Sei sulla pagina 1di 136

Ebook Biologia

Indice Generale
Introduzione all'ebook di Biologia.

SEZIONE 1- LA CHIMICA DEI VIVENTI

I bioelementi – Le molecole organiche presenti negli organismi


viventi e rispettive funzioni

Carboidrati

Polisaccaridi

Lipidi

Gli aminoacidi

Proteine

Nucleotidi

Acidi nucleici

L'importanza biologica delle interazioni deboli

Le proprietà dell'acqua

Il ruolo degli enzimi

SEZIONE 2 LA CELLULA COME BASE DELLA VITA

Teoria cellulare

La membrana cellulare e le sue funzioni

La membrana plasmatica

Le proteine di membrana
Dimensioni cellulari – La cellula procariote ed eucariote

Cellula procariote

Cellula eucariote

Cellula eucariotica: la compartimentalizzazione

Le strutture cellulari e loro specifiche funzioni

Nucleo

Reticolo Endoplasmatico

Ribosomi

Apparato di Golgi

Digestione cellulare: I LISOSOMI

Mitocondrio

Plastidi

Citoscheletro

Traffico vescicolare

Scambio di materiale tra cellule – Fenomeni di trasporto

e comunicazioneScambio di materiale tra cellule –

Riproduzione cellulare: mitosi e meiosi

Mitosi

Meiosi

Corredo cromosomico
SEZIONE 3 - BIOENERGETICA

Fotosintesi

Respirazione cellulare

La glicolisi

Fosforilazione ossidativa

SEZIONE 4 - RIPRODUZIONE ED EREDITARIETA'

Cicli vitali – Riproduzione sessuata ed asessuata

SEZIONE 5 - GENETICA MENDELIANA

Leggi fondamentali dell’ereditarietà e applicazioni

Prima legge

Seconda legge

Incrocio a due fattori (incrocio diibrido) - Terza legge

Il quadrato di Punnett

SEZIONE 6 - GENETICA CLASSICA

Teoria cromosomica dell'ereditarietà

Cromosomi sessuali – Mappe cromosomiche


Mappe cromosomiche

Genetica molecolare, DNA e geni, codice genetico e sua


traduzione, sintesi proteica

DNA e geni

La struttura del DNA

La sequenza del DNA

Replicazione e riparazione del DNA

Il codice genetico e sua traduzione

Il DNA dei procarioti

Replicazione

Il cromosoma degli eucarioti

Regolazione dell'espressione genica

SEZIONE 7 - GENETICA UMANA

Trasmissione dei caratteri mono e polifattoriali – Malattie


ereditarie

Malattie ereditarie

Malattie legate al sesso

Anomalie del numero di cromosomi sessuali


Gruppi sanguigni umani

Ingegneria genetica

SEZIONE 8 - EREDITARIETA' E AMBIENTE

Mutazioni

Teorie evolutive – Selezione naturale

Le basi genetiche dell'evoluzione

SEZIONE 9 - I TESSUTI ANIMALI

Cenni di embriogenesi

Tessuto epiteliale

Tessuto connettivo

Tessuto muscolare

Tessuto nervoso

SEZIONE 10 - ANATOMIA E FISIOLOGIA DEGLI ANIMALI E


DELL'UOMO

Apparato cardiovascolare: il cuore


Apparato respiratorio

Apparato digerente

Sistema endocrino

Apparato escretore

Apparato riproduttore femminile

Apparato riproduttore maschile

Apparato locomotore

Sistema schelettrico

Sistema muscolare

Sistema nervoso

Sistema immunitario
Introduzione all'ebook di Biologia.
Il seguente ebook tratterà gli argomenti di biologia sensibili di quiz nei test d'ingresso alle facoltà
mediche a numero chiuso. Lo scopo di tale ebook è di compendio allo studio. In molte sue parti il
linguaggio utilizzato sarà il più semplice possibile, per permettere a studenti di ogni grado di
preparazione di poter avere accesso alle informazioni in modo semplice e intuitivo.

Il proposito dell'autore è quello della massima chiarezza in uno spazio limitato di pagine. Come
saprete, studenti appena diplomati, dovranno competere con studenti universitari che hanno già
maturato uno, o magari più anni nel mondo accademico e che hanno pertanto dalla loro parte
esperienza e formazione universitaria.
Per tale ragione si cercherà di riassumere all'essenziale gli argomenti, senza trascurare parti
fondamentali.

Rispondere in modo esatto a un quesito in più nel test potrebbe portarvi al raggiungimento del
vostro obbiettivo
SEZIONE 1 - LA CHIMICA DEI VIVENTI

Iniziamo con una introduzione alla biologia dei sistemi viventi, in particolare piante e animali (la
maggior parte degli argomenti trattati in questo capitolo, troveranno ampio spazio nei capitoli
successivi). Sia le piante che gli animali hanno una organizzazione cellulare, nascono, crescono, si
riproducono e muoiono.

Le principali proprietà che caratterizzano un essere vivente sono:

- Complessità: i viventi sono esseri complessi e altamente integrati. Tra gli esseri viventi più
semplici (unicellulari = una sola cellula), il batterio è un esempio della forme di vita più
semplice e piccola, sebbene il concetto di “semplice” sia da intendere in maniera relativa, in
quanto costituito da circa 7000 sostanze chimiche diverse. Considerando l’uomo,
organismo complesso, si scopre che esso è costituito da almeno 10000 miliardi di cellule
composte a loro volta da decine di migliaia di sostanze chimiche differenti organizzate in
strutture ultramicroscopiche, gli organuli cellulari. Nell'uomo sono stati fino ad ora definiti
circa 200 tipi diversi di cellule. Queste piccole componenti si trovano organizzate in tessuti
che, a loro volta, si organizzano in organi. Questi ultimi costituiscono i sistemi e gli apparati
che s’integrano a formare l’organismo.

- Informazione genetica: la struttura e le attività dell’intero organismo, dalla nascita alla


morte, sono scritte nei cosiddetti geni. La sede delle informazioni relative a qualsiasi
componente strutturale e funzionale dell'organismo è un acido nucleico (DNA o RNA). Il
DNA è custodito nel nucleo della cellula eucariotica, in strutture dette cromosomi, di cui si
approfondirà successivamente. Non tutti gli organismi viventi, però, seguono questa regola:
i batteri ad esempio contengono il loro cromosoma disperso nel citoplasma, o ancora alcuni
virus conservano le informazioni genetiche in molecole di RNA.

- Metabolismo: significa trasformazione. Ciascun organismo è capace di trasformare la


molecole organiche come proteine, zuccheri e grassi in energia, ma anche trasformare la
stessa energia da una forma ad un'altra. Scopo ultimo del metabolismo è ricavare l'energia
dell'ambiente esterno per rinnovare, accrescere o riparare le strutture interne
dell’organismo. Tutte le reazioni e i processi chimico-fisici che l'organismo mette in
funzione sono utili a garantire la stabilità di tutto il sistema; questa proprietà prende il nome
di omeostasi.

- Riproduzione: per garantire la perpetuazione della specie ciascun vivente è in grado di


riprodursi, cioè di generare altri organismi simili a se stesso. Un organismo unicellulare è in
grado di duplicare il proprio materiale genetico per dividersi in due cellule figlie identiche
alla cellula madre. Negli organismi pluricellulari questo processo è molto più complesso e
richiede strutture e apparati specializzati alla riproduzione.

- Sviluppo: la crescita è un aspetto caratteristico degli organismi viventi. Lo sviluppo


comporta trasformazioni della struttura e della fisiologia dell'organismo.

- Evoluzione: tutte le variazioni al materiale genetico (mutazioni) di un organismo che


vengono trasmesse dall'organismo genitore a quello figlio, vengono da quest'ultimo
ereditate. Questo processo risulta essere complesso e continuo e può a lungo andare
comportare la creazione di un nuovo carattere. L’accumulo di tali variazioni può condurre
alla formazione di organismi con caratteristiche strutturali molto diverse.
Si riassumono di seguito i livelli di organizzazione del mondo dei viventi:

ATOMO → MOLECOLA → CELLULA → TESSUTO → ORGANO → SISTEMA/APPARATO DI ORGANI → ORGANISMO →


POPOLAZIONE → COMUNITA' → ECOSISTEMA → BIOSFERA

Biosfera: la biosfera è definita come l'insieme delle zone della Terra in cui le condizioni ambientali permettono lo sviluppo della vita.

Esistono ovviamente grandi differenze fra le varie specie di esseri viventi, specialmente
considerando le suddivisioni in regni (animali, vegetali, funghi, batteri e così via); le seguenti
tabelle vogliono essere d’esempio riassumendo alcune delle tante differenze che caratterizzano i
noti regni delle Plantae e degli Animalia.

PIANTE:
• Organismi autotrofi1
• Privi di movimento
• Grande sviluppo delle superfici esterne (radici e foglie)
• Accrescimento indefinito
• Nessun sistema nervoso centrale
• La circolazione dei liquidi avviene in un sistema aperto e in vie separate.

1: Gli organismi autotrofi sono in grado di ricavare da composti inorganici molecole biologiche di cui hanno bisogno, utilizzando come fonte di
carbonio il biossido di carbonio (CO2 o anidride carbonica) e come fonte di azoto l'ammoniaca ( NH3 ) o altri composti inorganici azotati, sfruttando
fonti di energia come la luce solare. Per essi, quindi, la presenza o meno di altri organismi, come pure di molecole organiche di origine esogena,
non è necessaria.

Molecola esogena: si intende qualsiasi fattore o sostanza, biologica o meno, che abbia origine esterna all'organismo considerato.

ANIMALI
• Organismi eterotrofi2
• Capaci di movimento attivo
• Enorme sviluppo delle superfici interne (Intestino, polmoni...)
• Accrescimento finito
• Sistema nervoso centrale che coordina organi specifici
• Circolazione in un sistema chiuso caratterizzato da una via unica per acqua, sali minerali, molecole
organiche e ossigeno.

2: Organismo vivente che NON è in grado di sintetizzare le proprie molecole organiche autonomamente partendo da molecole inorganiche, ma
necessita di molecole organiche ad alto contenuto energetico (zuccheri, lipidi, proteine) per ricavare energia utile alla biosintesi di altre molecole.

Autotrofi:
• Organismi che si nutrono di sostanze inorganiche semplici (CO2, H2O)
• Partendo da sostanze inorganiche sintetizzano ogni tipo di molecola organica
• Sfruttamento ed uso di fonti di energia luminosa o chimica
• Comprendono: piante verdi, alghe, alcuni batteri, ecc…

Batteri autotrofi: i batteri che, come le piante, sfruttano l’energia solare sono detti fotoautotrofi, mentre si dicono chemioautotrofi quelli che
ricavano l’energia da molecole inorganiche.

Eterotrofi:
• Organismi che si nutrono di sostanze organiche complesse
• Sfruttano per le proprie reazioni metaboliche energia proveniente da biomolecole quali proteine,
carboidrati e grassi, provenienti da piante o altri eterotrofi.
• Comprendono: animali, batteri, funghi, ecc…
I bioelementi – Le molecole organiche presenti negli organismi viventi
e rispettive funzioni

Gli elementi chimici stimati in natura sono 92, ma solamente venti di essi circa entrano nella
composizione della materia vivente (molecole organiche). Fra questi, quattro sono i più importanti:
ossigeno (O), carbonio (C), idrogeno (H) e azoto (N).

Le molecole organiche sono in genere polimeri (cioè catene di uno stesso mattoncino detto
monomero) con elevato peso molecolare e si suddividono in metaboliti primari e secondari.

I metaboliti primari sono essenziali alla vita racchiudono i carboidrati, i lipidi, le proteine e gli
acidi nucleici. I metaboliti secondari, al contrario, NON sono essenziali per la vita, ma sono
deputati a meccanismi biochimici della cellula o dell'organismo.

I metaboliti primari si dividono in quattro categorie principali:

• Lipidi: queste molecole, perlopiù contenenti acidi grassi, sono sostanze oleose, insolubili in
H2O e quindi idrofobi (hydor= acqua e phobos= paura); sono, inoltre, molecole di riserva
energetica e possono avere funzione strutturale o di “messaggeri” chimici (es. ormoni
stereoidei).
• Carboidrati: o zuccheri, sono gli elementi più abbondanti in natura e anche loro
rappresentano le molecole di riserva energetica per molti organismi. Sono composti ternari
costituiti da carbonio (C), ossigeno (O), idrogeno (H).
• Proteine: sono costituite da aminoacidi. Nelle cellule hanno una funzione strutturale, ma
anche di catalizzatori di reazioni chimiche (enzimi) e sono importanti per il movimento.
• Acidi nucleici: il DNA e l'RNA sono costituiti da catene di nucleotidi, e rappresentano le
molecole deputate alla trasmissione del patrimonio genetico.

Carboidrati
I carboidrati, chimicamente, sono poliidrossialdeidi (zuccheri aldosi) o poliidrossichetoni (zuccheri
chetosi). Costituiscono circa il 60-90% del peso secco dei vegetali, mentre solo l'1% dei tessuti
animali.

Tutti i monosaccaridi sono costituiti da almeno tre atomi di carbonio: uno di questi è il carbonio
carbonilico (C=O), mentre gli altri risultano legati all’ossidrile (-OH).
Negli aldosi l’atomo di carbonio più ossidato è il C1 e il gruppo carbonilico si trova perciò
all’estremità della catena carboniosa; nei chetosi invece l’atomo di carobnio più ossidato è
solitamente il C2 per cui il gruppo carbossilico si trova in posizione 2.

I monosaccaridi più piccoli sono i triosi, zuccheri a tre atomi di carbonio. I capostipiti delle due
famiglie di monosaccaridi e sono rappresentati dalla gliceraldeide (aldoso) e dal diidrossiacetone
(chetoso).

Entrambi gli zuccheri possiedono 3 C, 2 gruppi OH più un gruppo aldeidico o chetonico. I


polialcoli con una funzione aldeidica prendono il nome di aldosi, quelli con la funzione chetonica
prendono il nome di chetosi. A seconda del numero di C chirali, si possono avere più stereoisomeri,
che determinano un D-zucchero o un L-zucchero. I “D-zuccheri” sono quelli prevalenti in natura.
I carboidrati comprendono gli zuccheri monomerici e i rispettivi polimeri e possono essere
classificati in quattro gruppi:

• Monosaccaridi: sono costituiti da una sola unità polidrossilica aldeidica o chetonica; hanno
un ruolo energetico. Sono classificati sulla base del numero di C (esosi: es. glucosio;
pentosi: es. ribosio). La posizione degli ossidrili (OH) sul piano, il numero di C e il gruppo
funzionale (aldeidico o chetonico) determinano il differente zucchero.
• Disaccaridi: derivano dall’unione covalente di due monosaccaridi. Ad esempio il
saccarosio (il classico zucchero da cucina) è composto da glucosio+fruttosio. Il lattosio è
dato da glucosio+galattosio, e così via. Possono essere separati mediante idrolisi. Ruolo
energetico e veicolazione.
• Oligosaccaridi: fino a 10 unità monosaccaridiche condensate (omo-, etero-oligosaccaridi).
Ruolo energetico (riserva, strutturale), mediazione di segnali.
• Polisaccaridi: oltre 10 unità monosaccaridiche condensate (alto peso molecolare). Esempio:
amido (riserva), cellulosa (struttura)

Idrolisi: diverse reazioni chimiche in cui le molecole vengono scisse (divise) in due o più parti per effetto
dell'acqua. Può talvolta essere considerata come la reazione inversa della reazione di condensazione

Gli zuccheri, nella loro struttura lineare possono ciclizzare nella forma detta “emiacetalica” o
“emichetonica” (aldeide + alcol ⇋ emiacetale; chetone + alcol ⇋ emichetale). Nel caso degli
zuccheri la funzione aldeidica/chetonica e quella alcolica appartengono alla stessa molecola, e la
reazione determina la ciclizzazione dello zucchero.

Vediamo il caso del D-glucosio. L’ossidrile in posizione C5 in soluzione acquosa si avvicina al


carbonio carbonilico C1 della funzione aldeidica, e vi si lega. A questo punto la reazione del gruppo
ossidrilico in C5 con un lato del C1 produce l’α-D-glucosio, mentre con l’altro lato il β-D-glucosio.
Il passaggio dalla forma alfa a quella beta di uno zucchero ciclizzato è detto mutua rotazione.

Poiché gli zuccheri contengono molti gruppi ossidrilici è possibile che due monosaccaridi si leghino
tramite un legame O-glicosidico, che si forma quando il gruppo ossidrilico di uno zucchero
reagisce con un altro zucchero.
Polisaccaridi

I polisaccaridi che si formano dall’unione di più zuccheri possono essere o omoglicani (sempre lo
stesso residuo monosaccaridico) o eteroglicani (diversi monosaccaridi). I polisaccaridi vengono
prodotti per addizione di mono- o oligosaccaridi ad una catena per cui la loro lunghezza è variabile.
Vengono classificati in polisaccaridi di riserva e strutturali.

Polisaccaridi di riserva

• Amido: forma polimerica costituita da monomeri di α-glucosio. Nel composto, granuloso, si


possono distinguere due forme separabili, amilosio a catena lineare o amilopectina a catena
ramificata.
• Glicogeno: è il polisaccaride di deposito in animali e batteri; ha la stessa struttura
dell’amido, ma le sue ramificazioni sono molto più presenti e le catene laterali possiedono
meno residui di glicogeno.
• Inulina: oligosaccaride di riserva (vacuoli) tipico delle Asteraceae (Compositae).

Polisaccaridi strutturali

• Cellulosa: polimero costituito da monomeri di β-glucosio. I legami fra monomeri di β -


glucosio conferiscono alla cellulosa una conformazione rigida. La cellulosa costituisce fibre
resistenti ed elastiche che la cellula vegetale sovrappone alla sua parete. Uomo e altri
mammiferi non sono in grado di scindere i singoli monomeri dalla cellulosa, che risulta
perciò indigeribile.
• Chitina: polimero di N-acetilglucosamina, differisce dalla cellulosa soprattutto per il
contenuto in Azoto (N); irrobustisce le pareti cellulari dei funghi superiori, e costituisce la
cuticola resistente degli artropodi.

Cuticola: è uno strato di materiale idrofobico composto da cere e da cutina depositato esclusivamente sulla parte
esterna delle cellule dell'epidermide con funzione protettiva. Conferisce impermeabilità all’acqua. Ricopre foglie e
rami.

Lipidi
Grande gruppo di composti caratterizzati dalla loro relativa insolubilità in acqua e dalla solubilità in
solventi organici. Si distinguono lipidi semplici (es. trigliceridi o triacilgliceroli, cere) e lipidi
coniugati (es. fosfolipidi) ed hanno un ruolo energetico (riserva; es. trigliceridi); strutturale
(membrane cellulari; es. lipidi coniugati); isolamento termico; comunicazione cellulare (ormoni
stereoidei).

Acidi grassi

Gli acidi grassi sono le unità costitutive dei lipidi. Differiscono in lunghezza della catena di
idrocarburi e per il numero o la posizione di eventuali doppi legami.
Si classificano in
- acidi grassi saturi: privi di doppi legami nella catena: C-C; a T ambiente sono cere,
- acidi grassi insaturi: presenza di almeno un doppio legame: C=C; si presentano come oli

Lipidi di riserva

Gli acidi grassi, poiché ricchi di energia, vengono accumulati in lipidi di deposito detti
triacilgliceroli, formati da tre residui acilici esterificati a una molecola di glicerolo.
Sono lipidi neutri e non polari, per cui idrofobi; quando presentano catene lunghe e sature si
presentano come solidi (es. grasso animale), mentre a catena lunga e insatura si presentano come oli
a temperatura ambiente.
I triacilgliceroli, a causa della loro idrofobicità, si raggruppano in gocciole di grasso all’interno
delle cellule, solitamente vicino ai mitocondri, pronte ad essere “bruciate”. La maggior parte del
grasso corporeo è comunque depositato in cellule apposite dette adipociti, che compongono il
tessuto adiposo.

Lipidi strutturali: i fosfolipidi

I fosfolipidi (glicerolfosfolipidi) sono i principali costituenti delle membrane biologiche. Sono


composti da due molecole di acido grasso legate a L-glicerolo il cui terzo ossidrile (-OH) è
esterificato con acido fosforico. A sua volta il fosfato in posizione 3 può essere esterificato con un
altro composto provvisto di –OH (ovvero un alcol) [X].

Il fosfato in C3 e il suo legante X rappresentano


la testa polare del fosfolipide, mentre il resto
rappresenta la coda apolare idrofoba.

A seconda della molecola X il fosfolipide prende un nome differente:

-H Fosfatidato
- colina Fosfatidilcolina*
- etanolammina Fosfatidiletanolammina*
- serina Fosfatidilserina*
* tre dei quattro fosfolipidi di membrana, a cui si aggiunge la sfingomielina, un lipide di membrana
non contenente glicerolo, ma sfingosina.
Gli aminoacidi

Le proteine sono polimeri biologici costituiti da catene lineari di amminoacidi; tutti gli esseri
viventi utilizzano circa venti amminoacidi comuni per la biosintesi delle proprie proteine.
Questi amminoacidi sono detti α-amminoacidi in quanto possiedono un gruppo amminico e un
gruppo carbossilico legati al carbonio C2, noto anche come carbonio α. Al carbonio α sono poi
legati un atomo di idrogeno e una catena laterale R; quest’ultima è caratteristica di ciascun
amminoacido e conferisce ad esso specifiche proprietà.

A valori di pH prossimi a quello fisiologico (uomo: pH=7.4) gli amminoacidi si trovano in forma di
zwitterioni o ioni dipolari: il gruppo amminico risulta infatti protonato (NH3+) mentre quello
carbossilico ionizzato (COO-).

Diciannove dei venti amminoacidi (l’eccezione è data dalla glicina il cui gruppo R è un atomo di
idrogeno) sono stereoisomeri, possiedono cioè una forma destrogira D e una levogira L a seconda
della posizione della posizione del gruppo amminico legato al carbonio α; tuttavia i 19 amminoacidi
utilizzati nella sintesi proteica possiedono configurazione L.

Nell’uomo 10 amminoacidi sono essenziali e risulta cioè necessario assumerli con la dieta in quanto
l’organismo non è in grado di produrli da altri composti. Questi sono: fenilalanina, isoleucina,
istidina, leucina, lisina, metionina, treonina, triptofano, valina. Arginina, cisteina, e tirosina sono
essenziali durante l'infanzia e lo sviluppo.

Quando gli amminoacidi polimerizzano a formare proteine, le catene laterali R influenzano


notevolmente la struttura e la funzione della proteina. Per questo motivo la cellula utilizza
diverse classi di amminoacidi a seconda della struttura e della funzione che la proteina deve
avere.

- Gruppi R Alifatici
o Glicina, alanina, valina, leucina, isoleucina, prolina
La glicina ha la struttura meno complessa in quanto ha un semplice atomo di idrogeno come
catena laterale R; ne risulta pertanto che la glicina non è una molecola chirale.
Gli amminoacidi appartenenti a questo gruppo sono apolari e idrofobici e risultano essere
poco reattivi.

- Gruppi R Aromatici
o Fenilalanina, tirosina, triptofano
Sono così chiamati perché possiedono come catena laterale anelli aromatici. L’anello di
benzene rende la fenilalanina altamente idrofoba; al contrario la tirosina presenta un
ossidrile legato al benzene (ovvero un fenolo) rendendo questo amminoacido un acido
debole. Il triptofano infine risulta meno idrofobico della fenilalanina per via della presenza
di un gruppo polare (N dell’anello biciclico), come succede per la tirosina e il suo ossidrile.

- Gruppi R contenenti zolfo


o Metionina: altamente idrofobo
o Cisteina: idrofobo; presenta un gruppo sulfidrilico –SH altamente reattivo dal
momento che l’atomo di zolfo è polarizzabile e mostra caratteristiche di acido
debole. Nelle proteine, la cisteina è utilizzata per “bloccare” strutture specifiche
mediante ponti disolfuro fra due cisteine.

- Gruppi R Alcolici
o Serina, treonina
Sono così chiamati in quanto possiedono una catena laterale polare per la presenza di un
gruppo alcolico –OH che conferisce alla catena un carattere idrofilico.
- Gruppi R basici
o Istidina, lisina, arginina
Mostrano catene idrofile e a pH neutro mostrano carica positiva (sono basi)

- Gruppi R acidi
o Aspartato, glutammato (e derivati asparagina e glutammina)
Sono amminoacidi dicarbossilici che a pH neutro presentano carica negativa (sono acidi).
Da essi derivano l’asparagina e la glutammina, rispettivamente le ammidi dell’aspartato e
del glutammato.

Proteine
Le proteine sono molecole polimeriche costituite da tante unità amminoacidiche (monomeri) tenute
assieme da legami peptidici. Il legame peptidico tra due aminoacidi si forma dalla condensazione
tra il gruppo amminico di un amminoacido e quello carbossilico dell’altro. Si determina
l’orientazione della catena proteica che ha sempre un terminale amminico (N-terminale) e un
terminale carbossilico (C-terminale). La sequenza degli amminoacidi presenti nelle proteine è
specificata dal DNA.

Lo studio delle proteine oggi ha raggiunto un livello così fine che attualmente si conoscono le
strutture tridimensionali di una miriade di proteine e le loro funzioni possono essere spiegate in base
alla conformazione proteica: per conformazione si intende l’organizzazione spaziale degli atomi; le
conformazioni possibili sono dovute alla possibilità di rotazione di un singolo o di più legami
covalenti e può variare perciò senza che si rompano legami covalenti. Tuttavia, in condizioni
fisiologiche, ogni proteina assume solo una forma stabile detta conformazione nativa, che risulta
essere quella favorita dal punto di vista energetico.

Sulla base delle caratteristiche fisiche e funzionali possiamo dividere le proteine in due grandi
categorie: fibrose e globulari.
- proteine fibrose: insolubili in acqua, resistenti fisicamente. Offrono un sostegno meccanico
alle cellule (es. collagene, cheratina,…)
- proteine gobulari: solubili in acqua, forma pressoché sferica per via dei ripiegamenti.
Presentano un core (interno) idrofobo e una superficie idrofila. Possono presentare anche
fessure o tasche mediante le quali riconoscono altri composti e li legano in maniera
transitoria. Rientrano in questa classe gli enzimi e numerose proteine con funzioni non
catalitiche.

Le singole molecole proteiche possono essere descritte su quattro livelli strutturali:

- struttura primaria: è la sequenza lineare di amminoacidi uniti mediante legami covalenti


(peptidici). La struttura primaria rappresenta la struttura monodimensionale della proteina,
mentre quella tridimensionale è descritta dai successivi livelli di organizzazione
- struttura secondaria: le interazioni responsabile dell’organizzazione tridimensionale di una
proteina sono principalmente di natura non covalente. La struttura secondaria descrive la
disposizione dei residui amminoacidici nello spazio in funzione della rotazione degli
amminoacidi attorno al carbonio α. Le strutture secondarie più comuni sono l’α-elica e il β-
foglietto.
- struttura terziaria: consiste nel compattamento di una catena polipeptidica in una o più
unità globulari (domìni); grazie alla struttura terziaria vengono avvicinate porzioni distanti
della proteina
- struttura quaternaria: si riferisce all’associazione di due o più catene polipeptidiche con la
formazione di una proteina costituita da diverse subunità. Non tutte le proteine mostrano
struttura quaternaria.

Una proteina costituita dalla sola presenza di amminoacidi viene definita proteina semplice;
quando a una sequenza amminoacidica (apoproteina) si legano invece gruppi esterni (detti gruppi
prostetici o non proteici) si parla di proteine coniugate.
Nucleotidi

I nucleotidi sono i componenti fondamentali di DNA e RNA, due acidi nucleici di grande
importanza contenuti in tutte le cellule viventi. Tuttavia i nucleotidi partecipano anche a molte
importanti attività cellulari come la catalisi enzimatica, il trasferimento di energia o la mediazione
degli stimoli ormonali. Inoltre alcuni nucleotidi operano come coenzimi nelle reazioni di biosintesi.

I nucleotidi sono composti da tre molecole:


- un composto azotato debolmente basico detto base azotata
- un residuo di pentosio (ribosio o 2-desossiribosio)
- uno o più gruppi fosfato

I nucleotidi contenenti ribosio sono detti ribonucleotidi, quelli con il desossiribosio sono detti
desossiribonucleotidi.

Le basi azotate presenti nei nucleotidi derivano da due molecole, la pirimidina e la purina, e
vengono perciò classificate in base alla loro origine in:
- basi puriniche: consistono in due anelli fusi (uno pirimidinico con uno imidazolico) con
diverse sostituzioni a seconda si tratti di adenina o guanina
- basi pirimidiniche: derivano dalla pirimidina, un composto eterociclico formato da quattro
atomi di carbonio e due di azoto. Sono l’uracile (nell’RNA), la timina e la citosina.

Quando le basi azotate si legano al ribosio o al desossiribosio formano un nucleoside; un nucleoside


fosfato al C5’ del ribosio o del desossiribosio prende invece il nome di nucleotide.

Fra un fosfato e l’altro intercorre un legame anidrilico ad alto contenuto energetico.

Acidi nucleici

I nucleotidi possono essere legati fra loro a formare dei


polimeri detti acidi nucleici, polinucleotidi lineari attraverso
cui vengono conservate e trasmesse le informazioni genetiche.
L’alternarsi fra zucchero e fosfato forma lo scheletro covalente
degli acidi nucleici; le basi legate al pentosio invece
determinano la variabilità di sequenza negli acidi nucleici.
Gli otto nucleosidi trifosfato (ATP, GTP, CTP, UTP, dATP,
dGTP, dCTP, dTTP) costituiscono i substrati delle RNA e DNA polimerasi, enzimi adibiti a
sintetizzare gli acidi nucleici nelle cellule. Le polimerasi sono in grado di aggiungere un nucleoside
monofosfato alla catena polinucleotide nascente mediante la formazione di un legame fosfodiestere
fra l’ossidrile in 3’ e il fosfato in 5’. In questa reazione il gruppo ossidrilico 3’ dell’acido nucleico
attacca l’atomo di forsforo (il più vicino allo zucchero) di un nucleoside trifosfato, determinando il
legame fosfodiestere.

Da questa spiegazione appare chiaro come le catene di ogni acido nucleico possiedano una specifica
polarità, con estremità ben distinte:
- estremità 5’ P: mostra il gruppo fosfato in posizione 5’ del pentosio
- estremità 3’ OH: mostra il gruppo OH in posizione 3’
Il nucleotide viene sempre aggiunto all’estremità 3’, seguendo la polarità dell’acido nucleico in
direzione 5’à3’.

L'importanza biologica delle interazioni deboli

Quando si parla di interazioni deboli, bisogna subito contestualizzare quello a cui ci si riferisce. Un
solo legame a idrogeno, è debole? La risposta sembra banale, ma non lo è: se lo si considera da
solo, allora il legame a idrogeno è un legame debole, circa venti volte più debole di un legame
covalente, ma molteplici legami a idrogeno non sono più così deboli e assicurano la formazione di
un legame stabile.

Le interazioni di importanza biologica sono:


• legami a idrogeno
• legami ionici
• forze di Van der Waals
• interazioni dipolo-dipolo
• forze idrofobe.

Nei sistemi biologici, tali legami sono importanti perché impartiscono alle macromolecole come
DNA e proteine la loro forma e struttura. Questi legami inoltre svolgono un ruolo importante nella
formazione di complessi proteici.

Poiché si tratta di legami deboli le strutture macromolecolari cui si fa riferimento sono


caratterizzate da un certo grado di flessibilità, necessario nei processi biologici.

Le proprietà dell'acqua

Dell’acqua si parla anche nella sezione di chimica e si rimanda pertanto


all’ebook di Chimica per una più approfondita analisi.

L’acqua è essenziale per la vita sulla terra. È un composto chimico,


costituito da un atomo di ossigeno e due di idrogeno; i legami O – H sono
di tipo covalente e l'angolo di legame è di 104.45°. La molecola d'acqua è
responsabile dell'inizio della vita sulla terra e del suo prosieguo.

L'acqua è un dipolo molto forte perché la differenza di elettronegatività


che c'è tra Ossigeno ed Idrogeno è molto alta. In queste condizioni le molecole di H2O allo stato
liquido tendono a sistemarsi in modo da presentare il polo negativo (Ossigeno) di una molecola
rivolto verso il polo positivo (Idrogeno) di un'altra. Si generano così legami intermolecolari di
natura elettrostatica (legami idrogeno) che tengono fra loro unite le molecole. Tale legame è meno
forte, però, di un normale legame covalente e a temperatura ambiente non è in grado di bloccare le
molecole in una posizione determinata, altrimenti l'acqua diverrebbe solida.

Elettronegatività: valore attribuito agli elementi chimici in base alla proprietà di certi atomi ad
acquisire elettroni a scapito di altri

In natura la si trova allo stato liquido, gassoso (vapore) e solido (ghiaccio). Quando solidifica
l’acqua aumenta di volume, cosa che non accade per la maggior parte delle altre sostanze chimiche.
Questo avviene perché la solidificazione crea l'instaurarsi di una stabilità dei legami idrogeno tra
le varie molecole, i quali obbligano le molecole di H20 a disporsi in una struttura cristallina
ordinata, che però occupa più spazio.

L'acqua è un ottimo solvente e disciolte in esso si possono trovare molte altre sostanze.

Il contenuto d'acqua del corpo umano è di circa il 75% nei neonati e 60% negli adulti.

Il ruolo degli enzimi


I processi metabolici che avvengono nella cellula si attivano grazie all'intervento di proteine
specializzate chiamate enzimi. Vengono definiti come i catalizzatori biologici poiché, nelle reazioni
in cui intervengono, ne aumentano la velocità riducendo l’energia di attivazione, senza però
parteciparvi direttamente e senza esaurirsi. Abbassando l'energia di attivazione necessaria per
innescare una reazione, gli enzimi permettono ad un numero maggiore di molecole di reagire
nell'unità di tempo.

Gli enzimi prendono il nome in base all’attività catalitica svolta, e sono riconoscibili dalla
desinenza –asi nel loro nome (es. transferasi, ossidoreduttasi, isomerasi, ligasi…).

Gli enzimi sono molecole altamente specifiche per i propri reagenti, detti substrati, sebbene la
specificità possa variare: un enzima può infatti svolgere la propria azione su un gruppo di substrati
con strutture correlate oppure essere in gradi di agire esclusivamente su una sola specie molecolare;
inoltre la maggior parte degli enzimi è dotata di stereospecificità, ed è in grado cioè di agire solo su
uno stereoisomero (es. D-glucosio e non L-Glucosio).

Gli enzimi sono in genere proteine globulari e si legano al proprio substrato in corrispondenza di
una tasca (in genere idrofoba) nota come sito attivo o sito catalitico (in cui avviene la catalisi
enzimatica). Un enzima agisce costituendo un complesso enzima-substrato, rielabora il substrato e
rilascia il prodotto della reazione.
Sono spesso necessari specifici parametri e condizioni affinché la reazione avvenga: temperatura o
il pH possono far sì che un enzima sia o meno attivo.

L’attività di un enzima può essere inoltre finemente regolata dalla cellula mediante specifici
inibitori (reversibili o irreversibili) o attivatori.

Molti enzimi per funzionare necessitano semplicemente degli amminoacidi che compongono il sito
attivo; altri invece hanno necessità di un cofattore, come uno ione metallico (Fe2+, Mg2+, Zn2+) o
molecole organiche più complesse, dette coenzimi (es. NAD+, FAD, Coenzima A…). Le vitamine
sono un esempio di precursori di coenzimi o spesso coenzimi stessi. Un coenzima opera come
“trasportatore” temporaneo di specifici gruppi funzionali; legato covalentemente alla porzione
proteica (apoenzima o apoproteina) è chiamato gruppo prostetico.
SEZIONE II LA CELLULA COME BASE DELLA VITA

Teoria Cellulare

Tutte le creature viventi sono fatte di cellule, piccoli macchinari circondati da una membrana che
racchiude una soluzione acquosa concentrata di composti chimici. Le forme di vita più semplici
sono cellule solitarie in grado di riprodursi per semplice mitosi. Organismi superiori invece, sono
composti da un insieme di cellule altamente specializzate collegate fra loro con un intricato sistema
di comunicazione.

Le cellule viventi originarono probabilmente 3,5 miliardi di anni fa in seguito a reazioni spontanee
fra molecole, in un ambiente lontano dall’equilibrio chimico. Tutte le cellule che oggi conosciamo
deriverebbero da una cellula primordiale che col passare dei secoli acquistò differenze via via più
marcate, fino ad arrivare a un momento topico dell’evoluzione, circa 1,5 miliardi di anni fa, quando
ci fu una transizione da cellule più semplici (cellule procariotiche) alla comparsa di cellule più
complesse, eucariotiche.

La cellula può essere definita come “la più piccola unità che mostra le tipiche proprietà di un
vivente”. Le cellule variano in modo drastico la loro forma, dimensione e funzione a seconda dalla
loro origine. Nonostante le differenze, tutte le cellule condividono caratteristiche di organizzazione
funzionale.

Tutte le cellule hanno una membrana plasmatica che la separa dall'ambiante. La membrana
plasmatica è selettivamente permeabile, cioè permette il passaggio solo ad alcune sostanze. Tutte le
membrane cellulari, inclusa quella plasmatica, sono formate in maggioranza da lipidi. Segue nel
prossimo paragrafo una visione più dettagliata.

All'interno della cellula delimitata dalla membrana plasmatica troviamo un mix di acqua, zuccheri,
ioni e proteine che prende il nome di citosol, nel quale avviene una parte del metabolismo della
cellula, la restante parte del metabolismo è deputata agli organelli che si trovano comunque al suo
interno. Gli organelli o organuli sono strutture che hanno una funzione metabolica speciale
all'interno della cellula. L’insieme degli organelli (escluso il nucleo) e del citosol prende il nome di
citoplasma.

Classifichiamo le cellule a seconda che il DNA sia o meno all'interno del nucleo in eucariotica e
procariotica, rispettivamente. Infatti solo le cellule eucariotiche hanno un nucleo, delimitato da una
doppia membrana.

Tutte le cellule sono decisamente troppo piccole per essere viste ad occhio nudo. Ecco il motivo
delle loro dimensioni ridotte: la grandezza di una cellula dipende fortemente da una relazione
fisica, chiamata legge di superficie volume, il cui approfondimento non è obiettivo di questa
trattazione; basti sapere che se il volume cellulare aumenta, ad esempio, di 64 volte, la sua
superficie aumenta solo di circa 16 volte. Se la cellula diventa troppo grande l'ingresso dei nutrienti
e l'uscita dei composti di scarto attraverso la membrana non sarebbe abbastanza veloce per tenere in
vita la stessa cellula. È per questo che la dimensione cellulare è limitata.

Gli studi nel corso degli anni hanno portato alla formulazione della teoria cellulare che può essere
così riassunta nei suoi punti chiave:
• Ogni organismo vivente è formato da una o più cellule.
• La cellula è la struttura e la parte funzionale di tutto l'organismo. La cellula, altresì, è l'unità
vivente più piccola anche se facente parte di un organismo complesso.
• Tutte le cellule nascono da una divisione cellulare di cellule preesistenti.
• Le cellule contengono il materiale genetico che trasmettono alla cellule figlie durante la loro
divisione.

Riassumiamo:

Cellule La più piccola unità che ha proprietà di essere vivente.


Teoria cellulare Tutti gli organismi sono formati da una o più cellule, che sono la base
della vita, e ogni cellula deriva da una precedentemente esistente.
Citoplasma Sostanze semifluida racchiusa nella membrana cellulare. Comprende il
citosol e gli organuli cellulari (eccetto il nucleo)
Nucleo Organello delimitato da due membrane, che contiene il DNA di una
cellula eucariotica.
Organello o organulo Struttura specializzata che compie funzioni metaboliche specifiche
all'interno della cellula.
Membrana plasmatica La membrana più esterna della cellula
Legge superficie/volume Relazione nella quale il volume di un oggetto aumenta con il cubo del
diametro, mentre l'area superficiale con il quadrato.
La membrana cellulare e le sue funzioni
La membrana plasmatica

La membrana plasmatica racchiude ogni tipo di cellula. La sua struttura fu subito ipotizzata, ma non
poté mai essere osservata fino agli anni 50, quando con il Microscopio Elettronico a Trasmissione
(TEM) si poté osservare ad ingrandimenti molto elevati; la membrana appari come un doppio
binario scuro al cui interno si trova una parte intermedia più chiara. Il suo spessore è di circa 5-10
nm.

Funzioni
• Innanzitutto la membrana plasmatica racchiude la cellula, ne definisce i contorni e mantiene
le differenze essenziali fra il citosol e l’ambiente extracellulare.
• Fornisce poi una barriera con permeabilità selettiva, definendo cioè le caratteristiche
dell’interno della cellula.
• Le membrane contengono poi delle proteine [recettori] che fungono da sensori per segnali
esterni, permettendo così alle cellule di cambiare il loro comportamento in risposta a segnali
ambientali.
• È sede di attività enzimatiche (es. ATPasiche).
• Media le interazioni intercellulari e i rapporti con la matrice extracellulare.

Struttura e composizione

Le membrane cellulari sono strutture dinamiche e fluide, e la


maggior parte delle molecole che le compongono sono in
grado di muoversi nella membrana stessa. È formata da un
doppio strato lipidico spesso circa 5-10 nm. Questo doppio
strato è la struttura base della membrana e funge da barriera
relativamente impermeabile al passaggio dell’acqua. La parte
esterna della membrana è di natura lipoproteica in quanto si
possono trovare glicoproteine (proteine unite con catene
oligosaccaridiche). Le proteine, che attraversano tutta la
membrana, assumono la struttura di α-elica.

Tra i carboidrati associati alle membrane sono molto importanti quelli provenienti da glicoproteine
e i glicolipidi, presenti nella membrana in quantità simili.
Altre molecole che si trovano all’interno della membrana mediano altre funzioni come il trasporto
di molecole specifiche attraverso essa.

Il doppio strato lipidico

Il doppio strato lipidico è la struttura base delle membrane cellulari ed è facilmente visibile al
microscopio elettronico. La struttura a doppio strato è attribuibile alle proprietà speciali delle
molecole lipidiche, che fanno sì che queste si assemblino spontaneamente in doppi strati anche in
condizioni artificiali semplici. Infatti i lipidi di membrana sono anfipatici (o anfifilici) [hanno cioè
un’estremità idrofilica (polare) e un’estremità idrofobica (apolare)] e proprio questa caratteristica fa
sì che si formino spontaneamente i doppi strati.
Le molecole lipidiche sono insolubili in acqua, ma si sciolgono facilmente in solventi organici.
Costituiscono circa il 50 % della massa della maggior parte delle membrane cellulari animali. Il
resto della massa è quasi tutto rappresentato dalle proteine.
I lipidi che compongono la membrana sono:

- Fosfolipidi
- Glicolipidi - con impalcatura di glicerolo; - con impalcatura di sfingosina
- Steroli - colesterolo; - fitosterolo (nei vegetali)

I fosfolipidi

Le molecole lipidiche più abbondanti sono i fosfolipidi: queste hanno una testa
polare idrofilica e due code apolari idrofobiche. Le code sono formate da acidi
grassi e possono avere lunghezze diverse; una coda ha in genere uno o più doppi
legami cis (è cioè insatura) mentre l’altra non ha doppi legami (è cioè satura).
Ciascun doppio legame crea un ripiegamento sulla coda; le differenze di
lunghezza e di saturazione delle code dei fosfolipidi sono importanti perché
influenzano la capacità delle molecole fosfolipidiche di compattarsi, e di
conseguenza la fluidità della membrana.

L’orientamento spontaneo dei lipidi

È proprio la forma anfipatica delle molecole lipidiche che le spinge a formare


spontaneamente doppi strati in soluzioni acquose.
Quando le molecole lipidiche sono circondate da ogni lato da acqua tendono ad aggregarsi in modo
da racchiudere le code idrofobiche all’interno e le teste idrofiliche esposte all’acqua. Secondo la
loro forma, si formano micelle sferiche, con le code tutte rivolte verso l’interno, strutture
monolayer o bilayer (strato singolo e doppio strato). Data la loro proprietà i fosfolipidi formano
spontaneamente doppi strati in ambienti acquosi; questi doppi strati tendono a chiudersi su se stessi
per formare compartimenti sigillati, eliminando così bordi liberi dove le code idrofobiche sarebbero
esposte all’acqua (liposomi).

I fosfolipidi non sono statici, ma sono in grado di muoversi nel doppio strato lipidico secondo:
- diffusione laterale: è uno scambio di
posizione rapido con i fosfolipidi vicini
all’interno del singolo strato; avviene
molto spesso con una frequenza di 107
volte al secondo.
- flip-flop: è il processo di migrazione dei
fosfolipidi da uno strato all’altro; è
molto raro e avviene meno di una volta
al mese per ogni molecola.
- Rotazione: i lipidi sono in grado di
ruotare molto rapidamente attorno al
proprio asse maggiore
- Flessione: i lipidi possono flettere le
proprie catene idrocarburiche; anche
questo favorisce la fluidità.
Movimenti come questi sono dovuti a una speciale classe di enzimi chiamati traslocatori di
fosfolipidi tra cui si ricorda l’enzima flipasi, responsabile del movimento flip-flop.

Il modello della membrana è a “mosaico fluido”: Transizione di fase


Il modello a mosaico fluido, ideato da Singer e da Nicholson e successivamente completato
riassume le caratteristiche principali della membrana plasmatica: è detto “a mosaico” in quanto
sono identificabili zone proteiche e fosfolipidiche, e “fluido” in quanto la membrana per essere
funzionale deve mantenere una certa fluidità. Infatti se la membrana si trovasse in fase gel
(cristallizzata) non sarebbe funzionale; per raggiungere lo stadio di fluido deve trovarsi a una
temperatura fisiologica.
Il passaggio dallo stato di gel a quello di fluido infatti è regolato dalla temperatura, ed è chiamato
transizione di fase. La fluidità è regolata grazie alle code di acidi grassi: più la temperatura
aumenta più la membrana diventa fluida in quanto la temperatura tende ad allontanare le code.
Negli organismi procarioti in caso di gelificazione dovuta alla temperatura, vengono introdotti i
doppi legami sulle catene idrocarburiche tramite gli saturasi: le catene insature infatti presentano
una curvatura nel doppio legame, che crea così più spazio tra un lipide e l’altro.

Altro strumento della cellula per controllare la fluidità è


diminuire o accorciare la lunghezza della catena
idrocarburica: minore è la lunghezza infatti, maggiore è la
possibilità dei lipidi di compattarsi.

Gli organismi eucarioti, oltre ai precedenti mezzi dispongono anche del colesterolo.

Il colesterolo

Presente solo nelle cellule eucariotiche, il


colesterolo è una molecola anfipatica. Ha una
testa idrofilica più piccola rispetto a quella del
fosfolipidi, resa polare grazie alla presenza di un
gruppo OH. Vi è un numero particolarmente
grande di colesterolo inframezzato nella
membrana plasmatica: si può arrivare anche a
una molecola per ogni fosfolipide. Le molecole
di colesterolo aumentano le proprietà di barriera
permeabile del doppio strato lipidico in quanto
riescono a coprire gli spazi vuoti tra i
fosfolipidi.

Si orientano nello spazio con i gruppi ossidrilici vicini alle teste polari delle molecole
fosfolipidiche; è formato da un segmento rigido, la struttura ad anello steroide, e infine da un
segmento fluido formato da una catena idrocarburica non polare.
Facendo diminuire la mobilità delle catene idrocarburiche delle molecole fosfolipidiche, il
colesterolo rende il doppio strato lipidico meno deformabile in queste regioni e fa quindi diminuire
la permeabilità del doppio strato a piccole molecole solubili in acqua.
Sebbene il colesterolo tenda a rendere i doppi strati meno fluidi, ad alte concentrazioni impedisce
anche alle catene idrocarburiche di avvicinarsi troppo e di cristallizzare, inibendo così la transizione
di fase.

I fosfolipidi di membrana e l’asimmetricità

Quattro fosfolipidi principali predominano nella membrana plasmatica delle cellule: sono la
fosfatidilcolina, sfingomielina, fosfatidilserina e fosfatidiletanolammina.
Per la diversità di distribuzione dei diversi fosfolipidi la membrana plasmatica assume una
asimmetria di tipo chimico. I fosfolipidi esposti verso l’esterno infatti sono diversi rispetto a quelli
che si dispongono verso l’interno della cellula.
Il fosfolipide più significativo è la fosfatidilserina che in linea di massima si trova sempre
nell’emistrato interno della membrana. È importante che la fosfatidilserina si trovi nell’emistrato
interno: qualora infatti tramite il flip-flop si spostasse nell’emistrato superiore, verrebbe letto come
segnale di anomalia cellulare (ad esempio invecchiamento), stimolando la sua stessa distruzione ad
opera del sistema immunitario o di altre strutture specializzate.
La fosfatidilserina inoltre, essendo carica negativamente contribuisce a rendere asimmetrica la
membrana anche a livello di cariche, in quanto come già detto, essa si concentra nell’emistrato
interno, caricandolo così negativamente.

Glicolipidi si trovano sulla superficie di tutte le membrane plasmatiche

In tutte le membrane cellulari, le molecole lipidiche che mostrano l’asimmetria di distribuzione più
sorprendente sono quelle contenenti zuccheri, chiamate glicolipidi. Queste molecole si trovano solo
nell’emistrato esterno della membrana: sono infatti esposti alla superficie esterna, suggerendo un
ruolo nelle interazioni della cellula con il suo ambiente. I glicolipidi costituiscono in genere circa il
5% dei lipidi dell’emistrato esterno. Sembra proteggano la membrana da condizioni estreme, hanno
un ruolo di isolamento elettrico, e nel riconoscimento cellulare.

LE PROTEINE DI MEMBRANA

Sebbene la struttura di base delle membrane sia di tipo lipidico, la maggior parte delle funzioni sono
svolte da proteine, che compaiono in quantità e tipi molto variabili: la membrana plasmatica è
caratterizzata dal 50 % della massa costituita da proteine; inoltre spesso le proteine di membrana
sono legate a catene oligosaccaridiche.

Lipidi di delimitazione

Le proteine si trovano associate al doppio strato lipidico secondo la struttura a mosaico, inserite
quindi nella membrana a contatto con i lipidi. I lipidi che stanno vicino a queste proteine non sono
dello stesso tipo chimico e sembra siano in grado di interagire con la proteina; questo genere di
lipidi è detto “di delimitazione” proprio perché circondano la proteina.

Distribuzione delle proteine

Poiché alcuni amminoacidi sono idrofobica e altri idrofilici, le proteine assumeranno caratteristiche
anfipatiche: nelle zone a contatto con l’acqua troveremo quindi proteine formate da amminoacidi
idrofilici, e viceversa in quelle a contatto con le catene idrocarburiche del doppio strato, troveremo
amminoacidi apolari (idrofobici). Ad avere caratteristiche anfipatiche sono ad esempio le proteine
transmembrana. Vi sono diverse modalità di associazione delle proteine con la membrana
plasmatica, che portano alla formazioni di classi di proteine diverse.

Vi si trovano proteine integrali di membrana (intrinseche), che attraversano completamente (o in


maniera abbastanza profonda) la membrana plasmatica, e le proteine periferiche, associate in
maniera superficiale al bilayer.
Sia le proteine integrali che quelle periferiche interagiscono con la membrana per mezzo di legami
elettrici deboli. Altre proteine invece si legano ai lipidi tramite legami covalenti e sono dette
appunto proteine legate ai lipidi.
La maggior parte delle proteine transmembrana abbia la catena polipeptidica che attraversa il
bilayer con la conformazione ad α-elica, il cui esterno è idrofobico e sta a contatto con i lipidi,
mentre il blocco esterno è idrofilico.

Funzioni delle proteine di membrana

1. trasporto attraverso la membrana


2. giunzioni intercellulari
3. enzimi (dotati di siti attivi a cui si lega il substrato)
4. proteine recettori (dotate di siti recettoriali a cui si legano i ligando)
5. ancoraggio del citoscheletro e della matrice extracellulare
6. riconoscimento tra cellule

Nel caso del riconoscimento fra cellule è opportuno dire che è grazie a questo fenomeno che le
cellule tendono a formare tessuti omogenei; il riconoscimento è importante anche nel caso di
risposte immunitarie (ad esempio nelle trasfusioni o trapianti).

Il glicocalice

Le proteine della membrana plasmatica di regola non sporgono nude verso l’esterno della cellula,
ma sono rivestite da carboidrati, presenti sulla superficie di tutte le cellule eucariotiche. Questi
carboidrati sono catene oligosaccaridiche legate covalentemente, solamente nell’emistrato esterno,
alle proteine di membrana (glicoproteine) e ai lipidi (glicolipidi).
Il termine glicocalice, o rivestimento cellulare, è usato per descrivere appunto la regione ricca di
carboidrati sulla superficie cellulare. Il glicocalice è da alcuni suddiviso in glicocalice ancorato
(attaccato profondamente alla membrana) e il glicocalice disancorato, che sembra possa essere
staccato dalla cellula senza creare grandi complicazioni alla stessa.

Le funzioni del glicocalice

- Riconoscimento cellulare
- Adesione alle altre cellule (grazie alle proteine di superficie che legano carboidrati, le
lectine)
- Filtro molecolare (il glicocalice infatti forma una sorta di trama fitta facendo in modo che
solo alcune sostanze arrivino fino alla membrana)
- Catalisi enzimatica (in cui le glicoproteine assumono una funzione enzimatica)
Dimensioni cellulari – La cellula procariote ed eucariote

Cellula procariote

Le cellule procariote non sono più grandi di pochi


micrometri (0,5-5 µm), non hanno una struttura interna
organizzata; dei filamenti proteici sotto la membrana
plasmatica sono adibiti a dare forma alla cellula e a
rinforzarla. Questi filamenti agiscono anche da
impalcatura per la struttura interna e l’organizzazione
del citoplasma. Il citoplasma dei procarioti contiene
ribosomi (di tipo 70S, più piccoli di quelli degli
eucarioti), gli organelli dove vengono assemblati i
polipeptidi (sintesi proteica).

Nel citoplasma poi una singola molecola di DNA


circolare (cromosoma), compattato mediante
superavvolgimenti; il DNA si trova in una zona
denominata nucleoide e non è separato dal resto del
citoplasma da una membrana come succede col
nucleo della cellula eucariotica.

Oltre alla singola molecola di DNA circolare, possono essere presenti nel citoplasma i plasmidi,
piccoli DNA circolari che trasportano pochi geni e sono in grado di garantire vantaggi al procariote,
come per esempio la resistenza agli antibiotici.

Molti procarioti e batteri, hanno uno o più flagelli o pili che sporgono dalla loro superficie. I flagelli
sono lunghe e snelle strutture cellulari necessarie per il movimento. Alcuni batteri possiedono anche
dei filamenti proteici chiamati fimbrie che sporgono dalla loro superficie e permettono l’adesione a
superfici (organismi ospite in caso di batteri con potere infettante). Una particolare fimbria è il pilo
sessuale, impiegato nella coniugazione batterica. Grazie alla coniugazione batterica una cellula
batterica trasferisce porzioni di DNA ad un'altra, garantendo in questo modo la possibilità di
trasmettere preziosi geni contenuti all’interno del DNA plasmidico.

La membrana plasmatica di tutti i batteri controlla selettivamente quale sostanza entra e quale esce
dalla cellula così come avviene nelle cellule eucariote. La membrana plasmatica è simile a quella
eucariotica, ma priva di steroli (colesterolo) per cui la regolazione della fluidità è adibita alla
lunghezza e alla saturazione delle catene dei fosfolipidi; è popolata da recettori e proteine le quali
sono responsabili di importanti processi metabolici (es. fotosintesi).

La membrana plasmatica è circondata da una parete cellulare, strutturalmente diversa nei batteri
Gram-positivi o Gram-negativi (è questa differenza che conferisce ai due gruppi di batteri la
differente capacità di colorazione, definendoli come positivi o negativi). La parete in entrambi i casi
è costituita da peptidoglicano, in uno strato sottile nei gram negativi, e più spesso nei gram positivi.
Peptidoglicano: costituito da lunghe catene polisaccaridiche dove troviamo alternate unità di N-acetilglucosammina e N-acetilmuramico
La parete dei gram-negativi mostra inoltre una membrana esterna, costituita da una membrana
doppio strato di fosfolipidi e da lipopolisaccaride (LPS); quest’ultima molecola risulta essere
un’endotossina molto tossica, rilasciata ogni volta che il batterio muore e in grado di attivare il
sistema immunitario.
Le cellule procariote hanno un sistema di riproduzione asessuato, detto scissione binaria. La
parete e la membrana plasmatica si piegano e la molecola di DNA si duplica. Talvolta le pareti
trasversali delle cellule figlie non si staccano completamente, formando colonie filamentose.

Cellula eucariote

CELLULA EUCARIOTICA: LA COMPARTIMENTALIZZAZIONE


A differenza dei batteri, che generalmente consistono in un singolo compartimento intracellulare
circondato da una membrana plasmatica, la cellula eucariotica è suddivisa in modo elaborato in
piccoli compartimenti, separati fisicamente e distinti funzionalmente da membrane biologiche
(endomembrane1). Ciascun compartimento, detto organello, contiene la sua serie caratteristica di
enzimi e di altre molecole specializzate, e complessi sistemi di distribuzione trasportano prodotti
specifici da un compartimento all’altro. È essenziale per la comprensione delle cellule eucariotiche
sapere cosa succede in ogni organello, come le molecole si muovano fra essi e come i
compartimenti siano creati e mantenuti. Un ruolo fondamentale nella compartimentalizzazione di
una cellula eucariotica lo hanno le proteine; esse catalizzano le reazioni che avvengono negli
organelli e trasportano selettivamente piccole molecole dentro e fuori del loro lume. Le proteine
servono inoltre anche da marcatori specifici della superficie degli organelli, che dirigono nuove
distribuzioni di proteine e lipidi all’organello appropriato.
Gli organelli circondati da membrane non sono distribuiti a caso nel citosol, ma hanno spesso
posizioni caratteristiche; nella maggior parte delle cellule, ad esempio, troviamo l’apparato di Golgi
vicino al nucleo, mentre il reticolo di tubuli del reticolo endoplasmatico (ER) si estende dal nucleo
nell’intero citosol. Queste distribuzioni caratteristiche sembrano dipendere da interazioni degli
organelli con il citoscheletro.

Tutte le cellule eucariotiche hanno fondamentalmente la stessa serie di organelli circondati da


membrane

Molti processi biochimici vitali avvengono all’interno di membrane o sulla loro superficie. Il

1
Solitamente quando si parla di sistema di endomembrane ci si riferisce al sistema che racchiude il reticolo
endoplasmatico (di cui l’involucro nucleare ne costituisce una parte), l’apparato di Golgi, le vescicole e i lisosomi.
metabolismo lipidico ad esempio, è caratterizzato soprattutto da enzimi legati a membrane e la
fosforilazione ossidativa e la fotosintesi richiedono entrambe una membrana per accoppiare il
trasporto di H+ alla sintesi di ATP. I sistemi di membrana infatti fanno molto di più che fornire una
protezione all’organello: creano compartimenti chiusi separati dal citosol, fornendo così alla cellula
spazi acquosi funzionalmente specializzati. Poiché il doppio strato lipidico delle membrane degli
organelli è impermeabile alla maggior parte delle molecole idrofiliche, la membrana di ciascun
organello deve contenere proteine di trasporto. I principali compartimenti intracellulare comuni alle
cellule eucariotiche sono il nucleo, il citoplasma (che consiste nel citosol e negli organelli).

Le proteine si possono muovere fra i compartimenti in modi diversi

Tutte le proteine iniziano ad essere sintetizzate sui ribosomi nel citosol; il loro destino successivo
dipende dalla loro sequenza che può contenere segnali di smistamento. La maggior parte delle
proteine però non ha segnali di smistamento e di conseguenza queste rimangono nel citosol in
maniera permanente. Quelle invece che hanno segnali specifici, possono essere diretti in varie parti
della cellula.
Le strutture cellulari e loro specifiche funzioni

Nucleo

Il nucleo è un organulo generalmente sferico dalla dimensione di circa 5 micron, sebbene in alcune
cellule presenti forme differenti.
Mentre nel procariote non esiste una delimitazione fra cromosoma e citoplasma e i processi di
trascrizione del DNA e traduzione dell’mRNA avvengono nel citoplasma, nell’eucariote la
trascrizione avviene nel nucleo mentre la traduzione nel citoplasma. All’interno del nucleo avviene
inoltre la duplicazione del DNA.

Il ha una funzione di protezione e di controllo:

- contenere il materiale genetico, il DNA, al sicuro, isolato nel proprio comparto. Il DNA
cellulare si trova separato dal resto del citoplasma e dai processi metabolici che potrebbero
danneggiarlo.
o Mentre il DNA dei procarioti risulta essere “nudo”, quello degli eucarioti è sempre
associato a proteine; l’insieme di DNA e proteine prende il nome di cromatina,
identificabile al microscopio elettronico in due gradi di colorazione: l’eucromatina,
trascrizionalmente attiva e più chiara per via di una minore compattazione, e
l’eterocromatina, più scura e non attiva per via di un’elevata compattazione.
§ NB: il grado di compattazione del DNA nelle cellule eucariotiche è talmente
elevato che se si unissero i filamenti di DNA di tutti i cromosomi di una
singola cellula si raggiungerebbe circa un metro di lunghezza!
- controllo del passaggio di certe molecole tra nucleo e il citoplasma. La membrana nucleare,
chiamata anche involucro nucleare, adempie a questo compito. La membrana nucleare è
rappresentata da due doppi strati lipidici: quello esterno è in continuità con il reticolo
endoplasmatico rugoso ed è pertanto ricoperto da ribosomi.
L’involucro del nucleo è costituito da due membrane, una interna e una esterna, fra le quali è
presente il lume o cisterna perinucleare. La membrana esterna è in continuità con le cisterne del
reticolo endoplasmatico rugoso (RER) e presenta pertanto ribosomi; inoltre la cisterna perinucleare
risulta in continuità con il lume del RER. L’involucro nucleare è supportato da una particolare
classe di filamenti intermedi (vedi citoscheletro) detta lamìna, che costituisce la làmina nucleare.

Al di sotto della membrana nucleare si trova il nucleoplasma, un fluido viscoso simile al


citoplasma in cui è presente la cromatina. Inoltre il nucleo possiede almeno un nucleolo, una
regione di forma irregolare dove vengono sintetizzati gli rRNA (RNA ribosomiali); è costituito da
tratti di DNA che codificano per l'RNA ribosomiale, da filamenti di rRNA nascenti e da proteine
ribosomiali (sintetizzate nel citoplasma). I ribosomi vengono assemblati nelle due subunità nel
nucleolo e attraversano i pori nucleari e arrivano al citoplasma dove diventano parte attiva nella
sintesi proteica.

I recettori e i trasportatori nucleari si trovano da entrambe le parti della membrana nucleare. Altre
proteine si raggruppano per formare piccoli pori. Queste molecole e strutture lavorano nel
trasporto selettivo varie molecole attraverso la membrana nucleare.

Reticolo Endoplasmatico

Tutte le cellule eucariotiche possiedono un reticolo endoplasmatico (ER). La sua membrana


costituisce solitamente più della metà delle membrane totali in una cellula animale media. Esso è
organizzato in un reticolo labirintico di tubuli ramificati e sacchi appiattiti che si estende nel citosol.
I tubuli e i sacchi sono interconnessi, così che la membrana dell’ER forma un foglio continuo che
racchiude un singolo spazio interno (il RER e il REL sono collegati). Questo spazio è detto lume
dell’ER o cisterna dell’ER ed occupa più del 10 % del volume cellulare. La membrana dell’ER
separa il lume dal citosol e media il trasferimento selettivo di molecole fra questi due
compartimenti. L’ER ha un ruolo centrale nella biosintesi dei lipidi e delle proteine: la sua
membrana è il sito di produzione di tutte le proteine e di tutti i lipidi transmembrana della maggior
parte degli organelli della cellula. La membrana dell’ER dà anche un contributo importante alle
membrane dei perossisomi e dei mitocondri, producendo la maggior parte dei loro lipidi. Inoltre
qualsiasi proteina che sarà secreta all’esterno della cellula, viene portata prima nel lume dell’ER.

Ribosomi attaccati alla membrana definiscono il Reticolo Endoplasmatico Ruvido

L’ER cattura dal citosol proteine selezionate mentre queste vengono sintetizzate; queste proteine
possono essere o proteine transmembrana che vengono traslocate solo in parte attraverso la
membrana dell’ER dove rimangono immerse, o proteine solubili in acqua, che vengono traslocate
del tutto attraverso la membrana dell’ER e rilasciate nel lume. Alcune proteine possono essere
destinate a risiedere nella membrana plasmatica di un altro organello, altre possono essere destinate
a raggiungere il lume di un altro organello o alla secrezione.
Nelle cellule di mammifero l’importazione delle proteine nell’ER inizia prima che la catena
polipeptidica sia completamente sintetizzata: è cioè contraduzionale. Poiché un’estremità della
proteina è in genere traslocata nell’ER mentre il resto della catena viene sintetizzata, la proteina non
è mai rilasciata nel citosol e perciò non corre il rischio di ripiegarsi prima di raggiungere il
traslocatore nella membrana. Il ribosoma che sintetizza la proteina è attaccato direttamente alla
membrana dell’ER; questi ribosomi legati a membrane rivestono la superficie dell’ER creando
regioni chiamate reticolo endoplasmatico ruvido. Esistono perciò nel citosol due popolazioni di
ribosomi separate spazialmente: i ribosomi legati a membrane, attivi nella sintesi di proteine
mentre queste sono traslocate nell’ER; e i ribosomi liberi, non legati ad alcuna membrana. I
ribosomi legati a membrane e i ribosomi liberi sono funzionalmente identici, e differiscono soltanto
per le proteine che fabbricano in ogni dato momento. Quando un ribosoma sintetizza una proteina
con un peptide segnale per l’ER, il segnale dirige il ribosomi alla membrana dell’ER. Poiché molti
ribosomi possono legarsi a una singola molecola di mRNA, si forma in genere un poliribosoma,
che si lega alla membrana dell’ER tramite i peptidi segnale su catene polipeptidiche multiple. I
singoli ribosomi associati con questa molecola di mRNA possono ritornare al citosol quando
finiscono la traduzione. L’mRNA tende invece a rimanere legato alla membrana dell’ER tramite una
popolazione di ribosomi che si rinnova. Se una molecola di mRNA codifica una proteina che non ha
un peptidi di segnale per l’ER, il poliribosoma che si forma rimane libero nel citosol e il suo
prodotto viene prodotto e rilasciato là. Perciò solo le molecole di mRNA che codificano proteine
con un peptide segnale per l’ER si legano alle membrane dell’ER ruvido; le molecole di mRNA che
codificano tutte le altre proteine rimangono libere nel citosol.

Funzioni del RER

- sintesi proteica
- trasferimento di gruppi glucidici e modificazione chimica delle proteine
- ripiegamento (conformazione) delle proteine tramite chaperonine
- smistamento delle proteine

Il Reticolo Endoplasmatico Liscio è abbondante in alcune cellule specializzate

Le regioni dell’ER che non hanno ribosomi legati vengono chiamate reticolo endoplasmatico liscio
(REL). Nella grande maggioranza delle cellule queste regioni sono minime, e soltanto una piccola
regione dell’ER è in parte liscia ed in parte ruvida. Si dice che questa regione consiste di elementi
di transizione perché è da qui che gemmano le vescicole di trasporto che recano proteine e lipidi
appena sintetizzati dirette all’apparato di Golgi. In altre cellule specializzate tuttavia, l’ER liscio è
abbondante e ha ulteriori funzioni: in particolare è abbondante in cellule specializzate nel
metabolismo dei lipidi: cellule che sintetizzano ormoni steroidi dal colesterolo, per esempio hanno
un ER liscio espanso per fare posto agli enzimi necessari produrre il colesterolo.

Funzioni del REL

- reazioni di detossificazione cellulare: spesso le tossine sono idrofobiche; alcuni enzimi


(come la famiglia del citocromo P450) rendono tali sostanze idrofiliche in modo che siano
espellibili dalla cellula
- degradazione del glicogeno: tramite enzimi il glicogeno viene diviso in varie molecole
singole di glucosio che viene riversato nel sangue
- produzione di componenti lipidici delle lipoproteine
- accumulo di ioni (specie Ca2+)2: il deposito di ioni calcio nel lume è facilitato dalle alte
concentrazioni di proteine che legano Ca2+

In generale i ruoli principali dell’ER sono la sintesi e la modificazione di proteine, e la sintesi dei
lipidi.

Ribosomi

Le reazioni della sintesi proteica appena descritte richiedono una macchina catalitica che le guidi e
che assicuri che ciascun codone dell’mRNA prenda contatto con l’anticodone complementare di un
tRNA. Questa funzione è svolta dai ribosomi, grossi complessi di RNA e proteine. I ribosomi
eucariotici e procariotici sono molto simili per disegno e funzione. Sono entrambi composti da una
subunità maggiore e da una minore che si adattano insieme per formare un complesso con una

2
Nelle cellule muscolari il reticolo endoplasmatico liscio è altamente specializzato all’accumulo di ioni calcio tramite
pompe Ca2+-ATPasi, e prende perciò il nome di reticolo sarcoplasmatico.
massa di circa 25 nm. La subunità piccola lega l’mRNA e il tRNA, mentre la subunità grande
catalizza la formazione del legame peptidico. Oltre la metà della massa di un ribosoma è costituito
dall’RNA ribosomale (rRNA) che ha un ruolo centrale nelle attività catalitiche. In generale i
ribosomi sono particelle ribonucleoproteiche, formate cioè da rRNA e da proteine.
Oltre che differire per le dimensioni (70S e 80S) i ribosoma dell’eucariote è diverso da quello del
procariote in quanto ha un RNA in più nella subunità maggiore.
Un ribosoma contiene tre siti di legame per molecole di RNA: uno per l’mRNA e due per i tRNA.
Un sito, chiamato sito di legame per il peptidil-tRNA, o sito P trattiene la molecola di tRNA con
la catena polipeptidica in crescita; un altro sito, chiamato sito di legame per l’amminoacil-tRNA,
o sito A trattiene la molecola di tRNA in arrivo caricata con un amminoacido.

I ribosomi possono formare dei gruppi lungo una molecola di mRNA che prendono il nome di
poliribosoma, che assumono spesso alcune configurazioni a spirale, a rosetta o a elica.

Apparato di Golgi

Le proteine solubili presenti nel lume dell’ER sono destinate all’apparato di Golgi. Man mano che
ci si dirige alla periferia della cellula si trova una cisterna di ER senza ribosomi che ha il compito di
far gemmare le vescicole di transizione (vescicole transfer) che servono a portare le proteine
formante nell’ER all’apparato di Golgi. Per cui i due organuli non sono in contatto fisico, ma
comunicano proprio tramite vescicole.

L’apparato di Golgi consiste in una serie ordinata di compartimenti

L’apparato di Golgi si trova in genere vicino al nucleo; esso consiste in una serie di cisterne
appiattite circondate da membrane, impilate fra loro. Ognuna di queste pile di Golgi contiene in
genere 4/6 cisterne. Il numero di pile di Golgi per cellula varia molto a seconda del tipo cellulare.
Sciami di piccole vescicole sono associati con le pile del Golgi, raggruppate sul lato verso l’ER e
lungo i bordi dilatati di ciascuna cisterna. Si pensa che queste vescicole del Golgi trasportino
proteine e lipidi sia da e verso il Golgi, che fra le cisterne stesse. Durante il loro passaggio
attraverso l’apparato di Golgi, le molecole trasportate subiscono una serie ordinata di modificazioni.
Ciascuna pila del Golgi ha due facce distinte: una faccia cis (faccia d’entrata) e una faccia trans
(faccia d’uscita). Entrambe le facce appaiono frastagliate da compartimenti speciali, composti da
una rete di strutture tubulari e a cisterna: sono dette il reticolo cis del Golgi (chiamato anche
compartimento intermedio o di recupero) e il reticolo trans del Golgi. Le proteine e i lipidi entrano
nel reticolo cis del Golgi in vescicole che provengono dall’ER ed escono dal trans del Golgi in
vescicole di trasporto destinate alla superficie cellulare o ad un altro compartimento. Le cisterne
mediali sono strutturalmente molto simili fra loro.

È da evidenziare la non presenza di ribosomi nell’apparato di Golgi: infatti anche i ribosomi liberi
tendono a stare lontani dall’apparato; si parla per questo di zona di esclusione.

Le cisterne dell’apparato di Golgi non sono comunicanti fra loro in maniera fisica in quanto ogni
cisterna per rimanere funzionale ha bisogno di un determinato microambiente; le cisterne quindi
comunicano fra loro tramite le vescicole spola che trasportano il materiale proteico e che gemmano
dalla periferia delle cisterne. Le modificazioni maggiori in grado di svolgere il Golgi sono a livello
proteico. All’interno dell’ER vengono aggiunti degli zuccheri alle proteine con il processo detto
glicosilazione. Le vescicole che arrivano alla faccia cis del Golgi portano quindi glicoproteine.
Tramite l’apparato di Golgi le glicoproteine verranno sottoposte a processi di maturazione.
La maturazione avviene a tappe: ogni cisterna del Golgi ha infatti una determinata funzione che
provvede alla modificazione della glicoproteina. Innanzitutto viene modificata (con aggiunte o
rimozioni) la componente glucidica della proteina. Anche la parte proteica può essere sottoposta a
modificazioni tramite solfatazione, fosforilazione, eccetera.

Qual è lo scopo della glicosilazione?

Mentre acidi nucleici e proteine sono copiati da uno stampo in una sequenza ripetuta di passaggi
identici usando gli stessi enzimi, i carboidrati complessi richiedono un enzima diverso ad ogni
passaggio, e ciascun prodotto è riconosciuto come substrato esclusivo dell’enzima successivo della
serie. Considerate le vie complicate che si sono evolute per sintetizzarli, sembra probabile che gli
oligosaccaridi dei glicolipidi e delle glicoproteine abbiano funzioni importanti, ma per la maggior
parte queste funzioni sono sconosciute.

La destinazione delle proteine

In generale tutto ciò che gemma dal Golgi viene mandato alla periferia e fuori dalla cellula. Per
modificare questo percorso di base (via di default) intervengono alcuni segnali che modificano il
destino della proteina. La via di default è talmente consolidata nel processo di migrazione delle
proteine che persino quelle che dovrebbero rimanere nel lume dell’ER vengono secrete e inviate al
Golgi. Esiste perciò un sistema di recupero.
Digestione cellulare: I LISOSOMI

I lisosomi sono sacche di membrane piene di enzimi idrolitici (glicoproteine dette enzimi
lisosomali) usati per la digestione intracellulare controllata dalle macromolecole. Essi contengono
circa 40 tipi di enzimi idrolitici, comprese proteasi, nucleasi, glicosidasi, lipasi, fosfolipasi,
fosfatasi e solfatasi. Sono tutte idrolasi acide, che richiedono per la loro attività un ambiente acido
che il lisosoma fornisce mantenendo un pH di circa 5 al suo interno. In questo modo il contenuto
del citosol è doppiamente protetto dall’attacco del sistema digestivo proprio della cellula. La
membrana del lisosoma mantiene normalmente gli enzimi digestivi fuori dal citosol, ma se questi
dovessero filtrare fuori non lo danneggerebbero a causa del pH citosolica di circa 7,2.

Il lisosoma non contiene solo una raccolta unica di enzimi, ma ha anche una membrana esclusiva
che lo circonda. Le proteine di trasporto di questa membrana permettono ai prodotti finali della
digestione delle macromolecole, come amminoacidi, zuccheri e nucleotidi, di essere trasportati al
citosol, da cui possono essere escreti o riutilizzati dalla cellula. Una pompa H+ (di tipo V) della
membrana lisosomale utilizza l’energia di idrolisi dell’ATP per pompare H+ nel lisosoma,
mantenendo così il lume al suo pH acido. La maggior parte delle proteine e dei lipidi della
membrana lisosomale sono gligosilate in modo estremamente alto, che si pensa aiuti a proteggere la
digestione delle membrane stesse da parte delle idrolasi acide.

I materiali sono portati ai lisosomi da vie multiple

I lisosomi sono punti d’incontro in cui convergono numerosi flussi di traffico intracellulare. Gli
enzimi digestivi vi vengono inviati tramite una via che dall’ER passa attraverso l’apparato di Golgi,
mentre le sostanze che devono essere digerite vi arrivano seguendo vie diverse, secondo la loro
origine.
Mitocondrio

Tipicamente il mitocondrio misura dagli 1 ai 4 micrometri, con rari casi in cui la lunghezza
raggiunge circa 10 µm.
I mitocondri occupano buona parte del volume citoplasmatico delle cellule eucariotiche e sono stati
essenziali per l’evoluzione di animali complessi. Senza i mitocondri le odierne cellule animali
dipenderebbero dalla glicolisi anaerobia per tutto il loro ATP. Ma quando il glucosio è convertito in
piruvato dalla glicolisi, solo una frazione di energia totale è rilasciata dal glucosio. Nei mitocondri il
metabolismo degli zuccheri è invece completato: il piruvato è importato nel mitocondrio e ossidato
dall’ossigeno molecolare (O2) a CO2 e H2O. L’energia rilasciata è imbrigliata in modo così
efficiente che vengono prodotte circa 36-38 molecole di ATP per ogni glucosio ossidato.
I mitocondri sono notevolmente mobili e plastici, in continuo cambiamento di forma, in grado di
fondersi fra loro o di separarsi mediante scissione binaria. Mentre si muovono nel citoplasma,
spesso si vedono associati ai microtubuli, che determinano l’orientamento e la distribuzione dei
mitocondri in diversi tipi di cellule. Così i mitocondri in alcune cellule formano lunghi filamenti,
mentre in altre rimangono in una posizione fissa.
Il termine mitocondrio indica un “organello con aspetto filamentoso”, che rappresenta l’aspetto
reale del mitocondrio.

Origine del mitocondrio

Per ciò che concerne l’origine del mitocondrio, la teoria endosimbiontica afferma che questi
organuli derivano da cellule procariotiche primitive, “acquisite” da una cellula primordiale al fine
di instaurare una relazione simbiotica, determinando la formazione della cellula eucariotica. Una
delle teorie più confermate riguardo la causa di questa collaborazione è appunto che i procarioti
avrebbero dato origine a un rapporto di simbiosi, cioè uno scambio reciproco di convenienza: la
cellula “madre” e più grande avrebbe fornito biomolecole e sali minerali, mentre i procarioti
avrebbero fornito energia. Questo viene avvalorato anche dal fatto che il mitocondrio possiede un
DNA circolare (mtDNA), ribosomi simili a quelli batterici che producono proteine, e che si divide
per scissione binaria. Inoltre anche le membrane mitocondriali possiedono caratteristiche differenti:
quella interna è più simile come componenti a quella dei batteri, mentre quella esterna deriva dalla
membrana plasmatica eucariotica e contiene colesterolo (sarebbe quindi una membrana endocitica).

Autonomia del mitocondrio

Il mitocondrio ha una parziale autonomia, in quanto troviamo al suo interno un mtDNA (circolare),
RNA e ribosomi. Il mitocondrio è in grado quindi di autofabbricare alcuni elementi utili, oltre che
di ricevere quelli prodotti dalla cellula, come ad esempio le proteine prodotte nel citosol sui
ribosomi liberi (le proteine mitocondriali presentano una sequenza segnale che le destina al
mitocondrio).

Movimento e numero dei mitocondri

I mitocondri sono in grado di muoversi nella cellula con la stessa tecnica delle vescicole: seguono
cioè i microtubuli del citoscheletro.
È importante considerare che il numero dei mitocondri cambia a seconda della cellula considerata:
in genere si trovano 1000/2000 mitocondri, fino ad arrivare ai 30'000 dell’ovocita. Solitamente si
localizzano nelle parti delle cellule impegnate attivamente nell’uso dell’energia.
I mitocondri contengono una membrana esterna e una membrana interna che creano due
compartimenti interni

Ciascun mitocondrio è circondato da due membrane altamente specializzate, che hanno un ruolo
cruciale per le sue attività. Insieme, creano due compartimenti mitocondriali separati: lo spazio
della matrice interno e lo spazio intermembrana. La membrana esterna contiene molte proteine di
trasporto (porine) che formano grossi canali acquosi attraverso il doppio strato lipidico. Questa
membrana risulta essere quindi una sorta di setaccio, permeabile a molte molecole e proteine.
Queste molecole possono entrare nello spazio intermembrana, ma la maggior parte di esse non può
passare attraverso la membrana interna impermeabile. Così, se lo spazio intermembrana è
chimicamente equivalente al citosol, lo spazio della matrice contiene una serie altamente
selezionata di piccole molecole.

Matrice

Membrana interna

Membrana esterna

Spazio intermembrana

Matrice (camera interna) La matrice contiene una miscela altamente concentrata


di centinaia di enzimi, compresi quelli necessari per l’ossidazione del
piruvato e degli acidi grassi, e per il ciclo dell’acido citrico (di Krebs). La
matrice contiene anche parecchie copie identiche del DNA del genoma
mitocondriale (chiuso ad anello), speciali ribosomi mitocondriali, tRNA e
vari enzimi necessari per l’espressione dei geni mitocondriali.

Membrana interna La membrana interna è ripiegata in numerose creste (spesso di forma


variabile) che aumentano di molto la sua superficie totale. Essa contiene
proteine con tre tipi di funzioni: 1) quelle che svolgono reazioni di
ossidazione della catena respiratoria (di trasporto degli elettroni); 2)
un complesso enzimatico chiamato ATP sintasi che produce ATP nella
matrice; 3) specifiche proteine di trasporto. Poiché è importante che si
stabilisca un gradiente elettrochimico nella catena respiratoria, è
indispensabile che la membrana sia impermeabile alla maggior parte
degli ioni.

Membrana esterna Contiene grosse proteina (porina) che formano canali, ed è perciò
permeabile a tutte le molecole inferiori ai 5000 dalton. Sono presenti poi
proteine che comprendono enzimi coinvolti nella sintesi mitocondriale
dei lipidi e enzimi.

Spazio intermembrana (camera intermembrana) Questo spazio contiene parecchi enzimi che
usano l’ATP prodotto nella matrice per fosforilare altri nucleotidi. Ha una
composizione molto simile al citosol in quanto la prima membrana funge
poco da protezione e compartimentalizzazione.
Le cellule eucariotiche producono molto del loro ATP nei mitocondri.

Il mitocondrio è un organello specializzato nella produzione di ATP.

La respirazione cellulare è un processo metabolico mediante i quali macromolecole organiche come


zuccheri vengono demoliti per ottenere energia sotto forma di ATP. Avviene in presenza di ossigeno,
utilizzato come accettore di elettroni. La respirazione cellulare comincia nel citoplasma con la
glicolisi, da cui si ottengono 2 molecole di ATP e 2 di piruvato. Il piruvato viene quindi convertito
in acetil CoA e viene trasportato nel mitocondrio dove verrà ulteriormente degradato per produrre
potere riducente utile per la fosforilazione ossidativa.

Durante le respirazione aerobica, il ciclo di Krebs (che si svolge nella matrice) produce potere
riducente sotto forma di NADH e FADH2. Gli elettroni trasportati da questi coenzimi vengono
scambiati con le proteine della catena respiratoria (sulla membrana interna) e l’energia ricavata
viene utilizzata per pompare ioni H+ (protoni) nello spazio intermembrana. Si ricava perciò un
gradiente elettrochimico; i protoni ritornano nella matrice per mezzo di una proteina detta ATP-
sintetasi. Questo passaggio libera energia tale da fa ruotare l’ATP sintetasi che trasforma l’ADP + Pi
in ATP. (I batteri non hanno mitocondrio, producono ATP nella cellula e nel citoplasma).
Plastidi

Gli organelli chiamati plastidi, presenti nelle cellule vegetali, servono ad immagazzinare sostanze e
nelle piante e nelle alghe a compiere la fotosintesi.

I plastidi sono organelli all'interno della membrana cellulare che servono alla fotosintesi o
all'immagazzinamento nelle piante e nelle alghe.

I plastidi chiamati cloroplasti sono specializzati nella fotosintesi. Molti cloroplasti hanno una forma
ovale o circolare. Hanno una doppia membrana che racchiude un semifluido interno, chiamato
stroma, che contiene enzimi e DNA. I cloroplasti infatti, come i mitocondri, possiedono un DNA
circolare, abbreviato ctDNA o cpDNA. All'interno dello stroma troviamo un sistema di membrane
che costituiscono vescicole appiattite e interconnesse chiamate tilacoidi. I tilacoidi si trovano
sovrapposti a formare delle pile dette “grana”. Le molecole di clorofilla sono circondate da
complessi proteici chiamati fotosistemi, racchiusi nei tilacoidi.

La membrana tilacoide incorpora moltissimi pigmenti, come la clorofilla (verde) e la sua


abbondanza nelle piante ne determina il colore.

È importante sapere al fine del test che il verde è uno dei colori dello spettro che l'uomo riesce a vedere. Le piante sono verdi poiché la clorofilla
assorbe tutte le lunghezze d'onda (e quindi i colori) eccetto il verde, che viene perciò "riflesso"e captato dall'occhio umano.

Tramite il processo di fotosintesi le clorofille e le altre molecole nella membrana tilacoide, grazie
all'energia solare, spingono la sintesi di ATP che viene utilizzato dentro lo stroma per formare
carboidrati da biossido di carbonio e acqua.

I cromoplasti sono invece plastidi che producono e immagazzinano pigmenti diversi dalla
clorofilla chiamati carotenoidi, spesso sono di colore rosso, giallo e danno colore ai fiori e alla
frutta.

I leucoplasti sono un tipo di plastidi presenti nelle cellule delle piante e di alcuni protisti. Non
possiedono pigmenti, al contrario di altri plastidi come i cloroplasti. Si dividono in ezioplasti (sono
i plastidi delle parti aeree della pianta e quindi non sono colpite dalla luce), e amiloplasti, dei
magazzini di amido sotterranei.
Citoscheletro
“Le cellule eucariotiche hanno una dinamica struttura interna chiamata citoscheletro”

Tra il nucleo e la membrana plasmatica di tutte le cellule eucariote c'è un sistema di filamenti
proteici interconnessi chiamato citoscheletro.
Tra questi filamenti, in base alla composizione proteica, si distinguono i microtubuli, i
microfilamenti e i filamenti intermedi.

I microtubuli sono lunghi cilindri dal diametro di 25 nm, costituiti da subunità di una proteina
chiamata tubulina. I microtubuli si formano quando necessario e si disassemblano quando non c'è
più bisogno di loro. Ad esempio, prima che una cellula eucariotica si divida, si forma una fitta rete
di microtubili (fuso mitotico) in grado di separare i cromosomi della cellula duplicatisi durante la
mitosi, che poi si disassembla.

I microfilamenti (spessore di 7 nm) sono fibre formate principalmente da subunità della proteina
chiamata actina. Essi rafforzano o cambiano la forma delle cellule eucariotiche. Reticolati, simili a
gel, formano la corteccia cellulare, come se fossero una rete di rinforzo sotto la membrana
plasmatica. I microfilamenti di actina che si formano sul bordo di una cellula la trascinano o la
estendono in una certa direzione permettendo il movimento. I filamenti di miosina e actina
interagiscono per generare la contrazione delle cellule muscolari.

I filamenti intermedi, così chiamati per la loro dimensione intermedia (10 nm) fra microfilamenti e
microtubuli, sono gli elementi più stabili del citoscheletro. Le proteine che formano tali filamenti
differiscono in base al tipo di cellula; possiedono resistenza alla trazione e a stress meccanici
Una classe di filamenti intermedi che si riscontra in ogni cellula è quella delle lamìne, L'involucro
nucleare è infatti supportato da tali filamenti intermedi chiamati lamìne che formano la làmina
nucleare.

Tra le molte molecole accessorie associate agli elementi del citoscheletro ci sono le proteine
motrici, che si muovono nelle varie parti della cellula grazie all’idrolisi dell’ATP e all’energia che si
libera da tale processo. Una cellula è paragonabile a una “stazione ferroviaria vivace” con le
molecole e strutture trasportate continuamente al suo interno. Le proteine motrici sono come i treni
merci che trasportano il loro carico cellulare lungo le “piste” rappresentate dalla formazione
dinamica di microtubuli e microfilamenti.

I flagelli e le ciglia sono appendici cellulari deputate al movimento della cellula. Sono costitute da
serie di microtubuli disposti in fasci secondo uno schema che si ripete. Le ciglia si originano,
insieme ai flagelli, dal corpo basale (costituito da microtubuli), il cui numero e disposizione
mostrano qualche differenza. La struttura ciliare è detta "9+2": un anello di nove coppie di
microtubuli e una coppia al centro dell'anello. Il corpo basale invece presenta 9 triplette di
microtubuli.

Un esempio di struttura rivestita da tessuto ciliare è rappresentato dalla trachea o dai bronchi.
L'epitelio di rivestimento è costituito da cellule ciliate che generano un movimento continuo. Questo
movimento comporta l'eliminazione del muco presente sulle superfici interne, utile ad intrappolare
sostanze estranee entrate nelle vie aeree durante la respirazione.

Il flagello, ad esempio, è presente nello spermatozoo, in cui raggiunge lunghezze intorno ai 50-60
µm circa.

Traffico vescicolare

- Esocitosi

Un tipo di trasporto vescicolare è l'esocitosi. Le vescicole si formano nell'apparato di Golgi, si


fondono con la membrana plasmatica e riversano il loro contenuto, solubile, nel liquido
extracellulare. L'esocitosi può essere costitutiva o regolata:

• Costitutiva: si forma la vescicola, la quale viene subito rilasciata dalla membrana “madre”
per fondersi con la membrana citoplasmatica per poi essere espulsa
• Regolata: formata la vescicola, essa non viene subito rilasciata dalla membrana di origine,
ma è necessaria l'attivazione da parte di una proteina specifica della vescicola

- Endocitosi

In seguito alla esocitosi, la membrana vescicolare viene recuperata con un processo di endocitosi,
che funziona in questo modo: è un processo grazie al quale la cellula ingloba al suo interno
molecole dello spazio extracellulare, modificando la forma della sua membrana plasmatica, che
prende il nome di vescicola endocitica. Tale vescicola viene indirizzata al citoplasma grazie ai
microtubuli (vedi citoscheletro).

Anche l'endocitosi può essere costitutiva o regolata. In quella costitutiva, quando si forma la
vescicola, essa si fonde immediatamente con gli altri organelli; in quella regolata invece, le
vescicole, anche in questo caso, come per l'esocitosi regolata, necessitano di una attivazione
proteica per adempiere al loro compito.

L'endocitosi permette che molecole ad alto peso molecolare possano essere introdotte all'interno
della cellula e digerite grazie agli enzimi idrolitici dei lisosomi.

A volte, le vescicole che si formano nel processo di endocitosi, contribuiscono al processo di


trasduzione del segnale.
Esistono due tipi di endocitosi:

1. Mediata da recettori, dove la cellula riconosce il suo substrato: la cellula riconosce con dei
recettori di membrana il ligando e si comincia a formare una depressione sulla membrana
cellulare; questa stimola una proteina chiamata clatrina, che aiuta l'invaginazione e porta
alla formazione di una vescicola rivestita di clatrina.
2. Pinocitosi, in cui la cellula fa entrare piccole quantità di liquido extracellulare mediando
così l’ingresso di molecole dallo spazio extracellulare.

- Fagocitosi

La fagocitosi è un processo attraverso il quale particelle solide vengono “inglobate” e digerite dai
fagociti. Negli organismi come i protozoi, la fagocitosi è un mezzo attraverso il quale il
microrganismo si nutre. Negli organismi più complessi, la fagocitosi, è un processo biologico
attraverso il quale lo stesso organismo si difende da infezioni ed elimina sostanze dannose.
Nei protozoi, la membrana citoplasmatica si invagina e forma la vescicola nutritizia. Nei mammiferi
invece la fagocitosi avviene in cellule specializzate come macrofagi e dei microfagi (leucociti
polimorfonucleati neutrofili). Sono proprio questi due tipi cellulari che inglobano ed eliminano
virus o sostanze dannose o di scarto. Vediamo in dettaglio che cosa succede.
La particella da fagocitare si avvicina alla membrana del fagocita fino a portare a contatto molecole
della particella e specifici recettori del fagocita: la membrana si invagina a formare un'ansa che
servirà a contenere la particella da fagocitare. Si forma quindi il fagosoma, che andrà a fondersi con
i lisosomi per formare i lisosomi secondari, in cui avviene la degradazione della particella
fagocitata.
La digestione del “corpo estraneo” è dovuta in parte ad enzimi ed in parte alla formazione di
derivati dell'ossigeno, come ad esempio i superossidi. Da precisare che non tutte le sostanze
possono essere digerite, in questo caso tali sostanze resteranno nei lisosomi secondari, formando i
così detti corpi residui.
Scambio di materiale tra cellule – Fenomeni di trasporto e comunicazione

A causa del suo interno idrofobico, il doppio strato lipidico delle membrane cellulari funge da
barriera per il passaggio della maggior parte delle molecole polari. Questa funzione di barriera è
importante in quanto permette alla cellula di mantenere concentrazioni di soluti nel citosol diverse
da quelle del fluido extracellulare e da quelle presenti in ciascuno dei compartimenti intracellulari
circondati da membrane. Per poter utilizzare questa barriera le cellule hanno tuttavia dovuto dotarsi
di mezzi idonei a trasferire specifiche molecole attraverso le loro membrane.
Fenomeni di trasporto avvengono a livelli di membrana plasmatica, lisosoma e mitocondrio. Le
sostanze fondamentali che devono attraversare la membrana (mediante trasporto) sono:

- amminoacidi (sostanza nutritiva per la cellula e grazie ai quali avviene la sintesi proteica)
- zuccheri
- nucleotidi
- ioni
- sostanze di rifiuto

Passaggio di molecole e ioni attraverso le membrane cellulari

Avendo affinità con i lipidi, alcune piccole molecole


idrofobiche riescono ad attraversare facilmente la
membrana.

Riescono ad attraversare la membrana anche se sono


molecole polari per le loro dimensioni ridotte.

Se si aspetta abbastanza a lungo ogni molecola


diffonderà attraverso un doppio strato lipidico
privo di proteine seguendo il suo gradiente di
concentrazione. La velocità di diffusione varia
enormemente a seconda delle dimensioni della
molecola, ma soprattutto in rapporto alla sua
solubilità nei lipidi (cioè a seconda che sia più
idrofobica o più idrofilica). Molecole come
glucosio e saccarosio, per via della loro
dimensione polarità non riescono a diffondere.
I doppi strati lipidici sono inoltre altamente
impermeabili a molecole cariche, gli ioni,
anche se questi sono molto piccoli: infatti la
loro carica e l’alto gradiente di idratazione
(tendono a legare con l’acqua) ne impedisce
l’ingresso nella parte idrocarburica del doppio
strato.
I tipi di proteine di trasporto: i trasportatori e i canali

Come già visto le membrane cellulari permettono all’acqua e alle molecole non polari di permearle
per semplice diffusione. Le membrane cellulari devono però permettere anche il passaggio di altre
molecole polari, come ioni, zuccheri, amminoacidi, nucleotidi, eccetera. A questo scopo sono
adibite speciali proteine di membrana, dette proteine di trasporto di membrana, che si trovano in
varie forme e in tutti i tipi di membrane biologiche. Ogni proteina trasporta una determinata classe
di molecole (ioni, zuccheri, amminoacidi…). Tutte le proteine di trasporto di membrana risultano
essere proteine transmembrana multipasso, ovvero le loro catene polipeptidiche attraversano il
doppio strato più volte. Si forma in questo modo una via proteica attraverso la membrana.

Esistono due classi principali di proteine di trasporto: le proteine trasportatrici e le proteine canale.
Le proteine trasportatrici (dette anche carrier, trasportatori o permeasi) si legano al soluto che
deve essere trasportato e subiscono una serie di cambiamenti conformazionali (meccanismo della
conformazione alternativa) per trasferire il soluto legato attraverso la membrana. Le proteine
canale invece, formano veri e propri pori idrofilici che si estendono nel doppio strato lipidico.
Questi pori possono essere sia aperti che chiusi, a seconda delle necessità della cellula, e
permettono il passaggio di ioni inorganici. Il controllo della proteina canale avviene grazie a tre tipi
di stimoli: - controllo di potenziale; - controllo di ligando; - controllo meccanico. Il trasporto
tramite le proteine canale è molto più veloce di quello mediato dalle proteine trasportatrici.

Ecco la struttura “dall’alto” di una proteina canale

Parti idrofobiche della proteina a contatto con i

Parti idrofiliche della proteina

Proteina con conformazione ad α elica

Canale polare (via proteica che permette il


passaggio di molecole attraverso la membrana
Trasporto attivo e passivo nella membrana

Tramite il gradiente elettrochimico si indica la presenza di una concentrazione maggiore da un lato della membrana, e
una minore dall’altro. Quando le molecole si muovono dal luogo più concentrato a quello meno concentrato, si dice
che si stanno muovendo secondo gradiente.

Il passaggio più semplice di una sostanza attraverso la membrana è la diffusione semplice: essa
avviene sempre a favore di gradiente, in quanto la sostanza (idrofobica) passa da dove è più
concentrata a dove lo è meno. In questo trasporto è interessato solo il doppio strato lipidico e non
sono quindi necessarie le proteine.

Tutte le proteine canale e molte proteine trasportatrici invece, permettono ai soluti di attraversare la
membrana solo in modo passivo (“in discesa”), processo chiamato trasporto passivo o diffusione
facilitata. Se la molecola trasportata è priva di carica, è semplicemente la differenza di
concentrazione sui due lati della membrana (il gradiente di concentrazione) che spinge il trasporto
passivo e ne determina la direzione. Se invece il soluto ha una carica netta, sia il gradiente di
concentrazione che la differenza di potenziale elettrico attraverso la membrana (potenziale di
membrana) ne influenzano il trasporto. Gradiente di concentrazione e gradiente elettrico possono
essere combinati per calcolare una forza netta, il gradiente elettrochimico. Questa differenza di
potenziale favorisce l’ingresso di ioni carichi positivamente nella cellula, ma si oppone all’ingresso
di ioni carichi negativamente.

Le cellule richiedono anche proteine di trasporto che pompino attivamente certi soluti contro il loro
gradiente elettrochimico (“in salita”); questo processo, detto trasporto attivo, è sempre mediato da
proteine trasportatrici. L’attività di pompaggio della proteina è strettamente accoppiata ad una fonte
di energia, come l’idrolisi dell’ATP. Il trasporto delle proteine trasportatrici può quindi essere sia
attivo che passivo, mentre quello delle proteine canale solo passivo.
Trasporto attivo di membrana

Il processo tramite cui una proteina trasportatrice trasferisce una molecola di soluto attraverso il
doppio strato contro gradiente è detto trasporto attivo. Alcune proteine trasportatrici trasportano
semplicemente un singolo soluto da un lato all’altro della membrana, e sono dette uniporti. Altre
invece funzionano da trasportatori accoppiati, in cui il trasferimento del soluto dipende dal
trasferimento simultaneo o sequenziale di un secondo soluto (cotrasporto), sia che questo avvenga
nella stessa direzione (simporto), sia che i due soluti si spostino in direzione opposta (antiporto).
Sebbene i dettagli molecolari non perfettamente siano noti, si pensa che le proteine trasportatrici
trasferiscano il soluto attraverso il doppio strato subendo cambiamenti conformazionali reversibili,
che espongono rispettivamente il sito di legame prima su di un lato della membrana, e poi su di un
altro.

Le proteine impegnate nel trasporto attivo sono dette pompe; grazie a H+-ATPasi (pompa
protonica) ad esempio la cellula riesce ad espellere dal suo interno idrogenioni contro gradiente,
idrolizzando molecole di ATP. In questo modo all’esterno della membrana si forma un gradiente
elettrochimico di H+, usato dal soluto per entrare all’interno della cellula. Si distinguono perciò il
trasporto attivo diretto (o primario; il soluto viene portato fuori dalla cellula grazie all’energia
fornita dall’idrolisi dell’ATP) e il trasporto attivo indiretto (o secondario; si accumulano ioni
carichi H+ sul versante esterno della membrana, la cui energia viene sfruttata dal soluto per entrare
nella cellula). Inoltre grazie alle H+-ATPasi la cellula è in grado di controllare il pH del suo
interno regolando gli idrogenioni al suo interno.

Le pompe più importanti sono le POMPE P, così dette in quanto durante l’idrolisi dell’ATP, il Pi
si lega alla pompa; tra esse troviamo la Ca2+-ATPasi (che spinge gli ioni calcio fuori dalla cellula),
H+-ATPasi (che spinge idrogenioni fuori dalla cellula), Na+-K+-ATPasi (quest’ultima adibita al
trasporto all’esterno di Na+ e all’interno di K+).

La pompa Na+-K+-ATPasi

La concentrazione di K+ all’interno della cellula deve essere in genere mantenuta da 10 a 20 volte in


più rispetto all’Na+ all’esterno. Queste differenze di concentrazione sono mantenute da una pompa
Na+-K+ che si trova praticamente in ogni cellula sulla membrana plasmatica.
La pompa opera come un antiporto, pompando attivamente fuori dalla cellula 3 ioni Na+ contro il
gradiente elettrochimico, e nel contempo pompando 2 ioni K+ all’interno. In questo modo l’interno
della membrana si carica negativamente. La pompa crea fuori dalla cellula un gradiente di Na+ utile
per mandare dentro la cellula zuccheri e amminoacidi tramite il meccanismo di trasporto attivo
indiretto.

Tra le altre funzioni quindi, oltre a quelle già descritte (1. capacità elettrogena per creare un
potenziale di membrana; 2. creare un gradiente di Na+ per il trasporto attivo indiretto di zuccheri e
amminoacidi), la pompa Na+-K+ ha anche il compito di regolare la pressione osmotica della cellula:
infatti per leggi osmotiche, se non esistesse la pompa che espelle anioni fuori dalla cellula, questi
richiamerebbero molecole di acqua all’interno della cellula provocando quindi un rigonfiamento e
una conseguente lisi (scoppio) della cellula. Nelle cellule animali questo effetto è controbilanciato
da un gradiente osmotico opposto, dovuto ad un’alta concentrazione di ioni inorganici (Na+ e Cl-);
la pompa Na+-K+-ATPasi mantiene un equilibrio osmotico pompando fuori il Na+ che filtra
all’interno lungo il suo gradiente elettrochimico, mentre il Cl- viene mantenuto fuori dal potenziale
di membrana.
Le cellule vegetali non hanno questo tipo di pompe e accumulano così all’interno della cellula
molta acqua; tuttavia non scoppiano grazie alla parete cellulare che riesce a mantenere la cellula
nella stessa forma.

Pompe V

È un altro tipo di pompa, che si trova per lo più nelle membrane degli organelli intracellulari. Sono
state rilevate per la prima volta nelle vescicole (da qui il nome V) e hanno il compito di spostare gli
ioni H+ all’interno di esse (es. nei lisosomi).

Canali ionici e proprietà elettriche delle membrane

A differenza delle proteine trasportatrici, le proteine canale formano pori idrofilici attraverso le
membrane. Questo tipo di canali che connettono invece il citosol con lo spazio esterno e hanno pori
stretti e altamente selettivi. Queste proteine sono deputate soprattutto al trasporto di ioni inorganici
e sono perciò dette canali ionici. La funzione dei canali ionici è quella di permettere a ioni
inorganici specifici (Ca2+, Na2+, K+, Cl-) di diffondere rapidamente secondo i loro gradienti
elettrochimici attraverso il doppio strato lipidico, anche se questo avviene in maniera controllata.

Vi è infatti una selettività ionica che permette ad alcuni ioni di passare e ad altri no. I pori devono in
qualche punto essere abbastanza stretti da forzare gli ioni ad entrare in contatto con le pareti del
canale, così da far passare solo ioni dalle dimensioni e dalla carica appropriata. La seconda
distinzione tra canali ionici e semplici pori acquosi, è che i canali ionici non sono continuamente
aperti, ma possono essere chiusi. Gli stimoli che possono aprire i canali possono essere:

- un cambiamento di voltaggio della membrana,


- uno stress meccanico,
- l’attacco di ligando.
Riproduzione cellulare: mitosi e meiosi
La replicazione o duplicazione cellulare delle cellule eucariotiche è chiamata mitosi e si riferisce a
tutte le cellule. Tale processo di divisione mitotica inizia con una cellula madre e si conclude con la
formazione di due cellule, dette cellule figlie, identiche alla madre e fra loro.
A loro volta le cellule figlie entrano in un processo di divisione mitotica, ma non prima di avere
attraversato un periodo di latenza in cui crescono e svolgono la propria attività metabolica.
Risulta chiaro da quanto detto che tra una mitosi e l'altra c'è un certo lasso di tempo che viene
chiamato ciclo cellulare.

Un processo fondamentale per la cellula è l'apoptosi o morte cellulare programmata. È un


fenomeno che porta all'autodistruzione della cellula affinché vengano eliminate quelle malformate
o che presentano troppi “errori” sia nel materiale genetico che nelle sue funzioni di controllo.

Mitosi

Il ciclo vitale di una cellula eucariotica è composto da 4 fasi distinte e chiamate G1, S, G2 ed M. Le
prime 3 fanno parte dell'interfase (lasso di tempo precedente alla divisione vera e propria della
cellula), mentre nell'ultimo stadio si ha la divisione cellulare, la mitosi. La durata temporale di un
intero ciclo nelle cellule umane è variabile e dipende dal tipo di cellula considerata: ad esempio si
va da circa 1 anno negli epatociti (cellule del fegato) a 12 ore per i precursori delle cellule del
sangue.

Le fasi:

• Fase G1: si ha un'intensa attività di crescita cellulare in cui la cellula raddoppia le sue
dimensioni e sintetizza nuovi organelli e gli enzimi necessari alla duplicazione del DNA
della fase S (sintesi).
• Fase S: viene replicato il materiale genetico affinché ciascuna cellula figlia generata
possieda una copia completa del genoma parentale.
• Fase G2: la cellula aumenta ancora le sue dimensioni in vista della divisione cellulare.

• Fase M: è la fase in cui avviene la mitosi. È un processo continuo che viene suddiviso in
quattro fasi:
1. Profase
2. Metafase
3. Anafase
4. Telofase

Ciascuna di queste è osservabile al microscopio ottico.

Microscopio ottico: è un microscopio che sfrutta la luce con lunghezza d'onda dall'infrarosso all'ultravioletto,
comprendendo tutto lo spettro visibile.
Il microscopio ottico a scansione (SNOM) è un microscopio a scansione di sonda che permette di oltrepassare il limite
risolutivo legato alla diffrazione (circa 0,2 µm con luce visibile).

Spettro visibile: lo spettro elettromagnetico (abbreviato spettro EM) indica l'insieme di tutte le possibili frequenze delle
radiazioni elettromagnetiche in grado di essere percepite dall’occhio umano.

Diffrazione: è un fenomeno associato alla deviazione della traiettoria di propagazione delle onde nel momento in cui
incontrano un ostacolo sul loro tragitto.

Perché avvenga la divisione cellulare devono essere presenti due strutture chiamate centrioli ai poli
della cellula e tra loro un fuso di microtubuli. Questo complesso forma il fuso mitotico che risulta
visibile nel citoplasma solo nella fase M del ciclo.

Analizziamo lo divisione mitotica fase per fase.

Profase: i cromosomi in questa fase diventano visibili all’interno nucleo per via di una elevata
compattazione. I cromosomi in questa fase si sono già stati duplicati nella fase S della divisione
cellulare. Durante la profase i cromosomi si accoppiano, si accorciano (compattano) e i nucleoli
scompaiono. Appena la membrana nucleare scompare la profase finisce.
Ogni cromosoma risulta accoppiato alla sua copia: la tipica forma a X è data dall’associazione di
due cromatidi fratelli, identici.

Metafase: in questa fase il fuso mitotico si sposta nella regione nucleare e i cromosomi vi si
attaccano grazie al cinetocore (una struttura proteica associata al centromero dei cromatidi) ai
microtubuli del fuso mitotico. Per ogni centromero (ovvero la parte in cui si verifica il contatto fra i
due cromatidi) vi sono due cinetocori, uno per ciascun cromatide.
I cromosomi una volta agganciati al fuso, si spostano al centro della cellula, in una zona chiamata
piastra equatoriale o della metafase.

Anafase: in questa fase si ha la separazione del centromero che tiene insieme i cromatidi dei
cromosomi duplicati. A questo punto i cromatidi separati scorrono lungo i microtubuli del fuso e
vengono portati ai poli opposti della cellula in divisione. Questo processo assicura una ottimale
divisione del materiale genetico.

Telofase: i cromosomi hanno raggiunto i poli della cellula; a questo punto si forma un involucro
nucleare ad ogni polo, formando due nuclei. Entrambi i nuclei hanno il numero di cromosomi
parentali. Con la formazione dei due nuclei, si chiude il processo di mitosi.
La telofase termina con una sottofase detta citodieresi, in cui la membrana subisce una strozzatura
fino a sparare le due cellule.
Esiste un'altra fase del ciclo, la G0. Questa è utile alla cellula per bloccare il suo sviluppo affinché
non possa più dividersi. Un esempio di cellule in fase G0 sono le cellule nervose, i neuroni.

Meiosi
Nella meiosi, le cellule germinali si dividono e dimezzano il corredo cromosomico. In una cellula
diploide i due cromosomi sono detti omologhi quando non sono identici, ma contengono gli stessi
geni (ad esempio il Cromosoma 1 paterno e materno sono omologhi).
Forme alternative dello stesso gene si chiamano alleli, i quali producono delle proteine che possono
differire per uno o più aminoacidi. Ogni cellula diplode produce quattro cellule aploidi in quanto il
processo di riduzione è preceduto da uno di duplicazione del materiale genetico.

La meiosi può essere suddivisa in due fasi:

• Fase riduzionale: prima divisione meiotica o meiosi I


o 2n, 2 C à 2n, 4 C à n, 2 C + n, 2 C
• Fase equazionale: seconda divisione meiotica o meiosi II
o 2 (n, 2 C) à 4 (n, 1 C)
n = corredo cromosomico aploide
C = numero totale dei cromosomi

Queste due fasi sono precedute dalla Fase pre-meiotica S o interfase I in cui avviene la duplicazione
del materiale genetico e ogni cromosoma produce un cromatide fratello (2n, 2 C à 2n, 4 C).

Meiosi I

Profase I: i cromosomi condensano, gli omologhi si allineano e si accoppiano, formando una


struttura detta tedrade (2 cromatidi fratelli + 2 cromatidi fratelli, omologhi fra loro). Durante
questa fase avviene il crossing over.
• Matafase I: i microtubuli formano il fuso e si agganciano ai cinetocori esterni del
centromero dei due omologhi e si disperde la membrana nucleare.

• Anafase I: i due omologhi si allineano all'equatore in modo casuale ed è dunque casuale


anche il polo verso cui andranno i due cromosomi. In questo modo si ha un assortimento
indipendente dell'informazione genetica.
Facendo un po' di calcoli le combinazioni possibili saranno 2 elevato al numero di paia di
cromosomi. Se se ne allineano 5 otterremo 2 alla cinque gameti diversi.
I microtubuli si accorciano e tirano i cinetocori ai poli opposti dove arrivano integri
portando i due cromatidi fratelli. Alla fine dell'anafase I ogni polo della cellula umana
contiene 23 cromosomi.

• Telofase I: in questo stadio i due set di cromosomi vengono separati ai poli e iniziano a
decondensarsi. Questa fase viene seguita dalla citocinesi e si formano 2 cellule con corredo
cromosomico aploide, ma duplice copia di cromatidi (2n, 4 C à n, 2 C + n, 2 C).

Meiosi II

• Profase II: per fare iniziare la meiosi II si ha la condensazione dei cromosomi e le fibre del
fuso dei poli si legano al cinetocore del lato corrispondente del centromero.

• Metafase II: i cromosomi si allineano all’equatore della cellula.

• Anafase II: i cromatidi vengono separati e tirati verso i poli opposti

• Telofase II: si organizzano i nuclei e si riforma la membrana nucleare.

Si ottengono così 4 gameti aploidi che possono avere la funzione proprio di gameti negli animali o
possono dividersi per mitosi nelle piante, nei funghi e in molti protisti.
Crossing Over

Nella fasi iniziali della profase I, tutti i cromosomi in una cellula germinale condensano e i
cromatidi omologhi si avvicinano come mostrato in figura:

Questa posizione favorisce il crossing over, un processo in cui un cromosoma e il suo omologo si
scambiano dei pezzi di DNA
I cromosomi omologhi possono infatti scambiare qualsiasi segmento di DNA, sebbene avvenga più
spesso in alcune zone piuttosto che in altre. Lo scambio di segmenti di DNA rimescola alleli tra i
Cromosomi omologhi.
Questo fenomeno rompe la particolare combinazione presente sui cromosomi parentali e ne crea di
nuove sotto forma di gameti. Negli esseri umani, il crossing over avviene tra le 46 e la 95 volte ad
ogni meiosi, così ciascun cromosoma lo attraversa almeno una volta.

Corredo cromosomico

L'informazione genetica di ogni specie eucariotica è distribuita all’interno di un determinato


numero di cromosomi che differiscono in lunghezza e forma.
La somma di tutti i cromosomi in una cellula di un dato tipo è chiamata corredo cromosomico. Ogni
specie ha un proprio corredo cromosomico: il numero di cromosomi di una cellula umana è 46. In
realtà, le cellule del corpo umano possiedono due cromosomi omologhi per tipo, il che significa che
il loro numero cromosomico è diploide (2n).
Le 23 coppie di cromosomi sono come due serie di libri numerati da 1 a 23 e, di ogni libro, ci sono
due versioni quasi uguali fra loro. Fatta eccezione per l'accoppiamento dei cromosomi sessuali
(XY) nei maschi, i due membri di ciascuna coppia hanno la stessa lunghezza e forma; tuttavia
alcune porzioni possono avere delle piccole differenze tali da determinare i caratteri fenotipici (si
veda poi) specifici di ogni essere vivente

Diversi tipi di cromosomi e determinismo del sesso

Durante la metafase il microscopio ottico è in grado di rivelare i cromosomi condensati, e una


micrografia di una singola cellula viene digitalmente riorganizzata in modo che le immagini dei
cromosomi siano allineate alla posizione del centromero, disposte in base alle dimensioni, forma e
la lunghezza. La micrografia completa costituisce il cariotipo dell'individuo, che viene confrontato
con uno standard “normale”.
Micrografia: in microscopia elettronica è una fotografia ottenuta da un negativo impressionato con l’apparecchiatura
fotografica in dotazione ai microscopi elettronici a scansione o in trasmissione
Un cariotipo, dunque, mostra quanti cromosomi ci sono nelle cellule dell'individuo. Il confronto con
uno standard può rivelare eventuali cromosomi aggiuntivi o mancanti, e alcune anomalie strutturali.
I cromosomi non sessuali (1à22) sono detti autosomi, mentre i cromosomi X e Y sono detti
cromosomi sessuali. Il cariotipo maschile viene definito come 46,XY, mentre quello femminile
46,XX. Pertanto, le cellule delle femmine contengono due cromosomi X (XX), quelli dei maschi
umani contengono un cromosoma X e un cromosoma Y (XY). Sono quindi i cromosomi sessuali a
determinanare il sesso di un individuo.
Nelle farfalle, falene, uccelli e alcuni pesci, i maschi hanno due cromosomi sessuali identici, e le
femmine no. I fattori ambientali (e non i cromosomi sessuali) come esempio, la temperatura della
sabbia in cui le uova di tartaruga marina sono sepolte, determinano il sesso in alcune specie di
invertebrati, tartarughe e rane..
Negli esseri umani, un nuovo individuo eredita una combinazione di cromosomi sessuali che
determina se diventerà maschio o femmina. Tutte le uova fatte da una donna umana hanno un
cromosoma X. Circa la metà delle cellule spermatiche fatte da un maschio porta un cromosoma X,
l'altra metà porta un cromosoma Y. Se uno spermatozoo X feconda un uovo X, l'individuo risultante
si svilupperà in una femmina. Se lo spermatozoo porta un cromosoma Y, l'individuo si svilupperà in
un maschio.
SEZIONE 3- BIOENERGETICA

Fotosintesi

Molti dei concetti della fotosintesi necessitano delle parti precedenti trattate in questo ebook, ma
proveremo man mano a riepilogare i concetti base.

I cloroplasti sono gli organelli chiave nella fotosintesi. Mostrano una membrana esterna, che
circonda lo stroma in cui è contenuto anche il DNA del cloroplasto, i ribosomi e numerosi enzimi,
e una membrana più interna chiamata membrana tilacoide che circonda il lumen.

La fotosintesi viene spesso rappresentata con questa equazione chimica, in cui sei molecole di CO2
vengono unite chimicamente a formare una molecola di zucchero (glucosio) in presenza di energia
fornita dai fotoni solari.

Circa 700 miliardi di tonnellate di CO2 vengono ogni anno fissati dalle piante mediante la
fotosintesi clorofilliana. Essa avviene grazie a dei pigmenti in grado di assorbire l’energia dallo
spettro del visibile; tali pigmenti (clorofille, carotenoidi) hanno infatti una serie di legami π in cui
non si ha assetto elettronico stabile, ma delocalizzazione degli elettroni. Uno di questi pigmenti è la
clorofilla, una complessa molecola formata da quattro anelli pirrolici in cui l’azoto prende contatto
con un atomo di magnesio bivalente (non legato stabilmente agli N).

È importante essere consapevoli che la fotosintesi non consiste in una sola reazione, ma in una serie
di reazioni che possono essere raggruppate in due stadi. Vista la complessità biochimica di tali
reazioni, si cercherà di dare una spiegazione semplice, ma il più completa possibile.

Il primo stadio della fotosintesi è detto fase luminosa. L’energia dei fotoni viene catturata da dei
complessi proteici detti fotosistemi. La luce colpisce il fotosistema II e provoca la scissione di una
molecola di acqua (H2O + luce à O2 + H+ + elettroni). Gli elettroni persi dal fotosistema II
vengono catturati dai trasportatori che lo conducono fino al fotosistema I. I trasportatori,
riducendosi, prendono H+ dallo stroma del cloroplasto e, nel cederlo, lo portano nel lumen.
Nello stroma così vengono tenute basse concentrazioni di protoni (H+) che vengono fatti passare
secondo gradiente adl lumen allo stroma attraverso una ATP-sintetasi, producendo ATP da ADP.

Questi processi avvengono sulla membrana tilacoide e sono catalizzati dalla luce catturata dalla
clorofilla, tanto che questo stadio viene definito “dipendente dalla luce” o fase luminosa. In questa
fase si ha la conversione di energia solare in ATP, potere riducente e ossigeno.

Le reazioni del secondo stadio della fotosintesi, che avviene nello stroma, portano alla formazione
di glucosio e altri carboidrati da biossido di carbonio e acqua. Queste reazioni NON sono luce
dipendenti, ma hanno luogo grazie all'energia fornita dall'ATP e dai coenzimi formati nel primo
stadio. Viene chiamata fase oscura.
Come detto sopra, è la luce la fonte di energia per l'inizio della fotosintesi.

Riassumiamo brevemente i concetti fisici della luce.


• Doppia natura (ondulatoria e corpuscolare).
• Costituita da quantità discrete di fotoni.
• Viene descritta tramite la lunghezza d'onda, la velocità e la frequenza.

Fase luminosa: dettagli biochimici

Quando un pigmento in una membrana tilacoide assorbe un fotone, l'energia del fotone promuove
un elettrone del pigmento ad un livello energetico più alto. Il protone emette velocemente l'extra
energia, che però non viene persa, ma viene trattenuta dai pigmenti circostanti che la “passano” da
uno all’altro.

Il fotosistema è un raggruppamento di migliaia di clorofille, pigmenti ed altre molecole che


lavorano in squadra per dare inizio alla reazione di fotosintesi. Le membrana tilacoide contiene
due tipi di fotosistemi, tipo I e tipo II, fondamentali centri di assorbimento dell’energia luminosa.

Tali fotosistemi sono costituiti dal complesso antenna formato da clorofilla A e B e da carotenoidi.
Tale complesso assorbe energia luminosa e la porta al centro di reazione; là eccita due elettroni
della molecola di clorofilla, la quale si ossida, mentre gli elettroni vengono catturati da un accettore
che si riduce. La riduzione trasforma l'energia luminosa in energia chimica.

Il fotosistema II si occupa di colmare con una coppia di elettroni (provenienti dalla scissione di una
molecola di H2O) il “buco” elettronico formatosi nella clorofilla. La scissione dell'acqua libera
ossigeno verso l'esterno e accumula idrogeno nei tilacoidi. Intanto, l'accettore primario degli
elettroni li cede ad una catena di trasporto detta ciclo O o catena di fosforilazione. Il ciclo O sfrutta
la caduta energetica degli elettroni precedentemente eccitati per liberare H+ nel lumen dei tilacoidi
in modo da formare gradiente elettrochimico utile per la produzione di ATP ad opera dell’ATP-
sintasi.

Tramite la proteina di membrana ATP-sintetasi situata sulla membrana del tilacoide, gli ioni H+
liberatisi dall'idrolisi dell'acqua si muovono verso gradiente dal lumen allo stroma, spingendo la
sintesi di ATP (una molecola di ATP ogni due elettroni).

In contemporanea il fostosistema I viene colpito dalla luce e cede un'altra coppia di elettroni ad un
altro accettore primario. Il buco elettronico anche in questo caso viene colmato dai due elettroni
che arrivano dall'accettore primario del fotosistema II. Con l'energia degli elettroni che sono stati
catturati dall'accettore del fotsistema I si trasforma il NADP in NADPH e si accumulano H+ nei
tilacoidi. In definitiva la fase luminosa della fotosintesi libera ossigeno e produce ATP e NADPH.

Fase oscura: dettagli biochimici

Nella fase oscura o ciclo di Calvin-Benson, che si svolge nello stroma, l'ATP e l'NADPH vengono
impiegati per trasformare l'anidride carbonica in zuccheri.
Il processo si svolge nelle foglie e inizia con la fissazione del carbonio presente nella CO2
atmosferica che, in presenza di ATP e NADPH, si trasforma seguendo due tappe:

1. Una molecola di Ribulosio-difosfato, già presente nel sistema, in presenza di CO2 e di un


enzima, si lega formando una molecola instabile a sei atomi di C che si divide
velocemente a formare due molecole con tre atomi di C (acido 3 fosfoglicerico o 3
fosfatoglicerato).
2. Le due molecole di acido appena prodotte vengono ridotte in due molecole di
fosfogliceraldeide ,un composto ad alto contenuto energetico.

Dopo tre di questi cicli, ciascuno dei quali consuma una molecole di CO2, due di NADPH e tre di
ATP vengono prodotte sei molecole di gliceraldeide-3-fosfato.

3. Cinque delle sei molecole di gliceraldeide-3-fosfato rimangono nel ciclo e proseguono la


trasformazione, una esce e rappresenta il prodotto netto della fotosintesi. Assieme ad
un'altra molecola di gliceraldeide 3-fosfato si produce il fruttosio bisfosfato, convertito nella
maggior parte dei casi in glucosio fosfato.

4. Le restanti cinque molecole di gliceraldeide 3-fosfato vengono invece utilizzate per


rigenerare il ribulosio-difosfato utilizzando ATP.
Respirazione cellulare

La prima cellula sulla terra non usava l'energia del sole, ma estraeva energia e carbonio da molecole
semplici come il metano (CH4). I primi autotrofi fotosintetici, in grado cioè di sfruttare il sole come
fonte di energia, comparvero circa 3 miliardi di anni fa, probabilmente nell'oceano. Come visto in
precedenza l’energia ricavata da fotoni nella fotosintesi porta alla liberazione di molecole di
ossigeno proveniente dall’acqua; l’O2 iniziò quindi ad accumularsi nell'atmosfera.

Prima dello sviluppo della fotosintesi, che rese l’Ossigeno una componente abbondante
dell’atmosfera, solo pochi organismi di allora avevano modo di disintossicarsi dall'enorme quantità
di questo gas, e pertanto, non potendo contrastare l’effetto ossidativo, si estinsero velocemente.

Solo alcuni organismi anaerobi riuscirono a sopravvivere nelle acque profonde o in regioni isolate
a basso contenuto di O2. Le alte concentrazioni di ossigeno atmosferico spinsero via via la selezione
di organismi in grado di proteggersi, dando luogo ad una via per la detossificazione dall'ossigeno: si
formarono quindi i primi organismi aerobi, in grado di sopravvivere in presenza di tale gas. Non
solo: l’ossigeno divenne presto un mezzo decisivo per ossidare completamente molecole
bioenergetiche e ricavare da esse molto più energia di quella ottenibile da una via anaerobia.

La respirazione aerobica è uno dei molti cicli grazie al quale gli organismi hanno accesso all'energia
immagazzinata nei carboidrati.

Proprio come quegli organismi primordiali, gli autotrofi fotosintetici di oggi catturano energia dal
sole e la immagazzinano sotto forma di carboidrati. Essi, e molti altri organismi, usano l'energia dei
carboidrati per portare avanti le reazioni fondamentali alla vita.

È da evidenziare però come i carboidrati non siano in grado di fornire direttamente energia: come
fanno quindi le cellule ad estrarla? Per potere sfruttare l'energia immagazzinata negli zuccheri, le
cellule devono trasformare le molecole di carboidrati e accumulare la loro energia in altre
molecole che la cellula è in grado di utilizzare per i processi metabolici (es. ATP, e altri
coenzimi come NADH e FADH). L'energia viene fornita dai carboidrati attraverso la rottura dei
loro legami: tale rottura rilascia energia per la sintesi dell'ATP.

Ci sono diversi cammini per la demolizione dei carboidrati, ma la più comune resta comunque la
respirazione aerobica tipica delle cellule eucariote.

I batteri, i protisti unicellulari ed altri organismi anaerobici usano la fermentazione per ricavare
energia. Sia la fermentazione che la respirazione aerobica iniziano nel citoplasma. Nel citoplasma
avvengono una serie di reazioni raggruppate in un processo detto glicolisi anaerobia (non richiede
cioè l’uso dell’ossigeno); il glucosio, molecola a sei atomi di carbonio, viene convertito in due
molecole di piruvato (tre atomi di carbonio). Dopo la glicolisi i cammini della fermentazione e
della respirazione aerobica si dividono.
La respirazione aerobica continua con altri due stadi che avvengono nei mitocondri e termina nel
momento in cui l'ossigeno accetta gli elettroni provenienti dalla catena di trasferimento degli
elettroni e viene convertito in H2O.

La fermentazione invece termina nel citoplasma dove una molecola diversa dall'ossigeno accetta
elettroni provenienti dai coenzimi ridotti formati durante la glicolisi.

La respirazione aerobica è molto più efficiente in termini energetici della fermentazione.


La glicolisi
La glicolisi un processo metabolico composto da una serie di reazioni che avvengono nel
citoplasma che porta alla degradazione del glucosio in due di piruvato:

La glicolisi inizia quando una molecola di glucosio entra nella cellula grazie ad un trasporto passivo
(trasportatori GLUT).

Per la degradazione del glucosio, la cellula “investe” due molecole di ATP nella fase endoergonica.

Reazione endoergonica: si parla di reazione endoergonica quando l'energia dei reagenti è maggiore di quella dei
prodotti. Dunque è una reazione che necessita energia per poter avvenire.

Fase di investimento

Nella prima reazione l'enzima


esochinasi trasferisce il gruppo
fosfato da una molecola di ATP
al glucosio, per formare il
glucosio-6-fosfato, molecola
che non può attraversare la
membrana plasmatica. Questo
permette alla cellula di
mantenere la concentrazione
di glucosio del citoplasma più
bassa rispetto a quella esterna,
in modo da potere richiamare
ancora più glucosio (diffusione
secondo gradiente).

La glicolisi continua quando il


glucosio-6-fosfato viene
isomerizzato a fruttosio 6-
fosfato e mediante l’enzima
fosfofruttochinasi viene aggiunto un secondo gruppo fosfato da un’altra molecola di ATP per
formare il fruttosio 1,6-bisfosfato.
Tale zucchero viene scisso ad opera di una liasi (aldolasi) a una molecola di gliceraldeide 3-fosfato
e una molecola di diidrossiaceton fosfato, convertito grazie ad una isomerasi in una seconda
molecola di gliceraldeide 3-fosfato.

Fase di rendimento

La gliceraldeide 3-fosfato viene quindi ossidata con conseguente formazione di NADH+H+; tale
reazione prevede anche l’attacco di un fosfato inorganico Pi (in questo caso senza il dispendio di
ATP in quanto l’ossidazione della molecola accoppiata con il legame del Pi hanno un bilancio
“favorevole” in termini di energia).
Si forma quindi una molecola di 1,3-bisfosfoglicerato, ad alto contenuto energetico: mediante una
chinasi il gruppo fosfato viene trasferito dall’1,3 BPG a una molecola di ADP, formando 1 ATP.
Si forma il 3-fosfoglicerato, convertito subito da un’isomerasi in 2-fosfoglicerato; questo viene
convertito in fosfoenolpiruvato (con la liberazione di una molecola di H2O), ad alto contenuto
energetico.
Un’altra chinasi sposta il gruppo fosfato a una molecola di ADP, formando un secondo ATP e una
molecola di piruvato.

Queste reazioni avvengono per entrambe le molecole di gliceraldeide 3-fosfato e la glicolisi si


conclude pertanto con la formazione di due molecole di piruvato.

Volendo fare un bilancio energetico, per 2 molecole di ATP investite, la cellula ne ricava 4.

Pertanto, mediante glicolisi, una molecola di glucosio frutta 2 ATP e 2 NADH+H+.

Decarbossilazione del piruvato

Il secondo stadio della respirazione aerobica avviene all'interno dei mitocondri ed è composto da
due serie di reazioni: decarbossilazione del piruvato (e conseguente formazione di acetil-CoA) e il
ciclo di Krebs che degrada l’acetil CoA.

Il secondo stadio della respirazione cellulare inizia quando le molecole di piruvato, formate dalla
glicolisi, arrivano ai mitocondri. Nella prima reazione un enzima (piruvato deidrogenasi) divide la
molecola di piruvato per formare una molecola di CO2 e un gruppo acetile.
La CO2 viene liberata all'esterno e l’acetile viene legato a una molecola di Coenzima A (CoA). Il
prodotto di questa reazione è l'acetil-CoA. Gli elettroni e gli ioni idrogeni provenienti da questa
reazione si combinano con NAD+ per dare NADH+H+. si parla infatti di decarbossilazione
ossidativa del piruvato.

Ciclo di Krebs

Il ciclo di Krebs, detto anche Ciclo degli Acidi Tricarbossilici o Ciclo dell’Acido Citrico, degrada
l'acetil-CoA a CO2.

La prima reazione del ciclo vede la condensazione dell’acetil CoA con l’ossalacetato, per ottenere
citrato (2).

Nelle reazioni seguenti, avvengono due decarbossilazioni ossidative: pertanto vengono liberate due
molecole di CO2 mentre due molecole di NAD+ accettano elettroni, si riducono e formano NADH +
H+ (3 e 4).

La seconda decarbossilazione ossidativa è simile a quella che produce acetil CoA da piruvato; in
questo caso si assiste alla formazione di una molecola di Succinil-CoA.

L’elevata energia immagazzinata nel legame tioestere che lega il CoA, viene liberata dalla rottura di
tale legame (succinil-CoA à succinato + CoA + energia) e sfruttata per spingere la sintesi di GTP
da GDP+Pi (cioè viene “conservata” nel nuovo legame fosfato) (5).
Il succinato così ottenuto viene ossidato con la conseguente riduzione di una molecola di FAD in
FADH2 (6).
Ulteriori enzimi modificano il succinato fino a produrre L-malato: questo viene ossidato e si
rigenera ossalacetato e gli elettroni vengono immagazzinati nel NADH+H+ ridotto (7 e 8).
Il ciclo è concluso e l’ossalacetato investito inizialmente viene in questo modo rigenerato.

La glicolisi, si è visto, converte una molecola di glucosio in due di piruvato che a sua volta vengono
convertite in acetil-CoA quando entrano nella matrice mitocondriale. Nella matrice mitocondriale
per due molecole di acetil-CoA si ottengono sei molecole di CO2 di scarto, si formano due
molecole di GTP, vengono ridotte sei molecole di NAD+ in NADH e due di FAD in FADH2.

Il GTP ottenuto è immediatamente utilizzato per generare ATP, grazie all’enzima nucleoside
difosfochinasi.

Qual è l'importanza di ridurre i coenzimi?


Una molecola si riduce quando acquista elettroni (per contro si ossida quando li perde) e gli stessi
trasportano energia che può essere usata per le reazioni endoergoniche. In questo caso gli elettroni
acquistati nei primi due stadi della respirazione aerobica trasportano l'energia necessaria per le
reazioni che avvengono nel terzo stadio della respirazione, la fosforilazione ossidativa.
Fosforilazione ossidativa

Il terzo stadio della respirazione aerobica è la fosforilazione ossidativa e anch’essa avviene


all'interno dei mitocondri, centrali elettriche della cellula.

Le reazioni vedono i coenzimi NADH e FADH2 cedere i loro elettroni e ioni idrogeno alle catene di
trasferimento elettronico all'interno della membrana mitocondriale (1). Alcune molecole della
catena di trasferimento utilizzano l'energia proveniente dagli elettroni per trasportare attivamente
gli ioni idrogeno (“pompare”) attraverso la membrana, dalla matrice allo spazio intermembrana
(2). Gli ioni accumulati nella membrana interna stabiliscono un gradiente di idrogeno lungo la
membrana interna del mitocondrio (3). Dato che la membrana interna è impermeabile ai protoni,
questi possono tornare nella matrice mitocondriale solo attraverso l’enzima ATP-sintasi. L’energia
ricavata da questi ioni che attraversano la membrana secondo gradiente dà all’ATP-sintasi l’energia
utile per legari il Pi all’ADP, formando ATP (4).

I dodici coenzimi dei primi due stadi della respirazione portano alla sintesi di 32 molecole di ATP
nel terzo stadio della respirazione.
Infine l'ossigeno accetta elettroni alla fine della catena di trasferimento elettronico del
mitocondrio. La respirazione aerobica individua dunque la molecola di ossigeno come l'accettore
elettronico finale del ciclo. Quando l'ossigeno acquista elettroni e si lega con H+ forma acqua, che
tra le altre cose è un prodotto di questo ultimo stadio.
Schema riassuntivo della respirazione cellulare:
SEZIONE 4- RIPRODUZIONE ED EREDITARIETA'

Cicli vitali – Riproduzione sessuata ed asessuata

La funzione della riproduzione è quella di trasmettere i propri geni alla prole. La normale vita di un
individuo segue il ciclo vitale: un individuo nasce, cresce e muore. Proprio per garantire alla propria
specie di perdurare nel tempo esiste la riproduzione; questa può essere di due tipi, asessuata e
sessuata (esiste anche la riproduzione per partenogenesi).

Come è già stato discusso esistono organismi viventi diploidi (2n) come il caso dell'uomo, che ha
un doppio corredo cromosomico proveniente dalla madre e al padre, mentre altri organismo sono
aploidi (n).

La riproduzione asessuata genera organismi del tutto identici al genitore (cloni).


Il processo di riproduzione asessuata rappresenta quindi una divisione cellulare, sia nei procarioti
che in organismi eucarioti unicellulari come protisti e alghe. La cellula figlia possiede lo stesso
patrimonio genetico della cellula madre che, prima di dividersi, ha duplicato il proprio DNA e lo ha
trasmesso alla cellula figlia.
La riproduzione asessuata o agamica non è caratteristica solo degli esseri viventi sopra citati, ma è
possibile anche negli organismi pluricellulari e può avvenire per gemmazione e per
frammentazione, in piante e animali inferiori.

Mediante la riproduzione sessuata o gamica si ottiene invece un individuo il cui corredo


cromosomico deriva dalla fusione di due corredi cromosomici differenti, generando quindi un
genoma diverso nella prole.

Pertanto, laddove la variabilità genetica nella riproduzione asessuata è affidata alla naturale
insorgenza di mutazioni di generazione in generazione, nel caso della riproduzione sessuata essa è
affidata a meccanismi di meiosi (crossing over) e all’unione di due patrimoni genetici differenti.

Le cellule adibite alla riproduzione sessuale sono dette gameti, prodotti dalle cellule germinali. Lo
spermatozoo è il gamete maschile, l'ovulo (o oocita o ovocita) quello femminile. I gameti, hanno un
solo set di cromosomi (n) e sono dunque aploidi, con un numero cromosomiale che è la metà di
quello diploide (2n).

La meiosi di una cellula germinale produce gameti con cromosomi dimezzati e con tratti rimescolati
derivanti dai cromosomi omologhi parentali. Il numero cromosomiale diploide è ristabilito con la
fecondazione quando due gameti si fondono per formare uno zigote, la prima cellula di un nuovo
individuo.

Un particolare meccanismo di riproduzione è la partenogenesi: essa viene considerata una


“riproduzione sessuale asessuata” in quanto, nonostante si abbia la formazione dei gameti, non
richiede la fecondazione e la cellula figlia aploide (uovo non fecondato) è in grado di dare origine al
nuovo individuo; ad esempio, le uova di api fecondate danno femmine diploidi, quelle non
fecondate maschi aploidi.
Formazione dei gameti nelle piante

La riproduzione nelle piante può avvenire mediante due specifici meccanismi: per mezzo delle
spore o di i semi. Le piante e altre specie sono caratterizzate da un ciclo aplodiplonte, mostrante
una fase aploide (gametofito), che produce i gameti, e una fase diploide (sporofito), che produce
invece le spore. In tale ciclo sono presenti pertanto sia una fase diploide che aploide, entrambe in
grado di riprodursi.

Lo sporofito (2n) è prodotto per mitosi da uno zigote (2n) derivato dall’unione di due gameti
aploidi; quando giunge a maturazione lo sporofito produce meiospore (n, aploidi), che possono
sopravvivere per lungo tempo indipendentemente dalla presenza di acqua.
In condizioni favorevoli le meiospore germinano e producono un gametofito (n), in grado di
generare dei gameti aploidi. Dall’unione di due gameti aploidi si ottiene un individuo diploide con
corredo cromosomico unico.

Formazione dei gameti negli animali

Il ciclo vitale di un animale è detto diplonte in quanto gli individui della specie sono sempre
diploidi. Uno zigote, originato dall’unione di due gameti aploidi, si divide per mitosi fino a un
organismo multicellulare complesso, in grado di produrre gameti in strutture specializzate, le
gonadi. Negli animali a sesso differenziato i gameti sono strutturalmente e funzionalmente
differenti e prendono il nome di spermatozoi e uova, e subiscono pertanto una maturazione
differente. I gameti degli animali nascono dalla meiosi di cellule germinali diploidi (gametogenesi).
Si invita a rivedere il meccanismo di meiosi.

Nei maschi il processo è detto spermatogenesi: una cellula germinale va incontro a meiosi
generando due cellule aploidi ma con una duplice copia di ciascun cromatide (meiosi I); il corredo
cromosomico a questo punto viene ulteriormente ridotto (meiosi II) e si formano 4 gameti aploidi
detti spermatociti, che vanno incontro a maturazione fino allo stadio di 4 spermatozoi per meiosi.
Anche la maturazione dei gameti femminili (oogenesi) richiede una divisione meiotica: una cellula
germinale duplica il corredo cromosomico (2n, 4c) e va incontro alla meiosi I producendo due
cellule aploidi (1n, 2c); particolarità di questa meiosi è che il citoplasma non viene diviso in
maniera uguale, ma si forma una cellula più grande (oocita primario) e un globulo polare primario,
di dimensioni ridotte. Tali cellule vanno incontro a meiosi II: si formano due globuli polari
secondari (dal globulo polare primario) e ancora una volta il citoplasma dell’oocita primario è
spartito in modo ineguale, formando l’oocita secondario e un ulteriore globulo polare (secondario).
A differenza della spermatogenesi pertanto, si forma un unico gamete funzionante (ovulo
secondario) mentre i 3 globuli polari vengono riassorbiti a fine processo.
Riassumendo graficamente la gametogenesi:
SEZIONE 5 - GENETICA MENDELIANA

Mendel (negli anni compresi fra il 1854 e il 1864) fu il primo a capire come avveniva la
trasmissione dei caratteri ereditari di generazione in generazione, il tutto senza avere cognizione di
cosa fosse e di come funzionasse il DNA, i cromosomi e tutto quello di cui abbiamo parlato nei
capitoli precedenti.

Tutte le conclusioni di Mendel possono essere riassunte in questo modo:


• Le unità base della trasmissione ereditaria (che oggi sappiamo essere i geni) sono presenti a
coppie
• Queste unità mantengono nel tempo le loro caratteristiche
• Gli esemplari di ogni coppia di geni si separano (segregano) durante la formazione dei
gameti

Mendel giunse a tali conclusioni mediante esperimenti su piante di pisello (Pisum sativum).
La scelta fu ottima in quanto erano piante facilmente reperibili, facili da coltivare, di rapida crescita
e il fiore si auto-impollinava. La sua attenzione cadde su sette coppie di facile distinzione per forma
del seme (liscio o rugoso) e colore (giallo, verde).

I diversi tipi di pianta che rimanevano uguali a se stessi ad ogni raccolta, vennero chiamate linee
pure. Gli incroci di piante di linea pura, che differivano solo per un carattere, vennero chiamate
incroci monoibridi, quelle che differivano per due caratteri incroci diibridi.
È bene porre l’attenzione su come Mendel nel 1800 sia giunto a delle conclusioni che oggi trovano
riscontro nella moderna teoria genetica.

Leggi fondamentali dell’ereditarietà e applicazioni

Con il termine ereditarietà genica si intende la trasmissione da una generazione iniziale (F0) a una
successiva (F1, F2…) di caratteri (fenotipo) determinati da un particolare assetto genico
(genotipo).

Un carattere genico viene considerato dominante quanto si esprime (ovvero determina il fenotipo)
sia in omozigosi che in eterozigosi (sovrasta cioè il carattere recessivo).
Un carattere è detto invece recessivo quando per manifestarsi (fenotipo) richiede che sia presente in
duplice copia (in omozigosi) nell’individuo. Si veda la I legge di Mendel per maggiori chiarimenti.

Generalmente il carattere dominante è indicato con una lettera maiuscola (es. A) mentre quello
recessivo con una lettera minuscola (es. a).

Dalle tre osservazioni, che verranno spiegate via via, Mendel poté definire le sue celebri leggi.

1. Gli individui di generazione F1, nati dall'incrocio di due linee pure differenti per un solo
carattere ereditario, sono fenotipicamente identici e mostrano tutti il carattere dominante
proveniente da uno dei due genitori (legge della dominanza)

2. Ogni individuo eredita due alleli che si separano durante la formazione dei gameti, uno per
gamete (legge della segregazione). Gli individui che hanno due alleli uguali per un
determinato carattere sono chiamati omozigoti per quel carattere, mentre quelli con due
alleli diversi sono detti eterozigoti

3. Se si incrociano individui di linea pura che differiscono per due caratteri, nella seconda
generazione F2, durante la formazione dei gameti, i caratteri si assemblano
indipendentemente gli uni dagli altri (legge dell'assortimento indipendente).
Prima legge

La legge della dominanza nacque dall'osservazione


empirica di alcuni esperimenti.
Prima di descrivere l'esperimento definiamo:
dominante il carattere che si manifesta nella prima
generazione figlia F1; recessivo il carattere che non
si manifesta in F1.
Si indica “AA” il genotipo omozigote dominante e
“aa” il genotipo omozigote recessivo, “Aa” il
genotipo eterozigote.

In questo primo esperimento Mendel incrociò piante


di linea pura che possedevano solo un carattere
differente l'una dalle altre (ad esempio una pianta a
seme giallo ed una a seme verde); queste sono
chiamate generazioni parentali (P). Osservò che gli
individui F1 mostravano tutti lo stesso fenotipo,
uguale a quello di un solo genitore (ad esempio
seme giallo). Il carattere seme rugoso era
scomparso. Mendel chiamò dominante il carattere
che si conservava e manifestava in F1 e recessivo quello che invece non si manifestava.

NB: AA, aa, Aa indicano un genotipo; i termini liscio, rugoso, giallo, verde, e così via indicano la
manifestazione del genotipo, ossia il fenotipo.

Osservazione empirica: il metodo dell'Empirismo è quello induttivo o sperimentale (e quindi osservazione empirica)
che va dai particolari alla legge generale. L' Empirismo fonda le sue attività unicamente sull'esperienza, in quanto tutte
le nostre conoscenze sono fondate proprio dalla esperienza dei fatti vissuti. Il principale esponente di questa corrente è
Francesco Bacone.
Seconda legge

La seconda legge di Mendel, o legge della segregazione, afferma che ogni individuo possiede due
alleli per ciascun gene che successivamente segregano, nella meiosi, uno per gamete.

La seconda legge di Mendel nasce da una


serie di osservazioni che successivamente
si rivelarono corrette.

Nell'esperimento, Mendel, fece


autofecondare la F1 avendo come
risultato una F2 che mostrava entrambi i
caratteri della generazione parentale P (ad
esempio, sia di seme giallo che di seme
verde), con fenotipo riconducibile al tratto
dominante e a quello recessivo.
Pertanto il carattere recessivo scomparso
nella F1 a livello fenotipico (ma non a
livello del genotipo) ricompare nella
generazione F2.

Ripetendo molte volte l'esperimento


Mendel fu in grado di dare anche un
valore numerico alle varie possibilità
fenotipiche:

• Tre volte su quattro (3/4) si presentava il carattere dominante che, nel caso del colore del
seme, era il carattere giallo
• Una volta su quattro (1/4) si presentava il carattere recessivo che, sempre nel caso del colore
del seme, era il seme verde

Mendel chiamò “fattore” (oggi gene) la “particella” che determinava uno specifico carattere
trasmesso attraverso i gameti nel processo di riproduzione, dai genitori (P) alla prole (F).

Osservò che i geni esistono in più forme alternative, gli alleli. Ipotizzò che un individuo possedesse
due copie di ciascun fattore per ogni carattere ereditato (dunque due alleli per ogni gene); ogni
fattore deriva da uno dei due genitori. Infine le due copie di un fattore si separano nella meiosi per
far sì che i gameti possiedano un'unica copia per ciascun carattere.

Parimenti, lo studioso fu in grado di definire le variabilità genotipiche della F2:

• Una volta su quattro (¼) il risultato della autofecondazione era la classe genotipica degli
omozigoti dominanti AA (che fenotipicamente corrisponde alla piante con seme giallo);
• Due volte su quattro (2/4) il risultato era la classe genotipica degli eterozigoti Aa (che
fenotipicamente corrisponde alle piante con seme giallo);
• Una volta su quattro (¼) il risultato era la classe genotipica degli omozigoti recessivi aa
(che fonotipicamente corrisponde alla pianta con seme verde).
Incrocio a due fattori (incrocio diibrido) - Terza legge

Mendel eseguì un incrocio tra piante di pisello della linea pura che presentavano
contemporaneamente due diversi caratteri (seme giallo e liscio, seme verde e rugoso). Quelle a
seme giallo e liscio avevano genotipo dominante AABB, quelle a seme verde e rugoso aabb.
La generazione figlia F1 manifestava in tutte le piante figlie lo stesso genotipo eterozigote AaBb
come dunque lo stesso fenotipo ovvero seme giallo e liscio (vedi I legge).
In pratica un gamete prodotto dalla generazione F1 (AaBb) che contiene l'allele A può avere anche
l'allele B o b dell'altro gene con la stessa probabilità, lo stesso vale anche per l'allele a.

Un doppio eteroziogote può generare perciò 4 tipi di gameti: ¼ AB, ¼ Ab, ¼ aB, ¼ ab.

Incrociò in seguito gli F1 osservando in F2 la ricomparsa degli alleli recessivi, ma anche di incroci
inediti e non visti nella generazione parentale come piante a seme giallo e rugoso o verde e liscio,
fenotipi detti ricombinanti.

Queste osservazioni portarono a definire la terza legge nota come legge dell'assortimento
indipendente, che afferma che alleli posizionati su cromosomi non omologhi (ovvero diversi) si
distribuiscono in modo casuale nei gameti (cioè possono segregare indipendenti gli uni dagli altri).

Come dimostra la figura, incrociando una pianta a seme liscio e giallo con una pianta a seme verde
e rugoso, si avranno nella F2 16 possibili combinazioni (il cui rapporto è 9:3:3:1).

Tali combinazioni corrispondono a 4 classi fenotipiche e a 9 classi genotipiche:


Curiosità:
Mentre un individuo con fenotipo recessivo è determinato certamente da un genotipo omozigote
recessivo, la stessa sicurezza non si ha nel caso di individuo con fenotipo dominante, in quanto
quest'ultimo può essere espressione di un omozigote dominante come di un eterozigote.

Il genotipo di un individuo con fenotipo dominante può, però, essere determinato tramite il back-
cross o test cross, ovvero effettuando un reincrocio.

Semplicemente il test consiste nell'incrociare l'individuo con fenotipo dominante, ma genotipo


dubbio, con un individuo a fenotipo recessivo (quindi con genotipo recessivo certo).

I risultati, ovviamente, potranno essere di due tipi (l'uno esclude l'altro):


1. Si ottengono sempre individui con fenotipo dominante il che significa che l'individuo,
fenotipicamente dominante, aveva alla base un genotipo omozigote dominante, che
incrociandosi ha dato eterozigoti in cui ha prevalso fenotipicamente il carattere dominante;
2. Metà individui con fenotipo dominante e metà con fenotipo recessivo. Il che significa che
l'individuo fenotipicamente dominante aveva alla base un genotipo eterozigote, che
incrociandosi ha dato due eterozigoti in cui ha prevalso fenotipicamente il carattere
dominante e due omozigoti recessivi.

Il quadrato di Punnett

Le probabilità delle combinazioni genotipiche che si possono verificare nella F1 o F2, possono
essere valutate costruendo il famoso quadrato di Punnett come illustrato in figura:

Lo schema è una tabella a due entrate che riporta sui due lati i vari alleli che ciascun genitore
parentale può trasmettere alla prole, dunque la probabilità che quell'allele possa essere contenuto
nei gameti.

L'incrocio tra madre omozigote dominante PP e padre omozigote recessivo pp porta alla formazione
di gameti tutti eterozigoti Pp. Dunque il genotipo F1 sarà eterozigote, ma il fenotipo (le
caratteristiche visibili) saranno quelle della madre (in questo caso petali viola).
A volte la trasmissione dei caratteri ereditari segue leggi più complesse di quelle di cui sopra:

Fenomeno ereditario Definizione


Dominanza incompleta Nessuno dei due alleli di un gene domina sull'altro, per cui gli eterozigoti
pur condividendo lo stesso genotipo hanno fenotipo diverso da quello
parentale. es. Incrocio tra una pianta a fiore rosso ed una a fiore bianco si
otterranno piante F1 a fiore rosa. Reincrociando si otterranno piante F2
con tre classi genotipiche in rapporto 1:2:1.(anziché due classi in
rapporto 3:1) Dunque ¼ a fiore rosso, 2/4 a fiore rosa e ¼ a fiore bianco
Codominanza Nell'eterozigote si esprimono entrambi gli alleli di un gene (es. Nei gruppi
sanguigni).
Epistasi Interferenza di un gene sull’espressione di altri geni.
Pleiotropia Un singolo gene determina più effetti fenotipici
Alleli multipli Alcuni geni hanno più di due alleli (es. Gruppi sanguigni controllati tra tre
alleli differenti IA IB e I0 la cui combinazione determina il gruppo A, B,
AB e 0)
SEZIONE 6- GENETICA CLASSICA

Teoria cromosomica dell'ereditarietà

La teoria cromosomica dell’ereditarietà è stata postulata agli inizi del 1900 da Sutton e Boveri, in
modo indipendente e grazie al perfezionamento delle tecniche di microscopia. Essa affermava che i
geni fossero contenuti nei cromosomi in posizioni specifiche dette locus genico.

Gli studiosi osservarono una forte somiglianza tra i processi caratteristici dei cromosomi durante la
mitosi e meiosi e il comportamento dei geni così come lo aveva descritto Mendel.

Secondo Mendel i geni erano presenti in coppia e si dividevano nei gameti. Gli scienziati
mostrarono solo un secolo più tardi come anche i cromosomi fossero in coppia e che il loro
numero nelle cellule somatiche era il doppio rispetto al numero nei gameti.

Inoltre, la terza legge di Mendel afferma che coppie di geni distinti segregano in modo
indipendente. Studiando cariotipi particolari capirono che l'assortimento dei cromosomi in
seguito a loro divisione era casuale e indipendente dagli altri cromosomi.

Una prova indiretta di questa teoria fu apportata dagli studi di Thomas Hunt Morgan. A questo
proposito furono importantissime le prime osservazioni sui cromosomi sessuali (X e Y). In alcuni
organismi la presenza di una coppia XY era associata al sesso maschile, quella XX al sesso
femminile. Morgan approfittò delle mutazioni nella Drosophila (moscerino della frutta) e scoprì che
alcuni geni (ad esempio il colore degli occhi) erano anch'essi associati al sesso. Questo perché il
modo con cui venivano ereditati si spiegava solo se i geni si consideravano posti sui cromosomi
sessuali (in particolare il cromosoma X).

Cromosomi sessuali – Mappe cromosomiche

Nel mondo animale il sesso dell'individuo è determinato da meccanismi differenti, questi possono
essere di natura genetica o ambientale.
La determinazione del sesso negli animali può avvenire al momento della fecondazione
(determinazione del sesso singamica), prima o dopo la fecondazione (determinazione ambientale
del sesso).
In alcune specie risulta essere controllato da un complesso di fattori dinamici come i segnali
ormonali e visivi; in alcuni rettili ad esempio il fenotipo sessuale dipende dalla temperatura di
incubazione dell'embrione. Sono poi presenti in natura esempi di alcune specie di pesci o rospi in
cui il sesso può variare nel corso della vita.
In altre specie è il differente corredo cromosomico dei due sessi a fornire un mezzo intrinseco per la
determinazione del sesso. Infatti il meccanismo responsabile alla sua determinazione è di tipo
genetico ed è controllato da due fattori differenti: il dosaggio-dipendente e quello basato sulla
presenza di un gene dominante.
La determinazione cromosomica del sesso impone la presenza di cromosomi sessuali, gli
eterosomi, che sono tra loro omologhi, ma diversi per forma e dimensioni (gli altri cromosomi
vengono detti autosomi).
Durante la meiosi i cromosomi sessuali si appaiano comportandosi da omologhi. Nella maggior
parte dei mammiferi i maschi sono portatori di una coppia di cromosomi sessuali (XY), mentre le
femmine hanno due cromosomi sessuali identici (XX).
I cromosomi sessuali X e Y sono differenti per dimensioni e forma e ciò riflette il differente
contenuto genetico: il cromosoma Y, molto più piccolo, possiede geni meno numerosi e differenti
da quelli portati dal cromosoma X.
Poiché sono molto differenti, i cromosomi X e Y appaiano solo in una regione piccolissima del
cromosoma, l’unica a poter ricombinare: pertanto il cromosoma Y è praticamente identico lungo la
linea patriarcale di un individuo.
I cromosomi sessuali sono costituiti da DNA su cui si legano numerose proteine e la loro
organizzazione tridimensionale rispetta quella degli altri cromosomi, definiti autosomi. La
differenza tra autosomi e cromosomi sessuali sta nel loro contenuto in termini di geni.
I cromosomi sessuali non contengono gli stessi geni. X e Y presentano dei geni specifici per il
determinismo del sesso, ma anche geni indispensabili per numerosi altri compiti cellulari.
Ad esempio, il gene il cui allele recessivo causa il daltonismo si trova sul cromosoma X. Di
conseguenza, una femmina può essere eterozigote per questo gene, ovvero avere un allele “sano” e
uno che porta la malattia, ed essere quindi portatrice sana. Il maschio, che invece porta l’allele
malato del daltonismo, sarà obbligatoriamente daltonico, questo perché non possiede la controparte
allelica per evitare la malattia. La femmina invece per essere malata dovrà avere entrambi i
cromosomi X mutati.
Una ulteriore complicazione nei fenotipi determinati dai cromosomi sessuali risiede nel fatto che in
una femmina i cromosomi sessuali X non sono mai contemporaneamente attivi, ma uno dei due (è
casuale quale) viene inattivato in tutte le linee cellulari mediante una elevata compattazione
cromatinica. Pertanto il fenotipo è dato dalla X che viene mantenuta attiva.

Mappe cromosomiche

Una mappa cromosomica è l’analisi strutturale completa di tutti i cromosomi. Questa indagine è
conosciuta anche con il termine di cariotipo. Spesso si richiede un esame clinico del cariotipo alle
donne in gravidanza per valutare eventuali anomalie cromosomiche del feto.
Un mezzo per ricavare il cariotipo è la villocentesi o la più tardiva l’amniocentesi, da cui si ricavano
delle cellule del feto che vengono fatte crescere in provetta per poi essere bloccate in metafase; in
questo modo i cromosomi si trovano allineati e condensati e possono essere analizzati al
microscopio per ricavare una mappa cromosomica del feto.
Anomalie in numero o struttura (delezioni o duplicazioni di regioni cromosomiche) sono spesso
associate a patologie molto gravi ed è importantissima per tanto la diagnosi prenatale in soggetti a
rischio.
Genetica molecolare, DNA e geni, codice genetico e sua traduzione, sintesi
proteica

La genetica molecolare è una disciplina scientifica volta allo studio della struttura e della funzione
dei geni a livello molecolare che focalizza l’attenzione su tutta una serie di cambiamenti strutturali e
non che interessano il DNA, l’ RNA e le proteine e che possono essere correlati ad un particolare
fenotipo spesso patologico.

DNA e geni
Johan Friedrich Miescher fu un biologo svizzero, che isolò per la prima volta gli acidi nucleici.
Miescher, proveniente da una famiglia molto in vista nella comunità scientifica, studiò medicina ma
a causa di una febbre tifoide che, nel 1865, gli provocò gravi problemi all’udito, decise di
abbandonare la carriera medica per potersi dedicare a quella di chimico fisiologo.
Particolarmente interessato alla chimica dei nuclei, Miescher, raccoglieva i leucociti da bende piene
di pus provenienti dai vicini ospedali, e separava i nuclei dal citoplasma sottoponendo le cellule a
particolari protocolli in cui venivano usate, alternativamente, soluzioni alcaline e acide. Il
precipitato formatosi in seguito a questo trattamento fu chiamato nucleina, una sostanza acida
composta principalmente di azoto e fosforo che, in seguito, sarebbe stata chiamata acido
desossiribonucleico, o DNA.
Tuttavia nonostante gli innumerevoli studi sulla chimica degli acidi nucleici, la loro funzione
continuava a non essere chiara.

Sessant'anni più tardi, un ufficiale medico inglese, Frederick Griffith, durante il tentativo di
ottenere un vaccino contro la polmonite, riuscì ad isolare due ceppi (sierotipi) di Streptococcus
pneumoniae, l’agente eziologico causa della polmonite. Un ceppo fu chiamato R, perché cresceva
sotto forma di colonie rugose, l'altro ceppo fu chiamato S, perché cresceva come colonie lisce e su
questi due ceppi intraprese una serie di esperimenti.
Il primo esperimento fu allestito iniettando
cellule di tipo R sui topi, i quali non contrarrono la
polmonite, per questo il ceppo R fu ritenuto innocuo.
In seguito, iniettò in altri topi cellule vive del tipo S:
in questo caso i topi morirono e i loro campioni di
sangue risultarono contaminati da cellule batteriche
vive di tipo S.
Il ceppo S fu giustamente ritenuto patogeno
(per patogeno si intende qualsiasi organismo in grado
di indurre malattia) e identificato come agente
causale della polmonite. In seguito a questi risultati,
decise di sottoporre le cellule batteriche S ad elevate
temperature ed iniettarne i microrganismi morti nei
topi, che in questo caso non morirono, nonostante il
ceppo iniettato fosse quello patogeno (S). Infine, unì
cellule di tipo R con cellule S uccise al calore; i topi
inoculati con questa miscela non sopravvissero e nei
campioni di sangue dei topi del quarto esperimento furono presenti cellule vive S.
Che cosa è accaduto durante il quarto esperimento? Se le cellule S, uccise dal calore non
sono realmente morte, allora perché i topi iniettati con le stesse cellule nel terzo esperimento non
sono deceduti? Se le cellule R, risultate innocue, sono mutate in cellule killer, perché i topi iniettati
con le cellule R nel primo esperimento non sono morti?
Prima di leggere la risposta, si invita lo studente a fare uno sforzo e cercare a fornire una
soluzione ai quesiti posti sopra.
La spiegazione più semplice che può essere data è che alcuni batteri R, in seguito
all'interazione con batteri morti S si erano trasformati in S patogeni. Evidentemente all'interno dei
batteri S morti doveva essere presente una qualche sostanza in grado di conferire, ai batteri R che
l'acquisivano, la capacità patogenica in grado di indurre la malattia. Questa sostanza è il materiale
genetico. Griffith chiamò il materiale genetico principio trasformante ed erroneamente, come però
la stragrande maggioranza degli scienziati suoi contemporanei, riteneva che questa sostanza fosse di
natura proteica.
Quindi il calore uccise sì i batteri di tipo S, ma non distrusse il loro materiale genetico che
contenendo la porzione patogenica, fu in grado di generare malattia nei topi.
In qualche modo, il materiale genico si trasferì dalle cellule morte S alle cellule R vive, in
cui si integrò “attivandole” e rendendole patogene. Anche dopo centinaia di generazioni, i
discendenti delle cellule R trasformate risultavano infettivi.
A partire da questo importantissimo esperimento, Avery, MacLeod e
McCarty nel 1943 dimostrarono che la sostanza denominata "principio di trasformazione” da
Griffith era il DNA. Per far ciò hanno impiegato un processo di eliminazione selettiva di ogni tipo
di componente molecolare delle cellule S: hanno ripetutamente congelato e scongelato cellule S (i
cristalli di ghiaccio che si formano durante i cicli di congelamento-scongelamento determinano la
rottura delle membrane, liberando così il contenuto cellulare) per poi filtrare le varie
macromolecole intatte separandole così dal resto del contenuto cellulare.
Alla fine di questo processo, i ricercatori ottennero un lisato contenente lipidi, proteine
polisaccaridi e acidi nucleici di cellule di tipo S. Successivamente trattarono le cellule R con le
differenzi frazioni ottenute dal lisato e, iniettandole nelle cavie, dedussero che i lipidi, le proteine e i
polisaccaridi non erano in grado di trasformare i batteri R (avirulenti) in batteri S (virulenti) e che
l’unica classe di biomolecole capace di indurre la trasformazione fosse quella degli acidi nucleici
(DNA e/o RNA).
Cosi, per identificare la vera molecola capace di indurre trasformazione batterica, l’estratto di acidi
nucleici venne suddiviso in due aliquote. La prima viene trattata con desossiribonucleasi (DNasi)
che degrada selettivamente il DNA e non l'RNA, la seconda con l'enzima ribonucleasi (RNasi) che
degrada selettivamente l'RNA e non il DNA. L'estratto di cellule S poteva ancora trasformare quelle
di tipo R anche dopo il trattamento con agenti che andavano a degradare l'RNA, ma non dopo
trattamento con sostanze che degradavano il DNA!
L'ovvia deduzione fu che il fattore che trasformava le cellule R in S doveva essere il DNA.

Il risultato sorprese i ricercatori perché, insieme a molti altri scienziati, avevano ipotizzato
che le proteine fossero le molecole responsabile dell'ereditarietà. I due scienziati erano così scettici
che pubblicarono i loro risultati solo dopo anni di accurata sperimentazione e solo dopo essere
convinti che il DNA fosse realmente il materiale genetico. Nella pubblicazione precisarono
comunque che non furono in grado di dimostrare che il DNA fosse il solo materiale responsabile
dell’ereditarietà dei caratteri.

La conferma della funzione del DNA


La prova definitiva che il materiale genetico sia costituito da DNA e non da proteine fu data nel
1950, grazie all’esperimento di Alfred D. Hershey e Martha Chase.
I ricercatori riuscirono ad identificare un tipo di virus che infetta i batteri e ne utilizza l'apparato
biosintetico per replicare il proprio DNA e per sintetizzare le proteine della sua capsula di
rivestimento, tale virus fu chiamato batteriofago. Come tutti i virus, queste particelle infettive
portano informazioni ereditarie relative alla loro replicazione; dopo che un virus infetta una cellula,
infatti, questa viene indotta a produrre nuove particelle di virus.
Durante le prime ricerche effettuate, fu scoperto che i batteriofagi iniettavano materiale genetico nei
batteri, ma tale materiale era DNA, proteine, o entrambi? Hershey e Chase trovarono la risposta a
questa domanda sfruttando le proprietà delle proteine (alto contenuto di zolfo) e del DNA (alto
contenuto di fosforo) tramite un esperimento che prevedeva l’allestimento di due colture batteriche.
Esperimento: in un terreno di coltura introdussero fosforo marcato (l'isotopo 32P), nell’altro
introdussero zolfo marcato (l'isotopo 35S). I batteri delle due colture metabolizzarono questi atomi
radioattivi introducendoli nelle biomolecole presenti all'interno delle cellule stesse. Il fosforo si
troverà in gran parte nei nucleotidi e quindi negli acidi nucleici; mentre lo zolfo si troverà
nelle proteine.
A questo punto i ricercatori infettarono parallelamente le colture batteriche con il batteriofago
(questo userà le risorse della cellula batterica per potersi replicare). Quindi: i fagi sviluppati
dall'infezione nella prima coltura avranno un DNA marcato radioattivamente, mentre quelli
sviluppati dall'infezione della seconda coltura avranno il rivestimento proteico esterno marcato
radioattivamente.
Successivamente i nuovi cloni dei batteriofagi prodotti verranno utilizzati per infettare cellule
batteriche fatte crescere in terreni ci coltura non marcati radioattivamente.
Nelle colonie batteriche infettate con fagi aventi il DNA marcato, si misurò gran parte della
radioattività all'interno delle cellule batteriche colpite, mentre nelle colonie batteriche infettate da
fagi aventi il rivestimento proteico marcato, la radioattività veniva misurata
solamente all'esterno delle cellule batteriche colpite.
Tramite questo esperimento i due ricercatori dedussero che il DNA e non le proteine, erano il
materiale di eredità comune a tutta la vita sulla terra.
(immagine esplicativa dell’esperimento con didascalia)

La struttura del DNA

Una volta appurato che il DNA fosse la molecola capace di trasmette l’informazione genetica ci si è
interrogati su quale fosse la sua struttura. Il DNA consiste in due filamenti di polinucleotidi
(polimero di nucleotidi) avvolti insieme per formare una lunga e sottile molecola: il DNA a doppio
filamento. Nonostante questa catena
possa essere lunga miliardi di
nucleotidi, essa è composta solo da
quattro di essi:

1. Adenina
2. Guanina
3. Timina
4. Citosina

Per capire come queste quattro molecole interagissero tra loro, ci sono voluti 50 anni di studi e
ricerche. Nel 1950 Erwin Chargaff, fece due scoperte.
• La quantità di timina nel DNA era la stessa dell'adenina.
• La quantità di citosina nel DNA era la stessa della guanina.
Quindi: T=A e C=G
La seconda scoperta fu che le quantità di adenina e guanina del DNA differiscono in proporzione
nelle diverse specie. Nel frattempo, Watson e Crick iniziarono a ipotizzare quale potesse essere la
struttura del DNA. La forma elicoidale della struttura secondaria di molte proteine era appena stata
scoperta e i due sospettavano che anche il DNA avesse tale forma.
Coinvolsero chimici, passarono ore nel creare modelli e a pensare agli angoli di legame.
Insieme a loro, nello stesso periodo ma in un altro paese Rosalind Franklin, stava parallelamente
lavorando alla struttura del DNA. Come gli altri due scienziati, era specializzata nella
cristallografia, disciplina nella quale si studia la struttura delle molecole indirizzando raggi x verso
una sostanza pura e cristallizzata. Gli atomi delle molecole della sostanza analizzata dividono i
raggi x in uno schema che può essere trasformato in immagine.
Tale tecnica poteva essere usata per identificare la grandezza, la forma e la configurazione
spaziale di tutti gli elementi ripetitivi di una molecola. In parole povere poteva essere ricavata
la struttura molecolare.
Il DNA è una molecole enorme e difficile da cristallizzare ed inoltre il DNA che si trova in
soluzione e quello disidratato hanno strutture diverse. Inizialmente Rosalind Franklin riuscì ad
avere una prima immagine chiara di diffrazione ai raggi X del DNA in soluzione (quello presente
all’interno delle cellule).
Dalle informazioni che riuscì ad ottenere dall’immagine, poté affermare come il DNA fosse
costituito da una lunga catena, caratterizzata da un diametro di 2 nanometri, riuscendo inoltre ad
identificare uno schema ripetitivo ogni 0.34 e 3.4 nanometri (in lunghezza).
L'immagine ricavata dalla diffrazione ai raggi X fu impiegata da Watson e Crick, che in questo
modo poterono integrare le informazioni in loro possesso e furono in grado di costruire il modello
del DNA a doppia elica. I legami tra lo zucchero di un nucleotide e il gruppo fosfato del nucleotide
successivo formavano la struttura portante di tutta la catena. I legami idrogeno tra le basi
all'interno tenevano insieme i due filamenti della doppia elica.

La sequenza del DNA


Solo due coppie di basi generano l'incredibile diversità che è possibile osservare in tutti gli esseri
viventi. Com’è possibile?
Anche se il DNA è composto da sole 4 basi, la sequenza in cui una coppia segue l'altra varia a
seconda delle specie.
Ad esempio una piccola porzione di DNA di un tulipano, di una cellula umana o di qualsiasi altro
organismo potrebbe essere:

si noti come i due filamenti di DNA coincidano perfettamente e come siano complementari, il che
significa che una base di un filamento è in grado di appaiarsi con la base del filamento opposto. Lo
schema di legame A - T, G - C è lo stesso in tutte le molecole di DNA, ma, come si accennava
prima, il tipo di coppia che segue la precedente è in funzione della specifica porzione di DNA che
si prende in considerazione, la cui composizione in basi può variare tra le specie come anche
all’interno dei singoli individui che appartengono alla medesima specie. Le informazioni contenute
all’interno della sequenza del DNA stanno alla base delle caratteristiche che identificano i singoli
individui, così come delle caratteristiche peculiari che consentono di discriminare tra le differenti
specie.

Replicazione e riparazione del DNA

Durante la maggior parte della vita di una cellula, questa contiene un solo set di cromosomi; nel
corso del periodo di replicazione cellulare la cellula duplica il suo set cromosomico per poterlo poi
spartire tra le due cellule figlie. Durante la mitosi (replicazione cellulare delle cellule somatiche)
una cellula copia il suo DNA prima di dividersi. Prima che inizi la replicazione i cromosomi hanno
una molecola di DNA in duplice copia, durante la replicazione, un enzima chiamato DNA elicasi,
rompe i legami idrogeno che tengono insieme la doppia elica del DNA e i due filamenti si
separano. Un altro enzima, la DNA polimerasi, crea il filamento complementare di DNA,
utilizzando come stampo la molecola di DNA del filamento controparte (per questo motivo si parla
di replicazione semiconservativa, in quanto da una molecola di DNA si ottengono due copie
identiche, in cui uno dei due filamenti generati contiene un filamento parentale). Quindi, dopo la
replicazione, si sono formate due coppie di molecole di DNA.
Riepilogando graficamente…
Partendo dell’alto, nella prima parte dell’immagine, i due filamenti di
DNA sono appaiati e i nucleotidi combaciano secondo le regole della
complementarietà tra le basi (A-T, uniti con due legami idrogeno e G-C, tenuti
insieme da tre legami idrogeno).
Nella seconda immagine, nel momento in cui inizia la replicazione, i due
filamenti di DNA sono separati per azione dell’enzima DNA elicasi; l’apertura
del doppio filamento determina la formazione dell’origine di replicazione. Per
mantenere il DNA a singolo filamento, intervengono delle proteine specifiche
che ne impediscono il naturale riappaiamento con il filamento complementare.
Nella terza immagine, ogni filamento parentale serve da stampo per la
creazione del nuovo filamento di DNA. Una primasi crea dei corti frammenti di
RNA che fungono da innesco per la reazione di polimerizzazione del filamento
nascente: la DNA polimerasi sintetizza in maniera continua in direzione 5’à3’,
mentre in direzione 3’à5’ il filamento è spezzato in frammenti, chiamati
frammenti di Okazaki, le cui estremità sono unite da una DNA ligasi. (vedi immagine seguente)
Nella quarta immagine, la DNA ligasi ha saldato i tagli che possono restare tra le basi del nuovo
DNA, così da ottenere una doppia elica completa.
Come vedremo, l'ordine dei nucleotidi in un filamento di DNA altro non è che l’informazione
genica e le cellule figlie devono ricevere una copia esatta di questa informazione.
La sequenza di ogni nuovo filamento di DNA è complementare a quello parentale grazie
all’azione precisa (enzima ad alta fedeltà) della DNA polimerasi.
Man mano che l'enzima si muove lungo la catena usa la sequenza delle basi del filamento parentale
come stampo per creare un nuovo filamento di DNA. La polimerasi aggiunge una T alla fine di un
nuovo filamento di DNA quando trova una A nella sequenza del DNA parentale, una G quando
trova una C e così via. Per la polimerizzazione (ovvero l’aggiunta di
nucleotidi uno di seguito all’altro), la DNA polimerasi catalizza il
legame del gruppo fosfato di un nucleotide al carbonio 3' del
successivo nucleotide mediante un legame fosfodiestere.
Il gruppo fosfato del desossiribonucleotide fornisce l'energia
per il proprio attacco alla fine del filamento di DNA. L'enzima DNA
ligasi chiude tutti i nick (tagli, in altre parole le discontinuità
nell’integrità del filamento ritardato, quello che viene duplicato in
direzione 3’à5’), in modo da avere un filamento di DNA completo
(doppia elica).
Com’è possibile osservare dall'immagine, solo uno dei due
nuovi filamenti nascenti di DNA è formato direttamente come un
unico filamento (direzione 5’à3’). L’altro filamento figlio è
duplicato in corti segmenti, chiamati frammenti di Okazaki.
Una molecola di DNA non è sempre replicata in modo
perfetto, può capitare che nell’elica di nuova sintesi, sia incorporata
una base sbagliata.
Il risultato è che avremo una molecola di DNA non esattamente
uguale a quella parentale.
Alcuni di questi errori sono possibili dopo che il DNA è stato esposto a radiazioni o ad agenti
chimici tossici. In molti casi, i meccanismi di riparazione del DNA, riparano lo stesso DNA per
via enzimatica, riaprendo e sostituendo il nucleotide sbagliato o mancante.
La maggior parte degli errori di replicazione avvengono perché la DNA polimerasi catalizza una
quantità enorme di reazioni, più di 1000 basi al secondo! Gli errori sono inevitabili. Ma l’enzima è
in grado di correggere gli errori occorsi durante la sintesi percependo la distorsione indotta
dall’erroneo appaiamento nucleotidico. Se ricordate quanto detto in precedenza, la DNA polimerasi
è in grado di catalizzare la reazione di aggiunta di nucleotidi alla catena nascente mediante un
legame fosfodiestere in direzione 5’à3’. Ma è anche in grado di compiere un’altra azione, ovvero
quella di ripercorrere a ritroso la catena del DNA, quindi in direzione 3’à5’ e di sostituire il
nucleotide sbagliato, sostituendolo con quello corretto attraverso la sua attività esonucleasica.
Quando questa rilettura e quindi il processo di riparazione falliscono, un errore è incorporato
come una mutazione, che si fissa come un cambiamento permanente nella sequenza del DNA.
Un individuo può anche non sopravvivere all’insorgenza di una o più mutazioni, che possono
tradursi con la trasformazione di una cellula somatica (caratterizzata da un corredo cromosomico
diploide e definibile come cellula che compone i tessuti di un organismo) in una cellula cancerosa,
che sfugge alla normale regolazione del ciclo cellulare, crescendo in maniera disordinata ed
incontrollata. Le mutazioni che incorrono in cellule della linea germinale (caratterizzate da un
corredo cromosomico aploide, che formano i gameti maschili e femminili, rispettivamente
spermatozoi e ovuli), possono portare a malattie genetiche che saranno trasmesse alla progenie.

C'è da precisare tuttavia che non tutte le mutazioni sono pericolose o letali, alcune di loro sono
silenti e non portano a nessuna conseguenza (in relazione alla caratteristica del codice genetico,
che si definisce degenerato, vedi capitolo successivo); altre invece, in rarissimi casi, possono dare
vita a mutazioni funzionali, che aumentano le capacità di un organismo di adattarsi all’ambiente in
cui vive, rendendolo più idoneo. Se la mutazione si fissa nel suo corredo genetico e l’individuo
portatore è in grado di riprodursi, tale caratteristica potrà essere trasmessa alla prole.

Il codice genetico e sua traduzione

Il codice genetico è un sistema di corrispondenza necessario alla traduzione in proteina del


messaggio contenuto nell'mRNA. Se questa corrispondenza fosse di 1:1, i quattro nucleotidi
dell'mRNA potrebbero generare solo 4 aminoacidi, dunque insufficienti per codificare tutti quelli
necessari alla costruzione delle proteine.
Il codice genetico disponendo di 4 "lettere" (le 4 diverse basi azotate) per specificare i 20
amminoacidi deve utilizzare un sistema differente. Si basa su “triplette” di nucleotidi chiamate
codoni. Si ottengono così 43 = 64 combinazioni diverse.
La tripletta AUG indica l'inizio della traduzione della catena proteica; ad essa corrisponde anche
l'amminoacido metionina.
Tre di queste triplette, le triplette non senso, non corrispondono a nessun amminoacido e sono utili
a segnalare la fine della traduzione della catena proteica, rappresentando infatti i codoni di STOP.
Il codice genetico NON è ambiguo ovvero ciascun codone specifica sempre per uno specifico
aminoacido.
Il codice genetico è però ridondante (detto per questo degenerato), poiché uno stesso
amminoacido è codificato da più di una tripletta. Le triplette che codificano per lo stesso
amminoacido sono molto simili e generalmente differiscono solo per l'ultima delle tre basi che
costituiscono una tripletta. Questa caratteristica ha suggerito l'ipotesi che l'informazione
fondamentale sia contenuta nelle prime due basi e che la terza serva a garantire una maggiore
specificità. Il codice genetico è universale, poiché è identico in tutti gli esseri viventi (ogni tripletta
ha lo stesso significato per tutti gli organismi).

La natura dell'informazione genetica


Abbiamo imparato che l'informazione genetica è contenuta nella sequenza nucleotidica, ovvero nel
susseguirsi ordinato delle basi che compongono la catena del DNA. Ora vedremo come la cellula
sia in grado di convertire questa informazione in componenti strutturali e funzionali.
Il DNA può essere inteso come un libro, un'enciclopedia che contiene tutte le informazioni per la
costruzione di un nuovo individuo e, seguendo sempre questa similitudine, le lettere impiegate per
codificare le informazione in essa contenute sono le quattro basi azotate A, T, G e C. La sequenza
lineare di questi nucleotidi rappresenta l'informazione genetica, che si torva in specifiche regioni
lungo la catena del DNA, chiamate geni.

Conversione di un gene in RNA


La conversione dell’informazione contenuta in un gene
inizia con la sintesi dell'RNA, fenomeno noto come
trascrizione. Con questo processo gli enzimi usano la
sequenza dei nucleotidi di un gene come base per sintetizzare un filamento di RNA (acido
ribonucleico).
Fatta eccezione per il doppio filamento di RNA che è materiale genetico di alcuni tipi di
virus, l'RNA lo troviamo come singolo filamento che è strutturalmente simile al singolo filamento
di DNA, ma tra i due esistono importanti differenze. I due acidi nucleici, vengono chiamati, a
seconda dello zucchero di provenienza, ribosio e deossiribosio, che differiscono per un gruppo
funzionale.
Tre dei nucleotidi visti nel DNA sono uguali anche nell'RNA, ma la quarta base è rappresentata
dall'uracile e non dalla timina.

Nonostante la differenza tra i due sembri piccola, il DNA e l'RNA hanno funzioni diverse. Il ruolo
del DNA è quello di costituire il materiale genetico di una cellula, mentre la stessa cellula produce
diversi tipi di RNA, ed ognuno di essi ha un ruolo ben preciso.
Tre tipi di RNA hanno un ruolo nella sintesi delle proteine:
• RNA ribosomiale (rRNA) che è il componente principale dei ribosomi
• RNA di trasporto (tRNA) che trasporta gli aminoacidi liberi nel citoplasma fino ai
ribosomi nel preciso ordine dettato dal mRNA
• RNA messaggero (mRNA), che contiene le informazioni necessarie alla traduzione
proteica.
L'mRNA è il solo tipo di RNA che porta l'informazione per la costruzione delle proteine, tale
messaggio è racchiuso in una sequenza di mRNA formata da una tripletta (tre nucleotidi) che si
susseguono uno dopo l'altro, lungo il filamento di mRNA come l'ordine delle parole in una
domanda, che in questo caso porteranno alla formazione di una sequenza di aminoacidi di una
proteina.
Attraverso il processo di traduzione, le
informazioni per la sintesi di una proteina
contenute nell'mRNA sono tradotte in una
sequenza di aminoacidi che porta ad una
catena polipeptidica che si ripiega e si struttura per formare una proteina.
Il processo di trascrizione e di traduzione sono fenomeni dell'espressione genetica grazie ai quali
l'informazione genetica contenuta in un gene è convertita in una parte strutturale o funzionale di una
nuova cellula.
La sequenza di DNA di una cellula contiene
tutte le informazioni utili alla sintesi delle molecole
che consentono un corretto sviluppo e susseguirsi
della vita (vedi capitolo 1).

Alcune delle proteine che si formano attraverso il ruolo svolto dalle differenti tipologie di RNA
sono enzimi, la cui attività è in grado di portare alla produzione di lipidi e carboidrati complessi,
sintesi di proteine, duplicazione del DNA e produzione di RNA.

Riassumiamo i concetti base:


Gene Sequenza del DNA che contiene le informazioni per la codifica di un
RNA messaggero

Espressione genica Processo attraverso il quale le informazione genetiche vengono


convertite in RNA e quindi in proteine

RNA messaggero (mRNA) Tipo di RNA che trasporta le informazioni per la sintesi delle proteine

RNA ribosomiale (rRNA) Tipo di RNA che costituisce la componente principale dei ribosomi

Trascrizione Processo attraverso il quale viene trascritto RNA dalla sequenza


nucleotidica, usando come stampo la sequenza di DNA

RNA transfer (tRNA) Tipo di RNA che veicola gli aminoacidi ai ribosomi durante la
traduzione proteica

Traduzione Processo attraverso il quale viene formata una catena polipeptidica


partendo da singoli aminoacidi nell'orine specificato dall'mRNA
Il DNA dei procarioti

Se ricordate il capitolo in cui si è parlato della cellula procariotica, si è detto che la regione nucleare
della cellula, detta nucleoide, è immersa nel citoplasma senza alcuna protezione (nessuna membrana
nucleare) e appare come una struttura irregolare con addensamenti di fibre sottili del diametro di 3-
5 nm. Il nucleoide dei procarioti è formato da una singola molecole di DNA circolare di
lunghezza compresa tra 250 e 1500 µm, con associate molecole proteiche che mantengono l’acido
nucleico in una forma compatta.
I procarioti, a differenza degli eucarioti, possiedono un unico cromosoma a forma circolare
chiamato plasmide, in grado di conferire alla cellula procariotica capacità aggiuntive.
Il materiale genetico del procariote è di quantità inferiore rispetto ad una cellula eucariote. Più un
organismo è complesso, maggiore sarà la quantità di geni coinvolti nelle funzioni vitali,
metaboliche e funzionali dell'organismo; dunque sarà maggiore la quantità di materiale genetico
necessario.
Il DNA dei procarioti è presente in singola copia, dunque i geni non avranno la controparte allelica
e perciò l’effetto di un allele recessivo non potrà essere bilanciato. Non si parlerà quindi di
eterozigosi o omozigosi.
Un corredo genomico così poco complesso rende i procarioti più propensi ad un rapido e continuo
scambio di materiale genetico. Le infezioni batteriche sono più difficili da debellare poiché i geni
che consentono la resistenza ai farmaci impiegati (vedi enzimi capaci di metabolizzare e rendere
inefficace l’impiego di antibiotici), possono essere trasferiti da un batterio all’altro, donando
proprietà di cui era in precedenza privo.
Non pensiate comunque che i procarioti, in relazione alle dimensioni della cellula, abbiano una
quantità di materiale genetico minore. Infatti, un cromosoma circolare di Escherichia coli misura
circa 1 mm, ma il batterio misura circa 2 µm!

Replicazione

È possibile suddividere la replicazione del DNA procariotico in 3 fasi:


• Inizio: si ha il riconoscimento dei siti in cui deve avere inizio la replicazione della doppia
elica
• Allungamento: i filamenti sono copiati
• Terminazione: completamento della replicazione del DNA

La fase iniziale del processo NON è casuale, dunque non avviene in un punto qualsiasi del DNA,
ma ha inizio in una posizione specifica nota come origine della replicazione. A questo livello si
formano le forcine di replicazione che procedono in direzione opposta lungo il filamento di DNA.
La replicazione dunque è un processo bidirezionale. Generalmente nei procarioti si ha una sola
forcina di replicazione capace di duplicare migliaia di kb (kilobasi) di DNA, mentre in quello
eucariotico si osservano numerose origini di replicazione.
Nel batterio E. coli è nota come OriC e si estende per circa 245 coppie di basi. La sequenza di
questo segmento genico contiene due brevi ripetizioni, una di 9 l'altra di 13 coppie di basi, sono
presenti, in pratica, due brevi segmenti ripetuti più volte, tre da 13 nucleotidi e due da 9 coppie di
basi. Il principale compito degli enzimi coinvolti è quello di separare la doppia elica del DNA
portando alla formazione del complesso d'inizio.
La prima proteina protagonista è nota come DnaA. Il suo ruolo è quello di srotolare la porzione di
doppia elica attorcigliata (più propriamente superavvolta), a livello di tre ripetizioni di 13 nucleotidi
ricche di A-T. La DnaA riconosce questa regione e comincia a risolvere la struttura a doppia elica
superavvolta, grazie all'energia metabolica fornita dall'idrolisi di ATP.
Le altre proteine coinvolte, DnaC e DnaB hanno ruoli differenti. Due esameri (strutture composte
da sei subunità) di DnaB costituiscono le elicasi. Ciascun esamero aderisce ad un elica di DNA
srotolando il DNA in entrambe le direzioni, creando le due future forcine di replicazione.
Ha inizio il processo di duplicazione di entrambe i filamenti che risultano solo ora ben separati.
Dato che le polimerasi (gli enzimi che replicano il DNA) possono eseguire la copia spostandosi in
direzione 5'à3' e dato che si spostano in direzioni opposte, si avrà un filamento (3'à5') definito
filamento tardivo, che sarà copiato in modo discontinuo con formazione di piccoli frammenti (i
frammenti di Okazaki) che verranno assemblati in seguito.
Le DNA polimerasi-stampo dipendenti non possono sintetizzare un filamento nucleotidico in
assenza di un primer. Il primer è una corta sequenza nucleotidica ed è l'innesco di RNA necessario
per cominciare la sintesi. E' necessario dunque che l’apparato di replicazione, nello specifico la
DNA polimerasi, abbia a disposizione un nucleotide provvisto di un gruppo ossidrilico (-OH) libero
all'estremità 3' a partire dal quale può avvenire la reazione di polimerizzazione del filamento
nascente, mediante l’aggiunta di nuovi nucleotidi.
Nel filamento guida (quello con direzione 5'à3') è necessario un solo primer, mentre nel
filamento tardivo (replicato in direzione 3’à5’) dovrà essere utilizzato un nuovo primer ogni volta
che un nuovo frammento viene sintetizzato.
Le DNA elicasi che si occupano di srotolare la doppia elica del DNA parentale creano una tensione,
un superavvolgimento positivo, (pensate ad un elastico attorcigliato tenendo saldi i due estremi) che
viene allentato dalla DNA topoisomerasi.
Ciascuna catena polinucleotidica separata viene stabilizzata dalle proteine SSB che legano i singoli
filamenti ormai disappaiati.
La doppia elica viene riportata allo stato rilassato dall’azione di un altro enzima, la DNA girasi, un
altro tipo di topoisomerasi. La rimozione dei primer viene effettuata grazie ad una RNAasi H,
mentre la “saldatura” dei frammenti di Okazaki è gestita dalla DNA ligasi.
Il cromosoma degli eucarioti

Tutti gli organismi trasmettono il proprio DNA alla progenie quando si riproducono. All'interno di
una cellula ciascuna molecola di DNA è organizzata in una struttura chiamata cromosoma. Le
cellule eucariotiche hanno un numero caratteristico di cromosomi. Durante la maggior parte della
vita di una cellula, il DNA che compone di corredo genetico di una cellula, si trova condensato
sotto forma di cromosoma.
Nel momento in cui la cellula si prepara a dividersi duplica i suoi cromosomi, in modo che
entrambe le cellule figlie ne ereditino un set completo. Dopo che i cromosomi sono stati duplicati,
ciascuno è composto di due molecole di DNA estremamente condensato, chiamate cromatidi
fratelli. I cromatidi fratelli sono uniti l'uno all'altro grazie
una regione costituita da DNA altamente ripetuto
supportato da una impalcatura proteica (cinetocore) , tale
regione viene chiamata centromero.
Se si misurano da un capo all'altro, risolvendo la loro
struttura altamente condensata e spiralizzata, i 46
cromosomi di una cellula umana misurano circa 2 metri di
lunghezza, contenuti nei nuclei che è in genere misurano
circa 10 micrometri di diametro. Per entrare in un ambiente
così piccolo sono fondamentali le interazioni tra una molecola di DNA e le proteine che con esso
si associano strutturalmente.
Le proteine di natura basica che si associano al DNA nel primo livello di compattazione sono
chiamate istoni, e su di esse il DNA si avvolge per circa due giri,
portando alla formazione del primo livello di compattamento del
DNA, chiamato nucleosoma; il successivo livello di
compattazione è il solenoide che si forma in seguito alla
spiralizzazione dei nucleosomi e ciascuna spirale è formata da sei
di essi; il maggiore grado di spiralizzazione si ottiene con la
formazione del cromosoma.
Ricapitolando, nella forma più condensata, un cromosoma
duplicato è costituito da due lunghi filamenti aggrovigliati (i
cromatidi fratelli) raggruppati in una caratteristica forma ad X
(chiasma), e uniti a livello del centromero.
Osservandolo più vicino, ci si rende conto che ogni filamento è in realtà
una struttura più complessa, formata da avvolgimenti spiraliformi. Le spire
stesse sono costituite da una fibra ritorta di DNA avvolta due volte ad
intervalli regolari intorno a "rocchetti" di proteine chiamate istoni. Al
microscopio, queste spirali di DNA-istoni sembrano perle di una collana.
Ciascuna "perla" è un nucleosoma che è la più piccola unità cromosomica
negli eucarioti.
Regolazione dell'espressione genica

La regolazione dell'espressione genica è un insieme di processi che le cellule adottano, pur


condividendo lo stesso corredo cromosomico, per esprimere specifici geni, utili al metabolismo di
un determinato tipo cellulare. Le cellule sono dunque in grado di selezionare un determinato set di
geni, che poi saranno tradotti in proteine, utili alla regolazione di specifiche funzioni.
Studiando Escherichia coli (un batterio comunemente usato come organismo modello) e la
produzione di enzimi che metabolizzano il lattosio, gli scienziati F. Jacob e J. Monod posero le
basi per il controllo dell'espressione genica, descrivendo il più conosciuto sistema di regolazione
genica nei procarioti, l'operone.
E. coli utilizza tre enzimi per metabolizzare il lattosio, tutti codificati da geni localizzati vicini tra
loro lungo la catena del DNA e strettamente correlati dal punto di vista funzionale. Accanto ad essi
vi sono altre porzioni di DNA che prendono parte ai processi di attivazione della trascrizione.
L'operone è un segmento di cromosoma batterico costituito dal promotore, una regione situata
prima dei geni cui si lega l'RNA-polimerasi per poter iniziare la trascrizione, dall'operatore,
localizzato indipendentemente sia prima che dopo i geni, che ha la funzione di legare due classi di
proteine, in grado rispettivamente di attivare o impedire la trascrizione, e da diversi geni strutturali,
che codificano per proteine necessarie alla sopravvivenza della cellula.
Nello specifico, le proteine di regolazione possono agire come repressore quando, legandosi al
DNA ne bloccano la trascrizione, oppure come attivatore se facilitano l'attacco dell'RNA polimerasi
al promotore, in modo che il gene venga trascritto.
La regolazione genica degli operoni consente agli organismi di controllare l’espressione genica in
funzione delle condizioni ambientali in cui si trovano a vivere. Ne esistono di due tipi, regolazione
positiva e negativa.
Durante la regolazione positiva, il legame sul DNA di una proteina attivatrice determina una
stimolazione alla trascrizione; al contrario, la regolazione di tipo negativo viene effettuata mediante
il legame di una proteina con attività repressiva sull'operatore, impedendo la trascrizione genica.
SEZIONE 7 - GENETICA UMANA

Trasmissione dei caratteri mono e polifattoriali – Malattie ereditarie

Approfondiremo ora alcuni concetti.


I termini "familiare", "congenito", "ereditario" e "genetico" sono spesso usati in modo ambiguo, ma
in ambito medico ciascuno di essi ha un significato preciso e differente dagli altri.
Familiare o familiarità: un carattere che si manifesta tra i membri di uno stesso nucleo familiare.
La genetica interviene nel processo evolutivo di una malattia, nel suo andamento, come anche
fattori l’influenza di determinati fattori ambientali (chimici, fisici, biologici etc.)
Congenito: un carattere che si manifesta alla nascita. Questo però non garantisce che il carattere è
stato necessariamente ereditato (quindi non è sovrapponibile al concetto di malattia genetica), ma
potrebbe essere stato acquisito in utero (a causa di infezione o traumi), nelle fasi di sviluppo
morfogenetico o a causa di interventi esterni, quali agenti fisici, chimici o biologici.
Ereditario: un carattere è definito ereditario se trasmesso di generazione in generazione secondo le
leggi dell'ereditarietà descritte da Mendel. Sono malattie ereditarie quelle causate da alterazioni del
patrimonio genetico a carico delle cellule delle linee germinali e trasmesse ad una parte o alla
totalità della prole. L'individuo figlio possiederà la mutazione anche nei suoi gameti ed
eventualmente la potrà trasmettere alla prole. Circa l'1-2% delle malattie umane sono ereditarie
monofattoriali e sono causate da alterazioni di un gene che producono un fenotipo patologico
definito, senza essere influenzate da parte di altri geni o dall'ambiente.
Genetico: sono alterazioni del patrimonio genetico causate da mutazioni geniche o aberrazioni
cromosomiche in grado di indurre una o più malattie. Accanto ai normali fenomeni di
ricombinazione genica, quali crossing-over durante la meiosi, possono insorgere degli errori nel
rimaneggiamento del materiale genetico sia a livello delle cellule somatiche che a livello delle
cellule uovo e degli spermatozoi. Ma le cause di insorgenza delle malattie genetiche sono imputabili
anche ad agenti esterni, che possono essere di natura chimica, fisica o biologica. Ad esempio, il
virus di Epstein-Barr è l’agente eziologico della mononucleosi ma è anche responsabile
dell’insorgenza di un tipo di linfoma, ovvero una neoplasia che colpisce il tessuto linfoide sede dei
linfociti T e B (responsabili della difesa immunitaria dell’organismo). Il meccanismo di insorgenza
del cancro in seguito ad infezione virale è imputabile all’integrazione del materiale genetico virale
all’interno del DNA della cellula infettata ed alla replicazione del loro patrimonio genetico, che
porta alla replicazione virale all’interno della cellula e lisi di quest’ultima per il rilascio delle
particelle virali ormai complete.
Malattie ereditarie

Tutte le malattie dovute ad una alterazione del DNA di un individuo, sono chiamate malattie
genetiche. Le malattie genetiche possono essere acquisite o ereditarie, se il difetto nel DNA è
trasmesso alla progenie.
In questo paragrafo saranno trattate le malattie ad insorgenza ereditaria, in particolare le malattie
autosomiche e le malattie legate al sesso.
La malattie autosomiche sono così chiamate perché a provocarle sono dei geni presenti negli
autosomi (per autosoma si intende un cromosoma in duplice copia e non di tipo sessuale). La loro
analisi a volte è davvero complicata, tuttavia le malattie autosomiche provocate da un solo gene
sono oggi malattie facilmente diagnosticabili ed analizzabili.
Le malattie autosomiche possono essere dovute ad un gene dominante, in questo caso sia
l'omozigote dominante che l'eterozigote avranno la malattia; le malattie causate da un gene
dominante completo valgono solo o ad un gene recessivo, in questo caso ad avere la malattia sarà
solo l'omozigote recessivo mentre l'eterozigote sarà portatore sano della malattia (portatore sano =
individuo portatore di una malattia genetica recessiva di cui non manifesta i sintomi).
Di seguito si farà un elenco delle malattie autosomiche più conosciute:
Malattie autosomiche dominanti:
• Brachidattilia: malattia che causa malformazioni di uno o più dita della mano. Sono noti
vari tipi di brachidattilia. La brachidattilia tipo A2 (BDA2) è una malformazione congenita,
caratterizzata dall'accorciamento (ipoplasia o aplasia) delle falangi medie dell'indice e/o del
mignolo. I soggetti affetti presentano caratteristicamente una falange media degli indici di
forma triangolare e, nella maggior parte dei casi, l'indice è incurvato radialmente. (Gene
BMPR1B)
• Corea di Huntington: malattia che determina nel suo ultimo stadio l'incapacità
dell'individuo affetto di deambulare, caratterizzata da movimenti involontari anomali (che
prendono il nome di còrea, dal greco “danza”). Esordisce tipicamente durante la mezza età.
La malattia è causata da una mutazione autosomica dominante in una delle due copie (alleli)
di un gene chiamato huntingtina, il che significa che ogni figlio di una persona affetta ha
una probabilità del 50% di ereditare la condizione.
Malattie autosomiche recessive:
• Albinismo: malattia autosomica recessiva (i soggetti affetti hanno entrambi i genitori
portatori del gene mutato o risultano entrambi affetti), che causa una totale o parziale
assenza di melanina, pigmento responsabile della colorazione di peli, capelli, cute, iride
oculare. E’ stato descritto in tutti i gruppi etnici ed in tutte le specie animali, tanto da essere
considerato uno dei disturbi genetici più ampiamente diffusi nel regno animale. E’ presente
anche nel regno delle piante, quando le foglie delle specie vegetali interessate mostrano un
colorito bianco o giallognolo, più o meno diffuso, sotto forma di strisce o macchie, sino ad
interessare l'intera lamina.
La melanina è una sostanza chimica che può assumere colore nero/marrone nel caso
dell’eumelanina, o rosso/giallo, quando si parla di feomelanina; è prodotta nei melanociti,
presenti nella pelle (epidermide), nei capelli/peli (follicoli piliferi) e negli occhi (iride).
La melanina svolge le seguenti funzioni:
▪ dona il colore alla pelle e la protegge dai raggi dannosi del sole. (etnia caucasica o
bianca, etnia mongolica o gialla, etnia nera o africana)
▪ colora gli occhi (iride e retina) e li protegge dai raggi dannosi del sole;
▪ consente uno sviluppo normale degli occhi e dei nervi ottici.

• Fibrosi cistica: causa la formazione di muco denso che porta all’ostruzione dei dotti delle
ghiandole a secrezione esterna. La malattia si presenta nell'individuo in tenera età con una
prospettiva di vita di circa trent'anni. Porta ad infezioni polmonari, cirrosi epatica e
insufficienza pancreatica, tutti sintomi dovuti ad un difetto a carico del gene che codifica per
una proteina deputata al trasporto di acqua, sodio e cloro. Chi nasce con questa malattia ha
ereditato un gene difettoso, il gene CFTR mutato, da entrambe i genitori (portatori sani). E’
una patologia autosomica recessiva ed una coppia di portatori sani presenta ad ogni
gravidanza 1 probabilità su 4 (25%) di avere un figlio affetto da Fibrosi Cistica (FC). E' una
malattia che colpisce indifferentemente maschi e femmine. Ha un decorso diverso da un
malato all'altro: infatti, se l’omozigote recessivo manifesta la patologia, l’eterozigote
portatore di un gene mutato (la mutazione più frequente del gene CFTR è una delezione di
tre nucleotidi denominata Δ508) mostra grande variabilità nelle manifestazioni cliniche della
malattia.
• Fenilchetonuria: malattia caratterizzata dall'assenza di un enzima detto fenilalaninaossidasi
(mutazioni nel gene PAH-Phenylalanine Hydroxylase) che non utilizza l'aminoacido
fenilalanina per la sintesi di determinate proteine. La fenilalalina accumulata viene in parte
convertita in fenilpiruvato e fenilacetato che vengono eliminati attraverso la minzione
(eliminazione delle urine). Il suo mancato utilizzo porta ad un suo accumulo nel circolo
sanguigno provocando un quadro clinico caratterizzato da ritardo mentale.

Malattie legate al sesso

Malattie genetiche di questo tipo sono dovute a geni presenti sui cromosomi sessuali. La più nota
malattia genetica legata al sesso è l'emofilia, malattia che determina anomalie nella coagulazione
del sangue (processo coagulativo molto rallentato), causando anche per piccole ferite grosse perdite
di sangue. Questa malattia è dovuta mutazioni a carico dei geni localizzati sul cromosoma X e si
divide in tipo A e tipo B a seconda di quale dei fattori facente parte della “cascata enzimatica”
(ovvero del susseguirsi degli avvenimento che portano all’innesco del processo di coagulazione)
risulti coinvolto, nel tipo A viene a mancare il fattore VIII, nel tipo B è assente il fattore IX del
cromosoma X, che causano la malattia, provoca l'anomalia.
Poiché si tratta di una malattia genetica con modalità di trasmissione recessiva, i maschi che
possiedono il cromosoma X che porta l'allele mutato la malattia si presenta sempre, nelle femmine
al contrario si verifica raramente solo quando si manifesta la condizione di omozigote recessivo.
Un altro esempio è il daltonismo che comporta l'incapacità di riconoscere i colori. E' dovuto ad
un'alterazione delle componenti fotosensibili (sensibili alla luce) della retina nell'occhio. Anche in
questo caso la malattia si manifesta soprattutto nei maschi poiché il daltonismo è legato a un gene
localizzato sul cromosoma X.

Anomalie del numero di cromosomi sessuali

Sindrome di Klinefelter

La sindrome di Klinefelter (1/700 maschi nati vivi) è un disordine genetico caratterizzato dalla
presenza di un cromosoma X soprannumerario. Gli individui di sesso maschile possiedono un
cariotipo 46,XY, ma negli individui affetti da tale patologia il corredo cromosomico diventa
47,XXY. In realtà sarebbe più corretto parlare di “Sindromi di Klinefelter” in quanto il cromosoma
X soprannumerario può essere presente in più di una copia, ma queste altre evenienze sono del tutto
più infrequenti rispetto al tipico pattern (profilo, modello) cromosomico 47XXY.
Nella maggior parte dei casi il cromosoma X in più proviene dalla madre. La sindrome di
Klinefelter è spesso diagnosticata in età puberale, in quanto al termine dello sviluppo, pur essendo il
pene di dimensioni normali, lo stesso non può essere detto dei testicoli che risultano indubbiamente
poco sviluppati (si parla in questo caso di ipogonadismo).
La presenza di un cromosoma X soprannumerario causa una diminuzione delle produzione di
testosterone e ciò determina un aumento compensatorio di gonadotropine (il loro dosaggio
costituisce una metodica indiretta di diagnosi); tipica della patologia è l'azoospermia con fibrosi dei
tubuli seminiferi con conseguente infertilità degli affetti.
Inoltre possono essere presenti: ginecomastia (con aumento del rischio di tumori mammari nei
maschi affetti rispetto ai maschi non affetti); alta statura, spesso associata a scoliosi; rada peluria;
alterazioni comportamentali, come deficit nell'apprendimento di scrittura e lettura, più evidenti nel
periodo scolastico quanto nell'età adulta; il Q.I. sembra non differenziarsi molto da quello dei
maschi non affetti, mentre aumenta l’incidenza di patologie autoimmuni a carico della tiroide e
diabete mellito.

Sindrome di Turner

La sindrome di Turner è un disordine cromosomico (1/2500 donne nate vive) caratterizzato, nella
maggior parte dei casi, dal cariotipo 45XO. In realtà, esistono diversi pattern cromosomici della
sindrome, derivanti dalla totale assenza (evenienza più grave, poiché incompatibile con la vita) del
cromosoma X o dalla sua presenza soprannumeraria più o meno variabile, o ancora da sue
anomalie; alla base della patologia sussiste infatti una non disgiunzione meiotica del cromosoma
X, durante la gametogenesi, ovvero la formazione delle cellule sessuali aploidi.
I soggetti affetti da tale sindrome mostrano un inconfondibile aspetto fisico caratterizzato da bassa
statura, collo corto, palpebre cadenti, attaccatura dei capelli e delle orecchie bassa. Tipica di questi
soggetti è anche l'atrofia ovarica che ne comporta la sterilità (la sindrome di Turner non viene
considerata una malattia ereditaria in quanto le donne affette non possono avere figli) e amenorrea
(mancanza del ciclo mestruale). Inoltre sono presenti anomalie cardiache, deficit immunitari,
patologie renali e uditive.

Sindrome di Down

La trisomia 21, meglio conosciuta come Sindrome di Down (in Italia 1/1200 nati), è così chiamata
per la presenza di tutto o di una parte di un cromosoma 21 soprannumerario a causa di una non
disgiunzione meiotica.
Tale sindrome sembra essere principalmente correlata con l'età materna avanzata, che è considerata
un fattore di rischio, anche se non si conoscono con esattezza le cause. Si suppone che la maggiore
incidenza sia dovuta al tempo di permanenza dell'uovo nell'ovaio, in cui permane in fase di
diplotene della profase della meiosi 1, durante la quale avviene lo scambio di materiale genico tra
due cromatidi non fratelli di cromosomi omologhi; la permanenza eccessivamente lunga in questa
fase di scambio determinerebbe l'amplificarsi di errori nella disgiunzione dei cromosomi durante
l'anafase.
I soggetti affetti dalla Sindrome di Down manifestano un corteo molto variegato di segni fisici e
internistici oltre al caratteristico ritardo mentale. L’aspettativa di vita si attesta intorno ai
sessant’anni e il miglioramento delle condizioni in età avanzata è dato dagli interventi volti ad
eliminare o curare i difetti cardiaci. In età adulta e anziana, comunque, gli individui con sindrome di
Down sono predisposti ad una particolare forma di Alzheimer, ma spesso con assenza dei sintomi
che la caratterizzano.
Tra i segni fisici caratterizzanti ricordiamo: ponte nasale piatto; epicanto mediale (piega cutanea che
si trova sopra l'occhio davanti alla palpebra); mento molto piccolo; unica piega palmare;
macroglossia (lingua ingrossata); palato ovale; viso piatto e largo; collo corto.
Tra i segni internistici ricordiamo: cardiopatie congenite; malattie tiroidee; leucemie e altri tumori;
infertilità; deficit visivi e uditivi.

Gruppi sanguigni umani

I gruppi sanguigni sono distinti dalla presenza o meno di proteine specifiche (antigeni) sulla
superficie dei globuli rossi (eritrociti o emazie), ereditati dal contributo sia paterno che materno. La
loro presenza nella formazione del globulo rosso è determinata geneticamente, quindi non può
cambiare nel corso della vita. Tali antigeni possono stimolare le reazioni immunitarie qualora un
individuo portatore di un determinato gruppo sanguigno venga a contatto con un gruppo sanguigno
non compatibile, in seguito a trasfusione; quest’ultimo è quindi in grado di scatenare una risposta
immunitaria, che porta alla produzione di anticorpi capaci di legarsi agli antigeni di superficie delle
emazie estranee e causare agglutinazione ed emolisi, che può essere lieve in alcuni casi, ma può
anche esitare nella morte qualora lo shock emolitico risulti grave.
Per anticorpo s’intende una molecola di natura glicoproteica in grado di legare in maniera specifica
gli antigeni di corpi estranei, come virus e batteri o, nel caso specifico, antigeni di superficie degli
eritrociti. Sono prodotti dalle plasmacellule, una particolare classe di linfociti B attivati in seguito al
processamento dell’antigene da parte dei linfociti T-helper.
Certamente tutti conoscono il sistema AB0 e il fattore Rh, ma oltre a questi ce ne sono altri meno
noti come il Kell, il Lewis, ecc.

Il sistema AB0

Nel 1900, Landsteiner mise a confronto i sieri e le emazie provenienti da una ventina di donatori,
notando come alcuni sieri agglutinavano le emazie di altri soggetti. L'analisi dei risultati permise di
classificare i soggetti in tre gruppi: A, B e O. Nell'anno seguente venne riconosciuto un quarto
gruppo più raro: il gruppo AB.
Da questi risultati fu possibile individuare l'esistenza di due antigeni dei gruppi sanguigni differenti:
A e B; le emazie di un determinato soggetto possono presentare l'uno o l'altro di questi due antigeni,
tutti e due, o nessuno dei due; inoltre venne determinata la presenza di anticorpi anti-A e anti-B nei
soggetti che non hanno l'antigene corrispondente. Più recentemente, sono stati descritti dei
sottogruppi appartenenti al gruppo A: A1 ed A2. In realtà non è propriamente uno zero, è stato nel
tempo modificata la originale “O” che deriva dal tedesco “Ohne” ovvero “senza”; nome assegnato
da Landsteiner quando studiò il sistema AB0.
Il locus ABO (per locus s’intende la localizzazione di un gene o di una sequenza di geni all'interno
di un cromosoma) ha tre alleli A, B e 0. Essendo diploide, ciascun individuo è portatore di due
alleli. I geni A e B sono codominanti, il gene 0 è recessivo. Per codominanza si intende la
manifestazione fenotipica dei due alleli contemporaneamente, entrambi riconoscibili negli
eterozigoti; un gene si dice recessivo, invece, quando nel genotipo dell'individuo sono presenti
entrambi gli alleli recessivi e il carattere si esprime fenotipicamente.
Esistono quindi sei genotipi differenti e solamente quattro fenotipi possibili (A, B, AB e 0). I geni A
e B controllano l'espressione degli antigeni A e B; il gene 0 è detto "amorfo", in quanto non esiste
l'antigene corrispondente. Tuttavia, le emazie del gruppo 0 esprimono un antigene H riconosciuto
da alcuni antisieri e da alcune lectine vegetali. I rari individui del gruppo Bombay, che
appartengono apparentemente al gruppo 0, non esprimono questo antigene H e producono,
spontaneamente o dopo una trasfusione, anticorpi anti-H capaci di agglutinare le emazie 0. Questi
anticorpi anti-H agglutinano ugualmente, ma in grado minore, le emazie A, B e AB. L'antigene H,
presente in tutti gli individui (tranne i soggetti Bombay), è codificato dal gene H. Questo gene è
indipendente dai geni A, B e 0, ma è indispensabile per la loro espressione.
Una persona appartenente al gruppo A avrà degli anticorpi anti B, una persona del gruppo B
esprimerà anticorpi anti A, mentre una persona del gruppo 0, anticorpi anti A e anti B, dato che né
l'uno né l'altro sono presenti sulla superficie dei suoi globuli rossi come antigeni. Un individuo del
gruppo AB, che ha quindi entrambe le proteine antigeniche sulla superficie dei suoi eritrociti, non
produrrà degli anticorpi contro queste proteine; altrimenti sarebbe soggetto ad una reazione
autoimmunitaria, distruggendo i propri globuli rossi.

Il gruppo 0 può donare a qualsiasi gruppo mentre può ricevere sangue solo dal proprio gruppo; il
gruppo AB può donare sangue solo al gruppo AB e può riceverlo da qualsiasi gruppo.

Il fattore Rh

La terminologia più adatta prevede che si parli di “sistema”. Si tratta di una proteina presente o
meno sulla superficie dei globuli rossi. Si avrà Rh positivo (Rh+) se la proteina è presente, mentre
se è assente si parla di Rh negativo (Rh-).
Il nome Rh deriva dal tipo di scimmia in cui fu scoperto nel 1941 da Landsteiner e Wiener
(Macacus rhesus). Il gruppo positivo o negativo è determinato dalla combinazione di due alleli
dello stesso gene: D dominante e d recessivo.
Diversamente dal sistema AB0 gli individui Rh-negativo sviluppano un anticorpo diretto contro
questo antigene solo quando sono stati a contatto con l'antigene D (dominante).
La presenza o meno di questo antigene è fondamentale durante la gravidanza nel momento in cui la
madre sia Rh negativo e il feto Rh positivo. In questi casi il rischio è che ci sia un'elevata
produzione di anticorpi contro l’Rh estraneo che possono interagire con i globuli rossi del feto in
seguito al passaggio attraverso la placenta, determinando emolisi (rottura degli eritrociti). Il
fenomeno descritto viene chiamato eritroblastosi fetale e può causare molti più danni alla seconda
gravidanza piuttosto che alla prima, dove la produzione di anticorpi è più contenuta.
Ingegneria genetica

Nel tempo si è studiata la ricombinazione genica per diverse ragioni, una delle quali è il
miglioramento genetico del ricevente, ad esempio rendendolo resistente ad infezioni e ad attacchi
parassitari. Analizziamo brevemente, ma in modo efficace, le varie parti operative delle tecniche di
ricombinazione genica.
La produzione di sostanze specifiche a partire da derivati degli organismi viventi o dagli stessi
organismi viventi viene oggi definita biotecnologia. Ad esempio, la conoscenza moderna degli acidi
nucleici ci permette di avere un punto di partenza per la manipolazione del DNA che viene più
espressamente chiamata tecnologia del DNA ricombinante.
Con questo termine si fa riferimento a tutte le tecniche di laboratorio che permettono di isolare dei
frammenti di DNA, tagliarli e inserire tali frammenti in genomi cellulari diversi. Le tecnologie
moderne, consentono di introdurre in un batterio geni provenienti da cellule eucariotiche. Quindi,
appare chiaro come si possa, oggi, introdurre caratteri tipici di una specie per farli esprimere in
un'altra.
Le tecniche che permettono la ricombinazione genica sono davvero complesse da svolgere, ma i
concetti su cui si basa tutta la teoria sono di facile comprensione. Operativamente questa tecnica
prevede l'identificazione del gene d’interesse, l'isolamento dal resto del DNA, l'innesto del gene
su di un vettore e il trasferimento in una cellula ricevente.

Taglio del DNA

L'azione di taglio del DNA viene effettuata da enzimi specifici detti enzimi di restrizione. Il “taglio”
della porzione d’interesse del DNA rappresenta lo step iniziale della tecnica del clonaggio
molecolare: la porzione di DNA tagliata dagli enzimi di restrizione è unita a una molecola di DNA
all’interno del quale deve essere clonata tramite gli enzimi specifici in grado di unire le estremità
interrotte, chiamati ligasi. Le estremità dei frammenti ottenuti possono essere formate da due catene
di lunghezza uguale, chiamate estremità piatte (blunt ends) o presentare una catena più lunga
dell’altra. In questo caso le estremità sono chiamate estremità coesive (sticky ends).
La scoperta di queste due tipologie di enzimi è stata la svolta per l'inizio della manipolazione del
DNA.
La scoperta degli enzimi di restrizione è recente, risale agli anni sessanta e deriva dallo studio
effettuato su alcuni batteri, che erano in grado di difendersi contro l'attacco dei virus attraverso la
produzione degli enzimi di restrizione, che sono in grado di tagliare il genoma virale in frammenti
non infettanti, in un processo chiamato digestione da restrizione, nel quale gli enzimi di restrizione
rompono i legami tra il gruppo ossidrile all'estremità 3' e il gruppo fosfato di quella 5'.
Di enzimi di restrizione ne esistono moltissimi ed ognuno taglia la sequenza del DNA a livello di
una specifica sequenza di basi chiamata sequenza di riconoscimento o sito di restrizione. Per
ottenere DNA ricombinante è fondamentale che gli enzimi di restrizione operino nel filamento di
DNA un taglio obliquo e che riconoscano come sito di restrizione sequenze palindrome.

Palindromo: una sequenza di caratteri o parole che può essere letta a rovescio e rimane identica. Ad esempio “Ai lati
d'Italia” oppure “oro” “anna” etc.

Gli enzimi di restrizione agiscono solo sul DNA “estraneo” e non su quello della cellula che li
produce, questo perché la stessa cellula si “preoccupa” di proteggere il proprio DNA aggiungendo
un residuo -CH3 (gruppo metile) in tutti i siti di restrizione che potrebbero essere soggetti a taglio da
parte degli enzimi. Questo processo di aggiunta del gruppo metile si chiama metilazione. In
laboratorio è possibile estrarre questi enzimi ed utilizzarli come forbici biologiche con tutti i tipi di
DNA e permettono agli operatori di avere grandissima precisione nel taglio. I tratti di DNA ottenuti
dopo trattamento enzimatico si chiamano frammenti di restrizione.
Nonostante gli enzimi di restrizione siano in grado di tagliare sulle sequenze riconosciute come siti
di restrizione in maniera univoca, i frammenti generati dalla digestione enzimatica avranno
lunghezza diversa poiché le sequenze di riconoscimento non si presentano in modo regolare lungo
la molecola del DNA. Questa differenza di lunghezza dei filamenti è anche la chiave per la
separazione degli stessi tramite elettroforesi su gel.
Tale tecnica si basa sull’impiego di un polisaccaride chiamato agarosio che viene solidificato dopo
averlo risospeso in un opportuno tampone, con funzione di setaccio molecolare. Al gel, immerso in
una soluzione tampone (la stessa che è stata usata per preparare il gel) e sposto all’interno di una
camera elettroforetica, viene applicato un campo elettrico ed in questo modo i diversi frammenti di
DNA, con pesi molecolari diversi, migreranno verso l’anodo (il DNA è carico negativamente) ed i
singoli frammenti mostreranno un differente pattern elettroforetico sulla base della loro dimensione,
ovvero sulla base della lunghezza in termini di numero di nucleotidi, visualizzati come bande.
In passato, tali bande erano rese visibili trattando i campioni con isotopi radioattivi come il 32P.
Attualmente vengono impiegati intercalanti del DNA che, sottoposti a raggi UV, sono in grado di
emettere fluorescenza, come il bromuro di etidio, che si inserisce all’interno dell’elica del duplex
(DNA a doppio filamento). A causa della sua natura altamente mutagena, deve essere manipolato
con estrema cautela, sempre con l’utilizzo di guanti. Per questo motivo sono stati sviluppati altri
agenti intercalanti con un grado di tossicità estremamente più basso, come il GelRed, GelGreen o il
SYBR Green.
Le anomalie nella lunghezza del numero di basi di determinate sequenze del DNA sono ricercate
per la diagnosi di alcune malattie genetiche. La tecnica dell’analisi della lunghezza dei frammenti di
restrizione (RFLP, Restriction Fragment Lenght Polymorphism) è impiegata per determinare i siti
di taglio in un frammento di DNA su cui agiscono gli enzimi di restrizione. Tagliando il DNA con
enzimi di restrizione diversi, utilizzati sia individualmente che in combinazione, e analizzando il
numero e la dimensione dei frammenti mediante elettroforesi su gel di agarosio, si può ottenere una
mappa di restrizione che riporta la disposizione dei siti di restrizione presenti sul DNA.
Gli RFLP sono di primaria importanza negli studi di genetica, essendo utilizzati come marcatori
genetici durante la mappatura del genoma e nell’identificazione di particolari geni.
Ad oggi il progetto più ambizioso realizzato nel campo della genetica è stato appunto la mappatura
del genoma umano che ha coinvolto moltissimi laboratori di ricerca e che ha individuato per
l'uomo un numero di geni pari a 25.000. La sfida odierna è quella di identificare i diversi geni del
nostro genoma, il loro meccanismo d'azione, le proteine che codificano (più estesamente si parla di
proteomica, cioè la disciplina che si occupa dell'identificazione di proteine e della loro
caratterizzazione rispetto a struttura, funzione, attività, quantità e interazioni molecolari) e quella di
archiviare e di confrontare i diversi tipi di DNA, attraverso l’impiego della bioinformatica, che
fornisce modelli statistici per l'interpretazione dei dati generati dall'analisi di sequenze di DNA,
RNA e proteine, per la comprensione della loro storia evolutiva e la loro funzione, nonché rendere
organiche le conoscenze acquisite sul genoma e proteoma e rendendole accessibili.

Ibridazione

Uno dei metodi per l'individuazione e l'isolamento dei segmenti specifici di DNA è l'ibridazione e
si basa sulla proprietà delle basi azotate degli acidi nucleici di appaiarsi, formando una doppia elica,
solo se le sequenze dei due filamenti risultino complementari una con l’altra. Con questo metodo è
possibile costruire delle sonde capaci di stabilire se quel determinato gene è presente anche in
un'altra sequenza di DNA.
Il processo di ibridazione prevede che il DNA venga trattato con diversi enzimi di restrizione, che i
frammenti di DNA generati siano fatti correre mediante elettroforesi su gel, per separarli in base
alla dimensione; che le bande vengano trasferite su un foglio di nylon o di nitrocellulosa e che il
DNA venga denaturato (singoli filamenti e non doppia elica ). A questo punto il DNA denaturato
viene messo a contatto con la sonda marcata radioattivamente o con fluorocromi; dopo un
opportuno periodo di tempo in cui si realizza l’ibridazione, è possibile osservare quale dei
frammenti di DNA si siano rinaturate insieme alla sonda e quindi riconosciuti in seguito alla
rilevazione del segnale di fluorescenza.

Clonaggio di un gene

Il primo clonaggio fu effettuato da Paul Berg (premio Nobel per la chimica nel 1980). Il clonaggio
molecolare sta la base dell'ingegneria genetica e si basa sul principio che un frammento di DNA,
chiamato inserto, sia collocato in un vettore appropriato, ad esempio un plasmide, che verrà poi
introdotto in una cellula ospite per essere espresso. La cellula ospite, impiegando il proprio
macchinario di sintesi, provvederà a moltiplicarla in modo da ottenere molteplici plasmidi di
interesse.
La clonazione di un gene consiste nel suo inserimento in un
plasmide, ed il costrutto risultante rappresenterà il trasformante
batterico in grado di essere internalizzato in una cellula ospite, in genere
il batterio Escherichia coli; In seguito a semina su piastra dei batteri
trasformati, questi cresceranno come singole colonie contenenti copie
geniche identiche della cellula madre e recanti l’inserto contenente il
gene. Il clonaggio molecolare, perché avvenga, necessita degli enzimi di
restrizione capaci di tagliare il DNA e dell’enzima DNA ligasi capace di
incollare i frammenti generati dal taglio. La DNA ligasi è una proteina
che ha funzioni nella riparazione e nella replicazione della sequenza del
DNA.
Il clonaggio molecolare è differente dal clonaggio riproduttivo e
da quello terapeutico. Il primo ha come obiettivo la creazione di un
individuo identico ad un altro e si attua mediante l’impiego di due
cellule, una cellula donatrice ed una cellula uovo; la prima è
opportunamente fecondata ed in seguito enucleata per poter accogliere il
nuovo nucleo proveniente dalla cellula donatrice, che a sua volta è
forzata ad entrare in fase G0, ovvero la fase di quiescenza; Il nucleo della cellula donatrice è quindi
trasferito nella cellula enucleata, che verrà stimolata a crescere e infine impiantata nella madre.
Il secondo clonaggio, di tipo terapeutico, prevede la creazione di tessuti somatici recanti un genoma
nucleare identico a quello della cellula di partenza, attraverso la formazione di un embrione la cui
formazione viene precocemente interrotta per estrarne cellule staminali.

Reazione polimerasica a catena.

La reazione a catena della polimerasi (PCR) è una tecnica comunemente impiegata in biologia
molecolare che consente di ottenere un numero molto elevato di molecole di DNA utilizzando
anche una quantità di DNA di partenza ridotta.
La PCR è definibile come una reazione di amplificazione in vitro di una sequenza di DNA bersaglio
impiegando l’enzima DNA polimerasi, estratto dal batterio Thermus aquaticus. Questa tecnica
rappresenta un vantaggio perché, partendo da una sola coppia di nucleotidi è possibile ricavare
molte sequenze di DNA bersaglio (di cui sia nota la sequenza) in poche ore invece che in molti
giorni. La PCR è usata, oltre che per produrre quantità elevate del segmento da studiare in poco
tempo, anche per individuare infezioni virali nel campo della diagnostica, per l’identificazione e lo
studio di tumori, per analizzare il DNA di una persona partendo da campioni infinitesimi
(applicazione utile in medicina legale per il riconoscimento individuale), ma anche in paleontologia
per lo studio di reperti antichi, da cui possano essere ragionevolmente ricavati campioni di DNA.
La PCR sfrutta degli “inneschi” (due oligonucleotidi, cioè delle corte sequenze di DNA, solitamente
composti da una ventina di nucleotidi) fiancheggianti il tratto di DNA da analizzare e la
conseguente reazione di amplificazione, effettuata dall’enzima termoresistente DNA-polimerasi,
produce molteplici copie del DNA da analizzare o replicare. Ciò consente di realizzare più cicli di
PCR in sequenza, in ciascuno dei quali viene duplicato anche il DNA sintetizzato nelle fasi
precedenti, ottenendo una reazione a catena che consente una moltiplicazione estremamente rapida
del materiale genetico di interesse.
Perché la reazione di verifichi, devono essere rispettate alcune importati condizioni sperimentali.
Durante l’allestimento della miscela di reazione (insieme dei componenti necessari), è fondamentale
impiegare un’opportuna quantità di DNA, sufficiente perché i primer possano appaiarsi e fungere da
innesco per la reazione di amplificazione.
I primer devono essere specifici per le porzioni fiancheggianti la regione di interesse, devono cioè
potersi appaiare in maniera complementare, specialmente nell’estremità al 3’, dove viene catalizzata
la reazione di polimerizzazione, ovvero di aggiunta di nucleotidi lungo la catena nascente.
La miscela di reazione deve contenere i deossiribonucleotidi liberi di poter essere incorporati, in
quantità sufficienti da non rappresentare l’elemento limitante per la reazione di amplificazione.
La DNA-polimerasi necessita inoltre di un cofattore, perché la reazione di polimerizzazione possa
essere processiva, ovvero continua e senza interruzioni, rappresentato dallo ione magnesio,
addizionato sotto forma di MgCl2.
Perché l’enzima polimerasico possa lavorare al meglio, si aggiunge alla miscela un opportuno
tampone, che serve a mantenere costanti le condizioni di pH. Infine la miscela di reazione deve
essere portata ad un opportuno volume con acqua distillata.
La reazione di amplificazione si susseguono mediamente per trenta volte, ripetendo in maniera
ciclica tre differenti passaggi, che prevedono: una denaturazione iniziale per separare i filamenti
della doppia elica; una fase di appaiamento dei primer o inneschi ai filamenti di DNA a singola
elica; l’estensione dei primer mediante polimerizzazione in direzione 5’à3’ in seguito alla reazione
fosfodiesterasica 3’à5’ ad opera della Taq (acronimo che sta ad indicare la DNA-polimerasi, che
non è inattivata dalle alte temperature; un esempio è rappresentata dalla Taq proveniente dal
batterio termofilo Thermus aquaticus).
Oggi le applicazioni dell'ingegneria genetica sono molteplici e applicabili in molti settori, ad
esempio in agricoltura è possibile rendere le colture più resistenti agli agenti atmosfericicome anche
agli insetti, renderle maggiormente produttive. In campo medico l'ingegneria genetica ha permesso
la creazione del vaccino contro l'epatite B e si sta studiando un vaccino contro la malaria. Ancora, è
possibile curare determinate patologie, come il diabete, attraverso la produzione artificiale
dell’ormone insulina.
Insulina: ormone peptidico dalle proprietà anaboliche, prodotto dalle cellule beta delle isole di Langerhans del
pancreas. La sua funzione principale è quella di regolare i livelli di glucosio ematico tenendo costante la glicemia.
L'insulina stimola l´ingresso di glucosio nel citosol delle cellule di organi insulino-dipendenti legandosi ad un recettore
esterno della membrana cellulare.

Le promesse dell'ingegneria genetica sono molteplici e quasi senza limiti, in futuro la medicina sarà
mirata e personalizzata per ogni paziente e le biotecnologie saranno certamente in grado di
sviluppare delle fonti di energia pulite ed ecosostenibili.
SEZIONE 8- EREDITARIETA' E AMBIENTE
Mutazioni

Le mutazioni sono definite come dei cambiamenti nel materiale genetico e possono essere
considerate come eventi rari, casuali ed improvvisi. Le mutazioni sono classificabili sulla base del
tipo di cambiamento che causano nella struttura del DNA. Possono insorgere spontaneamente o
possono essere determinate da agenti mutageni, siano essi fisici, chimici o biologici. Le mutazioni
consistono in cambiamenti di una singola coppia di basi (mutazioni geniche o puntiformi); possono
essere causa di modificazioni o di spostamenti nel genoma di frammenti di cromosomi (mutazioni
cromosomiche) o possono determinare la perdita e l’aggiunta di interi cromosomi (mutazioni
genomiche).
Una mutazione genica è una mutazione che altera un singolo gene del corredo cromosomico e
determinano la formazione di nuove forme geniche, ovvero di nuovi alleli.
Le mutazioni geniche possono essere distinte in mutazioni puntiformi e mutazioni per slittamento
dello schema di lettura
Sono mutazioni puntiformi le sostituzioni di base [sono definite transizioni qualora vi sia un
scambio di una purina con altra purina (A ↔ G) o di una pirimidina con un'altra pirimidina (C ↔
T); oppure transversioni quando lo scambio è di una purina con una pirimidina o viceversa (C/T ↔
A/G), in genere le transizioni sono più frequenti delle transversioni].
Tra le sostituzioni di base sono annoverate le mutazioni sinonime, che determinano un codone
diverso ma che codifica per lo stesso amminoacido (come conseguenza della degenerazione del
codice genetico ), senza causare cambiamenti nel prodotto genico.
Le mutazioni missenso si verificano quando un codone viene sostituito con uno che codifica per un
altro amminoacido; la sostituzione sarà conservativa quando il cambiamento amminoacidico non
modifica le caratteristiche chimiche quali carica e dimensione, altrimenti la mutazione sarà non
conservativa, rendendo più probabile una variazione nella funzionalità del prodotto.
Le mutazioni nonsenso portano alla formazione di un codone di stop all'interno dell’mRNA
nascente. Questo provoca nel prodotto proteico un'interruzione precoce nella traduzione, portando
ad una proteina tronca e non più funzionale.
La mutazione frameshift è dovuta alle inserzioni o delezioni di una o poche coppie di basi in
regioni codificanti o non codificanti ed occorrono se le basi aggiunte/eliminate non sono tre o suoi
multipli (3 basi = un amminoacido); questo determina uno scorrimento dello schema di lettura dal
sito mutato in poi nel processo di codifica del DNA.

Le mutazioni possono essere classificate in mutazioni indotte se causate da agenti mutageni e


mutazioni spontanee se si manifestano in condizioni normali.
Le mutazioni indotte possono essere classificate in base ai danni indotti: sostituzione di basi,
quando vengono incorporati analoghi delle basi; danneggiamento delle basi, che ne rendono
impossibile il corretto appaiamento con quella complementare.
Le mutazioni spontanee sono molto rare e hanno un ruolo fondamentale nei processi evolutivi. Sono
imputabili ad errori nei processi molecolari che riguardano la duplicazione o la trascrizione del
materiale genetico (DNA o RNA). Le mutazioni spontanee portano, in genere, a danni o alterazioni
di una o poche coppie di basi di una sequenza, per questo determinano di solito mutazioni geniche.
Le mutazioni cromosomiche possono essere suddivise in due tipologie; numeriche dovute ad
alterazioni del numero dei cromosomi; strutturali dovute ad anomalie nella sequenza del DNA del
cromosoma in seguito ad eventi di rottura del cromosoma stesso.
Le mutazioni cromosomiche numeriche possono originarsi per:
• Poliploidia: cambiamento dell'assetto numerico dei cromosomi di un individuo. La maggior
parte degli eucarioti è diploide (2n) nelle cellule somatiche e aploide (n) nei gameti.
Nell'essere umano solitamente la poliploidia (3n o 4n) è incompatibile con la vita
• Aneuploidia: singoli cromosomi in più o in meno che determinano errori
nell'accoppiamento cromosomico. Le alterazioni cromosomiche che colpiscono gli
autosomi sono letali oppure si manifestano come fenotipi ormai facilmente riconoscibili (es.
trisomia 18, trisomia 21 o sindrome di Down etc.). Le anomalie che interessano la linea
germinale sono compatibili con la vita, ma determinano problemi di fertilità o sterilità.

Per quanto riguarda le anomalie cromosomiche se ne conoscono di differenti tipologie. In linea


generale consistono in alterazione della struttura di uno o più cromosomi. Possono essere
classificate in:
• Delezioni e duplicazioni: come conseguenza della presenza di geni con un alto grado di
omologia, di pseudogeni o di sequenze ripetute si possono verificare errori nell'appaiamento
dei cromosomi (crossing-over diseguale), generando un scambio di materiale genetico
diverso tra le coppie di cromatidi che si traduce in una delezione su uno e una duplicazione
sull'altro;
• Inversioni: mutazione dovuta al cambiamento dell'orientamento di una regione genica di un
cromosoma che causa un'inversione dell'ordine dei geni;
• Traslocazioni: si tratta di un diverso posizionamento di un tratto cromosomico e avviene
quando una regione di un cromosoma viene trasferita in un'altra posizione dello stesso
cromosoma o di un cromosoma differente.
Teorie evolutive – Selezione naturale

Il termine evoluzione fa riferimento al progressivo e continuo accumularsi di modificazioni a livello


del DNA di un organismo, fino a manifestare, in un arco di tempo ragionevolmente ampio,
significativi cambiamenti morfologici, strutturali e funzionali.
Questo fenomeno è attuato mediante la trasmissione del patrimonio genico di un individuo alla sua
progenie e sull'insorgenza di mutazioni casuali che può avvenire durante tale processo. I
cambiamenti osservabili tra una generazione e l'altra sono generalmente di lieve entità, ma il loro
accumularsi nel tempo può portare un cambiamento sostanziale nella popolazione, attraverso i
fenomeni di selezione naturale e deriva genetica, fino all'emergenza di nuove specie.
Le affinità morfologiche e biochimiche tra diverse specie e le evidenze paleontologiche (basate sui
ritrovamenti fossili) confermano che tutti gli organismi potrebbero derivare, attraverso un processo
di divergenza evolutiva, da progenitori ancestrali comuni.
Il concetto di evoluzione ha subito numerosi rimaneggiamenti ed influenze nel corso della storia
della biologia. All’inizio gli organismi viventi, definiti e catalogati in specie solo dopo gli studi
effettuati da Linneo, erano considerati immutati nelle loro caratteristiche, secondo la teoria della
fissità dei viventi.
All’inizio dell’ottocento, prima delle teorie pioneristiche che Charles Darwin formulerà verso la
metà dello stesso secolo, il naturalista Lamarck formulò la teoria evoluzionista che sosteneva la
capacità degli organismi di adattarsi progressivamente all’ambiente, portando una determinata
caratteristica od organo ad essere potenziata o resa atrofica dal non utilizzo che poi, secondo questa
teoria, sarebbe stata trasmessa alla progenie come carattere acquisito. ha basato la sua teoria su due
leggi:
1. Legge dell'uso e del non uso: secondo questa legge più un organo è stimolato, più sarà alta la
probabilità che evolva in risposta ad un adattamento positivo all’ambiente in cui vive.
Questo tipo di evoluzione dei caratteri è chiamata acquisita
2. Legge dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti: i caratteri acquisiti sono trasmessi alla
progenie.
L’esempio che Lamarck utilizzò per spiegare la sua teoria fu quello delle giraffe. Lamarck era
convinto che gli antenati di questi grossi mammiferi dovessero essere animali dal collo corto e
dunque obbligati a mangiare l'erba o le foglie dei rami più vicini al terreno. A causa di forti siccità
questi animali furono costretti a mangiare le foglie dei rami più alti, sforzandosi per raggiungerle,
ottenendo di conseguenza un lento allungamento del collo e delle zampe anteriori (caratteri
acquisiti). La trasmissione del carattere acquisito alla prole avrebbe determinato la comparsa delle
giraffe così come le conosciamo e l'estinzione degli antenati, orami non più adatti a sopravvivere.
Georges L. Chretien Cuvier, in opposizione alle idee promosse da Lamarck, sosteneva la 'teoria
delle catastrofi naturali' secondo la quale la maggior parte degli organismi viventi nel passato
sarebbero stati eliminati da cataclismi susseguitesi nel tempo e che il mondo sarebbe poi stato
ripopolato dalle specie sopravvissute.

Darwin

Charles Darwin prese parte al secondo viaggio del HMS Beagle intorno al mondo, dal 27 dicembre
1831 al 2 ottobre 1836durante il quale compì le osservazioni naturalistiche che lo portarono a
sviluppare la teoria dell'evoluzione per selezione naturale. Nel suo viaggio visitò le isole di Capo
Verde, le Isole Falkland (o Isole Malvinas), la costa del Sud America, le Isole Galápagos e
l'Australia. Di ritorno a Falmouth nel 1836, Darwin analizzò i campioni di specie animali e vegetali
raccolti, osservando somiglianze tra fossili e specie viventi della stessa area geografica. In
particolare, notò che ogni isola dell'arcipelago delle Galápagos ospitava forme di tartarughe e specie
di uccelli solo apparentemente differenti per aspetto, dieta e comportamento.
Dopo le analisi effettuate sulle varie specie di uccelli che aveva raccolto alle Galápagos, fu scoperto
appartenevano tutte a un gruppo di specie della sottofamiglia Geospizinae, della famiglia
Fringillidae, cui appartengono anche i comuni fringuelli. Ciò, unitamente alla rilettura del saggio
del 1798 di Thomas Malthus, in cui si teorizzava il concetto di disponibilità di risorse alimentari
intesa come limite alla numerosità delle popolazioni animali, suscitò nello scienziato interrogativi a
cui rispose formulando la teoria dell'evoluzione per selezione naturale e sessuale.
Darwin ipotizzò che, ad esempio, li differenti esemplari di fringuelli avessero avuto origine da
un'unica specie e si fossero diversamente adattate nelle diverse isole. La teoria evoluzionistica di
Darwin è ampiamente discussa nel saggio pubblicato nel 1859 ed intitolato “L'Origine delle
specie”.
Con la teoria evoluzionistica Darwin dimostrò che l'evoluzione è l'elemento comune, il filo
conduttore della diversità della vita. Secondo una visione evolutiva della biologia, i membri dello
stesso gruppo si assomigliano perché si sono evoluti da un antenato comune. Secondo questo
modello le specie sono originate in un processo di “discendenza con variazione”. Fatto ancora più
importante, nel suo trattato sull'origine delle specie, Darwin propose la selezione naturale come
meccanismo principale con cui la variazione porta alla speciazione e dunque all'evoluzione di nuove
specie.
La teoria evoluzionistica di Darwin si basa su tre presupposti fondamentali:
• Riproduzione: tutti gli organismi viventi si riproducono con un ritmo tale che, in breve
tempo, il numero di individui di ogni specie potrebbe non essere più in equilibrio con le
risorse alimentari e l'ambiente messo loro a disposizione.
• Variazioni: tra gli individui della stessa specie esiste un'ampia variabilità dei caratteri.
• Selezione: esiste una lotta continua per la sopravvivenza tra gli individui all'interno della
stessa specie e anche con le altre specie. Nella lotta sopravvivono gli individui più adatti,
cioè quelli che meglio sfruttano le risorse dell'ambiente e generano una prole più numerosa.

Darwin affermò che l'evoluzione di nuove specie avviene attraverso un accumulo graduale di
piccoli cambiamenti casuali. Quelli positivi, cioè favorevoli alla sopravvivenza dell'individuo che
ne è portatore, fanno sì che l’individuo che li porta possa riprodursi più facilmente e quindi
trasmettere le proprie caratteristiche ai discendenti. Ciascuna specie presenta un proprio
adattamento all'ambiente evolutosi mediante la selezione naturale.
La principale differenza tra le due teorie prese in esame risiede nella considerazione dell'impatto
che ha l'ambiente nel processo di evoluzione della specie. Lamarck affermava che è l'ambiente a
causare lo sviluppo dei nuovi caratteri acquisiti, mentre Darwin affermava che l'ambiente ha un
ruolo indiretto ovvero non provoca la comparsa di nuovi caratteri, ma selezioni gli individui che
presentano determinati caratteri, essendo più adatti all’ambiente in cui vivono; tali caratteri sono
perciò favorevoli e avvantaggiano quegli individui di una determinata specie che li possiedono.
Oggi sappiamo che la teoria postulata da Darwin trova conferma negli studi pionieristici di Gregor
Mendel effettuati nel secolo XIX e la moderna scoperta del DNA e della sua estrema variabilità.
La moderna teoria dell'evoluzione (neodarwinismo) è fondata sulla teoria di Charles Darwin, che
postulava l'evoluzione delle specie attraverso la selezione naturale, insieme con la teoria di Gregor
Mendel sulle leggi che regolano l’ereditarietà biologica. Il Neodarwinismo (detto anche sintesi
moderna) è la teoria evoluzionistica attualmente più accreditata in campo scientifico. Essa deriva
dall'integrazione tra:
• la teoria dell'evoluzione delle specie per selezione naturale di Charles Darwin;
• la teoria dell'ereditarietà di Gregor Mendel sulle basi dell'eredità rilette sulla base della
moderna genetica, comprese le mutazioni genetiche casuali come sorgente della variazione;
• l’approccio statistico sulla genetica di popolazione;
• l'analisi dei dati sulla base dei ritrovamenti fossili.

Le basi genetiche dell'evoluzione

Le mutazioni rappresentano basi genetiche dell'evoluzione. Una mutazione, definibile come una
variazione strutturale del materiale genetico, può essere sia favorevole, neutra o dannosa.
Gli individui di una specie recanti la mutazione favorevole, sopravvivendo e aumentando di
numero, possono trasmettere il loro carattere alla prole, “fissando” quella mutazione nel genoma.
Una mutazione di un gene non necessariamente può danneggiare il funzionamento di una proteina,
ma potrebbe incrementarne l'efficienza. In alternativa, potrebbe trattarsi di una mutazione dannosa e
determinare una disfunzione nel gene interessato. In questo caso la vitalità dell’individuo recante la
mutazione è compromessa e si parla di selezione negativa. Ma le mutazioni possono anche essere
silenti, nel qual caso non si ha nessuna variazione della funzionalità di un gene, poiché non
apportano ne vantaggi ne determinano effetti danno si per l’organismo.
Le mutazioni sono dunque gli elementi di base grazie ai quali possono svolgersi i processi evolutivi.
Le mutazioni determinano la variabilità genetica, ovvero la condizione per cui gli organismi
differiscono tra loro per uno o più caratteri. Su questa variabilità, tramite la ricombinazione
genetica, opera la selezione naturale, che promuove le mutazioni favorevoli a scapito di quelle
sfavorevoli o addirittura letali. Essendo una parte delle mutazioni non favorevoli, gli organismi
hanno sviluppato diversi meccanismi per la riparazione del DNA dai vari danni che può subire,
riducendo in questo modo il tasso di mutazione.
Una mutazione è quindi in grado di modificare il genotipo di un individuo e può eventualmente
modificarne il fenotipo a seconda delle sue caratteristiche e delle interazioni con l'ambiente.
Il polimorfismo in biologia si verifica quando due o più fenotipi diversi esistono
contemporaneamente nella stessa popolazione. Per essere classificati come tali, i polimorfismi
devono occupare allo stesso tempo lo stesso habitat e appartenere ad una popolazione soggetta ad
accoppiamento casuale.
Il polimorfismo è comune in natura, legato alla biodiversità, alla variabilità genetica e alla capacità
di adattamento. Rappresenta una diretta conseguenza del processo evolutivo, è ereditabile, ed è
modificato dalla selezione naturale.
Ma queste mutazioni occorrono costantemente lungo la linea evolutiva ed intervengono sempre, in
un continuo rimodellamento del patrimonio genetico di ciascun individuo?

Principio di Hardy-Weinberg (1908)

Secondo la legge di Hardy-Weinberg, vi è equilibrio delle frequenze alleliche e genotipiche da una


generazione all'altra, ovvero queste non cambiano con il passare del tempo a meno che non
intervengano fattori specifici atti a disturbare l'equilibrio stesso.
Il principio di Hardy-Weinberg rappresenta un modello della genetica delle popolazioni che postula
che all'interno di una popolazione (ideale) le frequenze degli alleli in una popolazione presa ad
esame rimangono costanti e che le relative frequenze dei diversi genotipi rimangono le stesse dopo
la prima generazione.
G. H. Hardy e W. Weinberg definirono "popolazione in equilibrio" quella popolazione all'interno
della quale né le frequenze alleliche né la distribuzione dei genotipi mutano col succedersi delle
diverse generazioni. Se non cambia la frequenza degli alleli non si ha evoluzione.
Una popolazione resta in equilibrio solo se in essa si verificano alcune condizioni:
• Non devono verificarsi mutazioni;
• Non si ha un flusso di geni tra popolazioni, ovvero non c'è una migrazione netta di alleli
verso l'interno della popolazione (immigrazione) o verso l´esterno (emigrazione);
• La popolazione deve essere molto grande (teoricamente infinita);
• Non si deve verificare selezione naturale, quindi tutti i genotipi hanno le stesse capacità
adattative e riproduttive.
Se queste condizioni sono vere allora le frequenze alleliche entro una popolazione rimarranno
costanti per un periodo di tempo indefinito.
L'equilibrio è espresso dall'equazione:
• p + q = 1 (somma delle frequenze=100%)
• da cui elevando al quadrato: (p + q)2 = 12 → p2 + 2 pq + q2 = 1
dove:
p2 = frequenza del genotipo omozigote dominante
2pq = frequenza del genotipo eterozigote
q2 = frequenza del genotipo omozigote recessivo

Il venir meno di una o più di queste condizioni porta ad un cambiamento delle frequenze alleliche,
dunque all'evoluzione. In condizioni di riproduzione libera e casuale ed in popolazioni molto
numerose, la distribuzione dei genotipi e la frequenza dei relativi geni non subiscono alcuna
modificazione attraverso le diverse generazioni.
SEZIONE 9 - I TESSUTI ANIMALI

Cenni di embriogenesi

Per embriogenesi (detta anche ontogenesi o sviluppo embrionale) si intende lo sviluppo


dell’embrione a partire dall’uovo fecondato, e consiste nella precisa sequenza dei fenomeni di
accrescimento, di differenziamento e di formazione degli organi che conducono alla formazione di
un individuo. Nel processo di embriogenesi si possono distinguere tre stadi principali.

Fase Descrizione

Segmentazione La segmentazione è dovuta a una serie di divisioni mitotiche dello zigote, a cui
non corrisponde un accrescimento cellulare (massa e dimensioni dell’embrione
non aumentano). Tale processo porta alla formazione di cellule sempre più
piccole chiamate blastomeri. L’embrione allo stadio di 16-32 cellule è definito
morula. Le successive divisioni danno origine alla blastocisti (blastula matura, da
64 ad alcune centinaia di cellule), in cui i blastomeri si organizzano attorno a una
cavità ricca di fluido acquoso chiamata blastocele. La blastocisti è formata da
circa 120 cellule che formano un singolo strato cellulare esterno (trofoblasto) e
una massa cellulare interna che andrà a costituire l’embrione.

Gastrulazione Questa fase porta alla formazione dei tre foglietti embrionali a partire dalle tre
strutture preesistenti, l'ectoblasto, il cordomesoblasto e l'endoblasto. E' una fase
dinamica dove le cellule migrano nei siti in cui poi si formeranno gli organi.
I foglietti embrionali generati prendono il nome di ectoderma, che rappresenta il
foglietto più esterno, il mesoderma quello intermedio, mentre quello interno è
chiamato endoderma.

Organogenesi Una serie di fenomeni di interazione e di riarrangiamento cellulare che porta alla
formazione degli organi. La porzione dorsale dell’ectoderma si ingrossa per
formare la piastra neurale, che poi in seguito a rimaneggiamenti strutturali si
trasforma nel tubo neurale, dando origine ad encefalo e midollo spinale. Sono
inoltre formati l’epidermide ed i suoi derivati.
Dall’endoderma prendono vita le formazione epiteliali del canale digerente, il
fegato e pancreas e gli organi respiratori.
Il mesoderma forma un robusto cordone cellule, con funzione di sostegno al tubo
neurale. Dal mesoderma hanno origine la muscolatura dorsale, le vertebre e il
derma, gli organi interni cuore, rene e le gonadi); alcune cellule di derivazione
mesodermale vanno a costituire il mesenchima, da cui traggono origine il sistema
vascolare, alcune porzioni del sistema scheletrico e differeneti tipi di tessuti
connettivi.

I foglietti embrionali sono chiamati ectoderma, mesoderma ed endoderma, da cui hanno origine i
diversi tessuti ed organi.
1. Ectoderma:
• Peli, ghiandole sudoripare, ghiandole mammarie
• Sistema nervoso.
• Rivestimenti di bocca e naso.
• Smalto dei denti.
• Lente dell'occhio.
2. Mesoderma:
• Tessuti connettivali e di sostegno
• Apparato escretore
• Muscoli
• Apparato circolatorio
• Mesenteri
• Peritoneo
• Molto dell'apparato riproduttore
3. Endoderma:
• Fegato
• Pancreas
• rivestimento dell'uretra e della vescica urinaria
• rivestimento dell'apparato respiratorio
Tessuto epiteliale

Il tessuto epiteliale è composto da cellule di forma regolare, strettamente aderenti le une alle altre.
Le cellule che costituiscono il tessuto epiteliale svolgono funzioni di rivestimento, di secrezione, di
trasporto e di assorbimento. I tessuti epiteliali sono separati dai sottostanti mediante una membrana
basale, di natura fibrosa. L'epitelio, a differenza del connettivo sottostante, non è vascolarizzato. Il
tessuto epiteliale deve avere caratteristiche di flessibilità e resistenza e le cellule che lo
compongono sono tenute insieme dai desmosomi e occludenti. I desmosomi assolvono a funzioni
meccaniche, grazie alla presenza dei filamenti intermedi, che sono in grado di dissipare le forze
conseguenti a insulti meccanici, e che vengono ben scaricate nel tessuto. Le giunzioni occludenti
uniscono due cellule adiacenti senza lasciare interstizi, così che le molecole idrosolubili non filtrino
tra una cellula e l'altra Sulla base della localizzazione del tessuto, assume denominazioni differenti:

Nome Caratteristiche

Sierose Rivestono organi che non comunicano con l'esterno, come la pleura

Cute Superficie cellulare a contatto con l’ambiente esterno

Mucose Rivestimento interno e superficiale di organi che comunicano con


l'esterno come lo stomaco e l'utero

Epitelio semplice Formato da un unico strato cellulare

Epitelio pluristratificato Composto da più strati cellulari

Epitelio costituito da un solo strato di cellule, i cui nuclei sono disposti ad


pseudostratificato altezze differenti, creando l’impressione di un tessuto multistratificato,
mentre le cellule cilindriche di cui è composto sono disposte in un unico
strato.

Epitelio ghiandolare Libera sostanze dette secreti. Se i secreti sono liberati tramite il dotto
secretore la ghiandola si chiama secretoria, se lo riversa nel sangue
direttamente, è detta ormone

Epitelio di rivestimento Ci protegge da infezioni e da agenti esterni.

Epitelio sensoriale Il tipico esempio sono i recettori della lingua per il gusto, sono quindi
cellule specializzate a stimoli esterni
Tessuto connettivo

E' costituito da macrofagi, fibroblasti, plasmacellule dispersi nella matrice extracellulare che,
come ricorderete, è fonte di nutrimento per la cellula e mezzo attraverso il quale si demoliscono le
sostanze di scarto. La matrice extracellulare è formata da fibrille.
Il tessuto connettivo può essere:

Nome Caratteristiche

Propriamente Protegge, ha funzione riempitiva e circonda gli organi (fibroblasti). Diviso in:
detto
• Denso, formato da fibre di collagene. Lo si trova nei tendini e nel
derma.
• Lasso, formato da sostanze non molto compatte e funge da
riempimento negli spazi tra gli organi.

Adiposo Tessuto connettivo specializzato, formato da adipociti che sono una specie
cellulare composta per lo più da trigliceridi. Può essere:
• Bianco, tessuto sottocutaneo che ci difende dal freddo che è
responsabile di circa il 10-15% del peso corporeo.
• Bruno, fondamentale per la produzione di calore corporeo. Calore che
proviene da mitocondri in cui la respirazione cellulare non porta ad
ATP ma a calore.

Cartilagineo Tessuto flessibile, poiché formato da una matrice elastica dovuta ai


condrociti. Svolge un ruolo importante nel periodo fetale in quanto è a tutti gli
effetti il precursore dello scheletro.

Osseo Tessuto forte, duro, elastico e leggero, sostegno del corpo umano e
mineralizzato. La matrice del tessuto osseo è formata da collagene, carbonato
di calcio e fosfato di calcio (insieme ad altri). La matrice è prodotta dagli
osteoblasti che successivamente maturano in osteociti.
Tutte le ossa sono rivestite dal periostio e si dividono in:
• Tessuto osseo compatto, formato da osteoni.

• Tessuto osseo spugnoso, costituito da lamelle.


Tessuto muscolare

Il ruolo del tessuto muscolare è quello di permettere il movimento, insieme alle ossa, e di
mantenere la postura. Questo tessuto è formato da delle cellule con delle proprietà particolari, che
sono eccitabilità e contrattilità, caratteristica risposta all'eccitamento.
Il tessuto muscolare è di tre tipi

Nome Caratteristiche

Striato Costituisce gli organi dell'apparato locomotore. Risponde ad una contrazione


volontaria.

Liscio Liscio, perché i miofilamenti non sono organizzati in sarcomeri. Risponde a stimoli
nervosi ed ormonali (contrazione involontaria).

Miocardico Intermedio fra i due tipi di tessuti precedenti perché del tessuto striato conserva
* l'organizzazione in sarcomeri, mentre come il tessuto liscio risponde a stimoli
nervosi e ormonali (contrazione involontaria).
*Miocardico perché presente solo nella muscolatura cardiaca,
Tessuto nervoso

L'unità fondamentale è il neurone, ovvero la cellula nervosa con proprietà caratteristiche del
tessuto nervoso: l'eccitabilità e la conducibilità.
La sua funzione è quella di ricevere gli stimoli endogeni ed esogeni, trasmetterli ed elaborarli
permettendo all'individuo di interagire con l'ambiente che lo circonda.
Anche a livello cellulare i neuroni devono impostare, tra loro, una forte interazione, infatti sono in
grado di scambiarsi informazioni grazie alle proprietà che abbiamo menzionato all'inizio.
Con eccitabilità s'intende la possibilità che ha il neurone di reagire a degli stimoli esterni (fisici e
chimici) che vengono convertiti in impulso nervoso. Per conducibilità s'intende la trasmissione
necessaria per far sì che quel messaggio possa essere inviato alle altre cellule sotto forma di
“piccola corrente elettrica” e in corrispondenza di specifiche giunzioni cellulari, le sinapsi.
Il tessuto nervoso è popolato dai neuroni e dalle cellule della glia, o nevroglia, che possiedono
funzioni di supporto strutturale e funzionale rispetto ai neuroni.
I neuroni sono composti da un corpo cellulare (soma o pirenoforo), dal cui si dipartono due
differenti tipi di prolungamenti: i dendriti e gli assoni (o neuriti).
I primi sono relativamente corti, molto ramificati e numerosi. Sono il “centro di raccolta” degli
stimoli provenienti dall'esterno, o da altri neuroni, che permettono la trasmissione verso il soma
(direzione centripeta dell'impulso)
L'assone (solo uno per neurone) è di media molto più lungo e grande dei dendriti, ha la funzione di
ritrasmettere l'informazione nervosa, giunta dai dendriti, alle altre strutture nervose sparse
nell'organismo (direzione centrifuga dell'impulso).
In realtà queste strutture non entrano mai in contatto tra loro, ma sono separate dalla cosiddetta
fessura sinaptica o più semplicemente sinapsi. Lungo il terminale assonico scorrono continuamente
minuscole vescicole in cui è stato immagazzinato un neurotrasmettitore di origine chimica. Il
neurotrasmettitore verrà poi rilasciato nella fessura sinaptica nel momento in cui arriverà un
impulso nervoso. Il neurotrasmettitore trasmette l'impulso al neurone immediatamente successivo
legandosi ai recettori presenti sulla sua membrana.
Una caratteristica fondamentale dell'impulso è la sua conduzione. Gli assoni delle cellule nervose
sono rivestiti dalla guaina mielinica. La guaina non è continua su tutto il neurite ma risulta essere
interrotta con frequenza regolare. Le interruzioni in cui la guaina è assente sono chiamate nodi di
Ranvier e ciascun nodo è costituito da una singola cellula di Schwann avvolta più volte intorno alla
fibra. Lungo queste fibre, dette mieliniche, l'impulso nervoso viaggia molto più rapidamente
rispetto alle fibre amielinche che non presentano il rivestimento di mielina. La trasmissione
dell'impulso appena descritta è chiamata conduzione saltatoria dell'impulso.
I neuroni sono per definizione cellule perenni. Il loro numero sembra modificarsi in un unica
direzione, ovvero in diminuzione durante la crescita dell'individuo; questo perché le cellule nervose
sono in uno stato di quiescenza (ricordate la fase G0 del ciclo cellulare) dunque non possono
riprodursi.
Altre cellule che abitano il tessuto nervoso sono gli astrociti (forma stellata) con numerosi
prolungamenti che assicurano rifornimento di sangue ai neuroni, tenendo in equilibrio l'ambiente
chimico esterno (rimuovendo gli ioni), infine catturano e riciclano i neurotrasmettitori rilasciati
durante i processi di trasmissione nervosi. La loro funzione protettiva si riscontra nella barriera
ematoencefalica che riveste i vasi del sistema nervoso centrale (SNC), impedendo la
comunicazione con sostanze nocive.
Troviamo anche gli ependimociti favoriscono la circolazione del liquido cerebrospinale, il liquor,
gli oligodendrociti e le cellule di Schwann isolano gli assoni rivestendoli di mielina (guaina
mielinica), i microgliociti (o cellule della microglia) con attività fagocitaria.
SEZIONE 10 ANATOMIA E FISIOLOGIA DEGLI ANIMALI E
DELL'UOMO
Apparato cardiovascolare: il cuore

Il mediastino, cavità virtuale che occupa buona parte del torace, contiene:
• Cuore;
• Timo (molto sviluppato nel bambino);
• Dotto toracico;
• Esofago;
• Trachea;
• Bronchi principali;
• Gran parte dei rami del nervo vago (nervi frenici, cardiaci, splancnici, ecc...);
• I grossi vasi (arco aortico, vena cava superiore ed inferiore);
• Linfonodi.

Il cuore, è un organo complesso, di forma conica provvisto di muscolatura involontaria ben


sviluppata e potente, capace di contrarsi ritmicamente. È diviso in quattro camere: due superiori, gli
atri e due inferiori, i ventricoli.
L'atrio di destra e di sinistra, come il ventricolo di destra e quello di sinistra, sono separati tra loro
rispettivamente dal setto interatriale e dal setto interventricolare, in modo tale che la metà destra
del cuore NON comunica con la metà sinistra, anche perché il “cuore destro” pompa sangue venoso
e quindi non ossigenato, mentre il “cuore sinistro” pompa sangue proveniente dai polmoni e quindi
ossigenato (sangue arterioso).

Detto ciò, al contrario, atri e ventricoli dello stesso lato, comunicano tra loro mediante un orifizio
atrioventricolare e il sangue fluisce in un’unica direzione, dall’atrio al ventricolo. Il sangue
dall'atrio destro passa nel ventricolo destro attraverso la valvola tricuspide, mentre tramite la
valvola bicuspide (anche detta mitralica) il sangue passa dall'atrio sinistro al ventricolo sinistro.

Dai ventricoli prendono origine, (con interposizione delle valvole semilunari) l'aorta (nel ventricolo
sinistro dove è presente la valvola aortica) e l'arteria polmonare (ventricolo destro dove è presente la
valvola polmonare).. Mentre agli atri arrivano le vene polmonari e le vene cave.
Anatomia del cuore

Il cuore è avvolto dal pericardio. Il pericardio è formato da due foglietti, quello più esterno è quello
fibroso, mentre il più interno è quello sieroso.
Sotto il pericardio troviamo tre tonache che costituiscono la parete del cuore. Dall'esterno verso
l'interno, troviamo:

1. Epicardio, formato da tessuto connettivo;


2. Miocardio, fibre muscolari cardiache;
3. Endocardio, formato da cellule endoteliali.

Meccanica del ritmo cardiaco:

La muscolatura cardiaca é striata, come il muscolo scheletrico, ma a differenza di questo è una


muscolatura involontaria. Le fibre miocardiche sono costituite da numerose cellule muscolari
strettamente connesse tra loro tanto da formare un sincizio funzionale. Infatti quando il cuore viene
pervaso da uno stimolo elettrico l’impulso si propaga in tutto il cuore trasmettendosi di fibra in
fibra.
Per ciclo cardiaco si intende la successione degli eventi meccanici che caratterizza l’attività ritmica
del cuore. La durata del circolo cardiaco dura circa 0,8 secondi per un totale si 70 battiti al minuti.

Il miocardio può essere diviso in miocardio comune (o di lavoro) e miocardio di conduzione.

Il miocardio di lavoro:

La massa muscolare cardiaca è destinata a generare la forza contrattile del cuore, per questo è
denominato miocardio di lavoro. Gli elementi contrattili che costituiscono il tessuto del miocardio
sono le fibrocellule miocardiche, piccole di dimensioni, con un solo nucleo posto centralmente e
sono connesse tra loro mediante ponti protoplasmatici che le uniscono l'una all'altra in una rete
cellulare tridimensionale.

Il miocardio di conduzione:

Nei mammiferi si trova una complessa struttura denominata sistema di conduzione che comprende
sia le strutture dove avviene l'insorgenza dell'eccitamento spontaneo che genera e mantiene il ritmo
cardiaco sia la parte adibita alla funzione di condurre e distribuire l'attivazione delle varie parti del
cuore.

Nel cuore umano figurano:

• il nodo seno-atriale: nodo di Flack, situato nella parete posteriore dell'atrio destro, esso è il
segnapassi del cuore, cioè la formazione dove ha solitamente inizio l'eccitamento spontaneo
che inizia il battito del cuore.
• Il nodo atrio-ventricolare: nodo di Tawara, situato nelle vicinanze della valvola tricuspide,
questo riceve l'eccitamento derivante dal nodo del seno
• fascio di His: formazione che partendo dal nodo di Tawana discende dal setto
interventricolare e si divide in due branche principali.

Le caratteristiche contrattili fondamentali sono:

• Eccitabilità → il miocardio è in grado di rispondere a stimoli elettrici.

• Conduzione → il tessuto del miocardio è formato da una rete tridimensionale di unità


cellulari interconnesse, ne viene che il potenziale d'azione è la contrazione si propagano.
Anche nel miocardio il meccanismo della conduzione è puramente elettrico, infatti le
correnti possono passare facilmente, grazie alla bassa resistenza elettrica delle strie
scalariformi, dalle fibrocellule attive a quelle ancora a riposo.
• Refrattarietà → quanto il tessuto miocardico sia portato in eccitamenti da uno stimolo ed
insorge il potenziale d'azione, esso non è in grado di rispondere al un altro stimolo per un
determinato lasso di tempo, cioè diventa refrattario.
• Ritmicità → le contrazioni sono chiamate sistoli, sono regolarmente intervallare da periodi
di rilasciamento detti diastoli. La ritmicità del cuore è una tipica proprietà dl miocardio, non
è dovuta cioè a segnali che giungono per via nervosa.

La circolazione sanguigna:
La circolazione sanguigna nei mammiferi è doppia e completa e si distingue un piccolo ed un
grande circolo.

Piccola circolazione (piccolo circolo o circolazione polmonare)

È il circolo sanguigno che garantisce l’ossigenazione del sangue. Dal ventricolo destro del cuore,
attraverso le arterie polmonari il sangue venoso (carico di sostanze di scarto e povero di
ossigeno) viene pompato nei polmoni, dove, a livello degli alveoli polmonari viene rilasciata
l'anidride carbonica e il sangue viene ossigenato. Avvenuto lo scambio, il sangue, ora ossigenato,
torna all'atrio sinistro attraverso le vene polmonari..

Grande circolazione (grande circolo)

È il circolo sanguigno che garantisce l’ossigenazione di tutti i tessuti dell’organismo e al contempo


allontana da questi sostanze di scarto. Inizia nell’atrio sinistro dove il sangue ossigenato proveniente
dai polmoni attraverso la valvola mitriale passa nel ventricolo sinistro. Tramite la contrazione
cardiaca (sistole) il sangue viene pompato nell’aorta e viene distribuito in tutti i i distretti corporei.
L'aorta si ramifica in diverse arterie via via di calibro minore fino a formare le arteriole, che a loro
volta formano una fitta rete di capillari, a livello dei quali avvengono gli scambi (scarico di
ossigeno e di nutrienti, carico delle sostanze di scarto (CO2). A questo punto, avvenuti gli scambi, i
capillari confluiscono tra loro a formare vasi di calibro via via maggiore, passando dalle venule fino
a sboccare nella vena cava superiore e nella vena cava inferiore nell'atrio destro del cuore, “cuore
venoso” che raccoglie il sangue carico di anidride carbonica. Dall’atrio destro il sangue passa
tramite la valvola tricuspide al ventricolo sinistro e da qui viene pompato ai polmoni per essere
ossigenato (da qui inizia il piccolo circolo o circolo polmonare).

Sistema linfatico è costituito da un articolato sistema di vasi che decorrono parallelamente al


sistema cardiocircolatorio.
Le funzioni del sistema linfatico sono principalmente 2:

- Riassorbire i liquidi e le proteine filtrati dai capillari sanguigni ed evitare cosi la


formazione di edemi (ristagno di liquidi)

- Garantire protezione all’organismo tramite l’attività dei linfonodi.

Il sistema linfatico si oppone ad eccessivi accumuli di fluidi nello spazio interstiziale dei tessuti (tra
una cellula e l’altra) riportando tali fluidi nel torrente circolatorio.

All’interno dei vasi linfatici scorre la linfa (sostanza di colore trasparente, giallo paglierino o
lattescente che contiene zuccheri, proteine, sali, lipidi, amminoacidi, ormoni, vitamine, globuli
bianchi). I vasi più piccoli sono detti capillari, si trovano nelle regioni periferiche dell'organismo, e
si riuniscono in vasi di diametro sempre maggiore fino a riversarsi nel dotto toracico. A differenza
dei capillari sanguigni, i capillari linfatici sono a fondo cieco e il flusso al loro interno non è spinto
dalla forza contrattile del cuore ma dall’azione contrattile dei muscoli. A causa dell'eccessiva
immobilità, la linfa tende a ristagnare, accumulandosi nei tessuti generando edema e gonfiore degli
altri (ecco perché dopo una lunga giornata in piedi le gambe risultano gonfie e doloranti e si ha la
necessita di mantenerle sollevate al di sopra del livello del cuore per agevolare il drenaggio linfatico
sfruttando la forza di gravità).

Lungo le vie linfatiche sono presenti delle strutture chiamate linfonodi, veri e propri organi di
filtraggio della linfa, importanti per la risposta immunitaria sia umorale sia cellulo-mediata tramite
la maturazione dei linfociti. I linfonodi di maggior importanza sono siti nel collo, nelle ascelle e nel
inguine (queste strutture possono ingrossarsi quando veniamo a contatto con dei patogeni e si ha
un’infezione in corso).
Altri organi quali timo, midollo osseo, tonsille, milza e placche di Peyer vengono chiamati organi
linfatici deputati alla produzione dei linfociti T e B ed alla purificazione della linfa.
Apparato respiratorio

E' costituito dai polmoni (organo in cui avvengono gli scambi gassosi col sangue) e dalle vie
respiratorie ( sistema ramificato di condotti aerei)
Le vie respiratorie si dividono in:
- Vie respiratorie superiori e comprendono: cavità nasali (ricoperte da mucosa con
epitelio ciliato e bagnato da liquido mucoso prodotto dalle ghiandole in esso
contenute), Faringe (da dove, grazie alla chiusura della glotide, l’aria entra nelle vie
respiratorie inferiori. Questi organi hanno funzione di purificare, umidificare e
riscaldare l'aria.
- Vie respiratorie inferiori e comprendono: Laringe, Trachea e bronchi sono strutture
tubulari costituite da delle formazioni cartilaginee che donano una certa rigidità
all’intera struttura. I bronchi, destro e sinistro, diretti rispettivamente al polmone
destro e sinistro si dividono in dotti di calibro minore chiamati bronchioli che non
presentano una parete rigida ma sono avvolti da una tunica di muscolatura liscia. Dai
bronchioli si passa agli alveoli polmonari, dove si hanno gli scambi gassosi con il
sangue.

Polmoni: sono due grandi organi posti simmetricamente nel torace. Nell’uomo ciascun polmone è
diviso in lobi polmonari ( il destro in 3 lobi, il sinistro in 2 lobi) ed è contenuto in un sacco sieroso
costituito dalla pleura, una lamina mesoteliale che presenta due foglietti: uno parietale che ricopre
la superficie interna dei polmoni, ed uno viscerale aderente alla superficie polmonare. Lo spazio tra
i due foglietti (il cavo pleurico) è occupato da un velo di liquido viscoso che facilita i movimenti
respiratori. I cavi pleurici separano i polmoni dalla parete toracica e dal diaframma, nello spazio
pleurico, in tutte le fasi della respirazione, troviamo una pressione negativa (pressione negativa
intrapleurica; quando il cavo pleurico viene messo a contatto con l’atmosfera l’aria entra nel
polmone e questo collassa à pneumotorace). Una pressione pari a quella intrapleurica si trova in
tutte le strutture interne alla cavità toracica, tranne che all’interno delle vie respiratorie e delle
strutture alveolari.
Il tessuto polmonare presenta una consistenza spugnosa ed è per la maggior parte costituito dalle
formazioni aleveolari, cioè insieme di cavità sferiche contenenti aria. Grazie alla sua struttura
spugnosa ed elastica, il polmone, è in grado di seguire le variazioni volumetriche del torace durante
gli atti respiratori.

Meccanica respiratoria:
L’aria contenuta nella parte alveolare dei polmoni, per via degli scambi gassosi con il sangue, tende
sempre più ad impoverirsi di O2 e arricchirsi di CO2, questo processo è ritmicamente interrotto dagli
atti respiratori in ciascuno dei quali una parte di aria dei polmoni ( + CO2 che O2) viene sostituita
con aria atmosferica ( + O2 che CO2).
Ogni atto respiratorio consiste in due fasi:
- Inspirazione: ossia l’aria immessa nell’apparato respiratorio
- Espirazione: ossia aria espulsa dai polmoni, povera di O2 e ricca di CO2.
Nell’uomo in condizioni di riposo la respirazione è di 14/15 atti/minuto, ma può variare
bruscamente a seconda del lavoro degli organi interni e dell’apparato muscolare.
I polmoni non posseggono una muscolatura propria, sono completamente passivi e la loro attività è
dovuta ai muscoli respiratori.
Durante l’inspirazione l’aumento del volume della cavità toracica è dato dall’innalzamento delle
coste (operato dalla contrazione dei muscoli intercostali esterni che determinano un aumento
antero-posteriore del torace) e dall’abbassamento del diaframma (dovuto alla contrazione della sua
muscolatura. Il diaframma è una formazione prevalentemente muscolare a forma di cupola).
Durante la respirazione tranquilla le variazioni volumetriche della cassa toracica sono date da
movimenti del diaframma (respirazione addominale), quando aumenta la profondità del respiro
movimenti costali (respirazione toracica) e movimenti diaframmatici partecipano in egual misura
per rendere più ampia la variazione volumetrica della cassa toracica.
L’espirazione, durante un respiro tranquillo, è un processo passivo, cioè non dipendente
dall’attivazione dei muscoli espiratori, ma è determinato dalle forze elastiche create, nelle strutture
polmonari e toraciche, dalla contrazione dei muscoli inspiratori durante l’inspirazione.
L’espirazione forzata è possibile grazie all’attività dei muscoli intercostali interni che con la loro
contrazione provocano la rotazione verso il basso delle coste. Anche i muscoli addominali
contraendosi e comprimendo la cavità addominale ne aumentano la pressione interna che tende ad
innalzare la cupola diaframmatica e quindi a diminuire il volume della cavità toracica favorendo
l’espirazione forzata.

Apparato digerente

Tramite l’attività dell’apparato digerente l’organismo è in grado di digerire ed assorbire i principi


nutritivi contenuti negli alimenti (per poterli utilizzare come materiale energetico per il proprio
metabolismo) e di eliminare sostanze di scarto sotto forma di feci.
Nell’uomo l'apparato digerente è formato da bocca, faringe, esofago, stomaco, intestino tenue
(duodeno, digiuno e ileo) e intestino crasso (cieco, colon e retto).

La bocca: la cavità interna della bocca è, racchiusa lateralmente dalle arcate gengivo-dentarie (32
denti nell’adulto), superiormente dal palato duro, ( composto dalle ossa mascellari e dai processi
palatini) seguito dorsalmente dal palato molle (di natura mucoso-muscolare che sfocia poi
nell’istmo delle fauci), e inferiormente troviamo un epitelio
pavimentoso pluristratificato non cheratinizzato da cui emerge la lingua, il secondo annesso orale di
natura mucoso-muscolare
All’interno della bocca avviene la triturazione dei cibi, il loro impasto con la saliva (prodotta da
ghiandole salivari che riversano nel lume dell'organo il loro secreto) e la riduzione in una poltiglia
definita bolo, che, tramite la deglutizione, verrà indirizzata al canale esofageo.
La digestione inizia nella bocca, dove i cibi vengono triturati ed amalgamati con il secreto prodotto
dalle ghiandole salivari (la saliva è ricca di enzimi come ad esempio la ptialina che degrada l’amido
contenuto negli alimenti), il cibo triturato ed impastato prende il nome di bolo alimentare e in
seguito alla deglutizione passa dalla bocca alla faringe.

La faringe: tratto in comune con l’apparato respiratorio convoglia il bolo alimentare nell’esofago.
Durante la deglutizione, la laringe si alza e l'epiglottide (una piccola valvola), chiude l'ingresso
verso la trachea, generando spazio per il passaggio del bolo nell'esofago. Con questa azione
semivolontaria inizia la peristalsi che si propagherà attraverso l'esofago trasportando così il bolo
verso lo stomaco.

L’esofago: condotto lungo circa 25 cm che sfocia nello stomaco. Possiede due strati di muscolatura
liscia (longitudinale e circolare) che contraendosi alternatamente generano dei movimenti
peristaltici, che spingono il bolo verso la strozzatura cardioesofagea (il cardias che impedisce al
bolo stesso di risalire all'esofago) posta nella parte apicale dello stomaco.

Lo stomaco: situato nella cavità addominale ha un pH di 3,5. Al suo interno sono presenti tre tipi di
ghiandole: le Parietali (secernono acido cloridrico), le Principali (producono pepsinogeno, forma
inattiva dell’enzima pepsina capace di idrolizzare le proteine in amminoacidi) e le Mucipare
(producono muco che impedisce l'autodigestione dello stomaco). Nello stomaco inizia la vera
digestione ad opera dei succhi gastrici; gli enzimi e il pH acido (che uccide i microrganismi)
trasformano il bolo in chimo il quale viene spinto, tramite i movimenti peristaltici, verso il piloro
(unica vera valvola dello stomaco) che lo porterà all'intestino tenue.

L’intestino tenue: in questo tratto del tubo digerente, lungo circa 6 metri, avvengono la maggior
parte dei processi della digestione chimica delle macromolecole che vengono scisse in molecole più
piccole che passano poi nel circolo sanguigno. L’intestino tenue viene diviso in 3 porzioni:
1) Duodeno: primo tratto lungo circa 20-25 cm, è di fondamentale importanza per la
digestioni delle molecole lipidiche che, a differenza delle proteine e dei carboidrati,
non vengono intaccate dall’attività dello stomaco. Grazie alla presenza delle papille
duodenali (munite di uno sfintere di muscolatura liscia) in questo tratto di intestino si
riversano la bile (proveniente dalla cistifellea tramite il dotto colèdoco, fondamentale
per l’emulsione dei grassi e la loro digestione), il succo pancreatico (prodotto dal
pancreas) e il succo enterico (prodotto dalle ghiandole intestinali) che completano la
digestione delle proteine, degli zuccheri complessi e dei grassi, abbassando inoltre
l’acidità del chimo che diventa chimo basico (o chilo).
2) Digiuno: secondo tratto lungo circa 3 metri, con un pH leggermente alcalino (da 7 a
9) viene chiamato “digiuno” perché solitamente risulta vuoto nei cadaveri, ciò sta ad
indicare una peristalsi molto veloce in questo tratto di intestino. La superficie interna
è ricca di estroflessioni abbastanza lunghe denominate villi e microvilli intestinali, la
cui funzione è quella di aumentare la superficie disponibile per l’assorbimento delle
sostanze nutritive. Nel digiuno infatti avviene l’assorbimento passivo del fruttosio e
in trasporto attivo di amminoacidi, vitamine e glucosio che dal lume intestinale
passano al circolo sanguigno.

3) Ileo: terzo ed ultimo tratto dell’intestino tenue, lungo dai 2 ai 4 metri presenta un pH
neutro/alcalino. Anche in questo tratto, la presenza di villi e microvilli intestinali
garantiscono l’assorbimento delle sostanze nutritive.

L’intestino crasso: lungo circa 150-170 cm con un diametro di circa 7 cm è separato dall’intestino
tenue grazie alla valvola ileocecale (uno sfintere muscolare che impedisce la risalita del chilo lungo
il canale digerente). Viene suddiviso in 4 tratti chiamati rispettivamente: cieco, colon (ascendente,
trasverso, discendente), sigma e retto.

1) Cieco: tratto corrisponde al tratto situato al di sotto della giunzione ileo-ciecale. Dalla faccia
mediale del cieco si distacca l'appendice vermiforme lunga dai 5 ai 9 cm, costituita da
tessuto linfatico con funzione di filtro che talvolta si può infiammare necessitandone
l’asportazione.

2) Colon:
- ascendente: lungo 15-20 cm, risale sul fianco destro fino all’altezza del fegato. Può
essere sede di infiammazioni e della malattia di Crohn.
- trasverso: lungo circa 50 cm attraversa longitudinalmente l’addome.
- discendente: lungo circa 25 cm, scende lungo il fianco sinistro.

3) Sigma: ha forma sigmoide (ad S) ed è compreso tra il colon discendente e il retto.

4) Retto: ultimo tratto dell’intestino crasso che termina con l’apertura anale.
La funzione dell’intestino crasso è quella terminare i processi digestivi assorbendo l'acqua (circa
1,5 litri al giorno), i sali minerali e le vitamine che passano attraverso la valvola ileocecale; di
provvedere all’assorbimento delle vitamine (vitamina B, vitamina K, cobalamina, tiamina) prodotte
dai batteri simbionti del colon, e di compattare le sostanze di scarto sotto forma di feci.
L'intestino tenue e quello crasso sono avvolti dal peritoneo (una sottile membrana sierosa che
riveste la cavità addominale e fissa e ricopre gran parte dei visceri contenuti al suo interno).

Sistema endocrino

Il sistema endocrino è l'insieme di formazioni ghiandolari che riversano i principi attivi che esse
stesse producono (gli ormoni) nel circolo sanguigno.
Le ghiandole secernenti ormoni possono essere di tipo endocrino (che riversano i loro prodotti
all’interno dell’organismo) o di tipo esocrino (che riversano il loro prodotto all'esterno
dell'organismo o in cavità comunicanti con l'esterno).
Vi sono particolari cellule che secernono sostanze le cui proprietà assomigliano molto ai tipici
ormoni, ma a differenza di questi non passano nel circolo sanguigno e agiscono in un'area ristretta
vicino al lungo di produzione; questi sono detti ormoni locali e la loro produzione è detta
secrezione paracrina.
Col il termine “ghiandola” si indica un'identità anatomica ben definita, e con quello di “ormoni”si
identificano i secreti che entrano nel circolo sanguigno e possono esplicare la loro azione anche a
grande distanza dal luogo di produzione.

Sono ghiandole endocrine: l'ipofisi (adenoipofisi e neuroipofisi), la tiroide, le paratiroidi, le


surrenali (comprende midollare e corticale) le isole di Langerhans del pancreas (o pancreas
endocrino), le gonadi (ovai e testicoli) e l'epifisi importante per la produzione di melatonina.
Il controllo per via ormonale è molto importante in particolar modo durante particolari periodi di
vita di un organismo, quali sviluppo, differenziazione dei tessuti e degli organi di riproduzione.

Gli ormoni:
I principi attivi prodotti dalle ghiandole sono gli ormoni, sostanze capaci di stimolare la funzione di
determinarti organi o dell'intero organismo. Gli ormoni presentano una grande attività biologica per
cui anche a concentrazioni estremamente basse sono capaci di modificare profondamente le
funzioni cellulari.
Esplicano una regolazione estrinseca che viene attuata principalmente in due modi:
• con un'azione di controllo (intesa come stimolare o inibire processi)
• con un'azione permissiva (che consente alla cellula di rispondere ad altri fattori regolatori
esterni, ad esempio ad un altro ormone)

Gli ormoni vengono divisi in due principali categorie:


• gli ormoni peptidici (formati da catene relativamente brevi di amminoacidi, es: tutti gli ormoni
ipofisari)
• gli ormoni steroidei (d natura lipidica, derivano da un precursore comune che è il colesterolo,
es: gli ormoni cortico-surrenali e quelli delle gonadi)

Accanto a queste due categorie esistono anche due importanti gruppi ormonali chimicamente
diversi, che sono: quello delle catecolamine (noradrenalina, adrenalina, dopamina) prodotte dalla
midollare delle ghiandole surrenali, e quello degli ormoni tiroideri (tiroxina e triiodotironina)
prodotti dalla tiroide.

Trasporto degli ormoni:


Una volta passati nel sangue gli ormoni vengono trasportati alla “cellula bersaglio”. Nel loro
trasporto gli ormoni possono presentarsi in forma libera oppure legati ad una proteina dal plasma
(prodotta dal fegato) chiamata proteina vettrice.
Per gli ormoni peptidici, le cui molecole sono idrofile, non è frequente l’associazione con
proteine trasportatrici. La loro vita che si misura in “tempo di semivita delle loro
molecole”ed è relativamente breve, va da pochi minuti a qualche ora, vengono demoliti
enzimaticamente dalla proteasi plasmatiche e tissutali.
Per gli ormoni steroidei, le cui molecole sono pochissimo idrosolubili, c’è l’obbligo di
legarsi alle proteine vettrici (infatti questi omoni liberi nel plasma si trovano in quantità
estremamente piccole). Legandosi alle proteine vettrici, gli ormoni, sono protetti da una
precoce inattivazione ed eliminazione da parte dell’emuntorio renale, vengono inattivati
enzimaticamente soprattutto nel fegato, trasformati in cataboliti e eliminati dal rene.
Anche le Catecolamine e gli ormoni Tiroidei vengono trasportati mediante delle proteine
vettrici.
Per passare ai tessuti gli ormoni devono passare dalla frazione combinata a quella libera staccandosi
dalla proteina vettrice. Nel plasma si va ad instaurare un equilibrio tra frazione libera e combinata
(con la proteina vettrice) dell’ormone, la forma combinata del plasma rappresenta una “riserva
ematica dell’ormone” dalla quale l’ormone ne viene liberato a seconda dell’esigenza tissutale.

Sebbene un ormone veicolato nel sangue possa raggiungere ogni tessuto, si va a “fermare” solo in
quelle cellule bersaglio che son capaci di “captarlo” grazie alla presenza di recettori ormonali
specifici che hanno un’affinità altissima per quell’ormone.

I livelli degli ormoni sono regolati dal sistema nervoso centrale e più precisamente dall’attività
dell’ipotalamo, che riceve stimoli sia dai distretti interni all’organismo che dal mondo esterno (es.
segnali di pericolo, la composizione del sangue, la pressione sanguigna) e in risposta a questi
segnali stimola le ghiandole endocrine dell'organismo a sintetizzare gli ormoni appropriati.
L’ipotalamo: situato ai lati del terzo ventricolo cerebrale, svolge una duplice funzione:
1) controllo del sistema nervoso autonomo (regolazione del bilancio idrosalino,
dell’appetito, del mantenimento della temperatura corporea, del ritmo
sonno/veglia).
2) Controllo del sistema endocrino grazie all’asse ipotalamo-ipofisario.
L’ipofisi: detta a anche ghindola pituitaria è una piccola formazione globosa situata nello sfenoide
alla base del cervello. Viene divisa in due porzioni: un lobo anteriore (adenoipofisi) e uno
posteriore (neuroipofisi).
L’adenoipofisi è un tessuto principalmente ghiandolare e le sue cellule sono circondate da una fitta
rete si capillari sinusoidali ampliamente fenestrati. In questo lobo vengono prodotti diversi ormoni (
vedi tabella) la cui biosintesi avviene nelle cellule endocrine della ghiandola stessa, la produzione di
questi ormoni è però controllata dai centri ipotalamici tramite ormoni di tipo peptidico che dai
centri nervosi, grazie ad una fitta rete di capillari, giungono alla adenoipofisi determinando la
sintesi, l'accumulo, quindi la immissione nel sangue di una serie di ormoni che vengono
chiamate tropine in quanto agiscono su altre ghiandole del sistema endocrino che sono dipendenti
dall'ipofisi (ovaio, testicolo, tiroide, corticale del surrene...).

ORMONE SIGLA AZIONE


GH Stimola la crescita corporea e
Somatotropo
la sintesi proteina cella cellula
PRL Stimola lo sviluppo e la
Prolattina
produzione lattea della
ghiandola mammaria
ACTH Stimola la secrezione di
Adreno-corticotropo
corticosteroidi dalla corteccia
surrenale
TSH Stimola la secrezione degli
Tireotropo
ormoni tiroidei da parte della
tiroide
FSH Stimola lo viluppo dei follicoli
Follicolo-stimolante
e la secrezione degli ormoni
estrogeni nell’ovario.
LH Stimola l’ovulazione e la
Luteinizzante
formazione del corpo luteo, la
secrezione di androgeni.

(Gli ormoni ipotalamici sono indicati come releasing factor ovvero fattori che regolano la
produzione di ormoni da parte della adenoipofisi)
La neuroipofisi di natura esclusivamente nervosa è deputata alla liberazione di due ormoni:
ossitocina (stimola la contrazione della muscolatura dell'utero durante il parto e delle cellule
muscolari della mammella durante l'allattamento per favorire l'uscita del latte) e l’ ADH (ormone
antidiuretico che agisce sui dotti collettori del rene e regolala l’assorbimento dell’acqua). Gli
ormoni vengono prodotti dai nuclei ipotalamici sopraortico e paraventricolare e discendono nella
neuroipofisi tramite le fibre nervose.

Tiroide: posizionata nella regione anteriore del collo, ha forma di farfalla ed è costituita da due lobi
(destro e sinistro) uniti da un ponte chiamato istmo. Produce e riversa nel circolo sanguigno un
importante gruppo di ormoni noti come ionotironine, fondamentali per la regolazione dello sviluppo
di tutti i tessuti e l’intensità dei processi metabolici che vi si svolgono.
Il tessuto tiroideo è costituito da un gran numero di follicoli, ossia concamerazioni chiuse legate le
une alle altre da una trama connettivale e da una fitta rete ci capillare sanguigni.
Gli ormoni prodotti sono la triiodotironina (T3) e la tetraiodotironina o tiroxina (T4).
Un deficit nella produzione di questi ormoni determina degli stati patologici anche gravi.
La carenza di ormoni tiroidei, o un’alterazione della loro attività viene definita ipotiroidismo,
sindrome caratterizzata da una sintomatologia precisa quale: stanchezza, scarsa capacità di
tolleranza al freddo e aumento di peso. Nei bambini, l'ipotiroidismo porta a ritardi nella crescita e
nello sviluppo intellettuale.
Un aumento nella liberazione di ormoni tiroidei invece determina l’ipertiroidismo i cui sintomi
sono: dimagrimento nonostante un buon appetito, nervosismo, irritabilità, aumento della
sudorazione, tachicardia, ansia, difficoltà nel dormire.

Nello stroma reticolare della tiroide troviamo le Cellule C o parafollicolari, cellule voluminose
caratterizzate da un citoplasma chiaro ricca di vescicole che producono la calcitonina ormone che
determina l’abbassamento del calcio nel sangue.
Paratiroidi: sono di norma 4, due superiori (situate dietro la tiroide), e due inferiori, (site fra i rami
dell'arteria tiroidea inferiore); producono l'ormone paratiroideo, o paratormone (PTH), importante
regolatore dell’omeostasi del calcio nel sangue.
L’asportazione di tutte e 4 le ghiandole paratiroidi è incompatibile con la vita

Surrenali: situate sopra i reni, hanno una forma triangolare, sono lunghe 5 cm e alte 2.5 cm.
Vengono divise in due porzioni: una parte esterna denominata corticale deputata alla produzione di
ormoni steroidi (glucocorticoidi: cortisone e cortisolo, mineralcorticoidi: aldosterone, e ormoni
sessuali: androgeni ed estrogeni) che esercitato controllo sul metabolismo glicidico, idroelettrolitico
e sulla funzione sessuale garantendo un corretto sviluppo dell’intero organismo. La parte interna
denominata midollare produce le catecolammine, mediatori chimici quali l'adrenalina e la
noradrenalina, importanti per la regolazione sia per il del sistema nervoso che di quello endocrino.
Gonadi: Nella donna sono le ovaie e producono estrogeni e progesterone. Nell'uomo sono i testicoli
che producono androgeni (testosterone). Le gonadi svolgono due funzioni principali, inducono la
Gametogenesi : produzione delle cellule germinali e la Steroidogenesi: produzione di ormoni
sessuali. Entrambe queste funzioni sono regolate dalle gonadotropine ipofisarie (FSH e LH)
Epifisi: chiamata anche ghiandola pineale è localizzata nell’estremità posteriore del terzo ventricolo
cerebrale e ha forma di nocciola; è deputata alla produzione della melatonina, ormone in grado di
regolare il ritmo circadiano (ritmo sonno/veglia) in base all’alternarsi del dì e della notte.

Omeostasi

L'omeostasi in biologia è sinonimo di stabilità, e di conseguenza le reazioni omeostatiche sono le


reazioni che servono per raggiungere lo stato di stabilità.
Il meccanismo di omeostasi prende il nome di feedback e può essere categorizzato in questo modo:
• Recettore (percezione della situazione esterna)
• Centro di controllo (traduzione della percezione)
• Effettore (esegue le istruzione del centro di controllo)
• Stimolo (meccanismo di regolazione interna)
Infine, l'omeostasi può essere negativa se l'organismo si oppone allo stimolo, o positiva quando
l'organismo agevola lo stimolo.

Apparato escretore

L'apparato urinario è formato dai reni e dalle vie urinarie.

I reni
La loro principale funzione è quella omeostatica, cioè hanno il compito di mantenere il più possibile
costante la composizione ed il volume dei liquidi corporei.
La complessa funzione renale si attua:
- regolando la quantità di acqua eliminata
- regolando la quantità di soluti eliminati
- regolando l’eliminazione di acidi e basi
- provvedendo alla escrezione dei prodotti ultimi del metabolismo (eliminazione dell’azoto)

Anatomia macroscopica:
I reni esplicano la loro azione attraverso un processo di filtrazione del sangue; sono organi
simmetrici posti in profondità nell’addome ai lati della colonna vertebrale, hanno forma di fagiolo,
misurano circa 12 cm di lunghezzae 6 cm di larghezza, e sono costituiti da due sistemi di condotti in
intimo contatto tra loro.
In sezione trasversale il rene presenta una zona corticale (più esterna) e una midollare (interna),
entrambe sono costituite da formazioni canalicolari microscopiche: i tubuli renali.
In sezione è possibile identificare delle strutture che vengono chiamate piramidi del Malpighi,
queste terminano con un calice renale che si riversa in un bacinetto renale dal quale poi diparte
l’uretere.

Anatomia microscopica:
L’unità funzionale del rene è il nefrone che depura circa 150-170 litri di sangue circolante al giorno.
La porzione iniziale del nefrone prende il nome di capsula di Bowman, seguono: tubulo contorto
prossimale, ansa di Henle, il tubulo contorto distale, tubuli collettori per terminare poi col dotto
collettore. Durante il passaggio in questi tratti tubulari si ha la formazione dell’urina più o meno
concentrata a seconda dell’equilibrio idro-salinico dell’organismo e in base alla regolazione
ormonale data dall’ormone antidiuretico ADH e dall’aldosterone.
Capsula di Bowman: all’interno della capsula di Bowman il sangue da filtrare arriva mediante
l’arteriola afferente e mediante l’arteriola efferente esce dal nefrone il sangue purificato. (Al suo
ingresso nel nefrone l’arteriola afferente mostra un ispessimento dovuto alla presenza di cellule
iuxtraglomerulari che hanno una funzione endocrina, infatti producono la renina, molecola capace
di innalzare la pressione arteriosa mediante un meccanismo mediato dall’angiotensina II).

La filtrazione avviene grazie a delle variazioni di pressione all’interno della capsula stessa. Tali
variazioni pressorie consentono l’allontanamento, attraverso un epitelio fenestrato, delle materie si
scarto dal sangue

Tubulo contorto prossimale: si diparte dalla capsula di Bowman, lungo circa 15 mm, è
caratterizzato da molteplici convoluzioni che si sviluppano in vicinanza del corrispondente
glomerulo, l’epitelio delle sue pareti è formato da cellule cubiche la cui membrana è provvista di
microvilli dal lato luminare, mentre nel lato basale presenta numerose introflessioni e il citoplasma
in questa porzione è ricco di mitocondri. La presenza di microtubuli sulla membrana luminare è di
fondamentale importanza per il riassorbimento infatti in questo tratto si ha l’elaborazione di oltre
l’80% del filtrato glomerulare.
Nel tubulo contoro prossima vengono riassorbiti: Sodio (Na+) mediante l’attività di una pompa
Na+/K+ regolata dall’ormone aldosterone; Cloro (Cl-); Ca++ ed Mg++ (regolati dall’ormone
paratiroideo), fosfati, glucosio e amminoacidi (tramite meccanismo Tm-limitato, cotrasporto con lo
ione Na+). Vengono invece secreti: sostanze di origine metabolica (creatina, istamina) ioni H+, HN3
che nel liquido intratubulare da origine allo ione ammonio (NH4).

Ansa di Henle: ha forma di U ed è costituita da una porzione sottile del tubulo che discende nella
parte midollare del rene (tratto discendete) per poi risalite nella corticale ( tratto ascendente).
L’ansa si Henle viene divisa in 4 tratti:
- 1° tratto: che presenta un epitelio uguale a quello del tubulo contorto prossimale, infatti anche i
processi di riassorbimento e secrezione sono uguali a quelli del tratto tubulare precedente.
- 2° tratto (branca discendente) e 3° tratto (branca ascendente, caratterizzato da epitelio a pareti
sottili con cellule piatte, quasi sprovviste di mitocondri) sono sede di scambi passivi di H2O, Na+,
Cl- e urea.
- 4° tratto: situato nella corticale, mostra epitelio con cellule cubiche (come il tubulo contorto
distale) e ricche di mitocondri, riscontriamo intensi processi di riassorbimento attivo di Na+ e Cl- (
questo tratto è pero quasi totalmente impermeabile all’H2O e all’urea)

Tubulo contorto distale: contorto e breve, l’epitelio delle sue pareti è formato da cellule cubiche
con microvilli e mitocondri. La parte iniziale del tubulo distale prende contatto con l’arteriola
afferente, qui l’epitelio del tubulo mostra un addensamento cellulare che prende il nome di “macula
densa” che costituisce, con le cellule granulose dell’arteriola, l’apparato iuxtraglomerulare
(deputato alla produzione di renina in base alla pressione e alla concentrazione del sodio rilevata).
In questo tratto il riassorbimento attivo regolato dall’aldosterone di Na+, Cl-, Ca++ e Mg++. Si ha
anche la secrezione di H+ ed NH3 che contribuiscono all’acidificazione dell’urina.

Tubuli e Dotto collettore: è la parte terminale del tubulo renale e si riversa nei dotti collettori . È
sede di trasporti attivi di Na+. Il riassorbimento dell’H2O è controllato dall’ormone antidiuretico
(ADH). La presenza dell’ormone consente l’inserimento, nelle pareti dei tubuli collettori, di
proteine chiamate acquaporine capaci di aumentare il riassorbimento dell'acqua. Vengono così
escrete urine con un volume ridotto e più concentrate.
I dotti collettori si riuniscono in dotti sempre più grossi e formano le piramidi del Malpighi. I tubuli
di ogni piramide si riuniscono nel tubulo retto del Bellini, che si riversa in uno dei calici minori i
quali confluiscono nel bacinetto renale (segue l’uretere)

Vie urinarie
I dotti collettori terminano nella pelvi renale, dove hanno origine i due ureteri, uno per rene, che
trasportano l'urina (prodotto ultimo dell’attività renale) in vescica (organo muscolare cavo posto
nel bacino può contenere dai 250 ai 300 millilitri di urina). Dalla vescica l'urina passa nell'uretra,
che ne permette la minzione. Nell'uretra maschile è più lunga di quella femminile che invece misura
circa 7 cm.

Il prodotto dell’attività renale è l’urina. In 24 ore l’uomo produce circa 1,5-3 litri di urina, questa ha
aspetto limpido e colore giallo paglierino. Formata per il 90-95% da acqua e per il restante 5-10%
da urea (prodotta dalla degradazione delle proteine) azoto, cloruri, ammoniaca, creatinina, acido
urico, sodio, calcio.
L’analisi delle urine può dare importanti informazioni sullo stato di salute dell’intero organismo.
Componenti patologici delle urine sono (che si ritrovano nelle urine sono in presenza di particolari
patologie): le proteine, il sangue, il glucosio, lipidi, leucociti e corpi chetonici.

Apparato riproduttore femminile

L'apparato riproduttore femminile è formato da organi sessuali interni (utero e annessi) ed esterni
(vulva).

Organi interni:
L'utero è un organo cavo, impari, sito al centro della piccola pelvi, interposto tra
la vescica (anteriormente) e il retto (posteriormente). Lungo in media di 7-8 cm ha un diametro
traverso e antero-posteriore di 4-5 cm per un perso di 60-70 g.
Riconosciamo due porzioni dell’utero: una inferiore, il collo dell’utero o cervice uterina, che sfocia
nella vagina, e una porzione superiore più voluminosa che prende il nome di corpo dell’utero,
queste due porzioni sono separate da una strozzatura denominata istmo dell’utero.
La parete uterina è costituita da diversi tipi di tonache:
• Strato più interno (la tonaca mucosa o endometrio) che si inspessisce durante il ciclo mestruale
in preparazione dell'impianto dell'embrione
• Strato muscolare o miometrio è uno spesso strato muscolare contenente la maggior parte dei
vasi sanguigni e nervi che riforniscono l'utero
• Rivestimento peritoneale detto anche perimetrio è il proseguimento del peritoneo pelvico.
Questo è lo strato scivoloso di tessuto connettivo che riveste la cavità pelvica.

Nella parte basale dell’utero si aprono le tube di Falloppio organi tubolari pari e simmetrici che
collegano la cavità uterina all’ovario. Hanno una lunghezza che va dai 12 ai 18 cm e uno spessore
che arriva fino ai 3 millimetri.
Le ovaie sono strutture pari poste ai lati dell’utero hanno forma di mandorla e sono lunghe 3-5 cm,
con un diametro di circa 2-3 cm. Sono ricoperte dai follicoli oofori, i quali si occupano di nutrire le
cellule uovo non ancora mature e di produrre estrogeni.

Le ovaie producono le cellule germinali femminili, chiamati oociti; la gametogenesi (formazione


dei gameti) femminile inizia durante la vita intrauterina, dove le cellule germinali, diventate
ovogoni, subiscono diverse divisioni mitotiche. Gli ovogoni si trasformano in follicoli primordiali
primari che rappresentano lo stadio di sviluppo dell'ovocita alla nascita (ovocita circondato da
poche cellule follicolari). Il follicolo primordiale primario rimane quiescente fino alla pubertà.

Organi esterni:
Sono rappresentati dalla vulva che comprende:
- Monte di Venere (cuscinetto di tessuti adiposo situato davanti alla sinfisi pubica e
limitato lateralmente dalle pieghe dell’inguine)
- Grandi labbra (pliche cutanee disposte longitudinalmente dal monte di venere alla
regione preanale)
- Piccole labbra ( site all’interno delle grandi labbra)
- Vestibolo della vagina con l’imene e le ghiandole vestibolari maggiori (ghiandola di
bartolini)
- Clitoride (organo erettile della donna costituito da due corpi cavernosi)
- Vagina (canale muscolare che collega i genitali esterni alla cervice dell'utero, lunga
da 5 a 10 cm)

Il ciclo ovarico:

1. Fase follicolare (quinto – quattordicesimo giorno): l'ovocita contenuto nel follicolo passa
dalla profase meiotica I, in cui era bloccato, alla metafase II. In questa fase comincia una
produzione di estrogeni sempre maggiore.
2. Ovulazione (quattordicesimo giorno): l'ovocita viene espulso dal follicolo maturo, in cavità
addominale, dove viene catturato dalle ciglia delle tube. Questa fase prende il nome del
picco di LH che la caratterizza.
3. Fase luteinica (quindicesimo – ventottesimo giorno): i residui del follicolo scoppiato
vengono trasformati in corpo luteo dall'LH. Il corpo luteo appena formato, oltre a secernere
ancora estrogeni ormai in piccole quantità, inizia a produrre progesterone che stimola
l'ispessimento endometriale e l'adattamento uterino, ovvero le trasformazioni necessarie
per rendere l'utero in grado di accogliere l'eventuale uovo fecondato, ovviamente, se si è
instaurata una gravidanza. Nel caso contrario, ovvero se la fecondazione non avviene, il
corpo luteo va anche esso in contro ad atresia.
4. Mestruazione (primo – quarto giorno): se come detto sopra non avviene la fecondazione, gli
adattamenti uterini ad una gravidanza vengono meno per cui la mucosa uterina si sfalda. Nel
caso in cui la fecondazione sia avvenuta, uno spermatozoo, grazie agli enzimi acrosomiali
(litici), riesce a penetrare la cellula uovo in modo tale che l'ovocita possa portare a termine
la meiosi II dove era bloccato; il tutto può avvenire soltanto nelle dodici ventiquattro ore
dopo l'ovulazione.

Apparato riproduttore maschile

L'apparato riproduttore maschile è formato da organi sessuali interni (dotto deferente, vescicole
seminali, dotti eiaculatori, prostata ed uretra) ed esterni (il pene e i due testicoli ).
Organi esterni:
I testicoli di numero 2, di forma ovoidale ed irregolare sono contenuti all'interno della sacca
dello scroto. Hanno due funzioni ben precise: producono gli spermatozoi (i gameti maschili) e
secernono gli ormoni sessuali maschili (gli androgeni) di cui il testosterone è il principale
rappresentante. Sia la funzione riproduttiva che quella ormonale sono regolate dal cervello.
All’interno del testicolo troviamo una fittissima rete di tubicini, i tubuli seminiferi (dove troviamo
anche le cellule del Sertoli), che producono milioni di spermatozoi al giorno, che si dirigono
verso l'epididimo.

Il pene è costituito da tre colonne di tessuto erettile, due corpi cavernosi e un corpo spungnoso, ben
vascolarizzato ed innervato. È deputato sia alla riproduzione che all'escrezione dell'urina.
I corpi cavernosi cilindrici e paralleli sono gli elementi erettili e sono avvolti da un tessuto fibroso
elastico. Il corpo spugnoso è nel messo dei due corpi cavernosi e avvolge l’uretra.
La parte apicale del pene prende il nome di glande alla cui sommità si trova l'apertura esterna
dell'uretra attraverso la quale fuoriescono l'urina e lo sperma, esso è ricoperto da uno strato di pelle
retrattile che prende il nome di prepuzio (fissato attraverso un sottile filamento che si
chiama frenulo).
Il glande è liscio e ricchissimo di terminazioni nervose, e nella parte inferiore si trova un margine
allargato chiamato corona.

Organi interni:
Il dotto deferente conduce gli spermatozoi dall'epididimo alle vescicole seminali. I dotti deferenti
sono due, chiamati anche vasi deferenti e continuano nei canali eiaculatori che, attraverso
la prostata, sboccano entrambi nell'uretra.
Le vescicole seminali site sopra e ai lati della prostata sono due piccole ghiandole lunghe circa 8
centimetri, secernono un liquido zuccherino che fornisce agli spermatozoi nutrimento ed energia.
dotti eiaculatori,
La prostata è una piccola ghiandola sita sotto la vescica. Il ruolo principale della prostata è quello
di produrre il liquido prostatico che insieme a quello prodotto dalle vescicole seminali forniranno
il nutrimento agli spermatozoi.
Il liquido seminale è composto per circa il 60% dal liquido prodotto dalle vescicole seminali, per il
35% dal liquido prostatico e dal 5 % da spermatozoi provenienti dai testicoli.
L'uretra lunga circa 24 cm, prende origine Dlla vescica, attraversa la prostata, il pene e termina
sul glande. Ha la funzione di eliminare l’urina e lo sperma durante il momento dell’eiaculazione.
La spermatogenesi è il processo di formazione degli spermatozoi che avviene nell’epitelio
seminifero del testicolo, nell'uomo può durare da 65 a 75 giorni, ed è finemente regolata per via
ormonale. L'FSH agisce da attivatore della spermatogenesi e stimola l'attività delle cellule del
Sertoli, mentre l'LH stimola l'attività delle cellule interstiziali (deputate alla produzione degli
androgeni). Il testosterone nell'uomo stimola la maturazione dei caratteri sessuali primari e
secondari.
Apparato locomotore

Il movimento è possibile grazie a strutture anatomiche ben collegate tra loro che nel loro insieme
costituiscono l’apparato locomotore. Questo è dato da una: l’apparato scheletrico, e da
uncomponente attiva: il sistema muscolare. E' formato da una componente passiva (il sistema
scheletrico che offre sostegno e protezione all’intero corpo) e da una attiva (il sistema muscolare
che permette il movimento trasformando energia chimica in energia meccanica).

Sistema scheletrico
Le Ossa:
L’apparato scheletrico umano è interno all’organismo (endoscheletro), suddiviso in tre parti: capo,
tronco e arti (inferiori e superiori) è composto da 208 ossa.
Ha la funzione di proteggere e sostenere l’organismo inoltre consente l’inserzione dei muscoli per
consentire il movimento.
La funzione protettiva consiste nel preservare i più importanti organi interni (la teca cranica
contiene al suo interno il cervello, la cassa toracica, formata dalle costole custodisce organi vitali
come cuore e polmoni, la colonna vertebrale protegge il midollo spinale).
La funzione di sostegno consiste nel dare stabilità al corpo e posizionarlo in modo adeguato nello
spazio.

Le ossa, in base alle loro caratteristiche strutturali, possono essere classificate in:
- Ossa lunghe: con funzione generalmente di sostegno, la lunghezza prevale sulla larghezza, sono
femore, omero, radio, ulna, tibia, perone. Presentano una porzione centrale chiamata diafisi e due
porzioni più estreme chiamate epifisi. all’interno troviamo il midollo osseo rosso, responsabile
dell'emopoiesi. Durante l'infanzia e nell'adolescenza riconosciamo anche una terza porzione
interposta tra epifisi e diafisi che prende il nome di metafisi o cartilagini di accrescimento.
- Ossa corte: sono le ossa terminali degli arti: falangi, ossa del carpo ma anche le vertebre. Sono
strutturate in modo da assicurare solidità e movimento.
- Ossa piatte: hanno funzioni protettive e sono scapole, ossa iliache, ossa della volta cranica. Non
hanno funzione emopoietica.

Le ossa sono costituite dal tessuto osseo, un tipo di tessuto connettivo caratterizzato dalla
mineralizzazione della sostanza fondamentale.
La componente organica è data dal collagene I e dall’ osseina; la componente mineralizzata è
composta da cristalli di idrossiapatite (fosfato di calcio 86%), carbonato di calcio (12%), fosfato
e fluoruro di magnesio. Grazie alla loro particolare composizione le ossa mostrano caratteristiche
di durezza e al contempo di flessibilità (entro certi limiti).

Il tessuto osseo è estremamente dinamico, esso si rinnova continuamente e subisce processi di


smantellamento e ricostituzione della sua sostanza fondamentale ad opera di 2 particolare tipi
cellulare: gli osteoclasti che liberano idrolasi acide che hanno il compito di dissociare i sali minerali
e distruggere le fibre collagene in modo da poterli riassorbire provvedendo così alla demolizione
della tessuto osseo, e gli osteoblasti che sintetizzano nuova matrice fondamentale. Questi processi
sono fondamentali anche per mantenere l’omeostasi del calcio nel sangue.

Le articolazioni
Le singole ossa sono collegate tra loro attraverso le articolazioni. Secondo l’ampiezza dei
movimenti che permettono, le articolazioni si suddividono in:
- Articolazioni fisse: chiamate anche suture, si trovano tra le ossa del cranio, non hanno mobilità ma
solo elasticità.
- Articolazioni semimobili: consentono una mobilità limitata, come quelle tra le vertebre della
colonna vertebrale.
- Articolazioni mobili: sono le più numerose, consentono movimenti ampi, come ad esempio la
scapolo-omerale, il ginocchio, la coxo-femorale.

Scheletro assile

Lo scheletro assile è l'asse portante del nostro corpo e comprende le ossa del cranio e quelle del
tronco (colonna vertebrale e gabbia toracica).

Il cranio viene suddiviso in:

- Neurocranio che contiene e protegge l’encefalo, è formato da 8 ossa piatte (frontale,


parietale (2), temporale (2), occipitale, etmoide, sfenoide) articolate tra loro mediante
sinartrosi.
- splacnocranio che comprende le ossa della faccia. contiene i globi oculari e fornisce
inserzione alla muscolatura della faccia, protegge e sostiene la parte iniziale delle vie
respiratorie e dell'apparato digerente. Le ossa della faccia sono tutte unite da
sinartrosi tranne la mandibola, unico osso mobile di tutta la testa: mandibolare,
mascellari (2), zigomatici (2), nasali (2), lacrimali (2), palatini (2), turbinati inferiori
(2), vomere.

Il tronco viene suddiviso in:


- colonna vertebrale: asse portante del corpo, formata da 24 ossa (chiamate vertebre)
separate da cuscinetti flessibili di fibrocartilagine, i dischi intervertebrali, che
ammortizzano gli urti.
Riconosciamo: le vertebre cervicali (7 vertebre) formano la regione della colonna
vertebrale che costituisce lo scheletro del collo; le vertebre toraciche (12 vertebre)
sono tutte simili tra loro, sono più grandi di quelle cervicali, hanno il corpo
cilindroide; le vertebre lombari (5 vertebre) hanno un corpo voluminoso e
massiccio, sono le vertebre più robuste, dal momento che sulla regione lombare della
colonna si scarica la maggior parte delle sollecitazioni meccaniche; l’osso sacro
formato dalla fusione di cinque vertebre ed il coccige dato della fusione di 3-5
piccole vertebre di forma irregolare. Rappresenta il residuo della coda dei vertebrati
inferiori.

- gabbia toracica: formata dalle vertebre toraciche, dalle costole e dallo sterno. Ha
importante ruolo di proteggere gli organi vitali (cuore, grossi vasi e polmoni) ed è
fondamentale per l’inserzione dei muscoli che consentono l’atto respiratorio (
intercostali interni ed esterni). Le costole sono in numero di 12 paia e formano le
pareti della gabbia toracica, le prime sette paia sono articolate direttamente allo
sterno (tramite le cartilagini costali), 3 sono chiamate costole false e si congiungono
con lo sterno indirettamente tramite le coste sovrastanti, 2 paia sono chiamate costole
fluttuanti che risultano libere e non collegate con lo sterno. ( lo sterno è un osso
piatto posto al centro del petto costituito dalla fusione di tre ossa: manubrio, corpo
dello sterno e processo xifoideo).

Scheletro appendicolare
E' costituito dal cinto scapolare e dal cinto pelvico che collegano le ossa degli arti alla colonna
vertebrale.
cinto scapolare è formato da 2 ossa: la clavicola e la scapola.
Lo scheletro dell’arto superiore è suddiviso in 3 regioni: il braccio ( formato dall’omero),
l’avambaccio (formato da due ossa: il radio e l’ulna) e la mano (formata dalle ossa carpali e dalle
falangi che costituiscono le ossa delle dita, sono 3 per ogni dito tranne che per il pollice che ha solo
due).
cinto pelvico formato dalle ossa dell’anca. La funzione più importante della cintura pelvica è di
sopportare il carico meccanico dovuto a tutto il peso del corpo. L’osso dell’anca deriva dalla
fusione di 3 ossa: ileo ischio e pube. Le ossa degli arti inferiori comprendono il femore (osso della
coscia) la cui estremità prossimale presenta una epifisi a forma sferica. La testa del femore si
articola alla cavità articolare dell’acetabolo dell’anca. Le ossa delle gambe sono la tibia (sita
medialmente alla gamba) e la fibula. Lo scheletro del piede è composto dalle ossa del tarso, dai
metatarsi e dalle falangi.

Sistema muscolare

Il muscolo scheletrico è un sincizio di cellule con attività contrattile. È considerato un vero e


proprio organo e trasmette la propria forza alle ossa per mezzo dei tendini, strutture fibrose molto
resistenti e leggermente elastiche. È costituito da un insieme di fascicoli muscolari avvolti da una
guaina connettivale costituita da fibre collagene. Ogni fascicolo muscolare è costituita a sua volta
da fasci di fibre muscolari formate da miofibrille ciascuna miofirbrilla è formata da migliaia di unita
contrattili detti sarcomeri. I sarcomeri sono a loro volta costituiti da actina e miosiona.
Le miofibrille delle fibrocellule muscolari sono avvolte in un reticolo sarcoplasmatico che ha la
funzione di regolare la concentrazione degli ioni calcio (Ca2+) attorno alle miofibrille

L’unità fondamentale dell’apparato contrattile sono le miofibrille. In ogni miofibrilla troviamo


l’alternanza di zone mono- e birifrangenti che conferiscono alle fibre muscolari la tipica striatura
trasversa. La sequenza delle zone con diversa rifrangenza è dovuta al ripetersi di unità
ultrastrutturali sempre uguali chiamate sarcomeri
Zona I: zona monorifrangente, occupa la parte distale del sarcomero.
Zona A: zona birifrangente, al centro della quale troviamo una zona otticamente meno densa, la
zona H, questa zona è molto ristretta nella fibra a riposo e scompare se la fibra è contratta.
stria Z: punto in cui ogni miofibrilla è vincolata a quella vicina mediante punti di giunzione.
Stria M: sottile stria trasversale che si osserva a metà della zona H, punto di connessione tra i
miofilamenti spessi.

Si riconoscono due tipi di miofilamenti:


- i miofilamenti spessi che occupano la parte centrale del sarcomero. Da questi si
estendono veri e proprio pronti che prendono contatto con i miofilamenti sottili.
Sono costituiti dalla miosina, molecole allungate in cui si riconoscono una “coda”
(formata da una coppia di catene pesanti) ed una “testa”. Il tratto di congiunzione tra
la coda e la testa può flettere e forma una sorta di braccio articolato. I vari bracci
sporgono ad intervalli regolari dal miofilamento.
- i miofilamenti sottili formati da 3 proteine l’actina, la troponina e la tropomiosina.
Ogni molecola globulare di actina presenta dei siti di legame in cui troviamo gruppi
chimici specifici che sono in grado di combinarsi con quelli presenti nelle “teste”
della miosina (sorgenti dai miofilamenti spessi) in modo da formare dei “ponti”. La
formazione e la rottura dei ponti tra le “teste” di miosina ed i “siti di legame
dell’actina” è un momento fondamentale della contrazione del sarcomero.

I muscoli possono essere costituiti da due diversi tipi di fibre:


• Fibre rosse, anche dette a contrazione lenta. Tipiche di quei muscoli la cui funzione è
mantenere lunghi periodi di contrazione
• Fibre bianche, anche dette a contrazione veloce
I muscoli sono distinti in:
1. Striato; hanno un diametro maggiore delle lisce (10-100 micrometri), perché formati dalla
fusione di più cellule. Permettono il movimento volontario, in quanto terminano sulle ossa.
Caratterizzati da rapida velocità di contrazione.
2. Liscio; la loro contrazione è lenta, involontaria e regolata dal sistema nervoso autonomo e
da ormoni.

Le proprietà fondamentali delle cellule muscolari sono:


• contrattilità
• eccitabilità

La contrazione muscolare
Viene innescata da un impulso nervoso che dal cervello, attraverso le fibre nervose, viene propagato
al motoneurone somatico che rilascia acetilcolina a livello della giunzione neuromuscolare.
L’ingresso netto di Na+ tramite i canali controllati dall’acetilcolina induce
una depolarizzazione della membrana plasmatica della fibra è determina l’insorgenza di un
potenziale d’azione. Il potenziale d'azione, propagandosi lungo la membrana della fibra muscolare
determina l’apertura dei canali ionici del Ca2+ situati a livello del reticolo sarcoplasmatico e si ha la
contrazione.
La contrazione muscolare si ha perché le teste di miosina dei filamenti spessi si ancorano al siti di
legame dell’actina, questo legame “testa-actina” non è di persè calcio-dipendente, ma si è visto che
nelle miofribrille sottili c’è un sistema di Troponina-Tropomiosina dove: quando c’è una bassa
concentrazione di calcio i sub filamenti di tropomiosina sono disposti nella spirale actinica in modo
tale da mascherare i siti di ancoraggio per i ponti della miosina.
Quando invece il livello del Ca++ aumenta (in seguito al passaggio del potenziale d’azione che
determina la liberazione del calcio dalle cisterne reticolo sarcoplasmatico) si ha legame con la
subunità C della molecola troponina e quindi una modificazione strutturale della molecola
troponinica che smaschera i siti di legame della molecola di actina cosìchè ci possa essere
l’ancoraggio delle teste di miosina sui filamenti di actina e possa avvenire lo scorrimento dei
filamenti. (il sistema troponina-tropomiosina è un inibitore del sistema contrattile e viene inattivato
dalla presenza di ioni Ca++).
La contrazione dei sarcomeri si può quindi dividere in 3 momenti principali:

1) Tra ogni testa di miosina e ogni sito di legame per l’actina si forma un
vincolo (legame della testa) necessario perché il ponte possa operare.

2) Nel complesso molecolare tra la testa di miosina e la molecola di actina


interviene una modificazione strutturale (la flessione della testa) capace di
generare, tramite il braccio articolato, la spinta che determina il passo dello
scorrimento reciproco tra i miofilamenti.

3) Avvenuto il “passo” il complesso miosita-actina si scinde consentendo ai due


componenti di tornare all’iniziale struttura in modo tale che la testa di
miosina possa assumere la posizione atta a formare un nuovo legame con la
successiva molecola di actina e ricominciare un nuovo ciclo.

La contrazione muscolare richiede un dispendio energetico da parte della cellula. La testa di


miosina infatti possiede due siti di legame differenti, uno per il sito di legame con l’actina e uno per
l’ATP. L'ancoraggio dell'ATP nella specifica sede sulla testa della miosina porta al distacco di
quest'ultima dalla molecola di actina. L'ATP, legata alla testa miosinica, viene idrolizzata ad ADP e
fosfato inorganico (Pi). Il rilascio del fosfato inorganico provoca un cambiamento conformazionale
nella testa della miosina, generando il cosiddetto colpo di frusta così il filamento di actina viene
tirato verso il centro del sarcomero, (verso la linea M). La testa della miosina rilascia anche la
molecola di ADP e rimane strettamente ancorata all'actina, in uno stato contratto che dura soltanto
pochi istanti, prima che il ciclo ricominci con l'ennesimo legame miosina-ATP.
L’ eccitabilità muscolare:
Il potenziale d’azione è lo stimolo che porta in attività l’apparato contrattile delle fibre, d’altro canto
essendo il potenziale d’azione un fenomeno transitorio o è anche la contrazione che esso innesca.
Quindi in seguito al singolo potenziale d’azione si susseguono, nella fibra muscolare, una fase di
contrazione, con breve ritardo ( se non insorgono altri potenziali d’azione) una fase di rilasciamento
che riporta la fibra nelle condizioni di riposo. La modalità con cui il potenziale d’azione funge da
stimolo per l’apparato contrattile va sotto il nome di “accoppiamento elettro-meccanico” e non è
diretto ma chimicamente mediato dalla liberazione degli ioni Ca++ dal reticolo sarcoplasmatico.

Scossa muscolare semplice:


stimolando un muscolo isolato con un singolo stimolo elettrico di breve durata si ottiene una rapida
contrazione seguita da un altrettanto rapido rilasciamento, fenomeno che nel loro insieme
costituiscono la “scossa muscolare semplice”. La diversa durata della scossa muscolare semplice
nei diversi muscoli dipende dalle diverse caratteristiche delle fibre che li compongono.
Riconosciamo infatti le fibre muscolari rapide e lente che presentano una diversa velocità nella
contrazione e nel rilasciamento.
Nella scossa muscolare semplice si susseguono:
- Una fase di latenza: è il periodo che intercorre tra la caduta dello stimolo e l’inizio
della contrazione ( tempo molto breve circa 10 secondi)
- La fase di contrazione: fase nella quale il muscolo si accorcia e sviluppa forza.
- Fase di rilasciamento: che può seguire immediatamente la fase di contrazione o può
avvenire dopo che il muscolo è rimasto per un certo tempo al massimo della
contrazione.

Sistema nervoso

Ha l’importante compito di ricevere stimoli sia dall'ambiente interno che da quello esterno, di
elaborarli, registrarli, integrarli, ed emettere risposte adeguate sotto forma di impulsi elettrochimici
che determinano azioni specifiche.
Il sistema nervoso comprende il Sistema Nervoso Centrale (SNC formato dal cervello e dal
midollo spinale) e il Sistema Nervoso Periferico (SNP formato dai nervi cranici che derivano
dal cervello e i nervi spinali emergenti dal midollo spinale con i gangli).

Nervoso Centrale (SNC)


Cervello: protetto all’interno della teca cranica pesa mediamente da 1,3 a 1,5 Kg. È la parte più
voluminosa dell'intero sistema nervoso centrale. È formato da due emisferi separati da una
profonda scissura e uniti dalle fibre del corpo calloso.
I due emisferi sono suddivisi, da solchi, in quattro lobi:

1. frontale, sede dell'area motoria primaria

2. Parietale, sede dell'area sensoriale primaria

3. Temporale, sede dei centri dell'udito

4. Occipitale, sede dei centri della vista

La superficie degli emisferi presenta solchi e rilievi ed è possibile distinguere una sostanza grigia
(parte più esterna che comprende il soma cellulare, fibre amieliniche e mieliniche, astrociti,
oligodendrociti e cellule di microglia) e una sostanza bianca (parte più interna costituita da fibre
mieliniche, cellule di microglia).
Il cervello comprende anche il diencefalo (porzione in cui risiedono talamo ottico e l'ipotalamo) e
il mesencefalo (porzione caudale del cervello da cui si dipartono i peduncoli cerebrali che
connettono il cervello e le formazioni appartenenti alla parte assiale del sistema nervoso centrale).
Cervelletto di forma ovoidale è posto nella fossa cranica posteriore. È coinvolto nei processi di
apprendimento, di controllo motorio, del linguaggio di memorizzazione e apprendimento.

Tronco cerebrale è ultima parte del sistema nervoso centrale prima del midollo spinale, è formato
dal ponte di Varolio, dal bulbo (o midollo allungato) e dai peduncoli. È una struttura molto
complessa deputate a svolgere innumerevoli funzioni fondamentali per l'essere umano. Qui vi è la
sede dei riflessi e del controllo di molti visceri, dei centri che regolano il respiro partono i segnali
che garantiscono gli automatismi respiratori, dei centri che regolano la temperatura
corporea partono i segnali che mantengono costante la temperatura in modo da permettere tutti i
processi biologici e chimici indispensabili per la vita.
Se questi centri vengono direttamente danneggiati le conseguenze sono sempre di estrema gravità al
punto da condurre il paziente alla morte cerebrale.
Midollo spinale Il midollo spinale e' lungo circa 43 cm nella donna adulta e 45 cm nell'uomo adulto
e pesa circa 35-40 g è ospitato e protetto all’interno della colonna vertebrale (lunga circa 70 cm).
Nelle sezioni trasverse di midollo spinale la sostanza bianca è localizzata all'esterno e la sostanza
grigia all'interno. La sostanza grigia ha una forma di H: le corna anteriori dell'H contenente neuroni
motori dai quali si originano le radici ventrali dei nervi spinali; le corna posteriori ricevono fibre
sensitive dai neuroni dei gangli spinali.
Il midollo spinale continua il midollo allungato a livello del foro occipitale, prosegue in senso
caudale fino a terminare, sfilacciandosi, con la “cauda equina”, a livello della prima e seconda
vertebra lombare.
Negli spazi intervertebrali emergono, uno per lato, i nervi spinali, costituiti da una radice motoria ed
una sensitiva.

Il SNC è protetto dal cranio e dalla colonna vertebrale e inoltre da membrane di tessuto connettivo
dette meningi. Dalla più esterna le meningi sono:Dura madre; Aracnoide e Pia madre.

Sistema Nervoso Periferico (SNP)

Il sistema nervoso periferico è costituito da:


• Recettori sensoriali, raccolgono le informazioni
• Nervi, trasportano le informazioni, raccolte dai recettori, al sistema nervoso centrale, dove
vengono elaborate
• Nervi, inviano le informazioni agli organi effettori che sono muscoli e ghiandole.
I nervi sono costituiti da assoni e in base al tipo di neuroni che li costituiscono, distinguiamo:
• Nervi motori
• Nervi sensitivi
• Nervi misti, così detti perché formati sia da neuroni sensitivi che da neuroni motori

Sistema nervoso autonomo (sistema neurovegetativo)


E' quella parte del sistema nervoso che regola ghiandole e apparati come il digerente, respiratorio,
cuore, ecc... (in genere muscolatura involontaria).
Distinguiamo:
1. Ortosimpatico: il suo neurotrasmettitore è la noradrenalina e regola lo stato di attenzione
2. Parasimpatico: il suo neurotrasmettitore è l'acetilcolina e regola le funzioni vegetative

Tutto quello detto sul sistema nervoso ci serve adesso per comprendere quanto diremo di seguito.
L'uomo tra tutte le altre cose possiede dei recettori, chiamati recettori di senso o sensoriali.
I recettori raccolgono le informazioni, che successivamente verranno inviate, attraverso i nervi
sensitivi, al SNC dove verranno elaborate.
Anche dei recettori sensoriali si fanno delle distinzioni a seconda della loro posizione nel corpo e
dello stimolo che sono in grado di percepire.
• A seconda della posizione:
Esterocettori, sono quei recettori sensoriali che sono localizzati nella pelle; enterocettori,
chiamati anche viscerocettori, che si trovano sulle superfici interne dell'organismo;
propriocettori situati all'interno dei muscoli, nelle articolazioni e nei tendini aiutano a
regolare la distribuzione del tono muscolare.
• A seconda dello stimolo che riescono a percepire:
Termorecettori che sono sensibili alle variazioni di temperatura; i fotorecettori sono sensibili
alla luce; i chemiorecettori sono sensibili alle variazioni di concentrazione delle sostanze
all'interno del corpo; meccanorecettori, sensibili alle variazioni meccaniche.

Sistema immunitario

Il corpo umano è spesso aggredito da diversi patogeni. La funzione di difesa è rappresentata dal
sistema immunitario diffuso in tutto il corpo e in grado di intervenire rapidamente innescando una
risposta immunitaria. Una caratteristica fondamentale del sistema immunitario è la capacità di
distinguere tra le strutture endogene, proprie dell’organismo (self) ed esogene nocive per
l’organismo e che devono quindi essere eliminate (non-self).

L’attività del sistema immunitario è garantita dall’attività di vari distretti:

- gli organi linfatici primari (il midollo osseo e il timo) sede in cui i leucociti si
sviluppano e maturano; e gli organi linfatici secondari (milza linfonodi
tonsille ed adenoidi), strutture che catturano l'antigene e rappresentano la sede in cui
i linfociti possono incontrare ed interagire con esso.
- cellule specializzate presenti nel sangue: i leucociti, di cui si riconoscono diverse
sottopopolazioni (eosinofili, basofilim, neutrofili, macrofagi, plasmacellule e
cellule dendritiche).
- sostanze chimiche che coordinano la risposta immunitaria: come le citochine
che fungono da segnali regolatori.

Riconosciamo diversi tipi di immunità naturale:

-­‐ Barriere fisiche, costituite da cute integra e mucose che impediscono l’accesso agli agenti
estranei
-­‐ Barriere chimiche, costituite da liquidi biologici come saliva o lacrime che contengono il
lisozima, un enzima in grado di distruggere le pareti cellulari di molti batteri.

Qualora i patogeni dovessero superare queste barriere, si ha l’attivazione della risposta immunitaria
interna nella quale vengono coinvolte cellule specializzate (anticorpi e linfociti).
Esistono due tipi di immunità:

-­‐ risposta immunitaria innata (o aspecifica): È evolutivamente più antica, riconosce una
generica condizione di pericolo e pone il sistema immunitario in una condizione di
“allarme” è un meccanismo di difesa generale, presente sin dalla nascita, che agisce
rapidamente (minuti od ore), è aspecifica, sempre operativa e sempre uguale. È mediata da
Macrofagi e dai Granulociti (Neutrofili Basofili e Eosinofili) e comprende mediatori
chimici (responsabili dell’infiammazione) il sistema del complemento (gruppo di proteine
plasmatiche capaci di indurre la lisi cellulare) e le cellule natural killer (NK).

-­‐ risposta immunitaria acquisita (o specifica): si sviluppa lentamente dopo l’ incontro con
uno specifico agente patogeno, ha la capacità di generare una memoria immunitaria in modo
da mobilitare più velocemente la risposta in seguito ad una seconda esposizione. Per
attivarsi richiede la presenza di un’infezione, è più lenta rispetto alla risposta immunitaria
innata e riconosce strutture specifiche. È mediata da Linfociti B (che innescano una risposta
immunitaria umorale mediata da anticorpi) e da Linfociti T (Immunità Cellula-Mediata)
-­‐ Immunità umorale è mediata da anticorpi, molecole circolanti nel sangue e
prodotti da linfociti B: quando il nostro corpo entra in contatto con un
patogeno tali linfociti B lo riconoscono come antigene e producono degli
anticorpi, Il legame antigene-anticorpo è estremamente stabile e specifico,
inoltre un anticorpo legato all’antigene è in grado di richiamare, tramite le
interleuchine, i fagociti per l’eliminazione totale del corpo estraneo.

-­‐ Immunità cellulare è mediata da linfociti T che si sviluppano nel timo, si


attiva contro cellule che sono tate infettate da microbi, soprattutto da virus.
Ricordiamo diversi tipi di linfociti T: i linfociti T citotossici che sono in grado
di riconoscere una cellula self da una non self e indurre (in questo ultimo
caso) la rottura (lisi) della membrana cellulare con una proteina detta
perforina; e i linfociti T helper sono importantissimi, poiché "richiamano" e
attivano gli altri tipi di linfociti. ( questi viaggiano a stretto contatto con i
macrofagi. Dopo che un macrofago ha fagocitato e "digerito" una cellula
estranea, espone nella sua proteina MHC II (complesso maggiore di
istocompatibilità) un "pezzo" del batterio. In questo modo, e attraverso la
produzione di una proteina detta interleuchina 1, attira il linfocita T helper e
gli "passa" l'informazione su che tipo di cellula estranea si penetrata
nell'organismo. Il linfocita T helper produce allora due sostanze,
l'interleuchina 2 e l'interleuchina 4, che stimolano la riproduzione
rispettivamente dei linfociti T citotossici e dei linfociti B) .
Quindi il linfocita T riconosce l’antigene, si moltiplica e reagisce in vari
modi: distruggendo direttamente le cellule nemiche, producendo sostanze
(linfochine) che potenziano l’azione dei fagociti; moltiplicando i fagociti,
ampliando così la risposta di difesa.
L'immunità acquisita, in conclusione, si caratterizza per la sua specificità ed anche per un'altra
importante peculiarità che è la memoria e che permette ai linfociti di rispondere prontamente
quando l'antigene, con cui hanno interagito in passato, si ripresenta.

Potrebbero piacerti anche