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Commerci - Lo schiavismo

Chi è senza peccato, scagli la prima pietra…

I portoghesi furono i primi in Occidente ma gli arabi li avevano già preceduti di qualche secolo. Poi seguirono francesi,
inglesi, olandesi, scandinavi, americani… e pure qualche italiano. Tutti a rapire e deportare africani, di qua e di là, per
lavorare nei campi o negli harem. Ma, in loco, c’era bisogno di poter contare sulla complicità di capi tribù e negrieri
locali che non facevano altro che tener viva una tradizione africana secolare. Tra il XV e il XIX secolo oltre 10 milioni
di africani hanno varcato l’oceano controvoglia. Cambiando la faccia al mondo

di Maurizio Maggini & Emanuele Mastrangelo

Comprati, trasportati, venduti. Milioni di africani hanno subito questa sorte dall’alba dei tempi: la schiavitù era infatti
una costante culturale delle società dell’Africa nera. Ma quando in questa barbara usanza si inserì l’inarrestabile
macchina commerciale europea, il fenomeno assunse proporzioni bibliche: la deportazione di intere popolazioni ha così
portato a ridisegnare totalmente la carta demografica delle Americhe. E ancora oggi mostra profonde cicatrici nelle
coscienze moderne, nonostante il fatto che accanto a Barak Obama, alla Casa Bianca sieda come first lady la
discendente di una schiava, simbolica pietra tombale su una storia fatta di sfruttamento e razzismo.

Il commercio - o meglio la tratta degli africani - nell’età moderna prese avvio negli anni precedenti la scoperta
dell’America: furono i portoghesi a praticarla per primi, grazie alla loro supremazia nella navigazione ed esplorazione
delle coste dell’Africa Occidentale. Gli schiavi allora servivano in loco e quindi agli scambi che avevano per oggetto
avorio, oro, spezie si aggiungevano anche schiavi. In questo commercio erano attivi pure i mercanti italiani, soprattutto
genovesi e fiorentini, presenti sulla piazza di Lisbona ed altre località della penisola iberica. Ai portoghesi si deve, nel
1481, la costruzione del forte e stazione commerciale di San Giorgio della Mina, nella Costa d’Oro. Loanda, capitale
dell’Angola portoghese, fu invece fondata nel 1560. Fin da questi primi albori dell’infame mercato, si viene subito a
delineare la struttura commerciale che sarà costante nei secoli successivi: gli europei giungevano sulle coste africane,
dove edificavano stazioni commerciali dietro «concessione graziosa» dei despoti locali. Questi garantivano ai negrieri i
loro diritti in cambio di atti formali di sottomissione e soprattutto in cambio di merci ritenute «prestigiose» (cavalli,
armi da fuoco, bigiotteria) che in realtà erano per lo più il fondo dei magazzini europei. Le stazioni commerciali
europee, dunque, iniziavano la loro attività scambiando ronzini, archibugi più pericolosi per chi li usava che per chi ne
era bersaglio e chincaglierie con polvere d’oro ed avorio, ma anche schiavi, utilizzati ai remi nel naviglio mediterraneo
(che era ancora, si rammenti, largamente composto da galere) ma soprattutto nelle prime coltivazioni di canna da
zucchero nelle isole atlantiche di Madeira e delle Canarie. Ma se c’è un ladro c’è anche chi regge il sacco: gli europei
non razziavano personalmente le popolazioni da deportare, bensì si rifornivano molto comodamente da negrieri locali, a
volte «liberi professionisti», a volte per ordine e per conto dei tiranni del posto. Gli schiavi erano così prigionieri di
guerra, degli infelici razziati dai loro villaggi o anche semplici sudditi, svenduti dai sovrani per garantirsi beni di
prestigio.

Il numero di schiavi della tratta portoghese nel primo Cinquecento non è paragonabile a quello dei periodi successivi, in
ragione della limitata capacità di trasporto delle navi dell’epoca ma anche perché la richiesta era ancora limitata e prese
a crescere solo dopo il 1510. Già alla fine del Cinquecento francesi e inglesi si erano inseriti nella tratta per poi
divenirne protagonisti ed a loro volta cedere il sopravvento agli olandesi. Nel corso del Settecento furono nuovamente
gli inglesi, divenuti padroni dei mari grazie allo sfruttamento della guerra di corsa, a detenere il primato di questo triste
commercio i cui sviluppi furono connessi a varie circostanze di carattere politico ed economico. Dopo la scoperta e la
conquista del Nuovo Mondo, la Spagna ebbe bisogno di quantità crescenti di mano d’opera: inizialmente per il lavoro
coatto si impiegarono le popolazioni indigene. Ma le tremende condizioni cui erano obbligate le esposero alle infezioni
portate dagli europei, infezioni che causarono vere e proprie decimazioni. Uno dei casi più drammatici è quello che si
registrò nelle miniere di argento di Potosì, nell’attuale Bolivia. Gli indios erano sottoposti alla cosiddetta «Ley de
Mita», emanata dal vicerè Francisco Toledo nel 1572, che obbligava tutti i maschi tra i 18 ed i 50 anni, a lavorare nella
miniera 12 ore al giorno, alternandosi per periodi di quattro mesi, in condizioni spaventose e con un tasso di mortalità
altissimo: l’indebolimento fisico portava i singoli alla malattia, e l’assenza di anticorpi sviluppati estendeva il contagio
anche a coloro che non erano debilitati.

Il crollo demografico della Nuova Spagna segnò dunque la necessità di trovare nuove braccia per le miniere e le
piantagioni, e fece sviluppare progressivamente l’importazione di schiavi africani che durò per tre secoli, interessando
oltre ai possedimenti spagnoli, quelli portoghesi e tutti gli altri domini coloniali via via stabiliti in America dalle potenze
europee. I primi schiavi nordamericani, una ventina circa, furono venduti, in Virginia, nel 1619 da un vascello olandese.
Si stima, che oltre due milioni di africani siano stati deportati nelle Americhe nel corso del Cinquecento e Seicento e
addirittura sette milioni nel solo Settecento, il secolo della massima espansione della tratta, che continuò anche nel
corso della prima metà dell’Ottocento, interessando almeno altri due milioni di schiavi. Non è possibile verificare la
congruità di queste stime, ma una cifra complessiva di 10/12 milioni di individui in totale fornisce l’idea dell’entità del
fenomeno, secondo alcuni per difetto, e consente di comprendere quale fu l’effetto destabilizzante sulla vita del
continente nero e sulle sue vicende storiche, che culminarono con l’assoggettamento coloniale. Per avere una idea della
diffusione della schiavitù si consideri che negli ultimi anni del Settecento, a Santo Domingo (colonia francese), gli
schiavi erano 480 mila e in Giamaica (Antille inglesi) 300 mila. La schiavitù fu abolita dall’Inghilterra nel 1807 (ma
nell’impero britannico solo nel 1838) ed all’epoca del Congresso di Vienna (1815) tutti i maggiori stati concordarono di
metterla fuori legge (soprattutto per danneggiare le colonie di Francia, Spagna e Portogallo), anche se essa, per i profitti
che consentiva, continuò poi illegalmente per molti anni, soprattutto verso il Brasile e gli Stati Uniti, paese in cui fu
abolita nel corso della Guerra Civile tra Nord e Sud conclusasi nel 1865. A Cuba l’abolizione risale al 1866, in Brasile
al 1888.

Negli Stati Uniti, nel 1790, quando le 13 Colonie originarie si erano ormai rese indipendenti dall’Inghilterra, gli schiavi
neri erano circa 700 mila soprattutto concentrati negli stati meridionali ed occupati nelle piantagioni di tabacco, riso,
indaco e cotone. La «peculiar institution» sembrava però avviata verso una lenta, graduale estinzione per esaurimento
naturale, o meglio per il venir meno della sua convenienza economica cioè la scarsa produttività del lavoro coatto
rispetto a quello pagato: l’aumento demografico, infatti, rendeva disponibili masse sempre maggiori di lavoratori
«liberi», che – ai fatti – costavano molto di meno degli schiavi, verso i quali comunque il padrone esercitava una sorta
di paternalismo, garantendo di che nutrirsi, vestirsi e modeste abitazioni. Tutte cose che i capitalisti non assicuravano ai
loro operai, semplicemente pagati col minimo indispensabile per sfamarsi. Tuttavia, d’improvviso, la schiavitù riprese
vigore e cominciò ad espandersi quando, nel 1793, un certo Ely Whitney inventò la famosa «cotton gin». Si trattava di
una semplicissima macchina che consentiva la sgranatura del cotone, ossia la separazione del fiocco dal seme,
operazione sino ad allora effettuata manualmente con evidenti ricadute sulla produttività su vasta scala. Questa
innovazione tecnica, in sinergia con l’aumento della domanda di fibra da parte delle industrie tessili europee, rese
nuovamente conveniente e pressoché insostituibile l’impiego della mano d’opera schiavista nelle piantagioni del Sud,
che occupavano una estesa fascia territoriale denominata «cotton belt». La popolazione in condizioni di schiavitù
riprese quindi a crescere, alimentata da un lato dall’importazione di nuovi individui e dall’altro dalle nascite in cattività.
Inizialmente la tratta riguardava soprattutto giovani maschi, adatti al lavoro pesante. Successivamente si prese ad
importare anche un certo numero di giovani donne e bambini, come domestici dei padroni bianchi, ma anche per
consentire la riproduzione in loco degli schiavi, i cui figli appartenevano ai padroni, e non ai genitori. Nel 1860, alla
vigilia della guerra di Secessione negli Stati Uniti gli schiavi erano circa quattro milioni, mentre i neri liberi erano circa
500 mila. In percentuale, rispetto alla popolazione complessiva, la quota degli schiavi era scesa in settanta anni, dal 18
al 13% circa, mentre si manteneva immutata quella dei neri liberi: solo del 1,5%.

Una prima zona di provenienza degli schiavi era la Senegambia, regione compresa tra i fiumi Senegal e Gambia e a sud
di questa le cosiddette Coste del Vento e dei Semi (Guinea, Sierra Leone, Liberia). Un’altra area di alimentazione della
tratta si affacciava sul Golfo di Guinea: era il tratto che andava dalla Costa d’Avorio alla Costa d’Oro (Ghana) con gli
scali della Mina e di Accra. Da non dimenticare poi la tristemente famosa Costa degli Schiavi (Togo, Benin, Nigeria)
con l’importante centro di Uidah mentre, ancora più a sud, si acquistavano schiavi sulle coste di Camerun, Gabon,
Congo e poi dell’Angola, dove prosperavano gli scali di Loango, Loanda e Benguela. Anche l’Africa Orientale dava il
suo contributo alla tratta, soprattutto il Mozambico dei portoghesi che oltre ad utilizzare gli schiavi per le piantagioni
locali li spedivano in America dai porti di Queilimane e Inhambane. Gli schiavi provenivano dalle regioni più interne
dove venivano facilmente razziati dai capi e dignitari delle numerose tribù, regni e clan locali, molto spesso in guerra tra
di loro, e venduti ai trafficanti locali i quali a loro volta facevano da intermediari coi negrieri europei: il primo anello
della catena schiavista era – dunque – tutto interno ai popoli dell’Africa. Inoltre, la prevalenza dell’elemento maschile
nella deportazione europea ebbe un impatto proporzionalmente meno drammatico sulla demografia dell’Africa
occidentale che non la tratta mussulmana nell’Africa orientale: i seguaci di Maometto avevano un’occhio particolare per
il commercio delle schiave destinate a rifornire gli harem: infatti la società tradizionale africana era per lo più
poligamica, e per ciascun maschio pluriammogliato ve ne erano diversi altri privi di ogni possibilità di accoppiarsi. La
sottrazione dei maschi, dunque, non influenzava sensibilmente l’andamento demografico, mentre la deportazione delle
donne in età fertile colpiva drammaticamente le società indigene.

Il trasferimento dei poveretti dalle zone interne del Continente Nero agli scali d’imbarco, dove venivano marchiati ed
anche battezzati con nomi cristiani, era già una esperienza penosissima, ma ben poca cosa a fronte della traversata
transoceanica a bordo delle navi negriere. I velieri dell’epoca erano piccoli e per accrescerne le capacità di carico
venivano munite di interponti dove i disgraziati venivano stipati sino all’inverosimile, con pochissimo spazio a
disposizione. Spesso non si poteva neppure alzarsi in piedi. Il viaggio durava qualche settimana, sovente con mare
agitato che provocava gravi disagi nelle stive, ed a causa del sovraffollamento, delle pessime condizioni igieniche ed
alimentari, dello sfinimento, del mal di mare e della paura, non c’è da stupirsi dell’elevata mortalità causata da malattie
e maltrattamenti. Poiché il «carico» era prezioso al pari di qualsiasi altra «merce» i negrieri avevano tutto l’interesse a
cercare di mantenerlo integro. Ogni giorno, infatti, mentre si ripulivano alla meglio le stive, gli schiavi venivano portati
sul ponte, lavati con acqua di mare ed obbligati a fare esercizi fisici o comunque a tenersi attivi, magari anche solo
intrecciando corde e panieri, oppure danzando. Per dissipare i miasmi irrespirabili delle stive vi si spruzzava dell’aceto,
si bruciava polvere da sparo oppure si immergeva una palla di cannone incandescente in un recipiente pieno di catrame.
Ma tutto ciò non impediva il diffondersi di epidemie di vaiolo, febbre gialla e colera che oltre ai prigionieri decimavano
anche l’equipaggio. Solo in epoca più tarda si cominciarono ad utilizzare il limone ed il cocco per combattere almeno lo
scorbuto. Il vitto, se le scorte erano sufficienti, consisteva in legumi secchi, riso, frutti tropicali acquistati sulla costa
(come le banane) mentre l’acqua, conservata in barili di legno, veniva filtrata con panni di lana. Dopo l’abolizione
formale, le navi negriere alla vista delle fregate britanniche o delle altre potenze abolizioniste, per cancellare ogni prova
del loro turpe contrabbando ricorrevano all’estremo crimine: gettavano gli infelici in acqua, in pieno oceano, liberandosi
del corpus delicti. Stessa atroce sorte che toccava a quegli schiavi deportati su navi che subivano la bonaccia e
restavano troppo a lungo alla deriva esaurendo l’acqua potabile, o che – durante le tempeste – rischiavano di affondare
per l’eccessivo carico. Nei porti atlantici meridionali degli Stati Uniti dopo lo sbarco degli schiavi si tenevano delle vere
e proprie aste, annunciate su giornali e manifesti, per la vendita ai piantatori o agli intermediari, cui seguiva
l’avviamento alle piantagioni del Sud. L’abitudine alle nuove condizioni era relativamente rapida: la schiavitù era
tradizione ancestrale in Africa, e spesso per molti schiavi cambiava solo il colore della pelle del padrone che li
possedeva. Molti schiavi tuttavia erano originariamente di condizione libera, e la sottomissione al nuovo regime di vita
passava attraverso violenze e oppressione. I bianchi inoltre imponevano agli africani la religione cristiana (cattolica o
protestante che fosse), ma senza riuscire a cancellare del tutto i culti ancestrali, che si sono mantenuti fino ad oggi nelle
forme più varie, come il vudù o l’incredibile rinascimento afroamericano della «negritudine» brasiliana di Bahia, ormai
unico posto al mondo dove il termine «negro» non è considerato offensivo. La vita nelle piantagioni del Sud era dura,
ma non tremenda: gli schiavi lavoravano nei campi di cotone dall’alba al tramonto, sia pure con gli intervalli domenicali
ed in alcuni casi godendo addirittura del sabato pomeriggio. La piantagione aveva inoltre bisogno di falegnami, fabbri,
stallieri e cocchieri, di personale di servizio per la casa e la cucina padronali e tutti questi schiavi godevano di
condizioni di vita migliori. Inoltre potevano coltivare un piccolo orto integrando l’alimentazione, abitare in baracche di
legno, di una o due stanze, col tempo rese più confortevoli e sviluppare dei rapporti sociali, soprattutto nell’ambito delle
comunità più numerose. Si trattava in altri termini del risorgere di una società feudale, simile a quella dell’Europa
medievale o a quella ancestrale dell’Africa, ma su base razziale. I piantatori sudisti, negli anni precedenti la Guerra
Civile (1861-1865), cercarono di giustificare questa istituzione, facendo notare che le condizioni di vita cui erano
sottoposti gli uomini, le donne ed i bambini bianchi, negli «slum» delle grandi città, nelle fabbriche e nelle miniere del
Nord erano perfino peggiori e che non pochi dei capitalisti del Nord si erano arricchiti con la tratta. Era anche vero che
gli schiavi erano concentrati nelle grandi piantagioni e che la maggioranza degli agricoltori sudisti non ne possedeva
alcuno o molto pochi, per cui la Guerra Civile scoppiò non certo a causa della schiavitù. Anche la Confederazione
predispose dei provvedimenti per l’arruolamento degli schiavi nel suo stremato esercito, garantendo loro un
conseguente affrancamento, ma si era ormai alla vigilia della sconfitta e della resa. La famosa «Emancipation
Proclamation» emanata dal presidente Lincoln il 1° Gennaio 1863 abolì la schiavitù negli stati secessionisti ed il 13°
emendamento, entrato in vigore il 18 dicembre 1865, fece della sua proibizione un dettato costituzionale. Ma la strada
era ancora lunga come dimostra il fatto che cento anni dopo il tema dei diritti dei neri americani era ancora al centro del
dibattito negli Stati Uniti di Kennedy, Martin Luther King, di Lyndhon Johnson e del Vietnam…

Maurizio Maggini
Emanuele Mastrangelo

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