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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Afferma la Costituzione italiana che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”
(art. 101): dall’enunciato, diventato uno slogan ormai abusato, si fanno discendere almeno due
diverse ineccepibili conseguenze: la prima, che le decisioni del giudice devono essere
accessibili e comprensibili da chiunque, e non soltanto da una ristretta cerchia di iniziati; la
seconda, che chiunque deve poter esercitare il proprio legittimo diritto di critica sulle
decisioni che non condivide: con l’esclusione, com’è ovvio, di offese o denigrazioni becere,
quando non apertamente minacciose, che ledono l’indipendente esercizio della funzione
giurisdizionale.
Ma perché la Carta apre il titolo dedicato alla magistratura con quel riferimento al
popolo? Vediamo di chiarire perché, pur nella consapevolezza che illustrare ciò che dovrebbe
risultare ovvio è sempre un compito difficile.
La prima osservazione è che la frase non va isolata dal contesto, ma occorre
considerarla attraverso una lettura sistematica, e coordinarla con le altre previsioni rilevanti. Il
collegamento è con il secondo comma dell’art. 1 Cost., ove si legge che “la sovranità
appartiene al popolo”. Si tratta di uno fra i princìpi fondamentali che identificano la forma
dello Stato, logica conseguenza del sistema democratico repubblicano. Perciò anche la
funzione giurisdizionale, manifestazione della sovranità, appartiene al popolo, in nome del
quale i giudici si pronunciano (per espressa previsione della legge, le sentenze contengono
l’intestazione “in nome del popolo italiano”). Il significato si può meglio apprezzare se si fa
un confronto con la corrispondente norma dello Statuto Albertino: “la Giustizia emana dal
Re, ed è amministrata in suo nome dai giudici ch’Egli istituisce”.
Secondo la Costituzione, dunque, i giudici traggono le proprie attribuzioni
direttamente dal popolo: non più dal re, ma nemmeno dal capo dello Stato, dal governo o dal
parlamento. Ecco perché il primo comma dell’art. 101 va letto insieme al secondo comma,
secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”: ciò che complessivamente ne
emerge è l’indipendenza da ogni altro potere, che infatti è ribadita, per la magistratura nel suo
insieme, dall’art.104 comma 1 Cost.
Quello che sicuramente la Costituzione esclude è che i giudici rappresentino o siano
tenuti a rappresentare la maggioranza degli elettori (si pensi che ciò non vale nemmeno per i
membri del parlamento, i quali – sinora – rappresentano “la Nazione, senza vincolo di
mandato”). Nella magistratura, cui si accede per concorso (può non piacere, ma è scritto
nell’art. 106 comma 1 Cost.), si riflette tendenzialmente il pluralismo della società. Il popolo,
del resto, esercita la sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ed è costituito da
tutti i cittadini, elettori e non, maggioranza e minoranza. Non sono “il popolo” i partiti o i
sindacati, e neppure la piazza, si tratti dei cd. benpensanti o di facinorosi di varia coloritura.
La complessità del decidere rifugge dalla immediatezza dei “mi piace”, come pure dalla
superficiale espressività delle faccine.
Queste sommarie precisazioni, forse fin troppo elementari, si rendono necessarie per
smentire la diffusa convinzione secondo cui, se la giustizia è amministrata in nome del
popolo, allora i giudici debbono essere subordinati alla volontà di chi, eletto dal popolo,
quella sovranità direttamente esprime. L’argomento suona male, perché porta ad una
conclusione in parte scontata e in parte falsa.
È scontata se significa che i giudici debbono applicare la legge. Come abbiamo appena
visto, è già scritto testualmente nella Costituzione (i giudici sono soggetti “soltanto” alla
legge, ma sono comunque “soggetti” alla legge). È falsa, se pretende di affermare la
supremazia del parlamento come tale, o meglio delle sue contingenti maggioranze. La volontà
del parlamento è vincolante per il giudice solo in quanto oggettivata in un testo di legge; ma
— è questo il punto fondamentale — la legge, una volta entrata a far parte dell’ordinamento,
non rappresenta più le intenzioni soggettive dei suoi occasionali estensori, ma vive
autonomamente, nell’interpretazione che spetta appunto ai giudici fornire. Solo una
concezione, per così dire, ingenua, e da tempo superata, della funzione giurisdizionale può
indurre a concepire il giudice come mero esecutore di comandi che gli sarebbe proibito
interpretare. Ma l’applicazione della legge al caso concreto non è che interpretazione,
funzione valutativa che coinvolge necessariamente anche opzioni di tipo ideologico, e a sua
volta, è ormai pacifico, produce diritto.
Contrapporre, come è stato fatto, ai “giudici politicizzati” il “popolo sovrano” è
dunque solo una mistificazione. Salvo che l’obiettivo non sia, più semplicemente, etichettare
come politicizzati, e dunque da censurare, i giudici che decidono in maniera non gradita alla
maggioranza e al governo. Banalmente, ma fermamente, occorre ripetere che il processo è
esperienza cognitiva; e che l’essenza della giurisdizione sta nell’imparziale esame dei fatti e
delle norme; nel garantire, in posizione di autonomia ed indipendenza, il rispetto dei diritti e
delle libertà di ognuno; nel saper assolvere anche quando l’opinione pubblica reclama la
condanna, e saper condannare anche quando essa invoca l’assoluzione.
L’accertamento delle responsabilità penali è riservato (sempre dalla Costituzione) ai
rappresentanti del potere giurisdizionale, i quali come si è detto non coincidono, in evidente
applicazione del principio della separazione dei poteri, con i rappresentanti del popolo. La
Costituzione, anzi, esclude che il popolo, come tale, sia legittimato ad intervenire direttamente
nell’amministrazione della giustizia (mentre strumenti di democrazia diretta esistono con
riferimento al potere legislativo). È consentita soltanto la partecipazione all’amministrazione
della giustizia, nelle forme stabilite dalla legge, di singoli cittadini (art. 102 comma 3, 106
comma 2 Cost.), che possono rivestire il ruolo di giudice onorario o di componente dei collegi
di corte d’assise.
La giustizia è amministrata “in nome” del popolo, dunque, proprio perché il popolo
non può esercitarla direttamente: l’esatto contrario di ciò che si vorrebbe suggerire.

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