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La Giurisprudenza
Domanda da uno studente:
Prima della scuola istituita da Servio, c’erano altre scuole?
Fino a Quinto Mucio il sapere giuridico era tramandato in forma orale e soltanto a pochi iniziati,
cioè coloro che facevano parte di una ristretta cerchia e appartenevano a quel gruppo sociale di cui
era espressione il giurista. Lo scritto era ancora piuttosto raro; il primo di cui ci viene detto che si
circonda di auditores (→ ascoltatori di studenti) è Servio. Ognuno di loro era institutus da qualcuno
perché “si andava a bottega” imparando dai maestri che conoscevano il diritto.
Quella di Servio non era una scuola come le sectae sabiniane e proculiane, che dovevano essere
strutturate come ambienti di lavoro in cui si insegnava e si esercitava ma, certo da questo momento,
Pomponio ci dice chi si è preparato presso chi e come.
Nella lezione precedente avevamo visto lo ius respondendi, questa autorizzazione (una sorta di
“patente”) che veniva data ad alcuni giuristi, i quali potevano rispondere per bocca dell’Imperatore
→ i loro pareri erano vincolanti perché per loro bocca era come se parlasse l’Imperatore e, quindi,
quella stagione dello ius controversum comincia a declinare. La stessa creatività dei giuristi romani
esplode in questo periodo –cioè tra la fine della Repubblica e il I sec. dell’Impero– e abbiamo,
infatti, l’apogeo della giurisprudenza → periodo classico che si compone di un’ascesa di giuristi di
grandissimo livello e che propongono soluzioni innovative, molte delle quali vengono raccolte dai
pretori che le applicano; molti di questi giuristi sono anche pretori o propretori e applicano le
soluzioni che propugnano dal punto di vista pratico.
Con la fine del I sec. d.C. e l’inizio del II sec. d.C. inizia un periodo di discesa → i giuristi,
lentamente, non raggiungono più le vette di creatività raggiunte dai giuristi precedenti.
Subito dopo la fine delle scuole abbiamo il periodo degli Antonini → dalla morte di Adriano fino
ad Antonino Pio, in cui i due giuristi più eminenti sono Gaio e Pomponio (intorno al 150 d.C.).
Pomponio è autore di un commento all’Editto ed è autore del manuale liber singularis enchiridii.
Gaio:
Gaio è un giurista probabilmente di Tiro, in Asia Minore, lontano dalla capitale e probabilmente
era un maestro di scuola, un “attuale professore di liceo” potremmo dire e, quindi, aveva
l’insegnamento come sua missione principale. Era affascinato dai giuristi sabiniani e nelle sue
“Institutiones” troviamo difese le teorie sabiniane → dice “nostri praeceptores”; gli altri, i
proculiani, li chiamava “auctores adversae scholae”, cioè gli autori della scuola opposta.
Nelle opere di Gaio ci sono alcuni scivoloni che imbarazza lo stesso autore → sorvola quando
non sa rispondere sul punto. Riguardo la sua vita non sappiamo quasi nulla, ma è un autore di un
profilo di opera che oggi si usa ancora → le “Istituzioni”, tanto che ancora oggi è rimasto nel
titolo di alcune nostre discipline (istituzioni di diritto romano, istituzioni di diritto privato, ecc.)
ma non sappiamo se è stato Gaio l’inventore di questo topos letterario. Dal punto di vista
retorico, Quintiliano aveva già inventato il genus institutiones; probabilmente è lui che lo
trasporta nel mondo nel diritto e quindi forse prende un archetipo, un modello e lo diffonde.
Gaio è autore di un tipo di opera che viene poi preso a modello da altri giuristi successivi (→
Paolo, Ulpiano, Marciano, Fiorentino) che scriveranno anche loro istituzioni sul modello di
Gaio.
Un’opera di istituzioni scriverà Giustiniano, che dedica ai suoi studenti e affida a queste il
compito di abbattere la prima barriera nei confronti degli studenti → erano il testo che
introduceva gli studenti al mondo del diritto (→ si studiava il primo anno).
Il nome di Gaio già circolava ampiamente prima di Giustiniano (i “Tituli ex corpore Ulpiani”, la
“consultatio”, opere pregiustinianee che riportano frammenti di Gaio).
La caratteristica principale di Gaio è che non è mai menzionato dai giuristi contemporanei
→ nessun suo contemporaneo lo cita, mentre i giuristi contemporanei, normalmente, si citavano
spesso anche solo per contestarne il pensiero.
Il mistero sulla vita di Gaio si è spinto al punto tale che uno studioso inglese, ha addirittura
ipotizzato che Gaio e Pomponio fossero la stessa persona perché non c’è mai un riferimento a
Gaio come giurista dentro i testi conservati → teoria che però non ha ragione di esistere. Si è
parlato di un “rätsel” (si legge retzel), cioè del “rebus” di Gaio.
L’altro grande merito di Gaio che conosciamo è che la fortuna ha fatto sì che una sua opera
(Istituzioni) ci sia pervenuta quasi interamente per una fonte differente dal Corpus Iuris →
sono importanti non solo per il suo contenuto –che comunque ci fornisce informazioni
importantissime come quelle sul processo formulare, processo per legis actiones, che non
avremmo per alter fonti–, ma soprattutto perché non soffre dei vizi che ha la compilazione →
non può essere interpolato perché non è passato dalle mani di Giustiniano. È originale, ci offre
una testimonianza autentica del pensiero di un giurista del II sec. d.C.
Certo si parla di possibili glosse al testo di Gaio, ma che comunque non sono interpolazioni. Tali
testi venivano scritti a mano da persone che spesso non capivano nulla di diritto e, per diversi
motivi, è possibile che venissero inserite delle glosse, dei commenti che poi il giurista successivo
copiava e lo inseriva come parte integrante del testo. Quei problemi delle interpolazioni di cui
soffrono tutti i testi del Digesto, non sono presenti nel testo di Gaio.
Giuristi compilatori, Giulio Paolo e Domizio Ulpiano (fine II sec. d.C.–primi decenni III sec.
d.C.):
La generazione successiva chiude la giurisprudenza Severiana (→ della dinastia dei Severi, a
partire da Settimio Severo), sono giuristi compilatori → non danno un contributo originale di
innovazione sugli istituti che commentano ma si limitano a riferire il pensiero degli altri giuristi.
A volte lo fanno anche prendendo posizione (si trova spesso l’espressione puto → “ti racconto
come pensava questo, come pensava quello, io invece reputo che…” perché puto significa
“credo, ritengo”). Le soluzioni non hanno, però, quella forza innovatrice che avevano, invece, i
giuristi tardo repubblicana e poi della prima età imperiale.
La tipologia di opere che si diffondono in questo periodo sono i commentarii → non sono più
note, sentenze, libri di dispute che erano il fulcro della giurisprudenza creativa precedente, ma
sono commenti:
All’editto → non è il testo edittale (quello lo faceva il pretore affiggendolo nel foro o nella
località principale della provincia in cui il proconsole governatore si trovava a regnare). Sono
i commenti alle soluzioni che il pretore propone → non sono soluzioni che vengono suggerite
al pretore per innovare il diritto, ma recepiscono i movimenti, le soluzioni che il pretore dà e
le commentano (spesso con riferimento ad altri giuristi, che a loro volta avevano introdotto su
cui il pretore si sofferma o a loro volta avevano commentato);
A Quinto Mucio (ad Quintum Mucium) o a Sabino (ad Sabinum) → commenti di diritto
civile perché prendono a modello i Libri “Tres Iuris Civilis” di Masùrio Sabino (giurista della
scuola sabiniana) o i 18 libri di diritto civile di Quinto Mucio e, quindi, non si scrivono più
commenti di diritto civile ma commenti ad Quintum Mucium o ad Sabinum.
Questi grandi commentari occupano quasi i ¾ del Digesto → sono quelli ai quali i compilatori
giustinianei attingono per formare il testo del Digesto. Alcuni titoli, perciò, sono composti da
una lunga teoria di frammenti tratti dai commentari ad Sabinum, ad Quintum Mucium o
all’editto di Paolo, Ulpiano o Papiniano (il tutto frammentato, mettono un pezzo di uno, poi di
un altro, intersecandoli come puzzle).
Per noi riveste un’utilità straordinaria → essendo commentari riferiscono il pensiero dei
giuristi precedenti. Noi conosciamo i pensieri dei giuristi repubblicani e alto imperiali proprio
perché sono stati menzionati nei commenti dei giuristi di età severiana. Ulpiano, spesso,
riferisce le differenti posizioni dei vari giuristi o ci dice “questa soluzione, che per me è
giusta, io l’ho letta in…” e ci dice il giurista e l’opera da cui quella soluzione è stata attinta,
nonostante noi oggi non abbiamo più quell’opera.
Purtuttavia, questi testi non sono quelli che hanno scritto questi giuristi, ma quelli che ci sono
stati trasmessi da Giustiniano → non è escluso che questi abbia interpolato anche in questo
senso aggiungendo, modificano e tagliando. È però l’unica fonte per noi di conoscenza dei
giuristi più antichi.
Per esempio, dei libri di diritto civile di Quinto Mucio noi non abbiamo neanche un
frammento → ci è pervenuta solo una copia in greco del liber singularis ὄρων (→ delle cose
che si vedono), ma dei libri di diritto civile non abbiamo nulla. Possiamo ricostruire lo schema
dell’opera di Quinto Mucio tramite il commento di Pomponio “ad Quintum Mucium”;
abbiamo tante citazioni che ci dicono “tale soluzione era sostenuta da Quinto Mucio” e
quindi, grazie a questo, riusciamo a ricostruirne il pensiero.
Il primo di questi giuristi è Papiniano, i cui responsi sono spesso piuttosto complicati sia dal
punto di vista giuridico che espositivo (stile complesso, motivo per cui veniva chiamato
l’Obscurus → spesso le sue soluzioni sono complicate da capire). Già affrontato nella massa
papinianea, in cui si prende a modello la sua opera principale (→ le Questioni) e se ne fa una
massa.
Giulio Paolo e Domizio Ulpiano, che sono della generazione successiva (siamo intorno al
220 d.C.), sono due suoi allievi (di Papiniano) che non vanno d’accordo fra loro. Ulpiano è
l’allievo di cui il maggior numero di frammenti è riportato nel Digesto, seguito subito a ruota
da Paolo. Questi due giuristi forniscono la maggior parte del materiale per il Digesto.
L’ultimo giurista di questa onda è Modestino, l’ultimo giurista classico. Vive sotto
Alessandro Severo ed è quello con il quale, per una convenzione, facciamo terminare la fase
della giurisprudenza classica.
È questa la fase di decadenza → dopo Modestino l’attività giuridica in Occidente decade
totalmente. Si diffondono sìllogi, compendi, riassunti; questo significa che i giuristi non erano in
grado di elaborare opere del calibro dei giuristi precedenti. Spesso, troviamo confusi i concetti
→ confondono possesso e proprietà perché l’Italia, a partire dal III, ma soprattutto dal IV sec.
d.C. è oggetto di una decadenza socioeconomica; è oggetto di invasione da parte dei barbari e
quindi il diritto come “arte dello spirito” recede.
In Oriente la situazione è un filo migliore. Probabilmente, il livello di decadenza è minore → il
diritto mantiene un livello più alto e ce lo dimostra, per esempio, la cancelleria di Diocleziano
(il quale abdica nel 305 d.C., quindi ci troviamo tra la fine del III e i principi del IV sec.). Tale
cancelleria è una cancelleria di livello e lo sappiamo perché nel Codice di Giustiniano sono
conservate diverse Costituzioni di Diocleziano (→ le costituzioni avevano una inscriptio che ci
permette di sapere chi l’ha emanata) che sono di buon livello. Ciò dimostra che c’era una classe
di giuristi che capiva i problemi mentre, in Occidente, il corrispettivo non c’era.
L’altro grande periodo di fioritura è quello di Giustiniano, perché l’opera che realizza non si
sarebbe mai potuta realizzare se Giustiniano non avesse avuto a sua disposizione una classe di
giuristi (primo fra tutti Triboniano, suo quaestor sacri palatii) che era in grado di capire i problemi
(→ bisognava conoscere i problemi per sapere come comandare).I professori e l’elaborazione del
Codice Teodosiano aveva dimostrato che c’era qualcuno che sapeva mettere mano sui testi giuridici
e, evidentemente, una fioritura comunque in questo periodo c’era.
Un passaggio importante è una legge emanata nel 426 d.C. che si inserisce proprio in questo
movimento descritto finora (→ periodo di decadenza). Questa legge, la legge delle citazioni (noi la
chiamiamo così ma i romani non la chiamavano affatto così) e ci è pervenuta grazie al Codice
Teodosiano.
Legge delle citazioni
Problema per cui la legge viene emanata → i testi dei giuristi si tramandavano per iscritto;
quindi, venivano ricopiati e spesso i commenti finivano dentro il testo. Facciamo conto che un
giurista scrive un’opera e l’affida alla posterità. Quest’opera viene ricopiata, cade nelle mani di
un altro e dice “qui è sbagliato” e corregge. Il copista inserisce il commento dell’altro dentro il
testo come se fosse il pensiero del primo. Il risultato era che, spesso, davanti al giudice (le opere
valevano in tribunale, quindi si portavano davanti ai giudici) si presentavano due copie della
stessa opera dello stesso giurista, dove una sosteneva la versione contraria dell’altra, creandosi
così un caos totale in un periodo di decadenza in cui non era presente la sensibilità per capire
dove si trovasse la frattura.
Si comincia perciò con Costantino, intorno il 320 d.C., con il vietare l’uso di alcune opere che
erano state annotate (in particolar modo quelle di Giuliano1, ritenuto al tempo il massimo
giurista che avesse espresso). Si vietano le note alle opere di Giuliano e di Paolo, perché a quel
punto non si capiva più qual era il testo originale e quale la nota perché le versioni risultavano
contrastanti. A questo problema intende ovviare la legge delle citazioni che stabilisce, nel 426,
che in tribunale si possono usare solo le opere di 5 giuristi (4 dell’età severiana, Papiniano,
Paolo, Ulpiano e Modestino; più Gaio). Per questo motivo, in tribunale:
Se si era creato un dissenso tra i cinque giuristi e, per esempio, due si esprimevano per la
soluzione A e uno per la B, il giudice doveva seguire il parere della maggioranza; in caso di
parità prevaleva l’opinione di Papiniano (tra i 5 era giudicato prevalente Papiniano, ma solo
in caso di parità).
Se su una questione non era stato espresso il parere di nessuno di questi 5, il giudice era
libero di scegliere la soluzione che più gli piacesse;
Se si era espresso sul punto uno dei 5 giuristi, il giudice era vincolato a seguire quella
soluzione e, nel caso in cui entrambe le parti avessero portato un giurista della legge delle
citazioni, in quel caso avrebbe scelto la soluzione che più lo avrebbe convinto.
Non c’era una gerarchia tra i diversi autori, solo quella di Papiniano nel caso di parità.
Nel testo della legge troviamo altresì scritto che valgono i pareri dei giuristi precedenti,
purché siano riportati da uno dei 5 giuristi della legge delle citazioni → Quinto Mucio può
essere allegato solo se viene difeso in un testo dei cinque.
1
Il Digesto contiene un indice con tutti gli autori e le opere trattate → “ Indice fiorentino” e si chiama così
perché è premesso alla littera fiorentina. In questo indice i giuristi (le cui opere sono citate nel Digesto) sono
elencati in un ordine cronologico e questo ordine viene rotto solo per Giuliano che viene messo all’inizio →
il primo giurista che si menziona fuori dall’ordine cronologico è Giuliano, come a dire che egli, modificatore
dell’editto, era un giurista di particolare importanza riconosciutagli anche da Giustiniano.
Questa novità pare che sia contenuta nel testo recepito da Teodosio II (→ imperatore della parte
orientale) che innova sul punto rispetto alla Costituzione di Valentiniano (→ imperatore della parte
occidentale).
Valentiniano (non è sicuro, ma è un’interpretazione che ha dalla sua la ragionevolezza) introduce
la legge delle citazioni in maniera ferrea → valgono solo i 5 giuristi.
Teodosio II, nel recepire, addolcisce → valgono non solo i 5, ma anche le opere di tutti i giuristi
che sono stati menzionati, purché menzionati dai cinque.
La differenza è che nella pars occidentis c’era un periodo di decadenza e, quindi, si cerca di
risolvere il problema alla radice facendo valere solo i cinque giuristi; nella parte orientale dove la
cultura giuridica era un filo più raffinata, si riusciva ad andare a guardare anche opere precedenti e
questo creava meno problemi perché si aveva una sensibilità giuridica maggiore.
Domanda studente riguardo quale fosse l’estensione delle Costituzioni. In linea di principio, ogni
imperatore legiferava per la sua parte; quando poi queste Costituzioni vengono raccolte nel Codice,
prima Teodosiano e poi Giustinianeo, valgono per tutto l’Impero (quello di Giustiniano,
tendenzialmente, addirittura per tutti gli uomini presenti e futuri).
Qual è il senso di questa legge che, come ha detto qualcuno, istituisce un “tribunale di morti” (→
perché sottopone a delle persone che non c’erano più la validità del diritto attuale)?
Ci troviamo agli antipodi di quella funzione del giurista, vista all’inizio, che serviva a rendere
attuale il diritto. Ci troviamo con 5 persone che hanno espresso le loro opinioni 300 anni prima e il
loro parere è considerato vincolante → tutto ciò è espressione del periodo di decadenza, in cui il
diritto non è in grado da solo di elaborare soluzioni innovative, corrette, adeguate alla realtà e
quindi ha bisogno di riferirsi ad un’autorità esterna che viene vista in questi giuristi vissuti secoli
prima.
Pomponio
Pomponio scrive liber singularis enchiridii (il cd. ἐγχειρίδιον dal greco “manuale”).
Nell’indice fiorentino c’è scritto “Libri Duo”, ma noi nel Digesto non lo troviamo; quindi, forse i
giustinianei avevano un esemplare da cui non hanno attinto, o hanno attinto da un altro
esemplare, quando hanno ritagliato i frammenti.
Questo manuale è per noi la fonte d’informazione principale per la prosopografia dei giuristi →
ci spiega quando sono vissuti, che opere hanno scritto, qual era il loro pensiero, chi erano i loro
allievi se c’erano (→ fa una mini-cronistoria fino ai suoi tempi – 150 d.C. – di Paolo, Ulpiano,
Marcello e gli altri vissuti dopo, Pomponio non ci dice niente).
In questo enchiridion (frammento più lungo del Digesto diviso in 70 paragrafi) che si divide in
tre parti:
1. Fonti del diritto →
2. Magistrature →
3. Successione dei giuristi → Pomponio ci dice che il diritto non esiste di per sé → è un artificio
creato dall’uomo per l’uomo. Lui dice:
Pomponio, in particolare, ci parla del ruolo dei giuristi, dicendo a cosa servono.
Inoltre, egli dice che il diritto, di per sé, non esiste → è un artificio creato dall’uomo per l’uomo
e non sta in piedi da solo, dice:
“Il diritto non può star saldo (constare e usa tale verbo proprio perché non sussiste da solo, non
ha una sua vita indipendente) se non vi è un qualsiasi giurista (aliquis iuris peritus) attraverso
cui, giorno dopo giorno (cottidie), possa venir condotto innanzi, verso il meglio (in melius
produci)” D.1,2,2,13
Lo devo migliorare perché il diritto è dinamico, non statico; è chiaro che la norma scandisca un
momento, lo fotografa, ma non rimane fermo il diritto a quella fotografia → va adeguato ogni
giorno alla realtà che viviamo e chi ha il compito di fare questa “cucitura” del mondo del dover
essere rispetto al mondo dell’essere, dell’ontologia rispetto alla deontologia? Il giurista.
Il giurista ha questo compito, prendere la norma e vedere se è adeguata alla realtà; se non lo è la
deve modificare, interpretare e cercare l’adeguamento e lo deve fare tutti i giorni, in ogni
momento.
I problemi cominciano quando le norme non le fanno i giuristi e così, il suo compito è reso più
difficile.
Avendo questo compito i giuristi, per questo motivo erano fonte di produzione del diritto, perché
producevano soluzioni che creavano diritto anche se interpretato.
Si trattava di giuristi molto diversi dal modello di giurista che abbiamo noi → partecipavano
attivamente alla vita pubblica. Dagli anni ‘50 in poi abbiamo assistito ad un ritiro delle classi
colte dalla vita pubblica, a Roma invece non era così → si dovevano rivestire cariche pubbliche
partecipando attivamente alla vita pubblica.
Il diritto romano era un diritto controverso, uno ius controversum. C’erano due modelli:
Modello della certezza del diritto → abbiamo bisogno di un diritto certo che dà la sicurezza
all’avvocato di dire “è così”, ma è un diritto che si presume immutabile e non è adeguato alle
esigenze della sua età;
Modello dello ius controversum → un diritto che modella sulla discussione e controversialità e
perciò consente un continuo adeguamento e rimescolamento, fino a trovare la soluzione che in
quel momento è il punto di equilibrio giusto per il caso esaminato.
Tiberio Gracco era figlio di un plebeo e una patrizia, Cornelia figlia di Scipione l’Africano.
Era nobile da parte di madre ma, essendo comunque figlio di un plebeo, fa la carriera plebea.
Cornelia ebbe 12 figli, ma morirono tutti in tenera età tranne tre (Tiberio, Gaio e Sempronia) e, alla
morte dell’ultimo dei due fratelli Gracchi, si ritirò a Miseno probabilmente con la figlia che, in ogni
caso, morì anch’ella prima della mamma. È una donna di cui ci viene raccontata la sua integrità
morale → si rifiuta di sposarsi dopo la morte del marito; si racconta che fosse stata chiesta in sposa
dal re d’Egitto Tolomeo VIII Evergete.
Aneddoto → un’amica di Cornelia una volta la incontra per strada senza gioielli né trucco e le
chiede dove si recasse senza i suoi gioielli. Cornelia risponde che, invece, ha con sé i suoi gioielli
dicendo che sono i suoi figli e, quando i figli muoiono, racconta di loro in terza persona
raccontando gli episodi con distacco, come se stesse raccontando episodi che riguardavano altre
persone.
3
Limite nel nostro giudizio da esterni perché, se valutiamo quello che lui fa, era quello che lui poteva fare
per evitare una disgregazione totale del suo movimento; per dare la possibilità alle riforme di essere
approvate.
Questo viene visto come fumo negli occhi dalla nobilitas → pensano che Tiberio voglia sottrarre
il tesoro, delle ricchezze, che spettano al popolo romano. Il disegno di Tiberio era, però, ben
pensato e lungimirante; addirittura stabilisce che coloro che avessero avuto in assegnazione
questi terreni, non li avrebbero potuti vendere → stabilisce l’inalienabilità dei fondi assegnati in
compensazione. Perché questo? Perché aveva visto il fenomeno per cui qualcuno, pur vedendosi
assegnato il terreno, veniva poi costretto a venderlo perché non aveva la forza di coltivarlo e si
indebitava sempre di più e l’unico modo per uscire dalla spirale dei debiti è venderlo.
Così, Tiberio impedisce di venderlo perché altrimenti l’operazione di equilibrio che si attua
sarebbe vanificata nel giro di pochi anni.
La legge della destituzione del collega (lex sempronia de magistratu Marci Octavii abrogando)
viene approvata e, poi, si ripresenta nel tribunato anche nell’anno successivo. Tuttavia, quell’atto,
dal punto di vista giuridico-istituzionale, è illegale (→ il tribuno è inviolabile) ma, se lo valutiamo
nel contesto delle lotte politiche del tempo, è un atto che lui fa.
Non c’era nessuno divieto costituzionale che gli impediva la ricandidatura per il tribunato.
Se mettiamo insieme tutti questi elementi, l’accusa di voler detenere il potere in maniera autoritaria
e illimitata ci può stare → mette il suocero, vuole distribuire i soldi; è un atto demagogico che
consiste nell’ingraziarsi il popolo. La nobilitas lo accusa di adfectatio regni che era impensabile, in
questo momento, che si ricostituisse il regno. L’accusa era quella di voler concentrare tutti i poteri
nelle mani di uno solo per instaurare un regime che oggi qualificheremmo dittatoriale o autocratico.
Al momento in cui presenta la sua candidatura, la nobilitas si mobilita. Sorgono dei comitati di
opposizione e c’è grosso fermento di cui Tiberio si accorge. Nel giorno in cui si devono tenere le
elezioni fa una riunione con la sua cerchia e dice “se mi trovo in pericolo –perché ha il sentore che
lo possono assalire– mi porto le mani al capo; quando mi porto le mani al capo è il segnale che sono
in pericolo di vita e dovete venirmi a difendere”.
La nobilitas si agita e vuole bloccare la rielezione di Tiberio che sta scompaginando le loro certezze
e chiedono l’emanazione di un provvedimento → il senato consulto ultimo. Questo era il modo in
cui, da un certo punto in poi, il senato escogita per risolvere le crisi. Fino la II Guerra Punica, il
modo per risolvere le crisi era la nomina di un dittatore. Dal 216 a.C. in avanti, dopo l’ultimo
dittatore nominato, si ha il senato consulto ultimo in cui si invitano i consoli a fare tutto quello che
possono per la salvezza della Repubblica; è un invito formale, non è un ampliamento del potere dei
consoli ma si chiede loro di adoperarsi in maniera straordinaria. Era semplicemente un allarme,
che da questo momento si comincia ad associare ad un altro provvedimento → la dichiarazione di
qualcuno come nemico della repubblica (→ hostis rei publicae). Si dice “la Repubblica è in
pericolo, i consoli facciano tutto quello che vogliono; dichiaro che Tizio è nemico pubblico”.
Quindi, i nobili chiedono l’emanazione di questo senato consulto ultimo che metta Tiberio fuori
dalla comunità.
Noi non sappiamo, in realtà, se il senato consulto fu emanato o meno (persino i manuali hanno
opinioni discordanti sull’argomento). Secondo il professore non fu emanato e, anche se fosse stato
emanato, è certo che il console Publio Mucio si rifiuta di dargli esecuzione per quella coerenza di
cui parlavamo prima (lo abbiamo descritto come uomo integerrimo). Sarebbe stato il primo caso di
lotta civile dentro la città, una lotta di cittadini contro altri cittadini ed è per questo che si rifiuta di
darvi esecuzione.
Per questo motivo, le redini della questione vengono prese dal Pontefice Massimo, cugino di
Tiberio e anche lui esponente della gens Cornelia → Publio Cornelio Scipione Nasìca. Qualcuno
dice che invoca un rito religioso, l’evocatio4; egli era comunque un sacerdote, per cui –si dice– fa il
rito dell’evocatio e invoca le divinità chiedendo loro di non appoggiare più Tiberio ma sé stesso.
Quello che è certo è che muove una schiera di armati verso il concilio che sta provvedendo
all’elezione di Tiberio. Quest’ultimo, quando li vede arrivare armati di coltelli, spade e bastoni, fa il
gesto di portarsi le mani al capo; solo che, tale gesto, venne interpretato come un “si sta mettendo la
corona” e perciò avevano pensato che volesse farsi incoronare in quel momento. A quel punto, si
scatena una zuffa gigante in cui Tiberio viene colpito a morte dal cugino, fatto a pezzi e poi gettato
nel Tevere. È il primo caso, dopo le sedizioni di Spurio Melio e le prime rivolte plebee, in cui scorre
il sangue dei cittadini; dove i cittadini si combattono e uccidono a vicenda.
Con la morte violenta di Tiberio (ucciso insieme a tutti i suoi amici perché, subito dopo, ci fu una
vera e propria caccia al graccano dove vengono cacciati di casa in casa e vengono assediate e
distrutte le case dei sostenitori di Tiberio) si volle distruggere l’immagine e con sé anche il
messaggio che questi portava, per far capire che chiunque lo avesse voluto, difendere avrebbe visto
perdere tutto. Non solo; con la morte di Tiberio cessa il primo tentativo di democratizzazione della
città di Roma.
Subito dopo la sua morte, si cominciano a distruggere tutti i provvedimenti che aveva emanato.
Un primo provvedimento è una presunta legge che va sotto il nome di legge per l’abrogazione della
lex sempronia → lex de lege sempronia agraria abroganda (129 a.C.) di Scipione Emiliano.
È una presunta legge che avrebbe abrogato la lex sempronia che avevano istituito i triumviri con
quei limiti. È presunta perché non è affatto certo che tale legge venga votata; fu più probabile che si
svuotò il triumvirato, mettendo al posto degli amici e parenti di Tiberio, degli esponenti della
nobiltà consolare. Questa non temeva tanto i limiti della lex, ma le confische. Se io metto qualcuno
nella commissione che mi è amico, non ci sono problemi perché le confische vengono limitate e la
questione si impantana di per sé perché non c’è bisogno di un atto formale abrogativo come una
legge.
Certo è che l’eredità di Tiberio Gracco venne raccolta dal fratello Caio (o Gaio) Gracco.
È la madre stessa ad incentivare il figlio rimasto, Caio, oltre il fatto che Caio aveva già di per sé
un’adorazione totale del fratello e, perciò, fu spinto da uno spirito di emulazione.
Si dice che Tiberio fosse stato più idealista (abbia avuto in mente principi di uguaglianza che voleva
applicare nel concreto), mentre Caio fosse più pratico e più aderente alla realtà. I tentativi di riforma
di Gaio sono più organici e di livello più alto rispetto a quelli che aveva provato a fare Tiberio,
anche grazie all’esperienza di osservatore.
Quindi, propone una nuova lex agraria appena viene eletto tribuno nel 123 a.C. (viene eletto pure
l’anno dopo e si candida anche una terza volta ma non ce la fa e lavora dall’esterno) che noi
chiamiamo generalmente lex agraria ma è un insieme di provvedimenti che, però, riguardano una
serie ampia di questioni tutte a danno della nobilitas e a favore dei contadini.
Non sappiamo se è una sola legge che va sotto questo nome, se sono più leggi o più capitoli di
questa legge. Abbiamo il testo epigrafico (ritrovata su una tavola di bronzo) di una lex agraria del
111 a.C. che non è certamente questa del 123 a.C. ma dalla quale riusciamo a ricavare degli squarci
della legislazione di quel periodo; riusciamo a ricostruire perché la legge del 111 a.C. abolisce
alcune parti della precedente e le riporta → solo così sappiamo il suo contenuto.
4
Rito che si compiva davanti alla città nemica quando si stava per conquistare. Si invocavano le divinità di
uscire fuori per proteggere il popolo romano. Quando si assedia Veio, il dittatore che assedia Veio, invoca le
divinità chiedendole di uscire fuori e lo stesso fa Scipione l’Africano davanti a Cartagine. Si invocano le
divinità per chiedere loro di non appoggiare più il popolo nemico ma i romani.
Una prima serie di disposizioni va sotto il nome di lex frumentaria → forse una legge a parte,
forse un capitolo e introduce le frumentationes. Queste sono la vendita di grano a Roma a prezzo
calmierato; si stabilisce un tetto per la vendita del grano. Perché? Per favorire le classi più povere.
C’era stata la crisi in Sicilia; il grano faticava ad arrivare e costava sempre di più; ne risultavano
svantaggiati i più poveri e per questo motivo vennero introdotte le frumentationes → distribuzioni a
prezzo calmierato, che sono un’arma demagogica.
Fu un’arma demagogica perché incentivava la gente a non lavorare poiché, comunque, il grano lo si
comprava a basso costo o veniva addirittura regalato → si crea una disaffezione verso il lavoro.
Nelle frumentationes, molti storici vedono l’inizio della decadenza della Repubblica romana perché
si abitua il popolo ad ottenere delle cose senza più faticare e senza più impegnarsi attivamente in
quella vita politico economica che era, invece, stata l’ossatura del popolo romano.
Anche Caio Gracco, come Tiberio, aveva un tribuno che gli si opponeva → Marco Livio Druso, il
quale prova a scavalcarlo proponendo una politica ancora più demagogica. Se Caio propone il
prezzo del grano calmierato di tot sesterzi, Druso propone una legge in cui il grano va gratis
innestando però un meccanismo che non può reggere.
Altre proposte –riforme– di Gracco sono quelle più invise alla classe senatoria:
Una riguarda il rafforzamento della provocatio5 → arma che era aggirata molto spesso dal
Senato negli ultimi anni con due meccanismi per superare la garanzia dei cittadini:
a) Da un lato emanando il senatus cunsultum ultimum; il senato quando voleva condannare
qualcuno, emanava il SC ultimum;
b) Dall’altro, l’istituzione di speciali quaestiones → speciali tribunali che dovevano giudicare
su crimini individuali come la corruzione, il beneficio, l’assassinio ecc. era un limite alla
provocatio perché a giudicare non sarebbe stato il popolo tutto ma solo un tribunale
composto da senatori.
Per questo motivo, Caio vuole estendere la provocatio anche contro questi ultimi crimini e
togliere ai senatori il privilegio di essere l’unica classe a costituire giuria in questi processi. C’era
un blocco di 300 persone, senatori o ex senatori appartenenti alla nobilitas, dai quali si
sceglievano gli appartenenti alle giurie. Caio propone di affiancare loro 300 cavalieri → il blocco
dal quale si scelgono i giurati sono, quindi, 300 nobili (della classe senatoria) e 300 cavalieri.
Secondo qualcuno, avrebbe fatto una cosa ancora più eversiva → avrebbe composto la giuria
solo di cavalieri. Questo sarebbe stato davvero intollerante per i senatori, che si sarebbero
ritrovati alla mercè degli equites;
Una riforma che fece crollare tutta l’impalcatura ma che fu la più lungimirante di Caio Gracco
→ estendere la cittadinanza, o quanto meno un grado di questa, a tutti i soci italici. La
cittadinanza romana era gelosamente custodita dai romani; inizialmente venne concessa agli
schiavi liberati e ad alcune comunità, ma quando crebbe troppo questa comunità venne chiusa
questa concessione segnando il confine tra i romani e i peregrini. Al massimo, viene riconosciuto
uno status intermedio tra romani e peregrini che è quello della latinità → riconoscevano che gli
abitanti del Lazio avevano qualche familiarità con i romani e perciò riconoscevano loro questo
status intermedio della latinità (→ lo ius latii).
Questi latini sono i cd. Latini Prisci6 che, rispetto agli stranieri peregrini, avevano dei privilegi:
5
Arma di difesa contro i cittadini per cui chiedevano di essere giudicati dal popolo romano.
6
I Latini Prisci sono appartenenti alle antiche comunità che si insediavano nel Lazio; facevano parte
dell’antica Lega Latina → Albalonga, Velletri, Frascati, Pomezia, Cori, Ariccia, etc. Si chiamavano Prisci
perché erano i più antichi, successivamente si affiancheranno anche i latini coloniari e iuniani, che sono gli
schiavi
Lo ius connubii → e quindi c’era il paradosso che non tutti i cittadini tra loro avevano lo ius
connubi, ma i latini prisci con i romani sì;
Lo ius suffragii → se si trovavano a Roma il giorno della votazione, potevano votare nelle
tribù urbane (che non contavano fondamentalmente poi molto, ma potevano farlo);
Alcuni, avevano lo ius migrandi → il diritto di trasferire la loro residenza a Roma;
Lo ius commercii → che non è il diritto di commerciare ma il diritto di partecipare agli atti
(per aes et libram) riservati ai soli cittadini romani; gli atti più arcaici come la mancipatio o
il nexum che erano atti di ius civile.
Qual è il disegno di Caio?
Dare a tutti i soci italici la latinità per fare capire loro che sono inseriti nella koiné culturale
romana.
Questi soci italici erano quelli che erano stati maggiormente colpiti dagli esiti post annibalici →
avevano mandato contingenti all’esercito, visto le loro terre devastate, motivo per cui Caio
decide di riconoscere loro la latinità.
Fu lungimirante perché il problema dei soci italici esplode qualche anno dopo con Silla e con il
bellum sociale perché gli italici rivendicano ciò che 50 anni prima Caio voleva concedere loro.
Questo provvedimento aliena, però, completamente anche le simpatie degli equites perché questi
vedevano ridotto il loro potere economico nelle province → se si dava eccessiva importanza ai
provinciali (permettendo loro di entrare nella comunità romana concedendo la latinità),
avrebbero visto ridotto il loro potere su queste popolazioni che, in qualche modo, erano invece
soggiogate alla romanità.
Questo è il provvedimento che scontenta tutti meno che i soci e i contadini, ai quali non
interessava poi neanche troppo perché non arrecava vantaggi ma neanche svantaggi.
Lo strumento che la nobilitas adotta è quello di acquisire le simpatie di un altro tribuno, il quale
continua ad opporgli insistentemente l’intercessio. Anche qui, si impedisce che le riforme
proposte da Caio (sia in prima persona che attraverso i suoi controllati quando non viene più
eletto) siano approvate.
Si crea uno Stato di tensione in cui lo stesso Caio Gracco pensa anche lui di armarsi per evitare
di fare la fine del fratello → perciò viene visto un pericolo nella sua persona perché si era armato
e girava per la città con bande armate.
Per questo motivo, la Res publica emana il senato consulto ultimo e proclama Caio Gracco
hostis rei publicae; affida ai consoli il compito di fare tutto il necessario per la salvezza della
repubblica e l’invito viene accolto dal console in carica, Opimio che raccoglie una banda di
armati, assale dentro la città Caio Gracco che si rifugia sull’Aventino7.
Anche il secondo grande tentativo di risistemazione della questione agraria e di sciogliere la
tensione che c’era fra le due grandi fazioni della nobiltà, finisce nel sangue.
Con la morte di Caio Gracco le riforme che egli aveva proposto piano piano vengono smantellate
pezzo pezzo → la nobilitas riacquista quegli spazi che i popolari avevano faticosamente costruito:
7
C’è un racconto in cui si narra che salta di casa in casa per scappare dall’assedio che gli fanno e alla fine,
circondato, si fa uccidere da un servo; secondo un altro racconto il servo lo abbraccia talmente forte che
devono ammazzare Caio trapassando il servo durante l’abbraccio.
Nota: su internet c’è scritto Aventino in diverse fonti ma il professore, probabilmente sbagliandosi, ha detto
Campidoglio.
Viene abolito il triumvirato → i triumviri continuarono ad operare per un periodo ma, di fatto,
erano paralizzati perché non si riusciva a trovare i documenti che attestavano lo stato di questioni
da modificare; sia come sia, ad un certo punto, viene abolito e non se ne parla più;
Viene abolito il divieto di alienazione dei fondi, che era quello che garantiva l’effettività a
lungo termine della riforma graccana perché garantiva che questi terreni, che venivano assegnati
ai più umili, costoro se li potevano tenere senza essere costretti a rivenderli (altrimenti tutto il
senso politico economico dell’operazione sarebbe stato posto nel nulla);
Viene abolito il vectigal8 → molti dei terreni che erano stati dati in ager publicus vengono
convertiti in proprietà privata.
I latifondisti si ritrovano con questa ulteriore garanzia → non solo i terreni non vengono loro
tolti; non solo il triumvirato viene abolito ma, addirittura, acquistano la proprietà piena di quei
terreni di cui, fino a quel momento, avevano solo lo sfruttamento.
Annientato tutto il sistema graccano, prima di Tiberio e poi di Caio, si assiste alla nascita di un
Homo Novus9, un personaggio che non appartiene alla nobilitas ma è “homo novus” → Gaio
Mario.
Gaio Mario è originario di Arpino e non appartiene ai ceti della nobilitas; si era arricchito tramite
le proprie forze.
Si fece eleggere console diverse volte e trovò il suo momento di gloria in un episodio che avviene
in Numidia (odierna Algeria) → in Numidia il re Micipsa 10 muore e lascia eredi tre figli: Aderbàle,
Iepsàle e Giugurta.
I tre fratelli si odiavano così fortemente che Giugurta uccise i suoi due fratelli; rimane come unico
detentore del potere e regna sulla Numidia. Tale regno non dava fastidio ai romani, né tantomeno
agli equites (che preferivano mantenere la pace per i loro affari), solo che Giugurta compie un passo
falso → per uccidere i fratelli, assedia la città di Cirta, una città del nord Africa dove c’era un
contingente di cavalieri romani per svolgere commerci. Presa la città, Giugurta ha come idea quella
di fare una strage e uccidere tutti gli equites sul luogo (→ massacro di Cirta, 112 a.C.).
A quel punto, la nobilitas romana ritiene di dover vendicare i concittadini massacrati ingiustamente
a Cirta e, perciò, manda un proconsole, Gaio Memmio, a combattere Giugurta per vendicare i
caduti.
8
Il vectigal era la tassa minima che i detentori di ager publicus pagavano. Questi ultimi pagavano una tassa
simbolica di pochi denari. Una tassa simbolica che serviva per ricordare al possessore che non era il
proprietario → il proprietario era la res publica romana a cui il possessore doveva pagare il vectigal e scandiva in
modo netto, dal punto di vista giuridico, i due piani.
9
Homo novus era qualcuno che, incominciando da zero e seguendo un cursus honorum, si faceva strada con
l’aiuto di un mentore per arrivare alle cariche dello Stato e quindi assumere potere. Egli era praticamente un
uomo che si era formato da solo nel proprio campo, dato che prima di lui nessuno dei suoi antenati aveva
intrapreso il suo stesso cammino.
In particolare, Mario era un homo novus, cioè proveniente da una famiglia italica che non faceva parte della
nobiltà romana, e seppe distinguersi e giungere alla ribalta della vita pubblica di Roma per merito della
propria competenza militare.
10
Il prof aveva detto Massinissa ma Massinissa è il padre di Micipsa (i fratelli di questo sono Gulussa e
Mastanable). Inoltre, dice che i figli di Massinissa (che in realtà sono di Micipsa) sono tre → Aderbale,
Iepsale e Giugurta. In verità, Giugurta non è figlio di Micipsa ma di Mastanable ed è dunque nipote di
Micipsa e non figlio → essendo però figlio non riconosciuto da Mastanable viene adottato dallo zio Micipsa
e i suoi “fratelli” Aderbale e Iepsale, in realtà sono cugini.
Tuttavia, Gaio Memmio partecipa controvoglia e la guerra si trascina per un certo numero di anni
ma senza nessun evento decisivo. Questo finché non viene nominato console Caio Mario, il quale
verrà inviato al posto di Gaio Memmio.
Non risolve subito la questione; impiega ben due anni e si crea l’ostilità dell’altro console, Quinto
Cecilio Metello, il quale voleva per sé gli onori della conduzione della guerra. Certo è che Mario
sbaraglia i soldati di Giugurta; lo cattura, lo uccide e torna, infine, a Roma celebrando il suo trionfo.
Instaura poi un potere personale → si fa rieleggere console diverse volte consecutive violando la
costituzione romana che, per quanto fosse non formale e non scritta, prevedeva dei capisaldi come
l’obbligo di far passare due anni tra una magistratura e l’altra e dieci anni nel caso in cui si voglia
ricoprire la stessa magistratura.
Mario introduce una riforma dell’esercito → introduce un esercito di militari di professione.
Arruola persone che non hanno un lavoro (fino ad ora era composto di cittadini) creando così una
professione; crea un esercito di mercenari, persone pagate per svolgere il loro lavoro.
Questo, insieme alle frumentationes, è uno degli indici che determinano il crollo della Repubblica
romana. Perché questo?
Perché finché l’esercito è stato un esercito di cittadini, i cittadini combattevano per difendere la loro
terra ed avevano perciò un legame stretto con la res publica di cui erano parte integrante. Non erano
semplici membri dello Stato → erano lo Stato.
In questo modo, invece, diventano dei soldati del generale, che il generale paga e a questo sono
devoti, motivo per cui hanno una fedeltà incondizionata non alla res publica ma al loro generale.
Instaurano un rapporto di fedeltà con il loro capo militare che trascende il rapporto di fedeltà che
sentono per la Repubblica. Quindi, ogni generale ha il suo esercito, le sue legioni che sono loro
fedeli. Si crea questo meccanismo perverso che porta allo stacco dei cittadini dal rango
dell’esercito.
Mario fu un generale di primo ordine → si fa eleggere 4 volte come console per condurre la guerra
contro i Cimbri e i Tèutoni. Queste erano popolazioni dello Jutland (odierna Danimarca) che
premevano scendendo verso il sud e Gaio Mario le sconfigge due volte nel nord Italia presso
Vercelli (in Piemonte) nella battaglia di Aquae Sextiae (102 a.C.).
Va ricordato che i romani avevano il terrore dei Galli (i Teutoni si trovavano in quel momento nella
Gallia Narbonense) dopo il dies alliensis11 del 18 luglio 390 a.C.; quindi, quando questi popoli del
nord cominciano ad avvicinarsi e scendere nel territorio italiano sconfiggendo i liguri (che
segnavano per così dire il confine per i romani) a Roma si diffonde un terrore sacro e per questo
nominano console Gaio Mario. Teoricamente avrebbero potuto eleggerlo proconsole conferendogli
un imperium che gli avrebbe comportato la possibilità di essere alla guida delle legioni per andare a
combattere contro quegli eserciti, ma non lo fanno perché vogliono che lui non abbia nessuno al di
sopra di sé e quindi deve fare di tutto per distruggere l’armata dei Cimbri e dei Teutoni.
Sconfitti i Cimbri e i Teutoni, Mario torna a Roma da dominatore assoluto; è stato console quattro
volte, ha il controllo totale dell’esercito, solo che si imbarca in un’amicizia con due personaggi
loschi → Lucio Apuleio Saturnino (tribuno) e Gaio Servilio Glaucia (pretore).
Nelle loro cariche, questi due, inizialmente appoggiati da Mario.
Sono due demagoghi; fanno provvedimenti che fanno approvare una serie di leggi, le quali
finiscono di demolire le riforme graccane.
Il problema principale era quello di ricompensare i veterani che tornavano dalla guerra, perciò
fanno approvare delle leggi che stabiliscono l’assegnazione di terre ai soldati che tornavano dalla
guerra. Riformano nuovamente le giurie che devono decidere sulla sorte degli accusati; prendono
Nel 390 a.C. l’esercito romano venne vergognosamente sconfitto dai Galli Senoni guidati da Brenno, che
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