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GUIDA ALL’USO DELLE PAROLE.

PREMESSA:
Guida all’uso delle parole è un libro scritto da Tullio De Mauro e pubblicato in una collana
editoriale risalente agli anni ottanta, lanciata con l’obbiettivo di scrivere libri scritti nel
modo più semplice possibile.
Guida all’uso delle parole è diverso da “Piccolo Guida irriverente alla semiotica” di
Giuliana, poiché fin da subito parla di segni, ponendosi come scopo quello di mostrare la
grande capacità dei segni linguistici rispetto agli altri metodi semiotici.
Il libro anche se non in modo netto, è diviso in 2 parti: la prima, dal 1o al 15o capitolo,
spiega la differenza tra i segni linguistici e gli altri segni; la seconda, dal 16o capitolo alla
fine del libro, si concentra sul mettere in luce tutte le proprietà degli stessi segni linguistici.

CAPITOLO 1-2: LA COMUNICAZIONE E LA SUA IMPORTANZA


Comincia con la frase “parlare non è necessario” e prosegue con “scrivere lo è ancora
meno”.
Questi primi capitoli ci spiegano come gli uomini anticamente comunicassero senza parlare
- non essendo ancora nata la parola.
Quando gli individui acquisirono la capacità di parlare, sentirono la conseguente esigenza e
necessità di mettere per iscritto le parole che venivano dette. Da qui, nacquero le prime
scritture, chiamate ideogrammi. Grazie a questi ultimi si sviluppò il primo alfabeto (arabo)
formato da lettere, dove era possibile distinguere un segno da un altro attraverso i diversi
suoni. Attraverso ciò, ci si può ricondurre a quello che viene chiamato “significante”, ossia
il corpo delle parole attraverso cui è possibile distinguere ciascuna parola dalle altre
attraverso i diversi suoni.
La scrittura nel corso del tempo viene poi tramandata di popolo in popolo, ma sempre
destinata ad una cerchia privilegiata di persone, fino a quando nel 1848 Marx ed Hengels
idearono “il Manifesto del partito comunista”. All’interno di questo manifesto, era presente
anche una norma secondo la quale l’istruzione – e dunque la scrittura – dovesse essere
tramandata, in particolare, ai più giovani d’età. Il sistema, dunque, fu costretto in un certo
senso a cedere alla richiesta e fu così “il saper scrivere” si ampliò anche a persone che non
facevano parte delle classi sociali più alte.

CAPITOLO 3: LE PAROLE E GLI ALTRI SEGNI


Dunque, anche se viene messo per iscritto che parlare non è tutto, comunicare invece risulta
essenziale. E uno dei mezzi di comunicazione più efficace, è proprio la parola. Basta
pensare al concetto di silenzio, argomento sul quale molti poeti hanno scritto poemi, saggi e
discorsi, cosa che sicuramente non avrebbero potuto fare senza l’uso della parola –
nonostante il silenzio venga definito come qualcosa in cui non viene richiesto l’uso della
parola stessa.
* In questo capitolo viene anche inserita una differenza tra gesto e frase. Il primo viene
identificato come una serie ti atti e parti che costituiscono un senso unico; la seconda viene
definita come un insieme di diverse parti, le quali riescono a contribuire tutte al dare senso.
Esiste una grande varietà di di sistemi di comunicazione che, in modo più tecnico, vengono
chiamati codici semiologici. Essi sono classificati - secondo la distinzione attuata dallo
studioso Charles Peirce - in base al rapporto che esiste tra il segno e ciò che indica.
Abbiamo perciò tre diversi gruppi di codici semiologici:
1) indici: si basano su un rapporto di causalità, dunque il segno è visto come effetto di
qualcosa. Quest’ultimo è dunque strettamente collegato a ciò che indica.
2) icone: sono segni basati sul rapporto di similarità, dunque il segno assomiglia, per
qualche aspetto, a ciò che indica.
3) simboli: sono segni in cui non vige nessun rapporto, basati solo sulle semplici
convenzioni.
Bisogna prima capire come sono fatti e come funzionano i segni.

CAPITOLO 4: IL SEGNO
Un segno è definito un qualcosa che rimanda a qualcos’altro ed è composto da due facce: il
significante ed il significato. Il significante, ovvero il corpo delle parole, si realizza nelle
cosiddette espressioni variabili del significante, mentre il significato si realizza nei sensi,
ovvero in ciò che suscita il segno agli individui. La realizzazione del segno, viene detto
enunziato.
I segni operano in diverse dimensioni: la dimensione sintattica – ovvero quando si vuole
distinguere un tipo di segno da un altro tipo; quella semantica, nella quale viene analizzato il
rapporto tra significato e il senso in cui si realizza; la dimensione espressiva, basata sul
rapporto tra il significante e le sue espressioni variabili; e, infine, la dimensione pragmatica
– analisi del rapporto tra il segno e gli utenti che lo usano.
Il segno è composto da fattori di significato, chiamati monemi, che hanno dentro pezzi di
significante e significato. Il suffisso di monema indica letteralmente un’unità minima
(rappresenta l’articolazione di un segno).
Prima di poter analizzare ciò, però, si deve fare una distinzione tra segni verbali e segni
visivi. Infatti, mentre nei primi è presente la cosiddetta linearità del significante, ovvero lo
sviluppo di quest’ultimo nel tempo – se si parla di oralità – e nello spazio – se si parla di
scrittura – attraverso cui la successione di suoni dei segni verbali si può interrompere e
analizzare; nel secondo caso – nei segni visivi – questa proprietà non è presente.
Perciò diremo che nei segni visivi, è possibile operare solo la prima articolazione – ovvero il
monema –, mentre nei segni verbali, sarà possibile raggiungere un altro livello di
suddivisione, in cui l’oggetto da analizzare sarà solo il significante (i soli suoni delle
parole).
Nelle lingue, e nelle lingue soltanto, è perciò possibile attuare una doppia articolazione. I
monemi delle lingue vengono chiamati morfemi.

PREMESSA: i vari tipi di codici che De Mauro ci indica, vengono descritti con diverse
caratteristiche.
1) articolati e non
2) con sinonimia e non
3) numero limitato o illimitato
4) ordinati e non
5) combinatori e non

CAPITOLO 5: I LINGUAGGI DELLA CERTEZZA (CODICI SEMIOLOGICI ‘A’)


I linguaggi della certezza vengono definiti globali, poiché sono segni non articolati – ovvero
non ci sono monemi – di numero limitato, senza sinonimia. Sono chiamati così perché in
questo tipo di codici non ci sono fattori che tornano presenti in altri segni. Dunque, non
lasciano alcun dubbio, poiché non esistono segni capaci di trasmettere uno stesso senso.

CAPITOLO 6: I LINGUAGGI DEL RISPARMIO (CODICI SEMIOLOGICI ‘B’)


I linguaggi del risparmio sono segni non articolati, con numero limitato, senza sinonimia,
ma ordinati. Sono linguaggi definiti seriali, che raccolgono i sensi in classi diverse e
mettono in fila i vari significati, ovvero ciò che si vuole comunicare.
Esiste poi un’altra categoria dei linguaggi del risparmio: i linguaggi combinatori (CODICI
SEMIOLOGICI ‘C’). Essi sono articolati, di numero limitato, senza sinonimia e
ordinabili. Vengono definiti articolati poiché funzionano per monemi e c’è ordinabilità.
Sono a loro volta ordinabili poiché fatti delle stesse cose che si possono però disporre in
modo diverso.

CAPITOLO 8: I LINGUAGGI DELL’INFINITO (CODICI SEMIOLOGICI ‘D’)


Tratta principalmente il sistema numerico.
Sono segni articolati, di numero illimitato, ordinabili in modi infiniti (infinito inteso come
un infinito possibile, il cosiddetto infinito potenziale) e senza sinonimia (ovvero ciò che
comunica un segno può comunicarlo solo quel segno).
Quello che si definisce infinito potenziale, pone le sue basi su due regole fondamentali: la
prima, secondo la quale la ripetizione di uno stesso elemento da luogo a un segno diverso; la
seconda sostiene invece che l’aggiunta di un elemento da luogo ad un segno diverso.

CAPITOLO 9: LINGUAGGI PER RISOLVERE CALCOLI (CODICI


SEMIOLOGICI ‘E’)
I linguaggi per risolvere calcoli sono codici con segni articolati, ordinabili in modo infinito,
di numero illimitato, con sinonimia. Sono linguaggi dotati di sinonimia poiché uno stesso
segno può comunicare la stessa cosa di un altro segno. Hanno cioè una corrispondenza
biunivoca, che in inglese viene definita one-to-one.
* Sono legati alla famiglia di codici precedenti e trattano anche loro principalmente del
sistema numerico, spiegano quindi i calcoli che è possibile fare con i numeri.

CAPITOLO 10-11-12: WITTGENSTEIN, ASSIOMA, CREATIVITÀ


Uno dei primi esponenti che si interessò ai linguaggi e al loro funzionamento fu Ludwig
Wittgenstein. Durante la prima fase del suo pensiero egli vedeva il linguaggio come un
calcolo, dunque le parole e le frasi come una vera e propria formula matematica.
Wittgenstein cambiò idea quando, mentre si trovava ad insegnare all’Università di
Cambridge, ebbe una discussione con un suo collega economista. Quando infatti egli espose
il suo pensiero sui linguaggi, il collega si limitò a rispondere con un gesto che esprimeva
dubbio – si grattò il mento.
Quella “risposta” lasciò senza parole Ludwig Wittgenstein, che cominciò solo in seguito a
modificare la propria idea sui linguaggi.
Questo proprio perché un segno, per essere tale, non deve essere considerato un calcolo, ma
deve riferirsi ed inserirsi in una relazione tra persone, tra esseri che interagiscono.
I calcoli seguono dunque il cosiddetto assioma di non-creatività, che si basa sul principio
secondo cui i calcoli e le operazioni di base non devono cambiare.
Le lingue, al contrario, non rispettano per niente l’assioma, per tre principali motivi: molti
individui conoscono parole che altri uomini ignorano; ogni giorno vengono coniate nuove
parole, vengono messe da parte parole vecchie o possono riapparire parole dimenticate;
infine, la capacità di inventare, che è propria degli uomini, permette di manipolare il
linguaggio in una determinata situazione.
Dunque la lingua, al contrario dei calcoli, può essere definita come un insieme fortemente
creativo.
La creatività si distingue poi in creatività regolare e inventiva. La creatività regolare rispetta,
per così dire, le “regole del gioco”, ovvero crea qualcosa di nuovo rispettando il principio
dell’assioma. La creatività inventiva, al contrario, è quella che tende a cambiare le regole, a
non rispettarle, basandosi sull’imprevedibilità delle situazioni.
(Esempio nodo gordiano e l’uovo di Colombo).

CAPITOLO 13: L’ELOGIO DELL’IMITAZIONE


Nonostante De Mauro parli di creatività, riserva anche un elogio all’imitazione. Infatti,
senza quest’ultima, non esisterebbero né la capacità regolare, né quella inventiva. Il saper
imitare è qualcosa di fondamentale per la specie umana, l’inventare e il combinare sono
capacità che l’individuo acquisirà in seguito.
Queste proprietà, alcune ereditate e altre che fanno parte del patrimonio genetico di una
persona, sono: l’imitazione, vista come la capacità di ripetere; l’invenzione – ovvero la
capacità di creare trasformando; e, infine, il calcolo – ossia la capacità di creare
combinando.
Queste tre capacità hanno quindi basi innatiste e storiciste, le prime basate sulla famiglia e
dunque sul patrimonio genetico, le altre sviluppate attraverso il rapporto dell’individuo nella
società.

IL TEMA DELL’ ONNIFORMATIVITÀ


Per onniformatività si intende la capacità di poter esprimere qualsiasi contenuto. Si tratta di
capire, però, se le lingue sono veramente in grado di farlo: ovvero spiegare tutti i segni con
le parole, ma non tutte le parole con quei segni.
Vengono ideate diverse teorie su questo argomento. La prima citata è quella di Barthes, che
vede la semiologia come una parte della linguistica, staccandosi così dal pensiero di
Saussure che invece vedeva la linguistica come parte della semiologia.
Poi abbiamo la definizione di Hjelmslev, dal quale deriva il termine di onniformatività. Egli
infatti sostiene che attraverso le parole è possibile “lottare” con l’inesprimibile fino a
riuscire ad esprimerlo.
Infine, anche Umberto Eco espone il suo pensiero in merito all’onniformatività, sostenendo
che il linguaggio sia il metodo semiologico più potente, ma che vi sono, alle volte, porzioni
dello spazio semantico, alle quali le parole non possono arrivare.
L’idea di De Mauro è invece quella che sostiene l’impossibilità di definire un limite preciso
che le lingue non riescono a superare, poiché i vincoli imposti fino ad ora sono sempre stati
sormontati.
Se si può quindi parlare di tutto si può parlare anche di sé: questa viene definita la funziona
metalinguistica delle lingue (es: monemi che parlano di monemi – parole che possono
parlare delle parole).

CAPITOLO 15: I LINGUAGGI CREATIVI → LE LINGUE – KANT, LA


CONTADINA E LE PAROLE
I linguaggi creativi sono segni articolati, di numero illimitato, ordinabili in modi infiniti e
con sinonimia non calcolabile. La sinonimia è definita non calcolabile, perché si parla di
significati che si riferiscono a sensi appartenenti a diversi piani dell’esperienza. Da questo
concetto, si arriva alla dilatabilità del significato. Essa presenta due proprietà: la flessibilità
semantica, ovvero il significato che cambia da occorrenza ad occorrenza, dunque non è
possibile stabilire la grande varietà di significati; la seconda è invece la flessibilità
pragmatica, che si riferisce all’uso che gli utenti fanno delle parole, ovvero all’impossibilità
di dire a priori di che cosa una lingua non è in grado di parlare.

CAPITOLO 16-17: LA SFERA LESSICALE E L’USO DELLE PAROLE


Esistono parole di diverso tipo, usate in diverse situazioni. Per esempio, le parole usate in
ambito familiare possono essere utilizzate solo lì, stessa cosa vale per un dialetto specifico
di una paese specifico.
Proprio per questo tutte le parole vengono racchiuse in una sfera lessicale, formata da
diversi strati.
Il primo strato, quello più esterno, è quello degli hapax, ovvero quelle parole utilizzate
pochissime volte in una determinata situazione. Di solito vengono pronunciate una sola
volta all’interno di un testo o di un discorso.
Nello strato interno, abbiamo invece il cosiddetto vocabolario comune, formato da parole
che hanno una loro circolazione sia dentro che al di fuori della sfera. All’interno del
vocabolario comune troviamo poi altri due strati più interni: quello del vocabolario di base e
quello del vocabolario fondamentale. Il primo è formato da parole usate e capite da chi ha la
licenza media ed è un vocabolario che comprende parole d’alto uso (molto usate) e di alta
disponibilità (ovvero parole di cui riusciamo a capire bene il significato, anche se non
vengono mai usate).
Del vocabolario fondamentale fanno parte invece parole comprensibili a chi ha ottenuto la
quinta elementare.
Distinguiamo poi diversi tipi di parole:
1) idioma = parole comuni a un luogo
2) politopiche = comuni a più luoghi
3) pantopiche = comuni a tutti (“sport”)
4) parole note in un ambiente ristretto = idioletto
5) parole note in un ambiente locale = dialetto
6) lingue = comuni alla collettività
C’è da fare poi una netta differenza tra quello che è il linguaggio esofasico e il linguaggio
endofasico. Mentre il primo è il tipo di linguaggio che utilizziamo per rivolgerci a qualcuno,
il secondo è definito come un “parlare internamente”. Infatti, nel parlare con sé, l’essere
umano non è obbligato ad utilizzare un linguaggio specifico per una determinata situazione,
egli è libero.
Nell’uso delle parole, abbiamo quindi una grande varietà di scelte: possiamo decidere se
utilizzare un linguaggio formale o informale, parole locali o generalizzate e il mezzo
attraverso cui vogliamo farci ascoltare dal destinatario a cui ci rivolgiamo.
Queste varie scelte che abbiamo a disposizione vengono chiamati stili collettivi: ovvero il
saper utilizzare un determinato linguaggio in una determinata situazione e il saper
organizzare delle frasi per “tesserle” poi in un testo o in un discorso.

CAPITOLO 18-19: FATTORI INTERNI ED ESTERNI


Quando parliamo o scriviamo si deve tener conto di quelli che sono i fattori esterni ed
interni dell’uso dei mezzi verbali.
I primi, ovvero quelli esterni, sono fattori che possono in qualche modo “costringere” la
nostra libertà. Il tempo, così come lo spazio, per esempio, ci impongono un determinato
limite che abbiamo a disposizione per parlare o scrivere. Altro fattore esterno da considerare
è la situazione, ovvero il contesto che ci ritroviamo davanti, così da poter scegliere un
linguaggio più adatto per parlare dell’argomento che vogliamo affrontare.
I fattori interni, invece, riguardano i contenuti da esporre, gli obbiettivi della
comunicazione, le persone alle quali ci stiamo rivolgendo ed infine le parole e le frasi da
utilizzare per trasmettere il contenuto.
Dunque, bisogna prendere in considerazione quelli che sono gli aspetti pertinenti rispetto
agli obbiettivi che si vogliono raggiungere e ai destinatari a cui ci rivolgiamo.

CAPITOLO 20-21-22-23: CAPITOLI CONCLUSIVI


Questa grande libertà di scelta che abbiamo, però, secondo alcuni studiosi, ha dei limiti.
Questi ultimi vengono posti da quella che è la grammatica. Si deve infatti distinguere
quest’ultima dal vocabolario: mentre la prima può essere definita come un vero e proprio
dominio degli obblighi da rispettare, il secondo invece consente all’uomo una totale libertà
di scelta delle parole.
Quando gli individui vogliono esprimere un concetto devono cercare prima di tutto di
renderlo comprensibile a tutti. Per fare ciò, devono dunque avere una grande conoscenza
della lingua e delle parole e assicurarsi che il concetto che vogliono esprimere risulti chiaro.
Ad esempio, se si fa un discorso, risulta più facile capire se ciò che vogliamo trasmettere sta
arrivando nel modo giusto, grazie alle possibili espressioni del/i destinatario/i.
Se si parla di scrittura, la situazione può complicarsi: infatti, se colui che scrive non riesce a
utilizzare termini che permettono una facile comprensione, si rischia di non riuscire a
comunicare il giusto messaggio.
Allo stesso modo, se si scelgono frasi lunghe e complesse – piuttosto di quelle brevi, quindi
facili da interpretare – la lettura di esse potrebbe addirittura stancare il/i destinatario/i del
messaggio.
Dunque, la sola “regola” all’interno del mondo della comunicazione è proprio quella di
riuscire a trasmettere, attraverso determinate parole e frasi, il senso di ciò che volevamo
comunicare a chi ci ascolta.
LA LOGICA PROFONDA DEL LINGUAGGIO VERBALE È LA COOPERAZIONE. (?)

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