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Joseph de Finance L A L E G G E M O R A L E N A T U R A L E

LA LEGGE MORALE NATURALE


Joseph de Finance*

Uno dei temi principali dell'enciclica è quello della legge naturale. Sappiamo
che oggi questa nozione è sospetta a molte persone. Da una parte, i giuristi hanno
generalmente una certa difficoltà a impiegare la parola «legge» per designare
quanto non viene letto nei codici; dall'altra, a molti, giuristi o meno, un termine di
portata giuridica, e che dunque, si direbbe, disciplina direttamente i
comportamenti esteriori, sembra poco adatto al campo propriamente morale che è
quello dell'interiorità, della personalità — diciamo un campo esistenziale. Per lo
stesso motivo, l'aggettivo «naturale» può creare difficoltà se si vuole fondare la
«legge naturale» sulle esigenze della natura e più precisamente della natura umana.
Ci si chiederà con quale diritto questa natura, necessariamente finita, possa
prescrivere la sua «legge» a una libertà che, come tale, gode di un'ampiezza in-
finita.
Ci sembra dunque indispensabile, per chiarire la nozione di legge naturale,
dissipare dapprima gli equivoci e i malintesi che gravano sui due concetti chiave
di «legge» e «natura».

Il concetto di «legge»

La celebre definizione con cui Montesquieu apre lo Spirito delle leggi: «Le
leggi sono dei rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose»1, non è
senza merito e di primo acchito sembra addirittura meglio convenire alla legge
naturale che non alle leggi positive. Eppure, essa pecca contro la legge laddóve i
rapporti in questione non derivano dalla sola natura delle cose: è questo il caso
delle leggi che si incontrano nelle scien-

* Pontificia Università Gregoriana, Facoltà di filosofia.


1
Montesquieu, Esprit des lois, parte I, cap. I, inizio.

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ze umane, per esempio in linguistica (legge di Grimm) o in economia politica


(legge di Gresham). D'altra parte, non tutti i rapporti necessari rappresentano una
legge; così nel caso dei rapporti di cui si occupa la geometria: diciamo tutt'al più
che sono una regola per tracciare correttamente le figure o misurarle. Si dirà che
Montesquieu parla di cose, non di ciò che è astratto. Ma è proprio su questo punto
che la definizione è in fallo. Che la rana sia più piccola del bue è certamente un
rapporto necessario fondato sulla natura delle cose: vi si vedrà difficilmente una
legge. La definizione di Montesquieu si applica bene soltanto alle leggi fisiche,
chimiche o biologiche.
La nozione di legge, nel suo senso pieno, comporta un elemento che sembra
essere assente dagli esempi citati: un elemento imperativo o almeno direttivo che
si esprime, per esempio, mediante la formula «in virtù di». Dove sta questa «vir-
tù» nelle leggi fisiche? Se, a temperatura costante, aumento il volume di un gas, la
sua pressione diminuisce in proporzione; non è in virtù della legge di Mariotte che
questo succede, ma è in virtù di questa legge che, avendo aumentato il volume,
devo aspettarmi di vedere diminuire proporzionalmente la pressione. Questi
rapporti regolano i nostri giudizi teorici e indirettamente i nostri giudizi pratici
nella misura in cui questi devono tenere conto di questi rapporti necessari. In altre
parole, la definizione di Montesquieu è valida soltanto nella misura in cui questi
rapporti necessari servono da regole o norme2.
Quando si tratta della legge morale, naturale o meno, la regolamentazione
assume un carattere assoluto; essa si rivolge direttamente alla nostra libertà. Essa
non mi dice soltanto — come farebbe una prescrizione medica, che poggia su un
rapporto necessario derivato dalla natura delle cose —: se vuoi abbassarti la
pressione arteriosa, prendi tale pasticca; essa mi dice: devi fare questo, evitare
quello. Perché? Senza motivo? Certamente no. Ma qui è opportuno esaminare la
seconda nozione-chiave: la natura, da cui deriva questo rapporto necessario, di
necessità pratica.

2
Blondel introduce tra i due termini una distinzione interessante ma che non
sembra essere entrata nell'uso corrente.

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II significato di «naturale» e di «natura umana»


Se si intende l'espressione «legge naturale» semplicemente nel senso di «legge
non positiva», rimane da giustificare la scelta di questo aggettivo. Lo si potrà
rapportare al modo in cui questa legge viene conosciuta, cioè mediante la
semplice ragione naturale, al di fuori di qualunque rivelazione. Ma questa ra-
gione, lasciata a se stessa, deve, per conoscere e riconoscere la legge, percepirne
il fondamento e questo fondamento è, come nella definizione di Montesquieu,
nella natura delle cose e, più direttamente e immediatamente, nella natura
dell'uomo in quanto essere dotato di ragione. Ecco dunque un altro senso secondo
il quale si può parlare di legge «naturale».
E evidente che la natura delle cose non può, di per sé, imporre la sua legge alla
libertà. L'uomo, man mano che prende coscienza della sua dignità di essere
ragionevole, di persona, aperta all'universale, al necessario, all'Assoluto, non può
accettare quanto imporrebbe dei limiti alla sua apertura. Anche ciò che in lui vi è
di spontaneo, istintivo, «naturale» nel senso comune del termine, può costituire
l'oggetto di uri epoche pratica, essere messo «tra parentesi». «Se vuoi guarire,
prendi questo farmaco ». Ma se io non voglio guarire? Dimostra che devo volerlo.
Sì, anche ciò che vi è di «natura» nello spirito finito può essere, al limite, messo
da parte. « Si vis ad vitam ingredi, serva mandata». Sì, ma io non voglio la «vita».
E il punto debole, almeno mi pare, di qualunque fondamento dell'etica e, singo-
larmente, del dovere nella sua assoluta esigenza sul desiderio della beatitudine. Se
si tratta di una beatitudine centrata sul soggetto, si otterrà sempre un imperativo
esclusivamente «ipotetico», per esprimerci come Kant. E se io rinuncio alla beati-
tudine per non alienare la mia libertà, per affermare che nulla può costringerla?
Sono senza dubbio un infelice, un folle, ma per condannarmi dal punto di vista
morale, mostratemi che devo voler essere felice. Non basta dire che non posso
non volerlo: sarebbe ancora soltanto la constatazione di un fatto, un indicativo da
cui non può sorgere direttamente un imperativo, come diceva H. Poincaré,
riprendendo ed esprimendo a suo modo una celebre frase di Hume.
La natura umana, anche considerata in ciò che essa ha di spirituale, è finita e
come tale inadeguata alla libertà. Essa può fondare l'assoluto del dovere soltanto
nella misura in cui si apre

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all'Assoluto e ne porta così il riflesso. Questo Assoluto è il vero fondamento del


dovere. Ma esso si presenta a noi attraverso la nostra ragione, considerata non
nella sua finitezza soggettiva — come un aspetto della nostra natura finita — ma
nella sua infinitezza oggettiva. In definitiva, la legge naturale non è altro che
l'esigenza assoluta della ragione pratica, vale a dire della ragione quale si esprime
in giudizi pratici assicurandone la rettitudine. Perché la ragione è retta di per sé.
Quando si dice, ad esempio, che la norma della coscienza morale è il dettamen
della retta ragione, si parla della ragione che ragiona ragionevolmente, della
ragione che si comporta secondo la sua essenza, senza nulla che ne turbi il
funzionamento. La conformità alla propria retta ragione così intesa è dunque ciò
che assicura la rettitudine dell'agire e del volere. Il principio primo della legge
naturale: «fare il bene, evitare il male», equivale a questo: seguire la retta ragione.
La «opzione fondamentale», di cui si parla tanto oggi e di cui compare l'idea già in
un ricco e profondo articolo di san Tommaso3, dice forse, in realtà, una cosa
diversa da questo proposito fondamentale di seguire la retta ragione, questa
volontà di avere una buona volontà?

Natura universale e atti particolari

Non è possibile, tuttavia, limitarsi a questo livello generale e indeterminato. Il


nostro agire si articola in scelte concrete che vertono su oggetti diversi, che hanno
tra loro rapporti diversi, in circostanze diverse e in uno spazio spirituale
attraversato, strutturato dalle tendenze, le esigenze, le possibilità della nostra
natura integrale. La Veritatis splendor non dimentica una accurata riflessione su
questi problemi specialmente nei numeri 52 e 53. Poiché le nostre idee e i nostri
principi ci vengono soltanto attraverso l'esperienza, il dovere di seguire la retta ra-
gione si manifesta a noi soltanto attraverso delle opzioni concrete. Perché una
scelta sia una scelta morale non è necessario esserne consapevoli sotto forma
esplicita più di quanto sia necessario pensare al principio di causalità o conoscerne
la formula per applicarlo effettivamente. Ma la «retta ragione», inoltre, rischia di
restare per noi una forma vuota se essa non si
3
Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 89, a. 6.

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esprime in un oggetto in cui noi possiamo leggerne le esigenze e misurare così la


rettitudine del nostro agire. Ora, è esattamente questo ruolo che svolge la natura
umana in quanto ragionevole, vale a dire una natura aperta all'Assoluto e che ne
porta il riflesso. Non per caso, l'enciclica parla del riflesso del volto di Dio nella
ragione (VS 42). La fedeltà alla retta ragione si esprime dunque mediante la
fedeltà alle esigenze essenziali di questa natura che partecipa dell'Assoluto,
espressione, a livello filosofico e quindi ancora esitante, di ciò che insegna la
Rivelazione quando vede l'uomo creato «a immagine di Dio». Beninteso, la natura
di cui si tratta non è semplicemente la natura individuale, quella che riceviamo sin
dal concepimento, la natura, potremmo dire, «fenomenale», gravata troppo spesso
da ciò che contrasta la sua purezza metafisica e offusca in essa il riflesso della
ragione: pensiamo, ad esempio, all'omosessualità. Si tratta della natura presa nei
suoi tratti essenziali che permettono di classificare un individuo in una categoria alla
quale egli non potrebbe sottrarsi senza cessare di essere se stesso4. Altri
preferirebbero parlare qui di «persona». Sia pure, ma ciò ha poca importanza. La
persona umana deve il suo valore eminente alla natura umana di cui essa è
portatrice nell'esistenza e questa natura può sussistere soltanto in una persona.
Occorre evitare, d'altra parte, che fondando la morale sulla persona considerata
nella sua singolarità irriducibile si imbocchi la via dell'individualismo assoluto di
Stirner. A ogni modo, la natura ragionevole, umana o meno — perché la filosofia
non può né provare né escludere che esistano altre forme di natura ragionevole
tanto partecipi della ragione assoluta quanto la forma umana — richiede, in virtù
di questa partecipazione, il rispetto assoluto del suo essere, delle sue finalità, delle
sue esigenze. Già è male denigrare la natura umana in generale. La spiritualità
degli ultimi secoli ha mostrato la tendenza a giudicare negativamente ciò che era
«naturale», sia che intendessero per natura la natura nella sua condizione storica e
peccatrice, vedendo esclusivamente questo aspetto, sia che la natura fosse da loro
considerata nella sua incapacità di farci raggiungere il nostro fine; qui si
riscontrava un rischio di deviazione. Se si desidera predicare la fedeltà alla natura,
si cominci non con il denigrar-
4
Sulla differenaa tra natura individuale e natura specifica, Tommaso parla nella
Summa theologiae, 1-11, q. 51, a. 1.

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la, ma piuttosto se ne faccia presente il vero significato, le si restituiscano la sua


identità e la sua dignità, ricordandosi che la grazia viene a perfezionarla, non a
distruggerla.
Il rispetto dovuto alla natura umana esige che i suoi portatori — le persone —
non siano mai considerati come semplici mezzi, come oggetti, strumenti di cui
disporre a volontà, a piacere, secondo il proprio capriccio o interesse egoistico. Ci
si ricollega qui alla celebre formula con la quale Kant cerca di esprimere
l'esigenza fondamentale dell'imperativo categorico. E innanzi tutto in se stesso
che il soggetto deve rispettare questa natura umana. A questo punto si impongono
alcune precisazioni. Io posso farmi schiavo liberamente, ad esempio per riscattare
dei poveri prigionieri o, più semplicemente, legarmi a un superiore mediante un
voto, anche molto severo, di obbedienza, ma in tutto questo io non derogo affatto
alla mia dignità di uomo; al contrario, la affermo, perché questa scelta mi apre a
un valore più alto di quelli che sacrifico. E evidente che vi sarebbe contraddizione
a voler contemporaneamente seguire la ragione retta e accettare liberamente
d'agire, all'occorrenza, contro la ragione retta. Anche il voto di obbedienza ha i
suoi limiti nel diritto o piuttosto nelle esigenze di una coscienza illuminata, vale a
dire nella ragione pratica.
Dalle considerazioni fin qui fatte salta alla vista il fatto che non vi è e non può
esservi alcuna «dispensa» propriamente detta della legge morale. Infatti, ciò che
deriva necessariamente dalla natura — come Io è la legge morale — non può
cambiare che se questa stessa natura cambiasse. Si potrebbe, tuttavia, obiettare
che ciò che è richiesto dalla natura umana è di tendere e obbedire a Dio e che
quindi è impossibile che Dio voglia la disobbedienza dell'uomo o comandargli un
atto di odio nei suoi confronti. Ma Dio non potrebbe volere che l'uomo manifesti
la sua obbedienza mediante atti che, secondo le leggi comuni, appaiono impropri
a esprimerli e sono, per ciò stesso, proibiti? E tale eccezione o dispensa, non
potrebbe dedursi dal carattere assolutamente eccezionale di certe circostanze, per
le quali la legge sembra non essere stata prevista?
La difficoltà è seria5. Resta, tuttavia, il fatto che, là dove l'atto, per sua
intenzione e teleologia intrinseche, contraddica essenzialmente la dignità della
natura umana, è radicalmente
5
J. de Finance, Etica generale, Edizioni del Circito, Cassano-Bari 1975, pp.
273-276.

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inadatto a esprimere il rispetto e l'amore dovuti a Dio. Infatti, questa natura che
esso oltraggia, negandone la dignità, è in noi l'impronta e l'immagine di Dio. Tali
sono gli atti che sconvolgono l'equilibrio essenziale dell'uomo, essendo la ragione
assoggettata ai fini della sensualità, e quelli dai quali gli altri sono considerati
come pure cose o strumenti.
Non possiamo, conseguentemente, accettare un'«etica della situazione» che
negasse l'esistenza di leggi morali universali, perché fondate sulle relazioni e
sulle esigenze essenziali della natura umana, leggi da cui nessuna «situazione»,
per quanto singolare la si supponga, dispensa mai.
Dobbiamo comunque riconoscere che non sempre regole universali bastano per
determinare perfettamente ciò che si debba fare in una data situazione. In ogni
caso un atto la cui struttura, per quanto concerne intenzionalità, teleologia
immanente, contraddicessero la retta ragione e le esigenze della natura umana,
non potrebbe in nessuna situazione essere sensato. Non bisogna farlo mai6.
Nessuna «situazione» farà mai sì che un atto, cattivo in sé, diventi buono (sebbene
un atto, buono in sé, possa diventare cattivo in seguito a circostanze). La
situazione può però consigliare tale o talaltra maniera d'osservare la legge, di cui
la legge stessa non dice niente. Vi è così nell'ordine morale un processo
d'invenzione. Le nuove situazioni, senza cambiare le leggi essenziali e universali,
suscitano nuove modalità di applicazione, da cui si potranno in seguito trarre leggi
universali più circoscritte e precise. Così a poco a poco si forma la conoscenza
dell'ordine morale dell'umanità. Tuttavia il perfetto adattamento dell'atto alla
situazione richiede qualcosa di più: un habitus specializzato a tale effetto e
facente mediazione tra la legge generale e la particolarità del caso. Tale
dinamismo o progesso, tuttavia, non scaturisce soltanto dal polo oggettivo delle
circostanze esterne al soggetto, ma si dà pure nel soggetto stesso un processo nella
conoscenza della legge morale.

L'unità dell'uomo: spirito incarnato

E molto importante osservare che l'uomo è allo stesso tempo composto e uno.
Nessun dualismo di sostanze come in Carte-
6
VS 79-83 (il male intrinseco).

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sio, ma dualità reale di materia e di spirito. L'anima non è soltanto a fianco o al di


sopra del corpo, come un osservatore, un maestro o un pilota: la si potrebbe
considerare tale se essa fosse soltanto spirito, ma essa è anche — è il sorprendente
paradosso umano —forma di questo corpo, che ha la sua esistenza soltanto
mediante essa. Di qui, la relazione del soggetto con il corpo ha un qualcosa di
ambiguo. In un certo senso, «il mio corpo sono io», come dice un personaggio di
Molière, ma io non sono semplicemente il mio corpo. Il rapporto del corpo con il
soggetto è intermediario tra l'essere e l'avere. Si dice: io ho un corpo, il mio corpo;
addirittura, per G. Marcel, è questo l'avere radicale. Ma notiamo che l'avere stesso
può esprimersi in due modi: in latino con il genitivo e il dativo, in francese con le
preposizioni de e à. Queste due forme corrispondono a due aspetti. La prima
significa, in origine, che l'oggetto posseduto è «qualcosa del possessore», come
una parte alienata da lui, che esso è complemento del suo essere sociale ecc.
L'altra forma significa che questo oggetto guarda al possessore come suo fine, è
per lui, per soddisfare i suoi bisogni, i suoi desideri, per aiutarlo a realizzare i suoi
progetti. Ora, il primo aspetto non implica necessariamente il secondo. Nella frase
«mon corps est à moi» (il mio corpo è mio, letteralmente «a me»), «mon»
risponde al primo aspetto, «à moi» al secondo; questa proposizione non è dunque
analitica, ma sintetica e niente affatto a priori: la sintesi è opera di un desiderio
sregolato che cerca di giustificarsi. Ciò che impedisce al soggetto di disporre del
proprio corpo a suo piacimento, è appunto la sua unità sostanziale, il fatto che il
corpo umano non è giustapposto all'anima spirituale, ma da essa informato e
partecipe così della sua dignità7. In un sistema pienamente dualistico, in cui il
corpo sarebbe presente come una macchina al servizio dell'anima-spirito, non si
vede perché questa non ne potrebbe usufruire a volontà, tentare su di esso ogni
sorta di esperienza, divertirsi, ad esempio, a vedere come reagisce alle diverse
droghe. Il rispetto del corpo in sé è un'esigenza della retta ragione, sebbene alcune
forme di questo rispetto possano essere sacrificate per valori più elevati (pensiamo
a san Benedetto). Il rispetto del proprio corpo non deve

7
VS n. 50: «Solo in riferimento alla persona umana nella sua "totalità
unificata", cioè "anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito
immortale", si può leggere il significato specificamente umano del corpo».

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diventare idolatria, come anche il rispetto della vita corporale. Questa condiziona
la realizzazione dei valori che partecipano in gradi diversi del Valore Assoluto,
ma essa stessa non è valore assoluto; volerla salvaguardare a ogni costo sarebbe,
in alcuni casi, contrario a quest'ultimo, quindi alla retta ragione (VS 94). Se la vita
fosse un assoluto, bisognerebbe allora condannare il martire, il soldato ucciso per
una giusta causa ecc. Il senso morale comune è d'accordo su questo punto.

L'amore per la propria natura


Ma il valore inerente alla natura, alla persona umana, richiede qualcosa di più
oltre al rispetto, che rimane un poco esteriore e negativo: questo valore rende la
persona umana, come tale, amabile perché essa è un riflesso del Valore che fonda
qualunque amabilità; esso richiede quindi anche l'amore, un amore rispettoso e
che non attende alcuna risposta per perseverare. Ogni uomo è di diritto oggetto
d'amore, ogni uomo è nostro fratello mediante questa comunità di natura e di
valore che occorre sapere scoprire in lui; lo slogan «fraternità» è di origine
cristiana, anche se è stato utilizzato da parte di sette e regimi che nulla hanno di
cristiano. Ma la semplice sapienza umana aveva intravisto questa verità e più
precisamente lo stoicismo; ed è un pagano, Cicerone, che ha impiegato questa
formula ammirevole, di cui tuttavia non si deve forzare il senso: «caritas generis
humani».
Vorrei soffermarmi su questa esigenza di un amore universale e i problemi da
essa posti, facendo un'applicazione sul piano della sessualità.

La sessualità umana: espressione di un amore fedele alla propria natura

Tra gli aspetti della natura umana, nella sua totalità spirituale-corporea, l'aspetto
sessuale merita una considerazione particolare8. Il rapporto interno con la ragione
vi si raddoppia, per
8
Per un approfondimento, vedere il mio articolo La notion de loi naturelle, in
Doctor communis 22 (1969) 201-223.

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così dire. La sessualità non partecipa solamente, come tutto ciò che appartiene al
nostro essere, alla dignità della ragione: essa le è intenzionalmente ordinata anche
per il suo oggetto e la sua immanente teleologia. Questo sia che la si consideri
nella sua teleologia di base (una vita umana, quindi spirituale, anche se l'atto
generatore, per virtù sua propria, resti ancora al di qua del piano dello spirito), sia
che la si consideri piuttosto come mirante a esprimere e a raffigurare
sensibilmente l'interiorità dell'amore. Questi due aspetti non possono essere
dissociati. L'apertura alla vita, l'apertura alla comunità umana che il matrimonio è
destinato a perpetuare e ad arricchire9, non dev'essere considerata come
dipendente da una finalità parallela a quella dell'amore: al contrario, è essa a
garantire l'autenticità spirituale e, quindi, veramente umana, dell'amore. C'è
infatti, nell'intenzione profonda dell'amore, un elemento d'universalità. Come
l'intelligenza desidera, radicalmente, tutto conoscere, al punto di ribellarsi contro
quanto le sembri un limite alle proprie ambizioni, così l'amore, nella sua pura
essenza spirituale, non eccettua alcuno: vorrebbe procurare il bene di tutti e
coincidere affettivamente con tutti. Non c'è qualcosa d'irragionevole, qualcosa che
contraddice la vocazione dello spirito, aperto sull'universale, nel fatto di limitare il
proprio amore a un solo essere come se ogni persona, ogni soggetto non
partecipasse essenzialmente alla stessa dignità, allo stesso valore e dunque a ciò
stesso che fonda, in ultima analisi, l'amabilità dell'amato? Ciononostante è il
carattere dell'amore umano, sotto la propria forma integralmente umana, a essere
unico ed esclusivo. Per questo l'umanità nelle sue forme più evolute e già sembra,
in alcune almeno delle sue forme più primitive, ha riconosciuto nel matrimonio
monogamico il solo tipo di unione sessuale che risponda veramente alle esigenze
profonde dell'amore. E ogni tentativo di trasporre sul piano dell'amore umano
l'universalità dell'amore spirituale non finisce che con lo snaturare l'uno e l'altro.
Ma non c'è allora opposizione tra le mire dell'amore come tale e quelle
dell'amore semplicemente umano? Quest'ultimo (e, di conseguenza, il
matrimonio) non appare come una limitazio-
9
G. De Broglie lo ha messo bene in luce nel suo articolo Pour la morale
coniugale traditionnelle, in Doctor communis 21 (1968) 117-152. Aggiungiamo
che se il gesto dell'amore chiede, per essere autentico, l'apertura alla vita, la
trasmissione della vita richiede parimenti il gesto dell'amore. La fecondazione
artificiale non è meno immorale e disumana della contraccezione.

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ne, una chiusura, un arresto e, insomma, un decadimento, dal punto di vista dello
spirito? Sarebbe effettivamente così se, nel matrimonio, tutto lo slancio spirituale
dell'amore venisse a arrestarsi ed esaurirsi nell'altro. Tale amore, però, sarebbe
infedele alla sua verità profonda. L'amore autentico si concentra sulla persona del-
l'eletto per potere, attraverso di lui e con lui, perseguire, sotto un'altra forma, la
propria traiettoria intenzionale. Né la coppia e neppure la famiglia sono per lui un
orizzonte ostruito o un vaso chiuso che l'obbligherebbe a riflettersi
indefinitamente dall'uno all'altro ma, precisamente, un focolare da cui esso si
irraggia e riscalda tutt'intorno. Quest'universalità dell'amore resterà, beninteso, il
più spesso implicita, come una disposizione appena cosciente della volontà, e non
si manifesterà mai che in modo parziale e discontinuo a seconda delle circostanze.
Ma, in quanto espansione dell'amore coniugale, essa ha una forma naturale di
espressione: il bambino, che non è soltanto dono mutuo degli sposi e neppure
soltanto dono di Dio agli sposi, ma dono degli sposi (e di Dio, loro tramite) alla
grande famiglia umana. Segno dunque dell'autenticità spirituale, metafisica e
veramente umana, dell'amore. E questo segno perderebbe la sua forza espressiva
se il bambino restasse per i genitori l'oggetto di un amore ancora egoista, se non
fosse allevato ed educato in vista del suo ruolo futuro nella società, e non
semplicemente per la gioia e l'ornamento del focolare o per la gloria del nome.
La grandezza, la dignità dell'attiva sessuale, il suo significato spirituale
immanente, anteriore alla decisione della libertà, fanno sì che quest'ultima non
possa usarne a suo capriccio come d'uno strumento sprovvisto di senso e valore
propri. Tale attività non è come le altre direttamente a disposizione dell'individuo,
in quanto direttamente ordinata al suo solo bene, ma è — per così dire — affidata
all'individuo per l'umanità. Non certo per la società umana, ma per quella totalità
ideale che si esprime e cerca di compiersi attraverso le generazioni. Totalità ideale
che trova essa stessa la propria verità in un pensiero e in un volere divini.

Conclusione

Non abbiamo parlato dei doveri nei confronti di Dio. Lo si riterrà forse
sorprendente. E evidente che, una volta conosciu-

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ta e riconosciuta l'esistenza di Dio, si impone il dovere di rispettarlo, di amarlo e


di obbedirgli. Ma questa esistenza non è data immediatamente nell'esperienza;
solitamente, essa viene conosciuta attraverso la famiglia, la società ecc., oppure,
in loro mancanza, al termine di una riflessione orientata dalla ragione retta.
L'intrecciarsi del concetto di legge naturale e legge divina ripercorre l'intero
secondo capitolo dell'enciclica.
Si può dire che Dio è conosciuto implicitamente attraverso le esigenze della
ragione, di cui egli è fondamento e che devono condurre a lui, così che una vita
morale fedele alla ragione può essere una religione implicita. Occorre tuttavia
aggiungere che la fedeltà alle esigenze della ragione richiede la ricerca del suo
fondamento: in altri termini, è contrario all'imperativo morale disinteressarsi del
problema di Dio. Il primo omaggio a Dio consiste nel cercare di conoscerlo. «Mio
Dio, se esisti, fammelo sapere»: questa preghiera di Charles de Foucauld,
innalzata prima della conversione, è quella che si impone al non credente sincero.
Resta da dire che il passaggio dalla coscienza del dovere all'affermazione del
«legislatore» è generalmente meno immediato di quanto sembri supporre Bànez
nel suo commento all'articolo, già menzionato, di san Tommaso10.

10
Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 89, a. 6.
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