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FONDAMENTI DEL DIRITTO EUROPEO

(corso tenuto da M.P. Pavese nel II semestre 2021)

Libri di testo ed eventuali materiali di lettura per gli studenti frequentanti

M. P. PAVESE, Scire leges est verba tenere, Torino 2013.

Sulla piattaforma "Aulaweb" saranno resi disponibili i seguenti materiali:

a) testo, nell'originale latino e in traduzione italiana, delle fonti antiche commentate a lezione;

b) testo di alcune sentenze della Suprema Corte di Cassazione che fanno riferimento a nozioni di diritto romano nella
motivazione della decisione.

Si consiglia inoltre la seguente lettura:

M. BRUTTI, Interpretare i contratti. La tradizione, le regole, Torino 2017, limitatamente alle pp. XI-XIV e 1-102.
Libri di testo ed eventuali materiali di lettura per gli studenti non frequentanti
M. P. PAVESE, Scire leges est verba tenere, Torino 2013.
M. BRUTTI, Interpretare i contratti. La tradizione, le regole, Torino 2017, limitatamente alle pp. XI-XIV e 1-102.
M. BIANCHINI, Temi e tecniche della legislazione tardoimperiale, Torino, 2008, limitatamente ai saggi nn. 2, 6, 9, 10,
12, 13, 22, 23, 24, 26
Sulla piattaforma "Aulaweb" è resa disponibile la traduzione italiana dei principali testi esaminati nel primo e nel terzo
dei volumi indicati.

PRESENTAZIONE

La ricerca sui fondamenti del diritto europeo assume un ruolo essenziale per l'esperienza giuridica contemporanea.
Rilevante risulta in primo luogo la riflessione sul metodo del giurista: la confezione e l'interpretazione dei testi normativi
e negoziali traggono insostituibile insegnamento anche dall'attività scientifica dei giuristi romani. Allo stesso modo, la
conoscenza degli aspetti comuni ai vari ordinamenti privatistici europei non può che riferirsi alla comune matrice
romanistica.
OBIETTIVI E CONTENUTI

OBIETTIVI FORMATIVI

La ricerca sui fondamenti del diritto europeo ha naturale riguardo all’ambito privatistico: essa muove dal convincimento
che deve potersi costituire, com’era fino alla vigilia delle codificazioni moderne, una scienza giuridica europea con
principi e metodologia comuni. A questo fine appare indispensabile risalire alle radici lontane degli ordinamenti giuridici
ora vigenti: alla elaborazione dei giuristi romani, alla legislazione tardoimperiale e poi alla successiva tradizione
romanistica. La ripresa e l’approfondimento di alcuni argomenti di diritto processuale e sostanziale attraverso la
riflessione degli antichi maestri di diritto, diacronicamente riproposta e analizzata, costituisce l’orizzonte tematico
dell’insegnamento.

OBIETTIVI FORMATIVI (DETTAGLIO) E RISULTATI DI APPRENDIMENTO

L'insegnamento è rivolto a fornire due essenziali competenze particolari:

a) saper comprendere il regime di volta in volta dettato per i moderni istituti giuridici anche alla luce della loro
formazione nell'ambito dell'esperienza giuridica romana;

b) saper condurre l'interpretazione dei testi giuridici in modo da cogliere il mutevole rapporto fra l'aspetto linguistico-
letterale della loro formulazione, i correlati orientamenti culturali e i diversi interessi riconducibili al contesto di
riferimento. Gli esempi utilizzati saranno tratti dalle fonti giurisprudenziali romane.

PREREQUISITI
Conoscenza a livello manualistico degli istituti di diritto pubblico e privato di Roma antica.

Attenzione al confronto fra istituti giuridici antichi e moderni.

Superamento dell'esame di "Istituzioni di diritto romano" (previsto come propedeutico anche sul piano regolamentare)

MODALITÀ DIDATTICHE

Lezioni frontali prevalentemente dedicate alla lettura e all'interpretazione, in traduzione, di fonti giurisprudenziali
romane.

PROGRAMMA/CONTENUTO

Modulo interno 1
Usi linguistici e problemi interpretativi nelle fonti del diritto romano relative ai testi autoritativi e rapporti obbligatori.

Modulo interno 2
La responsabilità da inadempimento e da illecito extracontrattuale fra situazioni giuridiche soggettive ed esercizio di
attività economiche
LEZIONE 1 (16.2.2021)

Introduzione generale ai contenuti del corso.

Tutti gli ordinamenti privatistici di civil law e in buona parte di common law e le
istituzioni di carattere pubblicistico trovano il loro fondamento nell'esperienza
giuridica romana. Metodologia per risalire alle origini dei loro istituti. Il metodo del
giurista ordierno si richiama a quello dei giuristi antichi. La scienza del diritto ha un
ambiente di nascita e fondazione ben preciso: l'esperienza giuridica romana. Fisica
moderna, biologia, chimica hanno origine come scienza con Galileo nel 1600:
quanto al diritto, ha origine ben prima, lì, nella tarda repubblica; ciò si può ben
capire leggendo i frammenti del digesto. Come metodo, interpretazione, capacità di
rapportare la regola giuridica alla società cui si riferisce.

L'insegnamento verte su due argomenti principali:

I – L'interpretazione del diritto nell'esperienza giuridica romana

II- Responsabilità negoziale ed extra-negoziale, origini nell'esperienza giuridica


romana e caratteristiche ancor oggi utilizzate sul piano logico giuridico.

Vedremo, inoltre, il rapporto che lega "antichi e moderni" tramite sentenze della
Corte di Cassazione, che riferiscono al diritto romano.

Interpretazione del diritto nell'esperienza giuridica romana.

C'è un significato della parola interpretatio1 che permane uguale per tutta
l'esperienza giuridica romana; un altro che muta nel tempo seguendo le fasi dell'
esperienza costituzionale romana: 1) interpretatio iuris (età tardo repubblicana), 2)
interpretatio legis (età imperiale-Principato), 3) interpretatio legum (età del
Dominato, da Domiziano-Costantino fino a Giustiniano).

1 Secondo Gian Gualberto Archi (1908-1997, maestro del maestro di Pavese), studiandone il significato, ha osservato
diversi significati legati alla parola di cui si rende conto nel testo.
Dell'interpretatio come "tractatio" (significato perenne)

Quanto al significato che non cambia: dispensa testo Digesto 1.2.2.5-6

Leggiamo in dispensa I, n. 2

Gai III.54. Fin Qui è stato sufficiente trattare l’intera


materia in modo tendenzialmente sommario.
Un’interpretazione più dettagliata è esposta in
commentari specifici. [lex Papia]

n.5:

Una strana opera (collatio) in cui l'anonimo giurista ha tratto dei precetti di diritto
ebraico e dei precetti di diritto romano (!). Ci restituisce frammenti del De adulteris
di Paolo, II-III secolo d.C.

Coll. 4.2.1, Paulus de adulteris. Al momento di


comporre una breve opera interpretativa della legge
Giulia sulla punizione degli adùlteri ho preferito
seguire gli stessi capitoli e l’ordine della legge
medesima.

n.6 Digesto, 36° libro (di 50), titolo I, frammento 1 (i più lunghi sono stati
paragrafati, il primo si chiama "principio", il secondo "1").

D.36.1.1pr., Ulpianus 3 fideic. Ultimata la trattazione


relativa al fedecommesso di cose singole, passiamo ora
all’interpretazione del senatoconsulto Trebelliano.

-> In questa accezione che permane, interpretatio assume il costante significato


di trattazione.

Dedicarsi all'interpretazione, secondo i giuristi, significa pertanto fare una


trattazione del diritto, senza la cui attività interpretativa il diritto non
esisterebbe.

I filosofi del diritto distinguono, infatti, fra disposizione e norma. Disposizione è la frase in senso
linguistico; la norma è il suo significato. Del primo si evoca la pluralità di significati; in ambito
giuridico si deve decidere, attraverso l'interpretazione, ciò che di quei significati costituisce la
regola, ovvero la norma.
L'interpretazione non è dunque uno stare davanti al diritto come sovrastante e predeterminato.
Dell'interpretatio iuris, o creativa di diritto

La sostanza dell'attività del giurista si riconosce nella fase della interpretaio


iuris. Leggiamo allora il frammento centrale, al riguardo, n.12.

Pomponio ci ha lasciato una lunga storia del diritto romano, dalle origini
all'epoca in cui egli scrive, soffermandosi sui momenti fondamentali. Qui si
sofferma su un suo predecessore, Sesto Elio, giurista molto importante.
D.1.2.2.38, Pomponius libro singulari enchiridii
… Sesto Elio fu citato anche da Ennio; di lui resta un
libro intitolato Tripertita, che contiene quelli che
potremmo chiamare i fondamenti del diritto: è detto
‘tripertita’ perché al testo* delle leggi delle XII tavole
segue l’interpretazione, cui si aggiungono infine le legis
actiones…

XII tavole, breve codice normativo, compilato a metà del V secolo (451-450 a.C.).
Centocinquanta anni dopo il supporto materiale sopra cui erano incise andò
perduto, secondo alcuni per invasione Galli di Brenno. Venivano insegnate e
tramandate a memoria nelle scuole: si conservò tramite memoria orale e qualche
scritto disorganico, onde la loro parziale trasmissione. Fino a che Sesto Elio
(console nel 198 a.C.) si dedicò a una ricostruzione palingenetica del testo
perduto delle XII tavole.

Abbiamo due gruppi di testimonianze delle XII tavole: pretesi citatori testuali* da
una parte, commentatori indiretti dall'altra.

I moderni romanisti si sono chiesti se le citazioni riproducessero le XII tavole o la


ricostruzione di Sesto Elio: si è giunti alla conclusione, tramite confronto tra presunti
originali riferibili ad esse con altre testimonianze del latino arcaico, che *le citazioni
testuali sono quelle delle ricostruzione di Sesto Elio: è un latino non così
arcaico come quello utilizzato a metà del V secolo a.C.

Se:

il I libro testo XII tavole;

il III libro le azioni processuali (legis actiones più antiche), contenute nelle XII
tavole;

domanda: cosa contiene il II libro? (iungitur interpretatio) la trattazione del diritto in


senso sostanziale, dal momento che il III libro conteneva l'argomento
processuale. Pomponio la chiama INTERPRETATIO: l''interpretazione è lo
ius civile.

Alle origini, il diritto è interpretazione, comprensione guidata e argomentata delle


parole della legge. Per conseguenza, il giurista, interprete, è, naturalmente,
creatore di diritto.

Laddove oggi la siguarda, nella mentalità corrente, come attività di interpretazione di un testo in posizione

di soggezione. Ma corrisponde tale immagine alla realtà effettiva nell'attività del giurista odierno? In effetti,

oggi i giudici sono interpreti e creatori di diritto. Secondo, ad es., il realismo giuridico, l'unico testo giuridico

è la sentenza: così si fa creatore di diritto, con il colmare le lacune codicistiche.

La multiproprietà è nata fuori dal nostro ordinamento, ma è stata introdotta nel nostro ad opera dei notai,

facendo riferimento non a norme espresse del codice, ma da una loro opera interpretativa. Così anche

l'avvocato, che suggerisce al giudice un'interpretazione creativa di un articolo etc.( ricezione notarile di

modelli dominicali provenienti da altri ordinamenti giuridici)

Così la dottrina, cioè i professori di diritto attraverso le loro opere, come i responsabili di atti della pubblica

amministrazione.

Dietro le mentite spoglie dell'interpetazione, oggi la creazione del diritto ad opera del giurista è attività

ancor oggi fondamentale.

[10] D.1.2.2.5, Pomponius libro singulari enchiridii.


His legibus latis coepit (ut naturaliter evenire solet, ut
interpretatio desideraret prudentium auctoritatem)
necessariam esse disputationem fori. Haec disputatio
et hoc ius, quod sine scripto venit compositum a
prudentibus, propria parte aliqua non appellatur, ut
ceterae partes iuris suis nominibus designantur, datis
propriis nominibus ceteris partibus, sed communi
nomine appellatur ius civile.
Deinde ex his legibus eodem tempore fere actiones
compositae sunt, quibus inter se homines disceptarent:
quas actiones ne populus prout vellet institueret certas
solemnesque esse voluerunt: et appellatur haec pars
iuris legis actiones, id est legitimae actiones. Et ita
eodem paene tempore tria haec iura nata sunt: lege
duodecim tabularum, ex his fluere coepit ius civile, ex
isdem legis actiones compositae sunt. Omnium tamen
harum et interpretandi scientia et actiones apud
collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur,
quis quoquo anno praeesset privatis. Et fere populus
annis prope centum hac consuetudine usus est.

D.1.2.2.5-6, Pomponius libro singulari enchiridii. Una


volta pubblicate queste leggi, cominciò a essere necessaria la
discussione del foro (giacchè, come suole accadere
naturalmente, l’interpretazione richiese l’autorità dei
giuristi). Questa discussione e questo diritto, che senza
tradursi in norme scritte venne composto dai giuristi, non ha
una sua propria denominazione, come per le altre parti del
diritto che vengono designate con i loro nomi, ma con una
denominazione comune viene chiamata ius civile.
E quindi, sulla base di queste leggi, press’a poco nello stesso
periodo furono composte le azioni, per mezzo delle quali le
persone potessero contendere tra loro; e perché il popolo non
istituisse tali azioni arbitrariamente, vollero che fossero
precise e solenni; e questa parte del diritto si chiama legis
actiones, ossia azioni legittime. E così quasi nello stesso
periodo nacquero queste tre parti del diritto: le leggi delle
dodici tavole, da cui cominciò a derivare il ius civile, e in
base alle quali furono composte le legis actiones. La scienza
di interpretare* tutte queste cose e (la conoscenza del)le azioni
erano presso il collegio dei pontefici, fra i quali veniva
nominato quello che ogni anno doveva assistere i privati. E il
popolo si servì di questa consuetudine per circa cento anni.

* nel senso, oramai noto, di attività creativa. Ad esempio, i Pontefici romani attraverso i responsi
modellarono il ius civile con nuove applicazioni della mancipatio, istituto giuridico nato per
trasferire una res mancipi (una cosa di particolare valore) dalla sfera potestativa di un pater alla sfera
potestativa dell' altro; tale istituto, nato per trasferire la proprietà delle cose, viene poi, per
suggerimento dell'opera interpretativa e creatrice dei pontefici, utilizzato per creare:
- un nuovo tipo di matrimonio (quello per coemptio);
- un nuovo tipo di testamento;
- un nuovo diritto di garanzia per l'assolvimento di un'obbligazione: dare sé stessi o il figlio
a garanzia di un debito. -> TESI

Tali diverse applicazioni della mancipatio al di fuori dello stretto contenuto della proprietà, furono esercitate
già in età di interpretazione creativa pontificale.

In sintesi:

Attività di creazione "dietro le mentite spoglie dell'interpretazione" -> essa è l'attività ancor oggi
fondamentale del giurista, creatore di diritto attraverso la trattazione e l'argomentazione di leggi.
Storicamente, già fra III e II secolo avanti Cristo si ammette esplicitamente l'equivalenza fra
interpretazione e trattazione del diritto, ovvero ius civile.

LEZIONE 2 (18.2.2021)

Esempio in cui si vede la natura creativa del diritto (attraverso interpretatio


iuris) operata attraverso una modifica della stipulatio per renderla praticabile
in contesti di frequenti traffici e scambi (siamo nell'età delle guerre
"commerciali" puniche).

Stipulatio acquiliana; litis contestatio.

Partiamo dalla nozione della distinzione Gaiana dei negozi giuridici re, verbis, litteris (a
forma vincolata), consensu (a forma libera). Si parla di negozi giuridici e non di contratti
(bilaterali), perché fra essi Gaio comprende anche il sorgere di obbligazione unilaterale a
seguito di promessa.

La Stipulatio, era un genere di promessa capace di far sorgere obbligazioni in capo al


promittente, a patto si rispettasse la forma vincolata per il suo utilizzo, che richiedeva la
pronuncia di parole solenni (verbis). Le parole solenni, che il promissario doveva
pronunciare, erano queste:

"Centum dari spondes?" (prometti che cento unità di conto siano dati -sott. a me-)

Promittente doveva rispondere: "Spondeo" (prometto).

Schema semplice: Domanda – risposta -> sorge l'obbligazione.

Nota: Il verbo dari è passivo. Che differenza c'è dal punto di vista giuridico tra attivo (dare)
e passivo (dari)? -> il passivo ammette l'adempimento del terzo, benché l'obbligazione
rimanga in capo al promittente.

I giuristi romani ne elaborarono una particolare adatta per coloro che stipulano
frequentemente (professionalmente) per ragioni di affari. Fra A e B si dava il caso che vi
fossero reciproci cumuli di obbligazioni pendenti. La giurisprudenza faceva la somma
algebrica e accertava le compensanzioni dovute; a questo punto interveniva una stipulatio,
tramite cui il promissario richiamava tutte le stipulazioni intercorse e rinunciava alle altre.
Questa estingueva tutte le obbligazioni di cui gli interessati erano parte, sostituendone una
nuova, quella del conto/saldo finale. Strumento comodo per i traffici e aggiustare i conti fra
le parti. Questo schemo che estingue le obbligazioni precedenti e li sostituisce con un
negozio giuridico nuovo è la novazione odierna di diritto positivo.

Un importantissimo esempio di novazione si ritrova nel processo formulare. Nella litis


contestatio, quando il pretore definiva la formula con il consenso delle parti e li rinviava al
giudice. Esaurite ed estinte le obbligazioni dedotte in giudizio dalle parti e sostuite
dall'obbligo di rispettare la sentenza del giudice presso cui erano mandati con la formula.
Momento sostanziale e processuale si compenetravano di più in quel diritto (così come nel
diritto storico di common law).

n.17 dispensa:

Gai III.93. Ma l’obbligazione verbale “Prometti che


sarà dato? Prometto” è propria dei cittadini romani; le
altre, invece, sono di diritto delle genti, e valgono
pertanto fra tutti gli uomini, sia cittadini romani che
stranieri. Ed anche se espresse con parole greche , ad
esempio così: “darai? darò; convieni? convengo; presti
fideiussione? presto fideiussione; farai? farò” valgono
tuttavia fra i cittadini romani, purché abbiano
conoscenza della lingua greca. Per contro, benché
enunciate in latino, valgono tuttavia anche fra gli
stranieri, purché abbiano conoscenza della lingua latina.
Ma l’obbligazione verbale “prometti che sia dato?
prometto” è talmente propria dei cittadini romani, da
non poter essere opportunamente tradotta attraverso
un’ attività di interpretazione nemmeno in lingua greca,
benché la si dica formata sulla base di un termine
greco.

– Centum dari spondes? Obbligazione verbis.

– Novazione.

1) Stipulatio acquiliana. Si regge sulle parole pronunciate in riferimento a determinate


obbligazioni; se non richiamate, tali obbligazioni non fanno parte della stipulatio, e
pertanto sopravvivono fra le parti.
2) Litis contestatio è un esempio di novazione, le parti che conferiscono al pretore,
accettano poi sentenza apud iudiciem. Il loro consenso implica novazione delle
obbligazioni dedotte davanti al pretore, affinché siano rinnovate e accettate davanti al
giudice.

Ancora meglio l'attività creatrice in questo testo, che tratta di successioni:

Coll. 16.3.3, Pauli sententiarum 4. Secondo la legge


delle dodici tavole, l’eredità degli intestati veniva devoluta
in primo luogo agli heredes sui, poi agli agnati e talvolta
anche ai gentiles. Certamente i consanguinei, che la legge
non aveva ricompreso (nei successibili) per effetto
dell’interpretazione dei giuristi occuparono il primo posto
fra gli agnati.

– Successioni. Fondamentale partizione (anche in diritto romano): intestata e


testamentaria.

Quale si profilò prima storicamente? Sembra la prima (la intestata). Solo


successivamente si affermò quella volontaria del pater familias. N.B. Fra obblighi di
successione, il mantenimento di mantenere il culto patrio (gli avi familiari).

Quindi la regola di comunità primitiva stabiliva a chi dovessero andare i beni; solo in
seguito si affermò la possibilità di fare testamento da parte del pater familias.

La successione intestata si conosce da un versetto della Legge XII tavole (Tabula V):

4. SI INTESTATO MORITUR, CUI SUUS 4. Se chi non ha un erede muore senza


HERES NEC ESCIT, ADGNATUS testamento, abbia tutta l'eredità l'agnato
PROXIMUS FAMILIAM HABETO. prossimo.
5. SI ADGNATUS NEC ESCIT, GENTILES 5. Se manca anche l'agnato, abbiano
FAMILIAM HABENTO. l'eredità quelli che appartenevano alla gens
del defunto.

Si intestato moritur: da questo capiamo che c'era possibilità di fare testamento.

Suus/sui: figli (e figlie) in potestate, non emancipati


Agnatus: parente in linea collaterale.

Proximus è un superlativo (dell'avverbio prope): "il più vicino".

Se manca l'agnatus -> ereditavano collettivamente i membri della gens.

I nomi nella cultura romana.

Marco: prenomen (erano pochi, una quindicina) ; nome: Tullio (gens tullia) ;
cognomen (poteva alludere a qualità fisico/morali): Rufus

Attenzione: fra gli agnati non si faceva luogo alla successio gradum (successione dei
gradi): l'unico erede era l'agnatus proximus, il solo parente in linea collaterale di
grado più vicino. Se lui rinunciava, non spettava ad altri agnati dei gradi successivi:
succedevano i membri della gens.

Le regole di applicazioni decemvirali, quanto a questo, erano severe, e ne derivava


l'esclusione dei figli emancipati. A seguito di emancipatio, i figli emancipati
diventavano sui iuris. A quel punto, emancipati, non potevano ereditare in base alle
leggi delle XII tavole. Cosa stabilirono i giuristi al riguardo? Paolo:
...Certamente i consanguinei, che la legge
non aveva ricompreso (nei successibili) per effetto
dell’interpretazione dei giuristi occuparono il primo posto fra gli agnati.

I giuristi, cioè, stabilirono che i figli emancipati rientrassero a questo effetto (ossia per la
possibilità di succedere sulla base delle leggi delle XII tavole) nella noazio di agnati.
Se dunque, all'inizio i figli emancipati non potevano ereditare secondo le leggi delle XII tavole, in
seguito -afferma Paolo- i figli emancipati, con interpetazione estensiva, rientrarono nella nozione di
agnati per opera della giurisprudenza.
Essi hanno agito sul campo semantico della parola agnatus, interpretandola tale
da ricomprendere il significato di figli.

Questo è un caso esemplare di interpretazione giuridica del diritto da parte dei giureconsulti
romani!

Tradizionale significato era: parente in linea collaterale maschile. (34'.03")


n. 14:

Tre fratelli. Il primo muore e lascia un figlio; poi viene a mancare il secondo che non
ha figli. Aspirano alla successione il fratello in vita e il figlio del fratello premorto.
Per i giuristi eredita solo il fratello in vita, quale agnatus proximus, secondo una
interpretazione letterale e restrittiva delle disposizioni nelle XII tavole. Questi è 2° in
grado, mentre il nipote è in grado 3°; a quest'ultimo, stando all'interpetazione
restrittiva è preclusa l'eredità.

Cf (PDF): "Alberi genealogici"

"Quanto agli heredes sui", cf Alberi genealogici: ereditano in parti uguali il figlio e il
nipote. L'interpretazione è un altra, perché l'aggettivo proximus è riferito solo alla
successione fra agnati, mentre per gli heredes sui (i figli), non si applica: il figlio D
può prendere il posto di C.

-> ci troviamo al fondamento del principio della successione per stirpi, la cui regola
applicativa trova ben precisa espressione nell'articolo 467 (rappresentazione: la
rappresentazione fa subentrare i discendenti legittimi o naturali nel luogo e nel
grado del loro ascendente, in tutti quei casi in cui egli non può (es. premorto) o
non vuole accettare l'eredità o il legato.

Dispensa n.15: fondamento della regola della rappresentazione ereditaria


da leggere insieme al grafico dei gradi di parentela.
Principio della successione per stirpi, ancor oggi ampiamente convalidato: il figlio
che assume la posizione successioria dell'ascendente premorto per rappresentazione.
(Vedi secondo schema). I giuristi interpetano sui in senso diverso dalle regole della
successione del prossimo agnatizio.

Dispensa n.13: Papiniano vuol suggerire all'Imperatore di essere un interprete più


benevolo dell'interpretazione capziosa fatta dai giuristi in merito alla questione di
diritto.

Il frammento ci è utile per trattare adesso dell'interpretatio iuris (età del Principato),
con riferimento ai testi 20, 21, 22 del fascicolo delle dispense I.
Dell'interpretatio legis, età del Principato

n. 20, 21, 22 (tratti dai Digesta di Giuliano)

A Giuliano (150 d.C., allievo di Giavoleno), l'imperatore Adriano ha affidato la


redazione definitiva dell'editto del pretore2, cioè le regole e delle attività del pretore
nel processo giurisdizionale (ius honorarium). E' infatti il complesso delle regole che
discendono dall'applicazione delle regole del pretore ricevettero il nome di ius
honorarium, il quale si accostò in parallelo alle fonti dello ius civile.Va accostata tale
nozione a quella di ius civile. Differenza e rapporto fra le due fonti, preliminare alla
trattazione dell'interpretatio legis.

Ius civile e ius honorarium


Ius civile sorse prima, come primitiva organizzazione giuridica della primitiva
organizzazione giuridica della comunità (civitas), attraverso le proprie fonti statiche
e dinamiche (ne parla Pomponio attraverso Sesto Elio):
"statiche" (statiche in quanto erano quelle e non soggette a modificazione),
– mores[=consuetudini],
– leggi regie;
– 12 tavole3 [qui confluivano mores, leggi regie, pòleis magna grecia,
innovazioni normative dei decemviri]).

e "dinamiche",
– il potere legislativo, con effetto intergrativo e modificativo dello ius vicile
proveniente dai comizi centuriati e solo da un certo periodo in poi comizi
tributi: potere legislativo con effetto integrativo e modificativo dello ius
civile).

Ius honorarium. L'editto rappresenta un'esperienza diversa, che si affianca a


questo complesso di fonti. Il pretore di anno in anno enunciava le regole cui si
sarebbe attenuto per l'amministrazione della giustizia; regole fondate sulla sua
iuris dictio -> stabiliva ciò che era diritto fra le parti. L'editto era un testo
prevalentemente di diritto processuale, ma le cui norme comportava novità in
diritto sostanziale. Senonché tali regole spesso erano diverse da quelle
applicabili secondo lo ius civile, producendo così antinomia fra norme di
diritto sostanziale -> erano così contemporaneamente vigenti due
ordinamenti privatistici nell'esperienza giuridica romana, "come se noi
avessimo due codici di diritto civile". Nonostante questo, il sistema si reggeva
benissimo: cioè, si giungeva a esiti diversi a seconda del diritto applicato
2 Testo in cui i pretori hanno esposto il programma della loro attività giurisdizionale, regolando soprattutto il processo
formulare.
3 Prime 3 tavole diritto processuale, poi sostanziale.
(civile o honorarium).La stessa lite era decisa in modo diverso se fosse portata
in giudizio con le legis actiones o col diritto formulare. Come fu possibile che
si sovrapponessero questi due ordinamenti civili? Quale meccanismo
concettuale sosteneva questa covigenza?

La coesistenza si basava su una competenza giurisdizionale concepita in modo


diverso a seconda del territorio e dello status di cittadinanza di chi avesse adito la
giustizia.
L'editto del pretore risolveva il conflitto fra cittadini romani e non romani, o fra
cittadini romani a Roma (con la creazione del pretore peregrino (242 a.C.), che però a seguito
del suo successo tramite legge -lex ebutia- consentì anche al pretore urbano di utilizzare le regole
del diritto formulare create dal pretore peregrino anche in controversie fra cittadini romani -> fino
ad Augusto, per i romani, praticabili entrambi gli ordinamenti. Qui si verifica la sovrapposizione
che venne regolata tramite il seguente meccanismo concettuale: il pretore poteva definire le
controversie anche senza applicare il ius civile).
Il pretore poteva dirimere le controversie anche senza attenersi allo ius civile,
applicabile ai soli cittadini romani. Ma quando gli ordinamenti si consolidarono, e
rimasero entrambi applicabili, nella coesistenza dei due ordinamenti, il pretore,
non potendo modificare ius civile, potè però disapplicarlo: con la nozione di
disapplicazione si può giustificare la coesistenza dei due ordinamenti.
Il pretore poteva accogliere la domanda di disapplicazione delle legis actiones
per applicare la diversa regola che lui (il pretore) e i suoi successori avevano
stabilito.
C'era una larga parte dei due insiemi (ius civile e ius honorarium) in cui la
sovrapposizione non creava esiti giuridici differenti; un'altra area, in cui
l'applicazione di uno o dell'altro dava esiti differenti. Da questo si parte nella lezione
successiva.

LEZIONE 3 (23.2.2021)
Actio publiciana. Un esempio molto chiaro di diversità di esiti nell'applicazione dello
ius civile o dello ius honorarium. Rivendica della proprietà.

Si parte dalla compra-vendita romana (emptio-venditio), negozio giuridico


consensuale (consensu) produttivo di obbligazione: prezzo contro cosa.
Se la cosa è res nec mancipi, con la traditio l'acquirente diventa propretario.
Se la cosa è res mancipi (immobile, schiavo o animale da tiro o da soma), la consegna
costituisce il solo possesso.
Questi gli effetti reali.
Immaginiamo una compravendita di un cavallo (res mancipi). L'acquirente con la
consegna del cavallo, acquista il possesso, ma non la proprietà. Il cavallo, chiuso
nella stalla, esce e torna dal venditore, che lo trattiene e rinchiude nella stalla dove era
abituato a stare. L'acquirente ha notizia e va a protestare dal venditore.
Nella prospettiva del ius civile, immaginiamo che l'acquirente voglia riavere il
cavallo.
Se agisse per ottenere invece una somma al posto del cavallo, con actio ex vendito,
vincerebbe certo, ma l'actio ex vendito non prevede il recupero dell'animale.
Se agisse con un'azione reipersecutoria (legis actio sacramamenti in rem, quella che
permette a un proprietario spossessato di recuperare la sua cosa), perderebbe la causa!
Perché la proprietà, il dominium dell'animale, è rimasto del venditore.
Nella prospettiva del ius civile, non avrebbe così possibilità di recuperare il cavallo.

I pretori crearono un editto che disapplicava lo ius civile. La formula suonava così:
SE PAOLO AGERIO HA COMPRATO DA NUMERIO NEGIDIO IL CAVALLO DI
CUI SI TRATTA E IL CAVALLO GLI E' STATO CONSEGNATO, ALLORA IL
GIUDICE GIUDICHI COME SE NEL TEMPO INTERCORSO FOSSE SCATTATA
L'USUCAPIONE.

Ecco un chiaro esempio di disapplicazione dello ius civile ad opera dello ius
honorarium.

Altri esempi: per i debiti contratti dagli schiavi o dai figli in potestate. Se portati in
giudizio con legis actio sacramenti in personam, il padre non veniva chiamato a
risarcire, e il creditore-attore perdeva la causa.
Il pretore inserì nell'editto una formula diversa: nell'intentio dell'editto conteneva la
parola "figlio o schiavo", ma nella damnatio conteneva la parola "padre".
Così, con l'applicazione del ius honorarium, si otteneva un risultato opposto a quello
ottenuto con ius civile.
Chiusa parentesi dei rapporti fra ius civile e honorarium.

Torniamo al commento dei frammenti 20, 21, 22 di Giuliano (fascicolo I), per trattare
della fase successiva all'interpretatio legis, ovvero l'interpretatio legis.

D.1.3.10, Iulianus libro 59 digestorum. Non è


possibile scrivere né le leggi né i senatoconsulti in modo
da contemplare tutti i casi che possono verificarsi: è
sufficiente che siano contemplati i casi che si verificano
più frequentemente.

Il fenomeno giuridico qui affrontato riguarda la pacifica incompletezza


dell'ordinamento giuridico. La realtà è più complessa del disposto: saranno gli
interpreti a porre rimedio a questa situazione.
Ciò richiama la terminologia giuridica "lacuna". L'etimologia di tale termine rimanda
a lacus-us, il lago: la cui superficie si suppone perfettamente piana. Soluzione di
continuità della terra solida (metaforicamente: l'ordinamento giuridico), cui a un
tratto essa viene meno.
Perché Giuliano non la presenta come un problema (la lacuna)? Ecco:

D.1.3.11, Iulianus libro 90 digestorum. E a proposito


delle prime norme che vengono stabilite, se ne precisa in
modo più sicuro il significato attraverso l’interpretazione o
la costituzione dell’ottimo imperatore.

Perché all'interpretazione dei giuristi, unica fonte di età tardo-repubblicana, si


aggiunse in quel periodo la interpetazione imperiale. Fra queste due forme di
interpretazione, e per la loro diversità di caratterizzazione, si interpone un
fondamentale provvedimento di Augusto ius respondendi ex autoritate principis,
una speciale autorizzazione da lui conferita ai giuristi ritenuti meritevoli, affinché
soltanto loro dessero responsi di carattere interpretativo.
Inoltre, per il periodo di età del Principato, tra le fonti vi erano le costituzioni (edicta,
mandata, rescripta, decreta):
– di portata generale : editti (per singole Province e gruppi determinati di
persone) e mandata (istruzioni interpretative dell'Imperatore per magistrati e
funzionari).
– di portata particolare: rescritti4 (quesiti di diritto proposti da singoli cittadini) e
decreti (sentenze del tribunale imperiale)

A queste fonti (rescritti e decreti), per quanto di carattere particolare, l'imperatore


attribuiva particolare autorevolezza, tanto è vero che si cominciò a fare delle
raccolte".

D.1.3.12, Iulianus libro 15 digestorum. Non è


possibile contemplare singolarmente nelle leggi e nei
senatoconsulti tutti i casi verificabili: tuttavia allorquando è
manifesta la regolamentazione da essi proposta per una
situazione, il titolare della giurisdizione deve estenderla
ai casi simili e così procedere ad amministrare la giustizia.

Due osservazioni:
- Qui Giuliano riconosce e attribuisce piena praticabilità al ricorso del metodo
analogico.
- Inoltre, dal punto di vista soggettivo, il titolare della giurisdizione, che è il
giudice, procede lui stesso all'interpretazione in mancanza di legge. In età

4 Il rescritto prende il nome di epistula, quando la chiarificazione interpretativa sulla questione di diritto è richiesta da
parte di un magistrato/funzionario, celebre un corpus di epistole fra un imperatore e un governatore provinciale,
quello fra Plinio il Giovane e Traiano, richiesto sull'atteggiamento da tenere nei confronti dei cristiani.
N.B. : sotto tale aspetto e portata giurisdizionale vanno lette le raccolte di lettere apostoliche. Gli Apostoli erano
vescovi, dunque giudici dotati di giurisdizione sulle cose divine -e dunque umane (l'organizzazione delle comunità
ecclesiali, la liturgia, la vera teologia, la morale etc.). Essi, come fonti giurisdizionali di applicazione del diritto
scaturito dal Verbo incarnato, maestro del diritto, avevano -fra l'altro- il mandato di fornire l'interpetazione autentica
di tutto ciò che concerne la apertura di un Testamento nuovo, apertosi con la predicazione e morte di Cristo in croce,
la Risurrezione, l'Ascensione, ossia con i Misteri del vero Dio vivente. Ancora oggi, questo mandato, questo
testamento, questo missione ad gentes non si è esaurita e rivive nella Chiesa, unica istituzione di diritto pubblico e
divino. In Roma, l'ufficio pubblico di lettura dei testamenti era svolto dai Comizi Curiati; di questo antico istituto, di
cui si perde nel tempo la memoria e l'utilità, reca traccia la Curia Romana: infatti, anche la Chiesa "eredita", per così
dire, ma su un piano rinnovato dall'incarnazione del Verbo, l'ufficio di leggere in pubblico il testamento più
significativo che la storia conosce: quello che il Figlio di Dio Padre rivolge agli uomini dalla croce, affinché tutte le
genti entrino nel possesso beato della vita eterna da lui promessa a chi, soltanto, abbia fede nel Suo nome.
teodosiana, con la legge delle citazioni (426 d.C.) sarebbe stato indicato loro
quali giuristi seguire, quali interpretazione e in -in mancanza- del potere solo a
quel punto interpretare.

Interpretazione benevola è quella che proviene dall'Imperatore.

Esempio di interpretazione data dall'Imperatore (Codice Giustiniano), testo n.32 (fine


III secolo):

C.8.54.3, Gli imperatori Diocleziano e Massimiano


augusti a Giulia Marcella. Ogni volta in cui una
donazione è disposta in modo che, dopo un certo tempo, ciò
che è stato donato sia conferito ad un altro, è stato stabilito
in base all’autorità dell’antico diritto che se colui al quale
veniva attribuito l’oggetto della liberalità non era
destinatario della promessa (di osservare l’impegno
previsto), non essendo stata onorata in buona fede la
disposizione, all’autore della liberalità o ai suoi eredi
competeva un’azione di ripetizione (di quanto donato). Ma
poiché successivamente, in forza di benevola
interpretazione i divi principi hanno ammesso che, in
considerazione della volontà del donante, compete un’actio
utilis in favore del mancato destinatario della promessa (di
futura attribuzione della cosa donata), è concessa a te
l’azione che sarebbe spettata a tua sorella se fosse stata
ancora in vita.

Il passo concerne la donazione di II grado: il donante dona una cosa, ma alla


scadenza di un termine impone, come condizione per la prima di donazione, al
donatario di I grado di trasferire la cosa ad un altro soggetto (il donatario di II
grado). Il problema sorge quando il donatario di I grado non adempie.
Il donatario di I grado si impegnava infatti nei confronti del donante. Egli aveva
azione, in caso di inadempimento, insieme con gli eredi contro il donatario di I
grado.
Il donatario di II grado non aveva dunque azione.

In questo caso, come ci informa la costituzione C.8.54.3, furono gli imperatori


Massimmiano e Diocleziano a stabilire che al donatario di II grado fosse concessa
una actio utilis, preclusa al donatario senza intervento imperiale.

Ecco dunque esposto un esempio significativo di come un intervento imperiale


potesse intervenire interpretativamente.

Riassumendo, per le fonti dell'interpretazione in età del Principato:

Interpretano: a) i giuristi autorizzati dal Principe,


b) il Principe con costituzione imperiale, quando necessario
c) il giudice, se necessario con ricorso all'analogia.
Della donazione. Fondamenti.

Per molto tempo la donazione, in diritto romano, non ha avuto veste di negozio
giuridico, come lo ha adesso, ma era causa5, in senso tecnico, attraverso la quale un
negozio, normalmente a titolo oneroso per entrambe le parti, diventava a titolo
gratuito per entrambe di esse.
Esempio più tipico, la compra-vendita: in molte fonti troviamo l'indicazione di una
compravendita di grande valore, e questo valore viene indicato con il prezzo
d'acquisto sesterzio nummo 1. Dunque un immobile di pregio al prezzo di un
sesterzio (="un cent"). Nella sostanza, una vendita a titolo gratuito.
Ciò poteva essere fatto anche di una locazione.
Fu con un provvedimento di Costantino che venne dettata una disciplina che non
presupponeva più negozi giuridici pre esistenti messi in atto donationis causa, ma
produsse un istituto giuridico autonomo, il cui effetto noi oggi riconduciamo alla
donazione.

Codice teodosiano, testo n. 33:

CTh.1.2.3, Imp. Constantinus A. Septimio Basso p.u.6


Poiché intendiamo segnatamente attenuare o lenire il
rigore del diritto, è disposto che i rescritti ottenuti prima
dell’esposizione dell’editto mantengano la loro efficacia
ma che un rescritto successivo non possa derogare a uno
precedente. Invero i rescritti ottenuti successivamente non
abbiano alcuna efficacia se non siano conformi alle
leggi pubbliche, soprattutto perché a noi soli
compete ed è consentito esercitare attività
interpretativa fra equità e diritto.

Il problema affrontato da Costantino è quello, primo luogo, della gerarchia delle fonti,
prendendo in considerazione editti e rescritti. Due regole al riguardo: un rescritto, fonte a
titolo particolare, mantiene l'efficacia nei confronti del caso concreto per cui è stato
emanato, anche se un editto successivo modifica la regola giuridica applicabile; invece, i

5 Questo è estremamente significativo per il discorso teologico-metafisico in senso giuridico: l'esistenza come atto di
donazione del donante divino a favore del donatario creaturale.
6 Praefectus Urbi. Quattro erano le prefetture che avevano sostituito i funzionari storici.
1) Il prefetto del pretorio, in origine guardia personale dell'Imperatore, poi vicario nelle sue funzioni di giustizia
2) Il praefectus Vigilum, Prefetto dei Vigili) era, durante l'Impero Romano, un funzionario imperiale, comandante dei
vigiles della città di Roma e ufficiale preposto alla sorveglianza notturna della città; il suo compito era di sovrintendere
all'ordine pubblico cittadino e prevenire e affrontare gli incendi; aveva perciò attribuzioni di polizia entro la sua sfera di
competenza.
3) Il prefectus Urbi, preposto all'ordine pubblico.
4) Il prefectus Alexandria Aegypti, governatore dell'Egitto, che non era nè provincia senatoria nè imperiale. Una specie
di proprietà privata dell'Imperatore.
rescritti ottenuti a seguito di editto, che contrastano con esso, devono tenersi per inefficaci.

- In secondo luogo, l'attività interpretativa spetta solo all'Imperatore, ovvero alla


cancelleria imperiale. Ci si avvia dentro alla terza fase dell'Imperatore unico interprete,
ovvero:

Dell'interpretatio legum, età del Dominato

Ormai le leggi sono quelle imperiali, ed una per una possono essere interpretate
dal solo imperatore.

Costituzione Tanta, quella con cui Giustiniano ha pubblicato il Digesto.

Testo n. 23 (Tanta)

Const. Tanta, 18. Tuttavia, mentre le opere della divinità


sono perfettissime, il diritto degli uomini varia in perpetuo
e nulla è in esso immutabile (la natura è infatti sollecita a -> concezione evolutiva del diritto umano;
generare sempre nuove forme); ci sono perciò buoni opere umane sempre incomplete, per
motivi per ritenere che in futuro si verificheranno continua mutazione delle forme di
situazioni che non sono in alcun modo previste dalle leggi. natura.
In tal caso, si richieda l’intervento dell’imperatore, dal
momento che Dio gli ha affidato le sorti degli uomini e gli
ha dato il potere di correggere e regolare situazioni nuove -> fondamento teocratico 7 del potere normativo
ed impreviste, stabilendo misure e norme adeguate. e interpretativo delle leggi
Né siamo noi i primi a fare una simile
affermazione, che risale invece ad un’antica tradizione: in
effetti, lo stesso Giuliano, giurista e diligentissimo -> Giuliano aveva affermato affatto ciò, ma
compilatore dell’editto perpetuo, già aveva affermato nei anche che l'interpretazione rimaneva
suoi scritti che se qualcosa di imperfetto si fosse trovato, anche presso i giuristi e il giudice.
ciò dovesse essere integrato facendo ricorso all’intervento > interpolazione omissiva-
imperiale. Non soltanto Giuliano, ma anche l’imperatore -> qui imperatore unico soggetto che può
Adriano ribadì esplicitamente tale principio, sia in procedere all'interpretazione
occasione della redazione dell’editto, sia in un L'interpolazione è attuata proprio
senatoconsulto che seguì immediatamente tale redazione: omettendo la completezza del
se qualcosa risultava omesso nell’editto, il principe in quel pensiero di Giuliano. Il clima è
momento regnante poteva procedere a un’integrazione, diverso: la nozione di Imperatore
sulla base degli esempi, dei criteri, dei principi ispiratori unico interprete viene "proiettata"
dell’opera. al tempo di Giuliano.

Fondamento teocratico del potere legislativo imperiale.


Imperatore unico interprete delle leggi.

7 Nel Medioevo ciò diede luogo a perenne conflitto fra autorità temporale (Impero) e spirituale (Papato).
LEZIONE 4 (25.2.2021)
Ancora un testo sul passaggio da interpretatio legis a interpretatio legum. Legge delle
citazioni (Valentiniano III – Teodosiano).
Sullo sfondo della crisi, complice la vastissima disponibilità di materiale giuridico,
diffusasi la prassi di utilizzare come fonti nei processi soltanto cinque giuristi (Gaio,
Paolo, Papiniano, Ulpiano e Modestino; oppure autori citati da uno di questi
cinque), Valentiniano III trasformò questa consuetudine in legge attraverso la
cosiddetta legge delle citazioni (426), poi recepita integralmente in Oriente con
l'emanazione del Codice Teodosiano.
Il giudice doveva seguire l'opinione della maior pars.Se in pari numero, quella di Papiniano.
Se questi non si era espresso, a parità e in sua assenza, egli poteva effettuare una scelta
propria.

-> non vi era fiducia nella capacità dei giudici di risolvere questioni interpretative. (crisi
culturale?)

n. 35:

Nov. 4 Impp. Valentinianus et Marcianus aa Palladio


praefecto praetorio. Le sacratissime leggi che regolano la
vita di ognuno debbono essere da tutti comprese affinché
tutti, conosciuto in modo ben manifesto il loro contenuto
precettivo, rifiutino i comportamenti e vietati e seguano
quelli permessi. Se tuttavia qualcosa che sia inserito in
quelle leggi per caso risulti un poco oscuro, è necessario
che sia chiarito dall’interpretazione dell’imperatore, affinché
sia rimossa l’ambiguità di ogni prescrizione e la contesa fra
i litiganti, di dubbio esito, quanto al diritto ad essa
pertinente, non possa dare luogo a soluzioni alternative;
affinchè inoltre coloro che decidono le controversie
negoziali o coloro che presiedono i tribunali, seguendo la
chiara indicazione delle leggi, non oscillino fra decisioni
incerte in base a opinioni non definite e tentennanti. Al
giudice si apre infatti una via piana e facile verso la
pronuncia finale ogni volta in cui non vi è nulla di
ambiguo a proposito di ciò che deve essere giudicato.

Il giudice giudica bene se il suo percorso interpretativo è già tracciato: deve lasciarsi lui il
minor spazio possibile. Si conferma tendenza di sfiducia nelle sue capacità interpretative.
Vedasi, a maggior ragione, questa costituzione di Giustiniano a un prefetto del pretorio
(p.p):

C.1.14.12.3, Imperator Justinianus Demostheni


p.p. Stabiliamo inoltre che ogni interpretazione delle -> interpretatio legum
leggi effettuata dall’imperatore, sia a richiesta che nei
processi o in qualunque altro modo resa, venga
considerata definitiva e indubitabile. Se infatti -> spazio interpretativo dei giudici pressoché
attualmente al solo imperatore è concesso fare le leggi, annullato.
anche la loro interpretazione è degna solamente
dell’autorità imperiale.
Utilizzo (esplicito) del diritto romano nelle Sentenze della Corte di
Cassazione

Paradossalmente questa condizione del giudice, richiamata a completamento del discorso


sull'interpretatio legum, è stata richiamata in una Sentenza della Corte di Cassazione
n.16048/2015, in tema di spazio interpretativo offerto ai giudici.
Leggiamo inoltre l'allegato art. 143 dal D.Lgs. 267/2000 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli Enti Locali).
E' avvenuto che la proposta di scioglimento al Trinubale non conteneva tutti gli elementi
richiesti. Il Tribunale ha comunque dichiarato la incandidabilità. Cassazione si è trovata
a riconsiderare i motivi del ricorrente per illegitimmità della proposta di incandidabilità,
fra l'altro per non esplicita menzione del nome degli amministratori interessati allo
scioglimento.
Tesi Avvocatura dello Stato (resistente): a livello processuale il primo atto che deve
essere preso in considerazione per valutare la idoneità non è la proposta del Ministero
dell'Intero, ma la memoria depositata dall'Avvocatura, che conteneva tutti gli elementi
richiesti.
Sezione Semplice, investita della questione, avrebbe dovuto applicare il principio di
diritto enucleato dalle Sezioni Unite in una decisione in merito precedente ex art.
Art. 374 c.p.c. Pronuncia a sezioni unite:

La Corte pronuncia a sezioni unite nei casi previsti nel n. 1) dell'articolo 360 e nell'articolo 362.

Tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte
dei conti, il ricorso puo' essere assegnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione
proposta si sono gia' pronunciate le sezioni unite.

Inoltre il primo presidente puo' disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che
presentano una questione di diritto gia' decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli
che presentano una questione di massima di particolare importanza.

Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni
unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

In tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice.

La Sezione Semplice si trovava proprio in questa situazione. Pag. 5 sentenza in


oggetto, in fondo:

"Ne consegue che, come giustamente statuito dalla Corte


d'appello di Reggio Calabria con argomentazioni puntuali, non può
assurgere ad atto di parte - sussumibile, sotto il profilo sistematico,
nell'archetipo camerale - la proposta del Ministro dell'Interno,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale: sol che si consideri che essa è
letteralmen te indirizzata "al Presidente della Repubblica", e non al
tribunale competente; ha ad oggetto lo scioglimento del consiglio
comunale, e non la richiesta di incandidabilità di singoli
amministratori, mai nominati; e sotto il profilo contenutistico,
consiste in una descrizione riassuntiva delle anomalie ambientali
riscontrate nella gestione dell'ente locale, in conformità con le
relazioni del prefetto e della cd. Commissione d'accesso e
d'indagine, senz'alcuna esplicita contestazione individuale e, tanto
meno, deduzione di prove, costituite o costituende". (...)

E' un atto amministrativo diretto al Pres. Repubblica e non un atto processuale.

Pag. 9 sentenza: "Si pone, a questo punto, il delicato problema della verifica di
conformità, sotto il profilo dell'art.374, terzo comma, cod. proc.
civile, della presente ricostruzione dell'istituto con il recente dictum
delle sezioni unite in subiecta materia (Cass., sez. unite 30 Gennaio
2015 n.1747): in cui si sostiene, per contro, che il legislatore, nel
citato articolo 143, comma 11, Testo unico enti locali, "non solo
affida al Ministro dell'Interno la legittimazione attiva, ma anche
individua nella trasmissione della proposta di scioglimento avanzata
dallo stesso ministro l'atto introduttivo del procedimento... Nel
disegno normativo, pertanto l'attitudine postulatoria della proposta
proveniente direttamente dalla parte sostanziale e la non necessità
per l'Amministrazione dell'Interno, ai fini dell'introduzione del
procedimento, di versare gli elementi già contenuti in quella
proposta in un atto di ricorso, si giustifica con l'esigenza di
apprestare forme procedimen tali essenziali, in grado di permettere
una risposta giurisdizionale il più possibile ravvicinata nel tempo...":
cfr. sent cit. pagg.9 e 10).

Questa argomentazione per dare rilevanza al fatto che Sez Semplice avrebbe dovuto rinviare
a S.U.

Pag. 10:

Nell'approccio alla disamina, è interessante notare, in chiave


comparatistica, come nei sistemi di Common law il principio dello
stare decisis (di origine giurisprudenziale, e non legislativa),
storicamente consolidatosi a partire dalla seconda metà
dell'ottocento, ha acceso un annoso dibattito dottrinario, imperniato
sul quesito se la case law sia fonte primaria del diritto, equiparabile
alla legislazione (statute law), pur sotto il manto concettuale della
natura accertativa di un diritto non scritto, variamente identificato
(diritto consuetudinario ab immemorabili, diritto naturale, ecc.: cd.
teoria dichiarativa della Common law). La portata conformatrice del
precedente resta però ivi ancorata rigorosamente alla fattispecie
concreta; e non è quindi desumibile in termini generali e astratti,
sul modello delle nostre massime (ignote, nella veste di
enunciazione teorica, all'esperienza angloamericana): con la
conseguente possibilità di discostarsene ove il nuovo caso presenti
diversità significative in punto di fatto (cd. Distinguishing)

I giudici qui fanno una riflessione comparativa fra sistemi common law e civil law,
chiedendosi se il principio di stare decisis corrisponda a una sorta di adeguamento al sistema
normativo oppure no. Le decisioni precedenti assurgono a legislativo oppure no? Secondo
Sez. Semplice no: perché la cogenza dei precedenti è limitata alla identità delle situazioni di
partenza. Ove questa identità di partenza non si verifichi, il sistema è aperto a pronunce
modificative.

Si apre il problema della interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 374, 3°c.


CPC. La nostra costituzione nel momento in cui vieta la separazione dei poteri vieta che i
precedenti abbiano un efficacia legislativa: in tal modo la Sez. Semplice fugge dall'obbligo
di rimettere alle Sezioni Unite.
Quindi vanno dritti, perché con la Sentenza stabiliscono il principio di separazione dei
poteri.
In questo contesto, rilievo paradossale con riferimento al diritto romano, pag. 14 Sentenza:

"Tuttavia, non si può trascurare il rilievo, in


sede ermeneutica, che il principio dello stare decisis, normato con
il recente con il d. Igs. 2 febbraio 2006 n,40 ( Modifiche al codice di
procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione
nomofilattica e di arbitrato), è una novità inedita nel nostro sistema
processualcivilistico di civil law, tradizionalmente restio, nella sua
evoluzione storica, a condizionamenti cogenti di natura giudiziale: a
partire dagli antecedenti remoti di diritto romano (proibizione
dell'interpretatio nella Constitutio de auctore di Giustiniano),
passando per i divieti di interpretazione nelle ultime consolidazioni
e nelle prime codificazioni moderne ( nella Costituzione di sua
maestà il re di Sardegna del 1770, ad esempio, in caso di dubbio
occorreva rivolgersi direttamente al legislatore, o a particolari
commissioni)".

Con una sentenza interpretativa del 374 3° comma CPC e costituzionalmente orientata la
Sez. Semplice ha proseguito nel giudizio confermando la Corte d'Appello.

Il paradosso sembra essere che in una sentenza chiaramente interpretativa, il richiamo fatto
dalla Sezione Semplice della Corte di Cassazione va invece nella direzione di portare al
proprio mulino un periodo in cui ai giudici non era permessa interpretazione alcuna.
Interpretazione tra verba e (presunta) voluntas

Testo 36 bis:

Dig.33.10.7.2, Celsus 19 dig.: Servio afferma che


occorre prestare attenzione all’espressione impiegata da
colui che ha disposto un legato, avendo riguardo al
modo in cui egli era solito denominare le cose;
nondimeno se qualcuno fosse stato solito considerare
compresi nella suppellettile oggetti dei quali non si
dubita che appartengano a un altro genere di cose quali il
vasellame d’argento, i mantelli da viaggio e le toghe,
non si deve perciò ritenere che anch’essi siano compresi
nel legato di suppellettile: infatti i nomi (delle cose)
debbono essere intesi in base all’uso comune e non
all’opinione di ciascuno. Tuberone afferma che ciò non
lo convince molto; egli domanda infatti: “A che scopo
esistono i nomi se non per esprimere la volontà di colui
che parla?” Certamente non ritengo che qualcuno abbia
detto una cosa diversa da ciò che pensa, pertanto credo
che egli utilizzi un termine soprattutto con riguardo a
ciò che con esso si indica: perciò infatti ci serviamo dello
strumento della voce; del resto non si ritiene che alcuno
abbia detto ciò che non pensava. Ma benché io sia assai
consapevole del metodo razionale e dell’autorità di
Tuberone, tuttavia convengo con Servio che non si può
ritenere che qualcuno abbia menzionato una cosa
quando egli non abbia utilizzato il nome di quella.
Infatti, benchè la volontà di colui che si esprime sia
prioritaria e più forte rispeto alla sua voce, tuttavia
nessuno è ritenuto avere parlato se non ha usato la voce:
a meno che non si tratti di coloro che non possono
parlare e riteniamo che si esprimano con lo sforzo di
emettere suoni <vale a dire con suoni disarticolati>.

Risale a Celso la definizione di diritto simbolicamente utilizzata per identificare l'esperienza


giuridica romana: Ars boni et aequi.
Era un giurista dalla spiccata propensione alla elaborazione teorica.
Qui il problema interpretativo è quello fra interpretazione letterale e secundum voluntatem
(una presunta volontà del disponente).
In questo caso, attiene alla definizione giuridica del termine supellex-supellectilis.
Normalmente, era il necessario per il funzionamento di una casa.
Qui c'era stato un legato di supelletile. Si voleva che fossero ricompresi anche gli argenti, le
toghe e il vasellame da viaggio, che però non rientrava nello nozione giuridica di supellex.
Nè gli argenti, né le vesti attengono al funzionamento della casa.
Problema fra interpretazione oggettive e soggettiva. Si può forzare nel ritenere compresi
quegli elementi, normalmente non ricompresi nella nozione di supellex, in quel legato?
Servio è favorevole all'interpretazione letterale. Questa la ragione: "i nomi (delle cose)
debbono essere intesi in base all’uso comune e non all’opinione di ciascuno". Se così non
fosse, l'interpretazione sarebbe tanto mobile da non risultare mai certa.
Dato che l'area semantica dei vocabili non è sempre chiara, univoca, spesso anzi
assoggettabile a una pluralità e molteplicità di significati che è possibile intendersi, occorre
che chi è autore di una disposizione usi la lingua in modo tale da trasmettere
correttamente una disposizione. Tuberone finge di ignorare il problema dell'incapacità
ad esprimersi.
Chi esprime una disposizione negoziale è giusto che possa manifestare la sua volontà, ma
deve tener conto del fatto che la manifestazione della sua volontà deve raggiungere il
destinatario in modo adeguato, altrimenti crea un problema interpretativo sulle parole
adoperate.
Ci sono dei limiti all'uso estensivo nell'interpretazione delle parole.
L'ordinamento giuridico non si può fondare su un significato aperto delle parole:
altrimenti sarebbe la Babele concettuale.
Ciò però richiama un'altra questione: trattandosi di un Testamento, la concessività usata da
Tuberone si spiega in quanto è un atto di ultima volontà. Un negozio unilaterale; una
promessa al pubblico (ad es. un concorso).
Negli atti unilaterali, l'interpretazione ad voluntatem, ciò è ammissibile; non in una
dichiarazione negoziale bilaterale (ad es. una compravendita); qui gli argomenti di Tuberone
sarebbero stati molto meno ammissibili.

Qui siamo non ai fondamenti non di una regola, ma di un problema verso cui non c'è
una risoluzione definitiva (la sempre possibile discrasia fra linguaggio e realtà).
Nell'ordinamento italiano vigente, al riguardo, la regola fondamentale è l'articolo 12 delle
Preleggi Cod.Civ. :

1° c. Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso


che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
2° c. Se una controversia non può essere decisa con una precisa
disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o
materie analoghe8; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i
principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.

Nel 1° Comma, la definizione attiene al campo semantico ("senso fatto palese dal
significato proprio delle parole": ovvero il campo semantico-morfologico) e sintattico
("significato proprio delle parole in connessione di esse: ovvero il campo sintattico).
Si tratta dei livelli fondamentali del modo in cui si presenta il linguaggio umano. Poi,
sopperisce il ricorso all'intenzione del legislatore.

Veniamo in conclusione dell'opinione di Celso, che pur tenendo in considerazione l'autorità


di Tuberone, richiama l'esigenza di porre dei limiti alla possibilità di ammettere la volontà
del disponente. Se noi ammettessimo che il disponente che può travisare continuamente il
significato delle parole, di conseguenza sarebbe problematico/impossibile conoscerlo
univocamente. Egli invece ha l'onere di farsi intendere, usando le parole nel loro
significato tipico.

8 "Sembra Giuliano" commenta il Professore.


LEZIONE 5 (2.3.2021)

La causa Curiana.

Prendiamo in esame il Fascicolo II delle dispense, in cui sono riportati i testi di


Cicerone relativi alla Causa Curiana.

Testo n.37:

Cic. de orat. 1.39.180: Con quale accorrere di persone, con


quale aspettativa è stata or ora trattata davanti al tribunale
dei centumviri la causa di Manio Curio e Marco Coponio?
Quinto Scevola, mio pari e collega, l’uomo più preparato di
tutti nella disciplina del diritto civile, il più dotato di ingegno
acuto e capacità di discernimento, estremamente raffinato e
sottile nell’abilità oratoria e, come sono solito dire, il più
eloquente fra i giuristi e il più esperto di diritto fra gli oratori, --> incrocio a chiasmo
difendeva il valore dei testamenti in base al tenore letterale e subdolo e riduttivo
negava che potesse essere considerato erede colui che era
stato istituito tale in caso di nascita e morte di un figlio
postumo del testatore (prima di uscire dalla tutela) se
effettivamente il postumo non fosse nato e poi deceduto
prima di uscire dalla tutela. Io al contrario lo difendevo
(l’erede sostituto) affermando che l’intenzione del testatore
era tale che, se non fosse esistito un figlio uscito di tutela,
Manio Curio fosse erede. Ebbene uno di noi due rinunciò
forse in quella causa a richiamarsi ad autorevoli opinioni, ad
esempi, a formule testamentarie, in una parola alla pratica del
diritto civile?

La controversia. Disposizione di testamento di un figlio non ancora nato. Nel caso


in cui il figlio premorisse rispetto al raggiungimento della pubertà, era possibile una
clausola di sostituzione testamentaria, detta sostituzione pupillare.
Manio Curio era l'agnatus. Marco Coponio il sostituto.
Entrambi aspiravano all'eredità.
Il primo fu difeso da Quinto Mucio Scevola, il secondo da Crasso.
Competenza a quell'epoca presso il tribunale dei centumviri.
Il processo in quella fase era diviso fra fase in iure e apud iudicem.
Ma per le cause ereditarie presso un collegio, quello dei centumviri.
La clausola di sostituzione testamentaria è una condizione.

Ripasso della condizione nell'inquadramento teorico della teoria del negozio giuridico.

Le categorie del negozio giuridico sono tre: essenziali ai negozi (senza la quale
esso non è identificato: per es. scambio della cosa contro prezzo nella
compravendita); naturali ai negozi (definito il tipo tramite gli elementi essentialia,
sono le conseguenze naturali che la legge trae senza bisogno di essere
esplicitate: in tema, ad es. di negozio di compravendita, la garanzia per evizione
appartiene alla categoria dei naturalia); infine, gli accidentali al negozio, ovvero
quelle clausole che possono essere aggiunte a discrezione delle parti
(accidentialia), a loro volta tripartite in: condizione, termine, modo.

Qui la condizione è questa:

Se l'erede istituito morirà prima di uscire dalla tutela, allora mi sia erede il sostituto.

Il figlio non era nato e non era atteso. La condizione non si era verificata. La
domanda è: eredita il sostituto? Secondo Quinto Mucio, che difendeva l'agnatus
proximus, no. La clausola di sostituzione è condizionale. La condizione sospensiva
non si è avverata. La sostituzione non è applicabile. L'istituito non c'è -> eredita
l'agnatus proximus, Coponio.

"E' stato generoso: era possibile un modo di ragionare ancora più radicale, nel
modo seguente: Gaio dice che l'istituzione di erede era capo e fondo del
testimanento. Prima clausola e fondo. Con una sola eccezione: lo schiavo. Doveva
essere manomesso ("liber esto" -> sui iuris) prima di essere indicato erede (heres
esto)". Lo schiavo Rufo sia libero e mi sia erede.
La clausola di sostituzione di erede era fundamentum del testamento: mancando la
nascita, quella clausola a fondamento di tutto era invalida, determinando l'invalidità
del testamento.
Quinto Mucio ha preferito scegliere la via che la condizione non si era avverata.

Insorge Crasso: "stiamo violando la volontà del testatore". Lui voleva che suo
erede, morto il figlio, fosse il sostituto (Curio).

Sua tesi: conta la volontà del testatore.

Nei testi, Cicerone si capisce parteggiare per Crasso. Testo n.38:

Cic. pro Caec., 18.53: Con eleganza e abbondanza di


argomenti Lucio Crasso, l’uomo più eloquente di tutti, poco
prima che io entrassi nel foro, in una causa centumvirale
sostenne questo concetto; e facilmente di mostrò a tutti,
sebbene il suo avversario fosse il dottissimo Quinto Mucio,
che Manio Curio, designato erede “in caso di morte del figlio
postumo”, doveva essere l’erede sebbene quel figlio non solo
non fosse deceduto, ma neppure nato. Ebbene? Stabilivano
questo le parole del testamento? Niente affatto. Che cosa
dunque prevalse? La volontà la quale, se potesse farsi
intendere senza usare le parole, di esse non ci serviremmo -> è il pensiero di Celso,
affatto: ma poiché non si può, si sono inventate le parole, visto nella scorsa lezione
non per ostacolare ma per manifestare la volontà.

-> osserva il Professore, che tuttavia le parole devono significare in modo corretto
ciò che intendono, sebbene l'interpretazione delle parole secondo la volontà
prevalga in questo processo.
Cic. pro Caec., 24.67: E, a questo proposito tu hai detto che
Scevola ha perduto la sua causa dinanzi ai centumviri; anch’io
poco fa l’ho ricordato dicendo che, quantunque facesse
esattamente ciò che fai tu ora – sebbene lui lo facesse con
qualche ragione, mentre tu con nessuna -, tuttavia nessuno egli
convinse di ciò che sosteneva, perché mostrava di battersi contro
la giustizia attaccandosi alle parole. Non solo io mi
stupisco che tu in questo processo abbia sostenuto ciò
intempestivamente e contro quanto esigeva la tua stessa causa,
ma anche, in generale, mi appare sempre sorprendente che nei
processi, persino talvolta da parte d’uomini d’ingegno, si
sostenga che non bisogna lasciarsi guidare dai giureconsulti e
che non deve prevalere, sempre, nei giudizi, il diritto civile.

-> sostanza per Cicerone è sempre la stessa: occorre far valere la volontà.
Addirittura l'opinione di Quinto Mucio veniva da Cicerone ridicolizzata nel Bruto.
Questa -secondo voluntas- è l'impostazione interpretativa che ha permesso
di vincere la causa davanti al Tribunale dei centumviri, davanti al quale la vis
retorica ebbe il suo effetto.

Osserva il Professore: si tratta di un'eredità cospicua. Il testatore doveva saper


usare le parole secondo il loro significato: la ricostruzione secundum voluntatem è
dubitabile. Ritenere un impiego causale e ingenuo, da parte di Crasso, è una scelta
interpretativa non così ovvia, ma era il modo migliore per coinvolgere
emotivamente la giuria, e distoglierla dai "cavilli" verso la -pretesa- voluntas del de
cuius.

Arriviamo a Stroux (letterato tedesco di fine XIX secolo), che utilizzò queste
testimonianze per dimostrare una pesante influenza della retorica sulla
scienza del diritto nel II secolo avanti Cristo.

Al tempo della causa, le clausole di sostituzione testamentaria erano già


consolidate. Ve ne erano due: la clausola di sostituzione volgare e la clausola di
sostituzione pupillare.
La prima, cd. volgare:

Lucio mi sia erede; se non mi sarà erede, mi sia erede Manio Curio.

Per qualunque motivo, si faceva luogo alla sostituzione testamentaria. Ecco perché
il professore dubita che il testatore fosse ingenuo: se voleva, sapeva come disporre
in modo da rendere in ogni caso efficace la sostituzione testamentaria in favore di
Curio.

Excursus sul Testamento nell'esperienza giuridica romana.

Le prime due forme di testamento, che conosciamo per l'età arcaica, erano di non facile
praticabilità. Questi erano i testamenti arcaici.
Uno era il testamento Calatis Comitiis, che si apriva due volte all'anno quando si riunivano i
Comizi Curiati per ascoltare le espressioni di ultima volontà a scopo testamentario, in
un'assemblea di tutti i cives romani, maschi e dotati dei requisiti (sui iuris). In quel contesto i
patres familiae pronunciavano le loro ultime volontà.
Accanto a questa forma, era praticato il Testamentum militis, detto in procinctu (della battaglia).
Doveva essere fatto mentre il Dux compiva i sacrifici preliminari al combattimento per
propiziarsi il favore degli Dèi9. In quel momento, chi voleva fare testamento, esponeva le
sue ultime volontà al gruppo dei commilitoni presenti, i quali -se fosse morto in
battaglia- avrebbero reso testimonianza di questa sua volontà e questa volontà
sarebbe stata accettata dalla comunità e applicata con valore effettivo.

Fin dall'età più antica, i Pontefici elaborarono un terzo modo di fare testamento (mancipatio
familiae), e questo è un altro esempio di interpretatio iuris. Essi partirono dalla mancipatio (con
il libripens), cerimonia rituale che permetteva di trasferire la proprietà delle res mancipi. I
Pontefici, in un primo tempo, disposero così: se qualcuno si sente vicino alla propria morte, può
trasferire le cose con mancipatio all'amico di cui abbia fiducia (mancipio accìpiens), però
dichiarando (con noncupatio10, all'atto di ricezione dei beni) che tali cose, l'amico, non dovrà
tenerle presso di sé, ma attribuirle a favore degli eredi indicati dal mancipio dans, che qui agisce
in favore del testatore. Sorta di mancipatio a scopo testamentario. Funzionando, lo si riadattò
ancor più utilmente, dicendo: il trasferimento è condizionato all'evento morte. Quindi non
produce subito i suoi effetti, ma li produrrà dopo la morte; e così si escogitò di un sistema più
facile e pratico per disporre delle ultime volontà.
Si manifestarono poi ancora due forme di evoluzione.
Da un lato, si avvertì non indispensabile il successivo trasferimento dal mancipio accipens agli
eredi, implicito nella mancipatio iniziale. Il passaggio divenne inessenziale. Un altra variante si
aggiunse: il mancipium dans portava tavole cerate con le sue volontà. L'accipiens diceva: "io
ricevo i tuoi beni ed essi saranno distribuiti in conformità alle tavole cerate". Tutta una nuova
certezza, rispetto a quella dei meri testimoni. Lo scritto era ad probationem, non ad substantiam.
Nelle tavolette si cominciò anche a scrivere la clausola mancipatoria: e cioè a scrivere che era stata
fatta la mancipatio. Il testamento diventa, nella buona sostanza, un atto scritto. Oggi tale
fondamento (la necessità della forma scritto, di cui al c.c.), si coglie meglio a partire da questa
evoluzione storica dell'istituto della mancipatio, attraverso l'opera interpretativa dei Pontefici, e
del successo e della prassi successiva. Testamentum per aes (bronzo) et libram (bilancia).
Già nel I secolo a.C. dunque, al tempo della causa curiana, i testamenti erano confezionati in
forma scritta. Le clausole di istituzione di erede, nonché quelle di sostizione, erano consolidate.

Secondo il professore, pertanto, le clausole di sostituzione volgare non erano state


utilizzate consapevolemente. Ma il collegio dei centumviri sembra aver apprezzato
il concetto emotivo di rispetto della volontà (presunta).

n. 41 e 41:

Cic. de invent. 2.42.122: … un paterfamilias che non aveva


figli ma aveva la moglie scrisse così nel suo testamento: “se
mi nasceranno uno o piu’ figli, essi mi siano eredi”, quindi
(appose) le clausole consuete; poi (aggiunse) “se il figlio
morisse prima di uscire dalla tutela, allora mi sia erede ….
(indicò il nome). Il figlio non nacque. Si discute fra gli
agnati e colui che è stato indicato come erede se la

9 E' l'Ultima Cena. Il Testamento di Cristo agli Apostoli, riportato nei discorsi di Giovanni, capitolo 17. Cristo alza gli
occhi al Cielo, prega il Padre di consacrare i discepoli nella verità, lascia loro la Pace, e anticipa il Dono di sé in
croce nel primo banchetto eucaristico.
10 Il mancipium accipiens,alla presenza dei testimoni, dichiarava: "Io ricevo da te questi beni nella consapevolezza che
siano destinati etc.". Secondo me l'etimo di noncupatio è non cupio actio: non agisco per cupidità. A fondamento
dell'istituto e della possibilità stessa di effettuarlo la buona fede di colui a cui si affida il lascito testamentario in
favore degli eredi. Ma ciò che contrasterebbe la buona fede dell'amico è proprio la cupiditas.
situazione sia equivalente a quella della morte del
figlio prima di uscire dalla tutela.

Cic. de orat. 2.32.140: … a meno che non riteniate per caso


che L. Crasso abbia assunto una causa da M. Curio e perciò
abbia apportato molti argomenti tali da implicare che, pur
non essendo nato un figlio postumo, tuttavia Curio era erede
di Coponio. 141. Nei confronti dell’abbondanza delle
argomentazioni, della forza e della natura della contesa nessun
rilievo ebbero i nomi di Coponio o di Curio. Tutta la
questione concerneva il complesso della cosa e dell’affare, non
il tempo o i nomi, essendo stato scritto così: se mi nascera’
un figlio, ed egli morirà prima… ecc., allora quegli mi sia
erede. In tal caso, se il figlio non fosse nato, ci si chiedeva se
potesse succedere al testatore colui che era stato istituito in
caso di morte del figlio: una questione concernente un diritto
imperituro e un carattere generale non richiede i nomi degli
uomini, ma la coerenza del discorso e la fondatezza delle
argomentazioni.

Domanda: quale differenza di impostazione si può osservare in testi in cui Cicerone


parla della Causa Curiana e questi ultimi due. C'è una percettibile differenza di
impostazione. Quale? Che là era tutto pro voluntas, essendo di parte nel sostenere
le opinioni di Crasso (l'impostazione gli giovava nell'ambito della trattazione), qua è
tutto pro ratio. Ha quindi un'impostazione oggettiva.

Testo n.43:

D.28.6.10.5, Ulpianus libro quarto ad Sabinum: Ai sostituti


pupillari spettano anche le cose che siano pervenute ai pupilli
(dopo la morte del testatore): infatti il testatore non li ha
indicati come sostituti nella titolarità dei suoi beni, ma come
sostituti degli impuberi, così come ciascuno può indicare un
erede sostituto in luogo di uno diseredato: a meno che tu
non mi proponga il caso in cui un soldato abbia indicato un
sostituto all’erede con l’intenzione di volergli attribuire
soltanto i beni che da lui sarebbero pervenuti all’istituito.

Beni pater -> pupillo


Altri beni -> pupillo
Domanda: il sostituto pupillare ereda i primi, o anche i secondi?

Agnatus proximus o sostituto?

Sia una soluzione che l'altra implicano una violazione di principi del diritto.
Se diciamo che vanno al sostituto, violiamo il principio di personalità delle
disposizioni testamentarie: quelle disposizione vengano attribuite a qualcuno che
non era previsto.
Se si ritiene che vadano all'agnatus proximus del pupillo, la violazione riguarda il
principio: nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest.
Alla morte di un soggetto, o si apre una successione testamentarie, o si apre
intestata.
Ma intestare i beni all'agnatus proximus avrebbe significato disporre in maniera
intestata, nella vigenza del testamento che dispone la sostituzione pupillare.

D.37.11.8.1, Iulianus 24 dig.: Colui che abbia così indicato


un sostituto al figlio impubere “se mio figlio morisse prima
di uscire dalla tutela, allora Tizio mi sia erede” consente la
vindicatio hereditatis come se la parola “mi” non fosse
indicata, e così (il sostituto) può ottenere la bonorum
possessio dei beni.

Si flius meum...tunc Titius mihi esto haeres"

Come può allora Tizio diventare erede di beni che non erano suoi?
Per giustificare ciò, si forzò la lettera del testamento, come se la parola mihi non
fosse stata apposta.
Quindi, alla violazione del principio di cui sopra, si accompagna ad una
deroga/violazione di natura linguistica e scritturale.

Vediamo invece come è stato affrontato e risolto dai giuristi il problema affrontato
nella causa Curiana. Modestino propone delle soluzioni in due interventi diversi,
testi 44 e 47:

D.28.6.1, Modestinus libro secundo pand.: pr. Gli eredi si


definiscono istituiti o sostituti: istituiti in primo grado, sostituti
in secondo o terzo grado. 1. La sostituzione d’erede è doppia o
semplice, come segue: “Lucio Tizio sia erede: se Lucio Tizio
non mi sarà erede, allora Seio mi sia erede”: “Se non mi sarà
erede, oppure se lo sarà ma morirà prima di raggiungere la
pubertà, allora Gaio Seio mi sia erede”. 3. Il padre non può
indicare un sostituto ai figli senza averli istituiti eredi: infatti
senza istituzione di erede nulla che sia
scritto in un testamento assume validità.

La soluzione al problema indicata a Modestino. Se vuole che in ogni caso il


sostituto sia erede, allora usi la clausola di sostituzione volgare, che si esprime in
tal senso. L'indicazione di Modestino è di usare correttamente le clausole
testamentarie.

D.28.6.4pr., Modestinus libro singulari de heurematicis:


Ora ci possiamo avvalere di questa norma in base a una
costituzione dei divi Marco Aurelio e Lucio Vero: se un padre
ha nominato un sostituto per il (caso del) figlio impubere, si
ritiene che la sostituzione operi per entrambi i casi, sia che il
figlio non sia divenuto erede, sia che lo sia divenuto e sia
deceduto impubere.

La miglior prova che la sostituzione proposta da Lucio Crasso e accettata dal


collegio dei centumviri nella causa curiana non ha avuto influenza per i casi
successivi è questo testo, in cui Modestino parla di una costituzione di Marco
Aurelio e Lucio Vero che ha risolto il problema. Ciò significa che il problema si
era continuamente riproposto e dunque non era stata accettata la soluzione
accolta dai centumviri nella causa curiana.
Detto hanno affermato il principio della continenza della clausola di
sostituzione volgare nella clausola di sostituzione pupillare: da quel momento,
di fronte a una clausola di sostituzione pupillare, sarebbe stata contenuta anche la
clausola di sostituzione volgare. Conseguentemente non vi sarebbero più potuti
essere dubbi circa il fatto -oramai reso necessario dalla costituzione- che il sostituto
in ogni caso diventava erede. La prevalenza della volontà del testatore,
pertanto, si era infine affermata, ma non tramite la recezione degli esiti della
causa Curiana (peraltro non più trattata dai giuristi), ma solo per la
disposizione di legge dell'imperatore. Prima, si presume, volta per volta la
questione era stata risolta dai giudici.

LEZIONE 6 (4.3.2021)

Si prendono nella lezione odierna in considerazione alcuni frammenti del Digesto


(Fascicolo III) dai quali risulta l'emersione di alcuni principi generali in fatto di
interpretazione dei negozi giuridici che sono alla base delle disposizioni codicistiche
negli ordinamenti contemporanei.

D.34.5.26, Celsus 26 digestorum.: Quando, a


proposito di una stipulatio, ci si chiede che cosa sia
stato convenuto, l’ambiguità deve essere intesa a sfavore
dello stipulante.

Attitudine di Celso a occuparsi dei principi generali.


Quando in una stipulatio vi è, l'ambiguità va interpretata a favore del promittente, e
a sfavore per il promissario.
La ragione di quest'impostazione ermeneutic che rileggiamo nel frammento 62 della
dispensa:

D.45.1.38.18, Ulpianus libro 49 ad Sabinum: Quando


nelle stipulationes ci si domanda che cosa sia stato
stabilito, le parole sono da interpretare contro
l’interesse dello stipulante.

Ratio si trova nel frammento 3:

D.45.1.99.pr, Celsus libro 38 digestorum: [Nelle


stipulazioni] Tutto ciò che concerne l’obbligazione da
porre in essere, se non viene esplicitamente espresso
attraverso le parole, si deve ritenere omesso: e certo
l’interpretazione deve avvenire seguendo il promittente
poiché il promissario ha avuto ampia libertà di formulare
le parole (della domanda). Per converso il promittente
non deve essere preso in considerazione qualora gli
interessasse trattarsi di alcuni vasi piuttosto che di
uomini.

Chi formula le parole, nella stipulatio, è il promissario.


Quindi, eventuali problemi interpretativi, devono essere risolti a suo sfavore. Ecco
la ragione delle conseguenze a suo carico: se palesa ambiguità, ne paga le
conseguenze.

Il principio generale applicato nella stipulatio viene applicato nella empio-venditio e


nella locatio-conductio, nel senso che in diritto romano si tendeva a privilegiare
l'acquirente o il conduttore.
Esse sono alla base di un principio interpretativo moderno, ulteriormente
trasformato in termini positivistici: la protezione del contraente debole.

Ma nella compravendita e locazione non abbiamo un contraente che detta una


formula, ma due contraenti, uno dei quali più deputato a dettare le condizioni. Ciò
avvicina all'esperienza giuridica moderna.

Testo n. 50:

D.45.1.106, Iavolenus libro sexto epistularum: Colui


che, senza alcuna specificazione identificatrice, accetta in
stipulazione un fondo tra molti ai quali era stato
attribuito lo stesso nome*, stipula in modo incerto nel
senso che la promessa è riferibile al fondo che il
promittente aveva voluto dare. E finché ciò che è stato
promesso non viene dato, la determinazione della
volontà del promittente rimane in sospeso.

Catasto romano. Nozioni.

Come venivano identificati i fondi rustici?


Prima di tutto, essi prendevano il nome dall'aggettivo corrispondente al gentilizio del proprietario.
Per cui, se Cicerone era proprietario del fondo, allora quel fondo era un fondo Tullianus. Da un
frammento di Ulpiano apprendiamo l'ulteriore specificazione per l'individuazione dei fondi.
Forma censualis (tavola). Rappresentazione catastale del territorio, proiezione ortogonale dei
fondi incisa su lastre di marmo. Registri papiracei o pergamenacei con l'indicazione degli
intestatari.
La tavola (forma censualis) doveva indicare: il *nome del fondo, in qua civitate [circoscrizioni
cittadine, paragonabili alle attuali province: su di esse esercitavano i magistrati giurisdizioni
cittadine -colonia (cittadini romani o latini istituiti in città di nuove fondazioni) e municipio
(nuove città)- e giurisdizionali (quadrovirati e duovirati) ]. Ciascuna città aveva un territorio di
competenza che si chiamava ager municipalis, che possiamo in Italia ricostruire. I cittadini
romani erano tutti iscritti in una tribù, fra quelle che votavano nei comizi tributi. In base alle
iscrizioni e al loro luogo di ritrovamento e alla menzione della tribù, si riesce a ricostruire una
mappa dei confini degli agri municipali dell'Italia romana. Ogni territorio cittadino era poi
ulteriormente suddiviso in pagi, che erano circoscrizioni minori, che talora facevano riferimento
all'assetto pre-romano del territorio, ad esempio un assetto di congregazione religiosa,
caratterizzato dalla presenza di un luogo di culto, ove afferivano gli abitanti di un determinato
territorio. Cf: Tavola di Veleia (appennino piacentino), testimonianza bronzea di età di Adriano,
dove abbiamo rappresentazione dei Pagi, e dei prestiti effettuati dalle casse imperiali ai piccoli
territori, con elencazione di centinaia di fondi e per ciascun fondo i confini di tutti i pagi.
Inoltre, menzione dei fondi confinanti. Indicazione agronomica: se campo, vigneto, prato, bosco,
nonché la estensione per la determinazione del valore del fondo.
Queste indicazioni sono le stesse che presiedono al Catasto italiano, secondo
disposizioni emanate nel 1939, che riprendono alla lettera le denominazioni usate
da Ulpiano. Troviamo così: seminativo, prato, vigneto, bosco, bosco ceduo.

Valida la stipulazione senza determinazione specifica del fondo? Per i giuristi


romani sì, finché l'oggetto è determinabile successivamente. Spettava al
proprietario del fondo, in tale circostanza, spettava al promittente individuare il
fondo, in fase di adempimento, essendo che il promissario si era accontentato di
una determinazione generica.

Testi 56-57. Paolo, parlando di schiavi, riconferma il principio generale: vale


l'intenzione delle parti; se non coincede, la scelta spetta al promittente (nel secondo
caso, rispetto al luogo dell'adempimento):

D.34.5.21.pr., Paulus ex libro 14 ad Plautium: Ove vi sia


ambiguità nelle parole, vale l’effettiva intenzione delle
parti, così come se fosse stato promesso di dare lo
schiavo Stico e vi siano più schiavi con quel nome,
oppure uno schiavo semplicemente, o di dare a
Cartagine e vi fossero due città di nome Cartagine.

Qui di seguito, invece, il problema circa la indeterminabilità dell'oggetto è


insuperabile:

D.45.1.83.2-3, Paulus libro 72 ad edictum: Se ti avessi


chiesto in veste di stipulante di promettermi la dazione di
uno schiavo, Stico o Panfilo, è certo che non saresti -> l'adesione del promittente non
obbligato, non essendovi risposta congruente. non comporta il sorgere di una
Diversamente accadrebbe in caso (di promessa) di obbligazione: questo modo di
somme di denaro, per esempio “prometti di dare dieci o esprimersi non è ritenuta sufficiente
venti?”; qui infatti anchese tu avessi risposto dieci, la dai giuristi romani per la determina-
risposta sarebbe appropriata, poiché trattandosi di zione dell'oggetto dell'obbligazione.
somme di denaro si ritiene essere stata promessa quella
inferiore.

D.45.1.109, Pomponius libro tertio ad Quintum


Mucium: Se avrò stipulato con queste parole: “darai -> qui l'accordo si trova, nella tutela
(prometti di dare) dieci o quindici?”, sono dovuti dieci. del promittente sulla quota inferio-
Allo stesso modo se (avrò stipulato con queste parole): re
“darai (prometti di dare) fra un anno o due?”, quanto
promesso è dovuto dopo due anni poiché nelle
stipulazioni si ritiene sia stato dedotto ciò che è inferiore
o con un termine più lungo.
Testo n. 53:

Principio di conservazione del negozio giuridico: l'interpretazione deve essere


prima di tutto conforme al tipo di negozio prescelto:

D.50.17.67, Iulianus libro 87 dig.: Ogni volta in cui


un’espressione verbale può assumere due significati, si
assume in particolare quello che è più consono alla
natura e all’oggetto del negozio.

Della Stipulatio Efesi dari.

Promessa (stipulatio) di adempiere l'obbligazione in un luogo diverso da dove


l'obbligazione era sorta.

Testo n.54:
D.45.1.137.2, Venuleius libro primo stipulationum:
Avendo assunto con stipulatio il seguente
impegno: “(Prometto) di dare a Efeso”, bisogna
avere riguardo al tempo (occorrente) affinché la cosa possa essere
ricevuta. Occorre senz’altro che la valutazione
complessiva sia rimessa a un giudice, vale a dire a un -> qui più aspetti devono essere
uomo saggio, che stabilisca in quanto tempo un diligente contemperati.
paterfamilias possa adempiere ciò che ha promesso di -> qui c'è il riferimento alla diligen-
fare, in modo che chi si è impegnato a dare ad Efeso za del buon padre di famiglia,
non sia costretto a proseguire il viaggio con speciale che deve la sua elaborazione
salvacondotto, giorno e notte, sfidando ogni bufera, e alla pandettistica tedesca nel
neppure possa però procedere così lentamente da corso dell'800. (Questo concetto
apparire meritevole di rimprovero ma, avuto riguardo è stato usato in modo talmente
alla stagione, all’età, al sesso e alle condizioni di salute, (troppo) espansivo, che un giu-
proceda in modo da arrivare a tempo debito, vale a dire rista italiano osservò che alla luce
impiegando il medesimo tempo che impiegherebbe ad di quell'elaborazione, se un giudice
arrivare la maggior parte degli uomini nelle stesse dovesse decidere su una ballerina se
condizioni. Passato quel tempo, essendo rimasto a Roma avesse adempiuto alla prestazione
e non potendo adempiere ad Efeso, giustamente si potrà il suo comportamento sarebbe
agire in giudizio, sia perché è dipeso da lui non aver stato valutato alla stregua del buon
potuto adempiere a Efeso, sia perché avrebbe potuto padre di famiglia.)
adempiere attraverso qualcun altro, sia perché avrebbe -> tempo ragionevolmente concesso
potuto adempiere (prima) in un altro luogo: infatti ciò dalla stagione, età, sesso, condizio-
che deve essere dato in un certo giorno può essere dato psico-fisiche del promittente, ma
anche prima, benché non possa essere chiesto. Se poi temperato, perché il promissario
con un particolare salvacondotto o attraverso una conosce il suo stato psico-fisico.
navigazione spedita sia giunto a Efeso in minor tempo di -> una volta trascorso il tempo, il
quanto occorre normalmente, l’obbligazione va promissario può andare in giudizio.
adempiuta subito poiché in tal caso nessuno spazio è -> appena raggiunto il luogo, non
concesso a valutazioni sul tempo e sul può tardare l'adempimento.
luogo.

La soluzione qui si presenta meno immediata rispetto ai testi precedenti. La


stipulatio Efesi dari prevede una particolare clausola che si aggiunge al negozio: la
clausola accidentale costituita dal termine (il luogo deve esser raggiunto nel lasso
di un tempo). Ciò implica una causa cognita, che cioè il giudice prenda cognizione
della controversia per il contemperamento delle condizioni soggettive e oggettive
ad eventuale impedimento verso l'adempimento dell'obbligazione.
Anticipando per un momento il II modulo (sulla responsabilità), considerando
questa situazione sotto il profilo della responsabilità, se si manifestano cause
incoercibili o imprevedibili (forza maggiore o caso fortuito), allora di questo si deve
tenere conto per valutare la responsabilità del promittente, ma solo se abbia tenuto
un comportamento diligente.

--

Un altro frammento di interpretazione saggia dei giuristi romani, in cui si


susseguono tre negozi giuridici: un mutuo, una stipulatio e una seconda stipulatio
usurarum.

Testo n. 59:

D.45.1.126.2, Paulus libro tertio


quaestionum:
«Crisogono, schiavo che agiva per Flavio Candido, ha
scritto “con la sottoscrizione e il sigillo del mio padrone”
di avere ricevuto in mutuo mille denari da Giulio Zosa,
che agiva nell’interesse di Giulio Quintilliano assente. Su
domanda di Zosa, liberto che agiva per Quintilliano, il
mio padrone Candido promise con stipulatio che la
somma sarebbe stata restituita a Quintilliano o ai suoi
eredi, ai quali sarebbe spettata, alle successive calende di
novembre. Se l’obbligazione non fosse stata adempiuta
nel giorno suddetto come previsto ma in un giorno
successivo, su domanda di Giulio Zosa il mio padrone
Flavio Candido promise con stipulatio di dare otto denari
a titolo di interessi». Il padrone ha sottoscritto. Il
giurista ha risposto: per mezzo di una persona libera che
non è soggetta alla nostra potestà e non è in buona fede
nostro schiavo, non possiamo diventare creditori per
effetto di alcuna obbligazione. Certamente se un uomo
libero desse a nostro nome del denaro suo o nostro
affinché fosse pagato a noi, noi acquisteremmo
un’obbligazione come creditori della somma. Ma ciò che
il liberto si è fatto promettere con stipulatio che sia dato
al patrono è promesso inutilmente, al punto che non
giova al pagamento neppure la menzione aggiunta
dell’assente a favore del quale era elettivamente richiesto
l’adempimento dell’obbligazione. Rimane da domandarsi
se colui che ha contratto possa richiedere il denaro di cui
è creditore per effetto dell’avvenuta dazione: infatti ogni
volta in cui diamo a mutuo una somma e
contestualmente ce ne facciamo promettere la
restituzione con stipulatio non sorgono due obbligazioni,
ma una sola verbale. Evidentemente se la dazione
precede e la stipulatio segue non si può dire che sia
venuta meno l’obbligazione naturale. La stipulatio
successiva, nella quale sono stati promessi degli interessi
senza l’indicazione di un diverso creditore, non è inficiata
dallo stesso vizio (…), pertanto la stpulatio degli interessi
è valida nei confronti della persona del
liberto che dovrà trasferire al patrono quanto ricevuto.
Generalmente, infatti, nelle stipulationes, le parole dalle
quali sorge l’obbligazione debbono essere attentamente
considerate: in qualche raro caso da ciò che apparirà
dover essere fatto si può dedurre un tempo o una
condizione sottintesi: mai una persona, se non è
espressamente menzionata.

D.45.1.126.2, Paulus, libro tertio quaestionum

Schematizzazione delle obbligazioni trattate

la direzione della freccia indica il soggetto tenuto alla (contro)prestazione

Giulio Zosa → Crisogono


Liberto di Flavio Quintilliano mutuo schiavo di Flavio
Candido

Il mutuo è valido. Ma ci si era dimenticati di predisporre un termine per la restituzione della


somma. Si effettua una stipulatio, con cui Giulio Zosa (promissario), riceve la promessa di
Crisogono (promittente) che la somma verrà restituita entro un certo termine. Sorgono problemi:
infatti La stipulatio per fissare il termine di restituzione della somma data a mutuo è invalida per
violazione del divieto di stipulare pro (al posto di) alio.

Giulio Zosa → Crisogono


Liberto di Flavio Quintilliano stipulatio per fissare schiavo di Flavio
Candido che
il termine di restituzione agisce a favore del
patrono

Natura della stipulatio: che i soggetti stipulino in proprio, non pro alio.
Per lo schiavo va bene, perché agisce per il padrone (prometteva lo schiavo, rispondeva il dominus).
Non così per il liberto, che era soggetto sui iuris*.
Onde: la stipulatio per fissare il termine di restituzione della somma data a mutuo è invalida per
violazione del divieto di stipulare pro (al posto di) alio (effettuare una stipulatio nell'interesse di un
terzo): *il liberto è sui iuris. Può essere valida come fonte di obbligazione naturale
Quindi la stipulatio era invalida. Però, la particolare forma di stipulatio usata era quella acquiliana,
che presupponeva in questo caso un richiamo al mutuo, con la conseguenza di estinguere il
contratto precedente dedotto nella formulazione, col risultato paradossale che essa estingueva il
mutuo per effetto novatorio (e ciò, a sanzione per il divieto di stipulare pro alio).

Con il terzo contratto, ancora una stipulatio, Giulio Zosa stipula con Crisogono relativamente al
tasso di interessa in mancanza di pagamento in restituzione del primo mutuo entro la scadenza
concordata. Ma in questo caso Giulio Zosa ha l'accortezza di non dire di agire per conto di Flavio
Quintiliano. Dunque la seconda stipulatio risulta valida. Il mutuo era estinto, ma erano dovuti gli
interessi.

Giulio Zosa → Crisogono


Liberto di Flavio Quintilliano stipulatio usurarum schiavo di Flavio
aveva agito in proprio, Candido.
con l'accortezza di non dire
che agire per Flavio Quintiliano

La stipulatio usurarum (promessa di corrispondere interessi) è valida in quanto conclusa dal


liberto senza l'indicazione del patrono come effettivo promissario.
Quindi, gli interessi erano dovuti da Flavio Candido a Zosa.

Infine:
Se Flavio Candido avesse onorato il mutuo per tempo (benché non valido), ovviamente non si
sarebbero dovuti gli interessi, previsti in mancata ottemperanza della restituzione per tempo; a ciò
si aggiunge che secondo i giuristi romani il mutuo rimaneva valido e non veniva travolto
interamente sotto altro titolo, cioè permanendo come fonte di una obbligazione naturale,
e pertanto se sua sponte Crisogono avesse restiuito la somma indietro, vi sarebbe stata soluti
retentio, ossia l'impossibilità di chiedere indietro quanto versato, sia pur non dovuto a titolo di
stipulatio, ma di cui non poteva chiedere restituzione a titolo di obbligazione naturale.

LEZIONE 7 (9.3.2021)

Rapporto fra diritto e uso della lingua, conoscenze grammaticali dei giuristi romani e
conseguenti argomentazioni di diritto.

La grammatica, come scienza della lingua, ha avuto uno sviluppo progressivo. Dalle fonti antiche,
recepiamo che la ricerca dei primi secoli si interrogava sulle forme grammaticali; la logica, la
sintassi, furono invece approfondite in secoli successivi allo sviluppo della giurisprudenza romana.
E' per questo che le nostre riflessioni si limitano all'aspetto grammaticale, genere e numero.

Testimonianze greche. Aristotele, Protagora. Prime riflessioni mimetiche sulla lingua riguardano il
maschile e femminile. Un terzo genere viene riferito da Protagora quale "inanimato"; anche questa
sarebbe una corrispondenza grammaticale di tipo mimetico naturalistico. Aristotele, riflettendo su
tali aspetti della lingua, richiama il genere maschile e femminile, e un terzo genere: neutro.
La differenza di terminologia fra Protagora e Aristotele rileva ciò: la definizione di neutro attesta
un maggior grado di autonomia della lingua rispetto al sistema dei referenti naturali, essendo
"neutro" solo un grado di differenziazione rispetto a ciò che non è maschile nè femminile.
Nei secoli successivi, fino al I secolo a.C., tempo in cui scrive il grammatico Varrone, emergono altri
due generi alla consapevolezza della riflessione grammaticale: il genere comune e l'uso epiceno
dei sostantivi.
Possiamo definire di genere comune quei termini e quei vocabili che possono essere nella lingua
sia maschili che femminili in rapporto al referente naturalistico che vorrebbero indicare. Ecco un
esempio: nipote, che può essere sia maschile (un nipote) che femminile (una nipote).
Invece, definiamo sostantivi di uso epiceno mantengono inalterato il genere grammaticale
anche quando si riferiscono ad elementi di genere diverso nella realtà naturale. Ecco un esempio:
aquila, con cui posso indicare sia un'aquila di genere maschio, sia un'aquila di genere femminile
(come si vede il sostantivo permane in genere femminile, non mutano il genere
grammaticale). Possono essere riferiti sia a sostantivi maschili che femminili.

Dispensa fascicolo IV, nn. 1-2:

[1] Fest. s.v. Plorare 260 L.: In Servi Tulli haec est: si Fest. s.v. Plorare 260 L.: In una legge di Servio Tullio vi
parentem puer verberit, ast olle plorassit paren‹s›, puer sono queste parole: se un fanciullo (figlio) avrà percosso
divis parentum sacer estod. un genitore e questi abbia dato luogo alla ploratio, il
fanciullo (figlio) sia sacer ai numi degli antenati.

Uso epiceno di puer: maschile e femminile

[2] Paul. ex Fest. s.v. Pelices, 248 L.: Cui generi Paul. ex Fest. s.v. Pelices, 248 L.: Per tale genere di
mulierum etiam poena constituta est a Numa Pompilio donne fu stabilita una pena da Numa Pompilio in questi
hac lege: «Pelex aedem Iunonis ne tangito; si tanget, termini di legge: “La pelex non tocchi l’altare di
Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito». Giunone: se la tocca sacrifichi a Giunone un agnello
femmina con i capelli sciolti.

Agnum è grammaticalmente maschile, ma l'apposizione feminam riferisce che si tratta di una


agnella. Ecco quindi un altro esempio di uso epiceno del sostantivo agnum.

Differenza fra comminare e irrogare? Norma penale: precetto + sanzione. Comminazione, che
deriva dal verbo deponente minitor (minaccio), è il momento precettivo, generale e astratto in cui
l'ordinamento prevede la legge e il reato.
L'irrogazione è l'attribuzione diretta della pena al soggetto violatore della norma, ciò attraverso la
sentenza. Irrogo deriva da rogo: rivolgersi a qualcuno. Coerente con la natura di una pena
attribuita ad un soggetto.

Filius.

Al dativo plurale filiis presenta problemi interpretativi rispetto al genere.


Sorse in ambito giuridico (secondo noi), per evitare confusione di genere, di far uscire la desinenza
al dativo plurale: fili-abus.

Testo n.7:

Ecco un testo in cui l'uso epiceno del termine si fa problematico per comprendere la disposizione di
legato.
[7] D. 32.62, Iul. l.s. de ambig.: Qui duos mulos D. 32.62, Iul. l.s. de ambig.: Colui che aveva due muli
habebat ita legavit: ‘mulos duos, qui mei erunt cum così dispose un legato: ‘l’erede dia i due muli che
moriar, heres dato’:idem nullos mulos, sed duas mulas saranno miei quando morirò’; quegli lasciò non due muli
reliquerat. respondit Servius deberi legatum, quia ma due mule. Servio rispose che il legato era dovuto
mulorum appellatione etiam mulae continentur, poiché nel termine ‘muli’ sono comprese anche le mule,
quemadmodum appellatione servorum etiam servae così come nel termine ‘schiavi’ sono generalmente
plerumque continentur. id autem eo veniet, quod semper comprese anche le schiave. Avviene infatti che il sesso
sexus masculinus etiam femininum sexum continet. maschile comprenda sempre anche quello femminile.

I diversi tipi di legato in diritto romano.

Ci sono quattro tipi di legato che rispondono a due modelli fondamentali:

1) legato per vindicationem, con cui si attribuisce direttamente una cosa al legatario per effetto del
testamento e in sede di successione del de cuius. Con la successione il legato diventa proprietario.

2) legato per damnationem, il testatore dispone una obbligazione a carico dell'erede e a favore del
legatario.

LEGATI

In diritto romano il legatum, o meglio i legati, erano istituti tutelati iure civili. I giuristi romani, infatti, con
mentalità eminentemente pratica e diffidenti da astrazioni concettuali, non concepirono una nozione
unica e astratta di legato. Essi preferirono definire, come già per l'istituto dell'obbligazione, solo le
diverse specie di legato, i cosiddetti quattuor genera legatorum.
Il giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni scrive nel secondo commentario G.2.192: «Legatorum
itaque genera sunt quattuor: aut enim per uindicationem legamus aut per damnationem aut sinendi
modo aut per praeceptionem». (I generi di legati sono quattro: o per vindicationem, o per
damnationem, o sinendi modo, o per praeceptionem).

•Il legatum per vindicationem comportava il trasferimento ipso iure di un bene di proprietà del
testatore in capo al legatario. Aperta la successione, il legatario poteva immediatamente esercitare
la rei vindicatio per ottenere la consegna della res spettantegli. Ecco perché tale genere di legato
venne definito per vindicationem. Lo stesso Gaio accoglie questa spiegazione dell'origine del nome,
G.2 «Ideo autem per uindicationem legatum appellatur, quia post aditam hereditatem statim ex iure
Quiritium res legatarii fit; et si eam rem legatarius uel ab herede uel ab alio quocumque, qui eam
possidet, petat, uindicare debet, id est intendere suam rem ex iure Quiritium esse» (Traduzione: è
chiamato legato per vindicationem, perché appena adita l'eredità immediatamente ipso iure la cosa
legata diverrà di proprietà del legatario; e se il legatario chiede la cosa dall'erede o da chiunque altro
la possiede, deve esperire la vindicatio, cioè affermare che la cosa è sua ex iure Quiritium). Il legato in
questione si esprimeva con le parole latine DO, LEGO. Ad esempio se il testatore voleva legare lo
schiavo Stico a Tizio doveva usare le seguenti parole TITIO HOMINEM STICHVM DO ovvero TITIO
HOMINEM STICHVM LEGO.
•Il legatum per damnationem traeva invece la propria denominazione dalle parole usate dal
testatore: HERES MEVS STICHVM SERVVM MEVM DARE DAMNAS ESTO (Traduzione: il mio
erede sia tenuto a dare il mio schiavo Stico) (Confronta G.2.201). Il legato per damnationem creava un
obbligo a carico dell'erede di dare, creditore del rapporto era ovviamente il legatario al quale spettava
un'actio ex testamento in caso di inadempimento dell'erede. La differenza rilevante rispetto al
legato per vindicationem stava in ciò, che il legatario per vindicationem poteva ricorrere a un'actio in
rem, mentre il legatario per damnationem aveva a sua tutela un'actio in personam. Inoltre, a differenza
del primo legato, il legato per damnationem poteva avere come oggetto anche una res che non
apparteneva al testatore, nonché essere sottoposto a condizione.
•Il legatum sinendi modo richiedeva le seguenti parole: HERES MEVS DAMNAS ESTO SINERE
(traduzione: Il mio erede sia tenuto a subire). Esso, come il legato per damnationem, non aveva effetti
reali ma obbligatori. Il legato produceva l'obbligo per l'erede di subire che il legatario prendesse da sé
la cosa che gli spettava in virtù del legato. tale presa di possesso, valutata come traditio, comportava
l'acquisto della proprietà sulle res nec mancipi, il possesso ad usucapionem in caso di res mancipi.
Anche in questo caso, al legatario insoddisfatto, si concedeva un actio ex testamento in personam.
•Il legatum per praeceptionem aveva efficacia reale al pari del legato per vindicationem. Tuttavia, a
differenza di questo, esso veniva disposto a favore di uno dei coeredi che acquistava il bene oggetto
del legato prima delladivisione ereditaria (prae-capito donde il nome dato al legato) in modo tale che il
legato venisse sottratto all'eredità. La forma richiesta comprendeva l'uso del
termine praecipito (prenda con precedenza). Gaio riporta il seguente esempio: LVCIVS TITIVS
HOMINEM STICHVM PRAECIPITO (traduzione Il coerede Lucio Tizio prenda con precedenza lo
schiavo Stico). Esso trovava particolare attuazione in virtù dell'adiudicatio effettuata dall'arbiter in sede
di actio familiae erciscundae.
La quadripartizione dei genera legatorum venne meno già in epoca classica, allorquando i giuristi
romani avvicinarono il legato per praeceptionem a quello per vindicationem, e quello sinendi modo a
quello per damnationem. Infatti i primi erano legati a effetti reali. I secondi, legati a effetti obbligatori.

In epoca giustinianea la distinzione cadde del tutto in desuetudine e si parlò di un unico tipo di legato
che poteva produrre sia effetti obbligatori sia reali.

Il legato per vindicationem richiedeva dei requisiti: che la cosa oggetto di legato fosse in possesso
del testatore sia al momento della confezione del testamento, sia la momento della morte. Non
importante che lo fosse medio termine.

Servio afferma quindi che qui mulus è usato in senso epiceno, quindi comprendendo anche gli
animali femmina, anche se nella lingua latina esisteva il termine femminile (mula).

Ma in un testo differente, sempre di Servio, egli sembra in contraddizione con quanto appena
affermato:
[9] D. 50.16.122, Pomp. 8 ad Q. Mucium: Servius ait, si D. 50.16.122, Pomp. 8 ad Q. Mucium: Servio afferma
ita scriptum sit: ‘Filio filiisque meis hosce tutores do’, che se è stato scritto ‘assegno questi tutori a mio figlio e
masculis dumtaxat tutores datos, quoniam a singulari ai miei figli’ si intende che i tutori siano assegnati solo ai
casu hoc ‘filio’ ad pluralem videtur transisse (figli) maschi poiché appare che dal singolare si passi al
continentem eundem sexum, quem singularis prior plurale con l’intenzione di alludere allo stesso sesso che
positus habuisset. Sed hoc facti, non iuris habet è stato inizialmente indicato al singolare. Ma questa è
quaestionem: potest enim fieri, ut singulari casu de filio una questione di fatto, non di diritto: può infatti accadere
senserit, deinde plenius omnibus liberis prospexisse in che (il testatore) al singolare abbia inteso alludere a un
tutore dando voluerit. Quod magis rationabile esse figlio (maschio), e che poi, nell’assegnazione dei tutori,
videtur. egli abbia voluto riferirsi più ampiamente a tutti i figli
(comprese le femmine). Cosa che appare più
ragionevole.
Avendo usato filio (e non filae) al singolare, è dubbio che il testatore avesse voluto fare
riferimento alle figlie. Ma mentre nel frammento precedente non aveva avuto esitazioni nel
dire che mulos si riferisse anche a mulas. In questo frammento invece, Servio afferma che il
testatore vuole riferirsi ai soli figli maschi. Pomponio dissente, ma -secondo il Professore-
sbaglia. Perché? Non è una questione di fatto, e non di diritto: l'accertamento della volontà
del testatore, per la parte in cui esistono delle regole giuridiche per l'interpretazione delle
parole, diventa una questione di diritto.

Alfeno Varo, giurista di età repubblicana, si era soffermato spesso sul termine puer. Testo n.10

[10] D. 50.16.204, Paul. 2 epit. Alf. dig.: ‘Pueri’ D. 50.16.204, Paul. 2 epit. Alf. dig.: il termine ‘pueri’
appellatio tres significationes habet: unam, cum omnes (fanciulli) ha tre significati: il primo in quanto
servos pueros appellaremus:alteram, cum puerum chiamiamo ‘pueri’ tutti gli schiavi, il secondo in quanto
contrario nomine puellae diceremus: tertiam, cum utilizziamo ‘puer’ (fanciullo) in contrapposizione a
aetatem puerilem demonstraremus. ‘puella’ (fanciulla), il terzo per indicare tutti coloro che si
trovano in età puerile.

Qui Alfeno Varo indica i vari significati del termine fra cui di volta in volta il giurista dovrà
scegliere. Qual è il sostantivo di genere epiceno a questi tre? Il primo e il terzo. Non il secondo,
perché c'è uso di puella.

Anche questo frammento richiama l'attenzione sull'uso epiceno di puer: Testo 11:

[11] D. 50.16.163.1, Paul. 2 ad Sab.: ‘Pueri’ D. 50.16.163.1, Paul. 2 ad Sab.: Con il termine ‘pueri’ si
appellatione etiam puella significatur: nam et feminas allude anche alle fanciulle (letteralm.: alla fanciulla):
puerperas appellant recentes ex partu et Graece παιδίον infatti i greci chiamano puerpere le donne che hanno
communiter appellatur. partorito di recente e in greco (fanciullo) si dice
‘paidíon’.

Un ulteriore testo al riguardo:

[12] D. 50.16.116, Iav. 7 epist.: ‘Quisquis mihi alius filii D. 50.16.116, Iav. 7 epist.: (L’espressione) ‘Chiunque
filiusve heres sit’: Labeo non videri filiam contineri, altro sia mio figlio o figlio di mio figlio mi sia erede’:
Proculus contra. Mihi Labeo videtur verborum figuram secondo Labeone non sembra essere riferibile alle figlie;
sequi, Proculus mentem testantis. Respondit: non dubito, Proculo era di avviso contrario. A me sembra che
quin Labeonis sententia vera non sit. Labeone segua il significato delle parole, Proculo la
volontà del testatore. Rispose (Giavoleno): non ho
dubbi che il parere di Labeone non sia affidabile.

A chi si rivolge Giavoleno nel rispondere? E' un responso diretto o no? Secondo gli studiosi, qui a
interrgoare Giavoleno è un consultante, potrebbe essere un allievo, non necessariamente un
interessato. A Giavoleno vengono prospettati soluzioni di giuristi di epoche precedenti11
Un'espressione del genere, per la ripetizione, non sembra essere riferita alle figlie. Proculo invece è
dell'opinione che attribuisce uso epiceno al termine. Il consultante, a sua volta, esprime la sua
11 E' da notare, in questo specifico passaggio, il modus del proporre la questione interpretativa proposta da un discente
ad un maestro di diritto del suo tempo nel confronto con l'opinione dei giuristi del passato, che richiama un passo
(più d'uno, in vero) del Vangelo, laddove Cristo viene richiesto di riferire sull'interpretazione autentica, fra le altre,
riguardo a:
- i comandamenti cardine della Torah;
- aspetti sui rapporti familiari nella prospettiva della risurrezione dai morti e la vita in cielo (Sadducei);
- applicazione casistica dei comandamenti divini (l'adultera);
- questione di legittimità del divorzio.
opinione: "A me sembra che Labeone segua il significato delle parole, Proculo la volontà del testatore". E'
la questione (apparentemente) al centro della Causa curiana (figura verborum vs voluntas).
Secondo il Professore: essendo ben noti i mezzi della lingua, se qualcuno avesse voluto indicare le figlie,
avrebbe avuto i mezzi a disposzione. Quindi, la vera contrapposizione non è fra verba e voluntas ma
ricercare quale fosse realmente la volontà del testatore.
In molti casi -avverte il Professore- si tende a prospettare conflitto fra parole e volontà, quella che invece
deve essere la ricerca della volontà del disponente attraverso l'uso delle parole da lui adoperate. Molto spesso
è più facile una prospettazione di tale conflitto (anziché cercare la reale volontà del disponente),:così fa
Giavoleno, attribuendo l'uso epiceno con valore estensivo anche verso le figlie.

La figura di Labeone, dalle Notti Attiche di Aulio Gellio.

Ritratto di Labeone fatta da Aulio Gellio nelle Notti Attiche (immagina dei dialoghi svoltisi in Grecia fra
vari personaggi)

[13] Gell. 13.10.1-2: Labeo Antistius iuris quidem civilis Gell. 13.10.1-2: Antistio Labeone esercitò dunque la
disciplinam principali studio exercuit et consulentibus de conoscenza del diritto civile con particolare interesse e
iure publice responsitavit; ceterarum quoque bonarum a quelli che lo consultavano dava pareri sul diritto
artium non expers fuit et in grammaticam sese atque pubblico; ma fu esperto anche di altre arti liberali, si era
dialecticam litterasque antiquiores altioresque specializzato nella grammatica e nella dialettica, aveva
penetraverat Latinarumque vocum origines rationesque approfondito le letterature più antiche e più remote,
percalluerat eaque praecipue scientia ad enodandos aveva analizzato le origini e le regole delle parole
plerosque iuris laqueos utebatur. Sunt adeo libri post latine e usava particolarmente quelle conoscenze per
mortem eius editi, qui posteriores inscribuntur, quorum risolvere i molti dubbi del diritto. Dopo la sua morte
librorum tres continui, tricesimus octavus et tricesimus furono pubblicati libri intitolati postumi, dei quali i tre
nonus et quadragesimus, pleni sunt id genus rerum ad successivi, il 38°, il 39° e il 40°, sono ricchi di questo
enarrandam et inlustrandam linguam Latinam genere di fenomeni che portano a chiarire e spiegare la
conducentium. lingua latina.

In questo ritratto vengono messe in luce le competenze grammaticali di Labeone (regole grammaticali delle
parole), nonché la ricerca e analisi etimologica dei termini (origini delle parole). Un filologo di letteratura
latina del 900, Gino Funaioli, ha raccolto in un'opera Grammaticorum latinorum frammenta tutte le notizie
grammaticali sparse in testi di letteratura latina, esclusi i trattati di opere grammaticali latine. In quest'opera
ha raccolto una significativa sequenza delle testimonianze raccolto intorno a Labeone: esse riferiscono
principalmente intorno all'aspetto delle origini, in tema di etimologia. Se ricerchiamo le sue riflessioni
grammaticali, dobbiamo riferirci alle testimonianze di Labeone attestate nel Digesto, di cui una è di quelle
che abbiamo letto (testo 13). Con un'avvertenza: Labeone è generalmente attento al significato letterale
delle disposizioni negoziali.
Ecco un esempio della competenza grammaticale di Labeone vediamo un lemma Festino, Penatis (tratto
dall'opera di Festo, non dall'epitome di Paolo Diacono, d'età medievale).

[14] Fest. s.v. Penatis, 298 L: Penatis singularitert istius Fest. s.v. Penatis, 298 L: Il singolare di questo
posse dici putat, quia pluraliter penates dicantur, cum (sostantivo) si può ritenere indicato in ‘Penatis’, dal
patiatur proportio etiam penas dici, ut optimas, primas, momento che al plurale si dice ‘Penates’, benchè
Antias. l’analogia consenta che si dica anche ‘Penàs’, come
‘optimàs’, ‘primàs’, ‘Antiàs’.

I Penati erano gli avi divinazzati sotto la memoria di Penates, a cui si offrivano sacrifici. Qui Labeone si
distingue per essere in possesso di qualificate competenze grammaticali nella riflessione sul sostantivo
duplice singolare di Penati, cioè Penàs oppure Penatis.

Testo 15-16. Testi che testimoniano la costante presenza e riflessione circa l' uso problematico dell'epiceno
filius:
[15] D. 50.16.201, Iul. 81 dig.: Iusta interpretatione D. 50.16.201, Iul. 81 dig.: in forza di una corretta
recipiendum est, ut appellatione ‘filii’, sicuti filiam interpretazione abbiamo spesso evidenziato nei responsi
familias contineri saepe respondebimus [respondimus, ed come il termine ‘filii’ possa riferirsi anche alla figlia di
maior, in app.] […] famiglia

Qui sotto ci si chiede se anche "figlie" possa avere significato epiceno. Risposta negativa.

[16] D. 31.45 pr., Pomp. 8 ad Q. Mucium: Si ita sit D. 31.45 pr., Pomp. 8 ad Q. Mucium: Se così è stato
scriptum: ‘filiabus meis centum aureos do’, an et scritto: ‘alle mie figlie do cento aurei’, (il denaro) appare
masculini generis et feminini liberis legatum videatur? forse legato ai figli sia di genere maschile sia di genere
nam si ita scriptum esset: ‘filiis meis hosce tutores do’, femminile? Peraltro se fosse stato scritto: ‘attribuisco
responsum est etiam filiabus tutores datos esse. quod questi tutori ai miei figli’ è stato affermato per responso
non est ex contrario accipiendum, ut filiarum nomine che i tutori sarebbero stati assegnati anche alle figlie. Il
etiam masculi contineantur: exemplo enim pessimum est che non è da intendere in senso contrario in modo che
feminino vocabulo etiam masculos contineri. con la menzione delle figlie si considerino compresi
anche i figli: è infatti un pessimo esempio quello in cui
con l’uso di un termine femminile si ritengano compresi
anche i soggetti maschili.

Quindi la regola sull'uso epiceno di filius al maschile è confermata; viceversa, per l'uso femminile con uso
epiceno, essa non vale.

[17] D. 32.93.3, Scaev. 3 resp.: Quaesitum est, an, quod D. 32.93.3, Scaev. 3 resp.: È stato domandato se ciò che
heredes fratribus rogati essent restituere, etiam ad è stato chiesto agli eredi di restituire ai fratelli fosse
sorores pertineret. respondit pertinere, nisi aliud pertinente anche alle sorelle. Rispose che era pertinente,
sensisse testatorem probetur. a meno che non si possa provare che il testatore aveva
inteso diversamente.

Uso epiceno della parola fratelli? Scevola risponde affermativamente, a meno che non si possa provare che il
testimone aveva disposto diversamente. Ma l'interpretazione estensiva della volontà, per intenderla ai soli
fratelli, è ammissibile solo sulla base di prove e indizi. Deve cioè valere la ricerca rigorosa della volontà del
disponente.

[28] PS 3.6.69: Servis ‘do lego’ legatis ancillae quoque PS 3.6.69: Se sono stati attribuiti in legato degli ‘schiavi’
debebuntur:non item servi legatis ancillis: sed con le parole ‘do lego’ sono dovute anche le schiave; con
ancillarum appellatione tam virgines quam servorum il termine ‘schiave’ ci si riferisce sia alle fanciulle che ai
pueri continentur: his scilicet exceptis, qui fiduciae dati figli delle schiave, esclusi solamente quelli che sono stati
sunt. dati a titolo fiduciario.

[29] PS Int. 3.10.53: Servis legati titulo dimissis tam PS Int. 3.10.53: Se sono stati attribuiti degli ‘schiavi’ a
pueri quam ancillae debentur, quia masculorum titolo di legato sono dovuti tanto i fanciulli quanto le
appellatione etiam feminae continentur. Ancillis vero fanciulle. Diversamente il legato di 'schiave' non
legatis servi non continentur. Ancillarum autem comprende gli schiavi. Peraltro il termine ‘schiave’
appellatione tam virgines quam puberes vel impuberes comprende tutte le fanciulle sia vergini che puberi o
accipiendae sunt exceptis, quas testator loco pignoris anche impuberi, ad eccezione di quelle che il testatore ha
posuerit. dato come pegno.
Nella perifrasi "esclusi solamente quelli che sono stati dati a titolo fiduciario" (schiavi dati in pegno) si
devono ritenere esclusi dal legato.

Molti di questi frammenti sono tratti dal libro 50, titolo 16, che si intitola De diversis regulis iuris antiqui. I
compilatori hanno voluto raccogliere in questo titolo le testimonianze dei giuristi attestanti la diversità di
regole nell'uso del linguaggio in vista dell'enucleazione di una regola di diritto, spesso riferita come abbiamo
visto a quella sull'uso epiceno dei termini.
LEZIONE 8 (11.3.2021)

Numerose testimonianze di Ulpiano affrontano il problema dell'uso epiceno dei sostantivi.

Testo n.18-25:
[18] D. 26.2.16 pr., Ulp. 39 ad Sab.: Si quis ita dederit D. 26.2.16 pr., Ulp. 39 ad Sab.: Se qualcuno ha disposto
‘filiis meis tutorem do’, in ea condicione est, ut tam filiis di dare così: ‘assegno un tutore ai miei figli’, tale
quam filiabus dedisse videatur: filiorum enim disposizione comporta che abbia attribuito il tutore tanto
appellatione et filiae continentur. ai figli che alle figlie: infatti il termine maschile contiene
anche quello femminile.

[19] D. 2.1.7.1, Ulp. 3 ad ed.: Servi quoque et filii D. 2.1.7.1, Ulp. 3 ad ed.: Anche gli schiavi e i figli di
familias verbis edicti continentur: sed et utrumque famiglia sono compresi nelle parole dell’editto: infatti il
sexum praetor complexus est. pretore si è riferito ad entrambi i sessi.
[20] D. 50.16.40.1: Ulp. 56 ad ed.: ‘Servi’ appellatio D. 50.16.40.1: Ulp. 56 ad ed.: il termine ‘schiavi’ si
etiam ad ancillam refertur. riferisce anche alle schiave.
[21] D. 50.16.52, Ulp. 61 ad ed.: ‘Patroni’ appellatione D. 50.16.52, Ulp. 61 ad ed.: con il termine ‘patrono’ ci si
et patrona continetur. riferisce anche alla ‘patrona’.
[22] D. 50.16.172, Ulp. 38 ad Sab.: ‘Liberti’ D. 50.16.172, Ulp. 38 ad Sab.: si concordò che con il
appellatione etiam libertam contineri placuit. termine ‘liberti’ ci si riferisse anche alla liberta.
[23] D. 3.5.3.1, Ulp. 10 ad ed.: Haec verba ‘si quis’ sic D. 3.5.3.1, Ulp. 10 ad ed.: Queste parole ‘se qualcuno’
sunt accipienda ‘sive quae’: nam et mulieres negotiorum sono da intendere così: ‘se qualcuna’: infatti non si
gestorum agere posse et conveniri non dubitatur . dubita che anche le donne possano agire ed essere
convenute per la gestione di affari altrui.

[24] D. 49.14.16, Ulp. 18 ad l. Iuliam et Papiam: Ait D. 49.14.16, Ulp. 18 ad l. Iuliam et Papiam: Afferma il
divus Traianus: ‘Quicumque professus fuerit’. divino Traiano: ‘chiunque avrà confessato’. Dobbiamo
‘Quicumque’ accipere debemus tam masculum quam intendere ‘chiunque’ sia maschio che femmina. Infatti,
feminam: nam feminis quoque, quamvis delationibus per effetto del beneficio di Traiano, è permesso anche
prohibentur, tamen ex beneficio Traiani deferre se alle donne accusarsi, benché ad esse siano vietate le
permissum est. delazioni.
[25] D. 50.16.195 pr., Ulp. 46 ad ed.: Pronuntiatio D. 50.16.195 pr., Ulp. 46 ad ed.: La menzione verbale
sermonis in sexu masculino ad utrumque sexum del genere maschile è diretta per lo più a indicare l’uno e
plerumque porrigitur. l’altro sesso.

L'insieme delle testimonianze di Ulpiano sopra riportati attesta che al problema relativo all'uso
epiceno dei sostantivi non era mai stata data soluzione definitiva: il valore di epiceno può essere (ma può
anche non essere) riconosciuto volta per volta. I frammenti individuano tre gruppi: uso epiceno di sostantivi,
di pronomi e una regola in forma generalizzante.

Modestino. Due testi:


[26] D. 32.81 pr., Mod. 9 diff.: Servis legatis etiam D. 32.81 pr., Mod. 9 diff.: Alcuni correttamente ritengono
ancillas quidam deberi recte putant, quasi commune che il legato di ‘schiavi’ debba riferirsi anche alle
nomen utrumque sexum contineat: ancillis vero legatis schiave, come se il termine (di genere) comune contenga
masculos non deberi nemo dubitat. sed pueris legatis l’uno e l’altro sesso; diversamente non vi è dubbio che il
etiam puellae debentur: id non aeque in puellis pueros legato di ‘schiave’ non comporta l’attribuzione degli
contineri dicendum est. schiavi. Ma con il legato di ‘fanciulli’ sono dovute anche
le fanciulle, mentre non è altrettanto vero il contrario,
ovvero che nel legato di ‘fanciulle’ siano compresi i
fanciulli.
[27] D. 50.16.101.3, Mod. 9 diff.: Servis legatis etiam D. 50.16.101.3, Mod. 9 diff.: Alcuni ritengono che con il
ancillas deberi quidam putant, quasi commune nomen legato di ‘schiavi’ siano dovute anche le schiave, come
utrumque sexum contineat. se il nome comune si riferisse all’uno e all’altro sesso.

Modestino, l'ultimo della lunga generazione di giuristi che rendevano responsi. Era allievo di Ulpiano,
conclude la serie dei giuristi e qui affronta sinteticamente (e conclusivamente) tutti gli aspetti del problema.

Affermato l'uso epiceno del termine epiceno al plurale di servi; non vero il contrario, per il termine
femminile. Ancora, attestato uso epiceno di puer.

La trattazione nelle fonti antiche può qui essere conclusa.

Il problema nelle fonti moderne.

Ora vediamo delle sentenze di Cassazione con valenza del genere grammaticale ancora oggi rilevante
nell'interpretazione dei negozi giuridici. Vediamo in Argomento 4 le varie sentenze e articoli oggetto della
trattazione al riguardo. Era stato emesso dal Pm un decreto di sequestro avente per oggetto un compendio di
immobili. Impugnazione. Il Tribunale dava ragione agli impugnanti, rifiutando la convalida al decreto.
Questo si afferma nell'ordinanza e nella sentenza . Il Pm ha impugnato la ordinanza che rifiutava la
convalida davanti alla Corte di Cassazione, la cui Sezione ha deciso sul caso con ordinanza, in applicazione
dell'art. 618 del CPP (parallelo del 374 del CPC già visto, dove si imporrebbe alla Sez Semplice la
rimessione alle Sez. Unite se il problema è già stato affrontato). In questo caso la rimessione alle Sezioni
Unite è avvenute. Noi ci troviamo a commentare l'ordinanza di rimessione ( Cass.Pen. Sez. 3 Ord. n.
36772018 ) e la sentenza delle Sezioni Unite (Cass.Pen. Sez. U. n. 360722018) con cui il caso è stato deciso.

Art. 253 Codice di procedura penale


Oggetto e formalità del sequestro.

1. L'autorità giudiziaria dispone con decreto motivato il sequestro del corpo del reato e delle cose
pertinenti al reato necessarie* per l'accertamento dei fatti.

2. Sono corpo del reato le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le
cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo.

3. Al sequestro procede personalmente l'autorità giudiziaria ovvero un ufficiale di polizia


giudiziaria delegato con lo stesso decreto.

4. Copia del decreto di sequestro è consegnata all'interessato, se presente.


Sulla motivazione della necessarietà del sequestro.

Un primo ordine di motivazioni riguardo il fatto che quella cosa sia il corpo del reato. A tale riguardo, il pm
aveva detto: "Sono reati edilizi" -> la corrispondenza necessaria fra corpo del reato e

Il problema assume una valenza grammaticale per quanto riguarda la relazione fra necessarietà, che qui è
concordato con cose. Ma può esser riferito anche a corpo del reato?

La regola grammaticale italiana è che quando si deve concordare un aggettivo con una serie di sostantivi di
cui alcuni sono maschili ed altri femminili, l'aggettivo va di genere maschile. Quindi in questo caso:
necessarie si riferirebbe solo alle cose. Se avesse dovuto riferirsi anche a corpo del reato, avrebbe dovuto
scrivere necessari.

Ma una regola ammissibile invalsa e sopravvenuta tramite il linguaggio parlato fa sì che l'aggettivo si possa
concordare anche con il genere dell'ultimo sostantivo della sequenza. Fenomeno di costruzione a senso,
ammessa dall'uso.

Quindi nell'ambito della giurisprudenza di Cassazione si sono formati due indirizzi: uno favorevole
all'interpretazione secondo la regola grammaticale tradizionale (e quindi la necessarietà di cui al 253 cpp non
riguarderebbe il corpo del reato, perché la necessarietà è in re ipsa, presunta); l'altra per cui invece la
necessarietà è ancora da dimostrare e quindi interpreta l'articolo secondo la concordanza dall'uso.

Parole dei giudici, a pagina 6 punto 6:

Quanto, poi, al provvedimento di convalida emesso dal P.M., nello stesso sono
richiamati gli articoli di legge che si assumono violati (tra cui l'illecito edilizio di cui
all'art. 44, Dp.R. n. 380 del 2001), il richiamo ai verbali di sequestro operati nei
confronti degli indagati in data 24.04.2017 dalla p.g. operante, l'asserzione secondo
cui l'attività della p.g. sarebbe stata legittimamente compiuta ed, infine, la
seguente motivazione "ritenuto che quanto è stato oggetto di sequestro è corpo
di reato o, comunque, cosa pertinente al reato, in particolare trattasi di beni la cui
detenzione è illecita e/o il cui mantenimento in sequestro è indispensabile al fine
della prosecuzione delle indagini".

Pagina 8 punto 10:

Ciò, tuttavia, comporterebbe la necessità per questo Collegio di doversi discostare


dal principio di diritto affermato da questa stessa Corte nella sua più autorevole
composizione con la sentenza Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 - dep.
13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv. 226711, così ufficialmente massimata:
«Anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro
a fini di prova deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in
ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l'accertamento dei
fatti». Si impone, tuttavia, doverosamente, la rimessione della questione alle Sezioni
Unite, non soltanto ai sensi del comma primo, ma anche - attesa la potenziale
adesione di questo Collegio alla tesi prospettata dal P.M. ricorrente nel caso
esaminato - ai sensi del nuovo comma primo-bis dell'art. 618 del vigente codice
di rito, secondo cui "Se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio
di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la
decisione del ricorso".

L'opinione della Sezione Semplice riteneva che fosse in re ipsa la motivazione del corpo del reato. Per questo
la rimette alle Sezioni Unite. Nel rimettere, fa un breve excursus delle opinioni che si erano già confrontate.

12. In particolare, sul primo versante, la distinzione operata tra corpo del reato e
cose pertinenti al reato ai fini della motivazione del decreto di sequestro nasce da 1° orientamento
una lettura del dato normativo che connette l'aggettivo "necessarie", contemplato
dall'art. 253, comma primo, alle sole "cose pertinenti al reato", in quanto utilizzato
al femminile plurale. Cosicché, si sostiene, se si fosse voluto riferire il termine
"necessarie" anche al corpo del reato, seguendo le comuni regole grammaticali si
sarebbe dovuto declinare quell'aggettivo al maschile plurale. Ne discende, secondo
quest'orientamento, che il corpo del reato è, per sua natura, inscindibilmente legato
all'illecito in un rapporto di immediatezza tale da far apparire necessaria
senza ombra di dubbio l'acquisizione tramite sequestro a fini di prova e di accertamento
dei fatti. In tal caso, è considerato sufficiente che la motivazione si incentri,
più che sulla sussistenza delle esigenze probatorie idonee a giustificare il
provvedimento di adprehensio, come sarebbe nel caso di cose pertinenti al reato,
sulla configurabilità della res quale corpo del reato. A fronte di tali oggetti, invero,
si tende a porre attenzione prevalentemente, se non esclusivamente, all'effettiva
possibilità di qualificare la cosa come corpus delicti, accertando la presenza del
rapporto di immediatezza, descritto dall'art. 253, comma secondo, tra la res e
l'illecito ( C., Sez. VI, 6.10.1998, Calcaterra, in Mass. Uff., 212678; C., Sez. VI,
20.1.1998, Gulino, in Mass. Uff., 210821; C., Sez. III, 23.11.1995, Sassoli De
Bianchi, in CP, 1996, 3074; C., Sez. I, 5.6.1992, Tognoni, in Mass. Uff., 191736;
C., Sez. H, 4.11.1991, Sacchetti, in ANPP, 1992, 401; C., Sez. VI, 28.11.1990,
Patelli, in CP, 1991, 758; C., Sez. III, 28.9.1990, Monti, in CP, 1991, 286).
D'altro canto, al fine di ovviare ad automatismi legati alla qualità della res, si è il codice prevede solo 3 generi
rilevato come la finalità probatoria delle cose che costituiscono il corpo di reato di sequestro: probatorio, conser-
non può essere presunta, ma va accertata di volta in volta, tanto che si tratti di vativo e preventivo.
cosa pertinente al reato quanto di corpo del reato, dovendosi, altrimenti, prospettare
un quarto genere di sequestro oltre ai tre già previsti dal codice di rito (probatorio,
conservativo e preventivo). Tra gli argomenti a sostegno di questa tesi,
specifica attenzione è stata data al disposto dell'art. 262, relativo alla restituzione dato che si investiga circa
delle cose sequestrate una volta venute meno le esigenze probatorie, da cui si il rapporto di necessarietà
ricavava l'intenzione del legislatore di fissare esplicitamente un nesso imprescindibile e qui essa non distingue
tra la misura e le predette istanze (su quest'ultimo aspetto, v. C., Sez. VI, 15.6.1992, fra corpo e cose pertinen-
Bottinelli, in Mass. Uff., 191268; e, più in generale, C., Sez. I, ti, significa che la nozione
17.11.1992, Gennari, in CP, 1994, 1616; C., Sez. I, 17.11.1992, Gennari, in Mass. di necessità anche nel 253
Uff., 192804; C., Sez. VI, 13.3.1992, Migliore, in GI, 1992, II, 445; C., Sez. III, per coerenza sistematica
9.12.1991, Giordano, in CP, 1993, 654). deve riferirsi a tutte le cose.

Art. 262.
Durata del sequestro e restituzione delle cose sequestrate.

1. Quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono
restituite a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza. Se occorre, l'autorità giudiziaria
prescrive di presentare a ogni richiesta le cose restituite e a tal fine può imporre cauzione.

Pagina 10 n.13:

13. Su questo tema le Sezioni Unite di questa Corte, in un primo momento, sconfessarono
quell'orientamento che riteneva superflua la motivazione a proposito del
corpus delicti: venne corretta l'analisi sintattico-grammaticale dell'art. 253, rilevando
come «per ragioni di immediata contiguità sintattica è possibile la concordanza -> I giudici aderiscono
dell'aggettivo con l'ultimo nome femminile, quando questo è plurale, anche all'interpr. grammaticale
se è preceduto da nomi maschili»; si ribadì l'esigenza di verificare tramite la motivazione non tradizionale;
la correttezza e la legittimità del provvedimento e, infine, si smentì l'assunto
per cui il corpo del reato è sempre necessario per la ricostruzione dei fatti,
prendendo ad es. l'ipotesi di beni oggetto del furto (C., S.U., 18.6.1991, Raccah,
in CP, 1991, 925).
Con una successiva pronuncia le Sezioni Unite (C., S.U., 11.2.1994, Carella, in GI,
1995, II, 24) ribaltarono la posizione precedentemente assunta, rilevando come
la finalità probatoria del corpo del reato è in re ipsa e, pertanto, nel caso di sequestro -> poi ricambiarono
probatorio che abbia ad oggetto il corpus delicti non è necessario giustificare orientamento
la necessità del ricorso a tale mezzo, essendo sufficiente, a tal fine, un richiamo
alla qualificazione della cosa come corpo del reato.

Ora guardiamo la Sentenza a Sezioni Unite, cui era stata rimessa la decisione dalla Sezione
Semplice (Cass.Pen. Sez. U. n. 360722018) . Cominciamo da pagina 6:

2. Tanto premesso, la questione di diritto devoluta a queste Sezioni Unite


va dunque sinteticamente riassunta nei seguenti termini :
"Se, anche per le cose che costituiscono corpo di reato, il decreto di
sequestro (o di convalida di sequestro) probatorio debba essere comunque
motivato quanto alla finalità in concreto perseguita per l'accertamento dei fatti ".

Ora fondo pagina , considerazioni a carattere grammaticale:

Dopo avere precisato che il dato testuale dell'art. 253 cit., per il solo fatto
dell'utilizzo dell'aggettivo "necessarie", di genere femminile, non può giustificare
la conclusione che in caso di sequestro del corpo del reato non occorra la
indicazione delle esigenze probatorie (atteso che, per ragioni di immediata -> la descrizione del fenomeno
contiguità sintattica, ben sarebbe possibile la concordanza dell'aggettivo con grammaticale riflette l'orientamen-
l'ultimo nome femminile, quando questo è plurale, anche se preceduto da nomi to e digrada in ragione del pro-
maschili), la pronuncia ha affermato come «decisiva la considerazione che in prio convincimento. Questo è
ogni caso il decreto deve essere motivato e che, potendo il sequestro (anche un invito ai futuri giuristi a riflet-
quello del corpo del reato) avvenire sia per finalità probatorie, sia per finalità tere sempre sul significato espli-
preventive, soggette a regole diverse, l'autorità che lo dispone non può non cito o implicito delle parole, sia
indicare le finalità che con il provvedimento intende perseguire, così come il che esse siano contenute in un
giudice del riesame non può non controllare queste finalità per verificare, anche testo normativo, o negoziale
sotto l'aspetto procedimentale, la legittimità del decreto». Si è poi ritenuta sia a maggior ragione in una
erronea la affermazione della connaturata necessità per l'accertamento dei fatti argomentazione interpretati.
insita nel corpo del reato : da un lato, un tale assioma sarebbe sconfessato dalla va. Come quando noi
realtà e, dall'altro, lo stesso legislatore avrebbe ritenuto imprescindibile il nesso mettiamo un oggetto di
tra la misura e le esigenze probatorie imponendo, ai sensi dell'art. 262, comma fronte ai due specchi l'uno
1, cod. proc. pen., la restituzione delle cose «quando non è necessario davanti all'altro si riflettono
mantenere il sequestro ai fini di prova», in tale locuzione indifferenziata all'infinito, così nell'interpreta
dovendosi ricomprendere anche il corpo del reato. Di qui, dunque, zione della lingua.
l'insostenibilità logica di un sequestro del corpo del reato senza accertamento
della sua necessità ai fini probatori, atteso che, se questa necessità mancasse, si
dovrebbe restituire immediatamente la cosa sequestrata.

Il problema è ripreso nell'ultima parte di pagina 7 e vediamo come si sviluppa in motivazione della
sentenza:

Ad una prima ragione, di ordine letterale (l'indicazione nell'art. 253 cod.


proc. pen. dell'aggettivo "necessarie", in quanto declinato al plurale femminile,
dovrebbe riferirsi solo alle cose pertinenti al reato e non anche al corpo di reato),
dovrebbe aggiungersi la considerazione sostanziale incentrata sul concetto di
"corpo di reato", implicante, in linea di principio, un vincolo necessario con la
prova del reato e postulante l'esistenza di un rapporto di immediatezza tra la
cosa e l'illecito penale, con conseguente necessaria efficacia probatoria diretta in
ordine all'avvenuta commissione di un reato ed alla sua attribuibilità ad un
soggetto determinato. Proprio la previsione della restituzione "all'avente diritto"
contenuta nell'art. 262 cit., valorizzata dall'indirizzo volto a richiedere sempre la
motivazione sulle finalità probatorie, renderebbe poi logico il sostenere che il
sequestro del corpo di reato non necessiti dell'individuazione di detta finalità.

In sentenza si fa un secondo riferimento di carattere sistematico, contenuto nell'art. 354.

Art. 354.
Accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone. Sequestro.

1. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria curano che le tracce e le cose pertinenti al reato
siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell'intervento del
pubblico ministero.
2. Se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino o si
disperdano o comunque si modifichino e il pubblico ministero non può intervenire
tempestivamente, ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia
giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose. In
relazione ai dati, alle informazioni e ai programmi informatici o ai sistemi informatici o telematici,
gli ufficiali della polizia giudiziaria adottano, altresì, le misure tecniche o impartiscono le
prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne l’alterazione e l’accesso e
provvedono, ove possibile, alla loro immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una
procedura che assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità(2). Se del
caso, sequestrano il corpo del reato e le cose a questo pertinenti.

-> quindi non sempre il corpo del reato deve essere sequestrato. E quindi anche nel 353 la
necessarietà è affidata discrezionalmente al magistrato e dunque da non ritenersi in re ipsa.

Qui l'interpretazione sistematica ha degli appigli molto forti: 253, 262, 254. L'interpretazione
grammaticale tradizionale purtroppo non è sostenuta dalla coerenza con le altre disposizioni del
codice. Rimane però che problemi di applicazione della regola linguistica emergono qua e là ancora
oggi nella riflessione dei giurisit e nell'argomentazione delle sentenze. Questo per sottolineare a che
il giurista si doti degli strumenti interpretativi anche di primo livello, quelli grammaticali relativi
alle regole nell'uso della lingua.

Ultime riflessioni su Graziadio Isaia Ascoli sull'accettazione dell'evoluzione linguistica


tramite uso e impostazione dirigistica del modello della lingua italiana proposto e recepito
(anche scolasticamente) secondo l'impostazione unificatrice della lingua di Manzoni.

LEZIONE 9 (16.3.2021)

Dopo aver affrontato la rilevanza del genere, trattiamo quella del numero grammaticale.

Mentre la prima riguarda il rapporto fra lingua e realtà, la seconda si riconnette a una riflessione filosofica di
carattere generale ma diversa e più antica. Il problema era quello dell'unità o molteplicità dell'essere.

Parmenide, a cavallo fra il VI e V secolo, elabora la teoria dell'essere come unico, mentre il non essere come
non meritevole di attenzione. Se unico, sferico (=perfetto), insuscettibile di frammentazione. A lui sarebbe
stata contrapposta la molteplicità dell'essere. A queste concettualizzazioni si fanno risalire le nozioni di
singolare e plurale in campo grammaticale. Discorso un po' debole; del resto non si tratta qui di filosofia (...)

Guardiamo Retorica ad Herennium, testo n. 30 (Fasciolo IV):

[30] Rhet. Her. 4.45.1-3: Ab uno plura hoc modo Rhet. Her. 4.45.1-3: Dall’uso del singolare si deve
intellegentur: ‘Poeno fuit Hispanus auxilio, fuit inmanis intendere il plurale in questo esempio: ‘Il cartaginese fu
ille Transalpinus, in Italia quoque nonnemo sensit idem di aiuto allo spagnolo e lo fu quel grande transalpino;
togatus’. A pluribus unum sic intellegetur: ‘Atrox anche in Italia qualche togato percepì la stessa cosa’.
calamitas pectora maerore pulsabat; itaque anhelans ex Dall’uso del plurale si deve intendere il singolare in
imis pulmonibus prae cura spiritus ducebat’. Nam in questo esempio: ‘Un’atroce calamità scuoteva i petti con
superioribus plures Hispani et Galli et togati, et hic la tristezza; così ansimando per l’affanno esalava il
unum pectus et unus pulmo intellegitur. respiro dalla profondità dei polmoni’. Infatti nel primo
caso gli Ispani, i Galli e i togati sono molti, nell’ultimo si
deve intendere un solo petto e un solo sistema
polmonare.

Il testo presenta i problemi che si possono incontrare nell'uso del singolare per il plurale, e del plurale per il
singolare. Ciò può essere rilevante nei testi giuridici e normativi. Del problema c'era consapevolezza fra i
giuristi, come ci attesta il testo n. 38:
[38] D. 50.16.158, Cels. 25 dig.: In usu iuris frequenter D. 50.16.158, Cels. 25 dig.: Cascellio afferma che
uti nos Cascellius ait singulari appellatione, cum plura nell’uso (del linguaggio) giuridico noi frequentemente
generis eiusdem significare vellemus: nam “multum utilizziamo un termine singolare per indicare più cose di
hominem venisse Romam” et “piscem vilem esse” quel genere: infatti diciamo che “multum hominem
dicimus. item in stipulando satis habemus de herede venisse Romam” e che “il pesce costa poco”. Allo stesso
cavere “si ea res secundum me heredemve meum modo nel concludere una stipulatio riteniamo di
iudicata erit” et rursus “quod ob eam rem te heredemve garantire l’erede (con le parole) “se la cosa sarà stata
tuum”: nempe aeque si plures heredes sint, continentur giudicata a mio favore o a favore del mio erede” e
stipulatione. ancora: “ ciò che, a motivo di tal cosa, tu o il tuo
erede…”: senza dubbio se vi fossero più eredi la
stipulatio si riferirebbe a tutti.

Cascellio è giurista di ultima età repubblicana e inizi età imperiale. Anch'egli come Labeone rinunciò al
consolato perché non si riconsoceva nella trasformazione politica operata verso il Principato. Un difensore
della legalità repubblicana, che non aveva dato seguito a disposizione dei triumviri.

multum hominem venisse Romam” ; “piscem vilem esse” Quale è la differenza logica? Per il primo caso
l'affermazione è vera per una parte dell'insieme; nel secondo l'affermazione è vera per tutti gli elementi
dell'insieme. La prima ipotesi quindi riguarda un caso di singolare collettivo propriamente detto (non si
riferisce a tutti gli elementi dell'insieme), mentre la seconda un singolare distributivo (si riferisce a tutti gli
elementi dell'insieme).

Qui (testo 39) un editto aveva chiesto l'intervento del tutore:


[39] D. 27.6.1.4, Ulp. 12 ad ed.: Item hoc edictum licet D. 27.6.1.4, Ulp. 12 ad ed.: Benché in questo editto sia
singulariter scriptum sit, si tamen plures intervenerint, usato il singolare, se tuttavia siano intervenuti più
qui tutores non erant, tamen locum habere debere soggetti che non erano tutori, Pomponio nel libro 30
Pomponius libro trigesimo scribit. scrive che la tutela edittale deve essere prestata.

Testo 40, registra un'incertezza al riguardo:


[40] D. 26.2.16.1, Ulp. 39 ad Sab.: Si quis filio tutorem D. 26.2.16.1, Ulp. 39 ad Sab.: Se qualcuno abbia
dederit et plures filios habeat, an omnibus filiis dedisse assegnato un tutore al figlio e abbia più figli, si deve
videatur? et de hoc Pomponius dubitat: magis autem est, ritenere che lo abbia assegnato a tutti? Pomponio ne
ut omnibus dedisse videatur. dubita ma è preferibile ritenere che abbia disposto per
tutti.

Vediamo il testo 41, riguardante l'assegnazione di un liberto ad opera di un senatoconsulto:


[41] D. 38.4.1.1, Ulp. 14 ad Sab.: Quamvis singulari D. 38.4.1.1, Ulp. 14 ad Sab.: Benché il (testo del)
sermone senatus consultum scriptum est, tamen et senatoconsulto sia scritto al singolare, tuttavia è certo
pluribus liberis et plures libertos libertasve posse che a più figli possano essere assegnati uno o più liberti
adsignari certum est. o liberte.

Fin qui sull'uso del singolare collettivo. Veniamo ed esempio sul plurale disgiuntivo.

Qui abbiamo un legato per vindicationem (do lego), sottoposto a condizione sospensiva:
[35] D. 35.1.33.4, Marc. 6 inst.: Quid ergo, si quis ita D. 35.1.33.4, Marc. 6 inst.: Che cosa accadrebbe se
scripserit: ‘Stichum et Pamphilum Titio do lego, si mei qualcuno avesse scritto ‘attribuisco a Tizio in legato
erunt cum moriar’ et unum ex his alienaverit, an vel Stico e Panfilo se saranno miei quando morirò’ e poi
alter possit a legatario vindicari? placet vindicari, nam avesse alienato uno dei due schiavi: potrebbe essere
hunc sermonem, licet pluralis sit, pro eo oportet accipi, rivendicato dal legatario? Si consente che lo rivendichi:
atque si separatim dixisset: ‘Stichum, si meus erit cum infatti benché la formulazione letterale sia al plurale, la si
moriar’. deve intendere come se avesse detto separatamente di
ciascuno dei due schiavi: ‘Se Stico sarà mio quando
morirò’.

La condizione non si era poi verificata, perché uno dei due schiavi era stato alienato prima della morte del
testatore. Tuttavia questa clausola viene interpretata diversamente: la si deve intendere -benché al plurale-
non in senso cumulativo, ma disgiuntivo. Cioè come somma di singolari, a ciascuno dei quali attribuire il
significato della disposizione.

[36] D. 32.29.4, Lab. 2 post. a Iav. epit.: ‘Si Stichus et D. 32.29.4, Lab. 2 post. a Iav. epit.: ‘Se Stico e Dama,
Dama servi mei in potestate mea erunt cum moriar, tum miei schiavi, saranno di mia proprietà quando morirò,
Stichus et Dama liberi sunto et fundum illum sibi allora Stico e Dama siano liberi e abbiano quel tale
habento’. si alterum ex his post testamentum factum fondo’. Se il proprietario avesse alienato o manomesso
dominus alienasset vel manumisisset, neutrum liberum uno dei due dopo la confezione del testamento, Labeone
futurum Labeo putat: sed Tubero eum, qui remansisset in ritiene che nessuno dei due possa essere libero, ma
potestate, liberum futurum et legatum habiturum putat. Tuberone ritiene che quello dei due che sia rimasto in
Tuberonis sententiam voluntati defuncti magis puto proprietà (del testatore) possa essere libero e acquistare
convenire. il legato*. Ritengo che il parere di Tuberone sia più
confacente alla volontà del testatore.

Siccome il legato riguardo due schiavi, prima del legato occorre la clausola di manumissione testamentaria.
La condizione con riguardo a un plurale cumulativo non si sarebbe verificata; ma secondo Tuberone va
inteso anche qui la presenza di un plurale disgiuntivo. Ciò sarebbe stato più confacente alla volontà del
testatore.

*la metà (vale a dore, una quota parte del fondo (½), per attribuzione in comproprietà ad entrambi) o l'intero?
Quando si apre la successione ne rimane uno solo (l'altro è stato nel frattempo venduto). Abbiamo dunque le
due possibilità quali sono le argomentazioni in favore dell'una o dell'altra? Il problema è quello di stabilire se
con questa disposizione debba prevalere il profilo del legato inteso unitariamente, e quindi il fondo era dato
in legato sottraeondolo alla disponibilità degli eredi, acquistandolo così lo schiavo per intero; oppure il
plurale disgiuntivo riguarda anche l'avveramento della condizione, e quindi lo schiavo acquista una quota
pari alla metà del valore del fondo, e l'altra quota per mancato avveramento della condizione si consolida in
quota agli eredi.

Testo 37, ancora sul plurale disgiuntivo:


[37] D. 35.1.112.2, Pomp. 12 epist.: De illo quoque D. 35.1.112.2, Pomp. 12 epist.: Ci si interroga intorno a
quaeritur: fundus quibusdam legatus est, si pecuniam questo: un fondo è stato legato ad alcuni a condizione
certam in funus impensamque perferendi corporis in che impieghino una certa somma nel funerale del
aliam regionem dedissent. nam nisi uterque dederit, testatore e nel trasporto della salma in un’altra regione.
neutri est legatum, quoniam condicio nisi per utrumque Infatti se l’uno e l’altro non avranno dato la propria parte
expleri non potest. sed haec humanius interpretari di denaro il legato non può essere acquisito da alcuno
solemus, ut, cum duobus fundus legatus sit, si decem poiché la condizione non può essere adempiuta se non da
dedissent, et alteri dando partem legatum quoque entrambi. Ma in casi simili siamo soliti interpretare più
debeatur. umanamente in modo che, qualora un fondo sia stato
legato a due beneficiari, se daranno dieci, la
corrispondente quota del legato sia dovuta anche a uno
solo che abbia dato la somma (di sua spettanza).

Se però nel caso concreto uno pagasse la metà, il trasporto della salma non avviene, non essendo stata pagata
l'intera somma. La risposta generalizzante (per quanto benevola) non risolve fino in fondo il caso
concreto.

Inoltre: era possibile in un caso del genere attestare la propria disponibilità all'adempimento richiesto dalla
condizione, in modo da farla risultare sufficientemente avverata? Un modo per attestare tale disponibilità era
il deposito del danaro presso un tempio.

Fin qui sul plurale disgiuntivo.

Singolare e plurale nei testi giuridici; cose fungibili, ovvero sostituibili con cose di eguali caratteristiche
dimensionali. Ovvero sulle res quae pondere, numero et mensura constant.
La sequenza dei termini peso, numero e misura viene ricondotta alla storia di un istituto giuridico: la
mancipatio, per il trasferimento della proprietà delle res mancipi, che avveniva alla presenza dell'acquirente,
del trasferente, di colui che teneva la bilancia e di 5 testimoni. L'acquirente toccava la bilancia
simbolicamente. Ma la presenza della bilancia si giustifica in una proiezione storica, per il tempo in cui la
bilancia serviva a pesare (la bilancia non era quella a due piatti, ma la stadera, formata da un'asta orizzontale
tenuta in sospeso con un gancio , da una parte il piatto dall'altra il contrappeso scorrevole). Quando non
esisteva la moneta coniata, il corrispettivo delle compravendite era costituito da pezzi di metallo di bronzo il
cui valore era determinato in base al peso. Quindi i pezzetti di metallo (aes rude) venivano pesati per
stabilire il valore della compravendita. In seguito vennero fusi in lingotti tutti uguali e dello stesso peso (non
era ancora la moneta): non era così più necessaria la pesatura, bastava contare i pezzi (aes signatum,
perché ciasucun pezzo aveva impresso un segno che ne indicava il peso). Fase successiva, moneta coniata
con valore impresso.

Uso solamente singolare o solamente plurale di alcuni sostantivi.

Pluralia tantum: sostantivo il cui uso registrato è solo al plurale. E viceversa, esistono sostantivo il cui uso
attestato è solo al singolare. Leggiamo al riguardo Varrone, testo 47:

Varr. l.l. 9.40.1-2: Similmente chi oppone che


unguentum e vinum hanno il loro plurale, e → anomalisti
diversamente acetum e garum non l’hanno, fa uso di
poco senno volendo il plurale in cose le quali cadono
meglio sotto misura e peso che sotto il numero; poiché
nell’olio, nel piombo, nell’argento, quando crescono di
quantità, si dice molto olio e molto piombo od argento,
non già molti olii o piombi od argenti. Bensì per gli
oggetti che se ne fanno, han luogo i plurali plumbei ed
argentei; perché allora non è più l’argento che
consideriamo, ma i lavori fatti con esso argento, come
coppe od altro; sicché diciamo molte coppe argentee per
il loro numero, non per la quantità dell’argento. [2] Pure
anche le cose che non soggette a numero, ma a misura,
se ve ne siano di più qualità che siano già in uso, per
rispetto alle qualità diverse, si dissero così al plurale
vina, unguenta; perché altro è il vino di Chio, altro
quello di Lesbo, altro quello di altre regioni. E così sono
vari gli unguenti che al giorno d’oggi si ricavano in altre
terre. Se nel comune uso vi vossero qualità ben distinte
di olio, di aceto o di simili cose così come di vino,
avrebbero anch’essi il plurale e si direbbe oli, aceti
come si dice vini. Per cui coloro che con questi esempi
si sforzano di controbattere l’analogia commettono un
doppio errore: sia quando pretendono vocaboli simili in
cose d’uso dissimile, sia quando affermano che si
debbono considerare allo stesso modo sia cose che si
considerano quanto al numero sia cose che si
considerano quanto alla misura.

La prospettiva del dibattito riferisce al I secolo avanti Cristo: se la lingua latina sia da
interpretare come se fosse un sistema analogico o un sistema anomalo, cioè fondato sulla
anomalia. Disputa fra analogisti e anomalisti (la lingua si forma per differenza, scarto, non
corrispondendo necessariamente a presunte regole grammaticali).

A tale riguardo Varrone analizza alcune parole il cui uso è riferibile solo al singolare.
Varrone è moderatamente analogista e in questo passo di oppone alla tesi anomalista: lo
scarto è di volta in volta motivato. E' vero che per i metalli si usa il plurale, ma il plurale
non indica il metallo, ma gli oggetti. Questa caratteristica la ritroviamo anche in italiano.
Allo stesso modo non si usava il plurale dei fluidi / liquidi; quando lo si usava era per
riferirsi alla loro provenienza: la stessa categoria merceologica in atto ai nostri giorni, per
cui diciamo “i vini francesi„ etc.--

Fatta questa premessa, i giuristi osservano queste regole sul singolare o sul plurale dei
sostantivi?

Flavio Carisio, che riprende questa regola ma con una eccezione, per due volte
nell'affrontare questi argomenti compie un grave errore. Vediamo il testo n.56:

[56] Char. 178.30 ss. B.: panium Caesar de analogia Char. 178.30 ss. B.: Cesare nel libro II sull’analogia
libro II dici debere ait. sed Verrius contra. nam i afferma che si deve dire ‘panium’ (dei pani);
detracta panum ait dici debere. neutrum autem puto diversamente Verrio Flacco ritiene che si debba dire
posse dici, quia de his est nominibus quae, cum pondere ‘panum’ senza la ‘i’. Personalmente ritengo che non si
numero(!) mensuraque constent, semper sunt singularia. debba dire in nessuno dei due modi poiché i nomi che
vengono in considerazione a peso, numero (!) e misura
sono sempre e solo singolari.

Che senso ha dire che i nomi considerati per il loro numero sono sempre solo singolari?
E' una contraddizione in termini: le cose che vengono in considerazione in numero sono
generalmente plurali. Possiamo giustificare ciò in un solo modo: che l'uso giuridico di
queste cose che pondere numero e mensura constant era così inveterato da condizionare
anche l'uso del linguaggio corrente. Come se il grammatico non si fosse reso conto che
assumere quella triade nel contesto era sbagliato. Ciò a riprova del fatto che il linguaggio
giuridico era conosciuto e diffuso nell'uso corrente. Tanto è vero che noi possediamo degli
elenchi di sigle utilizzate nell'ambito giuridico, tramandate da Valerio Probo (opere sue in
senso stretto). Ma nei codici che ci riportano le opere di Probo, ci sono testi a lui riferiti
anche se non di certa attribuibilità a lui. Excerpta probiana: Q P N M C

Quod pondere numero mensura continetur

→ prova provata che l'espressione che indicava le cose fungibili era talmente diffusa da
essere utilizzata in sigla.

Questo errore si coglie per l'influenza del linguaggio giuridico sulla lingua corrente.

LEZIONE 10 (18.3.2021)
Fascicolo IV, Testo 58. Attestazione sul duale residuale nel latino.

Testimonianze sulla levità dei responsi di Cascellio, il cui spirito di indipendenza emerge dal testo
n.43.
44. La nave non è suscettibile di divisione fisica, pena la sua distruzione. In diritto romano si
distingue fra
Res ex distantibus (gregge), res ex coaerentibus (una nave). Qui il responso di Cascellio, oltre al
motto di spirito, ha un preciso significato giuridico.
45 Un editto degli edili proibì che nell'arena dei gladiatori gli astanti gettassero altro che frutti.
Al di là del motto di spirito, il problema è quello di definizione giuridica di un termine (già visto per
suppelex): che cosa si intende per "frutto" nel linguaggio giuridico e negoziale?
A volte il linguaggio giuridico ricalca quello ordinario, altre volte meno.
Termine, nel linguaggio giuridico significa "periodo di tempo", e perciò il termine circoscrive
l'ambito semantico entro cui la norma ha valenza.
Detto: "Il diritto nei confronti dei nemici si applica e nei confronti degli amici si interpreta".

FINE DEL MODULO I (sull'interpretazione).


--
MODULO "INTERMEDIO"12: sentenze di Cassazione – riferimenti al
diritto romano
Esaminiamo sentenze recenti della Cassazione in cui vi si trovi un riferimento esplicito
all'esperienza romana (impliciti ve ne sono in ogni sentenza).

Sentenza lacuale Cassazione 10089/2015


Questa controversia nasce da una lacuna nelle disposizioni italiane di legge sull'argomento (v. File
Word su Alulaweb):

Art. 822 Codice civile


Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare
[942], la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti [945], i laghi e le altre acque
definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale(1).
[...]

Nota bene: quale appartenenza al demanio statale, i laghi non sono menzionati se non in quanto
acque; non come il mare, ove del mare si comprende anche la spiaggia e il lido, con specificazione
di questi. Il lago è senza specificazione. La disposizione non è esplicita. I giudici allora13 cercano
altre disposizioni: r.d. 1926/1895:

R.D. 726/1895
Regolamento per la vigilanza e per le concessioni delle spiaggie dei laghi pubblici e
delle relative pertinenze

Art. 1. Attribuzioni del Ministero dei LL. PP. [lavori pubblici] sull'amministrazione
delle spiaggie lacuali. Il Ministero dei LL. PP. dal quale, a termini dell'articolo 1°,
lettera f, della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E 14, sui LL. PP. dipendono il
regime e la polizia dei laghi pubblici, vigila per mezzo delle Prefetture a che non
vengano commesse abusive occupazioni dei laghi stessi e delle relative spiaggie di
uso pubblico.
Art. 2. Questioni sulla proprieta' Alla risoluzione in via amministrativa delle vertenze
che insorgessero sulla proprieta' delle spiagge o pertinenze lacuali ed al
componimento delle liti, ove ne sia il caso, provvede il Ministero delle Finanze
d'accordo con quello dei LL. PP.

E' utile art.1?


"uso pubblico": doppia valenza -> funzione attributiva: "tutte le spiagge sono di uso pubblico"
oppure limitativa: "quando le spiagge siano di uso pubblico".

Il ricorso a questo testo non è risolutivo.


12 Non è un'espressione usata dal professore; di fatto si tratta di sentenze in cui l'interpretazione del diritto vigente è
fatta o per analogia, o per differenza, o per ricostruzione storica degli istituiti con riferimenti espliciti al diritto
romano.
13 Leggere per intero la sentenza per l'esame.
14 Unificazione amministrativa del Regno d'Italia dagli Stati pre-unitari (avvenuta anni dopo l'unificazione politica).
Nota: quando in plurale la sillaba finale è preceduta da consonante non mantiene la "i": spiagge,
fogge; invece: ciliegia -> ciliegie

Allerta, arancione: non esistono al plurale: "zone arancione"; "gli allerta".

Altro testo:

R.D. 544/1931
Concentramento nel Ministero dei lavori pubblici di servizi relativi alla esecuzione di
lavori pubblici per conto dello Stato.

Art. 2. Sono attribuiti al Ministero dei lavori pubblici i servizi concernenti la


costruzione di edifici scolastici sia a totale carico dello Stato, sia mediante contributi
o sussidi.
Sono attribuite altresi' al Ministero dei lavori pubblici le concessioni per occupazioni
di aree e spiaggie lacuali in quanto non entrino gia' nella competenza degli uffici del
Genio civile.

E' utile?
Anche qui è affermata la competenza del Ministero quando le spiagge lacuali siano già di proprietà
dello Stato. Ma può anche voler dire che tutte le spiagge lacuali sono dello Stato.

Onde Cassazione ha voluto fare ricostruzione più ampia del problema, con due osservazioni
rilevanti: in fondo a pagina 2:

Le sentenze impugnate avevano stabilito che l'alveo era demaniale perché una parte veniva
sommersa in occasione delle piene e poi per la fruizione pubblica d'approdo dal lago.

Giudici, orientati alla demanialità, danno poi definizione di alveo (soggetto a piene) e spiaggia
(sempre asciutta, atta agli usi pubblici).
-> 822CC lo interpreta per analogia col mare, riferendovi per il lago sulle stesse nozioni.

A ciò aggiunge l'argomento di diritto romano:

"Né è poi superfluo evidenziare che alla sostanziale equiparazione dei criteri di rilevamento del
demanio marittimo e di quello lacuale (confr. Cass. civ. sez. un. 13 novembre 2012, n. 19703; Cass.
civ. sez. un. 14 dicembre 1981, n. 6591) — equiparazione peraltro già presente nel diritto romano
(confr. Dig. 50, 16, fr. 112, che, dopo l'affermazione della natura pubblica del litorale marino,
aggiunge: idem iuris est in lacu, nisi is totus privatus est) — queste Sezioni unite sono pervenute
sia sulla base del rilievo, di ordine logico, che l'estensione della demanialità alla spiaggia lacuale è
giustificata dalle stesse esigenze che determinano la demanialità in genere, posto che la limitazione
della proprietà pubblica all'alveo, ne renderebbe illusoria l'utilizzazione da parte della collettività;
sia sull'abbrivio dei testi normativi che presuppongono la demanialità delle spiagge lacuali, quali il
r. d. 10dicembre 1985, n. 726 (Approvazione 4 Corte di Cassazione - copia non ufficiale ••• ~O ME.
WRE11".11~.~1~1. !! ~111111~•r del regolamento per la vigilanza e per le concessioni delle
spiagge dei laghi pubblici e delle relative pertinenze: segnatamente artt. 1, 4, 5-33), il r.d. 25 luglio
1904, n. 523 (Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse
categorie: art. 97), il r.d. 18 maggio 1931, n. 544 (Concentramento nel Ministero dei lavori pubblici
di servizi relativi alla esecuzione di lavori pubblici per conto dello Stato: art. 2, comma 2)".
Cass. Civ. Sez. U, 10089/2015
D. 50.16.112, Iavolenus libro 11 ex Cassio
Litus publicum est eatenus [pubblico], qua maxime fluctus exaestuat. Idemque iuris est in lacu, nisi is totus
privatus est.
Il lido (del mare) è pubblico fin dove si estende l'onda più lunga. Uguale è la condizione giuridica del lago, a
meno che esso non sia interamente privato.

Fondamento della nozione moderna del demanio e pubblicità sia rivolta al mare che al lago. I giudici di
Cassazione, entro questa nozione, distinguono due fasce: alveo, fin dove arrivano le piene; spiaggia, la parte
asciutta.

L'analogia interpretativa delle parti del lago rispetto a quelle del mare del 822 , ormai
indubitabile per i giudici, trova il suo fondamento nell'analogia fra lido del mare e
lido del lago affermata da Giavoleno in Digesto 50.16.112

Sempre nella tradizione giuridica occidentale è esistita la equiparazione fra demanio marino e lacuale.

Ma attenzione: nisi is totus privatus est. -> in diritto romano, la proprietà privata di un intero lago era
ammissibile. Da noi, no. Abbiamo un curioso frammento al riguardo sull'acquisto del Lago di Bracciano da
parte di una donna romana:

D.18.1.69, Proculus 11 epistularum

Rutilia Polla emit lacum Sabatenem Angularium et circa eum lacum pedes decem: quaero, numquid et
decem pedes, qui tunc accesserunt, sub aqua sint, quia lacus crevit, an proximi pedes decem ab aqua
Rutiliae Pollae iuris sint. Proculus respondit: ego existimo eatenus lacum, quem emit Rutilia Polla, venisse,
quatenus tunc fuit, et circa eum decem pedes qui tunc fuerunt, nec ob eam rem, quod lacus postea crevit,
latius eum possidere debet quam emit.

Rutilia Polla ha comprato il lago di Anguillara Sabazia e intorno al lago una fascia di dieci piedi: domando
se, qualora i dieci piedi acquistati fossero sommersi dall'acqua per una crescita del lago, non si debba ritenere
che appartengano a Rutilia Polla i dieci piedi superiori. Proculo rispose: ritengo che il lago acquistato da
Rutila Polla avesse l'estensione verificabile al momento dell'acquisto, e così i dieci piedi circostanti; quindi
per effetto del fatto che il lago in seguito sia cresciuto ella non può essere proprietaria di qualcosa in più
rispetto a ciò che ha acquistato.

LEZIONE 11 (23.3.2021)

Appunti raccolti sulle 2 sentenze in oggetto (Sepolcri e


contratto preliminare con effetti anticipati in vista del
definitivo) in Argomento 5.

LEZIONE 12 (25.3.2021)

Sentenza 7897/2014.
Si dibatteva in alternativa fra l'applicazione del 2952 c.c. in alternativa 2033 c.c.

2952 c.c. :

Il diritto al pagamento delle rate di premio si prescrive in un anno dalle


singole scadenze.

Gli altri diritti derivanti dal contratto di assicurazione e dal contratto di


riassicurazione si prescrivono in due anni dal giorno in cui si è verificato
il fatto su cui il diritto si fonda, ad esclusione del contratto di
assicurazione sulla vita i cui diritti si prescrivono in dieci anni (1).
Nell'assicurazione della responsabilità civile, il termine decorre dal giorno
in cui il terzo ha richiesto il risarcimento all'assicurato o ha promosso
contro di questo l'azione(2).

La comunicazione all'assicuratore della richiesta del terzo danneggiato o


dell'azione da questo proposta sospende il corso della prescrizione
finché il credito del danneggiato non sia divenuto liquido ed esigibile
oppure il diritto del terzo danneggiato non sia prescritto.

La disposizione del comma precedente si applica all'azione del


riassicurato verso il riassicuratore per il pagamento dell'indennità.
2033 c.c. . Indebito oggettivo:

Chi ha eseguito un pagamento non dovuto(1) [1189] ha diritto di


ripetere ciò che ha pagato [1185comma 2, 1463, 1952 comma 3]. Ha
inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi
lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal
giorno della domanda [1148, 2036; 39 l.f.].

2946. Prescrizione ordinaria.

Salvo il caso che la legge disponga diversamente, i diritti si


estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni.
La ditta appaltatrice sosteneva applicabile il 2952: due anni. Essendo arrivata la richiesta dopo 9
anni, credito prescritto (così anche la Corte d'Appello).

Ente assicuratore eccepisce: applicabile 2033 c.c. -> non essendo previsto il termine per la
prescrizione del diritto, si applica la prescrizione ordinaria di cui al 2946 c.c.

Ratio della decisione della Cassazione:

L'Assicurazione aveva pagato una maggior somma, su questo non c'era contestazione da parte della
società convenuta. La parte di somma dovuta era dovuta in base al contratto, se vi fosse stata
controversia -> prescrizione biennale da contratto; ma la parte in più non dovuta non si applica sulla
base del contratto, e quindi non si applica il 2952, ma trattandosi di indebito ordinario si applica il
2033. Così la Corte di Cassazione, che nel suo ragionamento richiama il diritto romano

Cassazione affronta due interpretazioni della dottrina relative al 2033 sulla non doverosità del
pagamento.

In diritto romano esistono diverse forme di ripetizioni, mediante condictio.

CONDICTIO INDEBITI.

Troviamo la condictio nel più antico processo romano nella Legis


actio per condictionem, forma semplificata per la Legis actio per
sacramento in personam quando l'oggetto della pretesa era
determinato (una somma). Quando si arrivò al processo formulare
tutte le pretese vantate su questo modello si chiamavano
Condictiones (azioni personali di ripetizione dell'indebito) nel
diritto romano.

Assenza di titolo – Applicabilità 2033


Condictiones – azione personale di ripetizione
condictio indebiti senza titolo, oltre il titolo (prestazione superiore a quella dovuta, come nel caso
di cui ci stiamo occupando.
condictio sine (= deficiente*) causa titolo apparente (invalidità del contratto)
titolo venuto meno dopo la solutio (annullamento, rescissione, risoluzione)
contro il titolo (debito sottoposto a condizione sospensiva prima del verificarsi di questa), nel
senso che il titolo richiedeva il verificarsi della condizione.
* uno studioso fra i maggiori del diritto romano del 900, diceva che sarebbe meglio chiamarlo deficiente causa, per
sottolineare il venir meno della causa piuttosto che la sua assenza.
condictio causa data causa non secuta contratti innominati, quei contratti che in diritto romano esulano
dalla quadripartita schematizzazione: do ut des (permuta), do tu facias (do un mobile a un artigiano affinché mi
dipinga casa), facio ut des (io artigiano intonaco un muro, perché il proprietario mi dia un mobile), facio ut facias (uno
prende impegno a intonacare il muro, l'altro a risuolare quattro paia di scarpa). Per inadempimento si agisce per
condictio causa data causa non secuta.
condictio ex causa furtiva quando l'accipiente è consapevole dell'indebita percezione. E' come se si
trattasse di un furto per l'accipiente.

I sostenitori della tesi dell'applicazione ristretta argomentano che anche noi dobbiamo fare riferimento alle singole
situazioni. Cassazione non accoglie questa impostazione, e accoglie quella più generalistica. v. Sentenza a pagina 11.

Sentenza pagina 11, par. 4.1

Il legislatore del 1942 ha incluso nelle situazioni di indebito oggettivo tutte le situazioni di indebito,
fra cui quelle in cui le parti erano legate da una causa negoziale.

Il rimando alle fonti romane che giustificano l'interpretazione sull'indebito fatta dagli antichi è
riportata in documento:

Gai Inst. III.191


Is quoque, qui non debitum accepit ab eo, qui per
errorem soluit, re obligatur; nam proinde ei condici
potest SI PARET EVM DARE OPORTERE, ac si
mutuum accepisset […]. sed haec species obligationis
non uidetur ex contractu consistere, quia is, qui
soluendi animo dat, magis distrahere uult negotium
quam contrahere.

Gai Inst. III.191


Anche colui che ha ricevuto un pagamento non dovuto
da parte di chi ha pagato per errore è obbligato per
effetto di un contratto reale (re); infatti gli può essere -> il contesto in cui Gaio espone
chiesto con una condictio (condici potest) SE queste nozioni è la trattazione dei negozi
RISULTA CHE EGLI DEBBA DARE, come (per giuridici (incluse infatti le promesse) e del-
esempio) se avesse ricevuto una somma a mutuo […]. le obbligazioni dalle loro fonti: da contrat-
Ma questa specie di obbligazione non pare fondata su to o da delitto. Cla
un contratto poiché colui che dà con l'intenzione di Contratto re, verbis, litteris, consensu
pagare vuole estinguere un rapporto negoziale re: mutuo, deposito, comodato
piuttosto che costituirlo. verbis: stipulatio
litteris:
consensu: società, mandato etc.

L'obbligazione nel mutuo (re) sorge con la dazione di una cosa. Gaio, accede ad una intuizione:

questa dazione di cosa che fa sorgere un'obbligazione, fino ad adesso posso farla sorgere da
contratto. Invece, nella ripetizione d'indebito accade il contrario: che le parti non vogliono far
sorgere una obbligazione, ma vogliono estinguerla. C'è un'analogia in quel dare, che fa sorgere
un'obbligazione, ma le parti l'obbligazione vogliono estinguerla. Gaio coglie il substrato psicologico
alla quale viene attribuito il valore giuridico. Le parti vogliono estinguere un'obbligazione e in
realtà la fanno sorgere. Come possiamo rapportare questa nozione di indebito di Gaio al tema di cui
ci stiamo occupando?

Gaio concepisce l'indebito come figura unitaria che si occupa anche quando la prestazione non è
dovuta, quindi anche quando è oltre la prestazione concordata: che è precisamente il caso della
sentenza in oggetto, dove il pagamento non è dovuto indipendentemente dal rapporto negoziale fra
le parti. Ecco dunque che il 2033 dopo tante discussioni costituisce una specie di
ritorno alle origini, già presente in diritto romano, cioè in Gaio. La normazione
attuale recupera una normazione originaria del diritto romano che poi si è sfrangiata in tante
particolari, ciascuna retta da sue regole.

Stesso tema nelle Res cottidianae di Gaio (o elaborazione da parte di altri autori). Le Istituzioni
sono un manuale. Le res cottidianae sono lo stesso contenuto, ma più approfondito: sono un
trattato.

Gaio, Res Cottidianea: Colui che accetta per errore ciò che non gli è dovuto, è obbligato quasi*
come per dazione di mutuo ed è tenuto per lo stesso effetto dell'azione che compete ai creditori.

Varia causarum figurae (figure da accostare ai contratti [-> *quasi contratto] o ai delitti [quasi
delitto] )

In molti codici europei la quadri-classificazione è recepita e le fonti delle obbligazioni sono quattro,
laddove il
nostro codice del 1942 ne richiama tre e rappresenta un recupero
del pensiero di Gaio (che ne richiama 3: contratto, delitto e "varia causarum
figurae").
1173 c.c. Le obbligazioni derivano dacontratto(1), da fatto illecito(2), o
da ogni altro atto o fatto idoneo [2043] a produrle in conformità
dell'ordinamento giuridico(3).

Spiegazione su Brocardi.it
Spiegazione dell'art. 1173 Codice Civile

L'art. 1097 cod. Civ. 1865 (su falsariga Code civil)

Per l'art. 1097 del codice del 1865 le fonti delle obbligazioni erano [5], com' è noto, il contratto, il
quasi contratto, il delitto, il quasi delitto e la legge. Si ricordano, ancor oggi, le varie dispute cui
questa quintuplice distinzione aveva dato luogo, dispute che si concentravano, in particolare,
sulla ricerca di un criterio differenziatore non tanto del contratto dalla legge quanto del contratto
dal quasi contratto e, inoltre, del delitto dal quasi delitto. Quella classificazione era stata peraltro
severamente criticata, in quanto priva di una solida base sin dal diritto romano, anche se l'art.
1097, in ossequio al desiderio di ritornare ai puri principi romanistici, era ritenuto la traduzione
quasi letterale del famoso testo di Gaio(Inst 3, 13, § 2), in cui si dice che le obbligazioni « aut ex
contractu sunt, aut quasi ex contractu, aut ex maleficio aut quasi ex maleficio ». Si tratta della
seconda e, pare, ultima alterazione elaborata dalle scuole bizantine delle due
classificazioni gaiane: una, contenuta nelle Institutiones, che enunciava soltanto due fonti
delle obbligazioni (contractus e delictum), l'altra, contenuta nelle Res cottidianae, che ne
considerava tre (obligationes aut ex contractu nascuntur, aut ex maleficio, aut proprio quodam
iure ex variis causarum figuris).

La contrapposizione del quasi contratto al contratto e del quasi delitto al delitto non solo fu
riprodotta dalle legislazioni che precedettero quella italiana del 1865, ma fu anche giustificata. In
realtà, però, la quintuplice distinzione si rivelavaincompleta (ad es. non vi si menzionava il
testamento, fonte di obblighi per l'erede) e risultava priva di qualsiasi reale fondamento,
specialmente riguardo alle figure del quasi contratto e del quasi delitto. E così, mentre si
riconosceva un contenuto diverso al contratto ed al delitto - sia pure con alcuni rilievi che
potevano dirsi decisivi per questa distinzione -, si stentava nel trovare un'analogia - che l'avverbio
«quasi» stava appunto ad indicare - tra il contratto ed il quasi contratto, il delitto ed il quasi
delitto. Erano, infatti, erronee le teorie che volevano vedere una rispondenza tra il contratto ed il
quasi contratto ora o nell'accordo di volontà che nel primo era esplicito e nel secondo tacito o
presunto o finto — come se si fosse potuto escludere un accordo tacito o ammettere una
presunzione di consenso nel contratto — ora in una analogia rilevata da un punto di vista
oggettivo, considerando, cioè, i requisiti del contratto e del quasi contratto — poichè era proprio
da questo angolo visuale che il contratto si differenziava dal quasi contratto. Incomplete (se non
errate) erano pure le teorie che vedevano una differenza tra le due figure del delitto e del quasi
delitto, basandosi sui testi di Pothier, ora nel diverso grado di imputabilità del fatto illecito (il
fatto doloso avrebbe dato origine al delitto, quello colposo al quasi delitto); ora, invece,
nell'attività (fatto doloso) e nell'omissione (fatto colposo) della persona; ora, infine, nel fatto
proprio personale (fatto doloso) e nel fatto altrui (fatto colposo).

L' insufficienza di queste dottrine aveva indotto taluni (ed erano i più) ad affermare che tutte le
fonti delle obbligazioni dovevano ridursi a due uniche categorie: la volontà dell'uomo — la
quale può dar vita ad un contratto o ad un fatto illecito — e la legge, considerata però non nella
sua funzione di riconoscere e sanzionare rapporti obbligatori creati dalla volontà e perfetti ad
opera di essa, ma come fonte e causa generatrice immediata dei rapporti stessi. Che tale
distinzione avesse avuto una rilevanza sostanziale e, quindi, anche una corrispondenza nella
realtà, si poteva constatare dal fatto che diversi erano i presupposti di un'obbligazione voluta
dalle parti, nei limiti fissati all'autonomia della loro volontà, dalla legge, rispetto ai presupposti di
un'obbligazione che nella legge trovava direttamente la sua causa generatrice: solo per i primi e
non pure per i secondi si richiedevano i comuni elementi esistenziali e di validità del negozio
giuridico.

Le fonti del rapporto obbligatorio nel progetto di riforma

Nella compilazione del progetto del nuovo libro delle obbligazioni, mentre si era inizialmente
deciso di non mantenere più la quintuplice distinzione giustinianea dell'art. 1097, si discusse se,
volendo indicare le fonti delle obbligazioni, fosse più esatto restringerle tutte a due soltanto (fatto
dell'uomo e legge) oppure aggiungerne altre. Ma già l'art. 5 del progetto del 1936 aveva
enunciato come fonti delle obbligazioni «il contratto, l'atto illecito ed ogni altro fatto idoneo a
produrle in virtù della legge», e l'articolo che si esamina ne ha sostanzialmente ripetuto il
contenuto, sostituendo, nell'ultima parte, alle parole «in virtù della legge», le altre «in conformità
dell'ordinamento giuridico»: modifica meramente formale che non incide sul contenuto della
norma.

Nel vigente codice civile

L'indicazione delle cause dell'obbligazione dell'art. 1173 francamente non sembra migliore di
quella dell'art. 1097, poichè se si voleva apportare una modificazione a quest'ultima disposizione
(come, senza dubbio, si doveva fare), non era opportuno sostituirla con un'altra dal contenuto
incerto, quale appare quella in commento. Infatti la terza fonte (ogni altro atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell'ordinamento giuridico) contiene in sè le altre due: non si può, invero,
dubitare che il contratto e il fatto illecito siano rispettivamente atti idonei a far sorgere, il primo
per volontà dell'uomo e il secondo per legge, un'obbligazione in conformità dell'ordinamento
giuridico sotto questo punto di vista la tautologia si rivela evidente.

Si potrebbe, è vero, giustificare la disposizione ritenendo: a) che con il termine atto il legislatore
abbia voluto indicare il negozio unilaterale obbligatorio, poichè pure da questo l'art. 1937 fa
derivare effetti obbligatori nei casi ammessi dalla legge, come ad es. testamento (articoli 647,
653), promessa di pagamento (art. 1988 del c.c.), promessa al pubblico (art. 1989 del c.c.).
Sennonché, anche di fronte a questa esegesi va osservato che la fonte primaria dell'obbligazione
che scaturisce da un negozio unilaterale rimane pur sempre la volontà dell'uomo, come la volontà
dell'uomo è quella che da vita al contratto; b) che nell'espressione generica «atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell'ordinamento giuridico» il legislatore abbia voluto sussumere, come in
una categoria in bianco, tutte quelle cause che, diverse dal contratto e dal fatto dell'uomo,
l'ordinamento giuridico considera produttive di rapporti obbligatori: nell'espressione utilizzata
dall'articolo in esame si avrebbe, in sostanza, un richiamo a quelle « variae causarum figurae»
delle Res cottidianae di Gaio, comprensive, per il diritto romano, di casi eterogenei diversi dal
contratto e dal delitto, ed individuate, poi, nelle figure del quasi ex contractu e quasi ex delicto.

Ma, a parte l'opportunità del richiamo ad una fonte già in quel diritto vaga ed indeterminata, è da
rilevare che l'indicazione di quella generica causa si risolverebbe, in definitiva, nell'indicazione o di
una norma di legge o di un atto volontario, cioè di quelle cause dell'obbligazione già menzionate
dallo stesso art. 1173, per cui anche qui la ripetizione appare evidente. Con terminologia più
esatta a al tempo stesso comprensiva di qualsiasi fonte dell'obbligazione, si sarebbe dovuto
menzionare soltanto la volontà dell'uomo e la legge.

Passando, ora, all'esegesi dell'art. 1173, mentre nessuna spiegazione appare necessaria per le
fonti «contratto» e «fatto illecito», per le altre che il codice individua nell' «atto o fatto ecc.», si
rileva che

con tali termini si è inteso far rispettivamente rientrare nella categoria delle fonti delle
obbligazioni ogni manifestazione di volontà (testamento, promessa al pubblico, ecc.) e ogni fatto
dell'uomo (gestione d'affari (articoli 2028-2032), pagamento dell'indebito (articoli 2033-2040),
arricchimento senza causa (articoli2041-2042) cui la legge riconnette l'efficacia di far sorgere un
vincolo giuridico.

Questa volta il riferimento romano ha una proiezione storica, scalvalca il codice di giustiniano per
attingere direttamente a Gaio.

LEZIONE 13 (30.3.2021)

Ancora qualche sentenza della Corte di Cassazione n.7093/2015 (danno da animali) per poi
passare alla trattazione del II modulo sulla responsabilità.

Si trattava di decidere se fosse applicabile il 2050 oppure il 2052 del Codice civ.
Art. 2050 - Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.
Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o per
la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le
misure idonee a evitare il danno.
(-> se il gestore prova di aver apprestato tutte le misure idonee, non c'è colpa.)

Art. 2052 - Danno cagionato da animali.


Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei
danni cagionati dall'animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito,
salvo che provi il caso fortuito.
(-> unica salvezza: dimostrare il caso fortuito).

L'accertamento, stabiliva la Cassazione, per il maneggio è da fare di volta in volta. Non c'è una
regola di applicabilità generale dell'uno o dell'altro. Per questo casa, si trattava di danno da animali
(2052).
Trattandosi nel maneggio di una circostanza di istruzione, il gestore è tenuto ad apprestare delle
attenzioni in più sulla qualità del cavallo, tale per cui non può considerarsi fortuito il caso che il
cavallo si imbizzarrisca. Ciò è prevedibile (forse per qualunque cavallo).
Argomentazione sul presupposto a pagina 5 della sentenza:

Vediamo in sentenza il richiamo al diritto romano. E poi a pag. 7

Ulpiano, libro ad edictum (sugli editti)-> actio de pauperie:


Si trattava di un'azione nossale-

Actio de pauperie
D.9.1.1, Ulpianus libro 18 ad edictum
pr. Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur, actio ex
lege duodecim tabularum descendit: quae lex voluit
aut dari id quod nocuit, id est id animal quod noxiam
commisit, aut aestimationem noxiae offerre.
[...]
2. Quae actio ad omnes quadrupedes pertinet.
3. Ait praetor "pauperiem fecisse". Pauperies est
damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest
animal iniuria fecisse, quod sensu caret.
4.
4. Itaque, ut Servius scribit, tunc haec actio locum
habet, cum commota feritate nocuit quadrupes, puta si
equus calcitrosus calce percusserit, aut bos cornu
petere solitus petierit, aut mulae propter nimiam
ferociam: quod si propter loci iniquitatem aut propter
culpam mulionis, aut si plus iusto onerata quadrupes
in aliquem onus everterit, haec actio cessabit
damnique iniuriae agetur.

D.9.1.1, Ulpianus libro 18 ad edictum


pr. Se un quadrupede ha prodotto un impoverimento ne
deriva l'applicazione di un'azione dalle leggi delle XII
tavole, le quali leggi disposero che fosse dato (al
danneggiato) ciò che ha prodotto il danno, vale a dire
l'animale, oppure che sia offerto un risarcimento pari
alla stima del danno.
[...]
2. La quale azione riguarda tutti i quadrupedi.
3. Afferma il pretore [nell'editto]: [se] ha prodotto un actio de pauperie
impoverimento. L'impoverimento (pauperies) è il
danno arrecato senza comportamento antigiuridico da vedremo nel II modulo che cosa
parte di chi lo produce: né infatti l'animale potrebbe si intende per comportento anti-
comportarsi in modo antigiuridico poiché manca di giuridico.
intelletto.
4. Pertanto, come scrive Servio, questa azione si Servio si riferisce alla condizione
applica allorquando il quadrupede ha prodotto un selvatica dell'animale in proprietà
danno a causa di un movimento dovuto alla condizione di qualcuno, non di quello libero
selvatica, come se un cavallo recalcitrante abbia dato allo stato brado (res nullius).
un calcio o un bue abbia rivolto le corna come è solito
fare, o le mule a causa dell'eccessiva ferocia; se invece
il danno sia stato prodotto a causa delle asperità del
luogo o per colpa del mulattiere o se il quadrupede,
caricato di un peso superiore al giusto, lo abbia gettato
su qualcuno, cesserà il campo di applicabilità di questa
azione e si agirà per damnum iniuria datum. -> su questa ci soffermeremo in tema
di responsabilità sotto il profilo
soggettivo (actio aquilia)

Questo tipo di responsabilità descritta da Ulpiano e da Servio descrive


un'ipotesi, per l'actio de pauperie, di responsabilità oggettiva. Il
proprietario risponde per la natura selvatica in sé dell'animale e dunque
non può esimersi da qualunque suo comportamento. Quindi in diritto
romano da questi frammenti non pare potesse valere anche l'esclusione
della responsabilità anche nel fornire la prova di caso fortuita: il diritto
romano era più rigoroso del nostro 2052 c. c.

Paragrafo 5° ulteriormente rafforza la ipotesi di responsabilità oggettiva non attenuata


(come invece è nel nostro 2052 in presenza di caso fortuito):
Dig.9.1.1.5: UIpianus 18 ad ed.: Sed et si canis, Dig.9.1.1.5:
Ulpianus 18 ad ed.:
Ed anche se un cane tenuto al guinzaglio da qualcuno, si sia liberato con la propria
aggressività ed abbia cagionato danno ad alcuno: se altri avrebbe potuto trattenerlo* con
maggior fermezza ovvero se non lo si fosse dovuto portare in un luogo simile, non si
applicherà più quest'azione ma risponderà personalmente chi conduceva il cane.

• "significa che doveva prevedere la forza necessaria a trattenere il cane; se in inidoneo ad


esercitare quella forte, doveva evitare di portarlo a spasso: dunque, responsabile per colpa"

Fin qui basta.


Sentenza Cassazione 7093/2015
Il soggetto invocava l'applicazione di una disposizione in base al principio in dubio pro reo.
Si eccepiva impropria l'applicazione del principio con riguardo ad una disposizione amministrativa.
Cassazione invece riteneva che per reus bisogna adottare la soluzione
romana:
-> reus non è il colpevole, ma colui che convocato in giudizio è destinatario
del provvedimento.
Cioè il convenuto in qualunque processo (reus è il convenuto in un processo
privato nel diritto romano)

Sentenza "fur nocturnus" 51097/2015

XII tavole consentivano di uccidere il ladro notturno. L'agire di notte era una aggravante.
Nella sentenza si osserva che ancora oggi il furto compiuto di notte può dare luogo
all'aggravante. Statuizioni del diritto romano si scoprono all'interprete come fondamenti alla
base dell'esperienza giuridica moderna.
II modulo – Sulla responsabilità
Per i testi: fascicolo V delle dispense.

Partiamo dalla definizione più ampia in tema di obbligazioni, e poi restringiamo il cerchio.

Tutte le situazioni in cui un soggetto è tenuto a una prestazione nei confronti di un altro.

Esiste una responsabilità negoziale ed extra-negoziale.

Parliamo di negozio, e non di contratto, sì da ricomprendere anche le promesse unilaterali.

La nozione di contratto di Gaio, comprendendo anche queste, risponde infatti a quella moderna di
negozio giuridico.

Nell'uso linguistico talora si parla di responsabilità da atto lecito e da atto illecito. Ciò presenta
qualche inconveniente dal punto di vista logico-giuridico. Siccome anche l'inadempimento
contrattuale è un atto illecito, allora tale distinzione è ambigua, impropria.
Meglio parlare di resp. negoziale e extra-negoziale.

Per la resp. Negoziale:


Ulteriore distinzione: -> Responsabilità per adempimento e responsabilità per inadempimento.
(primaria) (secondaria)

Per la resp. extra-negoziale: -> da atto del soggetto che diventa responsabile

Nel corso ci occupiamo solo di _______, (non dunque della responsabilità da adempimento di neg.)

Diritto romano ha impianto casistico: poche leggi e soprattutto casi, di cui disponiamo su questo
argomento.

Sulla responsabilità extra-negoziale


Cominciamo dalla responsabilità extra-negoziale.
A quali figure facciamo riferimento in diritto romano quando parliamo di atti illeciti extra-
negoziali? I quattro delitti (delicta) di ius civile:

principalmente: damno iniuria dato, punito con la lex aquilia

Gli altri 3 delicta (rapina, furto e ingiuria) erano colpiti solamente quando dolosi,
questo – il danno – era invece represso, oltre che per dolo*, anche in caso di colpa.
Ciò – la colposità - fu campo di aperta riflessione nella giurisprudenza romana.

Sulla lex aquilia ci informa Gaio nel libro III delle Istituzioni:

•210...L'azione di danno ingiusto è data dalla legge Aquilia


[III sec. a. C.], nel cui primo capo è-stabilito che se uno abbia, Precetto: non uccidere uno schiavo o quadr.
ingiustamente ucciso un uomo altrui o un altrui quadrupede che Sanzione: se uccide, risarcisca maggior
rientri fra il bestiame, va condannato a dare al proprietario il valore
maggior valore di quella cosa in quell'anno.
211. Si considera che uccida ingiustamente colui per dolo* o
colpa del quale l'uccisione avvenga... Il danno arrecato senza torto qual è il torto? Il danno
alla proprietà
non è censurato da alcuna altra legge: è quindi impunito chi per un -> come si concilia col capo 210?
qualche accidente, senza colpa e dolo malvagio, cagiona il danno.
212. Nell'azione di questa norma non'si'valuta solo il corpo;
ma, certo, se per l'uccisione di un servo il padrone riceva un danno
superiore al suo "prezzo, anche questo si valutar ad esempio"se il
mio servo, istituito erede da qualcuno, sia stato uccìso prima che per
mio ordine adisse formalmente l'eredità, non si stima solo il suo
prezzo, ma anche l'importo dell'eredità perduta. Cosi, se di gemelli,
comici o suonatori sìa stato ucciso uno, non si fa la srima solo dell'ucciso,
ma, in più, si computa anche il deprezzamento degli altri
che restano. Si applica lo stesso critèrio anche se di una coppia di
mule ne abbia ucciso una, o di una quadriga di' cavalli uno
213. Colui il cui servo è stato ucciso, ha libera facoltà o di
accusare l'uccisore di crimine capitale o di perseguire in base a questa
norma il danno. -> alternativa fra accusare di crimen parricidi il responsabile o conseguire il risarcimento
tramite lex aquilia.

Parricidium, quattro interpretazioni:


1) uccisione del proprio padre (meno probabile);
2) di un qualunque pater familias;
3) uccisione di un proprio pari,
4) oppure ex testo XII Tavole "Paricidas esto": "sia ugualmente ucciso". -> nota: sarebbe la cd.
"legge del taglione", una significativa e progressiva novità legislativa già introdotta secoli prima da Mosè (XII
sec. a. C.): quindi questa delle XII tavole -comparatisticamente parlando- sarebbe una recezione molto tardiva
(quasi mille anni dopo!).

LEZIONE 14 (1.4.2021)
212. Nell'azione di questa norma non si valuta solo il corpo;
ma, certo, se per l'uccisione di un servo il padrone riceva un danno
superiore al suo prezzo, anche questo si valuta. Ad esempio se il
mio servo, istituito erede da qualcuno, sia stato uccìso prima che per
mio ordine adisse formalmente l'eredità, non si stima solo il suo
prezzo, ma anche l'importo dell'eredità perduta. Cosi, se di gemelli, ratio maggior valore:
comici o suonatori, sia stato ucciso uno, non si fa la stima solo dell'ucciso, -> abitutati
ma, in più, si computa anche il deprezzamento degli altri a esibirsi in
che restano. Si applica lo stesso critèrio anche se di una coppia di coppia
mule ne abbia ucciso una, o di una quadriga di cavalli uno

Il calcolo (valore schiavo ucciso > del valore della metà della coppia) che si deve fare in questo
caso è dato dal valore aggiunto dato dal valore schiavo superstite in base al rendimento negli
spettacoli (che può esser 0 se da solo non può esibirsi).
Quantificazione schiavo istituito erede. Il destinatario effettivo dell'eredità era il padrone. Occorreva
però che lo schiavo adisse formalmente l'eredità. Se veniva ucciso prima che potesse adire
formalmente l'eredità, ma dopo la morte del testatore, allora il risarcitore doveva risarcire non solo
l'importo dello schiavo ma anche dell'eredità.
La lex aquilia in quanto repressiva di un illecito ha carattere penale: la sanzione è proprio il
maggior valore dal danno prodotto. Ciò si vede bene nel furto, che comporta il risarcimento di un
multiplo della cosa rubata. Il derubato aveva azione di rivendica (o formula corrispondente) sulla
cosa più richiesta di un multiplo (3-4 volte) di risarcimento rispetto al valore della cosa.

214. Il fatto che in questa norma si soggiunga « il maggior


valore che ebbe la cosa nell'anno » implica che, se per esempio uno
abbia uccìso un servo zoppo o guercio che in quell'anno era stato
sano, la stima debba essere non di quanto valeva quando fu ucciso,
bensì del suo maggior valore in quell'anno; per cui avviene che uno
consegua talvolta più del danno arrecatogli.

215. Nel secondo capo si da contro il co-stipulante, che con


frode allo stipulante abbia fatto l'accettilazione* del denaro, un'azione
per il valore della cosa.

* Acceptilatio: vedi libro di testo Isitutuzioni di diritto romano, Manfredini.

Nella formula recitata il promissario poteva indicare un altro beneficiario della stipulazione (non
intesa come stipulatio pro -al posto di- alio) nel senso di obbligazione alternativi: centum dari
spondes mihi aut Aulo?
Promissario aggiunto aveva potere (anche falsamente) di rimettere il debito, e dichiarare che la
obbligazione era stata estinta. Se lo dichiarava pubblicamente tramite acceptilatio (anche in frode) il
primo dei due non aveva azione per rivalersi. Per rimediare a ciò si diede alla possibilità a questi di
agire, nel caso appunto di rimessione fatta in frode.

217. Nel terzo capo si provvede per ogni altro danno. Cosi
se uno abbia ferito il servo o il quadrupede che rientri fra il bestiame,
o abbia ferito o ucciso un quadrupede che non vi rientri, come
un cane, o una bestia feroce quale l'orso o il leone, è data azione in
questo caso. Anche il danno ingiustamente arrecato agli altri animali,
e slmilmente -a tutte le cose inanimate, lo si punisce in questa parte.
Se qualche cosa invero sia stata bruciata o rotta o infranta, è data
azione in questo capo; per quanto la sola indicazione di 'rotta'
sarebbe potuta bastare per tutti questi casi: per rotto si intende infatti
ciò che in qualunque modo fu guastato. Onde con questo termine
sono comprese non soltanto le cose bruciate o infrante, ma
anche quelle lacerate, schiacciate, rovesciate, e in qualunque modo
rovinate, distrutte e deteriorate.

218. In questo capo, però, colui che ha arrecato il danno è


condannato al valore che la cosa ebbe non in quell'anno, bensì -nei
trenta giorni precedenti. E non sì aggiunge nemmeno il vocabolo
'maggiore'. Per questo alcuni hanno ritenuto che il giudice fosse
libero di riferire la stima a quel momento, nei trenta giorni, in cui
il valore della cosa fosse maggiore, o minore. Ma Sabino fu del parere
che si dovesse intendere come se anche in questa parte fosse
aggiunto il vocabolo 'maggiore': il legislatore si sarebbe infatti ac-
contentato d'aver usato quel vocabolo nella prima parte.

In questi due paragrafi ci sono precetto e sanzione del III capo della lex aquilia.
Il precetto puniva l'uccisione o il ferimento di uno schiavo o di un quadrupede.
Poi comprendeva l'uccisione o il ferimento di un animale che non rientrasse nella definizione di
quadrupede, e infine il danneggiamento di una cosa materiale.

Sanzione: la cosa che aveva avuto negli ultimi 30 giorni. Ciò ha comportato un dubbio: il maggior
valore della cosa, come nel primo capo, o il valore discrezionalmente applicato dal giudice? Con
Sabino la giurisprudenza si orienta con il sottointeso di "maggior valore", ossia la prima soluzione.

Questo quanto al danno risarcibile.

Requisiti per l'applicazione della Lex aquilia. 1° requisito) "Corpore corpori":


danno inferto con il corpo (fisicamente – compl. di mezzo) e infliggendo uno svantaggio al corpo
della persona, animale o cosa danneggiata (compl. di vantaggio o interesse)
Casi da manuale: animali inseguiti vengono a mancare per infarto: "non c'è stato contatto fisico". O
animali rinchiusi e morti per inedia -> inapplicabile la lex aquilia? Già, ma Gaio ci informa che il
pretore nell'editto, in presenza di tutti gli altri requisiti tranne il contatto fisico, concedeva un'
actio utilis ex lege aquilia
Che differenza c'era nella classificazione generale fra le due azioni? L'actio ex lege aquilia
apparteneva allo ius civile, quella utilis allo ius honorarium. Chi agisse con l'azione sbagliata per
quei casi da manuale, perdeva.
Altro caso da manuale: animale inseguito, caduto dal ponte e annegato. Gaio ci informa che era
concessa l'azione aquiliana diretta perché c'era stato il contatto fisico per farlo cadere dal ponte in
acqua.

Il primo nel paragrafo 219:

se uno avesse dato il danno col suo corpo; e, perciò, se il danno


è arrecato altrimenti, si accordano delle azioni utili, come se uno
l'uomo o la bestia altrui l'avesse rinchiusa e fatta morir di fame, O
avesse incalzato un giumento così violentemente da farlo scoppiare;
.-e slmilmente se uno avesse indotto il servo altrui a salire su un albero
o scendere in un pozzo, ed esso salendo o scendendo fosse
caduto, morendone o ledendosi in qualche parte del corpo; ma se
uno il servo altrui l'avesse gettato da un ponte o da una riva in un
fiume ed esso fosse affogato, non è difficile poter capire che gli aveva
arrecato il danno col suo corpo in quanto l'aveva buttato giù.

2° requisito) "Assenza di cause di giustificazione"


frammento n.5, Ulpiano, ad edictum
[, hoc est contra ius], id est si culpa quis occiderit. et reliqua.
[Con ragione si aggiunge che sia stato ucciso 'iniuria''. non basta
infatti che sia stato ucciso, ma bisogna che ciò sia stato fatto
'iniuria'. Così, dunque, se uno abbia ucciso uno schiavo brigante,
non è tenuto ai sensi della legge aquilia, perché non ha ucciso 'iniuria'.
2: Ma pure chi abbia ucciso chiunque altro lo aggredisse armato,
non potrà essere considerato avere ucciso 'iniuria'. Vediamo allora
se sia tenuto ai sensi della legge aquilia chi abbia ucciso un ladro
notturno - che la legge delle dodici tavole permette comunque di
uccidere - o diurno - che pure la legge permette di uccidere, ma purché
si difenda armato -. Pomponio esprime dubbi sul persistente vigore
di tali norme. 3: Ora, se uno abbia ucciso un ladro di notte, noi
non abbiamo dubbi sul fatto che egli non sia tenuto in base alla legge
aquilia; ma se, potendolo catturare, preferì ucciderlo, si ritiene
per lo più che egli abbia agito 'iniuria'; pertanto egli sarà tenuto 'anche
in base alla legge cornelia. 4: In questo contesto, il termine
'iniuria' non va inteso nel senso di un oltraggio, com'è il caso quando
si parla dell'acro iniurìarum, ma come allusivo a ciò che non è
fatto col diritto di farlo [, cioè è fatto in contrasto col diritto], vale a
dire se uno ha ucciso colposamente. Eccetera.]

Punto di partenza: uccisione del ladro notturno (fur nocturnus).


Perché non si trattava di comportamento contra ius -> inuria -> antigiuridico? Ciò era disposto dalle
Leggi delle XII tavole, ius civile. Come interferisce tale norma con l'applicazione della Lex aquilia?
Non configura anti-giuridicità perché si tratta di una scriminante / causa di giustificazione dell'
esercizio del diritto. Da tale nozione venne sviluppata, come 2° passaggio la nozione di legittima
difesa. Ma se io vengo aggredito da uno schiavo indipendentemente dalla situazione furto, potrò
difendermi? Sì: ecco la nozione che scaturì di legittima difesa. A seguito di questa, si rielaborò la
riflessione con un ragionamento ancora più raffinato (3° livello): la causa di giustificazione di
legittima difesa valeva solo se collegata alla proporzionalità del suo esercizio.

Testo n.8:

D.9,2*,52,1 (Alf**. 2 Dig.) Tabernarius in semita noctu supra lapidem


lucernam posuerat: quidam praeteriens eam sustulemt: tabernarius
eum consecutus lucernam reposcebat etfugientem retinebat: ille
flagello, quod in manu habebat, in qua dolor inerat, verberare tabernarium
coeperat, ut se minerei: ex eo malore rixa facta tabernarius
ei, qui lucernam sustulerat, oculum effoderat: consulebat, num damnum
iniuria non videtur dedisse, quoniam prior flagello percussus esse!,
respondi, nisi data opera effodisset oculum, non videri damnum
iniuria fecisse, culpam enim penes eum, qui prior flagello percussit,
residere: sed si ab eo non prior vapulasset, sed eum ei lucernam eripere
vellet, rixatus esset, tabernarii culpafactum videri.
3
[In un vicolo, di notte, un negoziante aveva posto una lucerna su
di un sasso; qualcuno che passava se la prese; il negoziante, inseguitolo,
pretendeva la sua lanterna e tratteneva il fuggitivo; costui, con
un flagello che teneva in mano e che era animato di piombo, prese a
picchiare il negoziante perché lo lasciasse; ingranditasi la rissa, il
negoziante fece schizzare un occhio a quello che aveva preso la lucerna.
Il negoziante voleva sapere se il fatto di essere per primo stato
percosso col flagello non escludeva che egli avesse prodotto
'iniuria' il danno. Risposi che, se non avesse fatto apposta a far
schizzare l'occhio, non doveva considerarsi aver prodotto 'iniuria'' il
danno, perché in effetti la colpa era dalla parte di colui che per primo
aveva colpito col flagello; ma se non fosse stato picchiato per
primo dall'altro, bensì avesse scatenato la rissa quando voleva strappargli
la lucerna, il danno sarebbe allora stato da considerare come
prodotto per colpa del negoziante.]
Questo frammento ci dimostra come il ragionamento dei giuristi romani si sia progressivamente
affinato in età alta (**Alfeno Varo è giurista di età repubblicana: già nel I secolo avanti Cristo tale
riflessione era dunque già sviluppata).
*Titolo 2 è dedicato alla lex aquilia.

Si stabilisce che se il derubato ha ecceduto nella difesa non può invocare la lex aquilia.
Nel caso di specie, egli poteva avvalersi dell'esimente perché la sua lesione non era volontaria. Non
è stato violato consapevolmente il 2° criterio della lex aquilia, ossia la proporzionalità.

Di altre cause di giustificazione abbiamo notizia negli altri frammenti. Testo n.6:

D.9.2.29.3 Ulpianus 18 ad ed.: Labeone scrive che, se una nave,


spinta dalla forza dei venti, fosse incappata nelle funi dell'ancora di
un'altra e i marinai avessero tagliato tali funi, qualora la nave non
avesse potuto essere liberata se non tagliando quelle funi, nessuna
azione potrebbe essere concessa. Lo stesso parere hanno espresso
Labeone e Proculo a proposito delle reti di pescatori nelle quali era
incappata una [altra] barca di pescatori. Evidentemente [però] se ciò
fosse avvenuto per colpa del nocchiero si potrebbe agire in forza
della legge Aquilia. Ma se si agisce per danno ingiusto la stima
avviene per il valore delle reti, non per quello dei pesci che non sono
ancora stati catturati, essendo ancora incerto se effettivamente lo
sarebbero stati. Lo stesso accade per le reti da caccia e da
uccellagione.

In questo caso (colpa dei venti) si determina un danno alle reti del loro proprietario (III capo lex
aquilia: danneggiamento di cose materiali).
Sono in questo caso responsabili ex lex aquilia? No:
Ricorre la causa di giustificazione dello stato di necessità o forza maggiore.
Ma se ciò fosse avvenuto per colpa del nocchiero (2a parte frammento)?
Il Professore ha qualche riserva che si possa agire in forza della lex aquilia, come qui afferma il
giurista. Come va trattato processualmente questo danno? Immaginiamo che il proprietario delle
funi tagliate agisca contro i marinai. Cosa succede in questo caso? Il marinaio avrebbe potuto dire:
"Io ho agito in causa di necessità". La causa dell'incagliamento per lui era irrilevante. Il proprietario
allora chiama in causa il nocchiero ex lege aquilia: cosa risponde il nocchiero? "Io non ho tagliato
nulla" -> mancanza del requisito corpore corpori. A questo punto due ipotesi: se si ritiene che il
contatto materiale ci sia stato comunque con l'incagliamento, si potrebbe essere d'accordo con
l'azione del giurista. Altrimenti, bisognerebbe chiedere un'azione utile (actio utilis) al pretore per
questo caso in cui il requisito del contatto è invero dubbio.

Ultimo periodo del frammento. Qual è l'argomento trattato? La quantificazione del danno. Ci si
chiede se possa essere computato il contenuto della rete, per quanto esso era ancora in mare.
Risposta negativa. Perché? Res nullius! L'appropriazione delle quali è a titolo originario tramite
apprensione/appropriazione. Evidentemente il giurista qui ritiene che quando le reti sono ancora in
mare e non tirate sulla barca la cosa nella rete è ancora res nullius, senza proprietà di colui che, non
avendo ancora tirato le reti in barca, non può dirsi proprietario di ciò perché non le ha ancora
acquistate tramite l'appropriazione.

Testo n. 7 (percezione soggettiva dell'agente):


D.9.2.49.1, Ulpianus 9 disp.: Poiché si afferma che con la legge
Aquilia è perseguito il danno arrecato ingiustamente, sarà da ritenere
che sia considerato arrecato ingiustamente ciò che insieme al danno
comporta un'ingiustizia: a meno che il gesto non sia stato compiuto
sotto la spinta di una grande forza, come Gelso scrive a proposito di
colui che abbattè la casa vicina allo scopo di contenere un incendio:
infatti in questo caso egli scrive che l'azione delle legge Aquilia
viene meno: infatti ha abbattuto la casa vicina spinto dal un giusto
timore che il fuoco giungesse fino a lui: e l'azione della legge
Aquilia viene meno sia che il fuoco lo abbia raggiunto, sia che esso
sia stato spento prima.

Abbattimento della casa intermedia nel timore che l'incendio possa estendersi alla propria.
Il giurista ritiene si possa invocare lo stato di necessità. Ma qual è la novità concettuale che
aggiunge al riguardo? Che il pericolo viene apprezzato soggettivamente, non oggettivamente.
Occorre fare riferimento alla percezione (in buona fede) soggettiva dell'agente. Se percepiva
soggettivamente il pericolo, allora non si applica la lex aquilia.

Questo ci introduce verso il 3° requisito (soggettivo del dolo o della colpa),


oltre alla necessità del contatto per il danno corpore corpori, all'esclusione di
cause di giustificazione (esercizio del diritto, legittima difesa secondo
proporzionalità, stato di necessità valutato soggettivamente).

Ultimo requisito riguarda l'elemento soggettivo: viene cioò richiesto dalla lex aquilia che il danno
fosse compiuto in modo doloso o almeno colposo. Frammento n.10:

D.9.2.45.4, Paulus 10 ad Sab.: Coloro che, non potendosi proteggere


diversamente, hanno prodotto un danno sono innocenti: tutte le leggi
e tutte le norme permettono infatti di reagire alla violenza con la
violenza. Ma se per difendermi avrò scagliato una pietra verso
l'avversario e non avrò colpito lui ma un passante, sarò tenuto (al
risarcimento) in forza delle legge Aquilia: infatti è consentito ferire
soltanto colui che usa violenza ed esclusivamente allo scopo di
difendersi e non anche allo scopo (diretto) di ferirlo.

Frammento non chiarissimo, ma ci serve per mettere a fuoco le nozioni che ci interessano.
C'è un soggetto che viene aggredito: reagisce lanciando pietra contro l'aggressore, ma colpisce il
passante, che è lo schiavo dell'aggressore. E' risarcibile il danno arrecato al passante? Sì, in base a
lex aquilia. C'è la colpa. L'oggetto della colpa è la condotta.
La moderna distinzione fra dolo e colpa sono qui attestati:
– dolo è volontà di produrre l'evento;
– la colpa come volontà di tenere una determinata condotta.
Il fatto che Paolo non si profonda nella spiegazione attesta che ciò era implicito e chiaro alla
nozione della giurisprudenza acquisita dell'epoca.

L'emersione di dolo e colpa è antichissima come ci attesta la lettura dei frammenti 15 e 16:
Passo di Servio (non il giurista), grammatico della tarda antichità, che commentò verso per verso le
opere di Virgilio (qui si tratta del commento alle Bucoliche, Iva -> puer, medievalmente fortunato):

D.9,2,11, pr. Ulp. Ad ed.


[Così pure scrive Mela: se, mentre alcuni giocavano a palla, une
di essi, colpita la palla con notevole violenza, l'abbattè sulla mano d:
un barbiere, sicché ne fu tagliata per un colpo di rasoio la gola d:
uno schiavo che questi stava radendo, quello dei due che sia in colpi
risponderà ai sensi della legge aquilia. Proculo sostiene che in colpi
sia il barbiere: in effetti, se questi stava a radere dove era usuale giocare
o dove il transito era frequente, v'è di che imputargli [..]

Raffronto fra visione pagana e cristiana. Concezione della storia dell'umanità di era greco-romana
era ciclica: età felici e di decadenza (oro e ferro). Quelli di età augustea la ritenevano (politicamente
sollecitati) a che la loro fosse età dell'oro: il puer per Virgilio era un rampollo della casa augustea.
Quella cristiana è una concezione escatologica: tende verso le cose ultime, giudizio universale, esito
definitivo della storia universale.
Contenuto Bucoliche di Virgilio: I pastori dovevano lasciare le terre, per accontentare i veterani
delle guerre augustee, cui erano destinati i loro fondi. Humilesque Myricae... sarà ripreso da Pascoli
Myricae, rovesciandone il significiato: "arbusta iuvant humilesque myricae" -> vuole dare dignità
poetica alle cose umili. Laddove Virgilio aveva scritto non arbusta iuvant humilesque myricae.

LEZIONE 15 (6.4.2021)

SERVIUS in Vergilii ecl. 4.43: Nelle leggi di Numa è stabilito che


se qualcuno senza volerlo abbia ucciso un uomo, per la persona
dell'ucciso dovrà offrire un ariete ai suoi agnati dinanzi
all'assemblea.

SERVIUS in Vergilii ecl. 4.43: In Numae legibus


cautum est, ut si quis imprudens occidissel
hominem, prò capite uccisi agnatis eius in
contione offerret arietem.
[Leges XII Tab. 8.24.

Leggi rege, età arcaica. Già in erà arcaica era stabilito che se qualcuno senza volerlo (imprudens) avesse
ucciso un uomo, doveva offrire un ariete (rito espiatorio).
Emerge la distinzione fra omicidio doloso e non doloso.

Testo successivo n.16:

[Leges XII Tab. 8.24.a] Cicero Top. 17.64: Nam


lacere telum voluntatis est, ferire quem noluerìs
fortunae, ex quo aries subìcitw lile in vestris
actÌonÌbus:"SÌ TELUM MANU FUGÌT QUAM !EC!T,
aries subicitur.

[Leges XII Tab. 8.24.a] Cicero Top. 17.64: Infatti lanciare un


giavellotto attiene alla volontà, ferire colui che tu non vorresti attiene
alla sorte, per cui nelle vostre azioni giudiziarie è stabilito che sia
sacrificato quell'ariete: "se il giavellotto è sfuggito di mano piuttosto
che lanciato, sia sacrificato un ariete".
Dal commento di Cicerone si comprende che al tempo delle XII tavole, la nozione sull'omicidio
involontario si era già approfondita: se si lancia un giavellotto con l'intenzione di ferire uno, ma si
ferisce un altro, la nozione soggettiva è diversa. Si distinguono due ipotesi: quella in cui è presente
una volontà limitata alla condotta (nozione moderna di colpa) e il mero accadimento fortuito
(imputato alla sorte). La nozione di dolo / non dolo era presente nelle leggi di Numa. Questo
frammento riguarda il caso in cui si vuole la volontà ma non l'evento: nozione di colpa.
Come interferisce ciò rispetto ai requisiti dolo/colpa relativi alla lex aquilia di cui discutevamo?
Testo n.12:

D.9.2.30.3, Paul. 22 ad ed. Anche nell'azione che sorge da questo


capo vengono puniti il dolo e la colpa: perciò se qualcuno ha
appiccato il fuoco ai suoi sarmenti o ai suoi rovi per bruciarli e poi,
mentre egli se ne andava un po' più in là distraendosi il fuoco ha
danneggiato le messi o la vigna altrui si chiede se ciò sia avvenuto
per sua negligenza o imperizia. Infatti se lo ha fatto in giorno di
vento è responsabile per colpa (infatti chi presta occasione al danno è
come se lo avesse prodotto); nella stessa situazione delittuosa versa
colui che non si è attivato affinchè il fuoco non si espandesse oltre.
Ma se ha fatto tutto quello che era necessario o un'improvvisa folata
di vento ha fatto espandere il fuoco più lontano manca la colpa (caret culpa). -> viene rescisso il nesso di causalità

Questo frammento ci consente di riflettere sull'interferenza dei fenomeni esterni (vis maior o casu)
sull'accertamento dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa. In questo caso si discute della sola
colpa.
Come viene analizzata la situazione? Primo, per l'esclusione della colpa, si richiedeva che ci avesse
acceso il fuoco, l'avesse fatto in un giorno non ventoso: altrimenti già configurava colpa.
Poi, acceso il fuoco in giorno non ventoso, si richiedeva l'aver disposto tutte le azioni in suo potere
per evitare la propagazione al fondo del vicino -> diversamente, vi era colpa (nel caso cioè che sia
rimasto inerte).

In tutti e due i casi si tratta di una colpa sotto il segno della negligenza

La negligenza riguarda i casi di attività non professionali, tra cui appunto l'accendere un fuoco.

Come interferisce il fattore esterno irresistibile o imprevedibile sull'accertamento della colpa o del
dolo. Il nesso di causalità fra fattore esterno ed evento, venendo accertato, rescinde l'addebito del
dolo o della colpa.

Vis flumini, vis venti, terremoto: in età giustinianea viene ricomprensivamente inteso sotto la
denominazione di VIS MAIOR.

In età classica il caso fortuito si definisce solo casus, in seguito viene aggiunto "fortuito".

Proseguiamo nell'approfondire la nozione di colpa.

P.S., 5.20.3 Coll. (= Collatio legum mosaicarum et romanarum15. 12.2.2):


Gli incendi fortuiti che per una casualità poriatrice del vento o per l'incuria -> resp.oggettiva
di qualcuno che appicca il fuoco raggiungono i campi del vicino, qualora
per effetto di ciò brucino messi, vigne, ulivi o alberi da frutto, determinano il
risarcimento del danno in base a una stima.

Si tratta di un caso di responsabilità oggettiva: gli incendi fortuiti sono equiparati a quelli che
avvengono per l'incuria di qualcuno.

15 Diritto comparato antico!


[Se chi potava un albero, lasciandone cadere un ramo, o chi lavorava
su di un'impalcatura abbia ucciso uno schiavo di passaggio, è
tenuto ove abbia gettato la cosa in luogo pubblico e non abbia avvertito
a piena voce in modo che fosse possibile evitare quanto cadeva.

Testo n.17 da conto di una specia di svolta nella definizione della colpa aquiliana, avvenuta per
opera di Quinto Mucio (lo stesso della causa aquiliana):

D.9.2,31 Paul. Ad Sab


Ma Mucio disse che si può agire in giudizio a titolo di colpa an-
che se la stessa cosa sia accaduta in un luogo privato: perché la colpa
consiste nel fatto che non sia stato previsto quanto una persona
diligente poteva prevedere, ovvero sia stato dato avviso quando non
era ormai più possibile evitare il pericolo. Ora, se ci si basa su questo
criterio, non ha molta importanza che il passante transitasse in luogo pubblico
o in luogo privato, in quanto é ben frequente che vi
sia passaggio per luoghi privati. Se invece nel luogo in questione
non vi fosse passaggio alcuno, egli risponderà unicamente di dolo,
nel senso che non deve mandar cose addosso ad uno che abbia visto passare:
non si può infatti tenerlo responsabile per colpa, poiché
non poteva indovinare che qualcuno sarebbe passato di lì.

Quale mutamento di criteri di valutazione della colpa si svolge con l'opera di Quinto Mucio?
Prima -come si capisce- andava indenne chi potava sul suolo privato per una concezione di tutela
assoluta della proprietà privata: il proprietario sarebbe stato responsabile solo per dolo.

Testi 19 e 20:

imperitia – Imperizia (suppone l'esercizio professionale dell'attività)

Ulpiano: Proculo dice, che spetta l'azione contrattuale (ex locato) o


1'azione aquiliana contro il medico che abbia eseguito con imperizia
un operazione chirurgica su di uno schiavo.

Lo schiavo è di proprietà di qualcuno. Se ha necessità di intervento chirurgico, e il padrone lo affida


al chirurgo, fra il padrone e il chirurgo si conclude un contratto: il contratto di locatio-conductio. E'
come se desse la stoffa a un sarto.
L'azione contrattuale, dunque, sorge dal fatto che lo schiavo è una cosa su cui si esercita l'attività
professionale del chirurgo, di riparazione del chirurgo nel rapporto giuridico creatosi fra il padrone
(dello schiavo) e il chirurgo. ->questi risponde per imperizia sul piano contrattuale.
L'azione aquiliana sorge perché ha danneggiato è una cosa oggetto danneggiamento da parte di
colui che doveva ripararla. Questo secondo è il caso in cui non c'è stato contratto: ad esempio il
chirurgo opera uno schiavo che trovi per strada.

Gaio: La stessa soluzione giuridica vale per il caso in cui abbia


usato a sproposito un medicamento. E non sarà inattaccabile neppure
il medico che abbia operato bene, se poi ometta di prestare le cure post- (colpa per
operatorie, ma sarà considerato in colpa. Anche del mulattiere negligenza)
si dice comunemente che è tenuto a titolo di colpa, se per imperizia
non abbia potuto trattenere lo slancio delle mule, sicché queste abbiano
schiacciato uno schiavo altrui. Lo stesso si dice se non abbia potuto imprudenza
reggere lo slancio delle mule a cagione dì una propria infermità:
né appare ingiusto che l'infermità sia ascritta a colpa, perché nessuno
deve mettersi a far cosa, nella quale sa o deve sapere che la propria
infermità costituirà un pericolo per altri. Lo stessa soluzione va adot-
tata con riguardo a chi, per imperizia o infermità, non sia stato in grado
di trattenere lo slancio del cavallo dal quale si faceva trasportare.

Qui, nel frammento di sopra, il parametro della diligenza è valutata su quello che generalmente si può
prevedere che accada. Non aver valutato la propria infermità al momento di accingersi dall'effettuare
la propria attività di condurre le mule. Questo frammento ci insegna come anche nell'esperienza giuridica
romana si affermi la nozione di imprudenza. Siamo già alla 3a specie di colpa, come da noi moderni
considerata.

Ora prendiamo di nuovo in esame il testo 21 già considerato per l'actio de pauperie (dagli studiosi viene
considerata un chiaro caso di responsabilità oggettiva, ma qui la consideriamo sotto l'aspetto della
responsabilità aquiliana):

Dig.9.1.1.5: Ulpianus 18 ad ed.: Ed anche se un cane tenuto al


guinzaglio da qualcuno, si sia liberato con la propria aggressività ed
abbia cagionato danno ad alcuno: se altri avrebbe potuto trattenerlo
con maggior fermezza (a) ovvero se non lo si fosse dovuto portare in un
luogo simile (b), non si applicherà più quest'azione ma risponderà
personalmente chi conduceva il cane.

In questo caso la colpa, considerata sotto due profili, che troviamo entrambi:

a) colpa sotto la specie dell'imprudenza, per l'incapacità di aver trattenuto il cane (corpore
corpori c'è -seppur indiretto; c'è il danno; non ci sono cause di giustificazione)

b) Colpa per violazione di leggi, regolamenti per aver portato il cane in luogo dove
non doveva essere

In sintesi, la colpa già in diritto romano presenta i quattro aspetti fondamentali in cui la
riconosciamo ancora oggi nella teoria generale del diritto penale:

Negligenza, imperizia, imprudenza, inosservanza di leggi/regole/discipline.

Riassunto LEX AQUILIA e Responsabilità aquiliana:

Danno ingiusto punito per colpa e per dolo in base alla lex aquilia, sussistendo i requisiti
del: contatto, anti-giuridicità (mancanza cause di giustificazione), elemento soggettivo
(dolo e colpa).
La Colpa si presenta fin dall'età romana sotto le specie della:
negligenza; imprudenza; imperizia; inosservanze di legge.
Quanto alla responsabilità aquiliana, basta.

Altre ipotesi di responsabilità oggettiva nel diritto romano:

– actio de effusis (versamento di liquidi) et deiectis (rifiuti solidi)

Veniva esercitata da un passante che fosse stato colpito da un lancio di una di queste due
cose contro l'abitator-resonsabile della gestione di quella unità immobiliare (poteva essere
un pater familias proprietario/conduttore/comodatario).

L'azione era rivolta dunque contro l'abitator, non contro colui che aveva gettato l'oggetto ->
chiara responsabilità oggettiva.

Questa azione si affiancava ad un'altra simile:

– actio depositis et suspensis

Rivolta contro l'abitator di una casa dalla quale pendessero oggetti pericolosi. Non contro
colui che li aveva posti, ma contro l'abitator. Rispetto alla prima, oltre alla responsabilità
ritenuta oggettiva, conteneva un elemento in più: si poteva agire anche in caso di
pericolo/possibilità, prima della realizzazione dell'evento -> non solo a seguito del danno
inferto -> base della moderna nozione dei reati di pericolo.

--

"Tra i fondamenti e il tetto". La nozione di responsabilità oggettiva non è teoricamente ben


sviluppata, però è conosciuta e accettata nelle sue regole e casistiche pratiche. Quanto
all'ammissione della responsabilità civile, la nozione nel nostro codice civile è insita
nell'interpretazione che nel codice è stata data. E prima di ammettere che nel codice vi siano
forme riconducibili alla responsabilità oggettiva, è stato fatto uno sforzo per individuare
comunque una colpa, come quella che fa capo a coloro che controllano i dipendenti.
L'allusione è alla culpa in eligendo e culpa in vigilando dei padroni e dei committenti nei
confronti dei sottoposti. Il padrone ha scelto male il dipendente o ha omesso di vigilarlo: ma
dalla modernità non sono state ritenute prospettazioni sufficienti. E' affermata la
responsabilità oggettiva indipendentemente dalla vigilanza e dalla scelta.
Sulla responsabilità negoziale

Può essere, come visto (cf. Sopra ) , primaria o secondaria, quando l'inadempimento è impossibile o
scaduto il termine.

Ci occuperemo solamente della responsabilità secondaria da inadempimento:

se imputabile -> c'è responsabilità

se non imputabile -> non c'è responsabilità

Le ipotesi di non imputabilità d'inadempimento sono riconducibili a due motivi, al riguardo testo

Frammento D 33.6.8. pag. 6 (dispense Fasc. IV), sul legato di vino.

Il fattore che può rendere non imputabile l'inadempimento: 1) rifiuto del creditore a ricevere la
prestazione, o comportamento equivalente al rifiuto protratto nel tempo. Diversamente, a carico
dell'obbligato si manifesta una non imputabilità parziale.

Un'altra ipotesi: 2) creditore va in giudizio per chiedere l'intero fraudolentemente (omettendo


che si doveva tener conto del fatto che in un primo momento aveva rifiutato a collaborare causando
danni al debitore).

Terza ipotesi: 3) il creditore può andare in giudizio, ma se a suo tempo non ha collaborato,
andando in giudizio deve tenere un certo comportamento processuale, per evitare di perdere la
causa. Deve agire per la prestazione dovuta, con riduzione del petitum (dedotta la stima del costo
che il debitore aveva dovuto sopportare per mantenere la cosa fino all'adempimento).

LEZIONE 16 (8.4.2021)
Dopo aver visto la prima delle cause di non imputabilità della responsabilità a seguito di un
negozio giuridico (nell'esempio fatto era il legato per damnationem), cioè il protratto
rifiuto del creditore a ricevere la prestazione, nonché l'azione dolosa per chiedere
quanto non prestato per il suo riufiuto, vediamo oggi la seconda delle cause di non
imputabilità:
– forze incoercibili o imprevedbili.
Testo n. 3 (II parte fascicolo disp. IV): Ulpiano, nel libro 74° all'editto...

L'istituto di cui si tratta è la Cautio iudicio Sisti, in base alla quale se una delle parti
chiedeva un rinvio, esso veniva concesso al giudicante in base a stipulatio (in funzione
cautelare) di pagare una certa somma se la parte che aveva chiesto il rinvio non fosse
comparsa nel luogo della successiva udienza.
Accadeva poi che in qualche caso la parte non potesse presenziare: occorreva allora stabilire
se l'adempimento fosse imputabile oppure no. Ma il promissario, se dotato di ragioni
oggettive per comparire, poteva fondare una actio ex stipulato, eccependo tali ragioni.
Quale frammento ci ricorda questa situazione? La stipulatio Efesi dari (il termine).
In tutte e due casi si tratta di adempiere in un certo luogo. A differenza di quella, qui viene
proposto l'esempio in cui il mancato inadempimento non è certamente imputabile, cioè il
caso in cui il luogo ove comparire fosse allagato o distrutto. In tutti gli altri casi deve
procedersi a cognizione della causa, come nella stipulatio Efesi dari: solo il giudice,
comparando il comportamento dell'obbligato con quello di una persona di normale diligenza
nelle le condizioni esterne oggettivamente date (viabilità e fenomeni atmosferici), si può
stabilire se l'adempimento era imputabile o non imputabile.

Ulpiano al paragrafo 6 ("quanto a ciò che abbiamo detto...") troviamo che offre un
fondamento metodologico, usato anche nelle trattazioni giuridiche moderne, nel
commentare la clausola edittale, mediante un metodo lemmatico che cerca di dare la
definizione giuridica dei termini impiegati nella disposizione (da distinguere dalla
norma):

Il passaggio dalla disposizione alla norma comincia nell'interpretazione letterale.


L'interpretazione letterale procede dapprima sul piano strettamente semantico,
accertando il campo semantico di ciascuna parola; dopodiché si cerca ciò che la parola
effettivamente significa; e poi cosa significa la frase o il periodo considerando i nessi
sintattici fra le parole.
Questo fa Ulpiano, per stabilire cosa debba intendersi per vis flumini e tempestas
nell'editto in commento.

Fin qui sull'adempimento della stipulatio.

Passiamo adesso a un frammento che illustra due situazioni particolari, testo 13.7.30 n.4
(Paolo nel libro V delle epitomi)...

Un prestito a un traghettatore non viene restituito; il mutuante gli prende e trattiene la barca e
lasciandogliela in mezzo al fiume; una piena la porta via e disperde. C'è responsabilità?
Si danno due casi: che il traghettatore abbia trattenuto con il consenso, oppure senza il consenso del
barcaiolo.
Se l'ha trattenuta senza il consenso del traghettatore, si applica l'actio ex lege aquilia per
danneggiamento (iniuria, dolo, contatto materiale: ci sono i presupposti).
Ma se l'ha trattenuta con il consenso del traghettatore, quale contratto si può ravvisare? Il contratto
di pegno.

-> il creditore pignoratizio risponderà solo se non ha tenuto un comportamento abbastanza diligente
nella conservazione della barca ricevuta in pegno.
-> ma se la forza del fiume era tale, da esser impossibile resistergli, non risponde.
Storia dell'ipoteca nel diritto romano.

Tutto comincia con l'affitto dei fondi rustici.


Il latifondismo è al fondamento dell'economia romana. La classe dei patrizi,
l'aristocrazia romana, era proprietaria di vasti latifondi, coltivati da schiavi
oppure dati in locazione. Ma chi prendeva in locazione tali fondi?
Generalmente poveri patres familias, privi di terreni e/o immobili in proprio.
Essi si installavano nei rustici dei fondi presi in conduzione.
Il problema sorgeva alla periodica corresponsione del canone.
Quali garanzie potevano essere richieste a chi non pagava?
Perché i fondi non andassero incolti, con danno anche ai fondi italici e
all'economia generale. Un primo intervento fu costituito dall'intervento del
pretore: iscrisse nell'editto a favore dei proprietari che era vietato ai
conduttori portare fuori dal fondo le proprie cose.
Essendo famiglie povere, si trattava di invecta et illata, cose mobili portate nel
fondo sopra un veicolo (inveho) oppure trasportate (infero) in qualunque
modo. Il vincolo fu posto sulle cose.
Questo fu il primo rimedio alla non solvenza del canone.
Verosimilmente decenni dopo l'interdictum salvianum (I sec. a.C.), fu
introdotta un'azione speciale, actio serviana (attribuita a Servio Sulpicio Rufo),
con la quale il locatore che non avesse ricevuto il canone, poteva far vendere
gli invecta e gli illata (noi diremmo: "mettere all'asta") rivalendosi su ciò che
sarebbe stato acquisito come prezzo per il pagamento del canone, lasciando al
conduttore solo il residuo dal suo debito.
Sono dunque cose non proprie che un soggetto creditore può far vendere al
pubblico. I giuristi, riflettendovi, giunsero ad ammettere che questo schema
poteva essere adottato consensualmente: ecco la nascita dell'ipoteca, come
riflessione sullo schema giuridico sull'actio serviana.
Si venne delineando a questo punto una differenza terminologica: il pegno
prese il nome di pignus datum, perché veniva dato concretamente un oggetto;
l'altro pignus conventum, obbediente a uno schema convenzionale astratto,
appunto schema dell'ipoteca. Nel secondo caso la cosa rimane al debitore.
Il pignum datum nasce dunque come obbligazione con effetti obbligatori: dato
il pegno a garanzia di un credito, scaturiva l'effetto di dover essere restituita la
cosa data in pegno, una volta che fosse estinto il debito.
Il pignum conventum invece ha un carattere di realità più forte: il dominio del
proprietario è compresso, e una frazione ideale di quel diritto --quella per cui
gliela può mettere in vendita- passa al creditore.
Oggi infatti, l'ipoteca può considerarsi come un diritto di esproprio, in capo al
creditore, sulla cosa di proprietà altrui.
Responsabilità nella compra-vendita (empio-venditio)

Ci occupiamo, in realtà, qui anche della resp. da adempimento.

Testo n. 5 (Papinianus, nel libro decimo delle Questioni)...

Ci troviamo di fronte ad una compravenidta di un fondo ad uliveto, a seguito inspectio


(visita sopralluogo per concludere la compravendita dell'immobile). Viene concluso il
contratto, avente per oggetto l'oliveto. Ma nell'intervallo fra il sopralluogo e l'immissione,
una tempesta abbatte gli alberi del fondo, oggetto del contratto. Il giurista ritiene invalida la
compravendita* perché un fattore esterno ha determinato il mutamento dell'oggetto del
contratto. L'oggetto infatti era non semplicemente il fondo, ma il fondo arborato.
Che avveniva se, conclusa la compravendita di una barca, durante la notte prima della
consegna una tempesta avesse distrutto la barca? In diritto romano periculum est emptoris.
Dopo la conclusione del contratto e indipendentemente dalla consegna.

*Nel caso dell'acquirente di res mancipi (e il fondo arborato era tale!), l'acquirente è solo
possessore: non è dominus, ma la res perit a suo rischio! Ma in questo caso non è perita, è
proprio mutato l'oggetto della compravendita. Se avesse comperato il fondo, anziché il
fondo arborato: si applicava il principio suddetto periculum est emptoris.

Frammento n. 7 "Se, dopo l'ispezione del fondo, degli alberi sono stati abbattuti dal
vento..."

In che cosa differisce questo frammento dal precedente? L'oggetto è il fondo, non gli alberi.
Però gli alberi sono ancora sul fondo, adagiati. Perché non vengono acquistati
dall'acquirente? Per separazione materiale. Il fondo è un bosco; gli alberi, rispetto al bosco,
sono frutti. Quando i frutti acquistano oggettività giuridica, come elemento distinto da ciò
che li ha prodotti? Nella separazione. Per separazione deglia alberi-frutti, che in quanto si
sono separati /staccati dal fondo, costituiscono un oggetto diverso nella disponibilità del
venditore, e dunque non sono acquistati con il fondo dal compratore.

Se invece il proprietario del fondo avesse saputo che vi era stato abbattimento di alberi, ma
non avesse detto nulla all'acquirente-compratore prima del perfezionamento della compra-
vendita, secondo le categorie di responsabilità si parla di responsabilità pre-contrattuale.
Per lesione della buona fede. Con quali conseguenze per il compratore: la scomputazione
dell'- id quod interest – l'interesse ad acquisire anche gli alberi.
La stima attiene ad una valutazione soggettiva: non il valore oggettivo di mercato, ma
l'utilità che il venditore può dimostrare che ne avrebbe tratto.
Stiamo andando in direzione del lucro cessante.

Id quod interest non solum ex damno dato constat, sed etiam ex lucro cessante

Testo 11: periculum est emptoris, se il fondo -una volta comperato- viene diminuito da una
frana, da un'inondazione, di un terremoto o di qualsiasi caso fortuito. Il principio non è
passibile di deroghe.
LEZIONE 17 (13.4.2021)

(Ancora su) responsabilità negoziale. Compravendita.


Ancora un frammento significativo, testo 6, pag.7 disp.V. D 18. 1. 78

Actio empti. La compravendita viene conclusa quando il grano è ancora in erba.

Si tratta, come genere, di un contratto aleatorio sotto l'aspetto di vendita di cosa futura. Il prezzo
della cosa futura viene stabilito, prima che essa venga all'esistenza.

Le due specie: emptio rei speratae, emptio spei.

Il secondo ha un profilo di rischio più elevato.

Se il contratto fosse stato: "venduto tutto il raccolto che verrà, a prezzo fissato in X"

-> emptio spei

invece, se le parti, dicessero: "viene venduto il raccolto a prezzo X per unità di capacità (modio=8
litri ca.)"

-> emptio rei speratae

Quali rischi sopportano le parti, nel caso dell'acquisto dell'intero raccolto a prezzo fisso nel primo
caso - emptio spei? In genere, il rischio principale è sopportato dall'acquirente. Ma non possiamo
neanche escludere che il raccolto di quell'anno potesse essere oltre le aspettative.

Inoltre, oltre al profilo di rischio quantificazione del raccolto, più o meno abbondante, il secondo
profilo di rischio è rappresentato dall'oscillazione dei prezzi di mercato. Se il prezzo di mercato
aumenta, ci rimette il venditore; se diminuisce, ci rimette l'acquirente.

Nel secondo caso - emptio rei speratae: qui il rischio, siccome il prezzo è ad unità di misura, è
distribuito, tendenzialmente si annulla. Non è allocato ad una sola parte. Invece, dal punto di vista
di mercato, essendo predeterminato, il contratto incide sulla distribuzione del rischio.

Il profilo del frammento di cui sopra è più accostabile a una compravendita di empio spei.

E' la clausola successiva alla prima che ci orienta a ciò: "se le condizioni atmosferiche che si
verificheranno prima della percezione del raccolto saranno straordinarie, allora il venditore sarà
tenuto a tenere indenne l'acquirente". Se avessero venduto a unità di raccolto (emptio rei
speratae), tale clausola di prevenzione dal rischio non avrebbe avuto senso.

Tale clausola incide in via di attenuazione del rischio negoziale dell'empio spei, riducendo l'alea
sopportata dall'acquirente.

Il giurista ne dà conto nella spiegazione degli effetti della clausola. Chiara nei giuristi romani della
facoltà di modulare il rischio. La clausola, in sé considerata, può accostarsi ad una clausola di
assicurazione dal rischio di un evento fortuito. La differenza è che nell'esperienza giuridica
moderna le pattuizioni di natura assicurativa vengono in genere stipulate con un terzo. Qui è
inserita in un contratto di compravendita, ma la funzione è la stessa.

Ulteriore dimostrazione che i fondamenti negoziali contemporanei sono già presenti


nell'esperienza giuridica romana.
Fin qui sulla compravendita, in tema di responsabilità.

Locazione.

La affrontiamo dalla lettura del frammento n.9 (Lo stesso Ulpiano nel libro 32°...) e n.10.

Il frammento n.9 riguarda una locazione di fondi rustici.

L'obbligazione principale del locatore è mettere a disposizione del conduttore una cosa di modo
tale che essa permanga nell'uso utile per il quale è stata convenuta per il periodo della locazione.
L'utilità qui riguarda dunque gli usi agricoli. Questa circostanza deve garantirla il locatore e
sopportarne le conseguenze. Succede che un'inondazione e una frana compromettano il raccolto.
Come riflette il giurista in quest'evenienza?

Servio dice che il rischio è sul locatore, e dunque implicitamente che al locatore non è dovuto il
canone: remissio mercedis (remissione del canone).

Domanda: noi abbiamo la perdita del raccolto per effetto di fenomeni atmosferici straordinari. In
questo caso il locatore sopporta gli effetti e non è dovuto il canone. Il rischio contrattuale, dunque,
è addossato tutto al locatore? No! Perché il conduttore perde il raccolto. Nella realtà complessiva
della contrattazione si verifica anche la perdita del raccolto, e quindi la proposta di Servio attiene
ad una ripartizione del rischio. Il conduttore sopporta infatti la perdita del raccolto, il locatore
quella del canone.

Questa è l'ipotesi in cui il raccolto è perduto per forze esterne.

Seconda ipotesi: il raccolto è perduto per altre ragioni: erbe infestanti, vino che diventa aceto. Una
corretta tecnica di vinificazione avrebbe impedito il fenomeno -> imperizia del conduttore -> Il
rischio è tutto sul conduttore, che è tenuto al pagamento del canone.

Le parole riferite alla “perduta semenza” fanno riferimento alla nozione di danno emergente ->
conduttore non deve pagare il canone. Una frana ha danneggiato il raccolto e non deve pagare il
canone.

Malattia Ulivi e Insolazione insolita: la differenza è che la malattia delle piante potrebbe essere
curata. Malattia delle piante assimilata all'evento esterno/forza maggiore, ma in realtà se è
controllabile, il rischio dovrebbe essere del conduttore.

Passiamo a Digesto 19.2.33 testo n.11.

Cerchiamo di dare ordine alle varie ipotesi che si susseguono nelle fattispecie in esame da parte
del giurista romano.

1a ipotesi: espropriazione per pubblica utilità di un fondo locato.

Finora abbiamo visto fenomeni di perdita per cause naturali di forza maggiore, qui il fattore è
antropico: l'aspetta che le accomuna è la irresistibilità e si dà la medesima soluzione a entrambe le
fattispecie -> a sopportare la perdita è il locatore che deve garantire l'utilitas del fondo locato al
conduttore.

2a ipotesi: legata alla precedente, vi è locazione di un fabbricato divenuto inidoneo all'uso


per cui è stato locato (abitazione) -> conduttore esonerato dal canone, diritto alla remissio
mercedis per il periodo durante il quale non ha potuto fruire dell'immobile.

3a ipotesi: è il locatore stesso che impedisce il godimento di ciò che ha locato, onde -oltre
alla remissio mercedis- gli deve la quantificazione patrimoniale della perdita del godimento, che
deve essere interamente pagata -> si tratta del lucro cessante

La nozione è quella dell' id quod interest: l'interesse dovuto giuridicamente alla parte

La componente dell' id quod interest è data dal danno emergente e dal lucro cessante. Quindi in
termini di interesse soggettivo e non oggettivo.

Riassumendo su inadempimento contrattuale da locazione:

– 1° caso: frana. Inadempimento non imputabile: ripartizione rischio

– 2° caso: Non c'è inadempimento contrattuale e quindi il conduttore deve il canone e


sopporta tutti i rischi

– 3° caso: il locatore è inadempiente e quindi il suo inadempimento è imputabile e si dà luogo


alla remissio mercedis e obbligo di risarcire id quod interest

Ipotesi centrale del frammento in oggetto riguarda la compravendita. Un fondo viene


compravenduto, poi prima della consegna viene espropriato per motivi di pubblica utilità.
Insolitamente il giurista dice che in questa ipotesi l'acquirente ha diritto alla restituzione del prezzo.
Perché, astrattamente, possiamo considerare strana questa ipotesi?

(Ricordiamoci che la compravendita in diritto romano non ha effetti reali, ma obbligatori).

Il principio è periculum est emptoris, indipendentemente dalla consegna. Gli eventi che incidono
sulla res dopo la compravendita, anche se non consegnata, sono sopportati dall'acquirente.

Ma qui il giurista afferma che il prezzo deve essere restituito, e quindi non sembra applicarsi al
principio suddetto. La ragione è che l'acquirente, per l'esproprio, ha ricevuto un lauto indennizzo!
Per questa motivazione, generalmente accolta, il venditore ha percepito due volte il prezzo del
fondo. Quindi, a seguito di ingiusto arricchimento, è corretto che restituisca il corrispettivo del
pagamento al compratore, che peraltro non è proprietario, ma solo possessore temporaneo (fino a
usucapione o in iure cessio o mancipatio) per il diritto romano (quindi l'indennizzo è stato pagato al
venditore, non all'acquirente).

LEZIONE 18 (15.4.2021)

Testo n.12, p.8 (Labeone nel primo libro degli enunciati...).

Reponsabilità contrattuale da locazione d'opera per vitium soli oppure per vitium operis

Per Labeone: sempre responsabile il conduttore.


Per Paolo: distingue, se vitium soli respons. locatore, se vitium operis resp. conduttore.

La nozione di contraente debole è ambivalente, mobile. Potrebbe darsi il caso in cui il contraente
debole sia il locatore: il Professore fa il caso del contadino che assume un'impresa per scavare il
fosso.

Per Labeone (I secolo a.C.) la responsabilità del conduttore vale in ogni caso per il fatto che, chi si
mette all'opera deve sapere se il suolo è viziato: questa perizia fa parte del prendersi in carico
l'onere di costruzione fin dal principio, e cioè fin dalla valutazione dei presupposti per l'opera.
Capacità di valutare l'idoneità dell'oggetto all'atto di trasformazione. Il vitium soli deve far parte di
una valutazione preliminare. Onde, se ne verificasse la inidoneità, dovrebbe rinunciare.

La soluzione di Paolo (fra II e III secolo a.C.) è solo apparentemente più avanzata.

La legislazione moderna protegge il contraente debole, che in questo caso è il locatore.

Responsabilità da inadempimento negoziale nei contratti re

mutuo, comodato, deposito:

gradazione di intensità dell'obbligazione di restituzione

Mutuo. Qual è la caratteristica che determina la differenza tra il mutuo e il comodato?

La cosa fungibile oggetto di restituzione del mutuo è di qualità dello stesso genere e
specie.

Il mutuatario diventa proprietario della cose, e dovrà restituirne l'equivalente in


genere e quantità (tantundem). Il comodatario non diventa proprietario della cosa.

Agli effetti dell'intensità della responsabilità per inadempimento, cosa significa che il
mutuatario debba restituire il tantundem? E' intensa: deve restituire sempre. Non può
eccepire caso di forza maggiore: io non trovo il danaro, è venuta una valanga e l'ha
sommerso. Il denaro c'è.

-> l'unico caso di non imputabilità è rarissimo: allor quando sia perito l'intero genere delle cose che
deve restituire. E' un esempio da manuale, che peraltro è inapplicabile al danaro. Però ad es. una
qualità di vino di una determinata qualità di una particolare annata. Se un taverniere si era fatto dare
a mutuo una certa quantità del vino di Chio, che avrebbe restituito allor quando la nave con l'ultimo
carico, facendo questa naufragio, responsabilità non imputabile. Ma normalmente le cose fungibili
possono essere reperite.

Comodato. Diversamente, il comodato, che si fa per cose fungibili e non


consumabili (se non secondo le normali modalità d'uso), le cose non passano in
proprietà del comodatario, che le può solo usare. Suo obbligo restituirla integra,
fatto salvo quel consumo percettibile ma irrilevante secondo natura.

Nelle ipotesi di inadempimento, quando l'inadempimento è imputabile e quando


no? A parte il caso della mancata collaborazione del creditore, che si sottrae alla
riconsegna offertagli, rilevante cosa succede quando la cosa non può più essere
restituita integra per fenomeni irresistibili o imprevedibili da parte del
comodatario. Occorreva trovare un criterio per ritenerlo o meno responsabile ai
fini dell'imputabilità. In diritto romano è stato articolata una serie di criteri:

– Diligenza nella custodia della cosa oggetto di comodato. Ma la diligenza


a cosa si rapporta? In diritto romano, tre modelli di diligentia:

i) del buon padre di famiglia16; ii) diligentia quam suis (diligenza nel custodire
le proprie cose); iii) diligentia diligentissimi patris familias (la diligenza del più
diligente tra i padri di famiglia, ovvero la massima diligenza in rapporto alle
condizioni psico-fisiche dell'obbligato).

Il modello ii) è di tipo tendenzialmente soggettivo, gli altri due tendenzialmente


oggettivi.

Per definire la resp. del comodatario alla fine fra i giuristi è prevalso il criterio
della massima diligenza possibile, perché? Cioè, perché la diligenza deve essere
16 L'elaborazione concettuale è della pandettistica tedesca, seconda metà '800, che ne abusò, astratizzandolo:
"l'adempimento di una ballerina sarebbe valutato secondo il criterio della diligenza del buon padre di famiglia".
particolarmente intensa? Perché il comodante merita maggior tutela?

-> perché il comodato è un contratto gratuito. L'utilitas, essendo interamente


del comodatario; il comodante non ha utilitas*, e quindi merita protezione.
Egli, non avendo utilità, è stato generoso.

* Tranne quando il comodante di argenteria vuol fare bella figura anche lui con gli ospiti. Giuristi
concordi per attenuare la diligenza in questo caso.

Deposito. Contratto re, si perfeziona con la consegna della cosa


depositata dal deponente. Non ha effetti reali, perché il detentore della
cosa non ne diventa proprietario.

Inadempimento e conseguente responsabilità. Come possono influire gli


eventi? Di quale parte è l'utilitas nel contratto di deposito? Del deponente,
persona non in condizione di tenere presso di sé una cosa, perciò la affida
ad altri (depositario). La sua responsabilità è più lieve, e risponde degli
accadimenti negativi occorsi alla cosa solo per il caso di dolo. La
motivazione è che il deponente conosce il depositario: lo sceglie. Sa a
quale tipo di diligenza si sta affidando. Quindi il depositario risponderà
soltanto per il caso di dolo.

Figure particolari di questo criterio: la più significativa è il deposito di necessità, ossia


quando il deponente è costretto ad affidare la sua cosa con limitate facoltà di scelta. In
questo caso si può ammettere una responsabilità più intensa, anche per colpa, del
depositario.
Sintesi sull'inquadramento dei contratti per responsabilità da
inadempimento:

Mutuo Responsabilità illimitata per il mutuatario


Comodato Responsabilità da diligenza per custodia, dove
la diligenza viene valutata come massima
diligenza del buon padre di famiglia nelle
condizioni psico-fisiche in cui si trova.
Deposito Responsabilità solo per dolo

Tutti gli altri contratti (stipulatio, compravendita, locazione), esclusa le circostanze di


non imputabilità per forme di fenomeni irresistibili o imprevedibili, prevedono forme
di responsabilità per inadempimento intermedie nella scala dell'intensità sopra detta
fra mutuo e comodato.

Sempre ferma la categoria di inadempimento correlata alla mancata collaboarazione


del creditore.

Quanto detto viene risconstrato sui testi (fascicolo V) p.9, XIV n.2, 3; p. 10,
frammento di Ulpiano, dal paragrafo 2: "E' ora da vedere..."

Ultimo testo del corso, Ulpiano 50, 17, 23: pregevolissimo tentativo di sintetizzare i
criteri da applicare per l'inadempimento:

"Alcuni contratti ammettono solianto il dolo, alcuni dolo e colpa. Solo il dolo,
deposito e precario. Dolo e colpa il mandato, il comodato, la vendita, il pegno
manuale, la locazione, come pure la dotis datio, i vari casi di tutela e la
gestione d'affari: in questi e pure rilevante la diligenza. Tutto ciò, beninteso, se
nel concludere il singolo contratto non si sia espressamente convenuto
diversamente (in più o in meno), tranne per quel che Gelso ritiene invalido, e
cioè se si sia convenuto che non si presti il dolo: ciò è infatti in contraddizione
con un giudizio di buona fede: e così ci regoliamo. Nessuno è responsabile
per gli eventi e le morti che toccano gli animali e che han luogo senza colpa, le
fughe degli schiavi che non sogliono essere custoditi, le rapine, i tumulti, gli
incendi, le inondazioni, gli attacchi dei predoni".

Significativo per due aspetti, rilevanti anche dell'ordinamento giuridico


moderno:

1) La clausola di esclusione della responsabilità per dolo. Inoltre, contro il


dolo non ci si assicura (e ciò anche nei contratti di assicurazione odierni)
2) La derogabilità della disciplina dispositiva, ad opera dell'autonomia
privata: le parti possono prevedere norme dispositive diverse in tema di
declinazione della responsabilità da inadempimento, non quelle
imperative.

Ultimo ripasso

Forza maggiore / caso fortuito

se si tratta di resp. extra contrattuale -> fa venir meno l'elemento soggettivo


Caret culpa (Paolo)

se di responsabilità negoziale -> determina la non imputabilità


dell'inadempimento.

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