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Avevamo visto ieri il percorso travagliato che porta al pareggiamento dei due ordini, questo porta

ad una tappa quasi completa (vi saranno altri due passaggi da esaminare) nel 367, con le Leges
Liciniae Sextiae, fatte da Licinio Octorione e Lucio Sesto Laterano, ossia i due consoli che vengono
nominati proprio nel 367.
Abbiamo visto anche le lotte interne che portano alla nomina, 2 volte, di un dittatore per sedare le
turbolenze, sempre nella persona di Marco Furio Camillo. L’ultima elezione viene annullata dagli
auguri per difetti procedurali e alla fine i plebei riescono a approvare queste Leges Liciniae Sextiae.
Quest’ultime rappresentano un altro colpo fortissimo (dopo il plebiscito claudoelio, le 12 Tavole e
le Leges regie) al monopolio pontificale del ius e al predominio dei patrizi dal punto di vista
costituzionale.
Queste legger prevedono 3 capita(=capitoli), come le Lex Valerio Horatiae: normalmente
l’articolazione è questa. I 3 capitoli rispondono, in maniera più o meno completa, all’istanze che la
plebe avanzava fin dal 494(=ano della prima secessione plebea).
Esaminiamo prima di tutto il primo capo: DE AERE ALIENO.
Aes era il bronzo, e di bronzo era la moneta. La moneta a roma viene introdotta molto tardi, intorno
alla metà del 4/3 secolo a.C. Queste non vanno neanche ad essere monete romane, ma di Siracusa,
perché Roma era una città tendenzialmente autarchica(=gli scambi erano spesso in natura). Però, le
poche cose che si vendevano alle origini, si vendevano scambiandole con pezzi prima di rame poi di
bronzo. Questi prezzi di bronzo, non coniato, erano chiamati aes rudae(=bronzo non lavorato), che
veniva pesato sulla bilancia fino alla concorrenza pattuita per un dato bene: non a caso il rito antico
della mancipatio era fatto con la bilancia. In un lato della bilancia veniva messo tanto metallo
quanto era pattuito, nell’altro veniva messo un simulacro della cosa oggetto di vendita(es. tegola
che rappresenta casa). Questo yes rude viene sostituito presto da lingotti di rame/bronzo, sui quali
veniva stampato un simbolo che ne garantiva più o meno il peso. La moneta antica era un peso a
valore reale e non nominale come le nostre: l’asse(=la vera moneta di esercizio nel commercio;
mentre il sesterzio era una moneta di conto), di bronzo che pesava 300 gr, aveva quindi un peso
intrinseco. Proprio per questo, le monete spesso venivano “grattate” per rubare una parte del
metallo, e alla fine queste monete che circolavano erano più o meno falsate. Per evitare questo, si
stampava sopra le monete un simbolo, che poteva essere una spiga o una lisca di pesce, per
simboleggiare il controllo pubblico su quel lingotto e testimoniarne l’autenticità.
Solo dopo si introducono le monete: la prima di queste è per l’appunto l’asse. Le pene delle 12
Tavole sono infatti già fissate in asse, il che significa un’ammodernamento della tradizione che
tradizionalmente vedeva queste pene fissate in buoi/pecore/animali, e solo dopo(4 secolo) vengono
ammoderniate, con una legger apposita(=Lex aternia tarpeia).
Quindi perché si fa riferimento all’aes? Perché era la moneta, il mezzo di scambio usato per
ottenere beni: l’aes alienum era la moneta altrui, ossia la moneta altrui che mi veniva data in prestito
e che io dovevo restituire. Quindi la locuzione(=aes alienum) finisce per diventare la locuzione
tecnica con la quale si indica il debito/mutuo, o meglio quelloche per i romani era il nexum: ossia il
mutuo garantito con l’auto-pignoramento/pignoramento di un proprio familiare per la restituzione
del prestito. Quindi il primo capo riguardava i mutui/debiti: corrispondeva a quella richiesta
primigenia dei plebei di tabulae novae, ossia di abolizione dei debiti. È evidente che se i plebei
chiedevano l’abolizione dei debiti, i patrizi rilanciavano, non ottemperavano alla richiesta. Quindi il
caput de aero alieno sanciva che gli interessi pagati si dovessero scomputare dal capitale.
Questo perché il mutuo romano era piuttosto complesso, in quanto tendenzialmente era un contratto
gratuito. Gli interessi erano eventualmente stipulati con un altro contratto separato(=stipulatio
usurarum), che era un negozio astratto(=non indica la causa): spesso gli interessi andavano quindi
ad eccedere i limiti legalmente fissa. Essendo la stipulato un negozio astratto, si limitava a dire
“prometti di darmi 100”, e quei 100 erano gli interessi, ma io non sapevo quale era il tasso che si
stava applicando. Il che significa che molto spesso il limiti ai tassi d’interesse erano violati,
prestandosi denaro ad interessi altissimi. Questo ci viene dimostrato anche dal reiterarsi delle leggi
fenebres, ossia delle leggi che tendono al limitare il tasso d’interesse: dal 5 secolo fino al 1a.c.
vengono ripetute leggi con le quali si fissa il tasso massimo degli interessi. Questo dimostra che il
tasso veniva violato, e che vi era bisogno di una nuova legge che ribadisse con pene più severe il
divieto di prestito. Le stesse 12 Tavole prevedono un tasso d’interesse che per noi è
spaventosamente alto. Questo è il c.d. fenus unciarum(=da qui il nostro termine mutuo feneratizio,
ossia mutuo ad interesse), il quale prevede il pagamento di un’uncia, ossia di 1/12 del capitale: se io
pago 1/12 di capitale ogni mese, al termine dell’anno ho pagato 12/12 del capitale. Il fenus
unciarum era quindi il limite massimo dell’interesse che era comunque del 100% annuo, il che vuol
dire che se non vi fosse stato il limite il prestito sarebbe stato ancora di più. Questo tasso d’interesse
era mostruosamente alto per i nostri canoni, in quanto la nostra economia è basata sulla moneta, ma
all’epoca della Roma antica questo era più ragionevole, in quanto l’economia era di tipo agricolo-
pastorale. Questo passaggio ad un’economia monetaria provocò un danno enorme per coloro che
prendevano in prestito soldi, ossia principalmente per i plebei. Per questo i plebei chiedono di
abolire gli interessi. I patrizi vengono a patti e acconsentono a che gli interessi pagati vadano ad
essere scomputati al capitale, e che il capitale residuo venga poi pagato in 3 rate. Questo non va ad
essere la stessa cosa delle tabulae novae, però è comunque un gesto di favore nei confronti dei
debitori plebei.

Passiamo adesso a trattare del secondo capo, quello più interessante, che è espressione di una
componente plebea molto diversa rispetto a quella che richiede le tabulae novae. Infatti il secondo
capo riguarda il fatto che un console possa/debba essere plebeo. La parte della plebe che chiede
l’accesso al consolato è una classe che, se si può dedicare alla vita politica, non ha problemi
d’indebitamento, o comunque non ce l’ha in condizioni così estreme come quelle della parte che
chiede l’abolizione dei debiti. Queste richieste vanno infatti a far emergere le due anime che
componevano la plebe: anima ricca(=accesso a massime cariche della vita politica) e anima
povera(=abolizione debiti). Queste componenti della plebe riescono ad ottenere che uno dei due
consoli sia plebeo: Gaio Licinio Stolone viene eletto al consolato. La norma non viene pienamente
rispettata, in quanto abbiamo a volte anni consolari in cui non ci sono consoli plebei. Dovremo poi
aspettare il 172 per avere una coppia consolare interamente plebea. Quindi probabilmente l’accesso
al consolato, come tutti i fenomeni di accordo politico, avviene in maniera magmatica e non netta.
Probabilmente è proprio un accordo politico e probabilmente solo più tardi del 342 si passa dalla
possibilità alla doverosità: probabilmente inizialmente il compromesso riguarda solo il fatto che il
fatto può diventare console, ma solo con la lex genuciae(342) si stabilisce che uno dei due deve
essere plebeo. Ma perché questo? Nella dinamica dei fenomeni socio-politici questo va ad essere
spiegabilissimo: data la possibilità, la plebe non ha subito la forza effettiva di far eleggere un suo
rappresentante e questo può essere dato da più motivi, mancanza di accordo interno/mancanza di
figura carismatica. A un certo punto, quando la plebe si accorge che questa possibilità rimane sulla
carta, la plebe richiede l’imposizione della doverosità. Si imposta la doverosità, e tutte le altre
cariche a cascata si aprono alla plebe, e si acquista poi pian piano il dominio completo della coppia
consolare(172). Questo va ad essere comunque un momento di passaggio fondamentale, in quanto
comunque i plebei vengono ammessi alla guida della res publica, dalla quale fino a quel momento
erano completamente esclusi: precedentemente questi facevano parte dell’esercito e partecipavano
alla difesa della res publica ma non potevano comandare, potendo solo essere comandati.

Il terzo capo riguarda la misura dei campi: de modo agrorum. Sostanzialmente riguardava i limiti al
possesso dell’ager publicus(=terreno che la res publica conquistava e che non distribuiva in
proprietà privata ma lasciava al libero godimento dei privati). Questa è una forma di appartenenza
che abbiamo perso, soprattutto con il subentro del codice francese(=impostazione individualistica),
del predominio modello della proprietà(=uso pieno ed esclusivo dei beni). Per i romani questo era
solo un luogo di indicare l’appartenenza, che significava la possibilità di utilizzare la cosa(=in
questo caso la terra), ma senza averne il diritto di proprietà, quale diritto assoluto. Questo ager
publicus era quindi un grosso sfogo che veniva dato alle genti e alle famiglie romane. La tradizione
ci dice che già Romolo avrebbe già dato il bina iugera in proprietà privata: ad ogni famiglia/pater,
Romolo avrebbe dato 5000 metri di terreno. Questi non sarebbero assolutamente sufficienti per il
mantenimento di una famiglia, quindi se non ci fosse stato questo ager publicus, nel quale tutti
potevano mandare a pascolare greggi/piantare alberi etc, le famiglie non sarebbero sopravvissute.
Dopo la conquista di Veio(396), inoltre, Roma venne interessata da un fenomeno. Veio è una città
etrusca a nord di Roma: oggi è completamente inglobata nella città ma al tempo era esterna a
questa. Veio era una “spina nel fianco per roma” e si riesce a conquistare la stessa solo dopo un
assedio decennale, questa era anche una delle città più ricche. Quando Roma conquista Veio,
ottiene il raddoppiamento della superficie di terreno occupato: diventa davvero la città più potente
della lega latina, in grado di imporsi sulle altre città. Questo terreno conquistato da Veio, terreno
fertilissimo della piana del nord del lazio, viene dato in libera occupazione ai cittadini. Questo
sistema, apparentemente virtuoso, non funziona perché di fatto di questo ager publicus se ne
appropriano i patrizi. Pur non avendo un diritto esclusivo, in quanto non vi è una proprietà, però di
fatto i plebei vengono esclusi dalla fruizione di questo ager publicus, che alimenta il latifondo che a
sua volta aumenta la ricchezza, in quanto era una società fondata sull’agricoltura. I plebei non
avevano quindi la forza di occupare così grandi estensioni di terreno. Si crea un circolo vizioso: più
ager publicus di ha e più si aveva la forza di occuparne, quindi chi ha l’ager diviene sempre più
ricco; mentre chi non ne ha non riesce a tenere il passo dovendosi indebitare e finire nelle mani
degli usurai. Quindi con il 3 capo(=de modo agrorum) si stabiliscono dei limiti all’ager publicus che
si poteva possedere. La questione agraria sarà uno dei motori delle rivoluzioni, a partire dai Gracchi
e fino a Giulio Cesare: il possesso della terra sarà una delle leve/ una delle doglianze più forti delle
classi meno abbienti. Questo poiché il possesso della terra era il fulcro intorno al quale ruotava la
ricchezza all’interno di una società agricola. Il capo 3 stabilisce quindi che nessuno può detenere
più di 1000 iugeri di terreno di ager publicus, in quanto il terreno acquisito privatamente non si
computava. Ai 1000 iugeri si potevano aggiungere 500 ulteriori però ogni figlio, ma se ne potevano
computare al massimo 2(=per un totale potenziale di 2000 iugeri). Questo era quindi il tetto
massimo di terreno che si poteva occupare di questo ager publicus. La proprietà dell’ager publicus
comunque rimane della res publica, i soggetti potevano solo occuparlo/fruirne; tuttavia chi aveva lo
sfruttamento lo trasferiva ai suoi figli, quindi di fatto è come se fosse un modello alternativo alla
proprietà.
I plebei pensano che limitando l’estensione del fondo di ager publicus assegnabile, sarebbero
riusciti a contenere la potenza/forza d’urto dei patrizi. Tuttavia non sarà così: per occupare l’ager
publicus ci vuole anche la forza di occuparlo, ossia ci vuole la forza lavoro che sia in grado di
tenerlo. Questa forza lavoro i plebei la avevano in misura molto minore rispetto ai grandi
latifondisti, ai quali non costava quindi fatica occupare questo terreno. Si stabilisce poi anche il
limite massimo di animali che si possono mandare a pascolare nell’ager publicus. Infatti anche
questo era un problema: se ne nei campi ci andavano solo le mandrie dei patrizi, le bestie dei plebei
non trovavano di che sfamarsi.
Con questo compromesso si cerca quindi di limitare la possibilità di occupare queste aree dell’ager
publicus.

Quindi i 3 capita delle Leges Liciniae Sextiae toccano i 3 problemi principali che costituivano
l’oggetto delle rivendicazioni plebee: problema dei debiti, dell’accesso al consolato e della
distribuzione dell’ager publicus.
Si vanno a porre dei paletti, che vanno a costituire il perno/fondamento della costituzione romana
repubblicana: il compromesso patrizio-plebeo costituisce il fondamento della costituzione romana
che reggerà fino alla fine della repubblica.
Queste leggi sono l’esito di una trattativa tra patrizi e plebei, in cui un po’ si cede un po’ si
ottiene/un po’ si vince un po’ si perde. I patrizi, in cambio della perdita su questi fronti, riescono a
segnare un punto a loro favore. Va tenuto presente che i patrizi capitolano su queste richieste perché
ormai erano punti in cui non si riusciva più a resistere alla pressione plebea: i plebei erano talmente
tanti che se loro non avessero ceduto in quel momento, avrebbero comunque ceduto a breve. I
patrizi pensano quindi di cedere su un punto in cui ormai la difesa era impossibile, ma almeno
portando a casa un qualche risultato: come in ogni trattativa si cerca di acquisire un bene rispetto al
male che si subisce. Qual’è il bene che portano a casa? L’istituzione di una nuova magistratura,
ossia quella del pretore urbano, creato nel 367 a.C.(=in prossimità dell’emanazione delle Leges
Liciniae Sextiae). Questa magistratura, quando viene fondata, viene riservata ai soli patrizi. Ecco
quindi la loro minimale vittoria.
Il pretore era un collega minore dei consoli, ma comunque dotato di imperium: era quindi
comunque un magistrato maggiore. Questo è alle origini un capo militare, al quale però viene
riservata una sfera di azione molto particolare, ossia quella della gestione dei processi. Quindi il
pretore deve “ius dicere”, ossia deve dire il diritto di fronte ad una controversia: quando gli si
presenta uno scontro tra due parti deve dire quale è il diritto applicabile a quel caso concreto. Egli lo
fa con una libertà tale per cui, se non trova la soluzione all’interno dello ius civile, la può creare:
può creare una soluzione che impone alle parti in forza del suo imperium(=potere pubblico che gli
viene riconosciuto). Questa soluzione è guidata dal faro che orienta sempre l’attività del pretore,
ossia l’equità (=equitas): il pretore deve cercare la soluzione più equa, perché un’applicazione rigida
dello ius civile può portare a soluzioni inique. Il pretore non abolisce lo ius civile, ma lo blocca di
fatto nel processo di cui lui ha la conduzione. È un organo di controllo, che cuce in maniera
adeguata il mondo della deontologia con quello dell’ontologia: è l’organo che tesse il tessuto che
lega la società con il diritto, attualizzando quel diritto. Il pretore va quindi ad adeguare alla realtà,
costantemente mutevole, il diritto che è presente: questo garantisce al diritto di essere sempre
attuale. Questo è un organo formidabile, in quanto era rapidissimo nel recepire le istanze che
venivano dalla società.
Era quindi una magistratura riservata inizialmente solo ai patrizi, in quanto i plebei verrano
ammessi solo una 50ina di anni dopo.
Il pretore, essendo guidato dall’equità, proteggeva comunque sia patrizi che plebei, ma inizialmente
poteva essere solo patrizio: i plebei si rilevano loro di essere i custodi dell’equità.
Dopo il 284 vedremo poi come i pontefici perderanno il potere. Sono però due mondi separati: da
un lato i pontefici che sono i custodi dello ius civile; dall’altro i pretori che sono i custodi dello ius
gentium, ossia di un sistema/ordinamento che creano loro, che non si applica ai soli cittadini romani
ma anche ad altri.
Venne riservata ai patrizi anche un’altra magistratura, sempre di ambito giudiziario, che è quella
degli edili curuli.
Gli edili curuli sono una “costola” degli edili plebei, quest’ultimi essendo dei magistrati plebei che
si occupavano del culto/ si occupano delle finanze plebee. A questi edili se ne affiancano altri due,
che sono gli edili patrizi(=carica riservata a patrizi). Perciò vi sono 2 edili plebei e 2 edili patrizi,
quest’ultimi detti curuli perché hanno una sella dalla quale amministrano la giustizia. Gli edili
hanno una competenza specifica per i mercati: hanno molte competenze ma quella giurisdizionale è
una competenza riservata, ossia il diritto dei mercati è di competenza esclusiva degli edili, in quanto
il pretore non può metterci bocca. I mercati erano un momento importante della vita romana, perché
erano quelli in cui si vendevano animali, prodotti esotici, schiavi, quest’ultimi erano la forza
lavoro/macchine del tempo(=il soggetto che producesse beni doveva dotarsi di schiavi: come i
nostri macchinari). Per questo la competenza sui mercati era importantissima, non a caso ad oggi
ancora vi sono delle azioni denominate edilizie(=azioni esperibili nel caso di compravendita-per
vizi), proprio in quanto inventate dagli edili: gli edili le inventano in quanto si avevano casi in cui il
bene oggetto di vendita fosse affetto da vizi, perciò erano problemi che ravvisava nel mercato.
Pretori urbani ed edili erano quindi inventati in questo momento e costruite come cariche riservate
ai patrizi, quasi come fossero premi di consolazione per la cessione di potere che avevano fatto
consentendo ai plebei di accedere al consolato.
Nel 242 al pretore urbano, che era incaricato di andare ad esercitare lo ius dicesse tra cittadini
romani, viene affiancato un pretore peregrino. Questo viene fatto poiché nel 242 a Roma arrivano
gli stranieri, in quanto Roma conquista il dominio sul mediterraneo, si comincia a commerciare.
Quindi vi è bisogno di un pretore che non tuteli solo i romani ma anche gli stranieri, nell’interesse
stesso dei romani: uno straniero che non venisse tutelato non sarebbe tornato a commerciare a
Roma, causando un danno anche ai romani che non potevano commerciare con l’estero.
Il pretore peregrino introduce lo ius gentium: un sistema di diritto sovranazionale, che ha creato una
serie di istituti che sono rivoluzionari/formidabili. Noi oggi diamo queste innovazioni per scontate,
ma non sono nate dall’oggi al domani, ma sono le risposte, ai problemi della società, formulate dai
pretori peregrini nella loro iurisdictio(es. pensiamo a compravendita consensuale).

Dopo le Leges Liciniae Sextiae la res publica ha ancora degli assestamenti perché le pressioni
plebee non terminano ma anzi aumentano. Infatti i numeri sono del tutto dalla parte dei plebei: i
plebei sono numericamente superiori ai patrizi, e più il tempo passa, più questo divario
aumenta(=patrizi diminuiscono e plebei incrementano nel numero). Per i plebei allora alcune cose
dovevano risultare poco digeribili, come ad esempio che le loro deliberazioni fossero riservate solo
ai plebei, o come che si dovesse dare tutto quel potere al senato che era di composizione
prevalentemente patrizia.
Per questo, nel 339 viene emanata una legge, che come al solito ha 3 capi, ossia la Lex Publilia
Philonis, emanata dal dittatore del tempo(=Publilio Filone). Questa legge da un altro scossone di
assestamento all’ordinamento costituzionale romano, che ha trovato il suo caposaldo nelle Leges
Liciniae Sextiae, nelle quali si stabilisce che i plebei finalmente accedono al consolato, però la
situazione va perfezionata con le altre conquiste che vengono pian piano fatte dai plebei.
Questa legge ha 3 capi:
1. De Plebiscitis. Si stabilisce che i plebisciti(=deliberazioni della plebe) non vincolino solo la
plebe ma vincolino tutto il popolo. Si stabilisce quindi l’equiparazione dei plebisctii alle leggi.
La notizia è incredibile, e le fonti attestano che una 50ina di anni dopo(=286), questa
equiparazione si sarebbe raggiunta solo con la Lex Hortensia. Quindi non riusciamo a spiegarci
come le fonti retrodatino questo alla Lex Publilia Philonis? Ci possiamo spiegare questo
fenomeno con il criterio dell’anticipazione storica: alcune famiglie nobiliari, per dar risalto e
maggior importanza ai loro esponenti, tendevano ad attribuire ai loro antenati l’emanazione di
una legge particolarmente importante. Si vanno così ad anticipare nel tempo conquiste che
verranno fatte in realtà in epoca successiva. Questo ce lo possiamo anche spiegare come una
cattiva lettura del capo sulla auctoritas patrum, che riguarda sempre il processo di emanazione
delle leggi. Poteva essere un capo legato all’auctoritas, ossia fatta l’auctoritas preventiva, questa
veniva estesa anche ai plebisciti(=anche i plebisciti vengano sottoposti ad auctoritas
preventiva). Quindi in qualche modo si tratterebbe in parte di quello già fatto in qualche modo
con le Lex Valerio Horatiae: concessione di un vaglio del senato sui plebisciti. Ma questo non
significa che leggi e plebisciti siano uguali, ma semplicemente che vi fosse un punto d’incontro
tra plebisciti e leggi nel fatto che entrambi subivano il controllo della classe dei senatori. Da qui
qualcuno, estremizzando e sfruttando la cosa a suo favore, avrebbe ricostruito questa
equiparazione tra leggi e plebisciti. Se il senato comunque si esprime su i plebisciti, vuol dire
che vi è un riconoscimento comunque del valore dell’atto: i plebisciti cominciano ad aver un
affaccio sulla costituzione perché il senato li ritiene “degni” della sua pronuncia, ma ciò non
comporta l’equiparazione alle leggi in senso formale. Ad ogni modo, dei 3 capi di questa legge,
quello sull’equiparazione tra plebiscita e leggi è quello meno credibile/attendibile. Se infatti
questo fosse vero, non ci spiegheremo perché le fonti ci dicono che con la Lex Hortensia vi sia
stata questa equiparazione. È evidente come si tratti un po’ di un’equiparazione tra due capitoli
diversi che dettavano norme simili; e un po’ di nobilitare con una retrodatazione un’evento
storico che invece ha il suo successo dopo.
2. Prevede la doverosità che uno dei censori fosse plebeo. Questo era un capo di estrema
importanza, perché il censore, ancorché non munito d’imperium(=sommo potere che avevano
consoli, dittatori e pretori), era probabilmente il magistrato romano più importante: lo dimostra
il fatto che il princeps senatus era un ex censore. Il censore aveva alcuni compiti fondamentali:
dalla possibilità della lectio senatus(=inflizione nota censoria), fino anche alla possibilità di
distribuire l’ager publicus(=ager censorius: una parte dell’ager era distribuito dal censore), ma
soprattutto il censore teneva il censimento. Il censimento era fondamentale per i romani, in
quanto il popolo veniva diviso a seconda della ricchezza, quindi essere inserito in una classe
censoria anziché in un’altra determinava la fetta di potere che una persona poteva/non poteva
avere. Più alta era la classe di ricchezza in cui ero inserito e più potere avevo nelle assemblee
pubbliche, e questa assegnazione la facevano i censori: il compito dei censori era quindi
fondamentale, forse anche più di quello dei consoli.
3. Riguarda l’auctoritas patrum. Questo era quella specie di avallo che il senato dava alle
elaborazioni popolari affinché divenissero leggi, essendo una solita di promulgazione.
Auctoritas viene dal verbo augeo, ed è la stessa auctoritas che troviamo nella tutela, ed è la
stessa auctoritas di cui si fregia augusto quando ottiene tutto il potere per se. Questa serve a
dare valore costituzionale alle deliberazioni del popolo: se il senato non pronuncia/non concede
l’auctoritas, la legge non ha efficacia/ non entra in vigore. Questo era un modo con cui il senato
manteneva nelle sue mani il controllo dell’attività legislativa: le leggi le faceva il popolo, ma il
senato aveva la possibilità di “cassare” la deliberazione del popolo qualora questa non li
piacesse. Il controllo dei patres non era un controllo di costituzionalità (=assimilabile al
controllo formale/esteriore del nostro Presidente della Repubblica). Infatti il controllo era di
tipo politico: se riteneva che una legge fosse politicamente inopportuna dato il momento, non
concedeva l’auctoritas. Il senato aveva quindi un enorme potere ed abbiamo tantissime
testimonianze nelle fonti di casi in cui questo potere è stato esercitato. Ad esempio quando
viene emanata la legge che prevede il dovere di pagare il 5% alla repubblica nel momento in cui
si fa una manomissione: i patrizi chiedono questa legge perché avevano paura che i plebei,
liberando troppi servi(=divenivano cittadini romani), accrescessero le loro schiere e acquisirono
un ulteriore accrescimento del loro potere numerico. Questa legge venne votata nella più totale
irregolarità: fuori dal camp marzio(=dove si votavano le leggi); su rogatio del console che ha in
quel momento l’imperium militare(=stavano andando in guerra); il popolo si presenta a votare
con le armi(=l’esercito non può votare con le armi). Ciononostante il senatus gli concede
l’auctoritas, poiché era una legge che era politicamente conveniente e portava anche soldi nelle
casse pubbliche. Il controllo era quindi assolutamente politico: il senato si manteneva la
possibilità di cassare una legge che non gli piaceva. Era quindi la vera arma intorno al quale
ruotavano le leggi: il magistrato doveva prima acquisire la promessa del senato a prestare
l’auctoritas, altrimenti l’attività deliberativa sarebbe stata assolutamente inutile; e comunque il
senato poteva in ogni momento cambiare idea e non concede l’auctoritas. Era quindi un potere
formidabile. Con la Lex Publilia Philonis si pone un passaggio fondamentale: l’auctoritas da
successiva diviene preventiva. Quindi il senato deve prestare la sua auctoritas prima della
votazione. La legge si fa con una rogato del magistrato che interroga il popolo, il quale risponde
si o no. Prima della rogato il senato dovrà dare la sua auctoritas: il senato deve quindi dare
l’auctoritas al progetto di legge che viene presentato al popolo per la votazione. Nella
discussione che porta alla votazione potrebbe essere però cambiata la
proposta/limata/modificata. Per questo il senato dovrebbe dare una sorta di delega in bianco
prima della votazione, non avendo più quel potere di cassazione che aveva precedentemente. Se
il senato non concedeva l’auctoritas allora la legge non veniva presentata. Con la Lex Publilia
Philonis l’auctoritas diventa preventiva e questo presenta quindi un forte indebolimento del
potere senatorio, è quindi dei patrizi, in quanto il senato in questo momento è ancora a
composizione prevalentemente patrizia. Siamo quindi ancora nel novero dei provvedimenti che
vanno a favore della plebe e contro il predominio dei patrizi.
Un’ulteriore punto di svolta si ebbe con la Lex Hortensia (286/287: le date sono sempre
approssimative). Gaio ci racconta che con la Lex Hortensia i plebisciti vengono equiparati alle
leggi, ossia hanno lo stesso valore vincolante di tutto il popolo che hanno le leggi. Come al solito, si
tratta probabilmente, di un riconoscimento di un valore che i plebisciti hanno acquisito sul campo:
probabilmente la costituzione romana recepisce una situazione che ormai era diffusa. Ossia si crede
che ormai i plebei erano talmente dominanti all’interno della città che di fatto imponevano le loro
deliberazioni non soltanto ai loro esponenti ma li imponevano a tutto il popolo. Quindi, il
riconoscimento con la Lex Hortensia, è sì una conquista per i plebei, ma una conquista di ciò che
avevano già acquisito sul campo, ossia come fosse una ratifica di quello che le forze in campo
avevano già riconosciuto. La plebe era ormai stabilmente entrata all’interno della costituzione
romana. Infatti, molte di quelle che noi chiamiamo leggi, anche prima della Lex Hortensia, erano in
realtà plebisciti. Anche se questi formalmente non vincolavano tutto il popolo, nei fatti la plebe
aveva la forza di assicurarne l’osservanza per tutto il popolo. In questo momento quella forza, che la
plebe imponeva con il suo numero e la sua potenza, viene riconosciuta dalla costituzione: la
costituzione riconosce che la plebe può vincolare tutto il popolo. Perciò, con il 286, il
pareggiamento dei due ordini è definitivo, anzi sarebbe rovesciato. Mentre siamo partiti da una
situazione di assoluta predominanza dei patrizi sui plebei, qui abbiamo i ruoli invertiti: quello che
decide la plebe vincola pure i patrizi, anche se questi non partecipano al voto all’interno dei
plebisciti. Questo perché ormai la contrapposizione tra patrizi e plebei non ha più ragione d’essere.
Ormai i plebei sono la stragrande maggioranza della popolazione, essendo la classe dominante dal
punto di vista numerico, ed ormai hanno conquistato pienamente l’accesso a tutte le magistrature,
occupando tutti i posti chiave all’interno della res publica.
Quindi il conflitto plebeo si scioglie/dissolve attraverso un’equiparazione che rappresenta in realtà
una vittoria piena dei plebei.

Nasce quindi una nuova contrapposizione, quella tra i nobili ed i non nobili: nasce una nuova classe
che è patrizio-plebea insieme. Questa va essere testimoniata dal nome patres-conscripti, che rivela
un’antica appartenenza a patrizi ed un’antica appartenenza a plebei. Dopo la Lex Hortensia sorge
una classe di nobili che derivano da quelle antiche gente di cui non si ha più memoria e che però
erano genti patrizie-plebei: erano classi elevate che appartenevano ormai ai due ordini che si sono
consolidate all’interno della res publica e che detengono il potere. Questa nobilitas si contrappone
alle nuove generazioni che sorgono al di fuori della nobilita stessa:
commercianti/avventurieri/militari che si affermano, grazie alle loro qualità individuali, al di fuori
dell’ordine della nobilitas.
Questi sono chiamati “cavalieri”, ossia gli equites, che non hanno nulla a che vedere con le centurie
di cavalieri che vedremo comporre l’esercito centuriato e che erano la parte scelta dell’esercito(=i
più selezionati tra i guerrieri formavano la cavalleria).
Questi “cavalieri” non sono invece i cavalieri centuriati ma sono “i nuovi ricchi”. Caio Mario, per
esempio, che si contrappone a Silla(=esponente della nobilitas), è un capo-popolo, ossia un uomo
nuovo(=homo novus: viene cosi chiamato con disprezzo), quindi un uomo che si è fatto da solo e
che non appartiene a quelle generazioni e famiglie di ricchi e di nobili che avevano dominato roma.
Silla invece va ad essere della lex Cornelia, ossia una delle genti più nobili di roma. Quindi si crea
questo conflitto tra ottimati/nobilitas e gli equitas, conflitto che domina la scena della res publica a
partire dal 3-2 secolo e fino all’avvento del principato.
Perciò, l’antica contrapposizione tra patrizi e plebei viene novata da un’altra contrapposizione che è
quella tra equites e nobili. In questa contesa nobili tendono ad escludere gli equites dalla
partecipazione alla vita publica, cosi come i patrizi tendevano ad escludere i plebei. La lotta è
proprio quella di una “nuova borghesia” che tenta di farsi spazio all’interno di una vecchia nobiltà:
sembrerebbe una sorta di Rivoluzione Francese all’interno dell’antica roma.
Prima di parlare del popolo, e quindi dell’organizzazione del comizio centuriato e delle modalità
con cui le leggi erano votate, dobbiamo spendere alcune parole su un aspetto molto importante della
vita romana, ossia su quello della religione.
La religione era strettamente compenetrata all’interno della vita giuridica romana. Vi ho già detto di
come vi era infatti una sostanziale corrispondenza tra ius(=prescrizioni laiche) e fas(=prescrizioni
religiose) nel periodo più antico: i fas dovevano essere osservati con uguale scrupolo rispetto allo
ius, perché altrimenti ciò avrebbe portato all’ira degli dei. Romolo uccide Remo perché ha violato il
dio Terminus, che prevede che non si può saltare nel solco una volta consacrato: Romolo ha dovuto
ucciderlo, perché altrimenti questo avrebbe provocato l’ira degli dei.
La religione romana è una religione molto più formale rispetto al cristianesimo, è una religione di
riti: pensiamo al fatto che per Aristotele gli dei si arrabbiano perché le nuvole impediscono che gli
arrivi il fumo dei sacrifici. Questo è un’emblema della religione romana, ossia vi è un’irrilevanza
della sfera interna se il sentimento religioso non viene esternato in riti/sacrifici. Se non viene
compiuto il rito/fatto il sacrificio nelle modalità imposte, allora gli dei si arrabbiano; se gli dei si
arrabbiano sono guai, in quanto non si può fare nulla senza la volontà favorevole degli dei.
È quindi una religione in cui i riti devono essere rispettati alla lettera: vanno rispettati così come son
previsti perché altrimenti le conseguenze sono tremende.
Quando i romani subiscono una sconfitta, vanno alla ricerca del colpevole. Nel vangelo vi sono dei
passi significativi anche per il diritto: quando uno dei farisei chiede a Gesù “quello è storpio. Chi ha
peccato il padre o la madre?”. Questo è consono alla mentalità romana, ossia se quello è storpio è
perché qualcuno ha fatto qualcosa che ha fatto arrabbiare gli dei. Gesù gli dice che non è così.
Quindi è una religione molto diversa rispetto a quello che siamo abituati noi: una religione
completamente compenetrata nel tessuto sociale e quindi nel tessuto giuridico. Perciò il diritto deve
rispettare i valori che la religione porta. Quindi troviamo la religione nelle leggi, nelle assemblee,
nelle dichiarazioni di guerra. C’e un parallelismo tra il rispetto dei riti religiosi ed riti laici: molti
degli aspetti della religione fanno parte del rito laico. Questo si vede ad esempio nel fatto che il
testamento calamitis comitiis va fatto di fronte al pontefice massimo: vi è il coinvolgimento in
questo caso dei sacra familiari, quindi è giusto che vi sia un’esponente della religione.
La società romana è completamente intessuta dei principi religiosi: è difficile separare,
specialmente nel periodo più arcaico, componente religiosa e laica.
Quali sono i sacerdoti in questa religione?
Uno di questi li conosciamo già, ossia il rex-sacrorum, figura poi estinta e spiantata dal pontefice.
Ma quando c’era questo era il capo assoluto dei sacerdoti. Era la parte religiosa del re: il re era
anche il sommo sacerdote di roma. Infatti Romolo acquisisce il diritto di fondare roma attraverso gli
auspicia(=guarda uccelli) che potevano essere fatti solo dai sacerdoti: Romolo, e tutti i re, sono re-
capi religiosi. Se il re andava in battaglia c’era bisogno di qualcuno che comandasse/ amministrasse
la giustizia/polizia in città, che poteva essere il magister popoli(=antenato del prefetto), così come vi
era bisogno di qualcuno che sovra-intendesse i riti religiosi. Ecco quindi che nasce il Rex-sacrorum,
che spoglia il re di alcuni poteri, che esercita prevalentemente quando il re non è in città. Il rex-
sacrorum è quindi un capo di tutti i collegi religiosi che sovra-intende al regolare perfezionamento
dei riti, perché il mancato perfezionamento del rito avrebbe comportato guai tremendi.
Uno dei collegi religiosi più antichi era quello dei pontefici. I romani hanno 4 collegi pontificali
maggiori, ossia:
1. I pontefici;
2. I flàmini;
3. Gli áuguri;
4. I feziali;
Sono tutti sacerdoti, ossia tutte persone dedicate al culto delle divinità. Questi erano i 4 collegi
maggiori. I pontefici sono i collegi religiosi di rango più elevato, forse solo i flàmini hanno
un’importanza paragonabile.
Per quanto riguarda i pontefici, secondo alcuni il nome rivela un’origine militare(=pontem facere);
secondo alcuni invece il ponte avrebbe una rilevanza trascendentale, ossia colui che getta un ponte
tra le divinità e la terra. Il nostro papa si chiama pontefice in quanto prende il nome proprio da
questo antico collegio sacerdotale, che era il collegio più elevato di roma.
I pontefici, tra le varie cariche/compiti che avevano, erano anche dei giuristi: vi ho parlato ieri della
loro interpretatio creativa. Ossia loro di fatto vanno a creare diritto, e lo creavano nella più assoluta
segretezza, essendo quindi i depositari assoluti del potere di creazione del diritto. Si parla di vera e
propria creazione in quanto introducono istituti che prima non c’erano e poi, attraverso la loro opera
di creazione del diritto, entravano a far parte dello ius civile. Questi utilizzavano un processo
ermeneutico i cui passaggi non venivano rivelati, ma erano segreti. Questo monopolio del ius da
parte dei pontefici era da loro gelosamente custodito. I pontefici erano solo patrizi, quindi questo
monopolio determinava un’arma formidabile nelle mani dei patrizi, con la quale loro detenevano il
controllo del diritto: la produzione del diritto era nei mores, ma erano proprio i pontefici ad indicare
il contenuto di questi mores. I pontefici, chiaramente, dicevano questo diritto non senza un margine
di arbitrio: se io non rivelo il modo in cui arrivo al diritto è chiaro che posso fare quello che voglio.
Questo monopolio pontificale dello ius viene spezzato da 2 fatti fondamentalmente:
1. Lex Ogulnia(300a.C.)= questa legge ammette i plebei al pontificato, ossia permette che un
plebeo possa diventare pontefice. Questo era inconcepibile prima e permette a che il plebeo,
divenuto pontefice, faccia parte del processo decisionale dello ius. Quindi, in tutte quelle tappe
che portano al pareggiamento degli ordine ed all’abbattimento del monopolio governativo da
parte dei patrizi, la lex Ogulnia è una tappa fondamentale. Questo perché si andranno ad
ammettere i plebei ad un organo che è sì religioso, ma anche politico;
2. Elezione del primo pontefice massimo plebeo(284 a.C.)= il collegio pontificale era presieduto
dal pontefice massimo(=diciamo il papa), questo era la massima autorita1 religiosa al tempo dei
romani, quando il Rex sacrorum di fatto viene ad estinguersi/viene soppiantato dal pontefice
massimo. Questa era una carica vitalizia: Giulio Cesare era pontefice massimo, Augusto lo sarà.
Questo Tiberio Coruncario, primo pontefice massimo plebeo, non solo era plebeo, ma farà
anche un’altra cosa incredibile: inizia a dare responsi pubblici. Publicae profiteri, ossia
chiunque va da Tiberio riceverà una risposta circa la consistenza del diritto. Questo va ad essere
una cosa rivoluzionaria, e per i patrizi significa la perdita di quel monopolio pontificale nel ius,
che era la loro arma più preziosa dal punto di vista giuridico. Quindi questo segna la fine
dell’importanza/predominanza del collegio dei pontefici dal punto di vista giuridico. Torneremo
poi più diffusamente sul punto per sottolineare l’importanza del passaggio.
I pontefici erano 4 alle origini ed eleggevano uno di loro come pontefice massimo, ed un altro come
rappresentante, ossia come colui che portava all’esterno le loro deliberazioni. I pontefici erano
quelli che decidevano il cavere, l’avere ed il rispondere, che erano le 3 attività proprio del giurista:
se io volevo un formulario per la compravendita dovevo andare dal giurista; se volevo una formula
processuale perché qualcuno non mi aveva pagato un bene, dovevo andare dal pontefice.
Con il passare del tempo, probabilmente già al tempo della Lex Ogulnia, i pontefici diventano 9, e
si stabilisce che 4 di loro devono essere plebei. Quindi, non solo i plebei entrano nel pontificato, ma
si raddoppiano il numero dei pontefici e si stabilisce che una parte di essi deve essere plebea.
I pontefici vengono scelti per cooptazione: quelli che sono in carica scelgono i nuovi membri.
Questo è un modo per il collegio di proteggersi, in quanto gli stessi pontefici potevano scegliere chi
volevano.
Questo sistema va a durare fino al 104 a.C, quando viene emanata la Lex Domitia, che attribuisce ai
comizi l’elezione dei pontefici, i quali non saranno più cooptati ma sono eletti. È quindi il popolo ad
eleggere i pontefici, e non il comizio centuriato(=comizio per eccellenza), ma i comizi tributi,
perché popolo viene diviso in 35 tribù e si riunisce per le incombenze minori. Per le elezioni dei
magistrati maggiori è competente il comizio centuriato, per quelle dei pontefici il comizio tributo.
Anzi alle elezioni collaborano solo 17 delle 35 tribù, estratte a sorte, quindi nemmeno tutto il
popolo. Perciò i pontefici sono eletti, sono quindi espressione della volontà popolare.
Domanda:
Quando i pontefici perdono il loro potere in realtà l’avevano già perso dalle 12 tavole?
Sono tutti colpi inferti al monopolio pontificale: è chiaro che le 12 Tavole sottraggono potere ai
pontefici, in quanto mettono per iscritto delle norme che prima loro dominano completamente. Ma è
evidente che la “botta” più forte con l’ingresso dei plebei al loro interno, nonché quando Tiberio
Coruncario, farà i responsi pubblici. I pontefici non avranno più la libertà come in passato di poter
determinare quello che è bene/male in materia arbitraria, essendo loro vincolati da quanto dice
Tiberio davanti a tutti. Chiunque potrà andare da Tiberio e capire da solo il meccanismo: a partire
dal 284 si passa quindi da una giurisprudenza religiosa ad una giurisprudenza laica. Si assiste quindi
all’affermarsi di una giurisprudenza laica che comincia ad affidarsi allo scritto, cosa che per i
pontefici era incomprensibile, in quanto la loro tradizione era solo orale. Quando io scrivo,
chiunque può leggermi.

Altro collegio sacerdotale erano i flàmini, che rivaleggiavano per importanza con i pontefici. Il
nome dei flamini(=flamen) viene probabilmente dal filo di lana, perché il collegio aveva un
cappello particolare con un filo di lana attaccato.
I flamini erano distinti in 3 collegi maggiori, e alcuni collegi minori, di cui ne conosciamo
12(=forse erano pure di più). I 3 collegi maggiori erano:
1. Flamen dialis= in onore di Giove;
2. Flamen marziale= in onore di Marte;
3. Flamen quirinale= in onore di Quirino;
In qualche modo questa tripartizione rispettava la triade del Campidoglio: Giove, Marte e
Giunone(=i conti non tornano però sempre).
I più importanti dei flamini maggiori era il flamen dialis, che aveva un’autorità altissima e
rivaleggiava per importanza con i pontefici. Però il livello più alto veniva comunemente attribuito ai
pontefici, tant’è che secondo alcune fonti i flamini erano scelti dai pontefici.
I flamini diali, ossia quelli consacrati a Giove e che avevano quindi il compito di curare il culto di
Giove, avevano un’autorità enorme nella città: erano rispettatissimi da tutti, ed anche sua moglie era
rispettata. Tuttavia questo aveva una serie estesa di limitazioni, alcune per noi quasi
incomprensibili: per esempio, doveva essere nato da nozze confarreate(=i genitori dovevano essersi
sposati con la confarreatio: rito particolare d’istituzione della manus); dove essere sposato e se la
moglie moriva lui cessava dalla carica; non poteva vedere l’esercito; non poteva vedere un
cadavere; doveva dormire su un letto fatto in un materiale particolare. Quindi aveva delle
limitazioni per noi di difficile comprensione e che però fanno il paio con l’ampio potere religiose
che gli veniva assegnato ed il grosso ruolo e rispetto che la sua carica rivestiva(=carica seconda solo
a quella del pontefice massimo).
I flamini minori sono consacrati a divinità minori, a proposito delle quali non sappiamo molto, così
come non sappiamo molto del ruolo di questi sacerdoti.

L’altro collegio era quello degli àuguri. Gli auguri erano sostanzialmente degli indovini, presenti in
tutte le culture italiche: ci sono negli umbri/nei sanniti etc. Ricorrono le figure di questi
vegenti/indovini che devono indovinare il futuro, ma si tratta di un futuro più lontano rispetto a
quello dell’auspicium, che può prendere anche il console, anche il magistrato dotato d’imperium.
L’augurium è una cosa che si valuta a più lunga scadenza.
Come operano gli auguri? Operano guardando le interiora degli animali; oppure guardando con il
volo degli uccelli(=Romolo può interpretare il volo degli uccelli proprio perché era un
sacerdote/augure); oppure guardando il modo in cui i polli mangiano.
Le previsioni degli auguri, seppur non giuridicamente vincolanti, vanno prese molto sul serio: il
magistrato se l’augure gli dice di non andare in guerra, lui poteva comunque andarci, però di fatto
non abbiamo nessuna testimonianza di un magistrato che non rispetti l’augurio negativo che gli
viene fatto.
Gli auguri che noi ci scambiamo per gli eventi/ricorrenze discendono proprio dall’attività che
veniva fatta dagli auguri.
Il potere degli auguri era enorme, e si poteva spingere fino all’interruzione di un’assemblea: se
qualcuno ad esempio veniva colto da un morbo improvviso e gli auguri interpretavano ciò come un
segno malevolo e bloccavano l’assemblea.
L’unica cosa che non potevano fare era disapplicare una legge approvata.
Gli auguri sono quelli che fanno distruggere la casa di Cicerone, da cui l’orazione de domo sua:
viene da lì, ossia gli auguri avevano fatto abbattere la casa a Cicerone perché interferiva con la
consultazione degli dei(=bloccava la visuale per vedere il volo uccelli). Questo per far capire
l’enorme potere che detengono: erano un collegio religioso di un’importanza fondamentale.

Importanti erano anche i feziali, che possiamo equiparare ai moderni ambasciatori. Erano infatti gli
ambasciatori del popolo romano, che però conoscevano i riti religiosi. Questo perché i riti religiosi
erano fondamentali nel momento in cui si decideva se stringere un rapporto di amicizia con un
popolo vicino, o dichiarare guerra ad un popolo vicino. Chiaramente non decidevano i feziali, ma
questi, sentito il senato, si incaricavano di rendere la volontà del senato confacente con la volontà
delle divinità. Ossia dovevano evitare che quella volontà venisse estrinsecata in modo non conforme
alla volontà degli dei. Quindi, quando i romani stringono un faedus con i Cartaginesi già nel 509
a.C, sono i feziali che vanno a stringere/redigere materialmente il trattato. I feziali sono presenti
anche in quei riti fondamentali che sono le dichiarazioni di guerra. Per i romani non si poteva
iniziare una guerra senza il rispetto del rito, sarebbe stata altrimenti una guerra ingiusta. Questo non
è inteso come moralmente giusto; ma giusto formalmente, ossia non dovevano urtare le divinità.
Andava perciò rispettato il rito per fare una dichiarazione di guerra, che era tutto competenza
esclusivo dei feziali.
Quale era questo rito? Bisognava andare dai nemici e proporli la pace, cercando di capire le
motivazioni del conflitto e cercando di venire a patti.
Se il popolo nemico non acconsentiva, allora si poteva fare la dichiarazione di guerra: il feriale
portava un asta/lancia; la verbena(=erba selvatica che cresce su Campidoglio); una selce; una pietra;
un maiale. Il rito consisteva: nell’uccisione del maiale; nell’intingere la lancia nel sangue del
maiale; nel gettare la lancia nel territorio nemico. Questo significava che la guerra era giusta. Se la
guerra non fosse stata giusta, il sangue del popolo romano sarebbe stato versato, come il feziale in
quel momento versava il sangue del maiale.
Se non si seguiva il rito, non si poteva andare in guerra.
Questo rito funzionava nel caso in cui si dovesse muovere una guerra con un popolo vicino; mentre
se la guerra era mossa con popoli lontani seguire questo rito sarebbe stato difficile. Allora viene
trovata un’escamotage: si era ritagliato un quadrato di terra al centro di roma e lo si era dichiarato
territorio nemico. Quindi quando si dichiarava terra ad un popolo lontano bastava andare in questo
“territorio nemico” ed eseguire il rito lì: in questo caso la guerra sarebbe stata giusta.
Per questo anche i feziali erano un collegio religioso importante, perché altrimenti non si poteva
dichiarare né la guerra né la pace.

Altro collegio importante erano le vestali: le uniche sacerdotesse donne. Questo ci da l’idea di
come, se per i romani la donna aveva una posizione subordinata dal punto di vista giuridico(=tutto il
potere è nelle mani del pater familias); questa condizione di subordinazione non vi è dal punto di
vista religioso. Le donne avevano infatti un loro collegio religioso, che aveva un’importanza pari a
quella dei pontefici(=massimo collegio religioso).
La vestale aveva il massimo rispetto da parte della cittadinanza, in quanto nessuno la poteva
toccare; aveva i suoi accompagnatori/attendenti. Ella doveva venerare la dea Vesta, ed aveva un
compito fondamentale, ossia quello della custodia del fuoco e doveva curare che il fuoco rimanesse
sempre acceso. La vestale che avesse fatto spegnere il fuoco sarebbe stata punita. La vestale sarebbe
stata punita anche qualora avesse violato il voto di castità: la vestale non poteva avere rapporti
sessuali con nessuno.
Le vestali in genere erano scelte bambine(dai 3/4/7 anni), ed esercitavano il loro magistero per 30
anni. Queste vivevano al centro del foro, dove c’era una fonte perenne di acqua, però isolate(=quasi
come suore di clausura): potevano uscire delle volte ma non potevano avere contatti con uomini. La
vestale che avesse compiuto incesto sarebbe stata murata/sepolta viva. Quando succedeva un evento
nefasto a roma, si pensava subito che fosse colpa della vestale: si andava a cercare quale vestale
avesse violato i suoi obblighi e quindi dovesse essere punita.
La vestale era una figura molto importante nella roma del tempo.

Infine vi erano poi dei collegi minori, di cui vi parlo brevemente.


Tra questi collegi minori vi erano i decemviri scarsi faciundis(=diversi dai decemviri legibus
scribundi): erano un collegio di 10 uomini, inizialmente probabilmente erano solo 3 e poi vennero
ampliati. Questi avevano un compito fondamentale, ossia la custodia dei libri sibillini. I libri
sibillini hanno una storia curiosa(=iniziamo la palla inutile del gossip). Si racconta che il buon
Tarquino Prisco ebbe un giorno la visita di una strega, che secondo qualcuno era la sibilla cumana;
secondo qualcuno era la sibilla dell’eritrea. Ad ogni modo, la sibilla gli fa vedere 9 libri che
contengono dei segreti, e li chiede se li vuole acquistare. La sibilla gli chiede però un prezzo
spropositato e quindi Tarquino rifiuta. La sibilla allora ne brucia 3, e li chiede se vuole i 6 restanti
libri ma allo stesso prezzo di prima. Tarquinio si rifiuta. La sibilla ne brucia altri 3 e gli chiede se
vuole gli ultimi 3 libri allo stesso prezzo dei 9. Il re li compra e questi libri vengono custoditi
religiosamente perché contengono la risposta a tutte le domande: quando i romani hanno dubbi su
un evento consultano i libri sibillini. Questi libri vengono custoditi nel luogo più segreto, e vengono
custoditi proprio da questi decemviri. Questi libri andarono distrutti probabilmente nell’incendio dei
Galli e poi ricostruiti, ma poi definitivamente distrutti nell’83, per questo a noi non ci sono
pervenuti e non sappiamo se effettivamente contenessero tutte le risposte. Però per i romani erano
uno strumento importante, e si avevano dei dubbi consultavano i libri sibillini.
Altri collegi importanti erano quelli degli epulones: questi organizzavano i banchetti sacri in
occasioni di feste, tra cui rientra anche nella del trionfo(=organizzano parte mangereccia di eventi).
Avevano poi i fratres arvales: erano collegi, forse divisi in 2 gruppi, e legati al culto della
terra(=arva è il raccolto). Questi veneravano quindi le divinità che proteggevano il raccolto
agricolo. Cosi come i luperci erano degli altri collegi iniziatici che prendevano il nome dalla lupa: la
lupa, che viene identificata come Acca Larenzia (=moglie del pastore Faustolo) che accoglie
Romolo e Remo. Lupa era il nome che i romani riservano alle prostitute: da qui il nome del
lupanare(=bordello). Questi luperci onorano queste festività, che di solito si celebrano al 15
gennaio: in concomitanza con il carnevale, ed infatti avevano il viso mascherato con della terra.

La 3 forza motrice della costituzione romana, accanto al senato ed a magistrati, è il popolo. Il


popolo è il vero depositario del potere: il popolo elegge i magistrati, vota le leggi, funziona da
tribunale(=emette le sentenze).
Il popolo ha quindi una funzione fondamentale all’interno del sistema repubblicano romano.
Il popolo si riunisce i almeno 3 forme:
1. Comizi curiati= Romolo divide la città in 30 curie, che sono le 3 tribù etniche(tizi, ramni e
luceri) ognuna delle quali dotata di 10 curie. Tutto il popolo e1 diviso in 30 curie, e vota per
curie. Ogni curia ha un curio massimo che la rappresenta, che esprime poi il voto della curia. Il
comizio curiato ha delle competenze fondamentali: vota la lex curiata de imperio, con cui,
secondo alcuni si conferisce l’imperium al re; secondo altri si riconosce l’imperium del re.
Anche quando ci saranno i consoli, quesi assumeranno il potere con una lex curiata: andranno
davanti alle curie per farsi riconoscere l’imperium. All’inizio questo comizio doveva essere
un’assemblea vociante: accompagna non organizzata in cui chi urlava più forte faceva sentire la
sua voce. Però questo comizio aveva comunque grande importanza: oltre alla lex curiata, si
faceva testamento e decideva sull’adrogatio. Questa assemblea manterrà la sua funzione anche
quando le curie di fatto tenderanno a scomparire: per cui non si convocheranno più le intere
curie, ma solo i 30 rappresentanti di ogni curia, chiamati vittori. Quindi le curie in età storica
non scompagliono, ma esprimono il loro voto attraverso i 30 Vittori. Le curie si riuniscono al
centro di roma dove c’è la curia, nel foro;
2. Comizio centuriato= è il Comitatus Maximus, cioè il comitato più importante che introduce
Servio Tullio. Questo inventa questo modo differente di riunirsi del popolo, anziché per curie
per centurie. La centuria era l’unità base dell’esercito romano, ulteriormente divisa in manipoli.
Il comizio centuriato è il modo più importante di riunirsi del popolo, che va dall’età monarchica
per tutta l’età repubblicana. Questo continua a rimanere formalmente anche durante l’impero,
seppure di fatto non viene più convocato. Il comizio centuriato non può riunirsi nel centro di
roma, perché il comizio centuriato costituisce allo stesso tempo i ranghi del popolo deliberante
ma anche dell’esercito: lo stesso popolo che si riunisce per votare le deliberazioni richieste, è lo
stesso popolo che va in guerra. Siccome nessun esercito armato può entrare a roma, il comizio
centuriato non può riunirsi nel foro dove invece si riuniva il comizio curiato. Il comico curiato
si riuniva nel campo marzio, che al tempo era al di fuori del pomerium, vicino all’ansa del
Tevere e dove erano anche allestiti degli attrezzi/palestre per gli esercizi ginnici dell’esercito.
Fino a quando Giulio Cesare non fa costruire dei recinti, dei septa, per facilitare le operazioni di
voto: delle specie di recinti dove passavano gli elettori e depositavano il voto nelle ceste. Prima,
quando il voto era orale, doveva anche questo essere un’accozzaglia dove il più forte/chi urlava
di più aveva ragione. Il popolo nel comizio centuriato vota per centuria: il popolo è diviso in 5
classi, che componevano 193 centurie;
3. Comizio tributo= questi erano basate su una divisione in tribù, ma non tribù etniche come
quelle di Romolo, ma tribù territoriali: roma, quando si ingrandisce, assegna una determinata
popolazione ad una tribù. A roma inizialmente ci sono 4 tribu, poi crescono di numero ed il
territorio circostante è diviso in altre tribù, ed il numero massimo a cui si arriverà sarà 35.
Anche al comizio tributo sono affidati compiti importanti: per esempio, i magistrati
minori(edili/questori), sono eletti in comizi tributi;

I compiti del comizio curiato sono essenzialmente tre:


1. Potere giudiziario= funzionava da organo giudicante quando il cittadino romano evocava lo
strumento fondamentale della provocatio ad populum. Infatti, quando cittadino romano veniva
accusato di un crimine, aveva il diritto di farsi giudicare dal popolo. Il popolo lo giudica in
maniera collegiale(=tutto il popolo riunito): questo rendeva complessa la gestione dei processi
penali, per cui ben presto si costituirono dei tribunali permanenti, detti quaestiones perpetue.
Questi sono tribunali permanenti che si istituiscono per alcuni crimini più gravi. Il verbo
quaero, tra i vari significati, comprende anche quello di avviare un’inchiesta;
2. Potere legislativo= il meccanismo con cui si facevano le leggi era completamente diverso al
tempo dei romani, in quanto noi abbiamo ceduto, grazie a Montesquieu, un potere che ci
appartiene: noi eleggiamo i nostri rappresentanti. I romani non delegavano il potere legislativo,
ma votavano essi stessi le leggi: votavano sulle grandi questioni/grandi linee d’indirizzo[su cui
noi siamo chiamati a votare solo in negativo(=referendum abrogativo)], che poi i magistrati, che
erano in potestate populi, dovevano applicare. Quindi il potere legislativo, completamente
disgiunto da quello esecutivo, era quello di dettare le linee d’indirizzo che erano in mano al
popolo e che poi i magistrati attuavano;
3. Potere elettorale= il popolo eleggeva i magistrati maggiori. Questo era lo stesso popolo che
andava in guerra, che faceva da giudice, che votava le leggi e che elegge consoli/pretori/censori.
I magistrati minori invece erano eletti dai comizi tributi;
Quindi triplice funzione, organo fondamentale della costituzione romana, il popolo, al quale
partecipavano solo i cittadini romani.

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