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Domande frequenti di Organizzazione Amministrativa

Romana – Santini
Dovendo preparare l'esame in pochi giorni, dopo aver letto la dispensa che
gira, ho deciso di redigere le risposte che avrei dato io alle domande
frequenti, che potete trovare fra i soliti file che circolano.
Le domande sono arricchite, in alcuni punti, da elementi che ho tratto da
Wikipedia e dalla Treccani per irrorare un tessuto che mi risultava
insufficiente, più che nell'ottica d'esame, proprio nell'ottica di
"comprensione" dell'esame stesso.
Avendo avuto difficoltà a comprendere determinate pagine della dispensa,
ho pensato potesse essere utile a me e a voi avere le domande, con
rispettive risposte, integrate di alcuni elementi che non sono presenti sulla
dispensa e che possano aiutare per una maggiore comprensione.

In bocca al lupo per tutto,

un abbraccio,
Davide Avolio
Ager publicus et privatus

Si suole rappresentare in maniera semplicistica l'organizzazione fondiara romana con la sua divisione in ager
publicus et ager privatus, cioè in terra coltivabile appartenente al popolo romano e terra coltivabile
appartenente al privato, al cittadino in quanto tale.
Tale semplificazione, oltre che errata, non tiene conto di alcuni periodi della storia repubblicana in cui Roma
si è espansa moltissimo e, spesso, la terra sottratta ai nemici – definita ager occupatorius – era una terra che
non poteva essere restituita poi, dopo la centuriazione, agli antichi titolari, in quanto spesso alcune terre,
definite cd. Exceptae, restavano fuori dal calcolo dei gromatici, cioè degli esperti che si occupavano
dell'agrimensura, cioè della misurazione della terra coltivabile e della sua suddivisione fra coloni.
Ad ogni modo, quando parliamo di ager publicus dobbiamo necessariamente far riferimento alle leggi agrarie,
suddivise nelle leggi de modo agrorum e nelle leggi agrarie di Gracco.
Le più importanti "de modo agrorum" furono le leges liciniae-sextae del 367 a.C che diedero la possibilità ai
plebei di farsi eleggere al consolato e stabilirono il numero massimo di iugeri ( cioè di ettari ) che un pater
familias poteva detenere e occupare, affinché non fossero in pochi latifondisti a occupare tutto il terreno
coltivabile. Il massimo corrispondeva a 500 iugeri, ossia 125 ettari di terreno.
La legge agraria di Tiberio Gracco, duecento anni più tardi, fece molto di più, perché stabilì non solo che si
potesse detenere solo un massimo di 500 iugeri ( aumentabili fino a 1000 nel caso si possedessero due figli, in
determinate circostanze ) regolamentando però anche la parte eccedente, cioè le terre recuperate e non
appartenenti a nessuno dopo questa legge.
Si stabilì che venissero date, ai più indigenti, un massimo di 30 iugeri coltivabili e che queste terre venissero
loro consegnate con la clausola dell'inalienabilità, cioè – appunto, non potevano essere vendute per evitare che
i ricchi latifondisti da cui erano state recuperate, se ne appropriassero.

L'ager publicus ha varie definizioni e classificazioni, a seconda degli usi che i cittadini ne facessero:
- Si parla di ager vectigalis con riferimento a quella terra concessa dai censori per cinque anni, in cambio
del pagamento di un vectigal – cioè di un ammontare, un canone periodico – per la durata dei cinque
anni. Viene anche definito ager censorius proprio perché veniva assegnato dai censori.
- Si parla di ager quaestiorus con riferimento a quella terra concessa dai questori, dietro pagamento di
un ammontare una tantum, che restava in possesso del cittadino perpetuamente.
- Si parla di ager scripturarius, con riferimento a quella parte di agro pubblico destinata al pascolo del
bestiame, che veniva concessa dietro pagamento di una scriptura che apparteneva sempre ai vectigalia
publica, cioè a quei pagamenti periodici pubblici.

Terrae redditae et terrae exceptae

Con riferimento all'ager occupatorius e alle terre sottratte ai nemici e conquistate dai romani, c'è bisogno di
leggere un approfondimento che non è presente nel libro ma che, secondo me, serve a rendere molto più chiara
la concezione che si vuole trasmettere dell'esame nel suo complesso:

La fondazione delle colonie romane era basata su delle operazioni di limitatio e centuratio, cioè di limitazione
e suddivisione del territorio. La difficoltà principale si incontrava quando sul territorio della nuova colonia
romana vi fossero degli indigeni che abitavano prima quel territorio stesso.

Questo faceva sorgere due tipi di problemi:

- Il territorio doveva essere sgombro per essere diviso e assegnato tramite limitatio e centuriatio.
- Le colonie venivano fondate per distribuire le terre conquistate ai soldati che le avevano conquistate,
specie in età imperiale, che si ritiravano a coltivarle, abbandonando la dura vita militare. Questo era,
naturalmente, un problema legato all'esistenza – in quelle terre – di popolazioni indigene preesistenti
a cui appartenevano quelle terre.
Da ciò è facile capire come il punto di inizio della fondazione consisteva proprio nel togliere le terre agli
indigeni per dividerle e assegnarle ai coloni romani. Tuttavia, era necessario sia trovare una sistemazione
secondaria per gli indigeni, sia dare loro uno status sociale. Pertanto, i romani procedevano in questo modo:

- Poteva accadere che i membri della collettività indigena venissero semplicemente tutti espulsi
dall’area della colonia, costretti a trasferirsi altrove ;
- In alternativa, come seconda soluzione fattuale, i Romani potevano mantenere gli indigeni all’interno
della colonia, ma in stato di asservimento ai coloni.
- Ancora, per la verità piuttosto raramente, gli indigeni potevano essere elevati allo status di cives
Romani e così erano inclusi tra i coloni stessi e venivano ammessi a godere dei benefici economici che
ciò comportava, inclusa l’assegnazione di un appezzamento di terra in proprietà di dominium ex iure
quiritium.

Le prime due eventualità ora sommariamente accennate portavano normalmente a situazioni di massimo
svantaggio per gli indigeni. La terza conduceva invece, nel corso del tempo, alla loro perfetta assimilazione
con i dominatori.

Esisteva poi una quarta possibilità intermedia: che gli indigeni continuassero a risiedere, con l’autorizzazione
dei Romani, entro i confini della colonia, nello status personale di libertà e mantenendo la loro propria
cittadinanza.

Avendo chiaro questo concetto, si può tornare al discorso tracciato nella dispensa quando si parla di terre
redditae, cioè di terre restituite agli antichi proprietari e di terre exceptae, cioè di terre escluse dall'elaborazione
gromatica e la suddivisione tipica romana.
La problematicità sta nel fatto che, in seguito alla sottrazione della terra indigena che aveva già una sua
suddivisione originaria, la centuriazione modificava i confini e i limiti della terra che veniva restituita, la quale
non corrispondeva quasi mai a quella originaria.
Con riferimento a ciò, Capogrossi richiama il testo di un tale Siculo Flacco, un gromatico del II sec. d.C che
poneva in luce proprio il problema per cui la suddivisione e la centuriazione del territorio andava sempre a
sovrapporsi a quella precedente, stravolgendo l'assetto amministrativo e fondiario precedente, con la
problematicità legata al fatto che gli antichi proprietari spesso non erano cittadini romani e non potevano
diventare proprietari di quella stessa terra, ma solo possessori, poiché magari non godevano di uno status
sociale tale da poter essere soggetti del dominium ex iure quiritium.

Pagus

Da Wikipedia, in definizione:
Il termine latino pagus fa parte del lessico amministrativo romano e stava a indicare una circoscrizione
territoriale rurale (cioè al di fuori dei confini della città), di origine preromana e poi romana, accentrata su
luoghi di culto locale pagano prima e cristiano poi. Da esso deriva il termine pagano.
All'interno del pagus potevano esservi diversi vici (latino vicus), in ognuno dei quali risiedeva il Magister,
appartenente al patriziato romano.
Sebbene siano noti diversi di questi pagi, come quello Bagienno, Eboreo e Domizio di Bobbio, sotto il
Municipio della città romana di Velleia, dedotti con i loro confini e i vici più importanti dalle descrizioni
della Tabula alimentaria traianea di Velleia, oppure quello di Libarna, è difficile ricostruirne per molti i
confini.
Gli agrimensori romani, infatti, nella misurazione dei terreni da assegnare a veterani, non tennero conto dei
limiti del pagus che poi venne sostituito più avanti per inglobazione dal vicus.

Diciamo che per dirla in termini meno formali, il pagus indica un comprensorio esterno alle mura cittadine in
cui convivono soggetti che sono collegati al pagus stesso.
Mentre il pagus è alle origini della storia di Roma e sembra esistere già da prima della formazione urbana
stessa, il vicus sembra invece essere l'elemento urbano indicante una vera e propria zona della città, un suo
quartiere o ( quando consideriamo il termine vicus all'esterno delle mura cittadine ) un piccolo villaggio.
Secondo Marquardt, uno studioso, alla base della riforma di Servio Tullio che ideò le tribù rustiche e le tribù
urbane, vi è un collegamento netto fra il pagus e la tribù rustica.
La zona del pagus, infatti, avrebbe finito per confluire ad indicare alcune zone delle successive tribù rustiche.
Secondo Dionigi d'Alicarnasso, il pagus – dopo Servio Tullio – finì per indicare delle fortificazioni su alture,
promontori e colline, in cui la popolazione circostante poteva rifugiarsi se il territorio venisse attaccato da
scorrerie o razzie.

Nel corso dell'età arcaica, il pagus che aveva – come detto all'inizio – una sua valenza politica, di controllo e
gestione del territorio extra-urbano, perse definitivamente la sua vocazione politica in età repubblicana ed
imperiale, divenendo solamente un simbolo religioso e sacrale, anche se nella fase repubblicana si riconosce
ancora al pagus, come sorta di organizzazione/ente, la possibilità di disporre di una propria autonomia
finanziaria, imponendo dei carichi sui consociati e potendo anche compiere atti di disposizione.

In età imperiale, il Pagus diviene invece importante nella dimensione amministrativa e nell'ottica delle
importanti riforme, come quella Dioclezianea, sul fisco. Da Ulpiano possiamo notare che nelle indicazioni
concernenti il fondo veniva prontamente indicato il pagus e con esso la civitas per rintracciare le coordinate
del fondo stesso. Tale sistema è comunque ribadito, prima di Diocleziano, con le Tavole alimentari di Veleia e
dei Liguri Bebbiani, in cui osserviamo come per l'individuazione del fondo sia necessariamente indicato anche
il pagus.

Insomma, il pagus è stato un elemento costante in tutta la storia di Roma, con le dovute modifiche e i doverosi
cambiamenti risultati dall'evoluzione storica e politica di una nazione in continua evoluzione, che attraversa
varie forme di governo ed un espansionismo territoriale senza precedenti.

Approf. Dalla Treccani:


Distretto campagnolo nell’antico territorio di Roma (contrapposto a mons); ne sono noti
5: sucusanus, montanus, aventinensis, ianiculensis, lemonius. Politicamente l’istituzione delle tribù tolse ogni
funzione ai pagi che sopravvissero ancora come unità rurali. Loro feste erano le Paganalie, istituite secondo
la tradizione da Servio Tullio (6° sec. a.C.) in occasione del riordinamento dei pagi di Roma. Celebrate
inizialmente in ciascun pagus, furono poi sostituite da una festa comune indetta in gennaio.

Mommsen – Weber

La contrapposizione fra Mommsen e Weber è tutta sulla distinzione fra Colonie e Municipia riguardante la
suddivisione dell'una o dell'altra in centurie tramite il meccanismo della limitatio.
Mommsen sostiene che non vi sia alcuna differenza in ciò, fra colonie e municipia, motivo per cui entrambi
erano soggetti alla limitazione territoriale e alla divisione conseguente alla centuriazione.
Weber, invece, sostiene che la distinzione fra colonia e municipio non fosse insita solamente nell'origine di
quest'ultime, ma anche nel fatto che non fosse applicata, alle una, la divisione del territorio comunitario in
centurie.

Mommsen, in realtà, rifacendosi ad una lex del 59 a.C, la Lex Mamilia Roscia, appartenente all'epoca di Giulio
Cesare, chiarisce che la centuriazione fosse presente e attuata sia nel caso delle colonie che dei municipia.
Infatti la legge prevedeva che chiunque fondasse una colonia o istituisse un municipium, un conciliabulum o
un forum, dovesse procedere a tracciare i limiti, con i cardi e i decumani ( quelli che abbiamo ancora nelle
nostre città di derivazione greco-romana, per intenderci ) e che fosse quindi applicata la limitatio.

Colonie

Prima di parlare della distinzione trattata nella dispensa fra colonie latine e colonie romane, è utile innanzitutto
tracciare e chiarire l'idea della "colonia" nella mentalità romana, che è ben diversa dall'ideale di colonia che
avevano i greci, i quali fondavano città-stato indipendenti dalla madrepatria, possibilmente in territori
sgomberi da altre popolazioni, traendo dalla Polis madre solamente lingua, cultura e religione e, in molti casi,
struttura della polis.
I romani, invece, cominciarono a costruire le prime colonie per questioni di utilità pratica: difendere
determinate zone difficili, sorvegliare e difendere le coste o zone particolarmente interessanti a livello
economico; aumentare la propria presenza in una zona d'influenza romana debole; sfruttare il territorio della
colonia al fine di trarne vantaggio per la repubblica.
La maggior parte delle colonie fondate dai romani non furono colonie fondate su luoghi sgombri da altre
popolazioni. I romani erano, diciamo, "pigri" in questo senso e ritenevano fosse inutile e controproducente
dover cominciare tutto da capo, motivo per cui molte delle città italiane odierne sono frutto della costruzione
di colonie romane su antichi centri abitati da popolazioni italiche, pre romane, che sono state sconfitte dai
nostri antenati laziali e si sono dovute piegare alla loro egemonia.
Poteva quindi capitare che la divisione territoriale antica, delle popolazioni indigene, fosse rispettata e che
semplicemente la terra fosse sottoposta a limitatio e centuriatio, venisse dunque divisa e assegnata ai soldati
che quella terra l'avevano conquistata ( era uno dei motivi principali per cui, Roma, inizia a conquistare sempre
più territori: ai veterani di guerra che andavano in congedo veniva spesso promesso un appezzamento di terra
coltivabile in cui ritirarsi a vivere agiatamente per il resto dei propri giorni dopo gloriose battaglie ).
C'era un solo piccolo problema: la gente del posto che viveva lì, prima dei romani, che fine faceva?
Spesso venivano letteralmente "sfrattati" come successo ad una popolazione ligure che fu costretta a spostarsi
in Campania dove venne deportata.
In altri casi, i Romani lasciavano e restituivano ai precedenti proprietari le terre che gli avevano sottratto
(seppur modificate e diverse dopo la limitatio ) affinché quest'ultimi le lavorassero per dei coloni romani.
In altri casi ancora, gli indigeni venivano lasciati liberi e con uno status in cui potevano commerciare coi
romani e con essi sposarsi, così da raggiungere nei decenni una totale integrazione del popolo sottomesso.
Insomma, fatta questa premessa e capite le ragioni storiche per le quali Roma creava colonie, possiamo
tracciare la distinzione fra:
- Colonie latine, fondate prima del 338 a.C, nel Lazio, appartenenti alla Lega Latina. Sono colonie i cui
abitanti avevano lo ius commerci, il diritto di commerciare, e lo ius connubi, il diritto di sposarsi con
alcuni romani. Esse erano perlopiù colonie che contenevano dai 3000 ai 6000 abitanti, dislocate in
alcune zone strategiche.
- Colonie romane, fondate successivamente al 338 a.C, in varie zone dell'Italia, abitate da coloni romani,
pertanto in tutto e per tutto colonie che venivano percepite come una estensione della città stessa di
Roma. Esse erano meno indipendenti e avevano strutture politiche meno autonome. Erano spesso
fondate sulla costa.

La particolarità delle colonie latine era che, una volta assegnati i fondi, quest'ultimi non entravano nella
proprietà – almeno nella fase arcaica e iniziale della repubblica – di colui che detenesse il fondo. I coloni latini,
infatti, non godendo della cittadinanza romana, non potevano essere titolari di alcuna proprietà secondo il
sistema del dominium ex iure quiritium. Ne deriva che la situazione era regolata come una sorta di possesso e
che erano spesso le leggi autoctone o indigene del posto a regolare, consuetudinariamente, la prassi di
trasferimento eventuale dei beni immobili.

Limitatio/Centuriatio

Pensate alla limitatio come ad una matrioska più grande che ingloba una matriosca più piccola: la Limitatio è
la matrioska più grande, il contenitore; la centuriatio quella più piccola, che è contenuta.
La limitazione del territorio ( o limitatio ) era una pratica con la quale i Romani si occuparono, fin dagli albori
della repubblica, di controllare e suddividere i terreni coltivabili e non di una determinata area geografica.
La suddivisione di questi territori era fondamentale per il popolo romano affinché non solo non rimassero
incolti, ma affinché ogni fondo potesse essere facilmente individuato.
Inizialmente quest'operazione era svolta dagli Auguri, i sacerdoti divinatori che si annoverano fra i primi saggi
dell'età arcaica. Successivamente furono i Gromatici, studiosi ed esperti che utilizzando la "groma", uno
strumento particolare, iniziarono a lavorare per tracciare i limiti di un territorio e individuarne poi la
parcellizzazione tramite cardi e decumani, cioè linee verticali e orizzontali, parallele che, intrecciandosi,
davano vita ad un reticolo fatto di quadrati, appunto i "lotti" di terra che veniva poi assegnata ad ogni pater
familias.
La limitatio-centuriatio seguiva sia quando veniva fondata una colonia, sia quando veniva inglobato un
municipium.
Tavola Veleia

Una delle tavole alimentari ritrovate nel XVIII sec. nei pressi degli scavi della città di Veleia, voluti dal Duca
di Parma.
La Tavola di Veleia è una epigrafe, cioè un'iscrizione su pietra nera, conservata presso il Museo di Parma, che
contiene tantissime informazioni circa dei prestiti effettuati dalle casse dello stato a dei privati che possedevano
delle terre, dei fondi insomma, che posero come "garanzia" di questi prestiti, qualora non fossero riusciti a
restituirli. Il prestito aveva un tasso di interesse modico, circa il 5%, con il quale lo stato finanziava dei sostegni
ai giovani indigenti, affinché le campagne non si spopolassero e ci fosse continua leva militare. Bisogna
pensare e ricordarsi che quest'iniziativa fu presa da Nerva, il senatore divenuto imperatore prima di Traiano, il
quale continuò la sua opera e portò l'Impero Romano alla sua massima espansione del 117 d.C, motivo per cui
servivano soldati.
Per questa ragione le tavole sono chiamate "alimentari". Il loro interesse è rinnovato e cresciuto nei tempi
perché ci mostrano come, anche in età imperiale, sia fondamentale per l'individuazione del fondo e della sua
collocazione l'indicazione di:
- Proprietario
- Civitas ( cioè gruppo etnico-regionale d'appartenenza )
- Pagus
- Vicus
Tutti elementi che ci fanno capire e comprendere come il sistema amministrativo romano fosse molto
sviluppato e che conservasse, anche nel II sec.d.C, una chiara e specifica denominazione affinché un fondo
venisse individuato.

Passo di Scevola

Giurista e Gromatico del II. Sec. d.C, Cervidio Scevola scrisse dei Digesta e nel IV libro di questi Digesta
riportava un episodio.
Si faceva riferimento ad un compascuo fra privati, cioè ad un negozio giuridico che aveva portato dei privati
ad acquistare un territorio comune per esercitarvi un diritto di compascolo, e venne stabilito che tale diritto
sarebbe stato ereditato dai figli dei proprietari del fondo.
Nel corso degli anni però, alcuni di questi proprietari vendettero la propria quota di proprietà e venne stabilito
che – salvo casi di volontà contraria – il diritto di compascolo avrebbe seguito la proprietà del fondo, proprio
come nel caso in cui sul fondo gravasse una servitù.
Questo risultato è importante nell'ottica dell'ager compascus, cioè di quella porzione di terra libera e destinata
al pascolo del bestiame, sulla quale nessun privato vanta diritti se non quello di poter far cicolare liberamente
il proprio bestiame in base ad un criterio di prossimità.
E' di fatti la vicinitas del luogo, come nel caso del fondo e del passo riportato da Scevola, a fungere da criterio
per l'individuazione dei soggetti che siano legittimati ad esercitare tale diritto di compascolo.

Ager compascus

 Da Wikipedia: ager compascuus: simile all'ager scripturarius (anzi, non ne è tanto nitida la
differenza), veniva assegnato a comunità o a soggetti plurimi (spesso proprietari di fondi
confinanti), forse anche senza obbligo di corrispondere un canone in origine, e utilizzato col
mandarvi i propri animali a pascolare. Per ager compascuus letteralmente si può dunque
intendere un territorio lasciato ai vicini per il pascolo comune degli animali. Fu la lex
Sempronia Agraria a sciogliere i dubbi che si ponevano anche i gromatici sulla natura dello
stesso, coloro che erano adibiti alla spartizione delle terre, classificando il compascolo
come ager publicus;

Ciò che emerge in maniera chiara è dunque che l'ager compascus sia uno spazio di terra lasciato ai vicini di
colonie e municipii per far pascolare tranquillamente i propri animali. Esso come dice anche Wikipedia era
inizialmente gratuito, poi dopo la lex Sempronia Agraria fu istituito un canone da corrispondere per il
compascolo, canone che andava via via accrescendosi con l'accrescersi del bestiame stesso.
Fu la sentenza dei fratelli Quinto e Marco Minuci Rufi a dare una svolta definitiva, la cd. Sentenza
Minuciaria, di cui invito a leggere sotto. Quest'ultima stabilì, molto in breve, che rispetto all'ager
compascuus si potessero vantare diritti di compascolo in base ad un criterio di prossimità e vicinanza, salvo
naturalmente l'obbligo di corrispondere una somma di denaro, seppur non troppo elevata.

Parlare di Ager compascuus, infine, ci rende chiaro come si debba far riferimento a tutte quelle terre e fondi
che sono destinate allo scopo di pascolo, rimesse alla disponibilità non solo dei possessori più vicini ma
anche di altre popolazioni che possano trarne vantaggio.

Tavole alimentari
Le tavole alimentari sono due testimonianze epigrafiche, risalenti all'età di Traiano, contenenti l'iscrizione di
alcune ipoteche su dei fondi di soggetti privati che avevano richiesto dei prestiti alle casse dello stato e
avevano dato a garanzia i propri fondi.
Queste due iscrizioni epigrafiche sono di fondamentale importanza per gli storici perché ci permettono non
solo di risalire a determinati ambiti fiscali di Roma di quel tempo ( ad esempio, sappiamo attraverso queste
tavole che il prestito era da restituire ad un tasso del 5% degli interessi, un tasso quindi bassissimo, affinché
questi interessi finanziassero dei fondi per ragazze e ragazzi indigenti )
L'obiettivo degli imperatori, a partire da Nerva, con questo tipo di prestiti, fu quello di diminuire e limitare lo
spopolamento delle campagne e creare sempre crescente e costante manodopera per l'esercito. Fu proprio
Traiano, il successore di Nerva, a proseguire questa campagna.
Le tavole alimentari si chiamano così proprio per questo motivo, perché riportavano l'iscrizione di queste
ipoteche in maniera assolutamente fedele, con l'indicazione:
- Del nome del proprietario e del fondo
- L'importo del prestito e l'importo da restituire
- Della civitas d'appartenenza
- Del pagus
- Del vicus

E in questo senso, le due tavole trovate fra il XVIII e il XIX sec, ci permettono di confermare anche ciò che
asseriva Ulpiano nei suoi digesta riguardante le indicazioni per l'individuazione di un fondo.
Le tavole alimentari sono una testimonianza fondamentale di come, anche durante l'età imperiale, si facesse
riferimento – per individuare un fondo – a determinati elementi arcaici o addirittura pre-romani, come
l'indicazione del pagus, del vicus, della civitas.
Inoltre, nelle tavole alimentari, risalta la difformità fra i confini municipali e quelli dei pagi, così che un
pagus risulti appartenere a territori di diverse civitates.
Tale incongruenza ha portato studiosi quali Shulten a ritenere che le strutture paganiche esistessero prima
dell'intervento dei romani.
Questo lo si denota dall'onomastica riportata all'interno delle due tavole alimentari: la Tavola di Veleia e la
Tavola dei Liguri Bebbiani.
Mentre nella tavola dei liguri bebbiani i nomi appaiono essere quasi tutti di matrice romana e legati a divinità
romane, nella Tavola di Veleia ritroviamo anche nomi appartenenti a famiglie liguri o celtiche e divinità
corrispondenti, ciò lascia pensare come la struttura paganica sia precedente alla civiltà romana stessa.
Alcuni studiosi tuttavia, fra cui Capogrossi, hanno osservato che in realtà nelle tavole venisse indicato un
elemento accessorio dei pagi: l'elemento dei vici.
I nomi dei vici sono tutti di origine pre-romana, e ciò ha portato alcuni studiosi come Sicardi e Luraschi a
ritenere che la diversità onomastica fra vici e pagi andasse a sottolineare e risaltare come – in realtà - i pagi
fossero di carattere romano e che i vici fossero invece preesistenti.

Vicus

Da Wikipedia:
Il vicus, nella civiltà romana, era un aggregato di case e terreni, sia rurale che urbano, che non aveva
un'amministrazione civile come il municipium o la colonia romana.
Ogni vicus aveva una sua denominazione tratta dagli abitanti, dagli eventi che vi si erano svolti o dai
mestieri che vi si esercitavano. In uno di essi risiedeva il Magister, appartenente al patriziato romano.
I vici potevano essere distinti in:

 pagani o rustici, se situati in campagna;


 castelli, se muniti di mura;
 ante-urbani se erano prossimi alla città;
 urbani se cittadini.
Il vicus paganus o rusticus era costituito da casolari o abitazioni rurali congiunte fra loro in un pagus,
ma separate dalla città. Il vicus urbanus era un vero e proprio quartiere cittadino, organizzato
amministrativamente a fini di censimento e caratterizzato dal culto particolare dei Lares compitales e
poi dal Genius Augusti. Generalmente i vici non ebbero un'organizzazione politico-amministrativa
propria, perché erano inseriti o nell'amministrazione dei pagi rurali o in quelle delle città.
Dopo il IV secolo i pagi furono assorbiti dai municipia e dalle città e rimasero solo i vici rustici, che
raggiunsero una parziale autonomia in ambito rurale.
Castellum, Oppidum

Per Castellum i romani identificavano ogni tipo di fortificazione nel territorio di origine nativa;
richiamandosi a realtà risalenti e passate, questo tipo di fortificazioni indicavano anche un determinato
gruppo di persone che vivevano nei pressi della circoscrizione della fortificazione stessa.

Per Oppidum, i romani intendevano invece qualsiasi agglomerato cittadino che stava inizialmente prendendo
forma e si stava avviando a divenire una vera e propria città.
In particolare, indicavano una città fortificata priva di un confine sacro (il pomerio), proprio invece
dell'urbe.
Con l'espansione dello Stato romano e la trasformazione di Roma in Urbe per antonomasia, vennero
individuati come oppida gli insediamenti cittadini fortificati, più grandi del semplice vicus, ma non ancora
abbastanza estesi per essere indicati come civitas.
I romani, in particolare, utilizzavano l'infrastruttura degli oppida come centri amministrativi per i territori
conquistati, e molti divennero poi città romane (questa transizione spesso comportava uno spostamento del
centro della città dalla collina alla pianura).

Municipia

Da Treccani:

Il municipium era, nell’età repubblicana (dalla metà del IV° sec. a.C.), la città assoggettata a Roma e
sottoposta a oneri (munus capĕre). Con la sottomissione il municipio perdeva la propria sovranità, senza
partecipazione ai diritti politici di Roma.
Si distingueva:
a) dalle comunità annesse in condizioni di parità con gli originari di Roma (cives optimo iure);
b) dalle città alleate (foederatae), che conservavano formalmente la propria sovranità;
c) dalle coloniae dedotte da Roma e regolate da statuti che garantivano la piena cittadinanza (colonie
romane) o una situazione di alleanza privilegiata (colonie latine);
d) dai fora, vici, conciliabula, frazioni dipendenti dai municipia o dalle prefetture. La stessa condizione
giuridica dei diversi municipes era varia: i più mantenevano i propri magistrati elettivi e
larga autonomia giurisdizionale e amministrativa; altri erano governati da funzionari (praefecti) romani; vi
erano infine i municipes aerarii, assoggettati per punizione (dopo una defezione, come per es. Capua).
Fora
Nella storia romana il foro (in latino forum) era la principale piazza, o comunque il più importante luogo di
pubblico ritrovo, di ogni città e di ogni territorio rurale (in zone prive di insediamenti urbani). Presso
ciascun foro erano situati molti edifici pubblici e aveva luogo il mercato; le città maggiori avevano più fori,
in ognuno dei quali si teneva uno specifico mercato (del pesce, del vino, dei buoi ecc.). Ogni foro si trovava
generalmente all'incrocio delle due strade cittadine principali: il cardine (cardo) e il decumano massimo;
nelle zone rurali esso sorgeva in genere all'incrocio tra due strade consolari.
Molte città odierne sono nate dagli antichi fora rurali.

Onomastica

Secondo Capogrossi Colognesi, l'onomastica delle tavole alimentari è fondamentale a chiarire la natura dei
pagi e dei vici e la loro preesistenza romana. Di fatti, dall'onomastica delle tavole alimentari si può notare
come – soprattutto nella tavola di Veleia – i nomi dei pagi e dei vici prendano origine da nomi celtici o liguri
e di civiltà pre-romane. Questo suggerisce come i romani abbiano introiettato nelle proprie strutture
giuridiche delle strutture pre-esistenti.
Secondo studiosi come Siraschi e Luraschi, la dissonanza onomastica fra i vici e pagi, cioè la differenza di
nomi riportati per i vici e per i pagi all'interno della tavola di Veleia, suggerisce in realtà che siano i vici ad
essere strutture pre-romane e i pagi siano, invece, strutture romane.
In sintesi, grazie all'onomastica, alcuni studiosi come Shulten ( che si sono avvalsi anche di altri elementi a
sostegno della propria tesi, come la difformità fra i confini municipali e quelli dei pagi ) hanno sostenuto la
natura pre-romana dei pagi.
Capogrossi sostiene la tesi di Shulten, basandosi proprio sull'onomastica per sostenere la propria tesi – nella
tavola dei Liguri Bebbiani scorgiamo nomi prevalentemente romani, al contrario di quella di Veleia.
L'onomastica, in sintesi, ci aiuta anche a capire e carpire la differenza fra le due tavole che, seppur
contemporanee, hanno indicazioni diverse, in quanto nella tavola di Veleia sono indicati anche i nomi dei
vici, tutti di origine pre-roana.

Lex sempronia agraria

La lex sempronia agraria è una legge agraria, un plebiscito per l'esattezza, proposto dal tribuno della plebe
Tiberio Gracco nel 133 a.C.
La legge agraria voleva risolvere due problematiche: da un lato le condizioni di indigenza in cui versavano i
cittadini romani che vivevano di stenti e dall'altro la grave crisi demografica che comprometteva il
reclutamento dei soldati e quindi la difesa dello Stato. L'unica possibilità concreta di intervento a
disposizione del governo romano per cercare di modificare la situazione sociale stava nell'intervenire sulla
gestione dell'ager publicus.
La legge prevedeva che non si potessero possedere più di 500 iugeri di terreno pubblico e 250 iugeri in più
per ogni figlio, in tutto però non più di 1000 iugeri come possesso permanente garantito. (Gli iugeri erano
un'unità di misura della terra, ad oggi corrispondono agli ettari. ) Tutto l'agro pubblico eccedente veniva
recuperato dallo stato, che, per mezzo di una commissione di tre membri, lo doveva distribuire parte ai
cittadini e parte a confederati italici come concessione ereditaria e inalienabile, in lotti di 30 iugeri dietro il
corrispettivo di un vectigal, cioè il pagamento di un canone L'inalienabilità dei lotti assegnati fu stabilita per
proteggere i contadini dalla prevedibile pressione dei grandi proprietari terrieri per acquistare le terre.

Questa legge innovò alle risalenti Leges Liciniae-Sextae de modo agrorum, che stabilivano che fosse
vietato di possedere più di 500 iugeri di ager publicus e di far pascolare sui terreni pubblici più di 100 capi di
bestiame grosso e 500 di minuto, e che ci si dovesse servire di una certa aliquota di lavoro libero.
Gromatici

Il gromatico, presso gli antichi Romani, agrimensore, in origine esperto privato poi pubblico ufficiale, che
aveva come compiti principali la misurazione dei terreni, la definizione della pianta di un accampamento, la
suddivisione dell’agro da assegnarsi ai coloni, ma esercitava anche, spesso, attività scientifica e didattica.
Il suo nome origina dalla "groma"

Da Wikipedia:
Strumento utilizzato dal mensor o gromatico già ai tempi degli Etruschi e, successivamente, dell'antica Roma,
serviva per tracciare sul territorio allineamenti tra loro ortogonali, necessari per il tracciamento di nuove città,
quartieri e strade o per frazionare il territorio in quadrati o rettangoli, al fine del calcolo delle superfici.
È costituita da un'asta verticale che si conficcava nel terreno e recante in sommità un braccio di sostegno per
due aste tra loro ortogonali. Le estremità delle aste hanno dei fori a distanza uguale sui quali vengono appesi
dei fili a piombo, che risultavano a due a due tra loro ortogonali e servono per traguardare i capisaldi.
Questo strumento veniva costruito in legno con particolari di metallo nelle parti ritenute di maggiore
importanza o usura.

Una groma

Sentenza Minuciorum

Da Wikipedia:
La tavola bronzea di Polcevera (detta anche Sententia Minuciorum) è una lamina di bronzo sulla quale è incisa
un'iscrizione in lingua latina che riporta una sentenza emessa dal Senato romano nel 117 a.C.
Prima dell'avvento dei romani, i Liguri erano dediti ad attività silvo-pastorali, e vivevano in villaggi di capanne
situati nei ripiani di mezza costa o arroccati sulle cime dei monti. Intorno al VI secolo a.C. gruppi di Liguri
della Val Polcevera venuti a contatto con Greci ed Etruschi avevano costruito, presso il porto del Mandraccio,
approdo naturale sulla rotta per Marsiglia, allora colonia dei Greci, la città fortificata di Genova, che grazie ai
traffici marittimi, prosperò rapidamente.
Nei decenni successivi i Romani estesero il loro dominio sulla terra dei Liguri, sconfiggendo le tribù del levante
e del ponente che li avevano aspramente contrastati. In questo contesto Genova manteneva una posizione
predominante sulle tribù dell'entroterra, tra le quali i Viturii Langenses, con i quali era sorta una controversia
sull'uso delle terre comuni, che aveva dato luogo all'arbitrato del Senato romano.
Già alcuni decenni prima della “Sententia”, poco dopo la ricostruzione di Genova e la conquista romana
dell'entroterra, intorno al 200 a.C., i Viturii erano venuti in contrasto con i Genuati riguardo all'uso dei terreni
comuni, che non appartenevano né ai Genuati né ai Vituri, ma allo Stato romano per diritto di conquista. Le
terre dei Viturii, confiscate dai vincitori, furono in parte a loro riassegnate come “ager privatus”: di queste terre
avevano il pieno possesso e potevano trasmetterle agli eredi; un'altra porzione, più vasta (“ager publicus”)
fu in parte assegnata ai Genuati e in parte concessa agli stessi Viturii Langenses in cambio di un tributo
(vectigal) da versare ai Romani tramite i Genuati.
I Viturii, per l'incremento della popolazione e la necessità di ulteriori guadagni, anche per far fronte ai tributi
da essi dovuti ai Romani, avevano affiancato alle tradizionali attività silvo-pastorali l'attività agricola e
trasferito i loro insediamenti più a valle per disporre di terreni più fertili e idonei alla coltivazione di grano e
foraggio. Nel tentativo di estendere il loro agro privato su parte delle terre dell'“ager publicus”, sul quale
mantenevano solo limitati diritti per uso silvo-pastorale, vennero inevitabilmente in conflitto con i Genuati,
che non volevano rinunciare alla loro supremazia economica sull'entroterra.
i consoli e il Senato decisero di intervenire direttamente inviando in loco i due magistrati citati nel testo, Quinto
e Marco Minucio Rufo, i quali, dopo un accurato sopralluogo sul territorio tornarono a Roma ed emisero,
dinanzi ai delegati delle due parti in causa, la sentenza, resa esecutiva dal Senato.
Con il loro arbitrato, i Romani non intesero imporre la loro legge, ma sancire con la loro autorità dei rapporti
giuridici preesistenti tra Genova, città confederata ma formalmente autonoma, e una comunità ad essa soggetta,
con una precisa definizione dei confini dei terreni contesi e delle modalità di utilizzo degli stessi da parte dei
due contendenti ed anche, in misura minore, di altre comunità liguri citate nel testo della sentenza.
Con la sentenza furono definiti i confini dell'agro privato dei Viturii Langensi, di esclusiva proprietà di questi,
e per il quale essi non dovevano corrispondere alcun tributo. Nell'agro pubblico, del quale furono ugualmente
stabiliti i confini, avevano un diritto d'uso sia i Genuati che i Langensi, ma questi ultimi erano tenuti a
corrispondere all'erario genovese un tributo annuo.
Esisteva inoltre una porzione dell'agro pubblico, definito “ager compascuus”, destinato ad usi comuni (pascolo,
raccolta di legna) nel godimento del quale, oltre a Langensi e Genuati, a determinate condizioni erano ammesse
anche le altre comunità liguri della Val Polcevera (Odiati, Dectunini, Cavaturini e Mentovini). Infine, una
clausola della sentenza stabiliva il rilascio dei Langensi imprigionati a seguito della controversia.

Dominium ex iure quiritium

In diritto romano l'istituto del dominium ex iure Quiritium (letteralmente: dominio secondo il diritto dei
Quiriti) designava in origine l'appartenenza piena ed esclusiva di una res a un individuo, situazione
riconosciuta e tutelata dal risalente ius civile. È il più antico tipo di diritto di proprietà e veniva
riconosciuto solo ai cives, cioè ai cittadini romani ed era relativo, per quanto riguarda gli immobili, solo
ai fondi del suolo italico.
Caratteristiche essenziali del dominium ex iure Quiritium erano la illimitatezza, la imprescrittibilità e
l'elasticità.Tale diritto poteva essere acquisito a titolo originario o a titolo derivativo. A titolo originario
attraverso l'usucapio, la fruttificazione, gli incrementi apportati dai fiumi, l'accessione, la specificazione,
l'occupazione e la confusione. A titolo derivativo per mezzo della traditio, la in iure cessio e
la mancipatio.
Il suo diritto era tutelato da un'apposita actio in rem: la rei vindicatio.

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