali entro certi massimali. Nonché altri servizi a disposizione dell’amministrazione
della Camera di appartenenza (cittadella: palazzo Montecitorio e Madama); rimborsi spese
di trasporto, indennità per spese d’ufficio e per lo stipendio dell’assistente parlamentare
(portaborse). Tra le prerogative si differenziano quindi i “poteri di visita” (art 67) cioè relativi
al libero mandato parlamentare, e le facilitazioni di tipoeconomico (art 69, oggi in
diminuzione).
CAPITOLO 5) I PARLAMENTARI E LA RAPPRESENTANZA POLITICA

1.LA RAPPRESENTANZA DEI PARLAMENTI.

(Art 67 Cost. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato.”Art 48 Cost. “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e
donne che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed uguale, libero e
segreto. Il suo esercizio è dovere civico.”Art 58 Cost. “I senatori sono eletti a suffragio
universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età.”Art 51
Cost. “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle
cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.”Art 65
Cost. “La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato
o senatore.”)

La caratteristica essenziale dei parlamenti è l’essere rappresentativi: ciò fonda la


legittimazione delle loro decisioni la centralità degli stessi nei sistemi politici. Solo perché
dotato di una funzione costituzionale di rappresentanza generale della società nello Stato, di
rappresentanza dunque politica, relativa non a singoli o a parti, ma alla comunità nazionale
(art. 67 Cost.), il Parlamento, a maggioranza, può adottare deliberazioni che si presume
rappresentino la volontà dei cittadini. Il canale della rappresentanza politica è lo strumento
essenziale che garantisce al popolo l’esercizio della sovranità(art 1 cost.).

Sono le elezioni a suffragio universale diretto della Camera e Senato ogni 5 anni lo
strumento che garantisce questa legittimazione del Parlamento e quindi del sistema
istituzionale. Le elezioni hanno una funzione di legittimazione e al contempo di espressione
delle opinioni e degli interessi; garantiscono il ricambio dei governanti e permettono un
controllo dei rappresentati sui rappresentanti e quindi dei cittadini sulle strutture dello Stato.
La materia elettorale è oggetto di prescrizioni costituzionali soprattutto per elettorato attivo e
passivo. L’art 48 Cost. fissa le condizioni dell’elettorato attivo precisando che sono elettori
tutti i cittadini, uomini e donne che hanno raggiunto la maggiore età. Ma il successivo art.
58 Cost. specifica che gli elettori per il Senato sono solo i cittadini che hanno superato il
venticinquesimo anno di età. Il voto di ciascun cittadino, il cui esercizio è un dovere civico,
è sempre, secondo l’art. 48 Cost., personale,uguale, libero e segreto.
L’art. 51 Cost. stabilisce il principio per cui tutti i cittadini, dell’uno e dell’altro sesso, possono
accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, rinviando però alla legge la
fissazione dei relativi requisiti (con la revisione del 2003 la Repubblica si impegna a
promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini). L’ Art 65
Cost. riserva alla legge la determinazione dei casi di ineleggibilità e incompatibilità con
ufficio di deputato e senatore.
Art 56 Cost. “La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto.
Il numero dei deputati è di 630. Sono eleggibili a deputati tutti coloro che nel giorno delle
elezioni hanno compiuto i 25 anni di età.”

Art. 57 Cost. “Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale.


Il numero dei senatori elettivi è di 315. Nessuna Regione può avere un numero di senatori
inferiori a sette; il Molise ne ha due, la Valle d’ Aosta uno.
Art 58 Cost. “I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno
superato il venticinquesimo anni di età. Sono eleggibili a senatori gli elettori che hanno
compiuto il quarantesimo anno.”
Gli artt. 56-57-58 Cost. ribadiscono che le due Camere sono elette a suffragio universale
diretto. Il numero dei deputati è 630, quello dei senatori 315, cui si aggiungono i 5 senatori
a vita nominati dal Presidente della Repubblica e quelli di diritto (gli ex Presidenti della
Repubblica). Sono eleggibili alla Camera i cittadini che abbiano compiuto 25 anni, al
Senato quelli che abbiano compiuto 40 anni.
La Costituzione disciplina poi il modo con cui sono ripartiti i seggi: proporzionalmente alla
popolazione di ogni regione al Senato che è eletto a base regionale (nessuna regione può
avere meno di 7 senatori), per la Camera si parla invece di circoscrizioni,che possono avere
estensione coincidente con quella delle regioni o essere di dimensione subregionale.
Le leggi cost. n. 1/ 2000 e n. 1/2001 hanno istituito la “circoscrizione estero” per cui gli
italiani residenti all’estero eleggono, votando per corrispondenza, 12 deputati e 6 senatori
suddivisi in 4 ripartizioni (Europa, America settentrionale e centrale, America meridionalee
resto del mondo: Africa, Asia, Oceania e Antartide).

2) I SISTEMI ELETTORALI DI CAMERA E SENATO (poco chiaro ved libro)


2.1. DAL SISTEMA PROPORZIONALE A QUELLO PREVALENTEMENTE MAGGIORITARIO
La Costituzione tace su quello che è ritenuto il cuore della materia elettorale, ossia il
sistema elettorale in senso proprio: il meccanismo di traduzione dei voti in seggi. La scelta
del sistema elettorale è rimessa al legislatore ordinario statale (art 117 Cost.) con la sola
garanzia di escludere questa materia da quelle esaminabili con il procedimento semplificato
e meno garantistico delle cosiddette commissioni in sede legislativa o deliberante. La
materia non è invece fra quelle per cui l’ art 75 Cost. esclude il referendum abrogativo e
così all’inizio degli anni ’90 la legislazione elettorale che adottava per entrambe le Camere
sistemi proporzionali fu oggetto di due referendum abrogativi nel 1991 e nel 1993: il primo
comportò il passaggio alla Camera dalla preferenza multipla (se ne potevano esprimere fino
a 5 nelle circoscrizioni più ampie) alla preferenza unica (indicazione del nome del
candidato). Il secondo trasformò il sistema elettorale del Senato in un sistema maggioritario
di collegio con recupero proporzionale (relativo a ¼ di seggi). La spinta del referendum
portò a una completa revisione delle leggi elettorali di entrambi i rami del parlamento: con la
legge n. 276/ 1993 e la legge n. 277/1993. Col sistema elettorale proporzionale vigente fino
al 1993 le coalizioni di governo si formavano dopo le elezioni mentre a partire dal ’94 vi è
progressiva affermazione di un confronto elettorale bipolare.

Il vecchio sistema elettorale per la camera previsto dalla legge n. 277/1993 (applicato nel
1994, 1996 e 2001) stabiliva la possibilità di espressione di due voti su due schede
separate: il primo valido per l’assegnazione del 75% dei seggi in collegi uninominali con
formula maggioritaria relativa (“plurality”, il candidato con maggioranza dei voti viene eletto),
il secondo per il restante 25% dei seggi ripartiti proporzionalmente tra le liste che avessero
conseguito almeno il 4% dei voti a livello nazionale.
Un collegamento tra le due schede era dato dal cosiddetto “scorporo”: al riparto dei seggi
proporzionali, infatti, le liste concorrevano non con tutti i voti ottenuti, ma scorporando,
cioè sottraendo da questi una parte dei voti ottenuti nei collegi uninominali dai candidati
vincenti collegati alle liste medesime (i voti necessari per aggiudicarsi il collegio, ossia
quelli del candidato risultato secondo più uno).

IL VECCHIO SISTEMA ELETTORALE DEL SENATO (disciplinato dal testo unico del d. lgs.
n. 533/1993) prevedeva l’espressione di un solo voto che serviva, sia per assegnazione del
75% dei seggi in collegi uninominali con sistema plurality, sia per il restante 25% (metodo
D’Hondt). Quest’ultima avveniva proporzionalmente ai gruppi di candidati uninominali
perdenti a livello regionale (presentatisi nei collegi della regione con il medesimo
contrassegno e non risultati eletti con il meccanismo maggioritario. Anche in questo caso
ivoti ottenuti dai candidati eletti nei collegi non concorrevano a determinare il riparto del 25
% dei seggi proporzionali: al Senato lo scorporo era totale (sottraendosi ai fini
dell’attribuzione dei seggi proporzionali tutti i voti ottenuti dai candidati vincitori nei collegi),
mentre alla Camera era parziale.

La normativa del 1993 (Legge Mattarella) è stata modificata con la legge n. 270/2005 con
il solo accordo delle forze che componevano la maggioranza di governo seguendo un
procedimento parlamentare di approvazione e oggetto di contestazioni. Con la legge n.
270/2005 si è passati da un sistema misto,maggioritario con recupero proporzionale a un
sistema anch’esso misto, proporzionale con premio di maggioranza. Questa volta, però,
l’impianto è tipicamente proporzionale (con liste bloccate e soglie di sbarramento di entità
variabile), cui si aggiunge un premio di maggioranza eventuale (ove nessuna lista o
coalizione consegua la quota del 55% dei seggi) e di consistenza variabile (idonea a
portare la lista o la coalizione a raggiungere tale quota), assegnato alla Camera su base
nazionale e al Senato su base regionale.
Più in dettaglio, tutti i seggi, sia alla Camera che al Senato, sono assegnati con un sistema
proporzionale (applicando il metodo del quoziente naturale e dei più alti resti). Ma vi è una
fondamentale correzione, nella distribuzione dei seggi, determinata dal premio di
maggioranza. Alla Camera il premio va alla coalizione o alla lista che abbia ottenuto, a
livello nazionale, il maggior numero di voti: esso assicura allo schieramento vincente 340
seggi (seggi che sono sottratti alle altre liste o coalizioni perdenti, tra le quali vengono divisi
proporzionalmente 277 seggi). Il premio di maggioranza scatta solo se la coalizione
vincente non è riuscita ad ottenere in modo naturale almeno 340 seggi. Per avere maggiori
chance di ottenere il premio i partiti sono così “costretti” ad aggregarsi in coalizioni
preelettorali.
Nella logica della nuova legge elettorale le coalizioni si costruiscono attorno ad un progetto
di governo e una leadership comune con l’obiettivo della conquista del premio di
maggioranza.

Alla Camera, stabilito quale coalizione ha vinto, si procede, in un secondo momento, alla
ripartizione proporzionale dei seggi tra le liste all’interno delle coalizioni. Non hanno diritto a
seggi le coalizioni che non abbiano ottenuto almeno il 10% dei voti e le liste singole con
meno del 4% dei voti (soglia di sbarramento). Restano esclusi il seggio assegnato al
candidato vincente nel collegio uninominale della Val d’Aosta e i 12 seggi previsti per
l’estero, eletti con metodo proporzionale tra liste di concorrenti e con voto di preferenza.
I seggi assegnati a ciascuna coalizione sono ripartiti tra le liste che ne fanno parte, salvo
quelle che non abbiano ottenuto il 2% dei voti. Così ripartiti i seggi tra le variecoalizioni, e al
loro interno tra le varie liste, si procede, alla distribuzione di questi seggi tra le 26
circoscrizioni in cui è diviso il territorio nazionale (art 56 Cost.). Gli eletti sono individuati
sulla base dell’ordine in cui sono collocati nelle rispettive liste, si parla perciò di liste
bloccate. Non essendovi limiti alla possibilità di candidarsi nelle varie circoscrizioni i
candidati che risultano eletti in più circoscrizioni dovranno esercitare l’opzione per una
circoscrizione entro 8 giorni dalla data dell’ultima proclamazione.

Il sistema del Senato differisce da quello della Camera perché la ripartizione dei seggi
avviene tutta a livello regionale: non vi è perciò un premio di maggioranza nazionale, ma
tanti premi regionali, in tutte le regioni tranne Molise, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta.
Le soglie di sbarramento sono più alte: il 20% per le coalizioni (purché all’interno della
coalizione vi sia una lista abbia raggiunto il 3%) e l’8% per le liste che si siano presentate
singolarmente, al di fuori delle coalizioni. Alla coalizione o alla singola lista che abbia
ottenuto il maggior numero di voti nella regione, viene attribuito, se non lo ha già raggiunto
naturalmente, il 55% dei seggi in palio in quella regione.
La combinazione di 17 premi regionali rende non improbabile la formazione al Senato di
una maggioranza diversa da quella della Camera. Sulla formazione della maggioranza che
dovrà dare la fiducia al Governo può divenire quindi essenziale il ruolo dei sei senatori eletti
nella circoscrizione Estero e dei senatori a vita.

3. LA VERIFICA DELLE ELEZIONI


Art 66 Cost. “ Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle
cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità.”
Secondo la Costituzione, il Parlamento stesso è giudice della correttezza del procedimento
elettorale.Sono le due Camere a giudicare (art 66 Cost.) sui titoli di ammissione dei propri
componenti e sulle cause di ineleggibilità e incompatibilità, determinate dalla legge o
direttamente dalla Costituzione.
La Costituente rimase fedele a un modello classico: sottrasse così alle magistrature
un’importante zona di giurisdizione,lasciando le camere sovrane nella verifica dei “titoli di
ammissione” degli eletti.
A proclamare eletti i parlamentari sono gli uffici elettorali. Per la camera è l’ufficio elettorale
centrale nazionale presso la Cassazione,nel caso in cui i medesimi candidati risultino eletti
in più circoscrizioni,a individuare e permettere agli uffici circoscrizionali di proclamare eletti i
candidati subentranti sulla base dei criteri della nuova legge elettorale.

Al Senato invece è la giunta provvisoria a individuare candidati cui attribuire seggi resisi
vacanti a seguito delle proclamazioni di senatori eletti in più regioni ed è il Presidente
provvisorio del Senato a proclamare i candidati “subentranti”.
Con la proclamazione il parlamentare acquista lo status, ma è un acquisto temporaneo e
reversibile. La proclamazione infatti è oggetto del giudizio di convalida previsto dall’ art. 66
Cost.
La procedura di verifica che porta a questo giudizio è affidata nelle due Camere ad un
organo, la giunta delle elezioni, composta da 30 membri alla Camera e 23 al Senato, scelti
dal Presidente (su indicazioni non formalizzate dei gruppi) e per prassi consolidata
presieduta da esponenti dell’opposizione. Queste giunte, raccolto il materiale documentale
dagli uffici elettorali, ricevuti gli eventuali ricorsi, predispongono relazioni circoscrizione per
circoscrizione. La funzione di relatore è affidata a ciascun componente della giunta purché
non eletto nella medesima circoscrizione (criterio automatico).
Su iniziativa dei relatori la giunta può decidere di proporre all’aula la convalida delle elezioni
o aprire un’ istruttoria: decisione quest’ultima che può prendere d’ufficio o stimolata da
ricorsi. Così la giunta, o meglio un comitato costituito al suo interno, procede a verificare le
schede: le bianche, le nulle e le valide, a campione o se necessario a tappeto.
Tutte queste attività sono compiute alla Camera in contraddittorio con le parti interessate,
mentre il Senato segue un modello inquisitorio che considera il contraddittorio come
meramente eventuale.
A conclusione dell’istruttoria la giunta può proporre la convalida o la contestazione
dell’elezione. In quest’ultimo caso si sviluppa una procedura quasi dibattimentale: si svolge
una vera e propria udienza pubblica(ove le parti possono farsi assistere da un avvocato), al
termine della quale, in camera di consiglio la giunta decide proponendo convalida o
l’annullamento dell’elezione contestata. La decisione passa poi all’ Assemblea che può
sovranamente rovesciare,la proposta argomentata dalla giunta , senza la possibilità di alcun
rimedio giurisdizionale.
Fino al 1992 l’annullamento portava alla proclamazione di un parlamentare dello stesso
partito del candidato, dal 1992 al 2006 porta la proclamazione di un parlamentare dello
schieramento avverso. Oggi l’esistenza di liste bloccate riduce il contenzioso tra candidati.
Dal 1992 il regolamento del Senato prevede che sulle proposte della giunta l’Assemblea non
proceda a votazioni,intendendosi approvate le conclusioni della giunta stessa.
Alla camera dal 1990 questa procedura di silenzio-assenso si segue qualora una proposta
della giunta discenda dal risultato di accertamenti meramente numerici, in tal caso, 20
deputati possono chiedere di rinviare la questione alla giunta per ulteriori verifiche. (al
senato 20 senatori possono presentare conclusioni difformi da quelle della giunta).
L’aula stessa resta pertanto sovrana nel decidere se annullare o meno un’elezione, ma con
obbligo di fornire una qualche motivazione ove si discosti dalle indicazioni della giunta.

4) L’ ACCERTAMENTO DELLE CAUSE DI INELEGGIBILITA’ E DI INCOMPATIBILITA’


Un procedimento analogo segue l’accertamento delle cause di ineleggibilità e
incompatibilità. Attraverso legge generale possono essere introdotte condizioni restrittive
all’eleggibilità,per garantire che il voto si svolga senza condizionamenti(art 48 cost) e
nell’eguaglianza effettiva tra i competitori.
- Le cause di ineleggibilità sono raccolte nel testo unico n. 361/1957 e possono essere
ricomprese in 5 gruppi:
1. Titolarità di alcune cariche elettive (presidenti di provincia, sindaci di comuni con più di
20.000 abitanti)
2. Titolarità di determinati uffici (magistrati, prefetti, diplomatici, capi di gabinetto dei
ministeri, direttori generali delle ASL)
3. Titolarità di particolari rapporti economici con lo Stato
4. Titolarità di rapporti di impiego con governi esteri
5. L’essere giudici costituzionali (e più di recente, componenti di autorità di vigilanza)

Per potersi candidare i titolari di cariche elettive e di uffici pubblici per i quali è prevista
ineleggibilità devono abbandonare la carica almeno 180 giorni prima della fine della
legislatura, o nel caso di scioglimento anticipato, entro i 7 giorni successivi alla
pubblicazione del relativo decreto.
Quest’ultima possibilità è negata dal 1997, ai magistrati che intendono candidarsi nelle
circoscrizioni sottoposte alla giurisdizione degli uffici cui sono assegnati (unico caso di
ineleggibilità assoluta giustificato dal legislatore, per tutelare imparzialità
dell’amministrazione della giustizia).
Alcuni funzionari statali se eletti possono collocarsi in aspettativa, mentre i sindaci dei
comuni più popolosi e i presidenti delle giunte provinciali devono abbandonare la carica
prima delle elezioni.
È ingiustamente oneroso un naturale cursus honorum quando in gran parte degli stati il ceto
politico nazionale trova nella classe di governo locale il primo ed essenziale canale di
alimentazione.
Sin dalla prima legislatura repubblicana,le Camere avevano adottato un’interpretazione della
normativa secondo la quale la carica che determina l’ineleggibilità,nel caso in cui venisse
assunta successivamente all’elezione parlamentare,comportava(soltanto) l’ incompatibilità.
Anche per porre rimedio a una giurisprudenza parlamentare che,rovesciando questo
consolidato orientamento,aveva consentito a parlamentari in carica di divenire sindaci di
comuni con più di 20.000 abitanti e Presidenti delle giunte provinciali ,il legislatore ha
introdotto una generale incompatibilità tra il mandato parlamentare e qualsiasi altra carica
pubblica elettiva di natura monocratica relativa a organi di governo di enti pubblici territoriali
aventi popolazione superiore a 15.000 abitanti. Si è cosi superata una irragionevole disparità
,uscendone rafforzato il principio del divieto del cumulo di mandati.

Sono storicamente datate anche le disposizioni che prevedono ineleggibilità di chi ha


rapporti economici con lo Stato, qui il criterio seguito è quello formale del rapporto con lo
Stato: la pura “fornitura statale”. E così non può candidarsi chi è legato con lo Stato da
rapporti d’affare anche di modesta entità, mentre la via è aperta a chi controlla società titolari
di importanti concessioni che lo pongono in condizioni di incidere sulla formazione del
consenso elettorale.

Come ha ricordato la Corte costituzionale “l’eleggibilità è la regola,l’ineleggibilità


l’eccezione”. Ciò dovrebbe indurre,oltre che a un’interpretazione restrittiva ,anche a una
riconsiderazione complessiva delle cause di ineleggibilità,limitandone l’ambito a quanto
strettamente necessario per garantire condizioni di correttezza della competizione elettorale
e l’eguaglianza tra i competitori;ma al tempo stesso ponendo in essere una strumentazione
procedurale idonea a far sì che siano effettivamente rispettate. Proprio per questo fine è
stata introdotta un’organica disciplina,il decreto legislativo n 235 del 2012: c.d. legge
severino,in materia di incandidabilità. L’incandidabilità preclude la possibilità di esercitare il
diritto di elettorato passivo. Il citato decreto ha esteso la disciplina dell’incandidabilità ai
parlamentari e sancito che (oltre che ai membri del governo e componenti italiani del
parlamento europeo) e sancito che non possa candidarsi alla Camera e al Senato e che non
possa comunque ricoprire la carica di parlamentare: chi sia stato condannato a una pena
detentiva superiore a 2 anni per una serie di delitti a carattere associativo;o per delitti aventi
finalità di terrorismo;per tutta una serie di delitti contro la pa;nonché per tutti i delitti non
colposi(consumati o tentati) per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a 4 anni. Resta poi ferma l’incandidabilità dei condannati per tutti i delitti che
importano la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
L’accertamento di queste condizioni d’incandidabilità è svolto dall’ufficio centrale
circoscrizionale per la camera e dall’ufficio elettorale regionale per il senato sulla base di
un’autocertificazione presentata dai candidati.
Gli uffici elettorali possono comunque accertare d’ufficio l’incandidabilità. Contro le decisioni
che eliminano dalle liste i candidati in candidabili si puo ricorrere all’ufficio centrale
nazionale.
Qualora le condizioni di incandidabilità sopravvengano o siano comunque accertate nel
corso del mandato parlamentare,si entra nella sfera di applicazione della disciplina dell’art
66 cost. spetta dunque alle camere,con le ordinarie procedure di verifica dei poteri,accertare
la presenza di condizioni di incandidabilità.
La questione più controversa è stata quella dell’applicazione o meno delle norme
sull’incandidabilità a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della disciplina stessa. La
corte costituzionale si è occupata della questione,ma solo con riferimento agli eletti locali.
Con sent. 236/2015 e 276/2016 ha respinto le questioni di costituzionalità,rilevando che
l’incandidabilità non è una sanzione penale;dunque non vale la garanzia dell’irretroattività.
Se cosi è, l’incandidabilità può ben applicarsi anche a vicende antecedenti l’entrata in vigore
di questa nuova disciplina.
La questione è stata sottoposta anche alla corte EDU,cui si è rivolto Silvio Berlusconi colpito
dalla misura dell’incandidabilità per frode fiscale.

La Costituzione prevede anche alcune ipotesi di Incompatibilità per il parlamentare: mira


cioè ad impedire il cumulo del mandato parlamentare con altro incarico per evitare che
questo possa pregiudicare il corretto e libero esercizio della funzione parlamentare (art 67
Cost.) e il buon andamento dell’amministrazione (art 97 Cost.). Non si può essere
contemporaneamente: - deputato e senatore-Parlamentare e giudice costituzionale,
membro del CSM o consigliere regionale-Parlamentare e Presidente della Repubblica
(ufficio quest’ultimo incompatibile con ogni carica)
Le leggi prevedono molti altri casi di incompatibilità con:- Cariche di nomina governativa,
cariche in enti o associazioni che garantiscono servizi in concessione o ai quali lo stato
contribuisce in via ordinaria, cariche direttive in istituti bancari o società finanziarie.-
Mandato di parlamentare europeo- Consigliere del CNEL - Cariche di autorità di garanzia e
molte altre … Mentre il giudizio sulle cause di ineleggibilità rientra nella verifica dei poteri, e
dunque si svolge contestualmente alla convalida di cui costituisce un aspetto, il giudizio
sulla compatibilità degli incarichi dei parlamentari presuppone che la convalida sia già
avvenuta.I parlamentari hanno l’obbligo, strumentale a entrambi i giudizi, di comunicare ai
Presidenti dell’ Assemblea gli incarichi ricoperti. Sulla base di questa documentazione,
appositi comitati permanenti delle 2 giunte, svolgono un istruttoria in contraddittorio con
l’interessato. Se emerge un’ incompatibilità il parlamentare deve optare tra il mandato di
parlamentare e l’incarico incompatibile . Se sceglie il suo incarico, le dimissioni sono
annunciate in aula senza voto. Qualora non vi sia l’opzione, la giunta propone
all’Assemblea di dichiarare la decadenza del parlamentare e ad esso subentra il primo dei
non eletti.

5) I GRUPPI PARLAMENTARI
5.1. LA COSTITUZIONE DEI GRUPPI (ORDINARI E AUTORIZZATI)

L’esito delle elezioni rispecchia la composizione delle due Camere. Il primo atto con cui si
apre la legislatura è l’elezione dei presidenti della Camere e Senato che, a partire dal XII
legislatura (1994-1996), avviene tra esponenti della coalizione di maggioranza e con i voti
solo di questa. Il risultato politico delle elezioni è più chiaramente leggibile nei giorni
successivi con la costituzione dei gruppi parlamentari: proiezione in Parlamento
dell’articolazione del sistema politico (partiti, movimenti politici …). Entro due giorni dalla
prima seduta i deputati (entro tre giorni per i senatori) devono dichiarare di quale gruppo
vogliono far parte. È questa un’articolazione prevista come necessaria dai regolamenti delle
due Camere. I parlamentari che non scelgono un gruppo sono infatti d’ufficio assegnati a
un gruppo residuale: il gruppo misto. Vi è una sola eccezione e riguarda i senatori a vita,i
quali possono non entrare a far parte di alcun gruppo in virtù della autonomia della loro
legittimazione.
Per formare un gruppo parlamentare servono 20 deputati e 10 senatori (ai sensi degli
artt.14 R.C. e R.S. non è richiesta affinità politica tra i componenti). Questa soglia numerica
può essere ridotta (al Senato, sempreché non si scenda al di sotto dei 5) solo se si realizza
una condizione politica: che il gruppo sia effettivamente proiezione di un partito organizzato
nel Paese che abbia ottenuto un certo numero di eletti. In tal caso è possibile la formazione
di gruppi in “deroga” o “autorizzati”, possibilità che l’ufficio di presidenza deve autorizzare.

Il criterio politico-elettorale per la formazione dei gruppi è dunque solo residuale ed


eventuale rispetto a quello numerico.

5.2. IL GRUPPO MISTO E LE SUE COMPONENTI POLITICHE


Nella impossibilità di ricorrere tra,1993 e 2005, alla formazione di gruppi in deroga,la spinta
ad una frammentazione organizzativa capace di rappresentare il maggior numero dipartiti si
è manifestata con la proliferazione di gruppi ordinari (anche al di là dei simboli presenti sulla
scheda elettorale) e mediante la creazione di componenti politiche all’interno del gruppo
misto.
Nella XIII legislatura (1996-2001) si dovette affrontare un problema di ordine pratico, ossia
l’ esplosione del gruppo misto. Questo oltre ad essere sede dei parlamentari che non
raggiungevano la soglia numerica per la creazione di un gruppo, divenne anche la sede, di
transito o di destinazione finale, dei parlamentari che per ragioni personali o a seguito di
movimenti interni alla propria formazione politica, abbandonavano il gruppo di originaria
appartenenza.
Alla Camera divenne il 3° gruppo in ordine numerico, sfiorando quota 100 deputati :
ovviamente con i più variegati orientamenti politici, originando quindi problemi di
governabilità all’interno.

Nell’autunno del 1997, proprio alla Camera, si escogitò la soluzione di consentire a


determinate condizioni la formazione di “quasi gruppi”, ossia delle componenti politiche del
gruppo misto. La disciplina delle componenti politiche del gruppo misto (contenuta nell’art
14 bis comma 5 del R.C.) è modellata su quella per la formazione dei gruppi: se si
raggiunge una soglia numerica (pari a 10 deputati), la componente si può costituire
comunque, senza altro requisito. Se si è invece al di sotto di questa (purchè non si scenda
sotto i 3) occorre che la componente rappresenti un partito o un movimento politico, la cui
esistenza alla data delle elezioni risulti da “elementi certi e in equivoci” e che sia presentato
alle elezioni anche congiuntamente con altri. Una sola componente politica può essere
costituita in rappresentanza delle minoranze linguistiche.
Tale disciplina si completa poi con alcuni principi volti:
- a regolare la vita interna del gruppo misto, in modo da assicurare che gli organi e le
deliberazioni assunte da questi tengano “proporzionalmente conto della consistenza
numerica delle componenti politiche in esso costituite
- per l’assegnazione al gruppo delle attrezzature e risorse finanziarie
- all’attribuzione alle componenti di gran parte dei poteri spettanti ai gruppi come il diritto di
intervenire nella discussione e della possibilità di essere invitate alla conferenza dei
capigruppo, ma solo “ove la straordinaria importanza della questione lo richieda” e
comunque senza il potere di votare sulle questioni relative alla programmazione dei lavori.

Il regolamento del Senato menziona invece le componenti politiche in un unico articolo


(art156 bis introdotto nel 1988 per le interpellanze politiche) ma per il resto non le ha
“codificate”, anzi la giunta per il regolamento del Senato in un parere del 2004 ha
specificato che al di fuori dell’ art 156, il regolamento del Senato non conosce la figura delle
componenti politiche del gruppo misto. In Senato anche un singolo senatore appartenente
al gruppo misto può darsi un’ “etichetta politica”, che ha un qualche rilievo esterno, pur
senza che ciò gli dia diritto a prerogative di altro genere (avvicinandosi al fenomeno del
monogruppo). E’ dibattuto in dottrina se l’introduzione delle componenti politiche del gruppo
misto sia da leggersi come tentativo di adeguare la disciplina dei gruppi ad un
funzionamento delle Camere di tipo maggioritario o di porre rimedio al suo mancato
adeguamento alla legge elettorale maggioritaria o se invece vadano viste come un’ulteriore
manifestazione della spinta alla frammentazione politica e parlamentare.
Fenomeno del trasformismo parlamentare. Per la soglia numerica da raggiungere alcune
volte i gruppi sono nati prima dei partiti (es. Inghilterra).

5.3. LE FUNZIONI DEI GRUPPI PARLAMENTARI.

All’interno dell’ordinamento parlamentare la suddivisione dei parlamentari in gruppi è


funzionale a esigenze organizzative.
Consente di disporre di un metro per comporre in modo proporzionalmente rappresentativo
gli organi delle Camere, innanzitutto le commissioni permanenti e d’inchiesta.
Serve inoltre per attribuire alcuni poteri procedurali, in genere in alternativa ad un certo
numero di parlamentari. Alla Camera, per evitare che questi poteri fossero esercitati in
modo ostruzionistico dai presidenti dei gruppi autorizzati, si è previsto il criterio ponderale: si
è espressamente richiesto che i presidenti dei gruppi che esercitano il potere in questione
siano a capo di gruppi di consistenza numerica tale da raggiungere, separatamente o
congiuntamente, la soglia di deputati necessari per esercitare quel potere.
Il regolamento del Senato tende invece ad attribuire tali poteri solo ad un certo numero di
senatori, ma esistono anche poteri attribuiti in esclusiva ai presidenti dei gruppi (come
quello di presentare interpellanze di gruppo).
I presidenti dei gruppi,riuniti dal Presidente d’Assemblea e sotto la presidenza di
quest’ultimo, formano la conferenza dei presidenti di gruppi: l’ organo di direzione politica di
ciascuna Camera che definisce il programma e il calendario dei lavori, ossia quali siano gli
argomenti da discutere e con quali tempi e priorità. Un organo solo sommariamente
disciplinato dal regolamento della Camera, e in modo indiretto da quello del Senato, che
svolge funzioni politiche anche tipiche e crescenti, costituendo oggi il vero baricentro delle
due Camere.
Ai gruppi l’amministrazione e il bilancio delle Camere assicurano la disponibilità di locali e
attrezzature e il versamento periodico di contributi. Per il regolamento della Camera nel
distribuire queste risorse bisogna “tener presente le esigenze di base comuni a ciascun
gruppo e la consistenza numerica dei gruppi stessi”.
Il regolamento del Senato si limita a richiedere che i contributi siano differenziati in relazione
alla consistenza numerica dei gruppi stessi.
Presso i gruppi possono essere distaccati o comandati dipendenti pubblici o privati.
Particolari contributi sono erogati a favore degli editori di quotidiani e periodici se organi o
giornali di un gruppo parlamentare. Si aggiungono i contributi per i deputati e senatori del
gruppo.
Il funzionamento dei gruppi è disciplinato da statuti e regolamenti interni ai quali il
regolamento del Senato richiede di stabilire “procedure e forme di partecipazione che
consentano ai singoli senatori di esprimere i loro orientamenti e presentare proposte sulle
materie comprese nel programma dei lavori o comunque all’ordine del giorno”.
La disciplina di gruppo è un vincolo a cui volontariamente il parlamentare si sottopone,
senza alcuna violazione dell’art. 67 Cost., Il parlamentare è libero di votare secondo gli
indirizzi che gli vengono dall’esterno, compreso il proprio gruppo parlamentare, ma è anche
libero di sottrarvisi. Lo stesso gruppo può dare, in alcune materie, libertà di voto. Ma
generalmente i parlamentari seguono le indicazioni dei gruppi. Il che permette
un’organizzazione politica dei dibattiti nei quali al momento della votazione prende parola un
oratore per gruppo, che quindi esprime la volontà del gruppo politico nel suo complesso. Il
tempo disponibile è ripartito, dividendolo non per i parlamentari ma per gruppo, tenendo
conto della loro consistenza numerica: sarà poi ciascun gruppo a decidere chi, quando e
per quanto tempo far intervenire tra i parlamentari che ne fanno parte.
I regolamenti, nel rispetto dello spirito dell’art. 67 Cost., assicurano tuttavia spazi ai
dissenzienti. Viene così tutelata la libertà del mandato del singolo parlamentare, che al di là
dell’organizzazione partitica di cui i gruppi sono espressione, è la garanzia ultima
dell’apertura del Parlamento al pluralismo culturale e sociale, della sua piena capacità di
rappresentanza.

CAPITOLO 6)L'ORGANIZZAZIONE DEL PARLAMENTO.


1) IL BICAMERALISMO
Alla pluralità di funzioni del Parlamento corrisponde una struttura complessa e articolata. E’
l’esigenza di inserire un elemento equilibratore, di limite, a motivare l’assetto bicamerale del
Parlamento. La scelta a favore del bicameralismo prevalse nell’ Assemblea Costituente sin
dall’inizio dei suoi lavori (1946) rimanendo minoritaria l’opzione del monocameralismo
sostenuta da socialisti e comunisti.
Si affermò la scelta per un bicameralismo paritario nell’attribuzioni sancito nella Costituzione
agli art 55 ( “Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica”), art 70 ( “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
Camere”) e art 94 (“Il Governo deve avere la fiducia nelle due Camere).
Questi aprirono il dibattito che si articolò su 3 orientamenti:
- Intento di arricchire con altri elementi la rappresentanza parlamentare prevedendo una
Camera rappresentativa anche degli interessi e delle categorie professionali
- il secondo volto a fare del Senato la “Camera delle regioni”
- il terzo Si contrappone agli altri: diretto a garantire la sostanziale omogeneità delle due
Camere (unica condizione perché i monocameralisti accettassero le due Camere).
Il risultato fu un compromesso che ha inserito nella Costituzione solo pochi elementi di
differenziazione tra le due Camere:
1) In primo luogo, la diversa disciplina nell’elettorato attivo e passivo (età). È un elemento
che nella storia connota le Camere alte, deputate alla riflessione che giustifica la maggiore
anzianità degli eletti e pure quella degli elettori.
2) In secondo luogo, il minor numero di componenti nella seconda camera (630 alla Camera
dei deputati, 315 al Senato), che è anch’esso un elemento comune delle seconde Camere.
Come pure il numero minimo di senatori assegnato a ciascuna regione: 7 (tranne per il
Molise e la Val d’Aosta che ne hanno rispettivamente 2 e 1), il quale determina una
disomogeneità rappresentativa a favore delle regioni meno popolate.
3) Mentre la Camera è tutta elettiva fanno parte del Senato anche alcuni membri vitalizi: i
senatori a vita. Sono senatori di diritto a vita coloro che hanno ricoperto la carica di
Presidente della Repubblica. Lo stesso Presidente può inoltre nominare senatori a vita 5
cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico,
artistico e letterario (prassi presidenziale si è orientata verso la scelta di personaggi politici)
5 senatori in tutto. Interpretazione ristretta seguita però solo dai presidenti Pertini e Cossiga.

Infine, seppur parzialmente, i sistemi elettorali sono diversi: la Costituzione prevede che “Il
Senato è eletto a base regionale”. Questa previsione è sempre stata interpretata dal
legislatore come volta a escludere modalità di assegnazione di seggi sulla base del risultato
nazionale, ritenendosi in genere che i seggi del Senato debbano essere sempre assegnati
regione per regione (altrimenti i voti espressi in una regione risulterebbero utili all’elezione di
un senatore in una regione differente). Questo vincolo costituzionale ha impedito di
prevedere anche per il Senato un premio di maggioranza su base nazionale. Ne è risultata
la scelta del legislatore di assegnare al Senato premi di coalizione regione per regione:
elemento che rende possibile l’esito non coerente della competizione elettorale per le due
assemblee ponendo in questione quella stabilità del Governo che il premio di maggioranza
intende invece garantire.
Ragioni di efficienza e stabilità dell’esecutivo hanno portato a eliminare la differenza più
incisiva originariamente prevista nel testo costituzionale: la diversa durata, 5 anni per la
Camera e 6 per il Senato.
I caratteri distintivi delle due Camere, come si è visto, sembrano costituire oggi elementi
capaci di produrre più disfunzionalità che equilibrio e integrazione della rappresentanza
(come invece auspicato dai costituenti), rischiando di compromettere la stabilità stessa del
Governo e l’efficienza di molti aspetti del sistema parlamentare.
Il dibattito sul bicameralismo è sempre aperto, si è annunciata una riforma con la legge n.
11/2001, e in attesa si prevede l’integrazione con rappresentanti delle regioni e degli enti
locali nella commissione per le questioni regionali.

2) IL PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE E LE COMMISSIONIBICAMERALI

La Costituzione affida alle due Camere riunite in un unico organo, il Parlamento in seduta
comune,una serie di funzioni:
- L’elezione e il giuramento del Presidente della Repubblica, con l’ integrazione dei
rappresentanti delle Regioni (art 83 e 91 Cost.)
- La sua messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla Costituzione (art90
Cost.)
- L’ elezione di 1/3 dei giudici della Corte Costituzionale (art 135 Cost.) e del Consiglio
Superiore della Magistratura (art 104 Cost.)
- L’elezione della lista dei cittadini da cui sono sorteggiabili i giudici da aggregare a quelli
della Corte Costituzionale per i giudizi d’accusa contro il Presidente della Repubblica.(art
135 cost).
È un elenco definitivo, tassativo di funzioni che esercitano solo quando è necessario.
Quest’organo ha un presidente precostituito: il presidente della Camera e si utilizza per il
suo funzionamento “normalmente” il regolamento della Camera (art 35 R.C), salva la
facoltà delle Camere riunite di “stabilire norme diverse” (art 65 Cost.).
Da questo elemento molti deducono il carattere di “collegio perfetto” essendo dotato di una
piena capacità di discutere oltre che di deliberare.

(Art 126 cost: “con decreto motivato del Presidente della Repubblica sono disposti lo
scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta, che abbiano
compiuto atti contrati alla Costituzione, gravi violazione di legge o per ragioni di sicurezza
nazionale. Il decreto è adottato sentita una Commissione di deputati e senatori costituita,
per le questioni regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica”).

La Costituzione, all’ art 126, prevede espressamente una sola commissione bicamerale: la
commissione “di deputati e senatori” per le questioni regionali, cui affida una funzione
consultiva nel procedimento di scioglimento dei consigli regionali. Oltre questa attribuzione
costituzionale, la commissione, composta da 20 deputati e 20 senatori, è titolare di altre
funzioni consultive: sia nei confronti del Governo, sia nel procedimento legislativo
esprimendo il proprio parere obbligatorio, ma non vincolante, alle commissioni permanenti
competenti su disegni di legge che riguardano le attribuzioni delle regioni.

Un altro organismo bicamerale è previsto da una fonte costituzionale (legge cost. 1/1989).Si
tratta del comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa. Esso è l’organo che istruisce la
messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. Questo organo risulta dalla
giustapposizione dei due collegi parlamentari competenti per le autorizzazioni a procedere
(la giunta del Senato e quella della Camera).
Questi due organi costituiscono il modello per un vero e proprio sistema di commissioni
bicamerali, sorte per decisione del legislatore, allo scopo di svolgere funzioni di indirizzo,
controllo e vigilanza che il Parlamento esercita così attraverso organi che si collocano in una
dimensione comune, riunendosi in una sede,(a palazzo San Macuto), anche fisicamente
ubicato a metà strada tra palazzo Madama e palazzo Montecitorio.
Il legislatore, dove non vincolato dalle prescrizioni costituzionali, ha sviluppato i poteri del
Parlamento utilizzando prevalentemente lo strumento della commissione bicamerale.

Oltre le due commissioni previste dalla Costituzione e dalla legge costituzionale e le


commissioni d’inchiesta,vi sono commissioni bicamerali di indirizzo, dotate anche di poteri
idonei ad incidere sull’amministrazione degli enti vigilati. Oggi l’unica di indirizzo in senso
proprio è quella sui servizi radiotelevisivi (che ha peraltro soprattutto funzioni di vigilanza).
Molte sono invece le commissioni bicamerali con funzioni di controllo: dal comitato
parlamentare per la sicurezza della repubblica, presieduto dal un presidente eletto tra i
parlamentari di opposizione, al comitato parlamentare di controllo su Europol, alla
commissione di vigilanza sull’anagrafe tributaria.
Vi sono poi commissioni dell’antica tradizione o di più recente istituzione che non sono
commissioni parlamentari in senso proprio, poiché non composte solo da deputati e
senatori, ma anche da soggetti esterni, per lo più di designazione governativa (commissioni
“miste”): commissione di vigilanza sulla circolazione dei biglietti di banca, sull’istituto di
emissione, ecc. commissioni più recenti ad esempio quelle sull’accesso ai documenti
amministrativi ( non parlamentari in senso proprio dato che sono composte anche da
soggetti esterni).

Alle bicamerali si possono assimilare, per la collocazione dell’ordinamento parlamentare, le


delegazioni delle Camere presso organismi europei e internazionali (es. assemblea della
NATO, del Consiglio d’Europa, ecc). I due regolamenti e la prassi poi hanno sviluppato una
rete di sedi di lavoro comune, che superano funzionalmente la divisione bicamerale, laddove
possibile, nella fase preparatoria e istruttoria di procedimenti che si concludono comunque
con decisioni distinte delle due Camere.
Le prospettive di una maggiore integrazione tra Camera e Senato sono molte.L’unico limite
è quello del momento deliberativo, decisionale, che la Costituzione assegna a ciascuna
Camera separatamente.

3) LE COMMISSIONI PERMANENTI
L’evoluzione del Parlamento, con l’aumento delle sue funzioni ha un riflesso organizzativo.
In Italia attraverso l’articolazione interna di ciascuna Camera in una serie di collegi minori: le
commissioni, che consentono di esercitare efficacemente l’insieme delle sue funzioni, in
primo luogo quella legislativa, svolgendo un effettivo ruolo decisionale.
L’articolazione in gruppi (riflesso parlamentare del sistema dei partiti politici) ha portato
all’organizzazione di commissioni specializzate per materia, e conseguentemente
permanenti, alle quali sono assegnati, secondo l’indicazione dei gruppi e
proporzionalmente alla loro consistenza, tutti i parlamentari (con la sola eccezione del
Presidente di Assemblea). La loro costituzione che avviene con la convocazione dei
presidenti di ciascuna camera è uno dei primi atti della legislatura e ha luogo
successivamente alla formazione del Governo: ciascuna commissione rappresenta
l’interfaccia parlamentare di uno o più dicasteri.
In particolare l’elezioni dei presidenti di commissione è legata agli equilibri politici della
formazione di gabinetto: sia nel senso che questi sono spesso eletti tra coloro che
aspiravano ad incarichi governativi ma non li hanno ottenuti,sia nel senso che si cerca di
evitare che tali soggetti appartengano alla stessa forza politica del ministro che devono
“controllare”.
Ogni parlamentare è chiamato a far parte di una commissione permanente. Anche i
membri del Governo (ministri e sottosegretari),i quali per la durata del loro ufficio, sono
sostituiti, nell’attività della commissione, da un collega dello stesso gruppo. Quest’ultimo
quindi farà parte di più commissioni, in deroga alla regola generale che ciascun
parlamentare può essere membro di una sola commissione (art 19 R.C e art 21 R.S). La
regola subisce poi un ulteriore e rilevante eccezione al Senato, ove 10 senatori possono
costituire un gruppo a pieno titolo: i gruppi più piccoli, la cui consistenza sia inferiore al
numero delle commissioni, possono designare uno stesso senatore in più commissioni, così
da garantire la rappresentanza dei gruppi in tutte le commissioni permanenti.
Il principio della rappresentanza proporzionale dei gruppi nelle commissioni, un principio
sancito dalla Costit.(art 72 comma 3 ) per le sole commissioni con poteri deliberanti e
d’inchiesta, è applicato dai regolamenti in via tendenzialmente generale.

Salvo poteri correttivi dei Presidenti d’Assemblea spetta ai gruppi designare i propri
rappresentati in commissione. Un potere che si ripropone dopo 2 anni di legislatura quando
la composizione della commissione viene rinnovata e, ogni giorno con la possibilità di
sostituire i propri membri in commissione per la seduta o per il provvedimento. La
sostituzione è lo strumento che garantisce il controllo politico dei gruppi sulla composizione
e quindi sui lavori delle commissioni ed è utilizzata per sanare le assenze di parlamentari.
L’articolazione delle loro competenze materiali consente di coprire, attraverso di esse,
l’intero spettro delle questioni che le Camere possono essere chiamate ad affrontare.
Funzioni delle commissioni:
- Le commissioni svolgono funzioni preparatorie rispetto all’attività dell’Assemblea. Nel
procedimento legislativo istruiscono, per disposizione costituzionale, i progetti di
legge,elaborando il testo sul quale poi l’aula discute e delibera.
- Hanno anche il potere di definire automaticamente la volontà delle Camere cui
appartengono: il procedimento legislativo può svolgersi tutto secondo i limiti e le garanzie
fissate dall’art 72 Cost., nelle commissioni parlamentari permanenti in sede deliberante.
- Le commissioni possono formulare atti di indirizzo al Governo nelle materie di loro
competenza, approvando risoluzioni e in esse possono essere svolte le interrogazioni.
- Alle commissioni è affidata una funzione consultiva “interna” mediante pareri indirizzati alle
altre commissioni. Ciò in primo luogo qualora una materia investa le competenze di una
pluralità di commissioni. In questo caso o viene fissata dai Presidenti la competenza
prevalente in una sola commissione, invitandosi le altre a svolgere una funzione consultiva
attraverso pareri; oppure si sceglie la via dell’ assegnazione del progetto di legge alle
commissioni riunite (comporta una serie di inconvenienti pratici per l’ ampiezza del
collegio).
In secondo luogo è anche utilizzata per garantire la tutela di interessi trasversali di cui
bisogna tenere conto per l’attività legislativa. È questa la ratio dell’intervento obbligatorio
consultivo delle commissioni “filtro”: la affari costituzionali, la bilancio, ma anche quella per
le politiche dell’Unione Europea.
- Il legislatore ha poi previsto, con notevole frequenza, un’ attività consultiva “esterna” delle
commissioni: sugli atti normativi del Governo, sugli atti preparatori della normativa su UE,
sulle nomine fatte dal Governo.
Le commissioni parlamentari (permanenti) sono dunque centri nevralgici dell’attività
parlamentare, ciascuna secondo la propria competenza per materia, che corrisponde
sostanzialmente ai vari settori dell’ amministrazione pubblica.
È una ripartizione non perfettamente corrispondente nei due rami del Parlamento:es. il
pubblico impiego trattato alla Camera dalla la commissione lavoro, rientra nel Senato tra le
competenze della commissione affari costituzionali. Comunque garantisce una
specializzazione dell’attività parlamentare.

Il carattere negativo che li si contestava era l’estensione della legislazione di carattere


minuto: le “leggine” approvate in sede legislativa o deliberante dalle commissioni, spesso
sotto la spinta dei gruppi ma anche per azione delle amministrazioni pubbliche del settore.
Problema risolto con la svolta in senso maggioritario del sistema politico e con il
rafforzamento del ruolo delle commissioni con competenze trasversali.
I lavori della commissione permanente sono diretti da un presidente di commissione, eletto
fra i suoi componenti a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta salvo il ricorso al
ballottaggio, il quale svolge un ruolo essenziale, spesso predominante soprattutto, nella
definizione dell’ordine del giorno. Il presidente di commissione introduce l’esame o nomina
un relatore per ogni provvedimento e prende parte attivamente alle discussioni,
partecipando, di solito alle votazioni che si svolgono in commissione (differenza con il
presidente d’Assemblea).
Ai presidenti sono riconosciute indennità per il maggior impegno richiesto; dovrebbero poi
essere consultati per la programmazione dei lavori dell’Assemblea.
La presidenza di commissione (ruolo politico) è stata per anni condizione per ascendere a
cariche di governo ed è stato un ufficio attribuito ai parlamentari di grande prestigio che
abbiano ricoperto funzioni di Governo. Dal prestigio e dall’esperienza discende la minore o
maggiore incidenza sul sistema politico.

Ogni commissione ha un ufficio di presidenza, cui spetta, integrato dai rappresentanti dei
gruppi (ossia dai capigruppo di ciascuna commissione), definire la programmazione dei
lavori della commissione. A sua volta, la commissione si può articolare in comitati
permanenti (come i comitati pareri a cui è affidata l’attività consultiva, al Senato:
sottocommissioni) o temporanei , comitati ristretti costituiti in genere per la redazione di un
testo unificato. Le attività di queste articolazioni sono prive di pubblicità (alla camera si dà
conto solo dell’orario di inizio e fine dei lavori). La pubblicità è assicurata, seppur non in
modo corrispondente a quello dell’Assemblea, ai lavori della commissione in attuazione del
Costituzione. Gli strumenti pubblicitari sono tanto più intensi quanto più la commissione si
sostituisce all’aula : nel caso di sede legislativa o deliberante è previsto un resoconto
stenografico dei lavori nonché l’ utilizzo di strumenti audiovisivi e nei casi più rilevanti anche
con i canali satellitari (di cui oggi le due Assemblee dispongono), altrimenti la forma della
pubblicità e quella del resoconto sommario.

4) LE COMMISSIONI SPECIALI
La scelta organizzativa di adottare un sistema fondato su commissioni permanenti (per
materia) rende residuale lo strumento delle commissioni speciali. Non era però questa una
scelta scontata, a riguardo l’art 72 Cost. afferma che “il procedimento può essere deferito a
commissioni anche permanenti...”. sembrando quasi preferire l’uso di commissioni non
permanenti. E così la formazione di commissioni speciali avviene raramente come per
esempio ad inizio legislatura quando si deve valutare la conversione di decreti-legge
pendenti (intervallo tra costituzione delle Camere e delle commissioni) o nel caso di disegni
di legge di grande importanza che investano la competenza di più commissioni.
Il mandato di queste è definito nell’atto istitutivo e può, sia essere limitato all’esame di
disegni di legge individuati e assegnati alla commissione speciale per una funzione
referente,sia essere esteso o limitato alle altre funzioni proprie delle commissioni: consultive
e di indirizzo.
Non è una commissione speciale, ma per certi versi è assimilabile alle commissioni speciali
“ la commissione di indagine sull’onorabilità dei deputati e senatori” (art 88R.S e 58 R.C).
Il parlamentare che si ritiene offeso dal collega può ricorrere a un organi interno: la giurì
d’onore, il cui obiettivo è sostanzialmente quello di mettere pace tra i contendenti. Dopo
l’indagine emette un giudizio su cui valuta la Camera, senza voto. Si tratta di un
contrappeso all’insindacabilità che copre le opinioni espresse dai parlamentari nelle sedi di
Camera e Senato. I poteri di esso sono limitati: le sue conclusioni sono sempre discutibili e
la finalità dell’istituto non può che essere quella di un rasserenamento degli animi e di una
riappacificazione.

5)LE GIUNTE
Le giunte sono organi il cui insediamento è previsto tra i primi adempimenti delle Camere
appena formate. Si distinguono dalle commissioni per il loro essere organi con una
proiezione tutta interna al lavoro delle due Camere, oltre che per una composizione più
ristretta di quella delle commissioni,e per avere componenti, anziché designati dai gruppi
parlamentari,nominati dal Presidente (previa consultazione dei gruppi)

- La giunta per il regolamento è composta da 10 o più membri nominati, secondo i criteri di


proporzionalità tra i gruppi,e dal Presidente d’Assemblea che la presiede. Ad essa spetta
promuovere ed esaminare le proposte di modifica del regolamento parlamentare,proposte
che dopo essere state istruite dalla giunta,sono discusse dall’Assemblea della Camera (o
del Senato) e da questa approvate a maggioranza assoluta dei componenti, come prescritto
dall’art 64 Cost.
La giunta per il regolamento ha anche funzioni consultive su ogni questione di rilievo
concernente l’ interpretazione del regolamento.I suoi pareri costituiscono veri e propri
precedenti.
- La giunta delle elezioni è l’organo che alla Camera (al Senato c’è un'unica giunta
competente per elezioni e immunità) svolge l’attività istruttoria per la “verifica dei poteri”
affidata dall’ art 66 Cost. a ciascuna Camera, che consiste nel controllo sulla regolarità
delle operazioni elettorali e sull’accertamento di eventuali situazioni di ineleggibilità o
incompatibilità.
La giunta,composta di parlamentari nominati dal Presidente della Camera per l’intera
legislatura, e perciò non sostituibili dai gruppi, opera secondo un proprio regolamento,il
quale per i procedimenti che si svolgono dinnanzi alla giunta delinea forme procedurali
garantite, quasi giurisdizionali. L’attività della giunta è un’ attività solo preparatoria di
decisioni (annullamento elezioni ecc),che possono essere rovesciate dall’ Assemblea, salvo
che non si tratti del risultato di accertamenti numerici, in tal caso la proposta della giunta
s’intende approvata, a meno che prima della conclusione discussione 20 deputati non
chiedano con ordine del giorno motivato che si proceda ad ulteriori verifiche.

- La giunta per le autorizzazioni è,alla camera,l’organo competente a valutare se un dato


comportamento del parlamentare rientra tra quelli coperti da insindacabilità,a valutare se
debbano essere accolte le richieste provenienti dall’autorità giudiziaria per esecuzione di
provvedimenti in capo a un parlamentare nonché le richieste di autorizzazione a procedere
nel caso di reati ministeriali, di reati cioè compiuti da ministri-deputati, nell’esercizio delle loro
funzioni (art 96 Cost.).
La giunta per le autorizzazioni è composta da 21 deputati (il corrispondente organo al
Senato da 23 senatori) nominati dal Presidente della Camera e deve entro 30 giorni dal
momento in cui è stata investita della questione presentare una proposta, corredata da una
relazione,all’Assemblea. Nell’elaborazione delle proprie proposte la giunta segue un
procedimento quasi giurisdizionale:invita il parlamentare a fornire chiarimenti assistito dal
difensore.
6) IL PRESIDENTE D’ ASSEMBLEA
Come per qualsiasi organo collegiale, anche nelle due Camere il Presidente è l’organo cui
spetta regolare i lavori, dirigere e moderare le discussioni. Per assicurargli prestigio e ampia
legittimazione, i regolamenti vigenti prevedono che sul nome del Presidente converga un
consenso il più ampio possibile. Per l’elezione del Presidente è perciò necessaria,alla
camera: nel1° scrutinio,la maggioranza costituzionale di 2/3 dei componenti alla Camera,(al
Senato basta invece la maggioranza assoluta).
- Al 2° scrutinio : alla Camera i 2/3 dei voti dei presenti, al Senato la maggioranza assoluta
dei presenti. Dopo il 3° scrutinio è sufficiente: la maggioranza assoluta dei presenti alla
Camera, mentre al Senato si procede al ballottaggio tra i 2 più votati, prevalendo in caso di
parità, il più anziano.
Le maggioranze elevate richieste nei primi scrutini alla Camera derivano da previsioni del
1971 che hanno contribuito a costruire nella dottrina la figura del Presidente “uomo della
Costituzione”, collocato in una posizione neutrale e super partes assimilabile a quella del
Capo dello Stato. A consolidare questa raffigurazione ha contribuito la pratica dal 1976 al
1994 di eleggere Presidente della Camera un esponente del maggior partito di opposizione
(al 1° scrutinio). Dalla XII legislatura l’elezione dei Presidenti è stato invece il primo atto di
una divisione netta tra maggioranza e opposizione: nel 1994 sono stati eletti rappresentanti
della maggioranza (con votazioni sul filo del rasoio). Nelle ultime tre legislature sono stati
eletti leader riconosciuti di partiti minori della maggioranza.Durante l’ 800 (statuto Albertino)
il voto per l’elezione del Presidente era considerato un vero e proprio voto di fiducia, da cui
era fatta dipendere la sopravvivenza del Governo.
La carica di presidente della Camera doveva essere rinnovata per ogni sessione.
Il meccanismo adottato fino al 1971 dal regolamento Camera era rapido: 1) maggioranza
assoluta 2) maggioranza dei presenti 3) ballottaggio.
La convenzione di affidare la guida ad un esponente dell’opposizione era conforme
all’assetto di democrazia bloccata degli anni ‘70.

Funzioni del Presidente di Assemblea: Il Presidente regola lo svolgimento di ogni seduta,


cui partecipa senza votare. “Il presidente dà la parola, dirige e modera la discussione,
mantiene l’ordine, pone le questioni, stabilisce l’ordine delle votazioni, chiarisce il significato
del voto e ne annunzia il risultato” (art 8 R.C).
In questa attività il Presidente interpreta e applica il regolamento consultando nei casi più
complessi la giunta per il regolamento. Si tratta di decisioni inappellabili.
Alcune delle pronunce del Presidente costituiscono dei precedenti (si trasformano in fonti del
diritto integrative del regolamento).
Il Presidente tutela l’ordine dei lavori, e a tal fine,dispone di poteri disciplinari nei confronti
dei parlamentari,nei casi più gravi può irrogare sanzioni come la censura o l’esclusione
dell’aula per una o più sedute. In casi gravissimi può richiedere anche intervento della forza
pubblica.
Più in generale, il Presidente coordina l’attività di tutti i soggetti e organi che operano
all’interno di ciascuna Camera : a lui spetta assegnare i progetti di legge e ogni altro affare
alle commissioni parlamentari e alle giunte, autorizzate le stesse a compiere indagini
conoscitive, nonché risolvere eventuali conflitti di competenza tra le medesime.
In definitiva,le funzioni interne del Presidente d’Assemblea possono ricondursi a 3 categorie:
funzioni di interprete e giudice delle regole parlamentari; funzioni di garanzia dell’autonomia
parlamentare;funzioni di coordinamento e programmazione.
Ma le funzioni del Presidente non si esauriscono al’interno di ciascuna Camera: i due
Presidenti sono titolari di funzioni che incidono su alcuni snodi fondamentali della nostra
forma di governo.
La Costituzione affida al Presidente del Senato la funzione di supplenza del Capo dello
Stato nel caso di un suo impedimento e parallelamente, per mantenere un equilibrio tra le
due figure e i due rami del Parlamento, al Presidente della Camera è affidata la funzione di
Presidente del Parlamento in seduta comune.

La Costituzione prevede inoltre che entrambi i Presidenti debbano essere consultati dal
Presidente della Repubblica in caso di scioglimento delle Camere.
Da ciò si evince che come i Presidenti hanno sviluppato nel tempo anche un generale ruolo
di “primi consiglieri” del Capo dello Stato, consultati nei momenti più significativi della vita
istituzionale. Ed è proprio in considerazione del particolare ruolo di garanti del buon
andamento di ciascuna Camera e al contempo interpreti qualificati degli interessi delle
istituzioni parlamentari, che ha indotto il legislatore, tra anni ‘80 e ‘90 ad affidare ai due
Presidenti una serie di altre funzioni, anche al di fuori degli ordinamenti delle due Camere:
dalle delicatissime attribuzioni in materia di controllo sulla regolarità del finanziamento dei
partiti politici, alla nomina o designazione dei componenti o presidenti di una serie di organi,
parlamentari e non.
I Presidenti nominano infatti, con atto congiunto, i presidenti di alcune commissioni
d’inchiesta parlamentare e soprattutto i componenti degli organi esterni al parlamento.
Si tratta essenzialmente degli organi di “autogoverno” di alcune magistrature e di autorità
indipendenti (componenti della commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici
e dell’autorità garante della concorrenza e del mercato).
Dopo la fine della convenzione istauratasi nel 1976, per la quale uno dei due presidenti era
affidato a un esponente dell’opposizione, si è messo in discussione l’idea che i Presidenti
fossero i soggetti più adatti a operare nomine pubbliche caratterizzate da un alto tasso di
indipendenza. E così per le autorità indipendenti create dopo quella data sono stati previsti
sistemi di nomina diversi. Il Presidente non ha mai svolto funzione di semplice Speaker.
7) LA CONFERENZA DEI CAPIGRUPPO
Nell’esercitare le sue delicatissime funzioni in tema di programmazione dei lavori,il
Presidente di Assemblea non è solo, ma è assistito dalla conferenza dei presidenti dei
gruppi parlamentari (conferenza dei capigruppo).Questa è composta, oltre che dal
Presidente che la convoca e la presiede, da tutti i presidenti dei gruppi parlamentari. Alla
conferenza dei capigruppo della Camera possono essere invitati anche i vicepresidenti di
Assemblea,i presidenti di commissione e i presidenti delle principali componenti politiche del
gruppo misto; a quella del Senato partecipano i vicepresidenti del Senato.
In entrambe i rami del Parlamento,il Governo è parte necessaria della conferenza ed è
sempre informato dal presidente del giorno e dell’ora della riunione per mandare un proprio
rappresentante, che è in genere il ministro per i rapporti con il Parlamento.
Inoltre, il Governo è attivamente coinvolto nella fase preparatoria della programmazione dei
lavori, essendo tenuto a presentare le sue indicazioni di priorità che saranno tenute in
considerazione nel programma e nel calendario dei lavori.
Dunque il Governo è uno dei protagonisti della programmazione dei lavori. Le riunioni della
Conferenza dei capigruppo non sono pubbliche, di esse viene redatto un resoconto che
resta strettamente riservato (gli esiti delle sedute più importanti vengono comunicate in
Assemblea). Per questa riservatezza, le sue funzioni negli ultimi anni si sono ampliate
(talvolta si è sovrapposta alle attribuzioni della giunta per il regolamento) ed è stata in più
occasioni chiamata a svolgere funzioni ben diverse dalla programmazione dei lavori.
In conferenza il presidente ha modo di dimostrare le sue capacità di mediazione e influenza
politica, lungi dal limitarsi a registrare le diverse posizioni presenti sul tappeto.
Il ruolo del Presidente è esaltato anche dal fatto che difficilmente in conferenza si procede
a votazioni: spesso si decide per consensus, ossia presupponendo unanimità dei presenti.
Nei rari casi in cui si vota, o ciò si accade all’ unanimità dei presenti o vige comunque un
criterio ponderale, nel senso che il voto di ciascun capogruppo pesa in misura pari alla
consistenza del gruppo che rappresenta : il consenso dei presidenti di gruppi la cui
consistenza numerica sia complessivamente parialmeno ai ¾ dei componenti della Camera.

8) L’ UFFICIO DI PRESIDENZA
L’ufficio di presidenza (denominato consiglio di presidenza, al Senato) è l’organo a cui
essenzialmente spetta, insieme al presidente, la conduzione amministrativa della Camera.
È composto oltre che dal Presidente di Assemblea, da 4 vicepresidenti (che sostituiscono il
Presidente nella direzione dibattiti), da almeno 8 segretari (che sovrintendono alla
redazione dei verbali e assistono il Presidente nell’accertare il risultato delle votazioni) e da
3 questori.
I questori delle Camere sono i parlamentari che collegialmente e sotto la direzione del
presidente dell’ Assemblea, curano,da un lato,il buon andamento dell’amministrazione
(predisponendo bilanci, conti consuntivi) e dall’altro provvedono al mantenimento
dell’ordine nella sede di ciascuna Camera. Esercitano a tal fine veri e propri poteri di
polizia.
Vicepresidenti, questori e i primi otto segretari d’Assemblea sono eletti subito dopo elezione
del Presidente,con sistema di votazione che permette la rappresentanza delle minoranze. Il
numero dei segretari può essere incrementato senza limiti includendo anche rappresentanti
dei gruppi autorizzati.
Al Senato una riforma dell’art 5 approvata nella XIV legislatura voleva fissare a 8 il numero
dei senatori segretari, ma una riforma della XV legislatura ha fatto marcia indietro
imponendo la rappresentatività di tutti i gruppi.
L’ ufficio di presidenza, in particolare, delibera il progetto di bilancio e il rendiconto
predisposti dai questori, adotta le norme relative all’ amministrazione, alla contabilità
interna,alla carriera dei dipendenti,nomina il segretario generale che costituisce l’ organo di
vertice dell’amministrazione interna di ciascuna Camera.
L’ufficio di presidenza svolge però anche un ruolo più marcatamente connesso con l’attività
politica delle Assemblee. In particolare, autorizza la costituzione di gruppi in deroga ai
requisiti numerici previsti dal regolamento; giudica delle controversie sulla composizione
delle commissioni parlamentari; irroga le sanzioni disciplinari più gravi proposte dal
Presidente nei confronti dei singoli parlamentari.
Da ultimo per combattere l’assenteismo, ai rispettivi uffici di presidenza è stato attribuito il
potere di sanzionare le assenze ingiustificate con provvedimenti di riduzione della diaria.

9) LE STRUTTURE DI SUPPORTO E L’AUTODICHIA


Lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari è sempre stato interpretato a rigorosa
tutela dell’autonomia di ciascuna Camera rispetto al Governo, alla giurisdizione e anche
rispetto all’altra Camera. Un’autonomia non solo regolamentare, ma anche amministrativa,
contabile e giurisdizionale. Ciascuna Camera gode di autonomia, che si esprime anzitutto
sul piano normativo (nel senso che agli organi in questione compete la produzione di
apposite norme giuridiche,disciplinanti l’assetto ed il funzionamento dei loro apparati
serventi) ma non si esaurisce nella formazione e comprende infatti il momento applicativo
delle norme stesse. In attuazione di questi principi, i regolamenti di Camera e Senato
prevedono che servizi e uffici delle due Camere siano ordinati secondo norme approntate
dagli uffici di presidenza. Gli apparati di supporto sono diretti dal segretario generale che ne
risponde al Presidente.
Norme contenute nei regolamenti minori di amministrazione, definiscono anche la carriera
giuridica ed economica dei dipendenti delle Camere. Si sono così formate due burocrazie
tradizionalmente di eccellenza,cui si accede per pubblico concorso,le quali nascono e
vivono come corpi separati.
I servizi nati insieme alle due Camere sono: le biblioteche, i servizi di resoconto delle
sedute, pubblicazione atti e manutenzione palazzi.
Da allora, i compiti delle amministrazioni sono cresciuti con lo svilupparsi delle funzioni
parlamentari. E oggi il corpo dei consiglieri svolge funzioni di segreteria tecnica e
organizzativa dei vari organi parlamentari,di consulenza e documentazione.
Nelle sedute delle Camere I consiglieri parlamentari siedono sempre alla sinistra del
Presidente e, in questa veste redigono verbali e resoconti delle sedute, ne seguono lo
svolgimento; ciò dopo aver condotto tutto il lavoro di preparazione che precede la singola
seduta (lavoro di documentazione).
Sono nati anche i servizi di bilancio.

A garanzia dell’autonomia delle Camere, le due amministrazioni godono d’indipendenza


giurisdizionale: la cosiddetta giurisdizione domestica(l’AUTODICHIA), in base alla quale le
controversie tra dipendenti delle Camere e amministrazione sono sottratte alla competenza
dei giudici ordinari e amministrativi per essere affidate a meccanismi interni di tutela:
meccanismi disciplinati da appositi regolamenti che li hanno avvicinati sensibilmente alle
procedure e alle garanzie giurisdizionali, incluso il doppio grado di giurisdizione. Non si tratta
pero di un giudice speciale(e per questo le sue decisioni non possono essere oggetto di
ricorso in Cassazione per “violazione di legge”),ma di organi interni,che restano estranei
all’organizzazione della giurisdizione,pur essendo ritenuti idonei a fungere da giudici a
quibus nel giudizio di legittimità costituzionale.
Nel definire il confine e il fondamento dell’autodichia,la Corte l’ha qualificata come
“manifestazione tradizionale della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali”.
Si tratta di uno “svolgimento dell’autonomia normativa che la Costituzione riconosce
implicitamente o esplicitamente alle camere”, e dunque il razionale completamento
dell’autonomia organizzativa delle stesse “in relazione ai loro apparati serventi,la cui
gestione viene in tal modo sottratta a qualunque ingerenza esterna”.
Questo fondamento dell’autodichia(autonomia) ne rappresenta però,secondo la Corte,anche
il confine. Se è infatti consentito alle camere di disciplinare il rapporto di lavoro con i propri
dipendenti,non spetta invece loro ricorrere alla propria potestà normativa,né per disciplinare i
rapporti giuridici con sogg terzi,né per riservare agli organi di autodichia la decisione di
eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive.

Le amministrazioni delle Camere e le Camere nel loro complesso sono dotate altresì
autonomia contabile: hanno bilancio autonomo e annualmente richiedono al ministero
dell’economia l’iscrizione nel bilancio dello stato delle somme occorrenti al loro fabbisogno
annuale. Ognuna stabilisce l’ammontare della propria dotazione (somma che può
aumentare o diminuire, ciascuna Camera deve valutare le proprie priorità).

CAPITOLO 7. LE FUNZIONI DEL PARLAMENTO.

1) LA CLASSIFICAZIONE DELLE FUNZIONI PARLAMENTARI


Il Parlamento italiano è titolare di altre funzioni,oltre quella legislativa.
Per la loro identificazione non c’ è accordo tra gli studiosi: i manuali di diritto pubblico o
costituzionale raggruppano le funzioni (diverse dalla legislativa) all’interno di due e o una
categoria definita a seconda dei casi, di indirizzo, di controllo, direzione politica.
Nei testi politologici si individua un’ autonoma funzione rappresentativa (a ben vedere non è
una funzione ma è la natura stessa del Parlamento).
La più chiara e più frequentemente richiamata è la classificazione proposta da Walter
Bagehot con riferimento alla camera dei comuni inglese di metà ‘800: il Parlamento deve
eleggere un buon Governo, fare buone leggi, educare bene la nazione, farsi correttamente
interprete dei desideri della nazione, portare i problemi all’attenzione del paese (5 funzioni
non in ordine casuale).
1) Per lui la funzione principale è quella elettorale che consiste nell’ eleggere il Primo
ministro. Essa non termina al momento delle elezioni dato che ha il potere di far dimettere il
premier. (Si tratta della funzione che attiene al cuore della forma di governo
parlamentare,ossia quello che oggi si definisce come il rapporto fiduciario tra Parlamento e
Governo, e che Bagehot chiama “la stretta unione”,la fusione pressoché completa del potere
esecutivo con quello legislativo.)
2) La funzione legislativa (ma classificata per quinta nella trattazione più
analitica):Bagehot non ne disconosce l’importanza, ma nega che sia importante quanto
l’elezione dell’esecutivo.
Nella funzione legislativa ricomprende anche quella che potrebbe essere una sesta
funzione: la funzione finanziaria.
Le altre 3 funzioni si contraddistinguono perché pongono la camera dei comuni in rapporto
con opinione pubblica (con la nazione, che per Bagehot è il vero sovrano).
Queste sono: 3) La “funzione pedagogica” attraverso la quale la camera dei comuni è
chiamata a incidere e a modificare la società (deve migliorarla insegnando alla nazione ciò
che non sa). 4) La “Funzione espressiva” o di rappresentanza che consiste nell’esprimere
l’opinione dei cittadini su tutti gli argomenti che le vengono presentati. 5) La “funzione
informativa” (la ritiene la seconda in ordine di importanza): la camera dei comuni informa la
nazione su ciò che non va nel paese (evidenziando argomenti che classi dirigenti non
vogliono sentire). È la nazione che dialoga con se stessa tramite il Parlamento (la
collocazione istituzionale le consente di ascoltare se stessa).

2) LE FUNZIONI DI INDIRIZZO POLITICO, LEGISLATIVA, DI CONTROLLO, DI GARANZIA


COSTITUZIONALE E DI COORDINAMENTO
La classificazione di Bagehot oggi non può essere più riproposta, dato che il rapporto tra il
Parlamento e l’opinione pubblica si è trasformato essendo ormai condizionato dai partiti
politici e dai mezzi di comunicazione di massa. Tuttavia vanno mantenuti di essa due degli
aspetti più innovativi: la relativizzazione della funzione legislativa e la consapevolezza che
le funzioni del parlamento si devono articolare in tipologie più complesse di quelle
tradizionalmente considerate.
Sembra potersi considerare la classificazione di Andrea Manzella (2003) in 5 funzioni
parlamentari:
1- Funzione di indirizzo politico: intesa come concorso alla determinazione di grandi obiettivi
della politica nazionale e alla scelta degli strumenti per conseguirli, in specificazione
attualizzazione del programma di governo.
2- Funzione legislativa: comprensiva dei procedimenti legislativi “duali”, che vedono cioè la
compartecipazione necessaria del Governo o di altri soggetti dotati di potestà normativa.
3- Funzione di controllo: definita come verifica dell’attività di un soggetto politico in grado di
attivare una possibile reazione sanzionatoria.
4- Funzione di garanzia costituzionale, interpretata come concorso delle Camere alla
salvaguardia delle condizioni di normalità costituzionale;
5- Funzione di coordinamento delle autonomie, invero di sempre più difficile attuazione, in
un sistema che nelle sedi di raccordi a livello sia internazionale che infranazionale tendea
privilegiare il dialogo tra esecutivi.
Le prime 3 fanno riferimento al ruolo del Parlamento come organo dello Stato-persona, le
altre richiamano il ruolo di Stato-ordinamento.

3) IL PRINCIPIO DELLA POLIFUNZIONALITA’ DEI PROCEDIMENTI PARLAMENTARI


Assai variegata è la gamma di procedimenti parlamentari attraverso cui queste 5 funzioni
vengono esercitate. Essendo il Parlamento organo costituzionale al tempo stesso collegiale
e a struttura complessa, è evidente che la sua attività è fortemente procedimentalizzata, in
modo da assicurare un ruolo ai diversi oggetti in campo (vale a dire, alle articolazioni interne
delle Camere, ma anche ai soggetti politici, individuali e collettivi, che prendono parte alla
vita parlamentare). Le tipologie dei procedimenti parlamentari sono numerose, per esempio
quelli: -Organizzatori (relativi alla programmazione dei lavori in aula e commissione)
-Fiduciari (attengono alla nascita,estinzione,riconferma del rapporto fiduciario governo-
parlamento)
-Legislativi (concernono la formazione leggi)
-Conoscitivi-ispettivi (per acquisire conoscenze e informazioni)
-Di indirizzo(volti a specificare o modificare indirizzo politico).
Non sussiste un rapporto biunivoco tra funzioni e procedimenti. È frequente che attraverso
un procedimento le Camere svolgano più di una funzione: si parla di polifunzionalità (o
polivalenza) dei procedimenti parlamentari, principio che appare coerente con il carattere
politico dei soggetti che vi prendono parte e con la natura rappresentativa delle Assemblee
parlamentari.
Esempio: i procedimenti conoscitivi-ispettivi che mirano all’acquisizione di conoscenze che
possono essere utilizzate per fini legislativi,di controllo, di indirizzo ecc..; fasi del
procedimento legislativo in cui le Camere e commissione esercitano funzione di controllo
(istruttoria finanziaria, legislativa);il procedimento di approvazione legge di bilancio: segue
regole procedimento legislativo ma è anche funzione di controllo.

4) LA DECISIONE PARLAMENTARE: LE VOTAZIONI


4.1. LE REGOLE SULLE VOTAZIONI
L’esercizio di tutte le funzioni delle Camere presuppone la capacità degli organi parlamentari
di assumere una decisione. Per giungere a questa decisione, come in tutti gli organi
collegiali, occorre svolgere una o più spesso una serie di votazioni. La votazione è dunque il
procedimento attraverso cui si forma la volontà dell’Assemblea parlamentare. Ogni volta
che “decide” l’ Assemblea vota (lo stesso dicasi per le commissioni e le giunte, e gli altri
organi collegiali). Non vota solo per approvare leggi, ma in ogni procedimento parlamentare:
per organizzare lavori, concorrere all’ attività di indirizzo, mozioni, negare o concedere
autorizzazioni a procedere, disporre inchieste, modificare regolamenti, ecc.. Le regole che
la disciplinano assumono un ruolo fondamentale.

4.2. L’ORDINE DELLE VOTAZIONI


“Passiamo al voto” così il Presidente apre il procedimento di votazione,o meglio la sua fase
preliminare;chiusa la quale,sempre il presidente indìce lla votazione. Se vi è una serie di
votazioni dovrà essere chiarito l’ordine in cui si procede alle stesse.
Quella di stabilire l’ordine delle votazioni è una delle attribuzioni più delicate della
presidenza (dell’Assemblea e delle commissioni),ed è disciplinata da un complesso sistema
di regole e prassi riferite al procedimento legislativo,ma spesso applicate anche al di fuori di
esso.
Le votazioni si riferiscono ad una proposta originaria, ad un testo base. Il che permette di
fissare l’ordine delle proposte alternative che sono modifiche (emendamenti) del testo base
che contemperi tre esigenze: l’economia e la coerenza del procedimento deliberativo, la
garanzia della libertà di scelta dei parlamentari, la votazione del maggior numero di
proposte. Il contemperamento di queste esigenze motiva l’affidamento al Presidente di un
potere che mantiene elevati margini di discrezionalità.
Di ordine delle votazioni non si può parlare per un tipo particolare di votazioni: quelle
elettive (Presidente della Repubblica, 1/3 dei giudici costituzionali, Consiglio Superiore
Magistratura, ecc). Qui si sceglie tra più persone, non c’è una proposta che comporti
un’alternativa secca nella decisione,non vi è,dunque, il problema di individuare l’ordine con
cui mettere in votazione le varie proposte poiché la votazione qui non ha ad oggetto un
contenuto predeterminato.

4.3. LE DICHIARAZIONI DI VOTO


Nelle votazioni deliberative, diversamente da quelle elettive, i parlamentari possono
chiedere la parola brevemente, per una “pura e succinta” spiegazione del voto (art 50 R.C).
Questo non è un prolungamento della discussione: i regolamenti distinguono con nettezza il
momento della discussione (si esamina la proposta e si cerca di persuadere con le proprie
argomentazioni) da quello della votazione(momento della formazione della volontà
parlamentare).
La dichiarazione di voto, dunque, serve solo a rendere pubblica,negli atti dell’Assemblea,
la scelta del parlamentare. Proprio per questi motivi la dichiarazione di voto non può
protrarsi per più di 10 minuti,5 al Senato,dove è fatta da un solo senatore nome del gruppo
di appartenenza,(resta la possibilità di dichiarazioni di dissenso).
La dichiarazione del voto non è applicabile nel caso del contingentamento dei tempi: in tal
caso si può intervenire solo se il proprio gruppo ha ancora del tempo residuo o se il
Presidente decide di concedere più tempo. In alcuni parlamenti (come quello dell’UE) la
dichiarazione del voto non è ammessa, la ragione di tale scelta è discutere senza farsi
influenzare dal voto. La discussione in aula, dopo sedi ristrette, permette di svolgere
funzione arena e non solo votificio.

4.4. IL NUMERO LEGALE E LA SUA VERIFICA


(Art 64 comma 3 Cost. “Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono
valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti e se non sono adottate a
maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”.)

Perché si possa procedere al voto, vi è la necessità di un requisito,che è fissato direttamente


dalla Costituzione,all’ art 64 comma 3: “Le deliberazioni di ciascuna Camera e del
Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti”. È il
numero legale di votazione.
La Costituzione non prevede, invece, un numero legale di seduta, il numero cioè di
componenti che deve essere presente perché si possa dare inizio alla seduta. Questo è
previsto solo per le commissioni del Senato in sede deliberante e redigente, o per “affari di
cui non si deve riferire all’Assemblea”.
All’ art 64 Cost. i regolamenti di Camera e Senato hanno dato un’ attuazione tutt’altro che
rigida: innanzitutto la presenza del numero legale è generalmente presunta. La presidenza
di Assemblea la deve verificare solo se lo richiedano 20 deputati o 12 senatori.
Nelle commissioni le due Camere seguono regole assai differenti.
Al Senato vige una disciplina più rigorosa: nelle sedute relative a questioni in cui le
commissioni si esprimono in via definitiva si procede alla sottoscrizione di un registro delle
presenze in modo da constatare,all’inizio della seduta,la sussistenza del numero legale
(pari a metà +1 dei componenti); nelle sedute relative alle altre questioni si verifica cmq
d’ufficio,prima di procedere a votazioni, la presenza del numero legale (pari a 1\3 dei
componenti).
Alla Camera, al contrario, il numero legale (di regola pari a 1/5 dei componenti,salvo che in
sede legislativa e per pareri su atti del Governo, ove è pari alla metà +1 dei componenti) è
pressochè sempre presunto, salvo che in sede legislativa per la votazione finale quando si
tratti di procedere a votazioni segrete (pareri su proposte di nomina).
I regolamenti sotto un secondo profilo hanno attenuato il rigore della previsione
costituzionale. L’art 46 R.C. stabilisce che i deputati impegnati fuori sede per un incarico
alla camera, o se membri del Governo, in ragione del loro ufficio, sono computati come
presenti ai fini della determinazione del numero legale. Stesso obiettivo persegue l’art 108
R.S che sottrae dal computo i senatori assenti per missioni o in congedo.
La maggioranza dell’art 64 Cost. non è una vera e propria maggioranza assoluta, ma viene
calcolata in rapporto al numero dei soggetti che sono nella condizione effettiva,materiale di
svolgere le loro funzioni.
Qualora venga accertata l’assenza del numero legale le conseguenze sono diverse:
Alla Camera la seduta è sospesa per un ora dal Presidente, che altrimenti,se lo ritiene
opportuno può anche toglierla (art 47 R.C).
Al senato la sospensione è di 20 minuti e solo dopo 4 consecutive mancanze del numero
legale la seduta viene tolta. L’ Assemblea viene in questo caso riconvocata il giorno dopo,
con lo stesso ordine del giorno, a meno che il calendario non preveda un’ altra seduta (che
si apre comunque con ordine del giorno della seduta precedente, art 108).
Alla Camera la verifica del numero legale viene effettuata in occasione delle votazioni
nominali con sistema elettronico (la richiesta è fatta da 20 deputati ad inizio seduta).
Al Senato la verifica del numero legale va chiesta da 12 senatori presenti in aula, prima di
ogni votazione (va accertato anche che la richiesta sia appoggiata, cioè che i senatori siano
in aula). La verifica del numero legale è tutt’oggi uno dei principali strumenti ostruzionistici
in mano all’opposizione, se non altro in quanto è sostanzialmente in grado di raddoppiare i
tempi delle operazioni materiali di voto. Per evitare le assenze gli uffici di presidenza hanno
previsto forme di ritenuta sulla diaria. (il rimedio si è dimostrato efficace).

4.5. LE MODALITA’ DI VOTAZIONE: VOTO PALESE E VOTO SEGRETO


Con quale metodo si vota? In alcuni casi non c’è una vera e propria “indizione” della
votazione da parte del Presidente, ma vi sono votazioni tacite: per es. l’approvazione del
processo verbale, che, una volta letto, se nessuno chiede di parlare,risulta approvato.
(nemine contradicente,senza obiezioni).
In altri casi, è la Costituzione a dare un’ indicazione:secondo l’ art 94 Cost., ciascuna
Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata “votata per appello
nominale”. L’ appello nominale è la forma di voto più impegnativa e complessa. È un voto
palese che permette di fissare negli atti il numero e il nome dei parlamentari che votano a
favore o contro e gli astenuti. È un voto non simultaneo, non consente quindi sorprese.
Rispondendo all’appello nominale ogni parlamentare esprime il proprio voto ad alta voce
passando davanti al banco della presidenza.
Al di là di questa indicazione, la Costituzione lascia ampia libertà ai regolamenti di
disciplinare le modalità di votazione.
Si può distinguere tra: Votazioni palesi e votazioni segrete: segrete sono quelle che non
permettono di sapere se il parlamentare abbia dato un voto favorevole,contrario o si sia
astenuto. Tali sono lo scrutinio segreto e il voto per schede (cui si ricorre, in genere, per le
elezioni che si svolgono sempre in forma segreta).
Si può distinguere poi tra votazioni sommarie, per determinare il risultato delle quali basta
una valutazione ad occhio del Presidente, senza contare i voti e, votazioni qualificate con le
quali viene analiticamente registrato nome e numero dei votanti; queste ultime implicano un
automatica verifica del numero legale.
Sia alla Camera che al Senato il metodo di votazione ordinario (palese e sommario) e
anche il più semplice, è quello ordinario per alzata di mano (art 49 R.C e 113 R.S).
Proprio perché è semplice il ricorso a questo metodo è imposto dai regolamenti per le
questioni procedurali che non hanno diretta influenza sul merito della discussione,e vanno
perciò risolte rapidamente.
Su richiesta di 20 deputati o 15 senatori si può procedere per votazione nominale che ormai
da decenni si effettua con il sistema elettronico (caduta in desuetudine la votazione per
divisione). A questo sistema che garantisce certezza nell’esito della votazione, il Presidente
può ricorrere anche d’ufficio, oppure quando gli venga chiesta una controprova; in questo
ultimo caso,il Presidente,al Senato,ordina la chiusura delle porte(per evitare che nel
frattempo cambi la composizione del collegio)e, se è una controprova ad alzata di mano i
nomi non vengono neanche registrati.
Sia alla Camera che al Senato la votazione nominale col sistema elettronico è diventato il
modo ordinario di votazione.
La regola generale è che le votazioni parlamentari si svolgono a scrutinio palese. Entrambi i
regolamenti prevedono però la possibilità per 30 deputati o 20 senatori di chiedere lo
scrutinio segreto per determinate materie.
Vi sono poi, alcune votazioni da svolgersi necessariamente a scrutinio segreto e altre da
effettuarsi per forza a scrutinio palese.
Le materie su cui si può chiedere il voto segreto sono quelle, delicatissime, dei diritti e
delle libertà previsti nella prima parte della Costituzione.Può esservi, inoltre, richiesta di voto
segreto sulle modificazioni al regolamento di ciascuna Camera.
Sia alla Camera che al Senato, sono necessariamente sottoposte a scrutinio segreto, oltre
ovviamente alle elezioni, cui si procede mediante schede, le votazioni relative alle persone
(interpretazione restrittiva).
All’opposto, lo scrutinio segreto è vietato nelle votazioni concernenti le leggi finanziarie e di
bilancio e, più in generale, su disposizioni ed emendamenti che comportino aumenti di
spese o diminuzione di entrate.
Obbligatoriamente a scrutinio palese si svolgono le votazioni in commissione, con la sola
eccezione delle votazioni concernenti persone.
Il Governo può comunque, quale sia la materia, fare prevalere il vincolo di maggioranza
mediante la posizione della questione di fiducia (votata a scrutinio palese per appello
nominale), precludendo così ogni possibilità di chiedere la votazione segreta.
Nel caso di materie miste è il presidente dell’Assemblea a decidere sulla base del criterio
della prevalenza e se è necessario sente la giunta per il regolamento.

Il diverso computo degli “astenuti” alla Camera e al Senato: l’art. 48 regolamento Camera,
dopo aver letteralmente ripetuto la regola costituzionale (le deliberazioni dell’Assemblea e
delle commissioni sono adottate a maggioranza dei presenti), precisa però che sono
considerati presenti a questo fine, solo coloro che esprimono voto favorevole o contrario,
delle astensioni i segretari si limitano a prendere nota ai fini del numero legale (al
raggiungimento del quale essi concorrono).Più vicino alla lettera della disposizione
costituzionale, l’art. 107 R. S. stabilisce che le deliberazioni sono prese a maggioranza dei
senatori che partecipano al voto, ivi compresi gli astenuti. Al Senato, quindi, il numero
degli astenuti è sommato a quello dei favorevoli e dei contrari, per determinare il numero dei
presenti che diviso per due e aumentato di uno, dà la maggioranza necessaria. Il voto di
astensione rende perciò più difficile raggiungere la maggioranza.

4.6. LO SCRUTINIO E IL CALCOLO DELLE MAGGIORANZE (E DEGLI ASTENUTI)


Quale che sia il metodo di votazione adottato,esso conduce al momento più delicato,quello
della formazione della volontà del collegio.
I regolamenti affermano che, una volta cominciata la votazione non può essere interrotta e
non è più concessa la parola fino alla proclamazione del voto.
Per descrivere il momento dell’accertamento del risultato si parla di scrutinio. I voti, infatti
sono scrutati, visti e quindi contati dai segretari. Non rileva, da quel momento, l’effettiva
volontà del votante. L’eventuale errore non incide sul risultato, che viene “accertato” dai
segretari e poi proclamato dal Presidente: ai primi dunque,la funzione di contare e svolgere
operazioni materiali di numerazione dei voti, al Presidente quella di controllare queste
operazioni e proclamare il risultato, con le formule, nelle votazioni deliberative, “approva” o
“non approva”. È sempre del Presidente, in ogni caso di irregolarità, il potere di annullare la
votazione e di disporne una seconda.
Alla proclamazione del risultato non si arriva qualora, come si è visto, manchi il numero
legale (sta al Presidente verificare le norme relative al numero legale e alla
maggioranza).Se tale numero c’è, quel che va accertato è se la somma dei voti favorevoli
alla proposta sottoposta al voto ottenga la maggioranza. Sul punto la Costituzione fissa una
regola: le deliberazioni non sono valide se non sono adottate a maggioranza dei presenti
(maggioranza semplice), salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale (art.
64 comma 3 Cost.). E’ quindi sancita la regola della maggioranza,secondo cui in Parlamento
i voti si contano, non si pesano: regola che traduce il principio maggioritario.
Oltre alla maggioranza semplice, possono essere previste (con norma costituzionale),
maggioranze più elevate, dette qualificate, calcolate sulla base dei componenti:
- Maggioranza assoluta: metà +1 dei componenti del collegio. E’ prevista per l’approvazione
in seconda deliberazione delle leggi costituzionali (possibilità di richiedere poi referendum)
e per l’adozione dei regolamenti parlamentari.
- Maggioranza dei 2/3: richiesta per l’approvazione in seconda deliberazione delle leggi
costituzionali e per approvazione nella votazione degli articoli e voto finale delle leggi di
amnistia e indulto.
Per queste maggioranze non si pone il problema degli astenuti o delle assenze, diverso per
la maggioranza qualificata.
La maggioranza, sia essa dei componenti o dei votanti, è il numero minimo dei voti
favorevoli alla proposta in votazione perché essa possa ritenersi approvata. Se v’è parità
questo numero non è raggiunto e la proposta è respinta. Per le votazioni elettive il mancato
raggiungimento del numero minimo previsto non dà un esito di rigetto: non chiude quindi il
procedimento, che continua con una nuova votazione.
Questa è una delle molte differenze delle votazioni elettive rispetto alle deliberative. Qui
l’oggetto è la scelta tra più persone. Questa e altre differenze hanno portato a ritenere che l’
art 64 comma 3 sia riferito solo alle votazioni deliberative mentre per quelle elettive la
maggioranza dei votanti va interpretato come limite al di sotto del quale non si può
scendere, essendo consentito prevedere maggioranze qualificate.

CAPITOLO 8) I PROCEDIMENTI PARLAMENTARI

1) I PROCEDIMENTI ORGANIZZATORI: LA PROGRAMMAZIONE DEI LAVORI IN AULA E


IN COMMISSIONE

1.1. LE ORIGINI E LE EVOLUZIONI DELLA PROGRAMMAZIONE DEI LAVORI


I procedimenti che conducono alla programmazione dei lavori parlamentari possono
qualificarsi come procedimenti di 2° grado: è con essi, infatti, che ciascuna Camera
decide quando riunirsi e a quali argomenti dedicare le proprie sedute. Evidentemente per
questi procedimenti vale il principio della “polifunzionalità”.
Le decisioni organizzative finiscono spesso per essere quelle politicamente più rilevanti: è
con esse che si stabiliscono le priorità anche in rapporto al programma di governo,si
consente o meno il tempestivo inserimento di un dibattito parlamentare su una questione
scottante, si può agevolare o ostacolare il raggiungimento del numero legale, si favoriscono
o impediscono le negoziazioni e gli accordi tra le forze politiche, si determinano il peso
relativo e il ritmo di lavoro dell’Assemblea e delle commissioni.
I regolamenti parlamentari del 1971 nell’adottare per le Camere il metodo della
programmazione dei lavori hanno inteso superare la logica della definizione dell’ordine del
giorno seduta per seduta. Questo era infatti approvato alla fine della seduta precedente, su
proposta del Presidente con decisione assunta a maggioranza della stessa Assemblea.
Con l’adozione del metodo della programmazione dei lavori, invece, si è inteso
organizzare la produzione legislativa,evitando provvedimenti sporadici,occasionali e
intermittenti, e altresì assicurare parametri essenziali per l’attività dell’Assemblea,delle
commissioni e,anche del singolo deputato, fornendo a quest’ultimo una serie di riferimenti
temporali e materiali.
Tuttavia, l’adozione di questo metodo non si è rivelata sufficiente. Per un verso, infatti, si
era ancorata la definizione del programma e del calendario dei lavori al raggiungimento di
un accordo unanime nella conferenza dei capigruppo (ritenendo che questo fosse il solo
modo di individuare un punto di equilibrio tra le esigenze dei gruppi di maggioranza e quelle
dei gruppi di opposizione). Per altro verso, si era sottovalutava l’importanza del
momento attuativo del programma e del calendario, senza cioè prevedere, specie alla
Camera, strumenti procedurali che consentissero l’effettivo rispetto dei tempi previsti in
sede di programmazione dei lavori.
Alla luce dell’estrema difficoltà nel raggiungere l’ unanimità in seno alla conferenza dei
capigruppo, sono state adottate soluzioni di ripiego che hanno a lungo regolato la
programmazione dei lavori: mentre alla Camera si è continuato a procedere come prima
ossia con la definizione dell’ordine del giorno seduta per seduta, al Senato si è proceduti
con “schemi dei lavori” di durata settimanale che il Presidente del Senato poteva
predisporre sulla base delle indicazioni emerse dalla conferenza e lo comunicava
all’Assemblea.
Con le modifiche del regolamento del Senato approvate nel 1988 il quadro si è completato.
Vi è stata la trasformazione da facoltativo in obbligatorio dello Strumento del
contingentamento dei tempi, il che ha reso possibile attuare, con relativa certezza, le
indicazioni contenute nel programma e nel calendario. La disciplina di programmazione dei
lavori era articolata su base bimestrale (4 settimane dedicate alle commissioni, 3
all’Assemblea e una all’attività dei gruppi e dei singoli senatori). Tale articolazione è stata
ripensata dalla riforma del 2017,che ha invece previsto una rotazione paritaria dei tempi
dedicati ai lavori in commissione e a quelli in Assemblea,cui rispettivamente sono dedicate
due sett al mese.
Alla Camera il percorso è stato più tormentato: nel caso in cui non si registri l’accordo
unanime nella conferenza, solo il Presidente può assumere una decisione definitiva e
inappellabile (mutamento del ruolo del Presidente nel tempo).

Le tappe principali dell’evoluzione della programmazione dei lavori alla Camera sono
costituite dalle novelle regolamentari del 1981, del 1990 e del 1997.
- Con la prima tappa (1981) si è consentito al il Presidente dell’Assemblea in caso di
mancato raggiungimento dell’ unanimità, in seno alla conferenza di predisporre sulla base
degli orientamenti prevalenti e tenuto conto delle altre proposte un programma bimestrale e
un calendario bisettimanale dei lavori da sottoporre all’approvazione Assemblea.
- Con la seconda (1990) si esclusa ogni votazione dell’Assemblea sui programmi e calendari
predisposti dal Presidente. Si è introdotto anche qui, con cautela, lo strumento del
contingentamento dei tempi.
- Infine con la terza (1997) si è superato il principio dell’ unanimità in seno alla conferenza
dei capigruppo, richiedendosi per l’approvazione di programma e di calendario il consenso
dei presidenti di gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari a ¾ dei
componenti della Camera e al tempo stesso si è generalizzato completamente il ricorso al
contingentamento tempi.

1.2. GLI STRUMENTI DELLA PROGRAMMAZIONE DEI LAVORI NELLA DISCIPLINA VIGENTE
Dunque, la disciplina vigente nei due rami del Parlamento vede la programmazione dei
lavori incentrarsi intorno a tre strumenti: il programma dei lavori (di orizzonte bimestrale al
Senato, bimestrale o trimestrale alla Camera), il calendario dei lavori (a cadenza mensile al
Senato, trisettimanale alla Camera), l’ordine del giorno (spesso detto “di seduta”).
- L’ ordine del giorno è l’unico ad essere determinato in via quasi esclusiva dal Presidente d’
Assemblea senza il coinvolgimento della conferenza dei capigruppo. È annunciato alla fine
della seduta precedente e alla Camera potrebbe essere oggetto di opposizione e di
conseguente votazione da parte dell’Assemblea. Sia il potere di formare l’ordine, che quello
di opporvisi, sono condizionati e “vincolati” dall’esistenza del programma e del calendario.
L’ordine del giorno di seduta tende a diventare una mera attuazione della programmazione.

- Il calendario dei lavori è il documento cruciale. Esso fissa il numero e la data delle singole
sedute con indicazione degli argomenti da trattare (art 55 r.S.) ovvero individua gli argomenti
e stabilisce le sedute per la loro trattazione, specificando quali sono i giorni destinati alla
discussione e quelli nei quali l’Assemblea procederà alla votazioni (art 24 c5 r.C.)
In realtà, però, è frequente che il calendario si spinga oltre, fissando cioè anche l’ orario di
inizio e fine della seduta o delle votazioni, e specificando l’ordine con cui i diversi
provvedimenti dovranno essere iscritti all’ordine del giorno. All’interno del calendario viene
pubblicato il contingentamento dei tempi.
- Il programma dei lavori, infine è il documento di taglio più astratto e generale. In esso,ci
si limita a inserire, per ognuno dei due o tre mesi in esso ricompresi, provvedimenti o
argomenti che saranno oggetto di trattazione (si da una blanda attuazione all’art 23 r.C
“elenco argomenti con indicazione ordine di priorità e periodo in cui si deve trattare).
Il procedimento per la formazione del programma e del calendario dei lavori è abbastanza
articolato. Ai fini della formazione del programma sono previste diverse fasi:
1) Opportuni contatti della Presidenza di Assemblea con l’altro ramo del Parlamento e con il
Governo (ministro per i rapporti con il Parlamento) in vista della convocazione della
conferenza dei capigruppo;
2) Eventuale convocazione della conferenza dei presidenti di commissione (Al Senato si
parla di contatti anche con i presidenti delle commissioni permanenti e speciali e si consente
una convocazione da parte del presidente di assemblea dei presidenti di commissione, con
l’intervento del rappresentante di governo).
3) Alla Camera, comunicazione preventiva (almeno 2 giorni prima della conferenza) delle
indicazioni del Governo in ordine di priorità, ed eventualmente anche proposte dei gruppi.
4) Riunione della conferenza dei capigruppo, nella quale, per prassi, il Presidente di
Assemblea presenta una bozza di programma, approntata sulla base delle indicazioni del
Governo e delle proposte dei gruppi
5) In esito della riunione della conferenza, possono verificarsi due ipotesi: o il programma
è approvato (all’unanimità al Senato, con maggioranza qualificata alla Camera), o in
mancanza di tale approvazione, è definito dal Presidente.
6) Il programma è comunicato all’Assemblea e, dopo tale comunicazione diviene definitivo.
Solo al Senato, nel caso in cui sia stato predisposto dal Presidente, esso può essere
discusso ed, eventualmente, anche modificato.

Il procedimento per la formazione del calendario è analogo a quello appena descritto, ma un


po’ semplificato nelle fasi preparatorie, non essendo necessari i contatti preliminari ed
essendo sufficienti alla Camera 24 ore di anticipo nella comunicazione della priorità da parte
del Governo e gruppi. Dopo la comunicazione del calendario alla Camera si può discutere
(osservazioni che potranno essere prese in considerazione per calendario successivo), al
Senato, nel caso in cui il calendario non sia stato adottato all’unanimità si possono avanzare
proposte di modifica su cui decide l’ Assemblea per alzata di mano.

I regolamenti prescrivono una serie di vincoli contenutistici alla predisposizione di


programma e calendario. L’obiettivo è quello di garantire tempi congrui per l’esame in
rapporto al tempo disponibile e alla complessità degli argomenti: evitando cioè una
compressione eccessiva dei tempi di esame, in rapporto alla complessità, tanto tecnico-
materiale quanto politica,dei provvedimenti in discussione.
Alla Camera programma e calendario sono predisposti sulla base delle indicazioni del
Governo e delle proposte dei gruppi (art 23), un altro vincolo riguarda il rispetto di un arco
temporale minimo per l’esame dei progetti di legge in commissione.
Ove programmi e calendari siano approvati dalla conferenza dei capigruppo, il regolamento
richiede inoltre che il Presidente riservi una quota (non determinata nel quantum) del tempo
disponibile agli argomenti indicati dai gruppi dissenzienti (che hanno votato contro),
ripartendola in proporzione alla consistenza di questi.
Nel caso in cui invece, programmi e calendari siano definiti dal Presidente il vincolo è più
preciso: è necessario che il Presidente inserisca nel calendario le proposte dei gruppi di
opposizione in modo da garantire a questi 1/5 degli argomenti da trattare ovvero del tempo
complessivamente disponibile per i lavori dell’assemblea nel periodo considerato.
Si può parlare quindi di una vera e propria quota riservata all’opposizione (previsione
introdotta nel 1997).
Il regolamento del Senato contiene una previsione in qualche misura analoga, che, in
più,cerca di attribuire rilievo anche alle indicazioni provenienti dai singoli senatori. Il
programma va quindi redatto tenendo conto delle priorità indicate dal Governo e delle
proposte dei gruppi e dei singoli senatori, anche per le funzioni di ispezione e controllo per
le quali sono riservate tempi specifici.
La sequenza programma – calendario - ordine del giorno è piuttosto rigida, ma non manca
comunque, qualche elemento di flessibilità, che consente di tener conto delle urgenze che
regolarmente irrompono nell’agenda politica e, conseguentemente, in quella parlamentare:
1) In primo luogo vi sono alcuni provvedimenti che possono entrare automaticamente nel
calendario. Il Senato usa una formula generale “argomenti che per disposizione della
Costituzione o per regolamento devono essere discussi e votati in una certa data. La
Camera invece li enumera, almeno in parte: disegni di legge finanziaria e bilancio, disegno
di legge comunitaria, atti dovuti diversi dalla conversione in legge dei decreti legge, per
questi disciplina peculiare.
2) In secondo luogo esiste una procedura di inserimento di argomenti nuovi all’ordine del
giorno in seduta (di dubbia applicabilità, rottura con il principio garantistico,il divieto cioè,di
trattare argomenti non all’ordine del giorno,in base al quale ciascun parlamentare decide se
partecipare o meno alla seduta): sono richiesti quorum particolarmente elevati, di 2/3 dei
presenti al Senato e di ¾ dei votanti alla Camera.
Inoltre, sia calendario che il programma possono essere “aggiornati” seguendo le medesime
procedure previste per la loro approvazione. Secondo il regolamento della Camera sarebbe
necessario un aggiornamento mensile del programma, in pratica la decisione politica della
programmazione dei lavori sta tutta nella definizione dl calendario (ruolo ricognitivo del
calendario, tanto che al senato a volte se ne fa a meno).

Inoltre in relazione a situazioni sopravvenute e urgenti si possono inserire in calendario


argomenti nuovi, non presenti nel programma. Alla Camera è sempre la conferenza dei
capigruppo a farlo, mentre al Senato è l’Assemblea a decidere per alzata di mano. Queste
integrazioni sarebbero ammissibili, comunque, purché non rendano impossibile
l’esecuzione del programma: a questo fine, si potrebbero svolgere anche sedute
supplementari.

1.3. IL CONTINGENTAMENTO DEI TEMPI


Il Parlamento, specie oggi che è ben lungi dall’essere “solo” o “isolato” nello svolgimento
delle sue attività, non può prescindere dal “fattore tempo”: tanto nella fase della
programmazione, quanto nella fase della sua attuazione. La capacità decisionale del
Parlamento e la sua idoneità a costituire un’effettiva sede di dibattito pubblico dipendono
dall’efficacia e dalla tempestività della sua azione.
Il contingentamento dei tempi consiste nella determinazione del tempo complessivo da
dedicare ad un certo argomento e nella sua ripartizione tra i diversi gruppi parlamentari oltre
che tra gli altri soggetti e le operazioni che risultino “time consuming” (e quindi: interventi del
relatore e del Governo, di richiamo al regolamento, interventi a titolo personale,ecc).
Sarà poi ciascun gruppo parlamentare,secondo le proprie regole e procedure, a decidere
come distribuire tra i propri membri il tempo ad esso assegnato.
In questa chiave, essenziale è la previsione di appositi e non irrisori spazi per i singoli
parlamentari, che desiderino intervenire a titolo personale o in dissenso dal proprio gruppo.
In caso contrario, risulterebbero infatti non infondati quei dubbi sulla compatibilità con l’art.
67 Cost. di un contingentamento dei tempi che si limitasse a ripartire tra i soli gruppi tutto il
tempo disponibile, rimettendo perciò integralmente alla decisione dei gruppi l’effettivo
esercizio del diritto di parola del singolo parlamentare.
Dunque, con il contingentamento dei tempi si stabilisce di dedicare un certo numero di ore
all’esame di un progetto di legge o di un argomento, nel momento in cui questo è iscritto nel
calendario dei lavori, eventualmente anche fissando il momento in cui tale esame si
concluderà, il più delle volte, con il voto finale.

Alla Camera il regolamento è piuttosto analitico nell’individuare le operazioni da compiersi,


ribadito il principio generale per cui il tempo assegnato ad ogni argomento deve essere
rapportato alla sua complessità, si stabilisce che:
-Del tempo assegnato totale vengano sottratti i tempi per gli interventi dei relatori, dei
rappresentanti di Governo, dei deputati del gruppo misto (che a sua volta è ripartito tra le
componenti politiche, in base alla loro consistenza numerica), per i richiami al regolamento,
e, infine, per le operazioni di voto
- Del tempo residuo dopo questa sottrazione, 1/5 sia riservato per gli interventi a titolo
personale.
- I restanti 4/5 siano invece distribuiti tra i gruppi: una parte in misura uguale e un’altra parte
in misura proporzionale alla consistenza degli stessi; a ciò si aggiunge la regola per cui, per
l’esame dei disegni di legge governativi, va riservato ai gruppi di opposizione un tempo
complessivamente maggiore di quello attribuito ai gruppi di maggioranza.

Nella prassi, per semplificare sono stati proposti modelli-tipo di contingentamento dei tempi,
da applicare ai diversi provvedimenti a seconda della loro complessità.
Il potere di determinare il contingentamento dei tempi spetta a chi decide il calendario dei
lavori: perciò, alla conferenza dei capigruppo, nel caso si raggiunga maggioranza richiesta
( unanimità al Senato, ¾ dell’assemblea alla Camera), oppure ove tale maggioranza non si
ottenga, al Presidente di Assemblea.
L’introduzione del contingentamento alla Camera è stata sofferta: tracce di questo
travagliato cammino si trovano nel diverso trattamento del contingentamento dei tempi
nell’ambito del procedimento legislativo,a seconda che si applichi alla fase della discussione
sulle linee generali (non meno di 30 minuti per gruppo) o alle fasi successive (esame articoli
e votazioni finali).
Il contingentamento va deliberato all’ unanimità dalla conferenza dei capigruppo quando si
tratta di progetti di legge: - costituzionale, - vertenti prevalentemente su una materia cui è
possibile chiedere lo scrutinio segreto, vale a dire relativa a diritti e libertà, previsti nella
prima parte della Costituzione, - riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica,
sociale ed economica riferite ai diritti previsti dalla prima parte della Costituzione, su
richiesta di un gruppo parlamentare.

In ogni caso, una volta scaduti i tempi (contingentati) a disposizione dei gruppi si procede
alle votazioni, che si succedono una dietro l’altra, in un clima un po’ surreale, e anche se il
tempo preventivato per la loro effettuazione fosse stato consumato tutto; a meno che il
Presidente d’Assemblea non decida di assegnare un tempo ulteriore a ciascun gruppo, o
anche solo ai gruppi che hanno esaurito il tempo a loro disposizione: in questo caso nella
misura di un terzo in più rispetto al tempo originariamente disponibile.

1.4. I RAPPORTI PER LA PROGRAMMAZIONE IN ASSEMBLEA E IN COMMISSIONE

Anche nelle commissioni trova applicazione la programmazione dei lavori, che è affidata
oltre che ai loro presidenti, anche agli uffici di presidenza, integrati dai rappresentanti dei
gruppi: una sorta di miniconferenza dei capigruppo In commissione (alla quale,di rado
partecipa anche il rappresentante del governo).
Nella prassi tende ad essere prevalente una programmazione a cadenza settimanale: in
concomitanza, cioè,con l’invio delle convocazioni settimanali delle commissioni, i cui lavori si
devono incastrare negli spazi lasciati liberi dall’Assemblea.
A lungo nell’esperienza parlamentare repubblicana, sono state proprio le commissioni gli
organi decisivi, ancor prima che nella definizione dei contenuti della legislazione approvata,
ai fini della selezione dei progetti di legge di cui avviare l’esame. Nell’ambito delle centinaia
di progetti assegnati a ciascuna commissione,e, ricompresi nell’ordine del giorno generale,
erano gli uffici di presidenza delle singole commissioni, integrati dai rappresentanti dei
gruppi, a decidere quali prendere in considerazione: procedendo nella maggior parte dei
casi in sede legislativa o deliberante, o in sede referente quando non c’era un sufficiente
grado di consenso tra i gruppi parlamentari o quando la materia era coperta da riserva
d’assemblea. In questo modo, l’ordine del giorno dell’Assemblea finiva per essere
determinato anch’esso dalle scelte operate dalle commissioni.
A partire dagli anni ’90, grazie all’operatività della programmazione dei lavori e del
contingentamento dei tempi, si è realizzato uno spostamento di indirizzo e delle priorità
della legislazione con una valorizzazione della conferenza dei capigruppo. E’ ora
l’Assemblea, attraverso appunto la conferenza dei capigruppo, a decidere, quali progetti di
legge esaminare condizionando l’agenda delle commissioni.
Diverse sono le modalità attraverso cui si assicura alle Camere l’effettiva prevalenza della
programmazione di Assemblea su quella delle commissioni: alla Camera una volta che il
calendario prevede l’inizio dell’esame di un progetto di legge, la commissione può applicare
il contingentamento e quando finisce il tempo, lascia il passo all’aula per la votazione,in
applicazione del principio di economia procedurale (art 79).
Al Senato invece, in sede referente è esclusa applicazione del contingentamento tempi (è
frequente che la commissione non concluda neanche l’esame del progetto di legge, e che si
vada in aula senza relatore).Tale spostamento dalle commissioni all’Assemblea ha originato
significativi effetti sia sui rapporti tra Governo e Parlamento sia su quelli tra maggioranza e
opposizione: a vantaggio in ambedue i casi del primo dei due soggetti. così il Governo e la
sua maggioranza hanno molta più facilità a controllare le dinamiche di un unico centro
decisionale di quanta non ne avessero a seguire l’attività di quasi una trentina di centri
decisionali poco coordinati tra loro.

2 I PROCEDIIMENTI CONOSCITIVI E ISPETTIVI


2.1 l'informazione parlamentare.

Ogni potere che delibera deve conoscere la verità. E così, il Parlamento è dotato di una
serie di strumenti conoscitivi per esercitare le sue funzioni e per soddisfare la sua “curiosità”.
Chi per primo deve soddisfare la curiosità delle Camere è il Governo, e per suo tramite,
l’amministrazione: è questo un necessario canale istituzionale di informazione, per anni
tendenzialmente esclusivo (fino al 1971). Ma la Costituzione prevede uno strumento
autonomo, l’inchiesta, che consente una diretta acquisizione di notizie (art 82 Cost.).
Tale articolo è collocato alla fine del titolo relativo alla funzione legislativa, in posizione
indipendente dal rapporto fiduciario.
Negli anni il legislatore ha inserito una serie di strumenti conoscitivi che forniscono al
Parlamento una massa di informazioni indipendenti: per es. le relazioni annuali al
Parlamento delle autorità indipendenti e di altri soggetti. Si è soliti enucleare, nell’ambito
della generica attività conoscitiva un’attività propriamente ispettiva.
L’ ispettiva è l’attività di acquisizione di conoscenze da parte del Parlamento cui
corrisponde un obbligo, variamente graduato, di risposta da parte dei soggetti interrogati.
Lo strumento ispettivo per eccellenza è l’inchiesta parlamentare, che reca con sé
addirittura l’attribuzione dei poteri dell’autorità giudiziaria in capo all’organo che la svolge.
Mezzi meramente conoscitivi(non ispettivi) sono invece: le indagini conoscitive nelle quali i
soggetti da ascoltare sono semplicemente invitati ad intervenire.
Un carattere più stringente, e quindi ispettivo, hanno le interrogazioni e le interpellanze,a cui
il Governo non può, ma tendenzialmente “deve” rispondere (ancorchè si tratti di obbligo
prettamente politico).
Vi sono poi apposite commissioni parlamentari bicamerali, dette di vigilanza,
istituzionalmente dotate di penetranti e particolari poteri ispettivi. Tra queste spicca il
comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR).
Anche le commissioni parlamentari permanenti, nelle materie di competenza per la loro
attività legislativa, di indirizzo e di controllo, si possono avvalere di strumenti ispettivi:
audizione di ministri sugli indirizzi politici, acquisizione di notizie, dati o documenti, esame
di relazioni presentate periodicamente dal governo, ecc …
Nelle commissioni permanenti,poi,oltre che in aula, si possono svolgere interrogazioni (ma
non interpellanze).
La disponibilità di questo complesso insieme di strumenti conoscitivi e ispettivi e il loro uso
mirato e settoriale dovrebbero garantire alle commissioni permanenti che lo desiderino di
essere i veri centri di propulsione dell’attività parlamentare: non solo di quella legislativa,
ma soprattutto di quella di indirizzo e di controllo.

2.2. LE COMMISSIONI D’INCHIESTA Art 82 Cost.


Secondo l’art 82 Cost. “Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico
interesse.
A tale scopo nomina fra i propri componenti una Commissione formata in modo da
rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari. La Commissione d’inchiesta
procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità
giudiziaria.
Per procedere a un’inchiesta ci deve essere la decisione di una o entrambe le Camere. Non
è infatti ammissibile l’adozione di un atto avente forza di legge del Governo ( il Governo
non può porre la questione di fiducia su un atto istitutivo di una commissione di inchiesta).
L’inchiesta parlamentare è uno strumento di garanzia quindi, oggetto di un attività
radicalmente autonoma rispetto al circuito dell’indirizzo politico.
Un’interpretazione rafforzata della disposizione, prevista dal solo regolamento del Senato,
che fissa un percorso procedurale accelerato per le proposte di inchiesta sottoscritte da una
minoranza(1/10 dei senatori).
La prassi sembra avere dimostrato,però, non solo che l’opposizione non può imporre da sola
la costituzione di una commissione d’inchiesta, ma addirittura che le commissioni di
inchiesta possono essere utilizzate come un vero e proprio strumento a favore della
maggioranza, in taluni (rari) casi persino contro l’ opposizione.
La scelta della legge per l’istituzione, al posto di un atto bicamerale non legislativo, è
dettata dalla volontà di perseguire obiettivi che, senza la legge ,non potrebbero essere
realizzati: es. evitare che la fine della legislatura faccia perdere efficacia all’atto istitutivo, o
fissare i poteri della commissione.
Negli anni,alcune inchieste con oggetto esteso e non determinato, hanno subito processo
di istituzionalizzazione. la durata di queste è stata più volte prorogata (es. commissione
strategie antimafia, divenute quasi permanenti d’inchiesta). L’ Istituzionalizzazione ha
favorito indipendenza e autorevolezza di questi organi (spesso la nomina del presidente di
commissione è rimessa ai presidenti delle Camere).
La considerazione dell’eccezionalità dell’ attribuzione dei poteri dell’autorità giudiziaria
dovrebbe poi indurre cautela nell’uso di questo strumento da limitare alle sole “materie di
pubblico interesse”. Quanto alle finalità dell’inchiesta, queste seguono la varietà delle
funzioni parlamentari. Talune inchieste sono strumentali all’acquisizione di informazioni da
utilizzare nell’attività legislativa, altre hanno un carattere più spiccato di controllo e verifica
delle responsabilità. Alcune commissioni di inchiesta finiscono per affiancare, nei fatti,
organi giudiziari inquirenti, assicurando a questi un utile sostegno e stimolo, ma anche
provocando discutibili commistioni e interferenze.
Vi può essere concorrenza e simultaneità tra inchiesta parlamentare e attività giudiziaria. Al
riguardo, nel 1975 la Corte Costituzionale ha chiarito che la commissione ha obbligo di
trasmettere al giudice penale (se richiesto) gli atti e i documenti frutto della propria attività
ispettiva (eccezione per quelli che deve mantenere segreti per adempimento delle proprie
funzioni).
Nei propri lavori,la commissione di inchiesta, può seguire un doppio binario: utilizzare i suoi
particolari poteri (attività giudiziaria) o procedere informalmente con audizioni libere.
Quanto all’esito delle inchieste, gli atti istitutivi prevedono, generalmente, l’obbligo di
trasmettere alle Camere relazioni sullo stato dei lavori. In ogni caso la commissione
dovrebbe dar conto delle indagini in una relazione conclusiva nella quale formulare proposte
destinate all’esame dell’Assemblea, anche allo scopo di garantire un legame dell’attività di
inchiesta con le funzioni tipiche del Parlamento.
Spesso, però, queste relazioni non sono state discusse ovvero sono state esaminate solo
a distanza di anni, senza mai realmente attivare processi di responsabilità politica. Ma vi è
anche la prassi virtuosa di commissioni che hanno saputo efficacemente utilizzare questa
libertà di azione per svolgere un prezioso ruolo persuasivo, di consiglio, controllo ed
indirizzo dei pubblici poteri, valorizzando appieno la centralità del Parlamento nel sistema
istituzionale e la sua essenziale funzione di arena di confronto e di discussione politica e
sociale. La Corte Costituzionale ha infine riconosciuto alle commissioni d’inchiesta la
legittimazione a sollevare conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, chiarendo che la
riconosciuta indipendenza funzionale delle commissioni non postula una loro strutturale
distinzione dalle Camere stesse, di cui rappresentano una articolazione (valorizza il
principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato).

2.3. LE INDAGINI CONOSCITIVE


L’ indagine conoscitiva è lo strumento più utilizzato dalle commissioni parlamentari
permanenti, insieme alle audizioni, per condurre accertamenti e acquisire notizie e
informazioni nelle materie di loro competenza. Ciascuna commissione, per fare il punto su
una questione, può deliberare di aprire una indagine conoscitiva. In quella sede, la
commissione parlamentare procede ad acquisire notizie, in particolare attraverso
l’audizione di “qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili all’indagine” ;si può trattare
di un ministro come di un semplice esperto,ovvero di amministratori o rappresentanti di
associazioni di categoria.
Questo strumento permette alle commissioni di ascoltare liberamente, in una sede formale,
senza alcuna limitazione e sulla base di un semplice invito, soggetti estranei al Parlamento.
Le indagini conoscitive si concludono alla Camera con l’ approvazione di un documento che
tende a trasformarsi in un atto di indirizzo politico. Più spesso, però, l’attività conoscitiva è
strumentale all’ordinaria attività delle commissioni (per esempio si puo svolgere nella fase
istruttoria del procedimento legislativo quale momento di approfondimento della materia da
regolare attraverso un confronto aperto con i destinatari e con tutti gli interessati,superando
gli stretti limiti imposti alle audizioni).

2.4. LE AUDIZIONI
Le audizioni, chiamate anche “udienze legislative”, dovrebbero essere lo strumento
ordinario a disposizione delle commissioni parlamentari per acquisire le informazioni che
ritengono necessarie in relazione alle varie questioni da trattare, esaurendosi in un'unica
seduta, o frammento di seduta, da dedicare a queste attività informative.
Tuttavia, il ricorso a questo strumento è condizionato da un pesante vincolo strutturale.
Questo strumento di apertura al Parlamento,infatti,fu introdotto nella prospettiva che vedeva
nel Governo la principale fonte di informazione parlamentare, e dunque gli unici soggetti
che possono essere uditi, oltre ai membri del Governo, sono dirigenti e amministratori delle
amministrazioni centrali e degli enti sottoposti comunque a controllo ministeriale.
Sono però i ministri a vagliare chi dovrà andare a rispondere, e a loro le commissioni
devono rivolgersi se vogliono procedere alle audizioni.
L’elenco dei soggetti udibili si è ristretto ulteriormente con la privatizzazione degli enti
pubblici economici.
Oggi questi strumenti, poco usati, si colorano di una connotazione ispettiva piuttosto che
semplicemente conoscitiva. Mentre l’obiettivo di acquisire semplicemente conoscenze viene
perseguito attraverso audizioni informali (senza limiti soggettivi) che si svolgono in sede
appunto informale: al Senato, negli uffici di presidenza integrati dai rappresentanti dei
gruppi parlamentari, e alla Camera le commissioni si riuniscono informalmente nel plenum
dei suoi componenti.
Le audizioni informali si svolgono poi, senza pubblicità o più esattamente senza più
nessuna forma di resocontazione scritta (in alcuni casi si è ritenuto di dare pubblicità
audiovisiva). A fronte dell’inaridirsi del ricorso allo strumento delle audizioni formali e del
proliferale incontrollato di quelle informali, i regolamenti hanno visto la formalizzazione di
strumenti conoscitivi settoriali, che consistono in vere e proprie audizioni in due campi: la
programmazione economica finanziaria e le politiche dell’UE.

2.5. LE INTERROGAZIONI
L’ interrogazione è una semplice domanda che ogni parlamentare può rivolgere al Governo
su un fatto determinato, chiedendo informazioni particolari, documenti, notizie o esprimere
la propria posizione politica (art 128 r. C. e 145 r. S.). Alle interrogazioni il rappresentante
del governo interessato (Presidente consiglio, ministro o sottosegretario) risponde in
Assemblea, in commissione o per scritto,a seconda dell’opzione esercitata dall’interrogante
al momento della presentazione . L’interrogante può solo replicare, intervenendo, appunto
in Assemblea o in commissione, dichiarandosi soddisfatto o insoddisfatto ovvero nel caso di
risposta scritta, accontentarsi delle informazioni ricevute.
Il Governo può essere chiamato a rispondere su questioni gravi (terremoti, epidemia mucca
pazza, ecc) con interrogazioni urgenti, ma la maggior parte delle volte consistono in
semplici segnalazioni (richiamare l’ attenzione dell’amministrazione statale su un problema,
circa 1/3 rimangono senza risposta).
Una particolare specie di interrogazione è quella “a risposta immediata” con la quale si è
cercato di introdurre in Italia il “question time” tipico del parlamento inglese (30 minuti nella
seduta della camera dei comuni ogni mercoledì, senza programmi). In Italia è stato
approvato con molti correttivi e viene praticato alla Camera dal 1997 e al Senato dal 1999.
Una volta a settimana (il mercoledì alla Camera), viene riservato uno spazio della seduta
dell’aula alle interrogazioni presentate da un deputato per ciascun gruppo parlamentare,
entro mezzogiorno del giorno precedente. Ad esse dovrebbero rispondere il Presidente del
Consiglio dei ministri o il vicepresidente del consiglio (premier nella question time).
Gli argomenti sono i più disparati, ma sempre conosciuti preventivamente dal Governo.
Ciò insieme alla scarsa fantasia degli interroganti, alla sistematica assenza del Premier e
alla frequente sostituzione del Ministro competente con quello per i rapporti col Parlamento
impedisce di suscitare nelle aule quel clima teso e brillante che caratterizza il question time
britannico.

2.6. LE INTERPELLANZE
Anche l’ interpellanza consiste in una domanda formulata al Governo da uno o più
parlamentari. Si tratta però, a differenza della interrogazione, di una domanda motivata,
tesa a conoscere i motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in questioni che
riguardano determinati aspetti della sua politica. La maggior rilevanza politica della
domanda spiega perché la sua risposta debba aver luogo in Assemblea.
La procedura si articola nello svolgimento da parte del presentatore, dell’interpellanza, nella
conseguente risposta del rappresentante del Governo e in una replica dell’interpellante
stesso (interpellanza, risposta, replica dell’interpellante).
Obiettivo di questo strumento di ispezione parlamentare è quello di far emergere la
posizione politica del Governo su una determinata questione. Si comprende quindi come,
dopo il dialogo tra il rappresentate del Governo e interpellante, se l’interpellante non è
soddisfatto può presentare una mozione (art 138 r. C.) prospettando una diversa linea
politica rispetto a quella indicata dal Governo, sulla quale si apre un dibattito che si
conclude con un voto.
Nella prassi l’interpellanza si è progressivamente confusa con lo strumento dell’
interrogazione. Gli oggetti trattati vanno dall’uso delle basi NATO ai ritardi dei traghetti per
la Sardegna, e il Governo spesso tardivamente, risponde solo ad una parte delle
interpellanze. Per rivitalizzare l’ istituto si è introdotto, sull’es del Bundestag, una corsia
preferenziale per le interpellanze urgenti, presentate cioè da un gruppo di parlamentari. La
presentazione di queste interpellanze “urgenti” fa sorgere diritto alla risposta in tempi brevi:
entro 2 settimane al Senato e entro 48 ore alla Camera. Per evitare l’utilizzo ostruzionistico
sono posti anche limiti quantitativi: è concessa un’ interpellanza al mese al Senato e due
alla Camera per ciascun gruppo; e per ciascun parlamentare 6 l’anno al Senato e una al
mese alla Camera.

3) I PROCEDIMENTI DI INDIRIZZO

3.1. INDIRIZZO POLITICO E PROGRAMMA DI GOVERNO.


Il potere di indirizzo politico consiste nella determinazione dei grandi obiettivi della politica
nazionale e nell’approntamento dei mezzi principali per conseguirli.
Rispetto alla funzione di indirizzo politico il Parlamento gioca un ruolo attivo ed importante,
in un circuito, che lo vede concorrere con il Governo e con il corpo elettorale, oltre che con il
Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale (ai quali spettano essenzialmente
poteri di garanzia).
Il peso del corpo elettorale tende a variare a seconda degli assetti del sistema politico e
della legge elettorale:
- nei sistemi proporzionali il corpo elettorale determina il peso relativo, in termini di seggi
parlamentari, spettante alle diverse forza politiche, lasciando poi alla dialettica tra queste la
formazione della coalizione e programma di governo.
- nei sistemi maggioritari, invece, aumenta sensibilmente il contributo del corpo elettorale
alla definizione dell’indirizzo politico in quanto è esso è chiamato ad esprimersi sia sulla
coalizione che si forma prima delle elezioni, sia sul programma di Governo.
Da tali mutamenti trae origine la retorica del programma secondo cui, nei sistemi
maggioritari, il Governo, nel corso del suo mandato si limiterebbe a dare attuazione al suo
programma presentato agli elettori.
In questa ricostruzione vi è del vero ma anche molta retorica: infatti, in parte per la sua
naturale ambiguità, in parte per lo scorrere del tempo, l’indirizzo contenuto nel programma
ha bisogno perciò di costanti precisazioni e continui aggiornamenti. Nel precisare e
nell’aggiornare il programma il Governo non è solo: ha bisogno del rapporto con le Camere.
Il contributo delle Camere alla funzione di indirizzo politico si esplica attraverso tutti i
procedimenti parlamentari. In altri termini, un intervento delle Camere nel circuito di
indirizzo politico si verifica, a volte, anche mediante atti che si collocano in procedimenti non
prettamente di indirizzo: per es., interrogazioni, interpellanze, audizioni, indagini
conoscitive, quando non nell’esame di proposte di legge o nelle inchieste parlamentari.
Gli strumenti di indirizzo sono delineati dai regolamenti di Camera e Senato con procedure
diverse a seconda che si tratti dell’Assemblea ( mozioni, ordini del giorno, risoluzione
d’Assemblea) o delle commissioni (per lo più risoluzioni, o ordini del giorno). Attraverso i
procedimenti di indirizzo politico, le Camere assumono esplicitamente decisioni volte ad
indirizzare l’attività di Governo affrontando questioni come ad es. la partecipazione
italiana a missioni internazionali (spesso con mozioni), ecc..

3.2. L’ORIGINE STORICA E L’ EFFICACIA DEGLI ATTI DI INDIRIZZO

Mozioni, risoluzioni e ordini del giorno sono, in origine e su un piano generalissimo, tutti
strumenti volti a promuovere votazioni di una Camera su uno specifico oggetto.
Storicamente hanno origine dall’interpellanza, la quale nasce sì come strumento ispettivo
ma con la potenzialità di aprire un dibattito che si può concludere con un voto sulla
questione sollevata. Ed è per questa via che passo dopo passo si è costruito nel Piemonte
sabaudo ben oltre la lettera dello statuto Albertino, il rapporto fiduciario tra camera elettiva e
governo del re. I voti della camera sono diventati indirizzi al governo: risoluzioni, poi mozioni
sino ad arrivare alla cristallizzazione nella prassi della mozione di fiducia, prima successiva
e quindi preventiva che ha segnato la progressiva evoluzione in senso parlamentare della
forma di governo del regno.
Gli effetti prodotti da questi atti possono essere i più vari in assenza di ogni disciplina
costituzionale: da mozioni o risoluzioni che modificano in modo incisivo il programma di
governo sino a ordini del giorno accolti come semplici raccomandazioni; talvolta poi è la
stessa legge a disciplinare gli effetti di atti di indirizzo.

3.3. LA MOZIONE
La mozione è un atto ad iniziativa non individuale (va presentata alla Camera da 10
deputati o da un presidente di gruppo, al Senato da 8 senatori), diretto a provocare un
dibattito e una deliberazione dell’aula.
E’ uno strumento polivalente, che mette in moto un procedimento autonomo (non ha
bisogno di appoggiarsi ad altri procedimenti), che si conclude con una voto dell’Assemblea.
Un voto che solitamente definisce gli indirizzi (ossia direttive parlamentari al governo) ma
può anche sanzionare comportamenti (mozioni conclusive dell’esame di relazioni delle
commissioni d’inchiesta) e persino esaurire i suoi effetti all’interno delle mura delle Camere
(costituendo per esempio ulteriori commissioni).
E’ questa autonomia che fa della mozione lo strumento più incisivo tra gli atti d’indirizzo.
Il testo della mozione si articola in genere in una premessa con motivazione dell’atto (la
camera o il Senato,”considerato”, “visto”, “valutato”) , e in un dispositivo che, a seconda dei
casi, recita “impegna il governo”, se è un atto di indirizzo, ovvero “delibera” se è una
decisione che produce i suoi effetti all’interno della Camera.
La mozione è innanzitutto oggetto di una discussione di carattere generale, chiusa dalle
dichiarazioni del Governo e dalle repliche. Se sono state presentate più mozioni relative a
fatti o argomenti connessi, sono discusse insieme e sono poste ai voti secondo un ordine
che eviti preclusioni (art 158 r. S).
Il regolamento della Camera perfeziona l’obiettivo di proteggere il significato di ogni
mozione, indicando, per l’ordine di votazione di eventuali emendamenti, un criterio opposto
a quello previsto per il procedimento legislativo: gli emendamenti sostitutivi sono votati dopo
la frase o la parola cui si riferiscono, cosicchè, se la frase o parola viene mantenuta
l’emendamento cade.

Al Senato, dal 1988 sono disciplinate le mozioni a procedimento abbreviato: devono


essere sottoscritte da almeno 1/5 dei senatori e discusse entro 30 giorni dalla presentazione
(per evitare usi ostruzionistici, non sono ammesse più di 6 mozioni l’anno per ciascun
senatore). Il valore degli indirizzi contenuti nelle mozioni è tutto lasciato al modo in cui si
sviluppano i rapporti tra le forze politiche e tra il Governo e la Camera e il Senato, che, se
vogliono, possono chiamare a riferire sull’attuazione data a mozioni ma anche a risoluzioni
o ad ordini del giorno approvati.

3.4. LA RISOLUZIONE, IN ASSEMBLEA E IN COMMISSIONE


La risoluzione è uno strumento ad iniziativa individuale, che in genere chiude il dibattito,
spesso iniziatosi con altri fini. Si tratta di uno strumento prevalentemente accessorio.
Tale caratteristica rende poliedrico l’uso di questo strumento. Le risoluzioni possono
chiudere i dibattiti originati nel modo più vario: da mozioni (se ritirate o respinte), da
documenti trasmessi alle Camere, da comunicazioni del Governo (in particolare il
Parlamento in momenti cruciali può fissare l’indirizzo da seguire e lo può fare votando
dispositivi secchi, motivati solo “ob relationem”, senza specifiche, oppure può definirne
dettagliatamente il contenuto, ad es.con risoluzioni d’Assemblea il Parlamento ha
autorizzato azioni militari all’estero per il ripristino della legalità internazionale).
Non essendo prevista una specifica disciplina in un parlamento organizzato su una pluralità
di gruppi, non sempre legati da vincoli di coalizione, talvolta si è proceduto a votare più atti
di indirizzo, tra loro in parte contraddittori e in parte ridondanti. Alla fine è il Governo, che è
il destinatario di questa attività, ad interpretare gli indirizzi parlamentari.
Le risoluzioni sono anche gli atti che concludono procedimenti parlamentari tipizzati, al
termine di un’istruttoria svoltasi nelle commissioni permanenti (come la risoluzione con cui
ciascuna camera approva il DEF,documento di economia e finanza).
Il voto a maggioranza semplice) su queste risoluzioni approvate dal DEF è preceduto da un
altro voto(questa volta a maggioranza assoluta) ogni qual volta si intenda discostarsi
dall’equilibrio finanziario precedentemente individuato.

La risoluzione, genericamente intesa, è anche lo strumento con cui le commissioni


parlamentari possono esprimere indirizzi. Il regolamento della Camera configura l’esame
delle risoluzioni in commissione come un procedimento autonomo, purché le risoluzioni
vertano su “affari di propria competenza, per i quali la commissione non debba riferire
all’Assemblea”.

Le risoluzioni sono infine gli atti che possono chiudere ,con un voto che definisce un
indirizzo, una serie di procedure tipiche previste dai regolamenti (esame delle relazioni della
corte dei conti, dei voti delle regioni, delle sent della Corte Cost …)

3.5. L’ ORDINE DEL GIORNO (DI ISTRUZIONE AL GOVERNO)


“Ordine del giorno” è un’espressione che ha molti significati. Letteralmente è l’ordine del
giorno della seduta, cioè l’elenco degli argomenti che saranno trattati. Ma anche l’ordine
del giorno generale, cioè il complessivo elenco dei documenti (disegni di legge,
relazioni,documenti diversi) che pendono, che sono all’ordine del giorno delle Camere.
Questa espressione è usata per designare atti di indirizzo nei confronti del Governo.

Ordini del giorni di istruzione al Governo possono essere presentati dal singolo
parlamentare che, alla Camera non ne può sottoscrivere più di uno per procedimento. Essi
possono essere discussi e approvati nel corso di un procedimento legislativo, ma anche in
occasione dell’esame di altri atti di indirizzo.
Sono dunque atti accessori, che si inseriscono in discussioni che hanno oggetto altri atti:
progetti di legge, mozioni o risoluzioni (in questo ultimo caso può avvenire che l’ordine del
giorno alla fine sia l’unico atto approvato;venendo meno,perché ritirati o respinti,gli atti di
indirizzo che avevano generato il procedimento).
La procedura di esame di questi atti nel corso del procedimento legislativo si differenzia non
poco tra Senato e Camera. In Senato possono essere anticipati in commissione in sede
referente e devono essere presentati prima (o al massimo nel corso) della discussione
generale e la loro votazione ha normalmente luogo durante l’esame e la votazione degli
articoli e degli emendamenti ad essi riferiti.
Alla Camera, invece, essi possono essere presentati anche durante la discussione degli
articoli e sono esaminati in un momento successivo, ossia “dopo l’approvazione dell’ultimo
articolo”, subito prima della votazione finale del progetto di legge (pregio di farli votare,
dopo aver definito il testo normativo a cui si riferiscono).
In entrambi i rami del Parlamento, sugli ordini del giorno è chiamato ad esprimersi
obbligatoriamente il rappresentante del Governo. Le alternative sono tre: 1) Se il Governo li
accetta integralmente, di solito non c’è bisogno di porli in votazione, dal momento che essi
hanno così già conseguito lo scopo.
2) Se, al contrario, esprime parere negativo, essi sono votati sempre che il presentatore
sia presente e insista per votarli.
3) Nell’ipotesi intermedia, cioè quando il rappresentante del Governo li accoglie solo come
raccomandazione, spetta al presentatore decidere se accontentarsi di questo generico
impegno o chiedere il voto in Assemblea, che può approvarlo o respingerlo del tutto.

Anche se accettati dal Governo o votati dall’Assemblea, gli ordini del giorno producono
effetti giuridici piuttosto incerti. Non possono fare altro che “esprimere un’intenzione, un
desiderio delle Camere”. I loro effetti, dunque, dovrebbero esaurirsi all’interno dei rapporti tra
Parlamento e Governo.
Non sono mancati casi in cui gli ordini del giorno, invece di vincolare il Governo, fossero
diretti all’interprete (a tutti ,non solo a quel qualificato interprete che è l’ amministrazione
pubblica), con l’obiettivo di condizionare l’interpretazione delle disposizioni che si stavano
per approvare.
Per evitare contrasto tra testo e ordini del giorno: “non possono essere presentati ordini del
giorno che riproducano emendamenti o articoli aggiuntivi respinti, in contrasto con
deliberazioni già adottate nel corso della discussione”. Per evitare questo impedimento, il
presentatore di un emendamento può ritirarlo prima della votazione e con il consenso del
presidente trasformarlo in un ordine del giorno (come specifica il solo regolamento del
Senato).

4) I PROCEDIMENTI FIDUCIARI

4.1. IL RAPPORTO FIDUCIARIO E LA DEBOLE “RAZIONALIZZAZIONE” DELLA FORMA DI


GOVERNO PARLAMENTARE

Art 94 comma 1 Cost. “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.”

Il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo costituisce il cuore della forma di governo
parlamentare. Senza fiducia di ambedue le Camere il Governo non può restare
validamente in carica, e reciprocamente, le Camere non possono continuare nella loro
attività e devono essere sciolte dal Presidente della Repubblica se non sono in grado di
esprimere la fiducia ad un Governo.
È la sussistenza e la necessaria permanenza di questo rapporto fiduciario che,
realizzando una sorta collaborazione dei due poteri, fa sì che le Camere contribuiscano
legittimamente alla funzione di indirizzo politico - amministrativo e che il Governo,
reciprocamente ,possa svolgere un ruolo di coprotagonista nell’attività legislativa.

L’opzione a favore della forma di governo parlamentare fu sancita dall’ordine del giorno
Perassi, approvato dalla seconda commissione costituita nell’ambito della commissione dei
75, il 4 settembre 1946.

4.2. LA MOZIONE DI FIDUCIA

(Art 94 comma 2 Cost. “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione
motivata e votata per appello nominale.”Art 94 comma 3 Cost. “Entro 10 giorni dalla sua
formazione il Governo si presenta alla Camere per ottenere la fiducia.”)

L’ art 94 Cost. disciplina specificatamente le modalità di instaurazione del rapporto fiduciario,


evitando che la fiducia debba desumersi per implicito dalle singole votazioni che avvengono
nel corso del mandato governativo e obbligando i parlamentari e le forze politiche a
prendere posizione in modo esplicito, sul programma di governo e sulla sua composizione.
E’ entro dieci giorni dalla formazione del Governo, ossia dal giuramento nelle mani del
Presidente della Repubblica, che il Governo è tenuto a presentarsi alle due Camere per
ottenere la fiducia.
La presentazione avviene il medesimo giorno (stabilito dai Presidenti di Assemblea),
prima all’una e poi all’altra Camera (secondo il criterio dell’alternanza): il Presidente del
consiglio , per effetto di una prassi informata all’economia procedurale affermatasi a partire
dal 1980, rende le proprie dichiarazioni sul programma in forma orale (come
“comunicazioni del Governo”) solo ad un ramo del Parlamento, mentre nell’altro le deposita
per scritto.
Il discorso programmatico del Presidente del Consiglio è oggetto di dibattito parlamentare,
in successione nelle due Camere. Nel corso del dibattito, alla Camera come al Senato,
viene presentata ad opera dei capigruppo di quella che sarà la maggioranza, la mozione di
fiducia, ossia quella specifica mozione, necessariamente motivata e da votarsi per appello
nominale, che ai sensi dell’art. 94 comma 2 Cost. è lo strumento la cui approvazione, a
maggioranza semplice, è richiesta perché le Camere accordino la fiducia al Governo (non è
una mozione in senso proprio, il dibattito si instaura inizialmente sulla base della mozione,
quindi prosegue con comunicazioni del Presidente del consiglio. È comunque classificabile
come atto di manifestazione della volontà parlamentare).
Il requisito della motivazione della mozione di fiducia è sicuramente quello che è stato
valorizzato meno nella prassi repubblicana e consiste in un riferimento esplicito ma
generico ai contenuti delle dichiarazioni programmatiche rese dal Presidente del Consiglio.
Una motivazione dunque ob relationem. Formula tralatizia: “la Camera udite le
dichiarazione programmatiche del presidente del consiglio le approva e passa all’ordine del
giorno”. Dietro questa formula rimangono i conflitti.

L’art 94 Cost. prevede per la mozione di fiducia (come per tutte le votazioni fiduciarie) la
necessità di un voto per appello nominale: ossia il ricorso ad una forma di votazione
palese e in qualche misura “solenne” e inequivocabile, dal momento che richiede a
ciascun parlamentare di passare davanti al banco della presidenza e di rispondere
individualmente, ad alta voce, alla “chiama”, dicendo “sì”, “no” o “mi astengo”.
D’altronde è per effetto della votazione della mozione di fiducia che si costituiscono, in
Parlamento, qualificandosi giuridicamente, la maggioranza e l’opposizione.
Gli effetti si producono tanto su quelli che votano a favore che su quelli che votano contro,
unica differenza i fronti opposti in cui si schiereranno ogniqualvolta venga chiamato in causa
il nesso fiduciario. Per l’approvazione della mozione di fiducia, è sufficiente la maggioranza
semplice. Nel disciplinare il procedimento di approvazione della mozione di fiducia, i
regolamenti parlamentari si sono limitati a riprodurre esattamente il dettato costituzionale
salvo aggiungere che per queste mozioni non è consentita la votazione per parti separate,
né la presentazione di ordini del giorno.

4.3. LA MOZIONE DI SFIDUCIA

Art 94 comma 2 Cost. “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione
motivata e votata per appello nominale Art 94 comma 5 Cost. “La mozione di sfiducia deve
essere firmata da almeno 1/10 dei componenti della Camera e non può essere messa in
discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.”
L’art 94 c. 4, Cost prevede che il voto contrario di una o entrambe le Camere su una
proposta del Governo non comporta obbligo di dimissioni. La Costituzione si preoccupa di
distinguere il voto di dissenso espresso delle Camere nei confronti di specifici provvedimenti
proposti dal Governo e destinato a non avere ripercussioni sul rapporto fiduciario, dall’ipotesi
disciplinata dall’ art 94 c 5, Cost. di revoca esplicita della fiducia accordata al Governo, che
deve avvenire necessariamente attraverso l’approvazione da parte delle Camere di una
mozione (di sfiducia) ad hoc.
Dunque, la fiducia del Governo incarica può essere in ogni momento della legislatura
separatamente revocata da ciascuna Camera attraverso l’approvazione di una mozione
motivata di sfiducia la quale deve essere votata per appello nominale ed approvata dalla
maggioranza dei presenti (maggioranza semplice).
Secondo l’art 94 c 5, Cost. tale mozione deve essere sottoscritta da almeno 1/10 dei
componenti di ogni Camera (che devono sottoscrivere la stessa mozione di sfiducia, non
potendosi sommare diverse mozioni sebbene dirette ad ottenere il medesimo scopo). La
norma costituzionale stabilisce inoltre la mozione di sfiducia non possa essere messa in
discussione prima di 3 giorni dalla sua presentazione, allo scopo di evitare colpi di mano
delle opposizioni che potrebbero essere indotte a sfruttare la momentanea assenza nell’
Assemblea di parlamentari della maggioranza. L’approvazione della mozione di sfiducia a
differenza del semplice voto di dissenso, obbliga il Presidente del Consiglio, a nome del
Governo, a presentare al Capo dello Stato le dimissioni dell’ esecutivo. Di fatto, però, non è
mai accaduto che un Governo si sia dimesso a causa di una esplicita revoca della fiducia:
numerose crisi di Governo, se si eccettuano quelle assai peculiari del I e II Governo Prodi,
sono state sempre, formalmente, extraparlamentari, cioè conseguenti a spontanee
dimissioni del Governo per dissensi manifestati nella maggioranza. In qualche rara
circostanza, mozioni di sfiducia al Governo sono state discusse dalle Camere, ma di fatto
sempre respinte, oppure sono risultate superate e non votate a causa delle intervenute
dimissioni del Governo nei cui confronti erano dirette. Tutto ciò si spiega tenendo conto che
le forze politiche della maggioranza uscente e lo stesso Governo ritengono inutile o dannoso
giungere ad un voto quando le ragiono o le condizioni della collaborazione che hanno dato
vita alla maggioranza stessa vengano giudicate non più esistenti. Talvolta nella prassi è
accaduto che il Capo dello Stato abbia respinto le dimissioni presentate e
conseguentemente invitato il Governo a verificare in seno alle Camere la sussistenza delle
condizioni politiche per il perseguimento delle sue attività e comunque ad approfondire nella
sede parlamentare le ragioni della crisi (Parlamentarizzazzione della crisi)

4.4. LA MOZIONE DI SFIDUCIA AL SINGOLO MINISTRO.

I procedimenti fiduciari espressamente disciplinati dalla Costituzione terminano qui, con le


mozioni di fiducia e sfiducia. Tuttavia la prassi, le convenzioni e le consuetudini
costituzionali ne hanno individuato altri due procedimenti: la mozione di sfiducia al singolo
ministro (mozione di sfiducia individuale) e la questione di fiducia.
Nel caso della mozione di sfiducia individuale (del singolo ministro), la sua disciplina è stata
“inventata” dalla giunta per il regolamento del Senato in un parere del 24 ottobre 1984 e
codificata poi dal regolamento della Camera il 7 maggio 1986.
L’esigenza è derivata da un problema pratico relativo all’ammissibilità e al trattamento
procedurale al quale assoggettare le mozioni volte a chiedere le dimissioni di un ministro
(l’applicazione delle regola ordinaria avrebbe previsto lo scrutinio segreto, lasciando così
spazio ai franchi tiratori). Per evitare questi problemi,prima il Senato, poi la Camera, nel
ritenere ammissibili le mozioni volte a chiedere le dimissioni di un ministro, hanno deciso di
estendere ad esse il medesimo trattamento procedurale delle mozioni di sfiducia dell’intero
Governo: dunque, votazione palese per appello nominale, ma anche motivazione,
presentazione da parte di almeno 1/10 dei componenti dell’Assemblea e tre giorni di
intervallo minimo tra presentazione e votazione. Si è affidato al Presidente d’ Assemblea il
compito di decidere quando si sia davanti a mozioni di sfiducia e quando a mozioni di
“censura” (volte a criticare l’operato di un ministro senza chiederne la rimozione). Tale
strumento è ammissibile nell’ordinamento italiano? Vi sono dei dubbi al riguardo in quanto è
incompatibile con il rapporto fiduciario tra le Camere il Governo e tale strumento
accentuerebbe la prassi del “governo per ministeri” a svantaggio della collegialità
governativa e dei poteri di coordinamento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Su questi argomenti ha provato a fare leva l’unico ministro che sia stato sfiduciato, il
ministro di grazia e giustizia Mancuso nel sollevare il conflitto di attribuzioni tra poteri dello
Stato nei confronti del Senato (che aveva approvato la mozione di sfiducia individuale) del
Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica. La Corte Costituzionale ha
respinto le obiezioni affermando la legittimità della mozione di sfiducia individuale con la
sentenza 7/1996, richiamando i caratteri della forma parlamentare (collegamento tra
indirizzo politico – responsabilità - rapporto fiduciario) e sottolineando la sua idoneità a
comportare, per il ministro che ne sia stato colpito, l’obbligo di dimettersi. Non si è più
verificato nessun caso, perché nelle ipotesi è sempre intervenuto il Presidente del Consiglio
in difesa del ministro interessato.

4.5. LA QUESTIONE DI FIDUCIA

Decisamente più rilevante sul piano quantitativo e sul piano sistemico è la questione di
fiducia. Con la questione di fiducia è il Governo a dichiarare che dall’esito di una certa
votazione parlamentare dipende la sua permanenza in carica: a chiamare a raccolta, cioè la
propria maggioranza su una certa votazione parlamentare, legando il suo destino al risultato
di un voto.
Si osserva che la ratio dell’istituto è di tipo “ricattatorio”: con la sua posizione il Governo
pone l’Assemblea davanti a un’ alternativa netta: o approva il testo voluto dal Governo o
questo si dimetterà.
In Italia la questione di fiducia non è oggetto di disciplina costituzionale ma, è una lettura in
negativo del disposto dell’art 94 Cost.,secondo cui la sconfitta in una votazione
parlamentare non comporta per il Governo obbligo di dimissioni (ciò non impedisce di
dichiarare che il destino del Governo dipende dal voto).
Vi sono stati accesi dibattiti sull’ ammissibilità e soprattutto sugli effetti procedurali quando la
votazione ha luogo nell’ambito del procedimento legislativo. Vi è una vera e propria
consuetudine costituzionale in forza della quale la questioni di fiducia produce tre ordini di
effetti (anche in deroga ai principi costituzionali che informano il procedimento legislativo):
1) Il voto palese per appello nominale. 2) La priorità della votazione su cui è stata posta la
fiducia. 3) L’ inemendabilità (e indivisibilità) dell’oggetto di tale votazione.
Oggi tale consuetudine è stata in parte codificata, in parte integrata da norme inserite nei
regolamenti parlamentari (alla Camera nel 1971, al Senato nel 1988).
A queste fanno riscontro, sul versante governativo, due disposizioni legislative contenute
nella legge n. 400/1988: la disposizione legislativa secondo cui “Il consiglio dei ministri
esprime l’assenso all’ iniziativa del Presidente del consiglio di porre la questione di fiducia
davanti alle Camere” e quella secondo cui “spetta al Presidente del consiglio direttamente
o a mezzo di un ministro espressamente delegato porre la questione di fiducia in
Assemblea”.
Per il resto si applica la consuetudine che in parte emergeva da un parere della giunta per
il regolamento del 1984,secondo il quale la questione di fiducia ha priorità su ogni altro voto
e preclude non solo la votazione, ma anche l’illustrazione degli emendamenti,e degli ordini
del giorno. Questa disciplina è stata ora recepita dalla riforma organica del regolamento del
2017,che ha disposto che il Governo debba sottoporre preventivamente alla Presidenza del
Senato i testi sui quali intende avanzare la questione di fiducia(al fine di permettere la
valutazione della proponibilità,dell’ammissibilità e per sottoporli se necessario all’esame
della commissione di bilancio);nel caso di questione di fiducia posta sull’approvazione di un
emendamento governativo,il governo può precisarne il contenuto esclusivamente per ragioni
di copertura finanziaria o di coordinamento formale.
Al Senato, la disciplina regolamentare si limita a vietare la posizione della questione di
fiducia sulle proposte di modifica del regolamento e, in generale, su quanto attenga alle
condizioni di funzionamento interno del Senato. Per il resto, trova applicazione la suddetta
consuetudine.
Alla Camera la disciplina regolamentare allarga i divieti presenti in Senato: vieta la
questione di fiducia anche per le proposte di inchieste parlamentari, e su tutte le votazioni
per alzata di mano o scrutinio segreto. Sancisce la modalità di votazione (per appello
nominale), gli effetti sulla discussione e sull’ordine delle votazioni nonché l’intervallo di
almeno 24 ore che deve intercorrere tra la sua posizione e la sua votazione.
Un momento di svolta si ebbe con la celebre decisione del Presidente Iotti (seduta della
durata di 10 giorni) che ha stabilito che la questione di fiducia, modificando in base all’art
116 l’ordinario procedimento di discussione e di approvazione dei progetti di legge, dà vita
ad un iter autonomo e speciale.
Le finalità in vista delle quali il Governo decide di porre la questione di fiducia sono in genere
ricondotte a due. Anzitutto, vi è lo scopo originario dell’istituto che consiste nel cosiddetto
“ricompattamento della maggioranza” : mediante la questione di fiducia si vuole ricondurre
all’indirizzo politico – governativo le posizioni di quei parlamentari delle forze di
maggioranza che, altrimenti, su quel voto agirebbero con maggiore libertà.

Accanto a questo scopo, vi è quello di tipo antiostruzionistico, che fa leva sugli effetti
procedurali che sono riconnessi alla posizione della questione di fiducia. Entrambe le finalità
tendono ad essere esaltate quando la questione di fiducia è posta su un
maxiemendamento,ossia un emendamento volto a sostituire l’intero progetto di legge o su
un articolo composto da una molteplicità di commi attinenti a oggetti diversi.
La questione di fiducia, proprio perché disciplinata prevalentemente da fonti non scritte,
costituisce uno strumento estremamente duttile. Oltre che nel procedimento legislativo, può
essere posta anche su atti di indirizzo. Di questo tipo sono state le questioni di fiducia che
hanno comportato la caduta di entrambi i governi Prodi.

5) IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO ORDINARIO

5.1. L’INIZIATIVA LEGISLATIVA


(Art 71 Cost. “L’ iniziativa legislativa appartiene al Governo, a ciascun membro delle
Camere e ad altri organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo
esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila
elettori, di un progetto redatto in articoli”. )

Il procedimento di formazione delle leggi ordinarie è, nelle sue linee essenziali, regolato
dalla Costituzione (artt. da 70 a 74), la quale rinvia, per una disciplina più puntuale,ai
regolamenti parlamentari, così ponendo una “riserva di regolamento parlamentare”.
La Costituzione fissa alcuni passaggi ineliminabili: l’ iniziativa, la deliberazione delle due
Camere in momenti distinti e successivi, l’esame in commissione, il voto articolo per articolo
e il voto finale. Tali passaggi rappresentano tutti anelli necessari di una catena, la cui
mancanza origina un vizio di legittimità costituzionale della legge, sindacabile dalla Corte
costituzionale.
Il primo anello della catena è l’iniziativa legislativa, la redazione cioè di un progetto di legge,
composto in articoli e corredato da una relazione illustrativa da parte dei soggetti individuati
dall’ art 71 Cost. : il Governo, i singoli parlamentari, 50.000 elettori, ciascun consiglio
regionale e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL).
Quando non proviene dai singoli parlamentari, l’inizia legislativa è a sua volta il risultato di
un procedimento. Per l’iniziativa del Governo si prevede un itinerario assai complesso:
l’iniziativa del ministro competente o del Presidente del consiglio, il concerto degli altri
ministri coinvolti, la delibera del consiglio dei ministri e, a chiusura ,per espressa previsione
costituzionale, l’ autorizzazione del Presidente della Repubblica alla presentazione a una
delle camere (se riscontra vizi può chiedere un riesame al consiglio dei ministri).

In questo iter, il testo dell’iniziativa legislativa del Governo (alla Camera si chiama “disegno
di legge”, dato che gli altri progetti sono chiamati “proposte di legge”, al Senato, non c’è
differenza, tutti “disegni di legge”) si correda di relazioni (illustrativa, tecnico finanziaria
ecc) che dovrebbero rappresentare la motivazione sostanziale dell’intervento normativo,
giustificandone la prevalenza politica sulle altre.
Vanno ricordate tre caratteristiche dell’iniziativa legislativa: 1) La prevalenza dell’iniziativa
legislativa del Governo rileva solo su un piano politico, poiché invece le iniziative legislative
sembrano tutte avere per la Costituzione un uguale valore giuridico.
2) L’iniziativa legislativa non è idonea a produrre effetti sostanziali (neppure se si individua
in termini esatti la materia su cui intervenire), accade che gli emendamenti dei parlamentari
o dello stesso Governo sono liberi di modificare pure il testo dei disegni di legge
governativi, potendo così aggirare sia tutta la fase endogovernativa, sia l’autorizzazione del
Presidente della Repubblica.
3) L’iniziativa legislativa è in genere considerata un semplice impulso al procedimento, le
Camere non si ritengono obbligate a deliberare su un testo, ma libere di scegliere o
elaborare i testi da approvare, conformemente alla prescrizione costituzionale (art 70 Cost.)
secondo cui la funzione legislativa è esercitata collettivamente da esse.

Caratteristiche che apparivano comprensibili per valorizzare l’autonomia della funzione


legislativa per i primi 4 decenni dell’esperienza repubblicana, ma che ora dovrebbero
essere riviste per l’accresciuto peso del Governo quale soggetto normatore e per effetto
dell’adesione all’UE.
Vi sono tuttavia iniziative legislative “obbligatorie” (anche dette vincolate o doverose) come i
disegni di legge di approvazione del bilancio, di rendiconto e dell’assestamento, che devono
essere presentati ogni anno e con la medesima cadenza approvati dalle Camere. E
iniziative legislative “riservate”, che spettano cioè ad uno solo dei soggetti titolari del potere
di iniziativa: è riservata a esempio al Governo la presentazione dei disegni di legge di
bilancio e quelli di conversione dei decreti legge.
L’iniziativa legislativa può essere subordinata, in casi limitati previsti dalla Costituzione, al
raggiungimento di un accordo (per la ratifica dei patti che regolano rapporto tra stato e
chiesa) o di un intesa (x la regolazione dei rapporti tra Stato e altre confessioni religiose),
oppure allo svolgimento di consultazioni delle regioni o di referendum, ecc.

La sussistenza di questi prerequisiti va verificata dal Presidenti d’Assemblea a quali l’


iniziativa è presentata, ad essi spetta dunque un generale giudizio sulla ricevibilità dei
progetti di legge: una verifica che dovrebbe limitarsi all’accertamento dell’esistenza dell’atto,
della sua regolarità formale e alla constatazione che un progetto di legge consista in un
articolato e che sia preceduto da una relazione illustrativa e ove richiesto da quella tecnico-
finanziaria.

5.2. L’ ESAME IN COMMISSIONE (IN SEDE REFERENTE).

Il progetto di legge, presentato al Presidente di una delle due Assemblee, viene dal
medesimo assegnato ad una commissione parlamentare permanente (o a più commissioni
riunite se la materia investa la competenza di più commissioni), o altrimenti ad una
commissione “speciale” costituita ad hoc.
La scelta della commissione o delle commissioni competenti è al Senato un potere
esclusivo del Presidente d’Assemblea. Alla Camera questa scelta è sottoposta ad una
valutazione dell’aula, che in teoria potrebbe variare la commissione competente a
esaminare il progetto, ma che in genere si limita a prendere atto della decisione
presidenziale.
Al Presidente d’Assemblea spetta comunque risolvere eventuali conflitti di competenza
insorti dopo l’assegnazione.
Nel procedimento normale, ossia in sede referente, in commissione viene svolto un esame
preliminare e istruttorio (che comprende anche la formazione del testo base) rispetto alla
fase deliberativa, che ha luogo invece in Assemblea. Alla commissione spetta innanzitutto
svolgere un’ adeguata istruttoria. Scegliere la materia e dunque i progetti di legge su cui
lavorare è un’opzione politica (non è un atto dovuto, gran parte delle iniziative legislative
non sono esaminate e vengono messe solo per memoria all’ordine del giorno delle
commissioni). Solo per pochissime esiste un vero e proprio obbligo d’esame, ad esempio
per i progetti che costituiscono manovra di bilancio e disegni di legge di conversione. Il
termine ordinario per riferire all’Assemblea è due mesi.

L’esame in commissione si apre con un’ illustrazione preliminare svolta dal Presidente o
affidata ad un relatore, da lui nominato. Se presso l’altro ramo del Parlamento è iniziato
l’esame di un progetto di legge su analoga materia, i Presidenti delle due Assemblee
devono raggiungere intese per evitare lo svolgimento di procedimenti paralleli.
Nella prassi il criterio generale è che vada avanti la commissione che ha iniziato l’esame
per prima.
Si svolge quindi la fase istruttoria propriamente detta: l’acquisizione cioè di “elementi di
conoscenza necessari per verificare la qualità e l’efficacia” dell’intervento normativo
proposto. Questa fase è regolata con dovizia di particolari dal regolamento della Camera
(art 79 )che ha codificato i contenuti di due circolari dei Presidenti delle Camere del 1997.

La definizione dei contenuti dell’istruttoria è poi stata ribadita dallo stesso regolamento ove
si è stabilito che nel corso dell’esame in sede referente le commissioni devono prendere in
considerazione i seguenti elementi:
- La necessità dell’intervento legislativo
- Il rispetto degli altri ambiti di competenza
- Il rapporto costi-benefici
- La corretta stesura del testo
Al fine di poter valutare questi elementi, la commissione può utilizzare l’intero strumentario
delle procedure informative messe a disposizione dai regolamenti: udire i ministri, disporre
di indagini conoscitive ed è soprattutto il Governo il soggetto maggiormente in grado di
fornire informazioni a priori circa la fattibilità dell’intervento legislativo (salvo spettare poi alle
Camere il compito di controllare la correttezza dei dati forniti). (il reg della camera ha
previsto che questi strumenti siano utilizzabili anche da minoranze parlamentari: a
richiesta,cioè,di almeno 4 componenti della commissione,ma sempre che l’ oggetto di tale
richiesta non sia giudicato superfluo,cioè non essenziale per il compimento dell’istruttoria
legislativa),dall’ufficio di Presidenza della Commissione,integrato dai rappresentanti dei
gruppi,con una maggioranza pari a ¾ dei componenti,oppure,in alternativa,dal Presidente di
commissione.

Al Senato,ove il regolamento dice poco sui contenuti dell’istruttoria, questi approfondimenti


sono svolti in sedi informali: l’ ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi, o
un apposito comitato ristretto composto in modo da garantire la partecipazione di tutte le
forze politiche, il quale procede a un’ istruttoria libera ,senza formalità e pubblicità.

Esaurita questa prima fase, la commissione elabora un testo unificato ,di mediazione dei
vari progetti abbinati o altrimenti procede alla scelta di uno dei progetti come “testo base”. E’
con riferimento a questo testo che si fissa un termine per la presentazione degli
emendamenti, che poi sono oggetto di discussione e votazione in commissione.
L’esame di articoli ed emendamenti avviene senza un particolare rigore procedurale, non
dovendo rispettare un rigido ordine.
Sui testi risultanti dall’esame degli emendamenti viene sollecitato, alla Camera, e in
concreto acquisito il parere delle altre commissioni parlamentari interessate. Fra questi, i
più importanti sono i pareri delle commissioni “filtro”, che hanno cioè una competenza
trasversale rispetto ai singoli settori, di competenza di ciascuna commissione : es. la
commissione di bilancio per verificare la copertura finanziaria delle previsioni di spesa
contenute nei progetti di legge e rispetto di leggi sulla contabilità, la commissione affari
costituzionali per la conformità alla Costituzione e coerenza con l’ordinamento, la
commissione politiche dell’UE per progetti di attuazione di norme comunitarie, la
commissione giustizia, e alla Camera la commissione lavoro per gli aspetti concernenti il
pubblico impiego, previdenza e autonomia contrattuale, per prassi la commissione finanze
e infine la commissione bicamerale per le questioni regionali (per materie dell’art 117 Cost.).

Il mancato rispetto dei pareri espressi dalle prime tre impedisce l’approvazione del progetto
di legge da parte di commissioni in sede deliberante o legislativa: se la commissione non
segue neanche una condizione del parere, il testo è rimesso all’Assemblea.
Se la commissione destinataria dei pareri è in sede referente, la vincolatività si attenua e
l’Assemblea è libera di oltrepassare il parere contrario: si procede quindi alla stampa del
parere in allegato alla relazione dell’Assemblea con obbligo di motivare perché non ci si è
conformati (i pareri della commissione di bilancio hanno effetti significativi: se non ci si è
adeguati si trasformano in emendamenti da sottoporre al voto dell’Assemblea).

Alla Camera può essere chiesto un parere che ha lo stesso valore di quello delle
commissioni filtro, si parla di parere rinforzato, il quale consente così di ridurre il ricorso
all’assegnazione dei progetti di legge a commissioni riunite. Nella “sede referente”, il
procedimento in commissione si esaurisce con la votazione del mandato al relatore a riferire
all’Assemblea. E’ questo l’unico voto che la commissione, in questa sede, è tenuta a dare.
Per sostenere il dibattito in aula, la commissione, oltre al relatore di maggioranza e agli
eventuali relatori di minoranza procede alla nomina di un comitato rappresentativo anche
delle minoranze chiamato “comitato dei nove”. Questo rappresenta la commissione nel
corso dell’esame del progetto di legge in Assemblea esercitando quelle funzioni di guida e
sostegno della discussione in aula, oltre che esprimendosi preventivamente su tutti gli
emendamenti presentati. Il testo proposto dalla commissione viene stampato, preceduto
dalla relazione del relatore. Possono essere presentate oltre alla relazione di maggioranza
anche relazioni di minoranza (corredate con un testo alternativo).

5.3. L’ ESAME IN ASSEMBLEA


Arrivati in Assemblea (la stessa procedura si segue in commissione in sede “deliberante”o
“redigente”) sul testo predisposto dalla commissione si apre una discussione generale.
È questo il momento del primo e più ampio confronto pubblico sul testo del provvedimento
che dovrebbe coinvolgere tutti i parlamentari e grazie alla piena pubblicità dei lavori
dell’aula,anche l’opinione pubblica. Tuttavia, nei fatti, la discussione generale si risolve in
un passaggio di rito a cui sono dedicati spazi residuali dei lavori parlamentari: essa si svolge
per lo più in aule deserte ove deputati o senatori spesso stancamente leggono testi da
lasciare agli atti.
Alla Camera dovrebbe essere un dibattito limitato (relatori, un deputato per gruppo e per
componenti del gruppo misto, i dissenzienti, e poi i rappresentanti del Governo e i relatori in
replica), ma solo 20 deputati o un capogruppo possono chiedere l’ampliamento. Ad ogni
modo, essa è in genere oggetto di contingentamento dei tempi per entrambe le Camere.
La discussione può altresì concludersi con la votazione di una questione pregiudiziale o
sospensiva. Il procedimento legislativo si interrompe nel caso di votazione di una questione
pregiudiziale o anche, al Senato, di approvazione della proposta di “non passaggio agli
articoli”. Si tratta di voti che equivalgono al rigetto del provvedimento.
Nel caso di approvazione di una questione sospensiva, il progetto di legge risulta solo
accantonato in attesa di un evento o del superamento di una certa scadenza.

Diverso è, invece, il rinvio in commissione: uno strumento che interrompe l’esame in


Assemblea ed è di solito strumentale alla ricerca di un accordo politico in una sede ristretta,
ossia nella commissione, in cui la fase referente viene così a riaprirsi.
Finita la discussione generale, si passa all’ esame degli articoli che compongono il testo e
dei relativi emendamenti, ossia delle proposte di modifica presentate da singoli parlamentari
o dal Governo, a loro volta suscettibili di ulteriori proposte di modifica, dette
subemendamenti.
Con un emendamento si possono sostituire più articoli, un comma, una parola, anche una
sola virgola del testo in esame. Quello di presentare emendamenti è un diritto riconosciuto a
ciascun parlamentare, che in genere si presenta come una sorta di proiezione del diritto
costituzionale di iniziativa legislativa.
Non è un diritto privo di limiti, innanzitutto nei tempi del suo esercizio: i regolamenti dettano
termini e modalità per la presentazione degli emendamenti (art 86 r. C e 100 r. S).
Sfuggono tendenzialmente ai vincoli temporali il Governo e la commissione, i quali per la
loro posizione si fanno portatrici di scelte politiche che si risolvono in aggiustamenti al testo.
Rispetto all’iniziativa legislativa, la presentazione degli emendamenti presenta limiti che
l’iniziativa non ha, ma al contrario di essa, può esercitarsi anche su materie la cui iniziativa
legislativa è riservata al Governo.

Non tutti gli emendamenti presentati vengono esaminati. Ai Presidenti di Assemblea è


riconosciuto un rilevante potere di vaglio circa la loro ammissibilità o proponibilità. Non sono
ammissibili emendamenti relativi ad argomenti estranei all’oggetto del testo in esame. La
verifica dovrebbe farla anche il presidente della commissioni nel corso della fase referente.

Al Senato sono espressamente ritenuti inammissibili gli emendamenti “privi di ogni reale
portata modificativa” e sono improponibili quelli governativi che comportino oneri, privi della
relazione tecnico-finanziaria. Alla Camera si arriva a soluzioni analoghe con la prassi: sono
ammissibili in aula solo argomenti già considerati in commissione.
Criteri più restrittivi sono stabiliti per alcuni procedimenti: per la conversione dei decreti-
legge, della manovra di bilancio, della legge comunitaria, ecc.
Sugli emendamenti presentati in Assemblea vanno acquisiti poi i pareri delle commissioni di
bilancio, per i profili di copertura finanziaria, e delle commissioni affari costituzionali.

Diversi sono gli effetti procedurali che ne derivano: solo al Senato il parere contrario della
commissione bilancio rende non votabile l’emendamento a meno che ne facciano richiesta
15 senatori. Alla Camera come al Senato, nessun vincolo nella procedura d’Assemblea è
indotto dal parere contrario della commissione affari costituzionali.

Gli emendamenti sono illustrati non autonomamente, ma nell’ambito della discussione


relativa a ciascun articolo nella quale ogni parlamentare, anche se presentatore di più
emendamenti, può intervenire una sola volta.
Sugli emendamenti vengono acquisiti pareri del Governo e del relatore. Questi pareri sono
elementi essenziali di orientamento per il voto dei parlamentari, che nelle sedute caotiche
non riescono a seguire e votano secondo le indicazioni dei colleghi.

Arriva quindi il momento più delicato: quello delle votazioni sugli emendamenti e poi su
ogni articolo, come prescritto dalla Costituzione. Per garantire un’ espressione della volontà
chiara, gli emendamenti sono messi in ordine e posti in votazione, ove si riferiscano alla
stessa porzione di testo, a partire da quelli che più si allontanano dal testo base. Dunque,
prima gli emendamenti interamente soppressivi, poi quelli parzialmente soppressivi, quindi
quelli modificativi e infine quelli aggiuntivi.
Gli articoli aggiuntivi sono votati alla fine, dopo la votazione dell’articolo.
I subemendamenti sono invece votati prima degli emendamenti cui si riferiscono (non sono
ammissibili quelli interamente soppressivi).
Sempre per garantire un risultato coerente delle votazioni, il Presidente non mette in
votazione gli emendamenti che dichiara “preclusi”, perché oggettivamente incompatibili con
precedenti votazioni, o “assorbiti” dall’approvazione precedente di un testo.
Questa è la procedura normalmente seguita. Tuttavia, specie qualora ci si trovi di fronte a
molti emendamenti, per es. nel caso di ostruzionismo, il Presidente può modificare l’ordine
delle votazioni degli emendamenti quando lo reputi opportuno ai fini dell’economia o
chiarezza delle votazioni (r. S) .

Votati gli emendamenti, si vota ciascun articolo che può essere approvato o respinto, ma
anche accantonato quindi rinviato dal Presidente in commissione per un ulteriore
approfondimento. Uno o più articoli possono anche essere “stralciati”, cioè separati dal
progetto di legge: serve qui una decisione dell’Assemblea e la parte stralciata diviene un
autonomo progetto di legge che ha una vita propria (il più delle volte si conclude negli
archivi).
Dopo la votazione articoli alla Camera (prima invece, al Senato) vengono discussi e votati
gli ordini del giorno. Quindi, il progetto di legge deve essere votato nel suo complesso,
con le relative dichiarazioni di voto (anch’esse soggette, di regola, a contingentamento dei
tempi). Questa deliberazione avveniva un tempo a scrutinio segreto mentre oggi invece
avviene generalmente a scrutinio palese, salva la possibilità di richiederne quello segreto
nei soli casi previsti dai regolamenti.
Il voto finale è in genere preceduto dal coordinamento formale, ossia dall’introduzione di
modifiche esclusivamente di forma, che si rendono in genere necessarie per ovviare ad
errori materiali, imperfezioni o contraddizioni. Poiché anche aggiungere una virgola o
rinumerare un comma sono operazioni delicate, il coordinamento è oggetto di un’accurata
disciplina nei regolamenti parlamentari.

Infine il testo del progetto di legge,quando approvato da una camera, per il principio del
bicameralismo paritario, viene trasmesso all’altra, con il “messaggio” del Presidente dell’una
al Presidente dell’altra Assemblea, al quale spetta, nei modi che si sono visti, attivare il
procedimento legislativo presso quel ramo del Parlamento. Il testo viaggerà quindi da
palazzo Montecitorio a palazzo Madama (o viceversa) avanti e indietro (le navette) anche
più di una volta fino a che non vi sia una deliberazione conforme sul medesimo testo, di
Camera e Senato. I regolamenti prevedono comunque che la Camera che ha approvato per
prima il testo debba limitare il suo esame, nel caso non infrequente che l’altra Camera glielo
rimandi modificato, alle sole parti modificate. Ne discende l’inammissibilità degli
emendamenti che non si trovino in diretta correlazione con le modifiche apportate dall’altro
ramo del Parlamento, con la sola eccezione di quelli diretti ad aggiornare la clausola di
copertura finanziaria (termini di contesa tra le due camere quindi ristretti).

5.4. I PROCEDIMENTI IN SEDE LEGISLATIVA (O DELIBERANTE) E IN SEDE REDIGENTE

(Art 72 comma 3 Cost. “Il regolamento può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e
l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti,
composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi,
fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera,
se il Governo o un 1/10 dei componenti della Camera o 1/5 della Commissione richiedono
che sia discusso e votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua
approvazione finale con le sole dichiarazioni di voto. Il regolamento determina le forme di
pubblicità dei lavori delleCommissioni.”)

L’ art 72 comma 3 ha aperto la strada all’approvazione delle leggi direttamente in


commissione, senza bisogno di passare dall’Assemblea. Tale articolo affida ai regolamenti
parlamentari il compito di stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei progetti
di legge sono deferiti alle commissioni sempreché queste siano composte in modo da
rispecchiare la composizione dei gruppi parlamentari.
La commissione viene denominata “in sede legislativa” alla Camera, e “in sede
deliberante” al Senato. Vi è un procedimento che può considerarsi intermedio tra quello in
sede referente e legislativa (o deliberante): si tratta della “sede redigente” , che riserva alla
commissione la redazione del testo; all’ Assemblea la sua approvazione finale, senza
modifiche.
Tali procedure sono circondate in Costituzione da una serie di cautele. Per effetto della c.d.
“riserva d’Assemblea” i procedimenti in sede legislativa non possono essere eseguiti per
progetti di legge in materia costituzionale, elettorale, di delega legislativa, di autorizzazione
alla ratifica di trattati internazionali, di approvazione di bilanci e dei conti consuntivi. A
questo elenco i regolamenti parlamentari aggiungono i disegni di legge di conversione dei
decreti legge, i disegni di legge finanziaria e leggi rinviate dal Presidente della Repubblica.

Per espressa prescrizione costituzionale, poi, il Governo, ma anche le minoranze


parlamentari, possono ottenere in qualsiasi fase del procedimento, il passaggio alla
procedura normale attraverso la c.d. “rimessione in Assemblea”.
La Costituzione ha demandato ai regolamenti parlamentari la determinazione di casi e
forme in cui un disegno di legge può essere deferito a una commissione perché lo approvi
definitivamente.
Il regolamento della Camera afferma che l’assegnazione in sede legislativa (si tratta di un
procedimento speciale) può essere proposta dal Presidente quando un progetto di legge
“riguardi questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale”, ma subito dopo
afferma che possono essere assegnanti in sede legislativa anche i progetti rilevanti,
“qualora rivestano particolare urgenza”.
La decisione iniziale spetta al Presidente d’Assemblea, al momento dell’assegnazione in
commissione. Per il trasferimento in sede invece, occorre oltre all’assenso esplicito del
Governo, anche una richiesta unanime della commissione al Senato.
Alla Camera, una richiesta di tutti i rappresentanti dei gruppi in commissione o di più dei
4/5 dei componenti della commissione. Si tratta di quorum esattamente speculare rispetto a
quelli che la Costituzione richiede per la rimessione in Assemblea.I regolamenti configurano
in modo notevolmente diverso la sede redigente. Al Senato costituisce un vero e proprio “
tertium genus ”, ossia un procedimento intermedio tra la sede referente e la deliberante,
che sin dall’inizio viene scelto dal Presidente d’Assemblea, il quale affida all’aula la sola
votazione finale. La stessa Assemblea con apposito ordine del giorno può fissare i criteri su
cui poi la commissione formulerà il testo (è sempre possibile la rimessione in Assemblea).
Si parla di “deliberante attenuata”.
Alla Camera invece la sede redigente è disegnata come una sorta di subprocedimento
all’interno della sede referente. È l’Assemblea, chiusa la discussione generale, a decidere
di affidare alla commissione la definizione degli articoli, riservandosi il voto sugli stessi
articoli (senza discussione) e la votazione finale (con relative dichiarazioni di voto), ed
eventualmente stabilendo con apposito ordine del giorno i criteri direttivi per la formulazione
del testo degli articoli.

Il parere espresso dalle commissioni filtro non comporta automaticamente la rimessione in


Assemblea, ma apre un’ ulteriore fase in aula in cui, con ordine del giorno, si decide se
seguire o no tali pareri. Quanto alle modalità di svolgimento dei lavori in commissione si
applicano le stesse regole previste per l’esame in Assemblea (art 94 R.C e 41 R.S). Quindi
è necessaria la presenza del Governo e della metà più uno dei componenti (accertamento
fatto all’inizio al Senato, e alla Camera alla votazione. Viene assicurata la Massima
pubblicità delle sedute.

5.5. LA PROMULGAZIONE E LA PUBBLICAZIONE

(Art 73 Cost. “Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese
dall’approvazione Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti,
ne dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito. Le leggi sono
pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno alla loro
pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano diversamente.” )

Approvata nel medesimo testo dai due rami del Parlamento, la legge è ormai formata (o
giuridicamente perfetta) : per produrre i suoi effetti però deve essere promulgata dal
Presidente della Repubblica e quindi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Alla pubblicazione
in Gazzetta, dopo la vacatio legis, si lega l’entrata in vigore:presupposto essenziale,quello
della pubblicazione,perché la legge stessa possa essere conoscibile ed efficace erga
omnes, e quindi produrre effetti nell’ordinamento giuridico.
La promulgazione del Presidente della Repubblica, con la controfirma del Presidente del
consiglio, deve avvenire ai sensi dell’art 73 Cost. entro un mese dall’approvazione(o diverso
termine è stabilito dalle Camere se a maggioranza assoluta ne dichiarano l’urgenza).
In alternativa alla promulgazione, il Presidente della Repubblica, ove riscontri vizi di
legittimità costituzionale (o anche relativi al merito costituzionale) può rinviare la legge alle
Camere (c.d. veto sospensivo) e si effettua la ripetizione del procedimento
legislativo,secondo il classico schema del controllo mediante richiesta di riesame.
In tal caso, dopo che si è data lettura del messaggio di rinvio in ambedue i rami del
Parlamento, il procedimento riparte dalla Camera che aveva esaminato per prima il progetto
di legge. Dopo la lettura del messaggio in commissione, si passa in Assemblea dove si può
limitare la discussione alle sole parti oggetto del messaggio, per poi procedere alla
votazione articolo per articolo e alla finale. Dopo questa ulteriore fase,
Se le Camere riapprovano la legge, il Presidente della Repubblica non può rimandarla
indietro nuovamente, ma è obbligato a promulgare la legge e inviarla al ministro
guardasigilli entro i 30 giorni successivi per la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (se
pensa di incorrere in ipotesi limite di alto tradimento o attentato alla costituzione, può
rifiutare nuovamente la promulgazione). La legge entra in vigore 15 giorni dopo la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (vacatio legis, mancanza della legge) a meno che la
stessa legge non preveda un termine diverso.
6) I PROCEDIMENTI LEGISLATIVI “SPECIALI”

6.1. LEGGI COSTITUZIONALI

(Art 138 Cost. “Le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali sono
adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di
tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera
nella seconda votazione. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella
seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei 2/3 dei componenti”)

Nella categoria delle leggi costituzionali rientrano, ai sensi dell’art 138 Cost. sia le leggi di
revisione costituzionale, sia le altre leggi costituzionali, tra queste ultime un trattamento
particolare spetta alle leggi con cui si adottano o modificano gli statuti delle regioni speciali.
A parte la possibilità di richiedere il referendum per le leggi costituzionali, l’art 138 Cost.
prevede un doppio aggravamento procedimentale per l’adozione delle leggi di revisione
costituzionale e per le altre leggi costituzionali:
- La necessità di due delibere sul medesimo testo da parte di ciascuna Camera,intervallate
almeno da tre mesi.
- La necessità, nella seconda e definitiva lettura presso ciascuna Camera di una
maggioranza aggravata, pari almeno alla maggioranza assoluta dei componenti.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da


ciascuna delle Camere a maggioranza dei 2/3 dei suoi componenti.
I regolamenti parlamentari, con norme pressoché coincidenti, hanno sviluppato entrambi i
profili: 1) Riguardo al primo, hanno optato in favore delle letture alternate tra Camera e
Senato, anziché delle letture consecutive nel medesimo ramo del Parlamento. In tale modo
si può procedere con maggiore celerità.
2) Riguardo al secondo profilo, hanno stabilito (nonostante le perplessità in dottrina) che in
occasione della seconda lettura tanto la commissione in sede referente, quanto l’Assemblea
siano chiamate ad esaminare il progetto di legge costituzionale solamente ne lsuo
complesso, senza poter procedere alla discussione né alla votazione di articoli o
emendamenti.
In entrambi i casi si sono adottate interpretazioni volte ad attenuare gli aggravamenti
procedurali posti dal costituente. Risultano deboli le altre garanzie specificatamente previste
per l’esame di progetti di legge costituzionale, soprattutto nel regolamento della Camera:
maggior durata degli interventi in discussione generale e nell’esame articoli e divieto di
dichiarare d’urgenza di procedere a votazioni riassuntive e di applicare in prima battuta il
contingentamento dei tempi alle fasi successive alla discussione generale.

6.2. LEGGI DI AMNISTIA E INDULTO

(Art 79 Cost. “L’amnistia e l’indulto sonno concessi con legge deliberata a maggioranza dei
2/3 dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale.”)

Il requisito di una maggioranza aggravata è richiesto dalla Costituzione anche per le leggi
di amnistia e indulto (art 79 Cost). Per queste leggi, anzi, diversamente per quel che
accade per le leggi costituzionali, è necessario superare la maggioranza dei 2/3 dei
componenti di Camera e Senato anche nelle votazioni relative ai singoli articoli che la
compongono.
La prescrizione costituzionale non ha ricevuto però specifico sviluppo nei regolamenti
parlamentari forse anche perché finora è stata attuata una sola volta. Tuttavia, Sono
emerse alcune questioni procedurali, su cui Camera e Senato hanno preso posizioni
differenti riguardo le maggioranze richieste nelle votazioni intermedie: in Senato si è
proceduto senza verificare la sussistenza di tale maggioranza per la votazione di singoli
articoli né degli emendamenti ad essi riferiti, alla Camera, invece si è stabilito che la
maggioranza dei 2/3 occorre per la votazione degli articoli e degli emendamenti interamente
sostitutivi di articolo e aggiuntivi, non per la votazione degli altri emendamenti né delle
questioni incidentali.

6.3. LEGGI DI AUTORIZZAZIONE ALLA RATIFICA DEI TRATTATI INTERNAZIONALI


(Art 80 Cost. “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono
di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del
territorio od oneri o modificazioni di leggi.”)

La Costituzione all’ art 80 prevede che il Parlamento debba autorizzare con legge la ratifica
da parte del Capo dello Stato dei trattati più importanti. La legge di autorizzazione alla
ratifica, per la sua delicatezza politica, deve essere obbligatoriamente approvata in
Assemblea e non può essere sottoposta a referendum abrogativo(art 75 cost) .
La negoziazione dei trattati spetta al governo, è lui a presentare alle Camere i disegni di
legge di autorizzazione alla ratifica.
Questa, che era considerata una regola indiscussa, non lo è più dalla XIII legislatura,
quando con apposite pronunce delle giunte per il regolamento, è stata ammessa la
presentazione di iniziative legislative di singoli parlamentari recanti l’autorizzazione alla
ratifica di trattati, è il testo del trattato è quello firmato dal Governo.
I disegni di legge di autorizzazioni alla ratifica normalmente constano di un articolo che reca
l’autorizzazione alla ratifica, di un altro contenente il cosiddetto “ordine di
esecuzione”(disposizione che dà piena attuazione nell’ordinamento interno al trattato),
nonché del testo del trattato che costituisce un allegato in sé inemendabile.
Come inemendabili sono ritenute, secondo una consolidata prassi, sia la disposizione
contenente l’autorizzazione alla ratifica, sia quella recante l’ordine d’esecuzione.
I disegni di legge che si presentano in questa semplice forma sono tradizionalmente
assegnati in sede referente alla commissione affari esteri.
Quando invece il trattato lascia margini di discrezionalità al legislatore nazionale, i disegni di
legge di autorizzazione alla ratifica possono contenere, oltre l’ordine d’esecuzione, anche
puntuali disposizioni di adattamento dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dal
trattato. Su queste ultime è possibile, secondo le regole ordinarie, l’attività emendativa,
solitamente assegnati alla commissione di merito competente per materia). Attenzione
bassa a questi tipi di leggi dato che il trattato è già concluso.

6.4. LEGGI DI APPROVAZIONE DELLE INTESE CON LE CONFESSIONI ACATTOLOCHE

(Art 7 Cost. “ Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le
modificazioni dei Patti, accettate delle parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale.”Art 8 Cost. “ Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse da quella cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i proprio
statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze.”)

I rapporti tra lo Stato e gli enti rappresentativi delle religioni diverse dalla cattolica sono
regolati con legge sulla base di intese bilaterali (art 8 Cost.).
I rapporti con la Chiesa cattolica sono invece disciplinati, secondo l’art 7 Cost., dai famosi
Patti Lateranensi 1929,modificabili senza revisione costituzionale, se le variazioni sono
“accettate dalle due parti”. Le modifiche avvennero con il Concordato del 1984, reso
esecutivo con la legge 121/1985.
Le leggi che regolano i rapporti con le confessioni diverse dalla cattolica seguono un
procedimento particolare, che nella sostanza ripropone il modello della legge di
autorizzazione alla ratifica dei trattati.
Innanzitutto, l’iniziativa legislativa è riservata al Governo che procede a negoziare le intese
con la controparte (o le modifiche al concordato).
Il testo dell’intesa negoziata è riprodotto in un disegno di legge (non in allegato come per
trattati) il quale, come avviene per i trattati, non è considerato emendabile (salvo per le
norme prive di corrispondenza nell’intesa, es. la copertura finanziaria), dato che ogni
emendamento comporterebbe la riapertura delle trattative. Questa inemendabilità si riflette
nel potere che hanno i Presidenti di Camera e Senato di dichiarare l’ improcedibilità di
emendamenti, di parte o di interi disegni di legge, che incidano su materie oggetto di intesa
tra lo Stato italiano e le rappresentanze della chiesa cattolica o altre confessioni religiose.

6.5. LEGGI DI CONVERSIONE DEI DECRETI LEGGE

I disegni di legge di conversione dei decreti legge sono lo strumento con cui il Governo
trasmette alle Camere il testo del decreto legge, adottato dallo stesso Governo, ai sensi
dell’art 77 Cost.: “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Essi si compongono in
genere di un unico articolo, con il quale si dispone la conversione in legge del decreto
legge, il cui testo è riprodotto in allegato.
È l’art 77 Cost. a stabilire, in modo tassativo, i tempi di inizio e di conclusione dell’esame
parlamentare di tali disegni di legge, prevedendo che i decreti legge debbano essere
presentati il giorno stesso alle Camere, che, anche se sciolte, sono appositamente
convocate e si riuniscono entro 5 giorni. I decreti perdono efficacia ex tunc (sin dall’inizio)se
non convertiti entro 60 giorni.
A questa urgenza costituzionale i regolamenti parlamentari hanno risposto in modo diverso,
ma sempre in contraddizione con la logica della Carta Costituzionale : in un primo momento
non differenziando il procedimento di esame dei disegni di legge di conversione rispetto a
quello previsto per altri progetti di legge. In un secondo momento, a partire dagli anni ‘
80,specializzandoli sì, ma attraverso l’ introduzione di una serie di aggravamenti procedurali
(consistenti in un sub procedimento per la verifica parlamentare dei requisiti di necessità e
urgenza, affidato in via preliminare alle commissioni affari costituzionali e rispettive
Assemblee).
Tuttavia l’idea che un organo politico potesse distinguere tra valutazione di legittimità
costituzionale e quella di merito di un disegno di legge si è rivelata fallace, così nel 1997
alla Camera fu soppressa, prevedendo in sostituzione il coinvolgimento nel procedimento di
conversione di un organo a composizione paritaria quale il comitato per la legislazione,
chiamato ad operare però sulla base di paramenti differenti ( nei quali non è incluso art 77
Cost.).

Si hanno oggi discipline notevolmente diversificate tra Camera e Senato del procedimento di
conversione:
- Al Senato è ancora necessario il parere della commissione affari costituzionali
sull’esistenza dei presupposti e sui requisiti stabiliti dalla legislazione vigente (possibile
anche relativamente ad una parte del testo sul quale parere 10 senatori possono chiedere
una discussione e un voto dell’Assemblea).
- Alla Camera il comitato per la legislazione si esprime sulla qualità del testo e sulla
conformità alle regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti
legge, previste dalla vigente legislazione, mentre alla commissione di merito(quella alla
quale il disegno è assegnato in sede referente) spetta valutare la sussistenza dei
presupposti sulla base degli elementi contenuti nella relazione governativa.

A questa differenza si aggiunge la disarmonia relativa all’applicazione del contingentamento


dei tempi all’ esame dei disegni di legge di conversione dei decreti legge: applicazione che
avviene regolarmente in Senato mentre è espressamente vietata alla Camera.
Con la legge di conversione dunque, le Camere stabilizzano gli effetti del decreto legge,
rendendo permanente la disciplina da essi dettata, la quale viene in genere ampiamente
modificata per opera della stessa legge di conversione, mediante emendamenti riferiti solo
formalmente a questa, ma in realtà modificativi del testo del decreto legge, con efficacia dal
giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione.
Anche quanto ai margini di emendabilità della legge di conversione, i due regolamenti
seguono strade differenti: il regolamento della Camera prevede uno scrutinio segreto
sull’ammissibilità degli emendamenti riferiti ai disegni di legge di conversione, stabilendo
che vanno dichiarati inammissibili quelli che non siano strettamente attinenti alla materia del
decreto legge. Il regolamento del Senato prevede che siano esclusi solo quelli estranei
all’oggetto della discussione.

6.6. LEGGI DI DELEGA (E DI DELEGIFICAZIONE)

Con l’approvazione di una legge di delega il Parlamento demanda al Governo, ai sensi


dell’art 76 Cost. l’esercizio della funzione legislativa su un certo oggetto. Non è una delega
in bianco, ma di una delega che oltre a riguardare un oggetto definito, deve essere
temporanea e parziale: nel senso che vale per un tempo limitato e parziale e non consente
un’ attività del tutto libera al Governo, posto che deve svolgersi nel rispetto di principi e dei
criteri direttivi indicati dal legislatore delegante.

È dunque anzitutto al legislatore delegante che l’art. 76 Cost. rivolge le sue prescrizioni, a
tutela del Parlamento nei confronti di se stesso, in modo da evitare il ripetersi di
esautoramenti della funzione legislativa parlamentare come quelli verificatisi in epoca
statutaria e fascista.
Alla medesima ratio sembra rispondere l’inclusione dei disegni di legge di delega all’interno
della riserva d’ Assemblea ad opera dell’art. 72 comma 4.
Il disegno costituzionale non impedisce pertanto che lo stesso legislatore delegante fissi
ulteriori limiti, in particolare di tipo procedimentale.
Questi limiti ulteriori consistono in genere nel coinvolgimento preventivo di organi o soggetti
di vario genere, chiamati ad esprimere il loro parere(obbligatorio ma non vincolante).

La previsione assolutamente più frequente è quella dei pareri delle commissioni


parlamentari. È per effetto della previsione del parere di commissioni parlamentari sugli
schemi di decreti legislativi che il dialogo tra Parlamento e Governo, già realizzatosi durante
l’approvazione della legge di delega, ha modo di proseguire anche successivamente alla
sua entrata in vigore.
Con un’inversione dei ruoli, però: nella fase di approvazione della legge di delega l’ultima
parola spetta al Parlamento (fase a dominanza parlamentare); al contrario, nella fase di
adozione del decreto legislativo, la decisione finale compete al Governo(fase a dominanza
governativa).
A queste due fasi, necessarie, se ne aggiunge sempre più spesso una terza, a carattere
eventuale. Accade infatti ormai con regolarità che la legge di delega, accanto alla delega
principale, preveda una delega accessoria, in virtù della quale, entro un termine
successivo alla scadenza della delega “principale”, il Governo è delegato ad adottare
ulteriori decreti legislativi “integrativi e correttivi”, nel rispetto dei medesimi principi e criteri
direttivi fissati nella legge di delega e seguendo lo stesso procedimento delineato per
l’adozione del decreto legislativo “principale”.
Lo strumento di delega integrativa e correttiva, la cui legittimità è stata affermata in più
occasioni dalla Corte Cost. presenta una serie di vantaggi ,consentendo di approvare una
serie di modifiche di dettaglio sulla base dell’esperienza o dei rilievi avanzati dopo la loro
entrata in vigore.
Simile allo schema procedimentale della delega legislativa, dal punto di vista del “dialogo”
tra Parlamento e Governo, si rivela essere quello della delegificazione, istituto nel quale la
disciplina di alcune materie non protette da riserva di legge assoluta, è trasferita dalla fonte
legislativa primaria della legge a quella secondaria, dei regolamenti.
In altri termini si tratta di un mutamento di fonte normativa, relativamente ad alcune materie
ben individuate. Ciò consente un’attività diretta del Governo in quegli ambiti, considerata più
rapida e flessibile.
La legge n. 400/ 1988 ha risistemato la materia, fino ad allora disciplinata dalla legge n.100
del 1926. All’art 17 della legge del 1988 è prevista la delegificazione come istituto che
attribuisce al Governo il potere generalizzato di emanare norme di rango secondario, per lo
più consistenti in regolamenti, sulla base di una legge a contenuto autorizzatorio da parte del
Parlamento. Il fenomeno della delegificazione si è sviluppato a partire dal settore
amministrativo in materia di procedimento con la legge n. 241 del 1990. Altro settore
interessato della delegificazione è quello dell’indennità di espropriazione. Importanti
interventi delegificativi si registrano anche nel settore degli appalti ma il settore nel quale il
fenomeno si è manifestato in maniera più appariscente è quello del pubblico impiego con le
tre leggi cosiddette Bassanini, Bassanini bis e Bassanini ter.

Il secondo comma dell’ art 17 della legge n.400 prevede espressamente che la legge
delega debba indicare quali norme restano abrogate per effetto della delegificazione, cioè
per effetto dell’intervento (“autorizzato” della delega ) del potere governativo di interferire in
materie già affidate alla potestà legislativa parlamentare. Dunque il Parlamento può
delegificare, ossia delegare il Governo a disciplinare con regolamenti una certa materia,
purchè indichi della legge delega quali norme vanno abrogate. Non sempre ciò accade. A
tal proposito, secondo la dottrina costituzionalistica prevalente non è ammissibile
un’abrogazione tacita, perché ciò significherebbe che la validità di una norma di legge viene
a dipendere dalla sua compatibilità con una norma successiva regolamentare
contravvenendo a due precisi principi: quello di gerarchia delle fonti e quello della
successione delle leggi nel tempo. Di conseguenza una legge delega che non indica le
norme da abrogare è sostanzialmente elusiva del dettato dell’art 76 Cost.

6.7. LEGGE DI BILANCIO, RENDICONTO E ASSESTAMENTO

Mentre la Costituzione fa esclusivo riferimento alle leggi di approvazione del bilancio e del
rendiconto, ponendo all’art. 81 Cost. una riserva di iniziativa a favore del Governo e una
riserva di approvazione a favore del Parlamento, la legislazione in materia di contabilità
pubblica è venuta delineando una gamma di provvedimenti legislativi decisamente più
articolata.
Con la legge n. 468\1978 si è deciso di valorizzare non la legge di bilancio, ma la “manovra
di bilancio”, avente il suo fulcro in un altro disegno di legge, da esaminarsi insieme a quello
di bilancio: il disegno di legge finanziaria.
Successivi interventi legislativi hanno ridefinito il contenuto proprio della legge finanziaria e
ulteriormente arricchito gli strumenti che compongono la manovra di bilancio, includendovi il
DPEF (decisione di finanza pubblica) e i disegni di legge collegati.

Questa disciplina legislativa ha trovato una risposta “speculare”nei regolamenti di Camera


e Senato. Il ruolo dei regolamenti parlamentari è diventato cruciale soprattutto dopo il 1978,
quando l’istituzione del disegno di legge finanziaria ha consigliato di dedicare un apposito
periodo di tempo dei lavori parlamentari quasi esclusivamente all’esame dei due disegni di
legge, per i quali si è previsto l’esame abbinato in commissione e in Assemblea, e ai
documenti ad essi correlati, originando così una fase specializzata e concentrata dei lavori
parlamentari: la sessione di bilancio.
Poiché lo scopo primario di tale disciplina era quello di assicurare tempestività
all’approvazione delle leggi finanziaria e di bilancio, la sessione di bilancio è stata
caratterizzata da due elementi indefettibili: la garanzia dei tempi di decisione, ottenuta
mediante l’obbligatoria applicazione del meccanismo del contingentamento dei tempi e il
divieto di adottare deliberazioni su progetti di legge con conseguenze finanziarie quando è in
corso l’esame del disegno di legge di bilancio.
Il divieto opera solo nel corso della lettura dei disegni di legge finanziaria e di bilancio
presso quello stesso ramo del Parlamento ed è tendenzialmente derogabile con decisione
unanime delle conferenza dei capigruppo.
La disciplina dei regolamenti parlamentari ha poi avuto bisogno di ulteriori e rilevanti
riformatori, essenzialmente ispirati all’esigenza di introdurre le procedure parlamentari per
l’esame del DPEF e dei provvedimenti a esso collegati e di assicurare la tenuta dei disegni
di legge che compongono la manovra di bilancio rispetto a normative intruse.

La più accurata tipizzazione del contenuto della legge finanziaria, legge a contenuto tipico
e a competenza limitata, ha portato a rafforzare le difese nei confronti delle disposizioni che
rispetto ad esse risultino estranee.
Si è configurato uno specialissimo potere di stralcio presidenziale, per effetto del quale il
Presidente del ramo del Parlamento cui il disegno di legge finanziaria è presentato per
primo, preliminarmente all’assegnazione, “accerta che il disegno di legge non rechi
disposizioni estranee al suo oggetto così come definito dalla legislazione vigente in materia
di bilancio e contabilità di Stato” e, ove individui ipotesi siffatte, “comunica all’Assemblea lo
stralcio delle disposizioni estranee, sentito il parere della commissione di bilancio”.

Al fine di evitare modifiche in Parlamento che introducano disposizioni estranee al


contenuto proprio del disegno di legge di bilancio, si è previsto uno specifico regime di
presentazione e di ammissibilità degli emendamenti. Essi devono infatti essere presentati
necessariamente in commissione.
L’inammissibilità è decisa, in prima battuta, dai Presidenti di commissione e, soprattutto,
dal Presidente della commissione bilancio, con la possibilità, però, di appello al Presidente
di Assemblea.
Come la legge di approvazione del bilancio, anche quella di approvazione del rendiconto
generale dello Stato necessita, ai sensi dell’art. 81 comma 1 Cost., di essere deliberata
dalle due Assemblee a cadenza annuale, ponendosi a conclusione del ciclo di bilancio. Da
ciò l’opzione del regolamento della Camera di garantirne un’approvazione tempestiva
attraverso la fissazione di un termine piuttosto breve e l’estensione a tale disegno di legge,
da esaminarsi insieme al disegno di legge di approvazione dell’assestamento, e alle
relazioni della Corte dei conti sugli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, delle regole
dettate per la sessione di bilancio quanto all’assegnazione e all’esame e all’ammissibilità
degli emendamenti in commissione e in Assemblea.

CAPITOLO 9) IL PARLAMENTO ITALIANO NELL’ UNIONE EUROPEA

1) IL PRIMATO DELLE FONTI DELL’UNIONE EUROPEA


Quella europea è diventata una dimensione sempre più presente nell’attività parlamentare.
L’ Italia, con l’adesione ai trattati comunitari, è entrata a far parte di un ordinamento più
ampio di natura sovranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche con riferimento al
potere legislativo, nelle materie oggetto dei trattati, con il solo limite dell’intangibilità dei
principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
La prevalenza del diritto dell’ Unione Europea si afferma attraverso lo strumento della non
applicazione delle norme interne configgenti (indipendentemente se anteriori o posteriori a
quella comunitaria). Tale non applicazione è affidata al giudice comune, garantendosi così
la diretta efficacia nell’ordinamento nazionale del diritto comunitario prodotto da fonti, i
regolamenti, che sono dotati di effetti obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente
applicabili. Analoghi effetti la Corte di giustizia dell’UE e la Corte costituzionale riconoscono
alle direttive che contengono prescrizioni incondizionate e sufficientemente precise(c.d.
direttive dettagliate)
Per gli atti diversi dai regolamenti è necessario il loro recepimento in atti normativi interni: in
fonti cioè, che risultino adeguate a garantire un pieno dispiegamento degli effetti della
normativa comunitaria.
Le fonti del diritto dell’UE sono: i trattati istitutivi, le fonti di diritto internazionale, di diritto
derivato (direttive e decisioni), le raccomandazioni, i pareri, le sentenze della corte di
giustizia, ecc.. .
La trasposizione fedele, completa e puntuale del diritto dell’Unione Europea è dunque un
obbligo previsto dai trattati, ma anche per effetto dell’art. 11 e dell’art. 117 commi 1 e 5
Cost., un’ esigenza costituzionale.

2)I PARLAMENTI NAZIONALI DOPO IL TRATTATO DI LISBONA

Il trattato di Lisbona,entrato in vigore il 1 dicembre 2009, inserisce nel TUE un articolo


espressamente dedicato ai Parlamenti nazionali, l’ art 12. Un articolo collocato nel titolo
contenente “disposizioni relative ai principi democratici”. In questo titolo di trova l’importante
affermazione per cui il “funzionamento dell’unione si fonda sulla democrazia rappresentativa.
Secondo la lettura del trattato ai parlamenti nazionali non spetta,nel circuito della
democrazia rappresentativa,il ruolo principale,dal momento che “i cittadini sono direttamente
rappresentati, a livello dell’Unione,nel Parlamento europeo”.
I parlamenti europei sono l’essenziale fonte di legittimazione delle decisioni europee,innanzi
tutto ratificando i trattati e poi indirizzando e controllando i rispettivi Governi.
Allo stesso tempo il trattato di Lisbona ha attribuito direttamente ai parlamenti
nazionali,indipendentemente dai rispettivi ordinamenti costituzionali,una serie di poteri
inserendoli direttamente nel circuito rappresentativo dell’Unione. Ed è così che il diritto
dell’Unione può essere l’immediato fondamento di nuove procedure parlamentari non solo
del parlamento europeo,ma anche-ed è qui la novità- del parlamento nazionale.

QUADRO: I PARLAMENTI NAZIONALI NEL TRATTATO DI LISBONA


I Parlamenti nazionali contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell'Unione:
a) venendo informati dalle istituzioni dell'Unione e ricevendo i progetti di atti legislativi
dell'Unione
b) vigilando sul rispetto del principio di sussidiarietà ..
c) partecipando, nell'ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ai meccanismi di
valutazione ai fini dell'attuazione delle politiche dell'Unione in tale settore …
d) partecipando alle procedure di revisione dei trattati ..
e) venendo informati delle domande di adesione all'Unione ..
f) partecipando alla cooperazione interparlamentare tra parlamenti nazionali e con il
Parlamento europeo ..

2.2 LA VIGILANZA SUL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’ (e il c.d. dialogo


politico)

Sui progetti di atti legislativi dell’Unione,ciascuna camera di ogni parlamento nazionale


singolarmente considerata è chiamata direttamente dai trattati europei,ed in particolare dal
protocollo n 2 annesso al trattato di Lisbona (sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità), a svolgere una funzione di “vigilanza” preventiva circa il rispetto del
principio di sussidiarietà.
Ogni camera,infatti,ricevuti i progetti di atti legislativi,ha a disposizione 8 sett per analizzare
questi progetti e formulare pareri contenenti rilievi circa il rispetto del principio di
sussidiarietà.
Di questi pareri le istituzioni europee tengono conto nella misura in cui lo ritengono
opportuno, ma qualora i rilievi siano condivisi da un certo quorum dei parlamenti nazionali,
essi producono un effetto giuridico,nel senso di obbligare a un riesame o,in alcuni casi e ad
alcune condizioni, nel senso di permettere di bloccare la decisione.
In particolare, se i rilievi sono fatti propri da almeno 1/3 dei parlamenti nazionali,il progetto di
atto deve essere riesaminato dalla Commissione e,al termine di tale riesame,la decisione di
modificarlo,ritirarlo o mantenerlo va motivata sul punto (c.d. cartellino giallo).

Entrato in vigore l’atto normativo i parlamenti nazionali potranno chiedere ai loro governi di
ricorrere alla Corte di giustizia invocando una violazione del principio di sussidiarietà.
Qualora vi sia una maggioranza semplice dei Parlamenti nazionali che formulino pareri
motivati sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà, da parte di un progetto di atto
legislativo esaminato secondo la procedura legislativa ordinaria, la Commissione potrà
mantenere la propria proposta solo motivandone le ragioni. In tal caso Consiglio e
Parlamento europeo dovranno valutare la compatibilità della proposta con il principio di
sussidiarietà, tenendo conto dei pareri motivati del parlamenti nazionali.
Il Consiglio con la maggioranza del 55% dei membri e il Parlamento con la maggioranza
semplice, potranno bloccare il procedimento.
Con la nuova previsione, Consiglio e Parlamento europeo possono imporre il ritiro
dell’iniziativa della Commissione , su impulso della maggioranza dei Parlamenti nazionali.

2.3 I PARLAMENTI NAZIONALI NELLE PROCEDURE DI REVISIONE DEI TRATTATI


Il nuovo ruolo europeo dei Parlamenti nazionali non si esaurisce nel controllo sul rispetto del
principio di sussidiarietà,ma anche nelle procedure di revisione dei trattati.
Il trattato di Lisbona coinvolge parlamenti nazionali nella procedura di revisione ordinaria dei
trattati. L’art 48 TUE prevede innanzitutto che i progetti intesi ad accrescere o a ridurre le
competenze attribuite all’Unione nei trattati vengano notificati ai parlamenti nazionali. Deve
quindi essere convocata una Convenzione.
Questa convocazione spetta al Presidente del Consiglio europeo,sulla base di una
preventiva decisione del consiglio stesso,previa consultazione del parlamento europeo e
della commissione.
Il par.3 dell’art 48 TUE si limita a dire che la Convenzione è composta da “rappresentanti dei
Parlamenti nazionali,dei capi di stato o di governo degli stati membri, del parlamento
europeo e della commissione”. I parlamenti nazionali dunque sono inseriti in questa fase
preparatoria,per contribuire a legittimare il processo di revisione dei trattati,del quale restano
comunque “padroni”,essendo in ogni caso necessaria la classica legittimazione esterna al
sistema istituzionale dell’Unione che si produce con la ratifica,conformemente alle rispettive
norme costituzionali: ratifica da cui dipende espressamente l’entrata in vigore delle
modifiche dei trattati adottate con la procedura di revisione ordinaria.
Nella prassi delle due convenzioni (quella che elaborò il trattato costituzionale e quella che
aveva in precedenza approvato la Carta dei diritti fondam dell’ue) i rappresentanti del
Parlamento italiano sono stati scelti dai Presidenti delle Camere,d’intesa tra loro,i quali
hanno designato un rappresentante della maggioranza e uno dell’opposizione,ciascuno
appartenente a una camera diversa.
Quella che include il ricorso alla Convenzione non è l’unica procedura di revisione definita
come ordinaria. L’art 48 TUE ne disciplina anche un’altra: il Consiglio europeo può decidere
a maggioranza semplice di non convocare una Convenzione “qualora l’entità delle modifiche
non lo giustifichi”. A garanzia dell’eccezionalità del ricorso a questa variante della procedura
ordinaria c’è la necessità di una “previa approvazione del Parlamento europeo” della scelta
del consiglio europeo.
Proprio perché si tratta di una modifica “semplice” dei trattati,questa dovrebbe essere
sostanzialmente tutta già definita nel momento in cui il consiglio europeo decide di ricorrere
a questa procedura,sottoponendo una modifica testuale dell’approvazione del parlamento
europeo.

A fianco della procedura,ordinaria il trattato di Lisbona disciplina 3 procedure semplificate di


revisione dei trattati: una riferibile a tutta la parte terza del TFUE;le altre due (dette clausole
passerella) atte a modificare le procedure decisionali,nella direzione di favorire l’estensione
del principio di maggioranza e della procedura legislativa ordinaria.
Il par.6 dell’art 48 TUE prevede innanzitutto che il Governo di qualunque stato membro,il
Parlamento europeo e la Commissione europea possano sottoporre al Consiglio europeo
progetti tesi a modificare in tutto o in parte le disposizioni della “parte terza del trattato sul
funzionamento dell’unione europea relative alle politiche e azioni interne dell’Unione”. Il
consiglio europeo,all’unanimità,può adottare una decisione in tal senso,previa consultazione
del parlamento europeo e della commissione. Questa decisione, entra in vigore solo previa
approvazione degli stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
È la procedura che si è seguite per integrare,nel 2011,l’art 136 TFUE al fine di favorire la
creazione del meccanismo di stabilità finanziaria.

Non si parla più di ratifica,ma di “approvazione” degli stati membri. Sviluppando questa
previsione,l’art 11 della legge 234/2012 prevede correttamente un’autonoma procedura
legislativa di approvazione di questa revisione semplificata,che viene cosi sottratta
espressamente alla procedura generale di ratifica dei trattati internazionali di cui all’art 80
Cost.

Come accennato,il trattato di Lisbona ha previsto altre forme di sostanziale revisione


semplificata. Si tratta delle cosiddette “clausole passerella”. Grazie a queste il consiglio
europeo all’unanimità può decidere di passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata in
tutte le materie,purchè esse non abbiano implicazioni militari e non rientrino nel settore della
difesa. Allo stesso modo può decidere,sempre il Consiglio europeo,il passaggio alla
procedura legislativa ordinaria nei casi in cui le materie siano invece regolate da una
procedura legislativa speciale.
Per tutte queste passerelle il trattato prevede che ogni iniziativa del consiglio europeo possa
essere bloccata,entro 6 mesi,dall’opposizione anche di un solo Parlamento nazionale.
In tutte queste ipotesi la legge n 234/2012 richiede una “deliberazione negativa di entrambe
le camere” per poter bloccare la volontà espressa del governo in seno al Consiglio.
Un analogo diritto di opposizione è previsto dall’art 81,par 3 TFUE in merito a proposte della
Commissione intese all’adozione da parte del Consiglio (all’unanimità) di una decisione che
determina gli aspetti del diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali.
Anche qui la legge 234 richiede,perché il parlamento italiano possa utilizzare questo potere
di veto,una deliberazione negativa di entrambe le camere .
Una deliberazione positiva delle camere viene invece richiesta,sempre dalla legge 234, in
tutti i casi in cui l’entrata in vigore di una decisione del Consiglio europeo o del Consiglio sia
subordinata dai trattati alla previa approvazione degli Stati membri conformemente alle
rispettive norme costituzionali. Si tratta di decisioni particolarmente delicate ( ad es. la
procedura per l’elezione dei membri del parlamento europeo) aventi una natura
sostanzialmente costituzionale.

2.4. LA COOPERAZIONE INTERPARLAMENTARE: LA COSAC, MA NON SOLO.

Lo strumento tradizionale della cooperazione tra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo


è la COSAC (conferenza degli organismi specializzati negli affari comunitari) che si
riunisce con cadenza semestrale.
Alla riunione della COSAC ciascuna Camera invia tre parlamentari componenti della
commissione per gli affari europei. Organo che ha l’ambizione di diventare il luogo in cui
realizzare forme di coordinamento delle posizioni nazionali e la tentazione di creare una
terza camera che si affianchi al parlamento europeo e al consiglio dei ministri. Tuttavia limiti
in ragione della variabile rappresentatività di questo organismo, che vede riuniti i soli
delegati delle commissioni per gli affari europei, le quali soltanto in pochi paesi possono
qualificarsi come organi abilitati a esprimere in modo definitivo la volontà del parlamento
nelle questioni comunitarie.

3) LA COSI DETTA "FASE ASCENDENTE" la RISERVA D'ESAME PARLAMENTARE.

Vi sono strumenti incisivi per controllare e indirizzare l’azione degli esecutivi in seno al
Consiglio dei ministri dell’Unione, nel momento della definizione degli atti normativi (e non
solo) europei. Un controllo e un indirizzo che si fondano su una regolare trasmissione di tutti
i documenti preparatori dell’attività normativa europea e che,in alcuni casi,si traducono in
veri e propri mandati,senza i quali il Governo non può impegnarsi in consiglio.
La materia è regolata oggi dalla legge 234/2012, sulla partecipazione dell’Italia alla
formazione e attuazione delle norme e delle politiche dell’UE”, dai regolamenti
parlamentari,oltre che da una serie di convenzioni e di prassi:il tutto nel quadro delle norme
previste dai trattati e dai loro protocolli.

Già nel 1987 con la “legge Fabbri” si era previsto un obbligo per il Governo di trasmettere
tutti gli atti preparatori della normativa europea. Previsione ribadita nel 1989 con la “Legge
Pergola”, ma negli anni, salvo qualche eccezione, non ha avuto una compiuta attuazione.
Il Governo in rari episodi ha trasmesso al Parlamento gli atti preparatori.
Solamente con l’entrata in vigore della legge n. 11/2005 in virtù del rinnovato clima di
interesse conseguente all’ approvazione del trattato di Lisbona, si è avviata una
trasmissione regolare di tutti gli atti preparatori della normativa europea e non solo, ed è
stata aggiunta la possibilità, per agevolare la trasmissione, di avvalersi di strumenti
informatici (rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali).
Il Governo, con cadenza tendenzialmente settimanale,trasmette atti e documenti della più
varia natura. Questi documenti sono inviati dalle Presidenze di Camera e Senato alle
commissioni permanenti. Alla Camera è la presidenza ad assegnarli direttamente alle
commissioni competenti; al Senato gli elenchi degli atti sono inviati a tutte le commissioni
che, ove siano interessate, ne chiedono l’assegnazione.
Gli attori della fase ascendente, dunque, secondo i regolamenti delle due Camere, sono le
commissioni permanenti. Ciascuna, nelle materie di sua competenza, può sul progetto di
atto normativo comunitario “esprimere il proprio avviso”, ricorrendo, alla Camera, a
un“documento” finale e, al Senato, ad una “risoluzione” (differenza solo terminologica non
sostanziale). L’effetto è sempre quello di un atto di indirizzo al Governo.
Questi progetti di atti sono assegnati anche alle commissioni permanenti per le politiche
dell’Unione Europea, che esprimono “pareri” alla Camera e “osservazioni” al Senato.

Alla 14° commissione del Senato sono assegnati direttamente, in via primaria, gli atti che
riguardano le istituzioni comunitarie o la politica generale dell’UE. Questa commissione può,
nel caso di inattività della commissione di merito, chiedere alla presidenza che le proprie
osservazioni siano trasmesse al Governo.
Quando una delle Camere ha messo all’ordine del giorno l’esame di un progetto di atto
comunitario, l’ art 10 della legge 234/2012 prevede che scatti una riserva d’esame
parlamentare: il Governo non può procedere alle attività di propria competenza per la
formazione dei relativi atti comunitari prima che sia concluso l’esame parlamentare.
Passati 30 giorni, il Governo è libero di procedere anche in mancanza della pronuncia
parlamentare.

Grazie alla “riserva di esame parlamentare”, perciò, un procedimento parlamentare è in


grado di esercitare un’incidenza diretta sull’ attività del Consiglio dell’Unione.
Può essere poi il Governo in casi di particolare importanza politica, economica e sociale ad
apporre direttamente, in sede di Consiglio dell’UE ,una riserva di esame parlamentare su un
testo o su una o più parti di esso, chiedendo che su ciò si esprimano,sempre entro 30 giorni
le commissioni parlamentari.
L’effetto della pronuncia parlamentare è quello proprio degli atti di indirizzo.

L’incidenza degli indirizzi parlamentari è direttamente proporzionale al margine negoziale a


disposizione della delegazione italiana nella fase della procedura in cui l’indirizzo interviene:
margine ovviamente maggiore se richiesta l’unanimità.
La piena informazione del Parlamento nella fase ascendente è condizione essenziale per
una piena consapevolezza sulla natura e portata degli obblighi che si assumono, stante il
vincolo costituzionale ad una loro piena e puntuale trasposizione nell’ordinamento interno.
La legge n. 234/2012 prevede una articolata disciplina che garantisce un coinvolgimento
sistematico del Parlamento in tutta la fase ascendente del diritto dell’Unione. Si prevede che
il presidente del consiglio debba trasmettere alle camere relazioni e note informative
predisposte dalla rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione europea; e ciò non
solo con riferimento a riunioni del Consiglio e sedi comunque formali,ma anche con
riferimento a riunioni del tutto informali,dove spesso maturano gli accordi politici su testi che
poi vengono esaminati senza dibattito nelle sedi formali.

Sempre la legge 234 prevede che le amministrazioni ministeriali elaborino e trasmettano alle
camere,su ogni progetto di atto legislativo,una relazione tecnica che non solo fornisca
elementi per permettere la valutazione circa il rispetto dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità in relazione ai poteri che ai parlamenti nazionali il trattato di Lisbona offre,ma
rechi altresì un valutazione complessiva del progetto,delle sue prospettive negoziali e,
soprattutto, del suo impatto finanziario e di quello sull’ordinamento interno,da esporre
attraverso l’elaborazione di una puntuale tabella di corrispondenza tra le disposizioni del
progetto e le norme nazionali.
L’obiettivo è evidentemente quello di anticipare nella “fase ascendente” le problematiche che
con ogni probabilità sorgeranno nella successiva fase discendente.

4)LA COSI DETTA FASE DISCENDENTE. La legge comunitaria annuale.

Lo strumento che dà attuazione agli obblighi europei, è legge comunitaria annuale, il cui
procedimento (su modello della legge di bilancio) è disciplinato con legge ordinaria(prima
dalla 86/1989 poi dalla 11/2005,ora dalla legge 234/2012) e da norme dei regolamenti
parlamentari.
La “legge comunitaria”, direttamente, ma per lo più attraverso deleghe legislative e
mediante autorizzazioni ad emanare regolamenti, abroga le leggi interne incompatibili con il
diritto comunitario, recepisce direttive e altri atti non direttamente applicabili e predispone
tutte le misure di esecuzione necessarie alla piena applicazione in Italia delle norme
europee.
Nel corso degli anni non si è riusciti a garantire l’approvazione con cadenza annuale della
legge comunitaria. Da ciò la scelta della legge 234/2012 di dividere il tradizionale contenuto
della legge comunitaria in due distinti disegni di legge annuali. Il primo (la legge di
delegazione europea) contiene: a) deleghe legislative per il recepimento delle direttive e
degli altri atti normativi dell’Unione europea;
b) l’autorizzazione al governo di recepire il diritto dell’Unione in via regolamentare ove la
fonte da utilizzare sia di carattere secondario;
c) i principi fondamentali cui devono attenersi le leggi regionali ove la materia rientri in quelle
di legislazione concorrente.
Il secondo disegno di legge (la legge europea) contiene invece tutte le altre
previsioni,diverse dalle deleghe legislative,necessarie per attuare gli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea: dunque le disposizioni con le quali il
legislatore direttamente dà attuazione al diritto europeo e tutte le modifiche necessarie per
porre rimedio a casi di non corretto recepimento di normativa dell’Unione sull’ordinamento
nazionale.
Il senso dello sdoppiamento del contenuto della legge comunitaria in due disegni di legge è
garantire un iter più rapido.

10) LA PUBBLICITA’ DEI LAVORI PARLAMENTARI: PRINCIPI E STRUMENTI

1) IL PRINCIPIO DELLA PUBBLICITà DEI LAVORI PARLAMENTARI

Tale principio affermatosi in via consuetudinaria in Inghilterra verso fine del 700 e si è poi
cristallizzato nella Costituzione americana e nelle rivoluzioni francesi. In Italia il principio per
cui le sedute delle Camere sono pubbliche venne fissato nello Statuto Albertino del 1848
con un importante temperamento: la possibilità per 10 parlamentari di chiedere che le
Camere deliberassero in segreto. Di questa deroga le Camere statuarie fecero un uso
limitato, vi si ricorse in casi eccezionali, in particolare in tempo di guerra e per alcuni
peculiari attività come la procedura di convalida dei senatori. Il dibattito all’Assemblea
costituente forma la tesi della coessenzialità della pubblicità al funzionamento delle
istituzioni parlamentari. Il principio affermato dall’ art 1 Cost. esclude che gli organi
attraverso cui il popolo esercita la sovranità possano al di fuori di un regime di pubblicità. Per
i Parlamenti, dunque, la pubblicità dei lavori non può che essere la regola.Al tempo stesso,
non è nemmeno pensabile che l’attività di decisione politica si svolga sempre ed
integralmente in pubblico: esiste inevitabilmente una parte del processo decisionale, quella
in genere consistente nella negoziazione e negli accorsi tra le diverse forze politiche, che si
svolge in forma privata e, sostanzialmente, segreta. L’opzione normativa può essere
quella di tenere fuori dalle sedi parlamentari questa attività, lasciando che si svolga in luoghi
del tutto informali; oppure di prevedere alcune sedi parlamentari semiformalizzate, ma prive
di resocontazione. Gli esiti dei lavori di queste sedi decisionali non possono considerarsi
definitivi, ma devono poi comunque passare per una sede in cui la pubblicità dei lavori è
garantita in forma piena.

2) LE FORME DI PUBBLICITA’ DEI LAVORI PARLAMENTARI: DALLE


TRIBUNE A INTERNET
Le forme di pubblicità influenzano le modalità di svolgimento dei procedimenti e il contenuto
dei dibattiti che in Parlamento hanno luogo: è per questo che la decisione sulla forma di
pubblicità con cui caratterizzare la seduta è, spesso, una decisione di tipo politico. Il
procedimento cambia a seconda che si svolga in una sede pubblica o privata. La pubblicità
fu assicurata in primo luogo mediante l’ammissione del pubblico alle sedute dell’Assemblea,
con una particolare attenzione ai giornalisti (possono cogliere con pienezza tutte le
sfumature dei dibattiti in aula). La diffusione dei lavori parlamentari avviene mediante i
canali satellitari delle due Assemblee e i siti internet di Camera e Sensto.Queste forme
oramai compiute di pubblicità assorbono e superano, quasi completamente,la possibilità per
il Presidente d’ Assemblea di “disporre” la trasmissione televisiva in diretta di sedute o parti
delle stesse. La trasmissione televisiva in diretta delle sedute dell’Assemblea dedicate alle
interrogazioni a risposta immediata (il cosiddetto question time) è invece disposta
automaticamente dal Presidente.A fianco di queste forme di pubblicità diretta vi sono gli
strumenti di pubblicità cartolare: i resoconti stenografici e sommari. Essi danno una
rappresentazioni indiretta di quanto si è detto in aula . Un tempo il resoconto sommario
aveva notevole importanza e svolgeva la funzione di garantire una fonte utilizzabile dai
giornalisti. Oggi il livello della sua elaborazione è inferiore a quello di un tempo. E ciò è
accaduto dal momento in cui è statoreso disponibile, contestualmente allo svolgimento dei
lavori dell’aula, un’ altra forma di resoconto ossia quello stenografico, ossia la
pubblicazione integrale dei dibattiti parlamentari realizzata con tecniche diverse. Il
resoconto stenografico è reso pubblico oltre che con la stampa, anche con la diffusione in
tempi rapidissimi attraverso i siti internet di Camera e Senato. Il principio della pubblicità dei
lavori parlamentari, sancito dall’art 64 comma 2, è in genere ritenuto applicabile, nella sua
completa astringenza, alle sole sedute delle due Assemblee, delle quali è garantita una
compiuta pubblicità.Art 72 comma 3 Cost. “… Il regolamento determina le forme di
pubblicità dei lavori delle Commissioni.”La pubblicità dei lavori nelle commissioni è
disciplinata dall’ art 72 comma 3 della Costituzione, che si occupa, tuttavia, mediante rinvio
ai regolamenti, della sola sede deliberante , restando silenziosa quanto a tutte le altre
sedi . I regolamenti parlamentari escludono la pubblicità diretta (come per l’ Assemblea),
mediante pubblico, mentre consentono una ripresa televisiva a circuito chiuso effettuata a
beneficio del pubblico e della stampa (in appositi locali). Tale forma di pubblicità è disposta
dalle commissioni previa autorizzazione del Presidente d’Assemblea e concerne per lo più le
audizioni, per indagini conoscitive. La disponibilità dei canali satellitari sta permettendo in
misura crescente la pubblicità, anche attraverso questo mezzo di comunicazione, dei lavori
dellecommissioni, sempre relativamente alle sedi suddette.

Ad ogni modo, l’ordinaria forma di pubblicità dei lavori delle commissioni è quella indiretta
assicurata attraverso i resoconti. La resocontazione stenografica è imposta dai regolamenti
nel caso di sede deliberante e redigente e al Senato, per lo svolgimento di interrogazioni. È
prevista come possibile in tutte le altre sedi salvo quella referente e quella consultiva. La
regola generale per i lavori delle commissioni è dunque quella di unapubblicità non troppo
intensa. Ciò al fine di garantire flessibilità ai lavori di questi organi e la possibilità di
raggiungere in essi accordi e consensi al di fuori di un pieno controllo da parte dell’opinione
pubblica. Questa situazione è stata anche oggetto di critiche in dottrina: rivelandosi che
così vengono a sfuggire al controllo della pubblica opinione momenti di elaborazione di
importanti scelte normative. Anche l’apertura pubblicitaria dei lavori delle commissioni
parlamentari non può impedire alle stesse l’uso di strumenti informali, come le riunioni degli
uffici di presidenza e dei comitati ristretti, prive di ogni tipodi rendicontazione e quindi di
pubblicità.Art 64 comma 2 Cost. “Le sedute sono pubbliche; tuttavia ciascuna delle due
Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta
segreta.”La sentenza n. 231/1975 della Corte Costituzionale, nel ribadire il principio della
pubblicità dei lavori parlamentari di cui all’art. 64 comma 2, ha rimesso alla discrezionalità
delle Camere la concreta applicazione della pubblicità, lasciandole libere nel decidere di
secretare i lavori parlamentari d’aula o delle commissioni. La Costituzione all’ art 64 comma
2, prevede che ciascuna Camera e Parlamento in seduta comune possano deliberare di
adunarsi in seduta segreta (e i regolamenti parlamentari individuano le relative procedure).
Si ritiene che il procedimento di formazione delle leggi non possa essere oggetto di sedute
segrete. Ciò su cui vi è un ampio consenso è l’assenza di un particolare valore probatorio
degli atti parlamentari. La dottrina prevalente è nel senso di negare un privilegiato valore
probatorio all’uno o all’altro atto parlamentare, ritenendoli tutti strumenti “ordinati al fine di
dare pubblicità materiale ei lavori delle Camere nella loro realtà storica e fenomenica”.

3) GLI STRUMENTI DELLO STUDIOSO PARLAMENTARE


La disponibilità su internet di pressocchè tutti i lavori del Parlamento rende notevolmente più
agevole per lo studioso e lo studente di diritto parlamentare avere accesso al mare magnum
degli atti e dei documenti parlamentari. Tuttavia come tutte le simulazioni rischia sempre di
risultare si esatta fin nei minimi dettagli ma fredda: priva di quel corredo di Gesti, sguardi,
battute..

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