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«Siamo entusiasti di annunciare che il nostro obiettivo è stato raggiunto e superato. Grazie a tutti i
nostri donatori abbiamo raggiunto un totale di 8,8 miliardi di dollari».
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La notizia è stata twittata da Gavi Vaccine Alliance al termine del Global Vaccine Summit 2020,
ospitato dal Regno Unito e organizzato per raccogliere fondi necessari a sviluppare un vaccino per
il coronavirus e renderlo disponibile anche nelle parti più svantaggiate del mondo.
Alla videoconferenza, oltre a Gavi, hanno partecipato le Nazioni Unite e i capi di Stato invitati dal
premier britannico Boris Johnson. Fondata da Bill Gates nel 2000, Gavi ha contribuito a
immunizzare oltre 760 milioni di bambini e ha prevenuto oltre 13 milioni di morti in 73 paesi in via
di sviluppo.
«Si tratta di un risultato favoloso - ha detto il Ceo di Gavi, Seth Berkley -. Avevamo chiesto di
raggiungere la cifra di 7,4 miliardi di dollari e invece siamo arrivati al 8,8 miliardi». Si tratta del 20
per cento in più rispetto all'obiettivo. Denaro che servirà a sostenere l'operato della fondazione nei
prossimi 5 anni. «Una cifra che ci consentirà di avere risorse aggiuntive per garantire l'accesso
all'immunizzazione in tutto il mondo - ha sottolineato Berkley -. Una parte consistente di questi
fondi saranno stanziati per un vaccino di successo contro Covid-19». «I nostri antenati hanno
dovuto vivere in una realtà in cui gli agenti patogeni mortali potevano uccidere i loro bambini in
qualsiasi momento - ha evidenziato Johnson, ringraziando i partecipanti per la generosità -. Questo
deve aver provocato un dolore incalcolabile».
La strada intrapresa è quella di unirsi per creare la cooperazione globale che si spera porti a trovare
anche un vaccino contro il coronavirus e anche l'Italia si è impegnata a stanziare 287,5 milioni di
euro da qui al 2030. «Abbiamo bisogno dello stesso spirito di collaborazione e di difesa collettiva di
alleanze militari come la Nato - ha concluso Johnson -. Lo stesso spirito ci serve ora per sconfiggere
il nemico comune di questa epoca. Dobbiamo inoltre assicurarci che i paesi, le aziende
farmaceutiche e i partner internazionali come l'OMS instaurino un livello di cooperazione mai visto
prima».
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ricordato che il coronavirus
rappresenta la più grande sfida per la sanità pubblica di un'intera generazione. «Al momento non
abbiamo un vaccino - ha detto -. Mentre lavoriamo per svilupparne uno, c'è una lezione importante
che dobbiamo comprendere: un vaccino da solo non è abbastanza, c'è bisogno di solidarietà globale
per assicurare che ogni persona in ogni parte del mondo possa avervi accesso. Le Nazioni Unite
sono fiere di essere parte degli sforzi di Gavi e rimangono impegnate nella prossima fase perché c'è
ancora molto da fare. Quando il vaccino per il coronavirus sarà disponibile, dovrà raggiungere tutti
perché le malattie non conoscono confini». TPa
sta girando, in rete, un'intervista di Montagnier in cui il Premio Nobel per la medicina,
dichiara che il virus SARS-CoV-2 - responsabile della pandemia da COVID-19 iniziata alla
fine dell'anno precedente - sarebbe stato creato in un laboratorio di ricerca della città cinese
di Wuhan durante alcuni studi sulla possibile creazione di un vaccino contro il virus HIV. A
riprova di ciò, Montagnier cita uno studio pubblicato dall'università di New Delhi nel gennaio
2020, secondo cui il genoma del SARS-CoV-2 conterrebbe alcune sequenze presenti anche in
quello del virus HIV. Tale studio tuttavia aveva ottenuto diverse critiche da parte della
comunità scientifica mondiale, venendo smentito da altri studi peer-review, e venne ritirato
meno di due giorni dopo la pubblicazione. Secondo Montagnier, la somiglianza tra i due
genomi virali sarebbe stata confermata da ulteriori ricerche condotte in prima persona da lui
stesso e dal ricercatore Jean-claude Perez. Perez, ingegnere un tempo dipendente della IBM e
che si occupa attualmente di biologia teoretica, aveva a sua volta pubblicato nel febbraio 2020
uno studio - avente lui solo come autore - intitolato "Wuhan covid-19 synthetic origins and
evolution" sulla rivista International journal of research granthaalayah, ritenuta una rivista
predatoria e la cui casa editrice era stata multata per 50 milioni di dollari dalla Federal Trade
Commission nel 2019 per aver pubblicato nel corso degli anni articoli non sottoposti a verifica,
spesso dietro pagamento. //// Questo, in sintesi, il succo dell'intervista rilasciata a una stazione
tv francese. Altri virologi, tra cui Ilaria Capua, sostengono il contrario, ovvero che non si
tratta di un virus modificato artificialmente. A noi non è dato sapere come sono andate le cose
anche perché, come afferma lo stesso Montagnier nella sua intervista, a Wuhan ci sono anche
laboratori americani che lavorano nello stesso settore. Tutto questo, a dimostrazione di quanto
affermavo in un mio precedente Post. Ovvero, che sarebbe bene che noi ci tenessimo fuori da
queste discussioni molto tecniche e cercassimo di continuare a ragionare con la nostra testa. E,
dato che sono un pessimista nato, aggiungo che "sarebbe bene"; ma non accadrà!
di F. Q. | 16 Aprile 2020
Ue, Macron: “È il momento della verità, senza un fondo che emetta debito comune il
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L’Europa deve chiedere scusa all’Italia. Ma le scuse saranno valide “solo se si cambia
comportamento” e se emergerà il “coraggio di difendere l’Unione europea”. La presidente della
Commissione europea, Ursula von der Leyen, davanti al Parlamento europeo riunito in plenaria
straordinaria per votare una risoluzione a favore dei Recovery bond, rimprovera i Paesi dell’Ue
perché “è vero che molti erano assenti quando l’Italia ha avuto bisogno di aiuto all’inizio di questa
pandemia”.
Una presa di posizione forte, anche in vista del Consiglio europeo del prossimo 23 aprile in cui i
leader si riuniranno per discutere gli strumenti anti-coronavirus, dal Mes agli eurobond. Un
dibattito tra Paesi del Sud e del Nord, in cui von der Leyen continua a proporre la sua strada: “Serve
un piano Marshall per la ripresa dell’Europa”, che deve essere messo in piedi “immediatamente”.
E l’Mff, il bilancio pluriennale dell’Ue 2021-27, uno strumento in cui gli Stati hanno “fiducia”,
sarà “la guida della ripresa”. Il problema è che il bilancio europeo si basa su contributi nazionali:
per questo Francia e Italia chiedono un fondo associato, il Recovery Fund, finanziato
dall’emissione di titoli comuni. I Paesi del Nord propongono invece di aumentare la capacità di
indebitamento della stessa Commissione.
La risoluzione al voto: “Recovery bond garantiti da bilancio Ue” – Proprio oggi, dopo
l’intervento della von der Leyen, la plenaria ha dato un primo via libera alla proposta di istituire i
Recovery bond garantiti dal bilancio Ue. La prima parte del paragrafo 17 della risoluzione
depositata in Parlamento da Ppe, Socialisti e democratici, Renew Europe e Verdi per lanciare un
segnale politico ai leader è passata con 547 voti a favore, 92 contrari e 44 astensioni. Il testo finale
sarà votato domani. Nel paragrafo già votato, l’Europarlamento “invita la Commissione Ue a
proporre un massiccio pacchetto d’investimenti per la ripresa e la ricostruzione a sostegno
dell’economia europea dopo la crisi”. Gli investimenti necessari “sarebbero finanziati attraverso un
bilancio pluriennale ampliato, i fondi e gli strumenti finanziari dell’Ue esistenti e dei Recovery
bond garantiti dal bilancio dell’Ue“. La seconda parte del paragrafo precisa che “il pacchetto non
dovrebbe comportare la mutualizzazione del debito esistente e dovrebbe essere orientato a
investimenti futuri”. Un emendamento dei Verdi a favore della condivisione del debito è stato
invece bocciato dall’aula.
Il resto della risoluzione chiede di attivare il Mes con “una specifica linea di credito” con “scadenze
a lungo termine, prezzi competitivi e parametri per il rimborso legati al recupero delle
economie degli Stati membri”.
Von der Leyen: “Bilancio pluriennale unico strumento che ha fiducia di tutti” – “C’è voluto
molto tempo perché tutti capissero che dobbiamo proteggerci a vicenda. Ma ora l’Unione europea
è diventata il cuore pulsante della solidarietà europea”, ha aggiunto la presidente della Commissione
durante il discorso agli eurodeputati. “Abbiate coraggio di difendere l’Unione europea. Perché
questa nostra Unione ci porterà” oltre la crisi. “E domani sarà forte nella misura in cui” ci
impegniamo per lei oggi. “Se vi occorre ispirazione, guardate ai cittadini europei, che stanno
insieme, con empatia, umiltà e umanità. Rendo omaggio a tutti loro”.
Sul fronte economico, prosegue, “l’Ue ha fatto più in queste ultime quattro settimane, di quanto non
abbia fatto nei primi quattro anni dell’ultima crisi”. Ha dato una risposta collettiva, secondo Von
der Leyen, mobilitando oltre “tremila miliardi di euro. Ma sappiamo che dovrà essere fatto molto
di più, perché questa è una lunga strada e il mondo di domani sarà molto diverso da quello di ieri”.
La strada verso la ripresa, sostiene, non può prescindere da un bilancio pluriennale europeo “diverso
da quanto immaginato”. È l’unico strumento, spiega la presidente della Commissione, “che ha già la
fiducia di tutti i Paesi europei, trasparente e consolidato”. “Sarà il faro del nostro risanamento, ne
useremo la potenza per fare leva per investimenti massicci – aggiunge Vn der Leyen – che servono
per far ripartire la nostra economia ed il mercato interno dopo il coronavirus”. Il piano Marshall
europeo “deve essere attivato immediatamente“.
Di Maio: “Importante atto di verità” – “La presidente della Commissione Ue von der Leyen
oggi si è scusata con l’Italia, ammettendo che molti Paesi all’inizio della pandemia non sono stati
presenti quando abbiamo avuto bisogno di aiuto. Le sue parole rappresentano un importante atto
di verità, che fa bene all’Europa e alla nostra comunità”, scrive Luigi Di Maio su Fb. “Adesso l’Ue
abbia il coraggio di difendere e tutelare tutti i popoli. Serve un’Europa più solidale. In corso c’è
una delle trattative più importanti della nostra storia. Difendendo l’Italia, difendiamo anche
l’integrità dell’Ue”, aggiunge il ministro degli Esteri. Interviene anche un altro esponente M5s, il
ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli: “Una presa di posizione giusta, poi l’Europa
deve fare anche i fatti e non soltanto i comunicati”, dice ad Agorà su Rai3.
Dall’OMS non arrivarono linee guida capaci di tutelare la salute degli abitanti della Terra,
contravvenendo al suo ruolo di lotta alle epidemie. Nessuno da questo ente suggerì ai governi che i
positivi al Coronavirus non dovessero recarsi nei pronto soccorso ordinari, altrimenti avrebbero
alimentato un focolaio, come avvenne nel febbraio scorso all’ospedale di Codogno, nel lodigiano.
Al contrario, il suggerimento arrivato sulle mascherine ha seminato confusione e fatto sprecare
tempo prezioso nella lotta all’emergenza, aggravandola alquanto. Secondo l’istituto, infatti, non
sarebbe stato di alcuna utilità pratica indossarle, mentre è emerso che molti pazienti positivi da
Coronavirus risultino asintomatici e coprendosi naso e bocca eviterebbero di contagiare
inconsapevolmente gli altri.
Insomma, i governi si sono dovuti arrangiare, peraltro affidandosi alle scarne informazioni giunte
dalla Cina, dove i ritardi nell’affrontare l’epidemia si sarebbero rivelati fatali.
Alcuni medici di Taiwan scrissero alla fine di ottobre all’OMS per informarla di avere scoperto che il virus si
trasmettesse da uomo a uomo. La lettera fu ignorata, forse perché al presidente dell’organizzazione non fa
simpatia l’isola ribelle contro Pechino. I primi decessi cinesi furono registrati alla metà di dicembre e,
tenuto conto dei tempi di incubazione della malattia e del suo decorso fino all’epilogo mortale, al più tardi
nella regione di Wuhan il Coronavirus si era materializzato alla fine di novembre. Dov’era l’OMS, che ancora
oggi rifiuta di classificare la pandemia come di “origine cinese”?
Eppure, l’organizzazione definiva “pandemia” il Coronavirus solamente l’11 marzo scorso, quando
già dilagava in Europa, travolgendo per prima l’Italia. Anziché essere di aiuto, si è rivelata una
fonte a sua volta di aggravamento della situazione, come quando consigliò ai governi di non
chiudere le frontiere alla Cina. “Per fortuna”, ha commentato nei giorni scorsi il presidente
americano Donald Trump, “non le ho dato retta”. E dai repubblicani si levano commenti molto
critici verso l’OMS, con i senatori Rick Scott e Marco Rubio a chiedere indagini e con il Wall Street
Journal a invocare che si faccia chiarezza sul ruolo di Ghebreyesus, un politico e non un medico,
eletto a capo dell’ente con il sostegno degli amici comunisti di Pechino.
Il quotidiano finanziario si chiede che senso abbia un uomo che faccia politica a capo di
un’organizzazione che dovrebbe occuparsi solamente di salute. E Trump prende la palla al balzo per
segnalare come l’America contribuisca a finanziare l’OMS per il 22% del totale, contro il 12% della
Cina. Perché mai, si chiede, essa debba essere così filo-cinese, se i soldi glieli mettono, anzitutto,
proprio gli USA? La tossicità di questo organismo internazionale è solo il primo tassello di un
puzzle che si andrà componendo nei mesi prossimi e che, superata l’emergenza, farà emergere una
resa dei conti internazionale tra Cina e Occidente.
Non è un caso che Pechino, consapevole di averla fatta molto grossa, abbia inviato dispositivi medici
all’Italia, fiutando come la sua opinione pubblica, sentitasi abbandonata dagli alleati storici europei, si
mostrerà probabilmente più tenera nei suoi confronti quando la pandemia sarà un brutto ricordo.
Trump, peraltro in piena campagna elettorale, ha tutta l’intenzione di andare “all in” contro la Cina.
Deve il suo ingresso alla Casa Bianca proprio alla sua linea anti-cinese sull’economia, ma adesso
che anche gli americani contano i loro numerosi morti per un virus che arriva da Pechino, quale
migliore occasione per accelerare i piani di scontro con il Dragone? Il regolamento dei conti non
avverrà in un tribunale, difficilmente vedremo Washington fare le pulci al regime su tempi e modi
di gestione della pandemia a Wuhan, anche se l’inaffidabilità dei dati cinesi su numero di contagiati
e decessi appare ogni giorno più lampante. Sarà sul piano degli scambi commerciali e dei processi
produttivi che la Cina pagherà cara la sua mancanza di trasparenza.
Alla Cina questo discorso non piace, essendo divenuta la manifattura del mondo. Ma proprio la sua
mancata gestione della pandemia nelle prime fasi ha fatto scappare i buoi dal recinto, costringendo
ad azioni draconiane a gennaio, con la chiusura di Wuhan e il blocco delle attività, replicato in tutto
il mondo nelle ultime settimane.
E l’interruzione della catena produttiva ha reso evidente la necessità per ciascuno stato di assicurarsi
almeno la produzione di beni primari sul proprio territorio, mettendo in discussione un caposaldo della
globalizzazione. Il regime intuisce che per cercare di nascondere al mondo la pandemia è finito per
provocare un disastro di portata biblica, ma con ripercussioni assai pesanti per la propria economia in
prospettiva. Con la complicità di una OMS connivente, ha messo in ginocchio il resto del pianeta e tra
Il Coronavirus è la
qualche mese gli sarebbe presentato un conto salatissimo.
Ma a propagarsi non sono stati solo i disservizi in fase di produzione, quanto anche l’epidemia
stessa. L’Italia è stato il primo stato dell’Occidente a subire il contraccolpo più forte, dovendo
prima chiudere le “zone rosse” in cui si erano concentrati i casi iniziali, successivamente gran parte
del Centro-Nord e subito dopo l’intera Nazione, fino alla decisione di mercoledì sera del governo di
vietare quasi tutte le attività commerciali non strettamente necessarie alla sopravvivenza. La
tensione è altissima nel resto d’Europa e negli stessi USA, dove il presidente Donald Trump ha
sospeso i voli dall’Europa per un mese, mentre le autorità locali già varano provvedimenti anti-
assembramenti.
In pratica, non esiste multinazionale che non produca almeno in parte in Cina, beneficiando sia
dell’abbondante manodopera a basso costo, sia di condizioni molto più favorevoli sul fronte dei
diritti sindacali, della tutela dell’ambiente, della salute dei lavoratori e pubblica, etc.
L’emergenza Coronavirus ci sta facendo comprendere come il mondo sia più interconnesso di
quanto già immaginassimo. Un battito d’ali a Pechino ha provocato una tempesta in Europa. Sarà la
fine della globalizzazione? Con questo termine, s’intende che merci, servizi, capitali e sempre più
anche le persone possono circolare liberamente e senza quasi barriere tra stato e stato. I dazi sono
stati ridotti o spesso annullati, mentre i controlli sui capitali perlopiù soppressi o minimizzati. Ciò
ha consentito alle economie più povere di attingere a un mercato dei consumi e dei capitali
praticamente globale per esportare e a quelle più ricche di acquistare a costi sempre più bassi e a
delocalizzare le proprie produzioni per mantenersi competitive.
I malumori non sono mancati e con la crisi finanziaria del 2008 sono esplosi proprio nel ricco
Occidente, dove la classe media avverte ogni giorno di più la minaccia di perdere il benessere
conquistato in decenni di progresso. L’elezione di Donald Trump nel 2016 suggellò proprio questo
desiderio crescente in strati ampi della popolazione americana di reagire alla perdita di quote di
manifattura a favore delle economie emergenti, Cina in testa. E ben prima che arrivasse il
Coronavirus come un fulmine a ciel sereno, l’America aveva intrapreso una sorta di “guerra”
commerciale con Pechino a colpi di dazi, ironia della sorte stringendo un primo accordo il giorno
prima che la Cina ammettesse l’esistenza dell’epidemia sul suo territorio.
Come Trump sta riscrivendo la globalizzazione senza che l’Europa tocchi palla
La stessa Brexit, avvenuta ufficialmente a fine gennaio, altro non è stata che la volontà del Regno
Unito di rifuggire dalla retorica del mercato unico europeo per combattere in solitaria e cercare di
vincere la sfida della globalizzazione senza orpelli sovranazionali, quelli a cui da venti anni a questa
parte si è ricorso con sempre maggiore frequenza per cercare di dirimere le controversie
internazionali e di adottare legislazioni uniformi secondo la logica del “one size fits all”.
Dunque, la globalizzazione era già in crisi “ideologica” prima del Coronavirus, ma di certo
l’epidemia si è inserita a pieno titolo nel dibattito, provocando una tempesta perfetta.
Comunque la si pensi, almeno temporaneamente i movimenti transnazionali si sono ridotti, per non
dire letteralmente crollati. In pochi ormai si spostano di stato in stato per lavoro, ancora meno come
turisti. Le merci formalmente continuano a soggiacere alle medesime condizioni normative, ma da
un paio di mesi hanno in gran parte smesso di fluire dall’Asia ad Europa e Nord America. La Cina
ha scoperto di non avere futuro senza consumatori occidentali, l’Occidente di non riuscire a
produrre nemmeno più una penna senza la Cina. Non sono pochi i manager americani ad essere
rimasti scioccati nei giorni scorsi, quando hanno scoperto che parte della produzione delle società
che gestiscono avviene in Cina, attraverso la rete dei fornitori e dei subappalti.
Difficile immaginare che la globalizzazione, intesa come mentalità aperta agli spostamenti fisici e
tendenza a considerare il pianeta un unico spazio in cui produrre, viaggiare e vendere, possa finire a
causa di un qualche decreto governativo o di una pur grave epidemia. Tuttavia, già Trump sta
cercando di “de-globalizzare” da tempo l’economia mondiale, non per tornare alla dimensione
degli stati-nazione, bensì alla logica della regionalizzazione dei processi produttivi. In sostanza, le
imprese verrebbero spinte a produrre nell’area economicamente omogenea e all’interno della quale
si trova lo stato di appartenenza. Per fare un esempio, le imprese italiane andrebbero in Romania o
in Germania, non in Cina.
E quelle americane si sposterebbero in Canada, nella stessa Europa, non nel Vietnam o Cina.
Non sappiamo se questo tentativo andrà in porto, ma è in atto. E il Coronavirus sarà presto il
pretesto su cui fare leva sulle opinioni pubbliche per far partire da esse stesse la domanda di una
nuova globalizzazione, che per molti assumerebbe tratti più umani, dato che il pianeta verrebbe
suddiviso in macro-aree al loro interno economicamente omogenee, dove la concorrenza tra
imprese e persino fiscale, normativa e burocratica sarebbe meno intensa. In un certo senso, sarebbe
come ammettere che la globalizzazione porti con sé l’effetto indesiderabile di “cinesizzare” gli
occidentali e di “occidentalizzare” i cinesi.
giuseppe.timpone@investireoggi.it
Giuliano Castellino
o apr 3
abbonati a
16 aprile 2020
"Un massacro". Così Ranieri Guerra dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce quanto è
accaduto e sta ancora accadendo agli anziani colpiti da Covid 19 nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa)
in Italia. Un atto d'accusa da chi è anche consulente del ministro della Salute, ma che come direttore
generale aggiunto dell'Oms chiede conto proprio al governo di "cosa è successo e come mai". "Un
massacro", appunto, con centinaia, probabilmente migliaia di morti nelle case di cura - mancano dati
specifici, a differenza ad esempio della Francia -, di cui il Pio Albergo Trivulzio di Milano è solo il caso più
eclatante.
rep
Approfondimento
Il bollettino
Guerra torna in conferenza stampa alla Protezione civile nel giorno in cui si registrano 578 vittime - nella
media ancora alta del periodo -, e 2.667 contagiati in più (anch'essi nel trend), portando il totale a oltre 165
mila. In flessione invece i pazienti guariti, solo 962 più di martedì. Prosegue il calo dei ricoveri nelle terapie
intensive, ormai costante: 107 i pazienti dimessi, di cui 48 in Lombardia. Quest'ultima regione resta
l'epicentro della pandemia in Italia. I nuovi contagiati sono 558, le vittime ancora 235 in più, per un totale di
oltre 11 mila, sempre al di sopra del 50% dei morti a livello nazionale, arrivati a 21.645. In Lombardia e a
Milano alla popolazione "un pò più di disciplina va richiesta, soprattutto adesso che siamo in una fase
cruciale", risponde Guerra, premettendo che "è una regione molto articolata, con un'altissima presenza
produttiva, con enormi filiere essenziali, a partire dalla sanità" e in settori non chiusi dal governo, ma
sottolineando che "la mobilità registrata, fino al 45% del totale in certi giorni recenti, sembra un po'
troppa". Insomma la Lombardia sembra pagare la massiccia presenza di attività essenziali, secondo Guerra.
E la Regione oggi ha chiesto la ripresa delle produzioni il 4 maggio.
5 milioni di mascherine
Altra questione, le mascherine. Su questo il commissario Domenico Arcuri è stato rassicurante: "Le regioni
ci chiedono un fabbisogno di 3,5 milioni di mascherine al giorno. Nell'ultima settimana ne abbiamo
distribuite una media di 5,1 milioni al giorno e dunque abbiamo finalmente una capacità di risposta che è
superiore al fabbisogno delle Regioni", ha affermato, sottolineando che la maggior parte arriva dall'estero e
ricordando che in 3 settimane 61 imprese italiane sono state autorizzate a riconvertirsi e a produrle.
Dopo l'iniziativa del governatore della Lombardia, Attilio Fontana, che con una nota ufficiale ieri ha chiesto
al premier Giusppe Conte di poter riaprire il 4 maggio, il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, è
possibilista: "4 maggio? Sulla data sono molto ottimista. I miglioramenti si vedono", ha detto ai microfoni di
Radio Cusano Tv Italia. "Secondo me stiamo andando nella direzione giusta in Lombardia - premette - ma
anche nel resto d'Italia dove l'epidemia non si è diffusa in maniera così massiccia e le misure adottate
hanno dato i loro risultati. C'è stato un calo anche nel numero dei decessi, che è sempre alto ma
ricordiamoci che aveva toccato mille al giorno. Credo che i contagi continueranno a diminuire nelle
prossime settimane ma il contagio zero non è possibile finchè il virus circola, possiamo portarlo vicino allo
zero. La riapertura va programmata non immediata su tutto, ma scaglionata e con tutte le misure di
sicurezza necessarie". E il vaccino, quando ci sarà, dovrà essere obbligatorio: "Con il vaccino sconfiggeremo
questo virus. Visti i danni che ha creato, non ho dubbi sul fatto che un vaccino del genere debba essere
obbligatorio. Una volta che saranno garantite efficacia e sicurezza del vaccino, dovremmo avere una
copertura tale per non far più contagiare nessuno".
do
Nella giornata di mercoledì il Washington Post aveva anticipato il tema, rilanciando la notizia che
nel 2018, due anni prima dello scoppio della pandemia, diplomatici dell’ambasciata americana a
Pechino visitarono diverse volte l’istituto di virologia di Wuhan e ammonirono gli Usa sulle
inadeguate condizioni di sicurezza del laboratorio
di F. Q. | 16 Aprile 2020
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Dirigenti dell’intelligence Usa e della sicurezza nazionale americana stanno indagando sull’origine
del coronavirus e tra le ipotesi al vaglio c’è anche quella – già confutata dagli scienziati – che sia
nato in un laboratorio di Biosicurezza di Wuhan, in Cina, e che si sia diffuso a causa di un
incidente. A riferirlo è la Cnn, che cita varie fonti a conoscenza del dossier le quali precisano però
che è ancora presto per trarre conclusioni. Nella giornata di mercoledì il Washington Post aveva
anticipato il tema, rilanciando la notizia che nel 2018, due anni prima dello scoppio della pandemia,
diplomatici dell’ambasciata americana a Pechino visitarono diverse volte l’istituto di virologia di
Wuhan (Wiv) e rimasero così preoccupati da mandare a Washington due dispacci (sensibili ma non
classificati) ammonendo sulle inadeguate condizioni di sicurezza del laboratorio, che conduceva
rischiose ricerche sui pipistrelli. Il quotidiano spiegava che negli ultimi due mesi le informative
hanno alimentato discussioni nel governo americano se questo o un altro laboratorio a Wuhan possa
essere la fonte del Covid-19, anche se per ora non sono emerse prove in questo senso e la
comunità scientifica ha già confutato più volte questa ipotesi, parlando di un virus proveniente dagli
animali e non da provetta. Ieri Donald Trump ha confermato che è in corso un “esame molto
approfondito di questa orribile situazione”.
I dispacci mandati a Washington dagli ambasciatori mettono in guardia sulle carenze gestionali e di
sicurezza del Wiv e propongono più attenzione e aiuti non solo per l’importanza degli studi sui
coronavirus dei pipistrelli ma anche per la loro pericolosità. I diplomatici americani, tra cui esperti
scientifici, informarono che le scoperte del laboratorio cinese “suggeriscono fortemente che
coronavirus tipo Sars dei pipistrelli possono essere trasmessi agli umani e causare malattie come
la Sars. Da un punto di vista della salute pubblica, questo rende la costante sorveglianza dei
coronavirus tipo Sars nei pipistrelli e gli studi sui contatti animale-umani cruciali per la previsione e
la prevenzione di future epidemia di coronavirus”. L’appello cadde nel vuoto. L’autore dell’articolo
del Wp scrive che un alto dirigente dell’amministrazione Usa gli ha detto che i dispacci forniscono
un ulteriore elemento di prova della possibilità che la pandemia sia frutto di un incidente nel
laboratorio di Wuhan. E sostiene che la versione di Pechino che il virus è emerso dal wet market di
Wuhan sia debole, citando ricerche di esperti cinesi su Lancet secondo cui il primo paziente noto di
coronavirus, identificato il primo dicembre, non aveva legami col mercato e neppure oltre un terzo
dei contagiati nel primo grande cluster. Oltretutto quel mercato non vendeva pipistrelli.
A sgombrare il campo dall’ipotesi che quel virus sia proprio il coronavirus che sta mettendo in
ginocchio il mondo occidentale dopo aver colpito la Cina c’è però uno studio pubblicato su Nature
Medicine da un gruppo internazionale di ricerca guidato dal californiano Scripps Research Institute
pochi giorni fa. La ricerca esclude che esistano collegamenti, affermando che Sars-CoV-2 è nato in
natura e non in laboratorio attraverso la manipolazione di coronavirus simili a quello della Sars.
Da parte sua la Cina ha replicato che “funzionari dell’Organizzazione mondiale della sanità hanno
ripetutamente detto che non ci sono prove che il virus sia nato in laboratorio e molti esperti hanno
affermato che si tratta di teorie prive di basi scientifiche“, come ha detto il portavoce del
ministero degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian, in dichiarazioni riportate dalla Cgtn.