DIRITTO COSTITUZIONALE
Esiste anche un “diritto parlamentare europeo”, tanto più dopo che la Corte europea dei
diritti dell'uomo (Matthews vs. United Kingdom, 18/02/1999) ha ritenuto il Parlamento
europeo idoneo a essere qualificato come “corps législatif” o “legislature” ai sensi dell'art.
3 Protocollo 1 Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (1950): affermando che tale
organo, pur non essendo ancora dotato di pieni poteri legislativi, costituisce il principale
strumento di controllo democratico e di responsabilità politica nel sistema comunitario.
*
(Il sistema degli uffici.
Gli uffici erano collegi minori di carattere temporaneo (rinnovati ogni 2 mesi) la cui
composizione derivava da un’estrazione a sorte tra i nomi di tutti i parlamentari e quindi non
rispecchiava la composizione politica dell’Assemblea, né poteva essere proporzionale ai
gruppi parlamentari dal momento che nelle Camere statuarie non esistevano (e neppure di
veri e propri partiti si poteva ancora parlare). Deputati e senatori si articolavano in
aggregazioni di carattere territoriale e personale, e solo assai genericamente li si poteva
ricomprendere all’interno di formazioni quali “destra o sinistra storica” (cmq privi di ogni
forma di organizzazione extraparlamentare). Presentato il progetto di legge era inviato a
tutti gli uffici e ciascuno di essi procedeva a una discussione informale, al termine della
quale eleggeva al suo interno un relatore. Tutti i relatori eletti andavano a costituire una
commissione che esaminava ed emanava il progetto di legge, presentandolo all’Assemblea
correlato di una relazione).
Nel 1850 il Senato si diede il suo regolamento definitivo, alla Camera il regolamento
provvisorio del 1848 durò 15 anni (falliti 2 progetti di riforma), nel 1863 fu adottato un altro
regolamento, anch’esso provvisorio, che fu modificato nel 1865 e nel 1868. Con il
regolamento del 1968 si tentò l’introduzione del metodo delle 3 letture, ma il tentativo fallì
infatti nel 1873 si tornò al metodo degli uffici, temperandolo con istituzione di alcune
commissioni permanenti. In particolare,nel 1863 erano nate,tra le altre,la commissione per i
bilanci,una commissione per l’esame delle petizioni e una per i bilanci.
Nel 1886 fu creata alla Camera, come organo permanente, la Commissione (poi giunta)per
il regolamento, i cui membri non erano estratti a sorte, ma nominati dal Presidente
dell’Assemblea (passaggio dall’idea di riforma d’insieme rivelatasi illusoria a quella di
manutenzione regolamentare da realizzarsi attraverso la codificazione degli usi e
l’esperienza).
La commissione per il regolamento nei 2 anni successivi intraprese una serie di modifiche,
note come riforme “Bonghi” (dal nome del relatore e presidente della commissione). Si
intervenne sulla disciplina dell’andamento della discussione, delle questioni pregiudiziali e
sospensive, delle interrogazioni e interpellanze,delle autorizzazioni a procedere, modalità di
votazione, e metodo delle tre letture. Modifiche che furono inglobate in un testo approvato
nel 1888, ed è con questo testo che si giunse alla “crisi di fine secolo”: dopo le dimissioni di
Di Rudinì, si costituì il governo Pelloux che svoltò a destra appoggiandosi su Sidney
Sonnino (posizione nettamente contraria la forma di governo parlamentare) e ripropose
misure restrittive in tema di pubblica sicurezza e libertà di stampa. Si scatenò per la prima
volta nel Parlamento statuario l’ostruzionismo delle sinistre capeggiate dal socialista Enrico
Ferri.
Spazi per l’ostruzionismo furono allargati dalla scelta di adottare il metodo delle tre letture.
Sonnino era Presidente della commissione per il regolamento, decisero di adottare nel
giugno 1899 misure proposte con un decreto legge e un pacchetto di modifiche
regolamentari, l’ostruzionismo delle sinistre si spostò sulle modifiche regolamentari: furono
approvate il 3 aprile 1900 ma provocarono una spaccatura nella commissione per il
regolamento, e in Assemblea ove l’opposizione abbandonò l’aula.
Si arrivò allo scioglimento anticipato delle Camere e a nuove elezioni nel giugno 1900, si
formò il governo Saracco. La nuova Camera, con Tommaso Villa (presidente della
Camera) , azzerò le riforme regolamentari e incaricò una commissione da lui presieduta per
predisporre il nuovo regolamento.
A garanzia dell’equilibrio individuato, si stabilì che la commissione doveva essere
presieduta dal Presidente dell’Assemblea e che i membri dell’ufficio di presidenza sarebbero
stati eletti con voto limitato per assicurare la rappresentanza delle minoranze. A soluzioni
analoghe giunse anche il Senato. In questo modo, si posero le precondizioni per una fase di
relativa stabilità parlamentare e regolamentare, in coincidenza con l' età giolittiana.
Nel corso di questa fase va segnalata, nel 1912 l’ introduzione dell’ indennità parlamentare:
questa fu prevista a titolo di rimborso delle spese di corrispondenza, in modo da evitare
contrasti con l’ art 50 dello statuto, ai sensi del quale le funzioni di senatore o deputato non
potevano dare luogo ad alcuna retribuzione o indennità.
Un vero e proprio momento di svolta si ebbe nel primo dopoguerra, subito dopo l’adozione di
una legge elettorale di tipo proporzionale, con cui il sistema politico - istituzionale provò a
rispondere all'ingresso delle masse nella vita pubblica e allo sviluppo dei partiti politici: si
riteneva infatti che all’adozione di nuovo sistema elettorale proporzionale al nuovo ruolo
spettante ai partiti, dovesse corrispondere un’ organizzazione parlamentare in gruppi e
commissioni permanenti in modo da superare i limiti di un sistema parlamentare fondato
sull’individualismo e sul legame territoriale, da assicurare un rapporto più stretto con
l’esecutivo.
Infatti subito dopo le elezioni del 1919 in cui registrarono un netto successo i partiti di
massa, soprattutto il partito popolare e socialista, la Camera approvò nel 1920 dieci nuovi
articoli, non inseriti nel corpus del regolamento allora vigente, relativi ai gruppi parlamentari
e alle commissioni permanenti. Ciascun deputato, anziché esser sorteggiato in un ufficio,
era tenuto sulla base della propria preferenza politica ad iscriversi ad un gruppo (che
contenesse almeno 20 deputati per essere formato), in caso contrario finiva
obbligatoriamente nel gruppo misto. Ai gruppi era affidata la designazione dei propri
rappresentanti nelle commissioni permanenti, articolate per materia in modo da coprire ogni
possibile argomento.
Nel giugno 1922 su proposta di De Nicola si ritenne di aumentare da 9 a 12 il numero delle
commissioni permanenti e si richiese che obbligatoriamente ogni deputato dovesse essere
membro di un gruppo e di una commissione. Si delineò così il modello organizzativo del
“Parlamento dei partiti” che ebbe durata assai breve per effetto dell'avvento del fascismo.
Nella legislatura successiva, eletta nel 1924 sulla base della Legge Acerbo, (maggioranza di
filofascisti), si approvò nonostante l’opposizione di Modigliani e Matteotti, una mozione
firmata da Dino Grandi con la quale si dispose l’abrogazione delle modifiche parlamentari
approvate tra il 1920 e il 1922 e il conseguente ritorno al sistema degli uffici.
Si spiegava così il disprezzo del fascismo verso la rappresentanza proporzionale e i partiti
politici, ritenuti colpevoli della corruzione morale e la politica delle istituzioni parlamentari.
Questo disprezzo si manifestò poi con la riduzione di quasi tutti i diritti riservati alle
minoranze.Si aprì così un periodo di modifiche che segnò pesanti divieti, come il divieto di
mettere all'ordine del giorno un argomento che non fosse stato deciso dal Capo di governo,
l'obbligo per i cittadini di eleggere candidati che si trovavano in un'unica lista composta dal
Gran consiglio del fascismo ed infine la sostituzione nel 1939 della Camera dei deputati con
la Camera dei fasci e delle corporazioni, con i membri designati dal governo.
Furono create 12 commissioni legislative specializzate per materia e dotate di poteri
deliberanti. Ovviamente tutti i membri del nuovo modello istituzionale ( camera dei fasci)
non venivano eletti ma scelti dal capo di governo.
Il Senato invece restò in piedi durante il periodo fascista, sia perché era un organo assai
vicino alla monarchia, sia perché il suo carattere non elettivo faceva si che fosse più agevole
mantenerne il controllo anche attraverso la tecnica delle "infornate" di senatori. Fu tolta ai
senatori ogni autonomia legislativa e qualsiasi libertà di discussione e di critica.
L’opera di fascistizzazione del Senato si poteva ritenere conclusa alla fine del ventennio: il
25 luglio 1943 i senatori iscritti al partito erano 426 su 452, i non iscritti si erano arresi
partecipando in silenzio o non frequentando più Palazzo Madama.
Nel 1988 si realizzò il passaggio dall’obbligo di votazione finale dei progetti di legge a
scrutinio segreto a favore del voto palese. Ulteriori revisioni nel 1990 (programmazione
lavori e procedure per le modifiche regolamentari) e nel 1997. Quest’ ultimo intervento
riformatore realizzato in coincidenza con lo svolgimento dei lavori della commissione
bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da D'Alema, appare di peculiare
importanza, in quanto costituisce oggi il principale tentativo di adeguamento dei regolamenti
parlamentari all'evoluzione in senso maggioritario e bipolare della forma di governo italiana.
A questo scopo, si propose da un lato di prevedere tempi certi per la maggior parte delle
deliberazioni e dall'altro lato, si valorizzò l'istruttoria delle commissioni parlamentari e le
funzioni di controllo, anche mediante il riconoscimento di significativi diritti alle opposizioni e
di specifici doveri del Governo nei confronti delle richieste di informazione e di dati, formulate
anche da minoranze.
Tuttavia si è trattato di un tentativo disorganico che non ha intaccato la tradizionale
organizzazione della camera per gruppi e che non è riuscito a mantenere in sede applicativa
l’equilibrio originariamente delineato. Se la riforma ha conseguito i suoi effetti nell'assicurare
una maggior efficienza alla "macchina" parlamentare, garantendo anche alla Camera
l'effettivo rispetto della programmazione dei lavori, si è assistito invece al fallimento
dell'istruttoria legislativa delle commissioni parlamentare e alla scarsa tenuta degli obblighi
posti nei confronti del Governo.
La riforma del regolamento del Senato approvata alla fine della XVII Legislatura.
La parte più significativa della riforma,tanto sul piano politico quanto su quello sistematico,risiede in una serie di
innovazioni alla disciplina dei requisiti richiesti per la formazione dei gruppi parlamentari. Il fine è consistito
nell’eliminare gli incentivi attualmente esistenti alla mobilità dei parlamentari da un gruppo all’altro,con passaggi
individuali. Per effetto del nuovo art.14 del regolamento del Senato,per formare un gruppo non basta soddisfare
esclusivamente requisiti numerici,ma altresì requisiti politico-elettorali. Più precisamente,perché un gruppo possa
costituirsi non è più sufficiente che 10 senatori intendano farlo,ma il gruppo deve altresì “rappresentare un partito
o un movimento politico,anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici ,che abbia presentato
alle elezioni del senato propri candidati con lo stesso contrassegno,conseguendo l’elezione dei senatori”.
A completamento di questa revisione,in primo luogo, si aboliscono i gruppi autorizzati o in deroga. In secondo
luogo,si introduce il divieto di istituire nuovi gruppi in corso di legislatura,a meno che non risultino dall’unione di
gruppi già costituiti o anche dalla rottura di coalizioni composte da partiti o movimenti politici che si erano
presentati con il proprio simbolo alle elezioni. Si prevede in terzo e ultimo luogo,in caso di cambio gruppo,la
decadenza dalle cariche di presidenti e membri dell’ufficio di presidenza delle commissioni permanenti e da
quelle di vicepresidente o segretario d’assemblea.
Una serie di misure che tendono a fissare il panorama politico-parlamentare,facendo sì che esso rispecchi in
maniera più fedele possibile le risultanze delle elezioni,soprattutto eliminando incentivi alla mobilità e
frammentazione fin qui esistenti. Questo obiettivo viene perseguito,comunque,senza violare il divieto di mandato
imperativo di cui all’art 67 cost.: il singolo parlamentare che decida di abbandonare il gruppo corrispondente al
contrassegno con cui si è presentato alle elezioni resta libero,infatti,di iscriversi ad altro gruppo o al gruppo
misto.
CAPITOLO 3) LE FONTI DEL DIRITTO PARLAMENTARE.
La seconda novità attiene alla forma di stato: con l’allargamento del suffragio ai cittadini
maggiorenni di ambedue i sessi si passa allo Stato democratico, nel quale secondo l’art1
Cost.: la sovranità appartiene al popolo che deve esercitarla nelle forme e nei limiti posti
dalla Costituzione.
Dunque il parlamento non è più (se mai lo è stato) sovrano ma, costituisce una delle forme
in cui, in una democrazia rappresentativa, si esercita la sovranità popolare. Ciò comporta
che il Parlamento si vede affiancato da altre forme di espressione della sovranità popolare:
referendum abrogativo, attività dei partiti politici e dei sindacati, e altresì, de iure
condendo, le reiterate e prospettate elezioni dirette del Capo dello Stato o del capo
dell'esecutivo.
Il costituente si è limitato a richiamare una serie di organi e istituti, con ciò evidentemente
presupponendo uno sviluppo ad opera di altre fonti (anzitutto dei regolamenti parlamentari).
Ciò a cominciare dallo stesso nomen “Parlamento”, assente nello statuto Albertino e che
parte della dottrina ha valorizzato allo scopo di evidenziare l'unitarietà di tale organo nel
bicameralismo perfetto e paritario disegnato dalla Costituzione.
Ora: in taluni casi la Costituzione si fa carico del problema di individuare la fonte competente
a sviluppare le sue previsioni.es. art.72 Cost. esplicitamente rinvia ai regolamenti
parlamentari quanto alla disciplina del procedimento legislativo. O es. art.65 Cost. rinvia alla
legge la disciplina di ineleggibilità e incompatibilità. es. art.69 Cost. rinvia alla legge la
disciplina dell'indennità spettante ai parlamentari.
Accanto alla Costituzione, tra le fonti vanno messe anche le leggi costituzionali: es. la
legge cost. 1/1989 che sottrae al Parlamento in seduta comune (e in fase istruttoria, alla
commissione inquirente) e alla Corte costituzionale in composizione integrata
rispettivamente il potere di accusare e di giudicare i ministri per i reati compiuti nell'esercizio
delle loro funzioni.
O alle due leggi cost. che hanno previsto commissioni bicamerali incaricate rispettivamente
di procedere alle riforme istituzionali e alle riforme costituzionali (esclusa la legge elettorale),
disciplinando altresì il procedimento di revisione costituzionale derogatorio (criticato)
rispetto a quello delineato dall'art.138 Cost. (norma cardine con l'art.134 Cost. della rigidità
costituzionale), anzitutto con la previsione dell'obbligatorietà del referendum popolare.
Vanno altresì considerati,poi, l’ art.11 legge. cost. 3/2001 e l’art 5 c4 della legge
costituzionale 1/2012,con i quali il legislatore costituzionale assegna un nuovo compito ai
regolamenti di Camera e Senato, cioè prevedere la partecipazione di rappresentanti delle
Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla commissione parlamentare per le
questioni regionali, in attesa che siano riviste le riforme del Titolo primo.
La fonte istitutiva di tale commissione è l'art.126 Cost., il quale prevede che essa sia
obbligatoriamente consultata sul decreto di scioglimento dei Consigli regionali e che essa sia
istituita nei modi stabiliti con legge della Repubblica.
Vengono chiamati in causa sia i regolamenti delle Camere, sia le legge ordinaria, a riprova
della sovrapposizione e dell'intarsio tra le diverse fonti del diritto parlamentare(Manzella: tra
le fonti del diritto parlamentare si riscontra spesso una fungibilità e quasi una permeabilità,
anziché una gerarchia e una competenza statiche). Tale previsione è rimasta lettera morta,
coerentemente con la stagione di scarso riformismo regolamentare delle Camere della XIV e
XV Legislatura repubblicana: anche attraverso questo comportamento omissivo, l'autonomia
regolamentare delle due Camere ha mostrato nei fatti una notevole resistenza al precetto
costituzionale.
Non ci si puo fermare alla costituzione e alle leggi cost italiane, alcune funzioni del
parlamento italiano,cosi come dei parlamenti di tutti gli stati membri dell’EU,trovano il loro
fondamento dei trattati europei. Non a caso l’art 12 TUE individua un catalogo dei poteri
europei dei parlamenti nazionali,introdotti dalla formula secondo cui essi contribuiscono al
buon funzionamento dell’Unione.
Subito dopo aver stabilito che i regolamenti parlamentari costituiscono una fonte del diritto,e
una fonte dell’ordinamento generale, ci si pone evidentemente il problema di determinarne il
rango. Anche qui,nonostante il nomen, che è quello in genere utilizzato per identificare fonti
di rango secondario, in dottrina vi è una tendenza prevalente a classificare i regolamenti
parlamentari come fonti primarie. Essi infatti, nel quadro di un sistema delle fonti del diritto
articolato in base ai criteri di gerarchia e di competenza,appaiono abilitati dalla Costituzione
a sostituirsi nella disciplina di determinate materie ad essi riservate alla stessa legge
formale. Ne discende che i regolamenti parlamentari sono da qualificarsi come fonti
primarie, equiparate perciò alla legge e agli atti aventi forza di legge: anzi sono stati
anch’essi considerati atti con forza di legge pure ai fini della loro sindacabilità avanti alla
Corte Cost. ai sensi art 134Cost.
In quanto fonti primarie ben si presterebbero ad entrare a far parte del “blocco di
costituzionalità”,ossia a costituire un parametro del giudizio di costituzionalità delle leggi,
quali norme interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria il cui processo formativo esse
disciplinano.
Questo quadro (conseguenze relative alla definizione dell’oggetto e del parametro del
sindacato costituzionale)è stato però rifiutato dalla giurisprudenza costituzionale,che ha
recentemente affermato come l’esigenza che le norme che integrano il parametro di
costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile per
evitare il paradosso che una legge venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra
norma sub costituzionale a sua volta in contrasto con la Cost.
La Corte costituzionale con una sentenza del 1959 ha escluso che i regolamenti
parlamentari potessero operare come parametro del giudizio di legittimità costituzionale
delle leggi. La corte si è dichiarata competente a sindacare esclusivamente le violazioni
delle norme costituzionali sul procedimento legislativo, ma non anche il mancato rispetto
delle disposizioni contenute nei regolamenti parlamentari.
Di conseguenza, se per un verso ha superato il dogma ottocentesco ai sensi del quale i
procedimenti interni delle Camere sono insindacabili da soggetti esterni all’Assemblea, per
altro verso ha finito per rimettere a ciascuna camera l’interpretazione e la garanzia
dell’osservanza delle previsioni contenute nei regolamenti parlamentari pure laddove a
questi ultimi il testo costituzionale rinvii.
La partita della sindacabilità dei regolamenti sembrava chiusa, tuttavia, la Corte
Costitizionale dopo aver sbarrato la via del giudizio sulle leggi, ha lasciato aperta quella del
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, attraverso cui è giunta a svolgere forme
incisive di sindacato sulle procedure parlamentari, e dunque, seppure indirettamente, sulla
disciplina posta dai regolamenti di Camera e Senato. La sentenza che ha risolto in via
negativa è la n. 154/1985.Sentenza n. 1150/1988: la Corte Costituzionale si riserva un
penetrante controllo sul cattivo uso dei poteri parlamentari.
I regolamenti rientranti nella prima categoria sono detti “Regolamenti speciali”: si tratta di
sezioni specializzate dei regolamenti generali, dotati perciò del medesimo rango, formatisi
con un procedimento normativo (lievemente) aggravato e abilitati anche a derogare, per la
parte di loro competenza, alle prescrizioni dei regolamenti generali.
Es. regolamento interno della giunta delle elezioni della Camera,regolamento per la verifica
dei poteri applicabile alla giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato,
regolamento parlamentare per i procedimenti d’accusa contro il Presidente della Repubblica,
approvato nel medesimo testo da Senato e Camera nel giugno 1989 (seguito dalla legge
Cost. n. 1/1989 ma non con esplicito fondamento di esso).
I reg. rientranti nella seconda categoria sono detti “ Regolamenti minori”: (talvolta è riferito a
tutti i regolamenti diversi da quello generale), si possono denominare per maggiore
chiarezza i “regolamenti di diritto parlamentare amministrativo”: es. regolamenti approvati
dall’ufficio di presidenza della Camera (dei servizi e del personale, dei concorsi per
l’assunzione personale, tutela giurisdizionale dipendenti, amministrazion e contabilità, ecc),
regolamenti della biblioteca e dell’archivio storico del Senato, previsti da art 12 e 20 r.S e
approvati dal consiglio di presidenza del Senato; regolamento di amministrazione e
contabilità, regolamento interno degli uffici e del personale del Senato art 12 e 166 R.S.
Alla terza categoria appartiene invece il regolamento della commissione bicamerale per
l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (previsto dall’art 1 della legge
103/1975,il quale stabilisce che tale reg. deve essere emanato dai presidenti delle due
Camere, sentiti i rispettivi uffici di presidenza).
Stessa collocazione anche per il regolamenti approvati dalle commissioni di inchiesta.
Discusso è lo spazio che deve esser lasciato a fonti secondarie relativamente alle procedure
elettorali, in presenza di una riserva di legge che in materia elettorale è da considerarsi
implicita, desumibile dai principi dell’ordinamento e in particolare dall’art 48 Cost.
Un discorso a parte merita la riserva di legge prevista nell’art 69 Cost. per quanto attiene
alla determinazione della misura delle indennità parlamentari.
In questo caso,infatti, il coinvolgimento della legge si deve alla volontà di non derogare
all’obbligo di copertura finanziaria posto a capo alle leggi di spesa dell’art 81 Cost. e per
l’esigenza di non lasciare all’autonomia regolamentare di ciascuna camera la
determinazione della misura di tale indennità. Questa riserva nella prassi è stata rispettata
in modo superficiale, dato che la legge lascia ampio spazio a delibere degli uffici di
presidenza delle Camere.
Anche al di là delle riserve di legge previste nella Costituzione, la legge ordinaria tende ad
essere utilizzata tutte le volte in cui si intende dettare norme che richiedono la costruzione di
procedimenti parlamentari (detti duali) nei quali occorre delineare le posizione giuridiche
soggettive (di obbligo, soggezione, onere) di soggetti esterni alle Camere (ipotesi sempre
più frequenti per evoluzione del Parlamento da organo solitario a organo chiamato a
convivere e dialogare con altri soggetti istituzionali e non).
L'immunità è l’ insieme dei meccanismi di tutela previsti dall art 68 cost. A garanzia
dell'indipendenza e Del regolare funzionamento delle Camere di fronte agli altri poteri dello
Stato. Si tratta di veri e propri divieti rivolti agli altri poteri, soprattutto a quello giudiziario.
La prima immunità ad essere stata codificata è l’ insindacabilità (art 68 comma 1 Cost.): i
parlamentari non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei votidati
nell’esercizio delle loro funzioni (irresponsabilità).Si tratta di una garanzia sostanziale che
immunizza i parlamentari da ogni responsabilità giuridica(penale, civile, amministrativa,
disciplinare)per tutte le decisioni e per tutte le manifestazioni del pensiero che hanno avuto
luogo “nell’esercizio delle loro funzioni”. Questa tutela non viene meno con la cessazione
dello status di parlamentare.
Già nel ‘300 il Parlamento inglese, nell’affermare la propria autorità, denunciò i costumi
scandalosi della corona e della sua corte e seppe resistere alla volontà del Re di censurare
questa discussione condannandone i protagonisti.Il Re fu costretto ad annullare una
sentenza di condanna pronunciata su suo ordine e a riconoscere quindi la libertà di parola
e discussione del Parlamento.La libertà di parola fu poi iscritta nel Bill of Rights(nel 1689
dopo la cosiddetta “Gloriosa rivoluzione”)in base al quale (art.9) essa in Parlamento non
può essere ostacolata o contestata né in sede giudiziaria né in altra sede diversa da quella
parlamentare. Un secolo dopo,con la Costituzione del 1791,l’Assemblea nazionale francese
affermando la sua indipendenza dal sovrano, sancì in aggiunta una garanzia di tipo
procedurale:l’inviolabilità della persona di ciascun deputato senza il consenso della camera
di appartenenza. Si tratta del divieto di perseguire, arrestare o detenere un deputato senza
l’autorizzazione dell’Assemblea stessa.Il parlamentare può essere arrestato in caso di
flagranza o in forza di un mandato di cattura,ma ne sarà dato immediato avviso al corpo
legislativo e l’azione giudiziaria potrà essere continuata solo dopo che il corpo legislativo
avrà deciso che vi è luogo all’accusa(art 7-8 Cost. 1791).
Il modello francese fu seguito dallo Statuto Albertino: si prevedeva sia insindacabilità che
inviolabilità(art. 51 insindacabilità / artt.45-46 nessun deputato può essere arrestato, fuori
del caso di flagrante delitto, né tradotto in giudizio senza il previo consenso delle Camere).
Dopo lo svuotamento delle prerogative parlamentari realizzato dal fascismo,la Costituente
ripristinò,con alcune varianti,la disciplina statuaria sia relativamente all'insindacabilità sia
riguardo all'inviolabilità(inclusa la c.d. “autorizzazione a procedere”).
Mentre l’insindacabilità ha effetto su tutti i procedimenti giurisdizionali e non viene meno con
la cessazione dello status di parlamentare ed è tendenzialmente automatica la sua
applicazione esclusivamente in relazione ad opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni
parlamentari, l’inviolabilità si applica solo nei riguardi di misure relative al processo penale
ed esclusivamente fin tanto che il parlamentare è in carica. Insindacabilità è anche
tendenzialmente automatica nell’applicazione,mentre l’inviolabilità è superabile con
un’autorizzazione da parte della camera di appartenenza,la quale può dare il “via libera”
alle misure coercitive o investigative nei confronti del parlamentare.
Il problema più scottante ora è quello delle intercettazioni telefoniche: sin dall’entrata
dell’art 68 Cost. si osservò che le intercettazioni (ma lo stesso dovrebbe dirsi per le
perquisizioni domiciliari, che proprio nella sorpresa trovano una condizione essenziale perla
loro riuscita) non avrebbero potuto più essere efficacemente utilizzate dai magistrati
inquirenti, i quali quindi avrebbero dovuto rinunciare a una serie di strumenti per istruire
l’accusa nei confronti dei parlamentari. E in effetti avrebbe poco senso chiedere
l’autorizzazione preventiva ad una Camera per sottoporre ad intercettazione un’utenza
telefonica intestata ad un parlamentare:una volta richiesta( e data la pubblicità dell’iniziativa
ex art 64 cost),è evidente che l’interessato si guarderà bene dall’impiegare ulteriormente
qull’utenza.
Tuttavia, proprio la delicatezza di questo strumento investigativo giustifica la scelta del
legislatore costituzionale del ’93 a garanzia della funzione parlamentare, volta a impedire
che “l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa essere finalizzato
ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e
pressioni sulla libera esplicazione dell’attività parlamentare” (intercettazioni indirette).
La legge n. 140 /2003 ha previsto che l’obbligo di richiedere l’autorizzazione sussiste anche:
- Per acquisizione di tabulati di comunicazioni che si riferiscono a utenze intestate al
parlamentare
- Per utilizzo delle cosiddette “intercettazioni indirette” (riguardanti cioè le comunicazioni
del parlamentare, ma effettuate su utenze diverse da quelle a lui intestate). In questo caso
l’autorizzazione non può essere preventiva. Spetta quindi al giudice per le indagini
preliminari decidere della rilevanza o meno dei verbali e delle registrazioni alle quali hanno
preso parte membri del Parlamento : disponendone la distruzione, ove ritenuti irrilevanti o,
in caso contrario, richiedendo, entro i 10 giorni successivi, “l’autorizzazione della Camera
alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le
conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate”.
Recentemente le Camere hanno introdotto un sistema di decurtazione della diaria sulla base
della mancata partecipazione alle votazioni. Questa decurtazione della diaria si riconnette,
sul piano giuridico, al dovere che grava su ogni parlamentare, di partecipare ai lavori delle
Camere (dovere riconosciuto dai regolamenti recentemente nel 1988 con art 1 r. S, e 1997
art 48 bis r. C). Proprio perché quella di parlamentare consiste, nelle Camere
contemporanee, in una funzione assai impegnativa e retribuita, si spiega la disciplina
specificamente rivolta ai lavoratori che siano stati eletti deputati o senatori (o anche
componenti di altri organi elettivi). Infatti la Costituzione all’ art 51 comma 3 stabilisce che
chi è chiamato a funzioni elettive ha il diritto di disporre del tempo necessario al loro
adempimento e di conservare, durante tale mandato, il suo posto di lavoro. In particolare i
parlamentari dipendenti pubblici sono collocati in aspettativa d’ufficio per tutta la durata del
mandato, conservano quindi il lavoro senza percepire la retribuzione. Secondo l’ art 98
Cost., per evitare che il parlamentare si avvantaggi della propria posizione per migliorare il
suo status, essi non possono conseguire promozioni se non per anzianità.Quanto ai
lavoratori del settore privato, se eletti parlamentari non devono ma possono essere collocati
in aspettativa, a richiesta, per la durata del mandato. La ragione di questa differenza sta
nel fatto che non sussistono le condizioni per una possibile interferenza sull’andamento
dell’amministrazione.
Tuttavia man mano che la disciplina del lavoro pubblico si è andata avvicinando a quella del
lavoro privato, questa differenza appare poco giustificabile, se non in nome di una generica
esigenza di non rinunciare alla presenza in parlamento di professionisti, tanto più che non
sono pochi i casi in cui i lavoratori privati possono incorrere in potenziali conflitti di interessi.
(Art 67 Cost. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato.”Art 48 Cost. “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e
donne che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed uguale, libero e
segreto. Il suo esercizio è dovere civico.”Art 58 Cost. “I senatori sono eletti a suffragio
universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età.”Art 51
Cost. “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle
cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.”Art 65
Cost. “La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato
o senatore.”)
Sono le elezioni a suffragio universale diretto della Camera e Senato ogni 5 anni lo
strumento che garantisce questa legittimazione del Parlamento e quindi del sistema
istituzionale. Le elezioni hanno una funzione di legittimazione e al contempo di espressione
delle opinioni e degli interessi; garantiscono il ricambio dei governanti e permettono un
controllo dei rappresentati sui rappresentanti e quindi dei cittadini sulle strutture dello Stato.
La materia elettorale è oggetto di prescrizioni costituzionali soprattutto per elettorato attivo e
passivo. L’art 48 Cost. fissa le condizioni dell’elettorato attivo precisando che sono elettori
tutti i cittadini, uomini e donne che hanno raggiunto la maggiore età. Ma il successivo art.
58 Cost. specifica che gli elettori per il Senato sono solo i cittadini che hanno superato il
venticinquesimo anno di età. Il voto di ciascun cittadino, il cui esercizio è un dovere civico,
è sempre, secondo l’art. 48 Cost., personale,uguale, libero e segreto.
L’art. 51 Cost. stabilisce il principio per cui tutti i cittadini, dell’uno e dell’altro sesso, possono
accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, rinviando però alla legge la
fissazione dei relativi requisiti (con la revisione del 2003 la Repubblica si impegna a
promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini). L’ Art 65
Cost. riserva alla legge la determinazione dei casi di ineleggibilità e incompatibilità con
ufficio di deputato e senatore.
Art 56 Cost. “La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto.
Il numero dei deputati è di 630. Sono eleggibili a deputati tutti coloro che nel giorno delle
elezioni hanno compiuto i 25 anni di età.”
Il vecchio sistema elettorale per la camera previsto dalla legge n. 277/1993 (applicato nel
1994, 1996 e 2001) stabiliva la possibilità di espressione di due voti su due schede
separate: il primo valido per l’assegnazione del 75% dei seggi in collegi uninominali con
formula maggioritaria relativa (“plurality”, il candidato con maggioranza dei voti viene eletto),
il secondo per il restante 25% dei seggi ripartiti proporzionalmente tra le liste che avessero
conseguito almeno il 4% dei voti a livello nazionale.
Un collegamento tra le due schede era dato dal cosiddetto “scorporo”: al riparto dei seggi
proporzionali, infatti, le liste concorrevano non con tutti i voti ottenuti, ma scorporando,
cioè sottraendo da questi una parte dei voti ottenuti nei collegi uninominali dai candidati
vincenti collegati alle liste medesime (i voti necessari per aggiudicarsi il collegio, ossia
quelli del candidato risultato secondo più uno).
IL VECCHIO SISTEMA ELETTORALE DEL SENATO (disciplinato dal testo unico del d. lgs.
n. 533/1993) prevedeva l’espressione di un solo voto che serviva, sia per assegnazione del
75% dei seggi in collegi uninominali con sistema plurality, sia per il restante 25% (metodo
D’Hondt). Quest’ultima avveniva proporzionalmente ai gruppi di candidati uninominali
perdenti a livello regionale (presentatisi nei collegi della regione con il medesimo
contrassegno e non risultati eletti con il meccanismo maggioritario. Anche in questo caso
ivoti ottenuti dai candidati eletti nei collegi non concorrevano a determinare il riparto del 25
% dei seggi proporzionali: al Senato lo scorporo era totale (sottraendosi ai fini
dell’attribuzione dei seggi proporzionali tutti i voti ottenuti dai candidati vincitori nei collegi),
mentre alla Camera era parziale.
La normativa del 1993 (Legge Mattarella) è stata modificata con la legge n. 270/2005 con
il solo accordo delle forze che componevano la maggioranza di governo seguendo un
procedimento parlamentare di approvazione e oggetto di contestazioni. Con la legge n.
270/2005 si è passati da un sistema misto,maggioritario con recupero proporzionale a un
sistema anch’esso misto, proporzionale con premio di maggioranza. Questa volta, però,
l’impianto è tipicamente proporzionale (con liste bloccate e soglie di sbarramento di entità
variabile), cui si aggiunge un premio di maggioranza eventuale (ove nessuna lista o
coalizione consegua la quota del 55% dei seggi) e di consistenza variabile (idonea a
portare la lista o la coalizione a raggiungere tale quota), assegnato alla Camera su base
nazionale e al Senato su base regionale.
Più in dettaglio, tutti i seggi, sia alla Camera che al Senato, sono assegnati con un sistema
proporzionale (applicando il metodo del quoziente naturale e dei più alti resti). Ma vi è una
fondamentale correzione, nella distribuzione dei seggi, determinata dal premio di
maggioranza. Alla Camera il premio va alla coalizione o alla lista che abbia ottenuto, a
livello nazionale, il maggior numero di voti: esso assicura allo schieramento vincente 340
seggi (seggi che sono sottratti alle altre liste o coalizioni perdenti, tra le quali vengono divisi
proporzionalmente 277 seggi). Il premio di maggioranza scatta solo se la coalizione
vincente non è riuscita ad ottenere in modo naturale almeno 340 seggi. Per avere maggiori
chance di ottenere il premio i partiti sono così “costretti” ad aggregarsi in coalizioni
preelettorali.
Nella logica della nuova legge elettorale le coalizioni si costruiscono attorno ad un progetto
di governo e una leadership comune con l’obiettivo della conquista del premio di
maggioranza.
Alla Camera, stabilito quale coalizione ha vinto, si procede, in un secondo momento, alla
ripartizione proporzionale dei seggi tra le liste all’interno delle coalizioni. Non hanno diritto a
seggi le coalizioni che non abbiano ottenuto almeno il 10% dei voti e le liste singole con
meno del 4% dei voti (soglia di sbarramento). Restano esclusi il seggio assegnato al
candidato vincente nel collegio uninominale della Val d’Aosta e i 12 seggi previsti per
l’estero, eletti con metodo proporzionale tra liste di concorrenti e con voto di preferenza.
I seggi assegnati a ciascuna coalizione sono ripartiti tra le liste che ne fanno parte, salvo
quelle che non abbiano ottenuto il 2% dei voti. Così ripartiti i seggi tra le variecoalizioni, e al
loro interno tra le varie liste, si procede, alla distribuzione di questi seggi tra le 26
circoscrizioni in cui è diviso il territorio nazionale (art 56 Cost.). Gli eletti sono individuati
sulla base dell’ordine in cui sono collocati nelle rispettive liste, si parla perciò di liste
bloccate. Non essendovi limiti alla possibilità di candidarsi nelle varie circoscrizioni i
candidati che risultano eletti in più circoscrizioni dovranno esercitare l’opzione per una
circoscrizione entro 8 giorni dalla data dell’ultima proclamazione.
Il sistema del Senato differisce da quello della Camera perché la ripartizione dei seggi
avviene tutta a livello regionale: non vi è perciò un premio di maggioranza nazionale, ma
tanti premi regionali, in tutte le regioni tranne Molise, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta.
Le soglie di sbarramento sono più alte: il 20% per le coalizioni (purché all’interno della
coalizione vi sia una lista abbia raggiunto il 3%) e l’8% per le liste che si siano presentate
singolarmente, al di fuori delle coalizioni. Alla coalizione o alla singola lista che abbia
ottenuto il maggior numero di voti nella regione, viene attribuito, se non lo ha già raggiunto
naturalmente, il 55% dei seggi in palio in quella regione.
La combinazione di 17 premi regionali rende non improbabile la formazione al Senato di
una maggioranza diversa da quella della Camera. Sulla formazione della maggioranza che
dovrà dare la fiducia al Governo può divenire quindi essenziale il ruolo dei sei senatori eletti
nella circoscrizione Estero e dei senatori a vita.
Al Senato invece è la giunta provvisoria a individuare candidati cui attribuire seggi resisi
vacanti a seguito delle proclamazioni di senatori eletti in più regioni ed è il Presidente
provvisorio del Senato a proclamare i candidati “subentranti”.
Con la proclamazione il parlamentare acquista lo status, ma è un acquisto temporaneo e
reversibile. La proclamazione infatti è oggetto del giudizio di convalida previsto dall’ art. 66
Cost.
La procedura di verifica che porta a questo giudizio è affidata nelle due Camere ad un
organo, la giunta delle elezioni, composta da 30 membri alla Camera e 23 al Senato, scelti
dal Presidente (su indicazioni non formalizzate dei gruppi) e per prassi consolidata
presieduta da esponenti dell’opposizione. Queste giunte, raccolto il materiale documentale
dagli uffici elettorali, ricevuti gli eventuali ricorsi, predispongono relazioni circoscrizione per
circoscrizione. La funzione di relatore è affidata a ciascun componente della giunta purché
non eletto nella medesima circoscrizione (criterio automatico).
Su iniziativa dei relatori la giunta può decidere di proporre all’aula la convalida delle elezioni
o aprire un’ istruttoria: decisione quest’ultima che può prendere d’ufficio o stimolata da
ricorsi. Così la giunta, o meglio un comitato costituito al suo interno, procede a verificare le
schede: le bianche, le nulle e le valide, a campione o se necessario a tappeto.
Tutte queste attività sono compiute alla Camera in contraddittorio con le parti interessate,
mentre il Senato segue un modello inquisitorio che considera il contraddittorio come
meramente eventuale.
A conclusione dell’istruttoria la giunta può proporre la convalida o la contestazione
dell’elezione. In quest’ultimo caso si sviluppa una procedura quasi dibattimentale: si svolge
una vera e propria udienza pubblica(ove le parti possono farsi assistere da un avvocato), al
termine della quale, in camera di consiglio la giunta decide proponendo convalida o
l’annullamento dell’elezione contestata. La decisione passa poi all’ Assemblea che può
sovranamente rovesciare,la proposta argomentata dalla giunta , senza la possibilità di alcun
rimedio giurisdizionale.
Fino al 1992 l’annullamento portava alla proclamazione di un parlamentare dello stesso
partito del candidato, dal 1992 al 2006 porta la proclamazione di un parlamentare dello
schieramento avverso. Oggi l’esistenza di liste bloccate riduce il contenzioso tra candidati.
Dal 1992 il regolamento del Senato prevede che sulle proposte della giunta l’Assemblea non
proceda a votazioni,intendendosi approvate le conclusioni della giunta stessa.
Alla camera dal 1990 questa procedura di silenzio-assenso si segue qualora una proposta
della giunta discenda dal risultato di accertamenti meramente numerici, in tal caso, 20
deputati possono chiedere di rinviare la questione alla giunta per ulteriori verifiche. (al
senato 20 senatori possono presentare conclusioni difformi da quelle della giunta).
L’aula stessa resta pertanto sovrana nel decidere se annullare o meno un’elezione, ma con
obbligo di fornire una qualche motivazione ove si discosti dalle indicazioni della giunta.
Per potersi candidare i titolari di cariche elettive e di uffici pubblici per i quali è prevista
ineleggibilità devono abbandonare la carica almeno 180 giorni prima della fine della
legislatura, o nel caso di scioglimento anticipato, entro i 7 giorni successivi alla
pubblicazione del relativo decreto.
Quest’ultima possibilità è negata dal 1997, ai magistrati che intendono candidarsi nelle
circoscrizioni sottoposte alla giurisdizione degli uffici cui sono assegnati (unico caso di
ineleggibilità assoluta giustificato dal legislatore, per tutelare imparzialità
dell’amministrazione della giustizia).
Alcuni funzionari statali se eletti possono collocarsi in aspettativa, mentre i sindaci dei
comuni più popolosi e i presidenti delle giunte provinciali devono abbandonare la carica
prima delle elezioni.
È ingiustamente oneroso un naturale cursus honorum quando in gran parte degli stati il ceto
politico nazionale trova nella classe di governo locale il primo ed essenziale canale di
alimentazione.
Sin dalla prima legislatura repubblicana,le Camere avevano adottato un’interpretazione della
normativa secondo la quale la carica che determina l’ineleggibilità,nel caso in cui venisse
assunta successivamente all’elezione parlamentare,comportava(soltanto) l’ incompatibilità.
Anche per porre rimedio a una giurisprudenza parlamentare che,rovesciando questo
consolidato orientamento,aveva consentito a parlamentari in carica di divenire sindaci di
comuni con più di 20.000 abitanti e Presidenti delle giunte provinciali ,il legislatore ha
introdotto una generale incompatibilità tra il mandato parlamentare e qualsiasi altra carica
pubblica elettiva di natura monocratica relativa a organi di governo di enti pubblici territoriali
aventi popolazione superiore a 15.000 abitanti. Si è cosi superata una irragionevole disparità
,uscendone rafforzato il principio del divieto del cumulo di mandati.
5) I GRUPPI PARLAMENTARI
5.1. LA COSTITUZIONE DEI GRUPPI (ORDINARI E AUTORIZZATI)
L’esito delle elezioni rispecchia la composizione delle due Camere. Il primo atto con cui si
apre la legislatura è l’elezione dei presidenti della Camere e Senato che, a partire dal XII
legislatura (1994-1996), avviene tra esponenti della coalizione di maggioranza e con i voti
solo di questa. Il risultato politico delle elezioni è più chiaramente leggibile nei giorni
successivi con la costituzione dei gruppi parlamentari: proiezione in Parlamento
dell’articolazione del sistema politico (partiti, movimenti politici …). Entro due giorni dalla
prima seduta i deputati (entro tre giorni per i senatori) devono dichiarare di quale gruppo
vogliono far parte. È questa un’articolazione prevista come necessaria dai regolamenti delle
due Camere. I parlamentari che non scelgono un gruppo sono infatti d’ufficio assegnati a
un gruppo residuale: il gruppo misto. Vi è una sola eccezione e riguarda i senatori a vita,i
quali possono non entrare a far parte di alcun gruppo in virtù della autonomia della loro
legittimazione.
Per formare un gruppo parlamentare servono 20 deputati e 10 senatori (ai sensi degli
artt.14 R.C. e R.S. non è richiesta affinità politica tra i componenti). Questa soglia numerica
può essere ridotta (al Senato, sempreché non si scenda al di sotto dei 5) solo se si realizza
una condizione politica: che il gruppo sia effettivamente proiezione di un partito organizzato
nel Paese che abbia ottenuto un certo numero di eletti. In tal caso è possibile la formazione
di gruppi in “deroga” o “autorizzati”, possibilità che l’ufficio di presidenza deve autorizzare.
Infine, seppur parzialmente, i sistemi elettorali sono diversi: la Costituzione prevede che “Il
Senato è eletto a base regionale”. Questa previsione è sempre stata interpretata dal
legislatore come volta a escludere modalità di assegnazione di seggi sulla base del risultato
nazionale, ritenendosi in genere che i seggi del Senato debbano essere sempre assegnati
regione per regione (altrimenti i voti espressi in una regione risulterebbero utili all’elezione di
un senatore in una regione differente). Questo vincolo costituzionale ha impedito di
prevedere anche per il Senato un premio di maggioranza su base nazionale. Ne è risultata
la scelta del legislatore di assegnare al Senato premi di coalizione regione per regione:
elemento che rende possibile l’esito non coerente della competizione elettorale per le due
assemblee ponendo in questione quella stabilità del Governo che il premio di maggioranza
intende invece garantire.
Ragioni di efficienza e stabilità dell’esecutivo hanno portato a eliminare la differenza più
incisiva originariamente prevista nel testo costituzionale: la diversa durata, 5 anni per la
Camera e 6 per il Senato.
I caratteri distintivi delle due Camere, come si è visto, sembrano costituire oggi elementi
capaci di produrre più disfunzionalità che equilibrio e integrazione della rappresentanza
(come invece auspicato dai costituenti), rischiando di compromettere la stabilità stessa del
Governo e l’efficienza di molti aspetti del sistema parlamentare.
Il dibattito sul bicameralismo è sempre aperto, si è annunciata una riforma con la legge n.
11/2001, e in attesa si prevede l’integrazione con rappresentanti delle regioni e degli enti
locali nella commissione per le questioni regionali.
La Costituzione affida alle due Camere riunite in un unico organo, il Parlamento in seduta
comune,una serie di funzioni:
- L’elezione e il giuramento del Presidente della Repubblica, con l’ integrazione dei
rappresentanti delle Regioni (art 83 e 91 Cost.)
- La sua messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla Costituzione (art90
Cost.)
- L’ elezione di 1/3 dei giudici della Corte Costituzionale (art 135 Cost.) e del Consiglio
Superiore della Magistratura (art 104 Cost.)
- L’elezione della lista dei cittadini da cui sono sorteggiabili i giudici da aggregare a quelli
della Corte Costituzionale per i giudizi d’accusa contro il Presidente della Repubblica.(art
135 cost).
È un elenco definitivo, tassativo di funzioni che esercitano solo quando è necessario.
Quest’organo ha un presidente precostituito: il presidente della Camera e si utilizza per il
suo funzionamento “normalmente” il regolamento della Camera (art 35 R.C), salva la
facoltà delle Camere riunite di “stabilire norme diverse” (art 65 Cost.).
Da questo elemento molti deducono il carattere di “collegio perfetto” essendo dotato di una
piena capacità di discutere oltre che di deliberare.
(Art 126 cost: “con decreto motivato del Presidente della Repubblica sono disposti lo
scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta, che abbiano
compiuto atti contrati alla Costituzione, gravi violazione di legge o per ragioni di sicurezza
nazionale. Il decreto è adottato sentita una Commissione di deputati e senatori costituita,
per le questioni regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica”).
La Costituzione, all’ art 126, prevede espressamente una sola commissione bicamerale: la
commissione “di deputati e senatori” per le questioni regionali, cui affida una funzione
consultiva nel procedimento di scioglimento dei consigli regionali. Oltre questa attribuzione
costituzionale, la commissione, composta da 20 deputati e 20 senatori, è titolare di altre
funzioni consultive: sia nei confronti del Governo, sia nel procedimento legislativo
esprimendo il proprio parere obbligatorio, ma non vincolante, alle commissioni permanenti
competenti su disegni di legge che riguardano le attribuzioni delle regioni.
Un altro organismo bicamerale è previsto da una fonte costituzionale (legge cost. 1/1989).Si
tratta del comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa. Esso è l’organo che istruisce la
messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. Questo organo risulta dalla
giustapposizione dei due collegi parlamentari competenti per le autorizzazioni a procedere
(la giunta del Senato e quella della Camera).
Questi due organi costituiscono il modello per un vero e proprio sistema di commissioni
bicamerali, sorte per decisione del legislatore, allo scopo di svolgere funzioni di indirizzo,
controllo e vigilanza che il Parlamento esercita così attraverso organi che si collocano in una
dimensione comune, riunendosi in una sede,(a palazzo San Macuto), anche fisicamente
ubicato a metà strada tra palazzo Madama e palazzo Montecitorio.
Il legislatore, dove non vincolato dalle prescrizioni costituzionali, ha sviluppato i poteri del
Parlamento utilizzando prevalentemente lo strumento della commissione bicamerale.
3) LE COMMISSIONI PERMANENTI
L’evoluzione del Parlamento, con l’aumento delle sue funzioni ha un riflesso organizzativo.
In Italia attraverso l’articolazione interna di ciascuna Camera in una serie di collegi minori: le
commissioni, che consentono di esercitare efficacemente l’insieme delle sue funzioni, in
primo luogo quella legislativa, svolgendo un effettivo ruolo decisionale.
L’articolazione in gruppi (riflesso parlamentare del sistema dei partiti politici) ha portato
all’organizzazione di commissioni specializzate per materia, e conseguentemente
permanenti, alle quali sono assegnati, secondo l’indicazione dei gruppi e
proporzionalmente alla loro consistenza, tutti i parlamentari (con la sola eccezione del
Presidente di Assemblea). La loro costituzione che avviene con la convocazione dei
presidenti di ciascuna camera è uno dei primi atti della legislatura e ha luogo
successivamente alla formazione del Governo: ciascuna commissione rappresenta
l’interfaccia parlamentare di uno o più dicasteri.
In particolare l’elezioni dei presidenti di commissione è legata agli equilibri politici della
formazione di gabinetto: sia nel senso che questi sono spesso eletti tra coloro che
aspiravano ad incarichi governativi ma non li hanno ottenuti,sia nel senso che si cerca di
evitare che tali soggetti appartengano alla stessa forza politica del ministro che devono
“controllare”.
Ogni parlamentare è chiamato a far parte di una commissione permanente. Anche i
membri del Governo (ministri e sottosegretari),i quali per la durata del loro ufficio, sono
sostituiti, nell’attività della commissione, da un collega dello stesso gruppo. Quest’ultimo
quindi farà parte di più commissioni, in deroga alla regola generale che ciascun
parlamentare può essere membro di una sola commissione (art 19 R.C e art 21 R.S). La
regola subisce poi un ulteriore e rilevante eccezione al Senato, ove 10 senatori possono
costituire un gruppo a pieno titolo: i gruppi più piccoli, la cui consistenza sia inferiore al
numero delle commissioni, possono designare uno stesso senatore in più commissioni, così
da garantire la rappresentanza dei gruppi in tutte le commissioni permanenti.
Il principio della rappresentanza proporzionale dei gruppi nelle commissioni, un principio
sancito dalla Costit.(art 72 comma 3 ) per le sole commissioni con poteri deliberanti e
d’inchiesta, è applicato dai regolamenti in via tendenzialmente generale.
Salvo poteri correttivi dei Presidenti d’Assemblea spetta ai gruppi designare i propri
rappresentati in commissione. Un potere che si ripropone dopo 2 anni di legislatura quando
la composizione della commissione viene rinnovata e, ogni giorno con la possibilità di
sostituire i propri membri in commissione per la seduta o per il provvedimento. La
sostituzione è lo strumento che garantisce il controllo politico dei gruppi sulla composizione
e quindi sui lavori delle commissioni ed è utilizzata per sanare le assenze di parlamentari.
L’articolazione delle loro competenze materiali consente di coprire, attraverso di esse,
l’intero spettro delle questioni che le Camere possono essere chiamate ad affrontare.
Funzioni delle commissioni:
- Le commissioni svolgono funzioni preparatorie rispetto all’attività dell’Assemblea. Nel
procedimento legislativo istruiscono, per disposizione costituzionale, i progetti di
legge,elaborando il testo sul quale poi l’aula discute e delibera.
- Hanno anche il potere di definire automaticamente la volontà delle Camere cui
appartengono: il procedimento legislativo può svolgersi tutto secondo i limiti e le garanzie
fissate dall’art 72 Cost., nelle commissioni parlamentari permanenti in sede deliberante.
- Le commissioni possono formulare atti di indirizzo al Governo nelle materie di loro
competenza, approvando risoluzioni e in esse possono essere svolte le interrogazioni.
- Alle commissioni è affidata una funzione consultiva “interna” mediante pareri indirizzati alle
altre commissioni. Ciò in primo luogo qualora una materia investa le competenze di una
pluralità di commissioni. In questo caso o viene fissata dai Presidenti la competenza
prevalente in una sola commissione, invitandosi le altre a svolgere una funzione consultiva
attraverso pareri; oppure si sceglie la via dell’ assegnazione del progetto di legge alle
commissioni riunite (comporta una serie di inconvenienti pratici per l’ ampiezza del
collegio).
In secondo luogo è anche utilizzata per garantire la tutela di interessi trasversali di cui
bisogna tenere conto per l’attività legislativa. È questa la ratio dell’intervento obbligatorio
consultivo delle commissioni “filtro”: la affari costituzionali, la bilancio, ma anche quella per
le politiche dell’Unione Europea.
- Il legislatore ha poi previsto, con notevole frequenza, un’ attività consultiva “esterna” delle
commissioni: sugli atti normativi del Governo, sugli atti preparatori della normativa su UE,
sulle nomine fatte dal Governo.
Le commissioni parlamentari (permanenti) sono dunque centri nevralgici dell’attività
parlamentare, ciascuna secondo la propria competenza per materia, che corrisponde
sostanzialmente ai vari settori dell’ amministrazione pubblica.
È una ripartizione non perfettamente corrispondente nei due rami del Parlamento:es. il
pubblico impiego trattato alla Camera dalla la commissione lavoro, rientra nel Senato tra le
competenze della commissione affari costituzionali. Comunque garantisce una
specializzazione dell’attività parlamentare.
Ogni commissione ha un ufficio di presidenza, cui spetta, integrato dai rappresentanti dei
gruppi (ossia dai capigruppo di ciascuna commissione), definire la programmazione dei
lavori della commissione. A sua volta, la commissione si può articolare in comitati
permanenti (come i comitati pareri a cui è affidata l’attività consultiva, al Senato:
sottocommissioni) o temporanei , comitati ristretti costituiti in genere per la redazione di un
testo unificato. Le attività di queste articolazioni sono prive di pubblicità (alla camera si dà
conto solo dell’orario di inizio e fine dei lavori). La pubblicità è assicurata, seppur non in
modo corrispondente a quello dell’Assemblea, ai lavori della commissione in attuazione del
Costituzione. Gli strumenti pubblicitari sono tanto più intensi quanto più la commissione si
sostituisce all’aula : nel caso di sede legislativa o deliberante è previsto un resoconto
stenografico dei lavori nonché l’ utilizzo di strumenti audiovisivi e nei casi più rilevanti anche
con i canali satellitari (di cui oggi le due Assemblee dispongono), altrimenti la forma della
pubblicità e quella del resoconto sommario.
4) LE COMMISSIONI SPECIALI
La scelta organizzativa di adottare un sistema fondato su commissioni permanenti (per
materia) rende residuale lo strumento delle commissioni speciali. Non era però questa una
scelta scontata, a riguardo l’art 72 Cost. afferma che “il procedimento può essere deferito a
commissioni anche permanenti...”. sembrando quasi preferire l’uso di commissioni non
permanenti. E così la formazione di commissioni speciali avviene raramente come per
esempio ad inizio legislatura quando si deve valutare la conversione di decreti-legge
pendenti (intervallo tra costituzione delle Camere e delle commissioni) o nel caso di disegni
di legge di grande importanza che investano la competenza di più commissioni.
Il mandato di queste è definito nell’atto istitutivo e può, sia essere limitato all’esame di
disegni di legge individuati e assegnati alla commissione speciale per una funzione
referente,sia essere esteso o limitato alle altre funzioni proprie delle commissioni: consultive
e di indirizzo.
Non è una commissione speciale, ma per certi versi è assimilabile alle commissioni speciali
“ la commissione di indagine sull’onorabilità dei deputati e senatori” (art 88R.S e 58 R.C).
Il parlamentare che si ritiene offeso dal collega può ricorrere a un organi interno: la giurì
d’onore, il cui obiettivo è sostanzialmente quello di mettere pace tra i contendenti. Dopo
l’indagine emette un giudizio su cui valuta la Camera, senza voto. Si tratta di un
contrappeso all’insindacabilità che copre le opinioni espresse dai parlamentari nelle sedi di
Camera e Senato. I poteri di esso sono limitati: le sue conclusioni sono sempre discutibili e
la finalità dell’istituto non può che essere quella di un rasserenamento degli animi e di una
riappacificazione.
5)LE GIUNTE
Le giunte sono organi il cui insediamento è previsto tra i primi adempimenti delle Camere
appena formate. Si distinguono dalle commissioni per il loro essere organi con una
proiezione tutta interna al lavoro delle due Camere, oltre che per una composizione più
ristretta di quella delle commissioni,e per avere componenti, anziché designati dai gruppi
parlamentari,nominati dal Presidente (previa consultazione dei gruppi)
La Costituzione prevede inoltre che entrambi i Presidenti debbano essere consultati dal
Presidente della Repubblica in caso di scioglimento delle Camere.
Da ciò si evince che come i Presidenti hanno sviluppato nel tempo anche un generale ruolo
di “primi consiglieri” del Capo dello Stato, consultati nei momenti più significativi della vita
istituzionale. Ed è proprio in considerazione del particolare ruolo di garanti del buon
andamento di ciascuna Camera e al contempo interpreti qualificati degli interessi delle
istituzioni parlamentari, che ha indotto il legislatore, tra anni ‘80 e ‘90 ad affidare ai due
Presidenti una serie di altre funzioni, anche al di fuori degli ordinamenti delle due Camere:
dalle delicatissime attribuzioni in materia di controllo sulla regolarità del finanziamento dei
partiti politici, alla nomina o designazione dei componenti o presidenti di una serie di organi,
parlamentari e non.
I Presidenti nominano infatti, con atto congiunto, i presidenti di alcune commissioni
d’inchiesta parlamentare e soprattutto i componenti degli organi esterni al parlamento.
Si tratta essenzialmente degli organi di “autogoverno” di alcune magistrature e di autorità
indipendenti (componenti della commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici
e dell’autorità garante della concorrenza e del mercato).
Dopo la fine della convenzione istauratasi nel 1976, per la quale uno dei due presidenti era
affidato a un esponente dell’opposizione, si è messo in discussione l’idea che i Presidenti
fossero i soggetti più adatti a operare nomine pubbliche caratterizzate da un alto tasso di
indipendenza. E così per le autorità indipendenti create dopo quella data sono stati previsti
sistemi di nomina diversi. Il Presidente non ha mai svolto funzione di semplice Speaker.
7) LA CONFERENZA DEI CAPIGRUPPO
Nell’esercitare le sue delicatissime funzioni in tema di programmazione dei lavori,il
Presidente di Assemblea non è solo, ma è assistito dalla conferenza dei presidenti dei
gruppi parlamentari (conferenza dei capigruppo).Questa è composta, oltre che dal
Presidente che la convoca e la presiede, da tutti i presidenti dei gruppi parlamentari. Alla
conferenza dei capigruppo della Camera possono essere invitati anche i vicepresidenti di
Assemblea,i presidenti di commissione e i presidenti delle principali componenti politiche del
gruppo misto; a quella del Senato partecipano i vicepresidenti del Senato.
In entrambe i rami del Parlamento,il Governo è parte necessaria della conferenza ed è
sempre informato dal presidente del giorno e dell’ora della riunione per mandare un proprio
rappresentante, che è in genere il ministro per i rapporti con il Parlamento.
Inoltre, il Governo è attivamente coinvolto nella fase preparatoria della programmazione dei
lavori, essendo tenuto a presentare le sue indicazioni di priorità che saranno tenute in
considerazione nel programma e nel calendario dei lavori.
Dunque il Governo è uno dei protagonisti della programmazione dei lavori. Le riunioni della
Conferenza dei capigruppo non sono pubbliche, di esse viene redatto un resoconto che
resta strettamente riservato (gli esiti delle sedute più importanti vengono comunicate in
Assemblea). Per questa riservatezza, le sue funzioni negli ultimi anni si sono ampliate
(talvolta si è sovrapposta alle attribuzioni della giunta per il regolamento) ed è stata in più
occasioni chiamata a svolgere funzioni ben diverse dalla programmazione dei lavori.
In conferenza il presidente ha modo di dimostrare le sue capacità di mediazione e influenza
politica, lungi dal limitarsi a registrare le diverse posizioni presenti sul tappeto.
Il ruolo del Presidente è esaltato anche dal fatto che difficilmente in conferenza si procede
a votazioni: spesso si decide per consensus, ossia presupponendo unanimità dei presenti.
Nei rari casi in cui si vota, o ciò si accade all’ unanimità dei presenti o vige comunque un
criterio ponderale, nel senso che il voto di ciascun capogruppo pesa in misura pari alla
consistenza del gruppo che rappresenta : il consenso dei presidenti di gruppi la cui
consistenza numerica sia complessivamente parialmeno ai ¾ dei componenti della Camera.
8) L’ UFFICIO DI PRESIDENZA
L’ufficio di presidenza (denominato consiglio di presidenza, al Senato) è l’organo a cui
essenzialmente spetta, insieme al presidente, la conduzione amministrativa della Camera.
È composto oltre che dal Presidente di Assemblea, da 4 vicepresidenti (che sostituiscono il
Presidente nella direzione dibattiti), da almeno 8 segretari (che sovrintendono alla
redazione dei verbali e assistono il Presidente nell’accertare il risultato delle votazioni) e da
3 questori.
I questori delle Camere sono i parlamentari che collegialmente e sotto la direzione del
presidente dell’ Assemblea, curano,da un lato,il buon andamento dell’amministrazione
(predisponendo bilanci, conti consuntivi) e dall’altro provvedono al mantenimento
dell’ordine nella sede di ciascuna Camera. Esercitano a tal fine veri e propri poteri di
polizia.
Vicepresidenti, questori e i primi otto segretari d’Assemblea sono eletti subito dopo elezione
del Presidente,con sistema di votazione che permette la rappresentanza delle minoranze. Il
numero dei segretari può essere incrementato senza limiti includendo anche rappresentanti
dei gruppi autorizzati.
Al Senato una riforma dell’art 5 approvata nella XIV legislatura voleva fissare a 8 il numero
dei senatori segretari, ma una riforma della XV legislatura ha fatto marcia indietro
imponendo la rappresentatività di tutti i gruppi.
L’ ufficio di presidenza, in particolare, delibera il progetto di bilancio e il rendiconto
predisposti dai questori, adotta le norme relative all’ amministrazione, alla contabilità
interna,alla carriera dei dipendenti,nomina il segretario generale che costituisce l’ organo di
vertice dell’amministrazione interna di ciascuna Camera.
L’ufficio di presidenza svolge però anche un ruolo più marcatamente connesso con l’attività
politica delle Assemblee. In particolare, autorizza la costituzione di gruppi in deroga ai
requisiti numerici previsti dal regolamento; giudica delle controversie sulla composizione
delle commissioni parlamentari; irroga le sanzioni disciplinari più gravi proposte dal
Presidente nei confronti dei singoli parlamentari.
Da ultimo per combattere l’assenteismo, ai rispettivi uffici di presidenza è stato attribuito il
potere di sanzionare le assenze ingiustificate con provvedimenti di riduzione della diaria.
Le amministrazioni delle Camere e le Camere nel loro complesso sono dotate altresì
autonomia contabile: hanno bilancio autonomo e annualmente richiedono al ministero
dell’economia l’iscrizione nel bilancio dello stato delle somme occorrenti al loro fabbisogno
annuale. Ognuna stabilisce l’ammontare della propria dotazione (somma che può
aumentare o diminuire, ciascuna Camera deve valutare le proprie priorità).
Il diverso computo degli “astenuti” alla Camera e al Senato: l’art. 48 regolamento Camera,
dopo aver letteralmente ripetuto la regola costituzionale (le deliberazioni dell’Assemblea e
delle commissioni sono adottate a maggioranza dei presenti), precisa però che sono
considerati presenti a questo fine, solo coloro che esprimono voto favorevole o contrario,
delle astensioni i segretari si limitano a prendere nota ai fini del numero legale (al
raggiungimento del quale essi concorrono).Più vicino alla lettera della disposizione
costituzionale, l’art. 107 R. S. stabilisce che le deliberazioni sono prese a maggioranza dei
senatori che partecipano al voto, ivi compresi gli astenuti. Al Senato, quindi, il numero
degli astenuti è sommato a quello dei favorevoli e dei contrari, per determinare il numero dei
presenti che diviso per due e aumentato di uno, dà la maggioranza necessaria. Il voto di
astensione rende perciò più difficile raggiungere la maggioranza.
Le tappe principali dell’evoluzione della programmazione dei lavori alla Camera sono
costituite dalle novelle regolamentari del 1981, del 1990 e del 1997.
- Con la prima tappa (1981) si è consentito al il Presidente dell’Assemblea in caso di
mancato raggiungimento dell’ unanimità, in seno alla conferenza di predisporre sulla base
degli orientamenti prevalenti e tenuto conto delle altre proposte un programma bimestrale e
un calendario bisettimanale dei lavori da sottoporre all’approvazione Assemblea.
- Con la seconda (1990) si esclusa ogni votazione dell’Assemblea sui programmi e calendari
predisposti dal Presidente. Si è introdotto anche qui, con cautela, lo strumento del
contingentamento dei tempi.
- Infine con la terza (1997) si è superato il principio dell’ unanimità in seno alla conferenza
dei capigruppo, richiedendosi per l’approvazione di programma e di calendario il consenso
dei presidenti di gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari a ¾ dei
componenti della Camera e al tempo stesso si è generalizzato completamente il ricorso al
contingentamento tempi.
1.2. GLI STRUMENTI DELLA PROGRAMMAZIONE DEI LAVORI NELLA DISCIPLINA VIGENTE
Dunque, la disciplina vigente nei due rami del Parlamento vede la programmazione dei
lavori incentrarsi intorno a tre strumenti: il programma dei lavori (di orizzonte bimestrale al
Senato, bimestrale o trimestrale alla Camera), il calendario dei lavori (a cadenza mensile al
Senato, trisettimanale alla Camera), l’ordine del giorno (spesso detto “di seduta”).
- L’ ordine del giorno è l’unico ad essere determinato in via quasi esclusiva dal Presidente d’
Assemblea senza il coinvolgimento della conferenza dei capigruppo. È annunciato alla fine
della seduta precedente e alla Camera potrebbe essere oggetto di opposizione e di
conseguente votazione da parte dell’Assemblea. Sia il potere di formare l’ordine, che quello
di opporvisi, sono condizionati e “vincolati” dall’esistenza del programma e del calendario.
L’ordine del giorno di seduta tende a diventare una mera attuazione della programmazione.
- Il calendario dei lavori è il documento cruciale. Esso fissa il numero e la data delle singole
sedute con indicazione degli argomenti da trattare (art 55 r.S.) ovvero individua gli argomenti
e stabilisce le sedute per la loro trattazione, specificando quali sono i giorni destinati alla
discussione e quelli nei quali l’Assemblea procederà alla votazioni (art 24 c5 r.C.)
In realtà, però, è frequente che il calendario si spinga oltre, fissando cioè anche l’ orario di
inizio e fine della seduta o delle votazioni, e specificando l’ordine con cui i diversi
provvedimenti dovranno essere iscritti all’ordine del giorno. All’interno del calendario viene
pubblicato il contingentamento dei tempi.
- Il programma dei lavori, infine è il documento di taglio più astratto e generale. In esso,ci
si limita a inserire, per ognuno dei due o tre mesi in esso ricompresi, provvedimenti o
argomenti che saranno oggetto di trattazione (si da una blanda attuazione all’art 23 r.C
“elenco argomenti con indicazione ordine di priorità e periodo in cui si deve trattare).
Il procedimento per la formazione del programma e del calendario dei lavori è abbastanza
articolato. Ai fini della formazione del programma sono previste diverse fasi:
1) Opportuni contatti della Presidenza di Assemblea con l’altro ramo del Parlamento e con il
Governo (ministro per i rapporti con il Parlamento) in vista della convocazione della
conferenza dei capigruppo;
2) Eventuale convocazione della conferenza dei presidenti di commissione (Al Senato si
parla di contatti anche con i presidenti delle commissioni permanenti e speciali e si consente
una convocazione da parte del presidente di assemblea dei presidenti di commissione, con
l’intervento del rappresentante di governo).
3) Alla Camera, comunicazione preventiva (almeno 2 giorni prima della conferenza) delle
indicazioni del Governo in ordine di priorità, ed eventualmente anche proposte dei gruppi.
4) Riunione della conferenza dei capigruppo, nella quale, per prassi, il Presidente di
Assemblea presenta una bozza di programma, approntata sulla base delle indicazioni del
Governo e delle proposte dei gruppi
5) In esito della riunione della conferenza, possono verificarsi due ipotesi: o il programma
è approvato (all’unanimità al Senato, con maggioranza qualificata alla Camera), o in
mancanza di tale approvazione, è definito dal Presidente.
6) Il programma è comunicato all’Assemblea e, dopo tale comunicazione diviene definitivo.
Solo al Senato, nel caso in cui sia stato predisposto dal Presidente, esso può essere
discusso ed, eventualmente, anche modificato.
Nella prassi, per semplificare sono stati proposti modelli-tipo di contingentamento dei tempi,
da applicare ai diversi provvedimenti a seconda della loro complessità.
Il potere di determinare il contingentamento dei tempi spetta a chi decide il calendario dei
lavori: perciò, alla conferenza dei capigruppo, nel caso si raggiunga maggioranza richiesta
( unanimità al Senato, ¾ dell’assemblea alla Camera), oppure ove tale maggioranza non si
ottenga, al Presidente di Assemblea.
L’introduzione del contingentamento alla Camera è stata sofferta: tracce di questo
travagliato cammino si trovano nel diverso trattamento del contingentamento dei tempi
nell’ambito del procedimento legislativo,a seconda che si applichi alla fase della discussione
sulle linee generali (non meno di 30 minuti per gruppo) o alle fasi successive (esame articoli
e votazioni finali).
Il contingentamento va deliberato all’ unanimità dalla conferenza dei capigruppo quando si
tratta di progetti di legge: - costituzionale, - vertenti prevalentemente su una materia cui è
possibile chiedere lo scrutinio segreto, vale a dire relativa a diritti e libertà, previsti nella
prima parte della Costituzione, - riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica,
sociale ed economica riferite ai diritti previsti dalla prima parte della Costituzione, su
richiesta di un gruppo parlamentare.
In ogni caso, una volta scaduti i tempi (contingentati) a disposizione dei gruppi si procede
alle votazioni, che si succedono una dietro l’altra, in un clima un po’ surreale, e anche se il
tempo preventivato per la loro effettuazione fosse stato consumato tutto; a meno che il
Presidente d’Assemblea non decida di assegnare un tempo ulteriore a ciascun gruppo, o
anche solo ai gruppi che hanno esaurito il tempo a loro disposizione: in questo caso nella
misura di un terzo in più rispetto al tempo originariamente disponibile.
Anche nelle commissioni trova applicazione la programmazione dei lavori, che è affidata
oltre che ai loro presidenti, anche agli uffici di presidenza, integrati dai rappresentanti dei
gruppi: una sorta di miniconferenza dei capigruppo In commissione (alla quale,di rado
partecipa anche il rappresentante del governo).
Nella prassi tende ad essere prevalente una programmazione a cadenza settimanale: in
concomitanza, cioè,con l’invio delle convocazioni settimanali delle commissioni, i cui lavori si
devono incastrare negli spazi lasciati liberi dall’Assemblea.
A lungo nell’esperienza parlamentare repubblicana, sono state proprio le commissioni gli
organi decisivi, ancor prima che nella definizione dei contenuti della legislazione approvata,
ai fini della selezione dei progetti di legge di cui avviare l’esame. Nell’ambito delle centinaia
di progetti assegnati a ciascuna commissione,e, ricompresi nell’ordine del giorno generale,
erano gli uffici di presidenza delle singole commissioni, integrati dai rappresentanti dei
gruppi, a decidere quali prendere in considerazione: procedendo nella maggior parte dei
casi in sede legislativa o deliberante, o in sede referente quando non c’era un sufficiente
grado di consenso tra i gruppi parlamentari o quando la materia era coperta da riserva
d’assemblea. In questo modo, l’ordine del giorno dell’Assemblea finiva per essere
determinato anch’esso dalle scelte operate dalle commissioni.
A partire dagli anni ’90, grazie all’operatività della programmazione dei lavori e del
contingentamento dei tempi, si è realizzato uno spostamento di indirizzo e delle priorità
della legislazione con una valorizzazione della conferenza dei capigruppo. E’ ora
l’Assemblea, attraverso appunto la conferenza dei capigruppo, a decidere, quali progetti di
legge esaminare condizionando l’agenda delle commissioni.
Diverse sono le modalità attraverso cui si assicura alle Camere l’effettiva prevalenza della
programmazione di Assemblea su quella delle commissioni: alla Camera una volta che il
calendario prevede l’inizio dell’esame di un progetto di legge, la commissione può applicare
il contingentamento e quando finisce il tempo, lascia il passo all’aula per la votazione,in
applicazione del principio di economia procedurale (art 79).
Al Senato invece, in sede referente è esclusa applicazione del contingentamento tempi (è
frequente che la commissione non concluda neanche l’esame del progetto di legge, e che si
vada in aula senza relatore).Tale spostamento dalle commissioni all’Assemblea ha originato
significativi effetti sia sui rapporti tra Governo e Parlamento sia su quelli tra maggioranza e
opposizione: a vantaggio in ambedue i casi del primo dei due soggetti. così il Governo e la
sua maggioranza hanno molta più facilità a controllare le dinamiche di un unico centro
decisionale di quanta non ne avessero a seguire l’attività di quasi una trentina di centri
decisionali poco coordinati tra loro.
Ogni potere che delibera deve conoscere la verità. E così, il Parlamento è dotato di una
serie di strumenti conoscitivi per esercitare le sue funzioni e per soddisfare la sua “curiosità”.
Chi per primo deve soddisfare la curiosità delle Camere è il Governo, e per suo tramite,
l’amministrazione: è questo un necessario canale istituzionale di informazione, per anni
tendenzialmente esclusivo (fino al 1971). Ma la Costituzione prevede uno strumento
autonomo, l’inchiesta, che consente una diretta acquisizione di notizie (art 82 Cost.).
Tale articolo è collocato alla fine del titolo relativo alla funzione legislativa, in posizione
indipendente dal rapporto fiduciario.
Negli anni il legislatore ha inserito una serie di strumenti conoscitivi che forniscono al
Parlamento una massa di informazioni indipendenti: per es. le relazioni annuali al
Parlamento delle autorità indipendenti e di altri soggetti. Si è soliti enucleare, nell’ambito
della generica attività conoscitiva un’attività propriamente ispettiva.
L’ ispettiva è l’attività di acquisizione di conoscenze da parte del Parlamento cui
corrisponde un obbligo, variamente graduato, di risposta da parte dei soggetti interrogati.
Lo strumento ispettivo per eccellenza è l’inchiesta parlamentare, che reca con sé
addirittura l’attribuzione dei poteri dell’autorità giudiziaria in capo all’organo che la svolge.
Mezzi meramente conoscitivi(non ispettivi) sono invece: le indagini conoscitive nelle quali i
soggetti da ascoltare sono semplicemente invitati ad intervenire.
Un carattere più stringente, e quindi ispettivo, hanno le interrogazioni e le interpellanze,a cui
il Governo non può, ma tendenzialmente “deve” rispondere (ancorchè si tratti di obbligo
prettamente politico).
Vi sono poi apposite commissioni parlamentari bicamerali, dette di vigilanza,
istituzionalmente dotate di penetranti e particolari poteri ispettivi. Tra queste spicca il
comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR).
Anche le commissioni parlamentari permanenti, nelle materie di competenza per la loro
attività legislativa, di indirizzo e di controllo, si possono avvalere di strumenti ispettivi:
audizione di ministri sugli indirizzi politici, acquisizione di notizie, dati o documenti, esame
di relazioni presentate periodicamente dal governo, ecc …
Nelle commissioni permanenti,poi,oltre che in aula, si possono svolgere interrogazioni (ma
non interpellanze).
La disponibilità di questo complesso insieme di strumenti conoscitivi e ispettivi e il loro uso
mirato e settoriale dovrebbero garantire alle commissioni permanenti che lo desiderino di
essere i veri centri di propulsione dell’attività parlamentare: non solo di quella legislativa,
ma soprattutto di quella di indirizzo e di controllo.
2.4. LE AUDIZIONI
Le audizioni, chiamate anche “udienze legislative”, dovrebbero essere lo strumento
ordinario a disposizione delle commissioni parlamentari per acquisire le informazioni che
ritengono necessarie in relazione alle varie questioni da trattare, esaurendosi in un'unica
seduta, o frammento di seduta, da dedicare a queste attività informative.
Tuttavia, il ricorso a questo strumento è condizionato da un pesante vincolo strutturale.
Questo strumento di apertura al Parlamento,infatti,fu introdotto nella prospettiva che vedeva
nel Governo la principale fonte di informazione parlamentare, e dunque gli unici soggetti
che possono essere uditi, oltre ai membri del Governo, sono dirigenti e amministratori delle
amministrazioni centrali e degli enti sottoposti comunque a controllo ministeriale.
Sono però i ministri a vagliare chi dovrà andare a rispondere, e a loro le commissioni
devono rivolgersi se vogliono procedere alle audizioni.
L’elenco dei soggetti udibili si è ristretto ulteriormente con la privatizzazione degli enti
pubblici economici.
Oggi questi strumenti, poco usati, si colorano di una connotazione ispettiva piuttosto che
semplicemente conoscitiva. Mentre l’obiettivo di acquisire semplicemente conoscenze viene
perseguito attraverso audizioni informali (senza limiti soggettivi) che si svolgono in sede
appunto informale: al Senato, negli uffici di presidenza integrati dai rappresentanti dei
gruppi parlamentari, e alla Camera le commissioni si riuniscono informalmente nel plenum
dei suoi componenti.
Le audizioni informali si svolgono poi, senza pubblicità o più esattamente senza più
nessuna forma di resocontazione scritta (in alcuni casi si è ritenuto di dare pubblicità
audiovisiva). A fronte dell’inaridirsi del ricorso allo strumento delle audizioni formali e del
proliferale incontrollato di quelle informali, i regolamenti hanno visto la formalizzazione di
strumenti conoscitivi settoriali, che consistono in vere e proprie audizioni in due campi: la
programmazione economica finanziaria e le politiche dell’UE.
2.5. LE INTERROGAZIONI
L’ interrogazione è una semplice domanda che ogni parlamentare può rivolgere al Governo
su un fatto determinato, chiedendo informazioni particolari, documenti, notizie o esprimere
la propria posizione politica (art 128 r. C. e 145 r. S.). Alle interrogazioni il rappresentante
del governo interessato (Presidente consiglio, ministro o sottosegretario) risponde in
Assemblea, in commissione o per scritto,a seconda dell’opzione esercitata dall’interrogante
al momento della presentazione . L’interrogante può solo replicare, intervenendo, appunto
in Assemblea o in commissione, dichiarandosi soddisfatto o insoddisfatto ovvero nel caso di
risposta scritta, accontentarsi delle informazioni ricevute.
Il Governo può essere chiamato a rispondere su questioni gravi (terremoti, epidemia mucca
pazza, ecc) con interrogazioni urgenti, ma la maggior parte delle volte consistono in
semplici segnalazioni (richiamare l’ attenzione dell’amministrazione statale su un problema,
circa 1/3 rimangono senza risposta).
Una particolare specie di interrogazione è quella “a risposta immediata” con la quale si è
cercato di introdurre in Italia il “question time” tipico del parlamento inglese (30 minuti nella
seduta della camera dei comuni ogni mercoledì, senza programmi). In Italia è stato
approvato con molti correttivi e viene praticato alla Camera dal 1997 e al Senato dal 1999.
Una volta a settimana (il mercoledì alla Camera), viene riservato uno spazio della seduta
dell’aula alle interrogazioni presentate da un deputato per ciascun gruppo parlamentare,
entro mezzogiorno del giorno precedente. Ad esse dovrebbero rispondere il Presidente del
Consiglio dei ministri o il vicepresidente del consiglio (premier nella question time).
Gli argomenti sono i più disparati, ma sempre conosciuti preventivamente dal Governo.
Ciò insieme alla scarsa fantasia degli interroganti, alla sistematica assenza del Premier e
alla frequente sostituzione del Ministro competente con quello per i rapporti col Parlamento
impedisce di suscitare nelle aule quel clima teso e brillante che caratterizza il question time
britannico.
2.6. LE INTERPELLANZE
Anche l’ interpellanza consiste in una domanda formulata al Governo da uno o più
parlamentari. Si tratta però, a differenza della interrogazione, di una domanda motivata,
tesa a conoscere i motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in questioni che
riguardano determinati aspetti della sua politica. La maggior rilevanza politica della
domanda spiega perché la sua risposta debba aver luogo in Assemblea.
La procedura si articola nello svolgimento da parte del presentatore, dell’interpellanza, nella
conseguente risposta del rappresentante del Governo e in una replica dell’interpellante
stesso (interpellanza, risposta, replica dell’interpellante).
Obiettivo di questo strumento di ispezione parlamentare è quello di far emergere la
posizione politica del Governo su una determinata questione. Si comprende quindi come,
dopo il dialogo tra il rappresentate del Governo e interpellante, se l’interpellante non è
soddisfatto può presentare una mozione (art 138 r. C.) prospettando una diversa linea
politica rispetto a quella indicata dal Governo, sulla quale si apre un dibattito che si
conclude con un voto.
Nella prassi l’interpellanza si è progressivamente confusa con lo strumento dell’
interrogazione. Gli oggetti trattati vanno dall’uso delle basi NATO ai ritardi dei traghetti per
la Sardegna, e il Governo spesso tardivamente, risponde solo ad una parte delle
interpellanze. Per rivitalizzare l’ istituto si è introdotto, sull’es del Bundestag, una corsia
preferenziale per le interpellanze urgenti, presentate cioè da un gruppo di parlamentari. La
presentazione di queste interpellanze “urgenti” fa sorgere diritto alla risposta in tempi brevi:
entro 2 settimane al Senato e entro 48 ore alla Camera. Per evitare l’utilizzo ostruzionistico
sono posti anche limiti quantitativi: è concessa un’ interpellanza al mese al Senato e due
alla Camera per ciascun gruppo; e per ciascun parlamentare 6 l’anno al Senato e una al
mese alla Camera.
3) I PROCEDIMENTI DI INDIRIZZO
Mozioni, risoluzioni e ordini del giorno sono, in origine e su un piano generalissimo, tutti
strumenti volti a promuovere votazioni di una Camera su uno specifico oggetto.
Storicamente hanno origine dall’interpellanza, la quale nasce sì come strumento ispettivo
ma con la potenzialità di aprire un dibattito che si può concludere con un voto sulla
questione sollevata. Ed è per questa via che passo dopo passo si è costruito nel Piemonte
sabaudo ben oltre la lettera dello statuto Albertino, il rapporto fiduciario tra camera elettiva e
governo del re. I voti della camera sono diventati indirizzi al governo: risoluzioni, poi mozioni
sino ad arrivare alla cristallizzazione nella prassi della mozione di fiducia, prima successiva
e quindi preventiva che ha segnato la progressiva evoluzione in senso parlamentare della
forma di governo del regno.
Gli effetti prodotti da questi atti possono essere i più vari in assenza di ogni disciplina
costituzionale: da mozioni o risoluzioni che modificano in modo incisivo il programma di
governo sino a ordini del giorno accolti come semplici raccomandazioni; talvolta poi è la
stessa legge a disciplinare gli effetti di atti di indirizzo.
3.3. LA MOZIONE
La mozione è un atto ad iniziativa non individuale (va presentata alla Camera da 10
deputati o da un presidente di gruppo, al Senato da 8 senatori), diretto a provocare un
dibattito e una deliberazione dell’aula.
E’ uno strumento polivalente, che mette in moto un procedimento autonomo (non ha
bisogno di appoggiarsi ad altri procedimenti), che si conclude con una voto dell’Assemblea.
Un voto che solitamente definisce gli indirizzi (ossia direttive parlamentari al governo) ma
può anche sanzionare comportamenti (mozioni conclusive dell’esame di relazioni delle
commissioni d’inchiesta) e persino esaurire i suoi effetti all’interno delle mura delle Camere
(costituendo per esempio ulteriori commissioni).
E’ questa autonomia che fa della mozione lo strumento più incisivo tra gli atti d’indirizzo.
Il testo della mozione si articola in genere in una premessa con motivazione dell’atto (la
camera o il Senato,”considerato”, “visto”, “valutato”) , e in un dispositivo che, a seconda dei
casi, recita “impegna il governo”, se è un atto di indirizzo, ovvero “delibera” se è una
decisione che produce i suoi effetti all’interno della Camera.
La mozione è innanzitutto oggetto di una discussione di carattere generale, chiusa dalle
dichiarazioni del Governo e dalle repliche. Se sono state presentate più mozioni relative a
fatti o argomenti connessi, sono discusse insieme e sono poste ai voti secondo un ordine
che eviti preclusioni (art 158 r. S).
Il regolamento della Camera perfeziona l’obiettivo di proteggere il significato di ogni
mozione, indicando, per l’ordine di votazione di eventuali emendamenti, un criterio opposto
a quello previsto per il procedimento legislativo: gli emendamenti sostitutivi sono votati dopo
la frase o la parola cui si riferiscono, cosicchè, se la frase o parola viene mantenuta
l’emendamento cade.
Le risoluzioni sono infine gli atti che possono chiudere ,con un voto che definisce un
indirizzo, una serie di procedure tipiche previste dai regolamenti (esame delle relazioni della
corte dei conti, dei voti delle regioni, delle sent della Corte Cost …)
Ordini del giorni di istruzione al Governo possono essere presentati dal singolo
parlamentare che, alla Camera non ne può sottoscrivere più di uno per procedimento. Essi
possono essere discussi e approvati nel corso di un procedimento legislativo, ma anche in
occasione dell’esame di altri atti di indirizzo.
Sono dunque atti accessori, che si inseriscono in discussioni che hanno oggetto altri atti:
progetti di legge, mozioni o risoluzioni (in questo ultimo caso può avvenire che l’ordine del
giorno alla fine sia l’unico atto approvato;venendo meno,perché ritirati o respinti,gli atti di
indirizzo che avevano generato il procedimento).
La procedura di esame di questi atti nel corso del procedimento legislativo si differenzia non
poco tra Senato e Camera. In Senato possono essere anticipati in commissione in sede
referente e devono essere presentati prima (o al massimo nel corso) della discussione
generale e la loro votazione ha normalmente luogo durante l’esame e la votazione degli
articoli e degli emendamenti ad essi riferiti.
Alla Camera, invece, essi possono essere presentati anche durante la discussione degli
articoli e sono esaminati in un momento successivo, ossia “dopo l’approvazione dell’ultimo
articolo”, subito prima della votazione finale del progetto di legge (pregio di farli votare,
dopo aver definito il testo normativo a cui si riferiscono).
In entrambi i rami del Parlamento, sugli ordini del giorno è chiamato ad esprimersi
obbligatoriamente il rappresentante del Governo. Le alternative sono tre: 1) Se il Governo li
accetta integralmente, di solito non c’è bisogno di porli in votazione, dal momento che essi
hanno così già conseguito lo scopo.
2) Se, al contrario, esprime parere negativo, essi sono votati sempre che il presentatore
sia presente e insista per votarli.
3) Nell’ipotesi intermedia, cioè quando il rappresentante del Governo li accoglie solo come
raccomandazione, spetta al presentatore decidere se accontentarsi di questo generico
impegno o chiedere il voto in Assemblea, che può approvarlo o respingerlo del tutto.
Anche se accettati dal Governo o votati dall’Assemblea, gli ordini del giorno producono
effetti giuridici piuttosto incerti. Non possono fare altro che “esprimere un’intenzione, un
desiderio delle Camere”. I loro effetti, dunque, dovrebbero esaurirsi all’interno dei rapporti tra
Parlamento e Governo.
Non sono mancati casi in cui gli ordini del giorno, invece di vincolare il Governo, fossero
diretti all’interprete (a tutti ,non solo a quel qualificato interprete che è l’ amministrazione
pubblica), con l’obiettivo di condizionare l’interpretazione delle disposizioni che si stavano
per approvare.
Per evitare contrasto tra testo e ordini del giorno: “non possono essere presentati ordini del
giorno che riproducano emendamenti o articoli aggiuntivi respinti, in contrasto con
deliberazioni già adottate nel corso della discussione”. Per evitare questo impedimento, il
presentatore di un emendamento può ritirarlo prima della votazione e con il consenso del
presidente trasformarlo in un ordine del giorno (come specifica il solo regolamento del
Senato).
4) I PROCEDIMENTI FIDUCIARI
Art 94 comma 1 Cost. “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.”
Il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo costituisce il cuore della forma di governo
parlamentare. Senza fiducia di ambedue le Camere il Governo non può restare
validamente in carica, e reciprocamente, le Camere non possono continuare nella loro
attività e devono essere sciolte dal Presidente della Repubblica se non sono in grado di
esprimere la fiducia ad un Governo.
È la sussistenza e la necessaria permanenza di questo rapporto fiduciario che,
realizzando una sorta collaborazione dei due poteri, fa sì che le Camere contribuiscano
legittimamente alla funzione di indirizzo politico - amministrativo e che il Governo,
reciprocamente ,possa svolgere un ruolo di coprotagonista nell’attività legislativa.
L’opzione a favore della forma di governo parlamentare fu sancita dall’ordine del giorno
Perassi, approvato dalla seconda commissione costituita nell’ambito della commissione dei
75, il 4 settembre 1946.
(Art 94 comma 2 Cost. “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione
motivata e votata per appello nominale.”Art 94 comma 3 Cost. “Entro 10 giorni dalla sua
formazione il Governo si presenta alla Camere per ottenere la fiducia.”)
L’art 94 Cost. prevede per la mozione di fiducia (come per tutte le votazioni fiduciarie) la
necessità di un voto per appello nominale: ossia il ricorso ad una forma di votazione
palese e in qualche misura “solenne” e inequivocabile, dal momento che richiede a
ciascun parlamentare di passare davanti al banco della presidenza e di rispondere
individualmente, ad alta voce, alla “chiama”, dicendo “sì”, “no” o “mi astengo”.
D’altronde è per effetto della votazione della mozione di fiducia che si costituiscono, in
Parlamento, qualificandosi giuridicamente, la maggioranza e l’opposizione.
Gli effetti si producono tanto su quelli che votano a favore che su quelli che votano contro,
unica differenza i fronti opposti in cui si schiereranno ogniqualvolta venga chiamato in causa
il nesso fiduciario. Per l’approvazione della mozione di fiducia, è sufficiente la maggioranza
semplice. Nel disciplinare il procedimento di approvazione della mozione di fiducia, i
regolamenti parlamentari si sono limitati a riprodurre esattamente il dettato costituzionale
salvo aggiungere che per queste mozioni non è consentita la votazione per parti separate,
né la presentazione di ordini del giorno.
Art 94 comma 2 Cost. “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione
motivata e votata per appello nominale Art 94 comma 5 Cost. “La mozione di sfiducia deve
essere firmata da almeno 1/10 dei componenti della Camera e non può essere messa in
discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.”
L’art 94 c. 4, Cost prevede che il voto contrario di una o entrambe le Camere su una
proposta del Governo non comporta obbligo di dimissioni. La Costituzione si preoccupa di
distinguere il voto di dissenso espresso delle Camere nei confronti di specifici provvedimenti
proposti dal Governo e destinato a non avere ripercussioni sul rapporto fiduciario, dall’ipotesi
disciplinata dall’ art 94 c 5, Cost. di revoca esplicita della fiducia accordata al Governo, che
deve avvenire necessariamente attraverso l’approvazione da parte delle Camere di una
mozione (di sfiducia) ad hoc.
Dunque, la fiducia del Governo incarica può essere in ogni momento della legislatura
separatamente revocata da ciascuna Camera attraverso l’approvazione di una mozione
motivata di sfiducia la quale deve essere votata per appello nominale ed approvata dalla
maggioranza dei presenti (maggioranza semplice).
Secondo l’art 94 c 5, Cost. tale mozione deve essere sottoscritta da almeno 1/10 dei
componenti di ogni Camera (che devono sottoscrivere la stessa mozione di sfiducia, non
potendosi sommare diverse mozioni sebbene dirette ad ottenere il medesimo scopo). La
norma costituzionale stabilisce inoltre la mozione di sfiducia non possa essere messa in
discussione prima di 3 giorni dalla sua presentazione, allo scopo di evitare colpi di mano
delle opposizioni che potrebbero essere indotte a sfruttare la momentanea assenza nell’
Assemblea di parlamentari della maggioranza. L’approvazione della mozione di sfiducia a
differenza del semplice voto di dissenso, obbliga il Presidente del Consiglio, a nome del
Governo, a presentare al Capo dello Stato le dimissioni dell’ esecutivo. Di fatto, però, non è
mai accaduto che un Governo si sia dimesso a causa di una esplicita revoca della fiducia:
numerose crisi di Governo, se si eccettuano quelle assai peculiari del I e II Governo Prodi,
sono state sempre, formalmente, extraparlamentari, cioè conseguenti a spontanee
dimissioni del Governo per dissensi manifestati nella maggioranza. In qualche rara
circostanza, mozioni di sfiducia al Governo sono state discusse dalle Camere, ma di fatto
sempre respinte, oppure sono risultate superate e non votate a causa delle intervenute
dimissioni del Governo nei cui confronti erano dirette. Tutto ciò si spiega tenendo conto che
le forze politiche della maggioranza uscente e lo stesso Governo ritengono inutile o dannoso
giungere ad un voto quando le ragiono o le condizioni della collaborazione che hanno dato
vita alla maggioranza stessa vengano giudicate non più esistenti. Talvolta nella prassi è
accaduto che il Capo dello Stato abbia respinto le dimissioni presentate e
conseguentemente invitato il Governo a verificare in seno alle Camere la sussistenza delle
condizioni politiche per il perseguimento delle sue attività e comunque ad approfondire nella
sede parlamentare le ragioni della crisi (Parlamentarizzazzione della crisi)
Su questi argomenti ha provato a fare leva l’unico ministro che sia stato sfiduciato, il
ministro di grazia e giustizia Mancuso nel sollevare il conflitto di attribuzioni tra poteri dello
Stato nei confronti del Senato (che aveva approvato la mozione di sfiducia individuale) del
Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica. La Corte Costituzionale ha
respinto le obiezioni affermando la legittimità della mozione di sfiducia individuale con la
sentenza 7/1996, richiamando i caratteri della forma parlamentare (collegamento tra
indirizzo politico – responsabilità - rapporto fiduciario) e sottolineando la sua idoneità a
comportare, per il ministro che ne sia stato colpito, l’obbligo di dimettersi. Non si è più
verificato nessun caso, perché nelle ipotesi è sempre intervenuto il Presidente del Consiglio
in difesa del ministro interessato.
Decisamente più rilevante sul piano quantitativo e sul piano sistemico è la questione di
fiducia. Con la questione di fiducia è il Governo a dichiarare che dall’esito di una certa
votazione parlamentare dipende la sua permanenza in carica: a chiamare a raccolta, cioè la
propria maggioranza su una certa votazione parlamentare, legando il suo destino al risultato
di un voto.
Si osserva che la ratio dell’istituto è di tipo “ricattatorio”: con la sua posizione il Governo
pone l’Assemblea davanti a un’ alternativa netta: o approva il testo voluto dal Governo o
questo si dimetterà.
In Italia la questione di fiducia non è oggetto di disciplina costituzionale ma, è una lettura in
negativo del disposto dell’art 94 Cost.,secondo cui la sconfitta in una votazione
parlamentare non comporta per il Governo obbligo di dimissioni (ciò non impedisce di
dichiarare che il destino del Governo dipende dal voto).
Vi sono stati accesi dibattiti sull’ ammissibilità e soprattutto sugli effetti procedurali quando la
votazione ha luogo nell’ambito del procedimento legislativo. Vi è una vera e propria
consuetudine costituzionale in forza della quale la questioni di fiducia produce tre ordini di
effetti (anche in deroga ai principi costituzionali che informano il procedimento legislativo):
1) Il voto palese per appello nominale. 2) La priorità della votazione su cui è stata posta la
fiducia. 3) L’ inemendabilità (e indivisibilità) dell’oggetto di tale votazione.
Oggi tale consuetudine è stata in parte codificata, in parte integrata da norme inserite nei
regolamenti parlamentari (alla Camera nel 1971, al Senato nel 1988).
A queste fanno riscontro, sul versante governativo, due disposizioni legislative contenute
nella legge n. 400/1988: la disposizione legislativa secondo cui “Il consiglio dei ministri
esprime l’assenso all’ iniziativa del Presidente del consiglio di porre la questione di fiducia
davanti alle Camere” e quella secondo cui “spetta al Presidente del consiglio direttamente
o a mezzo di un ministro espressamente delegato porre la questione di fiducia in
Assemblea”.
Per il resto si applica la consuetudine che in parte emergeva da un parere della giunta per
il regolamento del 1984,secondo il quale la questione di fiducia ha priorità su ogni altro voto
e preclude non solo la votazione, ma anche l’illustrazione degli emendamenti,e degli ordini
del giorno. Questa disciplina è stata ora recepita dalla riforma organica del regolamento del
2017,che ha disposto che il Governo debba sottoporre preventivamente alla Presidenza del
Senato i testi sui quali intende avanzare la questione di fiducia(al fine di permettere la
valutazione della proponibilità,dell’ammissibilità e per sottoporli se necessario all’esame
della commissione di bilancio);nel caso di questione di fiducia posta sull’approvazione di un
emendamento governativo,il governo può precisarne il contenuto esclusivamente per ragioni
di copertura finanziaria o di coordinamento formale.
Al Senato, la disciplina regolamentare si limita a vietare la posizione della questione di
fiducia sulle proposte di modifica del regolamento e, in generale, su quanto attenga alle
condizioni di funzionamento interno del Senato. Per il resto, trova applicazione la suddetta
consuetudine.
Alla Camera la disciplina regolamentare allarga i divieti presenti in Senato: vieta la
questione di fiducia anche per le proposte di inchieste parlamentari, e su tutte le votazioni
per alzata di mano o scrutinio segreto. Sancisce la modalità di votazione (per appello
nominale), gli effetti sulla discussione e sull’ordine delle votazioni nonché l’intervallo di
almeno 24 ore che deve intercorrere tra la sua posizione e la sua votazione.
Un momento di svolta si ebbe con la celebre decisione del Presidente Iotti (seduta della
durata di 10 giorni) che ha stabilito che la questione di fiducia, modificando in base all’art
116 l’ordinario procedimento di discussione e di approvazione dei progetti di legge, dà vita
ad un iter autonomo e speciale.
Le finalità in vista delle quali il Governo decide di porre la questione di fiducia sono in genere
ricondotte a due. Anzitutto, vi è lo scopo originario dell’istituto che consiste nel cosiddetto
“ricompattamento della maggioranza” : mediante la questione di fiducia si vuole ricondurre
all’indirizzo politico – governativo le posizioni di quei parlamentari delle forze di
maggioranza che, altrimenti, su quel voto agirebbero con maggiore libertà.
Accanto a questo scopo, vi è quello di tipo antiostruzionistico, che fa leva sugli effetti
procedurali che sono riconnessi alla posizione della questione di fiducia. Entrambe le finalità
tendono ad essere esaltate quando la questione di fiducia è posta su un
maxiemendamento,ossia un emendamento volto a sostituire l’intero progetto di legge o su
un articolo composto da una molteplicità di commi attinenti a oggetti diversi.
La questione di fiducia, proprio perché disciplinata prevalentemente da fonti non scritte,
costituisce uno strumento estremamente duttile. Oltre che nel procedimento legislativo, può
essere posta anche su atti di indirizzo. Di questo tipo sono state le questioni di fiducia che
hanno comportato la caduta di entrambi i governi Prodi.
Il procedimento di formazione delle leggi ordinarie è, nelle sue linee essenziali, regolato
dalla Costituzione (artt. da 70 a 74), la quale rinvia, per una disciplina più puntuale,ai
regolamenti parlamentari, così ponendo una “riserva di regolamento parlamentare”.
La Costituzione fissa alcuni passaggi ineliminabili: l’ iniziativa, la deliberazione delle due
Camere in momenti distinti e successivi, l’esame in commissione, il voto articolo per articolo
e il voto finale. Tali passaggi rappresentano tutti anelli necessari di una catena, la cui
mancanza origina un vizio di legittimità costituzionale della legge, sindacabile dalla Corte
costituzionale.
Il primo anello della catena è l’iniziativa legislativa, la redazione cioè di un progetto di legge,
composto in articoli e corredato da una relazione illustrativa da parte dei soggetti individuati
dall’ art 71 Cost. : il Governo, i singoli parlamentari, 50.000 elettori, ciascun consiglio
regionale e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL).
Quando non proviene dai singoli parlamentari, l’inizia legislativa è a sua volta il risultato di
un procedimento. Per l’iniziativa del Governo si prevede un itinerario assai complesso:
l’iniziativa del ministro competente o del Presidente del consiglio, il concerto degli altri
ministri coinvolti, la delibera del consiglio dei ministri e, a chiusura ,per espressa previsione
costituzionale, l’ autorizzazione del Presidente della Repubblica alla presentazione a una
delle camere (se riscontra vizi può chiedere un riesame al consiglio dei ministri).
In questo iter, il testo dell’iniziativa legislativa del Governo (alla Camera si chiama “disegno
di legge”, dato che gli altri progetti sono chiamati “proposte di legge”, al Senato, non c’è
differenza, tutti “disegni di legge”) si correda di relazioni (illustrativa, tecnico finanziaria
ecc) che dovrebbero rappresentare la motivazione sostanziale dell’intervento normativo,
giustificandone la prevalenza politica sulle altre.
Vanno ricordate tre caratteristiche dell’iniziativa legislativa: 1) La prevalenza dell’iniziativa
legislativa del Governo rileva solo su un piano politico, poiché invece le iniziative legislative
sembrano tutte avere per la Costituzione un uguale valore giuridico.
2) L’iniziativa legislativa non è idonea a produrre effetti sostanziali (neppure se si individua
in termini esatti la materia su cui intervenire), accade che gli emendamenti dei parlamentari
o dello stesso Governo sono liberi di modificare pure il testo dei disegni di legge
governativi, potendo così aggirare sia tutta la fase endogovernativa, sia l’autorizzazione del
Presidente della Repubblica.
3) L’iniziativa legislativa è in genere considerata un semplice impulso al procedimento, le
Camere non si ritengono obbligate a deliberare su un testo, ma libere di scegliere o
elaborare i testi da approvare, conformemente alla prescrizione costituzionale (art 70 Cost.)
secondo cui la funzione legislativa è esercitata collettivamente da esse.
Il progetto di legge, presentato al Presidente di una delle due Assemblee, viene dal
medesimo assegnato ad una commissione parlamentare permanente (o a più commissioni
riunite se la materia investa la competenza di più commissioni), o altrimenti ad una
commissione “speciale” costituita ad hoc.
La scelta della commissione o delle commissioni competenti è al Senato un potere
esclusivo del Presidente d’Assemblea. Alla Camera questa scelta è sottoposta ad una
valutazione dell’aula, che in teoria potrebbe variare la commissione competente a
esaminare il progetto, ma che in genere si limita a prendere atto della decisione
presidenziale.
Al Presidente d’Assemblea spetta comunque risolvere eventuali conflitti di competenza
insorti dopo l’assegnazione.
Nel procedimento normale, ossia in sede referente, in commissione viene svolto un esame
preliminare e istruttorio (che comprende anche la formazione del testo base) rispetto alla
fase deliberativa, che ha luogo invece in Assemblea. Alla commissione spetta innanzitutto
svolgere un’ adeguata istruttoria. Scegliere la materia e dunque i progetti di legge su cui
lavorare è un’opzione politica (non è un atto dovuto, gran parte delle iniziative legislative
non sono esaminate e vengono messe solo per memoria all’ordine del giorno delle
commissioni). Solo per pochissime esiste un vero e proprio obbligo d’esame, ad esempio
per i progetti che costituiscono manovra di bilancio e disegni di legge di conversione. Il
termine ordinario per riferire all’Assemblea è due mesi.
L’esame in commissione si apre con un’ illustrazione preliminare svolta dal Presidente o
affidata ad un relatore, da lui nominato. Se presso l’altro ramo del Parlamento è iniziato
l’esame di un progetto di legge su analoga materia, i Presidenti delle due Assemblee
devono raggiungere intese per evitare lo svolgimento di procedimenti paralleli.
Nella prassi il criterio generale è che vada avanti la commissione che ha iniziato l’esame
per prima.
Si svolge quindi la fase istruttoria propriamente detta: l’acquisizione cioè di “elementi di
conoscenza necessari per verificare la qualità e l’efficacia” dell’intervento normativo
proposto. Questa fase è regolata con dovizia di particolari dal regolamento della Camera
(art 79 )che ha codificato i contenuti di due circolari dei Presidenti delle Camere del 1997.
La definizione dei contenuti dell’istruttoria è poi stata ribadita dallo stesso regolamento ove
si è stabilito che nel corso dell’esame in sede referente le commissioni devono prendere in
considerazione i seguenti elementi:
- La necessità dell’intervento legislativo
- Il rispetto degli altri ambiti di competenza
- Il rapporto costi-benefici
- La corretta stesura del testo
Al fine di poter valutare questi elementi, la commissione può utilizzare l’intero strumentario
delle procedure informative messe a disposizione dai regolamenti: udire i ministri, disporre
di indagini conoscitive ed è soprattutto il Governo il soggetto maggiormente in grado di
fornire informazioni a priori circa la fattibilità dell’intervento legislativo (salvo spettare poi alle
Camere il compito di controllare la correttezza dei dati forniti). (il reg della camera ha
previsto che questi strumenti siano utilizzabili anche da minoranze parlamentari: a
richiesta,cioè,di almeno 4 componenti della commissione,ma sempre che l’ oggetto di tale
richiesta non sia giudicato superfluo,cioè non essenziale per il compimento dell’istruttoria
legislativa),dall’ufficio di Presidenza della Commissione,integrato dai rappresentanti dei
gruppi,con una maggioranza pari a ¾ dei componenti,oppure,in alternativa,dal Presidente di
commissione.
Esaurita questa prima fase, la commissione elabora un testo unificato ,di mediazione dei
vari progetti abbinati o altrimenti procede alla scelta di uno dei progetti come “testo base”. E’
con riferimento a questo testo che si fissa un termine per la presentazione degli
emendamenti, che poi sono oggetto di discussione e votazione in commissione.
L’esame di articoli ed emendamenti avviene senza un particolare rigore procedurale, non
dovendo rispettare un rigido ordine.
Sui testi risultanti dall’esame degli emendamenti viene sollecitato, alla Camera, e in
concreto acquisito il parere delle altre commissioni parlamentari interessate. Fra questi, i
più importanti sono i pareri delle commissioni “filtro”, che hanno cioè una competenza
trasversale rispetto ai singoli settori, di competenza di ciascuna commissione : es. la
commissione di bilancio per verificare la copertura finanziaria delle previsioni di spesa
contenute nei progetti di legge e rispetto di leggi sulla contabilità, la commissione affari
costituzionali per la conformità alla Costituzione e coerenza con l’ordinamento, la
commissione politiche dell’UE per progetti di attuazione di norme comunitarie, la
commissione giustizia, e alla Camera la commissione lavoro per gli aspetti concernenti il
pubblico impiego, previdenza e autonomia contrattuale, per prassi la commissione finanze
e infine la commissione bicamerale per le questioni regionali (per materie dell’art 117 Cost.).
Il mancato rispetto dei pareri espressi dalle prime tre impedisce l’approvazione del progetto
di legge da parte di commissioni in sede deliberante o legislativa: se la commissione non
segue neanche una condizione del parere, il testo è rimesso all’Assemblea.
Se la commissione destinataria dei pareri è in sede referente, la vincolatività si attenua e
l’Assemblea è libera di oltrepassare il parere contrario: si procede quindi alla stampa del
parere in allegato alla relazione dell’Assemblea con obbligo di motivare perché non ci si è
conformati (i pareri della commissione di bilancio hanno effetti significativi: se non ci si è
adeguati si trasformano in emendamenti da sottoporre al voto dell’Assemblea).
Alla Camera può essere chiesto un parere che ha lo stesso valore di quello delle
commissioni filtro, si parla di parere rinforzato, il quale consente così di ridurre il ricorso
all’assegnazione dei progetti di legge a commissioni riunite. Nella “sede referente”, il
procedimento in commissione si esaurisce con la votazione del mandato al relatore a riferire
all’Assemblea. E’ questo l’unico voto che la commissione, in questa sede, è tenuta a dare.
Per sostenere il dibattito in aula, la commissione, oltre al relatore di maggioranza e agli
eventuali relatori di minoranza procede alla nomina di un comitato rappresentativo anche
delle minoranze chiamato “comitato dei nove”. Questo rappresenta la commissione nel
corso dell’esame del progetto di legge in Assemblea esercitando quelle funzioni di guida e
sostegno della discussione in aula, oltre che esprimendosi preventivamente su tutti gli
emendamenti presentati. Il testo proposto dalla commissione viene stampato, preceduto
dalla relazione del relatore. Possono essere presentate oltre alla relazione di maggioranza
anche relazioni di minoranza (corredate con un testo alternativo).
Al Senato sono espressamente ritenuti inammissibili gli emendamenti “privi di ogni reale
portata modificativa” e sono improponibili quelli governativi che comportino oneri, privi della
relazione tecnico-finanziaria. Alla Camera si arriva a soluzioni analoghe con la prassi: sono
ammissibili in aula solo argomenti già considerati in commissione.
Criteri più restrittivi sono stabiliti per alcuni procedimenti: per la conversione dei decreti-
legge, della manovra di bilancio, della legge comunitaria, ecc.
Sugli emendamenti presentati in Assemblea vanno acquisiti poi i pareri delle commissioni di
bilancio, per i profili di copertura finanziaria, e delle commissioni affari costituzionali.
Diversi sono gli effetti procedurali che ne derivano: solo al Senato il parere contrario della
commissione bilancio rende non votabile l’emendamento a meno che ne facciano richiesta
15 senatori. Alla Camera come al Senato, nessun vincolo nella procedura d’Assemblea è
indotto dal parere contrario della commissione affari costituzionali.
Arriva quindi il momento più delicato: quello delle votazioni sugli emendamenti e poi su
ogni articolo, come prescritto dalla Costituzione. Per garantire un’ espressione della volontà
chiara, gli emendamenti sono messi in ordine e posti in votazione, ove si riferiscano alla
stessa porzione di testo, a partire da quelli che più si allontanano dal testo base. Dunque,
prima gli emendamenti interamente soppressivi, poi quelli parzialmente soppressivi, quindi
quelli modificativi e infine quelli aggiuntivi.
Gli articoli aggiuntivi sono votati alla fine, dopo la votazione dell’articolo.
I subemendamenti sono invece votati prima degli emendamenti cui si riferiscono (non sono
ammissibili quelli interamente soppressivi).
Sempre per garantire un risultato coerente delle votazioni, il Presidente non mette in
votazione gli emendamenti che dichiara “preclusi”, perché oggettivamente incompatibili con
precedenti votazioni, o “assorbiti” dall’approvazione precedente di un testo.
Questa è la procedura normalmente seguita. Tuttavia, specie qualora ci si trovi di fronte a
molti emendamenti, per es. nel caso di ostruzionismo, il Presidente può modificare l’ordine
delle votazioni degli emendamenti quando lo reputi opportuno ai fini dell’economia o
chiarezza delle votazioni (r. S) .
Votati gli emendamenti, si vota ciascun articolo che può essere approvato o respinto, ma
anche accantonato quindi rinviato dal Presidente in commissione per un ulteriore
approfondimento. Uno o più articoli possono anche essere “stralciati”, cioè separati dal
progetto di legge: serve qui una decisione dell’Assemblea e la parte stralciata diviene un
autonomo progetto di legge che ha una vita propria (il più delle volte si conclude negli
archivi).
Dopo la votazione articoli alla Camera (prima invece, al Senato) vengono discussi e votati
gli ordini del giorno. Quindi, il progetto di legge deve essere votato nel suo complesso,
con le relative dichiarazioni di voto (anch’esse soggette, di regola, a contingentamento dei
tempi). Questa deliberazione avveniva un tempo a scrutinio segreto mentre oggi invece
avviene generalmente a scrutinio palese, salva la possibilità di richiederne quello segreto
nei soli casi previsti dai regolamenti.
Il voto finale è in genere preceduto dal coordinamento formale, ossia dall’introduzione di
modifiche esclusivamente di forma, che si rendono in genere necessarie per ovviare ad
errori materiali, imperfezioni o contraddizioni. Poiché anche aggiungere una virgola o
rinumerare un comma sono operazioni delicate, il coordinamento è oggetto di un’accurata
disciplina nei regolamenti parlamentari.
Infine il testo del progetto di legge,quando approvato da una camera, per il principio del
bicameralismo paritario, viene trasmesso all’altra, con il “messaggio” del Presidente dell’una
al Presidente dell’altra Assemblea, al quale spetta, nei modi che si sono visti, attivare il
procedimento legislativo presso quel ramo del Parlamento. Il testo viaggerà quindi da
palazzo Montecitorio a palazzo Madama (o viceversa) avanti e indietro (le navette) anche
più di una volta fino a che non vi sia una deliberazione conforme sul medesimo testo, di
Camera e Senato. I regolamenti prevedono comunque che la Camera che ha approvato per
prima il testo debba limitare il suo esame, nel caso non infrequente che l’altra Camera glielo
rimandi modificato, alle sole parti modificate. Ne discende l’inammissibilità degli
emendamenti che non si trovino in diretta correlazione con le modifiche apportate dall’altro
ramo del Parlamento, con la sola eccezione di quelli diretti ad aggiornare la clausola di
copertura finanziaria (termini di contesa tra le due camere quindi ristretti).
(Art 72 comma 3 Cost. “Il regolamento può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e
l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti,
composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi,
fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera,
se il Governo o un 1/10 dei componenti della Camera o 1/5 della Commissione richiedono
che sia discusso e votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua
approvazione finale con le sole dichiarazioni di voto. Il regolamento determina le forme di
pubblicità dei lavori delleCommissioni.”)
(Art 73 Cost. “Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese
dall’approvazione Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti,
ne dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito. Le leggi sono
pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno alla loro
pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano diversamente.” )
Approvata nel medesimo testo dai due rami del Parlamento, la legge è ormai formata (o
giuridicamente perfetta) : per produrre i suoi effetti però deve essere promulgata dal
Presidente della Repubblica e quindi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Alla pubblicazione
in Gazzetta, dopo la vacatio legis, si lega l’entrata in vigore:presupposto essenziale,quello
della pubblicazione,perché la legge stessa possa essere conoscibile ed efficace erga
omnes, e quindi produrre effetti nell’ordinamento giuridico.
La promulgazione del Presidente della Repubblica, con la controfirma del Presidente del
consiglio, deve avvenire ai sensi dell’art 73 Cost. entro un mese dall’approvazione(o diverso
termine è stabilito dalle Camere se a maggioranza assoluta ne dichiarano l’urgenza).
In alternativa alla promulgazione, il Presidente della Repubblica, ove riscontri vizi di
legittimità costituzionale (o anche relativi al merito costituzionale) può rinviare la legge alle
Camere (c.d. veto sospensivo) e si effettua la ripetizione del procedimento
legislativo,secondo il classico schema del controllo mediante richiesta di riesame.
In tal caso, dopo che si è data lettura del messaggio di rinvio in ambedue i rami del
Parlamento, il procedimento riparte dalla Camera che aveva esaminato per prima il progetto
di legge. Dopo la lettura del messaggio in commissione, si passa in Assemblea dove si può
limitare la discussione alle sole parti oggetto del messaggio, per poi procedere alla
votazione articolo per articolo e alla finale. Dopo questa ulteriore fase,
Se le Camere riapprovano la legge, il Presidente della Repubblica non può rimandarla
indietro nuovamente, ma è obbligato a promulgare la legge e inviarla al ministro
guardasigilli entro i 30 giorni successivi per la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (se
pensa di incorrere in ipotesi limite di alto tradimento o attentato alla costituzione, può
rifiutare nuovamente la promulgazione). La legge entra in vigore 15 giorni dopo la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (vacatio legis, mancanza della legge) a meno che la
stessa legge non preveda un termine diverso.
6) I PROCEDIMENTI LEGISLATIVI “SPECIALI”
(Art 138 Cost. “Le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali sono
adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di
tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera
nella seconda votazione. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella
seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei 2/3 dei componenti”)
Nella categoria delle leggi costituzionali rientrano, ai sensi dell’art 138 Cost. sia le leggi di
revisione costituzionale, sia le altre leggi costituzionali, tra queste ultime un trattamento
particolare spetta alle leggi con cui si adottano o modificano gli statuti delle regioni speciali.
A parte la possibilità di richiedere il referendum per le leggi costituzionali, l’art 138 Cost.
prevede un doppio aggravamento procedimentale per l’adozione delle leggi di revisione
costituzionale e per le altre leggi costituzionali:
- La necessità di due delibere sul medesimo testo da parte di ciascuna Camera,intervallate
almeno da tre mesi.
- La necessità, nella seconda e definitiva lettura presso ciascuna Camera di una
maggioranza aggravata, pari almeno alla maggioranza assoluta dei componenti.
(Art 79 Cost. “L’amnistia e l’indulto sonno concessi con legge deliberata a maggioranza dei
2/3 dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale.”)
Il requisito di una maggioranza aggravata è richiesto dalla Costituzione anche per le leggi
di amnistia e indulto (art 79 Cost). Per queste leggi, anzi, diversamente per quel che
accade per le leggi costituzionali, è necessario superare la maggioranza dei 2/3 dei
componenti di Camera e Senato anche nelle votazioni relative ai singoli articoli che la
compongono.
La prescrizione costituzionale non ha ricevuto però specifico sviluppo nei regolamenti
parlamentari forse anche perché finora è stata attuata una sola volta. Tuttavia, Sono
emerse alcune questioni procedurali, su cui Camera e Senato hanno preso posizioni
differenti riguardo le maggioranze richieste nelle votazioni intermedie: in Senato si è
proceduto senza verificare la sussistenza di tale maggioranza per la votazione di singoli
articoli né degli emendamenti ad essi riferiti, alla Camera, invece si è stabilito che la
maggioranza dei 2/3 occorre per la votazione degli articoli e degli emendamenti interamente
sostitutivi di articolo e aggiuntivi, non per la votazione degli altri emendamenti né delle
questioni incidentali.
La Costituzione all’ art 80 prevede che il Parlamento debba autorizzare con legge la ratifica
da parte del Capo dello Stato dei trattati più importanti. La legge di autorizzazione alla
ratifica, per la sua delicatezza politica, deve essere obbligatoriamente approvata in
Assemblea e non può essere sottoposta a referendum abrogativo(art 75 cost) .
La negoziazione dei trattati spetta al governo, è lui a presentare alle Camere i disegni di
legge di autorizzazione alla ratifica.
Questa, che era considerata una regola indiscussa, non lo è più dalla XIII legislatura,
quando con apposite pronunce delle giunte per il regolamento, è stata ammessa la
presentazione di iniziative legislative di singoli parlamentari recanti l’autorizzazione alla
ratifica di trattati, è il testo del trattato è quello firmato dal Governo.
I disegni di legge di autorizzazioni alla ratifica normalmente constano di un articolo che reca
l’autorizzazione alla ratifica, di un altro contenente il cosiddetto “ordine di
esecuzione”(disposizione che dà piena attuazione nell’ordinamento interno al trattato),
nonché del testo del trattato che costituisce un allegato in sé inemendabile.
Come inemendabili sono ritenute, secondo una consolidata prassi, sia la disposizione
contenente l’autorizzazione alla ratifica, sia quella recante l’ordine d’esecuzione.
I disegni di legge che si presentano in questa semplice forma sono tradizionalmente
assegnati in sede referente alla commissione affari esteri.
Quando invece il trattato lascia margini di discrezionalità al legislatore nazionale, i disegni di
legge di autorizzazione alla ratifica possono contenere, oltre l’ordine d’esecuzione, anche
puntuali disposizioni di adattamento dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dal
trattato. Su queste ultime è possibile, secondo le regole ordinarie, l’attività emendativa,
solitamente assegnati alla commissione di merito competente per materia). Attenzione
bassa a questi tipi di leggi dato che il trattato è già concluso.
(Art 7 Cost. “ Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le
modificazioni dei Patti, accettate delle parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale.”Art 8 Cost. “ Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse da quella cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i proprio
statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze.”)
I rapporti tra lo Stato e gli enti rappresentativi delle religioni diverse dalla cattolica sono
regolati con legge sulla base di intese bilaterali (art 8 Cost.).
I rapporti con la Chiesa cattolica sono invece disciplinati, secondo l’art 7 Cost., dai famosi
Patti Lateranensi 1929,modificabili senza revisione costituzionale, se le variazioni sono
“accettate dalle due parti”. Le modifiche avvennero con il Concordato del 1984, reso
esecutivo con la legge 121/1985.
Le leggi che regolano i rapporti con le confessioni diverse dalla cattolica seguono un
procedimento particolare, che nella sostanza ripropone il modello della legge di
autorizzazione alla ratifica dei trattati.
Innanzitutto, l’iniziativa legislativa è riservata al Governo che procede a negoziare le intese
con la controparte (o le modifiche al concordato).
Il testo dell’intesa negoziata è riprodotto in un disegno di legge (non in allegato come per
trattati) il quale, come avviene per i trattati, non è considerato emendabile (salvo per le
norme prive di corrispondenza nell’intesa, es. la copertura finanziaria), dato che ogni
emendamento comporterebbe la riapertura delle trattative. Questa inemendabilità si riflette
nel potere che hanno i Presidenti di Camera e Senato di dichiarare l’ improcedibilità di
emendamenti, di parte o di interi disegni di legge, che incidano su materie oggetto di intesa
tra lo Stato italiano e le rappresentanze della chiesa cattolica o altre confessioni religiose.
I disegni di legge di conversione dei decreti legge sono lo strumento con cui il Governo
trasmette alle Camere il testo del decreto legge, adottato dallo stesso Governo, ai sensi
dell’art 77 Cost.: “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Essi si compongono in
genere di un unico articolo, con il quale si dispone la conversione in legge del decreto
legge, il cui testo è riprodotto in allegato.
È l’art 77 Cost. a stabilire, in modo tassativo, i tempi di inizio e di conclusione dell’esame
parlamentare di tali disegni di legge, prevedendo che i decreti legge debbano essere
presentati il giorno stesso alle Camere, che, anche se sciolte, sono appositamente
convocate e si riuniscono entro 5 giorni. I decreti perdono efficacia ex tunc (sin dall’inizio)se
non convertiti entro 60 giorni.
A questa urgenza costituzionale i regolamenti parlamentari hanno risposto in modo diverso,
ma sempre in contraddizione con la logica della Carta Costituzionale : in un primo momento
non differenziando il procedimento di esame dei disegni di legge di conversione rispetto a
quello previsto per altri progetti di legge. In un secondo momento, a partire dagli anni ‘
80,specializzandoli sì, ma attraverso l’ introduzione di una serie di aggravamenti procedurali
(consistenti in un sub procedimento per la verifica parlamentare dei requisiti di necessità e
urgenza, affidato in via preliminare alle commissioni affari costituzionali e rispettive
Assemblee).
Tuttavia l’idea che un organo politico potesse distinguere tra valutazione di legittimità
costituzionale e quella di merito di un disegno di legge si è rivelata fallace, così nel 1997
alla Camera fu soppressa, prevedendo in sostituzione il coinvolgimento nel procedimento di
conversione di un organo a composizione paritaria quale il comitato per la legislazione,
chiamato ad operare però sulla base di paramenti differenti ( nei quali non è incluso art 77
Cost.).
Si hanno oggi discipline notevolmente diversificate tra Camera e Senato del procedimento di
conversione:
- Al Senato è ancora necessario il parere della commissione affari costituzionali
sull’esistenza dei presupposti e sui requisiti stabiliti dalla legislazione vigente (possibile
anche relativamente ad una parte del testo sul quale parere 10 senatori possono chiedere
una discussione e un voto dell’Assemblea).
- Alla Camera il comitato per la legislazione si esprime sulla qualità del testo e sulla
conformità alle regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti
legge, previste dalla vigente legislazione, mentre alla commissione di merito(quella alla
quale il disegno è assegnato in sede referente) spetta valutare la sussistenza dei
presupposti sulla base degli elementi contenuti nella relazione governativa.
È dunque anzitutto al legislatore delegante che l’art. 76 Cost. rivolge le sue prescrizioni, a
tutela del Parlamento nei confronti di se stesso, in modo da evitare il ripetersi di
esautoramenti della funzione legislativa parlamentare come quelli verificatisi in epoca
statutaria e fascista.
Alla medesima ratio sembra rispondere l’inclusione dei disegni di legge di delega all’interno
della riserva d’ Assemblea ad opera dell’art. 72 comma 4.
Il disegno costituzionale non impedisce pertanto che lo stesso legislatore delegante fissi
ulteriori limiti, in particolare di tipo procedimentale.
Questi limiti ulteriori consistono in genere nel coinvolgimento preventivo di organi o soggetti
di vario genere, chiamati ad esprimere il loro parere(obbligatorio ma non vincolante).
Il secondo comma dell’ art 17 della legge n.400 prevede espressamente che la legge
delega debba indicare quali norme restano abrogate per effetto della delegificazione, cioè
per effetto dell’intervento (“autorizzato” della delega ) del potere governativo di interferire in
materie già affidate alla potestà legislativa parlamentare. Dunque il Parlamento può
delegificare, ossia delegare il Governo a disciplinare con regolamenti una certa materia,
purchè indichi della legge delega quali norme vanno abrogate. Non sempre ciò accade. A
tal proposito, secondo la dottrina costituzionalistica prevalente non è ammissibile
un’abrogazione tacita, perché ciò significherebbe che la validità di una norma di legge viene
a dipendere dalla sua compatibilità con una norma successiva regolamentare
contravvenendo a due precisi principi: quello di gerarchia delle fonti e quello della
successione delle leggi nel tempo. Di conseguenza una legge delega che non indica le
norme da abrogare è sostanzialmente elusiva del dettato dell’art 76 Cost.
Mentre la Costituzione fa esclusivo riferimento alle leggi di approvazione del bilancio e del
rendiconto, ponendo all’art. 81 Cost. una riserva di iniziativa a favore del Governo e una
riserva di approvazione a favore del Parlamento, la legislazione in materia di contabilità
pubblica è venuta delineando una gamma di provvedimenti legislativi decisamente più
articolata.
Con la legge n. 468\1978 si è deciso di valorizzare non la legge di bilancio, ma la “manovra
di bilancio”, avente il suo fulcro in un altro disegno di legge, da esaminarsi insieme a quello
di bilancio: il disegno di legge finanziaria.
Successivi interventi legislativi hanno ridefinito il contenuto proprio della legge finanziaria e
ulteriormente arricchito gli strumenti che compongono la manovra di bilancio, includendovi il
DPEF (decisione di finanza pubblica) e i disegni di legge collegati.
La più accurata tipizzazione del contenuto della legge finanziaria, legge a contenuto tipico
e a competenza limitata, ha portato a rafforzare le difese nei confronti delle disposizioni che
rispetto ad esse risultino estranee.
Si è configurato uno specialissimo potere di stralcio presidenziale, per effetto del quale il
Presidente del ramo del Parlamento cui il disegno di legge finanziaria è presentato per
primo, preliminarmente all’assegnazione, “accerta che il disegno di legge non rechi
disposizioni estranee al suo oggetto così come definito dalla legislazione vigente in materia
di bilancio e contabilità di Stato” e, ove individui ipotesi siffatte, “comunica all’Assemblea lo
stralcio delle disposizioni estranee, sentito il parere della commissione di bilancio”.
Entrato in vigore l’atto normativo i parlamenti nazionali potranno chiedere ai loro governi di
ricorrere alla Corte di giustizia invocando una violazione del principio di sussidiarietà.
Qualora vi sia una maggioranza semplice dei Parlamenti nazionali che formulino pareri
motivati sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà, da parte di un progetto di atto
legislativo esaminato secondo la procedura legislativa ordinaria, la Commissione potrà
mantenere la propria proposta solo motivandone le ragioni. In tal caso Consiglio e
Parlamento europeo dovranno valutare la compatibilità della proposta con il principio di
sussidiarietà, tenendo conto dei pareri motivati del parlamenti nazionali.
Il Consiglio con la maggioranza del 55% dei membri e il Parlamento con la maggioranza
semplice, potranno bloccare il procedimento.
Con la nuova previsione, Consiglio e Parlamento europeo possono imporre il ritiro
dell’iniziativa della Commissione , su impulso della maggioranza dei Parlamenti nazionali.
Non si parla più di ratifica,ma di “approvazione” degli stati membri. Sviluppando questa
previsione,l’art 11 della legge 234/2012 prevede correttamente un’autonoma procedura
legislativa di approvazione di questa revisione semplificata,che viene cosi sottratta
espressamente alla procedura generale di ratifica dei trattati internazionali di cui all’art 80
Cost.
Vi sono strumenti incisivi per controllare e indirizzare l’azione degli esecutivi in seno al
Consiglio dei ministri dell’Unione, nel momento della definizione degli atti normativi (e non
solo) europei. Un controllo e un indirizzo che si fondano su una regolare trasmissione di tutti
i documenti preparatori dell’attività normativa europea e che,in alcuni casi,si traducono in
veri e propri mandati,senza i quali il Governo non può impegnarsi in consiglio.
La materia è regolata oggi dalla legge 234/2012, sulla partecipazione dell’Italia alla
formazione e attuazione delle norme e delle politiche dell’UE”, dai regolamenti
parlamentari,oltre che da una serie di convenzioni e di prassi:il tutto nel quadro delle norme
previste dai trattati e dai loro protocolli.
Già nel 1987 con la “legge Fabbri” si era previsto un obbligo per il Governo di trasmettere
tutti gli atti preparatori della normativa europea. Previsione ribadita nel 1989 con la “Legge
Pergola”, ma negli anni, salvo qualche eccezione, non ha avuto una compiuta attuazione.
Il Governo in rari episodi ha trasmesso al Parlamento gli atti preparatori.
Solamente con l’entrata in vigore della legge n. 11/2005 in virtù del rinnovato clima di
interesse conseguente all’ approvazione del trattato di Lisbona, si è avviata una
trasmissione regolare di tutti gli atti preparatori della normativa europea e non solo, ed è
stata aggiunta la possibilità, per agevolare la trasmissione, di avvalersi di strumenti
informatici (rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali).
Il Governo, con cadenza tendenzialmente settimanale,trasmette atti e documenti della più
varia natura. Questi documenti sono inviati dalle Presidenze di Camera e Senato alle
commissioni permanenti. Alla Camera è la presidenza ad assegnarli direttamente alle
commissioni competenti; al Senato gli elenchi degli atti sono inviati a tutte le commissioni
che, ove siano interessate, ne chiedono l’assegnazione.
Gli attori della fase ascendente, dunque, secondo i regolamenti delle due Camere, sono le
commissioni permanenti. Ciascuna, nelle materie di sua competenza, può sul progetto di
atto normativo comunitario “esprimere il proprio avviso”, ricorrendo, alla Camera, a
un“documento” finale e, al Senato, ad una “risoluzione” (differenza solo terminologica non
sostanziale). L’effetto è sempre quello di un atto di indirizzo al Governo.
Questi progetti di atti sono assegnati anche alle commissioni permanenti per le politiche
dell’Unione Europea, che esprimono “pareri” alla Camera e “osservazioni” al Senato.
Alla 14° commissione del Senato sono assegnati direttamente, in via primaria, gli atti che
riguardano le istituzioni comunitarie o la politica generale dell’UE. Questa commissione può,
nel caso di inattività della commissione di merito, chiedere alla presidenza che le proprie
osservazioni siano trasmesse al Governo.
Quando una delle Camere ha messo all’ordine del giorno l’esame di un progetto di atto
comunitario, l’ art 10 della legge 234/2012 prevede che scatti una riserva d’esame
parlamentare: il Governo non può procedere alle attività di propria competenza per la
formazione dei relativi atti comunitari prima che sia concluso l’esame parlamentare.
Passati 30 giorni, il Governo è libero di procedere anche in mancanza della pronuncia
parlamentare.
Sempre la legge 234 prevede che le amministrazioni ministeriali elaborino e trasmettano alle
camere,su ogni progetto di atto legislativo,una relazione tecnica che non solo fornisca
elementi per permettere la valutazione circa il rispetto dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità in relazione ai poteri che ai parlamenti nazionali il trattato di Lisbona offre,ma
rechi altresì un valutazione complessiva del progetto,delle sue prospettive negoziali e,
soprattutto, del suo impatto finanziario e di quello sull’ordinamento interno,da esporre
attraverso l’elaborazione di una puntuale tabella di corrispondenza tra le disposizioni del
progetto e le norme nazionali.
L’obiettivo è evidentemente quello di anticipare nella “fase ascendente” le problematiche che
con ogni probabilità sorgeranno nella successiva fase discendente.
Lo strumento che dà attuazione agli obblighi europei, è legge comunitaria annuale, il cui
procedimento (su modello della legge di bilancio) è disciplinato con legge ordinaria(prima
dalla 86/1989 poi dalla 11/2005,ora dalla legge 234/2012) e da norme dei regolamenti
parlamentari.
La “legge comunitaria”, direttamente, ma per lo più attraverso deleghe legislative e
mediante autorizzazioni ad emanare regolamenti, abroga le leggi interne incompatibili con il
diritto comunitario, recepisce direttive e altri atti non direttamente applicabili e predispone
tutte le misure di esecuzione necessarie alla piena applicazione in Italia delle norme
europee.
Nel corso degli anni non si è riusciti a garantire l’approvazione con cadenza annuale della
legge comunitaria. Da ciò la scelta della legge 234/2012 di dividere il tradizionale contenuto
della legge comunitaria in due distinti disegni di legge annuali. Il primo (la legge di
delegazione europea) contiene: a) deleghe legislative per il recepimento delle direttive e
degli altri atti normativi dell’Unione europea;
b) l’autorizzazione al governo di recepire il diritto dell’Unione in via regolamentare ove la
fonte da utilizzare sia di carattere secondario;
c) i principi fondamentali cui devono attenersi le leggi regionali ove la materia rientri in quelle
di legislazione concorrente.
Il secondo disegno di legge (la legge europea) contiene invece tutte le altre
previsioni,diverse dalle deleghe legislative,necessarie per attuare gli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea: dunque le disposizioni con le quali il
legislatore direttamente dà attuazione al diritto europeo e tutte le modifiche necessarie per
porre rimedio a casi di non corretto recepimento di normativa dell’Unione sull’ordinamento
nazionale.
Il senso dello sdoppiamento del contenuto della legge comunitaria in due disegni di legge è
garantire un iter più rapido.
Tale principio affermatosi in via consuetudinaria in Inghilterra verso fine del 700 e si è poi
cristallizzato nella Costituzione americana e nelle rivoluzioni francesi. In Italia il principio per
cui le sedute delle Camere sono pubbliche venne fissato nello Statuto Albertino del 1848
con un importante temperamento: la possibilità per 10 parlamentari di chiedere che le
Camere deliberassero in segreto. Di questa deroga le Camere statuarie fecero un uso
limitato, vi si ricorse in casi eccezionali, in particolare in tempo di guerra e per alcuni
peculiari attività come la procedura di convalida dei senatori. Il dibattito all’Assemblea
costituente forma la tesi della coessenzialità della pubblicità al funzionamento delle
istituzioni parlamentari. Il principio affermato dall’ art 1 Cost. esclude che gli organi
attraverso cui il popolo esercita la sovranità possano al di fuori di un regime di pubblicità. Per
i Parlamenti, dunque, la pubblicità dei lavori non può che essere la regola.Al tempo stesso,
non è nemmeno pensabile che l’attività di decisione politica si svolga sempre ed
integralmente in pubblico: esiste inevitabilmente una parte del processo decisionale, quella
in genere consistente nella negoziazione e negli accorsi tra le diverse forze politiche, che si
svolge in forma privata e, sostanzialmente, segreta. L’opzione normativa può essere
quella di tenere fuori dalle sedi parlamentari questa attività, lasciando che si svolga in luoghi
del tutto informali; oppure di prevedere alcune sedi parlamentari semiformalizzate, ma prive
di resocontazione. Gli esiti dei lavori di queste sedi decisionali non possono considerarsi
definitivi, ma devono poi comunque passare per una sede in cui la pubblicità dei lavori è
garantita in forma piena.
Ad ogni modo, l’ordinaria forma di pubblicità dei lavori delle commissioni è quella indiretta
assicurata attraverso i resoconti. La resocontazione stenografica è imposta dai regolamenti
nel caso di sede deliberante e redigente e al Senato, per lo svolgimento di interrogazioni. È
prevista come possibile in tutte le altre sedi salvo quella referente e quella consultiva. La
regola generale per i lavori delle commissioni è dunque quella di unapubblicità non troppo
intensa. Ciò al fine di garantire flessibilità ai lavori di questi organi e la possibilità di
raggiungere in essi accordi e consensi al di fuori di un pieno controllo da parte dell’opinione
pubblica. Questa situazione è stata anche oggetto di critiche in dottrina: rivelandosi che
così vengono a sfuggire al controllo della pubblica opinione momenti di elaborazione di
importanti scelte normative. Anche l’apertura pubblicitaria dei lavori delle commissioni
parlamentari non può impedire alle stesse l’uso di strumenti informali, come le riunioni degli
uffici di presidenza e dei comitati ristretti, prive di ogni tipodi rendicontazione e quindi di
pubblicità.Art 64 comma 2 Cost. “Le sedute sono pubbliche; tuttavia ciascuna delle due
Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta
segreta.”La sentenza n. 231/1975 della Corte Costituzionale, nel ribadire il principio della
pubblicità dei lavori parlamentari di cui all’art. 64 comma 2, ha rimesso alla discrezionalità
delle Camere la concreta applicazione della pubblicità, lasciandole libere nel decidere di
secretare i lavori parlamentari d’aula o delle commissioni. La Costituzione all’ art 64 comma
2, prevede che ciascuna Camera e Parlamento in seduta comune possano deliberare di
adunarsi in seduta segreta (e i regolamenti parlamentari individuano le relative procedure).
Si ritiene che il procedimento di formazione delle leggi non possa essere oggetto di sedute
segrete. Ciò su cui vi è un ampio consenso è l’assenza di un particolare valore probatorio
degli atti parlamentari. La dottrina prevalente è nel senso di negare un privilegiato valore
probatorio all’uno o all’altro atto parlamentare, ritenendoli tutti strumenti “ordinati al fine di
dare pubblicità materiale ei lavori delle Camere nella loro realtà storica e fenomenica”.