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ssa Magherini
Biologia Sbobinatore: Alessia Sterrantino
Lezione 1 Revisori: Simone Mangialavori,
Lohengrin Logli.
INTRODUZIONE AL CORSO
Il corso è strutturato in una parte di lezione frontale ed una parte di attività a
distanza, il programma ed il materiale didattico sono disponibili su e-learning.
L’attività a distanza prevede dei quiz nel fine settimana dalle 8:00 del sabato alle
24:00 della domenica sera. I quiz sono abbastanza semplici, si aprono dalla
piattaforma Moodle, si ha un certo tempo per poterli eseguire ed è possibile un solo
tentativo. Rappresentano una base di partenza per il voto di esame, se vengono tutti
svolti bene si ha una buona base.
Ci sarà da svolgere anche un breve elaborato e da revisionare l’elaborato di un altro
studente in maniera anonima così che la professoressa possa valutare la capacità di
scrivere e la visione critica dello studente.
Generalmente gli argomenti delle attività non vengono chieste in sede di esame
orale a meno che non ci siano gravi carenze o in caso in cui qualcuno non riesca a
sostenere il quiz nel fine settimana.
Ciò che è stato elencato è solo parzialmente scontato. Infatti, prendendo come
esempio i virus, essi non sono definibili organismi viventi e non sono presenti nei sei
regni proprio perché mancano:
- della capacità di riprodursi(3) in maniera autonoma (necessitano di una
cellula ospite)
- della capacità di assumere sostanze dall’esterno ed elaborarle(5)
- di meccanismi di produzione dell’ATP(5)
Dunque i virus non sono organismi viventi, quantomeno secondo le definizioni date.
Nonostante ciò hanno delle caratteristiche in comune con la vita, testimonianza della
complessità nel dare delle definizioni categoriche.
Darwin è considerato il pioniere dell’evoluzione. Prima della sua venuta, era comune
il pensiero che vedeva:
- le specie animali e vegetali esistenti create così quali sono, e come tali
perpetuate nei secoli
- l’esistenza di una sorta di scala gerarchica
Questa visione derivava dagli scritti di Aristotele, filosofo greco che aveva
classificato gli organismi dai più semplici ai più complessi (con in cima l’uomo). La
classificazione effettuata dal filosofo non teneva conto dell’origine degli organismi,
ma solo della loro categorizzazione. La teoria di Aristotele viene detta fissismo.
Una simile teoria, ancora oggi “condivisa”, è il creazionismo, secondo la quale:
- tutto è stato creato per com’è nel presente
- l’evoluzione non c’è, viene negata
Darwin nasce nei primi dell’800’. All’età di 22 anni si imbarca su
una nave, la Beagle, sulla quale compie un grande giro intorno al
mondo (lo scopo principale della spedizione era quello di
realizzare una mappa delle zone ancora non ben note). Il viaggio
ebbe la durata di cinque anni, durante i quali Darwin ebbe modo di
prendere appunti, scrivere, fare osservazioni. Tornato in patria, infatti, formulò la
“Teoria dell’evoluzione”, alla cui base vi è la selezione naturale; secondo Darwin
infatti:
- Gli individui presenti sulla Terra non sono sempre stati così (ciò si accorda
con ritrovamenti di scheletri di animali preistorici)
- All’interno di una popolazione di individui agisce il meccanismo della
selezione naturale, il quale permette agli individui che presentano un
patrimonio genetico più adatto all’ambiente in cui vivono di essere selezionati
L’evoluzione non riguarda l’adattamento del singolo (es. alla giraffa non cresce il
collo per arrivare più in alto), ma agisce al livello della popolazione. Dunque, tra gli
individui appartenenti alla stessa specie ne saranno presenti alcuni che presentano
delle caratteristiche che garantiscono loro una maggiore adattabilità.
La selezione naturale si basa sulla possibilità che esistano cambiamenti genetici,
possibili grazie a:
- la riproduzione sessuata, che permette la variabilità genetica
- Le mutazioni, le quali possono avere anche una valenza positiva → portare
un all’allele nuovo che risulti essere vincente in determinate condizioni
NELL’IMMAGINE
Oltre i regni sono presenti anche delle linee, che
indicano le relazioni filogenetiche presenti tra i
vari organismi.
OGGI
Viene fatta la filogenesi molecolare, che grazie agli strumenti che permettono di
sequenziare specifici geni rende possibile la conoscere - usando geni molto
conservati- il momento in cui due organismi si sono separati da un punto di vista
filogenetico.
GENERALITÀ SU COME SI
STUDIANO LE CELLULE
Il potere di risoluzione dell’occhio umano consente di distinguere fino a poco meno di
1mm, ciò lo rende incapace di osservare tutto quello che è contenuto nel mondo
microscopico (quali cellule, virus, macromolecole ecc) il quale viene studiato grazie
all’ausilio di particolari strumenti: i microscopi.
Tutte le cellule hanno delle dimensioni abbastanza simili e questo vale in linea di
massima per tutti gli organismi, tenendo presente che organismi più grandi avranno
più cellule, ma non cellule più grandi.
Tra le più piccole ci sono i globuli rossi con un diametro di circa 10 micron, ma sono
presenti anche cellule più grandi, visibili a occhio nudo, come la cellula uovo di rana
o l’uovo di gallina.
In tutti gli organismi, anche quelli di grandi dimensioni, la dimensione delle cellule
rimane piccola (un elefante e un topo hanno cellule di uguale misura!).
Ciò è dovuto al fatto che la cellula, per espletare al meglio le proprie funzioni, deve
avere un corretto rapporto superficie-volume, infatti una delle caratteristiche
fondamentali della cellula è il mantenimento della omeostasi: ovvero il
mantenimento di un ambiente intracellulare consono alla vita della cellula stessa
(che può essere anche molto diverso dall’ambiente extracellulare).
Di ogni cellula occorre considerare un volume e una superficie (rappresentata dalla
membrana cellulare).
La membrana cellulare svolge un ruolo chiave nel mantenimento dell'omeostasi dato
che attraverso di essa avvengono i passaggi delle sostanze. La dimensione della
cellula ottimale è quella che ha un rapporto superficie volume tale da garantire
una migliore omeostasi. Infatti, all’aumentare delle dimensioni cellulari il valore del
rapporto diminuisce e ciò si traduce in una diminuzione della membrana atta a
condurre scambi con l’esterno e favorire il mantenimento dell’omeostasi. Per questa
ragione cellule troppo grandi sono svantaggiate a livello evolutivo, proprio perché il
rapporto tra la superficie della cellula e il suo volume è troppo piccolo e quindi non
abbastanza sufficiente a mantenere un'adeguata omeostasi.
a) funghi filamentosi;
b) batteri a forma spiralizzata;
c) globulo rosso e linfocita;
d) radiolari: protisti che vivono in ambiente acquoso caratterizzati da una struttura particolare
determinata da un rivestimento con scheletri silicei;
e) protozoo;
f) cellula uovo con spermatozoi ad essa adesi (lo spermatozoo è l'unica cellula della nostra
specie dotata di flagello = struttura per la locomozione);
g) epitelio intestinale;
h) tessuto conduzione di piante;
i) neurone con prolungamenti che a seconda delle specie possono essere lunghi qualche
metro;
MICROSCOPI
“I miei occhi non hanno mai osservato niente di più piacevole a vedersi dell’esistenza di
migliaia di creature viventi in una goccia di acqua” A. van Leeuwenhoek
- microscopio ottico;
- microscopio elettronico a
trasmissione;
- microscopio elettronico a
scansione;
Per
comprendere
meglio
questo
concetto si
possono
considerare
le seguenti
immagini di
protozoo:
Esistono anche microscopi ottici a fluorescenza che vanno ad osservare ciò che è
di nostro interesse sfruttando la capacità di una molecola fluorescente di legarsi
selettivamente a regioni specifiche della cellula (esempio: se voglio analizzare il
citoscheletro, utilizzo molecole fluorescenti in grado di legare i
filamenti intermedi, l’actina o i microtubuli, stesso ragionamento per
nucleo, mitocondri ecc..).
I microscopi a fluorescenza confocali, sfruttando sempre il legame fra
fluoroforo (la molecola fluorescente) e la regione di interesse,
effettuano invece delle immagini del preparato in tutti i suoi piani
(trasversali e paralleli) per poi ricostruire un’ immagine
tridimensionale.
−13
L’unità di misura dei coefficienti di sedimentazione è lo SVEDBERG (1S) = 10
secondi. Gli Svedberg indicano la velocità con la quale una particella sedimenta se
sottoposta ad una forza centrifuga.
05/10/2023 Prof.ssa Francesca Magherini
Biologia Sbobinatori: Elisa Pallotti, Anita Ostanel
Lezione 2, parte seconda Revisori: Cecilia Petrini, Samuele Pelagalli
I PROCARIOTI
I procarioti sono cellule senza nucleo, in cui il materiale genetico non è limitato da
membrane e gli unici organelli presenti sono i ribosomi.
I procarioti racchiudono le cellule appartenenti ai due regni degli eubatteri e degli
archeobatteri, anche se questi hanno origini filogenetiche diverse.
I batteri compaiono sulla Terra 3,5 miliardi di anni fa e, ad oggi, rappresentano il 50%
della biomassa, sono perciò diffusi ovunque.
La maggior parte di essi è innocua per l’uomo, molti di essi sono utili all’ambiente e
agli ecosistemi (è sufficiente pensare ai batteri azoto-fissatori, che rendono
disponibile l’azoto atmosferico alle piante); invece, una piccola parte è quella
rappresentata dai batteri patogeni.
La grande diffusione dei batteri in tutti gli habitat presenti sulla Terra è anche dovuta
alla grande adattabilità che questi hanno dal punto di vista del metabolismo e delle
loro relazioni con l’ossigeno.
4- Distinzione dei batteri sulla base della loro possibilità di interagire con l’ossigeno:
● Aerobi: vivono solo in presenza di ossigeno, importante in quanto accettore
finale di elettroni;
● Anaerobi obbligati: vivono esclusivamente in assenza di ossigeno, di fatti,
quest’ultimo risulta per loro tossico;
● Aerobi facoltativi: possono vivere in assenza di ossigeno ma privilegiano un
ambiente in cui l’ossigeno è presente;
● Microaerofili / ossigeno tolleranti: possono tollerare basse concentrazioni
di ossigeno, ma preferiscono un ambiente in cui l’ossigeno è assente.
SIMBIOSI
Alcuni batteri instaurano relazioni più o meno strette con gli ospiti. Vengono detti
simbionti e in base alle caratteristiche della simbiosi i batteri vengono definiti:
Le funzioni del microbiota sono varie: aiuta nella digestione di alcune molecole, è
importante per la sintesi della vitamina K e di alcune vitamine del gruppo B, serve
per la nutrizione delle cellule del colon, stimola il sistema immunitario, esercita un
controllo sullo sviluppo dei batteri patogeni, coopera nel mantenimento della barriera
intestinale.
D’altra parte è stato visto che un’eventuale alterazione del microbiota può correlare
con delle patologie, pur senza esserne la causa (vedi tabella 2).
Molti fermenti e probiotici contengono spore di batteri o batteri che servono per
ripopolare il nostro intestino con comunità batteriche, che sono già presenti nel
nostro organismo, quando la loro percentuale diminuisce.
LA PARETE CELLULARE
La parete batterica è costituita da una macromolecola chiamata peptidoglicano (o
mureina), dal nome si deduce la composizione di questa macromolecola, che è
costituita da amminoacidi e zuccheri modificati.
La parete batterica si differenzia in due grandi tipologie di batteri: i Gram-positivi e i
Gram-negativi, che vengono individuati e distinti mediante una colorazione
apposita.
La distinzione dei batteri in queste due grandi tipologie rispecchia la struttura della
parete:
● i batteri Gram-positivi hanno uno spesso strato di peptidoglicano;
● nei batteri Gram-negativi la parete è costituita da un sottile strato di
peptidoglicano e da un’ulteriore membrana (denominata “membrana
esterna” per distinguerla dalla membrana plasmatica vera e propria).
E’ importante che le varie catene glucidiche siano saldate fra loro attraverso questi
legami perché questo conferisce stabilità e rigidità alla struttura.
I legami crociati rappresentano il sito bersaglio per l’attività della penicillina! (vedi in
seguito)
Nei Gram-negativi il legame crociato attraverso il ponte di pentaglicine non esiste
ma vi è un legame diretto tra due amminoacidi.
MESOSOMA
Il mesosoma è un’invaginazione della membrana citoplasmatica di notevoli
dimensioni, di forma irregolare. Al livello di queste invaginazioni si organizzano tutti
gli enzimi e i complessi (citocromi) responsabili dello svolgimento di processi come
la respirazione cellulare e la fotosintesi (per quanto riguarda i batteri fotosintetici).
Ciò avviene perché la cellula procariotica, a differenza di quella eucariotica, non
contiene compartimenti e organuli atti a svolgere funzioni specifiche ma presenta
solo materiale genetico e ribosomi.
Nel mesosoma sono anche contenuti degli enzimi importanti per la sintesi della
parete e, come si vedrà meglio in seguito, i mesosomi sono importanti anche per la
corretta ripartizione del genoma tra le due cellule figlie durante la divisione cellulare,
infatti il mesosoma fornisce attacco al DNA facilitando la separazione dei due
cromosomi e la produzione del setto trasverso.
IL NUCLEOIDE
Il materiale genetico presente nella cellula batterica è
costituito dall’insieme di tutti i geni presenti sia nell’unico
cromosoma che negli elementi extracromosomici
trasmissibili.
L’unico cromosoma batterico è in genere costituito da una
molecola di DNA circolare a doppio filamento e presente in
un’unica copia.
I PLASMIDI
I plasmidi veicolano una serie di informazioni che non sono
indispensabili per la vita del batterio, ma possono conferirgli
dei vantaggi (produzione di tossine, pili, enzimi che
conferiscono resistenza ai farmaci antibatterici).
I plasmidi possono essere di dimensioni diverse: vanno da
1/20 a 1/100 della dimensione del cromosoma batterico;
possono contenere fino a 100 geni.
Talvolta i plasmidi possono anche integrarsi all’interno del genoma batterico, in
questo caso prendono il nome di episomi.
Generalmente i plasmidi si duplicano indipendentemente dal genoma stesso, fatta
eccezione per quando sono integrati nel genoma batterico.
I plasmidi possono essere classificati sulla base dei geni che trasportano e quindi
delle funzioni che controllano:
● Fattori di fertilità (fattori F): plasmidi che contengono geni responsabili del
processo di coniugazione batterica (una delle modalità con cui i batteri
possono ottenere variabilità genetica);
● Fattori di resistenza (fattori R): i batteri che li possiedono sono resistenti
ad uno o più antibiotici e possono trasferire questa informazione attraverso
coniugazione o trasformazione;
● Plasmidi di virulenza: contengono geni che codificano per tossine e fattori di
virulenza;
● Plasmidi metabolici: contengono geni che codificano per enzimi che
permettono di metabolizzare substrati insoliti, come composti aromatici e
pesticidi, conferendo al batterio la capacità di sopravvivere in ambienti ostili.
10/10/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatori: Silvia Mancini,Rachele Montagna
Lezione 3, parte prima Revisori: Niccolò Parenti,Nancy Palombi
RIBOSOMI
Gli unici organuli presenti all’interno dei batteri sono i ribosomi,
non rivestiti da membrana, ma costituiti da due subunità e
composti da rRNA e proteine.
Sono deputati alla sintesi proteica
e la loro presenza, quindi, è
necessaria per il corretto processo
del flusso dell’informazione
genetica.
EUBATTERI
E STRUTTURE ACCESSORIE
Le strutture accessorie o facoltative sono strutture che
possono essere presenti in alcuni ceppi batterici, ma non
sono uniformemente distribuite.
Le strutture sono:
● capsula;
● flagelli e ciglia;
● fimbrie e pili;
● spore.
CAPSULA
La capsula è una struttura di natura polisaccaridica o proteica che viene depositata
all’esterno della parete. Attraversando la cellula dall’interno verso l’esterno troviamo
la membrana cellulare, la parete e poi la capsula.
I batteri capsulati hanno una sembianza gelatinosa e ciò è visibile se vengono
cresciuti su una piastra petri.
Questi batteri possono essere evidenziati con inchiostro di china, ma non penetra il
batterio capsulato che rimane bianco su sfondo nero.
La capsula può essere presente sia
nei gram + che nei gram -
indistintamente.
La capsula contribuisce a
prevenire l'essiccamento, favorisce
l’adesività ad altri batteri e alle superfici dei tessuti dell’ospite, ma favorisce anche
una maggiore resistenza al riconoscimento dei macrofagi del sistema immunitario
(proprietà antifagocitaria). Grazie a ciò il batterio ha la possibilità di duplicarsi
all’interno dell’organismo.
La perdita della capsula è associata alla perdita della capacità infettiva e viceversa.
L'adesività, sopracitata, favorisce la colonizzazione in particolari distretti biologici,
formando delle strutture dette biofilm. Ad esempio sulla superficie del catetere,
utilizzato negli ospedali, si possono depositare questi batteri, richiamandone altri,
resistenti all'attacco degli antibiotici (quindi è la capsula a fungere da barriera per gli
antibiotici).
FLAGELLI E PILI
I flagelli favoriscono la motilità del batterio, la cosiddetta tassia, in
seguito ad uno stimolo positivo o negativo. Il numero e la
disposizione possono essere diversificati e sono costituiti da una
proteina detta flagellina.
Questi flagelli sono diversi per costituzione e organizzazione rispetto
ai flagelli eucariotici. Sono ancorati, attraverso una struttura basale,
alla membrana del batterio.
I pili, costituiti da pilina, sono presenti principalmente nei gram - e
sono codificati generalmente da geni presenti nei plasmidi. Alcuni
sono detti pili coniugativi e sono codificati da geni presenti sul fattore
F di tipo coniugativo, cioè che guida il processo coniugativo, uno dei
meccanismi attraverso cui è garantita la variabilità genetica nei
batteri.
Il pilo coniugativo è una struttura rigida che consente il passaggio di plasmidi,
permettendo, così, la diffusione di geni codificanti anche la resistenza agli antibiotici.
SPORA
La spora è una struttura rigida e disidratata contenente il
DNA batterico. Rappresenta una forma di resistenza del
microrganismo a condizioni sfavorevoli.
Sono sporigeni molti ceppi appartenenti ai Clostridi. La
pericolosità della spora è dovuta alla resistenza ai tenui
metodi con cui ci disinfettiamo solitamente.
Sono necessarie strumentazioni, come l’autoclave, che
distruggono le spore grazie alle alte temperature.
RIPRODUZIONE BATTERICA
La scissione binaria, ovvero un tipo di riproduzione
asessuata, non deve essere confusa con la mitosi.
Questo processo, infatti, comprende complessivamente
sia la duplicazione del DNA, la formazione del fuso
mitotico e l’insieme di meccanismi che garantiscono la
divisione delle cellule eucariote.
Nella scissione binaria non si crea un fuso né tantomeno
si verifica una migrazione ai poli della cellula.
I mesosomi permettono l’ancoraggio del DNA alla membrana in modo da
suddividerlo equamente tra le cellule figlie. Successivamente si forma una nuova
parete e i batteri si dividono. Da una cellula “madre” si ottengono due cellule
identiche “figlie”, e così via.
Ciò implica l’assenza della variabilità genetica, fatta eccezione per eventuali errori di
duplicazione.
La RNA polimerasi, infatti, è estremamente fedele, ma può introdurre un errore ogni
9
10 basi azotate.
Le mutazioni sono certamente il substrato su cui agisce la selezione naturale.
ZUCCHERI COMPLESSI
POLISACCARIDI CON FUNZIONE DI RISERVA
AMIDO
Le molecole di glucosio sono legate da legami α − 1, 4 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖.
L’amido, però, è costituito dall’unione di due polisaccaridi
diversi:
● amilosio, è la forma più semplice, non ramificata;
● amilopectina, una catena ramificata, simile al glicogeno.
Le piante accumulano l’amido all’interno di strutture dette
amiloplasti. Se necessario il polisaccaride viene scisso e il
glucosio ottenuto viene utilizzato nella respirazione cellulare.
GLICOGENO
Le molecole di glucosio all’interno della struttura lineare sono legate da legami
α − 1, 4 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖, mentre le ramificazioni si formano attraverso legami
1 6
α − 1, 6 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖 tra il 𝐶 e il 𝐶 (a formare la ramificazione stessa 8-10 residui di
glucosio).
Nel nostro organismo si deposita sia nel
fegato che nei muscoli, ma con funzioni
diverse.
Il muscolo sfrutta il glicogeno accumulato
per la propria attività e non ha alcun ruolo
nel controllo del livello di glicemia nel
sangue.
Quando la glicemia tende a diminuire o siamo sottoposti a un digiuno prolungato il
fegato degrada il glicogeno attraverso un processo detto glicogenolisi, rilasciando le
molecole di glucosio nel flusso ematico.
CELLULOSA
La cellulosa è un polimero lineare non ramificato.
Le molecole di glucosio sono legate da legami β − 1, 4 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖 e sono disposte
in fasce parallele, conferendo, così, maggiore rigidità al polisaccaride stesso.
Ha una funzione strutturale e costituisce la parete delle piante.
Gli animali non possiedono enzimi capaci di idrolizzare i legami β − 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖, per
cui non sono in grado di utilizzarne il glucosio per ottenere energia.
Le fibre vegetali presentano, però, una grande importanza
nella nostra dieta, pur non venendo digerite:
● regolano il transito intestinale;
● contribuiscono al mantenimento di un intestino pulito;
● aumentano la peristalsi.
Gli erbivori, come il resto del regno animale, sono
caratterizzati dall’assenza di geni per la produzione di enzimi volti alla digestione
della cellulosa.
Il loro stomaco ospita, però, batteri simbionti in grado di demolire il polimero,
garantendo la corretta digestione.
Quanto detto precedentemente vale anche per le termiti.
CHITINA
Molti crostacei ed insetti possiedono un esoscheletro costituito da chitina, un
polimero la cui unità fondamentale è N-acetil glucosamina, uno zucchero modificato.
- la presenza di pochi gruppi carichi (fanno eccezione gli acidi grassi), infatti
sono molecole ricche di atomi di carbonio e idrogeno, legati tramite legami
covalenti apolari;
- alcune sostanze tra i lipidi hanno una notevole attività biologica (ormoni
e vitamine).
1. ACIDI GRASSI
Gli acidi grassi sono costituiti da lunghe catene di carbonio, il gruppo funzionale che
li caratterizza è il gruppo carbossilico. Gli acidi grassi possono essere saturi (privi di
doppi legami) o insaturi (con uno o più doppi legami).
Un doppio legame in cis, cioè con i due atomi di idrogeno dalla stessa parte di piano
del doppio legame, comporta una distorsione della catena della molecola.
2. TRIGLICERIDI
I trigliceridi sono formati da un alcool (il glicerolo), caratterizzato da tre gruppi
ossidrili legati tramite legame estere a tre acidi grassi, per questo si dice che la
molecola di glicerolo è esterificata con tre acidi grassi.
Anche in questo caso la catena dell’ acido grasso può presentare o meno doppi
legami.
Nei grassi solidi come il burro prevalgono gli acidi grassi saturi, le loro catene
essendo lineari tendono a stare più vicine e compatte tra loro, avremo
conseguentemente numericamente più forze di van der Waals e interazioni
idrofobiche.
Gli oli invece sono caratterizzati da acidi grassi con doppi legami,
conseguentemente le catene carboniose tendono ad essere più lontane tra loro a
causa della distorsione della catena stessa, per questo motivo sono liquidi a
temperatura ambiente.
Sui grassi saturi e insaturi c’è un grande dibattito, perché è stata evidenziata una
correlazione diretta tra un alimentazione ricca di acidi grassi saturi e l’insorgenza di
patologie cardiovascolari, non a caso gli esami del sangue servono anche ad
evidenziare e segnalare un’eccessiva concentrazione di trigliceridi oltre che di
colesterolo nel sangue.
3. FOSFOLIPIDI
- i glicerofosfolipidi o fosfogliceridi;
- gli sfingofosfolipidi.
3.1 GLICEROFOSFOLIPIDI
[per l’esame non è necessario conoscere tutti i sostituenti, tuttavia è bene ricordare
la formula chimica dei trigliceridi e dei fosfolipidi, ricordando che la “X” corrisponde a
un sostituente di vario tipo polare o carico, inoltre bisogna ricordare che il nome del
fosfolipide dipende dal sostituente.]
3.2 SFINGOFOSFOLIPIDI
4.GLICOLIPIDI
Oltre ai fosfolipidi, le membrane biologiche sono costituite da altri componenti lipidici,
come i glicolipidi. Tali molecole possono essere classificati in due sottoclassi in
base alla loro composizione chimica:
● Gliceroglicolipidi: glicolipidi contenenti una molecola di glicerolo; sono
presenti soprattutto nelle membrane delle cellule vegetali;
● Sfingoglicolipidi: glicolipidi contenenti una molecola di sfingosina;
abbondanti nelle cellule animali.
Per capire la struttura di tali molecole, è utile visualizzare le principali differenze che
intercorrono con i fosfolipidi: se immaginiamo di togliere il gruppo fosfato e il
sostituente propri di un fosfolipide, sostituendoli con uno zucchero o una catena di
zuccheri, di fatto, otteniamo la strutture di base di un glicolipide.
In particolare, è la natura del glucide a determinare le caratteristiche del glicolipide,
nonché la sua nomenclatura.
Ex. Galattosio→ Galattolipide.
4.1 GLICEROGLICOLIPIDI
Talvolta, i gliceroglicolipidi
presentano come sostituenti
gruppi carichi come un gruppo
fosfato- è il caso dei
Solfolipidi.
4.2 SFINGOGLICOLIPIDI
una molecola si
sfingosina dispone il
proprio gruppo
amminico -NH per la
formazione di un
legame con una catene
di acido grasso, e con il
gruppo ossidrile -OH
lega uno zucchero, o
una catena di zuccheri.
I diversi antigeni del globulo rosso sono responsabili della compatibilità, o dell’
incompatibilità (ovvero, il riconoscimento di antigeni non-self con conseguente
risposta immunitaria di rigetto) dei gruppi sanguigni: di fatto, in virtù della presenza di
una struttura di base che si ripete, i gruppi A e B sono riceventi del proprio gruppo e
del gruppo 0, di contro, il gruppo O costituisce un donatore universale, ma riceve
soltanto il proprio gruppo.
Correlate a queste molecole vi sono anche delle patologie di accumulo di
sfingolipidi. All’interno dell’organismo, tutte le biomolecole sono soggette a processi
di sintesi e demolizione (anabolismo e catabolismo) strettamente sorvegliate:
quando viene meno la corretta regolazione di tali processi si va incontro a una
produzione anomala della macromolecola, spesso associabile a una patologia.
Se quanto descritto coinvolge gli sfingolipidi si va incontro alle c.d “patologie di
accumulo lisosomiale” che, come suggerito dal nome, hanno come le strutture
bersaglio i lisosomi, organuli contenenti enzimi deputati a numerosi processi di
demolizione che, se prodotti in concentrazioni anomale (come nel caso di queste
patologie) compromettono le vie cataboliche a cui essi sono deputati.
5.1 COLESTEROLO
Il colesterolo è stato oggetto di numerosi studi, dopo essere stato individuato nel
1784 all’interno dei calcoli biliari, il colesterolo è stato oggetto di 13 premi nobel
riguardanti: studi chimici( per la struttura a 4 anelli condensati); biochimici(per la
biosintesi); fisiologi (per le sue funzioni) e Medici (collegata a patologie
cardiovascolari).
Per quanto riguarda la sua funzionalità, il colesterolo costituisce uno dei lipidi
fondamentali delle membrane cellulari: nella membrana plasmatica, di fatto, il
rapporto molare tra fosfolipidi e colesterolo può arrivare a 1:1.
Oltre a ciò, costituisce il precursore di:
● acidi biliari;
● ormoni steroidei (cortisolo, aldosterone, ormoni sessuali);
● vitamina D.
Pur essendo una molecola importantissima da un punto di vista biologico, per la
salute dell’organismo è fondamentale che la concentrazione ematica del colesterolo,
misurata nelle analisi del sangue attraverso la concentrazione delle lipoproteine di
trasporto HDL e LDL, sia moderata.
Gli ormoni steroidei sono derivati del colesterolo e sono responsabili dello sviluppo
dei caratteri sessuali secondari maschili e femminili, di fatto, il dimorfismo
sessuale è tipico della specie umana, oltre che di molte specie animali, come ad
esempio i pavoni.
5. CAROTENOIDI
LA CELLULA EUCARIOTE
(Nelle diapositive la prof. aggiunge la seguente tabella dove troviamo le differenze tra
procarioti ed eucarioti, specifica che ci servirà in seguito)
LE MEMBRANE CELLULARI
Le membrane all’interno della cellula e quella esterna hanno la stessa organizzazione e la
stessa struttura di base, ma la percentuale delle varie componenti, come proteine e lipidi,
può essere diversa.
Le membrane non creano soltanto dei compartimenti, svolgono molte altre funzioni:
- Regolano in maniera attiva ciò che entra e ciò che esce dalla cellula (nel caso della
membrana plasmatica), è quindi una barriera selettiva che mantiene l’omeostasi,
ovvero la capacità di autoregolarsi mantenendo costante l'ambiente interno pur al
variare delle condizioni che riguardano l'ambiente esterno.
- Alcune sono deputate al trasporto delle sostanze.
- Rappresentano un supporto fisico per l’attività enzimatica.
- Possono partecipare a meccanismi di trasferimento dell’energia, come nel caso
specifico del mitocondrio o del cloroplasto
Sulle membrane sono situate delle proteine che hanno la funzione di ricevere stimoli
dall’esterno e trasmetterli tramite dei meccanismi di trasduzione del segnale, ovvero dei
sistemi intracellulari che permettono di convertire un segnale extracellulare in segnale
intracellulare mediante l'attivazione di un effettore.
Queste proteine mediano l’interazione cellula-cellula, cellula-substrato e anche
cellula-matrice extracellulare, permettendo la cooperazione e la coordinazione di tutte le
cellule di un organismo.
1. OVERTON :
L’idea che la membrana fosse di natura lipidica risale alla seconda metà dell’800 da parte di
Overton. Egli fece una semplice osservazione: si era accorto che attraverso le membrane
cellulari passavano con molta facilità sostanze apolari, idrofobe e di natura lipidica, mentre le
sostanze idrofile, polari o cariche passavano con molta più difficoltà o non passavano,
Overton suppone quindi che la membrana sia apolare;
2. LANGMUIR
Poco dopo Langmuir mise a punto un sistema per far
stratificare dei fosfolipidi in acqua in modo da poterli studiare.
Estraendoli con un solvente organico, il benzene, li poneva in
acqua; qui il benzene evaporava ed i fosfolipidi si
disponevano con la testa polare rivolta verso l’acqua e le
code apolari rivolte, invece, verso l’aria. Da questo Langmuir
suppose che la membrana fosse stratificata, ma ci si accorse
solo in seguito che questo modello monostratificato non risultava possibile empiricamente.
3. GORTER E GRENDEL
In seguito Gorter e Grendel, nel 1925, effettuarono il seguente esperimento: Presero in
analisi un numero preciso di eritrociti, dopo di che
misurarono la superficie cellulare del singolo eritrocita
e la moltiplicarono per in numero di cellule prese in
esame, ottennero così un numero, corrispondente
alla superficie totale degli eritrociti.
In seguito, estrassero i fosfolipidi con il benzene e
facendoli stratificare sull’ acqua notarono che
occupavano una superficie che era il doppio di quella
attesa. Ipotizzarono quindi che la membrana fosse
costituita da un doppio strato di fosfolipidi. Questo
modello presentava però delle incompatibilità con la
realtà, ad esempio con questo modello sarebbe difficile immaginare come delle molecole
polari o degli ioni possano penetrare la membrana, cosa che in realtà succede.
La confutazione di questo modello tardò ad arrivare, perché nello stesso periodo si stava
sviluppando la microscopia elettronica e Robertson, uno studioso, con i suoi esperimenti
sembrava avvalorare la tesi di Davson e Danielli.
Quest’ ultimo, con il suo modello di colorazione
trilaminare, confuse le teste polari dei fosfolipidi con le
proteine, rappresentate da una banda scura
nell’immagine.
Venne osservato al microscopio elettronico che la
membrana aveva in totale uno spessore di circa 7-8
nm, la parte “chiara”, ovvero quella occupata dai
fosfolipidi, corrisponde a circa 5-6 nm, si osserva quindi che per le proteine rimaneva uno
spazio di circa 1-2 nm, questo dato però non corrispondeva alle osservazioni, che nel
periodo si stavano accumulando, sulla struttura delle proteine, infatti esse hanno strutture di
dimensioni solitamente maggiori.
Questo errore viene notato e viene corretto, infatti la banda nera che si nota nella foto non è
altro che la fascia formata dalle teste dei fosfolipidi, colorati con osmio per renderli più
evidenti nelle immagini al microscopio.
Esistono tre categorie di proteine che stabiliscono con la membrana legami più o meno
stretti:
Molte proteine possono essere glicosilate ovvero ancorate al GPI. Questo legame avviene
quando una proteina attraverso il reticolo endoplasmatico rugoso ed il golgi. Una struttura
formata da più proteine glicosilate può venir chiamata glicocalice. Un esempio di proteine
glicosilate sono quelle dei lisosomi.
Molte proteine di membrana, tuttavia, non sono galleggianti nel doppio strato fosfolipidico
ma sono in parte ancorate, nella zona citoplasmatica, ad elementi del citoscheletro e, nella
zona extracellulare, alla matrice extracellulare, così come possono mediare l’interazione tra
due cellule che sono strettamente legate le une alle altre.
ATTENZIONE:
Il doppio strato di fosfolipidi non è simmetrico, non solo i fosfolipidi sono differenti tra loro,
ma anche la distribuzione delle proteine e dei lipidi è diversa tra i due foglietti (es. le proteine
ancorate al gpi si trovano solo all’esterno) ciò ha ovviamente delle ripercussioni a livello
funzionale
FLUIDITA’ DELLA MEMBRANA
Supponiamo di fare il seguente esperimento: prendiamo delle cellule umane e delle
cellule di topo e marchiamo le proteine di membrana di entrambi con degli anticorpi
a fluorescenza specifici per ciascuna. Ovviamente, utilizziamo anticorpi che abbiano
un’emissione di fluorescenza diversa in modo tale da poter distinguere, al
microscopio a fluorescenza, le proteine di origine murina rispetto a quelle di origine
umana.
Induciamo successivamente la fusione delle membrane (che può essere effettuata
con vari metodi come per esempio la produzione uno stimolo elettrico o chimico) e
attendiamo. Osserviamo a questo punto nella risultante ibrida una ridistribuzione
delle proteine di membrana delle due cellule e le due fluorescenze mischiate tra di
loro.
È quindi importante capire quali sono i meccanismi che regolano la fluidità della
membrana.I fattori che la regolano sono tre:
1. Temperatura
2. Grado di saturazione e lunghezza degli acidi grassi
3. Colesterolo
IL TRASPORTO DI MEMBRANA
Il trasporto di membrana riguarda il meccanismo di passaggio delle sostanze
attraverso la membrana stessa. Questo può suddividersi in trasporto passivo e
trasporto attivo.
Attraverso la membrana cellulare passano liberamente molecole idrofobiche e
piccole molecole polari, i gas, l’acqua, l’urea ed il glicerolo.
Non passano invece liberamente molecole di dimensioni maggiori come glucosio,
amminoacidi, fruttosio e molecole dotate di carica ecc.
Le membrane sono quindi strutture selettivamente permeabili.
TRASPORTO PASSIVO
Nel trasporto passivo l’energia per il passaggio delle molecole attraverso la
membrana è fornita dal gradiente di concentrazione: una forma di energia potenziale
basata sulla differente concentrazione delle molecole alle due parti opposte della
membrana. In questo tipo di trasporto le molecole si muovono dalla zona a più alta
concentrazione a quella a minor concentrazione fino a quando non viene raggiunto
un equilibrio che viene detto dinamico poiché la quantità di molecole che si sposta in
una direzione equivale a quella che si sposta nella direzione opposta.
TRASPORTO ATTIVO
Nel trasporto attivo, invece, il movimento delle molecole è opposto ed è definito
contro gradiente di concentrazione: da una zona a minor concentrazione ad una a
maggior concentrazione. È quindi necessario utilizzare l’energia ricavata dall’idrolisi
dei legami altamente energetici tra il terzo e il secondo fosfato dell’ATP per far sì che
avvenga il trasporto.
17/10/2023
Prof.ssa: Francesca Magherini
Biologia
Sbobinatori: Francesca Luongo, Vittoria Valentini
Lezione 5, parte prima
Revisori: Giosè Schapira, Anna Menegatti
IL TRASPORTO ATTRAVERSO
LA MEMBRANA
Cosa passa attraverso un doppio strato fosfolipidico sintetico:
Nell’immagine, si osserva che alcune molecole riescono a passare attraverso la
membrana facilmente mentre altre no.
I gas passano liberamente, così come le molecole idrofobiche (es. benzene).
Anche piccole molecole polari (es. glicerolo, urea, acqua) riescono a passare.
Se si prendono ioni o molecole polari più grandi invece, vengono respinti dal doppio strato
fosfolipidico. E’ quindi evidente che per passare attraverso la membrana essi necessitino
di un altro sistema, ovvero le proteine di trasporto, che permettono/facilitano l’ingresso.
Nonostante l’acqua sia una molecola fortemente polare, riesce a passare anche molto
rapidamente, poiché alcune cellule dispongono di appositi canali detti acquaporine.
Inoltre, essendo la molecola dell’acqua di piccole dimensioni, riesce a passare fra pori che
si creano temporaneamente nel doppio strato fosfolipidico.
TRASPORTO PASSIVO
La diffusione di una sostanza attraverso una membrana biologica, che non necessita
l’utilizzo di ATP, è definita trasporto passivo e avviene secondo gradiente di
concentrazione.
- Diffusione semplice
- Diffusione facilitata
- Osmosi
- DIFFUSIONE SEMPLICE
Per muovere i soluti viene sfruttato il gradiente di concentrazione, vale a dire la differenza
di concentrazione fra esterno ed interno della cellula. Il passaggio della determinata
sostanza avviene direttamente attraverso la membrana e sussiste finché non si raggiunge
un equilibrio, fra interno ed esterno, che risulta essere dinamico in quanto le molecole
continuano a spostarsi da una parte all’altra della membrana in maniera equivalente.
Questo tipo di trasporto non
richiede pompe o trasportatori.
La capacità di una sostanza di superare la membrana è direttamente proporzionale alla
sua idrofobicità (più è apolare più è facile che riesca ad attraversare le code apolari dei
fosfolipidi).
- DIFFUSIONE FACILITATA
Ci sono molecole come gli zuccheri che non riescono a passare facilmente attraverso il
doppio strato (o non riescono proprio).
Ecco quindi che si introduce il concetto di diffusione facilitata, in cui il trasporto è mediato
da proteine. Esistono due tipi di proteine trasportatrici: i carrier (o trasportatori), oppure
proteine canale.
I Carrier
Le caratteristiche principali delle proteine di trasporto sono la specificità del substrato,
ovvero che i Carrier presentano una struttura tale da poter selezionare ciò che devono
trasportare (simili ad enzimi). Ogni Carrier è specifico per un suo substrato. La specificità
può essere assoluta, come nel caso dei Carrier del glucosio, che trasportano solo
glucosio, oppure alcuni trasportano sia glucosio che fruttosio.
Altra peculiarità è che i Carrier possono essere bloccati da inibitori competitivi. Se un
Carrier ha una struttura adatta al suo substrato, si può usare una molecola con struttura
simile (magari farmaco) che blocca la sua funzione legandosi ad esso.
Inoltre hanno un’elevata dipendenza dalla temperatura e dal PH: Variando il numero di ioni
H+ possono venire meno alcune funzioni, così come la temperatura, poiché al suo
aumento varia anche l’energia cinetica e quindi si modificano le interazioni. Questo
comportamente è intuibile poiché i carrier sono proteine.
Il numero di carrier è limitato, quindi il numero di molecole che possono entrare è limitato.
Esiste in due conformazioni alternative dette strutture alternative: una per legare la
sostanza dall’esterno (iniziale) e l’altra (indotta dal substrato) per rilasciare la sostanza
all’interno della cellula. Dopo aver rilasciato il substrato, ritorna alla conformazione iniziale.
Alcuni esempi: I trasportatori più studiati sono quelli del glucosio (in quanto il glucosio è
una
delle molecole più importanti per la produzione di energia ed inoltre perché è l’indice
fondamentale per lo studio del diabete). Questi vengono chiamati Glut + numero che
indica il tessuto su cui si trovano ed ognuno presenta caratteristiche di affinità diverse per
il glucosio stesso. Per esempio nel fegato abbiamo il Glut2, nei muscoli il Glut4, negli
eritrociti il Glut1 e Glut3 nel cervello.
I canali ionici sono adibiti al trasporto (selettivo) di ioni e possono essere regolati (aperti o
chiusi) da due fattori:
Il potenziale di membrana e il legame con determinate molecole.
Le porine, presenti sulle ME di mitocondri, cloroplasti e nei Gram-, Sono dei canali non
specifici, che hanno come unico limite le dimensioni della molecole da trasportare.
Sono caratterizzate dalla cosiddetta “struttura a barilotto”, data dalla struttura delle
proteine che le compongono (a ß-foglietto), che delimitano una cavità centrale, adibita al
passaggio delle molecole.
Le Acquaporine sono appunto porine che trasportano acqua e sono il motivo per cui,
nonostante questa sia una molecola polare, passa così facilmente dentro e fuori dalla
cellula.
- OSMOSI
La membrana plasmatica nei confronti dell’acqua ricorda il comportamento di una
membrana semipermeabile nel concetto dell’osmosi in chimica.
In chimica l’osmosi è definita come il passaggio di acqua tra due soluzioni a diversa
concentrazione (una più concentrata, l’altra meno) separate da una membrana
semipermeabile.
L’acqua tenderà ad andare dalla soluzione dove il soluto è meno concentrato a quella in
cui lo è di più, in modo tale da “diluire” la soluzione più concentrata (arrivare ad un
equilibrio in cui le soluzioni sono isotoniche). Possiamo quindi dedurre che nei confronti
dell’acqua la membrana plasmatica si comporta come membrana semipermeabile.
Questo è il motivo per cui per una flebo si usa una soluzione fisiologica, oppure per cui in
laboratorio non si lavano le cellule con acqua. Evitare di lisare le cellule.
La pressione osmotica non dipende dal tipo di soluto, ma dalla sua concentrazione.
Esempi:
La cellula animale (globulo rosso) in soluzione con stessa concentrazione di soluti rispetto
all’interno della cellula sta bene (si parla di isosmosi)
Se la soluzione è ipotonica, ovvero la concentrazione di soluti all’interno della cellula è
maggiore dell’esterno, l’acqua entra e la cellula aumenta di volume fino a morire.
Le cellule dotate di parete cellulare, invece, sono resistenti alla lisi osmotica. Se si mette
una cellula vegetale o un batterio in una soluzione ipotonica, l’acqua tenderà ad entrare e
la cellula tenderà a gonfiarsi. Ad un certo punto, però, essendoci la parete rigida ed
indeformabile, smetterà di entrare acqua. La pressione esercitata dalla parete si
contrappone a quella dell’acqua che entra.
Nelle cellule vegetali questa è la soluzione migliore perché le cellule sono ben idratate.
Nel caso in cui la cellula venga messa in una soluzione ipertonica, si assiste alla morte
cellulare perché la parete non impedisce la fuoriuscita di acqua e quindi le membrane
cellulari si contraggono fino alla morte cellulare.
Questo principio viene utilizzato nella conservazione degli alimenti sotto sale o per le
marmellate con lo zucchero.
TRASPORTO ATTIVO
È un trasporto che avviene contro gradiente, perciò la cellula necessita di energia e
trasportatori per poterlo e ettuare. Vengono trasferiti soluti da dove sono meno
concentrati a dove sono più concentrati a spese di ATP.
In questo contesto entrano in gioco delle proteine di membrana chiamate pompe ATP
dipendente o ATPasi le quali, utilizzando l’energia presente all’interno della molecola di
ATP, sono in grado di permettere alla proteina di trasferire le molecole contro gradiente.
I trasportatori del trasporto attivo vengono chiamati pompe e possono essere: atpasi di
tipo P, V, F (sono delle atpsintasi) e di tipo ABC.
ff
POMPE DI TIPO P
“P” deriva dal fatto che questo tipo di pompa presenta un legame covalente con un
fosfato (che deriva dall’idrolisi dell’atp) che si lega all’amminoacido aspartato della
subunità beta, che poi viene fosforilato. Generalmente le pompe di tipo P sono costituite
da due subunità alfa a livello della quali è presente un sito di legame per il fosfato che
deriva dall’idrolisi dell’ATP, e due subunità beta dove si lega poi all’amminoacido
aspartato.
Sul sito di legame, l’atp viene legata ed idrolizzata ed un residuo di fosfato viene legato
all’aspartato (amminoacido): questo determina un cambiamento conformazionale della
proteina (viene utilizzata energia chimica per indurre un cambiamento conformazionale),
al ne di produrre un determinato tipo di lavoro a livello della proteina stessa. La forma ad
alta a nità lega la sostanza dove questa è meno concentrata.
Ricordiamo che quindi le pompe presentano due forme alternative: una ad alta a nità
che lega la sostanza dove è meno concentrata, che subisce una variazione
conformazionale, e una a bassa a nità, che rilascia la sostanza dove è più concentrata .
(Il trasporto attivo va contro gradiente).
1. Pompa Na+/K+:
Si tratta di un antiporto nel quale si trasportano 3 ioni sodio verso l’esterno e 2 ioni
potassio verso l’interno. Le concentrazioni sono molto diverse tra l’interno e l’esterno
della cellula: questa pompa permette di mantenere un livello di concentrazione degli ioni
ma anche un gradiente elettrico costante del potenziale di membrana (-60 mV);
fi
ffi
ffi
ffi
Vista la di erenza di carica si genera un potenziale di membrana negativo (3 cariche
positive escono e solo 2 entrano), essenziale per le nostre cellule. 3 ioni sodio vengono
legati dal trasportatore/lume della cellula, la pompa viene fosforilata a livello di un residuo
di aspartato, che induce un cambiamento conformazionale, così che la pompa possa
rivolgere i siti diventati a bassa a nità per il sodio verso l’esterno; vengono poi legati 2
ioni potassio, rilasciato il fosfato, ed il potassio viene rilasciato poi dentro la cellula, così
che il ciclo possa ricominciare.
2. Pompa protonica:
In questo caso il legame con il fosfato avviene prima del legame con H+, il sito diventa ad
alta a nità, l’H+ si lega e si veri ca la variazione conformazionale. Viene in ne rilasciato
l’H+, il fosfato viene rimosso e si torna alla situazione iniziale. La fosforilazione qui serve
quindi per trasformare i siti a bassa a nità in siti ad alta a nità.
3. mucosa gastrica:
Esistono farmaci, detti “inibitori di pompa” che inibiscono questo trasportatore, utilizzati
per limitare l’acidità gastrica. Esistono anche farmaci che inibiscono il contatto con la
molecola segnale che induce la fusione delle vescicole a livello della membrana.
POMPE DI TIPO V
V sta per vacuolo; si trovano a livello dei lisosomi nelle piante o nei vacuoli delle cellule
vegetali. Esse hanno una struttura proteica complessa formata da più subunità che, a
di erenza delle pompe P, non presentano una forma direttamente fosforilata; il loro
funzionamento è connesso all’idrolisi dell’ATP per fornire l’energia chimica per permettere
il trasporto contro gradiente dello ione H+, ma non viene fosforilata direttamente.
ff
ffi
ff
fi
ffi
ffi
ffi
fi
fi
In questa immagine viene descritto il trasporto primario della
pompa dei lisosomi, determinato dal trasporto degli ioni H+
dall’esterno all’interno del lisosoma, che ne acidi ca il
contenuto. Questo procedimento è utile proprio perché
all’interno dei lisosomi sono contenuti enzimi che funzionano
a PH acido. Infatti il PH interno del lisosoma deve essere
intorno a 5 (quello del citoplasma è circa 7). Essi servono per
la degradazione di materiale proveniente sia dall’esterno che
dall’interno della cellula in caso non fosse funzionante.
POMPE DI TIPO F
In condizioni in cui si trovano normalmente le cellule queste pompe funzionano
sintetizzando atp sfruttando un gradiente protonico.
L’ultimo tipo di pompe a livello delle cellule animali che analizzeremo sono quelle di tipo
ABC (ATP binding cassette) cioè cassette di legame dell’ATP, con un riferimento al motivo
strutturale responsabile del legame con l’ATP.
*Le permeasi si trovano nelle membrane dei batteri, con il ruolo di trasportare diverse
molecole;
Nella brosi cistica esistono diversi tipi di mutazioni a carico di questa proteina che
in ciano della sua funzione; in alcune delle forme più gravi questa proteina non si
inserisce neppure nella membrana. Essa coinvolge tessuti epiteliali e si presenta nelle sue
fasi tardive con la presenza di cisti che danneggiano i tessuti.
Quando il cloro viene trasportato correttamente nel lume, la presenza di questo ione
carico richiama acqua e questo favorisce la presenza di un muco uido che può
facilmente essere espulso, evitando così anche il ristagno ed eventuali mutazioni causate
da batteri.
Quando questo canale non funziona adeguatamente il cloro non viene trasportato nel
lume, di conseguenza a livello degli alveoli si forma un muco denso, che ristagna e
diventa terreno fertile per le infezioni. Infatti, le infezioni polmonari sono una delle
problematiche legate a questo tipo di patologia.
Anche questo tipo di trasportatore presenta delle fortissime analogie con le pompe di tipo
ABC perché l'apertura di questo canale per il cloro è controllata proprio dall’ATP.
Bisogna comunque considerare che l’ATP viene utilizzato per il funzionamento della
stessa pompa sodio potassio. Questo tipo di trasporto si trova a livello delle cellule che
fi
fi
fl
fi
delimitano l’intestino, visto che facilita l’ingresso continuo di glucosio, anche quando
tenderebbe ad essere più concentrato, così da poterlo poi trasferire ai vasi per poter
raggiungere i vari distretti dell’organismo.
Eritrocita e tutti i meccanismi di trasporto che possiamo trovare a livello di questa cellula:
1. Trasporto attivo mediato dalla pompa sodio-potassio;
2. Di usione facilitata mediata da un
trasportatore di glucosio, il GLUT2;
3. Trasporto attivo secondario
Nell’immagine di destra si può notare un globulo
rosso con alcuni trasportatori e meccanismi di
passaggio:
*In tutte le nostre cellule CO2 e O2 passano
liberamente attraverso il doppio strato
fosfolipidico (non necessitano trasportatori di
nessun tipo).
*L’acqua passa attraverso la membrana
plasmatica e, in alcuni casi, attraverso il doppio
strato fosfolipidico, che è permeabile all’acqua,
benché sia una molecola polare. In alcuni tipi
cellulari l’acqua passa anche attraverso le
acquaporine (AQP), canali specifici per l’acqua.;
*Il glucosio passa attraverso il GLUT1, un trasportatore specifico del glucosio;
*Un canale per il potassio; La sodio-potassio ATPasi.
ff
Nel caso delle cellule vegetali la principale pompa è elettrogenica: oltre a determinare uno
sbilanciamento degli ioni ai due lati della membrana (gradiente chimico) è in grado di
determinare anche un gradiente di tipo elettrico.
È una pompa protonica, cioè una pompa ATPdipendente, che pompa fuori dalla cellula
ioni H+.
Anche nella cellula vegetale c’è un meccanismo di trasporto attivo secondario, che
prevede il rientro all’interno della cellula di ioni H+ secondo gradiente e il rientro contro
gradiente di saccarosio (disaccaride che rappresenta nella pianta una forma di trasporto
del glucosio). Ricordiamo che nel trasporto attivo secondario c'è sempre l'ingresso
accoppiato attraverso un meccanismo di co-trasporto di uno ione che rientra secondo
gradiente di concentrazione e di un'altra molecola, in questo caso il saccarosio, che entra
contro gradiente. Per questo si chiama trasporto attivo secondario:
“attivo” perché dipende dal gradiente creato attivamente dalla pompa, in questo caso la
pompa protonica;
“secondario” perché l’ATP non viene direttamente consumato in questa fase (trasporto
attivo controgradiente).
ENDOCITOSI E ESOCITOSI
I Meccanismi generali che coinvolgono ampie porzioni della membrana cellulare sono:
ENDOCITOSI: è il trasporto verso l'interno della cellula con la formazione di una
vescicola che si forma da un’invaginazione e che si chiuderà portando all’interno del
materiale. Tipologie di endocitosi sono:
IL CITOSCHELETRO
Il citoscheletro è rappresentato da una serie di strutture proteiche che hanno una
conformazione generalmente filamentosa, che all'interno della cellula hanno numerose
funzioni. Infatti, non si deve pensare all'interno della cellula come una soluzione acquosa in
cui si muovono liberamente gli organuli, ma essa è interamente percorsa da fasci proteici,
che rappresentano il citoscheletro. Esso ha funzione strutturale, cioè coopera a dare la
forma caratteristica delle cellule, funzione di sostegno, di resistenza meccanica, di binari
lungo i quali vengono trasportati vescicole e materiali, e inoltre in alcune cellule specializzate
gli elementi del citoscheletro hanno un ruolo chiave in meccanismi di contrazione.
Dunque questi sono tutti elementi fondamentali per la funzionalità della cellula.
MICROFILAMENTI
I microfilamenti sono caratterizzati da polimeri di actina, cioè una proteina globulare, che
nella sua forma tridimensionale globulare viene detta actina G (globulare). Presenta anche
una regione in grado di legare l’ATP (pallina blu).
Le molecole di actina si legano le une alle altre spontaneamente a formare dei filamenti che
si arrotolano tra di loro a coppie per formare la struttura definitiva del microfilamento, cioè
l’actina F (filamentosa), ottenuta dopo la polimerizzazione.
Una volta che i monomeri di actina si sono legati tra di loro l’ATP viene idrolizzato, perciò
nei filamenti formati è presente l’ADP.
La polimerizzazione delle molecole di actina avviene sempre in una determinata direzione
(testa-coda), cioè non è casuale il modo in cui un monomero si pone rispetto all'altro, ma
questi sono sempre orientati nello stesso modo; perciò, nella molecola di actina si possono
individuare due estremità, non equivalenti fra di loro:
• un'estremità che viene detta appuntita (pointed end), negativa, ovvero quella a
livello della quale i monomeri di G-actina prevalentemente si dissociano;
• un'estremità che viene detta a barbigli o sfrangiata (barbed end), positiva, ovvero
quella a livello della quale avviene la polimerizzazione, cioè a livello della quale i
monomeri di G-actina si aggiungono.
In vitro si è visto che la polimerizzazione dell’actina inizia con una fase lenta che viene
chiamata nucleazione in cui pochi monomeri di actina si avvicinano gli uni agli altri e si
legano tra di loro, poi, dopo questa fase iniziale di nucleazione, la polimerizzazione procede
molto più rapidamente e avviene prima dai due lati, poi progressivamente inizia ad essere
prevalente ad un'estremità (l'estremità +) e invece risulta essere sfavorita all'altra estremità.
Questo processo, che vale anche per i microtubuli, si può spiegare con il concetto di
concentrazione critica: ad entrambe le estremità possono avvenire entrambi i fenomeni,
però dipendono dalla concentrazione di actina G legata all'ATP disponibile nel citoplasma,
cioè vi è una concentrazione, che viene detta concentrazione critica, al di sopra della quale
avviene la polimerizzazione e al di sotto della quale avviene la depolimerizzazione. Tale
concentrazione critica non è uguale tra le due estremità, ma all'estremità negativa ci vorrà
una maggiore concentrazione di actina G legata all’ATP perché avvenga la
polimerizzazione. Perciò, a parità di concentrazione di actina G, se essa è sufficiente per la
polimerizzazione a livello dell'estremità positiva, potrebbe non esserlo per la
polimerizzazione a livello dell'estremità negativa e dunque lì l’actina si depolimerizza.
A un certo punto si arriva a uno stato stazionario, in cui, tramite il fenomeno del
treadmilling, il segmento di actina filamentosa può rimanere uguale nella sua lunghezza nel
tempo, mentre invece, di fatto, i monomeri che lo compongono sono sempre nuovi perché
da una parte se ne staccano e dall'altra si riattaccano.
All'interno della cellula l'actina interagisce con numerose proteine, che vengono chiamate
proteine leganti l’actina, ed hanno varie funzioni, come stabilizzare i filamenti di actina,
provocarne una rottura, inibire la polimerizzazione oppure favorirla, favorire delle
ramificazioni, o favorire l'ancoraggio della actina a determinate strutture.
A titolo di esempio si possono analizzare:
• Proteine coinvolte nella nucleazione, che promuovono le prime fasi della formazione
dei microfilamenti;
• Proteine del cappuccio, che si legano alle estremità dei microfilamenti e bloccano gli
eventi di polimerizzazione e depolimerizzazione;
• Proteine depolimerizzanti e proteine di taglio, che rispettivamente legandosi ai
microfilamenti ne facilitano la depolimerizzazione e operano dei veri e propri tagli;
• Proteine di collegamento, che possono unire microfilamenti tra di loro;
• Proteine che favoriscono la polimerizzazione;
• Formina, che promuove la nucleazione e di fatto guida la formazione dei
microfilamenti in tutta la loro fase. È costituita da un dimero e promuove la
nucleazione, cioè le fasi iniziali di aggregazione dei monomeri di G-actina per
formare quel nucleo iniziale a partire dal quale poi avviene la polimerizzazione, non
lasciando il microfilamento in via di accrescimento ma guidando l'inserimento dei
monomeri di actina G;
• Arp2/3, che promuove le ramificazioni. Quando entra in contatto con un
microfilamento promuove l'aggregazione di altri monomeri di G-actina in modo tale
da creare delle strutture di microfilamenti non più lineari ma ramificati;
• Cofilina, che determina la depolimerizzazione dei monomeri di actina, quindi il loro
distacco, e può anche promuovere dei tagli;
• Profilina, che facilita lo scambio tra ADP e ATP per rigenerare la G-actina legata
all’ATP;
I microfilamenti sono presenti in tutte le cellule eucariotiche e hanno una grandissima varietà
di funzioni che vanno dalle funzioni più prettamente strutturali, alle funzioni correlate al
movimento, alla formazione di strutture specializzate della cellula. Tra le funzioni più
importanti troviamo:
• Costituzione e stabilizzazione dei microvilli intestinali;
• Formazione della cortex cellulare;
• Formazione di strutture contrattili come i lamellipodi, i filopodi e l'anello contrattile che
si forma quando si separano due cellule durante al termine della meiosi;
• Coinvolgimento nella contrazione muscolare e in altre forme di motilità;
Microvilli (A) → sono delle strutture che si trovano a livello della membrana plasmatica
delle cellule intestinali, che sono cellule che hanno una polarità. La parte che guarda il lume
presenta una membrana estroflessa in queste strutture, a cui viene dato sostegno dai
filamenti di actina. I microvilli sono ovviamente ricoperti dalla membrana plasmatica, la quale
compie questo movimento ad estroflettersi, tuttavia, se fossero costituiti soltanto dalla
membrana plasmatica, tenderebbero a collassare e non resterebbero in una posizione
funzionale per aumentare l’assorbimento.
La struttura del microvillo è mantenuta da fasci paralleli di microfilamenti, dei quali l’estremità
positiva è rivolta verso la terminazione del microvillo, mentre l'estremità negativa è rivolta
dall'altra parte.
Nell’immagine sottostante si individuano delle proteine indicate in blu che servono sia a
connettere i microfilamenti di actina alla membrana plasmatica, cosa che contribuisce a
creare un tutt'uno con la membrana plasmatica stessa, sia a collegare i microfilamenti tra di
loro.
Cortex (B) → i microfilamenti formano una struttura a fitta rete ancorata al di sotto della
membrana cellulare da una serie di proteine, che serve a dare sostegno alla membrana
plasmatica. Essa è stata studiata molto negli eritrociti ma è presente in tutti i tipi di cellule e
si conoscono anche molte delle proteine che determinano l'associazione dell’actina alla
membrana, contribuendo anche in questo caso alla sua stabilità.
Oltre a questo, l’actina è coinvolta in strutture contrattili che sono connesse anche al
movimento cellulare. Infatti, esistono numerose cellule che hanno la capacità di muoversi
su un substrato, molto importante sia durante lo sviluppo embrionale quando man mano che
le cellule si dividono e si differenziano devono raggiungere i vari distretti dell’organismo in
via di formazione, sia nella vita dell'adulto, ad esempio quando le cellule devono migrare per
riparare una ferita, oppure quando le cellule del sangue devono migrare verso il luogo di
un'infezione o di un danno.
Il movimento cellulare può essere molto studiato in vitro nelle cellule nei fibroblasti, che sono
delle cellule del connettivo che aderiscono bene alle strutture che si utilizzano per coltivarli,
per cui molte informazioni su questo sono state ottenute proprio studiando i meccanismi di
adesione dei fibroblasti in coltura.
Quello che si è osservato è che alcuni tipi di cellule, tra cui i fibroblasti, sono in grado di
emettere delle strutture che possono essere filamentose, chiamate filopodi, o lamellari
chiamati lamellipodi, con le quali aderiscono al substrato, costituite da filamenti di actina,
disposti rispettivamente in strutture filamentose a fasci paralleli nei filopodi e in strutture
reticolari nei lamellipodi.
Per garantire il movimento cellulare si può immaginare che i filamenti di actina spingano in
avanti una porzione della cellula, mentre dall'altra parte la retraggano attraverso una
depolimerizzazione, dunque, dal momento che è l’actina a sostenere la forma della cellula,
questa porzione della cellula si ritrae e in questo modo essa avanza progressivamente sul
substrato. Perché questo possa avvenire è necessario anche che si stabiliscano dei contatti
tra la membrana della cellula e la matrice, cioè quello su cui la cellula poggia, e ciò è reso
possibile perché esistono delle proteine di membrana, che si chiamano integrine, che
ancorano la cellula al substrato man mano che le nuove propensioni si formano.
Queste regioni dove la cellula prende contatto con il substrato vengono chiamati contatti
focali o adesioni focali.
Un terzo protagonista di questo processo è rappresentato dalla miosina, molecola implicata
insieme all’actina nei meccanismi di contrazione, che, contrariamente a quanto si può
pensare, non avvengono soltanto a livello del muscolo scheletrico, ma anche all'interno delle
cellule, dal momento che esistono numerose tipologie di miosina (si riconoscono attraverso
un numero associato al nome), delle quali alcune si sono specializzate durante il corso
dell'evoluzione per il muscolo scheletrico, altre per altri tipi di motilità. Infatti la contrazione,
sia durante la fase della retrazione della parte posteriore della cellula, sia nella fase in cui la
cellula deve tirare in avanti la sua massa, è mediata dall'interazione tra le teste della miosina
e l’actina, interazioni che sono ATP dipendenti come nel caso del muscolo scheletrico.
Perciò, l’actina rientra a pieno titolo nei filamenti coinvolti nella motilità cellulare, non soltanto
per l'organizzazione del sarcomero, ma anche per tutta la motilità di tutte le altre cellule, in
cui interagisce con la miosina: permettendo sia la formazione dei filopodi e dei lamellipodi,
sia il movimento della cellula.Tutto ciò in cooperazione con le integrine, che mediano il
contatto tra la cellula e il substrato, e le miosine, che determinano un meccanismo di
contrazione vera e propria.
MICROTUBULI
I microtubuli sono dei polimeri di tubulina, una proteina globulare di cui esistono due
diversi tipi, -tubulina e -tubulina, entrambe in grado di legare il GTP (guanosina trifosfato,
formato da ribosio, guanina e tre molecole di fosfato), ma soltanto il GTP legato alla subunità
beta viene idrolizzato.
I dimeri polimerizzano testa-coda, ovvero sempre alternati -, per formare quelli che
vengono detti protofilamenti, successivamente in genere 13 protofilamenti vanno a
delimitare un microtubulo, che è un cilindro cavo le cui pareti sono costituite appunto da
questi 13 protofilamenti, costituiti a loro volta dai dimeri di e tubulina. Anche in questo
caso, come nel caso dei filamenti di actina, le due estremità del microtubulo non sono
equivalenti, ma sono diverse a causa della modalità con cui avviene la polimerizzazione e si
individuano un'estremità positiva, a livello della quale avviene più facilmente la
polimerizzazione, e un'estremità negativa.
Dopo che i dimeri di tubulina si legano tra di loro, il GTP viene idrolizzato, come nel caso
dell’actina, e quindi anche in questo caso inizialmente saranno tutti legati con il GTP, che poi
progressivamente viene idrolizzato a GDP, dunque durante la polimerizzazione i dimeri
leganti GTP saranno all’estremità positiva, mentre quelli più a ridosso dell’estremità negativa
legheranno il GDP.
Anche nel caso dei microtubuli è stato riscontrato che il primo stadio di formazione è una
fase lenta di nucleazione, a cui segue una fase più rapida di allungamento in cui si
formano i protofilamenti. Anche nei microtubuli avviene il fenomeno del treadmilling, cioè
dello scorrimento monomeri, e il concetto di concentrazione critica vale allo stesso modo.
Cosa accade in vivo?
Nella cellula i processi di depolimerizzazione e polimerizzazione devono essere
controllati, i microtubuli non possono formarsi e disgregarsi in continuazione; si
osserva quindi una serie di strutture che servono a stabilizzare i microtubuli.
In vivo, i microtubuli polimerizzano a partire da un anello di γ-tubulina, diversa rispetto
le altre, che forma un basamento a livello del quale si associano via via tutti i dimeri.
La parte - (negativa) rimane bloccata a livello dell'anello di γ-tubulina, mantenendo
una stabilità, per cui a livello di quella regione non si avrà depolimerizzazione.
Gli anelli di γ-tubulina all'interno della cellula si trovano in una struttura ben precisa, il
centrosoma (o centro di organizzazione dei microtubuli), regione normalmente situata
in prossimità del nucleo.
I microtubuli cresceranno quindi distalmente, ossia aggiungeranno progressivamente
dimeri di tubulina a partire dalla parte più centrale della cellula, in prossimità del
nucleo, dirigendosi man mano verso la membrana.
In questa immagine sono mostrati i centrioli, costituiti, dal punto di vista strutturale, da
microtubuli.
Il fatto che i centrioli si trovino all'interno del centrosoma non ha nulla a che vedere
con il fatto che si formino i microtubuli: ad esempio, le cellule vegetali non possiedono
i centrioli, ma sono comunque in grado di formare i microtubuli.
La presenza o meno dei centrioli è connessa piuttosto alla capacità di formare o meno
ciglia e flagelli.
Immaginiamo una fase di accrescimento: supponiamo che nella cellula ci siano grandi
quantità di monomeri di α- e β-tubulina leganti il GTP.
Man mano, sempre più monomeri si legheranno gli uni agli altri e il microtubulo si
allungherà; progressivamente le molecole di GTP idrolizzeranno in GDP.
Finché la quantità di dimeri leganti il GTP è sufficientemente elevata, si mantiene
sempre un'estremità del microtubulo con dimeri leganti il GTP (cappuccio a GTP).
Quando invece la quantità di dimeri leganti il GTP è bassa, il processo di
polimerizzazione è lento, ma contemporaneamente l'idrolisi del GTP a GDP continua
ad andare avanti.
Potremmo trovarci in una situazione in cui progressivamente tutti i dimeri risultano
essere legati al GDP e non vi sono più quantità sufficienti di dimeri legati al GTP.
In questa situazione si ha il fenomeno detto catastrofe del microtubulo,
caratterizzato da una sua disgregazione rapida ed improvvisa.
All'interno dei microtubuli dei neuroni esiste una proteina detta τ (tau), che se funziona
bene stabilizza la struttura del microtubulo, per cui può svolgere la sua funzione.
Vi sono però condizioni patologiche, come l'Alzheimer, in cui la proteina τ perde la sua
conformazione nativa, assumendo una forma denaturata; le strutture denaturate
tendono ad aggregarsi tra loro e in queste condizioni non legano i microtubuli.
Poiché la proteina τ stabilizza i microtubuli, essi tenderanno a sfaldarsi completamente
e a dissociarsi.
Gli aggregati della proteina τ che si vanno a formare sono utili in quanto possono
costituire dei marker per andare a ricercare la presenza di Alzheimer in un individuo.
In ogni neurone vi è un corpo centrale, in cui avvengono tutte le funzioni più importanti
della cellula, tra le quali vi è la sintesi e la formazione delle vescicole contenenti i
neurotrasmettitori.
Se una sostanza deve essere rilasciata, deve giungere alla fine del prolungamento
del neurone; pensare che ciò avvenga semplicemente per una diffusione casuale non
è molto funzionale per la cellula, in quanto il processo avverrebbe molto lentamente
con il progressivo aumento della concentrazione, ma un meccanismo di segnalazione
efficiente non può essere lento.
Infatti, nei neuroni così come in altre cellule, i microtubuli funzionano da veri e propri
“binari” su cui si muovono le proteine motrici che trasportano organuli e vescicole
contenenti varie molecole, tra le quali vi sono i neurotrasmettitori.
Lo spostamento avviene a spese di energia e questo meccanismo consente un
movimento veloce e più efficiente.
Le proteine motrici
Le proteine motrici sono proteine che legando l'ATP sono in grado di produrre un
movimento; alcune possono legare anche il GTP, l'importante è che abbiano almeno
un nucleoside trifosfato che possa fornire energia.
Un esempio di proteina motrice è rappresentato dalla miosina, che si ritrova all'interno
delle fibre muscolari scheletriche.
Tutte le proteine motrici sono generalmente costituite da una parte più o meno
globulare che è il dominio motore, a livello del quale avviene il legame con l'ATP e
si genera il movimento per indurre uno spostamento di qualche tipo.
Le teste motrici prendono contatto con il microtubulo stesso, mentre l'altra porzione
avrà una regione specifica per il legame con una determinata vescicola o un
determinato organulo.
Il meccanismo con il quale questo processo avviene è stato studiato nel dettaglio:
quando una proteina motrice si trova in uno stato di riposo è legata all'ADP; quando
una delle due teste prende contatto con il microtubulo l'ADP viene rilasciato e si lega
una molecola di ATP.
Il legame dell'ATP determina un cambiamento conformazionale nella proteina e l'altra
subunità globulare è come se facesse un passo in avanti.
Su questa subunità avverrà l'idrolisi dell'ATP, da cui deriverà ADP e fosfato, sull'altra
subunità avverrà lo scambio tra ADP e ATP.
A questo punto l'altra subunità si posizionerà davanti alla precedente e il ciclo
ricomincerà. Quindi è come se le due teste motrici “camminassero” lungo il
microtubulo e i “passi” fossero guidati dall'idrolisi dell'ATP stesso.
I centrioli
I centrioli non sono presenti nelle cellule vegetali, ma si trovano nelle cellule animali.
Essi sono costituiti da 9 triplette di microtubuli, collegate tra loro da proteine di
connessione.
All'interno della cellula, i centrioli si trovano a livello del centro di organizzazione dei
microtubuli e sono generalmente disposti perpendicolarmente l'uno rispetto all'altro.
Le ciglia e i flagelli
Le ciglia e i flagelli hanno la stessa struttura, l'unica differenza che presentano riguarda
la lunghezza: i flagelli infatti sono più lunghi rispetto alle ciglia.
Nella nostra specie l'unica cellula flagellata è rappresentata dallo spermatozoo, le
ciglia si trovano invece in diversi distretti, ad esempio a livello delle tube di Falloppio
o a livello dell'epitelio respiratorio.
Ciglia e flagelli hanno ruoli diversi nell'organismo. Il flagello serve alla locomozione
della cellula, le ciglia servono a muovere il contenuto di un lume: infatti gli epiteli ciliati
delimitano dei lumi e la loro presenza servirà a far muovere ciò che è presente
all'interno di questi.
Nell'immagine si può osservare un protista, organismo eucariotico monocellulare
rivestito di ciglia; questo esempio mostra che le ciglia possono essere anche deputate
al movimento della cellula nell'ambiente in cui si trova, ma all'interno del corpo umano
esse servono a muovere il contenuto di un lume.
I filamenti intermedi
I filamenti intermedi sono molto meno plastici: a differenza delle altre strutture che
sono dinamiche, queste sono strutture statiche.
La maggior parte delle volte in cui si formano, non si distruggono durante tutto il
periodo di vita della cellula e rimangono tali e quali, tranne per alcune eccezioni.
Generalmente servono a dare resistenza al tessuto in cui si trovano; sono assenti
nelle cellule vegetali e sono presenti nella maggior parte delle cellule animali,
mancano solo in alcuni invertebrati.
Sono tessuto-specifici (a seconda del tessuto ne troviamo alcuni tipi rispetto ad altri),
sono abbondanti negli epiteli, in un una struttura detta lamina nucleare e nei
desmosomi.
Sono importanti nel mantenimento della struttura degli assoni e sono i maggiori
costituenti di unghie, peli e capelli, in quanto fanno parte dei filamenti intermedi le
cosiddette cheratine, principali proteine che vanno a costituire gli annessi epiteliali.
La classificazione dei filamenti intermedi è semplice e si individuano due tipologie:
● quelli nucleari si chiamano lamìne e si trovano all'interno di tutte le cellule
animali (se ne parlerà in dettaglio quando si tratterà il nucleo)
● quelli citoplasmatici sono le cheratine negli epiteli, le vimentine o vimentino-
simili nel tessuto connettivo e muscolare, e i neurofilamenti nelle cellule
nervose.
I filamenti intermedi, a differenza dei microtubuli e dei microfilamenti, i quali sono tutti
formati dallo stesso tipo di monomero di tubulina o di actina, presentano una
situazione diversa: le proteine che li costituiscono non sono correlate tra loro, hanno
tutte sequenze amminoacidiche diverse, sono tutte proteine diverse, ma possiedono
tutte una caratteristica struttura elicoidale, che forma una sorta di bastoncello, e delle
porzioni a dominio C-terminale e a dominio N-terminale, che formano strutture più o
meno globulari, o comunque meno organizzate.
Al di là del fatto che vi siano proteine diverse in struttura primaria, la struttura globale
dei filamenti intermedi è simile in qualsiasi tipo di cellula.
Il modello di assemblaggio di un filamento intermedio
A partire da un monomero, si formano dei fasci molto resistenti; due monomeri si
uniscono tra loro a formare un dimero.
Due dimeri polimerizzano tra di loro in maniera testa-coda (l'estremità C-terminale si
trova in direzioni opposte nei diversi dimeri) a formare un tetramero e poi i vari
tetrameri si associano a formare un foglietto.
Si immagina di arrotolare questa struttura come fosse un “tappeto” e si ottiene il
filamento intermedio; a seconda dei tipi di monomero che la compongono, questa
struttura può assumere un diametro più o meno ampio.
Le cheratine
Nell'uomo ci sono 54 geni diversi che codificano per le cheratine; esse formano
sempre eterodimeri (strutture formate da monomeri di diverso tipo) tra cheratine di tipo
I e cheratine di tipo II.
Le vimentine
Le desmine
Le desmine si trovano a livello del sarcomero e servono per conferire stabilità,
ancorandolo alla membrana cellulare.
Questi tipi di filamenti intermedi è come se collegassero in maniera stabile il nucleo, i
sarcomeri e la membrana cellulare.
Bisogna considerare che i livelli di stress meccanico a livello della cellula muscolare
sono molto forti, per cui il fatto che essa sia ben stabilizzata è una condizione
importante per il suo corretto funzionamento.
I neurofilamenti
La lamina nucleare
La lamina nucleare verrà trattata con maggior completezza quando si parlerà del
nucleo; per il momento basta ricordare che vi sono alcuni tipi di filamenti intermedi a
localizzazione nucleare e tra questi vi sono le lamìne, che vanno a formare la lamina
nucleare.
Nell'immagine la lamìna è evidenziata in verde mentre il nucleo in blu.
MOTILITA' CELLULARE E
CONTRAZIONE MUSCOLARE
In questa immagine è mostrata una cellula o fibra muscolare (i due termini sono
sinonimi).
La fibra muscolare è derivante, durante lo sviluppo embrionale, dalla fusione di un
gran numero di cellule, dette mioblasti, a formare una cellula multinucleata, che
nell'adulto può essere anche di grandi dimensioni (può raggiungere anche una
lunghezza di qualche cm).
All'interno delle fibre muscolari sono presenti le miofibrille, che non sono altro che le
unità contrattili del muscolo.
Le miofibrille sono organizzate in un insieme di fasci, formati da proteine, actina e
miosina, che si organizzano a formare l'unità contrattile del muscolo, rappresentata
dal sarcomero.
Il sarcomero
Il sarcomero è costituito dall'alternanza di filamenti spessi e filamenti sottili: i
filamenti spessi sono rappresentati dalla miosina, i filamenti sottili sono rappresentati
dall'actina, la troponina e la tropomiosina.
La ricostruzione al microscopio mostra i filamenti spessi di miosina, che si estendono
per tutta la banda A, la linea M, che si trova al centro, e un'altra regione, la banda I,
in cui si estendono invece i filamenti di actina.
Il sarcomero non è costituito dalla banda A e dalla banda I, bensì dalla banda A e metà
banda I da una parte e metà banda I dall'altra, ossia da delle emibande, come è
mostrato anche nell'immagine.
Le bande I includono al loro interno delle linee o dischi, dette linee Z, che sono i punti
di connessione tra sarcomeri adiacenti e informano che da lì in poi si ripete un nuovo
sarcomero; di fatto le due emibande appartengono a due sarcomeri adiacenti.
L'actina
L'actina è la principale proteina del filamento sottile; assieme ad essa troviamo altre
proteine: una proteina filamentosa, detta tropomiosina, e le troponine, che sono 3,
una con funzione regolatoria, una con funzione inibitoria e un'altra legante il Calcio,
che avrà un ruolo importante nella contrazione muscolare.
Il filamento spesso
Il filamento spesso è costituito da centinaia di molecole di miosina, avvolte tra di loro
e a spirale.
CONTRAZIONE MUSCOLARE
(Prima di passare alle endomembrane, la prof completa l’argomento della lezione precedente con il
funzionamento del sarcomero nella muscolatura.)
Sarcomero
(Le cellule muscolari sono grandi cellule derivate dalla fusione di numerose cellule
durante lo sviluppo, per cui saranno cellule di grandi dimensioni e molto nucleate).
LA STRUTTURA DELLA
MEMBRANA NUCLEARE E IL
SISTEMA DELLE ENDOMEMBRANE
Membrana Nucleare
Queste due membrane risultano essere in continuità tra loro e sono attraversate dai
pori nucleari.
Pori Nucleari
Il motivo per cui ci sono così tanti pori risiede nel fatto che la comunicazione tra
nucleo e citoplasma è molto attiva: devono entrare nel nucleo tutte le proteine che
servono per la duplicazione, trascrizione e regolazione dell’ espressione genica e,
allo stesso tempo, dal nucleo devono uscire ribosomi, mRNA e tRNA fondamentali
per la sintesi proteica. Quindi attraverso i pori vi è un continuo passaggio di molecole
e macromolecole necessario al funzionamento cellulare.
Ogni poro è formato da più di 400 proteine e ha un diametro di 70-80 nm.
La porzione del poro nucleare rivolta verso il nucleoplasma presenta delle proteine
fibrose che costituiscono il canestro, mentre nella porzione citoplasmatica sporgono
delle strutture che vengono chiamate fibre.
Lamina Nucleare
La lamina nucleare viene degradata solo quando la cellula si divide: prima della
divisione cellulare viene fosforilata e solo dopo degradata. Infatti, un evento della
mitosi è la disgregazione dell’involucro nucleare.
L’importanza di questa struttura è evidenziata da una patologia chiamata progeria,
che consiste in un invecchiamento precoce delle cellule e dell’intero organismo. E’
una patologia molto rara dovuta ad una mutazione a carico di una proteina che
costituisce la lamina nucleare. Tale mutazione determina uno splicing, cioè un
meccanismo che consiste in una maturazione alterata della proteina che risulterà più
corta di circa 50 amminoacidi all'estremità C terminale (LAΔ50/progerin); questo
comporta che a livello del nucleo la lamina nucleare non è ben strutturata ma
deformata, tende a collassare, andando così non solo ad alterare la funzionalità
strutturale della lamina, ma anche la funzionalità di ancoraggio fornita alla cromatina,
provocando così alterazioni della trascrizione genica andando a provocare una
cascata di eventi che culminerà con l’invecchiamento precoce delle cellule.
Solitamente le lamine vanno a formare una lamina nucleare di forma sferica, mentre
nelle persone affette da progeria osserviamo che la lamina nucleare ha una forma
alterata (vedi immagini).
Matrice Nucleare
Anche nel nucleo sono state trovate una serie di proteine che costituiscono un
“citoscheletro nucleare” detto Matrice Nucleare.
Nel nostro genoma sono state trovate delle sequenze, dette S/MAR (scaffold/matrix
attachment region) lunghe 300-1000 paia di basi che si legano alle proteine della
matrice. Queste sequenze sono molto numerose nel nostro genoma ed è stato
osservato che permettono al DNA di creare delle anse, che risultano importanti
perché le regioni ricche di sequenze S/MAR sono regioni che vengono trascritte in
maniera più efficiente.
Questo dimostra come la cromatina, anche nell’interfase, abbia un'organizzazione
ben precisa così da garantire un'organizzazione strutturale funzionale
all’espressione genica.
Reticolo endoplasmatico
● Negli epatociti è responsabile del rilascio del glucosio nel sangue. L’enzima
glucosio 6 fosfatasi, che è legato al REL, rimuove il gruppo fosfato dal
glucosio fosforilato in modo che il glucosio possa essere trasportato fuori dalla
cellula attraverso il carrier.
Il complesso del Golgi è costituito da una serie di compartimenti membranosi impilati gli
uni sugli altri.
La porzione più vicina al nucleo viene chiamata area cis o Golgi cis, mentre la porzione
più vicina alla membrana plasmatica viene chiamata area trans o Golgi trans.
Come si osserva dall’immagine, le varie cisterne del Golgi sono collegate tra di loro
mediante un continuo traffico di vescicole che si staccano da una cisterna e migrano nella
cisterna successiva portando materiale. Le vescicole vengono trasportate dal reticolo al
Golgi e dal Golgi ad altri distretti.
Procedendo dal Golgi cis al Golgi trans ad ogni cisterna sono associati enzimi specifici per
la modifica delle proteine che lavorano in maniera sequenziale, come una sorta di “catena
di montaggio”; le proteine raccolte all’interno delle vescicole passano da una cisterna alla
cisterna successiva e progressivamente vengono modificate dai vari enzimi che si trovano
all’interno delle cisterne.
Alcuni enzimi hanno una localizzazione prevalente in prossimità del reticolo
endoplasmatico, nelle cisterne cis, altri sono presenti nelle cisterne trans; da queste le
proteine vengono inserite in delle vescicole e indirizzate o ai lisosomi o alla membrana o
alla secrezione. È possibile notare come in tutte le cellule che hanno un elevato livello di
secrezione questo sistema risulti essere particolarmente sviluppato.
Funzioni:
gli enzimi degradano materiale intracellulare che proviene dall’esterno (mediante il
processo di endocitosi) oppure materiale interno alla cellula come ad esempio anche interi
organuli.
I lisosomi sono coinvolti nei processi di digestione intracellulare, sia da materiale esterno,
sia materiale interno. Delle volte però il materiale del lisosoma può essere riversato
all’esterno per digerire materiale al di fuori della cellula, il caso più noto si ha durante la
fecondazione. Durante la fecondazione dallo spermatozoo vengono rilasciati degli enzimi
lisosomiali solitamente raccolti nell’acrosoma, i quali servono a degradare le strutture di
rivestimento delle cellule uovo. Un altro caso in cui il materiale lisosomiale viene rilasciato
all’esterno della cellula si ha nei processi di metamorfosi ai quali vanno in contro alcuni
insetti, alcuni animali (come, ad esempio, l’eliminazione della coda del girino).
Si hanno anche i lisosomi che sono coinvolti nel processo di endocitosi, dove il materiale
entrato all’interno della cellula viene degradato nel lisosoma.
I lisosomi sono coinvolti anche nel processo di autofagia, permette di demolire organuli
danneggiati, è coinvolta nel differenziamento cellulare e interviene nel digiuno
programmato.
La professoressa fa riferimento al premio Nobel per la medicina vinto nel 2016 da
Yoshinori Ohsumi per i suoi studi sull’autofagia.
Si è osservato che durante il digiuno prolungato, ad esempio quando in laboratorio si
sottrae il nutrimento alle cellule per un lugo periodo di tempo, queste iniziano a digerire il
proprio materiale intracellulare, ovvero si auto digeriscono, iniziando dal materiale che
serve meno e progressivamente digerendo tutto quello che trovano a disposizione.
L’autofagia è un meccanismo importante perché serve ad eliminare all’interno della cellula
gli organuli danneggiati o che hanno perso la loro corretta funzione.
Quando si forma il processo di autofagia, macromolecole, mitocondri…, vengono raccolti
all’interno di una membrana che li racchiude e si forma quello che viene definito un
autofagosoma, una vescicola di fagocitosi che si è formata all’interno della cellula, questa
si fonde con il lisosoma e a questo punto il materiale di questa vescicola viene degradato.
Sugli autofagosomi si localizza una proteina specifica che può essere riconosciuta con
degli anticorpi fluorescenti e può essere evidenziata.
Una forma di autofagia studiata è la mitofagia, la degradazione dei mitocondri non più
funzionanti all’interno della cellula, questo processo è fondamentale per la funzionalità
della cellula, la mancanza di una corretta regolazione è correlata a tanti tipi di patologie.
Meccanismi molecolari che sono alla base di come le vescicole vengono indirizzate da un
compartimento all’altro.
Il movimento delle vescicole all’interno delle cellule è guidato dai microtubuli e talvolta dai
microfilamenti di actina; il movimento del materiale all’interno della cellula è mediato dalle
proteine motrici, dineine e chinesine. Le vescicole sono rivestite da delle proteine che
sono selettive per la direzione del trasporto.
Le vescicole rivestite sono delle vescicole che si formano grazie a un rivestimento proteico
che poi successivamente può essere normalmente perso. Il rivestimento proteico della
vescicola serve meccanicamente per la formazione della vescicola rivestita e serve anche
per selezionare il destino del materiale che dev’essere trasportato.
• Clatrina
• COP 1
• COP 2
• COP 1
Le vescicole di tipo COP1 e COP2 (COP sta per “di rivestimento”) sono importanti perché
mediano il trasporto anterogrado (COP2) e il trasporto retrogrado (le COP1).
Le COP2 mediano il trasporto “in avanti”, ovvero il trasporto dal reticolo endoplasmatico al
Golgi e dal Golgi cis al Golgi trans.
Le COP1 mediano il trasporto retrogrado, il trasporto che va dal Golgi al reticolo
endoplasmatico, un trasporto “all’indietro”.
Il trasporto retrogrado (all’indietro) è importante perché le proteine e gli enzimi che devono
rimanere a livello del reticolo endoplasmatico sono caratterizzate da una sequenza
amminoacidica caratteristica (sequenza KDEL, stanno per lisina, aspartato, glutammato e
leucina). È stato osservato che una volta rimossa tale sequenza ad una proteina del
reticolo endoplasmatico questa viene secreta; allo stesso modo, se a proteine di
secrezione viene aggiunta tale sequenza KDEL, queste rimangono nel reticolo
endoplasmatico.
Non vi è nessun meccanismo per cui le proteine sono trattenute nel reticolo
endoplasmatico, casualmente possono essere inglobate in vescicole che si trasferiscono
dal reticolo endoplasmatico al Golgi, dove vi è un meccanismo specifico che permette di
recuperare tali proteine e di trasferirle con trasporto retrogrado (contrario) tramite le
vescicole rivestite da COP1 a livello del reticolo endoplasmatico.
Le COP1, le COP2 e la clatrina servono per caratterizzare determinate vescicole e
mediano il trasporto delle molecole in varie direzioni, ma come faccio a sapere dove
devono andare queste molecole?
Le proteine SNARE rivestono un ruolo essenziale in tale ambito; vengono identificate a
coppie e si identificano una con t (target) e una con v (proteina presente sulla vescicola)
davanti. Esistono diversi tipi di proteine SNARE, ne sono state scoperte circa 20, e
ciascuna SNARE di tipo v ha la sua proteina SNARE di tipo t, per cui l’incontro è mediato
dal riconoscimento selettivo tra v-SNARE e t-SNARE di un determinato tipo. L’idea è che
tra v-SNARE e t-SNARE si realizzi una sorta di contatto che determina in seguito la
fusione delle due cellule della vescicola con la membrana.
È stato visto che la tossina tetanica e la tossina botulinica agiscono sulle proteine v-
SNARE e t-SNARE impedendo la fusione, ovvero il contatto tra queste e quindi
impedendo il rilascio del neurotrasmettitore.
La tossina botulinica che agisce a livello della terminazione dei motoneuroni impedisce il
rilascio dell’acetilcolina e quindi si avrà quella paralisi flaccida tipica della tossina
botulinica.
La tossina tetanica impedisce il rilascio di un neurotrasmettitore a funzione inibitoria, non
viene inibita la contrazione e si ha una paralisi di tipo spastico.
24/10/2023 prof.essa: Francesca Margherini
MITOCONDRIO
Il mitocondrio è un organulo presente in tutte le cellule eucariotiche, caratterizzato da:
● Una doppia membrana
● Materiale genetico organizzato in più molecole di DNA circolare
● Presenza di ribosomi
Il mitocondrio viene quindi considerato un organulo semiautonomo in quanto alcune
funzioni come la duplicazione del DNA, la trascrizione e la traduzione avvengono anche
all’interno del mitocondrio. Ha una dimensione di circa 0,5-1 micron, circa la dimensione
di una cellula procariotica.
Gli epatociti contengono da 1000 a 2000 mitocondri, il numero di questi dipende dal tipo di
cellula.
In maniera più specifica sarebbe più corretto parlare di una rete di mitocondri e non come
singoli mitocondri, quindi si pensa che ci sia comunicazione tra loro. Ciò è stato osservato
con la microscopia fluorescente.
È necessario approfondire la struttura del mitocondrio, specialmente la doppia
membrana. La membrana interna è piena di invaginazioni dette creste mitocondriali,
mentre la composizione delle due membrane è molto diversa, pur avendo ambedue una
composizione fosfolipidica e proteica.
● La membrana mitocondriale esterna è molto simile in composizione a quella
plasmatica e presenta un rapporto proteine-fosfolipidi/lipidi di circa 1:1,
presenta delle strutture che consentono la comunicazione con l’ambiente
citoplasmatico, come le porine. Questi canali non sono selettivi e, nel caso dei
mitocondri, permettono il passaggio di molecole di grandezza fino ai 5000 Dalton,
è altamente permeabile.
● La membrana mitocondriale interna è più particolare, infatti presenta queste
creste mitocondriali che aumentano di molto la sua superficie. La componente
proteica è molto più
abbondante rispetto alla membrana esterna, e abbiamo un rapporto fra proteine e lipidi di
circa 3:1, non presenta colesterolo e come lipide presenta la cardiolipina. Al livello della
membrana interna sono situati dei complessi che costituiscono la catena di trasporto degli
elettroni. Per questo motivo è estremamente selettiva. Consente il passaggio solo di H2O,
gas e molecole che richiedono specifici trasportatori.
figura 1
TEORIA ENDOSIMBIONTICA
La teoria endosimbiontica (Lynn Margulis) spiega l’origine dei mitocondri e la possibile
nascita delle cellule eucariotiche come le conosciamo a partire da una cellula ancestrale,
precursore di una cellula eucariotica. Secondo questa teoria sia la cellula animale che quella
vegetale sarebbero derivate da un processo di fagocitosi: partendo da un procariote si è
originata una cellula che si è organizzata in compartimenti costituiti da membrane e da
nucleo. Da questa cellula eucariote primitiva si è verificato un evento di fagocitosi di un
batterio aerobio eterotrofo (diventato poi mitocondrio) nel caso delle cellule animali e nel
caso della cellula vegetale di uno aerobio e di uno fotosintetico (mitocondrio e cloroplasto). I
motivi a supporto di questa ipotesi sono numerosi:
● La doppia membrana mitocondriale potrebbe derivare dalla vescicola di fagocitosi.
Infatti, quella esterna sembrerebbe derivare dalla membrana plasmatica, mentre
quella interna presenta caratteristiche simili a quella batterica (priva di colesterolo e
presenta come fosfolipide la cardiolipina).
● È presente il DNA circolare come nei batteri.
● Il meccanismo di riproduzione è simile a quello dei batteri.
● I ribosomi mitocondriali sono più simili a quelli batterici per quanto riguarda le
dimensioni e l'organizzazione.
RIBOSOMI
I ribosomi sono organuli fondamentali, poiché svolgono la sintesi proteica, ma procediamo
con ordine. Non hanno una membrana di rivestimento e sono costituiti da proteine e RNA
ribosomiale. Essi sono costituiti da 2 subunità, una minore ed una maggiore, che
normalmente sono divise dal citoplasma unendosi solo durante la sintesi proteica.
Analizziamo i ribosomi eucariotici: sono formati da una subunità minore da 40 S, ed una
maggiore da 60 S dove S sta per Svedberg ed è un coefficiente di sedimentazione (1
Svedberg = 10^-13 secondi), quanto rapidamente sedimentano se sottoposti ad un campo
centrifugo unitario.
Il coefficiente di sedimentazione totale non deriva dalla somma di due coefficienti singoli
delle sue due unità, non sono grandezze che si sommano; esse dipendono dalla massa ,
ma anche dalla forma è d’ala densità.
Queste due subunità sono costituite a loro volta da un insieme di proteine e RNA.
Nella subunità maggiore ci sono circa 45 proteine e poi ci sono diversi tipi di RNA:
● 28 S
● 5S
● 5.8 S
Nella subunità minore ci sono circa 33 proteine ed è costituita da una molecola di rRNA:
● 18 S
I ribosomi procariotici sono diversi, le due subunità hanno S più piccoli (30 S e 50 S) che
rappresentano la loro diversa composizione in proteine e RNA rispetto agli equivalenti
eucariotici. La differenza tra ribosomi procariotici ed eucariotici fa sì che i ribosomi possano
essere un punto selettivo sul quale possono essere usati farmaci che funzionano per i
batteri, ma non per l’uomo.
Nella subunità maggiore (50s) ci sono 34 proteine e 2 rRNA:
● 5s
● 23 s
Perossisomi
Sono organuli della cellula eucariotica animale delimitati da membrana singola (fosfolipidica)
e presentano all’interno 50 enzimi differenti, inoltre si trovano abbondanti in molti tipi di
cellule come quelle del fegato (1000-2000 per ogni cellula epatica). All’interno delle cellule
vegetali, invece, hanno un ruolo particolare che sarà descritto più avanti. Partecipano a una
serie di reazioni:
● sono responsabili dell’ossidazione degli acidi grassi, una precisazione: nei
mammiferi l’ossidazione degli acidi grassi avviene in due compartimenti distinti →
l’ossidazione degli acidi grassi a catena molto lunga (esiste una patologia,
l’adrenoleucodistrofia, che vede la mutazione del gene ABCD1, responsabile della
sintesi della proteina che trasporta gli acidi grassi a catena molto lunga dentro i
perossisomi, con la proteina mutata questi acidi grassi non vengono degradati in
maniera efficiente, tendono ad accumularsi nell’organismo causando una serie di
danni a livello nervoso e morte precoce), che consiste in una degradazione, inizia nei
perossisomi e viene completata nei mitocondri, dove avviene la β-ossidazione,
che porta al rilascio di acetil-coA, che serviranno nell’ultima parte del metabolismo
cellulare. Negli altri organismi tale degradazione avviene solo nei perossisomi.
● Metabolismo degli amminoacidi e delle purine; [questo punto verrà successivamente
approfondito in altri corsi]
● Processi di ossidazione di una serie di molecole estranee agli organismi (es.
formaldeide e molecole che possono essere nocive), dette xenobiotici (cioè che
l’organismo non riconosce come proprie), per mezzo di enzimi, tra cui ossidasi e
perossidasi. I perossisomi prendono il nome dalle reazioni catalitiche che vi
avvengono
N.B -> il concetto di xenobiotico è relativo all’organismo trattato, delle sostanze
nocive per alcuni possono non esserlo per altri.
● Biosintesi di Plasmalogeni (figura 2) precursori della plasmina (importante nei
processi coagulativi), sono dei fosfolipidi di membrana ricchi nelle cellule nervose e
rappresentano il 50% dei fosfolipidi di membrana nelle cellule del muscolo cardiaco.
Alcuni studi hanno notato una correlazione tra il malfunzionamento dei plasmalogeni
e le malattie neurodegenerative.
● Nelle piante, sono protagonisti del ciclo del gliossilato, un ciclo biochimico che
permette di convertire i grassi in zuccheri, cosa che gli animali non sanno fare: noi
degradiamo depositi di lipidi solo con beta ossidazione, non ci sono vie biochimiche
che trasformano lipidi in carboidrati. Spesso le piante accumulano lipidi in semi e poi
durante la germinazione vengono utilizzati per formare carboidrati che serviranno per
il metabolismo energetico e motivi strutturali.
(figura 2) la caratteristica principale è il tipo di legame etere che sostituisce il legame
estere
Le reazioni che avvengono all’interno dei perossisomi sono dette di perossidazione o
ossidazione perchè possono ossidare vari tipi di substrato usando ossigeno molecolare o
acqua ossigenata:
Nelle reazioni di ossidasi, un qualsiasi substrato RH2 è ossidato utilizzando l’ossigeno,
che si riduce ad acqua ossigenata.
L’acqua ossigenata, a sua volta, può essere utilizzata da una seconda classe di enzimi, le
perossidasi, che, in una reazione di ossidazione di un eventuale substrato, portano alla
formazione del substrato in forma ossidata e due molecole di acqua.
CELLULA VEGETALE
PARETE CELLULARE
A livello della parete secondaria possono avvenire anche modificazioni, come la deposizione
di lignina o suberina (sostanza di natura fenolica) che caratterizzano le piante legnose, in
quanto determinano il colore e/o il profumo del legno.
Nelle cellule vegetali il percorso di secrezione di queste sostanze segue esattamente ciò che
accade nelle cellule animali: queste sostanze vengono prodotte a livello del reticolo
endoplasmatico per poi essere riversate all’esterno delle cellule in modo tale da andare a
formare la struttura di rivestimento della cellula vegetale stessa.
I PLASTIDI
I plastidi sono una famiglia di organuli specifici della cellula vegetale che derivano da un
organulo poco differenziato che si chiama proplastide, il quale poi si differenzia in vari tipi di
organuli, ognuno dei quali è caratterizzato da funzioni diverse:
● leucoplasti: accumulano sostanze di riserva, come l’amido (in questo caso si parla di
amiloplasti nonostante esistano pure oleoplasti e proteoplasti in grado di accumulare oli
e proteine)
Nelle piante il glucosio viene ricavato durante la fotosintesi che avviene nelle parti verdi delle
piante, quindi nelle foglie. In particolar modo quando la CO2, grazie all’ATP accumulato nella
fase luminosa, viene progressivamente ridotto in molecole di glucosio, esso si accumula
temporaneamente nelle foglie sotto forma di amido primario, tuttavia viene poi trasportato
rapidamente attraverso i meccanismi di trasporto della pianta nelle zone di preferenziale
accumulo, ossia nelle radici dove sono molto abbondanti i leucoplasti. Il glucosio viene
trasportato non come tale ma sotto forma di saccarosio che rappresenta la forma di trasporto
del glucosio nei sistemi di conduzione della pianta. Il saccarosio viene poi trasportato
attivamente all’interno della pianta mediante il meccanismo di trasporto attivo secondario
saccarosio-ioni H+.
GIUNZIONI CELLULARI
La pluricellularità porta a nuove caratteristiche emergenti tra le quali vi sono: le interazioni
cellula-cellula, cellula-substrato e della matrice extracellulare.
I meccanismi di comunicazione e interazione tra cellule sono importanti perché permettono
l’organizzazione dei tessuti.
GIUNZIONI CELLULA-CELLULA
Per quanto riguarda le interazioni cellula-cellula è possibile distinguere vari tipi di meccanismi
che possono essere suddivisi in:
● giunzioni strette o occludenti;
● giunzioni comunicanti;
● desmosomi (giunzioni adesive);
● giunzioni aderenti.
GIUNZIONI STRETTE, SERRATE O OCCLUDENTI
Questo poro permette il coordinamento delle attività, ad esempio quelle di contrazione, perché
permette la trasmissione rapida degli impulsi elettrici (a livello del muscolo cardiaco e del
muscolo liscio) e permette anche la coordinazione delle cellule stesse. Questi canali non sono
necessariamente sempre aperti, ma possono essere regolati tramite il livello di
concentrazione del calcio, del pH o anche da fosforilazioni, per rispondere alle esigenze della
cellula stessa.
DESMOSOMI
I diversi tipi di interazioni cellula-cellula sono importanti soprattutto per quel che riguarda la
specificità e il riconoscimento tissutale.
Le interazioni servono ad ancorare le cellule alla matrice extracellulare, per questo sono state
molto studiate a livello degli epiteli; tuttavia esistono vari sistemi di adesione tra cellule e
substrato.
EMIDESMOSOMI
1
All’interno della matrice ci sono essenzialmente due componenti:
GLICOSAMMINOGLICANI
Va l u t i a m o l a s t r u t t u r a d e i
glicosamminoglicani. Questi sono
una vasta famiglia di polisaccaridi in
cui ci sono numerosi zuccheri
modificati. A destra l’immagine
riporta la struttura dell’acido
ialuronico, il quale è costituito
dall’alternanza di acido glucuronico
e N-acetil-glucosammina. Questa è
l’unità di base e questi due zuccheri
modificati si ripetono a costituire
d e l l e l u n g h e c a t e n e . L’ a c i d o
ialuronico è tra i più noti tra questi
GAG, ma non è l’unico. Tutti sono caratterizzati dalla presenza di zuccheri modificati contenti anche
gruppi carichi, come nel caso dell’acido glucuronico (c’è un COO-). Questo determina il richiamo di
molta acqua e conseguentemente l’idratazione di queste strutture, che conferiscono alla località
dove si trovano una consistenza gelatinosa. Per cui l’acido ialuronico è molto presente nelle
articolazioni. Capita di sentire qualcuno che ha dovuto fare l’infiltrazione di acido ialuronico a livello di
qualche articolazione per lubrificare l’articolazione stessa. L’acido ialuronico è anche la componente
di molti prodotti cosmetici, perché avendo questa funzione di richiamo di acqua tende a rigonfiare e
ad attenuare la comparsa e lo sviluppo delle rughe. Si trova anche scritto su molti prodotti anche che
si trovano al supermercato.
PROTEOGLICANI
Questi GAG possono trovarsi sia da soli sia associati ad uno scheletro proteico a costituire quelli che
vengono chiamati i proteoglicani. Il nome ricorda che c’è una componente proteica al quale sono
associati le catene di glicosaminoglicani. A loro volta queste strutture possono formare delle strutture
ancora di dimensioni maggiori che sono quelle che si vedono nell’immagine. Vi è un'impalcatura
2
costituita da acido
ialuronico e attaccata a
questa sono connesse
queste proteine leganti
altri GAG, formando dei
grandi aggregati che hanno
lo stesso scopo detto
precedentemente
(richiamare acqua e
formare un substrato dalla
consistenza gelatinosa).
All'interno di questa componente prevalentemente polisaccaridica ci sono anche delle componenti di
natura proteica. Le componenti di natura proteica sono rappresentate da numerose proteine. Quelle
più abbondanti sono: il collagene, l’elastina (che troviamo ad esempio intorno a tutti i vasi), la
fibronectina e la laminina (che troviamo nelle lamine basali). La struttura di queste proteine è una
struttura che viene chiamata fibrosa, perché la maggior parte di queste ricordano una sorta di cavi.
Quindi forniscono a seconda dei casi resistenza ed elasticità e così via.
COLLAGENE
E’ il costituente
più importante
del tessuto
connettivo.
Viene prodotta
da numerose
cellule:
- d a i
fibroblasti
- dai condroblasti (che si trovano nella cartilagine)
- dagli osteoblasti (che si trovano nel tessuto osseo)
È una proteina estremamente abbondante nei mammiferi. Raggiunge il 25% del loro peso. È una
proteina presente in elevatissime quantità nel nostro organismo ed è anche una proteina da un punto
di vista filogenetico molto antica. Di fatti la ritroviamo anche in organismi poco sviluppati come i
poriferi.
Come è formata l'unità di base del collagene? È rappresentata da questa struttura: è una tripla
elica, dove ci sono tre catene polipeptidiche che si avvolgono le une sulle altre a formare una
struttura molta compatta stabilizzata da legami a idrogeno che si formano anche grazie alla presenza
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di queste idrossilazioni, che aumentano i gruppi a livello dei
quali può avvenire il legame a idrogeno. L'H legato al
gruppo idrossilico è un idrogeno che può formare legami a
idrogeno. Questa struttura compatta è resa possibile anche
dalla presenza di numerosi residui di glicina. Essendo
l'ingombro sterico di questo amminoacido basso, questo
permette alla struttura di essere estremamente compatta.
Questa è l’unità di base.
Queste molecole di base si associano le une alle altre per
formare delle strutture che vengono dette fibrille di
collagene che poi si possono associare tra di loro formando
delle fibre anche di grandi dimensioni.
Si pensi ad esempio al tendine (immagine). Il tendine è
costituito esclusivamente da fibre di collagene organizzate a
formare dei fasci. Queste strutture hanno un’alta resistenza
meccanica e subiscono elevate sollecitazioni.
(La prof dice che non entra nei dettagli sull’organizzazione
dato che li faremo a biochimica ma evidenzia solo alcuni
aspetti di cose che ci ricordano quello che abbiamo già
fatto).
L’idrossilazione che avviene a livello del reticolo endoplasmatico dipende dalla presenza di vitamina
C, cioè dipende dall’acido ascorbico. L'enzima responsabile dell’idrossilazione necessita di acido
ascorbico per poter funzionare. La carenza di questo acido determina una mancanza o una riduzione
dell’idrossilazione del collagene, una sua minore
stabilità e conseguentemente come primi sintomi il
sanguinamento delle gengive e una fragilità di
connettivi che poi progressivamente può essere
sempre più grave. Questo fu descritto per la prima
volta durante le grandi esplorazioni del 1500/1600,
quando i marinai stavano per lungo tempo sulle
navi lontani da fonti e approvvigionamento di
vitamina C (che si trova nella frutta e nella
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verdura). Se non si utilizzano questi alimenti per lungo tempo, si può andare incontro a carenza.
L’esploratore Jacques Cartier, descrisse in maniera molto chiara i sintomi dello scorbuto, la
patologia derivante dalla mancanza di acido ascorbico e di vitamina C. Diceva: “Molti avevano la
pelle coperta di macchie di sangue color porpora che si estendeva dalle caviglie ai ginocchi e alle
cosce, alle spalle ed al collo. La loro bocca mandava un cattivo odore e le loro gengive divennero
così guaste, che tutta la carne ne cadde, fino alla radice dei denti…”. Si tratta di situazioni molto
gravi. Nei paesi sviluppati è rarissimo avere una carenza di vitamina C.
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Queste sono ancora altre immagini
che riepilogano quello che abbiamo
già visto (ad esempio un'immagine
degli emidesmosomi).
PROCESSO DI TRASFORMAZIONE
TUMORALE
Tutti gli studi che riguardano
l’adesione e la migrazione sono molti
importanti perché sono strettamente
connessi a questi processi e sono
collegati alle metastasi, cioè alla
migrazione delle cellule tumorali al di fuori del tumore
primario. Che cosa succede normalmente? In un tessuto
normale le cellule, ad esempio quelle epiteliali, si moltiplicano e si differenziano mantenendo sempre
le caratteristiche di cellule epiteliali (rinnovare continuamente i tessuti). Però le cellule staminali
dell’epitelio, quando si dividono, si differenziano dando origine a cellule sempre di natura epiteliale.
Quando si ha un processo di trasformazione tumorale, succede che intervengono più mutazioni a
carico di geni che controllano la proliferazione cellulare e il differenziamento. Quindi compaiono delle
cellule che sono svincolate dai meccanismi che controllano la corretta divisione cellulare e il corretto
processo di differenziamento. Queste cellule si dividono in maniera non controllata e, se rimangono
localizzate nella sede dove si sono prodotte, abbiamo un tumore che non dà metastasi. Quindi è più
facile intervenire ed è sicuramente meno pericoloso. Se invece queste cellule acquisiscono anche la
capacità di migrare, sono estremamente pericoloso, perché questo permette alle cellule di sfuggire
dalla sede primaria del tumore, invadere i tessuti circostanti (come in questo caso attraversare la
lamina basale), poi penetrare nel sangue e da esso raggiungere anche molte altre sedi in cui dare
metastasi. In questa fase le cellule devono acquisire delle capacità migratorie, cioè di movimento, e
delle capacità di invasione, cioè non solo di muoversi in uno spazio vuoto ma anche farsi spazio tra
la matrice cellulare attraverso le proteine della lamina basale e così via. Generalmente questo è un
fattore che viene acquisito, perché le cellule iniziano a produrre queste cellule trasformate delle
proteasi, cioè degli enzimi che scindono le proteine e che poi permettono l'invasione dei tessuti. Non
solo devono aver acquisito la capacità di muoversi, ma anche di produrre tutta una serie di enzimi
idrolitici che servono a scindere le proteine della matrice extracellulare e a facilitare la fuga delle
cellule tumorali dal luogo iniziale dove esse si sono formate.
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IN LABORATORIO
Questi meccanismi possono essere studiati con dei sistemi abbastanza semplici.
Vi faccia vedere due esempi:
Sono tutti esperimenti che si possono fare in vitro e che ci danno delle indicazioni utili in modo da
ridurre il più possibile gli esperimenti che si faranno poi in vivo (sull’animale), che chiaramente
devono essere ridotti per questioni etiche al minor numero possibile. Se io devo testare 100 prodotti
diversi, per valutare la loro capacità anti-migratoria anti-invasione, non lo farà sugli animali, ma andrò
a fare prima dei test in vitro come questi appena visti. Quando poi ho selezionato i composti, le
molecole più promettenti mi potrò spostare in vivo, però in modo da mantenere quei concetti di
diminuzione di sperimentazione animale che sono ovviamente molto importanti.
PATOLOGIE
Un'altra patologia importante, legata alle
cose dette in precedenza, è la distrofia
muscolare di Duchenne. È una patologia
legata al cromosoma X recessiva. Vuol dire
che il gene si trova sul cromosoma X. Per
cui le donne che hanno un cromosoma X
possono essere portatrici sane. Gli uomini
avendo un solo cromosoma X, se viene
loro trasmesso con il gene mutato,
sviluppano la malattia. A che cosa è
dovuta? Al livello delle cellule muscolari, vi
è una proteina che si chiama distrofina.
Questa distrofina è connessa dai filamenti
di actina del sarcomero ad un sistema di
glicoproteine di membrana, a loro volta
connesse con gli elementi della matrice extracellulare. La presenza della distrofina in connessione
con gli elementi del sarcomero è fondamentale per il mantenimento della corretta struttura del
sarcomero stesso in seguito alle contrazioni muscolari e allo stress provocato dalle contrazioni. Sei la
distrofina è assente, come nella distrofia muscolare di Duchenne, le ripetute contrazioni muscolari
causano dei danni meccanici alle fibre muscolari che progressivamente vanno incontro ad un
processo di necrosi e sono rimpiazzate da tessuto fibroso. Questo tessuto muscolare scheletrico
sano (immagine in alto a sinistra). È tutto costituito da cellule muscolari. Questo invece è malato
(immagine in alto a destra). Nei pazienti affetti invece si osservano degli spazi che sono
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progressivamente occupati da tessuto connettivo, tessuto fibroso, che però non ha funzione
contrattile. Quindi le capacità contrattili declinano progressivamente con l’età fino a causare la morte
del paziente.
IL METABOLISMO CELLULARE
Quando si parla di metabolismo a cosa ci si riferisce a tutta una serie di reazioni chimiche che
possono essere sia reazioni di sintesi di molecole, quindi si parla di anabolismo, sia reazioni di
degradazione delle molecole o delle macromolecole, quindi si parla di catabolismo. I processi
anabolici richiedono energia, cioè la produzione di molecole più complesse a partire da molecole più
semplici, e il supporto di una fonte energetica. La degradazione è associata alla formazione di
molecole più semplice a partire da molecole più complesse. È un processo che quindi libera energia,
cioè un processo esoergonico. Nel metabolismo eterotrofo (che è il nostro) noi utilizziamo molecole
organiche sia come fonte di energia (zuccheri, acidi grassi, scheletro carbonioso delle proteine).
Quindi partiamo da molecole complesse per ottenere energia, ma utilizziamo anche molecole
organiche per le reazioni di sintesi. Noi non siamo in grado di formare una molecola di glucosio a
partire dalla CO2, dell'anidride carbonica. Non siamo in grado di organicare l'anidride carbonica.
Quindi abbiamo bisogno di molecole organiche semplici per costruire molecole organiche più
complesse. Questa è la classica definizione di eterotrofia. La dipendenza da sostanze organiche
fornite da altri sia per ottenere energia sia per le biosintesi.
L’ENERGIA E IL METABOLISMO
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È importante avere chiare le relazioni tra la struttura e le funzioni delle varie parti della cellula e il
funzionamento del metabolismo energetico; per questo
motivo, faremo una panoramica generale sul concetto di
energia correlato agli organismi viventi e parleremo degli
enzimi.
Energia -> capacità di compiere un lavoro e di causare specifici cambiamenti fisici o chimici (in
biochimica si usa come unità di misura la caloria) -> anche per gli organismi viventi la disciplina che
studia i processi associati alla trasformazione dell’energia è la termodinamica
Gli organismi sono in grado di trasformare l’energia (da energia meccanica a potenziale a cinetica)
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Si tratta di una reazione esoergonica al termine della quale si ottengono molecole più semplici (come
la CO2) e O2 ridotto ad H2O e che rilascia energia. Nelle macchine, una parte di questa energia
viene sfruttata per il movimento, la restante parte viene dispersa sotto forma di energia termica
La stessa cosa avviene negli organismi viventi attraverso la respirazione cellulare. Noi utilizziamo
delle macromolecole che possono essere polisaccaridi degradati in glucosio, acidi grassi degradati in
molecole più piccole (acetilcoenzima-A), molecole in forma variamente ridotta (i nutrienti) che
subiscono un’ossidoriduzione in cui l’ossigeno rappresenta l’ossidante, che si ridurrà ad acqua,
mentre queste molecole complesse vengono ossidate a CO2. In questo caso l’energia che viene
prodotta viene generalmente immagazzinata sotto forma di ATP che a sua volta verrà utilizzata
per alimentare tutta la varietà di reazioni sia chimiche che di tipo meccanico, come ad esempio la
contrazione muscolare, all’interno dell’organismo.
Anche nel metabolismo biologico l’efficienza non è mai pari al 100% -> una parte di energia viene
sempre dissipata sotto forma di energia termica
Facendo un paragone con la trasformazione del glucosio in acido piruvico, cioè la prima tappa della
respirazione cellulare, rappresentata dalla glicolisi, questa trasformazione non avviene in un’unica
reazione ma avviene in una serie di reazioni sequenziali dove i prodotti di una reazione
risultano essere i substrati della reazione seguente.
Per cui, nella maggior parte dei casi, i substrati si trasformano in prodotti, che sono substrati per altre
reazioni e così via. In questo modo i prodotti vengono continuamente sottratti alla reazione e quindi
non si raggiunge mai una situazione di equilibrio altrimenti, ad un certo punto, tutto si fermerebbe.
Nella cellula tutte le reazioni sono collegate tra di loro. Abbiamo sempre una situazione dinamica in
cui la cellula mantiene le concentrazioni ottimali delle molecole che le servono, scambiando
continuamente con l’esterno materia ed energia, in modo tale da non raggiungere mai una situazione
di equilibrio.
Il fatto che una reazione sia spontanea non significa che questa possa avvenire con facilità.
Prendendo ad esempio un foglio di cellulosa: la degradazione della cellulosa (ossidoriduzione) è una
reazione assolutamente spontanea ed altamente esoergonica, infatti, se lo si mette sul fuoco va in
contro a un processo di combustione e libera una grande quantità di energia. Però, se si lascia il
foglio di cellulosa sul tavolo, prima che avvenga l’ossidazione completa della cellulosa intercorrono
molti anni; quindi, il concetto di spontaneità non è legato al concetto di velocità.
Immaginiamo una reazione spontanea come una pallina che scivola lungo un piano inclinato (il ∆G è
rappresentato dall’energia libera dei prodotti meno l’energia libera dei reagenti).
• ∆G negativo è associato ad una reazione esoergonica spontanea
• ∆G positivo è associato ad una reazione che richiede energia (endoergonica). Se l’energia dei
prodotti è minore a quella dei reagenti la reazione è spontanea.
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La grandezza ∆G non ci dice niente sul
tempo che la reazione impiegherà a
raggiungere l’equilibrio, ma ci dice solo se
una reazione può o meno avvenire,
indipendentemente dalla via e dal tempo che
la reazione impiegherà per raggiungere
l’equilibrio. Questo perché quando si ha una
reazione chimica, perché questa avvenga, le
molecole devono superare una barriera che è
rappresentata dall’energia di attivazione.
(nella prima immagine è descritta dal picco di
energia)
L’energia di attivazione non contribuisce al
∆G, ma è presente.
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Un’altra strategia per velocizzare una reazione è il ricorso a dei catalizzatori: molecole o ioni che
non partecipano alla reazione, non si trovano né tra i reagenti né tra i prodotti, ma accelerano la
velocità della reazione.
Ad esempio, se l’ossidoriduzione del glucosio a 37 gradi non catalizzata, di fatto non avviene o
avviene in maniera lentissima. Questa reazione, invece, catalizzata da una serie di enzimi nella
cellula avviene in tempi estremamente rapidi.
Quindi la catalisi enzimatica è estremamente potente. In generale gli enzimi accelerano le velocità
delle reazioni da 107a 1017 volte. Quindi la velocità con cui vengono accelerate le reazioni biologiche
è veramente elevata.
Gli enzimi, come già affermato, abbattono l’energia di attivazione permettendo alle reazioni di
avvenire con una velocità compatibili con le necessità cellulari.
Esistono vari tipi di catalisi enzimatica. È chiaro che se abbiamo un enzima, di natura proteica,
essendo le proteine macromolecole con strutture estremamente versatili e avendo questa grande
varietà di aminoacidi che le compongono possono presentare dei siti di legame opportuni per i diversi
ligandi.
Ad esempio, un enzima può legare due molecole che devono essere unite tra di loro avendo due
regioni di legame che quindi, una volta che hanno legato le molecole di interesse, si avvicinano tra di
loro ponendo le molecole nella giusta posizione in modo tale da facilitare la formazione del legame o
l’avvenimento della reazione che ci interessa.
Nell’immagine si può vedere un esempio di un enzima qualsiasi, che presenta una regione per il
legame con il substrato, il sito attivo e i generici substrati intorno. Una molecola che ha una
conformazione non adatta al sito attivo non può entrare nel sito attivo dell’enzima quindi non si forma
il complesso enzima-substrato dal quale poi si genererà il prodotto.
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modello dell’adattamento indotto
-> il legame enzima substrato si discosta
dall’ormai sperato modello chiave-serratura in
quanto non si tratta di una complementarietà
rigida tra enzima e substrato bensì si assiste
al parziale adattamento conformazionale
dell’enzima al substrato nel momento del
legame col substrato tale che il substrato
venga posto nelle migliori condizioni per
generare prodotti
Un altro esempio di questo concetto, l’enzima
esochinasi. Le chinasi sono enzimi che
operano delle fosforilazioni, cioè partendo dall’ATP trasferiscono il fosfato ad una molecola fosfato.
L’esochinasi catalizza il trasferimento del fosfato dall’ATP a zuccheri a 6 atomi di carbonio. In questo
esempio in particolare è rappresentato il glucosio, il quale entra all’interno del sito attivo dell’enzima
determinando una variazione conformazionale della proteina stessa che si chiude intorno al
substrato e favorisce in questo modo la reazione che deve avvenire.
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Ad esempio, gli enzimi che si trovano a livello dell’intestino e sono responsabili della digestione delle
proteine, tipo la carbossipeptidasi, è un enzima che digerisce le proteine a partire dall’estremità
carbossi-terminale rimuovendo un aminoacido alla volta; quindi, questo enzima non ha una
specificità per un determinato tipo di proteine ma ha una specificità di gruppo. Questo è utile ed
importante per il risparmio della cellula. Sarebbe dispendioso avere una serie di enzimi tutti differenti
per ogni tipo di legame che coinvolge aminoacidi diversi, invece, in questo caso la carbossipeptidasi
qualsiasi proteine gli poniate davanti con pazienza se la digerisce tutta partendo dall’estremità
carbossi-terminale.
Nell’immagine, la velocità della reazione catalizzata in confronto alla reazione non catalizzata in
funzione della concentrazione di substrato.
● dipendenza da temperatura e pH
Nell’immagine, la dipendenza dalla temperatura di
due enzimi, un enzima tipico dell’uomo che ha un
ottimo di temperatura (valore ottimale di
temperatura in cui l’enzima funziona bene) intorno a
37º e un enzima preso da un batterio ad esempio
termofilo (che vive ad alte temperature) che ha un
ottimo di temperatura intorno a 75º.
Un esempio è relativo alla pepsina, enzima presente nello stomaco deputato alla degradazione delle
proteine che lavora a un ottimo di pH pari a 2, poiché il pH nello stomaco è estremamente acido.
Se invece si prende la tripsina (presente nella parte iniziale dell’intestino), un enzima in grado di
scindere le proteine che però lavora all’interno dell’intestino, si può vedere che l’ottimo di pH è
intorno ad 8. Questo accade perché la tripsina parte dallo stomaco e poi a livello intestinale si ha un
cambiamento di pH, ecco perché si ha un ottimo di pH differente.
Gli enzimi lisosomiali presentano un ottimo di pH intorno a 5, vuol dire che la loro efficienza è
massima quando il pH è leggermente acido.
● dipendenza dalla presenza di cofattori : Benché esista una grande varietà negli aminoacidi,
talvolta questo non è sufficiente. Allora l’enzima per funzionare necessita di molecole o ioni
accessori che vengono chiamati cofattori.
Questi cofattori possono essere divisi in due gruppi:
- Piccole molecole organiche dette coenzimi
- Ioni metallici -> quando le molecole inorganiche sono legate covalentemente alla proteina
vengono chiamati anche gruppi prostetici. Ad esempio, il gruppo eme dei citocromi siccome risulta
essere legato covalentemente all’enzima può essere chiamato anche gruppo prostetico.
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Esempi di coenzimi:-> Molecole organiche
che sono necessarie per il funzionamento
correttore dell’enzima stesso.
Molte di queste molecole derivano da
vitamine, cioè delle sostanze di cui
abbiamo bisogno in piccole quantità ma
che sono necessarie per l’uomo perché
l’organismo non le sa sintetizzare in
maniera autonoma. Questo però dipende
anche dal tipo di organismo. In generale
sono alcune delle principali vitamine
presenti negli alimenti e sono i precursori
di coenzimi utili per il funzionamento di
enzimi importanti. (FAD e NAD, i
trasportatori intermedi degli elettroni i quali giocano un ruolo fondamentale nel metabolismo
ossidoriduttivo delle nostre cellule.)
CLASSIFICAZIONE ENZIMI -> si basa sul tipo di reazione che catalizzano (tutte reazioni necessarie
per il metabolismo delle nostre cellule)
Oltre ad essere soggetti all’inibizione da molecole o fisiologiche o farmacologiche, gli enzimi possono
essere anche attivati. Ci possono essere delle molecole attivatrici che, legandosi all’enzima, ne
aumentano l’affinità per il substrato e quindi facilitano la catalisi.
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INIBIZIONE ENZIMATICA : si può suddividere in due grandi categorie: quella reversibile e quella
irreversibile.
si classifica in
-> inibizione competitiva : l’inibitore compete con il substrato per il sito attivo, cioè entrambi
possono legarsi al sito attivo. Si tratta di un’inibizione competitiva perché competono per il legame.
All’aumentare della concentrazione dell’inibitore diminuisce la probabilità che l’enzima si leghi al
substrato. L’inibizione competitiva può tuttavia essere eliminata aumentando la concentrazione di
substrato in quanto, entrambi competendo per il medesimo sito attivo, aumenta la probabilità che
l’enzima leghi il substrato.
-> inibizione non competitiva : l’inibitore e il substrato si legano a due regioni differenti dell’enzima.
Il substrato si legherà al sito attivo, mentre l’inibitore si legherà in un’altra regione dell’enzima. Il
legame con l’inibitore determinerà una variazione conformazionale dell’enzima. Perciò il sito attivo
varia la sua struttura e non è più in grado di ospitare il suo substrato.
- inibizione irreversibile -> la molecola che si usa come inibitore è andata a modificare
covalentemente l’enzima, quindi ne ha determinato un’alterazione tale per cui l’enzima non è più in
grado di funzionare => pk si recuperi la funzionalità del processo di catalisi sarà necessario
aggiungere del nuovo enzima non alterato
REGOLAZIONI ENZIMATICHE
- enzimi allosterici
REGOLAZIONE ALLOSTERICA : Gli enzimi allosterici sono enzimi che presentano un sito diverso
dal sito di legame in cui può legarsi un attivatore o inibitore che influenzano poi l’attività
dell’enzima. -> Allosterico significa “altro sito”.
Gli enzimi allosterici spesso sono costituiti anche da più subunità proteiche. Nella loro struttura
presentano, oltre al sito attivo, un altro sito chiamato sito allosterico a livello del quale si possono
legare o molecole attivatrici o inibitrici.
Delle volte ci sono enzimi che presentano il sito attivo, un sito allosterico per inibitori e un sito
allosterico per molecole attivatrici, quindi una struttura abbastanza complessa.
Il concetto di allosteria non è legato esclusivamente agli enzimi ma la si può ritrovare anche nelle
proteine di trasporto come l’emoglobina e il modo in cui lega l’ossigeno.
Gli enzimi, dunque, possono essere regolati in più modi, oltre a quella allosterica troviamo la
regolazione tramite modificazioni covalenti che possono essere REVERSIBILI (nella maggior parte
dei casi) o IRREVERSIBILI.
-> irreversibili
Facendo riferimento agli enzimi prodotti dal pancreas e secreti nel duodeno, dove agiscono, questi vengono
PRODOTTI in forma INATTIVA (pancreas) e spediti al duodeno tramite tutti i dotti pancreatici. Una volta
nell’intestino vengono attivati tramite un taglio proteolitico, cioè rimozione di una parte, modificandone
quindi la composizione chimica, ad opera degli enteropeptidasi (enzimi) capaci di attivare una serie di reazioni
al termine delle quali si ha il taglio proteolitico (proteasi) e la conseguente attivazione dell’enzima.
Ad esempio, come si può vedere in questa immagine, la scissione del legame fosfato dell’ATP libera
7,3 Kcal/mol.
REAZIONI ACCOPPIATE -> gli enzimi non permettono di per sé reazioni termodinamicamente
impossibili (∆G > 0) tuttavia possono catalizzare reazioni endoergoniche se queste sono accoppiate
a reazioni esoergoniche
Il concetto di reazioni accoppiate può essere spiegato attraverso questa immagine: vengono prese
delle pietre e fatte cadere su una turbina, generandone la rotazione. Tale rotazione viene a sua volta
sfruttata per sollevare un secchio d’acqua che sarà poi riversata in una macchina che ne ricaverà
lavoro. Si è sfruttata dunque la caduta
delle pietre (esoergonica) per sollevare
un carico (endoergonica).
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27/10/2023
Prof.ssa Francesca Magherini
Biologia
Sbobinatori: Martina Marliani, Frida Torricelli
Lezione 10, parte prima
Revisori: Eleonora Orlando, Margherita Manuardi
REAZIONI ACCOPPIATE
Le cellule eucariotiche, come quelle del nostro organismo, sono in grado di compiere
reazioni esoergoniche; queste reazioni chimiche avvengono liberando energia dal
sistema e ciò spiega perché hanno un valore di variazione di energia libera (ΔG)
negativo, indice del fatto che avvengono spontaneamente.
Le reazioni esoergoniche sono tutte quelle del metabolismo catabolico, ovvero tutte
quelle reazioni degradative che permettono la trasformazione di molecole complesse
in molecole più semplici, di facile
utilizzo dalle nostre strutture.
Oltre a reazioni degradative le
nostre cellule possono effettuare
anche reazioni di biosintesi di nuove
molecole, queste ultime hanno però
una variazione di energia libera (ΔG)
positiva e dunque non avvengono
spontaneamente. Per tale ragione
necessitano di un quantitativo di
energia maggiore proveniente da
un’altra fonte.
Si creano così delle associazioni fra reazioni endoergoniche, poco spontanee, e
reazioni molto esoergoniche, come ad esempio l’idrolisi della molecola di ATP.
L’energia liberata dalla reazione esoergonica permette di far partire e portare a
conclusione la reazione endoergonica, trasformandone i reagenti in prodotti.
Nella cellula questo può essere spiegato osservando la reazione sottostante che
avviene tra glucosio e fruttosio per ottenere saccarosio. Si può notare che il ΔG della
reazione è uguale a 6,1 Kcal/mol, dunque è chiaramente una reazione endoergonica
e avrà necessità di energia dall’esterno per avvenire.
RESPIRAZIONE CELLULARE
Il metabolismo, secondo quanto già visto, può
essere di tipo catabolico o anabolico.
Il primo coinvolge reazioni chimiche degradative che
permettono di giungere alle molecole più semplici, ai
singoli costituenti di ogni macromolecola; il secondo,
invece, è costituito da reazioni di biosintesi di
macromolecole a partire dalle piccole unità funzionali
che le costituiscono.
Chiaramente il processo si differenzia se
consideriamo il metabolismo autotrofo oppure quello
eterotrofo. Gli autotrofi (come piante, cianobatteri e
alcune alghe) sono in grado di usare l’energia
luminosa del Sole mediante il processo della
fotosintesi, al termine del quale ottengono ATP e
composti organici che vengono poi utilizzati dagli
organismi eterotrofi.
Questi ultimi invece usano i suddetti composti
organici per compiere reazioni biosintetiche e per
ottenere energia essenziale per la loro vita.
Un altro trasportatore di elettroni che riveste un ruolo importante è il NADP (si legge
NAD fosfato) che strutturalmente è uguale al NAD ma ha un gruppo fosfato
aggiuntivo.
La forma ridotta di tale coenzima è NADPH + H+, e lo si ritrova nei processi
anabolici che prevedono reazioni riduttive: nel nostro organismo, ad esempio, nelle
reazioni di biosintesi di lipidi e acidi nucleici nelle quali cede elettroni. Si ritrova
anche nella fase oscura della fotosintesi, definita in questo modo perché
indipendente dalla luce solare, dove svolge le stesse funzioni di accettore e
trasportatore di elettroni.
(La prof.ssa dice che nel test non ci sono domande specifiche sul ciclo di Calvin ma
solo dei concetti generali, ugualmente per la fase oscura dice che basta sapere cosa
accade all’inizio e alla fine, non vuole tutte le reazioni intermedie).
L’immagine soprastante riporta in uno schema le molecole contenenti atomi di
carbonio, dalla forma più ridotta (metano dove il carbonio ha numero di ossidazione
-4), a quella più ossidata (anidride carbonica dove il carbonio ha numero di
ossidazione +4).
Attraverso l’alimentazione è possibile assumere atomi di carbonio in forma più o
meno ridotta, ad esempio negli acidi grassi gli atomi di carbonio sono nella forma più
ridotta, anche perché sono legati a molti atomi di idrogeno. Questa tendenza si può
riscontrare anche nella figura, la forma più ridotta di carbonio ha legato quattro atomi
di idrogeno, mentre la forma più ossidata non ne lega nessuno, ma si lega invece a
due ossigeni.
LA RESPIRAZIONE CELLULARE
Processo composto da tre tappe, già elencate in precedenza.
Avviene in parte nel citoplasma e in parte all’interno del
mitocondrio della cellula. Analizzeremo la glicolisi nelle sue
reazioni costituenti e descriveremo l’entrata del piruvato
all’interno del mitocondrio per poi proseguire con il Ciclo di
Krebs.
GLICOLISI
Come precedentemente detto avviene nel citoplasma delle cellule e si compone di
due fasi: 1) fase di investimento energetico
2) fase di rendimento energetico
La prima fase inizia con la degradazione del glucosio, si utilizza un ATP affinché la
reazione avvenga perché è stato già spiegato quanto il glucosio sia una molecola
che non reagisce (la prof.ssa ricorda che anche se una reazione è possibile a livello
termodinamico non vuol dire che obbligatoriamente avvenga, in questo caso si ha
necessità dell’idrolisi di ATP perchè parta la reazione). Dunque il glucosio, a spese di
2 ATP, viene fosforilato a glucosio 6 fosfato, successivamente viene isomerizzato a
fruttosio 6 fosfato e quest’ultimo viene fosforilato in posizione 1 diventando
fruttosio 1-6-bisfosfato.
(LA FORMULA DEL GLUCOSIO, VA RICORDATA)
A questo punto nel momento in cui il piruvato (3 atomi di carbonio) entra nel
mitocondrio e nella matrice avviene la prima reazione, che permette di vedere
quando si forma la CO2, una decarbossilazione (reazione che toglie alla molecola
un atomo di carbonio sotto forma di CO2) che libera una molecola di anidride
carbonica, la prima che si forma. Si ricorda che è sempre considerato tutto doppio,
quindi due piruvati, due molecole di CO2 liberate.
Dopo questa reazione è rimasto l’acetato (ha due atomi di carbonio), si ha
un’ulteriore ossidazione di un atomo di carbonio (si forma NADH + H+) che permette
il legame al CoA e si forma così l’Acetil-CoA.
Il gruppo reattivo che permette il legame tra acetile e coenzima A è il gruppo -SH
(sulfidrilico); dopo la reazione rimane solo lo zolfo.
27/10/2023
Prof.ssa Francesca Magherini
Biologia
Sbobinatori: Martina Marliani, Frida Torricelli
Lezione 10, parte seconda
Revisori: Eleonora Orlando, Margherita Manuardi
Il ciclo di Krebs
Il ciclo di Krebs avviene nella matrice mitocondriale.
Venne scoperto nel 1937 da H. A. Krebs e da lui fu denominato “ciclo dell’acido
citrico” poiché il primo intermedio di tutto il processo è proprio l’acido citrico. E’
chiamato anche “ciclo degli acidi tricarbossilici”, data la presenza di tre intermedi:
citrato, cis-aconitato e isocitrato.
Per ogni ciclo entrano due molecole di acetil-coenzima A, provenienti dal piruvato,
vengono eliminate due molecole di CO2 e si formano 3 molecole di NADH, 1
molecola di FADH2 e 1 molecola di ATP.
(Tutto ciò deve essere moltiplicato per due).
A seguito della glicolisi e del ciclo di Krebs, vengono quindi prodotte solo 4 molecole
di ATP, ma molti equivalenti riducenti. Proprio questi saranno determinanti per
ottenere ATP nell’ultima fase della respirazione cellulare: la catena di trasporto degli
elettroni associata alla fosforilazione ossidativa.
Il ciclo dell’acido citrico non è solo un intermedio della degradazione delle sostanze
(processi catabolici), ma rappresenta il punto centrale per le biosintesi. Infatti alcuni
degli intermedi metabolici presenti all’interno del ciclo di Krebs possono essere
utilizzati per la sintesi degli acidi grassi, per la biosintesi dell’eme, per la sintesi degli
amminoacidi. Per questo il ciclo di Krebs viene detto anaplerotico, o di riempimento.
Catena di trasporto degli elettroni e fosforilazione ossidativa.
L’ultima parte di questo meccanismo riguarda la catena di trasporto degli elettroni
associata alla formazione dell’ATP, detta fosforilazione ossidativa. Durante le
reazioni precedenti si sono formate poche molecole di ATP e molti equivalenti
riducenti, quali NADH e FADH2, che possono trasferire elettroni a degli accettori.
L’ossidazione di tali molecole porta alla liberazione di un’alta quantità di energia, da
cui si avrà la massima produzione di ATP.
Infatti l’ossidazione di una molecola di NADH equivale ad una variazione di energia
libera di Gibbs pari a -52 kcal/mol.
Il passaggio di elettroni dal NADH all’ossigeno non avviene in una sola fase, poiché
libererebbe troppa energia, che non sarebbe gestibile dalla cellula tutta insieme.
Quindi gli elettroni, provenienti dagli equivalenti riducenti, scorrono attraverso una
serie di trasportatori intermedi in modo tale da cedere l’energia in vari step che
possono essere gestiti dalla cellula e utilizzati per formazione di ATP.
È utile porsi delle domande da utilizzare come punti di riferimento per tale processo:
● Quali sono i trasportatori di elettroni?
● Come sono disposti nella membrana e come avviene il passaggio degli
elettroni tra i vari complessi?
● Quale è la relazione tra trasferimento degli elettroni all’ossigeno e produzione
di ATP?
I citocromi contengono il gruppo eme all’interno del quale è presente il ferro che,
accettando un elettrone, si riduce( Fe3+→Fe2+); mentre quando cede un elettrone si
ossida, ritornando allo stato iniziale. Anche le proteine ferro-zolfo sono accettori di
soli elettroni, queste presentano a loro legati dei centri, appunto detti “ferro-zolfo”,
connessi a residui aminoacidici di cisteina (gruppo SH).
Gli elettroni passano da un complesso all’altro, in una serie di step, ciò permette la
liberazione di energia in piccoli pacchetti energetici, fino a che gli elettroni saranno
ceduti all’accettore finale, che è l’ossigeno.
Inizialmente il NAD cede gli elettroni al complesso 1.
Il FADH2 ha un potenziale di ossidoriduzione minore di quello del NADH, perciò non
cederà i suoi elettroni al complesso 1 bensì al coenzima Q, che li trasferirà al
complesso 3.
Il complesso 3 cede i suoi elettroni ad un altro citocromo, il citocromo C, che a sua
volte li cede all’ultimo complesso.
L’ultimo complesso contiene la citocromo-ossidasi che cede gli elettroni all’ossigeno
riducendolo ad acqua.
ATP sintasi:
La membrana mitocondriale interna ha una permeabilità estremamente selettiva,
non ci sono canali protonici ad esempio, i protoni sono quindi costretti a passare per
il complesso denominato “ATP sintasi”, che utilizza il passaggio di protoni dovuto al
gradiente di concentrazione per formare ATP.
(ricordando la lezione sul passaggio di membrana queste sono le ATPasi di tipo F,
la struttura di questa ATPasi ricorda quelle di tipo V, ma le pompe di tipo V utilizzano
ATP per formare gradiente protonico, lavorando “al contrario”).
Come avviene il processo?
L'ATP sintasi è costituita da numerose subunità proteiche, di cui alcune mobili altre
statiche.
La fermentazione
Le fermentazioni sono
meccanismi in cui non si ha una
catena di trasporto degli elettroni.
Si dice che la fermentazione sia
un meccanismo che avviene in
assenza di ossigeno, ma ciò non
è assolutamente vero, bensì
dipende dal tipo di organismo: per
esempio, nelle cellule tumorali
avviene in presenza di ossigeno.
Nella fermentazione accade che il
NADH che si forma della glicolisi (unica parte in questo tipo metabolismo a fornire ATP) si
rigenera, non cede elettroni per poter essere riossidato dalla catena di trasporto di
elettroni, ma li cede ad una molecola organica. In assenza di ossigeno la cellula acquisirà
energia solamente dalla glicolisi, in quanto essa avviene indipendentemente dalla
presenza di ossigeno. Questo processo produce solo 2 molecole di ATP, ma se c'è molta
disponibilità di glucosio può procedere molto rapidamente. Una volta che il NAD ossidato è
divenuto NADH nel processo della glicolisi, se il NADH non ritorna nella forma ossidata, il
processo della glicolisi si arresterebbe. Le fermentazioni prevedono la glicolisi per la
produzione di ATP e un processo di rigenerazione del NAD in forma ossidata. Esistono 2
tipi di fermentazione:
- fermentazione lattica
- fermentazione alcolica
Visione di insieme
Il destino del piruvato prevede la
respirazione aerobia (trasformazione in
acetil-coA) o le fermentazioni. Nei processi
di respirazione gli elettroni vengono
destinati alla catena di trasporto, arrivando
poi ad un accettore finale, cioè l'ossigeno;
esso viene ridotto ad acqua nel caso della
respirazione anaerobia, oppure a sostanze
inorganiche variamente ossidate. In entrambi i
casi, la produzione di ATP avviene tramite una
fosforilazione da ADP ad ATP, ossidativa perché
associata all'ossidazione delle molecole di NADH.
Alcuni batteri sono in grado di operare una
respirazione anaerobia: il meccanismo è identico,
ciò che varia è l'accettore di elettroni, non potendo
essere l'ossigeno; gli accettori utilizzati sono
molecole inorganiche, come nitrati e fosfati. Nel
caso della fermentazione, non esiste una catena
di trasporto degli elettroni, ma il NADH riossidato cede elettroni ad una molecola organica
e l'ATP prodotto è solo quello proveniente dalla glicolisi. Inoltre, il NADH deve sempre
essere riossidato, altrimenti la glicolisi si ferma.
ESPERIMENTO DI GRIFFITH:
Il primo esperimento è quello di Griffith (medico), condotto nel 1928. È un esperimento
che non dimostra che il DNA è la sede dell’informazione genetica, ma che apre le porte ad
esperimenti successivi, che andranno proprio verso questa direzione.
All’epoca Griffith stava studiando un batterio, ovvero lo Streptococcus Pneumoniae, che
causa la polmonite; a quel tempo
gli antibiotici non esistevano e di
polmonite si moriva, perciò c’era
grande interesse nello studiare
questo tipo di batteri. Griffith si
era accorto che dello
Streptococcus Pneumoniae
esistevano due ceppi:
- un ceppo definito smooth
(S), dove S sta per superficie
liscia; se facciamo crescere i
batteri su una piastra da
microbiologia, essi si
moltiplicheranno formando
colonie, visibili ad occhio nudo. I ceppi di tipo S formavano delle colonie a cupola
lucide, dovute al fatto che questi ceppi S possedevano una capsula di natura
polisaccaridica, di consistenza mucinosa, che conferiva quindi ai batteri questo
aspetto liscio. Se i batteri capsulati fossero stati iniettati nel topo, avrebbero causato
polmonite e il topo sarebbe morto; per questo motivo, il ceppo S venne definito
virulento.
- un ceppo definito rough (R), dove R sta per ruvido; esso è caratterizzato dalla
formazione di colonie ruvide prive di capsula e, se iniettato nel topo, permetteva la
sopravvivenza senza sviluppare la malattia (non virulento). Questo perché (ci
colleghiamo ad una delle proprietà della capsula) i batteri capsulati hanno una
possibilità in più di essere virulenti, poiché la capsula protegge dal sistema
immunitario, in particolar modo dai macrofagi che intervengono nella prima risposta
di tale sistema.
Quindi, se iniettato il ceppo S, il topo muore, se iniettato il ceppo R, il topo vive.
Griffith fece il seguente esperimento: prese i ceppi capsulati, li riscaldò con il calore e
successivamente iniettò il ceppo S ucciso con il calore nel topo e il topo sopravvisse.
Questo perché il calore aveva denaturato tutte le proteine e ucciso i singoli batteri e il topo
era in grado di vivere.
Successivamente, egli fece un altro esperimento con esito sorprendente; prese i batteri
del ceppo R e i batteri del ceppo S uccisi con il calore, li mescolò e poi li iniettò nel topo: il
topo morì.
Ciò era abbastanza strano, perché singolarmente il ceppo R non era virulento, il ceppo S
era stato ucciso con il calore e quindi non era virulento e mettendoli insieme ci si
aspetterebbe che questi non causino la patologia; invece, il topo muore e in più, all'interno
di esso, Griffith ritrova batteri capsulati vivi, che poi avrebbero potuto duplicarsi e
mantenere la capsula. Nel topo, quindi, era avvenuto un qualche principio, che Griffith
chiamò PRINCIPIO TRASFORMANTE; egli non riuscì a chiarire chimicamente questo
principio, ma era in grado di passare dal ceppo S ucciso con il calore, al ceppo R,
trasformandolo in ceppo S(da qui la parola principio trasformante).
Di fatto, questo principio era alla base di
uno dei meccanismi della variabilità
genetica dei batteri; Griffith evidenziò
quindi una delle modalità con cui i batteri
variano il proprio genoma, che è la
trasformazione: capacità di alcuni ceppi
batterici di prendere del genoma
dall’esterno e farlo proprio; questo
processo è anche alla base
dell’acquisizione della resistenza agli
antibiotici. Nel topo, come abbiamo detto,
alcuni frammenti del genoma del ceppo S ucciso con il calore, passavano nel ceppo R
vivo e in questo modo venivano integrati nell’informazione genetica del batterio di tipo R,
che conseguentemente acquisiva i geni responsabili della sintesi della capsula, si otteneva
il fenotipo osservato (batteri capsulati) e il topo moriva. Per poter compiere questo
meccanismo, i batteri devono essere competenti.
BATTERI COMPETENTI: sono batteri in grado di acquisire informazione genetica. Questa
competenza può essere indotta in laboratorio o essere naturale, come nel caso dello
Streptococco. Griffith potè quindi integrare nel ceppo R l'informazione per la sintesi della
capsula, proveniente dal DNA dei batteri del ceppo S.
Gli esperimenti successivi furono quelli condotti dal gruppo di Avery e durarono circa 14
anni; benché condotti con molto rigore, non furono accettati dalla comunità scientifica,
ovvero non furono considerati rilevanti ai fini della dimostrazione che il DNA contenesse
l’informazione genetica.
Il punto di partenza era questo: invece di lavorare con l’intero ceppo S come
nell’esperimento di Griffith, si fa un estratto delle macromolecole presenti nel ceppo S.
Quindi:
Loro studiavano i batteriofagi di tipo T2, detti anche fagi: sono dei virus (parassiti cellulari
obbligati) che infettano i batteri, costituiti da proteine e DNA. Le proteine costituiscono il
loro involucro (capside), che costituisce la testa e quando avviene l’infezione del batterio,
l’involucro rimane al di fuori del batterio stesso. Inoltre, da un punto di vista strutturale,
oltre ad avere la testa, hanno una coda, con cui si ancorano alla parete batterica e poi
iniettano il materiale genetico all’interno del batterio; questo indirizza la sintesi di nuove
proteine virali, si forma una progenie virale, che quando diventa sufficientemente grande
determina la lisi del batterio e fuoriesce.
Hershey e Chase si chiesero allora se fosse possibile utilizzare questi batteri per
dimostrare quale fosse la sede dell’informazione genetica; infatti, se fossero riusciti ad
individuare la molecola che penetrava nel batterio e causava la replicazione virale,
avrebbero individuato il materiale genetico del batterio.
I due ricercatori marcarono selettivamente proteine e DNA utilizzando isotopi radioattivi
specifici, in modo da ottenere due popolazioni fagiche, una marcata a livello delle proteine
con un isotopo radioattivo dello zolfo, che si trova nell’amminoacido cisteina, formando
anche i ponti disolfuro, mentre nel DNA non è presente; dall'altra parte, vennero usati
ceppi di virus marcati con il fosforo radioattivo, che non si ritrova nelle proteine ma è
presente nel DNA.
Essi presero i fagi radiomarcati e li mescolarono ad una coltura batterica per pochi minuti,
in modo tale da far avvenire l’iniezione del materiale genetico all’interno del batterio
stesso. Dopodichè utilizzarono un frullatore da cucina per separare l’involucro fagico dai
batteri stessi e la miscela così ottenuta veniva centrifugata: i batteri, più pesanti degli
involucri fagici, si depositarono sul fondo del tubo da centrifuga, formando il pellet, mentre
tutto il resto (compresi gli involucri) rimase nel sopranatante (per far precipitare gli involucri
c’è bisogno di forze centrifughe elevate).
Dopo la centrifugazione svolsero l’analisi della radioattività o del pellet (detto anche
pellicola) che precipita o del sopranatante.
In seguito a questi tipi di studi, i due ricercatori si resero conto che la radioattività (che può
essere studiata con apposita strumentazione) si ritrovava esclusivamente nel
sopranatante (le proteine che costituiscono l’involucro dei batteri, che al momento
dell’infezione rimangono all’esterno del batterio) e non nei batteri (nel pellet). Inoltre,
studiando la radioattività dei fagi che derivavano da questa infezione, gli scienziati si
resero conto che la radioattività non era presente. Quindi, se si marcano le proteine, la
radioattività viene ritrovata solo nel sopranatante e la progenie fagica che deriva
dall’infezione non è radioattiva.
I passaggi vennero ripetuti con il DNA marcato: i fagi con il DNA radioattivo vennero
mescolati con i batteri e infettarono le cellule batteriche, poi si passò al frullatore, poi alla
centrifugazione e poi all’analisi della radioattività. Nel sopranatante non si avrà
radioattività, ma sarà presente nel precipitato e nella progenie fagica. L’esperimento di
Hershey e Chase dimostra in modo inequivocabile che è il DNA ad essere la sede
dell’informazione genetica.
Una volta noto e chiarito che il DNA era la sede dell’informazione genetica e che il
DNA era costituito da nucleotidi, ciò che rimaneva da capire era come questi
nucleotidi si legassero tra di loro e qual era la struttura della molecola.
Nel tempo si sono accumulate diverse informazioni, sfruttate da Watson e Crick per
pubblicare nel 1953 la celebre struttura tridimensionale del DNA. Alcune di queste
informazioni vengono raccolte sotto il nome di “Regole di Chargaff”, dal nome dello
scienziato che aveva dedotto tali informazioni.
REGOLE DI CHARGAFF
Chargaff aveva esaminato il contenuto in basi azotate di molti organismi e si era
accorto che per ogni organismo variava la proporzione di basi, mai negli stessi
rapporti; ciò che risultava uguale era rispettivamente il contenuto di guanina a quello
di citosina e il contenuto di timina a quello di adenina. Concluse quindi che le
percentuali di basi potevano differire da una specie all’altra, però in tutte le specie
citosina e guanina, come timina e adenina, erano presenti nelle stesse percentuali.
esempio: nell’uomo
C=19,9% G=19,8%
T=29,4% A=30,9%
Molecola di DNA
1° livello: il DNA viene organizzato in strutture chiamate nucleosomi (10 nm) che
sono costituiti da DNA più istoni. Questi istoni formano un ottamero globulare cioè
una struttura composta da 8 subunità (chiamato anche core istonico) attorno alla
quale il DNA si avvolge per circa 146 paia di basi. Vi è poi un istone che rimane più
esterno, l’istone H1 che ha la funzione di legare saldamente il DNA al core istonico e
di avvicinare 2 nucleosomi successivi. Gli istoni sono proteine basiche ricche di
residui amminoacidici con carica positiva che si legano al DNA, carico
negativamente. Gli istoni sono di 5 tipi: H2A, H2B, H3, H4, H1. Tutti ad esclusione
dell’ H1 sono presenti in duplice copia a livello del nucleosoma e vanno dunque a
costituire l’ottamero. L’importanza della carica positiva è per la neutralizzazione di
quella negativa presente nel DNA, e permettere un principio di compattazione.
Il primo grado di compattazione dà origine ad una struttura chiamata ‘’collana di
perle’’, le perle sono i nucleosomi. Si passa dalla doppia elica di DNA di 2 nm al
nucleosoma la cui dimensione è di 10 nm.
Ruolo dell’istone H1
Dopo il primo grado di compattazione del DNA grazie alla presenza dell’istone H1, i
nucleosomi vengono raggruppati tra loro a costituire la fibra di 30 nm, che può
ulteriormente formare delle anse, stabilizzate da altre proteine non istoniche, a
costituire i domini ad ansa 300 nm con andamento a zig-zag. Questi domini possono
ripiegarsi su sé stessi disponendosi a costituire la cromatina altamente condensata o
eterocromatina 700 nm, fino ad arrivare al cromosoma metafasico 1400 nm.
Livelli di compattazione della cromatina
CROMATINA E CROMOSOMI
La cromatina interfasica è una proteina dispersa, una specie di groviglio
apparentemente poco ordinato.
Questa cromatina interfasica si organizza in strutture ben definite che sono i
cromosomi solo quando la cellula si deve dividere. Prima della divisione cellulare i
filamenti di DNA vengono duplicati e la cromatina si organizza in strutture discrete
che sono i cromosomi (46 nella nostra specie) che permettono la suddivisione del
materiale genetico in maniera ordinata.
La compattazione della cromatina in unità discrete permette una separazione
efficiente del materiale genetico tra le cellule figlie.
Cromosoma e cromatina sono quasi la stessa cosa, sono due forme diverse in cui
questa associazione tra DNA e proteine appare durante la vita della cellula.
Benché la cromatina interfasica appaia come una struttura confusa, in realtà è stato
visto che anche durante l’interfase i vari cromosomi occupano regioni del nucleo più
o meno definite. Esistono infatti all’interno del nucleo i territori cromosomici, delle
regioni in cui si trovano cromosomi anziché altri, quindi anche la disposizione della
cromatina risulta relativamente ordinata.
Cariotipo Territori cromosomici, cromosomi in
interfase marcati con colori diversi
Nel DNA inoltre appaiono delle regioni più intensamente colorate, dette
eterocromatiche e delle regioni meno colorate dette eucromatiche.
La differenza di colorazione corrisponde al grado di compattazione:
● Eucromatina: la cromatina più lassa, meno colorabile, dove vi sono i geni
che verranno poi trascritti grazie al RNA polimerasi.
● Eterocromatina: è una cromatina molto compatta e condensata,
inaccessibile alla RNA polimerasi. Essa a sua volta si divide in eterocromatina
facoltativa (regioni che durante la vita possono essere trascritte divenendo
eucromatina) ed eterocromatina costitutiva (regioni che restano NON
trascrivibili, prive di geni) esempio: le regioni terminali o il centromero dei
cromosomi, oppure uno dei due cromosomi X femminili, è molto compatto e
fortemente eterocromatico, quello che viene detto anche corpo di Barr.
Tabella riassuntiva
02/11/2023 Prof.ssa Francesca Magherini
Le dimensioni dei genomi e il numero dei geni non hanno alcuna correlazione con
la complessità dell’organismo (ci possono essere organismi estremamente semplici
che hanno genomi molto grandi e viceversa).
● DNA ripetuto intersperso per il 44% (la professoressa usa la parola “interdisperso”),
un quarto del quale (10%) è costituito dalle sequenze Alu, denominate così
dall’enzima di restrizione Alu che permette di tagliarle; esse sono delle
sequenze ripetute non “in tandem” (non una dietro l’altra);
IL NUCLEOLO
Esso è una regione del nucleo che appare intensamente colorata, nel quale si
distinguono a loro volta due regioni:
Esso è un DNA circolare, a doppio filamento, costituito sia dal DNA batterico
vero e proprio sia dai DNA accessori rappresentati dai plasmidi.
Anche nel caso del DNA dei procarioti si trovano delle proteine, basiche e
non istoniche, le quali permettono la
formazione di anse che
compattano il DNA,
grazie anche all’aiuto di
molecole di RNA (non
presenti nell’immagine).
In linea teorica, per capire come ciò potesse avvenire, si avevano 3 modelli di
duplicazione: (Attenzione! Il DNA si duplica prima della divisione cellulare)
Con questo esperimento preliminare, capirono che il DNA pesante forma una
banda che si deposita sul fondo della provetta, mentre il DNA leggero forma una
banda che si localizza in alto della provetta.
Prendono dei batteri che sono cresciuti per numerose generazioni nell’azoto 15, in
maniera che la totalità del loro DNA fosse pesante, per poi trasferirli in una fonte di
azoto 14, aspettando poi 20 minuti, cioè il tempo per un’unica duplicazione.
Dopodiché il DNA viene estratto e centrifugato in presenza di cloruro di cesio.
Si osserva invece un’unica banda che poteva essere ottenuta sia da un modello
di duplicazione semiconservativo che un modello dispersivo, poiché in entrambi si
ha una mescolanza di azoto leggero e pesante. (Nell’immagine il celeste
rappresenta il filamento leggero, il blu quello pesante)
Per confutare il modello dispersivo, si riproduce lo stesso esperimento, con la
differenza che invece di aspettare 20 minuti per la centrifugazione, se ne
aspettano 40, che è il tempo necessario per compiere 2 duplicazioni. I batteri
quindi si dividono per due volte avendo a disposizione solo azoto leggero.
Il risultato furono due bande, delle quali una era alla stessa altezza di quella
trovata dopo i primi 20 minuti (corrisponde al mix leggero e pesante), mentre l’altra
era più alta e costituita esclusivamente da DNA leggero. Chiaramente, dopo una
prima duplicazione, le molecole saranno tutte costituite da un filamento con N
pesante e un filamento con N leggero; durante la seconda duplicazione invece,
non avendo a disposizione DNA pesante, si avranno alcune molecole costituite da
DNA pesante e DNA leggero e altre solo da DNA leggero.
DUPLICAZIONE
(Verrà analizzato la modalità con cui si duplica il DNA nei procarioti, con solo alcuni cenni sugli
eucarioti che saranno approfonditi nel corso di biologia molecolare)
Nei procarioti, così come negli eucarioti, la duplicazione del DNA avviene in una
fase specifica della duplicazione cellulare, detta fase S o di sintesi. Dopo la
replicazione e il controllo di eventuali errori, si ha la mitosi (nel caso dei batteri la
scissione binaria).
I due filamenti di DNA sono legati attraverso legami a H (3 legami a H tra guanina
e citosina, 2 legami a H tra adenina e timina); affinchè i filamenti possano
funzionare da stampo questi legami devono
essere spezzati.
(La professoressa consiglia di guardare i video youtube che sono indicati nelle slide per
comprendere al meglio il modo in cui si formano i superavvolgimenti)
3. La sintesi (che ha bisogno di un iniziatore di RNA) procede in
direzione 5’ → 3’, la DNA polimerasi forma legami fosfodiesterici tra il
3’ OH della catena in allungamento e il 5’P (fosfato) di un nuovo
nucleotide
(nelle slide la direzione della sintesi e l’utilizzo del primer sono indicati come punti 3 e 4, ma la
professoressa ne parla come un unico punto)
Via via che i due filamenti si aprono, nel lato del filamento stampo 3’-5’, la DNA
polimerasi (dopo essersi posizionata in fondo all’inizio 3’ del filamento) continuerà
a sintetizzare in direzione 5’-3’.
Dal lato in cui la direzione del filamento stampo è 5’-3’, la DNA polimerasi si
posiziona invece all’inizio della forca e sintetizza un breve frammento nella
direzione corretta 5’-3’; solo dopo che la forcella di replicazione si è ulteriormente
aperta, la DNA polimerasi si riposiziona all’inizio della forca e sintetizza un altro
breve frammento. Per fare ciò viene sintetizzato un primer ogni volta che la DNA
polimerasi si riposiziona. I brevi frammenti sintetizzati vengono chiamati
frammenti di Okazaki.
C’è quindi bisogno di un altro enzima, una DNA ligasi, che si occupa di formare
l’ultimo legame fosfodiesterico e di completare quindi la sintesi del filamento
ritardato.
A questo punto rimane da capire come il meccanismo che abbiamo descritto avvenga
nella pratica.
Innanzitutto, bisogna chiarire che i due filamenti vengono duplicati in contemporanea;
infatti, il fatto che ci sia un filamento “in ritardo” non implica che esso rimanga indietro nella
duplicazione. L’immagine sottostante spiega come questo meccanismo, chiamato
modello a trombone della forca replicativa, possa avvenire. Sui due filamenti agiscono
in contemporanea due DNA polimerasi (rappresentate in rosa); una sul filamento continuo
e l’altra sul filamento ritardato. Affinché le due DNA polimerasi si muovano
contemporaneamente verso la forca di duplicazione, il filamento ritardato forma un’ansa
sulla quale la DNA polimerasi è libera di scorrere e di sintetizzare i frammenti di Okazaki, a
partire dagli inneschi sintetizzati, a loro volta, dalle primasi.
N.B. ciò che avviene in una forcella, avviene anche dalla parte opposta. L’unica differenza
è che nelle due diverse forcelle il filamento continuo e discontinuo sono opposti, ovvero:
quello che è il filamento continuo in una forcella sarà quello discontinuo per l’altra e quello
che è il filamento discontinuo per una forcella sarà quello continuo per l’altra.
L’immagine chiarisce
questo concetto
Nonostante ciò, la DNA polimerasi III ha una probabilità molto bassa di compiere un
errore: si stima un errore ogni 109 nucleotidi
N.B. la probabilità non è zero, in quanto se non ci fossero errori, non esisterebbero le
mutazioni e quindi la selezione naturale non avrebbe modo di agire.
DNA EUCARIOTICO
Tutto quello che è stato detto fino ad ora, riguardava la duplicazione di un genoma
circolare.
La replicazione del DNA eucariotico avviene seguendo le medesime dinamiche ma,
essendo un genoma lineare, sorge un problema aggiuntivo che non è presente nei batteri.
Quando viene sintetizzato il DNA, a livello di una sua estremità viene posto un primer che
servirà da innesco per l’azione della DNA polimerasi; successivamente viene rimosso e,
essendo all’estremità del cromosoma e quindi non essendoci un’estremità 3’ libera, la
DNA polimerasi non può attaccarsi e polimerizzare il gap che rimane. Di conseguenza
rimarranno all’estremità dei singoli filamenti (vedi figura sottostante).
Questo problema nel caso del DNA circolare non si pone in quanto è un filamento
continuo e, anche quando l’innesco viene rimosso, prima di esso si trova un’estremità 3’
libera a cui la DNA polimerasi può attaccarsi.
Queste regioni corrispondono alle estremità fisiche dei cromosomi e vengono chiamate
telomeri.
I TELOMERI
I telomeri hanno un ruolo prettamente strutturale; contengono delle corte sequenze di DNA
altamente ripetute (circa migliaia di volte) e per questo non contengono un’informazione.
Per questo motivo, il fatto che in seguito ad ogni replicazione del DNA venga rimosso il
primer e, di conseguenza, accorciati i telomeri, non comporta delle problematiche. Infatti,
l’accorciamento dei telomeri è un processo fisiologico, correlato alla senescenza cellulare;
quando essi diventano troppo corti, la cellula viene indirizzata verso processi che ne
determinano la morte.
Vi sono però delle eccezioni che riguardano quelle cellule che non possono avere un
numero di replicazioni finito dettate dall’accorciamento dei telomeri, in quanto sono cellule
che si devono poter replicare in continuazione nel corso della vita dell’organismo.
Esempio di questi tipi di cellule sono: le cellule staminali e le cellule tumorali.
- le cellule staminali ad esempio quelle contenute nel midollo osseo e da cui derivano
tutte le cellule mature contenute nel sangue. Queste cellule non possono differenziarsi
e basta (e quindi accorciarsi in seguito ad ogni replicazione) in quanto devono poter
continuare a produrre nuove cellule. Per mantenere il pull della staminalità la cellula
staminale si replica seguendo una determinata modalità: delle due cellule figlie
derivanti dalla replicazione, una si differenzia e l’altra rimane staminale (e sarà questa
che continuerà questo meccanismo).
- le cellule tumorali le quali, grazie al mantenimento della lunghezza dei telomeri,
riescono a sfuggire dal meccanismo di senescenza cellulare.
A questo punto, interviene la telomerasi e il singolo filamento che termina con il 3’ viene
allungato (regione celeste).
In seguito, viene posizionato un nuovo primer al quale si attacca la DNA polimerasi che
sintetizza un filamento di DNA (complementare a quello già esistente), ristabilendo quindi
la regolare lunghezza del telomero.
Fase G0: non tutte le nostre cellule hanno bisogno di dividersi; cellule altamente differenziate
come le fibre muscolari o i neuroni non si dividono più, ciò vuol dire che sono uscite dal ciclo
cellulare, e sono quindi in una fase G0. In questa fase le cellule sono metabolicamente attive,
svolgono tutte le loro funzioni ma non sono soggette a tutti quegli stimoli che promuovono la
divisione cellulare. Questo avviene perché si sono talmente differenziate che non sono più
sensibili a certi meccanismi di regolazione che sono importanti per le cellule che sono in grado
di dividersi. Questo tipo di cellule, dunque, non si riproducono.
Nella fase G0 sono inoltre presenti le cellule staminali, ovvero quelle cellule che possono
essere sospese dal ciclo cellulare, ma in determinate condizioni hanno la possibilità di rientrare
nel ciclo e dividersi nuovamente; (ad esempio nel fegato ci sono delle cellule staminali epatiche
che sono quiescenti, ovvero si trovano in una fase G0, ma possono entrare nel ciclo cellulare
quando porzioni del fegato vengono asportate chirurgicamente; esse, rientrando nel ciclo, sono
in grado di rigenerare la porzione asportata).
Affinché la cellula si possa dividere in maniera adeguata esistono dei check point (o punti di
controllo): la cellula attiva dei meccanismi, nel mezzo delle fasi, che servono per controllare se
i processi effettuati fino a quel momento siano avvenuti in modo corretto (nel momento in cui la
cellula riscontra dei problemi arresta il suo avanzamento all’interno del ciclo cellulare).
I punti di controllo fondamentali sono:
• punto di restrizione (start): presente in tarda fase G1, controlla sia i fattori
ambientali sia i fattori interni alla cellula; infatti, controlla se sono presenti i fattori
di crescita, le dimensioni della cellula, se sono presenti i nutrienti e se sono
presenti danni al DNA. Superato questo punto la cellula entra nella fase S e
duplica il DNA.
• transizione G2-M: in questo check point situato in tarda fase G2 si controlla se la
duplicazione del DNA sia avvenuta correttamente. Se tutto procede
correttamente la cellula entra in mitosi.
• transizione anafase-metafase: è un punto di controllo all’interno della fase M,
siamo nel momento in cui i microtubuli sono attaccati ai cromosomi e questi ultimi
devono essere attratti ai poli opposti delle due cellule. Viene verificato che tutto
l’apparato del fuso sia stato correttamente posizionato in modo tale che la mitosi
possa andare avanti.
In tarda G2 c’è un meccanismo per il quale la cellula esce momentaneamente dal ciclo per
correggere danni al DNA, successivamente rientra nel ciclo.
Da un punto di vista molecolare ci sono due classi di proteine che regolano la progressione del
ciclo:
Le cicline: sono presenti all’interno della cellula in maniera selettiva e specifica per ogni fase
del ciclo; sono dunque proteine “fase-dipendente”, presenti solo in una fase specifica del ciclo
cellulare; vengono rapidamente degradate quando non servono.
Le chinasi dipendenti da cicline: svolgono una funzione enzimatica di fosforilazione, questa
funzione è regolata sia dal legame con le cicline, sia da eventi di fosforilazione (che possono
avere sia significato inibente che attivante) della chinasi stessa, che sono reversibili. Le chinasi
dipendenti da ciclina sono sempre presenti però vengono regolate, quindi non sono sempre
attive.
I complessi ciclina e chinasi dipendenti da cicline agiscono fosforilando dei substrati che
servono a progredire nel ciclo cellulare.
Esistono anche proteine che controllano negativamente la progressione del ciclo cellulare,
chiamate oncosoppressori. Generalmente la mutazione di queste proteine e la perdita della
loro funzione inibitoria è correlata alla progressione tumorale. Ad esempio, RB è una proteina
collegata al retinoblastoma, un tumore da cui prende il nome.
La deregolazione del ciclo cellulare, infatti, è strettamente collegata alla proliferazione
incontrollata e dunque alla generazione di tumori.
Nella fase S troviamo la ciclina A e la Cdk2; al termine della fase S la ciclina A viene degradata.
La ciclina B e la Cdk1 sono il complesso che regola la transizione tra la fase G2 e la fase
M. Questo complesso viene definito “fattore di regolazione della mitosi”, perché regola
la fase di transizione tra la tarda fase G2 e la fase M.
I livelli di ciclina B raggiungono un picco in tarda fase G2, la ciclina B si associa alla
Cdk1 e si forma un complesso attivo che ha vari ruoli:
-fosforilazione delle condensine, ovvero proteine che servono alla compattazione della
cromatina in cromosomi.
-fosforilazione dell’istone H1 che permette la condensazione della cromatina.
-fosforilazione delle lamine nucleari, le quali fanno parte della lamina nucleare; sono filamenti
intermedi che si disassemblano e che vengono degradati per permettere il processo della
mitosi.
-fosforilazione delle proteine dell’apparato del Golgi, il quale si frammenta in vescicole più
piccole da cui poi si rigenererà tutto l’apparato del Golgi successivamente.
-fosforilazione di componenti del citoscheletro e di proteine del centrosoma per promuovere la
formazione del fuso.
LA MITOSI
La mitosi è un meccanismo di divisione cellulare in cui una cellula produce due cellule figlie
esattamente identiche alla cellula madre.
Un punto fondamentale nella mitosi è la condensazione della cromatina, che avviene mediante
condensine, proteine che servono a formare strutture estremamente compatte.
I cromosomi che osserviamo durante la mitosi sono costituiti da due cromatidi fratelli uniti
da una regione centrale, ovvero il centromero. I cromatidi fratelli contengono copie identiche
delle molecole di DNA che si sono duplicate. Nella regione di attacco dei microtubuli vi è una
placca ricca di proteine chiamata cinetocore, quest’ultimo si trova in prossimità del
centromero.
Circa 20 microtubuli prendono contatto con ciascun cinetocore.
I Microtubuli si originano dal centro di organizzazione dei microtubuli, dove ci sono anche i
due centrioli che vengono duplicati prima della mitosi (anche se la presenza dei centrioli non è
necessaria al fine della formazione dei microtubuli del fuso mitotico).
I microtubuli hanno un ruolo fondamentale durante la mitosi; esistono numerose sostanze che
possono agire sul grado di polimerizzazione e depolimerizzazione dei microtubuli durante la
mitosi, alcune di queste sostanze sono anche agenti antitumorali, in grado di bloccare il ciclo
cellulare (sono chiamati composti taxani, derivano da una pianta, che è il tasso).
Ci sono diversi tipi di microtubuli:
• i microtubuli del cinetocore, i quali legano direttamente i cromosomi;
• i microtubuli interpolari, che sono connessi tra di loro (leggermente sovrapposti), servono
a spingere i due poli della cellula in direzioni opposte.
• i microtubuli astrali, che connettono i centrosomi ai filamenti di actina che costituiscono
il cortex.
Il trascinamento dei cromosomi avviene tramite la depolimerizzazione del microtubulo legato al
centromero, ma essi, rimanendo comunque collegati ai cromatidi stessi, li trainano ai due poli
opposti della cellula.
La cosa opposta avviene a livello dei microtubuli polari, qui le estremità si allungano mentre ci
sono dei meccanoenzimi, che sono chinesine mitotiche che (sulla base di degradazione di ATP
determinano scorrimenti o movimenti) li fanno scorrere gli uni sugli altri. Però visto che ad essi
vengono aggiunte unità di tubulina, i microtubuli rimangono sempre parzialmente sovrammessi
e scorrono, questo spinge i poli opposti della cellula ad allontanarsi.
LE FASI DELLA MITOSI:
• Nella profase l’evento più importante è la disgregazione dell’involucro nucleare, inizia
inoltre la formazione dei microtubuli che poi prendono contatto con le regioni del
cinetocore.
• Nella metafase tutti i cromosomi sono allineati nel piano equatoriale della cellula, i centri
di organizzazione dei microtubuli sono ai poli opposti, l’involucro nucleare non è più
presente.
• Nell’anafase avvengono gli eventi di separazione dei cromatidi fratelli, che migrano ai
poli opposti della cellula. L’anafase è distinta in 2 momenti: l’anafase A in cui si
degradano delle proteine chiamate coesine, le quali tengono uniti i cromatidi fratelli; e
l’anafase B, la fase in cui si allontanano i cromatidi fratelli.
• Nella telofase e citodieresi abbiamo i cromatidi fratelli completamente separati, in questa
fase si forma un anello di actina e miosina che permette la formazione di una strozzatura
tra le due cellule, e in questo modo si generano le due cellule figlie complete.
MEIOSI
I geni sono delle regioni del genoma (costituiti da DNA), composti da sequenze
trascritte e regolatorie, che regolano la sua trascrizione e che portano le
informazioni dei caratteri ereditari degli organismi viventi.
Ogni gene sul cromosoma si trova sul locus genico.
Allele: due o più forme alternative di un gene che occupano la stessa posizione
su cromosomi omologhi e che controllano varianti dello stesso carattere.
Per uno stesso gene gli organismi possono essere omozigoti se i due alleli sono
identici o eterozigoti se i due alleli sono diversi.
Differenza tra cromatidi fratelli e cromosomi omologhi:
• cromatidi fratelli contengono esattamente gli stessi alleli. sono identici
perché derivano dalla duplicazione del DNA.
Nella meiosi assistiamo a divisioni del patrimonio genetico e della cellula stessa che
però non prevedono un’ulteriore duplicazione di DNA (che si è duplicato solamente
una volta all’inizio). Per questo motivo, da un corredo aploide noi otterremo un
corredo aploide.
MEIOSI I:
MEIOSI II:
nella seconda si separano i cromatidi fratelli (ricorda la mitosi).
Il crossing over.
L’ assortimento indipendente.
Un’altra condizione che si può verificare è quella del LAG ANAFASICO, in questo caso,
per un mal funzionamento del fuso mitotico, un cromosoma non viene trascinato
correttamente dalle fibre del fuso e quindi rimane un po’’ indietro. Può quindi accadere
che questo cromosoma durante la divisione cellulare venga perso.
LEGGI DI MENDEL
Mendel, senza avere idea di cosa fosse la mitosi e la meiosi (non ancora osservate), capì ed
intuì che il trasferimento delle informazioni da un organismo ad un altro era controllato da unità
discrete che oggi chiamiamo geni.
(Scoperta rivoluzionaria, in quanto prima si pensava avvenisse una sorta di
rimescolamento delle informazioni materna e paterna e che l’ereditarietà non fosse correlata
ai geni). Egli usava linee pure per un determinato carattere (omozigoti per un certo carattere)
che lui aveva ottenuto incrociando lo stesso tipo parecchie volte.
Spesso usava metodo di autofecondazione, in modo da essere certo di incrociare
individui che per quel determinato carattere erano identici.
Lavorava su grandi numeri (i suoi risultati avevano una rilevanza che oggi possiamo
definire statistica)
Lui prese varie linee pure che differivano per un carattere e poi fece moltissimi incroci. aveva
nei suoi esperimenti trovato dei caratteri che stanno tra di loro in rapporto di dominanza
recessività. La generazione F1, cioè la prima generazione filiale, era tutta identica
e presentava il carattere dominante. Gli individui della F1 erano tutti individui eterozigoti
che venivano incrociati tra di loro per ottenere la generazione F2, dove ricompariva il
carattere recessivo.
Data:14/11/2023 Prof.ssa: Francesca Magherini
Materia: Biologia Sbobinatori: V. Marsicano – M. Radino
Lezione n°: 14 parte prima Revisori: G.Musio - R.Orlando
Man mano che l’RNA polimerasi procede, il DNA si apre per circa 15 nucleotidi in modo da
permettere il passaggio dell’RNA polimerasi e la trascrizione del DNA in RNA. La direzione
della trascrizione è sempre 5’→3’, cioè i nuovi nucleotidi vengono aggiunti al 3’ ossidrile
del filamento in via di sintesi e l’RNA polimerasi si muove lungo il filamento stampo in
direzione 3’→5’ del filamento stesso. Si forma temporaneamente un ibrido DNA-RNA per
circa 6 basi. In questa fase c’è una complementarità tra le basi dell’RNA e del DNA che
rimangono temporaneamente legate tra di loro mediante legami idrogeno. Man mano che
l’RNA polimerasi procede vengono incorporati nuovi nucleotidi. L’RNA in via di sintesi esce
dalla bolla di trascrizione e l’RNA polimerasi procede in direzione 3’→5’ in modo tale da
trascrivere il filamento di DNA.
Terminazione
Ad un certo punto la trascrizione dovrà finire. Nei procarioti si riconoscono due processi di
terminazione:
• terminazione ρ dipendente, cioè dipendente da un fattore ρ che è una proteina
• trascrizione ρ indipendente
Nella trascrizione ρ indipendente, al livello del DNA, nella regione in cui la trascrizione
deve terminare, sono presenti delle sequenze ripetute e invertite, che sono dette
palindromiche.
Per ogni gene, un filamento funziona da stampo e l’altro invece sarà il filamento
codificante. Questo non vuol dire che dei due filamenti che compongono la doppia elica
del DNA, uno sia per tutti i geni quello codificante e l’altro sia per tutti i geni quello stampo.
A seconda del gene, il filamento codificante potrà essere o l’uno o l’altro. Nell’immagine
qui sopra si può vedere quale è il filamento stampo usato per il trascritto (rosa), il
promotore situato correttamente sul filamento codificante e la trascrizione avverrà da
destra a sinistra. Invece per un altro gene, il filamento codificante è quello viola.
L’importante è rispettare la direzione della trascrizione. Quando viene utilizzato l’altro
filamento, la direzione in cui si muove l’RNA polimerasi sarà opposta al caso precedente
perché la lettura del filamento codificante va sempre da 3’ → 5’, la trascrizione va da 5’ →
3’.
Nel caso dell’RNA polimerasi I, viene indicato il sito +1 che si trova all’interno di una
sequenza conservata, cioè, tutti i promotori dell’RNA polimerasi I hanno intorno al sito di
inizio di trascrizione, gli stessi nucleotidi o quasi sempre gli stessi. A monte c’è un
elemento di controllo a monte (UCE), “U” sta per upstream, è sempre situato nella
posizione tra -107 e -180 (le posizioni sono importanti per il riconoscimento da parte dei
fattori di trascrizione).
Nell’RNA polimerasi II non sono sempre tutti presenti gli elementi evidenziati nella figura
sopra (cioè BRE, TATA BOX, Inr, DPE). I promotori che presentano il TATA BOX non
presentono il DPE, (“D” sta per downstream, cioè a valle) e viceversa. Il sito di inizio della
trascrizione è generalmente affiancato da delle regioni ricche Py, cioè di pirimidine. A valle
del TATA BOX ci può essere una regione chiamata BRE, che è una ragione responsabile
del legame di un fattore di trascrizione importante. Tutta questa regione che è stata
descritta, che va dal BRE al DPE, si chiama promotore basale o promotore core. Indica
la regione minima indispensabile affinché la trascrizione possa avvenire. Se c’è questa
regione, l’RNA polimerasi si può legare tramite i suoi fattori di trascrizione e la trascrizione
può avvenire.
Questo non dice niente su quanto il promotore è facilmente riconosciuto dall’RNA
polimerasi e quindi quanto quel gene viene tradotto. L’RNA polimerasi si muove sempre
con la stessa velocità perché ha una processività intrinseca, polimerizza un certo numero
di nucleotidi nell’unità di tempo. Quello che dice che un gene è tanto espresso rispetto a
un gene poco espresso è con quanta facilità l’RNA polimerasi può riconoscere quel
promotore e quindi può trascrivere quel gene. Per cui, oltre ai promotori basali che
permettono in riconoscimento basale da parte dell’RNA polimerasi, cioè una trascrizione a
livello basale, ci sono degli elementi prossimali (per convenzione si trovano entro le 200
paia di basi a monte del sito di inizio) e degli elementi distali che, legandosi a fattori
regolativi, promuovono il legame dei fattori di trascrizione generali e facilitano il legame
dell’RNA polimerasi. In questo modo può avvenire una regolazione della trascrizione, cioè
rispetto al livello basale verrà facilitato il riconoscimento del promotore e
conseguentemente aumenterà il livello di trascrizione di un determinato gene, o viceversa
lo inibirà.
Nei promotori dell’RNA polimerasi il sito di inizio +1 si trova prima della sequenza che
viene riconosciuta dai fattori di trascrizione e dall’RNA polimerasi. Le sequenze
riconosciute sono il BOX A e il BOX B, per quanto riguarda i geni per il tRNA e il BOX A e
il BOX C per quanto riguarda i geni per l’RNA ribosomiale 5S (l’unico che era rimasto
fuori dai geni ribosomiali trascritti dall’RNA polimerasi I). Il fatto che siano a valle non è un
problema perché il complesso dei fattori di trascrizione dell’RNA polimerasi è molto grosso
e abbraccia un’ampia regione quando si lega al livello dell’RNA.
In questa immagine sono rappresentati dei fattori di trascrizione dell’RNA polimerasi II.
Queste regioni sono riconosciute da una serie di fattori di trascrizione che si legano in
sequenza. Il primo a legarsi è il TFIID, che contiene a sua volta al suo interno una
proteina, la TATA binding protein che è una proteina che lega la TATA BOX. Poi
progressivamente si legano tutti gli altri fattori. L’ultimo che si lega è il TFIIH. È
particolarmente importante perché questo fattore di trascrizione possiede sia un’attività
elicasica, cioè, permette di aprire la doppia elica del DNA, sia un’attività chinasica, cioè di
fosforilazione.
Successivamente si lega anche l’RNA polimerasi. L’RNA polimerasi II possiede nella
regione carbossi terminale un dominio, una regione che viene fosforilata dall’attività
chinasica del TFIIH e ciò rappresenta il segnale che dà il via alla trascrizione stessa.
Questo dominio carbossi terminale è importante perché durante la trascrizione verrà
ulteriormente fosforilato e questo sarà utile per il reclutamento di quei fattori che
serviranno per le maturazioni degli RNA, in particolar modo degli RNA messaggeri.
Data: 14/11/23 Prof.ssa Francesca Magherini
Gli enhancer e i silencer sono elementi di regolazione distali, presenti quindi oltre le 200
basi dal sito di inizio della trascrizione.
Gli enhancer intensificano la trascrizione, i silencer la inibiscono.
La loro caratteristica è che cooperano alla trascrizione di un gene anche ad elevate
distanze da quest’ultimo.
L’RNA presenta anche una regione carbossi-terminale, che viene fosforilata una prima
volta dal fattore di trascrizione H e in seguito una seconda volta. Queste fosforilazioni sono
molto importanti perché richiamano i complessi responsabili della maturazione dell’RNA
per diventare mRNA pronto alla traduzione.
MATURAZIONE DEGLI RNA
Gli rRNA e i tRNA, sia procariotici che eucariotici, e gli mRNA eucariotici necessitano di
alcune modifiche dopo la trascrizione per raggiungere una struttura finale adatta alla loro
funzione.
Fanno eccezione gli mRNA dei procarioti, che non subiscono nessuna modifica post-
trascrizionale, poiché la trascrizione e la traduzione avvengono contemporaneamente.
Nei procarioti le sequenze codificanti per i tRNA e quelle codificanti per gli rRNA sono
generalmente contenuti in un’unica unità di trascrizione, ripetuta più volte all’interno del
genoma.
Negli eucarioti tutti gli rRNA sono trascritti dall’RNA polimerasi I, ad esclusione del 5S,
trascritto dall’RNA polimerasi III. Questa trascrizione avviene all’interno della regione
fibrillare del nucleolo, dove i geni attivi per la trascrizione degli rRNA sono ripetuti centinaia
di volte e sono organizzati in raggruppamenti situati su 5 cromosomi. Questi geni sono
organizzati in unità di trascrizione trascritte singolarmente (azzurre in figura) e separate da
degli spaziatori non trascritti (neri in figura). In particolare ogni unità contiene delle regioni
specifiche che codificano per i 3 rRNA eucariotici (18S, 5.8S, 28S).
L’rRNA che si forma in seguito alla trascrizione però non è ancora maturo, poiché contiene
degli spaziatori trascritti da degradare.
Esistono tanti tipi di piccoli RNA, tra cui gli snoRNA (piccoli RNA nucleolari, “small
nucleolar RNA”), che sono responsabili della maturazione degli rRNA.
(Ci sono anche gli snRNA, che invece sono importanti per il processo di maturazione
dell’mRNA, partendo dal pre-mRNA)
Tutti questi piccoli RNA non lavorano mai da soli, ma si associano a delle proteine
formando dei complessi detti ‘ribonucleoproteici’, perché sono costituiti sia da
ribonucleotidi sia da proteine.
La professoressa usa come esempio per spiegare questa regolazione il snoRNA U20 responsabile della
metilazione e il snoRNA U68 responsabile della trasformazione dell’uridina in pseudouridina :
In particolar modo un piccolo RNA nucleolare chiamato U20 (la U sta ad indicare che sono
RNA ricchi di uracile) possiede una regione ‘box D’, in prossimità di questa regione è
presente una sequenza di nucleotidi che è complementare a delle regioni del rRNA 45S.
La metilazione avviene sempre sul 5 nucleotide a partire dal punto in cui si cominciano a
formare i legami a H tra i nucleotidi del snoRNA e quelli del rRNA 45S. Si arriva alla
conclusione che questa metilazione sia causata da un legame di alcune proteine con il
snoRNA (complesso ribonucleoloproteico).
Nei procarioti, come detto in precedenza, è presente un’unica sequenza che codifica per
più tRNA, che viene successivamente tagliata.
Negli eucarioti i tRNA sono codificati da geni presi singolarmente (nell’uomo i geni
codificanti per i tRNA sono 1300, mentre i tRNA codificati 46).
Il pre-mRNA o trascritto primario è molto più lungo dell’mRNA maturo poiché presenta
delle sequenze trascritte ma non tradotte, dette introni, da rimuovere.
POLIADENILAZIONE
Già vista in precedenza
La coda di A protegge l’mRNA maturo all’estremità 3’ poiché, anche se gli enzimi possono
attaccarla, le adenine che la costituiscono sono centinaia, quindi la degradazione è molto
lenta.
Nel DNA i geni eucariotici sono costituiti da regioni dette esoni, trascritte e tradotte in
proteine, e regioni generalmente più lunghe dette introni, che sono rimosse dallo splicing
dopo la trascrizione.
Come vengono riconosciuti gli introni?
Gli introni nella giunzione tra esone ed introne sono caratterizzati da delle sequenze
consenso, ovvero delle sequenze non esattamente uguali in tutti gli introni, ma che
presentano degli specifici nucleotidi che si trovano nella maggior parte dei casi (quelli rossi
nell’immagine).
Queste sequenze si trovano ad entrambe le estremità dell’introne, in particolare
all’estremità 3’ vi è anche una sequenza detta regione del sito di ramificazione, in cui è
sempre presente una adenina (quella rossa centrale) affiancata da delle specifiche
sequenze.
IL RUOLO DEGLI SPLICEOSOMI
Nella lezione precedente è stata affrontata la maturazione degli rRNA e dei tRNA,
sia negli eucarioti che nei procarioti. La maturazione dei pre-mRNA in mRNA è
invece un processo esclusivo degli eucarioti, poiché in essi trascrizione e
traduzione sono due eventi spazialmente e temporalmente separati. Nei procarioti,
invece, trascrizione e traduzione sono eventi contemporanei e che avvengono nello
stesso spazio, in quanto i procarioti sono sprovvisti della divisione del nucleo dal
citoplasma.
LO SPLICING
LA STRUTTURA DELL’INTRONE
LO SPLICEOSOMA
LA POLIADENILAZIONE
Oltre al cappuccio e alla coda, esistono altre regioni dell’mRNA che non vengono
tradotte in proteine: gli mRNA, anche quelli procariotici, presentano alle estremità 5’
e 3’ delle regioni non tradotte chiamate 5’UTR (UnTranslated Regions) e 3’UTR,
fondamentali per il riconoscimento dell’mRNA da parte dei ribosomi: quindi, le
sequenze UTR, nonostante non contengano l’informazione per la sintesi proteica,
sono comunque fondamentali per la traduzione.
Sia nei procarioti che negli eucarioti, infatti, l’inizio della trascrizione non coincide con
l’inizio della traduzione, ovvero il primo nucleotide trascritto non fa parte del primo
codone tradotto.
LO SPLICING ALTERNATIVO
Intorno alla metà degli anni 50 del Novecento cominciavano ad essere note le
informazioni su strutture, replicazione e trascrizione del DNA.
Era ancora dubbia, tuttavia, la relazione tra genotipo e fenotipo, ovvero come
esattamente l'informazione dei geni potesse influenzare struttura e funzionamento
delle proteine, responsabili del fenotipo. Furono di conseguenza condotti una serie di
esperimenti, innanzitutto per verificare la veridicità dell’ipotesi di un legame genotipo-
fenotipo, e, conseguentemente, per comprenderne le specifiche correlazioni.
Con tale sistema i due ricercatori produssero tanti tipi diversi di mutanti e riuscirono
a stabilire una relazione stretta tra tipo di mutante ed enzima alterato.
Prendiamo come esempio un mutante dell’arginina. Nell’immagine che segue è
illustrata la via metabolica che permette a neurospora non mutata di sintetizzare
arginina.
L’arginina può essere sintetizzata a partire dal glutammato, per mezzo degli enzimi
E, F, G e H, i quali catalizzano le reazioni di sintesi dei vari intermedi di tale via
metabolica.
Se neurospora mutata cresce solo in terreno con arginina aggiunta, ciò significa che
un enzima di tale via metabolica è stato coinvolto dalla mutazione: furono individuati
quattro mutanti diversi, uno per ciascun enzima ( E, F, G oppure H) mutato.
Tale correlazione fu poi estesa, per arrivare alla formulazione più generale un gene-
una proteina. Questo avvenne grazie agli esperimenti di Pauling sull’emoglobina.
Pauling condusse anche studi per caratterizzare i genotipi delle persone affette da
anemia falciforme utilizzando l’elettroforesi: la catena beta dell’emoglobina, se
sottoposta ad una differenza di potenziale e quindi immersa in un campo elettrico, in
un supporto adeguato, migra. Colorando le proteine, possiamo analizzarne il
tracciato: la catena beta
dell’emoglobina di un
individuo affetto da
anemia falciforme,
omozigote recessivo ,
forma un’unica banda,
diversa da quella di un
individuo sano non
portatore di malattia,
omozigote dominante. Il
tracciato elettroforetico
di un individuo sano ma
portatore di malattia,
essendo invece eterozigote, presenta due bande differenti, una uguale alla banda
dell’omozigote dominante sano, l’altra uguale alla banda dell’omozigote recessivo
malato.
Dato che si sapeva che l’anemia falciforme fosse una malattia genetica, fu dunque
confermata la relazione tra un gene e una proteina.
L’aspetto da chiarire, tuttavia, rimane il legame tra una data sequenza nucleotidica
(quella del DNA trasferita all’mRNA) e la sequenza amminoacidica di una proteina.
Tale passaggio, in quanto implica un cambiamento di linguaggio (da nucleotidi ad
amminoacidi), è dunque chiamato traduzione. La traduzione è regolata da un
insieme di regole racchiuse nel codice genetico.
IL CODICE GENETICO E LA
TRADUZIONE
ESPERIMENTO DI CRICK E BENNER
L’esperimento che permise di comprendere che il codice genetico era diviso in
triplette, ridondante e privo di punteggiatura fu quello effettuato da Crick e Brenner. I
due studiosi utilizzarono nei loro esperimenti i fagi, cioè virus che infettano i batteri,
poichè avevano osservato che se questi venivano trattati con una molecola detta
proflavina, si ottenevano dei mutanti che erano dovuti all’inserzione o alla
delezione di una base.
Crick e Brenner andarono a selezionare selettivamente i mutanti di un gene (r2)
perchè i mutanti di questo gene non erano più in grado di infettare e di duplicarsi in
un ceppo di Escherichia coli K, mentre mantenevano le proprie proprietà nel ceppo B
di Escherichia coli. Questa differente caratteristica permetteva sia di identificare
chiaramente i mutanti del gene r2, sia di recuperare i mutanti in un ceppo di
Escherichia coli B per effettuare esperimenti successivi.
I due scienziati ottennero una serie di mutanti, come si può osservare nell’immagine
di seguito.
Per comprendere a pieno l’esperimento è utile servirsi di un’analogia: la delezione o
l’inserzione di una base determina la perdita di senso di una frase compiuta, la quale
è organizzata in parole di tre lettere; queste tre lettere corrispondono ai tre nucleotidi
di una tripletta.
In alto si può vedere la sequenza nucleotidica del ceppo wild type, quello non
mutato. Loro ottennero dei mutanti di tre tipi: a mutazione singola, di inserzione e di
delezione. Si accorsero che questi mutanti non erano più in grado di duplicarsi nel
ceppo K, quindi erano mutanti del gene R2.
Quindi la mutazione per inserzione e per delezione causa un cambiamento nella
“cornice di lettura” rendendo la frase che prima aveva senso compiuto (in verde),
incomprensibile.
Conclusioni:
Poiché con tre mutazioni dello stesso tipo si riotteneva il fenotipo wild-type, cioè la
cornice di lettura corretta, sia che queste siano tutte delezioni o inserzioni, si deduce
che il codice genetico venga letto a triplette, senza nucleotidi spaziatori, cioè non
utilizzati, e ridondante. Quindi grazie a questo esperimento, Crick e Brenner furono
in grado di individuare delle caratteristiche del codice genetico, che vennero
verificate successivamente con altri esperimenti.
CODICE GENETICO
1. Il codice genetico non è sovrapposto. Ciò significa che le triplette sono lette le
une dietro le altre, per cui ogni nucleotide appartiene a un solo codone;
2. Il codice genetico è sovrapposto, per cui si scorre non di tre posti, ma di un
solo posto o di due, come avviene nell’immagine. Per cui uno stesso
nucleotide fa parte di più codoni.
L’esperimento venne ripetuto in seguito con due amminoacidi diversi. Infatti, siccome
l’enzima utilizzato univa i nucleotidi in maniera casuale e non sequenziale,
determinando tutte le combinazioni possibili a 3 si ottenevano tutte queste possibilità
mostrate in figura. In tutto sono 8, prendendo per esempio adenina e citosina.
Possiamo sapere a cosa corrisponde la tripletta AAA e la CCC dagli esperimenti
precedenti, ma non conosciamo quali combinazioni vengono utilizzate per
sintetizzare i vari amminoacidi. Dato che l’enzima li unisce casualmente, non è
possibile risalire dall’amminoacido alla specifica tripletta.
Quindi finché non si fu in grado di sintetizzare triplette di nucleotidi a sequenza
definita, non fu possibile procedere ulteriormente nella decodifica del codice
genetico.
Andando quindi a valutare la posizione della radioattività, se sotto o a livello del filtro,
nei vari casi, fu possibile stabilire le esatte corrispondenze tra le triplette di nucleotidi
e gli amminoacidi e quindi decodificare complessivamente il codice genetico.
Dalla combinazione degli esperimenti di Khorana e del gruppo di Nirenberg si potè
risalire alla decifrazione di tutto il codice.
CARATTERISTICHE DEL CODICE GENETICO
LA TRADUZIONE
Gli attori principali del meccanismo di traduzione sono: ribosomi, tRNA e mRNA.
FASE ATP-DIPENDENTE
LA TRADUZIONE
ATTORI PRINCIPALI DELLA TRADUZIONE
Gli attori principali della traduzione sono i ribosomi, il tRNA e l’mRNA.
Ribosomi
I ribosomi sono degli organuli che si trovano nel citoplasma; sono composti da due
subunità, una minore e una maggiore, che sono dissociate tra loro e che si uniscono solo
durante la sintesi proteica.
tRNA
Nell’immagine a lato è possibile notare sia
la struttura tridimensionale del tRNA, sia
una struttura planare, detta a trifoglio.
Questa struttura deriva da una
rappresentazione planare dove vengono
evidenziate delle regioni a doppio
filamento.
mRNA
La porzione codificante dell’mRNA inizia sempre con il codone AUG (codone che codifica
per la metionina) e termina con uno dei tre codoni di stop (UAG, UAA, UGA); al 5’ e al 3’ si
trovano delle regioni UTR (untranslated region) che non codificano per la proteina, ma che
sono importanti per il riconoscimento da parte del ribosoma. Queste regioni UTR sono
presenti sia negli mRNA dei procarioti che degli eucarioti (in questi ultimi, inoltre, saranno
presenti sia il capping al 5’ e la coda di Poli A al 3’).
Ogni ciclo di allungamento impiega 1/20 s di cui la maggior parte del tempo è persa alla
ricerca del corretto tRNA iniziale.
TERMINAZIONE
Recentemente sono stati scoperti due amminoacidi in più rispetto ai 20 canonici che
ritroviamo nelle proteine. Erano infatti note delle proteine degli archea che contenevano un
amminoacido insolito, la pirrolisina e delle proteine presenti negli eucarioti e negli
eubatteri che contenevano un altro amminoacido insolito, la selenocisteina, contenente il
selenio.
Si pensava che queste proteine fossero proteine modificate, cioè che derivassero da
modificazioni post traduzionali; tuttavia, è stato scoperto che questi amminoacidi vengono
codificati dal codice genetico.
LE MUTAZIONI
Esistono oltre cento enzimi coinvolti nei meccanismi di riparazione, tuttavia con bassa
frequenza possono insorgere delle mutazioni nel genoma, dovute non solo ad errori nella
duplicazione ma anche ad agenti mutageni esterni, come ad esempio le radiazioni.
• Sostituzione
• Delezione
• Inserzione
In base al fatto che una base venga sostituita con un’altra, eliminata completamente, o se
ne inserisca una nuova.
Nella sostituzione di una base possono accadere diverse cose al fenotipo proteico:
Nelle mutazioni samesense (o silenti) a causa della ridondanza del codice genetico si
viene a creare un codone che codifica lo stesso amminoacido, per cui non ci sono effetti
sulla proteina
3. Mutazione nonsenso
Un3. codone per nonsenso
Mutazione un amminoacido viene sostituito da un codone di stop; ciò determina una
terminazione precoce della sintesi proteica e conseguentemente la proteina sarà più corta di tot
Un codone
Nelle per un
mutazioni amminoacido
nonsenso viene sostituito
un codone da per
un un
codone di stop; ciò determina
sostituitouna
amminoacidi, a seconda del punto in cui è che codifica
avvenuta amminoacido
la sostituzione. viene
terminazione
da un codone precoce della sintesi proteica e conseguentemente la proteina sarà
di stop; ciò determina una terminazione precoce della sintesi proteica più cortae di tot
ne tra il genotipo e
amminoacidi, a seconda del puntosarà
in cuipiù
è avvenuta la sostituzione.
conseguentemente la proteina corta di tot amminoacidi, a seconda del punto in
e di un individuo
cui è avvenuta la sostituzione.
me:
azione che abbiamo
Mutazioni frameshift
Ci sono poi un altro tipo di mutazioni, chiamate mutazioni frameshift o mutazioni per
scivolamento del codice di lettura. Immaginiamo quello che succede se inserisco o tolgo un
Mutazioni
Mutazioni Frameshift
frameshift
nucleotide rispetto alla lettura del codice genetico: siccome le triplette vengo lette 3 a 3, se
Ci sono poi un altro tipo di mutazioni, chiamate mutazioni frameshift o mutazioni per
Sono mutazionidel
scivolamento particolarmente gravi, Immaginiamo
codice di lettura. in quanto l’inserzione o la delezione
quello che succede se di un nucleotide
inserisco portaun
o tolgo
Pag. 8 di 20
ad uno scivolamento
nucleotide della
rispetto alla cornice
lettura deldi codice
lettura:genetico:
da quel punto in poiletutti
siccome i codoni
triplette saranno
vengo lettesfasati
3 a 3,dise
un nucleotide, formando codoni totalmente diversi e di conseguenza si originerà una proteina
diversa. Pag. 8 di 20
inserisco o tolgo un nucleotide, dal punto di inserzione o di delezione avrò uno scivolamento del
codice di lettura. Osserviamo l’immagine: nell’immagine viene eliminata una C; mentre prima
venivano letti i codoni AGC, CAC ecc., ora, togliendo quella base leggeremo AGC, che viene
comunque letto come serina, ma il codone successivo è diventato ACA, che corrisponde alla
treonina. Si è quindi scorso il codice di lettura di un nucleotide e conseguentemente tutti gli altri
LE DELLEAPROTEINE
seguito
Vediamodella
ora sintesi proteica
un esempio la proteina
interessante di si ripiega assumendo la sua conformazione
tridimensionale
una mutazionee viene di sensoindirizzata ad uno
della catena β specifico compartimento cellulare. Tratteremo
quindi
oni che riguardano quattroladiversi
dell’emoglobina che punti:
comporta l’insorgenza
modalità con cui le proteine vengono
di una patologia chiamata anemia
nuli all’interno della cellula, come vengono modificate, come
1. Folding
falciforme.
particolare, analizzeremo delle
Essendo
4 puntiproteine
una mutazione di
che fanno parte del cosiddetto
senso, un codone per l’acido glutammico
oteine”.
viene mutato in un codone per la valina.
Il primo punto riguarda il ripiegamento delle proteine, detto anche folding. L’aspetto dello
Quindi, le catene β dell’emoglobina
ne studio del folding proteico è un aspetto estremamente importante; dobbiamo infatti
(l’emoglobina presente due catena α e due
mento delle considerare
proteine, che tuttaanche
detto una serie di patologie
folding. derivano
L’aspetto dellodastudio
un ripiegamento erroneo delle
β) conterranno questa mutazione.
o estremamenteproteine,importante;
come il Parkinson dobbiamoe l’Alzheimer. Se le proteine che
infatti considerare non si ripiegano correttamente,
ossia non assumono la struttura
vano dal mal ripiegamento delle proteine come il Parkinson otridimensionale corretta, possono precipitare o all’interno
si “foldano”dellecorrettamente,
cellule o al di fuoriossia di esse,
non formando
assumono degli aggregati
la strutturache vanno a rendere il tessuto
(nel caso delle patologie sopracitate
o precipitare o all’interno delle cellule o al di fuori di esse, il tessuto nervoso) completamente disfunzionali.
nno a rendere il tessutostabilire
(nel caso delle patologie sopracitate il
disfunzionali.Lo Possiamo
studio delcosì ripiegamento unadelle
relazione tra il ha
proteine genotipo
inizio enel 1957, quando Anfisen fece degli
il sulla
fenotipo a livello A, molecolare di ossia
un individuo
roteine hastudi inizio nel
eterozigote
ribonucleasi
1957,
per quando
la patologia
un uno
RNAasi, scienziato, un Anfisen,
enzima che
in esame:(124 amminoacidi)
degrada l’RNA. Si tratta di un
fece
RNAasi, enzima molto piccolo di dimensioni contenente quattro ponti disolfuro.
● Il genotipo presenta la mutazione che abbiamo
’RNA. Si visto
ccolo di ● Il fenotipo molecolare a livello delle proteine
ntenente emoglobina, presenta alcuni globuli rossi
normali, mentre altri presentano la tipica
nzima in struttura “a falce” che dà il nome alla
mente si patologia; questi individui presentano quindi
urea, un una parte di emoglobina funzionale e una
causa la parte disfunzionale. Quindi il fenotipo è una
nsionale proteina con la sostituzione
valutare glutammico-valina.
etri:
l’attività L’emoglobina di questi globuli rossi non è più in grado di trasportare l’ossigeno e i globuli rossi
proteina tendono a precipitare a livello dei capillari, dando complicazioni. Gli individui eterozigoti sono però
perfettamente sani: il fenotipo dei globuli rossi è sano perché se non sono in condizioni particolari
Questo
rché man mano che scienziato
l’enzimamisesiquesto enzima
denatura, in una soluzione
le proteine in cui progressivamente si
denaturate
aumentava la concentrazione
ro e la soluzione diventa più viscosa. dell’urea, un agente
Pag. denaturante
9 di 20 (ossia che causa la perdita
della struttura tridimensionale delle proteine) e andò a valutare contemporaneamente due
o che aumenta la concentrazione dell’agente denaturante,
parametri:
la viscosità, fino a che l’attività cala quasi a 0. Se rimuovo
urante l’enzima riesce poi a riacquistare la sua attività e la sua
significa che, in vitro, nella sequenza primaria della proteina c’è
uttura tridimensionale.
cune proteine di piccole dimensioni, è possibile compiere questa
che se vengono denaturate e se si rimuove l’agente denaturante,
na guida l’acquisizione della struttura tridimensionale e quindi il
● L’attività dell’enzima perché se l’attività diminuisce vuol dire che la proteina viene
degradata
● La viscosità della soluzione perché man mano che l’enzima si denatura, le proteine
denaturate tendono ad aggregarsi tra di loro e la soluzione diventa più viscosa.
Anfisen osservò che man mano che aumenta la concentrazione dell’agente denaturante,
diminuisce l’attività e aumenta la viscosità, fino a che l’attività cala quasi a 0. Se rimuovo
progressivamente l’agente denaturante l’enzima riesce poi a riacquistare la sua attività e la
sua struttura tridimensionale. Questo significa che, in vitro, nella sequenza primaria della
proteina c’è scritto quale deve essere la sua struttura tridimensionale. Vediamo quindi che
in vitro, per alcune proteine di piccole dimensioni, è possibile compiere questa tipologia di
esperimenti perché anche se vengono denaturate e se si rimuove l’agente denaturante,
la sequenza primaria della proteina guida l’acquisizione della struttura
tridimensionale e quindi il folding.
Tuttavia, in vivo, questo avviene in maniera molto più complessa, infatti, l’ambiente
cellulare è molto “affollato”: ci sono centinaia di migliaia di ribosomi che sintetizzano molte
proteine contemporaneamente per cui le proteine nascenti in forma denaturata potrebbero
anche interagire tra di loro, formando degli ammassi di proteine denaturate. In vivo ci sono
quindi dei meccanismi che coinvolgono delle proteine che vengono chiamate chaperoni
molecolari che guidano il folding e fanno in modo che le proteine trovino la loro struttura
tridimensionale ottimale, ossia quella funzionale poiché impediscono loro di interagire con
altre proteine.
Gli chaperoni molecolari, ad esempio quelli della famiglia dell’Hsp70, legano la proteina
quando questa emerge dal ribosoma e la mantengono in forma denaturata; in questo
modo, la proteggono dall’interazione con altre proteine fino a quando tutta la sintesi
proteica non si è conclusa. La sintesi proteica andrà avanti, delle chaperonine
legheranno la proteina nascente e solo alla fine, quando tutta la proteina sarà stata
sintetizzata, potrà assumere la sua struttura tridimensionale.
Le chaperonine hanno invece una tipica struttura a barilotto che contiene due anelli
costituiti da sette subunità e un cappuccio. All’interno di questa struttura vengono accolte
le proteine neosintetizzate e qui possono acquisire la loro conformazione tridimensionale
separate dalle altre proteine del citosol. Queste strutture rappresentano delle specie di
“camere di folding” dove le proteine neosintetizzate possono entrare e strutturarsi.
Il meccanismo che si pensa che avvenga è quello raffigurato nell’immagine: la proteina
nascente viene legata dagli chaperoni che ne impediscono il contatto con altre proteine e
poi successivamente la proteina o si ripiega semplicemente con l’aiuto degli chaperoni
oppure, sempre legata dagli chaperoni Hsp70, entra all’interno della chaperonina, dove
assume la sua conformazione tridimensionale.
Nei batteri l’85% delle proteine si ripiega spontaneamente o con l’aiuto degli Hsp70. Le
restanti proteine necessitano di un ambiente più isolato per il loro ripiegamento, come
quello creato dalle chaperonine, mentre negli eucarioti circa l’80% delle proteine usa le
chaperonine.
2. Meccanismi e vie di smistamento delle proteine
Per quanto riguarda la via citosolica, questa inizia e termina sui ribosomi liberi. In questo
caso le proteine che hanno come destinazione nucleo, mitocondri, cloroplasti o
perossisomi vengono sintetizzate interamente nel citoplasma.
Perché da un punto di vista molecolare queste proteine vanno a finire in specifici distretti
cellulari? Questo perché le proteine presentano un peptide segnale, cioè una regione,
spesso situata all’N-terminale, che segnala il destino finale della proteina stessa. Queste
sequenze N-terminale verranno poi rimosse.
Nel caso delle proteine destinate al reticolo endoplasmatico e da qui a tutta la via
vescicolare presentano una specifica sequenza all’N-terminale che normalmente verrà
rimossa. Le proteine destinate al mitocondrio e ai cloroplasti hanno una specifica
sequenza N-terminale anch’essa rimossa. Per i perossisomi possiamo avere una
sequenza o al C-terminale o all’N-terminale che di solito non viene rimossa. Le proteine
destinate al transito
“Biologia” - Lezione n°18 attraverso i pori nucleari presentano una sequenza interna che non
viene rimossa.
LA VIA VESCIOLARE
Il nucleo presenta numerosi pori nucleari attraverso i quali generalmente possono passare
molecole. Le proteine che passano liberamente devono avere un segnale di localizzazione
nucleare,
LA dato da amminoacidi carichi positivamente (lisina e arginina) che non vengono
VIA VESCIOLARE
rimossi. Le proteine di piccole dimensioni (più o meno inferiori ai 40 KD) passano
liberamente, mentredestinate
1. Proteine quelle di piùalgrande
nucleodimensione, hanno bisogno di meccanismi di
trasporto specifici. Vediamo ora come avviene il trasporto d
verso il nucleo.
Il nucleo presenta numerosi pori nuclea
quali generalmente possono passare
molecole e proteine di piccole dime
meno inferiori ai 40 KD). Le proteine
liberamente devono avere un
localizzazione nucleare. Le proteine d
dimensione, come la maggior parte d
devono essere esportati dal nucleo a
hanno bisogno di meccanismi di traspor
Il traffico attraverso i pori nucleari è bid
Questi meccanismi di trasporto attra
nucleare sono mediati da delle proteine
le importine e le esportine.
Pag. 16 di 20
Il traffico attraverso i pori nucleari è bidirezionale. Questi meccanismi di trasporto
attraverso il poro nucleare sono mediati da delle proteine di trasporto, le importine e le
esportine.
Generalmente, le importine mediano il trasporto all’interno del nucleo, mentre le esportine
quello verso l’esterno. Non è una regola generale perché alcune possono funzionare a
seconda delle proteine in un senso o nell’altro. Quello che regola la direzione del
trasporto, infatti, non sono queste proteine ma la disponibilità di una piccola proteina G,
detta Ran, legata al GTP (Ran-GTP). Anche questa nuova proteina legante il GTP rientra
in quella vasta gamma di proteine leganti il GTP con ruoli di trasporto o trasferimento,
idrolizzando il GTP in GDP.
Nell’importazione la proteina che deve essere trasportata all’interno del nucleo contiene
una sequenza di trasferimento nucleare chiamata NLS (quella in azzurro nell’immagine).
Questa proteina si lega quindi ad un’importina che riconosce la proteina cargo (ossia
quella da trasportare), che sarà trasportata all’interno del nucleo. Qui, la dissociazione
importina-proteina cargo è mediata dalle proteine Ran-GTP che si lega al complesso,
determinando il rilascio della proteina cargo. A questo punto l’importina deve essere
riportata nel citoplasma perché il meccanismo possa continuare; questo trasporto è
mediato sempre dal Ran; questo complesso passa attraverso il poro nucleare, il GTP
viene idrolizzato a GDP e a questo punto l’importina viene liberata e il ciclo può
ricominciare.
Con un meccanismo del tutto simile avviene anche l’esportazione; quello che esce è
legato al Ran-GTP. In questo caso interviene un’esportina che viene legata ad una
proteina che possiede una sequenza di esportazione nucleare, la NES. Nell’immagine
sotto viene fatto l’esempio che la proteina cargo sia una proteina responsabile del
trasporto del complesso RNA-proteina; quindi, questo complesso si lega all’esportina, il
tutto viene trasportato fuori e poi, la presenza delle proteine che stimolano l’attività
GTPasica nel lato citosolico, causano l’idrolisi del GTP a GDP; si riforma così l’esportina
libera che poi
“Biologia” può ritornare
- Lezione n°18 all’interno del citoplasma.
Alcune proteine possono avere entrambe le sequenze, per entrare e successivamente
uscire dal nucleo
funziona perfettamente perché se prendiamo
una sequenza segnale mitocondriale e la
mettiamo in una proteina che normalmente sta
nel citoplasma, questa proteina va a finire nel
mitocondrio. Ad esempio, sperimentalmente,
per visualizzare i mitocondri, può essere
2. inserita
Proteine destinate al mitocondrio
all’interno delle cellule una proteina
fluorescente, il GFP, con la sequenza di
Le proteine destinate almitocondriale.
localizzazione mitocondrio possiedono una regione all’estremità N-terminale di
una serie di amminoacidi generalmente basici (arginina e lisina) seguita poi da altri
A livello dei mitocondri, le proteine possono
amminoacidi. A livello dei mitocondri, le proteine possono essere o proteine di membrana
essere o proteine di membrana o proteine della
o proteine della matrice mitocondriale.
matrice mitocondriale.
A livello della membrana mitocondriale esterna esiste un traslocatore, ossia un complesso
proteico di cui vi è una parte che funziona da recettore della proteina da importare e una
parte simile a un canale che funziona per traslocare la proteina dal citoplasma nel
mitocondrio. Questa struttura è abbastanza piccola come dimensioni, per cui le proteine vi
passano in forma denaturata: le proteine destinate al mitocondrio non assumono quindi
una loro conformazione tridimensionale e perciò sono legate agli chaperoni molecolari.
A questo punto, la proteina entra all’interno del mitocondrio e se è destinata alla matrice
passerà anche attraverso un secondo complesso di traslocazione presente a livello della
trasportomembrana
citoplasma-mitocondrio.
mitocondriale interna (complessi TOM e TIM), dove verrà tagliato il peptide
ndriale segnale.
ssia un
a parte
eina da
canale
ina dal
Questa
come
assano
stinate
ndi una
ale nel
maniera
to sono
entra
stinata
erso un
cazione
mbrana
TOM e
peptide
ndriali,
Pag. 19 di 20
Degli chaperoni mitocondriali, diversi da quelli citosolici, assisteranno la proteina nella sua
acquisizione della struttura tridimensionale definitiva.
Se la proteina è destinata a diventare una delle numerose proteine di membrana
mitocondriale interna, questa possiederà, oltre alla sequenza di localizzazione
mitocondriale, una sequenza di arresto a livello della neomembrana mitocondriale interna;
sono sequenze ricche di amminoacidi idrofobici. Questa proteina sarà traslocata
attraverso un secondo complesso (TIM 22).
Nel caso in cui c’è una proteina intrinseca (vedi immagine), si fonderanno delle
vescicole con le cisterne del Golgi (la proteina potrà essere anche modificata), e al
termine, quando questa vescicola si fonderà con la membrana plasmatica, questa
proteina rimarrà una proteina intrinseca di
membrana.
In questa immagine si capisce anche come
vengono create le proteine di secrezione
(es: proteina della matrice extracellulare,
ormoni di natura proteica, come l’insulina),
in quanto le proteine sintetizzate nel
reticolo endoplasmatico possono essere
introdotte all'interno di una vescicola, che si
andrà a fondere con le cisterne del Golgi e
la proteina sarà qui modificata.
Successivamente una vescicola di
indirizzamento finale la porterà alla
membrana plasmatica, dove la proteina di
secrezione verrà rilasciata.
Non ci sono vie diverse per introdurre o espellere proteine dalla cellula.
Le proteine estrinseche interne alla membrana vengono invece sintetizzate sui
ribosomi liberi e poi interagiscono con la membrana stessa.
Le proteine estrinseche che si attaccano alla membrana nel lato extracellulare
seguiranno il meccanismo precedentemente descritto
Parte della via secretoria non comprende soltanto la membrana, ma anche i lisosomi.
Essi si formano nel Golgi e derivano da queste vescicole (endosomi) e acquisiscono
un ph acido, insieme ai rispettivi enzimi lisosomiali. Come sono indirizzati nei lisosomi
gli enzimi lisosomiali?
Gli enzimi lisosomiali presentano tutti un marker specifico, rappresentato da un
residuo di zucchero, il mannosio, che viene fosforilato. Tutti gli enzimi che andranno
a finire nei lisosomi saranno prima sintetizzati nel reticolo endoplasmatico, e
successivamente saranno N-glicosilati. La catena oligosaccaridica viene fosforilata e
viene aggiunto un mannosio fosforilato. Questa proteina migrerà fino al Golgi trans,
dove ci saranno dei recettori a livello della membrana che riconosceranno le proteine
contenenti il mannosio
fosforilato.
Si formerà una vescicola
ricoperta da clatrina e così
viene condotta ai lisosomi. La
vescicola si fonde con i
lisosomi stessi e la proteina
viene rilasciata. Le vescicole
che mediano il trasporto
torneranno poi al Golgi e si
avrà la maturazione
dell’endosoma tardivo in
lisosoma maturo.
E’ un meccanismo molto
interessante che è stato
studiato per molti anni, in quanto diversi virus possono entrare all’interno delle cellule
umane attraverso endocitosi mediata da recettore. Le cellule umane ovviamente
non hanno i recettori per il virus in sé, ma hanno recettori per qualcos’altro (una
componente fisiologica della cellula), che viene sfruttato dal virus per entrare nella
cellula. Questo spiega la specificità dei virus, in genere varia da specie a specie, e
anche all’interno di una stessa specie varia da tessuto a tessuto (es: è il motivo per il
quale un virus colpisce la parte alta delle vie respiratorie e non
altre zone).
La riproduzione
La professoressa ricorda, come già detto in precedenza, che i procarioti si dividono per
scissione binaria e poiché sono organismi unicellulari, la riproduzione dell’organismo
coincide con la divisione cellulare: prima della divisione il DNA si duplica, tuttavia non
parliamo di mitosi in quanto questa è un processo molto organizzato che prevede la
formazione del uso mitotico, la presenza dei centri di organizzazione dei microtubuli ecc,
eventi che non avvengono per l’appunto nei procarioti. Nonostante ciò, anche i batteri
hanno possibilità di evoluzione grazie alla variabilità genica data dalla coniugazione, dalla
trasduzione e dalla trasformazione
La riproduzione asessuata
Alla base della riproduzione asessuata vi è una duplicazione del DNA e una divisione
cellulare mitotica, meccanismo che non prevede nessuna variabilità genica ed è quindi un
meccanismo che crea individui esattamente identici a quello da cui sono derivati. Negli
eucarioti ci sono diversi meccanismi di riproduzione asessuata tra cui
● Scissione: riguarda soprattutto organismi eucarioti monocellulari, come le
amebe e i parameci. Gli anemoni di mare (organismi pluricellulari) vanno
invece incontro ad una scissione dell’intero organismo
La riproduzione sessuata
La riproduzione sessuata è caratterizzata da due meccanismi principali
1. La produzione dei gameti, la quale avviene durante i processi di meiosi e
gametogenesi
2. La fecondazione, ossia l’incontro tra la cellula uovo e lo spermatozoo e il
successivo sviluppo dell’embrione
Per quanto riguarda vantaggi e svantaggi, essi sono esattamente gli opposti di quelli della
riproduzione agamica: qui infatti è presente un’alta variabilità genica ma è un processo
molto dispendioso a livello energetico, motivo per cui anche il successo riproduttivo può
essere minore.
Nella maggior parte delle specie animali i sessi sono separati, tuttavia in natura ci sono
molti esempi di specie in cui non è così: ci sono, infatti, numerosi invertebrati che sono
ermafroditi, ossia hanno entrambe le gonadi . Generalmente la fecondazione è incrociata
(ermafroditismo insufficiente) ma talvolta si hanno meccanismi di autofecondazione
(ermafroditismo sufficiente); inoltre l’ermafroditismo può essere simultaneo, ossia le
gonadi maschili e femminili raggiungono lo sviluppo contemporaneamente, oppure può
essere sequenziale, cioè le gonadi maturano in tempi diversi (l’organismo avrà una fase
della vita in cui produce cellule uovo e sarà quindi femmina ma avrà anche una fase in cui
produce spermatozoi e sarà quindi maschio). Ad esempio ci sono diverse specie di pesci
che vivono in un branco costituito esclusivamente da femmine e un solo maschio di
dimensioni più grandi: se il maschio dovesse morire, la femmina con le dimensioni
maggiori sviluppa le gondi maschili mentre quelle femminili regrediscono (il cambiamento
è determinato da condizioni esterne). Un altro esempio è il pesce pagliaccio: alla nascita
tutti sono maschi ma poi, all’aumentare delle dimensioni, si sviluppano le gonadi femminili
e regrediscono quelle maschili.
Esiste poi la partenogenesi che prevede lo sviluppo di un organismo a partire da un uovo
non fecondati ed è molto frequente negli insetti e nei rettili. L’esempio più comune è quello
delle api in cui il fuco nasce da un uovo non fecondato ed è aploide. Questo fenomeno è
stato osservato anche tra le femmine di squalo in cattività ma in questo caso gli organismi
generati non sono aploidi: durante la meiosi infatti vi è una fusione tra le due cellule figlie
generate inizialmente e conseguentemente l’organismo risulta diploide (ovviamente gli
organismi nati per partenogenesi in questo caso saranno tutte femmine perché nascono
da sole femmine).
La gametogenesi
La gametogenesi ci racconta le modifiche morfologiche che portano alla formazione dei
gameti, ci spiega le tempistiche che vi intercorrono (come la regolazione ormonale ecc) e
ci permette di inquadrare la produzione del gamete stesso all’interno della fisiologia
dell’organismo
Nella parte alta dell’immagine è rappresentata la formazione degli spermatozoi: alla fine
della meiosi II si formano quattro cellule dette spermatidi (aploidi e diverse tra di loro a
causa degli eventi di ricombinazione) che però sono ancora estremamente diverse dagli
spermatozoi veri e propri. Infatti essi andranno poi incontro ad un processo dei
spermioistogenesi, ossia modificazioni profonde da cui si formeranno cellule flagellate con
una testa in cui è assente il citoplasma ed è presente solamente il DNA fortemente
condensato.
Nella parte bassa invece è rappresentata la formazione dei gameti femminili: qui al
termine della meiosi II non si avranno quattro cellule tutte uguali, bensì si avrà una cellula
uovo di grande dimensione (destinata al processo di fecondazione) e tre globuli polari
destinati a degenerare e perciò l’ovogenesi genera un solo gamete. La cellula uovo ha
dimensioni importanti perché contiene tutto il materiale citoplasmatico destinato alle
successive cellule figlie, compresi organelli, vescicole, proteine…(lo spermatozoo non
contiene citoplasma)
La spermatogenesi
Nella spermatogenesi possono essere distinte tre fasi
1. Fase mitotica: gli spermatozoi vengono prodotti in grandi quantità per tutto il corso
della vita. Ovviamente essi derivano per meiosi da una cellula della linea germinale:
un processo mitotico mantiene il pull delle cellule germinali che possono essere di
fatto cellule staminali (possono generare altre cellule mantenendo il pull delle
cellule iniziali). Nel caso specifico, quando una cellula germinale si divide e forma
due cellule figlie, una sola di queste va incontro alla meiosi per dare luogo ai gameti
mentre l’altra rimarrà cellula germinale e così via. Questa fase serve quindi per
garantire una continua produzione di spermatozoi
2. Meiosi vera e propria
3. Spermioistogenesi
Inizialmente le cellule della linea germinale che si riproducono per mitosi si chiamano
spermatogoni:
La spermioistogenesi
I cambiamenti che subiscono gli spermatidi per diventare spermatozoi maturi, sono
cambiamenti molto profondi poiché tutto il citoplasma viene eliminato e nella testa degli
spermatozoi si trova un nucleo con DNA estremamente compattato (la maggior parte
degli istoni sono sostituiti da proteine ancora più basiche dette “protammine” le quali
permettono una grande condensazione della cromatina); oltre al nucleo, sempre nella
testa, è possibile osservare l’acrosoma, una struttura che deriva dalle vescicole del
Golgi trans e che contiene enzimi lisosomiali. Il rilascio di questi enzimi sarà importante
perché permetterà allo spermatozoo di entrare all’interno della cellula uovo.
Alla testa è connesso il flagello attraverso un tratto intermedio in cui ci sono i
mitocondri: il flagello è costituito dalla struttura dei microtubuli con l’organizzazione 9+2
(vedi lezione sul citoscheletro).
Altra caratteristica fondamentale è
rappresentata dal fatto che la disposizione di
queste cellule, ai vari livelli di specializzazione,
è particolare; infatti a livello dei tubuli seminiferi
è possibile osservare gli spermatogoni in
prossimità delle pareti del tubulo mentre man
mano che si procede verso l’interno si trovano
tutti i livelli di specializzazione fino ad arrivare
in prossimità del lume dove ci sono gli
spermatozoi maturi. Spermatogoni,
spermatociti, ecc sono contenuti all’interno di
grandi cellule dette “cellule del sertoli” che si
estendono dal lume fino alle pareti: esse offrono nutrimento agli spermatozoi
scambiando con essi i metaboliti, servono a fagocitare il materiale rilasciato durante
spermioistogenesi e hanno un ruolo importante nella regolazione ormonale.
Sempre nei tubuli seminiferi sono presenti le cellule di Leydig che sono deputate alla
produzione degli androgeni tra cui il testosterone, il quale determina lo sviluppo dei
caratteri secondari maschili.
La regolazione ormonale
Nella pubertà gli spermatogoni iniziano a
maturare sotto lo stimolo delle gonadotropine,
ormoni che esercitano la loro funzione a
livello delle gonadi; questi ormoni vengono
prodotti nella regione del cervello costituita
dal sistema ipotalamo-ipofisario. L’ipotalamo
produce il fattore di rilascio delle
gonadotropine (una molecola che agendo a
livello dell’ipofisi stimola il rilascio delle
gonadotropine); queste ultime sono,
nell’ambito della spermatogenesi, l’LH
(ormone luteinizzante) e l’FSH (ormone
follicolo-stimolante). L’ormone LH agisce sulle
cellule di Leydig e promuove la produzione di
testosterone da parte di queste cellule
mentre l’ormone FSH agisce sulle cellule del
sertoli per promuovere tutta la
spermatogenesi.
Il testosterone inibisce direttamente sia a
livello ipotalamico il rilascio del GnRH (fattore di rilascio delle gonadotropine), sia a
livello di ipofisi il rilascio dell’LH; esso agisce inoltre sulle cellule di sertoli e quando il
livello di testosterone è alto esse producono un altro ormone, l’inibina, che inibisce la
secrezione dell’FSH (regolandone il rilascio indirettamente). Questo è un esempio di
regolazione a feedback negativo.
OVOGENESI
L’ovogenesi è un processo che avviene nelle ovaie, organi pari e simmetrici che hanno
funzione sia di produrre gameti sia di produrre ormoni, quindi endocrina.
Come nella spermatogenesi, è possibile indicare una tempistica correlata con lo sviluppo
dell’organismo. Tuttavia, fin dall’inizio, ci sono delle differenze abbastanza importanti con
la gametogenesi maschile: per esempio, nella nostra specie, la fase mitotica (in cui si
riproducono gli ovogoni) è limitata alla vita embrionale e, al momento della nascita, le
femmine hanno tutti ovociti fermi in profase della prima divisione meiotica. (Non è così per
altre specie).
Durante la vita embrionale, gli ovogoni vanno incontro alla fase mitotica che permette la
proliferazione di queste cellule, le quali si moltiplicano per mitosi fino a raggiungere un
numero di 6-7 milioni fino al quinto mese (prima della nascita).
A questo punto, una parte di questi ovogoni intraprende un processo di auxocitosi,
ovvero di accrescimento, trasformandosi in ovociti primari, che intraprendono la meiosi I,
rimanendo bloccati in profase. Di conseguenza gli ovociti primari aumentano la loro
dimensione, pur rimanendo fermi alla profase I.
Alla nascita, sono presenti 1-2 milioni di ovociti primari fermi in profase I, che danno
origine al cosiddetto follicolo primordiale, costituito dall’ovocita circondato da un singolo
strato di cellule piatte (cellule follicolari), che successivamente diventeranno le cellule della
granulosa. Si può osservare una prima differenza rispetto alla spermatogenesi, in cui la
fase mitotica è presente in tutta la vita dell’uomo adulto a partire dalla pubertà, mentre
nella donna è presente solo durante la vita embrionale,
per cui la fase mitotica termina al momento della
nascita e non si ripete più.
Di questi 2 milioni di follicoli primordiali, alcuni
degenerano nei primi 12 anni di vita e al momento della
pubertà si stima che ce ne siano 200/400 mila, dei
quali solo 450/500 diverranno cellule uovo. Dunque si
ha una progressiva diminuzione di queste cellule.
La situazione si complica ulteriormente dal momento in cui gli eventi della meiosi si
associano alla maturazione del follicolo primordiale mediante l’associazione di due cicli, il
ciclo ovarico e quello uterino.
Ciclo ovarico
Nel ciclo ovarico siamo in presenza del follicolo primordiale circondato da uno strato di
cellule appiattite. Avviene al livello delle gonadi (ovaie) e prevede tre fasi: fase follicolare,
ovulazione e fase luteinica. Nei 28 giorni corrispondenti al ciclo ovarico, abbiamo il
susseguirsi di queste tre fasi. Come inizio, viene considerato il primo giorno di
mestruazione (che coinvolge invece il ciclo uterino), in cui un numero variabile di follicoli
primordiali (da 3 a 30) intraprende la via di formazione della cellula uovo. Questo processo
di maturazione dei follicoli è inizialmente indipendente dalle gonadotropine, poi
dipendente. Generalmente, di questi follicoli solo uno raggiunge la fase finale. Il
meccanismo che determina la morte di tutti gli altri follicoli rimane in gran parte
sconosciuto.
Come prima cosa, il follicolo primordiale si trasforma in un follicolo primario, dove
quelle cellule, precedentemente piatte, acquisiscono una forma cuboidale, e vengono
chiamate cellule della granulosa e sono caratterizzate da capacità proliferativa (andando
quindi a formare più strati). Si forma anche la zona pellucida, tra la cellula uovo e le
cellule della granulosa, una zona ricca di glicoproteine (quindi formata da matrice
extracellulare). Dopodiché le cellule della granulosa proliferano, formando uno strato molto
spesso, e intervengono anche delle cellule dello stroma che vanno a costituire la teca. Si
può parlare di follicolo secondario.
Successivamente, si forma una struttura ad antro, caratterizzata da un vuoto occupato da
liquido. Il follicolo aumenta le sue dimensioni fino a costituire il follicolo di Graaf, pronto
per l’ovulazione. Queste modificazioni strutturali si associano alla progressione della
meiosi:
• In queste fasi si protrae la prima divisione meiotica (a livello del follicolo di Graaf si
osserva la prima cellula uovo e un globulo polare).
• In seguito si intraprende la seconda meiosi che, nella nostra specie, si blocca in
metafase II.
• Intorno al quindicesimo giorno del ciclo si verifica l’ovulazione, in cui l’ovocita,
circondato dalla zona pellucida (ricca di glicoproteine) e fermo alla metafase II,
viene rilasciato insieme alle cellule della granulosa (dette anche cellule del cumulo
ooforo (Quando si è formata la cavità antrale (follicolo secondario), l'ovocita rimane
rivestito da pochi strati di cellule della granulosa che costituiscono il cumulo ooforo))
nelle Tube di Falloppio, dove eventualmente avviene la fecondazione. Nelle tube
l’ovocita resta 1-2 giorni in attesa di essere fecondato.
• Una volta fecondato dagli spermatozoi, avvengono le prime divisioni ed esso si
sposta progressivamente per impiantarsi a livello dell’endometrio uterino.
Dunque una donna risulta feconda nel periodo dell’ovulazione fino a qualche giorno dopo
essa. Ciò che rimane del precedente follicolo degenera a corpo luteo, cioè una struttura
con attività secretoria, che produrrà progesterone, ormone che determina l'ispessimento
della parete uterina. Nella parete uterina, infatti, le cellule proliferano e vengono
vascolarizzate, così che l’endometrio uterino si ispessisce e l’embrione vi si possa
impiantare nel modo corretto.
Nell’immagine riportata sotto, si osserva l’ovocita circondato dalla membrana pellucida,
una regione priva di cellule caratterizzata da una matrice extracellulare ricca di
glicoproteine. Poi ci sono le cellule della corona radiata, che fa capo alle cellule della
granulosa, insieme alle cellule della teca di origine stromale.
Vi è una relazione tra la meiosi e la maturazione del follicolo. Prima della nascita abbiamo
la fase mitotica con la formazione dell’ovocita primario, che corrisponde al follicolo
primordiale.
L’ovocita primario è 2n dal
momento in cui ci si trova nella
profase della prima divisione
meiotica. Quando inizia la prima
divisione meiotica si verifica
l’accrescimento del follicolo,
cioè quando si oltrepassa lo
stadio di follicolo primordiale e
iniziano a formarsi i follicoli
primari, contemporaneamente si
riattiva anche il processo della
meiosi. La meiosi I avviene
quando siamo a livello del
follicolo maturo, il cosiddetto
follicolo di Graaf. Terminata la
prima divisione meiotica, si
intraprende la seconda, che
però non si conclude nella nostra specie, ma si completerà esclusivamente se avviene la
fecondazione, infatti, nel momento in cui entra lo spermatozoo essa giunge al termine e
viene espulso il globulo polare.
Prima di parlare di regolazione ormonale, bisogna considerare che le cellule della teca
hanno i recettori per l’LH, mentre le cellule della granulosa esprimono i recettori per gli
FSH. Come vedremo successivamente, sono questi i principali ormoni che regolano lo
sviluppo del follicolo. In particolare l’LH promuove la progressione della meiosi e
l’ovulazione.
Ciclo uterino
Dopo l’ovulazione, il corpo luteo produce progesterone. A livello dell’endometrio, ci sono i
recettori per il progesterone, che funziona da stimolo proliferativo. Quindi le cellule
dell’endometrio proliferano, l’endometrio si ispessisce, aumenta la sua vascolarizzazione e
si prepara per accogliere la cellula uovo qualora questa venga fecondata. Quest’ultima, se
viene fecondata, va nelle tube, all’interno dell’utero e si impianta nell’endometrio. Se la
fecondazione non avviene, invece, dopo circa 14 giorni il corpo luteo regredisce, con
conseguente abbassamento dei livelli di progesterone, sfaldamento dell’endometrio e
espulsione dell’endometrio con le mestruazioni. In alcune specie non viene espulso, ma
riassorbito.
Dal grafico riportato si osserva lo sviluppo del follicolo, in alto l’andamento degli ormoni
ipofisari LH e FSH, al centro l’andamento degli ormoni che sono secreti dall’ovaio (follicoli
producono estrogeni e corpo luteo produce progesterone) e, in basso, l’effetto di questi
ormoni a livello dell’endometrio.
Al centro si può notare che la concentrazione di estrogeni (linea verde), prodotti dal
follicolo, a un certo punto raggiunge un picco. L’aumento di estrogeni induce il sistema
ipotalamo-ipofisario a produrre LH (linea blu). Il picco di LH provoca la progressione della
meiosi e l’ovulazione. L’ovulazione, infatti, avviene circa 30 ore dopo il picco di LH, di
conseguenza è il picco di questo ormone a indurre l'ovulazione stessa.
Tale meccanismo sta alla base del funzionamento delle pillole anticoncezionali, costituite
da combinazioni di soli estrogeni oppure estrogeni e progestinici, il cui effetto è quello di
inibire il rilascio di FSH e LH e, conseguentemente, inibire l’ovulazione.
La pillola abortiva (Ru486), invece, è un antagonista del progesterone, per cui si lega ai
recettori del progesterone a livello dell’endometrio impedendo il legame del progesterone
stesso e, conseguentemente, l’endometrio si sfalda insieme all’embrione in caso di
avvenuta fecondazione. Il suo funzionamento è diverso da quello adottato dalla pillola del
giorno dopo, che contiene un alto livello di progesterone che inibisce l’ovulazione.
Nel caso si instauri una gravidanza, viene prodotta la gonadotropina corionica che
mantiene per un po’ il corpo luteo attivo, in modo tale che i livelli di progesterone non
calino. Questo meccanismo viene usato dai test di gravidanza. Dopodiché, intervengono
altri processi che permettono lo sviluppo dell’embrione.
[Piccola parentesi fatta dalla prof, fa un parallelismo con la lezione sulle malattie genetiche]
Un’altra interessante differenza è la menopausa, che nella nostra specie si verifica intorno
ai 50 anni, in cui una serie di fattori determinano la perdita di funzionamento delle gonadi
femminili, non avviene più l’ovulazione e non si può avere figli. Questo aspetto, molto
studiato da un punto di vista evolutivo, è condiviso solo da due altre specie, di cui una è
quella dell’orca. Da un punto di vista evolutivo è stato molto studiato perché molti studiosi
ritenevano che la menopausa fosse legata al fatto che la probabilità di morire di parto
aumenta con l’aumentare dell’età della donna, dunque la menopausa rappresentava un
fattore di protezione. In realtà, a seguito di altri studi, si è scoperto che la menopausa
rappresenta un vantaggio evolutivo per la specie. Questo perché la femmina, libera
dall’accudimento diretto dei figli, mantiene un patrimonio cognitivo culturale che serve al
mantenimento della specie, dovuto al fatto che negli anni essa ha accumulato una serie di
conoscenze che possono poi essere trasmesse (nel caso delle orche, le femmine anziane
conservano la memoria del luogo dove si trovano i banchi di pesce).
La fecondazione
La fecondazione è quel processo durante il quale due gameti (aploidi, uno maschile e uno
femminile) si uniscono per generare lo zigote (diploide). Può essere esterna o interna.
Le specie a fecondazione esterna (rane), che rilasciano le cellule uovo fuori, hanno un
processo di mitosi sempre attivo, questo accade per aumentare il successo riproduttivo,
che sarebbe molto scarso se rilasciassero solo una o poche uova nell’ambiente.
La reazione acrosomiale è determinata dal contatto dello spermatozoo con la cellula uovo.
Tale contatto è mediato da proteine specifiche che si trovano sulla membrana dello
spermatozoo e delle proteine presenti a livello della zona pellucida, dette ZP (ZP= zona
pellucida, accompagnate da un numero che le caratterizza). Inoltre, queste proteine (in
particolare ZP3) sono responsabili anche della barriera specie-specifica, alla base del fatto
che la fecondazione tra specie diverse non avviene o, se avviene, dà origine a una prole
non fertile. Così il riconoscimento tra queste proteine rappresenta la modalità attraverso
cui viene selezionata la specificità di specie.
Dunque il legame tra le proteine dello spermatozoo e quelle della zona pellucida induce la
reazione acrosomiale e il conseguente rilascio di enzimi litici, in modo da permettere allo
spermatozoo di attraversare la zona pellucida. Quando esso arriva a livello della
membrana plasmatica che delimita l’uovo, si verifica una fusione tra le due membrane,
dopodiché la testa dello spermatozoo entra dentro mentre la coda resta fuori.
Una volta entrato dentro l’ovocita, avviene la rottura delle membrane nucleari, il rilascio dei
cromosomi e avverrà la prima mitosi, che porta alla formazione dello zigote.
[La professoressa conclude la parentesi sulla menopausa che, per motivi di continuità, abbiamo riportato
precedentemente]
Lezione 19, parte prima
21/12/2023
Materia Biologia
LE CELLULE STAMINALI E LE
POTENZIALITA’ DIFFERENZIATIVE
DELLE CELLULE
La professoressa informa che tratterà due argomenti: uno riguardante la staminalità; l’altro riguardo la
determinazione del sesso e l’inattivazione del cromosoma X.
I primi esperimenti furono condotti nel 1958 sulle piante. In particolare, lo studioso
Steward, insieme a collaboratori, si concentrò sullo studio
della totipotenza delle cellule della carota. Totipotenza
significa che una cellula può produrre tutti tessuti diversi
dell’organismo di cui fa parte. Presero sottili dischetti della
radice della carota, li frammentarono e li misero a crescere in
un terreno di coltura, inizialmente liquido. Successivamente, li
trasferirono separatamente in terreno solido, e videro che da
alcuni di essi si rigenerava un’intera pianta, quindi, non solo
la radice, ma anche le parti aeree. Si potè così dedurre, che
le cellule della radice avevano mantenuto la capacità di
sviluppare un individuo intero: è, quindi, possibile
riprogrammare una cellula differenziata per permetterle di
rigenerare l’intero organismo. Questi esperimenti, che sulle
piante ebbero fin da subito grande successo, furono meno soddisfacenti negli
animali.
I primi esperimenti, pochi anni dopo il successo di Steward, furono svolti sui girini. Il
gruppo di Gurnod e collaboratori, partendo dal girino, presero cellule intestinali
(cellule differenziate) e ne prelevarono il nucleo. Lo impiantarono in una cellula uovo
non fecondata (a sinistra dell’immagine), in cui il nucleo era stato eliminato per
radiazioni ultraviolette: si trattava, di fatto, di una cellula enucleata. Una volta
introdotto il nucleo della cellula intestinale, si avrà: una cellula uovo che contiene
tutto il materiale citoplasmatico tipico, quindi caratterizzato dai fattori importanti per
lo sviluppo embrionale, ma, all’interno, si viene a trovare una cellula diploide (perché
le cellule intestinali sono cellule somatiche, quindi diploidi) di una cellula differenziata
(quella intestinale). Fecero tantissimi di questi esperimenti, e, ad una percentuale di
1.5%, dalla cellula uovo modificata ottennero degli embrioni e anche lo sviluppo del
girino. Nonostante ciò, la percentuale di successo era piuttosto bassa. Questo
dimostra che è più difficile riprogrammare una cellula animale rispetto una vegetale,
perché i meccanismi di differenziamento e inattivazione/attivazione genica, negli
animali sono più stabili, quindi è più difficile tornare indietro nel processo di
differenziazione.
Il primo caso di clonazione di un mammifero avvenne nel
1997. Fu un esperimento di grande risonanza, ovvero la
clonazione della pecora Dolly; infatti, da qui seguirono una
serie di esperimenti di clonazione, soprattutto su animali da
allevamento, per ottenere determinate caratteristiche. Anche
in questo caso si partì da una cellula differenziata
proveniente dalla ghiandola mammaria, isolata dalla
mammella. Le cellule vennero messe a crescere in coltura, in
modo che mantenessero le loro caratteristiche. Dall’altra
parte, presero una cellula uovo non fecondata ed enucleata,
contenente tutti i fattori tipici delle cellule uovo. La cellula
differenziata venne indotta a fondersi con questa cellula,
attraverso una scarica elettrica (anche se ci sono diversi
metodi, sia fisici che chimici, per indurre due cellule a fondersi), ottenendo una
cellula uovo ibrida, contenente il citoplasma dell’uovo e il nucleo della cellula
differenziata. Il successo dell’esperimento, fu estremamente basso: su 277 cellule
ottenute con il processo di fusione, soltanto 29 diedero luogo ad embrioni, e, una
volta impiantati in una madre ricevente, solo uno fu in grado di svilupparsi e dare
origine ad un organismo vivo. (Il passaggio da una singola cellula ad un embrione,
cioè una struttura costituita da poche cellule, è sempre svolto in vitro; mentre
l'embrione, nelle prime fasi di sviluppo, viene impiantato in una madre surrogata, in
modo da potersi sviluppare). Dolly sviluppò un’infezione comune degli animali
(quindi non inerente al processo di clonazione), che la portò alla morte, ma aveva
comunque sviluppato forme di artrosi tipiche di animali vecchi: l’animale clonato
potrebbe sviluppare processi di invecchiamento precoce, dipendente dalla cellula di
partenza e anche da quanto fosse anziano il donatore della cellula. In ogni caso, il
processo di clonazione di mammiferi è un evento possibile.
Cosa ci dice questo esperimento? È vero che le nostre cellule dei tessuti sono
altamente differenziate, ma in alcuni casi questo processo può essere revertito, è
possibile riprogrammarlo. Nonostante ciò, una cellula altamente differenziata, quale
quella proveniente da una fibra muscolare o da un neurone, in cui il processo di
differenziamento è talmente avanzato, che non è possibile tornare indietro.
Questo, però, rappresenta solo una faccia della medaglia: è possibile riprogrammare
una cellula differenziata per invertire il processo. Invece, l’altra faccia della medaglia
è rappresentata dalle cellule staminali, cioè dalla possibilità di ritrovare
nell’organismo adulto delle cellule che abbiano un potere differenziativo più o meno
elevato. Si tratta di due concetti strettamente connessi: se si trovano i fattori/geni che
determinano la staminalità, è possibile capire anche come si può indurre un
processo di “disferenziamento”, cioè tornare indietro da una cellula differenziata.
Questo fu un concetto usato per generare cellule pluripotenti indotte, una delle
scoperte più importanti di questo secolo.
LE CELLULE STAMINALI
Per isolare le cellule staminali ci volle molto tempo, perché era necessario mettere a
punto sistemi di coltura per cellule di mammiferi, nei quali fossero in grado di
sopravvivere e proliferare. Inizialmente si isolarono le
cellule del topo; le prime cellule staminali embrionali
umane solo nel 1998; le prime cellule staminali
pluripotenti indotte sono state create soltanto nel
2006.
Il controllo della pluripotenza di una cellula staminale può essere fatto mediante
questa osservazione in vitro, appena
descritta, o anche in vivo. Per capire
se si ha a che fare con cellule
staminali pluripotenti, si possono
seguire due modalità:
● Se vengono iniettate in un
topo, le cellule pluripotenti (avendo
caratteristiche ben specifiche)
portano alla formazione di teratomi
(tumori poco differenziati
caratterizzati dalla presenza di cellule appartenenti ai tre
foglietti embrionali, come se fosse un tumore costituito da
cellule di tessuti diversi). Questo suggerisce un altro motivo
che ha bloccato l'utilizzo delle cellule staminali embrionali
nella medicina rigenerativa: la loro elevata capacità
differenziativa proliferativa, se non regolata, può essere
deleteria: le cellule staminali embrionali, se non sottoposte a un controllo e
iniettate in un organismo, possono generare un teratoma.
Per questo, per un loro eventuale utilizzo, devono essere
differenziate parzialmente in vitro e poi iniettate (processo
però potenzialmente rischioso).
Ci sono, quindi, delle pratiche già messe in atto che prevedono l’utilizzo delle cellule
staminali, altre invece sono solo teorizzate. Infatti, tutte le malattie
neurodegenerative (Parkinson; Alzheimer) o patologie degenerative del muscolo
(distrofia muscolare), in linea teorica, potrebbero essere curate con le cellule
staminali. Esistono trial clinici che utilizzano le cellule staminali per la cura del
Parkinson o del diabete di tipo 1 (è una degenerazione delle cellule che producono
insulina, quindi si può pensare di utilizzare cellule staminali per curarlo), ma devono
essere controllati, perché queste cellule sono pericolose per la loro capacità
proliferativa.
Le nicchie staminali
Dove si trovano le cellule staminali?
Si trovano in una regione ben precisa a livello dei tessuti, detta nicchia staminale
nell’immagine, per esempio, una possibile nicchia staminale: si può vedere la
membrana basale di cellule stromali non staminali (celestino) che circondano le
cellule staminali stesse.
I meccanismi che regolano queste due diverse modalità non sono del tutto noti, ma
vi sono dei fattori importanti come l’orientamento del fuso mitotico rispetto alla
lamina basale, in questo caso (immagine sopra), due casi:
• entrambe le cellule rimangono in contatto con la lamina basale e perciò
subiscono delle influenze che derivano proprio dalla loro posizione, cioè dal
mantenersi entrambe all’interno della nicchia staminale, dove vi saranno dei
fattori solubili che influenzano la proliferazione della cellula e il suo
differenziamento; Quest’influenza è data anche dalle regioni di contatto con
le cellule limitrofe, lamina basale in quest’esempio (regione specializzata
della matrice extracellulare), che ne influenzano il mantenimento e la
modalità con cui questo si realizza.
• Secondo esempio: la cellula staminale si divide, però mantiene una cellula in
prossimità della lamina basale, l’altra invece si allontana.
Esistono vari tipi di segnalazioni a cui le cellule staminali possono rispondere: sia ad
una segnalazione autocrina, cioè fattori che possono produrre le cellule staminali
stesse.
Altri fattori provenienti dalle cellule della nicchia in vicinanza, detta segnalazione
paracrina.
Oppure fattori portati dal sangue, prodotti in cellule distanti, detta segnalazione
sistemica.
Vi sono dei segnali propri della nicchia che riguardano in particolare: i fattori di
trascrizione (non nel dettaglio), il contatto con la matrice cellulare.
Quindi questi segnali topologici dipendono anche dalla posizione della cellula nella
nicchia stessa.
In generale la divisione delle cellule staminali serve al mantenimento del pool delle
staminali e alla generazione di cellule differenziate, ciò può avvenire secondo vari
meccanismi osservabili nella foto sottostate.
Non sempre è facile capire quale tipo di divisione avviene in un tessuto, si può
pensare che la divisione simmetrica avvenga durante lo sviluppo e durante la
riparazione tissutale, poiché le cose che entrambi gli avvenimenti richiedono un
aumento del pool staminale che sia per la crescita di un tessuto o che questo
debba essere riparato.
La divisione asimmetrica avviene nel normale mantenimento fisiologico dei tessuti
ad elevato ricambio.
Alcuni esempi:
Le cellule dei muscoli sono dei sincizi, cioè una fusione di cellule singole, i mioblasti,
che formano delle strutture plurinucleate, le fibre muscolari, dove poi si organizzano
tutte le proteine che formano le strutture contrattili del muscolo, miofibrille, che poi
costituiscomno i sarcomeri. I nuclei saranno schiacciati verso l’esterno, verso la
membrana, e cosi anche le cellule satelliti, che quindi non si trovano dentro, ma tra
la membrana e le mio fibrille.
Le cellule satelli si possono poi differenziare in mioblasti nel caso che vengano
attivate in seguito ad un danno muscolare come uno strappo o una ferita.
Il muscolo ha quindi una certa capacità rigenerativa come si puo vedere
nell’immagine successiva.
Le cellule satelliti normalmente sono quiescenti, cioè non sempre proliferanti poiché
non c’è bisogno, però in seguito ad un danno ricevono degli stimoli che portano alla
loro attivazione. Iniziano quindi la loro proliferazione differenziandosi in mioblasti,
che poi si fonderanno tra di loro dando la fibra muscolare vera e propria, riparando
così la fibra muscolare danneggiata.
Le cellule staminali nei tumori
Le cellule staminali sono state scoperte anche nei tumori, relativamente recente
come scoperta.
Ciò può parzialmente spiegare l’inefficienza di alcune terapie, perché se nei tumori
miriamo a distruggere le cellule con elevato tasso di proliferazione, come fanno
numerosi chemioterapici, per esempio, se tra queste vi sono delle cellule staminali
che non si dividono, cellule staminali tumorali, queste non vengono distrutte.
Se usiamo una terapia che punta a bloccare la proliferazione cellulare, queste non
muoiono, ed una volta terminata la terapia, se attivate, possono ridare origine ai
tumori.
Determinazione del sesso nelle specie
animali
Quando si parla di determinazione del sesso, da un punto di vista biologico, ci si
riferisce alle modalità e meccanismi mediante i quali si sviluppano le gonadi.
Questo meccanismo non è identico in tutte le specie.
Nella nostra specie, più in generale nei mammiferi e negli insetti, è l’assetto
cromosomico che si stabilisce durante la formazione dello zigote a determinare lo
sviluppo delle gonadi.
Ci sono i cromosomi sessuali che vengono trasmessi con le modalità già viste, che
determineranno lo sviluppo delle gonadi, per cui avremo XX per le gonadi femminili
ed XY per le gonadi maschili.
In altri animali il dimorfismo dei cromosomi sessuali è diverso rispetto al caso della
nostra specie, però il concetto è sempre che ci sono dei cromosomi sessuali dalla
cui presenza si determina lo sviluppo specifico delle gonadi.
Non è sempre così in tutti gli organismi, in alcuni infatti questo non avviene, lo
sviluppo delle gonadi differenti è determinato da fattori ambientali, questo avviene
per esempio nelle tartarughe e nei coccodrilli: a seconda della temperatura a cui si
trovano le uova che vengono deposte queste genereranno o maschi o femmine; c’è
una temperatura alla quale si avranno 50% maschi e 50% femmine, e al di sotto o
sopra alla quale si avranno solo maschi o solo femmine. Ciò dipende da vari fattori,
uno dei quali è l’attivazione temperatura-dipendente degli enzimi che regolano la
produzione di ormoni che regolano lo sviluppo delle gonadi in un senso o nell’altro.
più vicini di quanto lo siamo ai polli che hanno un meccanismo di determinazione del
sesso che dipende comunque dall’assetto cromosomico.
Variazioni nella determinazione del sesso dipendente
dall’assetto cromosomico
Si possono avere dei casi di digametia maschile, dove i gameti
diversi sono presenti nel maschio, e quindi il sesso del nascituro è
determinato da quale dei due cromosomi viene trasmesso nel
gamete che andrà a fecondare.
Questa digametia può essere di questo tipo, cioè dove nell’uomo
dove si avrà XX per la femmina e XY per il maschio; oppure in altre
specie dove femmina e maschio sono caratterizzate da un assetto
cromosomico XX per la femmina (come nella nostra specie) il
maschio X0, dal quale comunque dipende il sesso della prole,
perché esso potrà fare il 50% dei gameti con il cromosoma X e il 50% dei gameti di
tipo 0 (assenza di cromosoma), a seconda di quale gamete verrà utilizzato si avrà
maschio o femmina. Anche in questo caso il sesso della prole è determinato dal
maschio.
Nel 1961 una ricercatrice fece delle osservazioni sul colore della pelliccia di
determinati gatti e approfondì il concetto dell’inattivazione dell’X.
Il punto centrale è che l’inattivazione dell’X è casuale: una volta generato lo zigote
questo andrà a divedersi e differenziarsi in svariate cellule, l’inattivazione dell’X in
queste è completamente casuale.
Nella specie umana, prima dello stadio della blastocisti, tutti i cromosomi X sono
entrambi attivi. L’inattivazione del cromosoma X avviene intorno al 15o giorno
dell’embriogenesi.
Interessante è che nella femmina adulta, durante la gametogenesi, prima dell’entrata
in meiosi, il cromosoma X si riattiva, senno no ci si spiegherebbe perché uno dei due
casualmente si inattiva.
Perciò nei gameti che si formano, sia che contengano un cromosoma X che l’altro,
sono entrambi attivi.
Il processo differenziativo può essere revertito: a partire da cellule differenziate come quelle
della radice della carota, quelle della parete intestinale del girino o la cellula mammaria della
pecora (viste nella scorsa lezione), è possibile ripristinare la loro staminalità. Questi studi
avevano ispirato alcuni ricercatori che pubblicarono delle ricerche su questo tipo di cellule
staminali pluripotenti indotte, riuscendo a capire come fosse possibile questa reversione.
Grazie agli studi sulle cellule staminali, si arrivò a scoprire la presenza di fattori di trascrizione
caratteristici esclusivamente delle cellule staminali che ne mantenevano la staminalità. Questo
gruppo di ricercatori inserì all’interno di fibroblasti (cellule differenziate) dei geni codificanti per
fattori proteici espressi nelle cellule staminali; a seguito di ciò, i fibroblasti revertivano il loro
programma di differenziamento.
Le cellule staminali pluripotenti indotte, possono essere utilizzate per effettuare trapianti
autologhi (il paziente è sia donatore di una qualsiasi cellula specializzata, sia ricevente delle
stesse cellule revertite in pluripotenti indotte e successivamente
differenziate).
I VIRUS
La professoressa ritiene opportuno soffermarsi sui virus poiché è stato l’argomento che ha destato più problemi
tra i vari quiz svolti a distanza durante il semestre.
STRUTTURA
I virus hanno una struttura molto semplice. Sono caratterizzati da:
• un rivestimento proteico formato da una o poche proteine diverse (capside);
• il materiale genetico (o DNA o RNA) all’interno del capside;
• una membrana di natura fosfolipidica (envelope) esterna al capside, derivante dalla
membrana cellulare della cellula ospite, presente soltanto in alcuni virus.
Possono avere diverse strutture:
• simmetria elicoidale (immagine a) in cui le proteine del capside sono disposte ad elica;
• simmetria icosaedrica (immagine b) in cui le proteine del capside formano 20 facce
triangolari;
• struttura dei fagi (immagine c) (i virus che infettano i batteri). La struttura esterna non
entra nella cellula batterica perché il fago aderisce ad essa iniettando il materiale
genetico dall’esterno.
I ssRNA- invece, possiedono l’RNA polimerasi RNA dipendente al loro interno, perché
altrimenti, non potrebbero far scattare il processo infettivo visto che il filamento - non è in grado
di tradurre le proteine.
Quindi, alcuni virus possiedono al loro interno, già prima dell’infezione, la proteina responsabile
della replicazione del loro genoma (come ad esempio una trascrittasi inversa o una RNA
polimerasi RNA dipendente) qualora questo loro meccanismo di replicazione non sia
riproducibile all’interno della cellula ospite.
SPECIFICITÁ
La maggior parte dei virus sono specie-specifici, ossia possono infettare soltanto una specie
che possiede delle specifiche molecole recettrici; pochi virus (come ad esempio quello della
rabbia) possono infettare specie diverse.
All’interno della stessa specie, i virus possono avere anche una specificità cellulare (per
esempio il virus del raffreddore può infettare soltanto le alte vie respiratorie) poiché ogni cellula
possiede dei recettori diversi, che normalmente servono per una funzione fisiologica.
Le cellule ospiti possono essere:
• sensibili se possiedono i recettori responsabili dell’infezione virale;
• permissive se possiedono l’apparato molecolare indispensabile per la replicazione del
virus.
Nel caso in cui una cellula sia sensibile ma non permissiva, e quindi non abbia gli enzimi
necessari per la replicazione dei virus, si potranno verificare 2 situazioni:
• un’infezione abortiva in cui il virus non si replica e non accade niente;
• un’infezione restrittiva in cui il virus è in grado di replicarsi solo in determinate
condizioni come ad esempio l’ingresso della cellula ospite in fase S o un abbassamento
delle difese
immunitarie.
Se la cellula è sensibile e permissiva, il virus può svolgere, oltre che ad un ciclo litico o ad un
ciclo lisogeno, anche un’infezione persistente, in cui il virus si replica senza causare la lisi della
cellula (come l’infezione provocata dall’HIV).
MODALITÀ DI PENETRAZIONE
L’ingresso del virus è una fase successiva alla fase di adsorbimento, in cui il virus si associa
ad un determinato recettore presente sulla membrana della cellula ospite. Se il virus possiede
l’envelope, si possono verificare 2 modalità d’ingresso:
• fusione, se una volta che è avvenuto il riconoscimento tramite i recettori la membrana
della cellula si fonde con l’envelope (di natura fosfolipidica) determinando il rilascio del
virus all’interno della cellula;
• endocitosi mediata da recettore, in cui una volta avvenuto il contatto tra i recettori,
sulla membrana plasmatica si viene a formare una fossetta rivestita da clatrina nella
porzione intracellulare, la quale andrà a formare una vescicola rivestita che presto
perderà il rivestimento di clatrina e si fonderà con un endosoma, inducendo
l’abbassamento del ph e quindi il rilascio del virus dalla vescicola nel citoplasma.
Se il virus non possiede l’envelope, verranno internalizzati tramite un processo di endocitosi.
Le proteine intrinseche (recettori del virus) presenti sull’envelope, sono prodotte dalla cellula
ospite ed esposte sulla propria membrana; quando il virus duplicato all’interno della cellula
verrà espulso per gemmazione, acquisterà l’envelope ricco dei recettori che si trovavano sulla
membrana della cellula.
MECCANISMO DI REPLICAZIONE DELL’HIV
L’HIV è un virus che fu ufficialmente riconosciuto nel 1981, periodo nel quale si verificò
un’enorme diffusione. Ad oggi, i casi sono molto ridotti perché sono note le precauzioni da
prendere al fine di non infettarsi e anche l’insorgenza della malattia è tenuta sotto controllo da
farmaci che permettono ai malati di avere una vita normale.
Il singolo filamento di RNA viene retrotrascritto grazie alla trascrittasi inversa in un filamento di
DNA, il quale viene copiato generando un doppio filamento che si integra nel DNA ospite dove
rimarrà stabilmente. Esso serve per trascrivere l’RNA da utilizzare sia come materiale genetico
per i nuovi virus, sia come messaggero per la sintesi delle proteine virali. I nuovi virus prodotti
gemmeranno dai linfociti T senza causarne la morte, ma comunque inattiveranno la loro
funzione.
VIRUS E TUMORI
Molto raramente nella nostra specie, un’infezione virale può causare un tumore (es. l’epatite B
può causare un cancro al fegato, il papilloma virus può causare il carcinoma della cervice
uterina, gli herpes virus possono causare il linfoma di Burkitt).
Questi virus si chiamano virus oncogeni e sono in grado di infettare una cellula e determinarne
una trasformazione.
Il virus di Epstein-Barr può causare il linfoma di Burkitt a seguito della traslocazione di una
sequenza di DNA contenente il gene myc (codificante un fattore di trascrizione che promuove
la proliferazione cellulare; l’espressione di tale gene viene quindi regolata) tra il cromosoma 8
e il cromosoma 14. Il gene myc, una volta traslocato, si trova sotto il controllo di regioni
regolative per le immunoglobuline (che vengono espresse in grandi quantità) e ciò causa una
sovraespressione anche di tale gene che porta alla proliferazione incontrollata della cellula
infettata dal virus.
VIRUS EMERGENTI
Un esempio di virus emergente è l’ebola che ha una mortalità elevatissima e ciò rende la
diffusione di tale virus più difficile; i virus con un lungo periodo di latenza si diffondono molto
più rapidamente a causa dei lunghi spostamenti intrapresi dagli organismi della nostra specie.
Da un punto di vista biologico, quindi, al virus conviene avere un periodo di latenza lungo e una
mortalità non troppo alta, che gli permette di proliferare il più possibile.
Il SARS-coV-2 è il virus che ha causato il COVID-19 ma anche la SARS nel 2003 e la MERS
nel 2012.
I virus possono essere emergenti quando passano dagli animali agli uomini (il salto di specie è
causato da generiche mutazioni dei recettori dei virus); solitamente le fonti di virus per la specie
umana provengono dai pipistrelli (possiedono una elevatissima quantità di virus poiché sono
caratterizzati da un sistema immunitario molto tollerante nei confronti di queste infezioni), ma
anche dai roditori e da altri primati. Il passaggio diretto dai pipistrelli all’uomo sembra non
avvenire mai; solitamente è presente un ospite intermedio a causa della promiscuità tra gli
animali e l’uomo.
Data 22/12/2023
Materia Biologia
PROTEINE PRIONICHE (NON SONO NEL PROGRAMMA)
I viroidi sono agenti infettivi caratterizzati solo da RNA e esistono anche agenti infettivi
caratterizzati da sole proteine, che verranno trattati nel dettaglio.
Quelle causate da solo RNA è immaginabile che possano replicarli, mentre quelli causati da
solo proteine e una proteina che infetta o che si autoduplica è più inusuale come argomento in
biologia.
Questo ha suscitato inizialmente molta perplessità.
Sappiamo che sono legate a varie patologie:
• La scrapie, una malattia che colpisce le pecore.
• Il kuru, l’insonnia fatale, la BSE e la Creutzfeldt-Jacob sono anche dell’uomo.
La prima è all’origine di quella che venne chiamata la sindrome della mucca pazza.
Il kuru è all’origine di tutte queste scoperte. Incomincia in una tribù della Nuova Guinea dove si
diffonde una strana malattia, le persone cominciano ad avere comportamenti strani, cominciano
a manifestare demenza, perdita della memoria e tutta una serie di sintomi connessi
all’alterazione del sistema nervoso. Un medico di nome Zigas venne inviato in queste zone
insieme ad un pediatra e notò che l’analisi post-mortem del cervello, delle persone colpite da
questo virus, da dei risultati strani, il cervello risulta essere spugnoso per via della perdita di
molti neuroni.
Si accorsero che in questa tribù vi era l’abitudine di mangiare i cadaveri in maniera selettiva, i
maschi mangiavano prevalentemente i muscoli, pensando che potesse dare loro la forza, e alle
femmine e ai bambini veniva dato anche il cervello del cadavere. La patologia venne rivelata
prevalentemente nelle femmine e nei bambini.
I due medici capirono che si poteva trattare di un virus, ma non riuscirono ad isolarne il ceppo,
ma comunque non fecero più mangiare i cadaveri alle persone e da allora i casi di questa
patologia sono estremamente rari in Nuova Guinea.
Intorno agli anni ‘80 e ‘90 alcune persone cominciano a presentare dei sintomi simili anche in
Europa, all’inizio in Inghilterra. In quel periodo in Inghilterra c’era una grave epidemia diffusa
tra gli ovini di scrapie, il nome deriva dal fatto che uno dei comportamenti in seguito a questa
patologia era che si grattavano. Invece di non utilizzarle, gli inglesi ci hanno fatto le farine
animali, che vengono date alle mucche, che poi vengono mangiate dagli uomini e poi questi si
ammalano. Sono stati registrati quasi 300000 casi.
Non venne subito individuato l’agente che la causava. L’ha individuato Trusiner, che vinse il
premio Nobel per questa scoperta, e dimostrò che l’agente infettante era composto da una
proteina che era presente nei genomi delle pecore, delle vacche e degli uomini.
Si interessò a questo perchè venne da lui una paziente che dimostrava i sintomi di questa
malattia di Creutzfeldt-Jacob, generata da un prione, che non si sapeva come curarla e portava
ad una degenerazione, fino alla morte del malato.
Il medico si incuriosì soprattutto quando notò la correlazione che c’era tra questa malattia e la
kuru.
Come fa questa proteina ad essere infettiva ?
Esiste in due forme:
• Una forma funzionale che ha una struttura prevalentemente ad alfa-elica. Ha varie
funzioni tra cui quella di proteggere l’organismo dallo stress ossidativo.
• Un’altra forma, mutata, caratterizzata da foglietti-beta, molto resistente. Le pecore
avevano questa proteina in forma alterata, che quando veniva ingerita non veniva
degradata dalla proteasi. Viene endocitata a livello dell’intestino e va a finire
principalmente a livello dell’apparato neuronale, dove causa la malattia.
Come causa la malattia?
Tutti hanno il gene di questa proteina, a struttura prevalentemente alfa-elica, ma se viene in
contatto con quella a beta-foglietto si ha un effetto domino, progressivamente tutte le proteine
cambiano la loro struttura e perdono la loro funzione. I neuroni non sono più protetti dallo stress
ossidativo e si degenerano.
La trasmissibilità non deriva dalla autoriproduzione della patologia, ma dall’ingerimento di una
proteina alterata.