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03/10/2023 Prof.

ssa Magherini
Biologia Sbobinatore: Alessia Sterrantino
Lezione 1 Revisori: Simone Mangialavori,
Lohengrin Logli.

INTRODUZIONE AL CORSO
Il corso è strutturato in una parte di lezione frontale ed una parte di attività a
distanza, il programma ed il materiale didattico sono disponibili su e-learning.
L’attività a distanza prevede dei quiz nel fine settimana dalle 8:00 del sabato alle
24:00 della domenica sera. I quiz sono abbastanza semplici, si aprono dalla
piattaforma Moodle, si ha un certo tempo per poterli eseguire ed è possibile un solo
tentativo. Rappresentano una base di partenza per il voto di esame, se vengono tutti
svolti bene si ha una buona base.
Ci sarà da svolgere anche un breve elaborato e da revisionare l’elaborato di un altro
studente in maniera anonima così che la professoressa possa valutare la capacità di
scrivere e la visione critica dello studente.
Generalmente gli argomenti delle attività non vengono chieste in sede di esame
orale a meno che non ci siano gravi carenze o in caso in cui qualcuno non riesca a
sostenere il quiz nel fine settimana.

Libri di testo consigliati:


- Per un primo approccio alla materia:
- Campell, Biologia e genetica, Pearson ed.
- G. M. Cooper, La cellula, Piccin ed.
Per uno studio più approfondito:
- Solomon, Berg, Martin, Fondamenti di biologia, EdiSES ed.
- De Leo, Fasano, Ginelli; Biologia a Genetica, EdiSES ed.
- Becker, Il mondo della cellula, Pearson ed.

ORGANIZZAZIONE GERARCHICA DELLA BIOLOGIA


Con organizzazione gerarchica in biologia si intende uno studio che parte dalle
strutture più semplici muovendosi verso una progressiva complessità.

Organizzazione gerarchica in biologia:


- Atomi si uniscono mediante legami per formare:
- Molecole a loro volta possono legarsi per formare:
- Macromolecole (es. lipidi, zuccheri, proteine, acidi nucleici) che
possono aggregarsi tra di loro per dare origine a strutture più
complesse quali:
- Aggregati molecolari (es. organelli, citoplasma, nucleo),
giungendo infine a:
- Cellule, definibili come le più piccole unità viventi
ESEMPIO: Cellula
- Nucleo, contiene il materiale
genetico ed è organizzato in
strutture denominate cromosomi.
In essi sono presenti 2 tipi di
macromolecole:
- Proteine associate al
DNA
- DNA, costituito da:
- Nucleotidi (a loro volta da Atomi)

Organizzazione gerarchica negli organismi pluricellulari:


- Cellule si organizzano tra di loro e si associano formando:
- Tessuti, i quali compongono:
- Organi, che nell’insieme compongono
- Sistemi di organi. Un’insieme di quest’ultimi compongono gli
- Organismi

Nel campo della biologia l’organizzazione gerarchica procede come descritto


seguentemente:
- Popolazioni, organismi della stessa specie che vivono in una determinata
area geografica
- Comunità biologica, l’intera varietà delle specie che vivono in una
determinata area
- Ecosistema, insieme di tutti gli esseri viventi e delle componenti
abiotiche (es. presenza di acqua, tipo di clima, ecc.)

A qualsiasi livello le interazioni sono importanti. Avanzando progressivamente nella


scala gerarchica compaiono le cosiddette proprietà emergenti. Quest’ultime sono
specifiche per ogni tipo di sistema complesso che si va a considerare. La loro
importanza risiede nel concetto che a livelli di organizzazione inferiori non riescono a
manifestarsi, risultano quindi proprietà nuove, uniche derivate dall’interazione di
funzioni biologiche inferiori.

DUNQUE Le cellule sono le più piccole entità viventi e, sebbene esistano


organismi unicellulari a sé stanti, solo quando esse si
organizzano tra di loro per formare un organismo complesso
compaiono proprietà emergenti sorprendenti.
ESEMPIO 1 Un processo come quello della visione o la funzione del
sistema nervoso non sono legati all’azione della singola
molecola ma all’interazione tra diverse molecole e
diversi organuli.
ESEMPIO 2 In un mitocondrio - organulo delimitato da membrana -
è la struttura, ovvero l’organizzazione delle
macromolecole che costituiscono la membrana, a:
- permettere la sua funzione
- garantire la chemiosmosi → processo fondamentale
per la sintesi dell’ATP
CONCLUDENDO Tali processi (es. sintesi dell’ATP) non potrebbero mai avvenire
se venissero considerate le singole macromolecole. Si tratta di
un meccanismo che funziona ad ogni livello, anche quelli di
parametri non ben definibili:
ESEMPIO 3 Come organismi complessi proviamo emozioni,
considerate anch’esse proprietà emergenti poiché
derivate dal sistema complesso delle reti neurali.

Esistono più filoni di approccio allo studio dei sistemi viventi:


- Osservazione dalla complessità andando a studiare a ritroso il sistema
(attualità)
- Riduzionistico (metodo usato nel passato) → studio delle singole parti per
comprendere l’intero
- Olistico - scienze omiche (trascrittomica, proteomica) → dall’intero per avere
una visione più generale che tenga conto delle interazioni

Esponendo questi concetti possiamo dire che la vita è la proprietà emergente


dell’organizzazione della materia, la più straordinaria.

CARATTERISTICHE DEGLI ORGANISMI VIVENTI E LA LORO


ORGANIZZAZIONE IN SEI REGNI

A lungo si è cercato di caratterizzare e definire il concetto di vita e di organismo


vivente. Tutti riconoscono la vita, tuttavia non è semplice dare una definizione
precisa. Esistono alcuni parametri, usati nei libri, per caratterizzare gli organismi
viventi, essi:
- Sono altamente organizzati (1)
- Omeostasi (2)→ equilibrio interno diverso dall’ambiente esterno
ESEMPIO La cellula non è in equilibrio chimico con l’esterno,
ma essa mantiene un proprio ambiente(concentrazione
di soluti, molecole ecc.), che la caratterizza.
Non valgono le semplici regole di diffusione, ma viene
mantenuta una propria situazione di equilibrio,
necessaria al funzionamento della cellula stessa.
- Si riproducono (3)
- Crescono e si sviluppano (4)
- Assumono e trasformano il materiale e l’energia dall’ambiente (5)
- Rispondono agli stimoli (6)
- Si adattano all’ambiente (7)

Ciò che è stato elencato è solo parzialmente scontato. Infatti, prendendo come
esempio i virus, essi non sono definibili organismi viventi e non sono presenti nei sei
regni proprio perché mancano:
- della capacità di riprodursi(3) in maniera autonoma (necessitano di una
cellula ospite)
- della capacità di assumere sostanze dall’esterno ed elaborarle(5)
- di meccanismi di produzione dell’ATP(5)

Dunque i virus non sono organismi viventi, quantomeno secondo le definizioni date.
Nonostante ciò hanno delle caratteristiche in comune con la vita, testimonianza della
complessità nel dare delle definizioni categoriche.
Darwin è considerato il pioniere dell’evoluzione. Prima della sua venuta, era comune
il pensiero che vedeva:
- le specie animali e vegetali esistenti create così quali sono, e come tali
perpetuate nei secoli
- l’esistenza di una sorta di scala gerarchica
Questa visione derivava dagli scritti di Aristotele, filosofo greco che aveva
classificato gli organismi dai più semplici ai più complessi (con in cima l’uomo). La
classificazione effettuata dal filosofo non teneva conto dell’origine degli organismi,
ma solo della loro categorizzazione. La teoria di Aristotele viene detta fissismo.
Una simile teoria, ancora oggi “condivisa”, è il creazionismo, secondo la quale:
- tutto è stato creato per com’è nel presente
- l’evoluzione non c’è, viene negata
Darwin nasce nei primi dell’800’. All’età di 22 anni si imbarca su
una nave, la Beagle, sulla quale compie un grande giro intorno al
mondo (lo scopo principale della spedizione era quello di
realizzare una mappa delle zone ancora non ben note). Il viaggio
ebbe la durata di cinque anni, durante i quali Darwin ebbe modo di
prendere appunti, scrivere, fare osservazioni. Tornato in patria, infatti, formulò la
“Teoria dell’evoluzione”, alla cui base vi è la selezione naturale; secondo Darwin
infatti:
- Gli individui presenti sulla Terra non sono sempre stati così (ciò si accorda
con ritrovamenti di scheletri di animali preistorici)
- All’interno di una popolazione di individui agisce il meccanismo della
selezione naturale, il quale permette agli individui che presentano un
patrimonio genetico più adatto all’ambiente in cui vivono di essere selezionati

L’evoluzione non riguarda l’adattamento del singolo (es. alla giraffa non cresce il
collo per arrivare più in alto), ma agisce al livello della popolazione. Dunque, tra gli
individui appartenenti alla stessa specie ne saranno presenti alcuni che presentano
delle caratteristiche che garantiscono loro una maggiore adattabilità.
La selezione naturale si basa sulla possibilità che esistano cambiamenti genetici,
possibili grazie a:
- la riproduzione sessuata, che permette la variabilità genetica
- Le mutazioni, le quali possono avere anche una valenza positiva → portare
un all’allele nuovo che risulti essere vincente in determinate condizioni

L’evoluzione riguarda tutti gli organismi, anche quelli procarioti e la selezione


naturale può avvenire non solo nell’ambiente naturale ma anche per un ambiente
creato dall’uomo, è il caso dell’AUMENTO della RESISTENZA dei BATTERI agli
ANTIBIOTICI.

I punti su cui ci si deve soffermare:

- Si tratta di un problema attuale di grande gravità, che si è resa evidente subito


dopo pochi anni dall’uso degli antibiotici in ambito sanitario
- Vi sono molti studi che ne dimostrano l’esistenza, così come è molto attiva la
ricerca di molecole con proprietà antibatteriche
- Progressivamente si sta andando verso una situazione in cui gli antibiotici ad
oggi noti non sono più efficaci
ESEMPIO Evoluzione della resistenza di staphylococcus eureus
- Nel 1943 la pennicillina era stata scoperta da poco
- Diventa l’antibiotico di uso comune più diffuso
- Dopo due anni il 20% dei ceppi presenti nell’ospedale è già
resistente
All’interno di questi batteri ne sono stati selezionati alcuni con
meccanismi che permettono di sopravvivere in presenza
dell’antibiotico
- Nel 1953 viene sintetizzato un altro antibiotico, la meticillina,
con l’obiettivo di superare la resistenza di quei ceppi che ormai
non potevano essere più curati con la pennicillina
- Poco tempo dopo compaiono i ceppi meticillina-resistenti
Nel grafico, la linea blu (la più lunga) rappresenta la crescita dei
batteri resistenti alla meticillina nel tempo:
- Alcune fasi di crescita sono
estremamente rapide.
- Inizialmente tutti i batteri erano
sensibili
- Nel 2000 già il 50% risultava
resistente

La selezione naturale agisce in svariati modi, anche selezionando


determinate popolazioni batteriche che possono essere, per la resistenza agli
antibiotici, un problema per la salute dell’uomo.

RAPIDA PANORAMICA SULLA SUDDIVISIONE IN DOMINI E REGNI


DEGLI ORGANISMI VIVENTI

Tutti deriviamo da un progenitore comune.

NELL’IMMAGINE
Oltre i regni sono presenti anche delle linee, che
indicano le relazioni filogenetiche presenti tra i
vari organismi.

Da un progenitore comune si sono separate


inizialmente due divisioni che hanno dato origine
ai batteri, agli archea e agli eucarioti.
Archea e Batteri sono due domini che hanno dato origine rispettivamente agli
archeobatteri e agli eubatteri. Questi tipi di organismi presentano una struttura
cellulare di tipo procariotico (presentano del materiale genetico non all’interno di un
nucleo delimitato da membrana), dunque hanno una struttura priva di nucleo.
Gli archeobatteri, pur essendo da un punto di vista strutturale simili ai batteri, dal
punto di vista dell’origine filogenetica derivano dallo stesso ramo che poi ha dato
origine agli eucarioti. Per tale motivo essi hanno delle caratteristiche che li rendono
più simili agli eucarioti rispetto che ai batteri veri e propri (eubatteri).
Dagli eucarioti derivano:

- Protisti → eucarioti più semplici:


- sono monocellulari o pluricellulari
- hanno un’organizzazione semplice
- sono sia fotosintetici che non
- si tratta di un regno ampio che raccoglie organismi molto diversi
(anche dal punto di vista del metabolismo)
- Piante → la cui caratteristica principale è avere delle strutture fotosintetiche
- Funghi → si tratta di un regno a parte:
- NON stanno con le piante → non sono in grado di fare la
fotosintesi
- NON stanno con gli animali → hanno delle strutture cellulari
molto diverse
- si nutrono attraverso un processo di assorbimento delle
sostanze dall'esterno
- hanno differenti strutture
- Animali

Si introduce quindi la filogenesi che studia la relazione tra i vari organismi.

FINO A POCO TEMPO FA


La filogenesi veniva fatta esclusivamente considerando le relazione fra le strutture
ossee degli organismi, considerando anche i resti di organismi non più esistenti.

OGGI
Viene fatta la filogenesi molecolare, che grazie agli strumenti che permettono di
sequenziare specifici geni rende possibile la conoscere - usando geni molto
conservati- il momento in cui due organismi si sono separati da un punto di vista
filogenetico.

Si tratta di un ramo estremamente interessante che ha permesso di ottenere


numerose informazioni dagli organismi viventi sia attuali che passati.

SISTEMATICA E NOMENCLATURA BINOMIALE


La sistematica è la disciplina che si occupa di classificare organismi viventi e fossili
dando loro un nome preciso. La nomenclatura binomiale fu introdotta da Linneo e
tale è rimasta in uso, tutt’oggi se viene scoperta una nuova specie, questa viene
classificata con la nomenclatura binomiale.
La specie identificata in maniera univoca da l’unione di due termini:
I. Riferito al genere (es. gatto = felis catus)
II. Epiteto → aggettivo che specifica le caratteristiche di quella specie soltanto
(es. gatto = felis catus)
ESEMPIO Il genere homo contiene numerose specie diverse:
- La nostra è caratterizzata dall’epiteto(II) sapiens, che permette
di individuare chiaramente la specie. Il nome della specie
viene scritto sempre in corsivo(II) e il genere può essere
abbreviato(I), la prima lettera del genere viene posta puntata
(es. Escherichia coli → E. coli).
Gli alberi filogenetici servono per indicare le correlazioni evolutiva tra specie.
TEORIA CELLULARE

Lo studio delle cellule, e la conseguente formulazione di una teoria cellulare, sono


strettamente legati all’invenzione del microscopio, senza il quale non era possibile
osservare la cellula. I pionieri della microscopia furono:
- Antoni Van Leeuwenhoek:
- mercante di stoffe olandesi
- costruì un primo microscopio, usando una sola lente:
- Lo scopo iniziale dello strumento era contare i fili
dei tessuti
- Antoni, spinto dalla curiosità cominciò ad
osservare:
- Le cellule del sangue
- I microrganismi presenti in una goccia acqua
- Dopo l’osservazione si dedicava anche al meticoloso disegno di
tutto quello che vedeva.
- Inviava successivamente via lettera le sue osservazioni alla
Royal Society di Londra per metterle a disposizione degli
scienziati del tempo.
- Hooke
- costruì un microscopio più potente, dotato di due sistemi di lenti:
- una era l’obiettivo → ingrandiva l’immagine
- l’altra ingrandiva ulteriormente l’immagine della prima.
- A lui si deve l’introduzione del termine cellula:
- L’idea del nome la ebbe dall’osservazione della corteccia
del sughero (OGGI SAPPIAMO CHE essa non contiene
cellule vive ma solo la parete della cellula suberificata, la
quale rimane in seguito alla morte della cellula), dove notò una
struttura ben definita a piccole celle che ricordò lui le celle dei frati
conviventi.

Da questo momento si intensificano gli studi sulle cellule, animali e vegetali.


Schwann (zoologo) e Schleiden (botanico) stilano la teoria cellulare:
1. Tutti gli organismi consistono di una o più cellule.
2. La cellula costituisce l’unità di base della struttura di tutti gli
organismi.
3. Tutte le cellule originano da cellule preesistenti.
Il punto che destava più perplessità era proprio il terzo, data la diffusa credenza della
generazione spontanea, che era la più diffusa. Secondo questa, gli organismi più
semplici (es. vermi o insetti) potevano crearsi spontaneamente dal materiale in
decomposizione. Derivava dall’osservazione nella vita quotidiana e si accordava ad
alcune teorie (di derivazione aristotelica) in cui gli organismi stavano in una scala
gerarchica dai più semplici ai più complessi. Nella materia però ci poteva essere un
“principio vitale” per cui da questa alcuni organismi più semplici potevano essere
generati. Furono allora condotti una serie di esperimenti sia a favore di questa teoria,
sia a favore della teoria opposta secondo cui niente nasce dal niente, perciò ogni
cellula deriva da una preesistente.
Gli esperimenti a favore della generazione spontanea furono eseguiti soprattutto da
uno scienziato, Nidam. Lui creava dei brodi (vegetali, animali o infusi di erbe), che
erano la materia in cui voleva andare a verificare la generazione spontanea. La
sottoponeva a leggero riscaldamento senza portarla in ebollizione e la copriva con
una garza. Andava poi a vedere cosa accadeva in seguito: in questi terreni ricchi di
nutrienti ci cresceva di tutto e così lui sosteneva che gli organismi più semplici
stessero essere generati in maniera abiotica (= senza la presenza di un organismo
preesistente).
Successivamente, Spallanzani esegue l’esperimento in modo diverso per provare
che Nidam aveva torto: bolle il brodo e sigilla le provette, dimostrando che non ci
cresceva nulla. Non c’era generazione spontanea ma fu contestato secondo la
convinzione che aveva ucciso il principio vitale.
Pasteur scioglie questo nodo, conducendo un esperimento che poteva rispondere
alle obiezioni rivolte a Spallanzani, ovvero di aver bollito eccessivamente il terreno
uccidendo il principio vitale nel suo contenuto e di aver sigillato le provette
impedendo ogni possibile contatto con l’aria. Utilizza allora due provette di vetro a
collo di cigno. Il collo aveva le caratteristiche di essere in contatto con l’aria (era
privo di tappo) ma allo stesso tempo di impedire all’aria di entrare dentro. Questa si
bloccava al livello della curvatura del collo. In questo modo c’era uno scambio con
l’ambiente ma intrappolava i microorganismi. Inserisce in entrambi lo stesso brodo.
Lo sottopone in entrambi i casi a una lunga ebollizione. Successivamente, in un caso
lascia tutto tale e quale, quindi il terreno si raffredda e viene lasciato a temperatura
ambiente per un po’ di giorni. Nell’altro caso il collo di cigno viene rotto e anche in
questo caso il brodo viene lasciato esposto all’aria per un po’ di giorni. Si osserva
quindi che nel caso del collo rotto si aveva crescita di
microorganismi: bollendo il terreno non si uccideva nessun
principio vitale ma semplicemente la crescita dipendeva dal
contatto con l’aria. Nell’altra porzione dell’esperimento
infatti, dove l’eventuale presenza di polvere o materiale
contenente microorganismi veniva bloccato dal collo di
cigno, non cresceva niente. Con questo esperimento
dunque, rispondeva perfettamente alle critiche.
Ipotesi sull’origine della vita
Dobbiamo supporre che la vita sia comparsa sulla terra ad un certo momento. Per
farlo, dobbiamo ovviamente dare per certo che il processo evolutivo esiste, le cellule
derivano da altre cellule e c’è stato un momento in cui gli organismi viventi sono
comparsi sulla terra. Nel 1920, Oparin ed Haldane, formulano un’ipotesi sulle
condizioni atmosferiche della terra primitiva (basandosi su evidenza geologica):
l’atmosfera primordiale era quasi priva di ossigeno e fortemente riducente (favorisce
legami chimici). Vi erano inoltre numerose sorgenti energetiche (scariche di fulmini e
alte temperature nei vulcani).
Per cui nel 1953 Miller conduce un esperimento in cui sintetizza macromolecole
organiche (quelle della cellula) da molecole inorganiche. La comparsa di molecole
organiche partendo da quelle inorganiche presenti sulla terra primordiale, è il primo
punto per l’origine della vita. Ricostruì uno strumento dove all’interno di un pallone di
vetro inserì una serie di molecole che si suppone fossero presenti nella terra
primordiale (acqua, ammoniaca, metano e idrogeno). In un altro pallone, posto
inferiormente al primo, c’era l’acqua che veniva fatta bollire per permettere al vapore
acqueo di salire nel pallone contenente l’atmosfera primordiale. Successivamente
venivano prodotte delle scariche elettriche che mimavano l’effetto dei fulmini sul
vapore acqueo che poi scendeva verso un condensatore per dare origine a una
soluzione liquida nella quale si testavano le molecole che erano state prodotte. Con
questo esperimento ottiene gli amminoacidi. Variando la composizione delle
molecole si sono potuti ottenere anche nucleotidi e acidi grassi.
La sintesi abiotica in determinate condizioni è quindi possibile. In presenza di
concentrazione elevata di monomeri e temperature molto alte (fonte di energia), può
quindi avvenire il passaggio successivo: formare polimeri mediante aggregazione. E’
stato riprodotto facendo gocciolare dei monomeri su argilla calda, che contiene
diversi metalli che fungono da catalizzatori della reazione.

Evoluzione chimica della vita


L’aggregazione delle macromolecole (polimeri) danno origine a strutture complesse
dette protobionti ( o protocellule) con caratteristiche simili a un essere vivente.
Hanno mantenuto nel tempo un ambiente interno diverso da quello esterno e quindi
hanno iniziato un processo di omeostasi. Questo passaggio è più difficile da
riprodurre in laboratorio, sicuramente sappiamo che i lipidi -ad esempio- hanno la
caratteristica di associarsi autonomamente (es. fosfolipidi) per formare strutture
sferiche chiamate micelle, per cui distinguiamo una porzione interna ed una esterna.
Questo potrebbe essere stato il primo passaggio per la formazione di una sorta di
membrana. E’ difficile immaginare i passaggi successivi, si pensa che le prime
molecole sede dell’informazione genetica e con funzione catalitica, siano state quelle
di acido ribonucleico (RNA). Questo perché ancora oggi esistono delle molecole di
RNA che hanno funzione enzimatica e si pensa che siano una sorta di residuo di
una capacità intrinseca dell’RNA di funzionare come catalizzatore oltre che come
molecola che trasporta l’informazione dal DNA alle proteine. Inoltre l’RNA come
materiale genetico esiste ancora in alcuni virus che nonostante non siano organismi
viventi, sfruttando una cellula ospite, hanno la capacità di riprodurre questo materiale
genetico. Questi due aspetti hanno fatto pensare ad un mondo primitivo ad RNA
sulla base di questa immagine. Sulla base di questa, si può pensare che i nucleotidi
che costituiscono l’acido ribonucleico si siano aggregati a formare dei polimeri di
RNA e che questi polimeri abbiano avuto la capacità sia di contenere l’informazione
genetica (quindi di auto replicarsi), in un primo momento, e successivamente la
funzione enzimatica e di stampo per le proteine. Solo dopo è stato sostituito con il
DNA che è una molecola più stabile e dunque più adatta a contenere l’informazione
genetica per non subire eccessivi cambiamenti.
Ad un certo punto queste protocellule sono talmente sviluppate da poter diventare
quegli organismi, di cui si ha effettivamente prova grazie ai ritrovamenti nella roccia,
a struttura procariotica, da un punto di vista metabolico anaerobi (l’ossigeno non
c’era) ed eterotrofi (utilizzano sostanze organiche preformate, anche noi utilizziamo il
carbonio proveniente da sostanze organiche).
Si selezionano in seguito i primi organismi autotrofi (in particolare modo organismi
chemioautotrofi, cioè che ottengono energia dall’ossidazione di sostanze
inorganiche) e compaiono i primi organismi fotosintetici (sempre di tipo procariotico).
Questi sono particolarmente interessanti perché con loro compare l’ossigeno. La
fotosintesi ha come prodotto di scarto proprio l’ossigeno derivante dalla fotolisi
dell’acqua, che inizia ad accumularsi nell’atmosfera. Compaiono i primi organismi
aerobi che diventano dominanti mentre gli anaerobi muoiono o vengono relegati in
nicchie molto ristrette dove non è presente l’ossigeno, che è una molecola
estremamente reattiva: produce i cosiddetti radicali liberi dell’ossigeno contro cui
servono degli enzimi di difesa.
Intorno a due miliardi di anni fa compaiono i primi organismi eucarioti, prima
monocellulari e successivamente pluricellulari.

Generalità sui diversi tipi di metabolismo


La vita sulla terra deriva da strette relazioni tra i vari organismi, primi fra tutti i
fotosintetici (piante, alghe e batteri). Senza di questi la vita sulla terra non sarebbe
possibile. Soltanto questi sono in grado di usare l’energia luminosa per produrre
sostanze organiche (ATP come fonte energetica per la produzione con scarto
l’ossigeno) e servono anche come nutrimento. Tutti noi dipendiamo dagli organismi
autotrofi che sono quindi i produttori primari. Il carbonio necessario per le
trasformazioni energetiche che prendono il nome di metabolismo, non sarebbe
utilizzabile se non ci fossero i fotosintetici che lo trasformano in glucosio e nei vari
composti organici che siamo in grado di utilizzare, per esempio all’intento della
respirazione cellulare.
All’interno di questo ciclo ci sono anche i decompositori (principalmente
microorganismi eterotrofi, sia procarioti che funghi) che permettono di decomporre
rapidamente la materia morta. In loro assenza infatti, la decomposizione di organismi
di grandi dimensioni (alberi, animali) sarebbe estremamente lenta. I decompositori
secernono enzimi all’esterno, che degradano la materia biologica in molecole più
semplici utilizzabili da altri organismi.
Autotrofi = organismi che sono in grado di organicare la CO2, ovvero di trasformarla
in composti organici. Gli autotrofi possono sia ricavare energia dalla luce
(fotoautotrofi), sia dall’ossidazione di molecole inorganiche (chemioautotrofi), in
questi due casi sono solo batteri, non esistono animali in grado di fare questi
processi.
Eterotrofi = animali, funghi e altri microorganismi, che non sono in grado di
organicare la CO2 e pertanto di trasformarla in composti organici. Necessitano
quindi di molecole organiche preformate (consumatori primari).
La suddivisione dei viventi infine, può essere fatta su diversi parametri, come sul
metabolismo (i batteri soprattutto possono avere una grande varietà di metabolismo,
molto versatili, ecco perché popolano una grande varietà di ambienti differenti), o da
un punto di vista del tipo di energia sfruttata per formare ATP.
05/10/2023 Prof.ssa: Francesca Magherini
Biologia Sbobinatori: Elisa Pallotti, Anita Ostanel
Lezione 2, parte prima Revisori: Cecilia Petrini, Samuele Pelagalli

GENERALITÀ SU COME SI
STUDIANO LE CELLULE
Il potere di risoluzione dell’occhio umano consente di distinguere fino a poco meno di
1mm, ciò lo rende incapace di osservare tutto quello che è contenuto nel mondo
microscopico (quali cellule, virus, macromolecole ecc) il quale viene studiato grazie
all’ausilio di particolari strumenti: i microscopi.
Tutte le cellule hanno delle dimensioni abbastanza simili e questo vale in linea di
massima per tutti gli organismi, tenendo presente che organismi più grandi avranno
più cellule, ma non cellule più grandi.
Tra le più piccole ci sono i globuli rossi con un diametro di circa 10 micron, ma sono
presenti anche cellule più grandi, visibili a occhio nudo, come la cellula uovo di rana
o l’uovo di gallina.
In tutti gli organismi, anche quelli di grandi dimensioni, la dimensione delle cellule
rimane piccola (un elefante e un topo hanno cellule di uguale misura!).
Ciò è dovuto al fatto che la cellula, per espletare al meglio le proprie funzioni, deve
avere un corretto rapporto superficie-volume, infatti una delle caratteristiche
fondamentali della cellula è il mantenimento della omeostasi: ovvero il
mantenimento di un ambiente intracellulare consono alla vita della cellula stessa
(che può essere anche molto diverso dall’ambiente extracellulare).
Di ogni cellula occorre considerare un volume e una superficie (rappresentata dalla
membrana cellulare).
La membrana cellulare svolge un ruolo chiave nel mantenimento dell'omeostasi dato
che attraverso di essa avvengono i passaggi delle sostanze. La dimensione della
cellula ottimale è quella che ha un rapporto superficie volume tale da garantire
una migliore omeostasi. Infatti, all’aumentare delle dimensioni cellulari il valore del
rapporto diminuisce e ciò si traduce in una diminuzione della membrana atta a
condurre scambi con l’esterno e favorire il mantenimento dell’omeostasi. Per questa
ragione cellule troppo grandi sono svantaggiate a livello evolutivo, proprio perché il
rapporto tra la superficie della cellula e il suo volume è troppo piccolo e quindi non
abbastanza sufficiente a mantenere un'adeguata omeostasi.

Per spiegare lo stesso concetto si può far riferimento all’immagine sottostante: se si


considera la forma di una cellula in maniera approssimativa come un cubo, di essa si
può calcolare la superficie corrispondente alla membrana cellulare e il volume, valori
di cui viene calcolato il rapporto.
Considerando una
porzione di un
organismo, se
quest’ultima risulta
essere costituita da una
sola cellula molto
grande, la quantità di
membrana in grado di
condurre scambi con
l’esterno sarà minore
rispetto a quella totale
calcolata su un numero
di cellule più piccole ma
più numerose che vanno a popolare la stessa porzione di spazio poiché nel secondo
caso la superficie a disposizione per mantenere la corretta omeostasi sarà maggiore
e quindi il processo sarà più efficace.

Sulla forma delle cellule…


Le cellule possono avere forme estremamente variegate e vi possono essere cellule
con strutture specializzate volte ad aumentare le superficie cellulare (per esempio:
nelle cellule a livello dell’intestino, ci sono i microvilli che aumentano la superficie di
assorbimento; a livello mitocondriale invece, sono presenti le creste mitocondriali:
estroflessioni e introflessioni di membrana che le permettono una maggiore
estensione in modo tale da aumentare la superficie disponibile e quindi favorire gli
scambi).
Nelle immagini sopra indicate: schematizzazione volta ad evidenziare le diverse forme delle cellule.

a) funghi filamentosi;
b) batteri a forma spiralizzata;
c) globulo rosso e linfocita;
d) radiolari: protisti che vivono in ambiente acquoso caratterizzati da una struttura particolare
determinata da un rivestimento con scheletri silicei;
e) protozoo;
f) cellula uovo con spermatozoi ad essa adesi (lo spermatozoo è l'unica cellula della nostra
specie dotata di flagello = struttura per la locomozione);
g) epitelio intestinale;
h) tessuto conduzione di piante;
i) neurone con prolungamenti che a seconda delle specie possono essere lunghi qualche
metro;

MICROSCOPI
“I miei occhi non hanno mai osservato niente di più piacevole a vedersi dell’esistenza di
migliaia di creature viventi in una goccia di acqua” A. van Leeuwenhoek

La scoperta del microscopio segnò la scoperta di un nuovo mondo poiché permise lo


studio del mondo microscopico. A tal proposito, sono stati sviluppati 3 tipi di
microscopi con caratteristiche differenti:

- microscopio ottico;
- microscopio elettronico a
trasmissione;
- microscopio elettronico a
scansione;

La caratteristica principale di ogni microscopio è il potere di risoluzione.


Il potere di risoluzione dell’occhio umano è 100 micron; quello del microscopio ottico
è di 0,2 micron; nel microscopio elettronico a trasmissione è di 2 nm.

Quando si parla di microscopi si fa riferimento a 2 importanti parametri:


• l’ingrandimento che viene definito come il rapporto tra le dimensioni apparenti e le
dimensioni reali degli oggetti;
• il potere di risoluzione che indica la distanza minima a cui si devono trovare due
punti per distinguerli come separati.
Quest’ultimo parametro risulta essere inversamente proporzionale alla lunghezza
d’onda utilizzata. Si deve considerare la lunghezza d’onda della luce visibile nel caso
del microscopio ottico o degli elettroni in movimento in quello elettronico. Per quanto
riguarda la luce, questa è caratterizzata da una lunghezza d’onda ampia, ne deriva
un potere di risoluzione basso; se invece si utilizzano radiazioni con lunghezze
d’onda inferiori, si ottiene un potere di risoluzione maggiore. Ne consegue che il
potere di risoluzione è proporzionale all’energia della radiazione. Dato che l’energia
degli elettroni è molto elevata, la loro lunghezza d’onda risulterà essere molto
piccola, ciò spiega perché il microscopio elettronico ha un potere di risoluzione
maggiore rispetto a quello ottico.

Per
comprendere
meglio
questo
concetto si
possono
considerare
le seguenti
immagini di
protozoo:

a) microscopio ottico (scala 100μm)


b) microscopio elettronico a trasmissione (scala 1μm). Per ottenere questo tipo di immagine il
preparato viene tagliato a fettine sottili e trattato adeguatamente. Permette di visionare le
strutture interne della cellula.
c) microscopio elettronico a scansione (scala 1μm). Per ottenere l’immagine, i campioni da
osservare vengono ricoperti con dei metalli, spesso l’oro, dunque ne viene fatta una
scansione. Ne consegue che ciò che si osserva è un’immagine tridimensionale della
superficie (non si osservano le
strutture interne).

Nelle immagini a sinistra si osserva


l’epitelio ciliato della trachea:
- Nella prima (microscopio
elettronico a scansione) si osserva
la struttura tridimensionale delle
ciglia.
- Nella seconda, invece
(microscopio elettronico a
trasmissione), dato che il preparato
è stato tagliato a fette, si
apprezzano strutture tondeggianti
che rappresentano una sezione
trasversale del ciglio, ma sono
anche presenti sezioni longitudinali
dato che in sezione le ciglia
avranno angolazioni tra loro differenti.
Cellule HeLa: cellule tumorali del carcinoma
della cervice uterina, ottenute con microscopio
elettronico a scansione (se ne vede l'esterno). Si
tratta della prima linea cellulare messa in coltura
in maniera stabile (nel 1952). Precedentemente
non si erano trovate cellule che fossero in grado
di dividersi in vitro per tempi lunghi.
Il nome deriva dalla paziente da cui sono state
prelevate le cellule: Henrietta Lack.

Immagine di mitocondrio ottenuta con microscopio elettronico


a trasmissione: si osservano le creste volte ad ampliare la
superficie mitocondriale interna.

Esistono anche microscopi ottici a fluorescenza che vanno ad osservare ciò che è
di nostro interesse sfruttando la capacità di una molecola fluorescente di legarsi
selettivamente a regioni specifiche della cellula (esempio: se voglio analizzare il
citoscheletro, utilizzo molecole fluorescenti in grado di legare i
filamenti intermedi, l’actina o i microtubuli, stesso ragionamento per
nucleo, mitocondri ecc..).
I microscopi a fluorescenza confocali, sfruttando sempre il legame fra
fluoroforo (la molecola fluorescente) e la regione di interesse,
effettuano invece delle immagini del preparato in tutti i suoi piani
(trasversali e paralleli) per poi ricostruire un’ immagine
tridimensionale.

Attraverso il processo di deconvoluzione vengono eliminate da ogni


piano le regioni fuori fuoco permettendo così un immagine nitida.

Viene utilizzata una luce incidente


(solitamente un laser) per eccitare la
molecola fluoresce affinché essa
emetta una lunghezza d’onda diversa,
in grado di essere registrata dallo
strumento.

Osservazione di cromosomi tramite microscopio ottico a fluorescenza.


PROCESSI DI CENTRIFUGAZIONE
La centrifugazione è una modalità mediante la quale si possono separare
molecole, macromolecole o organuli sfruttando un campo centrifugo che ne
consente la sedimentazione a seconda di massa, densità e forma.

Quando la macchina è ferma le provette sono


sospese verticalmente. Quando viene messa in
funzione le provette girano attorno al proprio
albero motore e le braccia si dispongono
orizzontalmente (ci sono anche centrifughe con
un angolo fisso tra alloggiamento del campione e albero motore). Terminata la prima
centrifuga si osserva il precipitato (pellet): se contiene organuli di interesse si arresta
il procedimento, quindi si svuota il sovranatante (ciò che rimane sopra il precipitato);
se ciò non accade, si inserisce quest’ultimo in una nuova provetta per poi sottoporla
ad un’altra centrifugazione. Il processo può essere ripetuto fino al raggiungimento
degli organuli di interesse.

La centrifugazione differenziale consente di caratterizzare i singoli organuli. Dato


che gli organuli sono caratterizzati da forma, dimensione e densità differenti, se li si
sottopone a centrifugazione ognuno di essi avrà una velocità differente con la quale
precipitano verso il fondo.
Questo è il concetto su cui si basa la centrifugazione differenziale: per svolgerla si
utilizza una centrifuga costituita da un albero motore al quale vengono legate delle
provette, si inserisce all’interno di quest’ultime un lisato (ovvero cellule che hanno
subito una lisi cellulare) in grado di far liberare, mediante l’utilizzo di detergenti che
rompono le membrane, tutti gli organuli in essa contenuti. Si stabilisce dunque un
determinato campo centrifugo (normalmente un multiplo dell’accelerazione di gravità
G).

- a 600 x G(accelerazione di gravità) precipitano i nuclei;


- a 20000 x G precipitano mitocondri e cloroplasti;
- a 100000 x G ottengo pellet microsomiale;
- per differenziare ulteriormente occorre svolgere una centrifugazione su
gradiente;
La centrifugazione su gradiente consente di separare componenti sotto certe
dimensioni che non riuscirebbero a sedimentarsi nella provetta o che a causa di
masse poco differenti non si riescono a distinguere. Utilizzare un gradiente equivale
a stratificare all’interno della provetta un gradiente a scelta (per esempio il
saccarosio) in modo tale che le sue concentrazioni siano progressivamente crescenti
dall’alto verso il basso.
Viene dunque utilizzata una centrifuga che consente di creare un campo centrifugo
molto elevato (ultracentrifughe) che permette la formazione di una stratificazione su
gradiente. Le entità si fermano a vari livelli del gradiente a seconda della loro
densità.

−13
L’unità di misura dei coefficienti di sedimentazione è lo SVEDBERG (1S) = 10
secondi. Gli Svedberg indicano la velocità con la quale una particella sedimenta se
sottoposta ad una forza centrifuga.
05/10/2023 Prof.ssa Francesca Magherini
Biologia Sbobinatori: Elisa Pallotti, Anita Ostanel
Lezione 2, parte seconda Revisori: Cecilia Petrini, Samuele Pelagalli

I PROCARIOTI
I procarioti sono cellule senza nucleo, in cui il materiale genetico non è limitato da
membrane e gli unici organelli presenti sono i ribosomi.
I procarioti racchiudono le cellule appartenenti ai due regni degli eubatteri e degli
archeobatteri, anche se questi hanno origini filogenetiche diverse.

I batteri compaiono sulla Terra 3,5 miliardi di anni fa e, ad oggi, rappresentano il 50%
della biomassa, sono perciò diffusi ovunque.
La maggior parte di essi è innocua per l’uomo, molti di essi sono utili all’ambiente e
agli ecosistemi (è sufficiente pensare ai batteri azoto-fissatori, che rendono
disponibile l’azoto atmosferico alle piante); invece, una piccola parte è quella
rappresentata dai batteri patogeni.

EUBATTERI: esistono diverse modalità attraverso cui possono essere


raggruppati.

1- La classificazione tiene conto della forma:


● sferica: cocchi;
● cilindrica o “a bastoncino”: bacilli;
● “a virgola”: vibrioni;
● spiralizzata: spirilli;
● maggiore spiralizzazione, più curve: spirochete.
2- Del modo in cui si aggregano:
● Diplococchi: disposti a due a due;
● Streptococchi: disposti in catenelle;
● Stafilococchi: disposti a grappolo.

3- Della loro capacità di crescere a temperature diverse:


● Mesofili (la maggior parte dei batteri): in grado di crescere a temperature
intermedie;
● Termofili: in grado di vivere a temperature più elevate;
● Psicrofili: crescono a basse temperature.

La grande diffusione dei batteri in tutti gli habitat presenti sulla Terra è anche dovuta
alla grande adattabilità che questi hanno dal punto di vista del metabolismo e delle
loro relazioni con l’ossigeno.

4- Distinzione dei batteri sulla base della loro possibilità di interagire con l’ossigeno:
● Aerobi: vivono solo in presenza di ossigeno, importante in quanto accettore
finale di elettroni;
● Anaerobi obbligati: vivono esclusivamente in assenza di ossigeno, di fatti,
quest’ultimo risulta per loro tossico;
● Aerobi facoltativi: possono vivere in assenza di ossigeno ma privilegiano un
ambiente in cui l’ossigeno è presente;
● Microaerofili / ossigeno tolleranti: possono tollerare basse concentrazioni
di ossigeno, ma preferiscono un ambiente in cui l’ossigeno è assente.

5- Distinzione dei batteri dal punto di vista del metabolismo:


● Fotoautotrofi: batteri che utilizzano la luce solare per produrre energia
chimica e che organicano la CO₂ producendo composti organici, (vedi i
cianobatteri);
● Chemioautotrofi: ossidano composti inorganici per produrre energia e
organicano la CO₂;
● Fotoeterotrofi: utilizzano la luce per produrre energia chimica ma non
riescono a organicare la CO₂, la fonte di carbonio è quindi rappresentata dai
composti organici;
● Chemioeterotrofi: la fonte energetica e di carbonio è data solo da composti
organici.

SIMBIOSI
Alcuni batteri instaurano relazioni più o meno strette con gli ospiti. Vengono detti
simbionti e in base alle caratteristiche della simbiosi i batteri vengono definiti:

● Mutualisti: vi è un beneficio reciproco fra ospite e organismo (esempio:


batteri che vivono nello stomaco dei ruminanti: essi sono in grado di digerire,
grazie a propri enzimi, la cellulosa per l’ospite e nel mentre acquisiscono
protezione dall’ambiente circostante);
● Commensali: vivono e si moltiplicano a contatto con l’organismo traendone
beneficio, ma senza provocare danni né benefici all’ospite;
● Patogeni / parassiti: se entrano nell’organismo provocano danni poiché
vivono a spese dell’organismo stesso;
● Opportunisti: normalmente innocui ma che diventano patogeni in alcune
situazioni particolari, per esempio con un cambiamento di sede o di
condizione dell’ospite (esempio: Escherichia coli abita il nostro intestino senza
provocare danni ma se penetra nell’apparato urinario può provocare
infezioni).
MICROBIOTA
Si definisce “microbiota” l’insieme dei batteri presenti all’interno di un determinato
organismo. Nel caso dell’uomo si stima che siano 700 miliardi i microrganismi che ne
popolano il corpo.
Per cui si può dire che per ogni cellula eucariotica umana ce ne sono 10 batteriche,
potremmo in un certo senso affermare che siamo fatti più di batteri che non di cellule
eucariotiche vere e proprie!

Le basi scientifiche sull’importanza del microbiota sono molto solide e, ad oggi, si


sono accumulati numerosi studi che dimostrano come il microbiota sia
estremamente importante per il corretto funzionamento dell’organismo stesso.
Dai numerosi studi condotti sul microbiota si è trovato che questo varia in funzione
della provenienza geografica, delle abitudini alimentari, dell’assunzione di
probiotici, di antibiotici ed anche dell’età.
Infatti, il neonato ha dei microrganismi caratteristici all’interno del proprio organismo
e, progressivamente, si assiste ad un cambiamento, che può essere indotto dalla
variazione dell’alimentazione, dalle esperienze di vita, dalla maggiore esposizione
all’ambiente esterno ecc.
Si ha poi un grande cambiamento anche nell’anziano, in cui la variazione del
microbiota si correla con alcune patologie che possono sopravvenire in anzianità.

Le funzioni del microbiota sono varie: aiuta nella digestione di alcune molecole, è
importante per la sintesi della vitamina K e di alcune vitamine del gruppo B, serve
per la nutrizione delle cellule del colon, stimola il sistema immunitario, esercita un
controllo sullo sviluppo dei batteri patogeni, coopera nel mantenimento della barriera
intestinale.
D’altra parte è stato visto che un’eventuale alterazione del microbiota può correlare
con delle patologie, pur senza esserne la causa (vedi tabella 2).

Molti fermenti e probiotici contengono spore di batteri o batteri che servono per
ripopolare il nostro intestino con comunità batteriche, che sono già presenti nel
nostro organismo, quando la loro percentuale diminuisce.

BATTERI IMPORTANTI PER LE ATTIVITA’ UMANE


I batteri contribuiscono a riciclare i nutrienti derivati dalla decomposizione dei resti
vegetali e animali, vengono utilizzati moltissimo negli impianti di depurazione delle
acque reflue ed anche nei processi di biorisanamento di terreni contaminati da
sostanze inquinanti, come il petrolio.
I batteri hanno avuto un utilizzo biotecnologico importantissimo negli ultimi
cinquant’anni: a partire da applicazioni prettamente industriali, come nel campo
dell’industria alimentare con la fermentazione lattica per la produzione di latticini, fino
ad arrivare ad applicazioni nel campo della produzione di farmaci (alcuni vaccini,
l’insulina, l’ormone della crescita).
Prima dell’avvento delle biotecnologie l’insulina era estratta dai maiali, ma, non
essendo, quella ottenuta, esattamente la stessa sequenza amminoacidica di quella
umana, si andava spesso incontro a reazioni immunitarie. L’insulina che viene
prodotta oggi dai batteri è esattamente identica a quella umana.
STRUTTURA CELLULA PROCARIOTE

La cellula procariotica è caratterizzata dal mancato raccoglimento del materiale


genetico all'interno di una membrana nucleare (procariota, dal greco “pro” (prima) e
“karyon” (nucleo), ovvero “prima di un nucleo vero e proprio”).
Il materiale genetico di una cellula procariote si trova all’interno del citoplasma,
dove non sono presenti organuli, fatta eccezione per i ribosomi (organuli non
rivestiti da membrana, deputati alla sintesi delle proteine).
Il citoplasma è raccolto dalla membrana plasmatica (di cui si tratterà più nel
dettaglio in seguito), che condivide numerose caratteristiche con la membrana
plasmatica delle cellule eucariotiche.
Esternamente alla membrana si trova la parete cellulare (una struttura rigida che
conferisce forma alla cellula e ne regola l’equilibrio idrico).
Oltre alla parete, alcuni batteri possono avere delle strutture accessorie, come ad
esempio la capsula (una struttura di natura polisaccaridica o proteica), dalla
consistenza gelatinosa, spesso presente nei batteri patogeni poiché rallenta il
riconoscimento del batterio da parte del sistema immunitario.
Altre strutture accessorie sono i pili e i flagelli, nonché la capacità di queste cellule
di produrre strutture di resistenza a cambiamenti ostili dell’ambiente, le spore.

LA PARETE CELLULARE
La parete batterica è costituita da una macromolecola chiamata peptidoglicano (o
mureina), dal nome si deduce la composizione di questa macromolecola, che è
costituita da amminoacidi e zuccheri modificati.
La parete batterica si differenzia in due grandi tipologie di batteri: i Gram-positivi e i
Gram-negativi, che vengono individuati e distinti mediante una colorazione
apposita.
La distinzione dei batteri in queste due grandi tipologie rispecchia la struttura della
parete:
● i batteri Gram-positivi hanno uno spesso strato di peptidoglicano;
● nei batteri Gram-negativi la parete è costituita da un sottile strato di
peptidoglicano e da un’ulteriore membrana (denominata “membrana
esterna” per distinguerla dalla membrana plasmatica vera e propria).

(Questa fotografia è stata ottenuta con un microscopio elettronico a trasmissione.


Nell’immagine schematizzata di fianco la componente colorata in giallo è quella glucidica, quella
colorata in violetto è la componente proteica.)

PEPTIDOGLICANO: la struttura del peptidoglicano è costituita da catene di due


zuccheri modificati legate fra loro da catene amminoacidiche.
Gli zuccheri coinvolti in questo processo sono l’acido N-acetilmuramico (NAM) e
l’N-acetilglucosamina (NAG), che si legano fra loro con un legame beta 1-4
glicosidico per formare lunghe catene.
Nell’immagine a fianco si possono
osservare i due zuccheri modificati
legati in maniera alternata fra di loro.
Legati al NAM sono presenti 4
amminoacidi. Al di sotto del primo
filamento si trova un secondo
filamento, sempre costituito dagli
zuccheri NAM e NAG alternati fra loro,
e di nuovo, al NAM sono legati 4
amminoacidi. Le due catene sono
legate fra loro attraverso legami detti
“crociati”, poiché si realizzano tra le
due catene che decorrono parallele;
questi legami sono costituiti da 5
residui (amminoacidi) di glicina
disposti “a ponte”.

E’ importante che le varie catene glucidiche siano saldate fra loro attraverso questi
legami perché questo conferisce stabilità e rigidità alla struttura.
I legami crociati rappresentano il sito bersaglio per l’attività della penicillina! (vedi in
seguito)
Nei Gram-negativi il legame crociato attraverso il ponte di pentaglicine non esiste
ma vi è un legame diretto tra due amminoacidi.

MEMBRANA ESTERNA DEI GRAM NEGATIVI


Tipica ed esclusiva dei batteri Gram-negativi, la membrana esterna è costituita da un
doppio strato fosfolipidico, proteine e da delle molecole che non sono presenti nella
membrana plasmatica, i lipopolisaccaridi (LPS o endotossine), di cui si sottolinea
l’importanza, essendo responsabili, nei batteri patogeni, di stimolare la risposta
immunitaria dell’ospite. I lipopolisaccaridi sono disposti sul foglietto esterno del
doppio strato fosfolipidico.

COLORAZIONE GRAM (dal nome del medico che la mise a punto)


Messa a punto da un medico danese nel 1884, essa permette di distinguere i due
tipi di batteri sulla base del diverso comportamento rispetto alla colorazione Gram.
Quest’ultima si compie utilizzando un colorante, chiamato cristalvioletto, unito a
iodio; questo composto penetra all’interno di tutte le cellule appena si effettua la
colorazione (sia Gram positive che Gram negative), tutte le cellule quindi si colorano
di viola.
In seguito si effettua una decolorazione con alcol e si osservano i Gram positivi
colorati di viola, in quanto capaci di trattenere il colore, e i Gram negativi biancastri,
non in grado di conservare il colorante.
Nella maggior parte delle immagini riportate nei libri, come quella che segue, per
avere un maggior contrasto e visibilità si colorano i Gram negativi con un colorante
tendente al rosa.
PENICILLINA
Scoperta nel 1929 da Alexander Fleming, la penicillina è un antibiotico che agisce a
livello del peptidoglicano, impedendo la formazione dei legami crociati. In tal modo la
parete perde robustezza e si sfalda provocando morte e/o incapacità di riprodursi nel
batterio.
La penicillina fu il capostipite di una famiglia di farmaci ad azione antibiotica.
Tutti i tipi di antibiotici agiscono su strutture o funzioni tipiche di organismi procarioti
ma assenti nelle nostre cellule eucariotiche (condizione necessaria affinché
l’antibiotico debelli i batteri e lasci integre le cellule dell’organismo).

MESOSOMA
Il mesosoma è un’invaginazione della membrana citoplasmatica di notevoli
dimensioni, di forma irregolare. Al livello di queste invaginazioni si organizzano tutti
gli enzimi e i complessi (citocromi) responsabili dello svolgimento di processi come
la respirazione cellulare e la fotosintesi (per quanto riguarda i batteri fotosintetici).
Ciò avviene perché la cellula procariotica, a differenza di quella eucariotica, non
contiene compartimenti e organuli atti a svolgere funzioni specifiche ma presenta
solo materiale genetico e ribosomi.
Nel mesosoma sono anche contenuti degli enzimi importanti per la sintesi della
parete e, come si vedrà meglio in seguito, i mesosomi sono importanti anche per la
corretta ripartizione del genoma tra le due cellule figlie durante la divisione cellulare,
infatti il mesosoma fornisce attacco al DNA facilitando la separazione dei due
cromosomi e la produzione del setto trasverso.

IL NUCLEOIDE
Il materiale genetico presente nella cellula batterica è
costituito dall’insieme di tutti i geni presenti sia nell’unico
cromosoma che negli elementi extracromosomici
trasmissibili.
L’unico cromosoma batterico è in genere costituito da una
molecola di DNA circolare a doppio filamento e presente in
un’unica copia.

I PLASMIDI
I plasmidi veicolano una serie di informazioni che non sono
indispensabili per la vita del batterio, ma possono conferirgli
dei vantaggi (produzione di tossine, pili, enzimi che
conferiscono resistenza ai farmaci antibatterici).
I plasmidi possono essere di dimensioni diverse: vanno da
1/20 a 1/100 della dimensione del cromosoma batterico;
possono contenere fino a 100 geni.
Talvolta i plasmidi possono anche integrarsi all’interno del genoma batterico, in
questo caso prendono il nome di episomi.
Generalmente i plasmidi si duplicano indipendentemente dal genoma stesso, fatta
eccezione per quando sono integrati nel genoma batterico.
I plasmidi possono essere classificati sulla base dei geni che trasportano e quindi
delle funzioni che controllano:
● Fattori di fertilità (fattori F): plasmidi che contengono geni responsabili del
processo di coniugazione batterica (una delle modalità con cui i batteri
possono ottenere variabilità genetica);
● Fattori di resistenza (fattori R): i batteri che li possiedono sono resistenti
ad uno o più antibiotici e possono trasferire questa informazione attraverso
coniugazione o trasformazione;
● Plasmidi di virulenza: contengono geni che codificano per tossine e fattori di
virulenza;
● Plasmidi metabolici: contengono geni che codificano per enzimi che
permettono di metabolizzare substrati insoliti, come composti aromatici e
pesticidi, conferendo al batterio la capacità di sopravvivere in ambienti ostili.
10/10/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatori: Silvia Mancini,Rachele Montagna
Lezione 3, parte prima Revisori: Niccolò Parenti,Nancy Palombi

RIBOSOMI
Gli unici organuli presenti all’interno dei batteri sono i ribosomi,
non rivestiti da membrana, ma costituiti da due subunità e
composti da rRNA e proteine.
Sono deputati alla sintesi proteica
e la loro presenza, quindi, è
necessaria per il corretto processo
del flusso dell’informazione
genetica.

EUBATTERI
E STRUTTURE ACCESSORIE
Le strutture accessorie o facoltative sono strutture che
possono essere presenti in alcuni ceppi batterici, ma non
sono uniformemente distribuite.
Le strutture sono:
● capsula;
● flagelli e ciglia;
● fimbrie e pili;
● spore.

CAPSULA
La capsula è una struttura di natura polisaccaridica o proteica che viene depositata
all’esterno della parete. Attraversando la cellula dall’interno verso l’esterno troviamo
la membrana cellulare, la parete e poi la capsula.
I batteri capsulati hanno una sembianza gelatinosa e ciò è visibile se vengono
cresciuti su una piastra petri.
Questi batteri possono essere evidenziati con inchiostro di china, ma non penetra il
batterio capsulato che rimane bianco su sfondo nero.
La capsula può essere presente sia
nei gram + che nei gram -
indistintamente.
La capsula contribuisce a
prevenire l'essiccamento, favorisce
l’adesività ad altri batteri e alle superfici dei tessuti dell’ospite, ma favorisce anche
una maggiore resistenza al riconoscimento dei macrofagi del sistema immunitario
(proprietà antifagocitaria). Grazie a ciò il batterio ha la possibilità di duplicarsi
all’interno dell’organismo.
La perdita della capsula è associata alla perdita della capacità infettiva e viceversa.
L'adesività, sopracitata, favorisce la colonizzazione in particolari distretti biologici,
formando delle strutture dette biofilm. Ad esempio sulla superficie del catetere,
utilizzato negli ospedali, si possono depositare questi batteri, richiamandone altri,
resistenti all'attacco degli antibiotici (quindi è la capsula a fungere da barriera per gli
antibiotici).

Il biofilm può essere costituito da vari


tipi di batteri la cui adesione
progressiva determina la formazione
di uno strato in cui i batteri sono adesi
l’un l’altro. Risulta difficile, di
conseguenza, la penetrazione di un
farmaco all’interno della colonia
batterica.
Il biofilm non è solo costituito da
batteri, ma anche da materiale extracellulare prodotto dai batteri stessi che aiuta a
cementare la struttura.

FLAGELLI E PILI
I flagelli favoriscono la motilità del batterio, la cosiddetta tassia, in
seguito ad uno stimolo positivo o negativo. Il numero e la
disposizione possono essere diversificati e sono costituiti da una
proteina detta flagellina.
Questi flagelli sono diversi per costituzione e organizzazione rispetto
ai flagelli eucariotici. Sono ancorati, attraverso una struttura basale,
alla membrana del batterio.
I pili, costituiti da pilina, sono presenti principalmente nei gram - e
sono codificati generalmente da geni presenti nei plasmidi. Alcuni
sono detti pili coniugativi e sono codificati da geni presenti sul fattore
F di tipo coniugativo, cioè che guida il processo coniugativo, uno dei
meccanismi attraverso cui è garantita la variabilità genetica nei
batteri.
Il pilo coniugativo è una struttura rigida che consente il passaggio di plasmidi,
permettendo, così, la diffusione di geni codificanti anche la resistenza agli antibiotici.

SPORA
La spora è una struttura rigida e disidratata contenente il
DNA batterico. Rappresenta una forma di resistenza del
microrganismo a condizioni sfavorevoli.
Sono sporigeni molti ceppi appartenenti ai Clostridi. La
pericolosità della spora è dovuta alla resistenza ai tenui
metodi con cui ci disinfettiamo solitamente.
Sono necessarie strumentazioni, come l’autoclave, che
distruggono le spore grazie alle alte temperature.

In condizioni ambientali sfavorevoli (bassi nutrienti, carenza d’acqua…) alcuni batteri


formano strutture «quiescenti» chiamate endospore, così dette perché si formano
all’interno.
Si duplica il DNA e una molecola viene progressivamente racchiusa all’interno di
una serie di strutture di rivestimento rigide, mentre l’altra molecola e il citoplasma
vengono eliminati.
Se le condizioni tornano ottimali la spora può germinare e riprodursi.

Clostridium Tossina neurotossica, Batteri presenti nel terreno


tetani anaerobi, gram + (escreti animali) con possibile
penetrazione cutanea.

Bacillus Gram +, aerobi Carbonchio negli animali;


anthracis Antrace negli uomini;

[Noto il terrorismo batteriologico


dopo la caduta delle torri
gemelle: alcune lettere venivano
contaminate con tale batterio.]

Clostridium Tossina neurotossica, Contaminazione alimentare


botulinum anaerobi, gram + (cattiva conservazione in
ambiente privo di ossigeno).
ARCHEOBATTERI

CARATTERISTICHE GENERALI E CLASSIFICAZIONE


Gli archeobatteri presentano caratteristiche e habitat diversi rispetto agli eubatteri.
Sono suddivisi in:
● termofili estremi, sopravvivono a temperature
superiori a 55°;
● metanogeni, convertono la 𝐶𝑂2 in metano;
● alofili, vivono a pH basici;
● acidofili, vivono a pH acidi.

Le distese di saline rosse, ad esempio in Francia, sono


rosse per la presenza degli Archea e di alcune alghe.
Sono, però, pochissimi gli organismi capaci di
sopravvivere in un habitat tale, poiché grandi quantità di
soluto generano la lisi della cellula.

La parete non contiene peptidoglicano ed è composta


da proteine, polisaccaridi e glicoproteine.
La membrana non contiene fosfolipidi.
I loro ribosomi sono diversi da quelli degli Eubatteri, fatto che ha concesso a chi si
occupa di filogenesi molecolare di distinguere il dominio degli Archea da quello degli
Eubatteri.
Presenta un numero maggiore di RNA polimerasi rispetto agli Eubatteri (3 negli
Eucarioti).
Negli Eucarioti e negli Archea la sintesi proteica ha inizio con la metionina (negli
Eubatteri con la formilmetionina).
Presenta una diversa sensibilità agli antibiotici.
Alcuni geni presentano introni.

RIPRODUZIONE BATTERICA
La scissione binaria, ovvero un tipo di riproduzione
asessuata, non deve essere confusa con la mitosi.
Questo processo, infatti, comprende complessivamente
sia la duplicazione del DNA, la formazione del fuso
mitotico e l’insieme di meccanismi che garantiscono la
divisione delle cellule eucariote.
Nella scissione binaria non si crea un fuso né tantomeno
si verifica una migrazione ai poli della cellula.
I mesosomi permettono l’ancoraggio del DNA alla membrana in modo da
suddividerlo equamente tra le cellule figlie. Successivamente si forma una nuova
parete e i batteri si dividono. Da una cellula “madre” si ottengono due cellule
identiche “figlie”, e così via.
Ciò implica l’assenza della variabilità genetica, fatta eccezione per eventuali errori di
duplicazione.
La RNA polimerasi, infatti, è estremamente fedele, ma può introdurre un errore ogni
9
10 basi azotate.
Le mutazioni sono certamente il substrato su cui agisce la selezione naturale.

MECCANISMI DI RICOMBINAZIONE DEL DNA BATTERICO


Nei Procarioti i principali meccanismi per la creazione di variabilità genetica, basati
sul passaggio di materiale genetico, sono:
● Coniugazione: mediante i pili;
● Trasformazione: i batteri subendo una scarica elettrica o venendo trattati con
particolari sostanze, sono in grado di far entrare materiale esterno;
● Trasduzione: mediata dai virus.

I batteri possono crescere in un liquido, in terreni di coltura


appropriati o in terreni solidi.
La crescita batterica è esponenziale fino al raggiungimento di un
certo plateau, causato dall’esaurimento delle risorse disponibili.
Può crescere su una piastra petri (agar agar per esempio), dove poi
saranno visibili colonie batteriche anche ad occhio nudo.

[La professoressa ha inserito alcune slides/tabelle nella presentazione powerpoint,


lezione 10/10, a puro scopo integrativo sui vari tipi di batteri]

ZUCCHERI COMPLESSI
POLISACCARIDI CON FUNZIONE DI RISERVA

L'amido e il glicogeno sono polisaccaridi con funzione di riserva energetica,


rispettivamente nel mondo vegetale e in quello animale.
Sono polimeri di glucosio, un monosaccaride che piante e animali accumulano, per
poi consumare in un secondo momento.

AMIDO
Le molecole di glucosio sono legate da legami α − 1, 4 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖.
L’amido, però, è costituito dall’unione di due polisaccaridi
diversi:
● amilosio, è la forma più semplice, non ramificata;
● amilopectina, una catena ramificata, simile al glicogeno.
Le piante accumulano l’amido all’interno di strutture dette
amiloplasti. Se necessario il polisaccaride viene scisso e il
glucosio ottenuto viene utilizzato nella respirazione cellulare.

GLICOGENO
Le molecole di glucosio all’interno della struttura lineare sono legate da legami
α − 1, 4 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖, mentre le ramificazioni si formano attraverso legami
1 6
α − 1, 6 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖 tra il 𝐶 e il 𝐶 (a formare la ramificazione stessa 8-10 residui di
glucosio).
Nel nostro organismo si deposita sia nel
fegato che nei muscoli, ma con funzioni
diverse.
Il muscolo sfrutta il glicogeno accumulato
per la propria attività e non ha alcun ruolo
nel controllo del livello di glicemia nel
sangue.
Quando la glicemia tende a diminuire o siamo sottoposti a un digiuno prolungato il
fegato degrada il glicogeno attraverso un processo detto glicogenolisi, rilasciando le
molecole di glucosio nel flusso ematico.

CELLULOSA
La cellulosa è un polimero lineare non ramificato.
Le molecole di glucosio sono legate da legami β − 1, 4 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖 e sono disposte
in fasce parallele, conferendo, così, maggiore rigidità al polisaccaride stesso.
Ha una funzione strutturale e costituisce la parete delle piante.
Gli animali non possiedono enzimi capaci di idrolizzare i legami β − 𝑔𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑖𝑑𝑖𝑐𝑖, per
cui non sono in grado di utilizzarne il glucosio per ottenere energia.
Le fibre vegetali presentano, però, una grande importanza
nella nostra dieta, pur non venendo digerite:
● regolano il transito intestinale;
● contribuiscono al mantenimento di un intestino pulito;
● aumentano la peristalsi.
Gli erbivori, come il resto del regno animale, sono
caratterizzati dall’assenza di geni per la produzione di enzimi volti alla digestione
della cellulosa.
Il loro stomaco ospita, però, batteri simbionti in grado di demolire il polimero,
garantendo la corretta digestione.
Quanto detto precedentemente vale anche per le termiti.

CHITINA
Molti crostacei ed insetti possiedono un esoscheletro costituito da chitina, un
polimero la cui unità fondamentale è N-acetil glucosamina, uno zucchero modificato.

[La professoressa elenca le formule da ricordare e disegnare ai fini dell’esame:


glucosio, ribosio, desossiribosio, ATP]
I LIPIDI
I lipidi da un punto di vista strutturale sono molecole molto diverse tra loro, ciò che li
accomuna è:

- la presenza di pochi atomi di ossigeno, quindi la presenza di pochi gruppi che


possono formare legami covalenti polarizzati;

- la presenza di pochi gruppi carichi (fanno eccezione gli acidi grassi), infatti
sono molecole ricche di atomi di carbonio e idrogeno, legati tramite legami
covalenti apolari;

- l'interazione reciproca mediante forze di Van Der waals e interazioni


idrofobiche;

- la formazione di strutture micellari non solubili se poste in acqua, sono per


questo nella loro globalità molecole idrofobiche.

Le funzioni principali dei lipidi sono le seguenti:

- sono i principali costituenti delle membrane biologiche;

- costituiscono forme di deposito di energia (trigliceridi);

- servono da rivestimento sulla superficie di molti organismi (soprattutto


quelli acquatici hanno uno strato di lipidi sottocutanei che li preserva
dal freddo);

- alcune sostanze tra i lipidi hanno una notevole attività biologica (ormoni
e vitamine).

1. ACIDI GRASSI
Gli acidi grassi sono costituiti da lunghe catene di carbonio, il gruppo funzionale che
li caratterizza è il gruppo carbossilico. Gli acidi grassi possono essere saturi (privi di
doppi legami) o insaturi (con uno o più doppi legami).

Un doppio legame in cis, cioè con i due atomi di idrogeno dalla stessa parte di piano
del doppio legame, comporta una distorsione della catena della molecola.
2. TRIGLICERIDI
I trigliceridi sono formati da un alcool (il glicerolo), caratterizzato da tre gruppi
ossidrili legati tramite legame estere a tre acidi grassi, per questo si dice che la
molecola di glicerolo è esterificata con tre acidi grassi.
Anche in questo caso la catena dell’ acido grasso può presentare o meno doppi
legami.

Nei grassi solidi come il burro prevalgono gli acidi grassi saturi, le loro catene
essendo lineari tendono a stare più vicine e compatte tra loro, avremo
conseguentemente numericamente più forze di van der Waals e interazioni
idrofobiche.
Gli oli invece sono caratterizzati da acidi grassi con doppi legami,
conseguentemente le catene carboniose tendono ad essere più lontane tra loro a
causa della distorsione della catena stessa, per questo motivo sono liquidi a
temperatura ambiente.

Sui grassi saturi e insaturi c’è un grande dibattito, perché è stata evidenziata una
correlazione diretta tra un alimentazione ricca di acidi grassi saturi e l’insorgenza di
patologie cardiovascolari, non a caso gli esami del sangue servono anche ad
evidenziare e segnalare un’eccessiva concentrazione di trigliceridi oltre che di
colesterolo nel sangue.

Alcuni cibi sottoposti a elevate temperature o ai processi di idrogenazione artificiale


(è un processo industriale in cui si parte da un grasso insaturo reso saturo, che
serve a rendere i cibi più gradevoli o più facilmente utilizzabili), in questo processo
così come in molti altri, si pensi alla combustione ad alte temperature, si possono
generare degli acidi grassi definiti trans, cioè con i due idrogeni del doppio legame
disposti dai lati opposti rispetto al piano del doppio legame.
Da un punto di vista nutrizionale si comportano come gli acidi grassi saturi, quindi
nonostante siano insaturi sono comunque considerati dannosi
per la salute.

I trigliceridi sono conservati negli adipociti, i grassi possono


essere sia integrati con l’alimentazioni, che prodotti dal nostro
corpo e vengono immagazzinati negli adipociti, per poi essere
utilizzati durante i digiuni prolungati, l’attività fisica a bassa
intensità ma di lunga durata o semplicemente quando siamo
lontani dai pasti.

Gli acidi grassi possono


andare incontro a un processo di ossidazione, da
essi come dal glicogeno (polisaccaride) si ricava
energia, i primi si trovano nel tessuto adiposo
all’interno degli adipociti e in piccolissima parte
anche nel muscolo (questa piccola parte di grassi
serve a produrre ATP e quindi ad alimentare la
contrazione muscolare), i secondi sono contenuti
in muscoli e fegato.

3. FOSFOLIPIDI

I fosfolipidi sono molecole chiave della membrana


plasmatica, sono definite antipatiche perché
possiedono una regione polare (che interagisce con
l’acqua) e una apolare, idrofobica.
Esistono due classi di fosfolipidi:

- i glicerofosfolipidi o fosfogliceridi;

- gli sfingofosfolipidi.

Come suggerisce il nome, entrambe le molecole sono caratterizzate dalla presenza


di un gruppo fosfato che conferisce polarità.
Nei glicerofosfolipidi troviamo una molecola di base che è il glicerolo, mentre negli
sfingofosfolipidi la molecola di base è la sfingosina.

3.1 GLICEROFOSFOLIPIDI

Un glicerofosfolipide è formato da una molecola


di glicerolo che possiede due atomi di carbonio
esterificati con due acidi grassi (come nel
trigliceridi), il terzo atomo di carbonio è legato a
un fosfato e ad un’altra molecola che varia da
fosfato a fosfato, ma che ha sempre la
caratteristica di essere una molecola carica o
polare, affinché la testa del fosfolipide possa essere considerata interamente
porzione polare.

Le diverse tipologie di glicerofosfolipide sono determinate dalla natura del


sostituente legato dal gruppo fosfato, ad esempio se il fosfato lega la colina, l’intero
glicerofosfolipide prenderà il nome di fosfatidilcolina.
La molecola costituita solo da glicerolo e fosfato prende il nome di acido fosfatidico,
che però è assente o estremamente scarso nelle membrane.

[per l’esame non è necessario conoscere tutti i sostituenti, tuttavia è bene ricordare
la formula chimica dei trigliceridi e dei fosfolipidi, ricordando che la “X” corrisponde a
un sostituente di vario tipo polare o carico, inoltre bisogna ricordare che il nome del
fosfolipide dipende dal sostituente.]

3.2 SFINGOFOSFOLIPIDI

La sfingosina è la molecola di base degli sfingofosfolipidi (sempre presenti a livello


delle membrane), la sfingosina è un amminoalcol a 18 atomi di carbonio, possiede
quindi sia un gruppo amminico, che un gruppo ossidrile.

La sfingosina si lega attraverso il suo gruppo amminico ad un acido grasso,


attraverso il gruppo ossidrile al fosfato e al sostituente “X” associato al fosfato,
mentre l’altra coda idrofobica che caratterizza tutti i fosfolipidi è rappresentata dalla
lunga catena idrocarburica della sfingosina stessa.

Un esempio di sfingofosfolipidi lipide è la


sfingomielina molto presente nelle membrane di
rivestimento del sistema nervoso.

La molecola globale privata


del gruppo fosfato e del
sostituente ad esso
associato, prende il nome di
cerammide, di cui è
particolarmente ricco lo stato
corneo della pelle.

È importante sottolineare che i glicerofosfolipidi


e gli sfingofosfolipidi, pur avendo una struttura
chimica diversa, sono simili da un punto di vista
conformazionale e di distribuzione di carica.

4.GLICOLIPIDI
Oltre ai fosfolipidi, le membrane biologiche sono costituite da altri componenti lipidici,
come i glicolipidi. Tali molecole possono essere classificati in due sottoclassi in
base alla loro composizione chimica:
● Gliceroglicolipidi: glicolipidi contenenti una molecola di glicerolo; sono
presenti soprattutto nelle membrane delle cellule vegetali;
● Sfingoglicolipidi: glicolipidi contenenti una molecola di sfingosina;
abbondanti nelle cellule animali.

Per capire la struttura di tali molecole, è utile visualizzare le principali differenze che
intercorrono con i fosfolipidi: se immaginiamo di togliere il gruppo fosfato e il
sostituente propri di un fosfolipide, sostituendoli con uno zucchero o una catena di
zuccheri, di fatto, otteniamo la strutture di base di un glicolipide.
In particolare, è la natura del glucide a determinare le caratteristiche del glicolipide,
nonché la sua nomenclatura.
Ex. Galattosio→ Galattolipide.

4.1 GLICEROGLICOLIPIDI

I gliceroglicolipidi sono glicolipidi caratterizzati dalla presenza di glicerolo. In


particolare possiamo descriverne la seguente struttura:
una molecola di glicerolo
dispone due gruppi ossidrili
-OH per la formazione di
legami estere con i gruppi
carbonilici di due acidi grassi,
e con il terzo gruppo-OH
lega uno zucchero, o una
catena di zuccheri.

Talvolta, i gliceroglicolipidi
presentano come sostituenti
gruppi carichi come un gruppo
fosfato- è il caso dei
Solfolipidi.

4.2 SFINGOGLICOLIPIDI

Gli sfingoglicolipidi sono glicolipidi caratterizzati dalla presenza di sfingosina. In


particolare possiamo descriverne la struttura:

una molecola si
sfingosina dispone il
proprio gruppo
amminico -NH per la
formazione di un
legame con una catene
di acido grasso, e con il
gruppo ossidrile -OH
lega uno zucchero, o
una catena di zuccheri.

Gli sfingoglicolipidi rivestono ruoli importanti nell’organismo umano, in effetti, alcune


di queste molecole svolgono un ruolo determinante soprattutto a livello del sistema
nervoso, come:

● Cerebrosidi o monoglicosil-ceramidi: legano un monoglucide. Possono


avere carica neutra, ex.Galattocerebrosidi, componente della guaina mielinica
(la sua degenerazione genera patologie come la sclerosi multipla), oppure
non neutri, come i Sulfatidi, caratterizzata dalla presenza del gruppo solfato.
Queste molecole sono componenti delle membrane cellulari e della guaina
mielinica che riveste gli assoni dei neuroni periferici, composta da
sfingomielina (e fosfoinositolo) al 40%, glicolipidi al 35%, solfolipidi e
colesterolo al 20%;
● Gangliosidi: legano un oligosaccaride, rappresentano il 6% dei lipidi del
cervello e sono lipidi anionici, data la presenza di acido sialico (residuo che si
dispone sulla testa polare saccaridica).
In particolare, i gangliosidi orientano la testa oligosaccaridica verso la
superficie cellulare, facendola sporgere: in quanto strutture sporgenti dalla
membrana, gli oligosaccaridi svolgono il ruolo di recettori di legame, ad
esempio di tossine o antigeni virali, possono essere coinvolti nel
riconoscimento cellula-cellula (sia in processi fisiologici come il
differenziamento cellulare che in processi patologici come la formazione di
tumori) e possono svolgere il ruolo di antigene.
In effetti, un altro aspetto fondamentale legato a queste molecole è la
differenziazione tra i gruppi sanguigni.

La classificazione in differenti gruppi sanguigni è dovuta ai glicolipidi presenti sulla


membrana degli eritrociti (globuli rossi), in particolare alla presenza o meno di
determinati oligosaccaridi. Se andiamo a studiare questi glicolipidi notiamo che
hanno una struttura di base, che differisce per pochi residui glucidici:

-Gruppo sanguigno 0= sfingolipide


con struttura base, riconosciuta
antigene del gruppo 0;

-Gruppo sanguigno A= sfingolipide


con struttura base, alla quale si trova
legato un residuo glucidico di
N-acetil-galattosammina, riconosciuta
come antigene del gruppo A;

-Gruppo sanguigno B= sfingolipide


con struttura di base, alla quale si
trova legato un residuo di glucidico di
Galattosio B, riconosciuta come
antigene del gruppo B.

I diversi antigeni del globulo rosso sono responsabili della compatibilità, o dell’
incompatibilità (ovvero, il riconoscimento di antigeni non-self con conseguente
risposta immunitaria di rigetto) dei gruppi sanguigni: di fatto, in virtù della presenza di
una struttura di base che si ripete, i gruppi A e B sono riceventi del proprio gruppo e
del gruppo 0, di contro, il gruppo O costituisce un donatore universale, ma riceve
soltanto il proprio gruppo.
Correlate a queste molecole vi sono anche delle patologie di accumulo di
sfingolipidi. All’interno dell’organismo, tutte le biomolecole sono soggette a processi
di sintesi e demolizione (anabolismo e catabolismo) strettamente sorvegliate:
quando viene meno la corretta regolazione di tali processi si va incontro a una
produzione anomala della macromolecola, spesso associabile a una patologia.
Se quanto descritto coinvolge gli sfingolipidi si va incontro alle c.d “patologie di
accumulo lisosomiale” che, come suggerito dal nome, hanno come le strutture
bersaglio i lisosomi, organuli contenenti enzimi deputati a numerosi processi di
demolizione che, se prodotti in concentrazioni anomale (come nel caso di queste
patologie) compromettono le vie cataboliche a cui essi sono deputati.

Per citare un esempio, la patologia rara di Tay-Sachs è causata da una carenza


dell’enzima esosaminidasi-A, la cui funzione è quella di deteriorare un legame
presente nel ganglioside GM2: le conseguenze sono il deterioramento neuronale nei
primi anni di vita.

Schema riassuntivo dei lipidi:


5. STEROIDI
Gli steroidi sono molecole estremamente importanti per l’organismo umano, tra cui
più di tutti il colesterolo e gli ormoni steroidei, deputati a importanti funzioni
biologiche.
La struttura di base degli steroidi è costituita da: tre anelli a 6 atomi di carbonio e un
anello a 5 atomi.

5.1 COLESTEROLO

La struttura del colesterolo è caratterizzata da un gruppo ossidrilico -OH, che


conferisce una lieve polarità che garantisce una minima interazione con l’ambiente
acquoso, e da un sostituente apolare, che contribuisce a rendere la molecola
complessivamente apolare.

Il colesterolo è stato oggetto di numerosi studi, dopo essere stato individuato nel
1784 all’interno dei calcoli biliari, il colesterolo è stato oggetto di 13 premi nobel
riguardanti: studi chimici( per la struttura a 4 anelli condensati); biochimici(per la
biosintesi); fisiologi (per le sue funzioni) e Medici (collegata a patologie
cardiovascolari).

Per quanto riguarda la sua funzionalità, il colesterolo costituisce uno dei lipidi
fondamentali delle membrane cellulari: nella membrana plasmatica, di fatto, il
rapporto molare tra fosfolipidi e colesterolo può arrivare a 1:1.
Oltre a ciò, costituisce il precursore di:
● acidi biliari;
● ormoni steroidei (cortisolo, aldosterone, ormoni sessuali);
● vitamina D.
Pur essendo una molecola importantissima da un punto di vista biologico, per la
salute dell’organismo è fondamentale che la concentrazione ematica del colesterolo,
misurata nelle analisi del sangue attraverso la concentrazione delle lipoproteine di
trasporto HDL e LDL, sia moderata.

L’apolarità della molecola, responsabile della scarsissima solubilizzazione con


composti acquosi come il sangue, è causa della stretto legame che intercorre tra
livelli di colesterolo ematico e il rischio di insorgenza di patologie
cardiovascolari, frequenti soprattutto nell’anziano: se durante il trasporto ematico
con le lipoproteine il colesterolo precipita, soprattutto sotto forma di LDL, esso tende
a depositarsi sulle pareti dei vasi sanguigni sotto forma di ateroma, causando danno
cellulare e ostruzione del flusso sanguigno.
Alla luce di ciò, per mantenere la concentrazione ematica di colesterolo nei valori
ottimali, è necessario un buon bilanciamento tra le quantità assunte con
l’alimentazione e le quantità sintetizzate biologicamente dall’organismo.

5.2 ORMONI STEROIDEI

Gli ormoni steroidei sono derivati del colesterolo e sono responsabili dello sviluppo
dei caratteri sessuali secondari maschili e femminili, di fatto, il dimorfismo
sessuale è tipico della specie umana, oltre che di molte specie animali, come ad
esempio i pavoni.

5. CAROTENOIDI

I carotenoidi sono molecole lipidiche che svolgono le seguenti funzioni:


● responsabili della colorazione delle piante;
● responsabili della colorazione del piumaggio di numerose specie;
● nell’uomo il beta-carotene è precursore della vitamina A.
12/10/2023 Proff.sa Magherini
Biologia Sbobinatori:Giulia Sapienza, Giulia Ricci
Lezione 4 Revisori:Tommaso Montorfano, Emma
Prestini

LA CELLULA EUCARIOTE

Il termine “eucariote” significa “vero nucleo”, infatti in questo tipo


di cellule il DNA è avvolto da una membrana. La cellula
eucariote è organizzata in compartimenti, a loro volta delimitati
da membrane (dette “endomembrane”), infatti troviamo vari
organuli, ognuno dei quali è deputato a svolgere una specifica
funzione peculiare della cellula. Forma e dimensioni della cellula
variano sia tra differenti specie che fra differenti tipi cellulari
della stessa specie, ad esempio la forma delle cellule
dell’epitelio dell’intestino è molto particolare, in quanto presenta
delle estroflessioni dette “microvilli” il cui scopo è aumentare la in rosso membrana plasmatica e
membrane cellulari
superficie di assorbimento.

(Nelle diapositive la prof. aggiunge la seguente tabella dove troviamo le differenze tra
procarioti ed eucarioti, specifica che ci servirà in seguito)
LE MEMBRANE CELLULARI
Le membrane all’interno della cellula e quella esterna hanno la stessa organizzazione e la
stessa struttura di base, ma la percentuale delle varie componenti, come proteine e lipidi,
può essere diversa.
Le membrane non creano soltanto dei compartimenti, svolgono molte altre funzioni:
- Regolano in maniera attiva ciò che entra e ciò che esce dalla cellula (nel caso della
membrana plasmatica), è quindi una barriera selettiva che mantiene l’omeostasi,
ovvero la capacità di autoregolarsi mantenendo costante l'ambiente interno pur al
variare delle condizioni che riguardano l'ambiente esterno.
- Alcune sono deputate al trasporto delle sostanze.
- Rappresentano un supporto fisico per l’attività enzimatica.
- Possono partecipare a meccanismi di trasferimento dell’energia, come nel caso
specifico del mitocondrio o del cloroplasto

Sulle membrane sono situate delle proteine che hanno la funzione di ricevere stimoli
dall’esterno e trasmetterli tramite dei meccanismi di trasduzione del segnale, ovvero dei
sistemi intracellulari che permettono di convertire un segnale extracellulare in segnale
intracellulare mediante l'attivazione di un effettore.
Queste proteine mediano l’interazione cellula-cellula, cellula-substrato e anche
cellula-matrice extracellulare, permettendo la cooperazione e la coordinazione di tutte le
cellule di un organismo.

STORIA DELLA STRUTTURA DELLA MEMBRANA


La storia della struttura della membrana è piuttosto lunga e dimostra come anche nel campo
della biologia si proceda per “passi”, ogni step è il risultato dell’ arricchimento del
precedente.

1. OVERTON :
L’idea che la membrana fosse di natura lipidica risale alla seconda metà dell’800 da parte di
Overton. Egli fece una semplice osservazione: si era accorto che attraverso le membrane
cellulari passavano con molta facilità sostanze apolari, idrofobe e di natura lipidica, mentre le
sostanze idrofile, polari o cariche passavano con molta più difficoltà o non passavano,
Overton suppone quindi che la membrana sia apolare;

2. LANGMUIR
Poco dopo Langmuir mise a punto un sistema per far
stratificare dei fosfolipidi in acqua in modo da poterli studiare.
Estraendoli con un solvente organico, il benzene, li poneva in
acqua; qui il benzene evaporava ed i fosfolipidi si
disponevano con la testa polare rivolta verso l’acqua e le
code apolari rivolte, invece, verso l’aria. Da questo Langmuir
suppose che la membrana fosse stratificata, ma ci si accorse
solo in seguito che questo modello monostratificato non risultava possibile empiricamente.
3. GORTER E GRENDEL
In seguito Gorter e Grendel, nel 1925, effettuarono il seguente esperimento: Presero in
analisi un numero preciso di eritrociti, dopo di che
misurarono la superficie cellulare del singolo eritrocita
e la moltiplicarono per in numero di cellule prese in
esame, ottennero così un numero, corrispondente
alla superficie totale degli eritrociti.
In seguito, estrassero i fosfolipidi con il benzene e
facendoli stratificare sull’ acqua notarono che
occupavano una superficie che era il doppio di quella
attesa. Ipotizzarono quindi che la membrana fosse
costituita da un doppio strato di fosfolipidi. Questo
modello presentava però delle incompatibilità con la
realtà, ad esempio con questo modello sarebbe difficile immaginare come delle molecole
polari o degli ioni possano penetrare la membrana, cosa che in realtà succede.

4. DAVSON, DAINELLI E ROBERTSON


Davson e Danielli postularono un modello in cui i fosfolipidi sono associati a delle proteine in
una sorta di “panino”, in cui abbiamo le proteine all’esterno che racchiudono i fosfolipidi, tale
modello viene detto “modello a sandwich”.
Anche questo modello presentava però delle lacune sperimentali. Nella membrana, infatti, ci
sono delle proteine fortemente idrofobe che non sono compatibili con il modello di proteine
tutte uguali immerse in ambiente idrofilo. Un’ ulteriore prova fu data dal test della fosfolipasi,
un enzima in grado di degradare i fosfolipidi, la cui azione avrebbe dovuto essere fermata
dalle proteine.

La confutazione di questo modello tardò ad arrivare, perché nello stesso periodo si stava
sviluppando la microscopia elettronica e Robertson, uno studioso, con i suoi esperimenti
sembrava avvalorare la tesi di Davson e Danielli.
Quest’ ultimo, con il suo modello di colorazione
trilaminare, confuse le teste polari dei fosfolipidi con le
proteine, rappresentate da una banda scura
nell’immagine.
Venne osservato al microscopio elettronico che la
membrana aveva in totale uno spessore di circa 7-8
nm, la parte “chiara”, ovvero quella occupata dai
fosfolipidi, corrisponde a circa 5-6 nm, si osserva quindi che per le proteine rimaneva uno
spazio di circa 1-2 nm, questo dato però non corrispondeva alle osservazioni, che nel
periodo si stavano accumulando, sulla struttura delle proteine, infatti esse hanno strutture di
dimensioni solitamente maggiori.
Questo errore viene notato e viene corretto, infatti la banda nera che si nota nella foto non è
altro che la fascia formata dalle teste dei fosfolipidi, colorati con osmio per renderli più
evidenti nelle immagini al microscopio.

5. ATTUALE: SINGER E NICOLSON


Il modello che oggi viene considerato corretto è quello proposto da Singer e Nicolson nel
1972 detto a “mosaico fluido”. Fu chiamato “mosaico” perché si tratta di un insieme di
macromolecole diverse (proteine, lipidi), e “fluido” perché i lipidi presenti a livello della
membrana le garantiscono una certa fluidità. Qui di seguito elencate le caratteristiche dei
singoli componenti.

SCHEMA DELLA STORIA DELLE SCOPERTE SULLA MEMBRANA:


LIPIDI DI MEMBRANA
Nella membrana sono presenti diversi tipi di lipidi, tra cui:
- FOSFOLIPIDI, caratterizzati dalla presenza nella loro struttura di glicerolo o
sfingosina;
- GLICOLIPIDI, divisi in glicoglicerolipidi e glicosfingolipidi, a loro volta caratterizzati
dalla presenza di glicerolo o sfingosina;
- COLESTEROLO (solo nelle cellule animali): fa parte della classe degli steroli ed è
caratterizzato da una serie di anelli tutti idrofobici (non ci sono gruppi ossidrile) e da
una breve catena idrocarburica. Il colesterolo è una molecola studiata e discussa per
via della sua connessione con patologie cardio-vascolari (la prof fa l’esempio dei
dosaggi di HDL e LDL nell’emocromo), ma rimane una molecola importante per il
nostro organismo. La troviamo nelle membrane dove svolge un ruolo centrale per
quanto riguarda la fluidità, ed è inoltre precursore delle vitamine e degli ormoni
steroidei. Può essere prodotto dal nostro organismo o assunto con la dieta; spesso
rischia di essere troppo elevato negli anziani. Non è solubile nel sangue ed è quindi
associato a delle lipoproteine. Nei vegetali è sostituito da delle molecole chiamate
fitosteroli e nei batteri dagli opanoidi.
PROTEINE DI MEMBRANA
Per studiare le proteine di membrana viene utilizzata
una tecnica chiamata criofrattura: la membrana viene
congelata in azoto
liquido, quindi a bassissima temperatura, e poi con una
lama viene effettuata una frattura nel suo punto di
maggiore fragilità, che è quello tra le code dei
fosfolipidi, così facendo,
la membrana si separa
in due foglietti, quello
esterno e quello interno. Le proteine di membrana rimangono
ancorate o ad un foglietto o all’altro a seconda di come erano
legate nella membrana integra. Otteniamo quindi che: se
inizialmente una proteina era più legata ad uno dei due
foglietti, rimarrà legata a quest’ultimo anche dopo la
criofrattura, lasciando così un solco nell’altra membrana.
Osservando i due foglietti si possono notare dei crateri che
corrispondono al punto in cui nell’altro foglietto della
membrana si trova una proteina.

Esistono tre categorie di proteine che stabiliscono con la membrana legami più o meno
stretti:

- Le proteine intrinseche o integrali, sono le proteine che


attraversano completamente la membrana. Queste proteine
possiedono regioni spesso strutturate ad alfa elica, tali
regione contengono amminoacidi idrofobici, che si pongono
all’interno della membrana. Ci sono poi altre regioni più
idrofile. Questo tipo di proteine possono essere
monopasso(=attraversano la membrana una sola volta) o
multipasso(= attraversano la membrana più volte)

- Le proteine periferiche o estrinseche, che si associano alla


membrana in maniera “blanda” e non attraversano il doppio
strato fosfolipidico. Si associano alle teste polari dei fosfolipidi
oppure interagiscono attraverso legami deboli con le porzioni
che sporgono verso il lato citoplasmatico delle proteine
intrinseche.

- Le proteine ancorate ai lipidi, che possono legarsi covalentemente o a glicolipidi o ad


acidi grassi o ad altri lipidi che derivano dall’isoprene,
questo legame con i lipidi lI rende saldamente legati
alla membrana.
Un esempio è il fosfolipide con legato l’inositolo, e per questo prende il nome di
glicosilfosfatidilinositolo cui si è legato una proteina.

Molte proteine possono essere glicosilate ovvero ancorate al GPI. Questo legame avviene
quando una proteina attraverso il reticolo endoplasmatico rugoso ed il golgi. Una struttura
formata da più proteine glicosilate può venir chiamata glicocalice. Un esempio di proteine
glicosilate sono quelle dei lisosomi.
Molte proteine di membrana, tuttavia, non sono galleggianti nel doppio strato fosfolipidico
ma sono in parte ancorate, nella zona citoplasmatica, ad elementi del citoscheletro e, nella
zona extracellulare, alla matrice extracellulare, così come possono mediare l’interazione tra
due cellule che sono strettamente legate le une alle altre.

ATTENZIONE:
Il doppio strato di fosfolipidi non è simmetrico, non solo i fosfolipidi sono differenti tra loro,
ma anche la distribuzione delle proteine e dei lipidi è diversa tra i due foglietti (es. le proteine
ancorate al gpi si trovano solo all’esterno) ciò ha ovviamente delle ripercussioni a livello
funzionale
FLUIDITA’ DELLA MEMBRANA
Supponiamo di fare il seguente esperimento: prendiamo delle cellule umane e delle
cellule di topo e marchiamo le proteine di membrana di entrambi con degli anticorpi
a fluorescenza specifici per ciascuna. Ovviamente, utilizziamo anticorpi che abbiano
un’emissione di fluorescenza diversa in modo tale da poter distinguere, al
microscopio a fluorescenza, le proteine di origine murina rispetto a quelle di origine
umana.
Induciamo successivamente la fusione delle membrane (che può essere effettuata
con vari metodi come per esempio la produzione uno stimolo elettrico o chimico) e
attendiamo. Osserviamo a questo punto nella risultante ibrida una ridistribuzione
delle proteine di membrana delle due cellule e le due fluorescenze mischiate tra di
loro.

Questo significa che il doppio strato fosfolipidico possiede delle caratteristiche di


fluidità. I lipidi possono infatti compiere diversi movimenti tra cui: la traslazione, la
rotazione attorno al proprio asse e, più raramente, passare da uno strato
fosfolipidico all’altro (flip-flop). Il flip-flop è termodinamicamente sfavorito perché la
testa polare del fosfolipide è costretta a passare dalla porzione apolare del doppio
strato. Il processo non è infatti spontaneo e necessita di particolari enzimi chiamati
flippasi per poter avvenire.

Attenzione! Nell’esperimento preso in considerazione precedentemente non sono le


proteine a muoversi attraverso la membrana cellulare ma i fosfolipidi che, grazie al
loro movimento, le spostano di conseguenza.

È quindi importante capire quali sono i meccanismi che regolano la fluidità della
membrana.I fattori che la regolano sono tre:
1. Temperatura
2. Grado di saturazione e lunghezza degli acidi grassi
3. Colesterolo

1. La temperatura aumenta o diminuisce l’energia cinetica delle molecole e,


conseguentemente, influisce sul loro movimento. In tutti i grassi, fosfolipidi compresi,
vi è una temperatura detta “di transizione” a livello della quale si passa da uno stato
fluido, che corrisponde ad uno stato funzionale per la cellula dove le molecole non
sono strettamente impacchettate tra loro, ad uno stato detto “di gel” caratterizzato da
una struttura più solida e non funzionale. Quando le temperature tendono ad
abbassarsi si perde sensibilità e, quando gli stimoli attraversano la membrana,
questi risultano inefficienti.
Nella nostra specie abbiamo una serie di meccanismi che mantiene costante la
temperatura quindi la nostra membrana è meno soggetta a questo tipo di fenomeno.
Ma negli animali a sangue freddo, i pecilotermi, che non hanno meccanismi di
termoregolazione, la temperatura influisce sulla fluidità di membrana, costringendoli
a sviluppare delle strategie per ovviare a questo problema.
È però importante ricordare che questi meccanismi di adattamento alle temperature
necessitano di tempo quindi, per esempio, piante o animali possono morire a causa
di gelate improvvise.

2. Gli acidi grassi insaturi influenzano la rigidità


della membrana in quanto la presenza di uno o
più doppi legami nella molecola impedisce o
riduce la formazione di interazioni. Ne consegue
che se la quantità di acidi grassi insaturi è
elevata si riscontrerà una maggiore fluidità. Gli
acidi grassi a catena lunga sono invece
caratterizzati da un numero maggiore di carboni
che permette di aumentare le possibilità di
interazioni e di conseguenza causa una
diminuzione della fluidità. La temperatura di
fusione dell’acido grasso è quindi più elevata.
Gli organismi che non hanno meccanismi di
regolazione della temperatura,ad esempio
batteri, piante e animali che vanno in letargo, possiedono enzimi che sono in grado
di variare o il grado di saturazione degli acidi grassi, o la loro lunghezza. In questo
modo mantengono inalterata la fluidità della membrana.
3. Il colesterolo è costituito da un ingombrante
regione idrofobica, che si intercala tra gli acidi
grassi, ed una piccola regione idrofilica polare
(gruppo OH), situata all’altezza delle teste dei
fosfolipidi. Il colesterolo viene considerato un
vero e proprio sistema tampone in quanto è in
grado di regolare la fluidità di membrana: se le
temperature aumentano, il colesterolo determina
una diminuzione della fluidità, mentre se si
abbassano aumenta la fluidità. Viene quindi detto
sistema tampone poiché agisce tamponando gli
effetti delle variazioni di temperatura.
Adesso vediamo come questo processo riesce
ad avvenire: nel caso in cui si abbassi la
temperatura, la porzione ingombrante idrofobica
funziona da impedimento per un eccessivo
compattamento delle code degli acidi grassi, in
altre parole fa sì che all’abbassarsi della temperatura le code degli acidi grassi non si
impacchettino troppo strettamente proprio perché costituisce una sorta di ingombro
sterico. Nel caso in cui ci sia un aumento della temperatura entra in gioco la parte
polare del colesterolo (-OH) che forma dei legami a idrogeno con la testa polare dei
fosfolipidi, in particolare con il gruppo carbossilico coinvolto nel legame estere tra
glicerolo ed acido grasso. La presenza di questi legami stabilizza la membrana e
perciò all’aumentare della temperatura ne impedisce la fluidità. Il rapporto molare fra
fosfolipidi e colesterolo è circa 1:1. Nelle membrane interne questo rapporto è più
basso, la quantità di colesterolo è inferiore a quella dei fosfolipidi.
Il sistema tampone funziona proprio sfruttando le caratteristiche strutturali del
colesterolo.

CARATTERISTICHE DELLA MEMBRANA PLASMATICA


Il modello a mosaico fluido è un modello tuttora valido tuttavia è stato recentemente
osservato che all’interno della membrana vi sono delle regioni, chiamate
microdomini, che presentano caratteristiche peculiari.
Due esempi di microdomini sono:
● La “lipid raft” (zattera lipidica) il cui nome viene dal fatto che il microdominio,
ricco di colesterolo e sfingolipidi (caratterizzati da lunghe catene di acidi
grassi insaturi), è più rigido rispetto al resto della membrana quindi è come se
galleggiasse sul doppio strato fosfolipidico fluido. Questa struttura è coinvolta
nella segnalazione cellulare e soggetta a recenti studi.
● Le caveole: caratterizzate dalla presenza di una proteina detta caveolina, che
forma una sorta di “rete” la quale permette la formazione di un’invaginazione
di membrana e quindi il processo di endocitosi, processo sempre studiato
negli ultimi anni.
È stato osservato che i microdomini sono coinvolti sia nella trasduzione del segnale
che nell'attacco di alcuni virus.

MEMBRANE DEI PROCARIOTI


Come tutte le membrane, quelle dei procarioti sono costituite da fosfolipidi, proteine
e si organizzano a formare un mosaico fluido.
Tuttavia:
● Non contengono colesterolo ma steroli diversi chiamati opanoidi, la cui
struttura rispecchia quella del colesterolo
● Formano delle invaginazioni chiamate mesosomi
● Non sono presenti acidi grassi polinsaturi
● Sono presenti acidi grassi ramificati
● Tra i lipidi di membrana è presente anche il difosfatidil-glicerolo (cardiolipina)

La membrana degli Archea, inoltre, non è costituita da fosfolipidi bensí da una


molecola di glicerolo, da un gruppo fosfato e due lunghe catene isopreniche legate al
glicerolo mediante un legame etere. Questa diversa struttura della membrana è
probabilmente responsabile della maggiore resistenza degli Archea i quali vivono
generalmente in condizioni estreme.

IL TRASPORTO DI MEMBRANA
Il trasporto di membrana riguarda il meccanismo di passaggio delle sostanze
attraverso la membrana stessa. Questo può suddividersi in trasporto passivo e
trasporto attivo.
Attraverso la membrana cellulare passano liberamente molecole idrofobiche e
piccole molecole polari, i gas, l’acqua, l’urea ed il glicerolo.
Non passano invece liberamente molecole di dimensioni maggiori come glucosio,
amminoacidi, fruttosio e molecole dotate di carica ecc.
Le membrane sono quindi strutture selettivamente permeabili.

TRASPORTO PASSIVO
Nel trasporto passivo l’energia per il passaggio delle molecole attraverso la
membrana è fornita dal gradiente di concentrazione: una forma di energia potenziale
basata sulla differente concentrazione delle molecole alle due parti opposte della
membrana. In questo tipo di trasporto le molecole si muovono dalla zona a più alta
concentrazione a quella a minor concentrazione fino a quando non viene raggiunto
un equilibrio che viene detto dinamico poiché la quantità di molecole che si sposta in
una direzione equivale a quella che si sposta nella direzione opposta.

Il trasporto passivo viene a sua volta distinto in diffusione semplice o facilitata:


● Diffusione semplice: passaggio di molecole senza l’ausilio di proteine.
Riguarda gas, acqua e molecole di natura idrofobica. La capacità di una
sostanza di attraversare una membrana è funzione del suo grado di solubilità
nei lipidi: più è idrofobica più passa rapidamente.
● Diffusione facilitata

TRASPORTO ATTIVO
Nel trasporto attivo, invece, il movimento delle molecole è opposto ed è definito
contro gradiente di concentrazione: da una zona a minor concentrazione ad una a
maggior concentrazione. È quindi necessario utilizzare l’energia ricavata dall’idrolisi
dei legami altamente energetici tra il terzo e il secondo fosfato dell’ATP per far sì che
avvenga il trasporto.
17/10/2023
Prof.ssa: Francesca Magherini
Biologia
Sbobinatori: Francesca Luongo, Vittoria Valentini
Lezione 5, parte prima
Revisori: Giosè Schapira, Anna Menegatti

IL TRASPORTO ATTRAVERSO
LA MEMBRANA
Cosa passa attraverso un doppio strato fosfolipidico sintetico:
Nell’immagine, si osserva che alcune molecole riescono a passare attraverso la
membrana facilmente mentre altre no.
I gas passano liberamente, così come le molecole idrofobiche (es. benzene).
Anche piccole molecole polari (es. glicerolo, urea, acqua) riescono a passare.
Se si prendono ioni o molecole polari più grandi invece, vengono respinti dal doppio strato
fosfolipidico. E’ quindi evidente che per passare attraverso la membrana essi necessitino
di un altro sistema, ovvero le proteine di trasporto, che permettono/facilitano l’ingresso.

Nonostante l’acqua sia una molecola fortemente polare, riesce a passare anche molto
rapidamente, poiché alcune cellule dispongono di appositi canali detti acquaporine.
Inoltre, essendo la molecola dell’acqua di piccole dimensioni, riesce a passare fra pori che
si creano temporaneamente nel doppio strato fosfolipidico.
TRASPORTO PASSIVO

La diffusione di una sostanza attraverso una membrana biologica, che non necessita
l’utilizzo di ATP, è definita trasporto passivo e avviene secondo gradiente di
concentrazione.

Si possono distinguere 3 tipi di trasporto passivo:

- Diffusione semplice
- Diffusione facilitata
- Osmosi

- DIFFUSIONE SEMPLICE
Per muovere i soluti viene sfruttato il gradiente di concentrazione, vale a dire la differenza
di concentrazione fra esterno ed interno della cellula. Il passaggio della determinata
sostanza avviene direttamente attraverso la membrana e sussiste finché non si raggiunge
un equilibrio, fra interno ed esterno, che risulta essere dinamico in quanto le molecole
continuano a spostarsi da una parte all’altra della membrana in maniera equivalente.
Questo tipo di trasporto non
richiede pompe o trasportatori.
La capacità di una sostanza di superare la membrana è direttamente proporzionale alla
sua idrofobicità (più è apolare più è facile che riesca ad attraversare le code apolari dei
fosfolipidi).

- DIFFUSIONE FACILITATA
Ci sono molecole come gli zuccheri che non riescono a passare facilmente attraverso il
doppio strato (o non riescono proprio).
Ecco quindi che si introduce il concetto di diffusione facilitata, in cui il trasporto è mediato
da proteine. Esistono due tipi di proteine trasportatrici: i carrier (o trasportatori), oppure
proteine canale.
I Carrier
Le caratteristiche principali delle proteine di trasporto sono la specificità del substrato,
ovvero che i Carrier presentano una struttura tale da poter selezionare ciò che devono
trasportare (simili ad enzimi). Ogni Carrier è specifico per un suo substrato. La specificità
può essere assoluta, come nel caso dei Carrier del glucosio, che trasportano solo
glucosio, oppure alcuni trasportano sia glucosio che fruttosio.
Altra peculiarità è che i Carrier possono essere bloccati da inibitori competitivi. Se un
Carrier ha una struttura adatta al suo substrato, si può usare una molecola con struttura
simile (magari farmaco) che blocca la sua funzione legandosi ad esso.
Inoltre hanno un’elevata dipendenza dalla temperatura e dal PH: Variando il numero di ioni
H+ possono venire meno alcune funzioni, così come la temperatura, poiché al suo
aumento varia anche l’energia cinetica e quindi si modificano le interazioni. Questo
comportamente è intuibile poiché i carrier sono proteine.

Saturabilità delle proteine di trasporto:


Inizialmente la velocità di ingresso è elevata, poi raggiunge il plateau e si stabilizza. La
velocità rimane quindi costante.

Il numero di carrier è limitato, quindi il numero di molecole che possono entrare è limitato.
Esiste in due conformazioni alternative dette strutture alternative: una per legare la
sostanza dall’esterno (iniziale) e l’altra (indotta dal substrato) per rilasciare la sostanza
all’interno della cellula. Dopo aver rilasciato il substrato, ritorna alla conformazione iniziale.
Alcuni esempi: I trasportatori più studiati sono quelli del glucosio (in quanto il glucosio è
una
delle molecole più importanti per la produzione di energia ed inoltre perché è l’indice
fondamentale per lo studio del diabete). Questi vengono chiamati Glut + numero che
indica il tessuto su cui si trovano ed ognuno presenta caratteristiche di affinità diverse per
il glucosio stesso. Per esempio nel fegato abbiamo il Glut2, nei muscoli il Glut4, negli
eritrociti il Glut1 e Glut3 nel cervello.

Se le concentrazioni di glucosio all’interno della cellula diventano tali da superare quelle


presenti all’esterno, avviene il meccanismo contrario?
In teoria sì ed in alcuni casi come nel fegato, avviene proprio questo processo. Però nella
stragrande maggioranza delle cellule, quando il glucosio entra all’interno della cellula
viene fosforilato (gli viene aggiunto un fosfato), questo è il primo passo per indirizzare il
glucosio nelle varie vie metaboliche di cui farà parte.
Quindi la trasformazione in glucosio-fosfato, non viene più riconosciuta dal carrier e quindi
non partecipa più all’equilibrio chimico fra interno ed esterno della cellula, dunque il
glucosio può continuare ad entrare nelle cellule anche quando la concentrazione interna
diventa alta perchè viene modificato subito in glucosio-fosfato.

Trasporto del glucosio nelle cellule muscolari:


Una particolarità del trasporto di glucosio, si verifica a livello delle cellule muscolari.
Quando queste sono sottoposte ad intensa attività necessitano di grandi quantità di
glucosio, al fine di produrre energia.
Per incrementare la quantità di glucosio in ingresso a livello della membrana, l’insulina
(ormone ipoglicemizzante) induce un meccanismo di segnalazione che fra vari effetti, ha la
fusione di vescicole che si trovano in prossimità della membrana, estremamente ricche di
trasportatori a livello della membrana stessa. In questo modo il numero di trasportatori a
livello della membrana aumenta ed il glucosio riesce ad entrare molto rapidamente
all’interno delle cellule muscolari.
Queste ultime utilizzano il glucosio per formare ATP essenziale per la contrazione
muscolare, oppure, se in quel momento non hanno necessità di produrre un lavoro
muscolare lo possono immagazzinare sotto forma di glicogeno, però ad esclusivo utilizzo
della cellula stessa.

La gestione del glucosio nel fegato:


Il fegato non solo immagazzina glucosio sotto forma di glicogeno , ma è anche
responsabile della sua degradazione e quindi del rilascio del glucosio nel sangue. Questo
può verificarsi quando ad esempio siamo lontani da un pasto, così che la glicemia rimanga
costante. Quando i livelli di glucosio sono abbondanti, l’insulina segnala questa
abbondanza, il glucosio entra all’interno della cellula, viene fosforilato e conservato sotto
forma di glicogeno.
Quando invece siamo lontani dal pasto le riserve di glicogeno vengono degradate, viene
liberato il glucosio in forma fosforilata, il fosfato viene rimosso da uno specifico enzima che
si trova legato al livello del reticolo endoplasmatico liscio così che il glucosio diventi un
substrato per il trasportatore e possa essere trasportato.
Proteine canale
A differenza dei carrier le proteine canale non sono soggette a tutte caratteristiche
precedentemente descritte, ma costituiscono dei pori situati a livello della membrana che
presentano una permeabilità selettiva (sia la dimensione del poro che i residui
amminoacidici specifici a livello della superficie interna del poro).

Esistono 3 tipi di proteina canale:


- Canali Ionici
- Porine
- Acquaporine

I canali ionici sono adibiti al trasporto (selettivo) di ioni e possono essere regolati (aperti o
chiusi) da due fattori:
Il potenziale di membrana e il legame con determinate molecole.

Le porine, presenti sulle ME di mitocondri, cloroplasti e nei Gram-, Sono dei canali non
specifici, che hanno come unico limite le dimensioni della molecole da trasportare.
Sono caratterizzate dalla cosiddetta “struttura a barilotto”, data dalla struttura delle
proteine che le compongono (a ß-foglietto), che delimitano una cavità centrale, adibita al
passaggio delle molecole.
Le Acquaporine sono appunto porine che trasportano acqua e sono il motivo per cui,
nonostante questa sia una molecola polare, passa così facilmente dentro e fuori dalla
cellula.

- OSMOSI
La membrana plasmatica nei confronti dell’acqua ricorda il comportamento di una
membrana semipermeabile nel concetto dell’osmosi in chimica.
In chimica l’osmosi è definita come il passaggio di acqua tra due soluzioni a diversa
concentrazione (una più concentrata, l’altra meno) separate da una membrana
semipermeabile.
L’acqua tenderà ad andare dalla soluzione dove il soluto è meno concentrato a quella in
cui lo è di più, in modo tale da “diluire” la soluzione più concentrata (arrivare ad un
equilibrio in cui le soluzioni sono isotoniche). Possiamo quindi dedurre che nei confronti
dell’acqua la membrana plasmatica si comporta come membrana semipermeabile.

Questo è il motivo per cui per una flebo si usa una soluzione fisiologica, oppure per cui in
laboratorio non si lavano le cellule con acqua. Evitare di lisare le cellule.
La pressione osmotica non dipende dal tipo di soluto, ma dalla sua concentrazione.

Esempi:
La cellula animale (globulo rosso) in soluzione con stessa concentrazione di soluti rispetto
all’interno della cellula sta bene (si parla di isosmosi)
Se la soluzione è ipotonica, ovvero la concentrazione di soluti all’interno della cellula è
maggiore dell’esterno, l’acqua entra e la cellula aumenta di volume fino a morire.

Le cellule dotate di parete cellulare, invece, sono resistenti alla lisi osmotica. Se si mette
una cellula vegetale o un batterio in una soluzione ipotonica, l’acqua tenderà ad entrare e
la cellula tenderà a gonfiarsi. Ad un certo punto, però, essendoci la parete rigida ed
indeformabile, smetterà di entrare acqua. La pressione esercitata dalla parete si
contrappone a quella dell’acqua che entra.
Nelle cellule vegetali questa è la soluzione migliore perché le cellule sono ben idratate.
Nel caso in cui la cellula venga messa in una soluzione ipertonica, si assiste alla morte
cellulare perché la parete non impedisce la fuoriuscita di acqua e quindi le membrane
cellulari si contraggono fino alla morte cellulare.
Questo principio viene utilizzato nella conservazione degli alimenti sotto sale o per le
marmellate con lo zucchero.
TRASPORTO ATTIVO
È un trasporto che avviene contro gradiente, perciò la cellula necessita di energia e
trasportatori per poterlo e ettuare. Vengono trasferiti soluti da dove sono meno
concentrati a dove sono più concentrati a spese di ATP.

In questo contesto entrano in gioco delle proteine di membrana chiamate pompe ATP
dipendente o ATPasi le quali, utilizzando l’energia presente all’interno della molecola di
ATP, sono in grado di permettere alla proteina di trasferire le molecole contro gradiente.

Questi meccanismi possono essere suddivisi in tre tipologie di trasporto principali:

1. UNIPORTO—> viene trasferita una sola molecola alla volta;

2. SIMPORTO—> vengono trasferite due molecole contemporaneamente nella stessa


direzione;

3. ANTIPORTO—> vengono trasferite due molecole contemporaneamente nella


direzione opposta;

I trasportatori del trasporto attivo vengono chiamati pompe e possono essere: atpasi di
tipo P, V, F (sono delle atpsintasi) e di tipo ABC.
ff
POMPE DI TIPO P
“P” deriva dal fatto che questo tipo di pompa presenta un legame covalente con un
fosfato (che deriva dall’idrolisi dell’atp) che si lega all’amminoacido aspartato della
subunità beta, che poi viene fosforilato. Generalmente le pompe di tipo P sono costituite
da due subunità alfa a livello della quali è presente un sito di legame per il fosfato che
deriva dall’idrolisi dell’ATP, e due subunità beta dove si lega poi all’amminoacido
aspartato.

Sul sito di legame, l’atp viene legata ed idrolizzata ed un residuo di fosfato viene legato
all’aspartato (amminoacido): questo determina un cambiamento conformazionale della
proteina (viene utilizzata energia chimica per indurre un cambiamento conformazionale),
al ne di produrre un determinato tipo di lavoro a livello della proteina stessa. La forma ad
alta a nità lega la sostanza dove questa è meno concentrata.

Ricordiamo che quindi le pompe presentano due forme alternative: una ad alta a nità
che lega la sostanza dove è meno concentrata, che subisce una variazione
conformazionale, e una a bassa a nità, che rilascia la sostanza dove è più concentrata .
(Il trasporto attivo va contro gradiente).

Esempio pompa di tipo P:

1. Pompa Na+/K+:

Si tratta di un antiporto nel quale si trasportano 3 ioni sodio verso l’esterno e 2 ioni
potassio verso l’interno. Le concentrazioni sono molto diverse tra l’interno e l’esterno
della cellula: questa pompa permette di mantenere un livello di concentrazione degli ioni
ma anche un gradiente elettrico costante del potenziale di membrana (-60 mV);
fi
ffi
ffi
ffi
Vista la di erenza di carica si genera un potenziale di membrana negativo (3 cariche
positive escono e solo 2 entrano), essenziale per le nostre cellule. 3 ioni sodio vengono
legati dal trasportatore/lume della cellula, la pompa viene fosforilata a livello di un residuo
di aspartato, che induce un cambiamento conformazionale, così che la pompa possa
rivolgere i siti diventati a bassa a nità per il sodio verso l’esterno; vengono poi legati 2
ioni potassio, rilasciato il fosfato, ed il potassio viene rilasciato poi dentro la cellula, così
che il ciclo possa ricominciare.

2. Pompa protonica:

Vengono trasportati ioni H+ dall’interno all’esterno della cellula. E’ la principale pompa


elettrogenica presente nei vegetali, crea sia un gradiente di concentrazione che un
gradiente elettrico.

In questo caso il legame con il fosfato avviene prima del legame con H+, il sito diventa ad
alta a nità, l’H+ si lega e si veri ca la variazione conformazionale. Viene in ne rilasciato
l’H+, il fosfato viene rimosso e si torna alla situazione iniziale. La fosforilazione qui serve
quindi per trasformare i siti a bassa a nità in siti ad alta a nità.

3. mucosa gastrica:

E’ presente un particolare antiporto, molto studiato in quanto bersaglio di alcuni farmaci


che servono a limitare l’acidità gastrica.
In seguito ad un pasto, l’istamina si lega a un recettore presente sulla membrana delle
cellule presenti sulla mucosa gastrica e segnala la presenza di cibo. In vescicole situate in
prossimità della membrana vi è un antiporto che trasporta in maniera opposta idrogeno e
potassio (inattiva). Il legame con l’istamina determina la fusione di queste vescicole
contenenti la pompa, che si attiva portando nel lume dello stomaco gli ioni H+ e
trasportando all’interno della cellula nel citoplasma gli ioni K+. Essa acidi ca il contenuto
gastrico permettendo il funzionamento degli enzimi che funzionano a pH acido (valori di
circa 2), presenti a livello dello stomaco.

Esistono farmaci, detti “inibitori di pompa” che inibiscono questo trasportatore, utilizzati
per limitare l’acidità gastrica. Esistono anche farmaci che inibiscono il contatto con la
molecola segnale che induce la fusione delle vescicole a livello della membrana.

POMPE DI TIPO V
V sta per vacuolo; si trovano a livello dei lisosomi nelle piante o nei vacuoli delle cellule
vegetali. Esse hanno una struttura proteica complessa formata da più subunità che, a
di erenza delle pompe P, non presentano una forma direttamente fosforilata; il loro
funzionamento è connesso all’idrolisi dell’ATP per fornire l’energia chimica per permettere
il trasporto contro gradiente dello ione H+, ma non viene fosforilata direttamente.
ff
ffi
ff
fi
ffi
ffi
ffi
fi
fi
In questa immagine viene descritto il trasporto primario della
pompa dei lisosomi, determinato dal trasporto degli ioni H+
dall’esterno all’interno del lisosoma, che ne acidi ca il
contenuto. Questo procedimento è utile proprio perché
all’interno dei lisosomi sono contenuti enzimi che funzionano
a PH acido. Infatti il PH interno del lisosoma deve essere
intorno a 5 (quello del citoplasma è circa 7). Essi servono per
la degradazione di materiale proveniente sia dall’esterno che
dall’interno della cellula in caso non fosse funzionante.

POMPE DI TIPO F
In condizioni in cui si trovano normalmente le cellule queste pompe funzionano
sintetizzando atp sfruttando un gradiente protonico.

POMPE DI TIPO ABC (ATP binding cassette)

L’ultimo tipo di pompe a livello delle cellule animali che analizzeremo sono quelle di tipo
ABC (ATP binding cassette) cioè cassette di legame dell’ATP, con un riferimento al motivo
strutturale responsabile del legame con l’ATP.

È un tipo di trasporto non speci co perché è in grado di trasportare diversi tipi di


molecole: ioni, zuccheri e amminoacidi. Ne sono state trovate di diversi tipi:

*Le permeasi si trovano nelle membrane dei batteri, con il ruolo di trasportare diverse
molecole;

*MDR (multidrag-resistence protein) sono delle proteine responsabili della resistenza ai


farmaci. Si trovano nelle membrane delle cellule eucarioti e il loro ruolo è quello di
trasportare il farmaco dall’interno all’esterno della cellula impedendone l’e cacia;
fi
fi
ffi
*CFTR che è un canale regolatore della conduttanza transmembrana della brosi cistica;
il suo ruolo è quello di trasferire gli ioni cloro dall’interno all’esterno della cellula; gli ioni
cloro una volta all’esterno richiamano acqua favorendo un ambiente maggiormente
idratato; questo trasferimento è associato al consumo di ATP.

Nella brosi cistica esistono diversi tipi di mutazioni a carico di questa proteina che
in ciano della sua funzione; in alcune delle forme più gravi questa proteina non si
inserisce neppure nella membrana. Essa coinvolge tessuti epiteliali e si presenta nelle sue
fasi tardive con la presenza di cisti che danneggiano i tessuti.
Quando il cloro viene trasportato correttamente nel lume, la presenza di questo ione
carico richiama acqua e questo favorisce la presenza di un muco uido che può
facilmente essere espulso, evitando così anche il ristagno ed eventuali mutazioni causate
da batteri.
Quando questo canale non funziona adeguatamente il cloro non viene trasportato nel
lume, di conseguenza a livello degli alveoli si forma un muco denso, che ristagna e
diventa terreno fertile per le infezioni. Infatti, le infezioni polmonari sono una delle
problematiche legate a questo tipo di patologia.
Anche questo tipo di trasportatore presenta delle fortissime analogie con le pompe di tipo
ABC perché l'apertura di questo canale per il cloro è controllata proprio dall’ATP.

TRASPORTO ATTIVO SECONDARIO


Avviene contro gradiente e sfrutta l’energia derivata da altre pompe.

Un esempio è il trasporto di glucosio da una regione dove è meno concentrato rispetto a


una zona dove lo è di più; è attivo in quanto va contro gradiente, secondario poiché
l’energia che viene utilizzata è quella che deriva dal gradiente della pompa sodio-potassio
e non direttamente ATP;

Bisogna comunque considerare che l’ATP viene utilizzato per il funzionamento della
stessa pompa sodio potassio. Questo tipo di trasporto si trova a livello delle cellule che
fi
fi
fl
fi
delimitano l’intestino, visto che facilita l’ingresso continuo di glucosio, anche quando
tenderebbe ad essere più concentrato, così da poterlo poi trasferire ai vasi per poter
raggiungere i vari distretti dell’organismo.

Eritrocita e tutti i meccanismi di trasporto che possiamo trovare a livello di questa cellula:
1. Trasporto attivo mediato dalla pompa sodio-potassio;
2. Di usione facilitata mediata da un
trasportatore di glucosio, il GLUT2;
3. Trasporto attivo secondario
Nell’immagine di destra si può notare un globulo
rosso con alcuni trasportatori e meccanismi di
passaggio:
*In tutte le nostre cellule CO2 e O2 passano
liberamente attraverso il doppio strato
fosfolipidico (non necessitano trasportatori di
nessun tipo).
*L’acqua passa attraverso la membrana
plasmatica e, in alcuni casi, attraverso il doppio
strato fosfolipidico, che è permeabile all’acqua,
benché sia una molecola polare. In alcuni tipi
cellulari l’acqua passa anche attraverso le
acquaporine (AQP), canali specifici per l’acqua.;
*Il glucosio passa attraverso il GLUT1, un trasportatore specifico del glucosio;
*Un canale per il potassio; La sodio-potassio ATPasi.
ff
Nel caso delle cellule vegetali la principale pompa è elettrogenica: oltre a determinare uno
sbilanciamento degli ioni ai due lati della membrana (gradiente chimico) è in grado di
determinare anche un gradiente di tipo elettrico.
È una pompa protonica, cioè una pompa ATPdipendente, che pompa fuori dalla cellula
ioni H+.

Anche nella cellula vegetale c’è un meccanismo di trasporto attivo secondario, che

prevede il rientro all’interno della cellula di ioni H+ secondo gradiente e il rientro contro
gradiente di saccarosio (disaccaride che rappresenta nella pianta una forma di trasporto
del glucosio). Ricordiamo che nel trasporto attivo secondario c'è sempre l'ingresso
accoppiato attraverso un meccanismo di co-trasporto di uno ione che rientra secondo
gradiente di concentrazione e di un'altra molecola, in questo caso il saccarosio, che entra
contro gradiente. Per questo si chiama trasporto attivo secondario:
“attivo” perché dipende dal gradiente creato attivamente dalla pompa, in questo caso la
pompa protonica;
“secondario” perché l’ATP non viene direttamente consumato in questa fase (trasporto
attivo controgradiente).

ENDOCITOSI E ESOCITOSI
I Meccanismi generali che coinvolgono ampie porzioni della membrana cellulare sono:
ENDOCITOSI: è il trasporto verso l'interno della cellula con la formazione di una
vescicola che si forma da un’invaginazione e che si chiuderà portando all’interno del
materiale. Tipologie di endocitosi sono:

*fagocitosi—> introduzione di molecole grandi dimensioni, come macromolecole o interi


microrganismi, avviene contro gradiente di concentrazione. Un esempio sono batteri
morti, frammenti cellulari derivanti da una ferita che vengono ingerite da delle cellule
specializzate.

*endocitosi generalizzata, quella che viene più comunemente chiamata pinocitosi—>


vengono introdotti uidi contenenti soluti disciolti.
La proteina che permette di inglobare le particelle in fagocitosi e pinocitosi è l’actina, una
proteina molto abbondante. Quando una molecola segnale si lega ad un recettore e il
legame recettore-molecola induce una cascata di segnalazioni, per porre ne a questa
cascata bisogna esercitare un meccanismo di endocitosi mediata da recettore o togliere il
recettore dalla membrana.
fl
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*endocitosi mediata dal recettore—> prevede la formazione di vescicole che possono
essere rivestite da particolari proteine come la clatrina o la caveolina;

Un esempio di endocitosi mediata da recettore è quello del colesterolo. Esso viene


trasportato nel sangue associato alle lipoproteine poiché è una molecola idrofobica e non
può essere trasportata libera nel sangue. Le principali lipoproteine sono le LDL, a bassa
densità, e le HDL, ad alta densità.
Nelle analisi del sangue è opportuno che il valore dell’LDL sia compreso in un determinato
range, infatti LDL è de nito come ’‘colesterolo cattivo”, cioè quella forma di trasporto di
colesterolo correlata con arteriosclerosi e le patologie cardiovascolari. Può depositarsi a
livello delle arterie e diminuire il loro diametro; la presenza di un meccanismo di ingresso
delle LDL all’interno delle cellule e ciente è importante proprio perché rimuove le LDL dal
sangue.
Le nostre cellule possiedono dei recettori per le LDL che riconoscono in maniera
speci ca le LDL circolanti e con un meccanismo di endocitosi regolato da clatrina
trasportano all'interno della cellula sia il recettore che LDL.
Una volta che le LDL e il recettore
sono entrati nella cellula il
rivestimento di clatrina viene perso
e riciclato alla membrana in modo
tale che possa essere utilizzato
nuovamente.
La vescicola che ne deriva chiamata
ora vescicola non rivestita si fonde
con l’endosoma da smistamento,
cioè una delle tante vescicole che si
trovano all'interno della cellula.
Dopo questo meccanismo di
fusione con l’endosoma, il pH
dell’endosoma che si forma viene
leggermente abbassato, ciò
determina una diminuzione della
forza di legame tra il recettore e
LDL. A questo punto i recettori
vengono inglobati in un’ulteriore vescicola che li ricicla alla membrana . La vescicola che
ne rimane si fonde con un endosoma primario, ovvero un organulo contenente enzimi
digestivi. Dalla loro fusione si forma un lisosoma secondario, attivo nella digestione delle
LDL e delle macromolecole presenti all’interno dell’endosoma o fagosoma.
Esiste una patologia chiamata “ipercolesterolomia familiare” che deriva da mutazioni a
livello della proteina recettore livello delle LDL: il recettore non riesce a legarsi al
complesso lipoproteico e questo scaturisce un accumulo di LDL nel sangue.
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ESOCITOSI: E’ il trasporto dall'interno all'esterno della cellula. Una vescicola all'interno
della cellula, delimitata da membrana, si fonde con la membrana plasmatica riversando
all'esterno il proprio contenuto. Nelle cellule che svolgono in maniera molto e ciente
questo tipo di meccanismo, come le cellule che producono sostanze che devono essere
secrete verso l'esterno (ormoni o enzimi), può essere ricambiata completamente la
membrana plasmatica proprio grazie a questi meccanismi continui di endocitosi ed
esocitosi in circa un’ora.

Per quanto riguarda il meccanismo di esocitosi questo può essere un meccanismo di


tipo:

*costitutivo—> avviene continuamente da parte della cellula (la secrezione di matrice


extracellulare da parte dei broblasti, cellule del tessuto connettivo che producono
proteine, glicoproteine, polisaccaridi);

*regolato—> è regolato da uno stimolo (a livello delle terminazioni nervose si accumulano


delle vescicole in cui si depositano neurotrasmettitori che vengono rilasciati soltanto in
seguito ad uno stimolo. Un altro esempio può essere il pancreas esocrino che produce gli
enzimi digestivi che vengono rilasciati durante la digestione)

Abbiamo quindi due meccanismi generali: un meccanismo di secrezione costitutiva


sempre continuo e uno regolato. In quest'ultimo caso generalmente la molecola che deve
essere rilasciata, sia essa un ormone o un neurotrasmettitore, si può trovare all'interno di
vescicole che sono presenti in prossimità della membrana, quindi già pronta e già
preformata, e nel momento in cui arriva lo stimolo la vescicola si fonde con la membrana
e il neurotrasmettitore o l'ormone viene rilasciato all'esterno della cellula stessa.
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19/10/2023 Proff.sa Magherini
Biologia Sbobinatori: Davide Picardo, Gaia Tarsitano
Lezione 6 Revisori: Giulio Pineschi, Bianca Niccolai

IL CITOSCHELETRO
Il citoscheletro è rappresentato da una serie di strutture proteiche che hanno una
conformazione generalmente filamentosa, che all'interno della cellula hanno numerose
funzioni. Infatti, non si deve pensare all'interno della cellula come una soluzione acquosa in
cui si muovono liberamente gli organuli, ma essa è interamente percorsa da fasci proteici,
che rappresentano il citoscheletro. Esso ha funzione strutturale, cioè coopera a dare la
forma caratteristica delle cellule, funzione di sostegno, di resistenza meccanica, di binari
lungo i quali vengono trasportati vescicole e materiali, e inoltre in alcune cellule specializzate
gli elementi del citoscheletro hanno un ruolo chiave in meccanismi di contrazione.
Dunque questi sono tutti elementi fondamentali per la funzionalità della cellula.

Nel citoscheletro si trovano essenzialmente tre tipologie di filamenti:


• I microtubuli, che sono costituiti da dimeri di una proteina chiamata tubulina e sono
quelli di dimensioni maggiori. Il loro diametro esterno è di 25 nm e quello interno è di
15 nm, essendo cilindri
cavi è possibile individuare
entrambe queste
dimensioni;
• I filamenti di actina o
microfilamenti, che sono i
più sottili, il loro diametro è
di 7 nm;
• I filamenti intermedi, che,
appunto, hanno
dimensioni intermedie tra i
primi due;
Immagini al microscopio confocale dei
filamenti di actina, dei filamenti
intermedi e dei microtubuli, ottenute
utilizzando molecole fluorescenti in
grado di legare in maniera selettiva le
diverse molecole. Restituiscono la
distribuzione dei filamenti all'interno
delle cellule, che sono completamente
attraversate da queste strutture.

MICROFILAMENTI
I microfilamenti sono caratterizzati da polimeri di actina, cioè una proteina globulare, che
nella sua forma tridimensionale globulare viene detta actina G (globulare). Presenta anche
una regione in grado di legare l’ATP (pallina blu).
Le molecole di actina si legano le une alle altre spontaneamente a formare dei filamenti che
si arrotolano tra di loro a coppie per formare la struttura definitiva del microfilamento, cioè
l’actina F (filamentosa), ottenuta dopo la polimerizzazione.

Una volta che i monomeri di actina si sono legati tra di loro l’ATP viene idrolizzato, perciò
nei filamenti formati è presente l’ADP.
La polimerizzazione delle molecole di actina avviene sempre in una determinata direzione
(testa-coda), cioè non è casuale il modo in cui un monomero si pone rispetto all'altro, ma
questi sono sempre orientati nello stesso modo; perciò, nella molecola di actina si possono
individuare due estremità, non equivalenti fra di loro:
• un'estremità che viene detta appuntita (pointed end), negativa, ovvero quella a
livello della quale i monomeri di G-actina prevalentemente si dissociano;
• un'estremità che viene detta a barbigli o sfrangiata (barbed end), positiva, ovvero
quella a livello della quale avviene la polimerizzazione, cioè a livello della quale i
monomeri di G-actina si aggiungono.

In vitro si è visto che la polimerizzazione dell’actina inizia con una fase lenta che viene
chiamata nucleazione in cui pochi monomeri di actina si avvicinano gli uni agli altri e si
legano tra di loro, poi, dopo questa fase iniziale di nucleazione, la polimerizzazione procede
molto più rapidamente e avviene prima dai due lati, poi progressivamente inizia ad essere
prevalente ad un'estremità (l'estremità +) e invece risulta essere sfavorita all'altra estremità.
Questo processo, che vale anche per i microtubuli, si può spiegare con il concetto di
concentrazione critica: ad entrambe le estremità possono avvenire entrambi i fenomeni,
però dipendono dalla concentrazione di actina G legata all'ATP disponibile nel citoplasma,
cioè vi è una concentrazione, che viene detta concentrazione critica, al di sopra della quale
avviene la polimerizzazione e al di sotto della quale avviene la depolimerizzazione. Tale
concentrazione critica non è uguale tra le due estremità, ma all'estremità negativa ci vorrà
una maggiore concentrazione di actina G legata all’ATP perché avvenga la
polimerizzazione. Perciò, a parità di concentrazione di actina G, se essa è sufficiente per la
polimerizzazione a livello dell'estremità positiva, potrebbe non esserlo per la
polimerizzazione a livello dell'estremità negativa e dunque lì l’actina si depolimerizza.
A un certo punto si arriva a uno stato stazionario, in cui, tramite il fenomeno del
treadmilling, il segmento di actina filamentosa può rimanere uguale nella sua lunghezza nel
tempo, mentre invece, di fatto, i monomeri che lo compongono sono sempre nuovi perché
da una parte se ne staccano e dall'altra si riattaccano.

All'interno della cellula l'actina interagisce con numerose proteine, che vengono chiamate
proteine leganti l’actina, ed hanno varie funzioni, come stabilizzare i filamenti di actina,
provocarne una rottura, inibire la polimerizzazione oppure favorirla, favorire delle
ramificazioni, o favorire l'ancoraggio della actina a determinate strutture.
A titolo di esempio si possono analizzare:
• Proteine coinvolte nella nucleazione, che promuovono le prime fasi della formazione
dei microfilamenti;
• Proteine del cappuccio, che si legano alle estremità dei microfilamenti e bloccano gli
eventi di polimerizzazione e depolimerizzazione;
• Proteine depolimerizzanti e proteine di taglio, che rispettivamente legandosi ai
microfilamenti ne facilitano la depolimerizzazione e operano dei veri e propri tagli;
• Proteine di collegamento, che possono unire microfilamenti tra di loro;
• Proteine che favoriscono la polimerizzazione;
• Formina, che promuove la nucleazione e di fatto guida la formazione dei
microfilamenti in tutta la loro fase. È costituita da un dimero e promuove la
nucleazione, cioè le fasi iniziali di aggregazione dei monomeri di G-actina per
formare quel nucleo iniziale a partire dal quale poi avviene la polimerizzazione, non
lasciando il microfilamento in via di accrescimento ma guidando l'inserimento dei
monomeri di actina G;
• Arp2/3, che promuove le ramificazioni. Quando entra in contatto con un
microfilamento promuove l'aggregazione di altri monomeri di G-actina in modo tale
da creare delle strutture di microfilamenti non più lineari ma ramificati;
• Cofilina, che determina la depolimerizzazione dei monomeri di actina, quindi il loro
distacco, e può anche promuovere dei tagli;
• Profilina, che facilita lo scambio tra ADP e ATP per rigenerare la G-actina legata
all’ATP;
I microfilamenti sono presenti in tutte le cellule eucariotiche e hanno una grandissima varietà
di funzioni che vanno dalle funzioni più prettamente strutturali, alle funzioni correlate al
movimento, alla formazione di strutture specializzate della cellula. Tra le funzioni più
importanti troviamo:
• Costituzione e stabilizzazione dei microvilli intestinali;
• Formazione della cortex cellulare;
• Formazione di strutture contrattili come i lamellipodi, i filopodi e l'anello contrattile che
si forma quando si separano due cellule durante al termine della meiosi;
• Coinvolgimento nella contrazione muscolare e in altre forme di motilità;

Microvilli (A) → sono delle strutture che si trovano a livello della membrana plasmatica
delle cellule intestinali, che sono cellule che hanno una polarità. La parte che guarda il lume
presenta una membrana estroflessa in queste strutture, a cui viene dato sostegno dai
filamenti di actina. I microvilli sono ovviamente ricoperti dalla membrana plasmatica, la quale
compie questo movimento ad estroflettersi, tuttavia, se fossero costituiti soltanto dalla
membrana plasmatica, tenderebbero a collassare e non resterebbero in una posizione
funzionale per aumentare l’assorbimento.
La struttura del microvillo è mantenuta da fasci paralleli di microfilamenti, dei quali l’estremità
positiva è rivolta verso la terminazione del microvillo, mentre l'estremità negativa è rivolta
dall'altra parte.
Nell’immagine sottostante si individuano delle proteine indicate in blu che servono sia a
connettere i microfilamenti di actina alla membrana plasmatica, cosa che contribuisce a
creare un tutt'uno con la membrana plasmatica stessa, sia a collegare i microfilamenti tra di
loro.

Cortex (B) → i microfilamenti formano una struttura a fitta rete ancorata al di sotto della
membrana cellulare da una serie di proteine, che serve a dare sostegno alla membrana
plasmatica. Essa è stata studiata molto negli eritrociti ma è presente in tutti i tipi di cellule e
si conoscono anche molte delle proteine che determinano l'associazione dell’actina alla
membrana, contribuendo anche in questo caso alla sua stabilità.

Organizzazione in strutture contrattili o legate al movimento (C,D) → sebbene il


massimo livello di organizzazione dell'attività in strutture contrattili venga osservato a livello
delle cellule muscolari, in particolar modo del muscolo scheletrico, tuttavia l’actina forma
strutture contrattili in molte altre occasioni, come ad esempio nella formazione dell’anello
contrattile che determina la separazione tra le due cellule figlie, in cui, come nel caso del
muscolo, l’actina interagisce con un'altra proteina, cioè la miosina.

Oltre a questo, l’actina è coinvolta in strutture contrattili che sono connesse anche al
movimento cellulare. Infatti, esistono numerose cellule che hanno la capacità di muoversi
su un substrato, molto importante sia durante lo sviluppo embrionale quando man mano che
le cellule si dividono e si differenziano devono raggiungere i vari distretti dell’organismo in
via di formazione, sia nella vita dell'adulto, ad esempio quando le cellule devono migrare per
riparare una ferita, oppure quando le cellule del sangue devono migrare verso il luogo di
un'infezione o di un danno.
Il movimento cellulare può essere molto studiato in vitro nelle cellule nei fibroblasti, che sono
delle cellule del connettivo che aderiscono bene alle strutture che si utilizzano per coltivarli,
per cui molte informazioni su questo sono state ottenute proprio studiando i meccanismi di
adesione dei fibroblasti in coltura.
Quello che si è osservato è che alcuni tipi di cellule, tra cui i fibroblasti, sono in grado di
emettere delle strutture che possono essere filamentose, chiamate filopodi, o lamellari
chiamati lamellipodi, con le quali aderiscono al substrato, costituite da filamenti di actina,
disposti rispettivamente in strutture filamentose a fasci paralleli nei filopodi e in strutture
reticolari nei lamellipodi.
Per garantire il movimento cellulare si può immaginare che i filamenti di actina spingano in
avanti una porzione della cellula, mentre dall'altra parte la retraggano attraverso una
depolimerizzazione, dunque, dal momento che è l’actina a sostenere la forma della cellula,
questa porzione della cellula si ritrae e in questo modo essa avanza progressivamente sul
substrato. Perché questo possa avvenire è necessario anche che si stabiliscano dei contatti
tra la membrana della cellula e la matrice, cioè quello su cui la cellula poggia, e ciò è reso
possibile perché esistono delle proteine di membrana, che si chiamano integrine, che
ancorano la cellula al substrato man mano che le nuove propensioni si formano.
Queste regioni dove la cellula prende contatto con il substrato vengono chiamati contatti
focali o adesioni focali.
Un terzo protagonista di questo processo è rappresentato dalla miosina, molecola implicata
insieme all’actina nei meccanismi di contrazione, che, contrariamente a quanto si può
pensare, non avvengono soltanto a livello del muscolo scheletrico, ma anche all'interno delle
cellule, dal momento che esistono numerose tipologie di miosina (si riconoscono attraverso
un numero associato al nome), delle quali alcune si sono specializzate durante il corso
dell'evoluzione per il muscolo scheletrico, altre per altri tipi di motilità. Infatti la contrazione,
sia durante la fase della retrazione della parte posteriore della cellula, sia nella fase in cui la
cellula deve tirare in avanti la sua massa, è mediata dall'interazione tra le teste della miosina
e l’actina, interazioni che sono ATP dipendenti come nel caso del muscolo scheletrico.
Perciò, l’actina rientra a pieno titolo nei filamenti coinvolti nella motilità cellulare, non soltanto
per l'organizzazione del sarcomero, ma anche per tutta la motilità di tutte le altre cellule, in
cui interagisce con la miosina: permettendo sia la formazione dei filopodi e dei lamellipodi,
sia il movimento della cellula.Tutto ciò in cooperazione con le integrine, che mediano il
contatto tra la cellula e il substrato, e le miosine, che determinano un meccanismo di
contrazione vera e propria.
MICROTUBULI
I microtubuli sono dei polimeri di tubulina, una proteina globulare di cui esistono due
diversi tipi, -tubulina e -tubulina, entrambe in grado di legare il GTP (guanosina trifosfato,
formato da ribosio, guanina e tre molecole di fosfato), ma soltanto il GTP legato alla subunità
beta viene idrolizzato.

I dimeri polimerizzano testa-coda, ovvero sempre alternati -, per formare quelli che
vengono detti protofilamenti, successivamente in genere 13 protofilamenti vanno a
delimitare un microtubulo, che è un cilindro cavo le cui pareti sono costituite appunto da
questi 13 protofilamenti, costituiti a loro volta dai dimeri di  e  tubulina. Anche in questo
caso, come nel caso dei filamenti di actina, le due estremità del microtubulo non sono
equivalenti, ma sono diverse a causa della modalità con cui avviene la polimerizzazione e si
individuano un'estremità positiva, a livello della quale avviene più facilmente la
polimerizzazione, e un'estremità negativa.
Dopo che i dimeri di tubulina si legano tra di loro, il GTP viene idrolizzato, come nel caso
dell’actina, e quindi anche in questo caso inizialmente saranno tutti legati con il GTP, che poi
progressivamente viene idrolizzato a GDP, dunque durante la polimerizzazione i dimeri
leganti GTP saranno all’estremità positiva, mentre quelli più a ridosso dell’estremità negativa
legheranno il GDP.
Anche nel caso dei microtubuli è stato riscontrato che il primo stadio di formazione è una
fase lenta di nucleazione, a cui segue una fase più rapida di allungamento in cui si
formano i protofilamenti. Anche nei microtubuli avviene il fenomeno del treadmilling, cioè
dello scorrimento monomeri, e il concetto di concentrazione critica vale allo stesso modo.
Cosa accade in vivo?
Nella cellula i processi di depolimerizzazione e polimerizzazione devono essere
controllati, i microtubuli non possono formarsi e disgregarsi in continuazione; si
osserva quindi una serie di strutture che servono a stabilizzare i microtubuli.
In vivo, i microtubuli polimerizzano a partire da un anello di γ-tubulina, diversa rispetto
le altre, che forma un basamento a livello del quale si associano via via tutti i dimeri.
La parte - (negativa) rimane bloccata a livello dell'anello di γ-tubulina, mantenendo
una stabilità, per cui a livello di quella regione non si avrà depolimerizzazione.
Gli anelli di γ-tubulina all'interno della cellula si trovano in una struttura ben precisa, il
centrosoma (o centro di organizzazione dei microtubuli), regione normalmente situata
in prossimità del nucleo.
I microtubuli cresceranno quindi distalmente, ossia aggiungeranno progressivamente
dimeri di tubulina a partire dalla parte più centrale della cellula, in prossimità del
nucleo, dirigendosi man mano verso la membrana.

Come mostrato nell'immagine, l'estremità + (positiva) si allontana dal centrosoma,


mentre l'estremità - rimane ancorata alla γ-tubulina.
I microtubuli appaiono rappresentati sotto forma di spire e l'estremità + è quella che
progressivamente si allontana dal microtubulo e a livello della quale avverranno i
fenomeni di depolimerizzazione.

In questa immagine sono mostrati i centrioli, costituiti, dal punto di vista strutturale, da
microtubuli.
Il fatto che i centrioli si trovino all'interno del centrosoma non ha nulla a che vedere
con il fatto che si formino i microtubuli: ad esempio, le cellule vegetali non possiedono
i centrioli, ma sono comunque in grado di formare i microtubuli.
La presenza o meno dei centrioli è connessa piuttosto alla capacità di formare o meno
ciglia e flagelli.

L'instabilità dinamica dei microtubuli


L'instabilità dinamica non è nient'altro che un fenomeno di disgregazione ed
aggregazione dei microtubuli e si realizza anche in vivo.

Immaginiamo una fase di accrescimento: supponiamo che nella cellula ci siano grandi
quantità di monomeri di α- e β-tubulina leganti il GTP.
Man mano, sempre più monomeri si legheranno gli uni agli altri e il microtubulo si
allungherà; progressivamente le molecole di GTP idrolizzeranno in GDP.
Finché la quantità di dimeri leganti il GTP è sufficientemente elevata, si mantiene
sempre un'estremità del microtubulo con dimeri leganti il GTP (cappuccio a GTP).
Quando invece la quantità di dimeri leganti il GTP è bassa, il processo di
polimerizzazione è lento, ma contemporaneamente l'idrolisi del GTP a GDP continua
ad andare avanti.
Potremmo trovarci in una situazione in cui progressivamente tutti i dimeri risultano
essere legati al GDP e non vi sono più quantità sufficienti di dimeri legati al GTP.
In questa situazione si ha il fenomeno detto catastrofe del microtubulo,
caratterizzato da una sua disgregazione rapida ed improvvisa.

Le MAP (Proteine Associate ai Microtubuli)


I fenomeni finora descritti sono stati osservati anche all'interno delle cellule e spiegano
la dinamicità di queste strutture.
Quando è necessario che si mantenga una certa stabilità, all'interno della cellula
interviene una grande quantità di proteine, dette MAP (Proteine Associate ai
Microtubuli), di diverso tipo.
La proteina τ (tau) e l'Alzheimer
Una delle funzioni dei microtubuli è dare sostegno a determinate strutture delle cellule
e fornire alle stesse strutture delle specie di “binari”, lungo i quali venga mediato il
trasporto vescicolare.
Tra queste strutture vi sono i neuroni, che possiedono lunghi prolungamenti,
stabilizzati dagli elementi del citoscheletro.
Tra i vari elementi che stabilizzano i neuroni, i microtubuli hanno un ruolo
fondamentale, in quanto lungo i “binari” che vanno a formare vengono trasportate le
diverse vescicole contenenti i neurotrasmettitori.

All'interno dei microtubuli dei neuroni esiste una proteina detta τ (tau), che se funziona
bene stabilizza la struttura del microtubulo, per cui può svolgere la sua funzione.
Vi sono però condizioni patologiche, come l'Alzheimer, in cui la proteina τ perde la sua
conformazione nativa, assumendo una forma denaturata; le strutture denaturate
tendono ad aggregarsi tra loro e in queste condizioni non legano i microtubuli.
Poiché la proteina τ stabilizza i microtubuli, essi tenderanno a sfaldarsi completamente
e a dissociarsi.
Gli aggregati della proteina τ che si vanno a formare sono utili in quanto possono
costituire dei marker per andare a ricercare la presenza di Alzheimer in un individuo.
In ogni neurone vi è un corpo centrale, in cui avvengono tutte le funzioni più importanti
della cellula, tra le quali vi è la sintesi e la formazione delle vescicole contenenti i
neurotrasmettitori.
Se una sostanza deve essere rilasciata, deve giungere alla fine del prolungamento
del neurone; pensare che ciò avvenga semplicemente per una diffusione casuale non
è molto funzionale per la cellula, in quanto il processo avverrebbe molto lentamente
con il progressivo aumento della concentrazione, ma un meccanismo di segnalazione
efficiente non può essere lento.
Infatti, nei neuroni così come in altre cellule, i microtubuli funzionano da veri e propri
“binari” su cui si muovono le proteine motrici che trasportano organuli e vescicole
contenenti varie molecole, tra le quali vi sono i neurotrasmettitori.
Lo spostamento avviene a spese di energia e questo meccanismo consente un
movimento veloce e più efficiente.

La stabilizzazione dei microtubuli


Alcune proteine (proteine del cappuccio) sono in grado di legare l'estremità positiva
dei microtubuli, impedendone la depolimerizzazione anche nel caso in cui i livelli di
dimeri di α- e β-tubulina leganti il GTP fossero bassi.

Nell'immagine, tali proteine appaiono come dei semicerchi di colore rosa.

Le funzioni dei microtubuli


I microtubuli hanno un ruolo strutturale ed organizzativo:
● ancorano organelli o li spostano;
● controllano i trasporti intracellulari;
● durante la mitosi formano il fuso mitotico;
● entrano nella costituzione di centrioli, ciglia e flagelli.

I microtubuli si ritrovano all'interno delle cellule nervose, in particolare nell'assone, che


costituisce il prolungamento maggiore, ma anche nelle cellule migranti, che emettono
pseudopodi o lamellipodi, nei flagelli, come quelli degli spermatozoi, e nelle cellule in
divisione, nelle quali contribuiscono alla formazione del fuso mitotico.

Le proteine motrici
Le proteine motrici sono proteine che legando l'ATP sono in grado di produrre un
movimento; alcune possono legare anche il GTP, l'importante è che abbiano almeno
un nucleoside trifosfato che possa fornire energia.
Un esempio di proteina motrice è rappresentato dalla miosina, che si ritrova all'interno
delle fibre muscolari scheletriche.
Tutte le proteine motrici sono generalmente costituite da una parte più o meno
globulare che è il dominio motore, a livello del quale avviene il legame con l'ATP e
si genera il movimento per indurre uno spostamento di qualche tipo.

I due tipi di proteine motrici associate ai microtubuli sono la dineina e la chinesina,


entrambe costituite da un dominio motore e da una porzione più filamentosa, che
costituisce assieme al dominio motore la proteina motrice vera e propria.
Vi sono poi altre catene polipeptidiche associate (in rosa); in generale, questa è la
struttura di base di tutte le proteine motrici.

I microtubuli nel trasporto di organuli e vescicole


Le chinesine mediano il trasporto del carico dall'estremità - verso l'estremità + del
microtubulo, determinando un movimento centrifugo, in quanto generalmente
l'estremità + si trova verso la membrana cellulare.
Le dineine, d'altra parte, determinano un movimento centripeto, in direzione opposta
rispetto a quello determinato dalle chinesine, andando a mediare il trasporto del carico
dall'estremità + verso l'estremità - del microtubulo.
Le dineine e le chinesine possono mediare il trasporto di vescicole delimitate da
membrana contenenti materiali che, ad esempio, devono essere secreti oppure
possono trasportare organuli per posizionarli in distretti più lontani rispetto al
centrosoma.
Digitando il link https://www.youtube.com/watch?v=WlTlTmtoKvA si può vedere nel
dettaglio il funzionamento di questo meccanismo.

Il movimento delle proteine motrici richiede ATP


Le immagini ottenute da esperimenti mostrano le vescicole trasportate da proteine
motrici che si muovono lungo i microtubuli.

Le teste motrici prendono contatto con il microtubulo stesso, mentre l'altra porzione
avrà una regione specifica per il legame con una determinata vescicola o un
determinato organulo.
Il meccanismo con il quale questo processo avviene è stato studiato nel dettaglio:
quando una proteina motrice si trova in uno stato di riposo è legata all'ADP; quando
una delle due teste prende contatto con il microtubulo l'ADP viene rilasciato e si lega
una molecola di ATP.
Il legame dell'ATP determina un cambiamento conformazionale nella proteina e l'altra
subunità globulare è come se facesse un passo in avanti.
Su questa subunità avverrà l'idrolisi dell'ATP, da cui deriverà ADP e fosfato, sull'altra
subunità avverrà lo scambio tra ADP e ATP.
A questo punto l'altra subunità si posizionerà davanti alla precedente e il ciclo
ricomincerà. Quindi è come se le due teste motrici “camminassero” lungo il
microtubulo e i “passi” fossero guidati dall'idrolisi dell'ATP stesso.
I centrioli
I centrioli non sono presenti nelle cellule vegetali, ma si trovano nelle cellule animali.
Essi sono costituiti da 9 triplette di microtubuli, collegate tra loro da proteine di
connessione.
All'interno della cellula, i centrioli si trovano a livello del centro di organizzazione dei
microtubuli e sono generalmente disposti perpendicolarmente l'uno rispetto all'altro.

Osservando l'immagine ottenuta tramite il microscopio a trasmissione, si possono


osservare un centriolo tagliato in sezione trasversale e uno in sezione longitudinale.
I centrioli sono due e si duplicano, come il centrosoma, prima della mitosi o della
meiosi; migrano ai poli opposti della cellula, ma non sono importanti per la generazione
del fuso mitotico, in quanto i meccanismi di divisione cellulare funzionano lo stesso in
loro assenza.
I microtubuli durante la mitosi
Un altro ruolo importante dei microtubuli è all'interno della mitosi.

Le ciglia e i flagelli
Le ciglia e i flagelli hanno la stessa struttura, l'unica differenza che presentano riguarda
la lunghezza: i flagelli infatti sono più lunghi rispetto alle ciglia.
Nella nostra specie l'unica cellula flagellata è rappresentata dallo spermatozoo, le
ciglia si trovano invece in diversi distretti, ad esempio a livello delle tube di Falloppio
o a livello dell'epitelio respiratorio.
Ciglia e flagelli hanno ruoli diversi nell'organismo. Il flagello serve alla locomozione
della cellula, le ciglia servono a muovere il contenuto di un lume: infatti gli epiteli ciliati
delimitano dei lumi e la loro presenza servirà a far muovere ciò che è presente
all'interno di questi.
Nell'immagine si può osservare un protista, organismo eucariotico monocellulare
rivestito di ciglia; questo esempio mostra che le ciglia possono essere anche deputate
al movimento della cellula nell'ambiente in cui si trova, ma all'interno del corpo umano
esse servono a muovere il contenuto di un lume.

La struttura di un ciglio o un flagello eucariotico


Le ciglia e i flagelli hanno una struttura tipica: sono presenti una serie di coppie di
microtubuli, 9 coppie per l'esattezza, che delimitano due microtubuli centrali.
Questa struttura si ritrova lungo tutto il ciglio o il flagello, ma quando questo si inserisce
all'interno della membrana plasmatica questa struttura viene persa e al suo posto se
ne forma un'altra, chiamata corpo basale, nella quale la disposizione è costituita da
9 triplette di microtubuli (viene persa la coppia centrale di microtubuli e non si hanno
più 9 coppie di microtubuli, bensì 9 triplette).
Nell'immagine si osserva una sezione trasversale, in cui sono ben visibili le 9 coppie
di microtubuli, che circondano la coppia centrale.

Le immagini ottenute con il microscopio a scansione mostrano un organismo


monocellulare eucariotico, le tube di Falloppio e l'epitelio ciliato.
Attenzione a non confondere le ciglia e i microvilli, che sono strutture con dimensioni
e funzioni diverse, così come i flagelli batterici non vanno confusi con quelli eucariotici,
in quanto quelli batterici sono costituiti da una diversa proteina, detta flagellina, e non
hanno la struttura organizzata tipica dei flagelli delle cellule eucariotiche.

Il movimento delle ciglia e dei flagelli


Un'altra caratteristica che differenzia le ciglia e i flagelli riguarda il movimento: quello
delle ciglia ricorda quello di un remo di una barca, mentre per quanto riguarda i flagelli,
essi hanno un movimento sinusoidale, che permette poi il movimento della cellula a
cui risultano associati.
L'immagine mostra in che modo le ciglia e i flagelli possono generare un movimento.
La forza che permette il movimento è determinata generalmente da alcuni tipi di
molecole leganti l'ATP, perché se questo o altri tipi di fonti energetiche non fossero
presenti, il movimento non potrebbe avvenire.
In questo caso, la molecola che lega l'ATP è un tipo di dineina caratteristico di ciglia e
flagelli.
I microtubuli sono collegati tra loro da proteine (nell'immagine in celeste) dette nexine
e sono collegati anche alla coppia di microtubuli centrali; questi collegamenti si
apprezzano bene anche osservandoli al microscopio.
Le dineine dei flagelli e delle ciglia hanno due teste motrici che, collegandosi con il
microtubulo adiacente, ne determinano lo spostamento.
Se i microtubuli adiacenti non fossero vincolati dalla nexina, semplicemente il
movimento delle teste delle dineine si risolverebbe in uno scivolamento dei microtubuli
gli uni sugli altri, ma, grazie alla presenza delle nexine, questo movimento causato
dalle dineine determina una flessione del microtubulo; il concetto è ben espresso
dall'immagine.
In questo modo si genera la motilità del microtubulo stesso e conseguentemente la
motilità del ciglio o del flagello, dall'azione coordinata di numerose molecole di dineina
che agiscono contemporaneamente nella stessa direzione in modo tale da indurre un
movimento.

I filamenti intermedi
I filamenti intermedi sono molto meno plastici: a differenza delle altre strutture che
sono dinamiche, queste sono strutture statiche.
La maggior parte delle volte in cui si formano, non si distruggono durante tutto il
periodo di vita della cellula e rimangono tali e quali, tranne per alcune eccezioni.
Generalmente servono a dare resistenza al tessuto in cui si trovano; sono assenti
nelle cellule vegetali e sono presenti nella maggior parte delle cellule animali,
mancano solo in alcuni invertebrati.
Sono tessuto-specifici (a seconda del tessuto ne troviamo alcuni tipi rispetto ad altri),
sono abbondanti negli epiteli, in un una struttura detta lamina nucleare e nei
desmosomi.
Sono importanti nel mantenimento della struttura degli assoni e sono i maggiori
costituenti di unghie, peli e capelli, in quanto fanno parte dei filamenti intermedi le
cosiddette cheratine, principali proteine che vanno a costituire gli annessi epiteliali.
La classificazione dei filamenti intermedi è semplice e si individuano due tipologie:
● quelli nucleari si chiamano lamìne e si trovano all'interno di tutte le cellule
animali (se ne parlerà in dettaglio quando si tratterà il nucleo)
● quelli citoplasmatici sono le cheratine negli epiteli, le vimentine o vimentino-
simili nel tessuto connettivo e muscolare, e i neurofilamenti nelle cellule
nervose.

I filamenti intermedi, a differenza dei microtubuli e dei microfilamenti, i quali sono tutti
formati dallo stesso tipo di monomero di tubulina o di actina, presentano una
situazione diversa: le proteine che li costituiscono non sono correlate tra loro, hanno
tutte sequenze amminoacidiche diverse, sono tutte proteine diverse, ma possiedono
tutte una caratteristica struttura elicoidale, che forma una sorta di bastoncello, e delle
porzioni a dominio C-terminale e a dominio N-terminale, che formano strutture più o
meno globulari, o comunque meno organizzate.
Al di là del fatto che vi siano proteine diverse in struttura primaria, la struttura globale
dei filamenti intermedi è simile in qualsiasi tipo di cellula.
Il modello di assemblaggio di un filamento intermedio
A partire da un monomero, si formano dei fasci molto resistenti; due monomeri si
uniscono tra loro a formare un dimero.
Due dimeri polimerizzano tra di loro in maniera testa-coda (l'estremità C-terminale si
trova in direzioni opposte nei diversi dimeri) a formare un tetramero e poi i vari
tetrameri si associano a formare un foglietto.
Si immagina di arrotolare questa struttura come fosse un “tappeto” e si ottiene il
filamento intermedio; a seconda dei tipi di monomero che la compongono, questa
struttura può assumere un diametro più o meno ampio.

(Non è importante ricordare questo meccanismo, ma bisogna capire come i filamenti


si formano per poter comprendere anche la resistenza di queste strutture)

Le cheratine
Nell'uomo ci sono 54 geni diversi che codificano per le cheratine; esse formano
sempre eterodimeri (strutture formate da monomeri di diverso tipo) tra cheratine di tipo
I e cheratine di tipo II.
Le vimentine

In questa immagine, le vimentine appaiono di colore rosso.

Le desmine
Le desmine si trovano a livello del sarcomero e servono per conferire stabilità,
ancorandolo alla membrana cellulare.
Questi tipi di filamenti intermedi è come se collegassero in maniera stabile il nucleo, i
sarcomeri e la membrana cellulare.
Bisogna considerare che i livelli di stress meccanico a livello della cellula muscolare
sono molto forti, per cui il fatto che essa sia ben stabilizzata è una condizione
importante per il suo corretto funzionamento.
I neurofilamenti

La lamina nucleare
La lamina nucleare verrà trattata con maggior completezza quando si parlerà del
nucleo; per il momento basta ricordare che vi sono alcuni tipi di filamenti intermedi a
localizzazione nucleare e tra questi vi sono le lamìne, che vanno a formare la lamina
nucleare.
Nell'immagine la lamìna è evidenziata in verde mentre il nucleo in blu.

MOTILITA' CELLULARE E
CONTRAZIONE MUSCOLARE

In questa immagine è mostrata una cellula o fibra muscolare (i due termini sono
sinonimi).
La fibra muscolare è derivante, durante lo sviluppo embrionale, dalla fusione di un
gran numero di cellule, dette mioblasti, a formare una cellula multinucleata, che
nell'adulto può essere anche di grandi dimensioni (può raggiungere anche una
lunghezza di qualche cm).
All'interno delle fibre muscolari sono presenti le miofibrille, che non sono altro che le
unità contrattili del muscolo.
Le miofibrille sono organizzate in un insieme di fasci, formati da proteine, actina e
miosina, che si organizzano a formare l'unità contrattile del muscolo, rappresentata
dal sarcomero.

Il sarcomero
Il sarcomero è costituito dall'alternanza di filamenti spessi e filamenti sottili: i
filamenti spessi sono rappresentati dalla miosina, i filamenti sottili sono rappresentati
dall'actina, la troponina e la tropomiosina.
La ricostruzione al microscopio mostra i filamenti spessi di miosina, che si estendono
per tutta la banda A, la linea M, che si trova al centro, e un'altra regione, la banda I,
in cui si estendono invece i filamenti di actina.
Il sarcomero non è costituito dalla banda A e dalla banda I, bensì dalla banda A e metà
banda I da una parte e metà banda I dall'altra, ossia da delle emibande, come è
mostrato anche nell'immagine.
Le bande I includono al loro interno delle linee o dischi, dette linee Z, che sono i punti
di connessione tra sarcomeri adiacenti e informano che da lì in poi si ripete un nuovo
sarcomero; di fatto le due emibande appartengono a due sarcomeri adiacenti.

L'actina
L'actina è la principale proteina del filamento sottile; assieme ad essa troviamo altre
proteine: una proteina filamentosa, detta tropomiosina, e le troponine, che sono 3,
una con funzione regolatoria, una con funzione inibitoria e un'altra legante il Calcio,
che avrà un ruolo importante nella contrazione muscolare.

Il filamento spesso
Il filamento spesso è costituito da centinaia di molecole di miosina, avvolte tra di loro
e a spirale.

La miosina è costituita da due catene pesanti e due catene leggere, che


costituiscono una struttura in cui è presente una zona costituita da sole catene pesanti
e due teste in cui vi è una porzione della catena pesante e le catene leggere della
miosina.
20/10/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatore: Andrea Lagonigro
Lezione n°7, prima parte Revisionatrice: Cristina Latteo

CONTRAZIONE MUSCOLARE
(Prima di passare alle endomembrane, la prof completa l’argomento della lezione precedente con il
funzionamento del sarcomero nella muscolatura.)

Sarcomero

A livello del muscolo scheletrico l’unità contrattile è costituita dal sarcomero.


Presenta:
● Filamenti spessi: costituiti dalla proteina miosina (che abbiamo già incontrato
a livello del citoscheletro). Ha la funzione di garantire il movimento della
cellula; esistono diversi tipi di miosine, quella del sarcomero è una miosina
specifica.
Le teste motrici sono all’N terminale delle catene pesanti e contengono anche
due catene polipeptidiche leggere.

● Filamenti sottili: sono costituiti dall’actina in forma F, che presenta i due


filamenti avvolti gli uni sugli altri. A costituire i filamenti sottili del sarcomero ci
sono anche altre 2 proteine rappresentate dalla:
- tropomiosina→ proteina filamentosa;
- troponina→ complesso di 3 proteine, di cui una si lega al calcio, una lega la
tropomiosina e l’ultima ha una funzione inibitoria.
Struttura del Sarcomero
I filamenti spessi occupano tutta la banda A, che corrisponde alla regione più scura;
all’interno troviamo una regione più chiara, zona H, che presenta al centro una linea
più scura, la linea M. Ci sono poi delle regioni più chiare che costituiscono la banda
I,in cui troviamo le linee Z che dividono due sarcomeri adiacenti.

Quando si ha la contrazione muscolare i filamenti sottili scorrono sui filamenti spessi


e si ha un accorciamento del sarcomero; la banda A però rimane costante (cioè della
stessa dimensione), quello che diminuisce è la banda I, che provoca un
accorciamento del sarcomero stesso. Inoltre, si ha l’accorciamento della zona H
dovuto allo scorrimento dei filamenti gli uni sugli altri.
I filamenti sottili e spessi non modificano la loro lunghezza, ma scorrono gli uni sugli
altri.
Contrazione muscolare

La contrazione muscolare è innescata dal rilascio di ioni calcio, che si trovano a


livello del reticolo endoplasmatico, che a livello del muscolo scheletrico prende il
nome di Reticolo Sarcoplasmatico.
1. A livello del terminale assonico di un motoneurone viene rilasciata l’acetilcolina
nello spazio sinaptico (la vescicola contenente acetilcolina si fonde con il
terminale del motoneurone), questa andrà a legarsi a un canale per il sodio
(ligando dipendente) sulla membrana della cellula muscolare (o fibra muscolare).
La membrana presenta delle profonde introflessioni, chiamate tubuli T, che
entrano all’interno della fibra e si pongono in vicinanza del reticolo
sarcoplasmatico, che a sua volta è vicino a tutte le unità sarcomeriche. Una volta
che l'acetilcolina si lega al canale per il sodio ne determina l’apertura,
provocando così un massivo ingresso di ioni Na nella cellula e una
conseguente depolarizzazione della membrana.
2. La depolarizzazione della membrana provoca quindi l’apertura dei canali del
calcio voltaggio dipendenti, che si trovano sul reticolo sarcoplasmatico,
causando il rilascio di calcio nel sarcoplasma (il calcio è molto concentrato
all’interno del reticolo sarcoplasmatico e poco concentrato nel citoplasma, quindi
si muove secondo gradiente di concentrazione).
3. (Nella condizione “a riposo” le teste della miosina sono legate ad ADP e fosfato,
sono quindi in una configurazione ad alta energia, pronte ad essere utilizzate;
non sono legate all’actina perchè i siti dei filamenti sottili che dovranno legare le
teste della miosina sono coperti dalla tropomiosina, quindi sono “nascosti” da un
punto di vista strutturale).
Lo ione calcio va a legarsi ad una delle 3 subunità della troponina (troponina
C), provocandone una variazione conformazionale, che si trasmette anche alla
tropomiosina, che si stacca dall’actina lasciando libero il sito d’attacco per le
teste di miosina.
4. A questo punto, viene rilasciato un fosfato inorganico da ATP, che si trasforma in
ADP, fornendo l’energia necessaria per la flessione della testa di miosina (“colpo
di forza”), che provoca lo scorrimento dei filamenti di actina verso il centro del
sarcomero.
5. Terminato il colpo di forza viene rilasciato ADP. La miosina si troverà in uno
stato di bassa energia, ma ancora vincolata ai siti di attacco a livello dell’actina
(perchè per il suo rilascio necessita di un ulteriore fosfato): è questa la
condizione detta Rigor mortis, condizione di forte rigidità data dal legame
stabile delle teste di miosina con l'actina, che non riescono a staccarsi per
mancanza di ATP (situazione che si verifica post mortem). Quindi, la
dissociazione della miosina dall’actina avviene esclusivamente se c’è ATP a
disposizione.
6. In presenza di ATP, questo si va a legare alla miosina, si idrolizza in ADP+P e
consente il rilascio delle teste di miosine dai siti di attacco sull’actina, e si torna
così alla situazione di partenza.

(Le cellule muscolari sono grandi cellule derivate dalla fusione di numerose cellule
durante lo sviluppo, per cui saranno cellule di grandi dimensioni e molto nucleate).
LA STRUTTURA DELLA
MEMBRANA NUCLEARE E IL
SISTEMA DELLE ENDOMEMBRANE

Membrana Nucleare

La membrana nucleare è costituita da una doppia membrana (ciascuna membrana è


costituita da 2 strati fosfolipidici, per un totale di 4 strati fosfolipidici).
Le membrana nucleare si divide quindi in:
● Membrana esterna→ risulta in continuità con le membrane del reticolo
endoplasmatico rugoso. (Il reticolo endoplasmatico rugoso a sua volta è in
continuità con il reticolo endoplasmatico liscio. Si parla infatti di "sistema delle
endomembrane" per la continuità che c’è fra di esse.)
● Membrana interna→ associata alla Lamina nucleare tramite una serie di
proteine. La lamina nucleare è una struttura costituita da filamenti intermedi.

Queste due membrane risultano essere in continuità tra loro e sono attraversate dai
pori nucleari.
Pori Nucleari

I pori nucleari, che possono rappresentare


fino al 30% della superficie della membrana
(3000-4000 pori per nucleo), sono delle
strutture costituite da numerose proteine
appartenenti alla famiglia delle
nucleoporine, che si dispongono a formare
una struttura rappresentata da due anelli
concentrici, uno in prossimità della
membrana esterna e uno in prossimità della
membrana interna, ciascuno dei quali è costituito da otto subunità.
Questi due anelli sono tenuti insieme da altre proteine e, all’interno di questi, si trova
inoltre un altro complesso proteico che limita il passaggio di molecole di grandi
dimensioni e consente il passaggio a molecole di massimo 30-40 kdalton; molecole
più grandi passano grazie ad un “trasportatore” (trattato in seguito).

Il motivo per cui ci sono così tanti pori risiede nel fatto che la comunicazione tra
nucleo e citoplasma è molto attiva: devono entrare nel nucleo tutte le proteine che
servono per la duplicazione, trascrizione e regolazione dell’ espressione genica e,
allo stesso tempo, dal nucleo devono uscire ribosomi, mRNA e tRNA fondamentali
per la sintesi proteica. Quindi attraverso i pori vi è un continuo passaggio di molecole
e macromolecole necessario al funzionamento cellulare.
Ogni poro è formato da più di 400 proteine e ha un diametro di 70-80 nm.
La porzione del poro nucleare rivolta verso il nucleoplasma presenta delle proteine
fibrose che costituiscono il canestro, mentre nella porzione citoplasmatica sporgono
delle strutture che vengono chiamate fibre.
Lamina Nucleare

La lamina nucleare è costituita da proteine dette Lamine, proteine filamentose con


struttura tipica dei filamenti intermedi (i filamenti intermedi del citoscheletro sono
delle strutture molto stabili all’interno della cellula, non sono soggetti a processi
dinamici di rimodellamento; la loro stabilità è importante perché conferiscono forma e
resistenza alle strutture di cui fanno parte); sono disposte al di sotto della membrana
nucleare ed ancorate ad essa mediante proteine.
La lamina ha uno spessore di 10-40 nm; fornisce supporto strutturale e rigidità al
nucleo, consentendogli di mantenere la forma. Inoltre, la lamina funge anche da
attacco per i filamenti di cromatina, contribuendo all’organizzazione di questa
all’interno del nucleo. Ciò contribuisce a creare un ordine nella disposizione del
materiale genetico anche nella cromatina interfasica; quindi, anche quando la cellula
non si divide, c’è comunque un’organizzazione all’interno del nucleo.

La lamina nucleare viene degradata solo quando la cellula si divide: prima della
divisione cellulare viene fosforilata e solo dopo degradata. Infatti, un evento della
mitosi è la disgregazione dell’involucro nucleare.
L’importanza di questa struttura è evidenziata da una patologia chiamata progeria,
che consiste in un invecchiamento precoce delle cellule e dell’intero organismo. E’
una patologia molto rara dovuta ad una mutazione a carico di una proteina che
costituisce la lamina nucleare. Tale mutazione determina uno splicing, cioè un
meccanismo che consiste in una maturazione alterata della proteina che risulterà più
corta di circa 50 amminoacidi all'estremità C terminale (LAΔ50/progerin); questo
comporta che a livello del nucleo la lamina nucleare non è ben strutturata ma
deformata, tende a collassare, andando così non solo ad alterare la funzionalità
strutturale della lamina, ma anche la funzionalità di ancoraggio fornita alla cromatina,
provocando così alterazioni della trascrizione genica andando a provocare una
cascata di eventi che culminerà con l’invecchiamento precoce delle cellule.

Solitamente le lamine vanno a formare una lamina nucleare di forma sferica, mentre
nelle persone affette da progeria osserviamo che la lamina nucleare ha una forma
alterata (vedi immagini).
Matrice Nucleare

Anche nel nucleo sono state trovate una serie di proteine che costituiscono un
“citoscheletro nucleare” detto Matrice Nucleare.

Nel nostro genoma sono state trovate delle sequenze, dette S/MAR (scaffold/matrix
attachment region) lunghe 300-1000 paia di basi che si legano alle proteine della
matrice. Queste sequenze sono molto numerose nel nostro genoma ed è stato
osservato che permettono al DNA di creare delle anse, che risultano importanti
perché le regioni ricche di sequenze S/MAR sono regioni che vengono trascritte in
maniera più efficiente.
Questo dimostra come la cromatina, anche nell’interfase, abbia un'organizzazione
ben precisa così da garantire un'organizzazione strutturale funzionale
all’espressione genica.

Reticolo endoplasmatico

Il reticolo endoplasmatico è sistema di membrane in continuità con il nucleo.


In particolare distinguiamo: reticolo endoplasmatico liscio (REL) e reticolo
endoplasmatico rugoso (RER).
Il sistema delle endomembrane è costituito da:
1. Apparato del Golgi
2. Lisosomi
3. Vescicole presenti nel citoplasma della cellula
4. Reticolo endoplasmatico

Reticolo endoplasmatico liscio (REL)

Il REL è costituito da una serie di


strutture tubulari interconnesse tra di
loro e al RER. Nelle diverse cellule il
REL può essere più o meno esteso a
seconda della funzione della cellula
stessa.
Si differenzia dal RER per la
morfologia, ma soprattutto per
l’assenza di ribosomi, che risultano
invece abbondanti nel reticolo
endoplasmatico rugoso.
Ha numerose funzioni:

● Funge da deposito di ioni calcio nelle cellule muscolari ed è coinvolto nella


regolazione del loro livello citoplasmatico.

● Sintetizza trigliceridi, fosfogliceridi, colesterolo e ceramide; inoltre è


coinvolto nell’allungamento della catena degli acidi grassi e nella modifica del
loro grado di saturazione. (Nel REL inizia la sintesi degli sfingofosfolipidi e dei
glicolipidi che vanno poi al Golgi; mentre si completa la sintesi dei fosfogliceridi
che vengono poi indirizzati direttamente alla membrana.)

● Sintetizza anche alcuni ormoni steroidei e proprio per questo è maggiormente


sviluppato nei tessuti con funzioni endocrina (come testicoli o ovaie).

● Il REL svolge un’azione di detossificazione da farmaci, grazie ad una serie di


enzimi che rendono più idrofilici i farmaci aggiungendo un gruppo -OH e ne
facilitano l’escrezione attraverso le urine. Molti composti xenobiotici (esterni
all’organismo) sono di natura lipidica, per cui non possono essere eliminati
facilmente. Più nel dettaglio, nel fegato sono presenti una serie di enzimi tra i
quali c’è una famiglia di proteine chiamate Citocromo P450 che rendono i
farmaci più idrofilici per aggiunta di un gruppo ossidrilico. Questo processo di
detossificazione è soggetto ad induzione, cioè se ad esempio si fa un uso
prolungato di barbiturici, il sistema di enzimi si amplifica riducendo l’efficacia del
farmaco, il quale viene eliminato più velocemente e quindi viene eliminato prima
del previsto. Inoltre tale sistema non è specifico, quindi agisce anche a livello di
altri farmaci rendendo l’individuo insensibile al farmaco che potrebbe curare una
patologia in corso.

● Negli epatociti è responsabile del rilascio del glucosio nel sangue. L’enzima
glucosio 6 fosfatasi, che è legato al REL, rimuove il gruppo fosfato dal
glucosio fosforilato in modo che il glucosio possa essere trasportato fuori dalla
cellula attraverso il carrier.

1) Il glicogeno viene degradato;


2) il glucosio-fosfato che deriva dalla
degradazione del glicogeno viene
defosforilato;
3) il glucosio defosforilato viene riconosciuto
dal trasportatore;
4) il glucosio viene rilasciato nel sangue.
20/10/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatore: Sara Migliori
Lezione 7, seconda parte Revisionatore: Jacqueline Prendi

RETICOLO ENDOPLASMATICO RUGOSO


Una delle caratteristiche principali del reticolo endoplasmatico
rugoso è quella di trovarsi associato ai ribosomi. Questo
perché il reticolo endoplasmatico rugoso costituisce la prima
tappa per lo smistamento e la modifica delle proteine.
I ribosomi partecipano alla sintesi delle proteine (un processo
in cui a partire dagli amminoacidi vengono sintetizzate le
proteine). La sintesi proteica avviene sempre sui ribosomi
liberi, ovvero sui ribosomi presenti nel citoplasma.
Le proteine che hanno come destinazione finale la secrezione, la membrana plasmatica e
i lisosomi, seguono una particolare via che viene detta via vescicolare, che prevede
come primo momento l’attacco dei ribosomi al reticolo endoplasmatico.
La sintesi proteica, quindi, inizia nei ribosomi liberi, dopodiché i ribosomi si attaccano al
reticolo endoplasmatico se queste proteine hanno come destinazione la secrezione,
l’essere proteine della membrana plasmatica, l’essere proteine dei lisosomi, oppure
l’essere delle proteine o degli enzimi che dovranno rimanere nel reticolo endoplasmatico o
nel Golgi. Non esistono quindi ribosomi costantemente attaccati al reticolo
endoplasmatico, ma si assiste a tale fenomeno soltanto durante la sintesi delle proteine;
rimangono in tale posizione per il periodo in cui la proteina viene sintetizzata per poi
ritornare liberi nel citoplasma.
• Via vescicolare: via di indirizzamento delle proteine. Le proteine passano prima
dal reticolo endoplasmatico, successivamente passano al Golgi e poi possono
essere dirette alla secrezione o alla membrana o ai lisosomi.
• Tutte le altre proteine che sono destinate a rimanere nel citoplasma, oppure sono
destinate al nucleo, ai perossisomi o ai mitocondri, vengono interamente
sintetizzate sui ribosomi liberi.
Attraverso il reticolo endoplasmatico e il Golgi le proteine subiscono delle modificazioni,
delle maturazioni, delle modifiche chimiche che le porteranno ad acquisire la loro struttura
definitiva, importante per svolgere correttamente la loro funzione.
Una delle più importanti modiche che iniziano all’interno del reticolo endoplasmatico
rugoso è la glicosilazione. [tale argomento verrà affrontato quando si studierà la sintesi
proteica].

A livello del reticolo endoplasmatico rugoso le proteine vengono sintetizzate, raccolte in


delle vescicole e traslocate a livello del Golgi.

Il complesso del Golgi è costituito da una serie di compartimenti membranosi impilati gli
uni sugli altri.
La porzione più vicina al nucleo viene chiamata area cis o Golgi cis, mentre la porzione
più vicina alla membrana plasmatica viene chiamata area trans o Golgi trans.
Come si osserva dall’immagine, le varie cisterne del Golgi sono collegate tra di loro
mediante un continuo traffico di vescicole che si staccano da una cisterna e migrano nella
cisterna successiva portando materiale. Le vescicole vengono trasportate dal reticolo al
Golgi e dal Golgi ad altri distretti.

Il Golgi riceve sia le vescicole contenenti proteine


dal reticolo endoplasmatico rugoso, sia quelle
contenenti lipidi da modificare, come la ceramide
(utilizzata per formare gli sfingofosfolipidi e i
glicolipidi) dal reticolo endoplasmatico liscio.

La molecola della sfingosina presenta da un lato


una lunga catena idrocarburica che mima l’acido
grasso, mentre dall’atro un legame con l’acido
grasso. La ceramide è la struttura di base che ci
permette di formare i fosfosfingolipidi o i
glicolipidi.
La professoressa ricorda che nelle cellule animali
i glicolipidi più diffusi sono quelli con la
sfingosina, mentre nelle piante è maggiormente
presente il glicerolo.

Il Golgi, quindi, contribuisce alla sintesi dei


fosfolipidi contenenti sfingosina e dei glicolipidi
contenenti sfingosina.
Queste sono una serie di modifiche che avvengono nel Golgi relativamente alle proteine:

Prestare particolare attenzione all’aggiunta di mannosio fosforilato a proteine già


modificate mediante un evento di glicosilazione, in quanto è un segnale importante.

Procedendo dal Golgi cis al Golgi trans ad ogni cisterna sono associati enzimi specifici per
la modifica delle proteine che lavorano in maniera sequenziale, come una sorta di “catena
di montaggio”; le proteine raccolte all’interno delle vescicole passano da una cisterna alla
cisterna successiva e progressivamente vengono modificate dai vari enzimi che si trovano
all’interno delle cisterne.
Alcuni enzimi hanno una localizzazione prevalente in prossimità del reticolo
endoplasmatico, nelle cisterne cis, altri sono presenti nelle cisterne trans; da queste le
proteine vengono inserite in delle vescicole e indirizzate o ai lisosomi o alla membrana o
alla secrezione. È possibile notare come in tutte le cellule che hanno un elevato livello di
secrezione questo sistema risulti essere particolarmente sviluppato.

Nel processo di esocitosi, le vescicole che ad esempio contengono ormoni di natura


proteica hanno seguito il percorso appena descritto: tali proteine vengono raccolte
all’interno delle vescicole, le quali, fondendosi con la membrana, rilasciano all’esterno il
loro contenuto.
Se invece si pensa alle proteine intrinseche di membrana, queste sono fin dalla loro sintesi
posizionate a livello della membrana del RER; rimarranno nella membrana della vescicola
durante tutta la fase di migrazione da una cisterna all’altra ed essendo per l’appunto nella
membrana, quando la vescicola si fonderà con la membrana plasmatica diventeranno le
proteine integrali di membrana. Queste proteine sono glicosilate proprio perché passano
attraverso tutta questa serie di stadi.
LISOSOMI
I lisosomi, essendo originati a partire da vescicole che maturano dal Golgi, vengono
considerati come parte del sistema di endomembrane. Le proteine lisosomiali sono
proteine che seguono il percorso descritto precedentemente per essere poi indirizzate
all’interno dei lisosomi.
I lisosomi sono organuli intracellulari delimitati da una membrana di cui fanno parte
proteine molto glicosilate; la porzione glicosilata è rivolta verso l’interno del lisosoma, dove
sono contenuti circa 60 tipi diversi di enzimi che fanno parte delle idrolasi (quegli enzimi
che scindono sostanze mediante l’introduzione di una molecola di acqua).
Tali enzimi hanno una funzione di degradare sia molecole che provengono dall’esterno
della cellula, sia macromolecole o addirittura organuli che provengo dall’interno della
cellula stessa.
Le idrolasi che funzionano all’interno dei lisosomi sono chiamate idrolasi acide, la cui
massima funzionalità viene raggiunta a livelli di pH acidi, intorno a 5.
Domanda: Come sono mantenuti questi livelli di pH?
Risposta: A livello del lisosoma ci sono le ATPasi di tipo V (non inteso come 5)
responsabili del trasferimento mediante trasporto attivo di ioni H+ dal citoplasma all’interno
del lisosoma, in questo modo il contenuto lisosomiale si acidifica, il pH diventa circa 5,
mentre il pH citoplasmatico è circa 7,2. Questo valore di pH acido è ottimale per il
funzionamento degli enzimi lisosomiali; ciò risulta essere importante perché qualora il
lisosoma si danneggiasse e il contenuto lisosomiale fuoriuscisse nel citoplasma, gli enzimi,
non attivi, non danneggerebbero la cellula.
La presenza del glicocalice all’interno della membrana del lisosoma protegge la
membrana del lisosoma stesso dall’attacco delle idrolasi.

Funzioni:
gli enzimi degradano materiale intracellulare che proviene dall’esterno (mediante il
processo di endocitosi) oppure materiale interno alla cellula come ad esempio anche interi
organuli.
I lisosomi sono coinvolti nei processi di digestione intracellulare, sia da materiale esterno,
sia materiale interno. Delle volte però il materiale del lisosoma può essere riversato
all’esterno per digerire materiale al di fuori della cellula, il caso più noto si ha durante la
fecondazione. Durante la fecondazione dallo spermatozoo vengono rilasciati degli enzimi
lisosomiali solitamente raccolti nell’acrosoma, i quali servono a degradare le strutture di
rivestimento delle cellule uovo. Un altro caso in cui il materiale lisosomiale viene rilasciato
all’esterno della cellula si ha nei processi di metamorfosi ai quali vanno in contro alcuni
insetti, alcuni animali (come, ad esempio, l’eliminazione della coda del girino).
Si hanno anche i lisosomi che sono coinvolti nel processo di endocitosi, dove il materiale
entrato all’interno della cellula viene degradato nel lisosoma.

La mancanza di alcuni enzimi lisosomiali è correlata ad una serie di patologie che


vengono dette malattie lisosomiali o malattie di accumulo lisosomiale, sono
generalmente su base genetica ma recessiva. In questo tipo di patologia si accumulano
macromolecole che non vengono degradate perché si ha un deficit dell’enzima deputato
alla sua degradazione, queste molecole si accumulano nel lisosoma alterando la loro
funzione e la funzione del lisosoma è fondamentale per la corretta funzionalità della
cellula. Queste patologie sono spesso associate a danni neurologici importanti.
Un'altra patologia in cui sono coinvolti i lisosomi è nella silicosi, in questa malattia la silice
si accumula nei lisosomi e li danneggia, il lisosoma riversa il suo contenuto all’esterno e
progressivamente le cellule vengono danneggiate e i lisosomi non funzionano più
correttamente.

I lisosomi sono coinvolti anche nel processo di autofagia, permette di demolire organuli
danneggiati, è coinvolta nel differenziamento cellulare e interviene nel digiuno
programmato.
La professoressa fa riferimento al premio Nobel per la medicina vinto nel 2016 da
Yoshinori Ohsumi per i suoi studi sull’autofagia.
Si è osservato che durante il digiuno prolungato, ad esempio quando in laboratorio si
sottrae il nutrimento alle cellule per un lugo periodo di tempo, queste iniziano a digerire il
proprio materiale intracellulare, ovvero si auto digeriscono, iniziando dal materiale che
serve meno e progressivamente digerendo tutto quello che trovano a disposizione.
L’autofagia è un meccanismo importante perché serve ad eliminare all’interno della cellula
gli organuli danneggiati o che hanno perso la loro corretta funzione.
Quando si forma il processo di autofagia, macromolecole, mitocondri…, vengono raccolti
all’interno di una membrana che li racchiude e si forma quello che viene definito un
autofagosoma, una vescicola di fagocitosi che si è formata all’interno della cellula, questa
si fonde con il lisosoma e a questo punto il materiale di questa vescicola viene degradato.
Sugli autofagosomi si localizza una proteina specifica che può essere riconosciuta con
degli anticorpi fluorescenti e può essere evidenziata.
Una forma di autofagia studiata è la mitofagia, la degradazione dei mitocondri non più
funzionanti all’interno della cellula, questo processo è fondamentale per la funzionalità
della cellula, la mancanza di una corretta regolazione è correlata a tanti tipi di patologie.

Esempi di patologie nella SLIDE 28 lezione 7


TRAFFICO VESCICOLARE

Meccanismi molecolari che sono alla base di come le vescicole vengono indirizzate da un
compartimento all’altro.
Il movimento delle vescicole all’interno delle cellule è guidato dai microtubuli e talvolta dai
microfilamenti di actina; il movimento del materiale all’interno della cellula è mediato dalle
proteine motrici, dineine e chinesine. Le vescicole sono rivestite da delle proteine che
sono selettive per la direzione del trasporto.

Le vescicole rivestite sono delle vescicole che si formano grazie a un rivestimento proteico
che poi successivamente può essere normalmente perso. Il rivestimento proteico della
vescicola serve meccanicamente per la formazione della vescicola rivestita e serve anche
per selezionare il destino del materiale che dev’essere trasportato.

I tre tipi di rivestimento:

• Clatrina
• COP 1
• COP 2

La clatrina si trova in tutti quei meccanismi di trasporto che prevedono un ingresso di


materiale dalla cellula: nei meccanismi di endocitosi, nelle vescicole che gemmano dal
Golgi trans, nelle vescicole che mediano l’endocitosi mediata da recettori e nelle vescicole
che sono coinvolte nel trasporto vescicolare dal Golgi trans ad altri distretti. La clatrina è
costituita da 3 catene pesanti e 3 catene leggere a formare una struttura a 3 braccia. Le
molecole di clatrina polimerizzano tra di loro dando origine a strutture simili a “nidi di
vespa”; tale disposizione nello spazio permette la formazione della vescicola stessa.

La clatrina si dispone al di sotto della membrana e lega il suo recettore, generalmente


mediante una proteina adattatrice; grazie alla polimerizzazione della clatrina si forma una
vescicola che viene successivamente chiusa, permettendo il distacco della vescicola dalla
membrana e, in particolare, da una proteina detta dinamina che funziona grazie all’idrolisi
della guanosina trifosfato (GPT). Si forma quindi una vescicola rivestita da clatrina, la
quale verrà poi persa.

• COP 1
Le vescicole di tipo COP1 e COP2 (COP sta per “di rivestimento”) sono importanti perché
mediano il trasporto anterogrado (COP2) e il trasporto retrogrado (le COP1).

Le COP2 mediano il trasporto “in avanti”, ovvero il trasporto dal reticolo endoplasmatico al
Golgi e dal Golgi cis al Golgi trans.
Le COP1 mediano il trasporto retrogrado, il trasporto che va dal Golgi al reticolo
endoplasmatico, un trasporto “all’indietro”.

Il trasporto retrogrado (all’indietro) è importante perché le proteine e gli enzimi che devono
rimanere a livello del reticolo endoplasmatico sono caratterizzate da una sequenza
amminoacidica caratteristica (sequenza KDEL, stanno per lisina, aspartato, glutammato e
leucina). È stato osservato che una volta rimossa tale sequenza ad una proteina del
reticolo endoplasmatico questa viene secreta; allo stesso modo, se a proteine di
secrezione viene aggiunta tale sequenza KDEL, queste rimangono nel reticolo
endoplasmatico.
Non vi è nessun meccanismo per cui le proteine sono trattenute nel reticolo
endoplasmatico, casualmente possono essere inglobate in vescicole che si trasferiscono
dal reticolo endoplasmatico al Golgi, dove vi è un meccanismo specifico che permette di
recuperare tali proteine e di trasferirle con trasporto retrogrado (contrario) tramite le
vescicole rivestite da COP1 a livello del reticolo endoplasmatico.
Le COP1, le COP2 e la clatrina servono per caratterizzare determinate vescicole e
mediano il trasporto delle molecole in varie direzioni, ma come faccio a sapere dove
devono andare queste molecole?
Le proteine SNARE rivestono un ruolo essenziale in tale ambito; vengono identificate a
coppie e si identificano una con t (target) e una con v (proteina presente sulla vescicola)
davanti. Esistono diversi tipi di proteine SNARE, ne sono state scoperte circa 20, e
ciascuna SNARE di tipo v ha la sua proteina SNARE di tipo t, per cui l’incontro è mediato
dal riconoscimento selettivo tra v-SNARE e t-SNARE di un determinato tipo. L’idea è che
tra v-SNARE e t-SNARE si realizzi una sorta di contatto che determina in seguito la
fusione delle due cellule della vescicola con la membrana.

Esempio di fusione tra


vescicole che
trasportano
neurotrasmettitori a
livello della membrana
terminale del neurone.

Il neurotrasmettitore si troverà in una vescicola, verrà trasportato lungo l’assone attraverso


l’indirizzamento mediato dai microtubuli, arriverà a livello della membrana presinaptica e
qui, grazie alla fusione tra le proteine v-SNARE e le proteine t-SNARE, si avrà il rilascio
del contenuto all’esterno.

È stato visto che la tossina tetanica e la tossina botulinica agiscono sulle proteine v-
SNARE e t-SNARE impedendo la fusione, ovvero il contatto tra queste e quindi
impedendo il rilascio del neurotrasmettitore.
La tossina botulinica che agisce a livello della terminazione dei motoneuroni impedisce il
rilascio dell’acetilcolina e quindi si avrà quella paralisi flaccida tipica della tossina
botulinica.
La tossina tetanica impedisce il rilascio di un neurotrasmettitore a funzione inibitoria, non
viene inibita la contrazione e si ha una paralisi di tipo spastico.
24/10/2023 prof.essa: Francesca Margherini

Biologia sbobinatore: Federico Russo

Lezione n.8 (prima parte) revisore: Camilla Marzi

MITOCONDRIO
Il mitocondrio è un organulo presente in tutte le cellule eucariotiche, caratterizzato da:
● Una doppia membrana
● Materiale genetico organizzato in più molecole di DNA circolare
● Presenza di ribosomi
Il mitocondrio viene quindi considerato un organulo semiautonomo in quanto alcune
funzioni come la duplicazione del DNA, la trascrizione e la traduzione avvengono anche
all’interno del mitocondrio. Ha una dimensione di circa 0,5-1 micron, circa la dimensione
di una cellula procariotica.
Gli epatociti contengono da 1000 a 2000 mitocondri, il numero di questi dipende dal tipo di
cellula.
In maniera più specifica sarebbe più corretto parlare di una rete di mitocondri e non come
singoli mitocondri, quindi si pensa che ci sia comunicazione tra loro. Ciò è stato osservato
con la microscopia fluorescente.
È necessario approfondire la struttura del mitocondrio, specialmente la doppia
membrana. La membrana interna è piena di invaginazioni dette creste mitocondriali,
mentre la composizione delle due membrane è molto diversa, pur avendo ambedue una
composizione fosfolipidica e proteica.
● La membrana mitocondriale esterna è molto simile in composizione a quella
plasmatica e presenta un rapporto proteine-fosfolipidi/lipidi di circa 1:1,
presenta delle strutture che consentono la comunicazione con l’ambiente
citoplasmatico, come le porine. Questi canali non sono selettivi e, nel caso dei
mitocondri, permettono il passaggio di molecole di grandezza fino ai 5000 Dalton,
è altamente permeabile.
● La membrana mitocondriale interna è più particolare, infatti presenta queste
creste mitocondriali che aumentano di molto la sua superficie. La componente
proteica è molto più
abbondante rispetto alla membrana esterna, e abbiamo un rapporto fra proteine e lipidi di
circa 3:1, non presenta colesterolo e come lipide presenta la cardiolipina. Al livello della
membrana interna sono situati dei complessi che costituiscono la catena di trasporto degli
elettroni. Per questo motivo è estremamente selettiva. Consente il passaggio solo di H2O,
gas e molecole che richiedono specifici trasportatori.

figura 1

Da notare la forma “globulare” che il mitocondrio può assumere, questa è la conformazione


vista grazie all’utilizzo del microscopio confocale nei S.cerevisiae (lievito) -figura1-,
possiamo trovarle anche sotto forma di complesse reti mitocondriali di maggiori dimensioni
-figura2-.
figura 2

La presenza delle due membrane determina anche la presenza di uno spazio


intermembrana e di una matrice mitocondriale. All’interno della matrice sono presenti i
ribosomi, quest’ultimi sono molto simili a quelli procariotici, molecole di DNA circolare ed
enzimi. Da ciò possiamo dedurre che i mitocondri posseggono una propria RNA polimerasi,
una propria DNA polimerasi, un proprio corredo cromosomico e enzimi deputati al ciclo di
Krebs. Il numero dei mitocondri è variabile da cellula a cellula, a seconda della necessità
metabolica della cellula (i mitocondri sono vere e proprie fabbriche energetiche).
Per quanto riguarda la molecola di DNA, è solo nel mitocondrio e in nessun’altra parte della
cellula che si trova, oltre che nel nucleo. Questo DNA è generalmente circolare e sempre a
doppio filamento, la dimensione dipende dall’organismo, associato a proteine non
istoniche; se ne trovano diverse copie, nell’uomo sono circa 10, ciascuno formato da 37 geni
e 17 mila paia di basi. Questo DNA è funzionale, poiché possiede regioni che non vengono
trascritte, e regioni che invece, sono trascritte, producendo sia RNA messaggeri, sia RNA
funzionali. Gli RNA funzionali sono tRNA e rRNA e i 37 geni se trascritti danno:
● 2 rRNA
● 22 tRNA
e se trascritti e tradotti:
● 13 proteine, tutte le altre derivano dal DNA nucleare
La maggior parte dei geni del DNA mitocondriale nell’uomo sono per gli RNA transfer.
Per
questi motivi il mitocondrio è un organulo semi-autonomo.

Nel mitocondrio sono presenti:


● proteine prodotte dagli RNA mitocondriali
● proteine codificate dal genoma nucleare che verrà successivamente trascritto e
tradotto per poi essere sintetizzato dai ribosomi citoplasmatici, solo dopo questo
processo le proteine verranno importate all’interno dei mitocondri. (la maggior
parte)
Ogni segmento corrisponde un gene.
I mitocondri si dividono per fissione binaria, meccanismo simile alla divisione dei procarioti.
Possono aumentare in numero per adattamento, ovvero quando si verifica un allenamento
prolungato a bassa intensità.

Ma analizziamo quali sono le molteplici funzioni che svolgono i mitocondri:


● Nell’uomo partecipano al metabolismo dell’urea.
● Sono coinvolti nella degradazione degli acidi grassi nei mammiferi.
● Producono radicali (specie reattive dell’ossigeno chiamate anche ROS in quanto
hanno elettroni spaiati e possono ossidare molecole. Fisiologicamente
nell’organismo ci sono enzimi che le eliminano).
● Intervengono nell’apoptosi (processo di morte programmata) se i livelli di ROS sono
elevate.
● Intervengono anche nella termoregolazione, visto che possono generare molto
calore dalla catena di trasporto.
● Nei mitocondri dei mammiferi avviene la beta-ossidazione, demolizione degli acidi
grassi.
Inoltre molte patologie sono legate ad alterazioni dei mitocondri, specialmente patologie
riguardanti i muscoli o il sistema nervoso centrale, quindi si parla di miopatie e di
encefalopatie. Le alterazioni mitocondriali si manifestano principalmente nei tessuti che
hanno un grande fabbisogno di energia per funzionare.
Queste patologie possono essere di due tipi:
● Patologie causate da mutazioni del genoma mitocondriale
● Patologie causate da mutazioni di geni nucleari che codificano proteine destinate al
mitocondrio. Al momento della fecondazione lo spermatozoo non porta nulla del suo
citoplasma ma solo il suo DNA e poco altro. Tutto ciò che è presente nel citoplasma
dello
zigote è di origine materna, infatti la cellula uovo è di grandi dimensioni proprio
perchè contiene tutti quegli organelli che dovrà ereditare lo zigote, compresi quindi i
mitocondri. Eventuali mutazioni del genoma mitocondriale sono ereditate per via
materna.

TEORIA ENDOSIMBIONTICA
La teoria endosimbiontica (Lynn Margulis) spiega l’origine dei mitocondri e la possibile
nascita delle cellule eucariotiche come le conosciamo a partire da una cellula ancestrale,
precursore di una cellula eucariotica. Secondo questa teoria sia la cellula animale che quella
vegetale sarebbero derivate da un processo di fagocitosi: partendo da un procariote si è
originata una cellula che si è organizzata in compartimenti costituiti da membrane e da
nucleo. Da questa cellula eucariote primitiva si è verificato un evento di fagocitosi di un
batterio aerobio eterotrofo (diventato poi mitocondrio) nel caso delle cellule animali e nel
caso della cellula vegetale di uno aerobio e di uno fotosintetico (mitocondrio e cloroplasto). I
motivi a supporto di questa ipotesi sono numerosi:
● La doppia membrana mitocondriale potrebbe derivare dalla vescicola di fagocitosi.
Infatti, quella esterna sembrerebbe derivare dalla membrana plasmatica, mentre
quella interna presenta caratteristiche simili a quella batterica (priva di colesterolo e
presenta come fosfolipide la cardiolipina).
● È presente il DNA circolare come nei batteri.
● Il meccanismo di riproduzione è simile a quello dei batteri.
● I ribosomi mitocondriali sono più simili a quelli batterici per quanto riguarda le
dimensioni e l'organizzazione.

RIBOSOMI
I ribosomi sono organuli fondamentali, poiché svolgono la sintesi proteica, ma procediamo
con ordine. Non hanno una membrana di rivestimento e sono costituiti da proteine e RNA
ribosomiale. Essi sono costituiti da 2 subunità, una minore ed una maggiore, che
normalmente sono divise dal citoplasma unendosi solo durante la sintesi proteica.
Analizziamo i ribosomi eucariotici: sono formati da una subunità minore da 40 S, ed una
maggiore da 60 S dove S sta per Svedberg ed è un coefficiente di sedimentazione (1
Svedberg = 10^-13 secondi), quanto rapidamente sedimentano se sottoposti ad un campo
centrifugo unitario.
Il coefficiente di sedimentazione totale non deriva dalla somma di due coefficienti singoli
delle sue due unità, non sono grandezze che si sommano; esse dipendono dalla massa ,
ma anche dalla forma è d’ala densità.
Queste due subunità sono costituite a loro volta da un insieme di proteine e RNA.
Nella subunità maggiore ci sono circa 45 proteine e poi ci sono diversi tipi di RNA:
● 28 S
● 5S
● 5.8 S
Nella subunità minore ci sono circa 33 proteine ed è costituita da una molecola di rRNA:
● 18 S
I ribosomi procariotici sono diversi, le due subunità hanno S più piccoli (30 S e 50 S) che
rappresentano la loro diversa composizione in proteine e RNA rispetto agli equivalenti
eucariotici. La differenza tra ribosomi procariotici ed eucariotici fa sì che i ribosomi possano
essere un punto selettivo sul quale possono essere usati farmaci che funzionano per i
batteri, ma non per l’uomo.
Nella subunità maggiore (50s) ci sono 34 proteine e 2 rRNA:
● 5s
● 23 s

Nella subunità minore (30s) ci sono 21 proteine e


1 rRNA:
● 16 s

Sui ribosomi liberi vengono sintetizzate le proteine destinate al nucleo, ai mitocondri, ai


cloroplasti ed ai perossisomi mentre sui ribosomi associati al RER vengono sintetizzate tutte le
altre.
24/10/2023 prof.essa: Francesca Margherini

Biologia sbobinatore: Federico Russo

Lezione n.8 (prima parte) revisore: Camilla Marzi

Perossisomi
Sono organuli della cellula eucariotica animale delimitati da membrana singola (fosfolipidica)
e presentano all’interno 50 enzimi differenti, inoltre si trovano abbondanti in molti tipi di
cellule come quelle del fegato (1000-2000 per ogni cellula epatica). All’interno delle cellule
vegetali, invece, hanno un ruolo particolare che sarà descritto più avanti. Partecipano a una
serie di reazioni:
● sono responsabili dell’ossidazione degli acidi grassi, una precisazione: nei
mammiferi l’ossidazione degli acidi grassi avviene in due compartimenti distinti →
l’ossidazione degli acidi grassi a catena molto lunga (esiste una patologia,
l’adrenoleucodistrofia, che vede la mutazione del gene ABCD1, responsabile della
sintesi della proteina che trasporta gli acidi grassi a catena molto lunga dentro i
perossisomi, con la proteina mutata questi acidi grassi non vengono degradati in
maniera efficiente, tendono ad accumularsi nell’organismo causando una serie di
danni a livello nervoso e morte precoce), che consiste in una degradazione, inizia nei
perossisomi e viene completata nei mitocondri, dove avviene la β-ossidazione,
che porta al rilascio di acetil-coA, che serviranno nell’ultima parte del metabolismo
cellulare. Negli altri organismi tale degradazione avviene solo nei perossisomi.
● Metabolismo degli amminoacidi e delle purine; [questo punto verrà successivamente
approfondito in altri corsi]
● Processi di ossidazione di una serie di molecole estranee agli organismi (es.
formaldeide e molecole che possono essere nocive), dette xenobiotici (cioè che
l’organismo non riconosce come proprie), per mezzo di enzimi, tra cui ossidasi e
perossidasi. I perossisomi prendono il nome dalle reazioni catalitiche che vi
avvengono
N.B -> il concetto di xenobiotico è relativo all’organismo trattato, delle sostanze
nocive per alcuni possono non esserlo per altri.
● Biosintesi di Plasmalogeni (figura 2) precursori della plasmina (importante nei
processi coagulativi), sono dei fosfolipidi di membrana ricchi nelle cellule nervose e
rappresentano il 50% dei fosfolipidi di membrana nelle cellule del muscolo cardiaco.
Alcuni studi hanno notato una correlazione tra il malfunzionamento dei plasmalogeni
e le malattie neurodegenerative.

● Nelle piante, sono protagonisti del ciclo del gliossilato, un ciclo biochimico che
permette di convertire i grassi in zuccheri, cosa che gli animali non sanno fare: noi
degradiamo depositi di lipidi solo con beta ossidazione, non ci sono vie biochimiche
che trasformano lipidi in carboidrati. Spesso le piante accumulano lipidi in semi e poi
durante la germinazione vengono utilizzati per formare carboidrati che serviranno per
il metabolismo energetico e motivi strutturali.
(figura 2) la caratteristica principale è il tipo di legame etere che sostituisce il legame
estere
Le reazioni che avvengono all’interno dei perossisomi sono dette di perossidazione o
ossidazione perchè possono ossidare vari tipi di substrato usando ossigeno molecolare o
acqua ossigenata:
Nelle reazioni di ossidasi, un qualsiasi substrato RH2 è ossidato utilizzando l’ossigeno,
che si riduce ad acqua ossigenata.

L’acqua ossigenata, a sua volta, può essere utilizzata da una seconda classe di enzimi, le
perossidasi, che, in una reazione di ossidazione di un eventuale substrato, portano alla
formazione del substrato in forma ossidata e due molecole di acqua.

Questa reazione è importante perchè l’acqua ossigenata, essendo un potentissimo


ossidante, è tossica, quindi, se viene utilizzata in una via enzimatica, attraverso le
perossidasi, va bene perchè controllata, ma, se accumulata, causa l’ossidazione random di
tutte le macromolecole. Nei perossisomi, per far sì che acqua ossigenata sia all’interno di
livelli controllati, che possono essere utilizzati a fini enzimatici dalle perossidasi, ma non
siano pericolosi per la cellula, esiste la catalasi, l’enzima la cui esistenza caratterizza i
perossisomi, che catalizza la reazione che scinde due molecole di acqua ossigenata in due
molecole di acqua e una di ossigeno molecolare.
24/10/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatore: Elios Voshtina
Lezione 8, parte seconda Revisore: Ginevra Secci

CELLULA VEGETALE

PARETE CELLULARE

La parete cellulare delle cellule vegetali ha una composizione abbastanza complessa in


quanto è possibile distinguere 2 tipi di pareti:

● la parete primaria, che è presente in tutte le


piante e che viene deposta in fase di
accrescimento;
● la parete secondaria, che è presente solo in
alcune cellule e conferisce una maggiore rigidità. È
in questa parete che sono presenti le fibre di
cellulosa ordinate, infatti a livello della parete
secondaria vi è una concentrazione maggiore di
cellulosa (circa 80%) mentre nella parete primaria
vi è una concentrazione più bassa dovuta alla
presenza di altre sostanze come l’emicellulosa (un
polisaccaride simile alla cellulosa) e le sostanze pectiche (come la pectina, ossia un
polimero dell’acido galatturonico) che sono polisaccaridi acidi.

A livello della parete secondaria possono avvenire anche modificazioni, come la deposizione
di lignina o suberina (sostanza di natura fenolica) che caratterizzano le piante legnose, in
quanto determinano il colore e/o il profumo del legno.

Nelle cellule vegetali il percorso di secrezione di queste sostanze segue esattamente ciò che
accade nelle cellule animali: queste sostanze vengono prodotte a livello del reticolo
endoplasmatico per poi essere riversate all’esterno delle cellule in modo tale da andare a
formare la struttura di rivestimento della cellula vegetale stessa.

La parete, pur rappresentando una struttura di rivestimento che


protegge la pianta dalla lisi osmotica e che conferisce una forma
alle cellule, è anche una struttura che permette la comunicazione
tra cellule mediante dei canali, detti plasmodesmi, che mettono in
comunicazione i citoplasmi delle cellule vegetali vicine.
VACUOLO

Le cellule vegetali possono contenere anche un


grande vacuolo, ossia un organulo polivalente in grado
di svolgere diverse funzioni.

Nelle cellule vegetali non ci sono lisosomi quindi non


esiste un sistema escretore che permetta di eliminare
le sostanze di scarto, di conseguenza queste spesso
vengono accumulate all’interno dei vacuoli, il quale poi
procede alla loro eliminazione.

Altre funzioni del vacuolo:


● possono contenere dei pigmenti responsabili
della colorazione;
● immagazzina i nutrienti;
● mantiene il turgore della cellula (l’acqua viene qui accumulata quando la cellula entra in
contatto con una soluzione ipotonica).

I PLASTIDI

I plastidi sono una famiglia di organuli specifici della cellula vegetale che derivano da un
organulo poco differenziato che si chiama proplastide, il quale poi si differenzia in vari tipi di
organuli, ognuno dei quali è caratterizzato da funzioni diverse:

● cloroplasti: sono quelli che contengono la


clorofilla e sono deputati alla fotosintesi. Sono
delimitati da una doppia membrana, ma hanno
anche un sistema di strutture membranose
interne che vengono dette tilacoidi, i quali sono
impilati gli uni sugli altri per formare delle strutture
più complesse chiamate Granum. All’interno dei
tilacoidi vi è lo spazio tilacoidale, mentre all’esterno è presente lo stroma, il genoma e i
ribosomi che sono importanti per la sintesi di alcune proteine del tilacoide stesso.

● cromoplasti: sono invece responsabili della pigmentazione di fiori e frutti. Essi


derivano il più delle volte dai cloroplasti privati della clorofilla a seguito di un processo
irreversibile (maturazione) associato ad una serie di mutazioni chimiche che avvengono
al livello dei cloroplasti trasformando questi ultimi in cromoplasti.

● leucoplasti: accumulano sostanze di riserva, come l’amido (in questo caso si parla di
amiloplasti nonostante esistano pure oleoplasti e proteoplasti in grado di accumulare oli
e proteine)
Nelle piante il glucosio viene ricavato durante la fotosintesi che avviene nelle parti verdi delle
piante, quindi nelle foglie. In particolar modo quando la CO2, grazie all’ATP accumulato nella
fase luminosa, viene progressivamente ridotto in molecole di glucosio, esso si accumula
temporaneamente nelle foglie sotto forma di amido primario, tuttavia viene poi trasportato
rapidamente attraverso i meccanismi di trasporto della pianta nelle zone di preferenziale
accumulo, ossia nelle radici dove sono molto abbondanti i leucoplasti. Il glucosio viene
trasportato non come tale ma sotto forma di saccarosio che rappresenta la forma di trasporto
del glucosio nei sistemi di conduzione della pianta. Il saccarosio viene poi trasportato
attivamente all’interno della pianta mediante il meccanismo di trasporto attivo secondario
saccarosio-ioni H+.

GIUNZIONI CELLULARI
La pluricellularità porta a nuove caratteristiche emergenti tra le quali vi sono: le interazioni
cellula-cellula, cellula-substrato e della matrice extracellulare.
I meccanismi di comunicazione e interazione tra cellule sono importanti perché permettono
l’organizzazione dei tessuti.

GIUNZIONI CELLULA-CELLULA

Per quanto riguarda le interazioni cellula-cellula è possibile distinguere vari tipi di meccanismi
che possono essere suddivisi in:
● giunzioni strette o occludenti;
● giunzioni comunicanti;
● desmosomi (giunzioni adesive);
● giunzioni aderenti.
GIUNZIONI STRETTE, SERRATE O OCCLUDENTI

Le giunzioni strette sono giunzioni che sigillano


strettamente le membrane cellulari di cellule
adiacenti impedendo il passaggio di soluti nello
spazio tra le due cellule, pertanto si ritrovano a
sigillare quegli epiteli attraverso i quali, quello
che passa deve essere per forza deciso dalla
cellula. Sono quindi importanti poiché ci sono
alcuni distretti nel nostro organismo in cui il
contenuto deve essere separato in maniera
restrittiva; es. intestino, vescica, dotti pancreatici.
In questi casi ciò che passa deve essere mediato dal trasporto selettivo di membrana,
pertanto questo tipo di giunzioni limita il passaggio di sostanze tra le cellule e le obbliga a
passare attraverso le cellule stesse.

Da un punto di vista molecolare queste giunzioni sono


costituite da delle proteine transmembrana della famiglia
delle claudine e occludine. Queste proteine si trovano su
una membrana e su quella adiacente e formano delle
interazioni tra di loro in modo tale da avvicinare le cellule e
limitare il passaggio di sostanze.

Oltre a sigillare le cellule in maniera stretta, le giunzioni


occludenti determinano anche una polarità nella distribuzione delle proteine di membrane, in
quanto queste ultime non sono tutte ugualmente distribuite al livello della membrana stessa,
ma si possono trovare distribuite in maniera asimmetrica, come ad esempio nel caso delle
cellule intestinali dove il trasporto attivo del glucosio è mediato e associato a delle proteine
trasportatrici che sono presenti sulla membrana che guarda il lume, mentre in quella rivolta
verso il circolo ematico sono presenti i normali carrier del glucosio.

GIUNZIONI COMUNICANTI o GAP

Hanno un significato opposto a quelle occludenti,


infatti permettono il passaggio di piccole molecole o
ioni mettendo così in comunicazione i citoplasmi di
cellule adiacenti.

Le giunzioni GAP sono costituite da proteine dette


connessine che formano delle strutture complesse a livello della membrana plasmatica, ossia
6 subunità che ponendosi a contatto con loro formano un connessone che delimita un canale
che mette in connessione tra di loro le cellule adiacenti. Questi canali possono essere formati
da proteine tutte identiche o diverse fra loro. Due connessoni costituiscono un poro
abbastanza grande, non troppo selettivo, in cui possono passare ioni, amminoacidi e
monosaccaridi.

Questo poro permette il coordinamento delle attività, ad esempio quelle di contrazione, perché
permette la trasmissione rapida degli impulsi elettrici (a livello del muscolo cardiaco e del
muscolo liscio) e permette anche la coordinazione delle cellule stesse. Questi canali non sono
necessariamente sempre aperti, ma possono essere regolati tramite il livello di
concentrazione del calcio, del pH o anche da fosforilazioni, per rispondere alle esigenze della
cellula stessa.

DESMOSOMI

Una struttura importante che si trova a livello degli epiteli sono


i desmosomi, i quali servono a garantire una grande
resistenza alla compressione e alla trazione, in modo tale da
permettere alle cellule di rimanere vicine. Questo tipo di
sistema giunzionale ha la caratteristica di essere un sistema di
interazione cellula-cellula legato saldamente ad elementi del
citoscheletro. Questo fa sì che una pressione generata a
livello della membrana non si localizzi selettivamente sulla
membrana, ma si distribuisca uniformemente su tutta la
cellula.
I desmosomi sono costituiti da delle placche proteiche
dense che si trovano al di sotto della membrana plasmatica
delle due cellule adiacenti. Queste placche dense sono
saldamente collegate ai filamenti intermedi (estremamente
robusti) del citoscheletro, mentre nel versante extracellulare ci
sono delle proteine che hanno origine dalla membrana
cellulare e sono collegate alle placche dense da proteine
transmembrana della famiglia delle caderine, che si
connettono tra di loro tramite legami non covalenti. Le proteine
transmembrana della famiglia delle caderine sono chiamate
desmocolline e desmogleine, e interagiscono con le caderine che provengono dalla placca
densa della cellula adiacente per creare un collegamento e rafforzare l’interazione.
GIUNZIONI ADERENTI

Simili dal punto di vista funzionale ai desmosomi. Anche


in questo caso vi sono delle proteine facenti parti della
famiglia delle caderine (mediano l’adesione cellulare in
presenza di ioni calcio). Le caderine sono proteine
transmembrana collegate, in questo caso, ai
microfilamenti di actina tramite delle proteine di
connessione, pertanto il legame non è diretto ma
mediato da delle proteine chiamate catenine. Sono
quindi presenti proteine transmembrana che sono
connesse tra di loro e a loro volta con l’interno della
cellula ad elementi del citoscheletro, permettendo così
di avere una redistribuzione delle eventuali pressioni di
trazione su tutta la cellula.
Oltre a questi sistemi, ci sono altri meccanismi di interazione cellula-cellula che coinvolgono
varie molecole di adesione, le CAM, che possono essere di vari tipi.

Le interazioni possono essere omofiliche, ossia mediate da proteine dello stesso


tipo,eterofiliche o mediate da delle proteine intermedie.

I diversi tipi di interazioni cellula-cellula sono importanti soprattutto per quel che riguarda la
specificità e il riconoscimento tissutale.

L’importanza di questa specificità è dimostrata anche da un esperimento


che può essere fatto disgregando due tessuti di tipo diverso in modo da
liberare le singole cellule per poi mescolarle. Si nota che dopo un po’ di
tempo le cellule si riconoscono, infatti le cellule dello stesso tessuto si
pongono vicine proprio perché i meccanismi sono specifici ed importanti
per il riconoscimento del tessuto determinando la localizzazione della
cellula. L’importanza di questa specificità è testimoniata anche da una
delle caratteristiche dei tumori che danno metastasi, ossia dalla perdita di
specificità e dall’acquisizione di caratteristiche generiche o differenti da
quelle del tessuto di appartenenza che permettono alla cellula tumorale di
migrare e di andare ad invadere altri tipi di tessuti.
INTERAZIONI TRA LE CELLULE E I SUBSTRATI

Le interazioni servono ad ancorare le cellule alla matrice extracellulare, per questo sono state
molto studiate a livello degli epiteli; tuttavia esistono vari sistemi di adesione tra cellule e
substrato.

EMIDESMOSOMI

Sono strutture asimmetriche che permettono di ancorare le


cellule epiteliali alla membrana basale.
La membrana basale o lamina basale è una struttura
specializzata della matrice extracellulare che separa gli
epiteli dai connettivi sottostanti. L’emidesmosoma è molto
simile ad un desmosoma è costituito da una placca densa,
collegata ai filamenti intermedi, ma le proteine
transmembrana che mediano l’interazione con la matrice
extracellulare sono rappresentate dalle integrine.

Le integrine permettono l’ancoraggio dell’epidermide alla lamina basale e quindi al derma


sottostante.

es. EPIDERMOLISI BOLLOSA: è una patologia che


deriva da una mutazione subita da una proteina della
famiglia delle laminine (proteine della lamina basale
prodotte dalle cellule). L’epitelio non si ancora al derma
sottostante e si stacca, pertanto si tratta di una
patologia grave. Un tipo di terapia messa in atto per
curare questa malattia prevede: la selezione e il
prelievo di cellule staminali epiteliali dalla parte dove il
tessuto è sano, successivamente viene corretta la
mutazione di queste cellule che possono essere fatte
crescere in vitro generando dei foglietti epiteliali che
possono poi essere posti sopra la cute dell’individuo
malato e portare al ripristino anche totale dell’epitelio.
26/10/2023 Prof.ssa: Francesca Magherini
Biologia Sbobinatori: Sara Santini, Chiara Lazzeri
Lezione 9 Revisori: Alessia Peroni, Giulio Masieri
MATRICE EXTRACELLULARE
L’altra volta avevamo terminato la parte che riguardava le giunzioni cellula-cellula e cellula-matrice.
Avevamo anche portato un esempio relativamente all’importanza di queste molecole che regolano
l’adesione tra le cellule e la matrice sottostante. Per completare questa parte e passare al prossimo
argomento, dovremo concentrarci su quali sono i componenti della matrice extracellulare, perché ne
abbiamo parlato molto spesso però senza entrare nel dettaglio. (La prof dice che non ci
dilungheremo troppo sulla parte riguardante l’organizzazione dei tessuti, ma che vuole dire due
parole sulla composizione della matrice).

Quando si parla di matrice extracellulare


si parla di qualcosa di molto vario,
perché si riferisce a tutto ciò che è al di
fuori della cellula. Questo (tutto ciò che
è al di fuori della cellula) può avere una
composizione molto varia a seconda del
tessuto nel quale ci si trova. Qui sono
riportati tre esempi di matrice
extracellulare: a sinistra c’è l’osso, al
centro la cartilagine e a destra il tessuto
connettivo. Sono strutture molto diverse
le une dall’altre, ma tutte vengono prodotte dalle cellule
ed eventualmente modificate ad esempio con i depositi
di calcio nella parte della struttura delle ossa. Tuttavia
sono tutte strutture la cui formazione dipende dalla
presenza delle cellule stesse. A livello del tessuto osseo
abbiamo delle cellule che servono a deporre quella che
è la matrice di base e che poi si calcificherà formando
l’osso. A livello della cartilagine abbiamo cellule che
depongono la matrice specifica (della cartilagine) e così
via a livello di altri tessuti. Quando si parla di gangli
vasali, ci riferiamo ad una matrice extracellulare
specializzata che si trova prevalentemente a separare
gli epiteli dal tessuto connettivo sottostante. Si può trovare però anche intorno agli adipociti, alle
cellule muscolari e alle cellule nervose e in diverse posizioni.

1
All’interno della matrice ci sono essenzialmente due componenti:

● Una componente è rappresentata da catene polisaccaridiche, costituite da zuccheri, che


complessivamente vengono chiamati glicosaminoglicani (GAG). Queste (lunghe catene di
zuccheri) possono a loro volta essere associate ad una componente proteica a formare quelli
che vengono indicati come proteoglicani.
● Oltre a queste, ci sono le proteine fibrose, fra cui abbiamo l’elastina, la fibronectina e la
laminina. Le laminine sono molto abbondanti nella lamina basale e anche in questo caso si
tratta di una famiglia di proteine.

GLICOSAMMINOGLICANI
Va l u t i a m o l a s t r u t t u r a d e i
glicosamminoglicani. Questi sono
una vasta famiglia di polisaccaridi in
cui ci sono numerosi zuccheri
modificati. A destra l’immagine
riporta la struttura dell’acido
ialuronico, il quale è costituito
dall’alternanza di acido glucuronico
e N-acetil-glucosammina. Questa è
l’unità di base e questi due zuccheri
modificati si ripetono a costituire
d e l l e l u n g h e c a t e n e . L’ a c i d o
ialuronico è tra i più noti tra questi
GAG, ma non è l’unico. Tutti sono caratterizzati dalla presenza di zuccheri modificati contenti anche
gruppi carichi, come nel caso dell’acido glucuronico (c’è un COO-). Questo determina il richiamo di
molta acqua e conseguentemente l’idratazione di queste strutture, che conferiscono alla località
dove si trovano una consistenza gelatinosa. Per cui l’acido ialuronico è molto presente nelle
articolazioni. Capita di sentire qualcuno che ha dovuto fare l’infiltrazione di acido ialuronico a livello di
qualche articolazione per lubrificare l’articolazione stessa. L’acido ialuronico è anche la componente
di molti prodotti cosmetici, perché avendo questa funzione di richiamo di acqua tende a rigonfiare e
ad attenuare la comparsa e lo sviluppo delle rughe. Si trova anche scritto su molti prodotti anche che
si trovano al supermercato.

PROTEOGLICANI
Questi GAG possono trovarsi sia da soli sia associati ad uno scheletro proteico a costituire quelli che
vengono chiamati i proteoglicani. Il nome ricorda che c’è una componente proteica al quale sono
associati le catene di glicosaminoglicani. A loro volta queste strutture possono formare delle strutture
ancora di dimensioni maggiori che sono quelle che si vedono nell’immagine. Vi è un'impalcatura
2
costituita da acido
ialuronico e attaccata a
questa sono connesse
queste proteine leganti
altri GAG, formando dei
grandi aggregati che hanno
lo stesso scopo detto
precedentemente
(richiamare acqua e
formare un substrato dalla
consistenza gelatinosa).
All'interno di questa componente prevalentemente polisaccaridica ci sono anche delle componenti di
natura proteica. Le componenti di natura proteica sono rappresentate da numerose proteine. Quelle
più abbondanti sono: il collagene, l’elastina (che troviamo ad esempio intorno a tutti i vasi), la
fibronectina e la laminina (che troviamo nelle lamine basali). La struttura di queste proteine è una
struttura che viene chiamata fibrosa, perché la maggior parte di queste ricordano una sorta di cavi.
Quindi forniscono a seconda dei casi resistenza ed elasticità e così via.

COLLAGENE
E’ il costituente
più importante
del tessuto
connettivo.
Viene prodotta
da numerose
cellule:
- d a i
fibroblasti
- dai condroblasti (che si trovano nella cartilagine)
- dagli osteoblasti (che si trovano nel tessuto osseo)
È una proteina estremamente abbondante nei mammiferi. Raggiunge il 25% del loro peso. È una
proteina presente in elevatissime quantità nel nostro organismo ed è anche una proteina da un punto
di vista filogenetico molto antica. Di fatti la ritroviamo anche in organismi poco sviluppati come i
poriferi.

Questa proteina ha una composizione insolita: un residuo su tre è rappresentato dall'amminoacido


glicina. Questo è l’unico amminoacido non chirale, perché R è costituito da un atomo di idrogeno e
quindi ha due atomi di idrogeno. Nell'amminoacido abbiamo in tutti il carbonio alfa centrale, il gruppo
amminico, il gruppo carbossilico, l’idrogeno e poi R che differenzia da un amminoacido ad un altro.
Nella glicina R è un atomo di idrogeno. Quindi è un atomo di piccole dimensioni e di basso ingombro
sterico. Presenta amminoacidi idrossilati, come l’idrossiprolina e idrossilisina, i cui amminoacidi
rispettivi sono prolina e lisina che però vengono idrossilati, cioè gli viene aggiunto un gruppo OH. La
sequenza rappresentata da glicina–prolina-idrossiprolina è ripetuta molte volte.

Come è formata l'unità di base del collagene? È rappresentata da questa struttura: è una tripla
elica, dove ci sono tre catene polipeptidiche che si avvolgono le une sulle altre a formare una
struttura molta compatta stabilizzata da legami a idrogeno che si formano anche grazie alla presenza

3
di queste idrossilazioni, che aumentano i gruppi a livello dei
quali può avvenire il legame a idrogeno. L'H legato al
gruppo idrossilico è un idrogeno che può formare legami a
idrogeno. Questa struttura compatta è resa possibile anche
dalla presenza di numerosi residui di glicina. Essendo
l'ingombro sterico di questo amminoacido basso, questo
permette alla struttura di essere estremamente compatta.
Questa è l’unità di base.
Queste molecole di base si associano le une alle altre per
formare delle strutture che vengono dette fibrille di
collagene che poi si possono associare tra di loro formando
delle fibre anche di grandi dimensioni.
Si pensi ad esempio al tendine (immagine). Il tendine è
costituito esclusivamente da fibre di collagene organizzate a
formare dei fasci. Queste strutture hanno un’alta resistenza
meccanica e subiscono elevate sollecitazioni.
(La prof dice che non entra nei dettagli sull’organizzazione
dato che li faremo a biochimica ma evidenzia solo alcuni
aspetti di cose che ci ricordano quello che abbiamo già
fatto).

Dove i fibroblasti, i condroblasti e gli osteoblasti sintetizzano il collagene?


Lo sintetizzano mediante la via vescicolare (descritta precedentemente). Viene sintetizzato dai
ribosomi legati al reticolo endoplasmatico rugoso. All'interno del reticolo vengono assemblate 3
catene polipeptidiche che sono un po' più lunghe di quella che sarà la molecola finale. Sempre a
livello del reticolo endoplasmatico avviene l’idrossilazione della prolina e della lisina. Poi la proteina
viene segreta. Al di fuori della cellula vengono eliminate queste estremità della molecola di
protocollagene, ossia quella che diventerà il collagene vero e proprio. Le molecole di collagene si
assemblano tra di loro con una
modalità caratteristica, che è
quella che si vede nell’immagine
(sfalsate). Per cui la loro
visualizzazione al microscopio
viene spesso rappresentata con
fasce più chiare e più scure che
vogliono indicare la minore o la
maggiore densità. Più scure è
dove sono più dense (regioni dove
c’è maggiore sovrapposizione) e
più chiare dove la regione di
sovrapposizione è minore.

(La prof dice che a lei interessa


che ci ricordiamo questo
meccanismo di maturazione,
ricollegato al reticolo
endoplasmatico e al suo ruolo nella formazione delle proteine stesse, come ad esempio
l’associazione a formare i tendini).
4
Nel tendine abbiamo questa massima
organizzazione in fase di grandi
dimensioni; in altri tessuti le fibre di
collagene possono essere disperse o
meno organizzate. Dipende dal tessuto in
considerazione.

Questa è un'immagine che riassume il


discorso. Queste è quello che avviene
all'interno del reticolo endoplasmatico:

1. Assembramento delle 3 catene


2. Idrossilazione della prolina e
della lisina
3. Secrezione
4. Taglio delle regioni N-terminale
5. Assemblaggio per formare le
fibre di collagene di grandi
dimensioni

In questa immagine si può vedere che


alle molecole di collagene, costituita ciascuna da una tripla elica, sono presenti delle strutture di
collegamento (punti rossi). Questi sono la formazione di legami covalenti che si formano tra la lisina e
l’idrossilisina. La formazione di questi legami stabilizza ulteriormente rispetto al legame a idrogeno la
formazione delle fibre di collagene.
Quello che si è notato è che passando dagli organismi eterotermi (sangue freddo) agli organismi
omeotermi (sangue caldo) succede che l’idrossilazione del collagene aumenta. Questo avviene
perché la presenza dell’idrossilazione permette la formazione di legami a idrogeno ma anche la
formazione di questi legami covalenti che stabilizzano le molecole di collagene. Perché questo può
essere connesso con la temperatura? All'aumentare della temperatura, aumenta l'energia cinetica
delle molecole e quindi la loro instabilità. Per cui gli organismi che sono ad una temperatura corporea
costante più elevata (come nel nostro caso) necessitano di meccanismi che rendano il collagene più
stabile. Si pensa che questa sia la spiegazione.

L’idrossilazione che avviene a livello del reticolo endoplasmatico dipende dalla presenza di vitamina
C, cioè dipende dall’acido ascorbico. L'enzima responsabile dell’idrossilazione necessita di acido
ascorbico per poter funzionare. La carenza di questo acido determina una mancanza o una riduzione
dell’idrossilazione del collagene, una sua minore
stabilità e conseguentemente come primi sintomi il
sanguinamento delle gengive e una fragilità di
connettivi che poi progressivamente può essere
sempre più grave. Questo fu descritto per la prima
volta durante le grandi esplorazioni del 1500/1600,
quando i marinai stavano per lungo tempo sulle
navi lontani da fonti e approvvigionamento di
vitamina C (che si trova nella frutta e nella
5
verdura). Se non si utilizzano questi alimenti per lungo tempo, si può andare incontro a carenza.
L’esploratore Jacques Cartier, descrisse in maniera molto chiara i sintomi dello scorbuto, la
patologia derivante dalla mancanza di acido ascorbico e di vitamina C. Diceva: “Molti avevano la
pelle coperta di macchie di sangue color porpora che si estendeva dalle caviglie ai ginocchi e alle
cosce, alle spalle ed al collo. La loro bocca mandava un cattivo odore e le loro gengive divennero
così guaste, che tutta la carne ne cadde, fino alla radice dei denti…”. Si tratta di situazioni molto
gravi. Nei paesi sviluppati è rarissimo avere una carenza di vitamina C.

Descriviamo brevemente altre tre proteine che costituiscono il connettivo.


ELASTINA
Si trova soprattutto a livello di quei
tessuti che necessitano di elasticità,
quindi intorno ai vasi, nella cute, nei
polmoni. Presenta la caratteristica di
avere anche in questo caso dei
legami covalenti tre residui di lisina e
ha la possibilità di presentarsi in due
forme: contratta o rilassata (a
seconda dello stimolo a cui è
sottoposta). L’elastina funziona,
come dice un po ' il nome, come una
sorta di elastico: nella forma stesa e
nella forma invece rilassata dove la
sollecitazione non è presente.

FIBRONECTINE (immagine a sinistra)


Sono un altra famiglia di proteine
coinvolte soprattutto nell’interazione tra
la cellula e la matrice. Sono importanti
nei processi di movimenti e di
migrazione cellulare.

LAMININE (immagine a destra)


Sono una famiglia di proteine presenti
principalmente a livello della membrana
basale. Sono quelle proteine la cui
mutazione era causa di quella patologia
vista nell’ultima lezione (un caso clinico
abbastanza famoso).

Qui ci sono un paio di immagini che abbiamo visto precedentemente.


Abbiamo visto le integrine, che sono delle proteine fondamentali nell'ancoraggio tra la cellula e il
substrato. Queste sono le integrine. Questa immagine si è già vista tra l'interazione tra le integrine e
le componenti del citoscheletro, in particolar modo con i microfilamenti. Le integrine possono
interagire con il collagene o con la fibronectina, stabilizzando il contatto tra la cellula e la matrice.

6
Queste sono ancora altre immagini
che riepilogano quello che abbiamo
già visto (ad esempio un'immagine
degli emidesmosomi).

PROCESSO DI TRASFORMAZIONE
TUMORALE
Tutti gli studi che riguardano
l’adesione e la migrazione sono molti
importanti perché sono strettamente
connessi a questi processi e sono
collegati alle metastasi, cioè alla
migrazione delle cellule tumorali al di fuori del tumore
primario. Che cosa succede normalmente? In un tessuto
normale le cellule, ad esempio quelle epiteliali, si moltiplicano e si differenziano mantenendo sempre
le caratteristiche di cellule epiteliali (rinnovare continuamente i tessuti). Però le cellule staminali
dell’epitelio, quando si dividono, si differenziano dando origine a cellule sempre di natura epiteliale.
Quando si ha un processo di trasformazione tumorale, succede che intervengono più mutazioni a
carico di geni che controllano la proliferazione cellulare e il differenziamento. Quindi compaiono delle
cellule che sono svincolate dai meccanismi che controllano la corretta divisione cellulare e il corretto
processo di differenziamento. Queste cellule si dividono in maniera non controllata e, se rimangono
localizzate nella sede dove si sono prodotte, abbiamo un tumore che non dà metastasi. Quindi è più
facile intervenire ed è sicuramente meno pericoloso. Se invece queste cellule acquisiscono anche la
capacità di migrare, sono estremamente pericoloso, perché questo permette alle cellule di sfuggire
dalla sede primaria del tumore, invadere i tessuti circostanti (come in questo caso attraversare la
lamina basale), poi penetrare nel sangue e da esso raggiungere anche molte altre sedi in cui dare
metastasi. In questa fase le cellule devono acquisire delle capacità migratorie, cioè di movimento, e
delle capacità di invasione, cioè non solo di muoversi in uno spazio vuoto ma anche farsi spazio tra
la matrice cellulare attraverso le proteine della lamina basale e così via. Generalmente questo è un
fattore che viene acquisito, perché le cellule iniziano a produrre queste cellule trasformate delle
proteasi, cioè degli enzimi che scindono le proteine e che poi permettono l'invasione dei tessuti. Non
solo devono aver acquisito la capacità di muoversi, ma anche di produrre tutta una serie di enzimi
idrolitici che servono a scindere le proteine della matrice extracellulare e a facilitare la fuga delle
cellule tumorali dal luogo iniziale dove esse si sono formate.

7
IN LABORATORIO
Questi meccanismi possono essere studiati con dei sistemi abbastanza semplici.
Vi faccia vedere due esempi:

● Test di riparazione della ferita → È un test che


valuta le capacità migratorie della cellula (per alcune
sono capacità normali). Questo test viene fatto
facendo crescere le cellule sulla piastra. Le cellule
crescono fino a raggiungere una situazione di
confluenza in cui sono tutte vicine le une alle altre. A
questo punto con una punta o un ago viene effettuata
quella che viene indicata come una ferita, ossia un
taglio. Si va a vedere cosa succede nel tempo (ci
sono dei microscopi che permettono di registrare una
sorta di film). Quello che succede lo si può vedere in
questa immagine.
Questi puntini blu/
violetti che voi
vedete sono le
cellule. Questo è al
tempo zero e poi
progressivamente le
cellule sono migrate
per ripopolare la
zona della ferita.
Quindi questo è un
test semplice che ci
dice la capacità di
migrazione che hanno le cellule.
● Test di migrazione o di invasione nelle
camere di Boyden → Le camerine di
Boyden sono dei piccoli bozzetti
(immagine). Vi è una membrana porosa
che permette il passaggio delle cellule.

Quindi queste ultime vengono messe in un


terreno povero di nutrienti (sopra). Poi c’è
la membrana porosa e un pozzettino.
Queste camere vengono immerse in un
8
pozzetto più grande (sotto). Vengono quindi prese e immesse qui dentro. Questa è un
immagine in sezione di quello che vedete. Nella camera di Boyden abbiamo bassi nutrienti,
mentre nel pozzetto esterno abbiamo un elevato contenuto. In questo pozzetto possiamo
mettere anche della matrice extracellulare. Esistono di diversi tipi e si può depositare questa
matrice extracellulare in modo da mimare non solo la migrazione ma anche l’invasione. Per
cui le cellule vengono poste sopra. Se hanno capacità invasive, invaderanno la matrice
extracellulare e migreranno rimanendo attaccate (perché non è che una volta che sono
migrate galleggiano; le cellule rimangono comunque in adesione e attaccate sull’altra
superficie, sulla porzione esterna di questa camerina, cioè quella che guarda questo
pozzetto). A questo punto si rimuovono le cellule che si sono attaccate in modo tale da non
avere contaminazione da cellule che non hanno migrato. Successivamente vengono colorate
quelle che si sono attaccate di sotto. Se ci sono delle cellule che hanno una possibilità delle
caratteristiche di invasività maggiore, si osserva un incremento di cellule che migrano. Questi
esperimenti sono utili anche perché per esempio possono essere utilizzati per testare la
capacità di un farmaco.

Sono tutti esperimenti che si possono fare in vitro e che ci danno delle indicazioni utili in modo da
ridurre il più possibile gli esperimenti che si faranno poi in vivo (sull’animale), che chiaramente
devono essere ridotti per questioni etiche al minor numero possibile. Se io devo testare 100 prodotti
diversi, per valutare la loro capacità anti-migratoria anti-invasione, non lo farà sugli animali, ma andrò
a fare prima dei test in vitro come questi appena visti. Quando poi ho selezionato i composti, le
molecole più promettenti mi potrò spostare in vivo, però in modo da mantenere quei concetti di
diminuzione di sperimentazione animale che sono ovviamente molto importanti.

PATOLOGIE
Un'altra patologia importante, legata alle
cose dette in precedenza, è la distrofia
muscolare di Duchenne. È una patologia
legata al cromosoma X recessiva. Vuol dire
che il gene si trova sul cromosoma X. Per
cui le donne che hanno un cromosoma X
possono essere portatrici sane. Gli uomini
avendo un solo cromosoma X, se viene
loro trasmesso con il gene mutato,
sviluppano la malattia. A che cosa è
dovuta? Al livello delle cellule muscolari, vi
è una proteina che si chiama distrofina.
Questa distrofina è connessa dai filamenti
di actina del sarcomero ad un sistema di
glicoproteine di membrana, a loro volta
connesse con gli elementi della matrice extracellulare. La presenza della distrofina in connessione
con gli elementi del sarcomero è fondamentale per il mantenimento della corretta struttura del
sarcomero stesso in seguito alle contrazioni muscolari e allo stress provocato dalle contrazioni. Sei la
distrofina è assente, come nella distrofia muscolare di Duchenne, le ripetute contrazioni muscolari
causano dei danni meccanici alle fibre muscolari che progressivamente vanno incontro ad un
processo di necrosi e sono rimpiazzate da tessuto fibroso. Questo tessuto muscolare scheletrico
sano (immagine in alto a sinistra). È tutto costituito da cellule muscolari. Questo invece è malato
(immagine in alto a destra). Nei pazienti affetti invece si osservano degli spazi che sono
9
progressivamente occupati da tessuto connettivo, tessuto fibroso, che però non ha funzione
contrattile. Quindi le capacità contrattili declinano progressivamente con l’età fino a causare la morte
del paziente.

Esistono tantissimi altre tipi di alterazioni a


livello del muscolo. Si chiamano
generalmente miopatie. Molte sono a carico
di mutazioni del collagene. Del collagene ne
esistono molti tipi e sono indicate da numeri.
Vari tipi di mutazioni a livello delle molecole
della sequenza della proteina del collagene
sono connessi a vari tipi di miopatie. Le più
famose sono quelle del collagene VI:
Miopatia Bethlem e la sindrome di Ulrich.
Ma ne esistono molte altre, che hanno effetti
più o meno gravi sulla motilità.

(Discorso della professoressa: Con questo


abbiamo concluso la parte riguardante la cellula e volevo dedicare due lezioni al metabolismo. Vi dirò
cose che in parte avete vista a chimica e vedrete a biochimica, ma ora solo parte introduttiva.
Abbiamo studiato strutture di organuli, come il mitocondrio o il cloroplasto. Però sulla funzione siamo
rimasti un po' vaghi in modo tale da correlare in maniera un po' più solida la struttura alla funzione.
L'intenzione di queste lezioni è quella di approfondire il legame struttura-funzione senza andare
troppo nei dettagli. Cercherò di dirvi quello che mi interessa sapere e quello che non mi interessa
sapere. Se c’è una domanda all’esame, cercherò di farvi capire cosa mi interessa che sappiate e
cosa invece sarà compito di altri esami. Un altro aspetto del perché faccio queste due lezioni è anche
perché io vi parlerò molto spesso di enzimi e per inquadrare in maniera molto generale il
metabolismo, cercare di correlare alcuni processi metabolici specifici alla struttura organula e di
fornire le basi per capire poi meglio quello le lezioni successive)

IL METABOLISMO CELLULARE
Quando si parla di metabolismo a cosa ci si riferisce a tutta una serie di reazioni chimiche che
possono essere sia reazioni di sintesi di molecole, quindi si parla di anabolismo, sia reazioni di
degradazione delle molecole o delle macromolecole, quindi si parla di catabolismo. I processi
anabolici richiedono energia, cioè la produzione di molecole più complesse a partire da molecole più
semplici, e il supporto di una fonte energetica. La degradazione è associata alla formazione di
molecole più semplice a partire da molecole più complesse. È un processo che quindi libera energia,
cioè un processo esoergonico. Nel metabolismo eterotrofo (che è il nostro) noi utilizziamo molecole
organiche sia come fonte di energia (zuccheri, acidi grassi, scheletro carbonioso delle proteine).
Quindi partiamo da molecole complesse per ottenere energia, ma utilizziamo anche molecole
organiche per le reazioni di sintesi. Noi non siamo in grado di formare una molecola di glucosio a
partire dalla CO2, dell'anidride carbonica. Non siamo in grado di organicare l'anidride carbonica.
Quindi abbiamo bisogno di molecole organiche semplici per costruire molecole organiche più
complesse. Questa è la classica definizione di eterotrofia. La dipendenza da sostanze organiche
fornite da altri sia per ottenere energia sia per le biosintesi.
L’ENERGIA E IL METABOLISMO

10
È importante avere chiare le relazioni tra la struttura e le funzioni delle varie parti della cellula e il
funzionamento del metabolismo energetico; per questo
motivo, faremo una panoramica generale sul concetto di
energia correlato agli organismi viventi e parleremo degli
enzimi.

Ci riferiremo principalmente al nostro metabolismo: l’essere


umano è un organismo eterotrofo e, come tale, ha bisogno
di composti organici sia come fonte di carbonio per le
biosintesi sia per ricavarne energia attraverso i processi di
ossidazione. Lo scopo dell’alimentazione è quello di produrre
energia, tramite la respirazione cellulare, per ottenere materie
prime che ci serviranno per le biosintesi dei vari organuli, delle cellule, dei tessuti e così via,
necessari per il corretto funzionamento del nostro organismo.

il nostro metabolismo si suddivide in due macrocategorie di reazione:


- anabolismo -> sintesi di macromolecole a partire da molecole semplici -> reazione
endoergonica che richiede energia (sfrutta quella prodotta dal catabolismo)
- catabolismo -> degradazione di macromolecole associata alla formazione di molecole più
semplici => reazioni esoergoniche, ossidoriduzioni, che determinano la degradazione dei
nutrienti -> produzione di energia utile all’organismo

Bioenergetica -> trasformazioni dell’energia legate agli organismi viventi

Energia -> capacità di compiere un lavoro e di causare specifici cambiamenti fisici o chimici (in
biochimica si usa come unità di misura la caloria) -> anche per gli organismi viventi la disciplina che
studia i processi associati alla trasformazione dell’energia è la termodinamica

Gli organismi sono in grado di trasformare l’energia (da energia meccanica a potenziale a cinetica)

esempio di trasformazione dell’energia: tutte le volte


che facciamo un lavoro muscolare, ad esempio
tendiamo un arco, accumuliamo energia potenziale
che può essere utilizzata e trasformata nell’energia
cinetica della freccia.
Correlando l’esempio ai nutrienti -> le molecole dei
nutrienti (glucosio, molecole complesse) sono dotate
di una certa energia potenziale contenuta nei legami,
il loro catabolismo in molecole più semplici e a più
basso contenuto energetico permette la liberazione di
una energia utile, in varie forme, all’organismo
(energia meccanica, energia chimica)

ciò che avviene nel nostro organismo è molto simile a


quello che avviene in una qualsiasi macchina che utilizza un processo di combustione.

combustione -> reazione di ossidoriduzione: ossidazione di un combustibile (molecole organiche più


o meno complesse generalmente in forma abbastanza ridotta) in presenza di ossigeno.

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Si tratta di una reazione esoergonica al termine della quale si ottengono molecole più semplici (come
la CO2) e O2 ridotto ad H2O e che rilascia energia. Nelle macchine, una parte di questa energia
viene sfruttata per il movimento, la restante parte viene dispersa sotto forma di energia termica

La stessa cosa avviene negli organismi viventi attraverso la respirazione cellulare. Noi utilizziamo
delle macromolecole che possono essere polisaccaridi degradati in glucosio, acidi grassi degradati in
molecole più piccole (acetilcoenzima-A), molecole in forma variamente ridotta (i nutrienti) che
subiscono un’ossidoriduzione in cui l’ossigeno rappresenta l’ossidante, che si ridurrà ad acqua,
mentre queste molecole complesse vengono ossidate a CO2. In questo caso l’energia che viene
prodotta viene generalmente immagazzinata sotto forma di ATP che a sua volta verrà utilizzata
per alimentare tutta la varietà di reazioni sia chimiche che di tipo meccanico, come ad esempio la
contrazione muscolare, all’interno dell’organismo.

Anche nel metabolismo biologico l’efficienza non è mai pari al 100% -> una parte di energia viene
sempre dissipata sotto forma di energia termica

Le trasformazioni dell’energia sono regolate dai tre


principi della termodinamica.
-Il primo è il principio della conservazione
dell’energia.
-Il secondo enuncia che, al termine di ogni
trasformazione energetica, una parte di questa
energia è utilizzabile per fare del lavoro mentre una
parte viene dispersa sotto forma di calore (come
abbiamo visto nell’esempio della macchina o del
nostro organismo).
Tutte le volte che avviene una trasformazione
energetica, nonostante il primo principio ci dica che
l’energia totale viene conservata, una parte di
questa non può più essere conservata per compiere
lavoro ed è legata al concetto dell’entropia. (Ad ogni
trasformazione si associa un incremento
dell’energia)

Il concetto cambia però a seconda del sistema a cui


ci riferiamo.
Sistema aperto: scambia materia ed energia con
altri sistemi esterni ad esso.
Sistema chiuso: non prevede scambi di materia con
l’esterno.

Nonostante le leggi della termodinamica regolino


anche i processi biologici c’è da tenere presente che
essi si riferiscono a sistemi chiusi.
La cellula invece, così come l’organismo intero, è un sistema aperto che continuamente scambia
materia ed energia con l’ambiente. Conseguentemente, può portare avanti i vari tipi di trasformazione
dell’energia senza che questo determini un aumento dell’entropia, tale da implicare un arresto,
causato dall’esaurimento di quell’energia utilizzabile per compiere lavoro. Se fosse un sistema
chiuso, e quindi non avvenissero scambi con l’ambiente esterno, qualsiasi tipo di reazione
12
comporterebbe alla fine uno stop al funzionamento perché avremmo un massimo aumento
dell’entropia.

Dal punto di vista


termodinamico le prime due leggi sono unite da un concetto che è stato espresso dal chimico
americano William Gibbs, legato al concetto di
variazione dell’energia chimica.

Rapportiamo questo concetto agli organismi


viventi.

La variazione dell’entalpia (∆H) presenta due


componenti: la variazione dell’energia libera di
Gibbs e la variazione dell’entropia (∆S), che ci dà
un’idea sulla quantità di energia che viene dispersa
sotto forma di calore.

Ritornando alla similitudine fatta precedentemente:


∆H: quantità di energia disponibile; la benzina nel
caso della macchina oppure i legami chimici presenti all’interno dei nutrienti.
∆G: variazione dell’energia libera di Gibbs, rappresenta il lavoro che può essere fatto; quello che
permette alle ruote di girare, cioè la trasformazione dell’energia contenuta nella benzina in energia
meccanica oppure, nel caso dell’organismo, la contrazione muscolare.
La componente dell’energia dispersa è invece legata al prodotto, quando queste trasformazioni
avvengono, tra la temperatura e la variazione di entropia (∆S).
Riscrivendo l’equazione in funzione di ∆G esso sarà dato dalla variazione dell’energia disponibile
meno T per ∆S.

Importanza del ∆G legato alle reazioni biologiche.


È necessario sottolineare che questo parametro ci fornisce
informazioni sulla direzione del processo, il massimo lavoro
utilizzabile da esso, ma non dà nessuna informazione sulla
velocità del processo stesso.
Nei sistemi biologici ci sono tutta una serie di reazione che, pur
essendo spontanee, non avvengono nelle condizioni di temperatura
o di concentrazione dei reagenti normalmente presenti all’interno
della cellula.

Il concetto di spontaneità va quindi distinto dal fatto che una


reazione effettivamente avvenga in quelle determinate condizioni
poiché potrebbe essere spontanea (termodinamicamente possibile) ma
essere caratterizzata da tempi di reazione estremamente lunghi o
13
richiedere condizioni di temperatura diverse da quelle dell’ambiente in cui si trova.
-> ad esempio il processo di degradazione del glucosio è altamente esoergonico (∆G < 0) ma in
condizioni ambientali non avviene

In questa immagine è di nuovo rappresentata una


similitudine tra il concetto di sistema isolato e
sistema aperto per puntualizzare ciò che avviene
all’interno del metabolismo cellulare.
Il sistema è costituito da due contenitori e una
turbina che gira grazie al passaggio dell’acqua da
una cisterna all’altra. Inizialmente abbiamo ∆G < 0
perché c’è un’energia potenziale dovuta al
differente livello di acqua nei due contenitori quindi
la reazione è spontanea, la turbina gira, ci sarà una
trasformazione di energia da potenziale a
meccanica ma, ad un certo punto, poiché il sistema
è chiuso, tutto si ferma(∆G = 0).
In un sistema aperto, invece, una serie di cisterne
in comunicazione creano un flusso continuo e, in
questa situazione, il ∆G rimane sempre < 0.

Facendo un paragone con la trasformazione del glucosio in acido piruvico, cioè la prima tappa della
respirazione cellulare, rappresentata dalla glicolisi, questa trasformazione non avviene in un’unica
reazione ma avviene in una serie di reazioni sequenziali dove i prodotti di una reazione
risultano essere i substrati della reazione seguente.
Per cui, nella maggior parte dei casi, i substrati si trasformano in prodotti, che sono substrati per altre
reazioni e così via. In questo modo i prodotti vengono continuamente sottratti alla reazione e quindi
non si raggiunge mai una situazione di equilibrio altrimenti, ad un certo punto, tutto si fermerebbe.

Nella cellula tutte le reazioni sono collegate tra di loro. Abbiamo sempre una situazione dinamica in
cui la cellula mantiene le concentrazioni ottimali delle molecole che le servono, scambiando
continuamente con l’esterno materia ed energia, in modo tale da non raggiungere mai una situazione
di equilibrio.
Il fatto che una reazione sia spontanea non significa che questa possa avvenire con facilità.
Prendendo ad esempio un foglio di cellulosa: la degradazione della cellulosa (ossidoriduzione) è una
reazione assolutamente spontanea ed altamente esoergonica, infatti, se lo si mette sul fuoco va in
contro a un processo di combustione e libera una grande quantità di energia. Però, se si lascia il
foglio di cellulosa sul tavolo, prima che avvenga l’ossidazione completa della cellulosa intercorrono
molti anni; quindi, il concetto di spontaneità non è legato al concetto di velocità.

Immaginiamo una reazione spontanea come una pallina che scivola lungo un piano inclinato (il ∆G è
rappresentato dall’energia libera dei prodotti meno l’energia libera dei reagenti).
• ∆G negativo è associato ad una reazione esoergonica spontanea
• ∆G positivo è associato ad una reazione che richiede energia (endoergonica). Se l’energia dei
prodotti è minore a quella dei reagenti la reazione è spontanea.

14
La grandezza ∆G non ci dice niente sul
tempo che la reazione impiegherà a
raggiungere l’equilibrio, ma ci dice solo se
una reazione può o meno avvenire,
indipendentemente dalla via e dal tempo che
la reazione impiegherà per raggiungere
l’equilibrio. Questo perché quando si ha una
reazione chimica, perché questa avvenga, le
molecole devono superare una barriera che è
rappresentata dall’energia di attivazione.
(nella prima immagine è descritta dal picco di
energia)
L’energia di attivazione non contribuisce al
∆G, ma è presente.

Nella seconda immagine, simbolica, l’energia di


attivazione è rappresentata dal fatto che la pallina, pur
possedendo energia potenziale che può essere
trasformata in energia cinetica, quindi una trasformazione
di fatto possibile, si trova in un piccolo affossamento,
quindi, è necessario darle una piccola spinta perché la
reazione possa effettivamente avvenire.
La reazione è quindi spontanea ma, se non ci sono le
condizioni opportune, non avviene.

Spesso le molecole tra di loro non reagiscono se non sono


presenti delle configurazioni ottimali, oppure se gli incontri
tra queste molecole avvengono con una frequenza troppo
bassa. Ci possono essere, però, delle accortezze per
fornire alle molecole l’energia di attivazione necessaria
affinché la reazione avvenga.
Ad esempio, due molecole si devono incontrare tra
di loro dalla parte giusta (con una giusta orientazione).
L’energia di attivazione può essere fornita, per
esempio, con il calore; infatti, la maggior parte delle reazioni spontanee può avvenire in maniera più
rapida aumentando la temperatura poiché aumenta l’energia cinetica delle particelle e, con essa, la
possibilità che queste si scontrino tra di loro in una posizione ottimale perché la reazione possa
avvenire.
=> Negli organismi biologici non è possibile intervenire sulla velocità di una reazione
attraverso l’aumento di T (Sarebbe deleterio per la cellula) -> la temperatura è costante e non è
possibile.

15
Un’altra strategia per velocizzare una reazione è il ricorso a dei catalizzatori: molecole o ioni che
non partecipano alla reazione, non si trovano né tra i reagenti né tra i prodotti, ma accelerano la
velocità della reazione.

Un catalizzatore, in chimica, è quindi una


molecola o uno ione essenziale perché una
reazione possa aumentare la sua velocità,
possiamo dunque usare un catalizzatore o
possiamo usare la temperatura.

Nelle nostre cellule esistono dei catalizzatori


che però sono molecole di natura biologica, in
particolare le proteine. Queste proteine
utilizzate come catalizzatori sono chiamate
enzimi.
La maggior parte degli enzimi sono quindi di
natura proteica. Ci sono però delle eccezioni in alcuni enzimi a RNA che sono probabilmente un
ricordo evolutivo del mondo primordiale a RNA che abbiamo precedentemente descritto.
-> Un enzima abbatte la barriera dell’energia di attivazione permettendo alla reazione di
avvenire con una velocità e con una tempistica che è compatibile e utile con la vita della
cellula.

Ad esempio, se l’ossidoriduzione del glucosio a 37 gradi non catalizzata, di fatto non avviene o
avviene in maniera lentissima. Questa reazione, invece, catalizzata da una serie di enzimi nella
cellula avviene in tempi estremamente rapidi.

Prendiamo come esempio la reazione


catalizzata dall’enzima catalasi (enzima che
abbonda nei perossisomi) che elimina il
perossido di idrogeno e quindi catalizza
questa trasformazione. Questa reazione in
chimica può essere catalizzata anche da Fe3+
e la reazione catalizzata da Fe3+ è 30.000
16
volte più veloce, invece la reazione catalizzata dall’enzima catalasi è 100.000 volte più veloce
rispetto alla reazione non catalizzata.

Quindi la catalisi enzimatica è estremamente potente. In generale gli enzimi accelerano le velocità
delle reazioni da 107a 1017 volte. Quindi la velocità con cui vengono accelerate le reazioni biologiche
è veramente elevata.
Gli enzimi, come già affermato, abbattono l’energia di attivazione permettendo alle reazioni di
avvenire con una velocità compatibili con le necessità cellulari.

FUNZIONAMENTO DEGLI ENZIMI


-> gli enzimi legano i substrati a livello del sito attivo in modo da disporli in una configurazione che
favorisca la reazione tra i substrati

Esistono vari tipi di catalisi enzimatica. È chiaro che se abbiamo un enzima, di natura proteica,
essendo le proteine macromolecole con strutture estremamente versatili e avendo questa grande
varietà di aminoacidi che le compongono possono presentare dei siti di legame opportuni per i diversi
ligandi.
Ad esempio, un enzima può legare due molecole che devono essere unite tra di loro avendo due
regioni di legame che quindi, una volta che hanno legato le molecole di interesse, si avvicinano tra di
loro ponendo le molecole nella giusta posizione in modo tale da facilitare la formazione del legame o
l’avvenimento della reazione che ci interessa.

Nell’immagine si può vedere un esempio di un enzima qualsiasi, che presenta una regione per il
legame con il substrato, il sito attivo e i generici substrati intorno. Una molecola che ha una
conformazione non adatta al sito attivo non può entrare nel sito attivo dell’enzima quindi non si forma
il complesso enzima-substrato dal quale poi si genererà il prodotto.

17
modello dell’adattamento indotto
-> il legame enzima substrato si discosta
dall’ormai sperato modello chiave-serratura in
quanto non si tratta di una complementarietà
rigida tra enzima e substrato bensì si assiste
al parziale adattamento conformazionale
dell’enzima al substrato nel momento del
legame col substrato tale che il substrato
venga posto nelle migliori condizioni per
generare prodotti
Un altro esempio di questo concetto, l’enzima
esochinasi. Le chinasi sono enzimi che
operano delle fosforilazioni, cioè partendo dall’ATP trasferiscono il fosfato ad una molecola fosfato.
L’esochinasi catalizza il trasferimento del fosfato dall’ATP a zuccheri a 6 atomi di carbonio. In questo
esempio in particolare è rappresentato il glucosio, il quale entra all’interno del sito attivo dell’enzima
determinando una variazione conformazionale della proteina stessa che si chiude intorno al
substrato e favorisce in questo modo la reazione che deve avvenire.

CARATTERISTICHE PRINCIPALI DEGLI ENZIMI


● specificità

specificità di substrato -> elevata capacità


selettiva, capaci di legare solo UNO
SPECIFICO SUBSTRATO
Invece, all’interno delle cellule, molti enzimi
presentano un’estrema specificità di substrato
in modo tale che la reazione catalizzata sia
dedicata esclusivamente ad un determinato
tipo di molecola. L’esempio dell’immagine è
riferito all’enzima saccarasi, responsabile
della scissione del saccarosio in glucosio e
fruttosio; l’enzima presenta un sito attivo
specifico per il legame con il saccarosio, non
potranno entrarvi altri tipi di disaccaridi,
perché la conformazione del sito attivo è tale da adattarsi esclusivamente al saccarosio. Una volta
entrato all’interno del sito attivo l’enzima promuove l’idrolisi del saccarosio nei due monosaccaridi che
lo compongono e quindi determina la formazione dei prodotti.

specificità di gruppo-> capacità di legarsi a PIU’ SUBSTRATI

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Ad esempio, gli enzimi che si trovano a livello dell’intestino e sono responsabili della digestione delle
proteine, tipo la carbossipeptidasi, è un enzima che digerisce le proteine a partire dall’estremità
carbossi-terminale rimuovendo un aminoacido alla volta; quindi, questo enzima non ha una
specificità per un determinato tipo di proteine ma ha una specificità di gruppo. Questo è utile ed
importante per il risparmio della cellula. Sarebbe dispendioso avere una serie di enzimi tutti differenti
per ogni tipo di legame che coinvolge aminoacidi diversi, invece, in questo caso la carbossipeptidasi
qualsiasi proteine gli poniate davanti con pazienza se la digerisce tutta partendo dall’estremità
carbossi-terminale.

● dipendenza dalla concentrazione di substrato


(si riferisce alla SATURABILITA’)
siccome il numero di enzimi all’interno di una cellula è
finito, quindi non ho infiniti enzimi, quando la
concentrazione di substrato aumenta chiaramente la
velocità della reazione aumenterà progressivamente.
Però ad un certo punto raggiungerà una velocità
massima, perché quando tutte le molecole di enzima
sono impegnate a catalizzare la reazione si può
aggiungere quanto substrato si vuole ma la velocità
della reazione rimane costante. Questo avviene perché
c’è un numero limitato di molecole di enzima in grado di trasformare substrati in prodotti ad una
determinata velocità, ma se tutte sono impegnate la velocità complessiva non cambierà più. Il
concetto è lo stesso di quello relativo ai trasportatori a livello della membrana.

Nell’immagine, la velocità della reazione catalizzata in confronto alla reazione non catalizzata in
funzione della concentrazione di substrato.

● dipendenza da temperatura e pH
Nell’immagine, la dipendenza dalla temperatura di
due enzimi, un enzima tipico dell’uomo che ha un
ottimo di temperatura (valore ottimale di
temperatura in cui l’enzima funziona bene) intorno a
37º e un enzima preso da un batterio ad esempio
termofilo (che vive ad alte temperature) che ha un
ottimo di temperatura intorno a 75º.

-> Se si guarda la dipendenza dalla temperatura


(prima immagine), essa presenta un andamento a
campana e tutti gli enzimi hanno un breve intervallo
di temperatura in cui funzionano in maniera ottimale.
Poiché le proteine sono soggette al fenomeno della
denaturazione, all’aumentare della temperatura, i
legami (legami a idrogeno, legami ionici, interazioni
idrofobiche..) che stabilizzano la struttura terziaria e secondaria dell’enzima si rompono, non agendo
sulla struttura primaria. A seconda di quali aminoacidi sono presenti nelle proteine, esse possono
essere più o meno stabili in funzione della temperatura, a seconda della loro struttura
tridimensionale. Da un punto di vista evolutivo un batterio termofilo avrà sviluppato delle proteine che
presentano una struttura estremamente stabile anche a temperature più elevate.
19
-> dipendenza da pH (seconda immagine) : a sua volta interviene sulla struttura dell’enzima
influenzando la catalisi.
il sito attivo dove si lega il substrato deve essere ben strutturato perché la catalisi avvenga in modo
efficiente; infatti, se si perde la struttura della proteina la catalisi non avviene più.

Un esempio è relativo alla pepsina, enzima presente nello stomaco deputato alla degradazione delle
proteine che lavora a un ottimo di pH pari a 2, poiché il pH nello stomaco è estremamente acido.

Se invece si prende la tripsina (presente nella parte iniziale dell’intestino), un enzima in grado di
scindere le proteine che però lavora all’interno dell’intestino, si può vedere che l’ottimo di pH è
intorno ad 8. Questo accade perché la tripsina parte dallo stomaco e poi a livello intestinale si ha un
cambiamento di pH, ecco perché si ha un ottimo di pH differente.

Gli enzimi lisosomiali presentano un ottimo di pH intorno a 5, vuol dire che la loro efficienza è
massima quando il pH è leggermente acido.

Quindi come può il pH influenzare la struttura di un enzima e conseguentemente la sua catalisi?


Bisogna ricordare che negli aminoacidi ci sono tanti gruppi che possono essere presenti in forma
ionizzata, quindi carichi negativamente o positivamente. Chiaramente la ionizzazione è funzione
del pH. Se ad esempio un aminoacido con carica negativa forma, tramite il suo gruppo carbossilico,
un legame ionico con un aminoacido carico positivamente → si abbassa il pH, quindi aumenta la
concentrazione degli H+, questo gruppo carbossilico può protonarsi e conseguentemente può venire
meno l’interazione tra cariche che garantiva il legame ionico e stabilizzava la regione di una proteina.
Quindi se si cambia il pH, cambierà anche il suo grado di ionizzazione perché alcuni aminoacidi
saranno protonati, diminuendo la capacità di interazione tra i vari gruppi di proteine e
destrutturandola. Perciò piccolissime variazioni di pH determinano immediatamente un
allontanamento dall’ottimo di pH stesso.

● dipendenza dalla presenza di cofattori : Benché esista una grande varietà negli aminoacidi,
talvolta questo non è sufficiente. Allora l’enzima per funzionare necessita di molecole o ioni
accessori che vengono chiamati cofattori.
Questi cofattori possono essere divisi in due gruppi:
- Piccole molecole organiche dette coenzimi
- Ioni metallici -> quando le molecole inorganiche sono legate covalentemente alla proteina
vengono chiamati anche gruppi prostetici. Ad esempio, il gruppo eme dei citocromi siccome risulta
essere legato covalentemente all’enzima può essere chiamato anche gruppo prostetico.

L’enzima privo del cofattore si chiama apoenzima ed è in forma inattiva.


Invece, quando l’enzima lega il coenzima o lo ione si chiama oloenzima ed è in forma attiva.

Esempi di enzimi che necessitano di cofattori inorganici:


Citocromo ossidasi, catalasi, perossidasi, piruvato chinasi sono tutti enzimi che necessitano per il
corretto funzionamento della presenza di ioni. Per esempio, gli ioni del ferro sono necessari in tutti gli
organismi viventi.

20
Esempi di coenzimi:-> Molecole organiche
che sono necessarie per il funzionamento
correttore dell’enzima stesso.
Molte di queste molecole derivano da
vitamine, cioè delle sostanze di cui
abbiamo bisogno in piccole quantità ma
che sono necessarie per l’uomo perché
l’organismo non le sa sintetizzare in
maniera autonoma. Questo però dipende
anche dal tipo di organismo. In generale
sono alcune delle principali vitamine
presenti negli alimenti e sono i precursori
di coenzimi utili per il funzionamento di
enzimi importanti. (FAD e NAD, i
trasportatori intermedi degli elettroni i quali giocano un ruolo fondamentale nel metabolismo
ossidoriduttivo delle nostre cellule.)
CLASSIFICAZIONE ENZIMI -> si basa sul tipo di reazione che catalizzano (tutte reazioni necessarie
per il metabolismo delle nostre cellule)

● sensibilità a molecole attivatrici o inibitrici


aspetto essenziale perché la possibilità di inibire l’attività di un enzima, sia dal punto di vista
fisiologico, sia dal punto di vista farmacologico, è interessante.
-> molti farmaci agiscono da inibitori enzimatici : Si può ad esempio inibire la funzione di un
enzima, il quale è coinvolto in un determinato processo che è utile bloccare in determinate situazioni
patologiche

Oltre ad essere soggetti all’inibizione da molecole o fisiologiche o farmacologiche, gli enzimi possono
essere anche attivati. Ci possono essere delle molecole attivatrici che, legandosi all’enzima, ne
aumentano l’affinità per il substrato e quindi facilitano la catalisi.

21
INIBIZIONE ENZIMATICA : si può suddividere in due grandi categorie: quella reversibile e quella
irreversibile.

- inibizione reversibile -> quando si stacca la molecola dell’inibitore l’enzima riprende a


funzionare

si classifica in
-> inibizione competitiva : l’inibitore compete con il substrato per il sito attivo, cioè entrambi
possono legarsi al sito attivo. Si tratta di un’inibizione competitiva perché competono per il legame.
All’aumentare della concentrazione dell’inibitore diminuisce la probabilità che l’enzima si leghi al
substrato. L’inibizione competitiva può tuttavia essere eliminata aumentando la concentrazione di
substrato in quanto, entrambi competendo per il medesimo sito attivo, aumenta la probabilità che
l’enzima leghi il substrato.
-> inibizione non competitiva : l’inibitore e il substrato si legano a due regioni differenti dell’enzima.
Il substrato si legherà al sito attivo, mentre l’inibitore si legherà in un’altra regione dell’enzima. Il
legame con l’inibitore determinerà una variazione conformazionale dell’enzima. Perciò il sito attivo
varia la sua struttura e non è più in grado di ospitare il suo substrato.

- inibizione irreversibile -> la molecola che si usa come inibitore è andata a modificare
covalentemente l’enzima, quindi ne ha determinato un’alterazione tale per cui l’enzima non è più in
grado di funzionare => pk si recuperi la funzionalità del processo di catalisi sarà necessario
aggiungere del nuovo enzima non alterato

-> Il legame dell’inibitore altera la struttura


dell’enzima in maniera definitiva.

Di esempi ce ne sono tanti, anche legati alla cura.


Per esempio, le penicilline e l’aspirina sono tutti
inibitori irreversibili di enzimi.
Le penicilline sono degli inibitori dell’enzima che
determina la formazione dei legami crosslinking per la
costruzione della parete di peptidoglicano. Quindi
questi farmaci agiscono inibendo in maniera irreversibile l’enzima.
Sono inibitori irreversibili anche i pesticidi o anche per esempio i gas nervini. Uno di quest’ultimi è il
sarin, il quale si lega al sito attivo dell’acetilcolina esterasi; cioè l’enzima che scinde l’acetilcolina e
blocca la segnalazione del mediatore chimico. Quindi se l’enzima non funziona più, la segnalazione
continua e da qui i danni causati da questo tipo di gas.

● l’attività enzimatica può essere regolata


Un concetto importante, quando si valuta il metabolismo
nell’insieme, è anche quello legato agli enzimi regolatori.
Quando si ha una serie di reazioni coinvolte nella medesima via
metabolica, generalmente è uno dei primi enzimi di questa
catena di reazioni ad
essere soggetto ad
una regolazione fine. In tal modo, agendo su un unico
enzima, si può regolare tutte la velocità della via
metabolica. Tutto ciò è sempre legato a un risparmio
della cellula. Generalmente il primo o secondo enzima di
ogni sequenza di reazioni di una determinata via
22
metabolica sono enzimi regolatori, all’interno dei quali avviene un meccanismo di regolazione che ne
influenza la velocità di catalisi.

REGOLAZIONI ENZIMATICHE

- enzimi allosterici

REGOLAZIONE ALLOSTERICA : Gli enzimi allosterici sono enzimi che presentano un sito diverso
dal sito di legame in cui può legarsi un attivatore o inibitore che influenzano poi l’attività
dell’enzima. -> Allosterico significa “altro sito”.

Gli enzimi allosterici spesso sono costituiti anche da più subunità proteiche. Nella loro struttura
presentano, oltre al sito attivo, un altro sito chiamato sito allosterico a livello del quale si possono
legare o molecole attivatrici o inibitrici.

Delle volte ci sono enzimi che presentano il sito attivo, un sito allosterico per inibitori e un sito
allosterico per molecole attivatrici, quindi una struttura abbastanza complessa.

Il concetto di allosteria non è legato esclusivamente agli enzimi ma la si può ritrovare anche nelle
proteine di trasporto come l’emoglobina e il modo in cui lega l’ossigeno.

Spesso gli inibitori allosterici sono prodotti finali di


specifiche e determinate reazioni. Teniamo in
considerazione la via metabolica che permette la
sintesi dell’isoleucina a partire dalla treonina. La
treonina è il primo aminoacido dal quale parte la
reazione, catalizzata da molteplici enzimi, e alla
fine della quale si ottiene come prodotto la
leucina. Il primo enzima (treonina-deaminasi),
responsabile dell’inizio della reazione, avrà un sito
attivo specifico per la treonina. Una volta che
l’isoleucina raggiunge dei livelli alti e quindi non è
più necessaria la sintesi di ulteriore isoleucina,
questa stessa si lega al primo enzima, in un sito
diverso dal sito attivo, determinando la variazione
di conformazione del sito attivo tale che questo
non risulti più adatto ad accogliere la treonina.
-> si tratta di un esempio di inibizione a feedback negativo (il prodotto finale di una reazione blocca
la reazione stessa una volta che questa non è più necessaria).

regolazioni allosteriche si verificano anche durante la glicolisi:

In questa immagine si può osservare uno dei principali


enzimi alla base della regolazione della glicolisi
(catalizza la formazione di fruttosio-1-6-bisfosfato a
partire da fruttosio-6- fosfato) che presenta sia molecole
attivatrici che inibitrici. Dal momento che è un enzima
deputato alla regolazione della glicolisi, reazione che
produce energia, l’ATP avrà un ruolo inibente, mentre
AMP, ADP, fruttosio-2-6-bisfosfato andranno a
velocizzarla.
23
- enzimi regolati da modificazioni covalenti

Gli enzimi, dunque, possono essere regolati in più modi, oltre a quella allosterica troviamo la
regolazione tramite modificazioni covalenti che possono essere REVERSIBILI (nella maggior parte
dei casi) o IRREVERSIBILI.

-> reversibili (fosforilazione - aggiunta di gruppo


fosfato; acetilazione - aggiunta di -OH, metilazione -
aggiunta di metile)

Molti enzimi sono regolati mediante fosforilazione,


cioè tramite il legame covalente di un fosfato
trasferito dall’ATP sulla serina/treonina/tirosina (sono
questi tre gli aminoacidi che subiscono questo
processo).

Queste modificazioni vengono attuate da ulteriori


enzimi chiamati CHINASI, i quali usano l’ATP come
donatore del fosfato e lo usano per fosforilare
l’enzima da modificare (esempio: fosforilano l’OH
sul residuo di serina).

Il fatto che queste reazioni siano reversibili non


significa però che avvengano spontaneamente, piuttosto necessitano di un’altra classe di enzimi, FOSFATASI
(Svolgono il processo opposto a quello delle chinasi), che, usando una molecola d’acqua, idrolizzano il legame
con il fosfato e riportano l’enzima alla forma iniziale. CHINASI e FOSFATASI sono fondamentali nel ciclo
cellulare (gestiscono la velocità), in tutti i meccanismi di trasduzione di segnali provenienti dall’esterno e che
devono essere captati e interpretati dalla cellula.

Ulteriori modificazioni chimiche importanti sono ACETILAZIONE e METILAZIONE, ad esempio l’acetilazione


degli istoni per il codice istonico. Questo meccanismo, infatti, è garantito da alcuni enzimi (istone-acetilasi se
attaccano il gruppo acetile, istone-deacetilasise lo rimuovono), a loro volta regolati da ulteriori processi legati
alla risposta cellulare specifica che deve essere evocata.

-> irreversibili

Facendo riferimento agli enzimi prodotti dal pancreas e secreti nel duodeno, dove agiscono, questi vengono
PRODOTTI in forma INATTIVA (pancreas) e spediti al duodeno tramite tutti i dotti pancreatici. Una volta
nell’intestino vengono attivati tramite un taglio proteolitico, cioè rimozione di una parte, modificandone
quindi la composizione chimica, ad opera degli enteropeptidasi (enzimi) capaci di attivare una serie di reazioni
al termine delle quali si ha il taglio proteolitico (proteasi) e la conseguente attivazione dell’enzima.

Nella cellula non avvengono solo reazioni esoergoniche,


spontanee con valori di ∆G negativo, si verificano anche
reazioni endoergoniche con ∆G positivo PURCHE’
ACCOPPIATE A REAZIONI ESOERGONICHE capaci di
fornirgli l’energia necessaria affiché avvengano

Per quanto riguarda le reazioni endoergoniche, responsabili


di tutti i meccanismi di sintesi (proteica, del DNA, si
formazione di un disaccaride a partire da due
monosaccaridi…), avvengono a spese di ATP e sono
catalizzate.
24
Il meccanismo alla base di queste reazioni è quello delle REAZIONI ACCOPPIATE, cioè vi è una
reazione (idrolisi ATP) che determina la formazione di un “pacchetto” di energia sufficiente per poter
garantire la progressione di una reazione endoergonica.

Ad esempio, come si può vedere in questa immagine, la scissione del legame fosfato dell’ATP libera
7,3 Kcal/mol.

REAZIONI ACCOPPIATE -> gli enzimi non permettono di per sé reazioni termodinamicamente
impossibili (∆G > 0) tuttavia possono catalizzare reazioni endoergoniche se queste sono accoppiate
a reazioni esoergoniche

Il concetto di reazioni accoppiate può essere spiegato attraverso questa immagine: vengono prese
delle pietre e fatte cadere su una turbina, generandone la rotazione. Tale rotazione viene a sua volta
sfruttata per sollevare un secchio d’acqua che sarà poi riversata in una macchina che ne ricaverà
lavoro. Si è sfruttata dunque la caduta
delle pietre (esoergonica) per sollevare
un carico (endoergonica).

Dal punto di vista intracellulare


invece, se si vuole formare un legame
covalente tra glucosio e fruttosio,
generando in tal modo il saccarosio,
25
bisogna effettuare una reazione endoergonica (∆G positivo = 6,1 Kcal/mol) e accoppiarla ad una
reazione esoergonica (idrolisi ATP) che provoca una variazione dell’energia libera uguale a -7,3 Kcal/
mol. La cellula, in modo pratico, parte dal glucosio e ATP e ne forma Glucosio-fosfato e ADP; in
seguito a questo, parte dal Glucosio-fosfato ottenuto in precedenza e lo unisce al fruttosio, portando
alla formazione di saccarosio e fosfato Alla fine delle due reazioni si avrà un conteggio totale di ∆G =
-1,2 Kcal/mol e la formazione di saccarosio a partire da glucosio, fruttosio e ATP. Ecco, infatti, che il
processo delle reazioni accoppiate prevede un intermedio (in questo caso il glucosiofosfato).

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27/10/2023
Prof.ssa Francesca Magherini
Biologia
Sbobinatori: Martina Marliani, Frida Torricelli
Lezione 10, parte prima
Revisori: Eleonora Orlando, Margherita Manuardi

REAZIONI ACCOPPIATE
Le cellule eucariotiche, come quelle del nostro organismo, sono in grado di compiere
reazioni esoergoniche; queste reazioni chimiche avvengono liberando energia dal
sistema e ciò spiega perché hanno un valore di variazione di energia libera (ΔG)
negativo, indice del fatto che avvengono spontaneamente.
Le reazioni esoergoniche sono tutte quelle del metabolismo catabolico, ovvero tutte
quelle reazioni degradative che permettono la trasformazione di molecole complesse
in molecole più semplici, di facile
utilizzo dalle nostre strutture.
Oltre a reazioni degradative le
nostre cellule possono effettuare
anche reazioni di biosintesi di nuove
molecole, queste ultime hanno però
una variazione di energia libera (ΔG)
positiva e dunque non avvengono
spontaneamente. Per tale ragione
necessitano di un quantitativo di
energia maggiore proveniente da
un’altra fonte.
Si creano così delle associazioni fra reazioni endoergoniche, poco spontanee, e
reazioni molto esoergoniche, come ad esempio l’idrolisi della molecola di ATP.
L’energia liberata dalla reazione esoergonica permette di far partire e portare a
conclusione la reazione endoergonica, trasformandone i reagenti in prodotti.

L’ATP o adenosintrifosfato è un nucleotide ad alto livello


energetico costituito da uno zucchero ribosio, dalla base
azotata adenina e da tre gruppi fosfato. L’energia è
contenuta proprio in questi legami fosfato-fosfato (detti
legami ad alta energia), anche se talvolta si presentano
un po’ instabili viste le cariche negative presenti sugli
atomi di fosforo che si respingono.

L’idrolisi di una molecola di ATP (equazione in figura)


libera un quantitativo di energia pari a ΔG = 7,3
Kcal/mol sufficiente dunque a far avvenire una reazione
endoergonica.
Quando un gruppo fosfato si
stacca, si libera nell’ambiente
divenendo fosfato inorganico (Pi)
e la molecola che rimane è l’ADP
o adenosindifosfato.

Nell’immagine sottostante si può


osservare meglio il concetto di reazioni accoppiate. Nella prima immagine (A) si
osserva una cascata sequenziale di pietre, che avranno una propria energia cinetica
data dalla caduta; proprio questa energia nel momento in cui giungono a terra si
trasforma semplicemente in calore. Non accade niente perché cadono tutte insieme.
Ma immaginando di utilizzare la cascata di pietre per far ruotare una turbina (B),
questa chiaramente compirà un lavoro che sarà in grado di sollevare il secchio
d’acqua. Dunque parte dell’energia cinetica prodotta con la caduta si trasformerà in
calore, come avveniva in precedenza, mentre una buona parte sarà usata per
compiere un nuovo lavoro che solleva il secchio d’acqua e fa funzionare delle
macchine idrauliche (C) .

Nella cellula questo può essere spiegato osservando la reazione sottostante che
avviene tra glucosio e fruttosio per ottenere saccarosio. Si può notare che il ΔG della
reazione è uguale a 6,1 Kcal/mol, dunque è chiaramente una reazione endoergonica
e avrà necessità di energia dall’esterno per avvenire.

Si ricorre dunque all’idrolisi di ATP che permette di liberare un quantitativo di energia


sufficiente affinché la reazione parta e avvenga completamente.
Agirà dunque un primo enzima che
permetterà la fosforilazione della molecola di
glucosio e la scissione dell’ ATP, formando
così glucosio-fosfato e ADP. Sarà poi il
glucosio fosfato che reagendo con il fruttosio
formerà saccarosio e un fosfato inorganico;
questa seconda reazione è energeticamente favorita e per questo avviene senza
problemi.
Osservando quindi la reazione complessiva si nota che il ΔG finale sarà pari a -1,2
Kcal/mol, dunque la reazione nella pratica avverrà. Quindi in linea generale per
compiere una reazione se ne sono svolte due intermedie ed è stato idrolizzato un
solo ATP affinché questa potesse avvenire.

Fondamentalmente il processo è il medesimo in tutte le reazioni di biosintesi: si ha


una reazione con ΔG positivo, dunque endoergonica, che viene accoppiata ad una
che invece ha ΔG negativo ed è perciò esoergonica e spontanea; questo
accoppiamento procede prima generando un intermedio fosforilato, idrolizzando ATP
e liberando uno dei suoi fosfati, che successivamente reagisce portando a termine la
reazione.

RESPIRAZIONE CELLULARE
Il metabolismo, secondo quanto già visto, può
essere di tipo catabolico o anabolico.
Il primo coinvolge reazioni chimiche degradative che
permettono di giungere alle molecole più semplici, ai
singoli costituenti di ogni macromolecola; il secondo,
invece, è costituito da reazioni di biosintesi di
macromolecole a partire dalle piccole unità funzionali
che le costituiscono.
Chiaramente il processo si differenzia se
consideriamo il metabolismo autotrofo oppure quello
eterotrofo. Gli autotrofi (come piante, cianobatteri e
alcune alghe) sono in grado di usare l’energia
luminosa del Sole mediante il processo della
fotosintesi, al termine del quale ottengono ATP e
composti organici che vengono poi utilizzati dagli
organismi eterotrofi.
Questi ultimi invece usano i suddetti composti
organici per compiere reazioni biosintetiche e per
ottenere energia essenziale per la loro vita.

Il metabolismo si differenzia ulteriormente, in base alla presenza o meno


dell’ossigeno, in aerobico e anaerobico.
Nel primo abbiamo a disposizione l’ossigeno che viene utilizzato come ossidante
finale, ovvero come molecola finale che accetterà tutti gli elettroni provenienti dalle
reazioni di ossidoriduzione della respirazione cellulare, che hanno portato il glucosio
a trasformarsi in CO2.
Nel secondo caso invece l’ossigeno è assente, come accade in alcuni batteri o nelle
nostre cellule quando manca O2 (tipo nei muscoli), e si definisce l’ossidazione del
glucosio incompleta perché viene fatta tramite dei processi fermentativi.
Solitamente con il termine di “respirazione” si intende implicitamente la tipologia
aerobica, quella che anche noi come organismi facciamo e che vede l’ossigeno
come accettore finale di elettroni e oggetto di consumo da parte delle nostre cellule.
Ma in realtà ci sono anche respirazioni anaerobiche, effettuate da alcuni particolari
batteri anaerobi, identiche come meccanismo a quello della respirazione aerobica,
fatta eccezione per l’accettore finale di elettroni che non è l’ossigeno ma una
molecola inorganica diversa, per esempio i nitrati o i solfati.

Complessivamente, dunque, come mostrato nell’immagine soprastante, la


respirazione cellulare è una reazione di ossidoriduzione; chiaramente sono riportati
solo i reagenti iniziali e i prodotti finali, ma ci sono tantissime reazioni diverse che si
susseguono prima di giungere ai prodotti. Gli atomi di carbonio
della molecola di glucosio (6 in totale) si ossidano
completamente a CO2, mentre l’ossigeno si riduce ad acqua.
Ovviamente contemporaneamente nelle nostre cellule viene
prodotta anche energia.

Possiamo correlare la respirazione cellulare con quella che


avviene a livello dei polmoni. Quando inspiriamo facciamo
entrare ossigeno (e tutti gli altri gas che compongono
l’atmosfera) che a livello dei polmoni viene immesso nel circolo
sanguigno, grazie al quale giungerà ad ogni tessuto e ad ogni
cellula dell’ organismo; sarà poi usato come accettore finale di
elettroni. Quando espiriamo liberiamo CO2 che dai tessuti si
immette nel circolo venoso per tornare al cuore e arrivare ai
polmoni; la sua produzione deriva proprio dall’ossidazione, a
livello cellulare, del glucosio e degli acidi grassi.

La respirazione cellulare si compone di tre tappe principali:


● GLICOLISI
● CICLO DI KREBS
● CATENA DI TRASPORTO DEGLI ELETTRONI associata alla
FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA

Dunque riprendendo l’equazione generale si osserva che il passaggio di elettroni,


dato dalla reazione di ossidoriduzione, non avviene direttamente dai reagenti
(glucosio e ossigeno) ai prodotti (anidride carbonica e acqua), in quanto ci sono
moltissime reazioni intermedie che compongono le tre tappe sopra riportate.
Nella glicolisi e nel ciclo di krebs si impiegano dei trasportatori intermedi di elettroni,
che li legano e solo successivamente li conducono alla catena di trasporto finale.
Questi trasportatori sono dei coenzimi che possono acquistare e donare facilmente
elettroni e protoni, passando dalla loro forma ossidata a quella ridotta. I due
trasportatori sono il NAD e il FAD.
La Nicotinamide-adenindinucleotide o NAD è un coenzima costituito da un’ adenina,
due zuccheri ribosio legati insieme e un’ultima porzione che, come indicato
nell’immagine, è quella che lega o rilascia elettroni e dunque può alternativamente
ossidarsi o ridursi.
Il NAD in forma ossidata ha una carica positiva e si indica infatti come NAD+, mentre
quando viene ridotto acquista 2 elettroni e 1 protone diventando NADH + H+.

La flavinadenindinucleotide o FAD è l’altro coenzima impiegato come trasportatore e,


a differenza del NAD, può accettare 2 elettroni e 2 protoni, riducendosi a FADH2.

Un altro trasportatore di elettroni che riveste un ruolo importante è il NADP (si legge
NAD fosfato) che strutturalmente è uguale al NAD ma ha un gruppo fosfato
aggiuntivo.
La forma ridotta di tale coenzima è NADPH + H+, e lo si ritrova nei processi
anabolici che prevedono reazioni riduttive: nel nostro organismo, ad esempio, nelle
reazioni di biosintesi di lipidi e acidi nucleici nelle quali cede elettroni. Si ritrova
anche nella fase oscura della fotosintesi, definita in questo modo perché
indipendente dalla luce solare, dove svolge le stesse funzioni di accettore e
trasportatore di elettroni.

(La prof.ssa dice che nel test non ci sono domande specifiche sul ciclo di Calvin ma
solo dei concetti generali, ugualmente per la fase oscura dice che basta sapere cosa
accade all’inizio e alla fine, non vuole tutte le reazioni intermedie).
L’immagine soprastante riporta in uno schema le molecole contenenti atomi di
carbonio, dalla forma più ridotta (metano dove il carbonio ha numero di ossidazione
-4), a quella più ossidata (anidride carbonica dove il carbonio ha numero di
ossidazione +4).
Attraverso l’alimentazione è possibile assumere atomi di carbonio in forma più o
meno ridotta, ad esempio negli acidi grassi gli atomi di carbonio sono nella forma più
ridotta, anche perché sono legati a molti atomi di idrogeno. Questa tendenza si può
riscontrare anche nella figura, la forma più ridotta di carbonio ha legato quattro atomi
di idrogeno, mentre la forma più ossidata non ne lega nessuno, ma si lega invece a
due ossigeni.

LA RESPIRAZIONE CELLULARE
Processo composto da tre tappe, già elencate in precedenza.
Avviene in parte nel citoplasma e in parte all’interno del
mitocondrio della cellula. Analizzeremo la glicolisi nelle sue
reazioni costituenti e descriveremo l’entrata del piruvato
all’interno del mitocondrio per poi proseguire con il Ciclo di
Krebs.

(la prof.ssa riprende parlando della glicolisi)


La glicolisi è la prima tappa della respirazione e, come si deduce
dal nome, l’obiettivo finale di questo processo è quello di andare
a scomporre una molecola di glucosio, ottenendo così due
piruvati e ATP. Il processo avviene interamente all’interno del
citoplasma della cellula ed è un processo molto antico, condiviso
da molti esseri viventi.
Dopo la glicolisi il piruvato dovrà entrare all’interno del
mitocondrio, dove si svolge il Ciclo di Krebs e la Catena di
trasporto degli elettroni, attraverso delle proteine di membrana
chiamate “porine”. Queste proteine canale sono poste sulla
membrana più esterna del mitocondrio, infatti sono poco selettive
e permettono l’ingresso di un gran numero di sostanze e molecole. Il piruvato, una
volta entrato nello spazio intermembrana, troverà così l’altra membrana del
mitocondrio, quella più interna, che potrà attraversare solo mediante uno specifico
trasportatore perché presenta una permeabilità selettiva. All’interno, nella matrice
mitocondriale seguiranno diverse reazioni fondamentali per la prosecuzione del
processo: si formerà prima l’Acetil CoA, da cui inizierà il Ciclo di Krebs (detto
anche ciclo dell’acido citrico) e infine si concluderà tutto con la Catena di trasporto
degli elettroni, con formazione finale di tante molecole di ATP.

Nell’immagine che segue è possibile osservare la resa energetica complessiva di


tutta la respirazione: 2 ATP prodotti dalla glicolisi, 2 dal ciclo di krebs e 32 nella
catena di trasporto degli elettroni. Come si può notare la quota maggiore di ATP è
prodotta proprio alla fine del processo, grazie anche alla fosforilazione ossidativa
associata alla catena di trasporto degli elettroni.

Con la dieta noi ingeriamo zuccheri semplici ma


soprattutto polisaccaridi che vengono scissi nei
monosaccaridi costituenti e assorbiti al livello
dell’intestino, il quale li trasporta alle nostre cellule per
essere degradati e per ricavare energia. Così inizia
tutto il processo che in linea generale, è stato delineato.
Ma ci sono anche altri alimenti importanti per fornire
energia come ad esempio gli acidi grassi: la
degradazione dei trigliceridi porta alla formazione di
glicerolo e acidi grassi, dove il glicerolo viene a sua
volta convertito in un intermedio della glicolisi, mentre
gli acidi grassi possono essere ossidati nella matrice
mitocondriale (si chiama beta-ossidazione) e formare
l’Acetil CoA, intermedio comune anche alla glicolisi.
Questa figura mostra la convergenza degli intermedi dei diversi processi biologici del
nostro organismo, che si concludono tutti con il comune metabolismo terminale (che
prevede Ciclo di Krebs e Catena di elettroni). Immaginando di prendere uno
zucchero, un acido grasso e un amminoacido avremo sicuramente un primo
processo degradativo specifico per ognuno, ma poi ciascuno arriva al metabolismo
terminale che è comune a tutti.
Anche dagli amminoacidi possiamo ricavare energia, infatti quando perdono il
gruppo amminico possono divenire intermedi della glicolisi, del Ciclo di Krebs ed
essere coinvolti anche nella formazione del CoA.

GLICOLISI
Come precedentemente detto avviene nel citoplasma delle cellule e si compone di
due fasi: 1) fase di investimento energetico
2) fase di rendimento energetico
La prima fase inizia con la degradazione del glucosio, si utilizza un ATP affinché la
reazione avvenga perché è stato già spiegato quanto il glucosio sia una molecola
che non reagisce (la prof.ssa ricorda che anche se una reazione è possibile a livello
termodinamico non vuol dire che obbligatoriamente avvenga, in questo caso si ha
necessità dell’idrolisi di ATP perchè parta la reazione). Dunque il glucosio, a spese di
2 ATP, viene fosforilato a glucosio 6 fosfato, successivamente viene isomerizzato a
fruttosio 6 fosfato e quest’ultimo viene fosforilato in posizione 1 diventando
fruttosio 1-6-bisfosfato.
(LA FORMULA DEL GLUCOSIO, VA RICORDATA)

Il glucosio è un aldoesoso perché presenta un gruppo aldeidico e ha 6 atomi di


carbonio, mentre il fruttosio è un chetoesoso, avendo un gruppo chetonico.
L’enzima che catalizza questa reazione è la fosfofruttochinasi che riveste un ruolo
molto importante essendo il primo enzima del processo e controllando la velocità
dell’intero processo.
Il fruttosio 1-6 bifosfato si scinde in due molecole, isomeri a tre atomi di carbonio: il
diidrossiacetone fosfato e la gliceraldeide 3 fosfato. La doppia freccia che li
unisce indica il processo di isomerizzazione e la conversione del diidrossiacetone
fosfato in gliceraldeide; questo avviene perché si forma poco diidrossiacetone che
tende a convertirsi in gliceraldeide. Si considerano dunque 2 molecole di
gliceraldeide formate da questa reazione e da questo punto qualunque reazione
deve essere moltiplicata per due proprio per tale ragione.
Come prima, anche qua abbiamo un chetone (diidrossiacetone fosfato) e un’aldeide
(gliceraldeide).
La seconda fase inizia convenzionalmente a questo punto e come detto in
precedenza è la fase di produzione di ATP e acido piruvico. In questa fase troviamo
reazioni di ossidoriduzione (compare anche il coenzima NAD per gli elettroni) e
reazioni di fosforilazione.
La gliceraldeide 3 fosfato viene ossidata dall’enzima gliceraldeide 3 fosfato
deidrogenasi (famiglia di enzimi che catalizzano per le ossidoriduzioni) e le
vengono strappati via due elettroni e due protoni che ridurranno il NAD a NADH+H+;
si ossida un atomo di carbonio che passa da essere dentro un gruppo aldeidico ad
uno carbossilico. Successivamente viene anche aggiunto un fosfato inorganico,
proveniente dall’ambiente e non dall’idrolisi di una molecola di ATP. Si forma così
una molecola con due fosfati ovvero 1-3 bifosfoglicerato. Questi fosfati saranno
utilizzati, nelle reazione che seguiranno, per fosforilare l’ADP producendo così
molecole di ATP; questo meccanismo prende il nome di fosforilazione a livello del
substrato in quanto la molecola di ATP si forma per cessione di un fosfato derivante
da un substrato ( in questo caso proprio 1-3 bifosfoglicerato). Al termine di questa
fosforilazione si ottiene il 3 fosfoglicerato, questa reazione ha ΔG pari a - 11.8
Kcal/mol dunque ciò avverrà facilmente permettendo la fosforilazione dell’ATP.
L’ altra fosforilazione a livello del substrato si trova nella decima reazione, l’ultima
che porta poi alla formazione di due molecole di piruvato.

(LA FORMULA DEL PIRUVATO, VA RICORDATA)


Dunque i prodotti finali della glicolisi sono: 2 piruvati, 4 ATP (di cui 2 sono stati
consumati all’inizio) e 2 NADH+H+. Il numero degli ATP deriva dal fatto che se ne
sono usati due all’inizio della glicolisi (fase di investimento) e se ne sono prodotti
quattro con la fosforilazione sopra citata (fase di rendimento), quindi la resa netta
sono 2 ATP finali.

A questo punto nel momento in cui il piruvato (3 atomi di carbonio) entra nel
mitocondrio e nella matrice avviene la prima reazione, che permette di vedere
quando si forma la CO2, una decarbossilazione (reazione che toglie alla molecola
un atomo di carbonio sotto forma di CO2) che libera una molecola di anidride
carbonica, la prima che si forma. Si ricorda che è sempre considerato tutto doppio,
quindi due piruvati, due molecole di CO2 liberate.
Dopo questa reazione è rimasto l’acetato (ha due atomi di carbonio), si ha
un’ulteriore ossidazione di un atomo di carbonio (si forma NADH + H+) che permette
il legame al CoA e si forma così l’Acetil-CoA.
Il gruppo reattivo che permette il legame tra acetile e coenzima A è il gruppo -SH
(sulfidrilico); dopo la reazione rimane solo lo zolfo.
27/10/2023
Prof.ssa Francesca Magherini
Biologia
Sbobinatori: Martina Marliani, Frida Torricelli
Lezione 10, parte seconda
Revisori: Eleonora Orlando, Margherita Manuardi

Il ciclo di Krebs
Il ciclo di Krebs avviene nella matrice mitocondriale.
Venne scoperto nel 1937 da H. A. Krebs e da lui fu denominato “ciclo dell’acido
citrico” poiché il primo intermedio di tutto il processo è proprio l’acido citrico. E’
chiamato anche “ciclo degli acidi tricarbossilici”, data la presenza di tre intermedi:
citrato, cis-aconitato e isocitrato.

Il concetto di ciclo sottintende la presenza di una molecola iniziale che viene


successivamente rigenerata.
All’inizio del ciclo l’acetil-coenzima A(2 atomi di carbonio) rilascia il coenzima A e si
lega all’ossalacetato (4 atomi di carbonio), formando il citrato, un acido a sei atomi
di carbonio, ovvero l’acido citrico. L’acido citrico dà il nome al ciclo ed è la molecola
all’interno della quale avverranno tutte le reazioni successive (la professoressa
specifica che non è necessario impararle).
All’interno del ciclo di Krebs i sei atomi di carbonio vengono completamente ossidati,
con conseguente eliminazione di due molecole di CO2.
Contemporaneamente si ha la produzione di NADH, di cui due molecole vengono
prodotte nella prima fase del ciclo e due nella seconda. A seguito dell’eliminazione
delle due molecole di CO2, si rigenera un composto a quattro atomi di carbonio; tale
composto non è però l’ ossalacetato, il quale dovrà essere rigenerato dopo una serie
di reazioni successive, tra queste anche un’ ossidoriduzione, con formazione di
NADH e FADH2 (equivalente riducente) e una reazione in cui si forma ATP.
Il prodotto diretto di tale reazione negli animali è in realtà il GTP, che donerà in
seguito il suo fosfato all’ADP con formazione di ATP.

Per ogni ciclo entrano due molecole di acetil-coenzima A, provenienti dal piruvato,
vengono eliminate due molecole di CO2 e si formano 3 molecole di NADH, 1
molecola di FADH2 e 1 molecola di ATP.
(Tutto ciò deve essere moltiplicato per due).

A seguito della glicolisi e del ciclo di Krebs, vengono quindi prodotte solo 4 molecole
di ATP, ma molti equivalenti riducenti. Proprio questi saranno determinanti per
ottenere ATP nell’ultima fase della respirazione cellulare: la catena di trasporto degli
elettroni associata alla fosforilazione ossidativa.

Il ciclo dell’acido citrico non è solo un intermedio della degradazione delle sostanze
(processi catabolici), ma rappresenta il punto centrale per le biosintesi. Infatti alcuni
degli intermedi metabolici presenti all’interno del ciclo di Krebs possono essere
utilizzati per la sintesi degli acidi grassi, per la biosintesi dell’eme, per la sintesi degli
amminoacidi. Per questo il ciclo di Krebs viene detto anaplerotico, o di riempimento.
Catena di trasporto degli elettroni e fosforilazione ossidativa.
L’ultima parte di questo meccanismo riguarda la catena di trasporto degli elettroni
associata alla formazione dell’ATP, detta fosforilazione ossidativa. Durante le
reazioni precedenti si sono formate poche molecole di ATP e molti equivalenti
riducenti, quali NADH e FADH2, che possono trasferire elettroni a degli accettori.
L’ossidazione di tali molecole porta alla liberazione di un’alta quantità di energia, da
cui si avrà la massima produzione di ATP.
Infatti l’ossidazione di una molecola di NADH equivale ad una variazione di energia
libera di Gibbs pari a -52 kcal/mol.
Il passaggio di elettroni dal NADH all’ossigeno non avviene in una sola fase, poiché
libererebbe troppa energia, che non sarebbe gestibile dalla cellula tutta insieme.
Quindi gli elettroni, provenienti dagli equivalenti riducenti, scorrono attraverso una
serie di trasportatori intermedi in modo tale da cedere l’energia in vari step che
possono essere gestiti dalla cellula e utilizzati per formazione di ATP.

I trasportatori di elettroni vengono organizzati secondo potenziale di ossidoriduzione


crescente (l’ultimo è l’ossigeno) e accettano progressivamente elettroni.

È necessario che i trasportatori degli elettroni posseggano gruppi che possano


essere ossidati reversibilmente.

È utile porsi delle domande da utilizzare come punti di riferimento per tale processo:
● Quali sono i trasportatori di elettroni?
● Come sono disposti nella membrana e come avviene il passaggio degli
elettroni tra i vari complessi?
● Quale è la relazione tra trasferimento degli elettroni all’ossigeno e produzione
di ATP?

Quali sono i trasportatori degli elettroni?


I trasportatori di elettroni possono essere di due tipi:

• Trasportatori di soli elettroni( Citocromi, Proteine ferro-zolfo);


• Trasportatori di elettroni e protoni( Flavoproteine, Coenzima Q).
(la professoressa specifica che non è necessario ricordarsi la formula di struttura
della flavoproteina e dei citocromi e coenzima Q)

I citocromi contengono il gruppo eme all’interno del quale è presente il ferro che,
accettando un elettrone, si riduce( Fe3+→Fe2+); mentre quando cede un elettrone si
ossida, ritornando allo stato iniziale. Anche le proteine ferro-zolfo sono accettori di
soli elettroni, queste presentano a loro legati dei centri, appunto detti “ferro-zolfo”,
connessi a residui aminoacidici di cisteina (gruppo SH).

I trasportatori di elettroni e protoni sono: le flavoproteine, come FAD, che accettando


due elettroni e due protoni diventa FADH2; e il coenzima Q, anch’esso può accettare
due elettroni e due protoni.
Come sono disposti nella membrana e come avviene il passaggio degli elettroni tra i
vari complessi?

All’interno della catena di trasporto degli elettroni, i trasportatori sono organizzati in


complessi, ovvero associati a delle proteine accessorie con funzione strutturale,
importanti per il loro assemblaggio. Nella membrana interna ci sono complessi di
trasporto in cui sono presenti, oltre ai trasportatori, molte altre proteine che
trasferiscono elettroni da un complesso all'altro, secondo potenziale di
ossidoriduzione crescente.
I complessi chiamano rispettivamente: complesso I, II, III, IV, e infine vi sarà anche
un complesso V che corrisponde all’ATP sintasi.
I vari complessi prendono il nome dai donatori degli elettroni e dagli accettori degli
elettroni, per esempio il NADH coenzima Q ossidoriduttasi è chiamato così perché
riceve gli elettroni dal NADH e li cede al coenzima Q.

Gli elettroni passano da un complesso all’altro, in una serie di step, ciò permette la
liberazione di energia in piccoli pacchetti energetici, fino a che gli elettroni saranno
ceduti all’accettore finale, che è l’ossigeno.
Inizialmente il NAD cede gli elettroni al complesso 1.
Il FADH2 ha un potenziale di ossidoriduzione minore di quello del NADH, perciò non
cederà i suoi elettroni al complesso 1 bensì al coenzima Q, che li trasferirà al
complesso 3.
Il complesso 3 cede i suoi elettroni ad un altro citocromo, il citocromo C, che a sua
volte li cede all’ultimo complesso.
L’ultimo complesso contiene la citocromo-ossidasi che cede gli elettroni all’ossigeno
riducendolo ad acqua.

I complessi 1, 2, 3, 4 sono inseriti nella membrana, mentre il citocromo C e il


coenzima Q sono mobili all’interno della membrana e non sono organizzati in
complessi.
I citocromi A e A3 contengono centri ferro-rame, che legano l’ossigeno in maniera
tale da permetterne la riduzione totale ad acqua e non la parziale riduzione, che
genererebbe specie radicaliche pericolose.
All’interno del mitocondrio ci sono degli enzimi che proteggono nel caso di tale
eventualità, poiché sono in grado di neutralizzare le specie parzialmente ridotte
dell’ossigeno.
A livello dei centri ferro rame si può legare anche il cianuro, che è tossico poiché
blocca la catena di trasporto degli elettroni e quindi la funzione della
citocromo-ossidasi, impedendo il trasferimento degli elettroni e causando la morte
cellulare e in seguito dell’organismo.
Quale è la relazione tra trasferimento degli elettroni all’ossigeno e produzione di
ATP?

La risposta si trova nel meccanismo di Chemiosmosi (“chemio” si riferisce ai


meccanismi di ossidoriduzione coinvolti, “osmosi” invece deriva dall'uso di un
gradiente di concentrazione).
Gli studiosi per molto tempo hanno cercato di capire come si formasse ATP
ricercando intermedi fosforilati ad alta energia come quelli della glicolisi, si
cercavano molecole con gruppo fosfato tale da poterlo cedere per formare ATP.
Successivamente negli anni 60' fu data una risposta dimostrando che il meccanismo
con cui vengono trasportati gli elettroni da un complesso proteico all'altro produce un
gradiente protonico.
Il gradiente protonico è la forza motrice per la formazione di ATP.

Formazione del gradiente protonico:


I complessi proteici 1-3-4 fungono da pompe protoniche nel momento in cui
accettano elettroni, ovvero, al trasferimento di elettroni è associato quello di protoni
dalla matrice mitocondriale allo spazio intermembrana.
Si suppone che ciò sia dovuto ai cambiamenti conformazionali delle proteine nel
momento in cui accettano protoni.
Per ogni 2 elettroni che vengono trasferiti dal NAD alla catena di trasporto vengono
immessi nello spazio intermembrana 10 protoni.
Nel caso in cui i protoni provengano dal FADH2 viene saltato un complesso proteico,
perciò meno protoni vengono pompati rispetto al caso precedente.
Quattro protoni vengono pompati a livello del complesso I, quattro attraverso il
Coenzima Q e il complesso III, mentre nessuno a livello del complesso II. Infine 2
protoni vengono pompati a livello del complesso IV, per un totale di 10 protoni.
La differenza di ph che si genera tra matrice e spazio intermembrana è di circa 1
(valore piuttosto elevato).

ATP sintasi:
La membrana mitocondriale interna ha una permeabilità estremamente selettiva,
non ci sono canali protonici ad esempio, i protoni sono quindi costretti a passare per
il complesso denominato “ATP sintasi”, che utilizza il passaggio di protoni dovuto al
gradiente di concentrazione per formare ATP.
(ricordando la lezione sul passaggio di membrana queste sono le ATPasi di tipo F,
la struttura di questa ATPasi ricorda quelle di tipo V, ma le pompe di tipo V utilizzano
ATP per formare gradiente protonico, lavorando “al contrario”).
Come avviene il processo?
L'ATP sintasi è costituita da numerose subunità proteiche, di cui alcune mobili altre
statiche.

La componente vincolata alla membrana mitocondriale interna è denominata Fo ( O


viene da oligomicina, la molecola costituente), la parte che sporge nella matrice
mitocondriale è invece chiamata F1. Le porzioni dinamiche della parte Fo sono
rappresentate dalle subunità C, le quali costituiscono una sorta di “rotore”. Ad
ognuna delle 10 subunità si lega un protone. Ogni volta che si legano 10 protoni
uno di questi viene rilasciato nella subunità A (si vede dall'immagine), che è statica,
così facendo c'è sempre uno spazio libero per un altro protone; dalla subunità il
protone viene poi rilasciato nella matrice mitocondriale.
Oltre a tali subunità ve ne sono altre, tra cui un asse che è in grado di girare con il
rotore, l'asse è incastrato in una componente statica della subunità F1 tra le
subunità alpha e beta, le quali sono in grado di legare una molecola di fosfato e una
molecola di ADP a testa. La rotazione dell'asse induce una variazione di
conformazione nelle subunità beta che porta ADP e fosfato ad essere più
ravvicinati, al punto che viene indotta la formazione del legame, si forma così ATP.
A seguito di tale processo le subunità beta ritornano in una conformazione aperta e
l'ATP viene così rilasciato. Ogni 10 protoni (ogni giro completo) vengono prodotte 3
molecole di ATP, così facendo l'energia meccanica della rotazione è convertita in
energia del legame chimico.

(Accenno al blocco sulla fotosintesi da svolgere in modo autonomo, la prof ci


riferisce che l'utilizzo del gradiente protonico è utilizzato anche nella fotosintesi in
modo molto simile)
Data: 31/10/2023 Prof.ssa: Francesca Magherini
Materia: Biologia Sbobinatori: Ereando Ndoja; Giano Sani
Lezione n°: 11 Revisori: Gaia Tarsitano; Corrado Pella

Resa della respirazione cellulare


Nella respirazione cellulare è possibile effettuare un conteggio della massima produzione
di ATP possibile. Per quanto riguarda questo aspetto si ha una resa massima teorica,
cioè la resa massima complessiva di ATP prodotto per ogni
molecola di NADH e di FADH2 che passano dalla forma
ridotta a quella ossidata, aggiungendo a questa l'ATP
prodotto direttamente per fosforilazione a livello del
substrato; essa è rispettivamente di 36 o 38 ATP. 2 ATP
vengono prodotti direttamente durante la glicolisi, assieme a
due molecole di NAD in forma ridotta, che quando si
ossidano forniranno dalle 4 alle 6 molecole di ATP.
Normalmente per il NADH si hanno 10 protoni che vengono
pompati nello spazio intermembrana e per ogni 10 protoni
che rientrano dal complesso dell'ATP sintasi si formano 3
molecole di ATP nei tre siti β della porzione catalitica
dell'ATP sintasi. Durante la formazione dell'acetil-coA, due
molecole di NADH forniranno 6 molecole di ATP; durante il
ciclo dell'acido citrico, l'ossalacetato si condensa con il
gruppo acetile proveniente dall'acetil-coA per formare il citrsto, il citrato va incontro ad una
serie di reazioni, tra cui decarbossilazioni e ossidazioni, che portano alla formazione di 6
molecole di NADH e due molecole di FADH2, con le corrispondenti molecole di ATP, e in
più due molecole di ATP. Il FADH2 produe meno ATP perchè gli elettroni provenienti da
esso saltano il primo complesso di trasferimento degli elettroni, all'interno del quale
vengono pompati 4 protoni nello spazio intermembrana. Si chiama resa teorica perché la
ricaviamo considerando quanto ATP viene prodotto per ogni molecola di NADH e FADH 2
che passa dalla forma ridotta alla forma ossidata, per poi sommarla alle molecole di ATP
che provengono dai meccanismi di fosforilazione del substrato.
A livello della glicolisi abbiamo 2 ATP prodotti direttamente e 2 NADH; quando il NADH si
ossida rilascia una quantità di energia di 4 o 6 molecole di ATP. Questo a causa del
sistema navetta.
Normalmente da un NADH si ottengono 3 ATP, in quanto per un NADH si hanno 10
protoni (H+) i quali vengono pompati nello spazio intermembranario e per ogni 10 protoni
che rientrano tramite il complesso ATP-sintasi si formano 3 molecole di ATP.
prendendo come riferimento l’immagine in alto a sinistra dopo la glicolisi troviamo la sintesi
dell’acetil coenzima-A e poi il ciclo di Krebs.
Nella sintesi dell’acetil-CoA si formano solo 2 NADH, i quali permetteranno la formazione
di 6 ATP.
durante il ciclo di Krebs, l’ossalacetato si condensa con il gruppo acetile dell’ acetil-CoA
per formare il citrato, il quale va incontro ad una serie di reazioni, tra le quali ci sono:
● decarbossilazioni
● ossidazioni
queste tipologie di reazione portano alla formazione di 6 molecole di NADH e 2 molecole
di FADH2 che quindi corrispondono rispettivamente a 18 molecole di ATP e 4 molecole di
ATP.
Gli elettroni provenienti dal FADH2 saltano il primo complesso di trasferimento degli
elettroni (a livello del quale vengono pompati 4 protoni a livello dello spazio
intermembrana). Per questo motivo il FADH2 genera un minor quantitativo di ATP rispetto
al NADH.
I 36 o 38 ATP sono dati dalla somma di:
- 4 ATP formati mediante la fosforilazione a livello del substrato
- 32 o 34 ATP dati dal meccanismo di fosforilazione ossidativa
(prendere come riferimento l’immagine in alto a sinistra).
Come mai è presente questa differenza tra gli atp prodotti?
La differenza tra 36 o 38 ATP deriva dal fatto che la membrana mitocondriale interna è
impermeabile al NADH; il NADH prodotto nella glicolisi viene riossidato nel mitocondrio
però, non esistendo un suo trasportatore sulla membrana mitocondriale interna, i due
insiemi di NAD+, citosolico e mitocondriale,
rimangono sempre separati. Per permettere
l’entrata degli elettroni e dei protoni
provenienti dalla glicolisi, il NADH li
trasferisce ad un’altra molecola organica per
cui esistono dei trasportatori, questa viene
trasportata all’interno del mitocondrio e dona
gli elettroni al NAD+ o al FAD che fanno parte
del pool mitocondriale, a seconda del sistema
navetta. Questo meccanismo è definito
SISTEMA NAVETTA e ne esistono due
diversi tipi, che mostrano la differenza di queste due molecole di ATP.
In un sistema navetta presente nel cervello e nel muscolo, il NADH cede elettroni al
diidrossiacetone fosfato e questo si riduce a glicerolo-3-fosfato. All’interno del mitocondrio
avviene la reazione opposta, ma gli elettroni non vengono ceduti al NAD, bensì al FAD e si
forma FADH2.
il glicerolo-3-fosfato non ha un potenziale di ossidoriduzione abbastanza elevato da poter
cedere gli elettroni al NAD+, ecco quindi perché li cede al FAD.
I due NADH della glicolisi cedono i propri elettroni a due FADH 2 posti all’interno del
mitocondrio; ecco quindi perchè verranno generati 4 ATP e non 6 ATP.
Nel fegato, nel cuore e nel rene esiste un meccanismo simile, in cui il trasporto di elettroni
avviene tra l’ossalacetato e il malato: il malato entra, gli elettroni vengono trasferiti al
NAD+ e si riforma ossalacetato che riesce. Quando si forma il FADH2, la quantità di ATP
associata alla sua ossidazione è più bassa: infatti, nella catena di trasporto degli elettroni,
esso entra ad un livello energetico più basso rispetto al NAD, il FADH2 non può cedere
elettroni al primo complesso, che è anche quello dove si ha il trasferimento dei protoni
quindi, saltando un sito di pompaggio di protoni, durante la sua ossidazione produce come
resa massima possibile 2 molecole di ATP invece che 3; di conseguenza, la differenza di
resa di ATP dipende dal tipo di navetta utilizzato.
(non è essenziale ricordare i due diversi sistemi navetta, vengono menzionati per
comprendere le loro differenze)

Meccanismo di regolazione della respirazione cellulare:


Molti meccanismi metabolici sono regolati da enzimi (spesso allosterici). Gli enzimi
allosterici altro non sono che enzimi formati da più subunità, i quali possiedono diversi siti
attivi sui quali possono legarsi:
● attivatori
● inibitori.
Il meccanismo di regolazione della respirazione è
abbastanza unitario: l’enzima fosfofruttochinasi,
che catalizza la fosforilazione del fruttosio-6-
fosfato a fruttosio-1,6-bisfosfato, è un punto
chiave della regolazione, perché è inibito
dall’ATP; infatti, se è alta la disponibilità
energetica, è inutile che la respirazione vada
avanti. L'enzima è stimolato dalla AMP, che
indica una bassa disponibilità energetica; un altro
inibitore è il citrato, che è il primo intermedio del ciclo dell’acido citrico, perché la
disponibilità di citrato indica che gli intermedi del ciclo dell’acido citrico sono elevati.
Quindi, il citrato ricopre un doppio ruolo, sia catabolico sia anabolico, per fornire intermedi
per le biosintesi.
Il mitocondrio è anche un centro dove si produce calore, presente ad esempio nel grasso
bruno dei neonati e degli animali che vanno in letargo. A livello del grasso bruno, quando
le cellule hanno bisogno di calore extra, i mitocondri producono una proteina che si
chiama termogenina, che si dispone sulla membrana mitocondriale interna, costituendo
un poro attraverso cui fluiscono ioni H+, dissipando il gradiente protonico e quindi
trasformando l’energia potenziale in calore, ma senza produzione di ATP, poiché i protoni
non passeranno più dal complesso dell'ATP sintasi. Questo ci fa capire che il meccanismo
di produzione dell’ATP del mitocondrio non è efficiente al 100%, dato che una parte di
questa energia viene normalmente persa sotto forma di calore.
Questo meccanismo è presente anche in alcune piante che fioriscono con la neve: a livello
della parte che deve fiorire si ha questa reazione, che riscalda la neve permettendo al fiore
di uscire.
Ci sono dei meccanismi di disaccoppiamento della catena di trasporto degli elettroni; con
disaccoppiamento si intende che i canali dissipano il gradiente protonico NON
permettendo la formazione di ATP.
Meccanismi esistenti oltre alla respirazione aerobia:
Oltre alla respirazione aerobia esistono altri tipi di meccanismi, costituiti da:

❖ fermentazione (avviene anche in alcune delle cellule del nostro organismo)


❖ respirazione anaerobia (presente nei batteri).

La fermentazione
Le fermentazioni sono
meccanismi in cui non si ha una
catena di trasporto degli elettroni.
Si dice che la fermentazione sia
un meccanismo che avviene in
assenza di ossigeno, ma ciò non
è assolutamente vero, bensì
dipende dal tipo di organismo: per
esempio, nelle cellule tumorali
avviene in presenza di ossigeno.
Nella fermentazione accade che il
NADH che si forma della glicolisi (unica parte in questo tipo metabolismo a fornire ATP) si
rigenera, non cede elettroni per poter essere riossidato dalla catena di trasporto di
elettroni, ma li cede ad una molecola organica. In assenza di ossigeno la cellula acquisirà
energia solamente dalla glicolisi, in quanto essa avviene indipendentemente dalla
presenza di ossigeno. Questo processo produce solo 2 molecole di ATP, ma se c'è molta
disponibilità di glucosio può procedere molto rapidamente. Una volta che il NAD ossidato è
divenuto NADH nel processo della glicolisi, se il NADH non ritorna nella forma ossidata, il
processo della glicolisi si arresterebbe. Le fermentazioni prevedono la glicolisi per la
produzione di ATP e un processo di rigenerazione del NAD in forma ossidata. Esistono 2
tipi di fermentazione:
- fermentazione lattica
- fermentazione alcolica

Fermentazione lattica: la fermentazione lattica viene operata da alcuni batteri, come


quelli utilizzati per la fermentazione degli yogurt e avviene anche nel nostro organismo, in
particolar modo nelle cellule muscolari bianche, ma anche in quelle tumorali; il glucosio
viene ossidato a piruvato, accettore diretto di elettroni dal NADH, un carbonio viene ridotto
e il gruppo carbonilico diventa alcolico. La molecola che si forma è l'acido lattico o lattato.
Per quanto riguarda il metabolismo delle cellule tumorali, sono stati messi a punto dei
sistemi diagnostici per evidenziare nell'organismo regioni in cui vi è un metabolismo
elevato. Le cellule tumorali, avendo una velocità di proliferazione estremamente elevata,
consumano tantissima energia, più delle cellule del nostro organismo; trovando un modo
per monitorare il metabolismo elevato si può localizzare dove sono situate le cellule
tumorali. Con la tomografia a emissione di positroni (PET), si può rilevare la radioattività
rilasciata dal fluorodesossiglucosio, che è simile al glucosio. Esso, quindi, una volta
somministrato, riesce ad entrare nelle cellule, poichè
essendo simile al glucosio viene riconosciuto, ma non viene
metabolizzato e si accumula, permettendo di vedere zone
dell'organismo più intensamente radioattive.
A livello delle fibre muscolari bianche, che sono poco
vascolarizzate e che rispondono a stimoli di breve ma alta
intensità, viene prodotto ATP e acido lattico tramite la
fermentazione. Queste non sono in grado di sostenere un
lavoro prolungato: infatti, sono quelle usate, ad esempio, da
un centometrista. Il lattato che viene prodotto nel muscolo
durante l'esercizio intenso viene veicolato al sangue e poi al
fegato, che lo trasforma in glucosio attraverso la
gluconeogenesi; questo è chiamato ciclo di Cori e
serve ad eliminare il lattato dal muscolo attraverso
dei trasportatori.
(il lattato non è responsabile dei dolori post-
allenamento perché viene smaltito rapidamente)

Fermentazione alcolica: la fermentazione alcolica è compiuta dai lieviti saccaromiceti,


che permettono la lievitazione del pane e la fermentazione dell’uva per produrre vino e
bevande alcoliche. Il glucosio viene ossidato a piruvato, con produzione di ATP e di
NADH. Il NADH deve tornare alla forma ossidata per permettere alla reazione di
proseguire, con l'ossidazione di nuove molecole di glucosio. Se la fosforilazione ossidativa
non è attiva perchè manca l'ossigeno come accettore finale di elettroni, il NADH viene
rigenerato con la seguente reazione: prima il piruvato è decarbossilato, ossia perde il
gruppo carbossilico diventando acetaldeide; l'acetaldeide è l'accettrice di elettroni (le
molecole di NADH non vengono riossidate tramite una catena di trasporto degli elettroni,
ma cedono gli elettroni a una molecola organica) e viene ridotta ad etanolo (un carbonio si
riduce e il gruppo aldeidico diventa alcolico). La CO2 è quella che viene eliminata nel vino
e rimane l'etanolo, mentre in quello con le bollicine la CO2 viene mantenuta all'interno
delle bottiglie in modo da avere la parte effervescente. Lo stesso meccanismo viene
utilizzato per la lievitazione del pane: anche i lieviti saccaromiceti, mescolati alla farina e
all'acqua, si attivano e utilizzano lo zucchero presente nell'amido della farina per avviare il
processo fermentativo. L'impasto si gonfia perchè la CO2 viene liberata e l'etanolo non si
sente perchè in cottura evapora.

Visione di insieme
Il destino del piruvato prevede la
respirazione aerobia (trasformazione in
acetil-coA) o le fermentazioni. Nei processi
di respirazione gli elettroni vengono
destinati alla catena di trasporto, arrivando
poi ad un accettore finale, cioè l'ossigeno;
esso viene ridotto ad acqua nel caso della
respirazione anaerobia, oppure a sostanze
inorganiche variamente ossidate. In entrambi i
casi, la produzione di ATP avviene tramite una
fosforilazione da ADP ad ATP, ossidativa perché
associata all'ossidazione delle molecole di NADH.
Alcuni batteri sono in grado di operare una
respirazione anaerobia: il meccanismo è identico,
ciò che varia è l'accettore di elettroni, non potendo
essere l'ossigeno; gli accettori utilizzati sono
molecole inorganiche, come nitrati e fosfati. Nel
caso della fermentazione, non esiste una catena
di trasporto degli elettroni, ma il NADH riossidato cede elettroni ad una molecola organica
e l'ATP prodotto è solo quello proveniente dalla glicolisi. Inoltre, il NADH deve sempre
essere riossidato, altrimenti la glicolisi si ferma.

DNA COME SEDE


DELL’INFORMAZIONE GENETICA
La scoperta del DNA come sede dell’informazione genetica è relativamente recente: la
struttura del DNA proposta da Watson e Crick risale al 1953, ma già negli anni '40 si
sapeva che a livello dei cromosomi erano presenti sia proteine che acidi nucleici, in
particolar modo DNA.
Si era riusciti ad osservare il processo di divisione cellulare, per cui era chiaro che a livello
dei cromosomi erano presenti quelle identità discrete, adesso chiamate geni, che
venivano trasmesse in maniera ereditabile dai genitori ai figli e quindi rappresentano il
patrimonio genetico. Quello che però era in forte dubbio e dibattito, era se questo
patrimonio genetico fosse rappresentato dalle proteine oppure da DNA. La maggior parte
dei ricercatori era propenso a pensare che fossero le proteine ad essere la sede
dell’informazione genetica, perché con la loro grande varietà di amminoacidi (ben 20
diversi), rientravano nella composizione delle proteine; quindi, le proteine sembravano
molecole più versatili e atte a trasportare la grande variabilità di informazioni che ci
rendono diversi gli uni dagli altri e diversi dalle altre specie. Il DNA, con solo 4 nucleotidi
diversi, sembrava una molecola meno versatile per poter portare una grande variabilità di
informazioni. Dal 1928, inizia una serie di esperimenti, i quali portarono a definire che la
sede dell’informazione genetica era il DNA e non le proteine.

ESPERIMENTO DI GRIFFITH:
Il primo esperimento è quello di Griffith (medico), condotto nel 1928. È un esperimento
che non dimostra che il DNA è la sede dell’informazione genetica, ma che apre le porte ad
esperimenti successivi, che andranno proprio verso questa direzione.
All’epoca Griffith stava studiando un batterio, ovvero lo Streptococcus Pneumoniae, che
causa la polmonite; a quel tempo
gli antibiotici non esistevano e di
polmonite si moriva, perciò c’era
grande interesse nello studiare
questo tipo di batteri. Griffith si
era accorto che dello
Streptococcus Pneumoniae
esistevano due ceppi:
- un ceppo definito smooth
(S), dove S sta per superficie
liscia; se facciamo crescere i
batteri su una piastra da
microbiologia, essi si
moltiplicheranno formando
colonie, visibili ad occhio nudo. I ceppi di tipo S formavano delle colonie a cupola
lucide, dovute al fatto che questi ceppi S possedevano una capsula di natura
polisaccaridica, di consistenza mucinosa, che conferiva quindi ai batteri questo
aspetto liscio. Se i batteri capsulati fossero stati iniettati nel topo, avrebbero causato
polmonite e il topo sarebbe morto; per questo motivo, il ceppo S venne definito
virulento.
- un ceppo definito rough (R), dove R sta per ruvido; esso è caratterizzato dalla
formazione di colonie ruvide prive di capsula e, se iniettato nel topo, permetteva la
sopravvivenza senza sviluppare la malattia (non virulento). Questo perché (ci
colleghiamo ad una delle proprietà della capsula) i batteri capsulati hanno una
possibilità in più di essere virulenti, poiché la capsula protegge dal sistema
immunitario, in particolar modo dai macrofagi che intervengono nella prima risposta
di tale sistema.
Quindi, se iniettato il ceppo S, il topo muore, se iniettato il ceppo R, il topo vive.
Griffith fece il seguente esperimento: prese i ceppi capsulati, li riscaldò con il calore e
successivamente iniettò il ceppo S ucciso con il calore nel topo e il topo sopravvisse.
Questo perché il calore aveva denaturato tutte le proteine e ucciso i singoli batteri e il topo
era in grado di vivere.
Successivamente, egli fece un altro esperimento con esito sorprendente; prese i batteri
del ceppo R e i batteri del ceppo S uccisi con il calore, li mescolò e poi li iniettò nel topo: il
topo morì.
Ciò era abbastanza strano, perché singolarmente il ceppo R non era virulento, il ceppo S
era stato ucciso con il calore e quindi non era virulento e mettendoli insieme ci si
aspetterebbe che questi non causino la patologia; invece, il topo muore e in più, all'interno
di esso, Griffith ritrova batteri capsulati vivi, che poi avrebbero potuto duplicarsi e
mantenere la capsula. Nel topo, quindi, era avvenuto un qualche principio, che Griffith
chiamò PRINCIPIO TRASFORMANTE; egli non riuscì a chiarire chimicamente questo
principio, ma era in grado di passare dal ceppo S ucciso con il calore, al ceppo R,
trasformandolo in ceppo S(da qui la parola principio trasformante).
Di fatto, questo principio era alla base di
uno dei meccanismi della variabilità
genetica dei batteri; Griffith evidenziò
quindi una delle modalità con cui i batteri
variano il proprio genoma, che è la
trasformazione: capacità di alcuni ceppi
batterici di prendere del genoma
dall’esterno e farlo proprio; questo
processo è anche alla base
dell’acquisizione della resistenza agli
antibiotici. Nel topo, come abbiamo detto,
alcuni frammenti del genoma del ceppo S ucciso con il calore, passavano nel ceppo R
vivo e in questo modo venivano integrati nell’informazione genetica del batterio di tipo R,
che conseguentemente acquisiva i geni responsabili della sintesi della capsula, si otteneva
il fenotipo osservato (batteri capsulati) e il topo moriva. Per poter compiere questo
meccanismo, i batteri devono essere competenti.
BATTERI COMPETENTI: sono batteri in grado di acquisire informazione genetica. Questa
competenza può essere indotta in laboratorio o essere naturale, come nel caso dello
Streptococco. Griffith potè quindi integrare nel ceppo R l'informazione per la sintesi della
capsula, proveniente dal DNA dei batteri del ceppo S.
Gli esperimenti successivi furono quelli condotti dal gruppo di Avery e durarono circa 14
anni; benché condotti con molto rigore, non furono accettati dalla comunità scientifica,
ovvero non furono considerati rilevanti ai fini della dimostrazione che il DNA contenesse
l’informazione genetica.
Il punto di partenza era questo: invece di lavorare con l’intero ceppo S come
nell’esperimento di Griffith, si fa un estratto delle macromolecole presenti nel ceppo S.
Quindi:

● si fa una lisi dei batteri


● si estraggono le macromolecole presenti all’interno dei batteri (proteine, DNA, RNA)
● si rifà l’esperimento di Griffith mescolando l’estratto con il ceppo R vivo
● si inietta l’estratto nel topo: il topo muore e all’interno di esso si trovano batteri
capsulati virulenti.
Ciò fece pensare che all’interno dell’estratto ci fosse il principio trasformante.
Per questo motivo il gruppo di Avery pensò di utilizzare una serie di enzimi e di digerire
l'estratto in esperimenti diversi, utilizzando:
o DNAsi per digerire il DNA
o Proteasi per digerire le proteine
o RNAsi per degredare l’RNA
Si prende, quindi, l’estratto ottenuto dal ceppo S e questo viene prima digerito con DNAsi,
poi si mescola l’estratto digerito con il ceppo R vivo e la miscela si inietta nel topo.
L’esperimento si ripete utilizzando le proteasi, poi si fa la stessa cosa con l’RNAsi e si
osservano i risultati:

❖ se l’estratto viene digerito con proteasi il topo muore


❖ se l’estratto viene digerito con RNAsi il topo muore
❖ solo nel caso in cui tratto l’estratto viene digerito con DNAsi, degradando il DNA, il
topo rimane in vita; ciò significa che il principio trasformante risiede a livello del
DNA.
Benché questo esperimento fosse eseguito con molto rigore, molti sostenevano che
potevano esserci delle contaminazioni di proteine che non provavano in maniera esclusiva
che il DNA fosse la sede dell’informazione genetica.

ESPERIMENTO DI HERSHEY E CHASE:


Pochi anni dopo Hershey e Chase (1952) furono due studiosi che dimostrarono che la
sede dell’informazione genetica era proprio il DNA.

Loro studiavano i batteriofagi di tipo T2, detti anche fagi: sono dei virus (parassiti cellulari
obbligati) che infettano i batteri, costituiti da proteine e DNA. Le proteine costituiscono il
loro involucro (capside), che costituisce la testa e quando avviene l’infezione del batterio,
l’involucro rimane al di fuori del batterio stesso. Inoltre, da un punto di vista strutturale,
oltre ad avere la testa, hanno una coda, con cui si ancorano alla parete batterica e poi
iniettano il materiale genetico all’interno del batterio; questo indirizza la sintesi di nuove
proteine virali, si forma una progenie virale, che quando diventa sufficientemente grande
determina la lisi del batterio e fuoriesce.
Hershey e Chase si chiesero allora se fosse possibile utilizzare questi batteri per
dimostrare quale fosse la sede dell’informazione genetica; infatti, se fossero riusciti ad
individuare la molecola che penetrava nel batterio e causava la replicazione virale,
avrebbero individuato il materiale genetico del batterio.
I due ricercatori marcarono selettivamente proteine e DNA utilizzando isotopi radioattivi
specifici, in modo da ottenere due popolazioni fagiche, una marcata a livello delle proteine
con un isotopo radioattivo dello zolfo, che si trova nell’amminoacido cisteina, formando
anche i ponti disolfuro, mentre nel DNA non è presente; dall'altra parte, vennero usati
ceppi di virus marcati con il fosforo radioattivo, che non si ritrova nelle proteine ma è
presente nel DNA.
Essi presero i fagi radiomarcati e li mescolarono ad una coltura batterica per pochi minuti,
in modo tale da far avvenire l’iniezione del materiale genetico all’interno del batterio
stesso. Dopodichè utilizzarono un frullatore da cucina per separare l’involucro fagico dai
batteri stessi e la miscela così ottenuta veniva centrifugata: i batteri, più pesanti degli
involucri fagici, si depositarono sul fondo del tubo da centrifuga, formando il pellet, mentre
tutto il resto (compresi gli involucri) rimase nel sopranatante (per far precipitare gli involucri
c’è bisogno di forze centrifughe elevate).
Dopo la centrifugazione svolsero l’analisi della radioattività o del pellet (detto anche
pellicola) che precipita o del sopranatante.
In seguito a questi tipi di studi, i due ricercatori si resero conto che la radioattività (che può
essere studiata con apposita strumentazione) si ritrovava esclusivamente nel
sopranatante (le proteine che costituiscono l’involucro dei batteri, che al momento
dell’infezione rimangono all’esterno del batterio) e non nei batteri (nel pellet). Inoltre,
studiando la radioattività dei fagi che derivavano da questa infezione, gli scienziati si
resero conto che la radioattività non era presente. Quindi, se si marcano le proteine, la
radioattività viene ritrovata solo nel sopranatante e la progenie fagica che deriva
dall’infezione non è radioattiva.
I passaggi vennero ripetuti con il DNA marcato: i fagi con il DNA radioattivo vennero
mescolati con i batteri e infettarono le cellule batteriche, poi si passò al frullatore, poi alla
centrifugazione e poi all’analisi della radioattività. Nel sopranatante non si avrà
radioattività, ma sarà presente nel precipitato e nella progenie fagica. L’esperimento di
Hershey e Chase dimostra in modo inequivocabile che è il DNA ad essere la sede
dell’informazione genetica.
Una volta noto e chiarito che il DNA era la sede dell’informazione genetica e che il
DNA era costituito da nucleotidi, ciò che rimaneva da capire era come questi
nucleotidi si legassero tra di loro e qual era la struttura della molecola.
Nel tempo si sono accumulate diverse informazioni, sfruttate da Watson e Crick per
pubblicare nel 1953 la celebre struttura tridimensionale del DNA. Alcune di queste
informazioni vengono raccolte sotto il nome di “Regole di Chargaff”, dal nome dello
scienziato che aveva dedotto tali informazioni.

REGOLE DI CHARGAFF
Chargaff aveva esaminato il contenuto in basi azotate di molti organismi e si era
accorto che per ogni organismo variava la proporzione di basi, mai negli stessi
rapporti; ciò che risultava uguale era rispettivamente il contenuto di guanina a quello
di citosina e il contenuto di timina a quello di adenina. Concluse quindi che le
percentuali di basi potevano differire da una specie all’altra, però in tutte le specie
citosina e guanina, come timina e adenina, erano presenti nelle stesse percentuali.

esempio: nell’uomo
C=19,9% G=19,8%
T=29,4% A=30,9%

Sfruttando le informazioni sulle basi azotate ottenute da Chargaff e quelle sulla


struttura della molecola ottenute grazie alla cristallografia a raggi X, nel 1853 James
Watson e Francis Crick deducono la struttura tridimensionale del DNA, ricevendo
nel ‘62 il premio Nobel.
Fu esclusa dal premio Rosalind Franklin, perché deceduta, che aveva contribuito in
maniera sostanziale alla scoperta, grazie alle sue foto del DNA scattate ai raggi X e
alla descrizione di alcune grandezze, come la distanza tra le basi, il passo dell’elica
e la dimensione dell’elica, che si ripetevano in maniera costante nella molecola.
Si narra che tali informazioni furono inviate a Watson e Crick ad insaputa della
Franklin, escludendola dal riconoscimento.

Rosalind Franklin, fotografia 51 della molecola di DNA


Watson e Crick, il modello del DNA

STRUTTURA E DIMENSIONI DEL DNA

Nucleotidi e Acidi nucleici dati come appresi durante l'ATTIVITÀ A DISTANZA 3.

Per ogni nucleotide dobbiamo considerare il gruppo fosfato e il gruppo ossidrilico in


posizione 3’. Il suo gruppo ossidrilico legato al carbonio in posizione 3’ è legato al
nucleotide sottostante con un legame che coinvolge un fosfato a ponte tra il C 5’ e C
3’. È un legame tra un gruppo ossidrilico e un acido quindi è un legame estere in
questo caso fosfodiestere perché lo abbiamo sia tra OH del C 3’ e sia del CH2OH
del C 5’.
I due filamenti di DNA si dispongono in maniera antiparallela, cioè uno capovolto
rispetto all’altro, hanno direzione opposta. Perciò l'estremità di una molecola di DNA
è caratterizzata da un filamento che finisce con 5’ fosfato e l’altro con 3’ ossidrile,
garantendo inoltre la polarità della molecola.
Il legame fosfodiesterico è a ponte tra gli zuccheri, le basi azotate sono rivolte
all’interno della struttura portante, rappresentata dal legame zucchero-fosfato,
interfacciate tra di loro e legate da legami a idrogeno.
● Il legame tra le basi è obbligato, nel senso che abbiamo sempre una purina
con una pirimidina.
L’associazione è sempre una timina con una adenina e una citosina con
una guanina.
● Tra adenina e timina ci sono 2 legami a idrogeno e tra guanina e citosina 3
legami a idrogeno.
Questo tipo di associazione tra una purina e una pirimidina risponde ad un’esigenza
che è quella di mantenere costante il diametro dell’elica che è sempre di 2 nm.
Questa struttura non è lineare ma si tratta di una doppia elica perchè è avvolta.
● La distanza tra i piani dove sono situate le basi è di 0,34 nm.
● Il passo dell’elica cioè la distanza che intercorre purché ci sia un giro
completo è 3,4 nm. Quindi ci sono 10 basi per ogni passo dell’elica.
● Il diametro dell’elica è di 2 nm.
L’associazione tra purine e pirimidine è obbligata: la quantità di
adenina+guanina=timina+citosina.

Molecola di DNA

DIMENSIONI E SEQUENZE DI GENOMI


Nel 2000-2001 viene pubblicata la sequenza del genoma umano su Science,
ovvero la modalità con cui si susseguono le basi azotate all’interno del DNA. Questa
scoperta permise di conoscere la sequenza di nucleotidi che codifica per ogni nostro
gene.
Da questo momento in poi si sono ottenute tante informazioni sulla dimensione dei
genomi di altri organismi e sulla loro sequenza. Confrontando i diversi genomi si
nota la variabilità di dimensione, senza una correlazione stretta tra dimensione e
grado di evoluzione dell’organismo.
Genomi di vari gruppi del regno animale a confronto

Dalla foto è possibile vedere che la correlazione lunghezza genoma - complessità


dell’organismo è rispecchiata solo fino ai procarioti. Negli eucarioti ad esempio, ci
sono alcuni protozoi con un genoma di oltre 100 Gigabasi, molto più grande di quello
9
dei mammiferi (uomo: 3,3x10 Gb).
Analizzando e confrontando il numero di geni nei diversi organismi, anche in questo
caso non c’è correlazione tra la complessità dell’organismo e il numero di geni.
Un organismo può avere un genoma più corto, ma con una maggiore abbondanza di
geni rispetto ad un altro con genoma più lungo.
Motivi della maggiore complessità biologica garantita da una minore quantità di geni
nelle prossime lezioni

I LIVELLI DI ORGANIZZAZIONE DELLA CROMATINA


Applicando le misure precedentemente descritte della molecola di DNA per il
numero di basi di un genoma umano, si otterrebbe una molecola di quasi 2 metri,
dimensione non compatibile con quelle del nucleo; all’interno della cella, infatti, si
trova in una forma compattata. Compattazione garantita dall’associazione del DNA
con delle proteine basiche chiamate istoni (nel caso degli eucarioti).

1° livello: il DNA viene organizzato in strutture chiamate nucleosomi (10 nm) che
sono costituiti da DNA più istoni. Questi istoni formano un ottamero globulare cioè
una struttura composta da 8 subunità (chiamato anche core istonico) attorno alla
quale il DNA si avvolge per circa 146 paia di basi. Vi è poi un istone che rimane più
esterno, l’istone H1 che ha la funzione di legare saldamente il DNA al core istonico e
di avvicinare 2 nucleosomi successivi. Gli istoni sono proteine basiche ricche di
residui amminoacidici con carica positiva che si legano al DNA, carico
negativamente. Gli istoni sono di 5 tipi: H2A, H2B, H3, H4, H1. Tutti ad esclusione
dell’ H1 sono presenti in duplice copia a livello del nucleosoma e vanno dunque a
costituire l’ottamero. L’importanza della carica positiva è per la neutralizzazione di
quella negativa presente nel DNA, e permettere un principio di compattazione.
Il primo grado di compattazione dà origine ad una struttura chiamata ‘’collana di
perle’’, le perle sono i nucleosomi. Si passa dalla doppia elica di DNA di 2 nm al
nucleosoma la cui dimensione è di 10 nm.
Ruolo dell’istone H1

Dopo il primo grado di compattazione del DNA grazie alla presenza dell’istone H1, i
nucleosomi vengono raggruppati tra loro a costituire la fibra di 30 nm, che può
ulteriormente formare delle anse, stabilizzate da altre proteine non istoniche, a
costituire i domini ad ansa 300 nm con andamento a zig-zag. Questi domini possono
ripiegarsi su sé stessi disponendosi a costituire la cromatina altamente condensata o
eterocromatina 700 nm, fino ad arrivare al cromosoma metafasico 1400 nm.
Livelli di compattazione della cromatina

CROMATINA E CROMOSOMI
La cromatina interfasica è una proteina dispersa, una specie di groviglio
apparentemente poco ordinato.
Questa cromatina interfasica si organizza in strutture ben definite che sono i
cromosomi solo quando la cellula si deve dividere. Prima della divisione cellulare i
filamenti di DNA vengono duplicati e la cromatina si organizza in strutture discrete
che sono i cromosomi (46 nella nostra specie) che permettono la suddivisione del
materiale genetico in maniera ordinata.
La compattazione della cromatina in unità discrete permette una separazione
efficiente del materiale genetico tra le cellule figlie.
Cromosoma e cromatina sono quasi la stessa cosa, sono due forme diverse in cui
questa associazione tra DNA e proteine appare durante la vita della cellula.
Benché la cromatina interfasica appaia come una struttura confusa, in realtà è stato
visto che anche durante l’interfase i vari cromosomi occupano regioni del nucleo più
o meno definite. Esistono infatti all’interno del nucleo i territori cromosomici, delle
regioni in cui si trovano cromosomi anziché altri, quindi anche la disposizione della
cromatina risulta relativamente ordinata.
Cariotipo Territori cromosomici, cromosomi in
interfase marcati con colori diversi

Nel DNA inoltre appaiono delle regioni più intensamente colorate, dette
eterocromatiche e delle regioni meno colorate dette eucromatiche.
La differenza di colorazione corrisponde al grado di compattazione:
● Eucromatina: la cromatina più lassa, meno colorabile, dove vi sono i geni
che verranno poi trascritti grazie al RNA polimerasi.
● Eterocromatina: è una cromatina molto compatta e condensata,
inaccessibile alla RNA polimerasi. Essa a sua volta si divide in eterocromatina
facoltativa (regioni che durante la vita possono essere trascritte divenendo
eucromatina) ed eterocromatina costitutiva (regioni che restano NON
trascrivibili, prive di geni) esempio: le regioni terminali o il centromero dei
cromosomi, oppure uno dei due cromosomi X femminili, è molto compatto e
fortemente eterocromatico, quello che viene detto anche corpo di Barr.

MECCANISMI DI REGOLAZIONE DEL GRADO DI


COMPATTAZIONE DELLA CROMATINA e CODICE ISTONICO

Quando il nucleosoma si forma, le code N-terminali degli istoni restano all’esterno di


questa struttura.
Il nostro organismo nasce in seguito a divisioni mitotiche dello zigote e quindi tutte le
cellule che costituiscono uno stesso individuo hanno lo stesso DNA. Allo stesso
tempo se si osserva una cellula epatica, una cellula epiteliale o una cellula
muscolare dello stesso individuo, nonostante queste abbiano tutte lo stesso DNA,
sono morfologicamente e funzionalmente diverse, quindi ciò significa che queste
cellule esprimono geni differenti l’una rispetto all’altra e quindi codificano per
proteine diverse e vanno a definire fenotipicamente tali cellule.
Questa differenza di espressione genica dipende proprio dalle modifiche che
avvengono a livello degli istoni, in particolare al loro livello di compattazione.
Stiamo introducendo l’epigenetica.
Si chiamano meccanismi epigenetici poiché pur regolando l’espressione genica non
alterano la sequenza dei nucleotidi. A livello degli istoni i meccanismi sono più
dinamici e complessi, al punto che si parla di codice istonico (una sorta di
linguaggio che permette alla cromatina di essere più o meno riconosciuta dalla RNA
polimerasi), cioè di un meccanismo mediante il quale la modifica degli istoni può
regolare la compattazione a livello del nucleosoma e quindi l’accessibilità dei geni
per gli enzimi di trascrizione. Questo codice è rappresentato da diversi tipi di
modifiche:
● L’acetilazione promuove la trascrizione. Praticamente se viene aggiunto un
gruppo acetile a livello dell’amminoacido lisina, l’istone perde la sua carica
positiva. Si forma il legame tra il COOH del gruppo acetile e L’NH2 terminale
della lisina con eliminazione di una molecola d’acqua. Alla perdita della carica
positiva, il livello di interazione tra DNA e istone tenderà a diminuire.
● La metilazione reprime la trascrizione aumentando la compattazione del
DNA. Un DNA molto metilato risulterà molto compatto. La base che viene
metilata è la citosina e viene indicata con il nome di isole CpG.

Acetilazione degli istoni


Metilazione del DNA (CpG)

Tabella riassuntiva
02/11/2023 Prof.ssa Francesca Magherini

Biologia Sbobinatore: Lorenzo Simoncini

Lezione n°12 (prima parte) Revisore: Carolina Porciani

TIPI DI DNA NEL GENOMA UMANO


(Prima di passare alla duplicazione del DNA, la professoressa completa l’argomento della scorsa
lezione con la descrizione dei tipi di DNA e il nucleolo)

Le dimensioni dei genomi e il numero dei geni non hanno alcuna correlazione con
la complessità dell’organismo (ci possono essere organismi estremamente semplici
che hanno genomi molto grandi e viceversa).

Un altro aspetto importante è rappresentato


dal fatto che, guardando la figura a destra, ci
si accorge che le regioni codificanti del nostro
genoma (quelle effettivamente utilizzate ai fini
di sintetizzare le proteine oppure gli RNA
funzionali) occupano il solo 1,5% di esso.
I geni degli eucarioti hanno infatti la
caratteristica di essere geni dove solo una
parte della sequenza è utilizzata per essere
tradotta in proteine; questa parte della
sequenza è chiamata esone.

A cosa serve quindi tutto il resto? Per molto


tempo, la restante parte del DNA è stata
chiamata “DNA spazzatura”, alludendo alla
sua apparente inutilità. Solo recentemente ci
si è accorti che parte di questo DNA possiede
un ruolo importante, essendo contenute in esso molte sequenze regolatrici
dell’espressione genica. Nonostante ciò, le funzioni di molte parti del nostro
genoma rimangono a noi oscure.

Facendo sempre riferimento al grafico a torta, esso si divide in:

● DNA unico (senza sequenze ripetute) non codificante per il 15%;

● Introni e sequenze regolatrici per il 24%;


Gli introni sono le parti di sequenze non utilizzate per essere tradotte in
proteine e eliminate attraverso il processo di “splicing” (che verrà trattato
successivamente).
● DNA ripetuto in tandem per il 15%; “in tandem”
significa che la stessa sequenza, che può
essere più o meno lunga, è ripetuta più volte
consecutivamente. La diversa lunghezza dà
luogo a regioni del DNA che prendono nomi
diversi:
○ Microsatelliti, se le paia di basi ripetute
vanno da 2 a 4 e sono ripetute dalle 10
alle 30 volte; vengono dette anche
“Short Tandem Repeats” (STR) e vengono utilizzate per l’analisi
genetica (sono utili ad esempio per l’attribuzione della paternità, fatta
individuando 24 STR, o per l’analisi forense volta a capire se la traccia
appartiene o meno ad una persona), poiché vengono considerate
“l’impronta digitale” di ciascuno organismo, essendo il numero di
ripetizioni specifico per ognuno di noi;
○ Minisatelliti, se le paia di basi ripetute vanno da 6 a 64 e sono ripetute
circa 200 volte;
○ Satelliti, con un numero di basi altamente ripetute variabile;

● DNA ripetuto intersperso per il 44% (la professoressa usa la parola “interdisperso”),
un quarto del quale (10%) è costituito dalle sequenze Alu, denominate così
dall’enzima di restrizione Alu che permette di tagliarle; esse sono delle
sequenze ripetute non “in tandem” (non una dietro l’altra);

IL NUCLEOLO

Esso è una regione del nucleo che appare intensamente colorata, nel quale si
distinguono a loro volta due regioni:

● regione fibrillare, che contiene quelle


sezioni del DNA che codificano per l’RNA
ribosomiale (rRNA). Questi ultimi sono codificati da
geni altamente ripetuti (fino a 400 volte), in maniera
che ci sia molta disponibilità, che fisicamente si
trovano in 5 cromosomi diversi e che sono contenuti
tutti all’interno del nucleolo stesso (ciò prova il fatto
che la cromatina interfasica, seppur non organizzata
in cromosomi, presenta una sua organizzazione
strutturale). L’unica eccezione è rappresentata
dall’rRNA 5S, che viene codificato da geni non
presenti fisicamente all’interno del nucleolo.
● regione granulare, che contiene i ribosomi in
vari stadi di assemblamento. Nel nucleolo si
sintetizzano gli RNA ribosomiali, mentre le proteine
che fanno parte dei ribosomi (tradotte nel citoplasma), entrano nel nucleo
attraverso i pori nucleari e nella regione granulare si assemblano con gli
rRNA per costituire le due subunità dei ribosomi (i quali usciranno dal nucleo
per svolgere il proprio lavoro nel citoplasma).

IL DNA DEI PROCARIOTI

Esso è un DNA circolare, a doppio filamento, costituito sia dal DNA batterico
vero e proprio sia dai DNA accessori rappresentati dai plasmidi.
Anche nel caso del DNA dei procarioti si trovano delle proteine, basiche e
non istoniche, le quali permettono la
formazione di anse che
compattano il DNA,
grazie anche all’aiuto di
molecole di RNA (non
presenti nell’immagine).

LA DUPLICAZIONE DEL DNA


Watson e Crick, nella loro celebre
pubblicazione, scrivono di avere già
intuito un possibile meccanismo di
duplicazione del materiale genetico.
Poiché l’appaiamento delle basi è
obbligato (adenina con timina e
guanina con citosina) è facile intuire
come un filamento possa funzionare
da stampo per uno nuovo.

In linea teorica, per capire come ciò potesse avvenire, si avevano 3 modelli di
duplicazione: (Attenzione! Il DNA si duplica prima della divisione cellulare)

● Modello semiconservativo, nel caso in cui, a seguito della duplicazione,


una molecola di DNA sia di nuova sintesi (filamento nuovo), mentre l’altra
sia stata utilizzata come stampo (filamento parentale, appartenente alla
vecchia doppia elica).
● Modello conservativo, dove i due filamenti originari costituiscono i due
stampi per la sintesi dei due nuovi filamenti, però poi le due eliche figlie
ottenute sono formate: una interamente dai due filamenti di nuova sintesi
(rossi), l’altra costituita dai due filamenti parentali (blu).
● Modello dispersivo, in cui le doppie eliche figlie contenevano frammenti sia
di nuova che di vecchia sintesi. La modalità dispersiva già a logica poteva
risultare difficile da immaginare perché richiedeva un meccanismo più
complesso.

ESPERIMENTO DI MESELSON E STAHL

Questo esperimento ha permesso di escludere le opzioni conservative e


dispersive, a favore del modello semiconservativo.

Presupposti ed esperimento preliminare:

Utilizzarono dei batteri di E. Coli, il cui tempo di


duplicazione a 37°C è di circa 20 minuti.

Fecero crescere dei batteri in una fonte di azoto


(cloruro di ammonio), che in un caso era azoto 14,
mentre nell’altro caso era azoto 15, un isotopo
pesante non radioattivo.
Quando i batteri vengono fatti crescere in una fonte di
azoto, l’azoto viene incorporato nelle varie molecole e
macromolecole dei batteri, compresi i nucleotidi che
contengono le basi azotate, le quali sono appunto
composte da azoto.
Se si fanno crescere batteri in azoto pesante, il DNA
che questi batteri sviluppano viene chiamato “DNA
pesante” proprio perché contiene una quota di azoto
15 molto elevata a livello delle basi azotate. Se invece si fanno crescere batteri in
azoto 14, il DNA che sviluppano è detto “DNA leggero”.

Si può facilmente estrarre in modo selettivo il DNA dai batteri ed è possibile


distinguere il DNA pesante da quello leggero attraverso l’utilizzo della
centrifugazione in gradiente di cloruro di cesio, che permette di separare molecole
anche piccole sulla base della loro densità: molecole di DNA più leggero andranno
meno a fondo di quelle più pesanti.

Con questo esperimento preliminare, capirono che il DNA pesante forma una
banda che si deposita sul fondo della provetta, mentre il DNA leggero forma una
banda che si localizza in alto della provetta.

Esperimento vero e proprio:

Prendono dei batteri che sono cresciuti per numerose generazioni nell’azoto 15, in
maniera che la totalità del loro DNA fosse pesante, per poi trasferirli in una fonte di
azoto 14, aspettando poi 20 minuti, cioè il tempo per un’unica duplicazione.
Dopodiché il DNA viene estratto e centrifugato in presenza di cloruro di cesio.

Se la duplicazione fosse stata di tipo conservativo, avrei dovuto ottenere due


bande, una in alto e una in basso (ci sarebbero stati 2 filamenti vecchi e 2 filamenti
nuovi), ma così non è.

Si osserva invece un’unica banda che poteva essere ottenuta sia da un modello
di duplicazione semiconservativo che un modello dispersivo, poiché in entrambi si
ha una mescolanza di azoto leggero e pesante. (Nell’immagine il celeste
rappresenta il filamento leggero, il blu quello pesante)
Per confutare il modello dispersivo, si riproduce lo stesso esperimento, con la
differenza che invece di aspettare 20 minuti per la centrifugazione, se ne
aspettano 40, che è il tempo necessario per compiere 2 duplicazioni. I batteri
quindi si dividono per due volte avendo a disposizione solo azoto leggero.

Il risultato furono due bande, delle quali una era alla stessa altezza di quella
trovata dopo i primi 20 minuti (corrisponde al mix leggero e pesante), mentre l’altra
era più alta e costituita esclusivamente da DNA leggero. Chiaramente, dopo una
prima duplicazione, le molecole saranno tutte costituite da un filamento con N
pesante e un filamento con N leggero; durante la seconda duplicazione invece,
non avendo a disposizione DNA pesante, si avranno alcune molecole costituite da
DNA pesante e DNA leggero e altre solo da DNA leggero.

Se la duplicazione fosse stata dispersiva, avremmo invece ottenuto un’unica


banda che progressivamente si sarebbe alzata verso l’alto (perché
progressivamente più leggera).

DUPLICAZIONE
(Verrà analizzato la modalità con cui si duplica il DNA nei procarioti, con solo alcuni cenni sugli
eucarioti che saranno approfonditi nel corso di biologia molecolare)

Nei procarioti, così come negli eucarioti, la duplicazione del DNA avviene in una
fase specifica della duplicazione cellulare, detta fase S o di sintesi. Dopo la
replicazione e il controllo di eventuali errori, si ha la mitosi (nel caso dei batteri la
scissione binaria).

Nei batteri (figura a sinistra), la


duplicazione ha inizio in una
regione chiamata “origine di
replicazione” (ORI). Essendo il
DNA circolare, è sufficiente
un’unica origine di replicazione per
duplicare tutto il DNA in un tempo
ragionevole per la vita della cellula.

La replicazione avviene procedendo in due direzioni opposte; è


quindi bidirezionale. Si formano due forcelle di replicazione,
una a destra e una a sinistra dell’origine di replicazione, che
progressivamente si allargano.

Nel caso dei genomi eucariotici (figura a destra), a causa del


fatto che questi sono molto grandi e lineari, la duplicazione
avviene partendo da più origini di replicazione. Le forcelle
procedono in direzioni opposte, finché le varie unità replicative,
chiamate repliconi, si congiungono.
I PUNTI CHIAVE DELLA DUPLICAZIONE

1. Le eliche del DNA devono essere separate e mantenute separate tra


loro

I due filamenti di DNA sono legati attraverso legami a H (3 legami a H tra guanina
e citosina, 2 legami a H tra adenina e timina); affinchè i filamenti possano
funzionare da stampo questi legami devono
essere spezzati.

L’enzima che permette questa separazione è


l’elicasi, che funziona in maniera
ATP-dipendente muovendosi a livello delle
forche di replicazione, andando a rompere i
legami a H e rendendo così disponibili i
filamenti singoli.

Questi ultimi tenderebbero autonomamente a


riassociarsi (formando legami a H), quindi
esistono le cosiddette Single-Strand Binding Proteins (SSB) che legano il
singolo filamento impedendo una nuova formazione di legami a H tra filamenti.

2. I superavvolgimenti vengono eliminati dalle topoisomerasi

Sorge il primo problema: immaginando di avere una


corda, si simulano i doppi filamenti di DNA facendola
avvolgere su se stessa; nel momento in cui si separano i
due capi della corda, a valle del punto di separazione si
generano i superavvolgimenti.

I due filamenti infatti tendono a superspilralizzarsi, cioè a


formare delle regioni nelle quali si hanno sia
superavvolgimenti che una maggiore densità di DNA.

Ciò rappresenta un problema per la normale


continuazione della DNA polimerasi, perciò entrano un
gioco alcune proteine chiamate topoisomerasi, le quali effettuano dei tagli o sul
singolo filamento (Topoisomerasi I) o su entrambi i filamenti (Topoisomerasi II), al
fine di eliminare i superavvolgimenti (avvolgimenti causati dalla separazione dei
due filamenti).

(La professoressa consiglia di guardare i video youtube che sono indicati nelle slide per
comprendere al meglio il modo in cui si formano i superavvolgimenti)
3. La sintesi (che ha bisogno di un iniziatore di RNA) procede in
direzione 5’ → 3’, la DNA polimerasi forma legami fosfodiesterici tra il
3’ OH della catena in allungamento e il 5’P (fosfato) di un nuovo
nucleotide
(nelle slide la direzione della sintesi e l’utilizzo del primer sono indicati come punti 3 e 4, ma la
professoressa ne parla come un unico punto)

Una volta che la molecola di DNA si è aperta


esponendo i singoli filamenti, interviene la
DNA polimerasi.
In Escherichia coli ci sono diverse DNA
polimerasi, ma l’enzima principale che
catalizza questa reazione è la DNA
polimerasi III.

La DNA polimerasi non riesce a sintetizzare un


filamento ex novo, ma necessita di un innesco
o primer, sintetizzato da una RNA polimerasi
detta primasi, la quale è in grado di
sintetizzare un piccolo frammento di RNA (che
poi verrà eliminato) anche in assenza di un
nucleotide già presente.

Questo primer fornisce il 3’ OH sul quale la


DNA polimerasi può andare ad aggiungere il
successivo nucleotide sulla base
dell’informazione riportata sullo stampo.

La DNA polimerasi ha quindi bisogno di un 3’ OH su cui attaccare i nuovi


nucleotidi. In realtà non utilizza un solo nucleotide come substrato, bensì un
nucleoside trifosfato, poichè il legame covalente che deve formare richiede la
cessione di un pacchetto energetico, che viene fornito dalla rottura del legame
fosfoanidridico tra due fosfati.

La polimerizzazione non necessita quindi di ATP perchè l’energia necessaria è


contenuta nei nucleosidi trifosfato, non perchè non necessita energia.

Dopo aver eliminato i due fosfati, viene creato il legame fosfodiesterico.

Il motivo per il quale il sistema fa uso di un RNA iniziale che viene


successivamente eliminato, si crede sia dovuto al mantenimento della corretta
informazione. L’introduzione del primo nucleotide utilizzando solo il meccanismo di
complementarietà tra le basi, senza avere nulla prima, è un meccanismo che può
anche essere causa di errori più frequenti.
4. La sintesi avviene in modo continuo sul filamento guida, discontinuo
sul filamento in ritardo

È importante immaginare che le forcelle di duplicazioni sono sempre 2 e che


quello che avviene in una, avviene contemporaneamente anche nell’altra (non in
maniera esattamente simmetrica, perchè dipende dall’orientamento dei filamenti).

La duplicazione del DNA avviene in


una maniera direzionale: l’attività
dell’enzima DNA polimerasi viene
definita in direzione 5’-3’. ll motivo
per il quale si muove solo in questa
direzione è perché durante la sintesi
attacca i nuovi nucleotidi al 3’ OH.
Conseguentemente, il filamento
stampo viene letto in direzione 3’-5’.

Via via che i due filamenti si aprono, nel lato del filamento stampo 3’-5’, la DNA
polimerasi (dopo essersi posizionata in fondo all’inizio 3’ del filamento) continuerà
a sintetizzare in direzione 5’-3’.

Dal lato in cui la direzione del filamento stampo è 5’-3’, la DNA polimerasi si
posiziona invece all’inizio della forca e sintetizza un breve frammento nella
direzione corretta 5’-3’; solo dopo che la forcella di replicazione si è ulteriormente
aperta, la DNA polimerasi si riposiziona all’inizio della forca e sintetizza un altro
breve frammento. Per fare ciò viene sintetizzato un primer ogni volta che la DNA
polimerasi si riposiziona. I brevi frammenti sintetizzati vengono chiamati
frammenti di Okazaki.

Un filamento viene quindi detto


continuo o anticipato (quello nel
quale la sintesi procede linearmente),
mentre l’altro filamento viene detto
discontinuo o ritardato.
5. Intervento della DNA ligasi: formazione dei legami fosfodiesterici tra i
frammenti di Okazaki

Ogni regione di RNA che si è costituita per


formare i primer, viene eliminata inizialmente
grazie all’azione di un enzima che è un
RNAasi H, che stacca via via i vari nucleotidi di
RNA. L’ultimo nucleotide viene invece eliminato
da un’altra DNA polimerasi batterica, la DNA
polimerasi I, che rompe il legame
fosfodiesterico tra l’ultimo nucleotide RNA
rimasto e il primo nucleotide di DNA.

Una volta rimossi i primer non può rimanere uno


spazio vuoto, per cui la stessa DNA polimerasi I
polimerizza il tratto di DNA mancante (non ha
difficoltà perché ha il 3’ OH del nucleotide
successivo a disposizione).

La DNA polimerasi I, dopo aver inserito l’ultimo


nucleotide, non è in grado di formare il legame fosfodiesterico tra l’ultimo
nucleotide da lei inserito e il primo nucleotide del frammento di Okazaki successivo
(sempre a causa del fatto che l’enzima è in grado solo di prendere nucleosidi
trifosfato e creare un legame fosfodiesterico al 3’ OH).

C’è quindi bisogno di un altro enzima, una DNA ligasi, che si occupa di formare
l’ultimo legame fosfodiesterico e di completare quindi la sintesi del filamento
ritardato.

RIASSUNTO ENZIMI COINVOLTI NEL PROCESSO


(la professoressa procede col riassumere l’intero processo. Sulle slide si trovano tutte le immagini
con i vari passaggi)
Quando la RNAasi H e la DNA polimerasi I rimuovono i primer, entra in gioco
l’attività esonucleasica citata nell’immagine soprastante.

Mentre l’attività polimerasica permette la polimerizzazione, le attività


esonucleasiche sono quelle di rimozione (rompono i legami fosfodiesterici ed
eliminano il nucleotide). Esse possono essere:

● 5’-3’, quando si può rimuovere il nucleotide partendo dall’estremità 5’


fosfato; essa viene utilizzata per la rimozione dei primer.

● 3’-5’, quando si può rimuovere il nucleotide partendo dall’estremità 3’ OH;


2/11/2023 Prof.ssa Francesca Magherini

Biologia Sbobinatore: Staffiere Giada

Lezione n. 12, seconda parte Revisore: Valeria Rossi

Come avviene questo meccanismo appena descritto nella pratica?

A questo punto rimane da capire come il meccanismo che abbiamo descritto avvenga
nella pratica.
Innanzitutto, bisogna chiarire che i due filamenti vengono duplicati in contemporanea;
infatti, il fatto che ci sia un filamento “in ritardo” non implica che esso rimanga indietro nella
duplicazione. L’immagine sottostante spiega come questo meccanismo, chiamato
modello a trombone della forca replicativa, possa avvenire. Sui due filamenti agiscono
in contemporanea due DNA polimerasi (rappresentate in rosa); una sul filamento continuo
e l’altra sul filamento ritardato. Affinché le due DNA polimerasi si muovano
contemporaneamente verso la forca di duplicazione, il filamento ritardato forma un’ansa
sulla quale la DNA polimerasi è libera di scorrere e di sintetizzare i frammenti di Okazaki, a
partire dagli inneschi sintetizzati, a loro volta, dalle primasi.

Questo meccanismo è possibile grazie ad un sistema complesso, recentemente chiarito.


È stato osservato che, nella pratica, agiscono 3 DNA polimerasi: una sul filamento
continuo e le altre due sul filamento ritardato, alternandosi su frammenti di Okazaki
consecutivi.

Questo sistema nel complesso è costituito da:


1. le tre DNA polimerasi (rappresentate in verde);
2. una struttura denominata posizionatore della
pinza;
3. una pinza scorrevole, che è una struttura
posta al livello del DNA, responsabile
dell’ancoraggio di quest’ultimo alla DNA
polimerasi.
Quindi, nella pratica, il posizionatore della pinza posiziona, a livello dei singoli filamenti, la
pinza che, a sua volta, si lega ad essi e vi ancora le DNA polimerasi.
(la prof.ssa chiarisce che non entreremo nei dettagli in quanto questo concetto verrà
chiarito durante le lezioni di Biologia molecolare)

Video consigliato per la visualizzazione del meccanismo di replicazione del DNA:


https://www.youtube.com/watch?v=0Ha9nppnwOc
Video consigliato sulle proteine coinvolte nel meccanismo:
https://www.youtube.com/watch?v=TMjwzTpmZwU

Video visualizzato a lezione sul modello a trombone della forca replicativa:


https://www.youtube.com/watch?v=QMX7IpME7X8

N.B. ciò che avviene in una forcella, avviene anche dalla parte opposta. L’unica differenza
è che nelle due diverse forcelle il filamento continuo e discontinuo sono opposti, ovvero:
quello che è il filamento continuo in una forcella sarà quello discontinuo per l’altra e quello
che è il filamento discontinuo per una forcella sarà quello continuo per l’altra.

L’immagine chiarisce
questo concetto

Tabella degli enzimi presenti durante la replicazione del DNA


In questa tabella sono elencate le DNA polimerasi dei procarioti e degli eucarioti.
Viene rappresentata la direzione della polimerizzazione (che è sempre 5’-3’) e dell’attività
esonucleasica (ovvero di rimozione di nucleotidi), la quale può essere sia in direzione 3’-5’
che in direzione 5’-3’.
Alcune DNA polimerasi possono procedere nell’attività di rimozione di nucleotidi in
entrambe le direzioni, altre sono in una.
- La DNA polimerasi I è un esempio di polimerasi che può svolgere l’attività
esonucleasica in entrambe le direzioni in quanto questa proteina è impegnata sia nella
rimozione dei primer, sia nel riempimento degli spazi vuoti lungo la sequenza
nucleotidica derivati, ad esempio, dalla rimozione dei primer.
- La DNA polimerasi II è un esempio di polimerasi che può svolgere l’attività
esonucleasica in un’unica direzione (3’-5’). Essa è implicata nella correzione degli
errori e nel riempimento dei gap, ovvero degli “spazi vuoti”.
- La DNA polimerasi III è il principale enzima che compie la polimerizzazione ed ha
un’unica attività esonucleasica in direzione 3’-5’ (rimozione a partire dal 3’), che è
quella della correzione delle bozze.

LA CORREZIONE DELLE BOZZE


L’attività di correzione delle bozze è uno dei tanti meccanismi che esistono di correzione
che possono agire in diverse situazioni; quando il DNA subisce mutazioni a causa di
agenti chimici o fisici, oppure durante la replicazione.
Nello specifico, la correzione delle bozze è un meccanismo intrinseco all’attività di
polimerizzazione della DNA polimerasi III, infatti entra in gioco quando essa ha posizionato
erroneamente un nucleotide, e permette, a partire da 3’, la rottura del legame
fosfodiesterico appena formato e la conseguente eliminazione di questo nucleotide.

Nonostante ciò, la DNA polimerasi III ha una probabilità molto bassa di compiere un
errore: si stima un errore ogni 109 nucleotidi
N.B. la probabilità non è zero, in quanto se non ci fossero errori, non esisterebbero le
mutazioni e quindi la selezione naturale non avrebbe modo di agire.

DNA EUCARIOTICO
Tutto quello che è stato detto fino ad ora, riguardava la duplicazione di un genoma
circolare.
La replicazione del DNA eucariotico avviene seguendo le medesime dinamiche ma,
essendo un genoma lineare, sorge un problema aggiuntivo che non è presente nei batteri.
Quando viene sintetizzato il DNA, a livello di una sua estremità viene posto un primer che
servirà da innesco per l’azione della DNA polimerasi; successivamente viene rimosso e,
essendo all’estremità del cromosoma e quindi non essendoci un’estremità 3’ libera, la
DNA polimerasi non può attaccarsi e polimerizzare il gap che rimane. Di conseguenza
rimarranno all’estremità dei singoli filamenti (vedi figura sottostante).
Questo problema nel caso del DNA circolare non si pone in quanto è un filamento
continuo e, anche quando l’innesco viene rimosso, prima di esso si trova un’estremità 3’
libera a cui la DNA polimerasi può attaccarsi.

Queste regioni corrispondono alle estremità fisiche dei cromosomi e vengono chiamate
telomeri.

I TELOMERI
I telomeri hanno un ruolo prettamente strutturale; contengono delle corte sequenze di DNA
altamente ripetute (circa migliaia di volte) e per questo non contengono un’informazione.
Per questo motivo, il fatto che in seguito ad ogni replicazione del DNA venga rimosso il
primer e, di conseguenza, accorciati i telomeri, non comporta delle problematiche. Infatti,
l’accorciamento dei telomeri è un processo fisiologico, correlato alla senescenza cellulare;
quando essi diventano troppo corti, la cellula viene indirizzata verso processi che ne
determinano la morte.
Vi sono però delle eccezioni che riguardano quelle cellule che non possono avere un
numero di replicazioni finito dettate dall’accorciamento dei telomeri, in quanto sono cellule
che si devono poter replicare in continuazione nel corso della vita dell’organismo.
Esempio di questi tipi di cellule sono: le cellule staminali e le cellule tumorali.
- le cellule staminali ad esempio quelle contenute nel midollo osseo e da cui derivano
tutte le cellule mature contenute nel sangue. Queste cellule non possono differenziarsi
e basta (e quindi accorciarsi in seguito ad ogni replicazione) in quanto devono poter
continuare a produrre nuove cellule. Per mantenere il pull della staminalità la cellula
staminale si replica seguendo una determinata modalità: delle due cellule figlie
derivanti dalla replicazione, una si differenzia e l’altra rimane staminale (e sarà questa
che continuerà questo meccanismo).
- le cellule tumorali le quali, grazie al mantenimento della lunghezza dei telomeri,
riescono a sfuggire dal meccanismo di senescenza cellulare.

Come fanno queste cellule ad impedire l’accorciamento dei telomeri?


Queste cellule contengono un enzima che viene detto telomerasi che è responsabile del
mantenimento della dimensione del telomero.
N.B. tutte le cellule contengono il gene per le telomerasi ma nella maggior parte di esse
questo gene è trascrizionalmente inattivo (non si esprime), nelle cellule tumorali si assiste
alla sua riattivazione.

AZIONE DELLA TELOMERASI


Abbiamo visto che, in seguito alla
replicazione, l’innesco viene
rimosso e rimane una regione di
DNA a singolo filamento.

A questo punto, interviene la telomerasi e il singolo filamento che termina con il 3’ viene
allungato (regione celeste).

In seguito, viene posizionato un nuovo primer al quale si attacca la DNA polimerasi che
sintetizza un filamento di DNA (complementare a quello già esistente), ristabilendo quindi
la regolare lunghezza del telomero.

A questo punto sorge un dubbio: come fa la telomerasi


ad allungare il filamento e a posizionare i nucleotidi
senza l’utilizzo di un primer?
In realtà la telomerasi non sintetizza il filamento dal
nulla ma è composta da 2 parti:
1. una è una proteina con funzione polimerasica
2. l’altra è una molecola di RNA che si trova
associata alla componente proteica e che
funziona da stampo per l’allungamento del
filamento. Questo è possibile perché la molecola
ha esattamente la sequenza telomerica ripetuta.

In conclusione, l’attività polimerasica della telomerasi è


resa possibile da questo stampo di RNA che, man
mano che il nuovo filamento viene sintetizzato, viene
fatto scorrere.

La telomerasi si differenza dalla DNA polimerasi, che


sintetizza un filamento di DNA partendo da un filamento
di DNA e dalla RNA polimerasi, che sintetizza un
filamento di RNA partendo da uno a DNA, in quanto essa sintetizza un filamneto di DNA
a partire da uno a RNA.
Essa, quindi dal punto di vista della sua attività enzimatica è una TRASCRITTASI
INVERSA.

Video per approfondire:


http://www.nature.com/news/2010/101128/full/news.2010.635.html
https://www.youtube.com/watch?v=vtXrehpCPEE

La Prof.ssa comunica che è necessario capire bene il meccanismo di replicazione del


DNA in quanto durante l’esame chiederà di disegnare questo processo.
07/11/2023 Proff.sa Magherini
Biologia Sbobinatori: Bianca Rivelli, Martina Vasconi
Lezione 13 Revisori: Sofia Mescoli, Lorenzo Perugini

LA DIVISIONE CELLULARE NEGLI


EUCARIOTI
IL CICLO CELLULARE
E’ il ciclo a cui la cellula va incontro durante la sua intera vita, esso è suddiviso in varie fasi:
• fase M: in cui avviene la mitosi o la meiosi (è la fase più breve in assoluto)
• fase G1 (G sta per “gap”): è una fase di accrescimento, di sintesi proteica e di risposta
agli stimoli che vengono dall’esterno (la cellula entra in questa fase appena termina la
fase M);
• fase S: in questa fase si ha la duplicazione del DNA (la cellula ci entra solo se sono
presenti determinati fattori);
• fase G2: si ha una volta terminata la fase S e qui la cellula controlla che la duplicazione
del DNA sia avvenuta senza errori. Se non ci sono errori, la cellula procede verso la
mitosi, altrimenti si arresta correggendo gli errori; in questa fase vengono anche
sintetizzate alcune proteine che servono nel processo della mitosi.
(tutte le fasi esclusa la fase M costituiscono l’interfase, le fasi più lunghe sono la G1 e la S).

Fase G0: non tutte le nostre cellule hanno bisogno di dividersi; cellule altamente differenziate
come le fibre muscolari o i neuroni non si dividono più, ciò vuol dire che sono uscite dal ciclo
cellulare, e sono quindi in una fase G0. In questa fase le cellule sono metabolicamente attive,
svolgono tutte le loro funzioni ma non sono soggette a tutti quegli stimoli che promuovono la
divisione cellulare. Questo avviene perché si sono talmente differenziate che non sono più
sensibili a certi meccanismi di regolazione che sono importanti per le cellule che sono in grado
di dividersi. Questo tipo di cellule, dunque, non si riproducono.
Nella fase G0 sono inoltre presenti le cellule staminali, ovvero quelle cellule che possono
essere sospese dal ciclo cellulare, ma in determinate condizioni hanno la possibilità di rientrare
nel ciclo e dividersi nuovamente; (ad esempio nel fegato ci sono delle cellule staminali epatiche
che sono quiescenti, ovvero si trovano in una fase G0, ma possono entrare nel ciclo cellulare
quando porzioni del fegato vengono asportate chirurgicamente; esse, rientrando nel ciclo, sono
in grado di rigenerare la porzione asportata).

Affinché la cellula si possa dividere in maniera adeguata esistono dei check point (o punti di
controllo): la cellula attiva dei meccanismi, nel mezzo delle fasi, che servono per controllare se
i processi effettuati fino a quel momento siano avvenuti in modo corretto (nel momento in cui la
cellula riscontra dei problemi arresta il suo avanzamento all’interno del ciclo cellulare).
I punti di controllo fondamentali sono:
• punto di restrizione (start): presente in tarda fase G1, controlla sia i fattori
ambientali sia i fattori interni alla cellula; infatti, controlla se sono presenti i fattori
di crescita, le dimensioni della cellula, se sono presenti i nutrienti e se sono
presenti danni al DNA. Superato questo punto la cellula entra nella fase S e
duplica il DNA.
• transizione G2-M: in questo check point situato in tarda fase G2 si controlla se la
duplicazione del DNA sia avvenuta correttamente. Se tutto procede
correttamente la cellula entra in mitosi.
• transizione anafase-metafase: è un punto di controllo all’interno della fase M,
siamo nel momento in cui i microtubuli sono attaccati ai cromosomi e questi ultimi
devono essere attratti ai poli opposti delle due cellule. Viene verificato che tutto
l’apparato del fuso sia stato correttamente posizionato in modo tale che la mitosi
possa andare avanti.

In tarda G2 c’è un meccanismo per il quale la cellula esce momentaneamente dal ciclo per
correggere danni al DNA, successivamente rientra nel ciclo.

Da un punto di vista molecolare ci sono due classi di proteine che regolano la progressione del
ciclo:

Le cicline: sono presenti all’interno della cellula in maniera selettiva e specifica per ogni fase
del ciclo; sono dunque proteine “fase-dipendente”, presenti solo in una fase specifica del ciclo
cellulare; vengono rapidamente degradate quando non servono.
Le chinasi dipendenti da cicline: svolgono una funzione enzimatica di fosforilazione, questa
funzione è regolata sia dal legame con le cicline, sia da eventi di fosforilazione (che possono
avere sia significato inibente che attivante) della chinasi stessa, che sono reversibili. Le chinasi
dipendenti da ciclina sono sempre presenti però vengono regolate, quindi non sono sempre
attive.

I complessi ciclina e chinasi dipendenti da cicline agiscono fosforilando dei substrati che
servono a progredire nel ciclo cellulare.

Esistono anche proteine che controllano negativamente la progressione del ciclo cellulare,
chiamate oncosoppressori. Generalmente la mutazione di queste proteine e la perdita della
loro funzione inibitoria è correlata alla progressione tumorale. Ad esempio, RB è una proteina
collegata al retinoblastoma, un tumore da cui prende il nome.
La deregolazione del ciclo cellulare, infatti, è strettamente collegata alla proliferazione
incontrollata e dunque alla generazione di tumori.
Nella fase S troviamo la ciclina A e la Cdk2; al termine della fase S la ciclina A viene degradata.
La ciclina B e la Cdk1 sono il complesso che regola la transizione tra la fase G2 e la fase
M. Questo complesso viene definito “fattore di regolazione della mitosi”, perché regola
la fase di transizione tra la tarda fase G2 e la fase M.
I livelli di ciclina B raggiungono un picco in tarda fase G2, la ciclina B si associa alla
Cdk1 e si forma un complesso attivo che ha vari ruoli:
-fosforilazione delle condensine, ovvero proteine che servono alla compattazione della
cromatina in cromosomi.
-fosforilazione dell’istone H1 che permette la condensazione della cromatina.
-fosforilazione delle lamine nucleari, le quali fanno parte della lamina nucleare; sono filamenti
intermedi che si disassemblano e che vengono degradati per permettere il processo della
mitosi.
-fosforilazione delle proteine dell’apparato del Golgi, il quale si frammenta in vescicole più
piccole da cui poi si rigenererà tutto l’apparato del Golgi successivamente.
-fosforilazione di componenti del citoscheletro e di proteine del centrosoma per promuovere la
formazione del fuso.

LA MITOSI
La mitosi è un meccanismo di divisione cellulare in cui una cellula produce due cellule figlie
esattamente identiche alla cellula madre.
Un punto fondamentale nella mitosi è la condensazione della cromatina, che avviene mediante
condensine, proteine che servono a formare strutture estremamente compatte.

I cromosomi che osserviamo durante la mitosi sono costituiti da due cromatidi fratelli uniti
da una regione centrale, ovvero il centromero. I cromatidi fratelli contengono copie identiche
delle molecole di DNA che si sono duplicate. Nella regione di attacco dei microtubuli vi è una
placca ricca di proteine chiamata cinetocore, quest’ultimo si trova in prossimità del
centromero.
Circa 20 microtubuli prendono contatto con ciascun cinetocore.

I Microtubuli si originano dal centro di organizzazione dei microtubuli, dove ci sono anche i
due centrioli che vengono duplicati prima della mitosi (anche se la presenza dei centrioli non è
necessaria al fine della formazione dei microtubuli del fuso mitotico).
I microtubuli hanno un ruolo fondamentale durante la mitosi; esistono numerose sostanze che
possono agire sul grado di polimerizzazione e depolimerizzazione dei microtubuli durante la
mitosi, alcune di queste sostanze sono anche agenti antitumorali, in grado di bloccare il ciclo
cellulare (sono chiamati composti taxani, derivano da una pianta, che è il tasso).
Ci sono diversi tipi di microtubuli:
• i microtubuli del cinetocore, i quali legano direttamente i cromosomi;
• i microtubuli interpolari, che sono connessi tra di loro (leggermente sovrapposti), servono
a spingere i due poli della cellula in direzioni opposte.
• i microtubuli astrali, che connettono i centrosomi ai filamenti di actina che costituiscono
il cortex.
Il trascinamento dei cromosomi avviene tramite la depolimerizzazione del microtubulo legato al
centromero, ma essi, rimanendo comunque collegati ai cromatidi stessi, li trainano ai due poli
opposti della cellula.
La cosa opposta avviene a livello dei microtubuli polari, qui le estremità si allungano mentre ci
sono dei meccanoenzimi, che sono chinesine mitotiche che (sulla base di degradazione di ATP
determinano scorrimenti o movimenti) li fanno scorrere gli uni sugli altri. Però visto che ad essi
vengono aggiunte unità di tubulina, i microtubuli rimangono sempre parzialmente sovrammessi
e scorrono, questo spinge i poli opposti della cellula ad allontanarsi.
LE FASI DELLA MITOSI:
• Nella profase l’evento più importante è la disgregazione dell’involucro nucleare, inizia
inoltre la formazione dei microtubuli che poi prendono contatto con le regioni del
cinetocore.
• Nella metafase tutti i cromosomi sono allineati nel piano equatoriale della cellula, i centri
di organizzazione dei microtubuli sono ai poli opposti, l’involucro nucleare non è più
presente.
• Nell’anafase avvengono gli eventi di separazione dei cromatidi fratelli, che migrano ai
poli opposti della cellula. L’anafase è distinta in 2 momenti: l’anafase A in cui si
degradano delle proteine chiamate coesine, le quali tengono uniti i cromatidi fratelli; e
l’anafase B, la fase in cui si allontanano i cromatidi fratelli.
• Nella telofase e citodieresi abbiamo i cromatidi fratelli completamente separati, in questa
fase si forma un anello di actina e miosina che permette la formazione di una strozzatura
tra le due cellule, e in questo modo si generano le due cellule figlie complete.
MEIOSI

La meiosi fa parte dei meccanismi di riproduzione sessuata che prevede sia la


generazione dei gameti (cellule aploidi -n-), sia l’incontro di gameti di tipo diverso
per la formazione dello zigote -2n-, e quindi di un nuovo individuo.
La meiosi non avviene in tutte le cellule dell’organismo, ma avviene all’interno
delle gonadi e genera rispettivamente gli spermatozoi nell’uomo e le cellule uovo
nella donna.

Il Corredo cromosomico umano è diploide: formato da 23 coppie di cromosomi, di


cui 22 sono di autosomi (cromosomi morfologicamente identici all’interno della
coppia) ed una è di cromosomi sessuali (morfologicamente diversi tra di loro),
responsabile della determinazione del sesso dell’individuo, che sarà
rispettivamente femmina, nel caso in cui i cromosomi siano XX e maschio, nel caso
in cui siano XY.

I geni sono delle regioni del genoma (costituiti da DNA), composti da sequenze
trascritte e regolatorie, che regolano la sua trascrizione e che portano le
informazioni dei caratteri ereditari degli organismi viventi.
Ogni gene sul cromosoma si trova sul locus genico.

Allele: due o più forme alternative di un gene che occupano la stessa posizione
su cromosomi omologhi e che controllano varianti dello stesso carattere.

Per uno stesso gene gli organismi possono essere omozigoti se i due alleli sono
identici o eterozigoti se i due alleli sono diversi.
Differenza tra cromatidi fratelli e cromosomi omologhi:
• cromatidi fratelli contengono esattamente gli stessi alleli. sono identici
perché derivano dalla duplicazione del DNA.

• Cromosomi omologhi contengono gli stessi geni, ma non necessariamente gli


stessi alleli. Quindi da un punto di vista della sequenza del DNA non sono
necessariamente uguali.

Nella meiosi assistiamo a divisioni del patrimonio genetico e della cellula stessa che
però non prevedono un’ulteriore duplicazione di DNA (che si è duplicato solamente
una volta all’inizio). Per questo motivo, da un corredo aploide noi otterremo un
corredo aploide.
MEIOSI I:

Nella prima divisione meiotica avviene la separazione dei cromosomi omologhi.

La coppia di cromosomi omologhi durante la meiosi 1 viene tenuta assieme da un


complesso sinaptinemale o sinaptonemico che è un complesso di proteine. È importante
che la coppia di cromosomi omologhi sia tenuta vicina perchè nella meiosi si realizza
anche un processo di variabilità genetica (che non dipende esclusivamente dall’incontro
dei gameti, ma anche da due eventi che si verificano durante la meiosi: il crossing over
(che avviene nella profase della prima divisione meiotica) e l’assortimento indipendente.
I cromatidi fratelli rimangono uniti per il centromero ed i cromosomi omologhi vengono
trainati nelle parti opposte della cellula. Si genereranno 2 cellule figlie con un solo
rappresentante per coppia costituito a sua volta da 2 cromatidi fratelli (la separazione
di questi avverrà nella meiosi II).

MEIOSI II:
nella seconda si separano i cromatidi fratelli (ricorda la mitosi).
Il crossing over.

E’ un fenomeno di scambio di materiale genetico a livello dei cromosomi omologhi


durante la profase I.
Avviene un evento di taglio e di ricongiungimento tra i cromatidi non fratelli appartenenti
a due cromosomi omologhi. Il punto dove avviene questo incontro si chiama
CHIASMA. Gli eventi di crossing-over al massimo sono 3 per coppia di cromosomi
omologhi.

Al termine dello scambio abbiamo:

• cromatidi parentali che mantengono le stesse combinazioni alleliche dei cromosomi


originali;
• cromatidi ricombinanti che manifestano delle combinazioni alliliche nuove, differenti
da quelle dei cromosomi omologhi originali.

L’ assortimento indipendente.

E’ un fenomeno responsabile di un’elevata variabilità genetica e dipende dalla


distribuzione della coppia dei cromosomi omologhi durante la meiosi I..
Durante la metafase della meiosi I, i cromosomi omologhi di ogni coppia si
possono distribuire in due modi differenti:
• i cromosomi omologhi di origine materna stanno da una parte e quelli di origine
paterna da un’altra
• è scambiato il modo in cui si posiziona la coppia di cromosomi omologhi
ANOMALIE CROMOSOMICHE

Ci sono numerose anomalie che riguardano la struttura dei cromosomi ed anomalie


che riguardano il numero di essi. Queste anomalie sono dette ANEUPLOIDIE
(corredo cromosomico numericamente differente dalla normalità).
Questo perché ci può essere un cromosoma in più, nel caso della trisomia, o un
cromosoma in meno, nel caso della monosomia.
Monosomia e trisomia sono molto rare nella nostra specie, perchè l’altura ione del
numero di cromosomi è un evento talmente grave che generalmente causa aborti
spontanei, dunque ci sono pochissimi individui che nascono con codeste anomalie .
Qualsiasi trisomia o mono sia che sia presente è dovuta ad un evento molecolare che
non ha funzionato a livello della meiosi e dipende da un evento di non
disgiunzione. Cromosomi omologhi o cromatidi fratelli non si separano correttamente e
migrano dalla stessa parte della cellula. ( a seconda che l’alterazione avvenga a livello
della meiosi I o II).

Un’altra condizione che si può verificare è quella del LAG ANAFASICO, in questo caso,
per un mal funzionamento del fuso mitotico, un cromosoma non viene trascinato
correttamente dalle fibre del fuso e quindi rimane un po’’ indietro. Può quindi accadere
che questo cromosoma durante la divisione cellulare venga perso.

TRISOMIA 21: SINDROME DI DOWN 47 cromosomi. A livello della coppia 21 c’è un


cromosoma in più. Evento dovuto ad un fenomeno di non disgiunzione materna (durante
la prima divisione meiotica).
Esiste inoltre una correlazione tra l’età della madre e l’insorgenza di queste anomalie
cromosomiche: la possibilità di concepire un figlio affetto da trisomia 21 dopo i 35 anni
aumenta esponenzialmente.
si pensa che sia dovuto al fatto che le cellule uovo rimangono per molto tempo in uno
stato di sospensione della meiosi. Questo stato di sospensione può alterare
i meccanismi di generazione del fuso mitotico,
predisponendo maggiormente ad una scorretta migrazione dei cromosomi.

TRISOMIA 18 E TRISOMIA 13: SINDROME DI EDWARDS E DI PATAU


Sono molto gravi. Generalmente vengono abortite naturalmente, ma se questo
non avviene i bambini muoiono dopo i primissimi anni di età.
Alterazione del numero di cromosomi legati ai cromosomi sessuali:
X0= SINDROME DI TURNER. Rappresenta l’unica monosomia compatibile con la vita
dell’uomo. (non esiste individuo che sia in vita avendo un solo rappresentante cromosomico
per gli autosomi). Vi è un unico cromosoma X, l’altro è assente. le persone affette da questa
sindrome sono dotate di intelligenza normale, sono sterili ed hanno una serie di
problematiche dovute al fatto che sono in una sorta di menopausa precoce, non hanno
estrogeni. (Questo aspetto è interessante in quanto nelle donne si dice che uno dei
cromosomi X sia inattivato, in quanto molto condensato - visibile come “corpo di Barr”-.
Tuttavia, questa non è un’inattivazione completa.)
XY= SINDROME DI KLINFELTER.
Persone sterili con basso livello di testosterone. La presenza di un cromosoma x in più
causa dismorfismo.
TRISOMIA XYY e TRISOMIA XXX
Nessuna alterazione e nessuna correlazione con fertilità e normale vita sotto ogni punto di
vista. Spesso le persone non se ne rendono nemmeno conto a meno che non si
sottopongono a esami specifici di cariotipo.

LEGGI DI MENDEL
Mendel, senza avere idea di cosa fosse la mitosi e la meiosi (non ancora osservate), capì ed
intuì che il trasferimento delle informazioni da un organismo ad un altro era controllato da unità
discrete che oggi chiamiamo geni.
(Scoperta rivoluzionaria, in quanto prima si pensava avvenisse una sorta di
rimescolamento delle informazioni materna e paterna e che l’ereditarietà non fosse correlata
ai geni). Egli usava linee pure per un determinato carattere (omozigoti per un certo carattere)
che lui aveva ottenuto incrociando lo stesso tipo parecchie volte.
Spesso usava metodo di autofecondazione, in modo da essere certo di incrociare
individui che per quel determinato carattere erano identici.
Lavorava su grandi numeri (i suoi risultati avevano una rilevanza che oggi possiamo
definire statistica)
Lui prese varie linee pure che differivano per un carattere e poi fece moltissimi incroci. aveva
nei suoi esperimenti trovato dei caratteri che stanno tra di loro in rapporto di dominanza
recessività. La generazione F1, cioè la prima generazione filiale, era tutta identica
e presentava il carattere dominante. Gli individui della F1 erano tutti individui eterozigoti
che venivano incrociati tra di loro per ottenere la generazione F2, dove ricompariva il
carattere recessivo.
Data:14/11/2023 Prof.ssa: Francesca Magherini
Materia: Biologia Sbobinatori: V. Marsicano – M. Radino
Lezione n°: 14 parte prima Revisori: G.Musio - R.Orlando

TRASCRIZIONE e MATURAZIONE DEGLI RNA


La duplicazione coinvolge l’intera molecola del DNA, mentre la trascrizione ne coinvolge
solo una parte. Essa è rappresentata da quella piccola percentuale che nella nostra specie
è circa l’1,5%. A seconda del tipo cellulare, non tutti i geni verranno trascritti
temporaneamente perché durante il differenziamento cellulare, all’interno della cellula,
alcuni geni vengono silenziati, ovvero, la loro espressione viene spenta per sempre,
mentre altri continuano ad esprimersi. Altri ancora avranno una espressione che è
condizionata dall’ambiente, per cui alcune volte potranno essere espressi e altre no. Nella
trascrizione noi distinguiamo 3 fasi:
• fase di inizio
• fase di allungamento
• fase di terminazione

Il punto fondamentale di questo processo è rappresentato dal riconoscimento della


regione al livello del DNA che deve essere trascritto.
Domanda: dato che il genoma è molto grande, com’è che viene individuata la regione
dove c’è il gene che deve essere trascritto?
Risposta: sia nei procarioti che negli eucarioti le sequenze da trascrivere sono individuate
poiché nel DNA troviamo delle sequenze specifiche che prendono il nome di promotori
che sono le sequenze che vengono riconosciute dall’RNA polimerasi, l’enzima chiave
responsabile della trascrizione. Il riconoscimento di queste sequenze promotrici permette
di individuare esattamente cosa deve essere trascritto.
L’RNA polimerasi ha tutte le caratteristiche tipiche delle polimerasi ovvero, si muove lungo
il filamento che deve essere copiato in direzione 3’ → 5’ (come la DNA polimerasi) e
trascrive in direzione 5’→3’. 5’ e 3’ indicano le due estremità del DNA o RNA. La direzione
5’→3’ vuol dire che l’RNA polimerasi, si muove verso il 3’, ossia aggiunge nuovi nucleotidi
al 3’ ossidrile di un nucleotide. Quindi il filamento di DNA si aprirà e poi l’RNA polimerasi
procederà come la DNA polimerasi. I substrati sono i nucleosidi trifosfato ovvero, i
nucleosidi in cui sono presenti 3 fosfati legati: due vengono rimossi, il terzo è quello che
viene utilizzato per formare il legame fosfodiesterico nelle molecole di RNA. Poiché si
tratta di RNA, i nucleotidi che verranno utilizzati, conterranno il ribosio al posto del
desossiribosio e l’uracile al posto della timina. Invece la modalità con cui avviene il
legame fosfodiesterico è simile. Le RNA polimerasi a differenza delle DNA polimerasi non
necessitano di un primer, quindi, una volta individuato il sito promotore, potranno iniziare a
trascrivere l’RNA copiando il filamento di DNA senza la necessità di una sequenza
promotrice come il primer o innesco come nel caso della DNA polimerasi.

La trascrizione nei procarioti

Nei procarioti esiste un’unica RNA polimerasi costituita da diverse subunità:


• subunità α
• subunità β
• subunità ω
Esiste poi un’ulteriore subunità che è la subunità σ che è la subunità responsabile del
legame con il promotore. Quindi la subunità σ legherà il promotore e a quel punto si
assocerà il complesso dell’RNA polimerasi.
Mentre nella duplicazione entrambi i filamenti vengono copiati, l’RNA è un filamento
singolo che deriva dalla copia di uno solo dei due filamenti del DNA. Il filamento che viene
copiato viene detto filamento stampo e fornisce la sequenza di nucleotidi che dovrà
essere copiata. L’altro filamento è detto filamento codificante che è di fatto quello che
avrà la stessa sequenza dell’RNA ad eccezione dell’uracile al posto della timina.
Il promotore si trova a monte del sito di inizio vero e proprio della trascrizione. Il sito di
inizio della trascrizione viene per convenzione indicato con +1. Le basi a monte del sito di
inizio di trascrizione avranno un “–” davanti, mentre le basi che si trovano a valle, cioè
dopo il sito di inizio di trascrizione, verranno indicate con un “+”.
Esempio: se una sequenza è posta a -10 paia di basi dal sito di inizio della trascrizione,
vuol dire che dal sito +1 bisogna contare fino ad arrivare a -10.
Non esiste un punto 0 per convenzione. Il primo nucleotide che viene trascritto, cioè che
viene copiato in RNA, è il nucleotide +1. I promotori dei batteri si somigliano molto tra loro,
sono tutti caratterizzati da due sequenze:
• sequenza -10 di circa 6 paia di basi che si chiama pribnow box ed è una
sequenza ricca di adenina e timina
• sequenza -35
Le sequenze -35 e -10 sono molto conservate, cioè tutti i promotori possiedono quasi
esattamente la stessa sequenza, mentre i nucleotidi presenti tra le regioni dei promotori
sono ininfluenti; la cosa importante è che sia mantenuta la distanza -10 e -35.
Le sequenze promotrici vengono sempre indicate considerando il filamento codificante e,
per ogni gene, soltanto uno dei due filamenti è codificante. Se si utilizza come stampo il
filamento complementare, la sequenza dell’RNA sarà diversa. Per ogni gene, uno dei due
filamenti funziona da stampo.

Inizio della polimerizzazione a valle del promotore


Nell’RNA polimerasi le subunità α e β sono sempre le stesse ma, esistono nei batteri
numerose subunità σ. Queste subunità σ servono a riconoscere promotori diversi e quindi
a garantire un’espressione genica diversificata a seconda delle condizioni. È un
meccanismo di regolazione della trascrizione. Se alcuni geni vengono riconosciuti da un
tipo di subunità σ, ad esempio quelli sensibili agli shock termici, vengono attivati quei geni
della risposta allo shock termico. Quindi la subunità σ permette di ottenere una
trascrizione differenziale.
Una volta che si è legata la subunità σ, si lega L’RNA polimerasi e la trascrizione ha inizio.
Dopo pochi nucleotidi trascritti, la subunità σ viene rilasciata, cioè, la subunità σ non
procede nella trascrizione insieme all’RNA polimerasi.
Allungamento

Man mano che l’RNA polimerasi procede, il DNA si apre per circa 15 nucleotidi in modo da
permettere il passaggio dell’RNA polimerasi e la trascrizione del DNA in RNA. La direzione
della trascrizione è sempre 5’→3’, cioè i nuovi nucleotidi vengono aggiunti al 3’ ossidrile
del filamento in via di sintesi e l’RNA polimerasi si muove lungo il filamento stampo in
direzione 3’→5’ del filamento stesso. Si forma temporaneamente un ibrido DNA-RNA per
circa 6 basi. In questa fase c’è una complementarità tra le basi dell’RNA e del DNA che
rimangono temporaneamente legate tra di loro mediante legami idrogeno. Man mano che
l’RNA polimerasi procede vengono incorporati nuovi nucleotidi. L’RNA in via di sintesi esce
dalla bolla di trascrizione e l’RNA polimerasi procede in direzione 3’→5’ in modo tale da
trascrivere il filamento di DNA.

Terminazione
Ad un certo punto la trascrizione dovrà finire. Nei procarioti si riconoscono due processi di
terminazione:
• terminazione ρ dipendente, cioè dipendente da un fattore ρ che è una proteina
• trascrizione ρ indipendente
Nella trascrizione ρ indipendente, al livello del DNA, nella regione in cui la trascrizione
deve terminare, sono presenti delle sequenze ripetute e invertite, che sono dette
palindromiche.

Esempio: nell’immagine è rappresentata una sequenza palindroma. I primi due nucleotidi


(TT) sono complementari agli ultimi due (AA). Il terzo nucleotide (A) è complementare al
dodicesimo (T), il quarto nucleotide (G) è complementare all’undicesimo (C) e così via.
Le sequenze palindromiche o palindrome possono dare origine a delle strutture di
appaiamento perché, se vengono ripiegate in punti specifici, le sequenze nucleotidiche si
possono accoppiare.
Nel DNA si trovano delle sequenze palindromiche che, quando vengono trascritte
nell’RNA, determinano la formazione di strutture a forcina, che dipendono dalla
formazione di legami a idrogeno tra le sequenze palindromiche. Si può formare un loop
quando le basi non sono appaiate dato che le sequenze non sono palindromiche.
Quindi se si inseriscono delle basi non palindrome in una sequenza palindromica si ottiene
una struttura simile all’immagine sopra.

Nella terminazione ρ indipendente ci sono delle sequenze palindromiche ricche di guanina


e citosina che formano 3 legami a idrogeno e rendono la struttura molto stabile. Inoltre,
questa struttura a forcina è sempre seguita da una sequenza ricca di nucleotidi contenente
uracile. La formazione di questa struttura a forcina determina una destabilizzazione del
legame dell’RNA polimerasi al DNA e favorisce il distacco sia dell’RNA polimerasi che
dell’RNA neosintetizzato. La struttura a forcina è responsabile della terminazione stessa.

Nella terminazione ρ dipendente c’è la struttura a forcina ma presenta un numero minore


di guanine e citosine, quindi è una struttura meno stabile. Inoltre, non presenta la
sequenza ricca di uracili (sequenza che, se fosse stata presente, probabilmente, a questo
livello, avrebbe ulteriormente destabilizzato il legame, essendo costituito solo da due
legami a idrogeno e ne avrebbe favorito il distacco).
Nella terminazione ρ dipendente è stato osservato che l’RNA polimerasi che si è legata al
promotore e procede lungo la trascrizione del gene di interesse, viene seguita man mano
che avanza, da una piccola proteina ρ, ATP dipendente, costituita da sei subunità
(esamerica). Quando la proteina ρ si troverà in prossimità delle strutture a forcina, si avrà
la terminazione, cioè, promuoverà il distacco dell’RNA e dell’RNA polimerasi.
L’RNA polimerasi a differenza del DNA polimerasi non ha un meccanismo di correzione
delle bozze per cui può introdurre più errori rispetto alla DNA polimerasi. Un errore
causato dall’RNA polimerasi non è così grave come un errore causato dalla DNA
polimerasi perché nel caso dell’RNA, se l’RNA polimerasi, in un’ora di tempo, trascrive un
determinato gene 70 volte, è possibile avere uno dei prodotti di trascrizione con una
mutazione (o alterato), ma gli altri prodotti saranno funzionanti e potranno codificare per
proteine funzionali. Viceversa, un errore del DNA polimerasi è un errore che viene scritto
nel DNA, quindi nel patrimonio genetico della cellula, per cui quel gene che porta quella
mutazione poi servirà da stampo per tanti RNA che porteranno quella mutazione. Quindi il
fatto che l’RNA polimerasi non sia in grado di correggere gli errori non è fondamentale
perché, se ogni tanto sbaglia, siccome i prodotti dell’RNA polimerasi, per ogni gene, sono
centinaia di proteine dello stesso tipo, se qualcuna di queste non funziona non fa nulla.
Nei procarioti trascrizione e traduzione sono contemporanee

Nei procarioti trascrizione e traduzione avvengono in maniera quasi contemporanea. Man


mano che l’RNA inizia a fuoriuscire dalla bolla di trascrizione, viene immediatamente
catturato dai ribosomi e tradotti in proteine. Questo accade per l’RNA messaggero perché
nei batteri e nei procarioti non c’è una divisione spaziale tra il nucleo e il citoplasma e di
conseguenza non c’è neppure una divisione temporale netta tra la trascrizione e la
traduzione (cosa che accade diversamente per le cellule eucariotiche dove la trascrizione
avviene nel nucleo e la traduzione avviene nel citoplasma). La traduzione avviene prima
che la trascrizione sia terminata. Nei procarioti la traduzione è un processo co-
trascrizionale, che va di pari passo con la trascrizione.

Per ogni gene, un filamento funziona da stampo e l’altro invece sarà il filamento
codificante. Questo non vuol dire che dei due filamenti che compongono la doppia elica
del DNA, uno sia per tutti i geni quello codificante e l’altro sia per tutti i geni quello stampo.
A seconda del gene, il filamento codificante potrà essere o l’uno o l’altro. Nell’immagine
qui sopra si può vedere quale è il filamento stampo usato per il trascritto (rosa), il
promotore situato correttamente sul filamento codificante e la trascrizione avverrà da
destra a sinistra. Invece per un altro gene, il filamento codificante è quello viola.
L’importante è rispettare la direzione della trascrizione. Quando viene utilizzato l’altro
filamento, la direzione in cui si muove l’RNA polimerasi sarà opposta al caso precedente
perché la lettura del filamento codificante va sempre da 3’ → 5’, la trascrizione va da 5’ →
3’.

Trascrizione negli Eucarioti


Negli eucarioti si trova un numero maggiore di RNA polimerasi, per l’esattezza 5 e sono:
• 3 RNA polimerasi che agiscono e lavorano nel nucleo:
o RNA polimerasi I
o RNA polimerasi II
o RNA polimerasi III
• RNA polimerasi mitocondriale (cioè, lavora nel mitocondrio)
• RNA polimerasi del cloroplasto
(mitocondri e cloroplasti contengono un loro genoma, un loro corredo di RNA di
trasferimento e di ribosomi e quindi dovranno avere anche un apparato per la duplicazione
del loro genoma e per la trascrizione)
Le RNA polimerasi nucleari hanno una selettività, cioè ciascuna di esse è dedicata a un
particolare tipo di trascritto.
L’RNA polimerasi I trascrive un RNA di 45S che è il precursore degli RNA ribosomiali
28S, 18S, 5.8S. Questi RNA ribosomiali derivano da un unico trascritto che subisce una
serie di tagli.
L’RNA polimerasi II è stata molto studiata, perché è l’RNA polimerasi che trascrive gli
RNA messaggeri, cioè quelli che saranno poi tradotti in proteine. Per cui trascriverà:
• gli mRNA (messaggeri)
• piccoli RNA
o snRNA (small nuclear RNA)
o snoRNA (small nucleolar RNA)
• microRNA, sono degli RNA coinvolti nella regolazione della traduzione
• RNA dell’enzima telomerasi, la componente a RNA della telomerasi
L’RNA polimerasi III trascrive:
• tutti i tRNA, cioè gli RNA di trasferimento
• RNA 5S che non è trascritta dall’RNA polimerasi I
• scRNA, cioè un piccolo RNA citosolico
• altri piccoli RNA
Ne esistono anche altri: recentemente sono stati scoperti i long non-coding RNA.
Vengono trascritti da questo insieme di polimerasi nucleari.
PROMOTORI
Negli eucarioti esistono promotori diversificati e più complessi. Ogni RNA polimerasi ha un
promotore caratteristico, un promotore che permette il riconoscimento specifico di una
delle 3 RNA polimerasi. Se si hanno dei geni per l’RNA ribosomiali, questi saranno
preceduti da dei promotori che vengono riconosciuti dall’RNA polimerasi I. Inoltre, sono
presenti dei fattori di trascrizione che sono fattori di natura proteica indispensabili
affinché l’RNA polimerasi possa riconoscere il promotore. È un po’ come il fattore σ (è una
proteina che si lega ai promotori e permette l’aggancio dell’RNA polimerasi). Negli
eucarioti esiste un complesso di fattori chiamati fattori di trascrizione generali specifici
per ogni tipo di RNA polimerasi che, legandosi al promotore, permettono anche il legame
dell’RNA polimerasi.

Nel caso dell’RNA polimerasi I, viene indicato il sito +1 che si trova all’interno di una
sequenza conservata, cioè, tutti i promotori dell’RNA polimerasi I hanno intorno al sito di
inizio di trascrizione, gli stessi nucleotidi o quasi sempre gli stessi. A monte c’è un
elemento di controllo a monte (UCE), “U” sta per upstream, è sempre situato nella
posizione tra -107 e -180 (le posizioni sono importanti per il riconoscimento da parte dei
fattori di trascrizione).

Nell’RNA polimerasi II non sono sempre tutti presenti gli elementi evidenziati nella figura
sopra (cioè BRE, TATA BOX, Inr, DPE). I promotori che presentano il TATA BOX non
presentono il DPE, (“D” sta per downstream, cioè a valle) e viceversa. Il sito di inizio della
trascrizione è generalmente affiancato da delle regioni ricche Py, cioè di pirimidine. A valle
del TATA BOX ci può essere una regione chiamata BRE, che è una ragione responsabile
del legame di un fattore di trascrizione importante. Tutta questa regione che è stata
descritta, che va dal BRE al DPE, si chiama promotore basale o promotore core. Indica
la regione minima indispensabile affinché la trascrizione possa avvenire. Se c’è questa
regione, l’RNA polimerasi si può legare tramite i suoi fattori di trascrizione e la trascrizione
può avvenire.
Questo non dice niente su quanto il promotore è facilmente riconosciuto dall’RNA
polimerasi e quindi quanto quel gene viene tradotto. L’RNA polimerasi si muove sempre
con la stessa velocità perché ha una processività intrinseca, polimerizza un certo numero
di nucleotidi nell’unità di tempo. Quello che dice che un gene è tanto espresso rispetto a
un gene poco espresso è con quanta facilità l’RNA polimerasi può riconoscere quel
promotore e quindi può trascrivere quel gene. Per cui, oltre ai promotori basali che
permettono in riconoscimento basale da parte dell’RNA polimerasi, cioè una trascrizione a
livello basale, ci sono degli elementi prossimali (per convenzione si trovano entro le 200
paia di basi a monte del sito di inizio) e degli elementi distali che, legandosi a fattori
regolativi, promuovono il legame dei fattori di trascrizione generali e facilitano il legame
dell’RNA polimerasi. In questo modo può avvenire una regolazione della trascrizione, cioè
rispetto al livello basale verrà facilitato il riconoscimento del promotore e
conseguentemente aumenterà il livello di trascrizione di un determinato gene, o viceversa
lo inibirà.

Nei promotori dell’RNA polimerasi il sito di inizio +1 si trova prima della sequenza che
viene riconosciuta dai fattori di trascrizione e dall’RNA polimerasi. Le sequenze
riconosciute sono il BOX A e il BOX B, per quanto riguarda i geni per il tRNA e il BOX A e
il BOX C per quanto riguarda i geni per l’RNA ribosomiale 5S (l’unico che era rimasto
fuori dai geni ribosomiali trascritti dall’RNA polimerasi I). Il fatto che siano a valle non è un
problema perché il complesso dei fattori di trascrizione dell’RNA polimerasi è molto grosso
e abbraccia un’ampia regione quando si lega al livello dell’RNA.
In questa immagine sono rappresentati dei fattori di trascrizione dell’RNA polimerasi II.
Queste regioni sono riconosciute da una serie di fattori di trascrizione che si legano in
sequenza. Il primo a legarsi è il TFIID, che contiene a sua volta al suo interno una
proteina, la TATA binding protein che è una proteina che lega la TATA BOX. Poi
progressivamente si legano tutti gli altri fattori. L’ultimo che si lega è il TFIIH. È
particolarmente importante perché questo fattore di trascrizione possiede sia un’attività
elicasica, cioè, permette di aprire la doppia elica del DNA, sia un’attività chinasica, cioè di
fosforilazione.
Successivamente si lega anche l’RNA polimerasi. L’RNA polimerasi II possiede nella
regione carbossi terminale un dominio, una regione che viene fosforilata dall’attività
chinasica del TFIIH e ciò rappresenta il segnale che dà il via alla trascrizione stessa.
Questo dominio carbossi terminale è importante perché durante la trascrizione verrà
ulteriormente fosforilato e questo sarà utile per il reclutamento di quei fattori che
serviranno per le maturazioni degli RNA, in particolar modo degli RNA messaggeri.
Data: 14/11/23 Prof.ssa Francesca Magherini

Materia: Biologia Sbobinatori: V. Marsicano - M. Radino

Lezione n°14 parte seconda Revisori: G. Musio – R. Orlando

FATTORI DI TRASCRIZIONE SPECIFICI


Oltre ai fattori generali di trascrizione, sempre presenti e indispensabili per far avvenire il
legame con l’RNA polimerasi, esistono anche dei fattori di trascrizione specifici.

I fattori di trascrizione specifici si legano selettivamente a regioni regolative di determinati


geni, attivando la trascrizione di alcuni di questi geni invece che di altri.
Spesso un gene è regolato mediante l’attacco di molteplici fattori di trascrizione
specifici in più regioni regolative.
In particolare questi fattori possono legarsi:
-sul promotore
-sull’enhancer

Gli enhancer e i silencer sono elementi di regolazione distali, presenti quindi oltre le 200
basi dal sito di inizio della trascrizione.
Gli enhancer intensificano la trascrizione, i silencer la inibiscono.
La loro caratteristica è che cooperano alla trascrizione di un gene anche ad elevate
distanze da quest’ultimo.

Come riescono ad agire nonostante la lontananza? L’ipotesi più accreditata è che un


fattore di trascrizione specifico (come una proteina) si leghi all’enhancer/silencer
determinando una modificazione della struttura del DNA e il conseguente legame ai fattori
di trascrizione generale.
Se il legame avviene tra enhancer e i fattori di trascrizione generale, sarà promosso il
legame dell’RNA polimerasi e di conseguenza la trascrizione verrà intensificata; se invece
avviene tra silencer e i fattori di trascrizione generale, la trascrizione verrà inibita.
L’allungamento avviene con la stessa modalità dei procarioti.

TERMINAZIONE DELLA TRASCRIZIONE NEGLI EUCARIOTI


La professoressa si concentra sulla terminazione della trascrizione dell’RNA polimerasi II:

Nella regione di RNA in cui deve terminare


la trascrizione vi è una sequenza segnale
ricca di adenine (sequenza di
poliadenilazione), che determina a poche
basi a valle dalla sequenza stessa un
taglio. Al taglio segue una
poliadenilazione, con aggiunta di una serie
di nucleotidi contenenti adenina,
all’estremità 3’.
Il segmento di RNA rimasto legato all’RNA
polimerasi, dopo che quest’ultima si
stacca, viene degradato, perché non
possiede le sequenze di protezione
caratteristiche dell’mRNA maturo, come la
poliadenilazione stessa.

L’RNA presenta anche una regione carbossi-terminale, che viene fosforilata una prima
volta dal fattore di trascrizione H e in seguito una seconda volta. Queste fosforilazioni sono
molto importanti perché richiamano i complessi responsabili della maturazione dell’RNA
per diventare mRNA pronto alla traduzione.
MATURAZIONE DEGLI RNA

Gli rRNA e i tRNA, sia procariotici che eucariotici, e gli mRNA eucariotici necessitano di
alcune modifiche dopo la trascrizione per raggiungere una struttura finale adatta alla loro
funzione.
Fanno eccezione gli mRNA dei procarioti, che non subiscono nessuna modifica post-
trascrizionale, poiché la trascrizione e la traduzione avvengono contemporaneamente.

MODIFICHE POST-TRASCRIZIONALI DEGLI rRNA

Nei procarioti le sequenze codificanti per i tRNA e quelle codificanti per gli rRNA sono
generalmente contenuti in un’unica unità di trascrizione, ripetuta più volte all’interno del
genoma.

Negli eucarioti tutti gli rRNA sono trascritti dall’RNA polimerasi I, ad esclusione del 5S,
trascritto dall’RNA polimerasi III. Questa trascrizione avviene all’interno della regione
fibrillare del nucleolo, dove i geni attivi per la trascrizione degli rRNA sono ripetuti centinaia
di volte e sono organizzati in raggruppamenti situati su 5 cromosomi. Questi geni sono
organizzati in unità di trascrizione trascritte singolarmente (azzurre in figura) e separate da
degli spaziatori non trascritti (neri in figura). In particolare ogni unità contiene delle regioni
specifiche che codificano per i 3 rRNA eucariotici (18S, 5.8S, 28S).
L’rRNA che si forma in seguito alla trascrizione però non è ancora maturo, poiché contiene
degli spaziatori trascritti da degradare.

IL RUOLO DEI PICCOLI RNA

Esistono tanti tipi di piccoli RNA, tra cui gli snoRNA (piccoli RNA nucleolari, “small
nucleolar RNA”), che sono responsabili della maturazione degli rRNA.

(Ci sono anche gli snRNA, che invece sono importanti per il processo di maturazione
dell’mRNA, partendo dal pre-mRNA)

Tutti questi piccoli RNA non lavorano mai da soli, ma si associano a delle proteine
formando dei complessi detti ‘ribonucleoproteici’, perché sono costituiti sia da
ribonucleotidi sia da proteine.

Gli rRNA subiscono, oltre a un taglio


specifico, delle modificazioni chimiche:

-modifica dell’uridina (nucleotide contenente


uracile), trasformata in preudouridina
-metilazione del gruppo –OH in posizione 2’

Queste modificazioni chimiche sono


veicolate da questi RNA nucleolari.

La professoressa usa come esempio per spiegare questa regolazione il snoRNA U20 responsabile della
metilazione e il snoRNA U68 responsabile della trasformazione dell’uridina in pseudouridina :
In particolar modo un piccolo RNA nucleolare chiamato U20 (la U sta ad indicare che sono
RNA ricchi di uracile) possiede una regione ‘box D’, in prossimità di questa regione è
presente una sequenza di nucleotidi che è complementare a delle regioni del rRNA 45S.
La metilazione avviene sempre sul 5 nucleotide a partire dal punto in cui si cominciano a
formare i legami a H tra i nucleotidi del snoRNA e quelli del rRNA 45S. Si arriva alla
conclusione che questa metilazione sia causata da un legame di alcune proteine con il
snoRNA (complesso ribonucleoloproteico).

Il cambiamento dell’uridina in preudouridina veicolato dall’U68 avviene con una modalità


molto simile a quella appena descritta per la metilazione.
Il snoRNA U68 possiede delle regioni complementari al pre-rRNA e alcune non
complementari, queste ultime formano una regione non appaiata in cui avviene la
trasformazione.

I tagli avvengono dopo queste modificazioni,


perciò si pensa che gli snoRNA siano anche
responsabili di essi.
In seguito nella regione granulare del nucleolo
gli rRNA si associano a delle proteine, formando
le subunità ribosomiali.

MODIFICHE POST-TRASCRIZIONALI DEI tRNA

Nei procarioti, come detto in precedenza, è presente un’unica sequenza che codifica per
più tRNA, che viene successivamente tagliata.
Negli eucarioti i tRNA sono codificati da geni presi singolarmente (nell’uomo i geni
codificanti per i tRNA sono 1300, mentre i tRNA codificati 46).

La professoressa si concentra sulle modifiche dei tRNA eucariotici


Il tRNA appena trascritto è caratterizzato da una sequenza
al 5’ che viene rimossa per poi dare origine ad una
struttura a forcina caratterizzata da regioni appaiate e
regioni non appaiate.
Al 3’ tutti i tRNA (sia eucariotici sia procariotici) terminano
con la sequenza CCA, che, se non è presente già dalla
trascrizione, viene aggiunta.

MODIFICHE POST-TRASCRIZIONALI DEL mRNA

Il pre-mRNA o trascritto primario è molto più lungo dell’mRNA maturo poiché presenta
delle sequenze trascritte ma non tradotte, dette introni, da rimuovere.

Le modificazioni del trascritto primario sono 3:


- la suddetta rimozione degli introni (splicing)
- la protezione dell’estremità 3’ (poliadenilazione)
- la protezione dell’estremità 5’ (capping o aggiunta del cappuccio)

È fondamentale sottolineare che questi 3 eventi non avvengono dopo la trascrizione, ma


sono cotrascrizionali, poiché l’RNA polimerasi attraverso l’estremità carbossi-terminale
recluta subito i complessi responsabili di queste modificazioni.

CAPPING - Modificazione al 5’-P


All’estremità 5’ viene aggiunta una guanosina
con 2 fosfati a ponte, che si posizionano ribaltati
rispetto al classico legame fosfodiesterico, infatti
si crea un legame 5’-5’-trifosfato.
La guanosina viene metilata in posizione 7, per
cui il ‘cappuccio’ è costituito da una 7-metil-
guanosina legata da un ponte trifosfato
all’estremità 5’ dell’mRNA.
Questo capping riesce a proteggere l’mRNA
maturo poiché gli enzimi RNA-asi, che
degradano i filamenti di RNA, agiscono sui
legami fosfodiesterici, di conseguenza il legame
5’-5’-trifosfato non è aggredibile da questi enzimi.

POLIADENILAZIONE
Già vista in precedenza

La coda di A protegge l’mRNA maturo all’estremità 3’ poiché, anche se gli enzimi possono
attaccarla, le adenine che la costituiscono sono centinaia, quindi la degradazione è molto
lenta.

SPLICING – rimozione degli introni

Nel DNA i geni eucariotici sono costituiti da regioni dette esoni, trascritte e tradotte in
proteine, e regioni generalmente più lunghe dette introni, che sono rimosse dallo splicing
dopo la trascrizione.
Come vengono riconosciuti gli introni?
Gli introni nella giunzione tra esone ed introne sono caratterizzati da delle sequenze
consenso, ovvero delle sequenze non esattamente uguali in tutti gli introni, ma che
presentano degli specifici nucleotidi che si trovano nella maggior parte dei casi (quelli rossi
nell’immagine).
Queste sequenze si trovano ad entrambe le estremità dell’introne, in particolare
all’estremità 3’ vi è anche una sequenza detta regione del sito di ramificazione, in cui è
sempre presente una adenina (quella rossa centrale) affiancata da delle specifiche
sequenze.
IL RUOLO DEGLI SPLICEOSOMI

Gli spliceosomi sono i complessi che si


occupano fisicamente di rimuovere gli introni
una volta riconosciuti. Lo spliceosoma è simile
alle subunità dei ribosomi, ma al contrario di
quest’ultime si dissocia subito dopo che è
avvenuto lo spicing.
STRUTTURA
Formati da 5 snoRNA, ciascuno associato da
6 a 10 proteine a formare delle
ribonucleoproteine, che si associano tra loro
per formare il complesso nel suo insieme.
28/11/2023 Prof.ssa Margherini
Biologia Sbobinatrice: Sara Maraula
Lezione 15, parte prima Revisionatrice: Chiara Pelacchi

LA MATURAZIONE DEGLI MRNA

Nella lezione precedente è stata affrontata la maturazione degli rRNA e dei tRNA,
sia negli eucarioti che nei procarioti. La maturazione dei pre-mRNA in mRNA è
invece un processo esclusivo degli eucarioti, poiché in essi trascrizione e
traduzione sono due eventi spazialmente e temporalmente separati. Nei procarioti,
invece, trascrizione e traduzione sono eventi contemporanei e che avvengono nello
stesso spazio, in quanto i procarioti sono sprovvisti della divisione del nucleo dal
citoplasma.

LO SPLICING

La maturazione degli mRNA, oltre all’aggiunta del


cap in 5’ e della coda di poli-A al 3’, prevede anche
un ulteriore processo: lo splicing, evento che mira
ad eliminare, dai filamenti di RNA trascritti a partire
da un dato gene, specifiche sequenze chiamate
introni. Gli introni sono lunghe sequenze di RNA
che vengono trascritte ma che non trasportano
alcun tipo di informazione per la sintesi proteica, e
devono quindi essere eliminate tramite splicing.
Esse possono arrivare a rappresentare anche il
90% dell’intera sequenza nucleotidica trascritta da
un dato gene.

LA STRUTTURA DELL’INTRONE

L’introne, per essere individuato dallo spliceosoma, il complesso molecolare


deputato allo splicing, presenta specifiche regioni che tale complesso riconosce:
queste specifiche sequenze sono chiamate sequenze consenso e vengono
conservate all’interno della specie e anche tra specie diverse. Per ogni introne
esistono tre sequenze consenso: le due giunzioni introne-esone, una per ciascuna
estremità (5’ e 3’), dell’introne, e la sequenza conservata a livello del sito di
ramificazione dell’introne, che si trova in prossimità della giunzione introne-esone al
3’. Nell’immagine sotto riportata, l'aumentare della grandezza della lettera che
simboleggia un nucleotide rappresenta anche la crescita della probabilità di trovare
quel determinato nucleotide in quella precisa posizione. Per quanto riguarda il sito di
ramificazione, esso è invece sempre rappresentato da un’adenina circondata dalle
basi indicate in figura.

LO SPLICEOSOMA

Lo spliceosoma, struttura deputata all’eliminazione degli introni, è un complesso


molecolare di grandi dimensioni. Esso è formato da due componenti: una proteica e
una ad RNA. Lo spliceosoma è quindi simile
ad un ribosoma, ma, a differenza di
quest’ultimo, che è formato da due strutture
stabili e sempre uguali nel tempo, lo
spliceosoma è una struttura dinamica, che si
assembla esclusivamente in occasione dello
splicing.
La componente a RNA dello spliceosoma è
formata da quattro diverse molecole di RNA,
indicate con U1, U2, U4, U5 (U in quanto
ricche di uracile, i numeri per distinguerli gli
uni dagli altri) ha la funzione principale di
riconoscere le sequenze consenso
dell’introne. Ciascuna molecola di RNA si
associa a circa una decina di proteine (componente proteica), per costituire le
piccole particelle ribonucleoproteiche nucleari (snRNP), che dunque derivano
dall’assemblaggio di proteine e RNA.
Le snRNP si associano tra loro per creare il grande complesso dello spliceosoma, e
agiscono in serie durante il processo di splicing.
Le varie snRNP agiscono in serie per il processo di rimozione degli introni.
La componente U1 riconosce la giunzione introne-esone al 5’, la U2 riconosce la
regione del sito di ramificazione.

Dopodiché vengono reclutate anche le altre componenti dello spliceosoma per


effettuare un taglio all’estremità 5’ dell’introne, tra esone 1 e introne.
Conseguentemente il 5’-fosfato dell’estremità dell’introne viene legato tramite
legame fosfodiesterico 2’-5’ (invece di 3’-5’) all’ossidrile in posizione 2 del ribosio
dell’adenina del sito di ramificazione: si forma così una struttura a cappio, o lariat.
Successivamente l’estremità 3’ dell’esone 1
compie un attacco nucleofilo al legame
fosfodiesterico tra l’introne e l’esone 2, con
conseguente rottura di tale legame e
fuoriuscita dell’introne, seguita dalla
giunzione tra l’esone 1 e l’esone 2.

Tutto ciò avviene in contemporanea alla


trascrizione, in quanto la RNA
polimerasi, durante la fase di sintesi,
recluta anche tutti i complessi e gli
enzimi necessari per lo splicing e il
capping. La poliadenilazione, invece,
coincide con la terminazione della
trascrizione.

LA POLIADENILAZIONE

La poliadenilazione è un evento che


coincide con la terminazione della
trascrizione. Almeno per quanto
riguarda la RNA polimerasi II, il
processo di poliadenilazione prevede
che venga trascritta una speciale
regione del pre-mRNA, a valle della
quale avviene un taglio con conseguente aggiunta, da parte dell’ enzima poli(A)
polimerasi, di una serie di nucleotidi, contenenti tutti l’adenina.

La coda e il cappuccio facilitano la fuoriuscita dell’ mRNA dal nucleo, lo proteggono


da una precoce maturazione operata dall’RNAsi nel citoplasma, e sono importanti
per l’inizio della traduzione.
LE REGIONI UTR

Oltre al cappuccio e alla coda, esistono altre regioni dell’mRNA che non vengono
tradotte in proteine: gli mRNA, anche quelli procariotici, presentano alle estremità 5’
e 3’ delle regioni non tradotte chiamate 5’UTR (UnTranslated Regions) e 3’UTR,
fondamentali per il riconoscimento dell’mRNA da parte dei ribosomi: quindi, le
sequenze UTR, nonostante non contengano l’informazione per la sintesi proteica,
sono comunque fondamentali per la traduzione.
Sia nei procarioti che negli eucarioti, infatti, l’inizio della trascrizione non coincide con
l’inizio della traduzione, ovvero il primo nucleotide trascritto non fa parte del primo
codone tradotto.
LO SPLICING ALTERNATIVO

Lo splicing alternativo è un meccanismo di splicing che permette di ottenere, dalla


medesima molecola di pre-mRNA, degli mRNA maturi differenti.

Lo splicing alternativo può avvenire secondo vari meccanismi differenti.


Nell’uomo, dato che ogni gene va incontro ad uno o più fenomeni di splicing
alternativo, è possibile comprendere come un numero relativamente basso di geni
possa dare luogo ad una grande variabilità fenotipica.
LA RELAZIONE GENOTIPO-
FENOTIPO

Intorno alla metà degli anni 50 del Novecento cominciavano ad essere note le
informazioni su strutture, replicazione e trascrizione del DNA.
Era ancora dubbia, tuttavia, la relazione tra genotipo e fenotipo, ovvero come
esattamente l'informazione dei geni potesse influenzare struttura e funzionamento
delle proteine, responsabili del fenotipo. Furono di conseguenza condotti una serie di
esperimenti, innanzitutto per verificare la veridicità dell’ipotesi di un legame genotipo-
fenotipo, e, conseguentemente, per comprenderne le specifiche correlazioni.

Il primo ad intuire il legame genotipo-fenotipo fu, nel 1909, il medico Archibald


Garrod, il quale aveva individuato una serie di malattie metaboliche che derivavano
dalla mancanza di alcuni enzimi. Essendo queste malattie ereditarie, quindi legate
ad un errore dell'informazione genica, Garrod ipotizzò una relazione stretta tra geni e
enzimi, dato che una malattia ereditaria (errata informazione genica) provocava
un’alterazione enzimatica.

ESPERIMENTI DI BEADLE E TATUM (1941)

In seguito tale ipotesi fu ulteriormente validata dagli esperimenti effettuati da Beadle


e Tatum sulla neurospora, una muffa del pane in grado di crescere in presenza di
un terreno minimo, ovvero privo di nutrienti, arricchito con glucosio, biotina (una
vitamina) e una fonte di azoto. Tale terreno minimo è sufficiente per la neurospora in
quanto questo microrganismo è in grado di sintetizzare tutti i 20 amminoacidi
(caratteristica variabile da specie a specie: l’uomo non riesce a sintetizzarne 9,
chiamati essenziali in quanto necessariamente introdotti con la dieta).
Nel terreno ricco, invece, sono presenti tutti gli amminoacidi: se neurospora presenta
delle mutazioni (non riesce più a sintetizzare un amminoacido), riuscirà a crescere
nel terreno ricco (dove è presente, tra tutti gli amminoacidi, anche quello che non
riesce a sintetizzare), ma non in quello minimo (dove sono assenti tutti gli
amminoacidi).

Tale esperimento consisteva nell’irradiazione, mediante raggi X, di neurospora. In tal


modo si generavano dei mutanti incapaci di sopravvivere in terreno minimo. Questo
perché la radiazione aveva causato una mutazione genica, la quale aveva
determinato l’alterazione di un enzima coinvolto nella sintesi di un metabolita
essenziale per la crescita di neurospora in terreno minimo.
A tal punto, se al terreno
minimo veniva aggiunta
l’arginina, i mutanti
erano di nuovo in grado
di crescere, ciò
significava che la
mutazione indotta
riguardava un gene
responsabile di un
enzima coinvolto nella
sintesi dell’arginina.

Con tale sistema i due ricercatori produssero tanti tipi diversi di mutanti e riuscirono
a stabilire una relazione stretta tra tipo di mutante ed enzima alterato.
Prendiamo come esempio un mutante dell’arginina. Nell’immagine che segue è
illustrata la via metabolica che permette a neurospora non mutata di sintetizzare
arginina.

L’arginina può essere sintetizzata a partire dal glutammato, per mezzo degli enzimi
E, F, G e H, i quali catalizzano le reazioni di sintesi dei vari intermedi di tale via
metabolica.
Se neurospora mutata cresce solo in terreno con arginina aggiunta, ciò significa che
un enzima di tale via metabolica è stato coinvolto dalla mutazione: furono individuati
quattro mutanti diversi, uno per ciascun enzima ( E, F, G oppure H) mutato.

Se, ad esempio, al posto dell’arginina


aggiungo solo glutammato (primo metabolita
della via metabolica) e neurospora non
cresce, ciò significa che l’enzima colpito dalla
mutazione genica è stato l’enzima E, che non
è più in grado, quindi, di catabolizzare la
prima reazione della via metabolica. Le
reazioni successive, invece, possono
avvenire, in quanto gli enzimi F, G e H non sono stati modificati: se, nel terreno
minimo, sostituisco il glutammato con l’ ornitina (secondo metabolita della via
metabolica) o qualsiasi altro metabolita successivo alla prima reazione, neurospora
cresce, perché, a partire dai metaboliti successivi al glutammato, possiede tutti gli
enzimi necessari per la sintesi dell’arginina.
Se, invece, la mutazione riguarda il gene responsabile della sintesi dell’ enzima H,
l’ultimo enzima della via metabolica, neurospora non cresce nei terreni minimi con
aggiunta di qualsiasi metabolita, ma solo in presenza di arginina, in quanto è proprio
l’ultima reazione della via metabolica (quella che ha come prodotto l’arginina) a non
poter mai avvenire.
In tal modo, i due ricercatori stabilirono la correlazione tra ciascun tipo di mutante e
l’enzima coinvolto in ciascuna reazione della via metabolica, ovvero il legame gene-
enzima.

Tale correlazione fu poi estesa, per arrivare alla formulazione più generale un gene-
una proteina. Questo avvenne grazie agli esperimenti di Pauling sull’emoglobina.

ESPERIMENTO DI PAULING SULL’EMOGLOBINA (1949)

Al tempo di tale esperimento era nota la struttura dell’ emoglobina, formata da


quattro polipeptidi, due catene alfa e due catene beta. L’anemia falciforme, a base
ereditaria, causava un’alterazione della catena beta dell’emoglobina, ovvero di una
proteina: questo significava che le mutazioni geniche interessavano non solo gli
enzimi, ma, più in generale, le proteine.

Pauling condusse anche studi per caratterizzare i genotipi delle persone affette da
anemia falciforme utilizzando l’elettroforesi: la catena beta dell’emoglobina, se
sottoposta ad una differenza di potenziale e quindi immersa in un campo elettrico, in
un supporto adeguato, migra. Colorando le proteine, possiamo analizzarne il
tracciato: la catena beta
dell’emoglobina di un
individuo affetto da
anemia falciforme,
omozigote recessivo ,
forma un’unica banda,
diversa da quella di un
individuo sano non
portatore di malattia,
omozigote dominante. Il
tracciato elettroforetico
di un individuo sano ma
portatore di malattia,
essendo invece eterozigote, presenta due bande differenti, una uguale alla banda
dell’omozigote dominante sano, l’altra uguale alla banda dell’omozigote recessivo
malato.
Dato che si sapeva che l’anemia falciforme fosse una malattia genetica, fu dunque
confermata la relazione tra un gene e una proteina.

Gli studi sull’emoglobina furono continuati da Ingram, che, tramite sequenziamento


dell’emoglobina, scoprì in modo preciso quale fosse la mutazione a carico
dell’anemia falciforme (un acido glutammico sostituito da una valina).
IL CODICE GENETICO
Sulla base delle lezioni precedenti, possiamo definire quindi il gene come una
regione del genoma costituita da DNA (nel caso di alcuni virus da RNA) e
caratterizzata da sequenze trascritte e sequenze regolatorie, che corrisponde
all’unità ereditaria.

L’aspetto da chiarire, tuttavia, rimane il legame tra una data sequenza nucleotidica
(quella del DNA trasferita all’mRNA) e la sequenza amminoacidica di una proteina.
Tale passaggio, in quanto implica un cambiamento di linguaggio (da nucleotidi ad
amminoacidi), è dunque chiamato traduzione. La traduzione è regolata da un
insieme di regole racchiuse nel codice genetico.

NB: codice genetico e genoma


non sono la stessa cosa: il
genoma è la sede (il luogo)
dell’informazione genetica. Il
codice genetico non sono né
proteine, né DNA, né RNA, ma
è un insieme di regole che
permette di passare da un
linguaggio all’altro stabilendone
le corrispondenze.
Per comprendere il funzionamento del codice genetico, furono necessari una serie di
studi che coprirono un arco temporale di venti anni.

La prima domanda a cui si cercò di dare risposta fu quale fosse il rapporto


proporzionale tra il numero di nucleotidi e il numero di amminoacidi corrispondenti,
ovvero quanti nucleotidi codificassero per un amminoacido.
Partendo dal presupposto che i nucleotidi sono quattro e gli amminoacidi sono venti,
si comprese che:
● Il rapporto non poteva essere 1:1, in quanto, se un nucleotide avesse dovuto
codificare per un amminoacido, gli amminoacidi avrebbero dovuto essere
quattro.
● Il rapporto non poteva neanche essere 2:1, ovvero due nucleotidi codificanti
per un amminoacido, in quanto, in tal caso, il numero totale di combinazioni di
nucleotidi possibili sarebbe stato quattro alla seconda, ovvero sedici,
comunque insufficiente a coprire i 20 amminoacidi.
● Se il rapporto fosse stato 3:1, ovvero 3 nucleotidi codificanti per 1
amminoacido, il numero totale di combinazioni di nucleotidi possibili sarebbe
stato 64, un numero che copre abbondantemente tutti i 20 amminoacidi.
Quindi si comprese immediatamente che la corrispondenza è 3:1, ovvero che 3
nucleotidi (una tripletta o codone) codificano per un amminoacido.

Ci si chiese poi se il codice fosse sovrapposto oppure continuo, ovvero se un


nucleotide (oppure due) potesse appartenere a due triplette consecutive
(sovrapposizione).
Si comprese abbastanza velocemente che il codice genetico è continuo (non
sovrapposto). Questo
perché era noto che molte
malattie ereditarie, come
l’anemia falciforme, erano
provocate da mutazioni di
un singolo amminoacido.
Nell’ipotesi che il codice
genetico fosse
sovrapposto, quindi
presentasse nucleotidi a
comune tra due codoni, la
maggioranza delle malattie
ereditarie avrebbe dovuto
coinvolgere più di un amminoacido, in quanto il cambiamento di un nucleotide a
comune tra due codoni adiacenti avrebbe provocato mutazione di entrambi i codoni
e quindi di due amminoacidi.
Invece, il fatto che molte malattie ereditarie fossero a carico di un solo amminoacido
rafforzava l’idea che il codice genetico fosse continuo.
Data: 28/11/2023 Prof.ssa Francesca Magherini
Materia: Biologia Sbobinatrice: Elisa Lascialfari
Lezione 15 (seconda parte) Revisionatore: Lance Maduro

IL CODICE GENETICO E LA
TRADUZIONE
ESPERIMENTO DI CRICK E BENNER
L’esperimento che permise di comprendere che il codice genetico era diviso in
triplette, ridondante e privo di punteggiatura fu quello effettuato da Crick e Brenner. I
due studiosi utilizzarono nei loro esperimenti i fagi, cioè virus che infettano i batteri,
poichè avevano osservato che se questi venivano trattati con una molecola detta
proflavina, si ottenevano dei mutanti che erano dovuti all’inserzione o alla
delezione di una base.
Crick e Brenner andarono a selezionare selettivamente i mutanti di un gene (r2)
perchè i mutanti di questo gene non erano più in grado di infettare e di duplicarsi in
un ceppo di Escherichia coli K, mentre mantenevano le proprie proprietà nel ceppo B
di Escherichia coli. Questa differente caratteristica permetteva sia di identificare
chiaramente i mutanti del gene r2, sia di recuperare i mutanti in un ceppo di
Escherichia coli B per effettuare esperimenti successivi.

I due scienziati ottennero una serie di mutanti, come si può osservare nell’immagine
di seguito.
Per comprendere a pieno l’esperimento è utile servirsi di un’analogia: la delezione o
l’inserzione di una base determina la perdita di senso di una frase compiuta, la quale
è organizzata in parole di tre lettere; queste tre lettere corrispondono ai tre nucleotidi
di una tripletta.

In alto si può vedere la sequenza nucleotidica del ceppo wild type, quello non
mutato. Loro ottennero dei mutanti di tre tipi: a mutazione singola, di inserzione e di
delezione. Si accorsero che questi mutanti non erano più in grado di duplicarsi nel
ceppo K, quindi erano mutanti del gene R2.
Quindi la mutazione per inserzione e per delezione causa un cambiamento nella
“cornice di lettura” rendendo la frase che prima aveva senso compiuto (in verde),
incomprensibile.

A questo punto i mutanti vennero sottoposti ad un trattamento con la proflavina: da


qui si ottennero dei mutanti in cui si avevano due mutazioni sufficientemente vicine e
si osservò che questi nuovi mutanti erano in grado di crescere all’interno del ceppo
K; infatti se ad una mutazione di inserzione, che causa la perdita di significato, si
inserisce in prossimità una mutazione di delezione, si hanno i mutanti doppi, in cui
il fenotipo mutato viene revertito, cioè torna indietro. Quindi di fatto la proteina
codificata subiva una mutazione talmente lieve, da non modificare la sua funzione.
Contemporaneamente, altri doppi mutanti avevano perso la capacità di crescere nel
ceppo K di Escherichia coli perché vi erano state due mutazioni dello stesso tipo.
Sottoponendo i mutanti doppi ad un trattamento di proflavina, si ottengono i tripli
mutanti, che tra le varie possibilità, presentavano il caso della reversione, questa
volta dato dalla vicinanza di tre mutazioni dello stesso tipo, le cui conclusioni sono
analoghe al caso precedente.

Conclusioni:
Poiché con tre mutazioni dello stesso tipo si riotteneva il fenotipo wild-type, cioè la
cornice di lettura corretta, sia che queste siano tutte delezioni o inserzioni, si deduce
che il codice genetico venga letto a triplette, senza nucleotidi spaziatori, cioè non
utilizzati, e ridondante. Quindi grazie a questo esperimento, Crick e Brenner furono
in grado di individuare delle caratteristiche del codice genetico, che vennero
verificate successivamente con altri esperimenti.
CODICE GENETICO

CODICE GENETICO: E’ RIDONDANTE


Osservando la differenza tra le combinazioni possibili di nucleotidi (64) e gli
amminoacidi effettivamente sintetizzati (20), sorgono nuove domande: ci sono
combinazioni che non vengono utilizzate? Possono più combinazioni corrispondere
allo stesso amminoacido?
Se fosse stata vera la prima ipotesi, cioè l’esistenza di tanti codoni senza significato,
nell’esperimento di Crick e Brenner si sarebbero dovute verificare molte più
alterazioni di quelle osservate, poiché sarebbe stato molto probabile il
coinvolgimento di un codone senza significato.
Quindi l’idea più accreditata era che più codoni specificassero per lo stesso
amminoacido.

CODICE GENETICO: NON SOVRAPPOSTO E SENZA PUNTEGGIATURA


Supponendo che questo codice fosse organizzato in triplette, si doveva capire come
tali codoni venissero letti, perché anche su questo punto vi erano più possibilità.

1. Il codice genetico non è sovrapposto. Ciò significa che le triplette sono lette le
une dietro le altre, per cui ogni nucleotide appartiene a un solo codone;
2. Il codice genetico è sovrapposto, per cui si scorre non di tre posti, ma di un
solo posto o di due, come avviene nell’immagine. Per cui uno stesso
nucleotide fa parte di più codoni.

Se consideriamo un codice ridondante e non sovrapposto e aggiungiamo una base,


si osserva che la sequenza normale di amminoacidi presenterà uno scivolamento
della cornice di lettura dal punto in cui è stato inserito il nucleotide, poiché si verifica
uno sfalsamento della lettura delle triplette. Questo comporta che gli amminoacidi
ottenuti siano tutti diversi e che la proteina perda la sua funzione.

In un codice sovrapposto, invece, l’inserzione o la delezione di una base causerebbe


la modifica di alcuni amminoacidi adiacenti ma non avrebbe effetto sulla cornice di
lettura.
Nell’immagine di fianco abbiamo invece un’ipotetica
struttura con punteggiatura. Il fatto che sia stata
utilizzata A come nucleotide spaziatore è puramente
casuale. Quindi si poteva immaginare inoltre che i
codoni fossero alternati da nucleotidi senza
significato alla lettura del messaggio. Tuttavia,
numerosi esperimenti di mutagenesi nei batteri portavano a dimostrare come reale
solo la prima ipotesi (codice non sovrapposto e senza punteggiatura).

ESPERIMENTI DI NIREMBERG E MATTHAEY

Parallelamente si doveva anche capire quale fosse la corrispondenza tra triplette e


amminoacidi ovvero quale codone specificasse determinati amminoacidi.
Questi esperimenti furono inaugurati nel 1961 da Niremberg e Matthaey, che misero
a punto un sistema di sintesi proteica in vitro, grazie all’utilizzo di estratti batterici
(ribosomi e l’intero complesso per la sintesi proteica). Poi arricchivano questo
estratto proteico con oligoucleotidi di RNA di sintesi, da loro creati con nucleotidi tutti
uguali. Successivamente osservavano che polipeptide si formava. Avevano a
disposizione un enzima che univa in maniera casuale, e non sequenziale, i
nucleotidi. Per esempio, se venivano uniti nucleotidi, contenenti tutti uracile, si
otteneva un RNA fatto ovviamente dal solo uracile. Se si avviava la traduzione in
vitro, si otteneva un piccolo peptide, contenente soltanto fenilalanina. Allo stesso
modo, da piccoli RNA contenti solo adenina e citosina, si otteneva rispettivamente
una sequenza di lisine e di proline, in cui ogni tripletta codificava per un
amminoacido (con la guanina l’esperimento non venne perché quest’ultima forma
una struttura tridimensionale non letta dai ribosomi). In questo modo si ottenne una
prima decodifica del messaggio.
I nucleotidi vengono uniti insieme dall’enzima polinucleotide fosfolirasi e all’interno di
una serie di provette si aggiunge singolarmente un amminoacido radioattivo. Da
queste provette si sintetizza il polipeptide contenente un singolo tipo di amminoacido
e a questo punto si acidifica la soluzione: in questo modo i polipeptidi precipitano sul
fondo mentre gli amminoacidi singoli rimangono in soluzione e, se osservando la
radioattività, essa risultava precipitata sul fondo della provetta, allora significava che
si era formato il peptide.

L’esperimento venne ripetuto in seguito con due amminoacidi diversi. Infatti, siccome
l’enzima utilizzato univa i nucleotidi in maniera casuale e non sequenziale,
determinando tutte le combinazioni possibili a 3 si ottenevano tutte queste possibilità
mostrate in figura. In tutto sono 8, prendendo per esempio adenina e citosina.
Possiamo sapere a cosa corrisponde la tripletta AAA e la CCC dagli esperimenti
precedenti, ma non conosciamo quali combinazioni vengono utilizzate per
sintetizzare i vari amminoacidi. Dato che l’enzima li unisce casualmente, non è
possibile risalire dall’amminoacido alla specifica tripletta.
Quindi finché non si fu in grado di sintetizzare triplette di nucleotidi a sequenza
definita, non fu possibile procedere ulteriormente nella decodifica del codice
genetico.

Successivamente, allora, venne messa appunto da Khorana una sintesi di nucleotidi


guidata, in cui si conosceva la precisa sequenza dei nucleotidi. Lo scienziato
sintetizzò un acido ribonucleico (RNA) costituito da solo due nucleotidi ripetuti che
formavano una sequenza di triplette del tipo UCUCUCUCU (-> UCU CUC UCU).
Partendo da queste sequenze si otteneva la produzione di due amminoacidi
alternati, uno relativo a UCU e l’altro relativo a CUC. Tuttavia Khorana non era in
grado di capire la corrispondenza tra un amminoacido e una determinata tripletta
poiché non conosceva il nucleotide da cui era partita la traduzione.

Solo successivamente, grazie all’esperimento di Nirenberg e Leder in cui venne


utilizzato l’RNA di trasferimento, si riuscì a dimostrare che UCU codifica per la serina
e CUC codifica per la leucina.

ESPERIMENTO DI NIRENBERG E LEDER

Questo dilemma venne sciolto grazie all’esperimento condotto da Nirenber e Leder


in cui venne utilizzato l’RNA di trasferimento.

Cosa sono gli RNA di trasferimento (tRNA)?


(La prof.ssa precisa che l’argomento verrà approfondito nella lezione successiva, ma
è necessario introdurlo per comprendere l’esperimento)
Già Watson e Crick avevano postulato l’esistenza di una molecola che fungeva da
adattatore tra il linguaggio in nucleotidi e il linguaggio in amminoacidi in quanto era
difficile comprendere come l’RNA fosse tradotto direttamente in proteina. Questi
adattatori sono gli RNA di trasferimento, tRNA. Queste molecole sono costituite da
RNA, stabilizzato da legami a idrogeno tra regioni complementari, e hanno una
caratteristica importante: sono in grado di legare un codone presente sul mRNA,
grazie ad una regione detta anticodone, e presentano all’estremità opposta il sito di
legame dell’amminoacido codificato esattamente da tale codone.
Quindi il tRNA non trasporta amminoacidi casuali, bensì quello corrispondente al
codone complementare alla regione dell’anticodone. I tRNA rappresentano la chiave
di lettura tra l’RNA messaggero e le proteine.
Nirenberg e Leder utilizzarono dei tRNA legati ai rispettivi amminoacidi, marcati
radioattivamente sul carbonio. Si procede preparando una miscela composta da
ribosomi, da una sequenza di sintesi nota (CAU) e dai tRNA: da qui si ottiene un
complesso tRNA-ribosoma, in cui il tRNA presenta la tripletta complementare
all’mRNA, mentre gli altri tRNA rimangono non legati.
Questo complesso ha dimensioni
considerevoli e quindi non riesce a passare
attraverso un filtro. Perciò i due studiosi
sfruttarono questa caratteristica per
separare il complesso tRNA-ribosoma,
contenente l'aminoacido marcato di
interesse, dai tRNA non legati.
Riassumendo: viene sintetizzata una
tripletta di nucleotidi e si incubano i ribosomi
insieme a tutta la miscela di tRNA legati ai
20 aminoacidi, di cui solo uno sarà marcato
radioattivamente. Si hanno due casi:

- Se il tRNA ha l’amminoacido corretto,


allora legherà la tripletta e si formerà
un complesso che si bloccherà al
filtro. In questo caso la radioattività
sarà rilevata a livello del filtro.
- Se l’amminoacido radioattivo legato
al tRNA è diverso da quello
complementare alla tripletta di
nucleotidi nota, allora passerà
attraverso il filtro. In questo caso la
radioattività sarà rilevata sotto al
filtro.

Andando quindi a valutare la posizione della radioattività, se sotto o a livello del filtro,
nei vari casi, fu possibile stabilire le esatte corrispondenze tra le triplette di nucleotidi
e gli amminoacidi e quindi decodificare complessivamente il codice genetico.
Dalla combinazione degli esperimenti di Khorana e del gruppo di Nirenberg si potè
risalire alla decifrazione di tutto il codice.
CARATTERISTICHE DEL CODICE GENETICO

● Il codice genetico è degenerato o ridondante: più codoni sintetizzano lo stesso


amminoacido. Per esempio, la leucina è connessa a 6 triplette, la glutammina
a 2. In particolare, in questi casi, nel momento in cui un amminoacido può
essere sintetizzato da più codoni, quello che varia è il nucleotide in posizione
3. Ovviamente, se ho più di quattro differenti codoni, cambiano anche i
nucleotidi in posizione 1 e 2. La maggior parte degli amminoacidi è codificata
da due o più triplette, ad eccezione della metionina e del triptofano che sono
codificati da una sola tripletta.
● Possiede codoni di inizio e di stop. Tre di queste triplette (UAA, UAG, UGA)
sono codoni di stop, cioè non vengono riconosciute da nessun tRNA e
rappresentano pertanto dei codoni di terminazione della sintesi proteica.
Mentre il codone AUG, che codifica per la metionina, è sempre il primo
codone ad essere tradotto.
● Il codice genetico è universale: è identico in tutti gli organismi viventi, eccetto
pochissimi casi (rare eccezioni con piccoli cambiamenti di alcuni codoni si
osservano nei mitocondri, in alcuni batteri e in alcuni protozoi ). Questa
caratteristica fa pensare che il codice genetico sia molto antico da un punto di
vista filogenetico.
● Il codice genetico non è ambiguo: ogni codone può sintetizzare un solo
amminoacido. Così, avendo un filamento di RNA, possiamo conoscere la
precisa sequenza di amminoacidi, ma, al contrario, avendo una catena di
amminoacidi, non abbiamo la certezza assoluta sulla sequenza di triplette
dell’RNA , perché il codice genetico è ridondante.
● Non è sovrapposto.
● È continuo, cioè non possiede una punteggiatura: non esistono nucleotidi
senza significato a spaziare le triplette.
(Questi ultimi due punti sono già stati trattati in questa lezione)

LA TRADUZIONE

Gli attori principali del meccanismo di traduzione sono: ribosomi, tRNA e mRNA.

I tRNA sono molecole di RNA con una struttura tridimensionale, stabilizzata da


legami a idrogeno tra regioni complementari. Se rappresentiamo questa struttura in
forma planare, assume la classica struttura a trifoglio (che però non corrisponde alla
forma tridimensionale del tRNA, che assomiglia ad una sorta di “L”) caratterizzata da
regioni a doppio filamento e da regioni ad ansa (senza legami a idrogeno). Le
estremità 3’ e 5’ ossidrile sono rivolte da una parte, mentre dal lato opposto è rivolta
l’ansa dell'anticodone.

- L’estremità 3’ (sporgente) contiene sempre la stessa sequenza di nucleotidi,


CCA, ed è il luogo in cui si attacca l’amminoacido.
- Ci sono regioni denominate “steli”.
- Sono presenti diverse anse, il cui nome deriva dalle basi che vi risiedono e
che sono state modificate durante la fase di maturazione dei tRNA: l’ansa
T C, dove (“psi”) sta per “pseudo-uracile”, presenta una sequenza di
nucleotidi contenenti timina (che è una rarità in quanto nell’RNA è presente
l’uracile). Dall’altra parte si trova l’ansa D che contiene un nucleotide
modificato detto diiuracile, un’altra modificazione dell’uracile. Si può
individuare anche l’ansa dell’anticodone. Infine c’è anche l’ansa variabile il cui
braccio è più o meno lungo in base a quanti nucleotidi sono contenuti
nell’RNA; ma dato che i tRNA devono incastrarsi in una sezione specifica dei
ribosomi, la loro dimensione deve essere uguale. Per cui, se il numero di
nucleotidi è elevato, l’ansa è un po’ più grande.
- La dimensione standard di un tRNA è di circa 70 nucleotidi.

E’ necessario puntualizzare che l’inizio della traduzione, dove si trova il codone


AUG, sia nei procarioti che negli eucarioti, non corrisponde all’inizio del trascritto e al
3’ e al 5’ si troveranno delle regioni dette UTR, che non vengono tradotte.
𝝭
𝝭
La terminazione della traduzione avviene quando nel mRNA ci sarà uno dei tre
codoni di stop. La differenza tra eucarioti e procarioti è che in questi ultimi non si
trova il cappuccio e la coda di poli-A perchè di fatto la trascrizione è contemporanea
alla traduzione, quindi non ci sono modifiche dell’RNA messaggero.

FASE ATP-DIPENDENTE

Quando un tRNA ha ceduto il suo amminoacido per la sintesi proteica, questo si


ritroverà scarico poiché non è più legato a nulla.
Se si ha un tRNA per ciascun amminoacido, è chiaro che dovranno esserci degli
enzimi che legano in modo selettivo al tRNA l’amminoacido corrispondente. Esiste
infatti una classe di enzimi, sono circa 20, ciascuno per uno dei 20 amminoacidi
incorporati nelle proteine, deputati al riconoscimento del tRNA e al legame
dell’amminoacido corrispondente al suo tRNA. Questi enzimi si chiamano
amminoacil-tRNA-sintetasi.
Questi enzimi presentano tre siti attivi:
- un sito per il tRNA
- uno per l'amminoacido
- uno per l’ATP

Il processo avviene a tappe, come è rappresentato dall’immagine. L’enzima lega


l’ATP e l’amminoacido nei siti appositi; di conseguenza idrolizza l’ATP, mediante il
distacco di due molecole di fosfato, formando l’amminoacido attivato, in cui il gruppo
carbossilico è legato all’adenosina mono-fosfato: è stato infatti eliminato un
pirofosfato dall’ATP e l’amminoacido risulta essere legato covalentemente
all’adenosina monofosfato (AMP). Questa forma dell’amminoacido viene detta
amminoacil-AMP o appunto amminoacido attivato, pronto per essere trasferito sul
tRNA.
Ed è proprio nella seconda fase di questo complesso meccanismo che entra in gioco
il tRNA, specifico per l’amminoacido. Tale amminoacido viene trasferito dall’AMP sul
tRNA, formando l'amminoacil-tRNA, di conseguenza sia il tRNA carico sia l’AMP
vengono rilasciati.

In quest’immagine possiamo visualizzare più nel dettaglio l’attacco dell’amminoacido


al tRNA, tramite l’estremità 3’ (ossidrile) alla quale si lega il gruppo carbossilico
dell’amminoacido; bisogna ricordare che il gruppo amminico e la catena laterale
sono liberi.
7/12/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatrice: Siria Sozzi
Lezione 16, parte prima Revisionatrice: Sofia Sassi

LA TRADUZIONE
ATTORI PRINCIPALI DELLA TRADUZIONE
Gli attori principali della traduzione sono i ribosomi, il tRNA e l’mRNA.

Ribosomi
I ribosomi sono degli organuli che si trovano nel citoplasma; sono composti da due
subunità, una minore e una maggiore, che sono dissociate tra loro e che si uniscono solo
durante la sintesi proteica.

tRNA
Nell’immagine a lato è possibile notare sia
la struttura tridimensionale del tRNA, sia
una struttura planare, detta a trifoglio.
Questa struttura deriva da una
rappresentazione planare dove vengono
evidenziate delle regioni a doppio
filamento.

Ciascun tRNA è costituito da una regione al


5’ (dove è presente il fosfato), una regione
al 3’ (dove è sempre presente la sequenza CCA, che viene
aggiunta tramite modificazione durante la maturazione del
tRNA) e tre bracci costituiti da una regione a doppio
filamento (legati mediante legami a idrogeno tra le basi
complementari) che terminano con una regione ad ansa. Le
anse prendono il nome dal nucleotide modificato che vi si
trova, ad esempio nell’ansa TΨC i nucleotidi presenti sono
la timina, lo pseudouracile e la citosina mentre l’ansa D
contiene il diidrouracile; infine, posta in basso ed opposta
all’estremità 3’ e 5’, si trova l’ansa dell’anticodone che
riconoscerà i codoni presenti sull’mRNA.
E’ presente anche un braccio variabile, la cui lunghezza
dipende dal numero di nucleotidi che costituiscono il tRNA (generalmente costituito da 70
nucleotidi).
Il tRNA è la molecola adattatrice che permette il passaggio da un linguaggio a nucleotidi
ad un linguaggio ad amminoacidi. L’idea che esistessero i tRNA venne postulata già da
Watson e Crick, ancor prima che fossero scoperti, poiché era difficile comprendere come
l’mRNA fosse direttamente tradotto in proteina.
La regione dell’anticodone è composta da una sequenza di tre nucleotidi che sono
complementari ai codoni. Il tRNA lega a livello del 3’ ossidrile l’amminoacido codificato
dalla tripletta che corrisponde all’anticodone del tRNA. Quest’ultimo riconosce il codone
presente sull’mRNA grazie all’ansa dell’anticodone (vedi la figura). Ad esempio se un tRNA
lega la lisina, l’anticodone riconosce la tripletta AAA che codifica per la lisina.
L’appaiamento codone – anticodone, dal punto di vista dell’orientamento dei filamenti, è
antiparallelo perché quando si formano legami a idrogeno tra sequenze di nucleotidi, i
filamenti hanno una disposizione antiparallela.

mRNA
La porzione codificante dell’mRNA inizia sempre con il codone AUG (codone che codifica
per la metionina) e termina con uno dei tre codoni di stop (UAG, UAA, UGA); al 5’ e al 3’ si
trovano delle regioni UTR (untranslated region) che non codificano per la proteina, ma che
sono importanti per il riconoscimento da parte del ribosoma. Queste regioni UTR sono
presenti sia negli mRNA dei procarioti che degli eucarioti (in questi ultimi, inoltre, saranno
presenti sia il capping al 5’ e la coda di Poli A al 3’).

FASE ATP DIPENDENTE DELLA TRADUZIONE


I tRNA, una volta ceduto l’amminoacido per la costruzione della catena polipeptidica,
risultano tRNA scarichi, perciò è necessario che venga nuovamente attaccato
l’amminoacido corrispondente mediante legame covalente.
Gli amminoacil-tRNA sintetasi sono 20 enzimi diversi che riconoscono l’amminoacido e il
tRNA corrispondete all’amminoacido e li legano assieme tramite una reazione ATP
dipendente.
Nell’immagine viene rappresentato l’enzima, e vengono evidenziati i siti di legame per il
tRNA, per l’ATP e per l’amminoacido. A questo punto l’enzima lega l’ATP e l’amminoacido
specifico; avviene una prima reazione che prevede l’idrolisi dell’ATP con il rilascio di una
molecola di pirofosfato (ovvero due
fosfati legati insieme, che poi verranno
scissi ulteriormente) e si ha la
formazione di un amminoacil-AMP dal
legame tra l’AMP (ciò che rimane
dall’ATP) con un gruppo carbossilico
dell’amminoacido. In seguito L’enzima
lega il tRNA specifico dell’amminoacido
che è stato legato ed avviene una
reazione di trasferimento
dell’amminoacido sul tRNA. Il tRNA
carico (detto anche amminoacil-tRNA) è
pronto per la sintesi proteica.

In quest’immagine possiamo visualizzare


più nel dettaglio l’attacco dell’amminoacido
al tRNA, che avviene all’estremità
3’ (ossidrile), alla quale si lega il gruppo
carbossilico dell’amminoacido; N.B.: il
gruppo amminico e la catena laterale sono
liberi.

La prima fase, ATP dipendente, è una fase


dispendiosa perché vengono utilizzati due
legami ad alta energia dell’ATP.

IPOTESI DEL VACILLAMENTO


Nella cellula un tRNA può riconoscere più codoni purché quei codoni codifichino per lo
stesso amminoacido, in questo modo non si genereranno ambiguità; ciò è dovuto al fatto
che le cellule contengono circa 50 tRNA ma i codoni (esclusi quelli di stop) sono 61.
A livello del tRNA è la prima base dell’anticodone che riconosce la terza base del codone,
ovvero quella che può variare. Perciò nella prima base dell’anticodone, considerata
vacillante, ci possono essere delle basi che possono permettere appaiamenti inconsueti:
ad esempio se in prima base è presente una guanina gli appaiamenti possibili possono
essere con una citosina o con l’uracile; se è presente l’uracile gli appaiamenti possibili
sono con l’adenina e la guanina; a volte è possibile avere anche una l’inosina (una base
modificata) che può appaiarsi con la citosina, l’adenina e l’uracile.
Come si vede nell’immagine (in basso a
destra), il tRNA trasporta la serina che
può essere codificata dai codoni
sull’mRNA UCC o UCU, che differiscono
in terza base. Il tRNA che trasporta la
serina riesce a riconoscere entrambi i
codoni poiché in prima base
dell’anticodone è presente la guanina che, appunto, può legare sia la citosina che l’uracile.
La prima base viene anche detta base vacillante, da cui deriva il nome dell’ipotesi del
vacillamento. Il motivo per cui si pensa che siano permessi questi appaiamenti insoliti
dipende dal fatto che la base si trova a livello dell’anticodone nel punto in cui quest’ultimo
presenta una sorta di curvatura, dunque si trova un po’ più rialzata.

FASE GTP DIPENDENTE DELLA TRADUZIONE


Caratteristiche generali della traduzione:
• Il messaggio viene letto dall’estremità 5’ all’estremità 3’, perciò il codone di inizio
AUG sarà in prossimità dell’estremità 5’ dell’mRNA;
• La sintesi degli amminoacidi avviene a partire dall’estremità ammino-terminale
(l’amminoacido situato a questa estremità è l’amminoacido 1) verso l’estremità
carbossi-terminale;
• L’mRNA dei procarioti viene tradotto mentre viene trascritto, invece negli eucarioti
l’mRNA, dopo essere maturato, viene esportato nel citoplasma, dove viene tradotto;
• L’mRNA può essere legato contemporaneamente a più ribosomi in modo che
ciascun ribosoma sintetizzi una catena polipeptidica. Si forma così un complesso
chiamato poliribosoma o polisoma.

La fase GTP dipendente della traduzione si divide in:


• Fase di inizio;
• Fase di allungamento;
• Fase di terminazione.

La fase di inizio nei batteri avviene


mediante il legame tra il primo codone
AUG e la formil-metionina (una metionina
modificata), trasportata da un tRNA. Nella
sequenza di mRNA, però, ci sono varie
AUG; perciò la fase di inizio è molto
importante perché permette di individuare
il codone di inizio corretto e il corretto
frame, ovvero la adeguata cornice di
lettura.
Nei batteri questa corretta individuazione
è permessa dal fatto che a livello
dell’mRNA, in particolare alla regione 5’
UTR è presente una sequenza detta di
Shine-Dalgarno, dal nome degli scopritori,
che è una sequenza conservata in tutti gli
UTR degli mRNA. Questa sequenza si
appaia attraverso i legami a idrogeno con una sequenza nucleotidica presente a livello
dell’RNA ribosomiale 16 S, che si trova nella subunità minore del ribosoma. Poche basi a
valle di questa sequenza è presente il codone di inizio AUG. In generale nei procarioti per
individuare il corretto codone di inizio della sintesi proteica viene utilizzata una
complementarietà tra le basi dell’mRNA al 5’ UTR e una sequenza di nucleotidi che si
trova a livello dell’RNA ribosomiale 16s.

A livello del ribosoma sono state


individuate 3 regioni strutturali:
• Sito A (aminoacilico), dove giunge
il tRNA con il nuovo amminoacido
che deve essere legato;
• Sito P (peptidilico), dove si trova il
tRNA legato alla catena
polipeptidica in via di formazione;
• Sito E (di uscita).

Cooperano alla sintesi proteica i fattori di inizio, di allungamento e di terminazione, che


intervengono rispettivamente nelle varie fasi. Alcuni di questi fattori sono legati al GTP
(guanosinatrifosfato), il quale con la sua idrolisi rappresenta una sorta di interruttore
molecolare: la proteina risulta attiva quando è legata al GTP; quando il GTP viene
idrolizzato, la proteina rimane legata al GDP (guanosinadifosfato) ma in questa forma è
inattiva; interviene successivamente uno scambio tra GDP e GTP in modo da ricaricare la
proteina in forma attiva.
7/12/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatore: Massimo Mascia
Lezione 16, parte seconda Revisore: Elios Voshtina

In quest’immagine sono evidenziati i vari meccanismi della traduzione.

Mediazione dei fattori di inizio


In un primo momento, l’mRNA si posiziona presso la
subunità minore del ribosoma grazie alla sequenza di
Shine-Dalgarno. Individuato il corretto AUG da cui
iniziare la traduzione, vi si lega il tRNA, che porta la
formilmetionina. A questo processo cooperano i fattori
di inizio della traduzione (IF1, IF2, IF3), che hanno vari
ruoli. D’altro canto, il tRNA iniziatore si legherà al sito
P, a differenza di tutti i tRNA successivi, che si
posizionano nel sito A. Questo è possibile grazie agli
IF1, che si legano al sito A, impedendo un errato
aggancio dell’iniziatore o un aggancio di ulteriori tRNA.
IF3 si lega invece alla subunità minore 30S,
impedendo il legame precoce con la subunità
maggiore e facilitando il posizionamento della subunità
minore a livello dell’mRNA. Da qui si ha l’arrivo del primo tRNA, ovvero l’iniziatore, nel sito
P; unico amminoacil-tRNA che si colloca inizialmente in quel sito e che viene facilitato nel
suo posizionamento da IF2 ovvero un fattore proteico IF2, legante il GTP. Nel momento in
cui l’appaiamento è avvenuto correttamente, il tRNA staziona nel sito del ribosoma legato
all’mRNA, viene idrolizzato il GTP e i fattori IF2 e IF1 vengono allontanati, insieme a IF3
che era stato rilasciato precedentemente. In questo momento si aggiunge la subunità
maggiore e il complesso ribosomiale o complesso di inizio è pronto (sito A ed E vuoti) per
procedere alla fase di allungamento.
Allungamento nella traduzione dei batteri

All’inizio della fase di allungamento, il sito P è


occupato dal tRNA iniziatore, mentre il sito A
(amminoacidico) è libero. Per cui arriverà in questa
regione un secondo tRNA, che presenterà un
anticodone complementare alla tripletta dell’mRNA.
Quindi si trovano giustapposti i due amminoacidi, tra
i quali si instaura il legame peptidico: avremo di
conseguenza un tRNA con un amminoacido che si
lega alla catena peptidica in formazione. Infine, il
tRNA precedente verrà liberato, mentre uno nuovo
arriverà presso il sito A. Attraverso questo
procedimento, possiamo chiarire l’etimologia del
termine “sito P”, che sta per sito peptidilico, in quanto
in questa sede avviene l’allungamento della catena
peptidica.

Come possiamo vedere nell’immagine,


anche l’inserimento del secondo tRNA nel
sito A è regolato da un fattore proteico,
legante GTP, fattore chiamato EF-Tu. Anche
in questo caso, l’idrolisi del GTP determina
la posizione finale del tRNA a livello del sito
A; così EF-Tu viene rilasciato, mentre il GDP,
connesso alla proteina, viene scambiato con
un GTP, per ricaricare il fattore. Tale scambio
viene mediato da un’altra proteina, EF-Ts
(fattore di scambio che permette di
rigenerare la proteina in forma attiva, cioè
legante il GTP). Di conseguenza, avviene il
legame tra i due amminoacidi, che si legano
in un dipeptide; ovverosia il gruppo
carbossilico del primo amminoacido (legato al tRNA) si legherà al gruppo amminico situato
nel sito A. Questo legame peptidico è catalizzato da un enzima, la peptidil transferasi, che
è proprio di un rRNA della subunità maggiore del ribosoma (rRNA con funzione catalitica).

Formazione del legame peptidico


Come possiamo osservare nell’immagine,
l'amminoacido è legato all’RNA (in rosso) tramite un
legame che coinvolge il 3’ ossidrile del tRNA e il
gruppo carbossilico dell'amminoacido.
Prendiamo in considerazione il caso in cui siano già
avvenuti alcuni cicli di allungamento:
il peptide in via di formazione è legato al tRNA nel sito
P tramite il suo gruppo carbossilico; nel sito A arrivano
i tRNA successivi e si forma così un legame peptidico
tra il gruppo carbossilico e il gruppo amminico.
Da questa immagine si capisce anche come la sintesi della proteina parta dall’estremità
ammino-terminale e proceda verso l’estremità carbossi-terminale.
Una volta formatosi il legame peptidico, i due amminoacidi che sono stati legati insieme,
risultano essere legati temporaneamente al tRNA posizionato a livello del sito A.
Il tRNA deve quindi essere rilasciato e il tRNA contenente il peptide nascente dovrà
traslocare nel sito P per lasciar vuoto il sito A e permettere al ciclo di ricominciare.
Questo avviene grazie a un meccanismo detto “traslocazione dal sito A al sito P”: grazie
a un fattore di traslocazione, anch’esso dipendente dal GTP, avviene lo scorrimento dei
tRNA. In questo modo:
● Il tRNA presente nel sito P andrà a finire nel sito E
o Sito E (exit) ⟶ rappresenta il sito di uscita dove il tRNA scarico si
posiziona prima di essere rilasciato
● Il tRNA portante o i primi due amminoacidi o la catena polipeptidica nascente si
troverà nel sito P, in modo che possa entrare un nuovo amminoacido legato al
tRNA nel sito A
In questo modo, gli amminoacidi legati al tRNA nel sito P verranno trasferiti con un legame
peptidico al tRNA presente nel sito A e così via. Così facendo la sintesi proteica va avanti,
fino a quando non si avrà nel sito A un codone di stop.

Immaginando di reiterare questo ciclo possiamo immaginare il processo di formazione di


un polipeptide funzionale.

Ogni ciclo di allungamento impiega 1/20 s di cui la maggior parte del tempo è persa alla
ricerca del corretto tRNA iniziale.

TERMINAZIONE

La terminazione della sintesi proteica avviene quando uno dei 3


codoni di stop viene a trovarsi nel sito A. A questo punto, abbiamo
nel sito P il tRNA contenente la proteina ormai formatasi e nel sito A
un codone di stop.
Non esistono tRNA per i codoni di stop: i tRNA legano
esclusivamente triplette codificanti. Il codone di stop viene quindi
riconosciuto da un fattore proteico (nei batteri sono 3, negli eucarioti
ne esiste uno solo) che, a spese di una molecola di GTP, è in grado
di determinare il distacco del polipeptide ormai formato dal tRNA. In
questo modo, si rompe il legame e viene liberata l'estremità
carbossi-terminale del polipeptide. La proteina termina così la sua
sintesi proteica. I ribosomi si disassemblano e si torna alla fase
iniziale.

Quindi, nella sintesi proteica, da un punto di vista energetico possiamo osservare:

● Una fase ATP-DIPENDENTE ⟶ corrisponde alla formazione dell’amminoacil-


tRNA

● Una fase GTP-DIPENDENTE ⟶ la si ritrova nella fase di inizio, nella fase di


allungamento e in quella di terminazione.
Differenze tra la sintesi proteica dei batteri e degli eucarioti
Vediamo ora alcune differenze tra la sintesi proteica dei procarioti e quella degli
eucarioti. Da punto di vista della logica del processo è tutto uguale: in entrambi i casi
abbiamo una fase di inizio, una di allungamento e una di terminazione; anche i ribosomi
funzionano allo stesso modo. Passiamo quindi a descrivere le differenze di questi due
processi.

1. Individuazione del primo AUG


La prima differenza riguarda l’individuazione del primo AUG, a livello del quale deve
iniziare la traduzione. Generalmente, negli eucarioti vale la “regola del primo AUG”:
è il primo AUG che si trova a livello dell’RNA messaggero che viene individuato come
codone di inizio della traduzione. Tuttavia, questa regola non è sempre valida. In
generale, quello che si è scoperto è che a livello dell’AUG dove deve iniziare la
sintesi proteica, vi è una sequenza consenso che viene chiamata sequenza di
Kozak (dalla ricercatrice che l’ha scoperta) in cui troviamo:

● A monte dell’AUG troviamo sempre o


adenina o guanina;
● Ci sono poi dei nucleotidi variabili;
nell’immagine sono riportati CC ma
possono essercene anche altri;
● Segue poi l’AUG che deve essere preso
per l’inizio della sintesi proteica seguito
sempre da una guanina.

La subunità minore dell’RNA scorre lungo il 5’


non tradotto dell’RNA messaggero fino a quando
non incontra la sequenza di Kozak; qui si blocca
e inizia la sintesi proteica.
La differenza sta quindi nel fatto che nei batteri
abbiamo la sequenza di Shine-Dalgarno, una sequenza complementare all’RNA
ribosomiale 16S, presente nella subunità minore. Avevamo quindi un meccanismo diverso
di riconoscimento perché negli eucarioti non ci sono sequenze complementari al rRNA ma
c’è questa sequenza consenso.

2. Inizio della traduzione


L’inizio della traduzione degli eucarioti differisce da quello dei
procarioti perché sono coinvolti molti più fattori di inizio. I fattori
di inizio vengono tutti indicati con IF come nel caso dei
procarioti, ma presentano una “e” davanti, proprio per indicare
che stiamo parlando dei fattori di inizio relativi agli eucarioti;
avremo quindi “eIF”. Generalmente, nella subunità minore del
ribosomi si forma un complesso prima che inizi la sintesi
proteica vera e propria; si tratta di un complesso di pre-inizio di
43S che contiene vari fattori di tipo 3 (eIF3), pronto per
accogliere l’RNA messaggero. A livello di questo complesso è
presente anche il fattore di tipo 2 (eIF2) che, come quello dei
procarioti, lega il tRNA iniziatore. Il tRNA iniziatore porta legata
la metionina non formilata; si tratta però di un tRNA
strutturalmente diverso dai tRNA che riconoscono il codone
AUG interno alla sequenza che deve essere tradotta; infatti, il tRNA iniziatore deve avere
una struttura tale da potersi posizionare direttamente nel sito P, mentre gli altri andranno
invece nel sito A.
Inoltre, l’RNA messaggero negli eucarioti è caratterizzato da un 5’ in cui è presente il Cap
o cappuccio e la coda Poli-A. Quindi, una serie di fattori di tipo 4 (eIF4) servono a
riconoscere il 5’ e, in seguito, una proteina specifica riconosce la coda di PoliA. Queste
due regioni prendono contatto tra di loro per cui l’RNA messaggero negli eucarioti assume
una tipica struttura ciclica a ciambella, ossia la struttura dell’RNA messaggero pronto per
essere tradotto. Pertanto dopo essersi assemblata tutta questa struttura riportata
nell’immagine, essa si andrà ad associare poi alla subunità maggiore del ribosoma, dando
il via all’inizio della traduzione.

Tabella di riepilogo delle differenze


Nell’allungamento dei procarioti
avevamo incontrato i due fattori EF-
T u e d E F - Ts c h e s e r v i v a n o
rispettivamente a portare il tRNA e a
ripristinare l’EF-Tu legato al GTP.
EF-G è invece il fattore di
traslocazione dal sito A al sito P.
Negli eucarioti, questi fattori hanno
altri nomi ma svolgono le stesse
funzioni
Per quanto riguarda i fattori di
terminazione ne abbiamo 3 nei
batteri e uno solo negli eucarioti, ma
complessivamente il concetto è lo
stesso: si tratta di fattori proteici che
riconoscono il codone di stop e che determinano il rilascio del peptide formatosi.

INCORPORAZIONE DELLA SELENOCISTEINA E PIRROLISINA

Recentemente sono stati scoperti due amminoacidi in più rispetto ai 20 canonici che
ritroviamo nelle proteine. Erano infatti note delle proteine degli archea che contenevano un
amminoacido insolito, la pirrolisina e delle proteine presenti negli eucarioti e negli
eubatteri che contenevano un altro amminoacido insolito, la selenocisteina, contenente il
selenio.
Si pensava che queste proteine fossero proteine modificate, cioè che derivassero da
modificazioni post traduzionali; tuttavia, è stato scoperto che questi amminoacidi vengono
codificati dal codice genetico.

“Quali sono i codoni che codificano questi amminoacidi?”


I codoni che codificano per la selenocisteina e la pirrolisina sono codoni di STOP, che si
vengono però a trovare in strutture tridimensionali tipiche dell’mRNA tali che, quando si
posizionano a livello del ribosoma, non vengono riconosciuti come codoni di terminazione,
ma vengono riconosciuti come codoni codificanti dai tRNA che trasportano o la
selenocisteina o la pirrolisina.
“Cosa si intende per motivi strutturali?” Il tRNA dei batteri che porta legata la
selenocisteina riconosce l’UGA, un normale codone di stop, se questo è inserito in una
struttura a forcina del tipo che vediamo nell’immagine b.
Negli eucarioti e negli archea la situazione è un po’ diversa ma il concetto è lo stesso:
l’UGA che viene utilizzato come codone per la selenocisteina si trova a monte del codone
di stop vero e proprio, il quale è seguito da una struttura a forcina.
Anche la pirrolisina, riportata nell’immagine c, che troviamo negli archea possiede un
codone in prossimità del codone di stop che viene riconosciuto dal tRNA che porta la
pirrolisina, seguito da una struttura a forcina.

Dobbiamo quindi ampliar la nostra visione di corrispondenza tra codoni e amminoacidi


poiché gli amminoacidi codificati dal codice genetico sono in realtà 22.
Inoltre, tutti gli enzimi contenenti selenio, che si trovano ad esempio nelle nostre cellule,
sono enzimi coinvolti nei meccanismi antiossidanti; per questo vediamo molti integratori
alimentari ricchi di selenio poiché questo amminoacido particolare rientrerà a far parte di
enzimi coinvolti nella difesa antiossidante.

INIBITORI DELLA SINTESI PROTEICA


Guardiamo ora alcuni antibiotici che agiscono in maniera selettiva sulla sintesi proteica dei
procarioti, per sottolineare un concetto già incontrato: la terapia la mirata contro
un'infezione batterica deve essere volta a inibire un qualche processo a livello dei batteri
senza influenzare quello della cellula eucariota.
Ci sono infatti delle molecole in grado di inibire la sintesi proteica sia procariotica che
eucariotica con vari meccanismi, ad esempio:
● La puromicina (eucarioti e procarioti) partecipa alla formazione del legame
peptidico causando la terminazione prematura del polipeptide;
● La tetraciclina (procarioti) impedisce l’attacco dell’amminoacil-tRNA;
● Il cloramfenicolo (procarioti) inibisce l’attività peptidiltransferasica del legame
peptidico;
● La streptomicina (procarioti) inibisce l’inizio della traduzione solo nei procarioti.
14/12/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatore: Andrea Pirillo
Lezione 17, parte prima Revisionatrice: Gaia Simone

LE MUTAZIONI
Esistono oltre cento enzimi coinvolti nei meccanismi di riparazione, tuttavia con bassa
frequenza possono insorgere delle mutazioni nel genoma, dovute non solo ad errori nella
duplicazione ma anche ad agenti mutageni esterni, come ad esempio le radiazioni.

Esistono mutazioni più o meno gravi, a seconda del tipo di cellula:

Mutazione a livello di una cellula somatica


Una mutazione che avviene all’interno di una cellula somatica determina che questa
cellula, quando si divide, trasmetterà alle cellule figlie questa mutazione; sarà comunque
una delle tante cellule somatiche di quel determinato tessuto. Di conseguenza una
mutazione a livello di una cellula somatica avrà un significato generalmente meno grave di
una mutazione causata a livello della linea germinale. Chiaramente questo non è vero in
assoluto perché ad esempio i tumori sono causati dall’insorgenza di mutazioni a livello di
una cellula somatica (spesso è necessaria più di una mutazione perché si abbia un
fenotipo tumorale). Queste mutazioni in geni importanti, che controllano ad esempio la
velocità di crescita o il differenziamento, se si accumulano possono dare vita a cellule
tumorali.
- Lezione n°18
Mutazione a livello di una cellula germinale
Consideriamo
tazione a livello di una cellulail caso in cui a livello di una cellula germinale avviene una mutazione che
germinale
mo il caso in andrà a finire nei gameti; sigerminale
cui a livello di una cellula forma così uno spermatozoo
avviene una mutazione mutato. Se questo
che andrà a spermatozoo
sarà così
gameti; si forma quello
unoche feconderàmutato.
spermatozoo la cellula
Se uovo,
questolospermatozoo
zigote sarà sarà
eterozigote per quella mutazione
quello che
e avremo
la cellula uovo, l’individuo
lo zigote intero cheper
sarà eterozigote sarà portatore
quella quellae mutazione.
mutazione avremo l’individuo
sarà portatore quella mutazione.
Particolarmente pericolose sono le mutazioni che caratterizzano geni oncogeni e geni
oncosoppressori, in quanto portano alla formazione di cellule tumorali.

ssuntiva delle mutazioni:


Principali tipologie:

• Mutazioni puntiformi riguardano una o poche basi


• Mutazioni genomiche riguardano il numero di cromosomi (già trattate nella
meiosi)
• Mutazioni cromosomiche riguardano la struttura dei cromosomi (non vengono
trattate da questo corso)

Le mutazioni puntiformi si dividono in:

• Sostituzione
• Delezione
• Inserzione

In base al fatto che una base venga sostituita con un’altra, eliminata completamente, o se
ne inserisca una nuova.
Nella sostituzione di una base possono accadere diverse cose al fenotipo proteico:

Nelle mutazioni samesense (o silenti) a causa della ridondanza del codice genetico si
viene a creare un codone che codifica lo stesso amminoacido, per cui non ci sono effetti
sulla proteina

Nelle mutazioni missense si ha un codone che codifica un amminoacido diverso, a


questo punto possono succedere due cose: si ha una mutazione di senso quando la
proteina sintetizzata è inattiva, mentre si ha una mutazione neutra quando risulta attiva.
È impossibile dare una previsione accurata di ciò che avviene alla proteina, tuttavia
generalizzando si può affermare che quando un amminoacido viene sostituito con un
amminoacido della stessa tipologia si verifica una mutazione neutra.

Un esempio interessante di una mutazione di senso è quella della catena β


dell’emoglobina che comporta l’insorgenza di una patologia chiamata anemia falciforme.
Essendo una mutazione di senso, un codone per l’acido glutammico viene mutato in un
codone per la valina. Quindi, le catene β dell’emoglobina (l’emoglobina presente due
catene α e due β) conterranno questa mutazione. Alcuni globuli rossi presenteranno la
tipica forma “a falce” che dà il nome alla malattia
Non è tuttavia detto che queste modificazioni causino problemi o meno. Se ho un enzima e cambio
Nonun èamminoacido
tuttavia dettonel
che queste
sito attivomodificazioni causino
è probabile che problemi
questo o meno.
non funzioni più Se
maho
se un enzima
cambio ad eesempio
cambio
unl’ultimo
amminoacido nel sito attivo è probabile che questo non
amminoacido di questo enzima può non succedere nulla. funzioni più ma se cambio ad esempio
l’ultimo amminoacido
Ex. Mutazione non di questo enzima
conservativa ⟶ può nonglutammico,
l’acido succedere nulla.
uno degli amminoacidi carichi viene
o – l’anemia falciforme
Ex.sostituito
Mutazione ⟶ l’acido
con non conservativa
la valina, un amminoacido glutammico,
ramificato uno degli
non carico; amminoacidi
questa mutazione carichi
comporta viene
la
sostituito con funzione
perdita della la valina,della
un amminoacido
proteina. ramificato non carico; questa mutazione comporta la
sante di perdita della funzione della proteina.
atena β
sorgenza
anemia
zione di
tammico
a valina.
oglobina
a α e due

3. Mutazione nonsenso
Un3. codone per nonsenso
Mutazione un amminoacido viene sostituito da un codone di stop; ciò determina una
terminazione precoce della sintesi proteica e conseguentemente la proteina sarà più corta di tot
Un codone
Nelle per un
mutazioni amminoacido
nonsenso viene sostituito
un codone da per
un un
codone di stop; ciò determina
sostituitouna
amminoacidi, a seconda del punto in cui è che codifica
avvenuta amminoacido
la sostituzione. viene
terminazione
da un codone precoce della sintesi proteica e conseguentemente la proteina sarà
di stop; ciò determina una terminazione precoce della sintesi proteica più cortae di tot
ne tra il genotipo e
amminoacidi, a seconda del puntosarà
in cuipiù
è avvenuta la sostituzione.
conseguentemente la proteina corta di tot amminoacidi, a seconda del punto in
e di un individuo
cui è avvenuta la sostituzione.
me:
azione che abbiamo

vello delle proteine


cuni globuli rossi
esentano la tipica
dà il nome alla
presentano quindi
funzionaleTabella
e una riassuntiva:
di il fenotipo è una
a Tabella riassuntiva:
sostituzione

ssi non è più in grado di trasportare l’ossigeno e i globuli rossi


capillari, dando complicazioni. Gli individui eterozigoti sono però
globuli rossi è sano perché se non sono in condizioni particolari
Pag. 9 di 20

Mutazioni frameshift
Ci sono poi un altro tipo di mutazioni, chiamate mutazioni frameshift o mutazioni per
scivolamento del codice di lettura. Immaginiamo quello che succede se inserisco o tolgo un
Mutazioni
Mutazioni Frameshift
frameshift
nucleotide rispetto alla lettura del codice genetico: siccome le triplette vengo lette 3 a 3, se
Ci sono poi un altro tipo di mutazioni, chiamate mutazioni frameshift o mutazioni per
Sono mutazionidel
scivolamento particolarmente gravi, Immaginiamo
codice di lettura. in quanto l’inserzione o la delezione
quello che succede se di un nucleotide
inserisco portaun
o tolgo
Pag. 8 di 20
ad uno scivolamento
nucleotide della
rispetto alla cornice
lettura deldi codice
lettura:genetico:
da quel punto in poiletutti
siccome i codoni
triplette saranno
vengo lettesfasati
3 a 3,dise
un nucleotide, formando codoni totalmente diversi e di conseguenza si originerà una proteina
diversa. Pag. 8 di 20
inserisco o tolgo un nucleotide, dal punto di inserzione o di delezione avrò uno scivolamento del
codice di lettura. Osserviamo l’immagine: nell’immagine viene eliminata una C; mentre prima
venivano letti i codoni AGC, CAC ecc., ora, togliendo quella base leggeremo AGC, che viene
comunque letto come serina, ma il codone successivo è diventato ACA, che corrisponde alla
treonina. Si è quindi scorso il codice di lettura di un nucleotide e conseguentemente tutti gli altri

A polimerasi è enzima molto fedele e presenta un’attività di


bozze. Al contrario, l’RNA polimerasi è molto meno fedele ed è
le mutazioni durante il fenomeno della trascrizione; queste
o nel tempoamminoacidi
e non sono ereditabili.
saranno diversi. Sono infatti eventi sporadici
n sono rilevanti.
DESTINO POST TRADUZIONALE DELLE
Esempio di una mutazione di senso – l’anemia falciforme
PROTEINE

LE DELLEAPROTEINE
seguito
Vediamodella
ora sintesi proteica
un esempio la proteina
interessante di si ripiega assumendo la sua conformazione
tridimensionale
una mutazionee viene di sensoindirizzata ad uno
della catena β specifico compartimento cellulare. Tratteremo
quindi
oni che riguardano quattroladiversi
dell’emoglobina che punti:
comporta l’insorgenza
modalità con cui le proteine vengono
di una patologia chiamata anemia
nuli all’interno della cellula, come vengono modificate, come
1. Folding
falciforme.
particolare, analizzeremo delle
Essendo
4 puntiproteine
una mutazione di
che fanno parte del cosiddetto
senso, un codone per l’acido glutammico
oteine”.
viene mutato in un codone per la valina.
Il primo punto riguarda il ripiegamento delle proteine, detto anche folding. L’aspetto dello
Quindi, le catene β dell’emoglobina
ne studio del folding proteico è un aspetto estremamente importante; dobbiamo infatti
(l’emoglobina presente due catena α e due
mento delle considerare
proteine, che tuttaanche
detto una serie di patologie
folding. derivano
L’aspetto dellodastudio
un ripiegamento erroneo delle
β) conterranno questa mutazione.
o estremamenteproteine,importante;
come il Parkinson dobbiamoe l’Alzheimer. Se le proteine che
infatti considerare non si ripiegano correttamente,
ossia non assumono la struttura
vano dal mal ripiegamento delle proteine come il Parkinson otridimensionale corretta, possono precipitare o all’interno
si “foldano”dellecorrettamente,
cellule o al di fuoriossia di esse,
non formando
assumono degli aggregati
la strutturache vanno a rendere il tessuto
(nel caso delle patologie sopracitate
o precipitare o all’interno delle cellule o al di fuori di esse, il tessuto nervoso) completamente disfunzionali.
nno a rendere il tessutostabilire
(nel caso delle patologie sopracitate il
disfunzionali.Lo Possiamo
studio delcosì ripiegamento unadelle
relazione tra il ha
proteine genotipo
inizio enel 1957, quando Anfisen fece degli
il sulla
fenotipo a livello A, molecolare di ossia
un individuo
roteine hastudi inizio nel
eterozigote
ribonucleasi
1957,
per quando
la patologia
un uno
RNAasi, scienziato, un Anfisen,
enzima che
in esame:(124 amminoacidi)
degrada l’RNA. Si tratta di un
fece
RNAasi, enzima molto piccolo di dimensioni contenente quattro ponti disolfuro.
● Il genotipo presenta la mutazione che abbiamo
’RNA. Si visto
ccolo di ● Il fenotipo molecolare a livello delle proteine
ntenente emoglobina, presenta alcuni globuli rossi
normali, mentre altri presentano la tipica
nzima in struttura “a falce” che dà il nome alla
mente si patologia; questi individui presentano quindi
urea, un una parte di emoglobina funzionale e una
causa la parte disfunzionale. Quindi il fenotipo è una
nsionale proteina con la sostituzione
valutare glutammico-valina.
etri:
l’attività L’emoglobina di questi globuli rossi non è più in grado di trasportare l’ossigeno e i globuli rossi
proteina tendono a precipitare a livello dei capillari, dando complicazioni. Gli individui eterozigoti sono però
perfettamente sani: il fenotipo dei globuli rossi è sano perché se non sono in condizioni particolari
Questo
rché man mano che scienziato
l’enzimamisesiquesto enzima
denatura, in una soluzione
le proteine in cui progressivamente si
denaturate
aumentava la concentrazione
ro e la soluzione diventa più viscosa. dell’urea, un agente
Pag. denaturante
9 di 20 (ossia che causa la perdita
della struttura tridimensionale delle proteine) e andò a valutare contemporaneamente due
o che aumenta la concentrazione dell’agente denaturante,
parametri:
la viscosità, fino a che l’attività cala quasi a 0. Se rimuovo
urante l’enzima riesce poi a riacquistare la sua attività e la sua
significa che, in vitro, nella sequenza primaria della proteina c’è
uttura tridimensionale.
cune proteine di piccole dimensioni, è possibile compiere questa
che se vengono denaturate e se si rimuove l’agente denaturante,
na guida l’acquisizione della struttura tridimensionale e quindi il
● L’attività dell’enzima perché se l’attività diminuisce vuol dire che la proteina viene
degradata
● La viscosità della soluzione perché man mano che l’enzima si denatura, le proteine
denaturate tendono ad aggregarsi tra di loro e la soluzione diventa più viscosa.

Anfisen osservò che man mano che aumenta la concentrazione dell’agente denaturante,
diminuisce l’attività e aumenta la viscosità, fino a che l’attività cala quasi a 0. Se rimuovo
progressivamente l’agente denaturante l’enzima riesce poi a riacquistare la sua attività e la
sua struttura tridimensionale. Questo significa che, in vitro, nella sequenza primaria della
proteina c’è scritto quale deve essere la sua struttura tridimensionale. Vediamo quindi che
in vitro, per alcune proteine di piccole dimensioni, è possibile compiere questa tipologia di
esperimenti perché anche se vengono denaturate e se si rimuove l’agente denaturante,
la sequenza primaria della proteina guida l’acquisizione della struttura
tridimensionale e quindi il folding.

Tuttavia, in vivo, questo avviene in maniera molto più complessa, infatti, l’ambiente
cellulare è molto “affollato”: ci sono centinaia di migliaia di ribosomi che sintetizzano molte
proteine contemporaneamente per cui le proteine nascenti in forma denaturata potrebbero
anche interagire tra di loro, formando degli ammassi di proteine denaturate. In vivo ci sono
quindi dei meccanismi che coinvolgono delle proteine che vengono chiamate chaperoni
molecolari che guidano il folding e fanno in modo che le proteine trovino la loro struttura
tridimensionale ottimale, ossia quella funzionale poiché impediscono loro di interagire con
altre proteine.

Esistono due tipi di chaperoni:

● Gli chaperoni della famiglia degli Hsp


Hsp sta per “heat shock proteins” ossia “proteine sensibili al calore”; sono state infatti
trovate per la prima volta nelle colture di batteri sottoposti a shock termico: se la
temperatura di crescita di una coltura batteria viene leggermente alzata, i batteri
producono queste proteine stimolate proprio dallo shock termico che servono poi a
permettere alle altre proteine che hanno perso la loro struttura tridimensionale di
riacquisirla. Il numero che segue la sigla Hsp indica il peso
molecolare (ad esempio Hsp70 vuol dire che hanno 70 KD)
● Le chaperonine, degli aggregati proteici più complessi che vengono ulteriormente
suddivise in:
Gruppo I ⟶ sono presenti negli eubatteri, nei mitocondri e nei cloroplasti
Gruppo II ⟶ sono caratteristiche degli eucarioti e degli archea

Vediamo quindi come funzionano:

Gli chaperoni molecolari, ad esempio quelli della famiglia dell’Hsp70, legano la proteina
quando questa emerge dal ribosoma e la mantengono in forma denaturata; in questo
modo, la proteggono dall’interazione con altre proteine fino a quando tutta la sintesi
proteica non si è conclusa. La sintesi proteica andrà avanti, delle chaperonine
legheranno la proteina nascente e solo alla fine, quando tutta la proteina sarà stata
sintetizzata, potrà assumere la sua struttura tridimensionale.

Le chaperonine hanno invece una tipica struttura a barilotto che contiene due anelli
costituiti da sette subunità e un cappuccio. All’interno di questa struttura vengono accolte
le proteine neosintetizzate e qui possono acquisire la loro conformazione tridimensionale
separate dalle altre proteine del citosol. Queste strutture rappresentano delle specie di
“camere di folding” dove le proteine neosintetizzate possono entrare e strutturarsi.
Il meccanismo che si pensa che avvenga è quello raffigurato nell’immagine: la proteina
nascente viene legata dagli chaperoni che ne impediscono il contatto con altre proteine e
poi successivamente la proteina o si ripiega semplicemente con l’aiuto degli chaperoni
oppure, sempre legata dagli chaperoni Hsp70, entra all’interno della chaperonina, dove
assume la sua conformazione tridimensionale.

Nei batteri l’85% delle proteine si ripiega spontaneamente o con l’aiuto degli Hsp70. Le
restanti proteine necessitano di un ambiente più isolato per il loro ripiegamento, come
quello creato dalle chaperonine, mentre negli eucarioti circa l’80% delle proteine usa le
chaperonine.
2. Meccanismi e vie di smistamento delle proteine

Andiamo ora a esaminare quali sono i meccanismi di smistamento delle proteine. Le


proteine possono seguire due vie:
● Una via citosolica ⟶ viene seguita dalle proteine destinate ai mitocondri, al nucleo, ai
perossisomi oppure ai cloroplasti
● Una via vescicolare o secretoria ⟶ viene seguita dalle proteine destinate al reticolo
endoplasmatico, al Golgi, ai lisosomi, alla membrana o alla secrezione

Queste due modalità che si distinguono immediatamente perché la via vescicolare ha


inizio non appena l’N-terminale della proteina esce dal ribosoma e quindi la proteina
nascente viene subito riconosciuta da un complesso che trasferisce proteina nascente e
ribosoma a livello del RER; da qui parte la via vescicolare.

Per quanto riguarda la via citosolica, questa inizia e termina sui ribosomi liberi. In questo
caso le proteine che hanno come destinazione nucleo, mitocondri, cloroplasti o
perossisomi vengono sintetizzate interamente nel citoplasma.
Perché da un punto di vista molecolare queste proteine vanno a finire in specifici distretti
cellulari? Questo perché le proteine presentano un peptide segnale, cioè una regione,
spesso situata all’N-terminale, che segnala il destino finale della proteina stessa. Queste
sequenze N-terminale verranno poi rimosse.

Nel caso delle proteine destinate al reticolo endoplasmatico e da qui a tutta la via
vescicolare presentano una specifica sequenza all’N-terminale che normalmente verrà
rimossa. Le proteine destinate al mitocondrio e ai cloroplasti hanno una specifica
sequenza N-terminale anch’essa rimossa. Per i perossisomi possiamo avere una
sequenza o al C-terminale o all’N-terminale che di solito non viene rimossa. Le proteine
destinate al transito
“Biologia” - Lezione n°18 attraverso i pori nucleari presentano una sequenza interna che non
viene rimossa.

LA VIA VESCIOLARE

1. Proteine destinate al nucleo


Vediamo ora come avviene il trasporto delle proteine
verso il nucleo.
Il nucleo presenta numerosi pori nucleari attraverso i
Via citosolica:
1. Proteine destinate al nucleo

Il nucleo presenta numerosi pori nucleari attraverso i quali generalmente possono passare
molecole. Le proteine che passano liberamente devono avere un segnale di localizzazione
nucleare,
LA dato da amminoacidi carichi positivamente (lisina e arginina) che non vengono
VIA VESCIOLARE
rimossi. Le proteine di piccole dimensioni (più o meno inferiori ai 40 KD) passano
liberamente, mentredestinate
1. Proteine quelle di piùalgrande
nucleodimensione, hanno bisogno di meccanismi di
trasporto specifici. Vediamo ora come avviene il trasporto d
verso il nucleo.
Il nucleo presenta numerosi pori nuclea
quali generalmente possono passare
molecole e proteine di piccole dime
meno inferiori ai 40 KD). Le proteine
liberamente devono avere un
localizzazione nucleare. Le proteine d
dimensione, come la maggior parte d
devono essere esportati dal nucleo a
hanno bisogno di meccanismi di traspor
Il traffico attraverso i pori nucleari è bid
Questi meccanismi di trasporto attra
nucleare sono mediati da delle proteine
le importine e le esportine.

Pag. 16 di 20
Il traffico attraverso i pori nucleari è bidirezionale. Questi meccanismi di trasporto
attraverso il poro nucleare sono mediati da delle proteine di trasporto, le importine e le
esportine.
Generalmente, le importine mediano il trasporto all’interno del nucleo, mentre le esportine
quello verso l’esterno. Non è una regola generale perché alcune possono funzionare a
seconda delle proteine in un senso o nell’altro. Quello che regola la direzione del
trasporto, infatti, non sono queste proteine ma la disponibilità di una piccola proteina G,
detta Ran, legata al GTP (Ran-GTP). Anche questa nuova proteina legante il GTP rientra
in quella vasta gamma di proteine leganti il GTP con ruoli di trasporto o trasferimento,
idrolizzando il GTP in GDP.

Nell’importazione la proteina che deve essere trasportata all’interno del nucleo contiene
una sequenza di trasferimento nucleare chiamata NLS (quella in azzurro nell’immagine).
Questa proteina si lega quindi ad un’importina che riconosce la proteina cargo (ossia
quella da trasportare), che sarà trasportata all’interno del nucleo. Qui, la dissociazione
importina-proteina cargo è mediata dalle proteine Ran-GTP che si lega al complesso,
determinando il rilascio della proteina cargo. A questo punto l’importina deve essere
riportata nel citoplasma perché il meccanismo possa continuare; questo trasporto è
mediato sempre dal Ran; questo complesso passa attraverso il poro nucleare, il GTP
viene idrolizzato a GDP e a questo punto l’importina viene liberata e il ciclo può
ricominciare.

Con un meccanismo del tutto simile avviene anche l’esportazione; quello che esce è
legato al Ran-GTP. In questo caso interviene un’esportina che viene legata ad una
proteina che possiede una sequenza di esportazione nucleare, la NES. Nell’immagine
sotto viene fatto l’esempio che la proteina cargo sia una proteina responsabile del
trasporto del complesso RNA-proteina; quindi, questo complesso si lega all’esportina, il
tutto viene trasportato fuori e poi, la presenza delle proteine che stimolano l’attività
GTPasica nel lato citosolico, causano l’idrolisi del GTP a GDP; si riforma così l’esportina
libera che poi
“Biologia” può ritornare
- Lezione n°18 all’interno del citoplasma.
Alcune proteine possono avere entrambe le sequenze, per entrare e successivamente
uscire dal nucleo
funziona perfettamente perché se prendiamo
una sequenza segnale mitocondriale e la
mettiamo in una proteina che normalmente sta
nel citoplasma, questa proteina va a finire nel
mitocondrio. Ad esempio, sperimentalmente,
per visualizzare i mitocondri, può essere
2. inserita
Proteine destinate al mitocondrio
all’interno delle cellule una proteina
fluorescente, il GFP, con la sequenza di
Le proteine destinate almitocondriale.
localizzazione mitocondrio possiedono una regione all’estremità N-terminale di
una serie di amminoacidi generalmente basici (arginina e lisina) seguita poi da altri
A livello dei mitocondri, le proteine possono
amminoacidi. A livello dei mitocondri, le proteine possono essere o proteine di membrana
essere o proteine di membrana o proteine della
o proteine della matrice mitocondriale.
matrice mitocondriale.
A livello della membrana mitocondriale esterna esiste un traslocatore, ossia un complesso
proteico di cui vi è una parte che funziona da recettore della proteina da importare e una
parte simile a un canale che funziona per traslocare la proteina dal citoplasma nel
mitocondrio. Questa struttura è abbastanza piccola come dimensioni, per cui le proteine vi
passano in forma denaturata: le proteine destinate al mitocondrio non assumono quindi
una loro conformazione tridimensionale e perciò sono legate agli chaperoni molecolari.
A questo punto, la proteina entra all’interno del mitocondrio e se è destinata alla matrice
passerà anche attraverso un secondo complesso di traslocazione presente a livello della
trasportomembrana
citoplasma-mitocondrio.
mitocondriale interna (complessi TOM e TIM), dove verrà tagliato il peptide
ndriale segnale.
ssia un
a parte
eina da
canale
ina dal
Questa
come
assano
stinate
ndi una
ale nel
maniera
to sono

entra
stinata
erso un
cazione
mbrana
TOM e
peptide
ndriali,
Pag. 19 di 20
Degli chaperoni mitocondriali, diversi da quelli citosolici, assisteranno la proteina nella sua
acquisizione della struttura tridimensionale definitiva.
Se la proteina è destinata a diventare una delle numerose proteine di membrana
mitocondriale interna, questa possiederà, oltre alla sequenza di localizzazione
mitocondriale, una sequenza di arresto a livello della neomembrana mitocondriale interna;
sono sequenze ricche di amminoacidi idrofobici. Questa proteina sarà traslocata
attraverso un secondo complesso (TIM 22).

3. Proteine destinate ai perossisomi


Le proteine destinate ai perossisomi possono avere sia un’estremità carbossi-terminale a
livello della quale è presente un peptide segnale, sia un’estremità ammino-terminale.
14/12/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatrice: Miriam Lentidoro
Lezione 17, parte seconda Revisionatrice: Bianca Niccolai

SMISTAMENTO DELLE PROTEINE:


VIA VESCICOLARE
Proteina destinata al reticolo endoplasmatico
Le proteine contengono una sequenza al N-terminale costituita da circa 11 residui
amminoacidici idrofobici. Queste sequenze segnale vengono normalmente rimosse.
Una caratteristica importante è che la sintesi di queste proteine inizia sui ribosomi
liberi e dopo poco tempo però, la sintesi si arresta.
Questo accade perché la sintesi riprenderà solo nel momento in cui i ribosomi si
attaccheranno al reticolo endoplasmatico.
Tale meccanismo permette di comprendere meglio il reticolo endoplasmatico: nel
reticolo endoplasmatico rugoso ci sono dei ribosomi; tuttavia non esiste un pool di
ribosomi specifico per il reticolo endoplasmatico e il legame tra i ribosomi e il reticolo
è definito appunto transiente.
La sintesi proteica inizia sempre sui ribosomi liberi. Quando la proteina è destinata
alla via vescicolare, dopo circa la sintesi di una quarantina di amminoacidi, la proteina
(porzione N-terminale) inizierà a emergere dalla struttura del ribosoma, che prima la
proteggeva e copriva. Emergerà quindi anche la sequenza segnale, che verrà
riconosciuta da due proteine:
1- complesso NAC (nascent associated complex), associato alla proteina nascente;
2- complesso SRP (signal recognition particle), ovvero la particella deputata al
riconoscimento specifico del segnale, e che è costituito da più proteine e da un piccolo
RNA citoplasmatico.
Una volta che la proteine nascente viene riconosciuta da questi due complessi, la
sintesi proteica si
arresta e il ribosoma
viene riconosciuto dal
reticolo
endoplasmatico.
Qui troviamo un
complesso, chiamato
traslocatore, costituito
da una porzione dove è
presente un recettore
per il ribosoma, un’altra
porzione che è
recettore per l’SRP e un
canale.
E’ come se il ribosoma venisse ancorato temporaneamente al reticolo
endoplasmatico.
In questa fase vengono legate 2 molecole di GTP, che verranno poi idrolizzate, con il
conseguente distacco dell’ SRP, del NAC e la ripresa della sintesi proteica. La proteina
viene sintetizzata e potrà essere rilasciata nel reticolo endoplasmatico.
Il peptide segnale (vedi immagine, in verde) viene rimosso. Terminata la sintesi
proteica, il ribosoma si
dissocerà nelle sue due
componenti e verrà rilasciato
nel citoplasma. Non
esistono quindi ribosomi
attaccati al reticolo
endoplasmatico che
effettuano la sintesi delle
proteine (rimanendo
attaccati), ed è per questo che
si parla di legame transitorio
fra reticolo endoplasmatico e
ribosomi.

Proteina destinata alla membrana


Per quanto riguarda le proteine destinate alla membrana del reticolo endoplasmatico,
esse hanno una porzione idrofobica (vedi immagine, in giallo), ed è per questo
motivo che la proteina verrà bloccata quando incontrerà questa sequenza idrofobica,
che la obbliga a rimanere nella
membrana del reticolo.
La sua sintesi continuerà
ugualmente e alla fine si avrà
una proteina integrale del
reticolo endoplasmatico.
Questo rappresenta il
meccanismo con cui vengono
sintetizzate tutte le proteine
intrinseche destinate alla
membrana plasmatica.

Nel caso in cui c’è una proteina intrinseca (vedi immagine), si fonderanno delle
vescicole con le cisterne del Golgi (la proteina potrà essere anche modificata), e al
termine, quando questa vescicola si fonderà con la membrana plasmatica, questa
proteina rimarrà una proteina intrinseca di
membrana.
In questa immagine si capisce anche come
vengono create le proteine di secrezione
(es: proteina della matrice extracellulare,
ormoni di natura proteica, come l’insulina),
in quanto le proteine sintetizzate nel
reticolo endoplasmatico possono essere
introdotte all'interno di una vescicola, che si
andrà a fondere con le cisterne del Golgi e
la proteina sarà qui modificata.
Successivamente una vescicola di
indirizzamento finale la porterà alla
membrana plasmatica, dove la proteina di
secrezione verrà rilasciata.
Non ci sono vie diverse per introdurre o espellere proteine dalla cellula.
Le proteine estrinseche interne alla membrana vengono invece sintetizzate sui
ribosomi liberi e poi interagiscono con la membrana stessa.
Le proteine estrinseche che si attaccano alla membrana nel lato extracellulare
seguiranno il meccanismo precedentemente descritto

MODIFICAZIONI POST-TRADUZIONALI DELLE PROTEINE


Le modifiche post-traduzionali delle proteine sono fondamentali per far acquisire
alle proteine la loro funzione biologica.
Possono essere di diverso tipo: modificazioni stabili, instabili, reversibili o irreversibili.
Queste modificazioni avvengono, per la maggior parte, a livello del citoplasma, oppure
possono avvenire durante il transito delle proteine dal reticolo endoplasmatico ruvido
all’apparato del Golgi,o in altri distretti specifici.

Esempi di modificazioni post-traduzionali che avvengono esclusivamente al livello del


reticolo endoplasmatico
ruvido e dell’apparato del
Golgi sono:
le glicosilazioni;
l’idrossilazione della prolina e
della lisina (importanti per la
stabilizzazione delle molecole
di tropocollagene e la sua
corretta funzione);
ancoraggio di alcuni lipidi alla
membrana (glicosil fosfatidil
inositolo) ; la formazione
dell’insulina (proteina
prodotta sotto forma di catena
polipeptidica più lunga, chiamata preproinsulina, che viene tagliata rimuovendo il
peptide segnale, con conseguente formazione di ponti disolfuro, i quali uniscono le
due catene polipeptidiche formando l’insulina matura).

La maggior parte delle proteine di


membrana e di secrezione sono
glicosilate, ed è per questo che la
glicosilazione è un processo
estremamente importante. Ne esistono
due tipi:
- N-glicosilazione, avviene inizialmente
nel reticolo endoplasmatico e poi nel
Golgi. L'attacco dello zucchero avviene
su un residuo di asparagina che
presenta nella sua catena laterale un -
NH2, (per questo N-glicosilazione).
Questo processo avviene in
contemporanea alla traduzione della proteina stessa e perciò viene definito “co-
traduzionale”. La catena zuccherina viene prima sintetizzata a parte e poi
addizionata all’asparagina, dove l’oligosaccaride viene assemblato su un lipide di
membrana, chiamato dolicolo, mediante dei fosfati. Una volta avvenuta la
glicosilazione e la completa sintesi proteica, si avrà il transito della glicoproteina dalla
membrana endoplasmatica al Golgi e, durante questo trasferimento, verranno
effettuate ulteriori modifiche sulla catena oligosaccaridica.
- O-glicosilazione, che avviene nel Golgi, l’attacco dello zucchero avviene sul gruppo
-OH presente sulla catena laterale di un residuo di serina o di treonina (per questo
O-glicosilazione). A differenza dell’altro meccanismo qui la glicosilazione avviene
direttamente nel Golgi; perciò, avverrà una volta che la proteina è già stata
sintetizzata, per questo motivo questo processo viene definito come processo "post-
traduzionale".

ENDOCITOSI MEDIATA DAI RECETTORI


Come sanno le proteine dove devono andare? Anche qui le vescicole devono
presentare delle proteine segnale che permettono l’indirizzamento di questi organuli
nei giusti target.

Parte della via secretoria non comprende soltanto la membrana, ma anche i lisosomi.
Essi si formano nel Golgi e derivano da queste vescicole (endosomi) e acquisiscono
un ph acido, insieme ai rispettivi enzimi lisosomiali. Come sono indirizzati nei lisosomi
gli enzimi lisosomiali?
Gli enzimi lisosomiali presentano tutti un marker specifico, rappresentato da un
residuo di zucchero, il mannosio, che viene fosforilato. Tutti gli enzimi che andranno
a finire nei lisosomi saranno prima sintetizzati nel reticolo endoplasmatico, e
successivamente saranno N-glicosilati. La catena oligosaccaridica viene fosforilata e
viene aggiunto un mannosio fosforilato. Questa proteina migrerà fino al Golgi trans,
dove ci saranno dei recettori a livello della membrana che riconosceranno le proteine
contenenti il mannosio
fosforilato.
Si formerà una vescicola
ricoperta da clatrina e così
viene condotta ai lisosomi. La
vescicola si fonde con i
lisosomi stessi e la proteina
viene rilasciata. Le vescicole
che mediano il trasporto
torneranno poi al Golgi e si
avrà la maturazione
dell’endosoma tardivo in
lisosoma maturo.

E’ un meccanismo molto
interessante che è stato
studiato per molti anni, in quanto diversi virus possono entrare all’interno delle cellule
umane attraverso endocitosi mediata da recettore. Le cellule umane ovviamente
non hanno i recettori per il virus in sé, ma hanno recettori per qualcos’altro (una
componente fisiologica della cellula), che viene sfruttato dal virus per entrare nella
cellula. Questo spiega la specificità dei virus, in genere varia da specie a specie, e
anche all’interno di una stessa specie varia da tessuto a tessuto (es: è il motivo per il
quale un virus colpisce la parte alta delle vie respiratorie e non
altre zone).

DEGRADAZIONE DELLE PROTEINE


La vita delle proteine all’interno della cellula è molto variabile,
infatti, ci sono delle proteine (es: del cristallino) che rimangono
funzionali per diversi anni, ma ci possono essere delle proteine
che durano pochi minuti (es: cicline).
Inizialmente si pensava che la loro degradazione avvenisse nel
lisosoma; invece, ultimamente si è scoperto che le proteine
vengono degradate attraverso una proteina di piccole
dimensioni, chiamata ubiquitina, che si attacca ai residui di
lisina (amminoacido con catena laterale -NH), oppure all’ NH terminale della proteina
stessa.
Per indirizzare la proteina alla degradazione finale non è sufficiente un solo legame
con l’ubiquitina, ma vengono legate più ubiquitine una
all’altra, in modo tale che la proteina possa essere
poliubiquitina. La proteina ubiquitinata viene introdotta in un
proteosoma, grossa struttura costituita da una serie di anelli
(4 anelli ciascuno da 7 subunità, alcune delle quali con
attività proteolitica, e dei cappucci), e poi viene degradata.
La maggior parte delle proteine vengono degradate
attraverso questo processo.
19/12/2023 Prof.ssa Magherini
Biologia Sbobinatori: Ricci Micaela, Noferi Guido
Lezione 18 Revisori: Moldovan Matteo, Lagonigro Andrea

La riproduzione
La professoressa ricorda, come già detto in precedenza, che i procarioti si dividono per
scissione binaria e poiché sono organismi unicellulari, la riproduzione dell’organismo
coincide con la divisione cellulare: prima della divisione il DNA si duplica, tuttavia non
parliamo di mitosi in quanto questa è un processo molto organizzato che prevede la
formazione del uso mitotico, la presenza dei centri di organizzazione dei microtubuli ecc,
eventi che non avvengono per l’appunto nei procarioti. Nonostante ciò, anche i batteri
hanno possibilità di evoluzione grazie alla variabilità genica data dalla coniugazione, dalla
trasduzione e dalla trasformazione

La riproduzione asessuata
Alla base della riproduzione asessuata vi è una duplicazione del DNA e una divisione
cellulare mitotica, meccanismo che non prevede nessuna variabilità genica ed è quindi un
meccanismo che crea individui esattamente identici a quello da cui sono derivati. Negli
eucarioti ci sono diversi meccanismi di riproduzione asessuata tra cui
● Scissione: riguarda soprattutto organismi eucarioti monocellulari, come le
amebe e i parameci. Gli anemoni di mare (organismi pluricellulari) vanno
invece incontro ad una scissione dell’intero organismo

● Gemmazione: è stata molto studiata attraverso l’osservazione del lievito


saccharomyces cerevisiae (che ha permesso anche di definire tutte le fasi del ciclo
cellulare). La gemma inizia a formarsi in tarda fase G1 in prossimità dello start (vedi
ciclo cellulare); successivamente c’è la fase S e da questo momento in poi la
gemma inizierà a crescere, inglobando una parte del materiale genetico, fino a
distaccarsi. Sulla parete del lievito rimangono delle “cicatrici” dove le gemme si
sono staccate, perciò osservandolo si può anche stabilire quante gemme ha
prodotto. La gemmazione può avvenire sia in organismi unicellulari (come quello
sopra descritto) sia in organismi pluricellulari (come nell’hydra, organismo in cui è
prevista anche una riproduzione sessuata, evidenziabile dalla presenza di un uovo)
● Frammentazione: è tipica delle stelle marine e di molti invertebrati. In questo tipo di
riproduzione, quando una parte dell’organismo si stacca, da essa può generarsi un
intero organismo

Il vantaggio della possibilità di riprodursi in maniera asessuata è innanzitutto un vantaggio


energetico, in quanto l’organismo/la cellula non ha bisogno di muoversi né di attuare
pratiche per la conquista del partner ed ha un grande successo riproduttivo, per cui non è
un meccanismo dispendioso; allo stesso tempo, lo svantaggio più evidente è che non è
fornito alcun tipo di variabilità genica perciò nella maggior parte dei casi è presente
un’alternanza tra riproduzione asessuata e cicli di riproduzione sessuata, in base alle
disponibilità energetiche e alla possibilità di trovare un partner nelle vicinanze.

La riproduzione sessuata
La riproduzione sessuata è caratterizzata da due meccanismi principali
1. La produzione dei gameti, la quale avviene durante i processi di meiosi e
gametogenesi
2. La fecondazione, ossia l’incontro tra la cellula uovo e lo spermatozoo e il
successivo sviluppo dell’embrione
Per quanto riguarda vantaggi e svantaggi, essi sono esattamente gli opposti di quelli della
riproduzione agamica: qui infatti è presente un’alta variabilità genica ma è un processo
molto dispendioso a livello energetico, motivo per cui anche il successo riproduttivo può
essere minore.
Nella maggior parte delle specie animali i sessi sono separati, tuttavia in natura ci sono
molti esempi di specie in cui non è così: ci sono, infatti, numerosi invertebrati che sono
ermafroditi, ossia hanno entrambe le gonadi . Generalmente la fecondazione è incrociata
(ermafroditismo insufficiente) ma talvolta si hanno meccanismi di autofecondazione
(ermafroditismo sufficiente); inoltre l’ermafroditismo può essere simultaneo, ossia le
gonadi maschili e femminili raggiungono lo sviluppo contemporaneamente, oppure può
essere sequenziale, cioè le gonadi maturano in tempi diversi (l’organismo avrà una fase
della vita in cui produce cellule uovo e sarà quindi femmina ma avrà anche una fase in cui
produce spermatozoi e sarà quindi maschio). Ad esempio ci sono diverse specie di pesci
che vivono in un branco costituito esclusivamente da femmine e un solo maschio di
dimensioni più grandi: se il maschio dovesse morire, la femmina con le dimensioni
maggiori sviluppa le gondi maschili mentre quelle femminili regrediscono (il cambiamento
è determinato da condizioni esterne). Un altro esempio è il pesce pagliaccio: alla nascita
tutti sono maschi ma poi, all’aumentare delle dimensioni, si sviluppano le gonadi femminili
e regrediscono quelle maschili.
Esiste poi la partenogenesi che prevede lo sviluppo di un organismo a partire da un uovo
non fecondati ed è molto frequente negli insetti e nei rettili. L’esempio più comune è quello
delle api in cui il fuco nasce da un uovo non fecondato ed è aploide. Questo fenomeno è
stato osservato anche tra le femmine di squalo in cattività ma in questo caso gli organismi
generati non sono aploidi: durante la meiosi infatti vi è una fusione tra le due cellule figlie
generate inizialmente e conseguentemente l’organismo risulta diploide (ovviamente gli
organismi nati per partenogenesi in questo caso saranno tutte femmine perché nascono
da sole femmine).

La gametogenesi
La gametogenesi ci racconta le modifiche morfologiche che portano alla formazione dei
gameti, ci spiega le tempistiche che vi intercorrono (come la regolazione ormonale ecc) e
ci permette di inquadrare la produzione del gamete stesso all’interno della fisiologia
dell’organismo

Nella parte alta dell’immagine è rappresentata la formazione degli spermatozoi: alla fine
della meiosi II si formano quattro cellule dette spermatidi (aploidi e diverse tra di loro a
causa degli eventi di ricombinazione) che però sono ancora estremamente diverse dagli
spermatozoi veri e propri. Infatti essi andranno poi incontro ad un processo dei
spermioistogenesi, ossia modificazioni profonde da cui si formeranno cellule flagellate con
una testa in cui è assente il citoplasma ed è presente solamente il DNA fortemente
condensato.
Nella parte bassa invece è rappresentata la formazione dei gameti femminili: qui al
termine della meiosi II non si avranno quattro cellule tutte uguali, bensì si avrà una cellula
uovo di grande dimensione (destinata al processo di fecondazione) e tre globuli polari
destinati a degenerare e perciò l’ovogenesi genera un solo gamete. La cellula uovo ha
dimensioni importanti perché contiene tutto il materiale citoplasmatico destinato alle
successive cellule figlie, compresi organelli, vescicole, proteine…(lo spermatozoo non
contiene citoplasma)
La spermatogenesi
Nella spermatogenesi possono essere distinte tre fasi
1. Fase mitotica: gli spermatozoi vengono prodotti in grandi quantità per tutto il corso
della vita. Ovviamente essi derivano per meiosi da una cellula della linea germinale:
un processo mitotico mantiene il pull delle cellule germinali che possono essere di
fatto cellule staminali (possono generare altre cellule mantenendo il pull delle
cellule iniziali). Nel caso specifico, quando una cellula germinale si divide e forma
due cellule figlie, una sola di queste va incontro alla meiosi per dare luogo ai gameti
mentre l’altra rimarrà cellula germinale e così via. Questa fase serve quindi per
garantire una continua produzione di spermatozoi
2. Meiosi vera e propria
3. Spermioistogenesi
Inizialmente le cellule della linea germinale che si riproducono per mitosi si chiamano
spermatogoni:

⮚ Alla nascita gli spermatogoni sono


detti “spermatogoni di tipo A” e
sono in numero abbastanza ridotto
⮚ Verso i dieci anni gli spermatogoni
iniziano ad aumentare di numero e
in questa fase (prima della pubertà)
vengono chiamati “spermatogoni di
tipo A1”
⮚ Con la pubertà inizia la produzione
di una serie di ormoni, le
gonadotropine, che vanno a
stimolare la divisione mitotica degli
spermatogoni che in questa fase ella
pubertà sono chiamati
“spermatogoni di tipo A2”. Questi
si distinguono in due popolazioni
- una popolazione a nucleo
scuro, che rappresenta il pull
delle cellule staminali
- una popolazione a nucleo chiaro, che è quella indirizzata verso i processi
successivi
⮚ Gli spermatogoni a nucleo chiaro successivamente diventeranno “spermatogoni di
tipo B” che potranno poi andare ulteriormente avanti in un processo di modifica
⮚ Gli spermatogoni B vanno incontro ad un processo di accrescimento diventando poi
spermatociti primari, che andranno incontro alla prima divisione meiotica
⮚ Gli spermatociti primari danno origine, con la pima divisione
meiotica, agli spermatociti secondari
⮚ Gli spermatociti secondari vanno incontro alla seconda divisione
meiotica che porta agli spermatidi: essi sono di forma
tondeggiante e uniti da dei ponti citoplasmatici
N.B. le divisioni mitotiche non sono complete perché gli
spermatogoni rimangono uniti da dei ponti citoplasmatici che si
manterranno per tutto il processo fino alla formazione dei
spermatozoi maturi.
Con gli spermatidi ha inizio la fase di spermioistogenesi (fase di
modifica profonda a livello morfologico)

La spermioistogenesi
I cambiamenti che subiscono gli spermatidi per diventare spermatozoi maturi, sono
cambiamenti molto profondi poiché tutto il citoplasma viene eliminato e nella testa degli
spermatozoi si trova un nucleo con DNA estremamente compattato (la maggior parte
degli istoni sono sostituiti da proteine ancora più basiche dette “protammine” le quali
permettono una grande condensazione della cromatina); oltre al nucleo, sempre nella
testa, è possibile osservare l’acrosoma, una struttura che deriva dalle vescicole del
Golgi trans e che contiene enzimi lisosomiali. Il rilascio di questi enzimi sarà importante
perché permetterà allo spermatozoo di entrare all’interno della cellula uovo.
Alla testa è connesso il flagello attraverso un tratto intermedio in cui ci sono i
mitocondri: il flagello è costituito dalla struttura dei microtubuli con l’organizzazione 9+2
(vedi lezione sul citoscheletro).
Altra caratteristica fondamentale è
rappresentata dal fatto che la disposizione di
queste cellule, ai vari livelli di specializzazione,
è particolare; infatti a livello dei tubuli seminiferi
è possibile osservare gli spermatogoni in
prossimità delle pareti del tubulo mentre man
mano che si procede verso l’interno si trovano
tutti i livelli di specializzazione fino ad arrivare
in prossimità del lume dove ci sono gli
spermatozoi maturi. Spermatogoni,
spermatociti, ecc sono contenuti all’interno di
grandi cellule dette “cellule del sertoli” che si
estendono dal lume fino alle pareti: esse offrono nutrimento agli spermatozoi
scambiando con essi i metaboliti, servono a fagocitare il materiale rilasciato durante
spermioistogenesi e hanno un ruolo importante nella regolazione ormonale.
Sempre nei tubuli seminiferi sono presenti le cellule di Leydig che sono deputate alla
produzione degli androgeni tra cui il testosterone, il quale determina lo sviluppo dei
caratteri secondari maschili.

La regolazione ormonale
Nella pubertà gli spermatogoni iniziano a
maturare sotto lo stimolo delle gonadotropine,
ormoni che esercitano la loro funzione a
livello delle gonadi; questi ormoni vengono
prodotti nella regione del cervello costituita
dal sistema ipotalamo-ipofisario. L’ipotalamo
produce il fattore di rilascio delle
gonadotropine (una molecola che agendo a
livello dell’ipofisi stimola il rilascio delle
gonadotropine); queste ultime sono,
nell’ambito della spermatogenesi, l’LH
(ormone luteinizzante) e l’FSH (ormone
follicolo-stimolante). L’ormone LH agisce sulle
cellule di Leydig e promuove la produzione di
testosterone da parte di queste cellule
mentre l’ormone FSH agisce sulle cellule del
sertoli per promuovere tutta la
spermatogenesi.
Il testosterone inibisce direttamente sia a
livello ipotalamico il rilascio del GnRH (fattore di rilascio delle gonadotropine), sia a
livello di ipofisi il rilascio dell’LH; esso agisce inoltre sulle cellule di sertoli e quando il
livello di testosterone è alto esse producono un altro ormone, l’inibina, che inibisce la
secrezione dell’FSH (regolandone il rilascio indirettamente). Questo è un esempio di
regolazione a feedback negativo.
OVOGENESI

L’ovogenesi è un processo che avviene nelle ovaie, organi pari e simmetrici che hanno
funzione sia di produrre gameti sia di produrre ormoni, quindi endocrina.
Come nella spermatogenesi, è possibile indicare una tempistica correlata con lo sviluppo
dell’organismo. Tuttavia, fin dall’inizio, ci sono delle differenze abbastanza importanti con
la gametogenesi maschile: per esempio, nella nostra specie, la fase mitotica (in cui si
riproducono gli ovogoni) è limitata alla vita embrionale e, al momento della nascita, le
femmine hanno tutti ovociti fermi in profase della prima divisione meiotica. (Non è così per
altre specie).
Durante la vita embrionale, gli ovogoni vanno incontro alla fase mitotica che permette la
proliferazione di queste cellule, le quali si moltiplicano per mitosi fino a raggiungere un
numero di 6-7 milioni fino al quinto mese (prima della nascita).
A questo punto, una parte di questi ovogoni intraprende un processo di auxocitosi,
ovvero di accrescimento, trasformandosi in ovociti primari, che intraprendono la meiosi I,
rimanendo bloccati in profase. Di conseguenza gli ovociti primari aumentano la loro
dimensione, pur rimanendo fermi alla profase I.
Alla nascita, sono presenti 1-2 milioni di ovociti primari fermi in profase I, che danno
origine al cosiddetto follicolo primordiale, costituito dall’ovocita circondato da un singolo
strato di cellule piatte (cellule follicolari), che successivamente diventeranno le cellule della
granulosa. Si può osservare una prima differenza rispetto alla spermatogenesi, in cui la
fase mitotica è presente in tutta la vita dell’uomo adulto a partire dalla pubertà, mentre
nella donna è presente solo durante la vita embrionale,
per cui la fase mitotica termina al momento della
nascita e non si ripete più.
Di questi 2 milioni di follicoli primordiali, alcuni
degenerano nei primi 12 anni di vita e al momento della
pubertà si stima che ce ne siano 200/400 mila, dei
quali solo 450/500 diverranno cellule uovo. Dunque si
ha una progressiva diminuzione di queste cellule.
La situazione si complica ulteriormente dal momento in cui gli eventi della meiosi si
associano alla maturazione del follicolo primordiale mediante l’associazione di due cicli, il
ciclo ovarico e quello uterino.

Ciclo ovarico
Nel ciclo ovarico siamo in presenza del follicolo primordiale circondato da uno strato di
cellule appiattite. Avviene al livello delle gonadi (ovaie) e prevede tre fasi: fase follicolare,
ovulazione e fase luteinica. Nei 28 giorni corrispondenti al ciclo ovarico, abbiamo il
susseguirsi di queste tre fasi. Come inizio, viene considerato il primo giorno di
mestruazione (che coinvolge invece il ciclo uterino), in cui un numero variabile di follicoli
primordiali (da 3 a 30) intraprende la via di formazione della cellula uovo. Questo processo
di maturazione dei follicoli è inizialmente indipendente dalle gonadotropine, poi
dipendente. Generalmente, di questi follicoli solo uno raggiunge la fase finale. Il
meccanismo che determina la morte di tutti gli altri follicoli rimane in gran parte
sconosciuto.
Come prima cosa, il follicolo primordiale si trasforma in un follicolo primario, dove
quelle cellule, precedentemente piatte, acquisiscono una forma cuboidale, e vengono
chiamate cellule della granulosa e sono caratterizzate da capacità proliferativa (andando
quindi a formare più strati). Si forma anche la zona pellucida, tra la cellula uovo e le
cellule della granulosa, una zona ricca di glicoproteine (quindi formata da matrice
extracellulare). Dopodiché le cellule della granulosa proliferano, formando uno strato molto
spesso, e intervengono anche delle cellule dello stroma che vanno a costituire la teca. Si
può parlare di follicolo secondario.
Successivamente, si forma una struttura ad antro, caratterizzata da un vuoto occupato da
liquido. Il follicolo aumenta le sue dimensioni fino a costituire il follicolo di Graaf, pronto
per l’ovulazione. Queste modificazioni strutturali si associano alla progressione della
meiosi:
• In queste fasi si protrae la prima divisione meiotica (a livello del follicolo di Graaf si
osserva la prima cellula uovo e un globulo polare).
• In seguito si intraprende la seconda meiosi che, nella nostra specie, si blocca in
metafase II.
• Intorno al quindicesimo giorno del ciclo si verifica l’ovulazione, in cui l’ovocita,
circondato dalla zona pellucida (ricca di glicoproteine) e fermo alla metafase II,
viene rilasciato insieme alle cellule della granulosa (dette anche cellule del cumulo
ooforo (Quando si è formata la cavità antrale (follicolo secondario), l'ovocita rimane
rivestito da pochi strati di cellule della granulosa che costituiscono il cumulo ooforo))
nelle Tube di Falloppio, dove eventualmente avviene la fecondazione. Nelle tube
l’ovocita resta 1-2 giorni in attesa di essere fecondato.
• Una volta fecondato dagli spermatozoi, avvengono le prime divisioni ed esso si
sposta progressivamente per impiantarsi a livello dell’endometrio uterino.

Dunque una donna risulta feconda nel periodo dell’ovulazione fino a qualche giorno dopo
essa. Ciò che rimane del precedente follicolo degenera a corpo luteo, cioè una struttura
con attività secretoria, che produrrà progesterone, ormone che determina l'ispessimento
della parete uterina. Nella parete uterina, infatti, le cellule proliferano e vengono
vascolarizzate, così che l’endometrio uterino si ispessisce e l’embrione vi si possa
impiantare nel modo corretto.
Nell’immagine riportata sotto, si osserva l’ovocita circondato dalla membrana pellucida,
una regione priva di cellule caratterizzata da una matrice extracellulare ricca di
glicoproteine. Poi ci sono le cellule della corona radiata, che fa capo alle cellule della
granulosa, insieme alle cellule della teca di origine stromale.

Vi è una relazione tra la meiosi e la maturazione del follicolo. Prima della nascita abbiamo
la fase mitotica con la formazione dell’ovocita primario, che corrisponde al follicolo
primordiale.
L’ovocita primario è 2n dal
momento in cui ci si trova nella
profase della prima divisione
meiotica. Quando inizia la prima
divisione meiotica si verifica
l’accrescimento del follicolo,
cioè quando si oltrepassa lo
stadio di follicolo primordiale e
iniziano a formarsi i follicoli
primari, contemporaneamente si
riattiva anche il processo della
meiosi. La meiosi I avviene
quando siamo a livello del
follicolo maturo, il cosiddetto
follicolo di Graaf. Terminata la
prima divisione meiotica, si
intraprende la seconda, che
però non si conclude nella nostra specie, ma si completerà esclusivamente se avviene la
fecondazione, infatti, nel momento in cui entra lo spermatozoo essa giunge al termine e
viene espulso il globulo polare.

Prima di parlare di regolazione ormonale, bisogna considerare che le cellule della teca
hanno i recettori per l’LH, mentre le cellule della granulosa esprimono i recettori per gli
FSH. Come vedremo successivamente, sono questi i principali ormoni che regolano lo
sviluppo del follicolo. In particolare l’LH promuove la progressione della meiosi e
l’ovulazione.

Ciclo uterino
Dopo l’ovulazione, il corpo luteo produce progesterone. A livello dell’endometrio, ci sono i
recettori per il progesterone, che funziona da stimolo proliferativo. Quindi le cellule
dell’endometrio proliferano, l’endometrio si ispessisce, aumenta la sua vascolarizzazione e
si prepara per accogliere la cellula uovo qualora questa venga fecondata. Quest’ultima, se
viene fecondata, va nelle tube, all’interno dell’utero e si impianta nell’endometrio. Se la
fecondazione non avviene, invece, dopo circa 14 giorni il corpo luteo regredisce, con
conseguente abbassamento dei livelli di progesterone, sfaldamento dell’endometrio e
espulsione dell’endometrio con le mestruazioni. In alcune specie non viene espulso, ma
riassorbito.

Regolazione ormonale dell’ovogenesi


Il ciclo ovarico è costituito da:
● Fase follicolare (corrisponde all’accrescimento del follicolo)
● Ovulazione
● Fase luteinica (corrisponde alla formazione del corpo luteo)

Il ciclo uterino è costituito da:


● Fase proliferativa
● Fase secretoria

Dal grafico riportato si osserva lo sviluppo del follicolo, in alto l’andamento degli ormoni
ipofisari LH e FSH, al centro l’andamento degli ormoni che sono secreti dall’ovaio (follicoli
producono estrogeni e corpo luteo produce progesterone) e, in basso, l’effetto di questi
ormoni a livello dell’endometrio.
Al centro si può notare che la concentrazione di estrogeni (linea verde), prodotti dal
follicolo, a un certo punto raggiunge un picco. L’aumento di estrogeni induce il sistema
ipotalamo-ipofisario a produrre LH (linea blu). Il picco di LH provoca la progressione della
meiosi e l’ovulazione. L’ovulazione, infatti, avviene circa 30 ore dopo il picco di LH, di
conseguenza è il picco di questo ormone a indurre l'ovulazione stessa.

Dopo l’ovulazione, il corpo luteo inizia a produrre progesterone. Il progesterone e gli


estrogeni (ma soprattutto il progesterone) provocano:

1) l'ispessimento dell’endometrio uterino,


2) un effetto a feedback negativo sulla produzione di FSH e LH (finché i livelli di
progesterone rimarranno elevati, non ci saranno picchi di FSH e LH).

Tale meccanismo sta alla base del funzionamento delle pillole anticoncezionali, costituite
da combinazioni di soli estrogeni oppure estrogeni e progestinici, il cui effetto è quello di
inibire il rilascio di FSH e LH e, conseguentemente, inibire l’ovulazione.
La pillola abortiva (Ru486), invece, è un antagonista del progesterone, per cui si lega ai
recettori del progesterone a livello dell’endometrio impedendo il legame del progesterone
stesso e, conseguentemente, l’endometrio si sfalda insieme all’embrione in caso di
avvenuta fecondazione. Il suo funzionamento è diverso da quello adottato dalla pillola del
giorno dopo, che contiene un alto livello di progesterone che inibisce l’ovulazione.

Nel caso si instauri una gravidanza, viene prodotta la gonadotropina corionica che
mantiene per un po’ il corpo luteo attivo, in modo tale che i livelli di progesterone non
calino. Questo meccanismo viene usato dai test di gravidanza. Dopodiché, intervengono
altri processi che permettono lo sviluppo dell’embrione.

[Piccola parentesi fatta dalla prof, fa un parallelismo con la lezione sulle malattie genetiche]

Quando abbiamo parlato di mutazioni riguardanti il numero dei cromosomi (trisomie e


monosomie compatibili con la vita), si è detto che queste possono essere correlate all’età
della madre: la probabilità di generare un figlio con alterazione del numero di cromosomi
aumenta con l’età della madre. Ora si capisce anche il perché. Infatti, sembra essere
dovuto alla sospensione della meiosi in cui si trova l’ovocita: la sospensione può durare
decine di anni e può provocare un’alterazione a livello delle strutture che guidano la
separazione di cromosomi.
Differenze tra Spermatogenesi e Ovogenesi
Al di là del processo della meiosi, simile da un punto di vista molecolare, i due processi
sono molto differenti.

Differenze tra la specie umana e altre


Questi meccanismi non sono uguali in tutte le specie, in molti animali l’ovulazione non ha
un andamento temporale mensile, ma dipende dalla stagione, infatti, sono proprio i ritmi
di luce e di buio che regolano l’ovulazione. Così il periodo fertile si verifica generalmente in
primavera alle nostre latitudini, in modo da evitare che la nascita avvenga in inverno
quando rischierebbero di morire. In alcune specie molto prolifiche, come i roditori e i
conigli, l’ovulazione è stimolata dal rapporto.

Un’altra interessante differenza è la menopausa, che nella nostra specie si verifica intorno
ai 50 anni, in cui una serie di fattori determinano la perdita di funzionamento delle gonadi
femminili, non avviene più l’ovulazione e non si può avere figli. Questo aspetto, molto
studiato da un punto di vista evolutivo, è condiviso solo da due altre specie, di cui una è
quella dell’orca. Da un punto di vista evolutivo è stato molto studiato perché molti studiosi
ritenevano che la menopausa fosse legata al fatto che la probabilità di morire di parto
aumenta con l’aumentare dell’età della donna, dunque la menopausa rappresentava un
fattore di protezione. In realtà, a seguito di altri studi, si è scoperto che la menopausa
rappresenta un vantaggio evolutivo per la specie. Questo perché la femmina, libera
dall’accudimento diretto dei figli, mantiene un patrimonio cognitivo culturale che serve al
mantenimento della specie, dovuto al fatto che negli anni essa ha accumulato una serie di
conoscenze che possono poi essere trasmesse (nel caso delle orche, le femmine anziane
conservano la memoria del luogo dove si trovano i banchi di pesce).
La fecondazione

La fecondazione è quel processo durante il quale due gameti (aploidi, uno maschile e uno
femminile) si uniscono per generare lo zigote (diploide). Può essere esterna o interna.

Le specie a fecondazione esterna (rane), che rilasciano le cellule uovo fuori, hanno un
processo di mitosi sempre attivo, questo accade per aumentare il successo riproduttivo,
che sarebbe molto scarso se rilasciassero solo una o poche uova nell’ambiente.

Se per quanto riguarda la fecondazione esterna, lo studio del processo è piuttosto


semplice, per quella interna, gli scienziati hanno dovuto usare come modello i roditori.
Tuttavia, per l’uomo non si sa ancora come avvengono alcune cose.
Nell’immagine si osserva una cellula uovo umana pronta per la fecondazione, essa è
circondata da una membrana peri-vitellina costituita da glicoproteine, poi c’è la zona
pellucida ricca di glicoproteine anch’essa, infine ci sono le cellule della corona radiata,
che derivano dalla granulosa.

La fecondazione può avvenire solamente dopo il fenomeno della capacitazione, in cui lo


spermatozoo entra in contatto con il materiale presente nelle tube; se questo non avviene
o avviene in modo improprio, la fecondazione non può verificarsi. Infatti la capacitazione
determina delle modificazioni dello spermatozoo, come un aumento della fluidità di
membrana causato dalla diminuzione del colesterolo presente, una perdita di alcune
proteine che impedirebbero il riconoscimento tra la cellula uovo e lo spermatozoo, la
fosforilazione di proteine importanti per il legame spermatozoo-cellula uovo.
A questo punto la fecondazione richiede una fase di 15-20 minuti necessaria allo
spermatozoo per penetrare nella cellula uovo. Questo avviene grazie alla reazione
acrosomiale, che prevede il rilascio degli enzimi litici presenti nell’acrosoma (vescicola di
derivazione golgiana in cui ci sono enzimi litici), fondamentali per penetrare attraverso le
cellule della corona radiata e la zona pellucida.

La reazione acrosomiale è determinata dal contatto dello spermatozoo con la cellula uovo.
Tale contatto è mediato da proteine specifiche che si trovano sulla membrana dello
spermatozoo e delle proteine presenti a livello della zona pellucida, dette ZP (ZP= zona
pellucida, accompagnate da un numero che le caratterizza). Inoltre, queste proteine (in
particolare ZP3) sono responsabili anche della barriera specie-specifica, alla base del fatto
che la fecondazione tra specie diverse non avviene o, se avviene, dà origine a una prole
non fertile. Così il riconoscimento tra queste proteine rappresenta la modalità attraverso
cui viene selezionata la specificità di specie.
Dunque il legame tra le proteine dello spermatozoo e quelle della zona pellucida induce la
reazione acrosomiale e il conseguente rilascio di enzimi litici, in modo da permettere allo
spermatozoo di attraversare la zona pellucida. Quando esso arriva a livello della
membrana plasmatica che delimita l’uovo, si verifica una fusione tra le due membrane,
dopodiché la testa dello spermatozoo entra dentro mentre la coda resta fuori.
Una volta entrato dentro l’ovocita, avviene la rottura delle membrane nucleari, il rilascio dei
cromosomi e avverrà la prima mitosi, che porta alla formazione dello zigote.

Blocco della polispermia

Migliaia di spermatozoi entrano all’interno delle


tube, tuttavia solo uno riesce a fecondare
l’ovulo. Molti spermatozoi, infatti, vengono
persi durante il percorso, gli altri che giungono
in prossimità della cellula uovo subiscono un
fenomeno detto “blocco della polispermia”,
che evita l’ingresso di altri spermatozoi dopo
che il primo è entrato.
Ne sono stati descritti diversi meccanismi:
• Negli anfibi (a fecondazione esterna) si assiste a un processo definito blocco
rapido della polispermia (assente nei mammiferi), che dipende dal fatto che, una
volta entrato il primo spermatozoo, si ha una depolarizzazione rapidissima di
membrana, dovuta all’ingresso massiccio del sodio. Questo meccanismo media il
distacco degli spermatozoi presenti sulla superficie della cellula uovo.
• blocco lento della polispermia è caratterizzato dal fatto che al di sotto della
membrana della cellula uovo sono presenti dei granuli, i granuli corticali, che
vengono rilasciati non appena lo spermatozoo entra. All’interno dei granuli sono
contenute delle sostanze che ispessiscono la regione esterna alla membrana della
cellula uovo impedendo l’ingresso di altri spermatozoi (Reazione Corticale). Si
verificano poi delle reazioni dette Reazioni della Zona, caratterizzate da
modificazioni della zona pellucida, come la perdita della proteina ZP3, così che non
avvenga più il contatto tra la membrana dello spermatozoo e la zona pellucida.

Formazione dello zigote


Con l’ingresso dello spermatozoo, l’ovocita completa la seconda divisione meiotica ed
espelle il secondo globulo polare, così da avere un corredo cromosomico aploide. Le
membrane nucleari dello spermatozoo e della cellula uovo si disgregano, i due pronuclei si
fondono, si duplica il DNA, si formano le fibre del fuso e i cromosomi di origine paterna e
quelli di origine materna si allineano a livello del piano equatoriale della cellula. A questo
punto si separano i cromatidi fratelli, il che rappresenta la prima divisione dello zigote.

Dopo la formazione dello zigote si verificano le prime divisioni mitotiche e


progressivamente avvengono quei processi di differenziazione che produrranno i tre
foglietti embrionali, dai quali si formeranno tutti i tessuti differenziati con i vari meccanismi
di regolazione genica.

[La professoressa conclude la parentesi sulla menopausa che, per motivi di continuità, abbiamo riportato
precedentemente]
Lezione 19, parte prima
21/12/2023

Materia Biologia

Docente Prof.essa Magherini

Sbobinatrice Serena Pugliese


Revisore Beatrice Locatelli

LE CELLULE STAMINALI E LE
POTENZIALITA’ DIFFERENZIATIVE
DELLE CELLULE
La professoressa informa che tratterà due argomenti: uno riguardante la staminalità; l’altro riguardo la
determinazione del sesso e l’inattivazione del cromosoma X.

Dall’uovo fecondato, mediante meccanismi di proliferazione e differenziamento, si


formano: tutti e tre i foglietti embrionali (endoderma; mesoderma; ectoderma); le
cellule della linea germinale e, dai tre foglietti embrionali, tutti i tessuti
differenziati. I meccanismi complessi che portano a questo progressivo
differenziamento, riguardano processi di attivazione e inattivazione di geni tessuto-
specifici, in modo tale che, alla fine, si abbiano cellule caratteristiche di ogni tessuto.

Il concetto delle cellule staminali, è un concetto relativamente recente. I primi studi,


intorno agli anni ‘50, furono di diverso tipo: inizialmente ci si chiese se era possibile
tornare indietro dal processo di differenziamento, ovvero se in presenza di un
organismo differenziato, fosse possibile prenderne le cellule e tornare indietro,
“disferenziarle”.

I primi esperimenti furono condotti nel 1958 sulle piante. In particolare, lo studioso
Steward, insieme a collaboratori, si concentrò sullo studio
della totipotenza delle cellule della carota. Totipotenza
significa che una cellula può produrre tutti tessuti diversi
dell’organismo di cui fa parte. Presero sottili dischetti della
radice della carota, li frammentarono e li misero a crescere in
un terreno di coltura, inizialmente liquido. Successivamente, li
trasferirono separatamente in terreno solido, e videro che da
alcuni di essi si rigenerava un’intera pianta, quindi, non solo
la radice, ma anche le parti aeree. Si potè così dedurre, che
le cellule della radice avevano mantenuto la capacità di
sviluppare un individuo intero: è, quindi, possibile
riprogrammare una cellula differenziata per permetterle di
rigenerare l’intero organismo. Questi esperimenti, che sulle
piante ebbero fin da subito grande successo, furono meno soddisfacenti negli
animali.

I primi esperimenti, pochi anni dopo il successo di Steward, furono svolti sui girini. Il
gruppo di Gurnod e collaboratori, partendo dal girino, presero cellule intestinali
(cellule differenziate) e ne prelevarono il nucleo. Lo impiantarono in una cellula uovo
non fecondata (a sinistra dell’immagine), in cui il nucleo era stato eliminato per
radiazioni ultraviolette: si trattava, di fatto, di una cellula enucleata. Una volta
introdotto il nucleo della cellula intestinale, si avrà: una cellula uovo che contiene
tutto il materiale citoplasmatico tipico, quindi caratterizzato dai fattori importanti per
lo sviluppo embrionale, ma, all’interno, si viene a trovare una cellula diploide (perché
le cellule intestinali sono cellule somatiche, quindi diploidi) di una cellula differenziata
(quella intestinale). Fecero tantissimi di questi esperimenti, e, ad una percentuale di
1.5%, dalla cellula uovo modificata ottennero degli embrioni e anche lo sviluppo del
girino. Nonostante ciò, la percentuale di successo era piuttosto bassa. Questo
dimostra che è più difficile riprogrammare una cellula animale rispetto una vegetale,
perché i meccanismi di differenziamento e inattivazione/attivazione genica, negli
animali sono più stabili, quindi è più difficile tornare indietro nel processo di
differenziazione.
Il primo caso di clonazione di un mammifero avvenne nel
1997. Fu un esperimento di grande risonanza, ovvero la
clonazione della pecora Dolly; infatti, da qui seguirono una
serie di esperimenti di clonazione, soprattutto su animali da
allevamento, per ottenere determinate caratteristiche. Anche
in questo caso si partì da una cellula differenziata
proveniente dalla ghiandola mammaria, isolata dalla
mammella. Le cellule vennero messe a crescere in coltura, in
modo che mantenessero le loro caratteristiche. Dall’altra
parte, presero una cellula uovo non fecondata ed enucleata,
contenente tutti i fattori tipici delle cellule uovo. La cellula
differenziata venne indotta a fondersi con questa cellula,
attraverso una scarica elettrica (anche se ci sono diversi
metodi, sia fisici che chimici, per indurre due cellule a fondersi), ottenendo una
cellula uovo ibrida, contenente il citoplasma dell’uovo e il nucleo della cellula
differenziata. Il successo dell’esperimento, fu estremamente basso: su 277 cellule
ottenute con il processo di fusione, soltanto 29 diedero luogo ad embrioni, e, una
volta impiantati in una madre ricevente, solo uno fu in grado di svilupparsi e dare
origine ad un organismo vivo. (Il passaggio da una singola cellula ad un embrione,
cioè una struttura costituita da poche cellule, è sempre svolto in vitro; mentre
l'embrione, nelle prime fasi di sviluppo, viene impiantato in una madre surrogata, in
modo da potersi sviluppare). Dolly sviluppò un’infezione comune degli animali
(quindi non inerente al processo di clonazione), che la portò alla morte, ma aveva
comunque sviluppato forme di artrosi tipiche di animali vecchi: l’animale clonato
potrebbe sviluppare processi di invecchiamento precoce, dipendente dalla cellula di
partenza e anche da quanto fosse anziano il donatore della cellula. In ogni caso, il
processo di clonazione di mammiferi è un evento possibile.

Cosa ci dice questo esperimento? È vero che le nostre cellule dei tessuti sono
altamente differenziate, ma in alcuni casi questo processo può essere revertito, è
possibile riprogrammarlo. Nonostante ciò, una cellula altamente differenziata, quale
quella proveniente da una fibra muscolare o da un neurone, in cui il processo di
differenziamento è talmente avanzato, che non è possibile tornare indietro.

Questo, però, rappresenta solo una faccia della medaglia: è possibile riprogrammare
una cellula differenziata per invertire il processo. Invece, l’altra faccia della medaglia
è rappresentata dalle cellule staminali, cioè dalla possibilità di ritrovare
nell’organismo adulto delle cellule che abbiano un potere differenziativo più o meno
elevato. Si tratta di due concetti strettamente connessi: se si trovano i fattori/geni che
determinano la staminalità, è possibile capire anche come si può indurre un
processo di “disferenziamento”, cioè tornare indietro da una cellula differenziata.
Questo fu un concetto usato per generare cellule pluripotenti indotte, una delle
scoperte più importanti di questo secolo.

LE CELLULE STAMINALI
Per isolare le cellule staminali ci volle molto tempo, perché era necessario mettere a
punto sistemi di coltura per cellule di mammiferi, nei quali fossero in grado di
sopravvivere e proliferare. Inizialmente si isolarono le
cellule del topo; le prime cellule staminali embrionali
umane solo nel 1998; le prime cellule staminali
pluripotenti indotte sono state create soltanto nel
2006.

Esistono diversi tipi di cellule staminali, che vengono


classificate sulla base del loro potere
differenziativo: questo dipende dal momento in cui
queste cellule vengono isolate. Le cellule con
maggiore potenziale differenziativo, sono
rappresentate dallo zigote e dalle cellule nell’embrione nelle primissime fasi di
sviluppo (3 giorni): queste cellule vengono chiamate totipotenti, possono generare
tutti i tessuti e gli annessi embrionali, che si hanno quindi nelle primissime divisioni
dello zigote. Già nell’embrione di una settimana, le cellule hanno perso la capacità di
sviluppare gli annessi embrionali; ma tutti i tessuti saranno comunque generati da
delle cellule chiamate pluripotenti. Successivamente, nell’embrione di un mese, la
pluripotenza scompare, e si hanno cellule, dette multipotenti, che sono in grado di
produrre un numero limitato di cellule differenziate diverse, come quelle che si
trovano in un medesimo organo. Man mano che procede lo sviluppo embrionale, la
capacità differenziativa delle cellule progressivamente diminuisce.

Alla nascita, si trovano delle cellule staminali multipotenti nell’embrione, che si


possono riscontrare nel sangue del cordone ombelicale (che può essere
conservato come sorgente di cellule staminali embrionali). Queste cellule sono
presenti anche nell’adulto (vengono chiamate cellule staminali dell’adulto, non
perché queste non siano presenti nel bambino, ma perché ci si riferisce alle cellule
presenti nell’individuo e le si vuole distinguere da quelle specificatamente
embrionali). Quindi, ci sono cellule staminali anche nell’individuo adulto che possono
essere unipotenti o multipotenti.
Ricapitolando: le prime fasi dello sviluppo danno origine a cellule staminali
totipotenti, che producono tutti gli annessi embrionali e i tessuti, ma da un certo
momento in poi, le cellule diventano pluripotenti (vengono prodotti tutti i tessuti
dell’embrione, ma non più gli annessi embrionali).

Sperimentalmente, le cellule staminali


embrionali vengono prelevate allo stadio della
blastocisti, si tratta quindi di cellule staminali
pluripotenti. Queste cellule possono essere
ottenute dagli embrioni sovrannumerari
generati dalla fecondazione in vitro. La
fecondazione assistita può essere svolta
attraverso diverse modalità, una fra queste è
la fecondazione dell’uovo al di fuori del corpo della donna, utilizzando più cellule
uovo per garantire maggiore successo. La donna è sottoposta a terapia ormonale, in
modo da poter ovulare e produrre un numero di ovuli maggiore: questi vengono
fecondati in vitro e solo uno verrà ripiantato, così quelli sovrannumerari vengono
usati per il prelievo delle cellule staminali embrionali, anche se su tale processo ci
sono diverse considerazioni di tipo etico. C’è chi ritiene che le cellule staminali, con il
loro potere rigenerativo, possano essere utilizzate per curare patologie derivanti
dalla degenerazione di tessuti; mentre c’è anche chi vede nello zigote una potenziale
vita, ha dubbi nell’utilizzare cellule staminali embrionali per scopi di ricerca.

Le cellule multipotenti, invece, sono maggiormente


differenziate: hanno perso in parte la loro capacità
differenziativa e possono originare vari tipi di cellule di un
particolare tessuto o di un organo di appartenenza. Si
possono trovare anche nell’adulto e le più note sono le
ematopoietiche (note da molti anni) e le mesenchimali (di
recente scoperta).
Sempre nell’adulto, ci sono anche cellule staminali unipotenti: sono in grado di
differenziarsi solo in un tipo cellulare; come nel caso degli epatociti, che possono
essere rigenerati da cellule staminali, in seguito a un danno, quindi non una
condizione fisiologica. Invece, le cellule staminali epiteliali,che rigenerano le cellule
intestinali e della cute, sono molto attive, e si rigenerano in condizioni fisiologiche
(basti pensare che l’epitelio della cute si rigenera completamente in un mese).
Quindi, l’attivazione delle cellule staminali, può essere legato a un processo
fisiologico o a un danno.

CELLULE STAMINALI PLURIPOTENTI


Caratteristiche delle cellule staminali pluripotenti:

● Self renewal: capacità di dividersi in modo indefinito, ovvero possono


proliferare (teoricamente) per sempre;
● Non sono specializzate, quindi prive di strutture tessuto-specifiche, tipiche
invece delle cellule differenziate (le quali, man mano che si differenziano,
modificano anche la loro morfologia, come le strutture del citoscheletro, la
polarità della cellula, la sua forma specificamente per la cellula presa in
esame);
● Esistono fattori di trascrizione importanti per mantenere una cellula nello
stato di staminalità. I più noti sono Nanog e Oct4, e che regolano tutta una
serie di geni importanti per mantenere la cellula in uno stato di mancato
differenziamento ed elevata capacità proliferativa.

In vitro, si possono differenziare in diverso modo. Ora è possibile comprare terreni


differenziativi specifici già pronti (mentre prima si sperimentava che cosa servisse e
quali fattori di crescita si dovesse aggiungere), contenenti tutti i fattori necessari e
che sono in grado di guidare lo sviluppo di una cellula staminale verso una
determinata linea cellulare differenziata. Se si hanno cellule pluripotenti, in vitro,
queste possono crescere in sospensione, creando piccoli ammassi che ricordano
l’embrione, per questo vengono chiamati corpi embrionali. Lasciandoli crescere,
dopo un po ' di tempo, vanno incontro a differenziamento spontaneo. Però, se si
vuole indurre un differenziamento specifico, è necessario fornire alle cellule staminali
un terreno appropriato, perché è proprio l’ambiente a influenzare il differenziamento,
oltre alla riprogrammazione genetica.

Il controllo della pluripotenza di una cellula staminale può essere fatto mediante
questa osservazione in vitro, appena
descritta, o anche in vivo. Per capire
se si ha a che fare con cellule
staminali pluripotenti, si possono
seguire due modalità:

● Se vengono iniettate in un
topo, le cellule pluripotenti (avendo
caratteristiche ben specifiche)
portano alla formazione di teratomi
(tumori poco differenziati
caratterizzati dalla presenza di cellule appartenenti ai tre
foglietti embrionali, come se fosse un tumore costituito da
cellule di tessuti diversi). Questo suggerisce un altro motivo
che ha bloccato l'utilizzo delle cellule staminali embrionali
nella medicina rigenerativa: la loro elevata capacità
differenziativa proliferativa, se non regolata, può essere
deleteria: le cellule staminali embrionali, se non sottoposte a un controllo e
iniettate in un organismo, possono generare un teratoma.
Per questo, per un loro eventuale utilizzo, devono essere
differenziate parzialmente in vitro e poi iniettate (processo
però potenzialmente rischioso).

● Se vengono iniettate in una blastocisti e viene permesso lo


sviluppo di embrioni (in questo caso di un topo), si
ottengono topi chimera. Se nelle cellule staminali, di cui si
vuole testare la pluripotenza, si ha un marcatore, quando
vengono iniettate nella blastocisti (in rosa nell’immagine), sono ancora molto
indifferenziate e tendono a mescolarsi con le cellule proprie del topo (in
grigio), generano topi, diversi tra di loro, che sono delle chimere. Si ottiene,
così, un topo che a seconda dei tessuti, avrà cellule derivanti dalla cellula
staminale pluripotente marcata (per capire quali tessuti derivano da quella
cellula) e cellule derivanti dalla blastocisti.
CELLULE STAMINALI DELL’ADULTO
Nell’adulto, le cellule staminali,
sono state ritrovate in molti
distretti (pelle, cervello, seno,
intestino...) e alcune di esse
furono delle vere scoperte. Non
si pensava che in alcuni tessuti,
come nel cuore o nel sistema
nervoso, potessero esserci, ma
sono state scoperte anche qui.
Però, è chiaro che la loro
capacità rigenerativa del tessuto
in caso si danno, non è così
elevata come nel caso del fegato,
perché un infarto (le cellule che
muoiono non possono essere
rimpiazzate da cellule staminali)
o un danno cerebrale non possono essere riparati dai meccanismi fisiologici
dell’organismo. Le principali cellule staminali dell’adulto sono:

● Cellule staminali ematopoietiche: si trovano


nel midollo osseo e danno origine a tutte le
cellule del sangue. Nel midollo osseo ci sono
cellule che si riproducono e, quando si
dividono, una cellula rimarrà staminale, mentre
l’altra si differenzia dando luogo a dei
progenitori che saranno capostipiti della linea
linfoide o della linea mieloide, dalle quali si
generano tutte le cellule mature che si
ritrovano nel sangue. Proprio grazie alle cellule
staminali ematopoietiche, si mettono in atto
terapie per curare linfomi o mielomi, attraverso trapianti di cellule staminali. Si
tratta di cellule staminali multipotenti e che vengono introdotte con
autotrapianti, in modo da non evocare una risposta immunitaria da parte
dell’organismo.

● Come vennero scoperte le cellule staminali neuronali? Le prime evidenze


che ci fossero cellule staminali in una profonda zona del cervello,
l’ippocampo, si ebbero nel 1962, ma per molto tempo rimase solo
un’osservazione. I ricercatori diedero a cellule di animale, in vivo, un
precursore radioattivo del nucleotide timidina, ovvero timidina triziata, che
possiede l’isotopo radioattivo trizio al posto dell’idrogeno. Fornendo al topo
timidina triziata, questa veniva incorporata nelle cellule del sistema nervoso,
ovvero nei neuroni. Se viene incorporata, vuol dire che vengono sintetizzati
DNA e quindi si ha un processo di divisione cellulare, altrimenti verrebbe
eliminata. Da ciò, si poté dedurre che non è tutto fermo nel sistema nervoso,
ma delle cellule possono proliferare, di conseguenza l’ipotesi dell’esistenza di
cellule staminali neuronali era possibile.
Successivamente, nel 1990, queste cellule staminali
vennero isolate e venne misurata la loro staminalità,
per dimostrare che potevano dare origine a vari tipi
di cellule. Oggi, sappiamo che queste cellule si
trovano nell’ippocampo; sono in grado di generare
nuovi neuroni nell’arco di un mese e sono coinvolte
nei processi della memoria e dell'apprendimento.

● Cellule epiteliali intestinali: da queste si originano tutte le cellule dell’epitelio


intestinale, quindi anche quelle che hanno funzioni secretorie; le cellule del
Paneth (che secernono lisozima); le cellule enteroendocrine (che secernono
serotonina). Si trovano in posizioni precise, nelle cripte intestinali.

● Cellule staminali dell’epidermide: anche nell'epidermide sono presenti


cellule staminali, che possono essere:
○ cellule staminali classiche dell’epidermide, che
possono rigenerare l’epitelio giornalmente;
○ cellule staminali dei follicoli piliferi, per
rigenerare i peli;
○ cellule staminali dei melanociti, per rigenerare
quelle cellule dell’epitelio responsabili della
colorazione.

Queste cellule furono molto studiate in quanto sono


sia facili da isolare, sia tra le prime ad essere
utilizzate nei trapianti degli ustionati. I primi studi
vennero compiuti da un pediatra nella seconda metà del Novecento a Boston,
il quale curò dei bambini fortemente ustionati da un incendio. La cura delle
ustioni gravi, avviene proprio seguendo questa modalità: vengono prelevati
dall’epitelio sano dello stesso individuo, cellule staminali epiteliali che
vengono fatte crescere in vitro su una matrice che ricordi il derma. Così,
queste cellule si dividono, formano dei foglietti epiteliali che vengono prelevati
e adagiati sulla cute danneggiata, attaccandosi e, poiché derivano dallo
stesso individuo, non c’è rigetto: viene così rigenerato l’epitelio (senza però le
ghiandole sudoripare). Allo stesso modo, c’è la possibilità della rigenerazione
dell'epitelio della cornea: se vi è un danno alla cornea, dovuto a un agente
chimico o fisico, ci deve essere una parte specifica, intatta (il limbus), da cui si
possono prelevare cellule staminali. Vengono poi amplificate in vitro, le quali
genereranno dei foglietti che permettono la rigenerazione della cornea.

Ci sono, quindi, delle pratiche già messe in atto che prevedono l’utilizzo delle cellule
staminali, altre invece sono solo teorizzate. Infatti, tutte le malattie
neurodegenerative (Parkinson; Alzheimer) o patologie degenerative del muscolo
(distrofia muscolare), in linea teorica, potrebbero essere curate con le cellule
staminali. Esistono trial clinici che utilizzano le cellule staminali per la cura del
Parkinson o del diabete di tipo 1 (è una degenerazione delle cellule che producono
insulina, quindi si può pensare di utilizzare cellule staminali per curarlo), ma devono
essere controllati, perché queste cellule sono pericolose per la loro capacità
proliferativa.

● Cellule staminali mesenchimali: inizialmente vennero trovate nel midollo


osseo, ma non danno origine alle cellule mature del sangue, come le cellule
ematopoietiche; ma, sono cellule con elevata capacità differenziativa.
Possono dare origine alle cellule della cartilagine; alle
cellule dell’osso; ad adipociti… In un primo momento,
furono scoperte solo nel midollo, ma,
successivamente, anche in molti altri tessuti. Quindi,
possono essere isolate non solo dal midollo osseo
(che è una pratica invasiva), ma anche dal sangue
periferico (pratica meno invasiva) e cordonale; dalla
placenta e dal tessuto adiposo.

Come si caratterizzano le cellule staminali? Le cellule


staminali di vario tipo, hanno proteine di membrana,
chiamate cluster di differenziazione (CD), associate ad un numero, tipiche. Quindi,
se si prende una cellula staminale epiteliale o una mesenchimale, queste avranno
cluster di differenziazione differenti ed è possibile, in laboratorio, distinguerle e
isolarle.
CONFRONTO TRA CELLULE EMBRIONALI E CELLULE
DELL’ADULTO
Lezione 19 Biologia Prof.ssa Magherini
Seconda parte
Sbobinatore: Leonardo Paolini
21/12/2023 Revisore: Matteo Moldovan

Le nicchie staminali
Dove si trovano le cellule staminali?
Si trovano in una regione ben precisa a livello dei tessuti, detta nicchia staminale
nell’immagine, per esempio, una possibile nicchia staminale: si può vedere la
membrana basale di cellule stromali non staminali (celestino) che circondano le
cellule staminali stesse.

Nelle prossime immagini si può vedere un possibile meccanismo di divisione delle


cellule staminali e una possibile spiegazione del perché alcune di queste si
differenzino e altre no.

Esperimenti che hanno dimostrato che la nicchia staminale e la posizione della


cellula nella nicchia staminale possono influenzare la modalità di divisione della
cellula staminale e quindi il suo differenziamento. Infatti, si possono evidenziare in
questa immagine (sotto) due possibili differenti meccanismi di divisione della cellula
staminale:

• Una divisione simmetrica, nella quale da una cellula staminale se ne


formano due che rimangono staminali.
• Una divisione asimetrica, nella quale da una cellula staminale si formano
due cellule di cui una staminale e una indirizzata verso il differenziamento.

I meccanismi che regolano queste due diverse modalità non sono del tutto noti, ma
vi sono dei fattori importanti come l’orientamento del fuso mitotico rispetto alla
lamina basale, in questo caso (immagine sopra), due casi:
• entrambe le cellule rimangono in contatto con la lamina basale e perciò
subiscono delle influenze che derivano proprio dalla loro posizione, cioè dal
mantenersi entrambe all’interno della nicchia staminale, dove vi saranno dei
fattori solubili che influenzano la proliferazione della cellula e il suo
differenziamento; Quest’influenza è data anche dalle regioni di contatto con
le cellule limitrofe, lamina basale in quest’esempio (regione specializzata
della matrice extracellulare), che ne influenzano il mantenimento e la
modalità con cui questo si realizza.
• Secondo esempio: la cellula staminale si divide, però mantiene una cellula in
prossimità della lamina basale, l’altra invece si allontana.

Nella cellula che si allontana vengono meno i fattori che ne influenzano la


staminalità, ciò fa si che questa cellula si differenzi.

Alcune caratteristiche della nicchia staminale:


• Presenza di cellule di supporto
• La vascolarizzazione
• Le strutture extracellulari come la membrana basale per l’adesione

Esistono vari tipi di segnalazioni a cui le cellule staminali possono rispondere: sia ad
una segnalazione autocrina, cioè fattori che possono produrre le cellule staminali
stesse.
Altri fattori provenienti dalle cellule della nicchia in vicinanza, detta segnalazione
paracrina.
Oppure fattori portati dal sangue, prodotti in cellule distanti, detta segnalazione
sistemica.

Vi sono dei segnali propri della nicchia che riguardano in particolare: i fattori di
trascrizione (non nel dettaglio), il contatto con la matrice cellulare.
Quindi questi segnali topologici dipendono anche dalla posizione della cellula nella
nicchia stessa.

Nell’immagine sopra si può vedere una nicchia staminale dell’epitelio intestinale,


detta anche cripta. Le cellule staminali hanno sempre questa posizione.

Le due modalità di divisione


Nella divisione simmetrica può anche succedere che entrambe le cellule si
differenzino, però è importante che quando vi sia questo tipo di differenziazione
questa sia associata anche a quella sottostante (nella foto), perché chiaramente il
pool delle cellule staminali non può essere perso; infatti, se avvenisse soltanto la
differenziazione di entrambe le cellule, le cellule staminali ad una certa
terminerebbero.

La regolazione della divisione simmetrica da quella asimmetrica può dipendere da


fattori estrinseci, come ad esempio il contatto con la membrana basale; la seconda
modalità possibile di regolazione tra le due divisioni, meno nota, può dipendere da
fattori interni alla cellula (regolazione intrinseca), ad esempio: quando la cellula si
divide, duplica anche centrioli e centrosoma dai quali origineranno le fibre del fuso, vi
si avrà quindi un centrosoma vecchio e uno nuovo, è stato visto che a seconda del
tipo centrosoma che viene ereditato dalle cellule figlie, una si differenzia ed una
rimane staminale. Per esempio, quella che prende il centrosoma nuovo si
differenzia, mentre quella con il centrosoma vecchio rimane staminale. Questo è uno
dei fattori intriseci possibili.

In generale la divisione delle cellule staminali serve al mantenimento del pool delle
staminali e alla generazione di cellule differenziate, ciò può avvenire secondo vari
meccanismi osservabili nella foto sottostate.
Non sempre è facile capire quale tipo di divisione avviene in un tessuto, si può
pensare che la divisione simmetrica avvenga durante lo sviluppo e durante la
riparazione tissutale, poiché le cose che entrambi gli avvenimenti richiedono un
aumento del pool staminale che sia per la crescita di un tessuto o che questo
debba essere riparato.
La divisione asimmetrica avviene nel normale mantenimento fisiologico dei tessuti
ad elevato ricambio.
Alcuni esempi:
Le cellule dei muscoli sono dei sincizi, cioè una fusione di cellule singole, i mioblasti,
che formano delle strutture plurinucleate, le fibre muscolari, dove poi si organizzano
tutte le proteine che formano le strutture contrattili del muscolo, miofibrille, che poi
costituiscomno i sarcomeri. I nuclei saranno schiacciati verso l’esterno, verso la
membrana, e cosi anche le cellule satelliti, che quindi non si trovano dentro, ma tra
la membrana e le mio fibrille.
Le cellule satelli si possono poi differenziare in mioblasti nel caso che vengano
attivate in seguito ad un danno muscolare come uno strappo o una ferita.
Il muscolo ha quindi una certa capacità rigenerativa come si puo vedere
nell’immagine successiva.

Le cellule satelliti normalmente sono quiescenti, cioè non sempre proliferanti poiché
non c’è bisogno, però in seguito ad un danno ricevono degli stimoli che portano alla
loro attivazione. Iniziano quindi la loro proliferazione differenziandosi in mioblasti,
che poi si fonderanno tra di loro dando la fibra muscolare vera e propria, riparando
così la fibra muscolare danneggiata.
Le cellule staminali nei tumori
Le cellule staminali sono state scoperte anche nei tumori, relativamente recente
come scoperta.
Ciò può parzialmente spiegare l’inefficienza di alcune terapie, perché se nei tumori
miriamo a distruggere le cellule con elevato tasso di proliferazione, come fanno
numerosi chemioterapici, per esempio, se tra queste vi sono delle cellule staminali
che non si dividono, cellule staminali tumorali, queste non vengono distrutte.
Se usiamo una terapia che punta a bloccare la proliferazione cellulare, queste non
muoiono, ed una volta terminata la terapia, se attivate, possono ridare origine ai
tumori.
Determinazione del sesso nelle specie
animali
Quando si parla di determinazione del sesso, da un punto di vista biologico, ci si
riferisce alle modalità e meccanismi mediante i quali si sviluppano le gonadi.
Questo meccanismo non è identico in tutte le specie.
Nella nostra specie, più in generale nei mammiferi e negli insetti, è l’assetto
cromosomico che si stabilisce durante la formazione dello zigote a determinare lo
sviluppo delle gonadi.
Ci sono i cromosomi sessuali che vengono trasmessi con le modalità già viste, che
determineranno lo sviluppo delle gonadi, per cui avremo XX per le gonadi femminili
ed XY per le gonadi maschili.
In altri animali il dimorfismo dei cromosomi sessuali è diverso rispetto al caso della
nostra specie, però il concetto è sempre che ci sono dei cromosomi sessuali dalla
cui presenza si determina lo sviluppo specifico delle gonadi.
Non è sempre così in tutti gli organismi, in alcuni infatti questo non avviene, lo
sviluppo delle gonadi differenti è determinato da fattori ambientali, questo avviene
per esempio nelle tartarughe e nei coccodrilli: a seconda della temperatura a cui si
trovano le uova che vengono deposte queste genereranno o maschi o femmine; c’è
una temperatura alla quale si avranno 50% maschi e 50% femmine, e al di sotto o
sopra alla quale si avranno solo maschi o solo femmine. Ciò dipende da vari fattori,
uno dei quali è l’attivazione temperatura-dipendente degli enzimi che regolano la
produzione di ormoni che regolano lo sviluppo delle gonadi in un senso o nell’altro.

L’immagine a sinistra ci suggerisce che probabilmente il


meccanismo di determinazione mediante l’assetto cromosomico,
da un punto di vista evolutivo, si è generato dal sistema di
determinazione dipendente dalla temperatura, non dalla presenza
di cromosomi sessuali.
In realtà nell’evoluzione sono più vicini evolutivamente specie che
hanno meccanismi diversi rispetto a specie che hanno meccanismi
simili.
Es: mammiferi e tartaruga hanno meccanismi di determinazione
del sesso diversi, nel nostro caso dipende dai cromosomi, nella
tartaruga dipende dalla temperatura; ma evolutivamente siamo

più vicini di quanto lo siamo ai polli che hanno un meccanismo di determinazione del
sesso che dipende comunque dall’assetto cromosomico.
Variazioni nella determinazione del sesso dipendente
dall’assetto cromosomico
Si possono avere dei casi di digametia maschile, dove i gameti
diversi sono presenti nel maschio, e quindi il sesso del nascituro è
determinato da quale dei due cromosomi viene trasmesso nel
gamete che andrà a fecondare.
Questa digametia può essere di questo tipo, cioè dove nell’uomo
dove si avrà XX per la femmina e XY per il maschio; oppure in altre
specie dove femmina e maschio sono caratterizzate da un assetto
cromosomico XX per la femmina (come nella nostra specie) il
maschio X0, dal quale comunque dipende il sesso della prole,

perché esso potrà fare il 50% dei gameti con il cromosoma X e il 50% dei gameti di
tipo 0 (assenza di cromosoma), a seconda di quale gamete verrà utilizzato si avrà
maschio o femmina. Anche in questo caso il sesso della prole è determinato dal
maschio.

In altri casi si può avere la digametia femminile (in questo caso i


cromosomi sessuali vengono indicati con delle lettere diverse ma non
hanno nulla a che vedere con la forma del cromosoma), dove
abbiamo il maschio in cui i cromosomi sessuali sono uguali, e la
femmina in cui i cromosomi sessuali sono diversi; perciò, sarà la
femmina a determinare il sesso della prole, con lo stesso
meccanismo visto precedentemente.

Vi è il caso particolare della partenogenesi in alcuni insetti, in cui il maschio è


aploide, la sua generazione deriva dallo sviluppo della cellula uovo non fecondata,
per cui abbiamo un corredo aploide. È una situazione differente da quella vista
precedentemente.
I cromosomi sessuali a confronto
Se mettiamo a confronto il cromosoma X e il cromosoma Y si
possono notare delle grandi differenze.
Si pensa che inizialmente il cromosoma Y non esistesse e
che si sia generato (non vuol dire che non esistessero i
sistemi di dimorfismo sessuale, che probabilmente era
possibile grazie a dei geni autosomici), l’idea è che circa 150
milioni di anni fa, una porzione dell’X si sia staccata ed abbia
dato origine al cromosoma Y e che nel tempo questo abbia
perso molte
regioni/porzioni dalla sua struttura iniziale.
Questa perdita sembra si sia arrestata intorno ai 6 milioni di anni fa, prima che si
generassero i primi ominidi. Da quel tempo l’assetto del cromosoma Y sembra sia
rimasto abbastanza stabile.

I cromosomi X e Y devono avere delle regioni di omologia,


questo perché durate la meiosi deve esserci l’appaiamento
degli omologhi, sono le così dette regioni PAR, che
vengono dette regioni pseudoautosomiche, stanti alle
estremità dei cromosomi X e Y.
Permettono l’appaiamento dei cromosomi X e Y durante la
meiosi.
Queste regioni di omologia sono poche, infatti
considerando il cromosoma X, del suo intero genoma,

soltanto il 5% risulta essere omologo al cromosoma Y.


Nel cromosoma Y ci sono circa 70 geni, ed è costituito da 55 Megabasi (Mb).
Il cromosoma X contiene circa 1100 geni ed è più grande, circa 150 Mb.
Le regioni pseudoautosomiche contengono dei geni che sono noti, presenti sia nel
cromosoma X che nel cromosoma Y.
Nella nostra specie è stato visto che lo sviluppo delle gonadi dipende
prevalentemente dal gene SRY che si trova sul braccio corto del cromosoma Y, che
non è autosomico con l’X.
Quindi vi è un gene specifico sull’Y che determina lo sviluppo delle gonadi.
Questo gene è necessario ma non sufficiente, perché è stato visto che se la regione
contenente questo gene viene inserita in uno zigote XX, che potenzialmente
produrrebbe una femmina, si generano degli individui fenotipicamente maschili me
che non producono spermatozoi.
Ad oggi sappiamo che questo gene codifica un fattore di trascrizione che agisce sia
su geni presenti a livello del cromosoma X, ma anche su geni presenti negli
autosomi e che comunque sono coinvolti nell’espressione di proteine importanti per
la determinazione completa del sesso.
L’inattivazione del cromosoma X

Se si guarda la cellula di un organismo femminile, si può osservare che


all’interno del nucleo è presente una struttura eterocromatica altamente
condensata, che è il cromosoma X che viene inattivato e chiamato
corpo di Barr.
Il nome deriva dalla prima osservazione della presenza di cromosomi X
condensati da parte di uno dei primi scienziati che li aveva studiati che si
chiamava appunto Barr.

Nel 1961 una ricercatrice fece delle osservazioni sul colore della pelliccia di
determinati gatti e approfondì il concetto dell’inattivazione dell’X.
Il punto centrale è che l’inattivazione dell’X è casuale: una volta generato lo zigote
questo andrà a divedersi e differenziarsi in svariate cellule, l’inattivazione dell’X in
queste è completamente casuale.

Nei gatti che hanno una duplice colorazione, nera e


arancione, succede ciò che accade nell’immagine a destra.
Quando viene inattivati il pallino piccolo, cioè il cromosoma
X che determina il pigmento nero avremo il pelo arancione.
Quando viene inattivato il cromosoma X con il pallino

grande, quindi pigmento arancione, avremo il pelo nero.


Saremo così difronte a delle chimere: delle regioni che hanno un X inattivato e delle
regioni che hanno l’X attivato. Ciò dipende da quale X si attiva.
Tutto ciò si ha se c’è eterozigosi, se ci fosse omozigosi per quel determinato
carattere non si vedrebbero differenze.
Perché si realizza questa inattivazione?
L’idea è che si realizzi per determinare quella che viene detta la compensazione di
dose.
Siccome nel maschio abbiamo XY, e quindi un X solo, nella donna la presenza di
due X funzionanti, quindi con due alleli per ogni gene che si esprimono, potrebbe
causare dei danni. Ciò perché è importante anche la quantità di un determinato
prodotto genico, se ho due alleli entrambi funzionanti mi aspetto una quantità
maggiore rispetto di un singolo allele funzionante.
Per cui, l’inattivazione dell’X risponderebbe alla necessità di avere quantitativamente
l’espressione di determinati geni allo stesso livello nel maschio e nella femmina.

Nella specie umana, prima dello stadio della blastocisti, tutti i cromosomi X sono
entrambi attivi. L’inattivazione del cromosoma X avviene intorno al 15o giorno
dell’embriogenesi.
Interessante è che nella femmina adulta, durante la gametogenesi, prima dell’entrata
in meiosi, il cromosoma X si riattiva, senno no ci si spiegherebbe perché uno dei due
casualmente si inattiva.
Perciò nei gameti che si formano, sia che contengano un cromosoma X che l’altro,
sono entrambi attivi.

Se si prendono in considerazione alcune patologie, come la sindrome di Turner e


quindi avente X0, ovvero la mancanza del cromosoma X dovuta ad un processo di
non disgiunzione, si generano delle donne in cui manca un cromosoma X, ciò porta
la donna in questione ad essere sterile.
Perché sono sterili?
Si pensa che avendo un solo cromosoma X, durante la produzione dei gameti non si
può avere quel processo di riattivazione di entrambi gli X.

Anche la presenza di un X sovrannumerario, sindrome XXY, causa la morte delle


cellule germinali e l’atrofia del testicolo, e perciò i maschi affetti sono sterili.

L’inattivazione degli X non colpisce tutto il cromosoma ma ci sono le regioni


pseudoautosomiche che non vengono inattivate, quindi risulta una parte attiva anche
in quello che noi vediamo come corpo di Barr.
Queste regioni sfuggono all’effetto della compensazione perché le regioni
pseudoautosomiche sono anche nell’Y, quindi non hanno bisogno della
compensazione e quindi di essere inattivate.

Le regioni pseudoautosomiche hanno legami con alcune patologie:


• A livello della regione PAR è presente un gene, che nelle donne con XX, dato
che le regioni pseudoautosomiche sfuggono alla compensazione, questo
gene è presente in due forme alleliche funzionanti, determinando così uno
sviluppo osseo normale. Nelle donne affette da sindrome di Turner, X0,
succede che si ha un allele solo, e quindi si avranno dei difetti scheletrici tipici
di questa patologia.

L’inattivazione dell’X avviene grazie all’intervento di un RNA.


È un lungo RNA che viene prodotto da un gene situato sul cromosoma X stesso, che
legandosi al cromosoma con una serie di meccanismi molecolari in parte noti e in
parte non ancora noti, determina la compattazione dell’X e la sua inattivazione.
22/12/2023 Prof.ssa Francesca Magherini
Biologia Sbobinatori: Filippo Nocentini, Samuele Pelagalli
Lezione 20, parte prima Revisori: Sofia Mescoli, Massimo Mascia

CELLULE STAMINALI PLURIPOTENTI INDOTTE


La professoressa riprende la lezione precedente sulle cellule staminali approfondendo quest’ultimo argomento.

Il processo differenziativo può essere revertito: a partire da cellule differenziate come quelle
della radice della carota, quelle della parete intestinale del girino o la cellula mammaria della
pecora (viste nella scorsa lezione), è possibile ripristinare la loro staminalità. Questi studi
avevano ispirato alcuni ricercatori che pubblicarono delle ricerche su questo tipo di cellule
staminali pluripotenti indotte, riuscendo a capire come fosse possibile questa reversione.
Grazie agli studi sulle cellule staminali, si arrivò a scoprire la presenza di fattori di trascrizione
caratteristici esclusivamente delle cellule staminali che ne mantenevano la staminalità. Questo
gruppo di ricercatori inserì all’interno di fibroblasti (cellule differenziate) dei geni codificanti per
fattori proteici espressi nelle cellule staminali; a seguito di ciò, i fibroblasti revertivano il loro
programma di differenziamento.
Le cellule staminali pluripotenti indotte, possono essere utilizzate per effettuare trapianti
autologhi (il paziente è sia donatore di una qualsiasi cellula specializzata, sia ricevente delle
stesse cellule revertite in pluripotenti indotte e successivamente
differenziate).

I VIRUS
La professoressa ritiene opportuno soffermarsi sui virus poiché è stato l’argomento che ha destato più problemi
tra i vari quiz svolti a distanza durante il semestre.
STRUTTURA
I virus hanno una struttura molto semplice. Sono caratterizzati da:
• un rivestimento proteico formato da una o poche proteine diverse (capside);
• il materiale genetico (o DNA o RNA) all’interno del capside;
• una membrana di natura fosfolipidica (envelope) esterna al capside, derivante dalla
membrana cellulare della cellula ospite, presente soltanto in alcuni virus.
Possono avere diverse strutture:
• simmetria elicoidale (immagine a) in cui le proteine del capside sono disposte ad elica;
• simmetria icosaedrica (immagine b) in cui le proteine del capside formano 20 facce
triangolari;
• struttura dei fagi (immagine c) (i virus che infettano i batteri). La struttura esterna non
entra nella cellula batterica perché il fago aderisce ad essa iniettando il materiale
genetico dall’esterno.

SCOPERTA DEI VIRUS


Il primo virus che venne cristallizzato fu il virus del mosaico del tabacco, il quale colpiva
proprio le piante di tabacco, causando una degenerazione dei cloroplasti e quindi un
ingiallimento delle foglie; esse seccavano e impedivano la produzione di tabacco.
Verso la fine del 1800, molti studiosi, a seguito dell’importanza economica che questa pianta
aveva, posero l’attenzione su questa malattia ma soprattutto sull'agente che la causava,
ipotizzando che fosse un batterio. Questa ipotesi era confermata dal fatto che, macerando la
foglia di una pianta malata, ottenevano una linfa che, se veniva posta sopra un’altra foglia,
anche quest’ultima veniva infettata.
Quando andarono a filtrare la linfa di una pianta malata per sterilizzarla (tramite filtri con una
porosità molto piccola si potevano separare le particelle e i microorganismi dal resto della linfa),
ottenevano comunque una linfa in grado di infettare altre piante; questo processo li portò ad
ipotizzare che l’agente responsabile della malattia fosse un qualcosa di molto piccolo oppure
una tossina prodotta da un batterio, in grado di oltrepassare il filtro.
Per dimostrare l’ipotesi che l’agente patogeno fosse una tossina, vennero effettuate delle
diluizioni scalari: la linfa infettata venne utilizzata per infettare un’altra pianta dalla quale venne
estratta la linfa per infettarne un’altra ancora ecc. Tutte le volte che avveniva l’infezione, la
malattia non si manifestava mai con un’intensità via via minore ma si verificava sempre con la
stessa intensità. Se l’agente patogeno fosse stato una tossina, l’intensità della malattia doveva
diminuire aumentando il numero delle infezioni, in quanto la tossina non è in grado di duplicarsi.
Questo esperimento li portò alla conclusione che la causa non fosse una tossina ma, anche
grazie a studi successivi, capirono si trattasse di un parassita endocellulare obbligato (un virus).
DIFFERENZE TRA I VIVENTI E I VIRUS
I virus, a differenza delle cellule viventi, non hanno un meccanismo di duplicazione autonomo
e neanche un meccanismo di generazione dell’ATP; risultano privi, quindi, di un’attività
metabolica e di conseguenza non possono essere considerati organismi
vitali.
BATTERIOFAGI
Sono dei virus che infettano i batteri aderendo alla loro parete cellulare e iniettando soltanto il
loro materiale genetico.
Possono dar luogo a 2 modalità d’infezione:
• Ciclo litico: il fago inietta il materiale genetico all’interno della cellula ospite e, grazie a
dei geni precoci all’interno del materiale genetico virale che vengono espressi per primi,
l’apparato riproduttivo della cellula ospite viene indirizzato verso il DNA virale e non più
verso il proprio DNA ed inoltre vengono bloccate tutte le funzioni della cellula batterica.
Ad esempio, un gene precoce di un fago, codifica un enzima che modifica l’RNA
polimerasi batterica, la quale non è più in grado di riconoscere efficientemente i
promotori batterici ma soltanto quelli virali; oppure altri geni precoci codificano per enzimi
che degradano il DNA batterico.
Dopo la fase precoce si verifica la fase tardiva in cui vengono trascritti e tradotti i geni
tardivi, i quali codificano per le proteine di rivestimento del virus; esse si assemblano per
formare nuovi patogeni e ciò induce la lisi cellulare.
• Ciclo lisogeno: è la modalità infettiva che utilizza il fago Lambda. Esso inietta il
materiale genetico all’interno della cellula ospite e si integra con il genoma batterico,
duplicandosi con esso anche per tempi molto lunghi. In determinate condizioni, il DNA
virale fuoriesce dal DNA batterico nel quale si era integrato, andando a generare un ciclo
litico.
Il fago Lambda, una volta che si è integrato nel genoma batterico, rimane in fase di
latenza senza determinare la morte della cellula ospite.
Alcune tossine prodotte dai batteri, possono essere il risultato dell’espressione genica di un
profago (materiale genetico virale inserito nel materiale genetico batterico): non è il genoma
batterico a contenere i geni per la tossina, ma è un profago che si è integrato stabilmente nel
batterio a
produrla.

CLASSIFICAZIONE DEI VIRUS ANIMALI


Sono suddivisi in 7 gruppi a seconda del tipo di materiale genetico e della modalità di
replicazione.
Il loro numero di nucleotidi e di geni varia molto da un virus a un altro.
Possono essere virus:
• a DNA:
o a doppio filamento (ds DNA o double strand DNA);
o a singolo filamento (ss DNA o single strand DNA);
• a RNA:
o a doppio filamento (ds RNA o double strand RNA);
o a singolo filamento (ss RNA o single strand RNA);
• retrovirus: sono virus a single strand RNA che retrotrascrivono il loro materiale genetico
in DNA grazie ad una trascrittasi inversa contenuta all’interno del virus (non è presente
all’interno delle cellule animali). Il DNA retrotrascritto si andrà poi ad integrare nel
genoma della cellula ospite. Un esempio di retrovirus è l’HIV.
L’HIV, una volta che ha infettato i linfociti T, retrotrascrive il proprio materiale genetico in DNA,
il quale viene integrato nel genoma del linfocita dove rimane per un periodo di tempo
indeterminato in fase latente; trascorso questo periodo, il gene virale comincerà a trascrivere e
tradurre le proteine virali generando nuovi virus che gemmeranno dalla cellula, senza però
causare la morte del linfocita.

I virus ssRNA o a singolo filamento di RNA possono possedere 2 tipologie di filamenti:


• il filamento + è il filamento che è già pronto per la traduzione (equivale all’RNA
messaggero già maturato)
• il filamento - non è in grado di tradurre proteine virali e quindi deve essere ottenuto il
suo complementare (il filamento +), il quale è l’unico in grado di sintetizzare proteine.
Per ottenere il filamento di RNA complementare al filamento -, i virus trasportano al loro
interno l’enzima RNA polimerasi RNA dipendente che è l’unico enzima in grado di
svolgere questo processo.
Un esempio di ssRNA+ è il Coronavirus. Grazie al proprio filamento, può essere prodotto
immediatamente l’enzima RNA polimerasi RNA dipendente che è in grado di duplicare il
genoma virale da poter inserire all’interno dei nuovi virus ma anche per amplificare la
produzione di proteine
virali.

I ssRNA- invece, possiedono l’RNA polimerasi RNA dipendente al loro interno, perché
altrimenti, non potrebbero far scattare il processo infettivo visto che il filamento - non è in grado
di tradurre le proteine.
Quindi, alcuni virus possiedono al loro interno, già prima dell’infezione, la proteina responsabile
della replicazione del loro genoma (come ad esempio una trascrittasi inversa o una RNA
polimerasi RNA dipendente) qualora questo loro meccanismo di replicazione non sia
riproducibile all’interno della cellula ospite.
SPECIFICITÁ
La maggior parte dei virus sono specie-specifici, ossia possono infettare soltanto una specie
che possiede delle specifiche molecole recettrici; pochi virus (come ad esempio quello della
rabbia) possono infettare specie diverse.
All’interno della stessa specie, i virus possono avere anche una specificità cellulare (per
esempio il virus del raffreddore può infettare soltanto le alte vie respiratorie) poiché ogni cellula
possiede dei recettori diversi, che normalmente servono per una funzione fisiologica.
Le cellule ospiti possono essere:
• sensibili se possiedono i recettori responsabili dell’infezione virale;
• permissive se possiedono l’apparato molecolare indispensabile per la replicazione del
virus.
Nel caso in cui una cellula sia sensibile ma non permissiva, e quindi non abbia gli enzimi
necessari per la replicazione dei virus, si potranno verificare 2 situazioni:
• un’infezione abortiva in cui il virus non si replica e non accade niente;
• un’infezione restrittiva in cui il virus è in grado di replicarsi solo in determinate
condizioni come ad esempio l’ingresso della cellula ospite in fase S o un abbassamento
delle difese

immunitarie.
Se la cellula è sensibile e permissiva, il virus può svolgere, oltre che ad un ciclo litico o ad un
ciclo lisogeno, anche un’infezione persistente, in cui il virus si replica senza causare la lisi della
cellula (come l’infezione provocata dall’HIV).
MODALITÀ DI PENETRAZIONE
L’ingresso del virus è una fase successiva alla fase di adsorbimento, in cui il virus si associa
ad un determinato recettore presente sulla membrana della cellula ospite. Se il virus possiede
l’envelope, si possono verificare 2 modalità d’ingresso:
• fusione, se una volta che è avvenuto il riconoscimento tramite i recettori la membrana
della cellula si fonde con l’envelope (di natura fosfolipidica) determinando il rilascio del
virus all’interno della cellula;
• endocitosi mediata da recettore, in cui una volta avvenuto il contatto tra i recettori,
sulla membrana plasmatica si viene a formare una fossetta rivestita da clatrina nella
porzione intracellulare, la quale andrà a formare una vescicola rivestita che presto
perderà il rivestimento di clatrina e si fonderà con un endosoma, inducendo
l’abbassamento del ph e quindi il rilascio del virus dalla vescicola nel citoplasma.
Se il virus non possiede l’envelope, verranno internalizzati tramite un processo di endocitosi.
Le proteine intrinseche (recettori del virus) presenti sull’envelope, sono prodotte dalla cellula
ospite ed esposte sulla propria membrana; quando il virus duplicato all’interno della cellula
verrà espulso per gemmazione, acquisterà l’envelope ricco dei recettori che si trovavano sulla
membrana della cellula.
MECCANISMO DI REPLICAZIONE DELL’HIV
L’HIV è un virus che fu ufficialmente riconosciuto nel 1981, periodo nel quale si verificò
un’enorme diffusione. Ad oggi, i casi sono molto ridotti perché sono note le precauzioni da
prendere al fine di non infettarsi e anche l’insorgenza della malattia è tenuta sotto controllo da
farmaci che permettono ai malati di avere una vita normale.
Il singolo filamento di RNA viene retrotrascritto grazie alla trascrittasi inversa in un filamento di
DNA, il quale viene copiato generando un doppio filamento che si integra nel DNA ospite dove
rimarrà stabilmente. Esso serve per trascrivere l’RNA da utilizzare sia come materiale genetico
per i nuovi virus, sia come messaggero per la sintesi delle proteine virali. I nuovi virus prodotti
gemmeranno dai linfociti T senza causarne la morte, ma comunque inattiveranno la loro

funzione.

VIRUS E TUMORI
Molto raramente nella nostra specie, un’infezione virale può causare un tumore (es. l’epatite B
può causare un cancro al fegato, il papilloma virus può causare il carcinoma della cervice
uterina, gli herpes virus possono causare il linfoma di Burkitt).
Questi virus si chiamano virus oncogeni e sono in grado di infettare una cellula e determinarne

una trasformazione.
Il virus di Epstein-Barr può causare il linfoma di Burkitt a seguito della traslocazione di una
sequenza di DNA contenente il gene myc (codificante un fattore di trascrizione che promuove
la proliferazione cellulare; l’espressione di tale gene viene quindi regolata) tra il cromosoma 8
e il cromosoma 14. Il gene myc, una volta traslocato, si trova sotto il controllo di regioni
regolative per le immunoglobuline (che vengono espresse in grandi quantità) e ciò causa una
sovraespressione anche di tale gene che porta alla proliferazione incontrollata della cellula
infettata dal virus.

VIRUS EMERGENTI
Un esempio di virus emergente è l’ebola che ha una mortalità elevatissima e ciò rende la
diffusione di tale virus più difficile; i virus con un lungo periodo di latenza si diffondono molto
più rapidamente a causa dei lunghi spostamenti intrapresi dagli organismi della nostra specie.
Da un punto di vista biologico, quindi, al virus conviene avere un periodo di latenza lungo e una
mortalità non troppo alta, che gli permette di proliferare il più possibile.
Il SARS-coV-2 è il virus che ha causato il COVID-19 ma anche la SARS nel 2003 e la MERS
nel 2012.
I virus possono essere emergenti quando passano dagli animali agli uomini (il salto di specie è
causato da generiche mutazioni dei recettori dei virus); solitamente le fonti di virus per la specie
umana provengono dai pipistrelli (possiedono una elevatissima quantità di virus poiché sono
caratterizzati da un sistema immunitario molto tollerante nei confronti di queste infezioni), ma
anche dai roditori e da altri primati. Il passaggio diretto dai pipistrelli all’uomo sembra non
avvenire mai; solitamente è presente un ospite intermedio a causa della promiscuità tra gli
animali e l’uomo.
Data 22/12/2023

Docente Francesca Magherini

Materia Biologia
PROTEINE PRIONICHE (NON SONO NEL PROGRAMMA)
I viroidi sono agenti infettivi caratterizzati solo da RNA e esistono anche agenti infettivi
caratterizzati da sole proteine, che verranno trattati nel dettaglio.
Quelle causate da solo RNA è immaginabile che possano replicarli, mentre quelli causati da
solo proteine e una proteina che infetta o che si autoduplica è più inusuale come argomento in
biologia.
Questo ha suscitato inizialmente molta perplessità.
Sappiamo che sono legate a varie patologie:
• La scrapie, una malattia che colpisce le pecore.
• Il kuru, l’insonnia fatale, la BSE e la Creutzfeldt-Jacob sono anche dell’uomo.
La prima è all’origine di quella che venne chiamata la sindrome della mucca pazza.
Il kuru è all’origine di tutte queste scoperte. Incomincia in una tribù della Nuova Guinea dove si
diffonde una strana malattia, le persone cominciano ad avere comportamenti strani, cominciano
a manifestare demenza, perdita della memoria e tutta una serie di sintomi connessi
all’alterazione del sistema nervoso. Un medico di nome Zigas venne inviato in queste zone
insieme ad un pediatra e notò che l’analisi post-mortem del cervello, delle persone colpite da
questo virus, da dei risultati strani, il cervello risulta essere spugnoso per via della perdita di
molti neuroni.
Si accorsero che in questa tribù vi era l’abitudine di mangiare i cadaveri in maniera selettiva, i
maschi mangiavano prevalentemente i muscoli, pensando che potesse dare loro la forza, e alle
femmine e ai bambini veniva dato anche il cervello del cadavere. La patologia venne rivelata
prevalentemente nelle femmine e nei bambini.
I due medici capirono che si poteva trattare di un virus, ma non riuscirono ad isolarne il ceppo,
ma comunque non fecero più mangiare i cadaveri alle persone e da allora i casi di questa
patologia sono estremamente rari in Nuova Guinea.
Intorno agli anni ‘80 e ‘90 alcune persone cominciano a presentare dei sintomi simili anche in
Europa, all’inizio in Inghilterra. In quel periodo in Inghilterra c’era una grave epidemia diffusa
tra gli ovini di scrapie, il nome deriva dal fatto che uno dei comportamenti in seguito a questa
patologia era che si grattavano. Invece di non utilizzarle, gli inglesi ci hanno fatto le farine
animali, che vengono date alle mucche, che poi vengono mangiate dagli uomini e poi questi si
ammalano. Sono stati registrati quasi 300000 casi.
Non venne subito individuato l’agente che la causava. L’ha individuato Trusiner, che vinse il
premio Nobel per questa scoperta, e dimostrò che l’agente infettante era composto da una
proteina che era presente nei genomi delle pecore, delle vacche e degli uomini.
Si interessò a questo perchè venne da lui una paziente che dimostrava i sintomi di questa
malattia di Creutzfeldt-Jacob, generata da un prione, che non si sapeva come curarla e portava
ad una degenerazione, fino alla morte del malato.
Il medico si incuriosì soprattutto quando notò la correlazione che c’era tra questa malattia e la
kuru.
Come fa questa proteina ad essere infettiva ?
Esiste in due forme:
• Una forma funzionale che ha una struttura prevalentemente ad alfa-elica. Ha varie
funzioni tra cui quella di proteggere l’organismo dallo stress ossidativo.
• Un’altra forma, mutata, caratterizzata da foglietti-beta, molto resistente. Le pecore
avevano questa proteina in forma alterata, che quando veniva ingerita non veniva
degradata dalla proteasi. Viene endocitata a livello dell’intestino e va a finire
principalmente a livello dell’apparato neuronale, dove causa la malattia.
Come causa la malattia?
Tutti hanno il gene di questa proteina, a struttura prevalentemente alfa-elica, ma se viene in
contatto con quella a beta-foglietto si ha un effetto domino, progressivamente tutte le proteine
cambiano la loro struttura e perdono la loro funzione. I neuroni non sono più protetti dallo stress
ossidativo e si degenerano.
La trasmissibilità non deriva dalla autoriproduzione della patologia, ma dall’ingerimento di una
proteina alterata.

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